(AUTORIZZAZIONE DEL TRIBUNALE:BZ N6/03DELL'11/04/2003)
POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTOPOSTALE - DL353/2003 (CONV.INL27/02/2004 N. 46) ART.1 COMMA1 NE/TN
Organo informativo ufficiale dell’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus - Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -
Con l’augurio per tutti di un Natale buono e santo
ANNO VII DICEMBRE 2019 RIVISTA MENSILE N. 80
P. 18
P. 21
P. 28
Silvana De Mari
Andrea Ingegneri
Roberto Marchesini
Il nuovo potere
Cosa resterà dell’uomo?
Lavoro (e riposo) in ottica cristiana
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Notizie Pro Vita & Famiglia
«Quelle che oggi si chiamano “dipendenze” un tempo si chiamavano "vizi"».
dicembre 2019
Editoriale
Tempo fa, Tommaso Scandroglio mi faceva
e psicoterapeuti per farsi liberare dalla
riflettere: quelle che oggi si chiamano
dipendenza di turno. Già: oggi le dipendenze
“dipendenze” un tempo si chiamavano “vizi”.
si sono moltiplicate. Le tradizionali
Generavano un certo senso di colpa (che
dipendenze da alcool e droga sono affiancate,
in giusta dose non era poi tanto dannoso)
e forse surclassate, da quella dal gioco
e si combattevano (anche se magari non si sconfiggevano del tutto) esercitando le virtù corrispondenti. Ma oramai non si parla più dei vizi (se non in modo assai indulgente) e non si sente più alcuno fare l’elogio delle virtù. ll risultato è che gli esseri umani sono molto più fragili: sempre più spesso in balia degli istinti e delle
d'azzardo, dallo shopping compulsivo, dal sesso, dalla tecnologia, dal lavoro: di queste ultime due ragioneremo insieme nelle pagine che seguono. Non dimentico, però, che siamo a dicembre: perciò, cari Lettori, è giunto il momento di augurare un Santo Natale a voi e ai vostri cari.
pulsioni, sempre più spesso schiavi delle
Siamo certi che chi vorrà seguire la Stella,
cose e del piacere (magari con l’illusione
che sempre è pronta a guidarci, saprà trovare
di essere finalmente “liberi” da Dio o dalla
ancora una volta quel Bambino che solo basta
morale). Salvo poi, quando la schiavitù assume
a guarire da ogni schiavitù, perché Lui è la
connotati patologici, ricorrere a psichiatri
Verità che ci rende davvero liberi.
Toni Brandi
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Notizie Pro Vita & Famiglia
Sommario 3
Editoriale
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Lo sapevi che...
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Dillo @ Pro Vita & Famiglia
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Versi per la vita Silvio Ghielmi
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Aborto La potenza di una corrente e la grazia di una canzone
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Dipendenze Stressati digitali
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Il nuovo potere
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RIVISTA MENSILE N. 80 — Anno VII Dicembre 2019
Cosa resterà dell’uomo?
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Editore Pro Vita & Famiglia Onlus Sede legale: via Manzoni, 28C 00185 Roma (RM) Codice ROC 24182
Lavoro (e riposo) in ottica cristiana
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Workaholism
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Bambini che fumano (in modo passivo) cannabis
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Lucio Aralia
Giuliano Guzzo
Silvana De Mari
Andrea Ingegneri Eric Pickersgill
Roberto Marchesini
Francesca Romana Poleggi
Antonella Facco
Fine vita «Dai Fabiano la mamma vuole che tu vada» 39 Giancarlo Stival
Disabilità e suicidio assistito
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Brenden e Brendon
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Michael Cook
Bobby Schindler
Salute delle donne Contraccezione e tutela della salute delle donne
Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Progetto e impaginazione grafica Co.Art s.r.l. Tipografia
Distribuzione Caliari Legatoria
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Antonella Ranalli
Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Lucio Aralia, Michael Cook, Silvana De Mari, Silvio Ghielmi, Antonella Facco, Giuliano Guzzo, Andrea Ingegneri, Roberto Marchesini, Eric Pickersgill,
In cineteca
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In biblioteca
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Redazione Toni Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio 3 39040 Salorno (BZ) www.provitaefamiglia.it Cell. 377.4606227 Direttore responsabile Toni Brandi
Francesca Romana Poleggi, Antonella Ranalli, Bobby Schindler, Giancarlo Stival.
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Notizie Pro Vita & Famiglia
Lo sapevi che... La mamma non è un concetto antropologico Una donna inglese che ha “cambiato sesso”, assumendo sembianze da maschio e facendosi chiamare all’anagrafe Freddie McConnell, ha “cambiato sesso” così poco che, avendo conservato l’utero, si è fatta inseminare e ha partorito un bel bambino. Dopodiché ha intentato un’azione legale per risultare sul certificato di nascita come “padre”. Tra l’altro, essendo una giornalista, tutta la gravidanza si è svolta sotto i riflettori ed è stata oggetto di un documentario della Bbc. Nonostante il conseguente battage mediatico però – sorprendentemente – l’Alta Corte di Giustizia di Sua Maestà, nella persona di Sir Andrew McFarlane, ha
dichiarato che, di norma, una persona il cui ovulo viene fecondato e che poi porta in grembo e dà alla luce un bambino è la “madre” di quel bambino: lo status di “madre” deriva dal ruolo che una persona ha assunto nel processo biologico che va dal concepimento alla nascita. Quindi, il ruolo che quella persona riveste prima e dopo (padre, nonno, zio…) non scalfisce ciò che è avvenuto in quei nove mesi: Freddie, quindi, è e resta la madre di quel bambino, anche se poi “gli farà da padre”. Sul certificato di nascita comunque comparirà un solo genitore. Il “padre” è un donatore di sperma anonimo.
Vietato indagare sul perché un bambino nasce morto La Bpas (British Pregnancy Advisory Service), che esegue circa 60.000 aborti all’anno nel Regno Unito, si è opposta alla proposta di legge che consentirebbe ai coroner di indagare sul perché un bambino nasce morto. La potente organizzazione pro morte (è una sorta di Planned Parenthood inglese) teme che una siffatta legge riconosca una certa umanità ai bambini nel grembo materno e
possa scalfire il moloch de “l’utero è mio e lo gestisco io”. Come al solito: dicono di essere dedicati alla salute delle donne, ma di quelle donne che disperatamente cercano di rielaborare il lutto derivante dall’aver partorito un bambino morto non importa loro niente. Né considerano che scoprendo le cause di una tale tragedia la scienza potrebbe prodigarsi per evitarne in futuro.
Mangiamo i bambini per salvare il pianeta? Durante un convegno sui cambiamenti climatici a New York, una donna ha preso la parola per rivolgere una domanda alla relatrice, la deputata di estrema sinistra Alexandra Ocasio-Cortez: «Non staremo qui a lungo a causa della crisi climatica... mancano solo pochi mesi!». E ha aggiunto: «Un professore svedese ha detto che possiamo mangiare persone morte, ma non basta». La signora pensa che il prossimo slogan della campagna
ambientalista debba essere questo: «Dobbiamo iniziare a mangiare bambini!». La Ocasio-Cortez su Twitter ha preso le distanze dicendo in sostanza che la donna era probabilmente una matta. Il che è verosimile. È però lucidamente coerente con la follia di una società che i bambini li uccide. E la “finestra di Overton” sul cannibalismo, comunque, si è aperta.
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Persino Veronesi, alla fine, era contro l’eutanasia Sul Messaggero Veneto (6 ottobre 2019, p. 27) l’oncologa Sylvie Menard, strenua testimonial contro l’eutanasia e il suicidio assistito, dice che persino il suo maestro, Umberto Veronesi, negli ultimi tempi della sua vita aveva cambiato idea. Diceva anche lui che le persone
non chiedono di morire se sono adeguatamente curate e amate. Questa notizia della “conversione” di un eutanasista convinto come Veronesi, morto di cancro a 91 anni, non è stata divulgata dalla stampa di regime. Forse non è vera. O forse è la solita censura.
Neonata sepolta viva, sopravvive per due giorni e ora è salva In India una neonata sepolta viva in un recipiente di terracotta è sopravvissuta miracolosamente per due giorni, prima di essere scoperta e tratta in salvo. È quindi stata ricoverata in un ospedale nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Probabilmente è sopravvissuta perché, essendo prematura, non aveva bisogno di molto ossigeno.
L’uomo che l’ha salvata, Hitesh Kumar Sirohi, ha detto che ha trovato casualmente la pentola sepolta circa un metro sottoterra. La bambina, che all’ospedale hanno chiamato Sita, pesava poco più di un chilo quando è arrivata. Si teme che la piccola sia stata vittima dell’antica tradizione indiana che preferisce i figli maschi alle femmine.
No all’aborto, anche se il bimbo nasce con tre gambe Le ingiuste discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità sono ampiamente condannate solo se si tratta di persone fuori dall’utero materno. Se i disabili non sono ancora nati, l’eugenetica domina quasi incontrastata. Ma una mamma coraggiosa, in Russia, ha rifiutato di abortire un bambino che poi è nato con tre gambe, due serie di genitali e senza ano. I medici
ritengono che il piccolo avesse un gemello siamese che non si è completamente sviluppato nell’utero, infatti la gamba centrale aveva due talloni. Il bambino, che ora ha poco più di un anno, ha subito diversi interventi chirurgici presso l’Holy Vladimir Children’s Hospital di Mosca e ora sta bene: secondo i medici condurrà una vita normale.
Eutanasia dilagante Kelly, di 23 anni, fisicamente sana, che vive a Lovanio in Belgio, ha chiesto l’eutanasia per motivi psichiatrici; la giovane soffre di un grande dolore psicologico: forse c’è da sperare che l’eutanasia non venga concessa. La sua richiesta deve essere vagliata da due psichiatri, tra i quali il dottor Joris Vandenberghe. Questi di recente ha scritto un articolo accademico ammettendo che la politica eutanasica del Belgio è altamente controvertibile e solleva difficili questioni etiche e cliniche. I controlli sono insufficienti e maggiori investimenti nell’assistenza sanitaria mentale potrebbero dissuadere dal voler morire molti pazienti psichiatrici in difficoltà. Kelly ha bisogno di sostegno nella vita, non dell’eutanasia. Speriamo che qualcuno l’aiuti a trovare la speranza e uno scopo per continuare a vivere.
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Notizie Pro Vita & Famiglia
Dillo @ Pro Vita & Famiglia
Solženicyn diceva: «Più di mezzo secolo fa, quando ancora ero un bambino, ricordo che un certo numero di anziani offriva questa spiegazione per i disastri che avevano devastato la Russia: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto”. Da quel giorno, ho passato cinquant’anni a lavorare sulla storia della nostra rivoluzione (la rivoluzione russa); ho letto centinaia di libri, raccolto centinaia di testimonianze personali. Ma se mi fosse domandato di formulare nella maniera il più concisa possibile la principale causa della rovinosa rivoluzione che ha inghiottito quasi sessanta milioni di russi, non potrei metterla in maniera più accurata che ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto"» (citato in Edward E. Ericson, Jr., Solzhenitsyn – Voice from the Gulag, Eternity, October 1985, pp. 23-24). Ecco, seguendo le vicende che hanno portato all’uccisione di Vincent Lambert questa citazione mi è tornata alla memoria. Mario
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Versi per la vita ODIO Un odio per la vita forsennato! Non basta più il brutale raschiamento, poiché, con malagevole argomento, si vuole tutto il corpo avvelenato. Si vuole la certezza del rifiuto. Libidine di un odio cieco e bruto e vocazione per funesta sorte. Trionfo baldanzoso della morte, una visione maledetta e oscura, la Vita presa come una tortura.
DAT Restiamo sul chi vive, anche se è già un po’ tardi. Le sorti progressive di Giacomo Leopardi avanzan verso il mare. Scordiamo quel passato lontano e malfamato, oscuro e ormai sconfitto. Adesso c’è il diritto a farsi suicidare.
SILVIO GHIELMI classe 1926, laureato in chimica a Milano, Master alla Harvard Business School, lunga esperienza nella produzione di materie plastiche, è il meno giovane di una famiglia numerosa (85 membri). Già cofondatore e presidente di Mani Tese, nel 1978 è stato uno dei fondatori del Movimento per la Vita. Poi, insieme a Giuseppe Garrone, mons. Michel Schooyans, Mario Paolo Rocchi e Francesco Migliori [nella foto], nel 1994 ha dato avvio al Progetto Gemma, la nota “adozione prenatale a distanza”, per sottrarre all’aborto le mamme incinte in difficoltà (le donazioni arrivano specificamente e direttamente alla persona prescelta, non si tratta di una generica questua). Diffonde queste meditazioni in versi come strumento di legame con chi resiste in difesa della verità e della vita. Lui ci ringrazia per questa pagina mensile dedicata ai suoi versi pro vita: noi ringraziamo lui e siamo onorati di ospitare il suo contributo.
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Notizie Pro Vita & Famiglia
La potenza di una corrente e la grazia di una canzone Lucio Aralia
Presentazione del libro Invece Vorrei Giocare
Quando mi è stata affidata la recensione di un libro di poesia (considerata morta da molti tra gli stessi editori) su un tema come quello dell’aborto, devo proprio confessare di non aver fatto salti di gioia: un genere letterario “difficile” combinato con un tema spinoso e, soprattutto, triste. Chi avrebbe voglia di cimentarsi nella lettura di un libro del genere?, mi chiedo. Spendo mal volentieri i 13,50 euro per l’acquisto del testo su Amazon e quando il pacco arriva è così sottile che il corriere non suona nemmeno. Che piccolo, non posso fare a meno di notare, mentre il libriccino sguscia fuori dall’involucro.
Invece vorrei giocare è la risposta logica di un bambino all’illogica prospettiva che gli viene imposta, ossia di morire per mezzo dell’aborto.
Lo osservo: dal punto di vista grafico è certamente curato, ci sono persino le alette laterali. In copertina si scorge una bimba seduta oltre il finestrino di un vagone: ha lo sguardo abbassato, assorto e ignora di essere osservata. Sopra il vagone appena spruzzato di pioggia campeggia il titolo: Invece vorrei giocare. Originale, non posso negarlo. Da lettore poco amante del genere poetico cerco subito una scorciatoia: sfoglio il libro rapidamente alla ricerca dei componimenti più brevi, sperando che siano sufficienti per preparare la recensione. Un libro di poesie, in fondo, si può leggere a sprazzi, penso. Ne leggo un paio e capisco che sono tra loro legate da
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Sto per leggere la prefazione, anch’essa introdotta da una citazione del cantautore spagnolo Perales, ma poi mi fermo: di solito nella prefazione si offre già una chiave di lettura o sono svelati alcuni dettagli caratteristici del testo. No, mi dico, la leggerò in un secondo momento, voglio partire neutro ora: se questo libro vale, se ha un messaggio o dei segreti, desidero scoprirlo da solo.
un filo conduttore che non posso tralasciare, così mi decido a ripartire dall’inizio. Lancio un’ultima occhiata alla bimba dentro il vagone: e va bene, mi dico, se questo è un viaggio, allora partiamo. Un nome mi colpisce: prima della prefazione è riportata una citazione tratta da un’opera di Korczac, Il diritto del bambino al rispetto, del 1929, ma attualissima. Amo particolarmente questo autore, per alcuni aspetti ancora così poco conosciuto, e sento di poter concedere una chance in più a questo testo: chi cita Korczac deve averlo necessariamente letto e amato. Korkzac era brillante, profondo e tutt’altro che ingenuo. Chi si prende la responsabilità di citare Korkcaz non può permettersi di scrivere insulsaggini. Giro la pagina, è riportata una dedica, a baby J., un bambino mai nato la cui storia è stata ascoltata dall’autrice nel tempo «di un solo, scarno dialogo». Non si dice altro, se non che oggi baby J. sarebbe un adolescente (se fosse nato).
Scorro rapidamente la premessa e la nota iniziale dell’autrice, nelle quali sono riportate alcune indicazioni di lettura (sono tra quelle che mi mancavano quando ho iniziato a sfogliare il libro) e poi finalmente mi concentro sul testo vero e proprio. Sotto il titolo, Invece vorrei giocare, compare un sottotitolo piuttosto curioso: L’errata metonimia. È dai tempi del liceo che non sentivo più questo termine e, francamente, non ne ricordo il significato. Ma il cellulare non è a portata di mano, così rimando la ricerca e proseguo. Chissà, magari sarà lo stesso testo a farmelo intuire. Comincio a leggere in piedi, pensando che il libro è breve e che non mi prenderà più di un quarto d’ora. Dopo cinque minuti mi ritrovo seduto sul divano, ma sul bordo, come se stessi per scattare: c’è nel testo qualcosa di incalzante, che non mi permette di accomodarmi. Mi chiamano dalla cucina, ma rispondo in modo automatico e continuo a leggere: il testo mi sta trascinando, con la potenza di una corrente e la grazia di una canzone. La voce fresca di quel bambino (o di quella bambina) mi entra dentro, mentre mi racconta la sua vita con pochi, essenziali tratti. Svela cose terribili, ma riporta anche momenti dolcissimi (o altissimi, come il suo incontro con Dio), la sua natura, ancora priva di ipocrisie, interroga il nostro modo di pensare così incline al compromesso, ma lo fa con una purezza e una vivacità che invitano a proseguire, nonostante già si conosca l’esito
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Notizie Pro Vita & Famiglia
tragico della sua vita (almeno su questa Terra). Scorgo un’infinità di piccoli richiami disseminati nel testo, particolari brillanti che lo impreziosiscono, ma non mi fermo a ragionare, voglio leggere; prometto che ci ritornerò dopo, per ora voglio solo continuare. Termina la parte poetica, c’è un’appendice. Bene, mi dico, sono stato permeato da queste emozioni e non voglio lasciarle subito. Così mi tuffo di nuovo nella lettura e, quando finisco, mi sento come se avessi attraversato una cascata. Non è però una commozione ingenua quella che mi pervade: mi sento in subbuglio, un subbuglio dolente forse, ma addolcito di tenerezza e animato di fervore. Mi chiamano di nuovo, questa volta non posso esimermi, così ripongo il libro con l’idea di riprenderlo più tardi, per una lettura più meditata. Sento gradualmente sfumare la parabola delle emozioni, come un saluto garbato. Ho letto qualcosa di appassionante e ora desidero condividerlo con gli altri. Il libro che ho appena terminato è stato scritto da un’insegnante di sostegno, con la passione per il teatro e la danza, Laura Cairoli, ed è stato pubblicato dalla Kimerik, nel 2017; Invece vorrei giocare è il suo primo libro. Si tratta di un testo molto particolare: la poesia si intreccia e si alterna al monologo, mentre in appendice compare anche una breve parentesi autobiografica. Il testo è incentrato su un argomento forte e ampiamente dibattuto: l’aborto, trattato qui in modo assai originale, a partire dalla scelta del protagonista: non una donna, bensì un bimbo nel grembo materno. Tutto il testo, infatti, è percorso da una lunga lirica, interamente giocata sull’acronimo Ivg, che racconta la vita di questo bambino (o bambina), dal suo primo istante di vita (il concepimento), fino alla sua forzata dipartita da questa Terra (la sua morte procurata con l’aborto volontario). Il libro, tuttavia, non si arresta bruscamente al momento della morte, ma si apre, negli ultimi versi, al destino ultimo che attende ciascun essere umano.
In questa società c’è chi strepita se viene affissa a un muro l’immagine di un bambino nel grembo materno e gli aborti vengono praticati gratuitamente (cioè con i soldi di tutti, che siano o meno d’accordo); ma i Cav vivono di donazioni e non ricevono un centesimo, nemmeno quando sono bersaglio di atti vandalici.
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Accanto al protagonista intervengono anche altre figure: un prestigiatore ammiccante e provocatorio dal marcato accento francofono, e tre «veri generosi» (ossia una madre nubile con problemi economici, una studentessa rimasta incinta a seguito di una violenza e il padre adottivo di una bambina con la sindrome di Down), protagonisti di tre storie ispirate a vicende realmente accadute, tre figure che hanno saputo reagire e poi amare la loro storia, tanto da volerla raccontare. Dell’aborto vengono affrontate numerose sfaccettature: dal «malfermo gioco di parole» su cui l’aborto si basa (L’errata metonimia, appunto, che confonde volutamente l’utero della madre con ciò che esso ospita, ossia il bambino), all’inconfutabile base scientifica (la scienza che tanto amiamo, ma che non esitiamo a ignorare quando ci torna comodo), che dimostra come un essere umano sia tale sin dal primissimo istante di vita. Nel testo compaiono anche temi controversi come l’aborto terapeutico o la violenza, presentati non in termini generici, ma sempre in riferimento a figure che hanno vissuto il dramma in prima persona e lo hanno affrontato con coraggio e determinazione. Si trovano, inoltre, interrogativi forti, che evidenziano alcuni paradossi che interessano il nostro stesso sistema giuridico, il quale permette, per esempio, di «intestare una villa intera» a un nascituro, ma non gli riconosce il diritto a nascere. La profonda contraddizione che sta alla base della pratica abortista viene affrontata nella lirica Il gioco delle domande, la quale, in un crescendo di esempi, mostra come la logica dell’aborto sia regolata unicamente da un principio di squallida convenienza, in quanto, in tutti gli altri campi (quello economico in primis) l’uomo non applica mai questo stesso modo di agire («Vorrei osservare qual pazzo svagato/ strapperebbe un assegno che non ha ancora incassato», o ancora, più avanti, «Pensa un po’ se il banchiere, altero e sicuro/ decretasse: “Il denaro è mio, perché è mio il muro!”»).
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Notizie Pro Vita & Famiglia
In appendice è riportata infine una breve vicenda autobiografica: la prima occasione in cui l’autrice si è sentita chiamata a schierarsi apertamente, durante una conferenza organizzata dal suo istituto superiore. L’autrice ricorda il proprio vissuto con sincerità e un pizzico di ironia, presentando se stessa come una paladina maldestra, che tuttavia preferì esporsi, piuttosto che rimanere in silenzio, consapevole del fatto che la verità è cosa ben più grande delle nostre inadeguatezze.
Laura Cairoli, un’insegnante di sostegno con la passione per il teatro e la danza.
La procedura dell’aborto (e dico volutamente “aborto” e non “interruzione volontaria di gravidanza”, in quanto il testo illustra chiaramente come il termine “interruzione” non sia adatto a indicare un’azione irrevocabile, come la soppressione di una vita) viene presentata senza patetismi, ma in tutta la sua crudezza, con il linguaggio essenziale e puro del protagonista, il quale guarda sconcertato all’uomo, questa «scimmia evoluta» che vede nella strage accurata dei suoi stessi figli un «trionfo di autodeterminazione».
Che non si tratti di un libro ingenuo si evince fin dalle primissime righe (una delle liriche iniziali tratteggia, in pochi versi, la nascita di una nuova vita, e con essa l’infusione dell’anima, aprendosi così a una dimensione trascendente). Il testo è indubbiamente ancorato su basi scientifiche solide, così come appaiono fermi sia rimandi legislativi, che gli accenni teologici. Un libro intenso, a tratti crudo, ma al contempo brioso e potente, proprio come le domande dei bambini, capace di far riflettere ed emozionare, senza sentimentalismi o pedanterie.
Non manca, tuttavia, un raggio di luce nella vicenda tragica: oltre i tre monologhi (dolenti, ma positivi), il testo si chiude con una struggente Ninna nanna, una carezza amorevole e rispettosa, dedicata a tutte le «piccole vite» che non sono state «interrotte, ma recise» da un atto di brutale violenza. L’ultima lirica, Risveglio, si apre poi a un orizzonte celeste, perché si sa, di fronte alla ferocia delirante di questo mondo, l’unica cosa in grado di attenuare l’assolutezza del dolore è uno sguardo di fede. Per chi ne ha la forza.
«Pensa un po’ se il banchiere, altero e sicuro / decretasse: “Il denaro è mio, perché è mio il muro!”»
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Un’opera chiaramente schierata e, dunque, non universalmente condivisibile, né apprezzabile, ma capace di esporre le proprie ragioni, senza colpevolizzare la donna, alla quale viene invece riservato un riguardo particolare. Non si tratta, naturalmente, di un testo definitivo, in grado di smuovere chi è strenuamente ancorato alla logica abortista; è tuttavia un libro originale che, oltre a commuovere, informa e, che piaccia o meno, dalla biologia non ci si può esimere. Penso a questo libricino, uscito pressoché in silenzio, due anni or sono, e me lo immagino arrancare faticosamente nel pubblico dei lettori per farsi conoscere. Penso che mi sarebbe piaciuto trovare recensioni di un testo come questo, magari su riviste o testate di ispirazione cattolica, sulle quali, invece, nel triste anniversario dell’approvazione della legge 194, mi capitò di imbattermi in un’intervista riservata a una femminista (ma di quelle moderate, per carità), nella quale la 194 – mi chiedo ancora oggi se con il benestare di tutti – fu definita un «compromesso onorevole» (forse quei 6 milioni di bambini sono stati uccisi solo a metà?).
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Penso a questa società, nella quale c’è chi strepita se viene affissa a un muro l’immagine di un bambino nel grembo materno e nella quale gli aborti vengono praticati gratuitamente (cioè anche con i tuoi soldi, che tu sia o meno d’accordo), ma dove i Cav vivono di donazioni e non ricevono un centesimo, nemmeno quando sono bersaglio di atti vandalici (immaginiamo per un attimo che putiferio scoppierebbe se la situazione fosse inversa, ovvero aborto a pagamento e Cav finanziati dallo Stato…). Invece vorrei giocare è la risposta logica di un bambino all’illogica prospettiva che gli viene imposta, ossia di morire per mezzo dell’aborto. Il perché di questa cultura così terrorizzata dai bambini (dalla loro esistenza e dalla loro purezza) se lo chiede il protagonista stesso del libro, nella lirica Al fantasma. Forse non c’è una risposta univoca a questo interrogativo, tuttavia non posso fare a meno di pensare a quel piccoletto confuso tra la folla, in una fiaba molto famosa, il quale, in mezzo agli adulti paralizzati dall’ipocrisia, fu l’unico che seppe gridare: «Il re è nudo!».
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Notizie Pro Vita & Famiglia
Stressati digitali Prendere coscienza della pericolosità dell’Internet Addiction Disorder: per il bene delle persone e della società. Giuliano Guzzo
Sapremo insegnare ai giovani a valorizzare le relazioni sociali vere e proprie? Cioè ad apprezzare la vita reale?
Ivan Goldberg (1934-2013), newyorkese, specializzato in psicofarmacologia e depressione, psichiatra associato al Columbia-Presbyterian Medical Center per 23 anni, ha coniato l’espressione Internet Addiction Disorder (Iad) per chi è “drogato” di internet
Spesso non ne siamo consapevoli. Soprattutto, faticano a esserne consapevoli i più giovani, nati in un mondo in cui internet era già, come oggi, onnipresente. Eppure tendiamo a essere un po’ tutti, ormai, stressati digitali. Il motivo? Una sostanziale dipendenza dalla tecnologia e, per l’appunto, dal mondo virtuale. Il primo ad accorgersene al punto da volerla definire fu, nell’ormai lontano 1995, lo psichiatra americano Ivan Goldberg, il quale pensò di coniare una apposita espressione – Internet Addiction Disorder (Iad) – proprio per indicare un abuso della Rete dai riflessi comparabili a quelli del gioco d’azzardo patologico. Oggi gli esperti suddividono le manifestazioni di Iad in sostanzialmente tre tipologie. La prima è quella della Information-overload, ossia una ricerca compulsiva di informazioni on-line, che – stando alle risultanze di uno studio del 1997 – produce in più di una persona su due forte eccitazione nel momento in cui si riesce a trovare una informazione cercata; con il risultato che poi molti passano davvero parecchio tempo a ricercare informazioni in Rete. C’è poi la Cybersexualaddiction, espressione che in definitiva indica l’uso compulsivo di siti pornografici, o comunque dedicati al sesso virtuale; un uso compulsivo che da un lato può essere finalizzato alla ricerca del partner e, dall’altro, eleva l’eccitazione a una forma primaria di gratificazione sessuale che
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arriva fino a ridurre, in chi sperimenta questa dipendenza, l’investimento sul partner reale. Infine, parliamo di Computer-addiction quando si utilizza il computer per giochi virtuali, soprattutto giochi di ruolo, finendo con il costruirsi un’identità fittizia che – nei casi più gravi – può diventare una vera e propria identità parallela. A peggiorare questo già critico quadro di dipendenza diffusa, si sono aggiunti negli ultimi anni altri due elementi tra loro complementari. Il primo è il successo dei social network: in un giorno, mediamente, sono 23 milioni gli italiani che visitano il social network più popoloso del pianeta, Facebook. Per la precisione, sono 25 milioni coloro che, almeno una volta al mese, lo usano da un tablet o uno smartphone, mentre 21 milioni accedono quotidianamente. Numeri impressionanti, in continua crescita e dietro ai quali si cela quella che alcuni chiamano «sindrome dei like», ossia una caccia al gradimento che – come hanno messo in evidenza diversi studi, tra cui una ricerca condotta dall’Università del North Carolina – fa sì che chi lo ottiene benefici di un rilascio dopamina, neurotrasmettitore coinvolto nei fenomeni di dipendenza. Il secondo fattore da considerare per meglio inquadrare la Iad – che alimenta pensieri disfunzionali su se stessi e sugli altri, sentimenti soggettivi di inadeguatezza e insicurezza nonché disturbi dell’umore e d’ansia – è l’avvento degli smartphone, dispositivi che sono oggetto di un controllo continuo. Secondo alcune rilevazioni infatti, i ragazzi controllano lo smartphone 75 volte al giorno; il 7% lo fa addirittura fino a 110 volte al giorno, dal primo risveglio del mattino fino a notte fonda. Tutto ciò ha concorso pure alla diffusione, anche in Europa e in Italia, degli hikikomori, termine giapponese volto a designare ragazzi e giovani adulti, di età compresa
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tra i 13 e i 35 anni, che decidono di vivere reclusi nelle proprie stanze, evitando qualsiasi tipo di contatto con il mondo esterno, familiari inclusi. Una reclusione volontaria alla quale la dipendenza dal web costituisce evidentemente un incentivo non trascurabile. Per arginare sia la Iad, sia la dipendenza da smartphone – fenomeni anzitutto individuali, ma che rischiano di avere ricadute sociali, in termini di calo del rendimento lavorativo, bisogno di assistenza sanitaria, farmacologica e non solo – gli esperti consigliano anzitutto una presa di consapevolezza del problema e, in secondo luogo, l’opzione di rivolgersi a uno specialista, contestualmente a una valorizzazione delle relazioni sociali vere e proprie, dello sport, delle passioni. La cara, vecchia vita reale, insomma.
Chamath Palihapitiya è stato uno dei padri fondatori e vicepresidente di Facebook. Ora se ne dichiara pentito: «Abbiamo creato un sistema di gratificazione a breve termine di like e di feedback, guidato dalla dopamina, che sta distruggendo il modo normale in cui la società funziona: non sono cresciute né le discussioni, né la collaborazione. Ma solo la disinformazione e la mistificazione della realtà. E quello che dico non è un problema solo americano, non ha niente a che fare con i post della propaganda filorussa, ha a che fare con tutto il mondo».
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Il nuovo potere Silvana De Mari
Il like è la nuova religione, il nuovo credo, la nuova necessità, la nuova patria, la nuova causa per cui combattere e, se necessario, morire.
Sono circa trecento le persone che negli ultimi anni si sono ammazzate per l’eroica impresa di scattarsi selfie in situazioni pericolose. Un numero di vittime piccolo, se rapportate al numero totale di creature umane presenti sul pianeta, ma comunque pesante. Nello stesso periodo a essere state uccise in mare dagli squali pare siano state “soltanto” cinquanta persone: è molto più pericoloso quindi il cellulare di una simpatica banda di squali martello. Ovviamente sono le donne a scattare più selfie, ma sono soprattutto maschi a morire per selfie in situazioni pericolose, perché la sfida al pericolo è squisitamente maschile. Il Paese in cui è stato registrato il maggior numero di vittime è l’India, con oltre il 60% del totale, con un selfie povero: si scattano selfie sui binari, un attimo prima che arrivi il treno, e non sempre hanno lo “scatto” sufficiente per levarsi. Segue la Russia, dove hanno perso la vita 16 persone, con una morte più acrobatica: persone precipitano da ponti o grattacieli. Una coppia si è schiantata sugli scogli davanti agli occhi dei loro figli bambini: avevano scavalcato la recinzione del faro per poter fare una foto di se stessi con un’inquadratura migliore. Siamo di fronte a un nuovo potere, un potere che non era mai esistito prima. Internet è una sfida che il nostro cervello non è attrezzato ad affrontare. Facebook e You Tube sono una tossicodipendenza, basata su due neurotrasmettitori importanti, la serotonina e le endorfine. Tutte le volte che qualcuno ci mette un like, il nostro cervello sussulta in una scintilla di piacere. È come la dose che ti passa il pusher, e come la dose dà assuefazione, non se ne può più fare a meno e ci vogliono dosi sempre più forti.
Ci hanno reso incredibilmente dipendenti dall’approvazione altrui.
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Se non sto combattendo nessuna battaglia, perché non mi è stato permesso di capire che c’è una battaglia e che vale la pena di battersi, il mio senso del sé gira a vuoto come una trottolina inutile e sempre più priva di forza, e a un certo punto questa trottolina si fermerà e cadrà su un fianco: è quello che si chiama depressione.
Ci ha reso incredibilmente dipendenti dall’approvazione altrui. Ognuno si crea la sua piccola cerchia dove le sue idee sono approvate. Facebook censura le idee fuori dal coro, ma se Facebook non trova disdicevoli le loro idee, e queste hanno il permesso di circolare, le persone possono cominciare la caccia al like. E dato che non tutti hanno idee, c’è sempre la foto del gatto, e quando la foto del gatto è inflazionata si arriva alla foto sul passaggio a livello con una benda sugli occhi. Anche perché al cinema sono tutti effetti speciali, il selfie su Facebook è vero: quello dà il vero brivido. Ogni creatura umana ha bisogno di avere fede in se stessa: «Ho combattuto la buona battaglia, non ho perso la fede, sono arrivata alla fine»... posso andare a letto contenta. Se invece tutto questo non l’ho avuto, resta nel mio cuore una cavità dolente che i like di Facebook potrebbero riempire. Notare che la battaglia bisogna combatterla, non vincerla. È evidente
che nessuno può vincerla, ma è evidente che tutti devono combattere. In questa triade, combattere la buona battaglia, non perdere la fede, e arrivare fino alla fine, scompare il rischio di essere un fallito. Ripeto: non tocca a noi vincere la battaglia, dobbiamo solo combatterla. Se non sto combattendo nessuna battaglia, perché non mi è stato permesso di capire che c’è una battaglia e che vale la pena di battersi, il mio senso del sé gira a vuoto come una trottolina inutile e sempre più priva di forza, e a un certo punto questa trottolina si fermerà e cadrà su un fianco: è quello che si chiama depressione. La fede in se stessi nasce dalla religione, nasce dall’etica, dal non sentirsi inadeguati. Gli indiani, evidentemente sospesi su una civiltà tecnologica che non sentono ancora loro, hanno un problema di identità, che combattono con l’uso romantico e incosciente della tecnologia. E allora? E allora la trottolina la si tiene in
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Se “solo” poche centinaia di persone si uccidono per scattarsi una foto, quelli che si fanno del male nell’impresa sono un numero molto più grande.
moto disperatamente per esempio con i like di Facebook, che diventano una dipendenza. Come si fa ad essere ammirati? In passato ognuno era ancorato al suo gruppo: la famiglia, il quartiere, il villaggio. Non c’era un villaggio globale. C’era un banale villaggio locale. Per essere amati nel banale villaggio locale bastava fare cose facili: essere gentili, dire buongiorno, non prendere a calci i gatti dei vicini, per il compleanno fare una torta e offrirne una fetta in giro. Ora il villaggio locale è stato annientato. La famiglia, se c’è, è mononucleare: abbiamo fatto fuori cugini, cognati e spesso anche fratelli. Non sappiamo i nomi dei condomini e li incrociamo solo per scannarli alle riunioni condominiali, abitiamo lontano dal posto di lavoro. Non c’è nessun nucleo che possa raccogliere la nostra gentilezza e restituire un sorriso. Quindi occorre affrontare il villaggio globale: come si fa a ottenere ammirazione? Ci sono sistemi semplici: scrivere un best seller, essere un attore famoso, scoprire la cura per il cancro, essere un calciatore invincibile. E qui restiamo sul facile. Se per qualsiasi motivo nessuna di queste quattro cose riesce bene, c’è sempre la possibilità di diventare un influencer, che è un tizio che non ha fatto un fico, non ha scoperto la cura del cancro, non ha vinto le Olimpiadi, meno che mai il premio Nobel, semplicemente ha tanti like e i produttori di scarpe lo pagano per portare il loro modello. Come resistere alla tentazione? Il like è la nuova religione, il nuovo credo, la nuova necessità, la nuova patria, la nuova
causa per cui combattere e, se necessario, morire. Questi trecento morti sono la punta di un iceberg. E anche nella guerra dei like vale la regola che vale in qualsiasi guerra: a ogni morto corrispondono circa una ventina di feriti gravi e un migliaio di feriti leggeri. Se “solo” poche centinaia di persone si uccidono per scattar su una foto, quelli che si fanno male dell’impresa sono un numero molto più grande. Quelli che si fanno male fisicamente, e poi tutto il tragico danno alle vite. Quanta importanza è data a internet, a Facebook, a You Yube? Il nuovo oscuro potere è Gafa: Google, Amazon, Facebook e Apple. Tutti nati nella Silicon Valley, tutti figli di un impasto di sottocultura hippie e informatica, tutti con i loro vestiti informali e l’idea del villaggio globale di cui loro sono sacerdoti. C’è un altro dato da aggiungere a questi trecento morti: tutti i bambini che hanno incidenti mentre il loro caregiver, cioè la persona che avrebbe dovuto guardarli e magari anche parlare con loro e giocarci insieme, stava guardando i social. Questi trecento morti quindi sono le prime vittime sacrificali del nuovo moloch, Gafa. E sono anche il sintomo di un’altra voragine. La vita non è più sacra. Abbiamo cominciato con l’aborto del malformato, poi siamo passati all’aborto del sano, abbiamo cominciato con l’eutanasia del malato terminale, poi del malato cronico, poi del sano. La vita non ha più valore. Noi siamo una cultura di morte.
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Cosa resterà dell’uomo? Andrea Ingegneri
La dipendenza dalla tecnologia continuerà a crescere. Con quali rischi? Fino a che punto saremo disposti ad affidare le nostre vite a delle macchine? Infine, cosa avremo sacrificato della nostra umanità?
Secondo il libro della Genesi, l’uomo è destinato a trarre con fatica i frutti di un duro lavoro dal quale, forse, non potrà mai sottrarsi. Il tema del lavoro ha segnato la storia e ha dato molto da riflettere a pensatori e filosofi di ogni genere, ed è tutt’ora considerato l’elemento fondante della nostra Repubblica. Eppure sembra che qualcosa di epocale stia per stravolgere questa visione secolare per condurci, in una prospettiva quasi messianica, verso una nuova era dove tutto andrà riconsiderato: nessuno può immaginare
di arrivarvi sufficientemente preparato perché il potenziale delle nuove tecnologie e l’enorme giro di affari che vi graviterà attorno aprono numerose incognite che metteranno in discussione tutti. Stando agli addetti ai lavori, il punto di approdo del tortuoso percorso che ci attende, pur mietendo qualche vittima, a conti fatti sarà positivo. In fondo, chi osa disprezzare il progresso? Avremo una vita più comoda. Con l’intelligenza artificiale molti lavori, soprattutto quelli più noiosi, spariranno. Addirittura, secondo
I videogiochi, i social media, gli smartphone creano dipendenza provocando la produzione di dopamina, una sostanza che veicola la sensazione di piacere: senza rendercene conto diventiamo sempre meno pensanti e sempre più schiavi del like, o del bisogno di “completare il livello”
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certe personalità, il lavoro in sé si trasformerà in qualcosa di molto simile al gioco e sarà governato dalle virtù della fantasia e della creatività. Nel frattempo le macchine faranno il duro lavoro per noi che, da eletti della nuova era, potremo bearci di una nuova spensieratezza, delegando persino l’onere di prendere decisioni. Un ritorno all’otium, come meritata ricompensa di un’umanità che ha saputo riscattarsi. Ma sarà davvero così? Quel che pare certo è che la dipendenza dalla tecnologia continuerà a crescere. Con quali rischi? Fino a che punto saremo disposti ad affidare le nostre vite a delle macchine? Infine, cosa avremo sacrificato della nostra umanità? In tema di dipendenza, già oggi possiamo guardare a pochi anni addietro con un certo sgomento. Chiunque può sincerarsene osservando cosa fissano le persone in attesa nei pressi di una stazione, o di fronte a cosa trascorrono i pomeriggi (se non le nottate) la quasi totalità dei nostri ragazzi. Nel quotidiano, notiamo come il gergo dinamico e frizzante dell’informatica, sempre più abusato, sia entrato prepotentemente in vari aspetti della vita e soprattutto nel mondo del lavoro. Liberato della sua antica immagine alchemica ed esclusiva di qualche secchione dalla vita sociale un po’ sacrificata, le sue parole vengono oggi adoperate per rendere appetibili situazioni di competitività esasperata, rese possibili dalle nuove dotazioni tecnologiche. Insidiando le nostre tasche nella forma di smartphone e dispositivi indossabili, queste ormai ci pedinano ovunque e noi stessi non riusciamo più a farne a meno. Il conseguente inasprirsi della competizione lavorativa e sociale non dovrebbe, però, stupirci se si considera che l’ambito più competitivo in assoluto, cioè quello della speculazione finanziaria, trova la propria ragione d’essere proprio nella rapidissima capacità di scambio di informazioni garantita dalle moderne reti di computer. Di certo, non occorre attendere di entrare nella nuova era della beatitudine digitale per accorgerci degli effetti di un uso smodato della tecnologia, constatabili sin da subito. I primi possiamo osservarli nei cosiddetti “nativi digitali”, nati dopo la metà degli anni Novanta e non in grado di concepire un mondo senza computer e senza internet. Nell’immaginario collettivo si tratterebbe di privilegiati, avendo potuto assorbire sin dalle fasce la dimestichezza per padroneggiare con disinvoltura i paradigmi delle nuove tecnologie. Un po’ come un madrelingua padroneggia l’uso dell’inglese secondo modalità inaccessibili a un italiano che inizia a studiarlo soltanto da adulto.
Già nel 2013 Manfred Spitzer, in Demenza Digitale (Corbaccio Editore), ammoniva: «In qualità di neurobiologo e alla luce dei dati raccolti in questo libro, devo sottolineare come i media digitali possano provocare nei giovani un peggioramento nella loro formazione, che il loro utilizzo non favorisce lo sviluppo di impulsi sensomotori e che l’ambiente sociale, come viene ripetuto spesso, subisce modificazioni e limitazioni notevoli».
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I social network hanno creato un’insana competizione basata sull’esibizione del consenso. La situazione è così critica che le piattaforme più famose pare che provvederanno a nascondere il conteggio dei like: per rendere i social un luogo più felice, dicono. Così, però, potrebbero offrire l’informazione dietro compenso a chi è alla ricerca di influencer da reclutare per fini promozionali, tramutandosi di fatto in enormi agenzie pubblicitarie.
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Eppure, l’eccellente lavoro svolto dallo psichiatra tedesco Manfred Spitzer con il suo celebre libro Demenza Digitale ci aiuta a smontare questo mito. Leggiamo che «gli stessi esperti di tecnologia informatica nutrono opinioni contrastanti e solo la metà di loro è incline a un certo ottimismo». Afferma ancora: «In qualità di neurobiologo e alla luce dei dati raccolti in questo libro, devo sottolineare come i media digitali possano provocare nei giovani un peggioramento nella loro formazione, che il loro utilizzo non favorisce lo sviluppo di impulsi sensomotori e che l’ambiente sociale, come viene ripetuto spesso, subisce modificazioni e limitazioni notevoli». L’uso inappropriato di tali strumenti, inoltre, ostacola la capacità di autocontrollo e provoca stress. Il cosiddetto multitasking, cioè l’esposizione simultanea a più stimoli e interazioni tipica di un uso sciolto dei dispositivi, predispone alla superficialità di pensiero. Insomma, ci sarà un motivo se personaggi del calibro di Steve Jobs preferivano che i figli stessero alla larga da tablet e smartphone. Nonostante ciò le nostre scuole, sin dall’asilo, sembrano voler rinunciare ai metodi e ai propositi educativi tradizionali, per inseguire anch’esse le lusinghe di un totalitarismo tecnologico. Il tutto aggravato dalla complicità di famiglie che accolgono a braccia aperte tali metodi, nell’illusione di garantire un’educazione al passo coi tempi ai figli, senza però conoscere i pericoli. Dalle informazioni disponibili, si può affermare che vi sono concreti rischi di un impoverimento non solo di contenuti ma anche cognitivo: non si tiene in debito conto che il cervello di un adulto è sostanzialmente diverso da quello di un bambino, pertanto non possono valere le stesse regole di apprendimento. Pensare che un’esposizione tecnologica precoce, specialmente se in sostituzione dei contenuti tradizionali, possa dare una marcia in più è un errore grossolano. Gli strumenti cognitivi più elevati del cervello, infatti, sbloccano il loro potenziale solo nelle età più avanzate. Prima di allora è necessario approfittare di specifiche finestre temporali per
garantire l’apprendimento tramite le esperienze più semplici (sperimentare, sentire, palpare, colorare, giocare con le mani), che tuttavia costituiranno i mattoni indispensabili perché si possano costruire in futuro i pensieri più evoluti. Senza la preparazione di un buon arsenale nei livelli cognitivi più bassi non si potrà poi progredire in quelli più alti, se non a fatica. Ciò vale anche per il ragionamento matematico. Viene da chiedersi, con un simile impoverimento, come potranno porsi le nuove generazioni nei confronti della rivoluzione tecnologica che verrà. C’è un concreto rischio che si riducano a pedine in balia di eventi neppure percepiti, privati di una reale capacità di critica che gli consenta di interpretare il mondo circostante, sempre più complesso, e di realizzarsi concretamente. Eppure, di fronte alle nuove sfide, ci sarà un gran bisogno di capacità di reazione e di critica. Per esempio, il mercato del lavoro che verrà presenta numerose insidie. In Cina si parla già di “catena di montaggio dell’intelligenza artificiale”: migliaia di persone che, per pochi spiccioli l’ora, trascorrono intere giornate a etichettare dei contenuti per garantire l’addestramento di macchine che dovranno simulare un comportamento intelligente. Sono i data-tagger. C’è il rischio che lavori così estenuanti e mal retribuiti andranno per la maggiore. L’intelligenza artificiale, infatti, tende a “rubare” conoscenze a operatori umani con lo scopo di sostituirli, senza però prevedere alcuna forma di retribuzione per il sapere acquisito, né si riconosce una sorta di proprietà intellettuale per ricompensare chi ha contribuito all’addestramento. Gli esseri umani, al contrario, sono capaci di ripercorrere le tappe dell’apprendimento e indicare, talvolta con precisione e gratitudine, chi ha materialmente contribuito a farli imparare. Una differenza non da poco che avrà senz’altro delle ripercussioni, al punto che tra ricercatori c’è chi propone di rivedere l’intero meccanismo includendo responsabilmente il fattore umano, come scrive Fabio Massimo Zanzotto, dell’Università di Tor Vergata a Roma. (Zanzotto M., Viewpoint: Human-
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in-the-loop Artificial Intelligence, Journal of Artificial Intelligence Research, 64 (2019) 243-252). Di buona capacità di critica ci sarà anche bisogno per capire fino a che punto possiamo delegare le nostre attività. Una macchina può spiegare il perché di una propria decisione? Se non può farlo, come controllare il processo? C’è il rischio di un’adesione acritica alle scelte operate automaticamente da una Intelligenza Artificiale (AI), anche a costi eticamente alti ma che potrebbero giustificarsi perché nel processo sarebbe implicito un deprezzamento della dignità umana.
Steve Jobs, il 10 settembre 2014, intervistato dal New York Times in seguito al lancio del primo iPad, quando gli chiesero cosa pensavano i suoi figli del nuovo dispositivo, aveva detto: «Non lo conoscono. Dobbiamo limitare l'uso della tecnologia dentro casa da parte dei nostri bambini».
C’è un concreto rischio che le nuove generazioni si riducano a pedine in balia di eventi neppure percepiti, privati di una reale capacità di critica che gli consenta di interpretare il mondo circostante.
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Infatti, si potrebbe finire con il vedere nella macchina un oracolo da non dover relazionare mai con alcuna interpretazione umana, e da non mettere in dubbio neppure quando sbaglia, perché infallibile per convenzione. Anche qui, come ci stanno abituando a pensare, il sacrificio di una minoranza di casi sfortunati sarà considerato il giusto prezzo da pagare per garantire il superiore interesse collettivo. L’utilitarismo e la cultura dello scarto fugheranno eventuali cenni di dissenso. Per capire la gravità dell’argomento, si parla di situazioni in cui una macchina potrebbe diagnosticare una malattia, decidere con quali farmaci curarci, o determinare se una persona è colpevole di un reato. Impossibile non immaginare pure un progressivo deteriorarsi in ambito relazionale. Il rapporto tra uomo e donna si prospetta sempre più mediato dalla macchina, con l’ingresso nel mercato di dispositivi che sostituiscono l’esperienza sessuale eliminando il bisogno fisico dell’altro, che viene semmai ridotto a mera fantasia usa e getta. La persona, con i suoi limiti, necessità e
bisogni diventa così di ostacolo alla possibilità di muoversi in libertà in uno spazio illimitato di fantasie e stimoli senza freni. Dispositivi che, sfruttando l’intelligenza artificiale garantiscono di surrogare in solitudine un’esperienza sessuale perfetta, rischiano di rendere il rapporto fisico reale sempre meno auspicabile, e disamorare dall’incontro con l’altro che, in quanto umano e reale, non potrà mai garantire le stesse prestazioni omologate. Svanisce così l’idea del rapporto come dono reciproco. Ulteriori segnali di deprezzamento del valore della vita umana si possono scorgere nell’assenza di remore da parte degli architetti di questo “nuovo mondo” che, con la piena acquiescenza della politica, muovono in libertà enormi fiumi di capitali in grado di travolgere con la loro furia inarrestabile ogni resistenza popolare, sia pure in presenza di scenari totalmente inediti e ad alto rischio per la salute umana, di cui la recente introduzione della tecnologia 5G potrebbe essere un buon esempio. Cosa resterà dell’uomo? Che tipo di umanità abbiamo in mente di diventare?
Gli esseri umani, al contrario delle macchine, sono capaci di ripercorrere le tappe dell'apprendimento e indicare, talvolta con precisione e gratitudine, chi ha materialmente contribuito a farli imparare.
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Removed, di Eric Pickersgill
«Eliminando la fonte della connessione, Pickersgill squarcia il velo sulla presa di possesso da parte della tecnologia contemporanea sui nostri sentimenti» (Rick Wester) Siamo davvero grati all’Autore che ci ha concesso gratuitamente la possibilità di riprodurre l’immagine qui sopra.
Eric Pickersgill si definisce «un artista, marito e padre a tempo pieno»: è nato in Florida 33 anni fa, ha conseguito una specializzazione in Fotografia d’Arte presso il Columbia College di Chicago nel 2011 e un master in Belle Arti presso l’Università della Carolina del Nord, a Chapel Hill, nel 2015.
Scrive Pickersgill: «L’ispirazione mi è venuta mentre sedevo in un bar, una mattina, e ho osservato una famiglia completamente “sconnessa”». Ognuno era preso dal suo cellulare e nessuno parlava con l’altro o con la madre, che cercava invano di attirare l’attenzione dei suoi familiari.
Uno dei suoi ultimi progetti artistici si intitola Removed (“rimosso”): ritrae persone di ogni continente in atteggiamenti di vita quotidiana che fissano il vuoto tra le mani… mani che sono nell’atto di tenere un telefonino o un tablet, mani che normalmente e continuamente tengono telefonini e tablet.
Anche lei, poi, con volto triste, ha preso in mano il telefonino.
È una fotografia molto eloquente, che fa riflettere, come tutte le altre presenti sul sito www.removed.social: consigliamo vivamente ai nostri Lettori di andarle a guardare.
Scene simili sono a ciascuno di noi tristemente familiari: le persone sono connesse a internet, ma sono tremendamente sconnesse tra di loro. Confessa Pickersgill: «A letto mi addormento accanto a mia moglie e ci appoggiamo schiena contro schiena, sdraiati su un fianco, coccolando i nostri piccoli freddi dispositivi illuminati».
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Vincent Van Gogh, La siesta (1890), Musée d'Orsay, Parigi.
Il lavoro nobilita l’uomo: è una delle tante sconvolgenti novità portate dal cristianesimo.
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Lavoro (e riposo) in ottica cristiana Roberto Marchesini
Il lavoro è fonte di grandi aspettative e di grandi sofferenze: parte della responsabilità è della concezione poco equilibrata che ne ha la nostra società. Qual è il ruolo del lavoro nella vita di una persona? Perché, pur considerandolo fonte di realizzazione personale, molte persone soffrono a causa della loro vita lavorativa? Qual è la concezione del lavoro che un cristiano dovrebbe far propria? Nell’antichità greca e romana il lavoro era considerato un’attività umiliante, indegna di qualsiasi uomo libero (infatti il lavoro era riservato agli schiavi). Anche il testo biblico considerava il lavoro alla stregua di una maledizione, conseguenza del peccato originale: «Con il sudore della fronte ti guadagnerai il pane» (Gn 3,19). Le cose cambiano con il Nuovo Testamento, nel quale leggiamo la raccomandazione di san Paolo: «Chi non vuol lavorare neppure mangi» (2 Ts 3,10). È una delle tante sconvolgenti novità portate dal cristianesimo e in contrasto con gli usi dell’epoca; come tante altre, destinate a cambiare il volto dell’Occidente. Il lavoro è necessario per vivere, e non è più una vergogna. Un grosso contributo alla diffusione di questa visione del lavoro lo diedero i monaci benedettini e il loro motto «Ora et labora» («Prega e lavora»). Abbiamo poi vissuto dei periodi nei quali il lavoro è stato disprezzato in contrapposizione al capitale (cfr. Rerum novarum), e altri nei quali è stato considerato di per sé santificante (l’operaismo degli anni Settanta). Una posizione equilibrata l’ha espressa, come al solito, il nostro amato san Tommaso. Secondo il doctor angelicus, il lavoro ha quattro finalità (S. Th. II-II, q. 187, a. 3). La prima di queste è il sostentamento: «Con il sudore della fronte ti guadagnerai il pane». Siamo perfettamente allineati con la visione evangelica del lavoro come attività necessaria per vivere e non degradante; ma siamo anche ben lontani da una certa “ipostatizzazione” del lavoro. Infatti, prosegue san Tommaso, «non è detto che chiunque non lavori con le mani faccia peccato»: non sono quindi tenuti al lavoro manuale coloro i quali «abbiano di che vivere in altro modo». Così è, per esempio, per i frati domenicani come san Tommaso, che non lavoravano con le mani, predicavano e vivevano di elemosine. Le altre tre finalità del lavoro sono: evitare l’ozio (padre dei vizi) che, però, può essere evitato anche in altri modi, come la meditazione della Sacra Scrittura; frenare la concupiscenza mortificando il corpo (che può essere mortificato anche con digiuni e veglie); infine il lavoro può essere finalizzato
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all’elemosina (ma ci sono altri modi per soccorrere i poveri). Insomma, conclude il santo filosofo, il lavoro è un’opera supererogatoria: è cosa buona, ma non è obbligatoria per tutti. All’ingiunzione di san Paolo, infatti, Tommaso accompagna un altro versetto evangelico: «Non affannatevi per la vostra vita, per quello che mangerete» (Mt 6,25). Quanto è salutare per noi contemporanei – soprattutto se cresciuti e vissuti nel nord Italia – questo insegnamento tomista! Sembra infatti, per alcuni, che il lavoro sia necessario non per vivere ma per acquistare un valore personale: sembra quasi che una persona valga per il ruolo lavorativo che occupa, o per l’importo della sua busta paga; che dal lavoro dipenda la realizzazione personale. Che l’importante, nella vita, sia confidare nella previdenza, più che nella Provvidenza. Che Tommaso non condivida l’etica protestante del lavoro lo si evince anche dall’importanza che attribuisce al tempo libero, al gioco, al divertimento (S. Th. IIII, q. 168, a. 2): «L’uomo ha bisogno del riposo fisico per ritemprare il corpo, il quale non può lavorare di continuo per la limitazione delle sue energie». Non è un buon lavoratore quello che lavora di continuo; è un buon lavoratore quello che sa dosare sapientemente lavoro e riposo. Ma non solo il corpo ha bisogno del riposo: «Il rilassamento dell’animo dal lavoro si compie con parole e con atti divertenti. Quindi alla
Per il Dottore Angelico «non è un buon lavoratore chi lavora di continuo»: bisogna alternare al lavoro il riposo e anche lo svago e il divertimento.
persona sapiente e virtuosa spetta ogni tanto ricorrere a queste cose». È la virtù dell’eutrapelia, o della giovialità, del buon umore; tanto obliata, quanto cara a grandi santi (oltre a san Tommaso): san Filippo Neri, san Francesco di Sales, san Giovanni Bosco… L’eutrapelia fu definita da Dante, nel Convivio, come la decima virtù del cristiano, e grandi eutrapelici furono Chesterton e Guareschi. Eppure, nella nostra società, il gioco e il divertimento sono considerati una perdita di tempo, una sottrazione di energia che dovrebbe essere impiegata per il lavoro. Ma non sarà che tanti guai della nostra società dipendano invece da una mancanza di equilibrio? Concludiamo riassumendo. Nella nostra società il lavoro è fonte di grandi aspettative (spesso frustrate) e di grandi sofferenze. Senza perderci in grandi discorsi socioeconomici, parte della responsabilità è della concezione che la nostra società ha del lavoro. San Tommaso ci aiuta a ristabilire un giusto valore del lavoro nella vita di un cristiano, e a trovare un equilibrio tra lavoro e divertimento, tutt’altro che una perdita di tempo, quanto piuttosto un riposo necessario all’anima quanto il sonno è necessario al corpo.
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Workaholism Francesca Romana Poleggi
«Il lavoro nobilita l’uomo» ed è normale tessere le lodi di chi lavora, biasimando i pigri e i perdigiorno. Ma al giorno d’oggi anche il lavorare può degenerare in uno stato patologico di super-lavoro e creare, soprattutto tra i giovani, una vera e propria perniciosa dipendenza.
L’“Area Disabilità” del Centro Polifunzionale Don Calabria, a Verona, ha organizzato un ciclo di otto incontri mensili dal titolo: «La libertà viziata. Come le dipendenze cambiano la nostra vita e quella delle nostre famiglie». Da settembre ad aprile (vedete la locandina qui di lato) si parlerà anche di pornografia, sesso, slot machine, computer, smartphone e social: perché non sono più solo la droga e l’alcol a prendere possesso della vita dei giovani (e dei meno giovani) di oggi. E così, tra le dipendenze non legate a sostanze, come quelle da gioco d’azzardo, shopping compulsivo, o sesso, siamo andati a indagare sulla sindrome da dipendenza dal lavoro: una “droga” che non solo è gratis, ma fa guadagnare e si compra da uno “spacciatore” che non rischia nulla, in un “commercio” che giustamente è oggetto di stima e che normalmente è addirittura necessario per il bene degli individui e della società.
Area Disabilità
La libertà viziata
Come le dipendenze cambiano la nostra vita e quella delle nostre famiglie 1. Venerdì 20 settembre 2019 ore 20,45
5. Venerdì 24 gennaio 2020 ore 20,45
Neuroscienze: meccanismi neuropsichici delle dipendenze e aspetti preventivi
Pedofilia: racconti dall’abisso
Prof. Giovanni Serpelloni
Presidente di METER
Don Fortunato Di Noto
Neuroscienziato, University of Florida-Drug Policy Institute
2. Venerdì 25 ottobre 2019 ore 20,45
6. Venerdì 21 febbraio 2020 ore 20,45
La dipendenza da sostanze: aspetti educativi e pedagogici
Tratta e prostituzione: facce di una stessa medaglia
Prof. Federico Samaden
Dott.ssa Irene Ciambezi
Mar. Magg. Luciano Osler
Dott. Emmanuele Di Leo
Dirigente scolastico
Giornalista
Resp. Lab. Analisi Sostanze Stupefacenti - Laives (BZ)
7. Venerdì 20 marzo 2020 ore 20,45
3. Venerdì 22 novembre 2019 ore 20,45
Testimonianze di vita: è possibile uscire dalle dipendenze e costruire una vita felice Gruppo rock “ The Sun” 4. Venerdì 20 dicembre 2019 ore 20,45
La pornografia è innocua? I coniugi Luca e Michelle Marelli Associazione “Puridicuore”
Dott.ssa Manuela Dal Monte Psicologa e Psicoterapeuta
Presidente ONG Steadfast
Roulette e slot machine, giochi pericolosi Dott. ssa Daniela Capitanucci
Ass. AND-Azzardo e nuove dipendenze
8. Venerdì 17 aprile 2020 ore 20,45
PC, smartphone e social: una vita virtuale Dott. Emiliano Lambiase Psicologo e Psicoterapeuta
Tutti gli incontri saranno introdotti e moderati dal Dott. Tommaso Scandroglio - Bioeticista Gli incontri si svolgeranno presso
AUDITORIUM CENTRO POLIFUNZIONALE DON CALABRIA Via S. Marco, 121 - Verona
Per informazioni e iscrizioni ECM: info.libertaviziata@gmail.com Con il contributo di:
Con il patrocinio di:
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ISTITUTO PER L’EDUCAZIONE ALLA SESSUALITÀ E ALLA FERTILITÀ
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Il workhaholism porta a depressione, ansia, insonnia e aumento di peso. Peggiorano le relazioni sociali e le relazioni sentimentali sono messe a dura prova.
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Notizie Pro Vita & Famiglia
Lo psicologo statunitense Wayne Oates aveva individuato già negli anni Settanta la sindrome della “dipendenza da lavoro”, work addiction o workaholism. Si tratta di una vera e propria patologia psichiatrica che colpisce chi si sente costretto a lavorare (senza che alcun soggetto esterno glielo imponga), continua a pensare al lavoro anche fuori dall’ufficio, e lavora ben al di là delle aspettative del proprio referente responsabile. A fine anni Novanta le statistiche giapponesi dicevano che più del 20% della popolazione soffriva di dipendenza dal lavoro. Secondo recenti dati statunitensi, pubblicati da Forbes, sono particolarmente schiavi di questa nuova dipendenza i giovani, soprattutto lavoratori autonomi: il 66% dei millennials si sente affetto da workaholism; il 63% continua a lavorare anche se in malattia, il 32% lavora anche in bagno, il 70% lavora anche nel fine settimana. Un sondaggio pubblicato sul Washington Examiner rileva che il 39% dei nativi digitali sarebbe disposto a lavorare anche in vacanza. Cecilie Andreassen, professoressa di psicologia all’Università di Bergen, dice che il workhaholism porta a depressione, ansia, insonnia e aumento di peso. Peggiorano le relazioni sociali con gli amici e le relazioni sentimentali sono messe a dura prova: più
della metà dei work-addicted non riesce a evitare il divorzio. Sono più colpiti da questa patologia quelli che lavorano al computer. E non a caso il Daily Mail scriveva che il 58% dei giovani lavoratori inglesi della fascia 18-32 ha accusato forti problemi alla vista a causa del tempo eccessivo trascorso al computer. Marina Osnaghi, una master certificated coach, cioè una consulente di altissimo livello che affianca grandi imprenditori e professionisti nel raggiungimento dei propri obiettivi, riconosce che «nei geni dei giovani digitali è insita l’attitudine all’utilizzo di ogni apparato tecnologico che permetta una connessione al mondo, senza bisogno di spostarsi dal proprio ufficio e dalla propria casa. Ciò comporta un cambiamento della percezione del tempo e uno stato di trance che li fa diventare incoscienti. La tecnologia li segue ormai ovunque, mentre sono in bagno, mentre si vestono, mentre mangiano e addirittura quando sono malati. I millennials si trovano immersi in un ciclo continuo di stimoli, costretti a lavorare un numero di ore dilatato rispetto a quello che sarebbe in un mondo senza tecnologia. E con l’aumento delle ore di lavoro si annullano inequivocabilmente gli spazi per la vita privata. Per questo ricordarsi che la qualità della propria vita è insostituibile diventa una raccomandazione fondamentale
Il libro di Wayne Oates, lo psicologo americano che ha coniato il termine workaholism.
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per evitare conseguenze spiacevoli sul fisico e sulla psiche». Sul versante opposto rispetto al “superlavoro”, è vero anche che ci sono tra i giovani e i meno giovani quelli che hanno il problema contrario (nullafacenti, perdigiorno, “furbetti del cartellino”, che vivono a sbafo dei propri cari e della società). Questa ingombrante presenza, però, non deve impedirci di prendere coscienza del problema della dipendenza dal lavoro. Come per ogni forma di dipendenza, infatti, il primo passo necessario, anche se non sufficiente, per uscirne è riconoscersi coinvolti. Nella gerarchia dei valori la vita, gli affetti e le relazioni umane sono beni preziosi che vanno anteposti al lavoro. Sembra banale dirlo, ma bisogna “lavorare per vivere” e non “vivere per lavorare”. Del resto, anche la nostra Costituzione, notoriamente “laica” e “fondata sul lavoro”, riconosce il diritto irrinunciabile al riposo giornaliero, settimanale e alle ferie. Se però la vita diventa un bene disponibile come tanti altri (come vuole l’ideologia pro aborto e pro eutanasia) diventa sempre più difficile trasmettere alle giovani generazioni la giusta misura anche nel lavoro. Avremo un tessuto sociale più fragile e stressato, ma in compenso datori di lavoro
Il best seller di Amy Morin, che indaga l’impatto negativo del super-lavoro nella vita delle persone.
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più contenti? Forse. Finché non si rendono conto che anche la qualità del rendimento dei work-addicted risente dello stato psicofisico del lavoratore. Come per la dipendenza da droga e alcool sono stati creati gruppi di autoaiuto per “disintossicarsi”. Per esempio il newyorkese Workaholics Anonymous. Proprio come A.A., Alcolisti Anonimi, le persone work-addicted in modo rigorosamente anonimo partecipano on line o di persona le loro esperienze, si documentano, si scambiano consigli e supporto e cercano di dare un senso alla loro vita. Imprescindibile, per questi gruppi di aiuto, il riconoscimento del Trascendente (non necessariamente secondo la fede cristiana) e l’accettazione del limite connaturato a ogni essere umano. Potete leggere qui a fianco i famosi “Dodici Passi”. È interessante notare che anche siti di consulenza perfettamente laici considerano indispensabile (guarda un po’...!) quanto meno la meditazione per sperare di uscire dalla dipendenza: sarà forse perché alla base di ogni libertà ci deve essere la verità. E forse bisogna accettare – nonostante il dilagante secolarismo alla moda – che la verità dell’uomo è che egli non basta a se stesso. Ha bisogno di un Altro per comprendere il suo inizio e in cui raggiungere il suo perfetto compimento. Quando l’uomo presume e pretende di essere del tutto autonomo e svincolato dal “da dove vengo e dove vado”, si trova in realtà solo, nudo, fragile e facile preda delle schiavitù. Infatti, anche quella da lavoro – leggendo le testimonianze dei workaholist su internet – serve a colmare un vuoto e a fuggire dalla realtà. Questi i Dodici Passi che deve muovere chi voglia liberarsi dalla dipendenza da lavoro, mutuati con adattamenti dai Dodici Passi degli Alcolisti Anonimi, scritti nel lontano 1939.
1) Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte al lavoro e che le nostre vite erano divenute incontrollabili 2) Siamo giunti a credere che un Potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione. 3) Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura di Dio, come noi lo concepiamo. 4) Abbiamo fatto un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi. 5) Abbiamo ammesso di fronte a Dio, a noi stessi e a un altro essere umano, l’esatta natura dei nostri torti. 6) Siamo stati pronti ad accettare che Dio eliminasse tutti i nostri difetti. 7) Gli abbiamo chiesto con umiltà di eliminare i nostri difetti. 8) Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo stati pronti a rimediare ai danni recati loro. 9) Abbiamo fatto direttamente ammenda verso tali persone, laddove possibile, tranne quando, così facendo, avremmo potuto recare danno a loro oppure ad altri. 10) Abbiamo continuato a fare il nostro esame personale e, quando ci siamo trovati in torto, lo abbiamo subito ammesso. 11) Abbiamo cercato attraverso la preghiera o la meditazione di migliorare il nostro contatto cosciente con Dio, come lo intendiamo, pregandolo di farci conoscere la Sua volontà nei nostri riguardi e di darci la forza di eseguirla. 12) Avendo ottenuto un risveglio spirituale come risultato di questi Passi, abbiamo cercato di portare questo messaggio ad altre persone dipendenti dal lavoro e abbiamo cercato di mettere in pratica questi principi in tutte le nostre attività.
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Bambini che fumano (in modo passivo) cannabis La cannabis viene respirata, sia di seconda che di terza mano, dai bambini che frequentano i luoghi dove si fuma. Gli adulti che fanno uso di stupefacenti in luoghi frequentati dai bambini pongono seriamente a rischio la loro salute.
Scrive il Quotidiano della Sanità - Scienza e farmaci: «Basta solo un minuto di esposizione al fumo passivo di marijuana per avere un’alterazione dell’endotelio vascolare (la superficie interna del vaso sanguigno), con possibili effetti dannosi a livello dell’apparato cardiovascolare, che perdura per 90 minuti. Lo dimostra uno studio su animali da laboratorio condotto dal team di Matthew Springer, dell’Università della California di San Francisco, e pubblicato dal Journal of the American Heart Association». Insomma, è acclarato che il fumo passivo è dannoso. Sia quello di tabacco – in relazione agli effetti deleteri delle sigarette per il nostro apparato respiratorio – sia quello di cannabis e marijuana, che ha effetti anche sul sistema nervoso e cardiocircolatorio. E se il fumo passivo di droga fa male in generale, ancor peggio fa quando viene respirato da bambini. E, purtroppo, pare che i genitori che fanno uso di droga tendano a essere poco attenti alla presenza dei piccoli. Una nuova ricerca, infatti, ha trovato prove dell’esposizione al fumo di marijuana di seconda mano in quasi la metà dei bambini i cui genitori fumano la droga.
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«Mentre gli effetti del fumo di tabacco sono stati studiati approfonditamente, abbiamo ancora molto da imparare sull’esposizione alla marijuana», ha detto la ricercatrice Karen Wilson, della Icahn School of Medicine del Monte Sinai a New York City. «Quello che abbiamo trovato in questo studio è che il fumo di marijuana di seconda mano (fumo passivo) entra nei polmoni e nei piccoli corpi dei bambini», ha detto la dottoressa Wilson in un comunicato stampa indirizzato alle scuole. Lo studio ha avuto per soggetti i genitori del Colorado che hanno usato marijuana ed è stato condotto dopo che l’uso ricreativo della droga è diventato legale in quello Stato. Tra i genitori intervistati, il fumo era la forma più comune di uso di marijuana (30%), seguito dall’assunzione di droga edibile (14,5%) e dai vaporizzatori (9,6%). Le analisi delle urine dei figli di tutti gli intervistati hanno rivelato che il 46% dei bambini aveva livelli rilevabili del metabolita della marijuana, il tetraidrocannabinolo acido carbossilico (Cooh-Thc) e l’11% aveva livelli rilevabili di tetraidrocannabinolo (Thc), l’ingrediente psicoattivo primario della marijuana. Il Thc è un indicatore sia dell’esposizione recente e attiva alla marijuana, sia di un livello più alto di esposizione complessiva. «Questi sono risultati preoccupanti, che suggeriscono che quasi la metà dei figli di genitori che fumano marijuana vengono esposti, e che l’11% sono esposti a un grado molto elevato», ha detto la dottoressa Wilson. La maggior parte dei genitori (84%) ha affermato che nessuno ha mai fumato marijuana dentro casa, mentre solo il 7,4% ha ammesso che veniva fumata in casa ogni giorno. Quando è stato chiesto se succedeva che qualcuno fumasse marijuana mentre i bambini erano presenti, il 52% dei
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genitori ha detto di no, il 22% ha dichiarato che il fumatore usciva fuori e quasi 1 su 10 ha detto che andava a fumare in un’altra stanza. Un terzo dei bambini i cui genitori hanno dichiarato che uscivano per fumare sono risultati comunque positivi al CoohThc. «Uscire fuori potrebbe sembrare la soluzione, ma le prove che abbiamo raccolto suggeriscono che i bambini sono comunque esposti al fumo di seconda mano (fumo passivo), o forse di terza mano (fumo che rimane nell’ambiente: nell’aria o depositato sulle superfici, ndA). Sappiamo, infatti, che il fumo di sigaretta di terza mano che si impregna nei nostri capelli, nei nostri vestiti, persino nella nostra pelle, si traduce in un’esposizione biologica che possiamo rilevare. Quello che rimane oscuro è l’estensione delle conseguenze di questo meccanismo di esposizione. «I nostri risultati suggeriscono che fumare in casa, anche in una stanza diversa, si traduce in esposizione per i bambini. Più comprendiamo l’esposizione al fumo di seconda mano e di terza mano, meglio possiamo proteggere i bambini in casa, negli Stati dove la marijuana è legale», ha spiegato la dottoressa Wilson. Inoltre, i ricercatori hanno osservato che il fumo di marijuana contiene anche sostanze chimiche dannose simili a quelle del tabacco. Gli autori dello studio hanno sottolineato che la maggior parte degli Stati che consentono l’uso di marijuana non lo permettono in spazi pubblici interni ed esterni, ma non hanno restrizioni sul fumo di marijuana in presenza di bambini.
«Il fumo di marijuana di seconda mano (fumo passivo) entra nei polmoni e nei piccoli corpi dei bambini».
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I casi di bambini ricoverati in condizioni gravi per aver inalato o ingerito droga “leggera” (le virgolette sono più che un obbligo) sono moltissimi. In Colorado c’è stato persino un morticino di 11 mesi nel novembre 2015, che ovviamente suscitò scalpore: il decesso - per miocardite e infarto - ufficialmente è stato “associato” all’assunzione di cannabis. Limitando la nostra indagine all’Italia, già prima della legalizzazione della cannabis (pseudo) light ci sono stati molti casi di bambini intossicati anche in modo grave per ingestione o inalazione di droga. Per esempio:
Palermo, 2 luglio 2012: un bambino di nove anni è stato ricoverato in ospedale in seguito a una intossicazione da cannabinoidi. Brescia, 6 nov 2012: bambino marocchino di 15 mesi ricoverato d’urgenza per intossicazione da Thc per inalazione Reggio Emilia, 23 ottobre 2014: bimbo di 13 mesi ingerisce hashish lasciato nel portacenere e finisce in ospedale in rianimazione. Pescara, 14 novembre 2014: il padre è in carcere, il bambino di un anno e otto mesi è stato ricoverato in condizioni gravi per aver assunto cannabis. Arezzo, 25 ottobre 2015: zio e nipotino avevano mangiato alcuni biscotti confezionati artigianalmente, tra i quali ve ne erano diversi nel cui impasto erano state triturate delle foglie di marijuana. I biscotti erano stati preparati da un amico di famiglia. Entrambi ricoverati. Palermo, 12 febbraio 2016, una bambina di 16 mesi è stata trasportata all’ospedale Cervello dopo un malore. Dagli esami effettuati risultava positiva alla cannabis. Lucca, 27 luglio 2016, l’ospedale pediatrico Meyer ha ricoverato un bambino di poco più di dodici mesi che ha inalato hashish. Palermo, 13 agosto 2016: bambina di 8 mesi ingerisce hashish: è stata ricoverata all’ospedale dei Bambini di Palermo in gravi condizioni. Torino, 29 agosto 2016: bimbo di 8 mesi ingoia un pezzetto di hashish. Diventa cianotico e perde quasi i sensi, ricoverato d’urgenza al pronto soccorso. I genitori riferiscono che aveva mangiato una crocchetta del cane. Bologna, 22 settembre 2016: bimba di 10 mesi ricoverata d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Bologna, sembrava in stato catatonico. Intossicazione da Thc. Roma, maggio 2017: il malore di una bimba di due anni sembrava dovuto a una encefalite, invece era un’intossicazione da cannabis.
Legnano, 13 settembre 2017: bambina di 18 mesi ingerisce hashish. Trasferita nel reparto di rianimazione, trascorre un paio di giorni in terapia intensiva. Milano, 3 dicembre 2017: a Sesto San Giovanni, un bimbo di 20 mesi con violente crisi convulsive e gravi crisi respiratorie è in prognosi riservata all’ospedale Buzzi. E intossicazione da Thc. I medici pensano che possa anche essere passato dal latte materno. Alessandria, 17 marzo 2018: una bambina di un anno ha ingoiato un pezzetto di hashish e finisce al pronto soccorso dell’Ospedaletto Infantile. Ravenna, 23 maggio 2018: una bambina di 18 mesi è stata ricoverata in ospedale per sospetta intossicazione da hashish. Firenze, 17 novembre 2018: bimba di 20 mesi giunta al pronto soccorso dell’ospedale pediatrico Meyer con difficoltà respiratorie e in stato di forte sonnolenza per un’intossicazione da cannabinoidi. Ragusa, 19 novembre 2018: bambino di 15 mesi al pronto soccorso del Presidio Ospedaliero “R. Guzzardi” di Vittoria accompagnato dalla giovanissima madre, mentre giocava a casa improvvisamente era stato colto da malore. Riscontrata una intossicazione da cannabinoidi, pur senza riuscire ad individuare con certezza la via di assunzione. Salerno, 3 novembre 2018: bambina di un anno e mezzo, priva di sensi, volto cianotico, corpo rigido è stata portata al pronto soccorso di Nocera Inferiore dalla madre ancora minorenne. Quadro clinico critico. Esami del sangue ripetuti a distanza di due ore: intossicazione da Thc. L’avvelenamento sarebbe stato causato secondo i medici da un accumulo di fumo passivo di cannabis che la piccina avrebbe respirato nel tempo. Milano 16 settembre 2019: bimbo di un anno e mezzo viene portato all’ospedale Buzzi dai genitori che raccontano che dopo il sonnellino pomeridiano non erano più riusciti a svegliarlo in nessun modo. Dalle analisi il bimbo risulta positivo alla marijuana. I genitori, entrambi stranieri, dichiarano di non farne uso; invece fuma spinelli il fratello della donna, zio del bimbo, recentemente ospitato nella loro abitazione.
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«Dai Fabiano, la mamma vuole che tu vada» Pubblichiamo le riflessioni che ci ha inviato un nostro affezionato sostenitore a proposito della libertà e dell’autodeterminazione che – dicono – sarebbero “garantite” dalle leggi eutanasiche.
Non sono mai riuscito a capire il padre di Eluana Englaro che, sin dall’inizio, dal momento dell’incidente, si è accanito perché la figlia morisse. Ho avuto la fortuna di conoscere più persone nelle stesse condizioni di Eluana, e so che un certo livello di coscienza ce l’avevano: per esempio, percepivano chiaramente quando entravo nella stanza. Le ipotesi sono due: se chi è in stato vegetativo prolungato è cosciente, l’eutanasia è ingiusta e drammatica. Se non si rende conto di essere in vita, a cosa gioverebbe la sua morte se non a chi la pubblicizza continuamente? In molti sostengono che una vita come quella non ha dignità, ma a togliere la dignità alla vita non è la malattia, bensì la completa mancanza di assistenza da parte dello Stato, che lascia tutto sulle spalle delle famiglie, e vi assicuro che è un compito davvero gravoso, ma possibile.
Beppino Englaro
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A togliere la dignità alla vita non è la malattia, ma la completa mancanza di assistenza da parte dello Stato e dei consociati.
Molto diverso invece il caso del Dj Fabo. Fabiano Antonacci esitava. Infatti, aveva chiesto nove volte di morire e ogni volta aveva rinunciato. Ha compiuto il gesto estremo, alla fine, quando la sua stessa mamma gli ha “consigliato” il suicidio. Queste le parole della madre al processo: «Due minuti prima che schiacciasse il bottoncino [che ha permesso il rialscio del veleno, ndR] io (mamma) ho dovuto dirgli, per farlo andare via sereno, “Dai Fabiano la mamma vuole che tu vada”». Se a un depresso dici così, davanti a un’équipe televisiva, è davvero suicidio? Quando tua madre dice che devi morire perdi anche l’ultimo appiglio alla vita dato da chi ti ha generato: chiunque a quel punto schiaccerebbe quel maledetto pulsante, che fino ad allora non aveva mai avuto il coraggio di schiacciare.
La mamma è sempre la mamma: certamente Carmen Carollo non voleva la morte del figlio, Fabiano Antoniani. Forse sarà stata plagiata e strumentalizzata dalla propaganda radicale, come forse anche Beppino Englaro?
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Disabilità e suicidio assistito Michael Cook*
Uno studio americano afferma che le leggi sul suicidio assistito sono molto pericolose per le persone con disabilità. Negli Stati Uniti, il National Council on Disability (Ncd) ha pubblicato un’analisi degli effetti che hanno le leggi sul suicidio assistito sulle persone con disabilità. Il risultato è che le garanzie legali, i “paletti” sono inefficaci e che i controlli per evitare abusi ed errori sono insufficienti. Su 50 Stati federati, in otto, più il Columbia District, la legge prevede che i medici prescrivano veleni a pazienti con diagnosi di malattia terminale e con una prognosi di vita di sei mesi o meno. La motivazione principale che ha giustificato queste leggi è il desiderio del paziente di voler porre fine a un dolore insopportabile. Il rapporto del Ncd, invece, rileva che la ragione principale per cui i malati chiedono il suicidio assistito è il
bisogno insoddisfatto di assistenza e sostegno. Queste necessità dei malati dovrebbero essere prese in considerazione da una società civile con legislazioni e finanziamenti adeguati, non con il suicidio assistito. «Le leggi sul suicidio assistito si presentano come se offrissero una scelta alle persone che sono alla fine della loro vita; tuttavia, in pratica, non offrono alcuna scelta, quando l’opzione più economica è uccidere piuttosto che fornire cure o servizi per migliorare la qualità della vita dei pazienti», ha dichiarato Neil Romano, presidente dell’Ncd. Per esempio, esaminando attentamente l’esperienza dell’Oregon, dove la pratica è legale da vent’anni, l’Ncd ha rilevato che l’elenco delle
* Ringraziamo il Direttore di BioEdge per il contributo. La traduzione, a cura della Redazione, non è stata rivista dall’Autore.
Il National Council on Disability è un’agenzia federale americana indipendente, che dal 1978 svolge attività di consulenza per il Presidente, il Congresso e altre agenzie federali in merito a politiche, programmi, pratiche e procedure che riguardano le persone con disabilità. L’Ncd è composto da un team di esperti nominati dal Governo e dal Congresso, un direttore esecutivo nominato dal Presidente e uno staff di professionisti che vi lavorano a tempo pieno.
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condizioni necessarie per ottenere il suicidio assistito si è ampliato considerevolmente nel tempo, e vi sono state ricomprese molte disabilità che, se adeguatamente trattate, non provocano la morte, tra cui l’artrite, il diabete e l’insufficienza renale. Le leggi sul suicidio assistito sono un pericolo per le persone con disabilità anche per l’effetto Werther, cioè l’effetto di imitazione tra suicidi che si è rilevato negli Stati in cui il suicidio assistito è legale; così come è stato riscontrato un allentamento delle garanzie esistenti, sia negli Stati dove la legalizzazione è avvenuta, sia negli Stati dove sono stati avanzati progetti di legge in materia. In particolare l’Ncd rileva che: ■ le compagnie di assicurazione negano ai pazienti trattamenti medici costosi e di supporto alla vita, ma offrono i veleni. Questo spinge i pazienti ad accelerare la propria morte; ■ spesso i pazienti chiedono di morire a fronte dello spavento conseguito a diagnosi funeste che poi si sono rivelate errate; ■ sebbene la paura e la depressione siano i motivi principali alla base delle richieste di suicidio assistito, di fatto il rinvio della prescrizione del veleno a favore di una valutazione psicologica e psichiatrica è estremamente raro; ■ la “scelta” del paziente non è libera, perché soggiace a pressioni finanziarie ed emotive;
La ragione principale per cui i malati chiedono il suicidio assistito è il bisogno insoddisfatto di assistenza e sostegno.
■ i pazienti non incontrano limiti nella ricerca di un medico disposto a prescrivere il veleno [se per esempio il loro medico curante non è d’accordo, possono rivolgersi ad altri. In molte leggi è il medico stesso che non può esimersi dal prescrivere il veleno o è obbligato lui stesso a trovare il collega disposto a farlo, ndT]; ■ l’effetto Werther è comprovato da diversi studi scientifici. «Io stesso ho combattuto contro il cancro e mi avevano pronosticato poche settimane di vita: invece anni dopo sono ancora qui. So bene, in prima persona, che anche medici ottimi e ben intenzionati possono sbagliare», ha detto Romano. «Dove il suicidio assistito è legale, andranno perse molte vite a causa di errori, abusi, mancanza di informazioni o mancanza di opzioni migliori; nessuna garanzia, nessun “paletto” tra quelli attualmente in uso o tra quelli che vengono proposti può evitarlo». Il dibattito è molto delicato. La propaganda al diritto a morire sta promuovendo altresì forti limitazioni all’uso degli oppioidi [salvo poi, magari, favorire la liberalizzazione delle droghe!, ndT]. Il rapporto sottolinea che «le persone che dipendono dagli oppioidi per gestire il dolore spesso si sentono trattate come criminali. Può essere più facile ottenere una prescrizione per morire che una per alleviare il dolore». Il rapporto dell’Ncd sottolinea infine che tutte le organizzazioni americane per i diritti dei disabili che si sono espresse sul tema si oppongono alla legalizzazione del suicidio assistito.
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Brenden e Brendon Bobby Schindler
Due nomi che per una curiosa coincidenza si somigliano: due vicende molto simili, due epiloghi molto diversi.
Il 31 maggio 2002 il diciottenne Brenden Flynn è stato coinvolto in un incidente d’auto e ha subito un trauma cranico. È stato trasportato in aereo in un ospedale a Syracuse, New York. Poco dopo, è stato trasferito al Park Ridge Hospital vicino a Rochester, dove i medici hanno detto a sua madre, MaryJo Flynn, che Brenden aveva zero possibilità di guarire e di riacquistare una “qualità della vita” significativa. Le suggerirono di farlo morire. Se Brenden fosse sopravvissuto, dicevano i dottori, sarebbe rimasto in una clinica di lunga degenza per il resto della sua vita. La madre di Brenden, non volendo prendere la tragica decisione – irreversibile – così in fretta, chiese ai medici di continuare a curarlo. Il 9 settembre 2019 anche il ventenne Brandon Fuller, coinvolto in un incidente d’auto, ha subito una lesione cerebrale ed è stato trasportato in aereo al Sanford Medical Center, situato a Bismarck, nel Dakota del Nord. Poco dopo, anche in questa circostanza, i medici hanno informato sua madre, Amanda King, che Brandon aveva zero possibilità di guarire e di riacquistare una “qualità della vita” significativa, e le hanno suggerito di porre fine alla sua vita. Anche la madre di Brandon, non volendo prendere la decisione così in fretta, ha chiesto ai medici di continuare a curarlo. A Brenden Flynn è stato concesso tempo: oggi, Brenden è felicemente sposato da dieci anni e con sua moglie, Nicole, ha quattro bellissimi figli.
Bobby Schindler è il fratello di Terri Schiavo, una delle prime vittima della cultura della morte in America. Fu un caso simile a quello recente di Vincent Lambert: la donna, gravemente disabile, fu uccisa per fame e sete per volontà dell’ospedale e del marito e nonostante la strenua battaglia dei genitori e del fratello per cercare di salvarle la vita. Abbiamo chiesto a Schindler il permesso di pubblicazione di questo pezzo, postato originalmente su LifeNews. La traduzione, non rivista dall’Autore, è a cura della Redazione.
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(*) Il noto neurochirurgo Massimo Gandolfini spiega bene nel suo libro I volti della coscienza (Cantagalli 2013) che in base ai progressi delle neuroscienze: - non esiste quello che alcuni chiamano “coma irreversibile”: di irreversibile c’è solo la morte; - quello che una volta si chiamava “stato vegetativo permanente”, oggi si chiama “stato vegetativo prolungato” perché è stato dimostrato che il cervello di persone erroneamente chiamate “vegetali” in realtà percepisce ed elabora gli stimoli esterni, anche quando non sono in grado di rispondere, ed è quindi scientificamente errato presumere che non ci possono essere miglioramenti; - il discrimine tra lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza, in cui il paziente reagisce in qualche modo agli stimoli esterni, è davvero sottile. È quindi un errore macroscopico considerare questi pazienti “cerebralmente morti”: sono persone vive, gravemente disabili; e non sono neanche “malati terminali”: hanno bisogno della stessa cura (e dell’affetto) che serve, ad esempio, a un neonato.
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A Brandon Fuller non è stato concesso tempo. Le richieste di sua madre sono state respinte. L’11 ottobre di quest’anno Brandon Fuller è morto. A seguito della morte di mia sorella Terri Schiavo, nel marzo 2005, la mia famiglia ha istituito la rete Terri Schiavo Life and Hope, che fornisce un servizio di assistenza nazionale 24 ore su 24, 7 giorni su 7, cui le persone possono rivolgersi se un loro familiare rischia di essere ucciso perché gli negano o gli sospendono le cure. Fin dalla sua istituzione, il servizio ha assistito in media quasi 20 pazienti – con le loro famiglie in crisi – al mese, compresa la madre di Brandon Fuller. Purtroppo, è un’inquietante evidenza il deterioramento del nostro sistema sanitario: le decisioni terapeutiche un tempo venivano prese nel migliore interesse del paziente, con il consenso della sua famiglia. Oggi, sempre più spesso, vengono prese nel migliore interesse dell’ospedale. Il Sanford Medical Center ha rifiutato la richiesta della signora King, che chiedeva di concedere più tempo al figlio, dopo che il comitato etico dell’ospedale ha concordato con il medico curante che Brandon non sarebbe migliorato. Di conseguenza, entro una settimana dall’incidente di Brandon era già stato programmato il giorno e l’ora in cui gli sarebbe stato rimosso il ventilatore. Tuttavia, Brandon è morto prima, a seguito del rifiuto dell’ospedale di curare la sua pressione sanguigna, che era instabile a causa delle sue condizioni mediche. Secondo la signora King, dal momento in cui è arrivata in ospedale i medici si sono mostrati piuttosto insensibili, se non ostili; non disposti a fare di tutto per aiutare suo figlio, compresa la stabilizzazione della pressione sanguigna. L’ospedale ha persino rifiutato di darle il tempo di individuare una struttura che avrebbe potuto ricoverare Brandon. Invece le hanno chiesto di donare gli organi, cosa che ella ha rifiutato. Questo non è il primo episodio del genere: si negano le cure anche se è semplice e ragionevole concedere più tempo al paziente. C’è un’irragionevole fretta da parte dei medici di
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voler far morire solo pochi giorni dopo l’evento traumatico. Recentemente, l’American Academy of Neurology (Aan) ha pubblicato nuove linee guida in disaccordo con le attuali pratiche delle unità di terapia intensiva, sostenendo che queste pratiche si basano su informazioni errate e obsolete. L’Aan afferma che «discutendo della prognosi con i caregiver dei pazienti con un disturbo della coscienza durante i primi 28 giorni dopo l’infortunio, i medici devono evitare dichiarazioni che suggeriscono che questi pazienti hanno una prognosi sicuramente infausta (*)». Cosa ancora più importante, afferma l’Aan: «Un’accurata diagnosi e cure mediche e riabilitative continue basate su evidenze cliniche possono offrire possibilità di guarigione da questi stati di minima coscienza». In altre parole, porre fine alla vita di un paziente dopo una settimana dal verificarsi di una lesione cerebrale contraddice le nuove raccomandazioni dell’Aan. Queste nuove linee guida derivano dalle ricerche di Adrian Owen e Joseph J. Fins, entrambi d’accordo sul fatto che, più di ogni altra cosa, un cervello ferito ha bisogno di tempo per guarire. La loro ricerca ha rivelato che è necessaria la rivalutazione degli attuali protocolli di trattamento per le persone con lesioni cerebrali perché il cervello ha la straordinaria capacità di guarire se stesso per via di quella che viene definita “neuroplasticità”. Fins ha scritto sull’Houston Chronicle: «Nonostante un crescente apprezzamento scientifico del fatto che il cervello ferito abbia bisogno di tempo per guarire, il numero di pazienti che hanno accesso a una neuroriabilitazione specializzata è diminuito negli ultimi dieci anni. La maggior parte finisce intrappolata nelle case di cura, dove spesso vengono fatte diagnosi erronee. Oltre il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo dopo una lesione cerebrale traumatica, sono in realtà in stato di coscienza minima. È un errore sconcertante con conseguenze disastrose, che sarebbe inaccettabile in qualsiasi altra branca della medicina».
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Certamente, che si tratti di una decisione degli amministratori degli ospedali, o delle compagnie assicurative o dei medici, il sistema sanitario di oggi rende sempre più difficile per i pazienti ricevere le cure di cui hanno bisogno. Non dovrebbe essere così. Le famiglie che sopportano il trauma emotivo di vedere una persona cara tra la vita e la morte dovrebbero poter avere fiducia nel fatto che i medici ragionevolmente le ascolteranno, quando chiederanno tempo prima di prendere una decisione irrevocabile. E, in effetti, i medici sono tenuti a fornire tutti i trattamenti potenzialmente efficaci che possono aiutare il recupero del paziente.
Man mano che la cultura della morte sembra farsi strada nell’ambito dell’assistenza sanitaria, la fiducia nel nostro sistema sanitario diventa sempre più debole. Con miliardi di dollari in gioco, per via dei costi delle cure dei disabili e per via della donazione di organi, i medici devono fare particolare attenzione a non abbandonare i pazienti con gravi lesioni cerebrali. Questo, secondo “retta scienza”, come dimostrano le più recenti ricerche, e “in buona coscienza”, secondo il giuramento di Ippocrate («Non nuocere»). Altrimenti, storie a lieto fine, come quella di Brenden Flynn, diventeranno sempre più rare.
Nel 2005, fuori dal Woodside Hospice in Pinellas Park (Florida) dove era ricoverata – anzi, reclusa... – Terri Schiavo, la gente pregava e manifestava perché le fosse fatta salva la vita.
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Contraccezione e tutela della salute delle donne Antonella Ranalli
La storia di Essure, un sistema di sterilizzazione definitivo, composto da due piccole spirali che vengono inserite nelle tube attraverso l'utero e che formano una sorta di cicatrice che blocca il passaggio degli spermatozoi, impedendo la fecondazione.
a) Guida per l’applicatore; b) Utero; c) Applicatore; d) Spirale Essure; e) Tuba di Falloppio; f) Spirale Essure applicata correttamente
Finora sono morte dieci donne a causa di Essure
Il 28 settembre 2017 il Ministero della salute ha pubblicato sul proprio sito un avviso con cui la Bayer avvertiva i medici che avrebbe interrotto per sempre la vendita del dispositivo contraccettivo Essure e ritirato tutti quelli presenti nelle strutture sanitarie. La decisione era attribuita a ragioni commerciali e si negavano variazioni nel «profilo di beneficio» del prodotto. La realtà però era ben diversa (come l’espressione «avviso di sicurezza» nell’oggetto dell’avviso faceva sospettare) e per essere compresa richiede un salto indietro nel tempo di quindici anni. Era infatti il 2002 quando la Fda (l’Agenzia degli Stati Uniti per i farmaci) concesse il permesso di commercializzare Essure a Conceptus, una ditta californiana fondata con l’unico scopo di produrre quel dispositivo. Per le norme statunitensi (come del resto per quelle europee) i dispositivi medici sono soggetti a regole molto meno stringenti di quelle dei farmaci: a loro infatti si richiede «una ragionevole assicurazione di efficacia e sicurezza», una definizione soggettiva che ha ben poco di scientifico. In base a questi criteri la Fda si accontentò di tre studi pre-clinici: uno condotto su 37 femmine di coniglio (che mostrò un’efficacia del 60%, ma forse lo ritennero un risultato soddisfacente trattandosi di animali molto fecondi) e due longitudinali (non randomizzati, né in doppio cieco) che seguirono 926 donne solamente per un anno. In un lasso di tempo così breve gli effetti collaterali registrati furono ovviamente molto pochi, e così dopo l’entrata in commercio è toccato alle clienti scoprire che i danni provocati da Essure non sono né rari, né lievi. Dal 2002 sono state centinaia di migliaia le donne in giro per il mondo (la Bayer, che ha acquisito Conceptus nel 2013, dichiara di aver
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venduto 750.000 confezioni, ma non si sa quanti ne siano stati effettivamente impiantate) che si sono sottoposte all’inserimento di questa spirale di alluminio inossidabile, nitinolo (una lega di nickel e titanio) e polietilene tereftalato. Lo scopo del dispositivo è di creare nelle tube di Falloppio una reazione infiammatoria, con conseguente formazione di tessuto fibrotico e chiusura delle tube per impedire la risalita degli spermatozoi e quindi la fecondazione. La comunità medica internazionale avrebbe dovuto porsi una domanda piuttosto ovvia: perché la reazione infiammatoria dovrebbe limitarsi alle tube e non coinvolgere altri organi? La risposta a questa domanda che nessuno ha mai posto (per ignavia o per interesse) è comparsa sul corpo di migliaia di donne sotto forma di reazioni allergiche al nickel e di infiammazioni croniche scatenate dal polietilene, con sintomi quali eczemi, versamenti articolari, dispnea, perdita di memoria, alopecia, caduta dei denti, stanchezza e dolori cronici. Può inoltre accadere che la spirale si rompa o che si sposti in una sede inappropriata. Nel 2017 il dottor Myron Luthringerm, intervistato dal Washington Post, ha dichiarato: «Le spirali sono fragili e si spezzano con facilità mentre le fibre di polietilene spesso si conficcano nel tessuto circostante, un tessuto che è difficile da riparare, per cui è quasi sempre necessaria una isterectomia». Per conoscere con precisione l’incidenza di queste complicazioni bisognerà aspettare il 2023, quando la Bayer dovrà diffondere i dati del secondo studio post marketing ordinato dalla Fda; il primo si è concluso nel 2008 vantando un’efficacia del 100%, ma in un articolo pubblicato sul The New England journal of medicine tre ginecologi della Yale University hanno espresso «preoccupazioni riguardanti un follow-up incompleto e risultati errati, parziali e menzogneri, che ricordano quelli degli studi pre marketing. [...] Le evidenze suggeriscono che Essure non è né efficace, né sicura come la valutazione pre marketing ha indicato». Altre fonti di dati sono rappresentate dalle segnalazioni (volontarie) di effetti collaterali ricevute dalla Fda, che sono state circa 27.000, di cui 9.000 attestanti la necessità di rimuovere il dispositivo (quasi sempre mediante isterectomia) e in 10 casi è conseguita la morte della paziente. Ma, tutto considerato, ne valeva la pena? Essure era un metodo contraccettivo più efficace di quelli già esistenti? Gli unici due studi indipendenti esistenti hanno dato risposta negativa: paragonando gli esiti della sterilizzazione mediante legatura delle tube e quelli della sterilizzazione con Essure, il primo studio ha infatti rilevato tassi di gravidanza rispettivamente del 1,2% e del 5,7%, mentre l’altro ha riscontrato nel secondo gruppo una percentuale di rioperizzazione superiore di dieci volte rispetto al
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primo. Eppure, nonostante le evidenze scientifiche, le autorità di controllo di tutto il mondo hanno preso provvedimenti solo in seguito al clamore mediatico generato dall’attivismo delle vittime e, soprattutto, dall’uscita, nell’aprile 2018, del documentario di Netflix, The bleeding edge, dedicato alla mancanza di controlli sull’industria dei dispositivi medici. Purtroppo questa storia allucinante non è terminata con il blocco delle vendite (avvenuto nei vari paesi tra il 2017 e il 2018) perché tantissime donne hanno ancora Essure all’interno del proprio corpo, alcune centinaia sono in attesa dell’inizio delle cause di risarcimento danni contro la Bayer e, soprattutto, non c’è ancora stata la presa di coscienza necessaria per impedire che un fatto simile accada di nuovo. Nelle decine di articoli scritti sulla questione e nei gruppi Facebook delle pazienti si incolpano Big pharma, i politici, le agenzie del farmaco, i medici che hanno effettuato gli impianti trascurando il consenso informato, ma mancano ammissioni di responsabilità. Non c’è infatti nessuna traccia di donne che riconoscano l’irrazionalità delle proprie scelte né di medici che chiedano scusa per la violazione dell’etica professionale. I motivi sono facilmente intuibili: non è facile per le donne ammettere di soffrire di una “bimbo-fobia” talmente forte da accettare di lesionare il proprio corpo; né per la Bayer di aver anteposto gli interessi economici al benessere delle pazienti (la Cnn ha scoperto che dal 2013 al 2017 la Bayer ha sborsato, solamente negli Usa, 2,5 milioni di dollari in consulenze mediche legate ad Essure). E il fatto che questi comportamenti sembrano impossibili da sradicare è dimostrato perché c’è già chi è pronto a riempire il vuoto di mercato: un anno fa l’americana Femasys ha infatti iniziato uno studio clinico per valutare efficacia e sicurezza di Fembloc, «un polimero che stimola nelle tube la formazione di tessuto fibrotico al fine di creare una chiusura permanente». Goya diceva che il sonno della ragione genera mostri. Ma anche l’ossessione per l’autodeterminazione non scherza.
La comunità medica internazionale avrebbe dovuto porsi una domanda piuttosto ovvia: perché la reazione infiammatoria provocata dal dispositivo per chiudere le tube avrebbe dovuto limitarsi alle tube stesse e non coinvolgere altri organi?
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In cineteca
Segnaliamo in questa pagina film che trasmettono almeno in parte messaggi valoriali positivi e stimolano il senso critico rispetto ai disvalori che vanno di moda. Questo non implica l’approvazione o la promozione globale da parte di Pro Vita & Famiglia di tutti i film recensiti.
Atto di fede Titolo: Breakthrough Stato e Anno: Usa, 2019 Regia: Roxann Dawson Durata: 116 min Genere: Drammatico, Biografico Tratto dal romanzo di Joyce Smyth, The Impossible: The Miraculous Story of a Mother’s Faith and Her Child’s Resurrection, il film narra la storia vera di John Smith, un ragazzo di quattordici anni che nel 2015 per un incidente finì sott’acqua in un lago ghiacciato. Ripescato per miracolo, per miracolo ebbe salva la vita. Ma ci voleva un ulteriore miracolo per non farlo rimanere gravemente handicappato. E la madre adottiva, obesa e diabetica, pregava, e gli amici intorno a lui pregavano (sono cristiani, appartenenti a una qualche chiesa protestante). Non vogliamo “spoilerare” il finale: il film è da vedere (si trova anche in internet) almeno per due motivi. Innanzitutto, perché è uno spaccato su una società americana viva e reale che però non conosciamo, dato che siamo abituati all’America che vi viene presentata dalle produzioni mainstream tutte “sesso, droga e rock ‘n roll”, che vanno per la maggiore. La regista è stata brava a mostrare, invece, la vera e concreta umanità dei diversi protagonisti,
che non sono affatto dei “santini infilzati”, ma persone in carne e ossa, alcune piene, sì, di fede, ma anche di dubbi, di difetti e di contraddizioni. Secondo: è un film che interroga e che fa riflettere, pone domande («Perché Dio fa i miracoli ad alcuni sì e ad altri no?») e non dà risposte. Forse perché una risposta talvolta non c’è. Forse perché bisogna imparare ad arrendersi, davanti al Mistero. Ma ciò non toglie che è un film che infonde speranza.
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In biblioteca La via, la verità e la vita G.J. Woodall IF Press
I volti della coscienza Massimo Gandolfini Edizioni Cantagalli
Scritto in occasione del cinquantesimo dell’Humanae vitae di Paolo VI e del venticinquesimo della Veritatis splendor di Giovanni Paolo, in un tempo in cui tutti iniziano a rendersi conto della gravità del crollo delle nascite nel mondo occidentale, questo saggio ci fa riflettere sul testo profetico di Paolo VI, che ha suscitato a suo tempo una forte reazione negativa. La Chiesa non è autrice della verità morale, ma ne è soltanto custode e interprete (Humanae vitae, n. 18); non lo è neanche la coscienza morale, che invece è il suo “testimone” e la cui «autorità deriva dalla verità sul bene e sul male morale» (Veritatis splendor, n. 60).
Alla luce del progresso neuroscientifico, il noto neurochirurgo e neuropsichiatra Gandolfini spiega con un linguaggio chiaro anche per i non addetti ai lavori cos’è il coma, lo stato di minima coscienza, lo stato vegetativo. Ci insegna che di irreversibile c’è solo la morte e che le persone non sono mai “vegetali”. Ci offre gli strumenti per difenderci dalla “neolingua” imperante, che cerca di farci assimilare in modo subdolo una mentalità eutanasica. E, soprattutto, ci fa capire che il cervello è un organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza umana.
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Quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro