ProVita Ottobre 2018

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MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES

Notizie

“Nel nome di chi non può parlare” Organo informativo ufficiale dell’associazione ProVita Onlus - Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -

C ERA UNA VOLTA IL

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POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMMA 1 NE/TN

Trento CDM Restituzione

Anno VII | Ottobre 2018 Rivista Mensile N. 67

MASCHIO

non con i miEi soldi

la cavalleriA È morta?

da ulisse a crono, passando per playboy

di silvana de mari, p. 12

di roberto marchesini, p. 20

di enzo pennetta, p. 24


MEMBER OF THE WORLD CONGRESS OF FAMILIES Notizie

EDITORIALE

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LO SAPEVI CHE...?

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ARTICOLI Dillo

Anno VII | Ottobre 2018 Rivista mensile N. 67 Editore ProVita Onlus Sede legale: viale Manzoni, 28 C 00185, Roma (RM) Codice ROC 24182 Redazione Toni Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel Piazza Municipio, 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti Cell. 377 4606227

@ ProVita 6 7

Versi per la Vita Silvio Ghielmi Allattamento, base per la vita

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Giulia Tanel

Non con i miei soldi

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Silvana De Mari

PRIMO PIANO La perduta autorità dell’uomo

La cavalleria è morta?

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Roberto Marchesini

Da Ulisse a Crono, passando per Playboy

Direttore responsabile Antonio Brandi

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Vincenzo Gubitosi

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Enzo Pennetta

Il maschio scomparso

Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi

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Giuseppe Fortuna

FILM: Skyfall

Progetto e impaginazione grafica

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Marco Bertogna

“Cambiare sesso” è troppo facile

Tipografia

Francesca Romana Poleggi

Mass media, veicoli della propaganda Lgbt

Distribuzione

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Giuliano Guzzo Hanno collaborato a questo numero: Marco Bertogna, Silvana De Mari, Giuseppe Fortuna, Silvio Ghielmi, Vincenzo Gubitosi, Giuliano Guzzo, Roberto Marchesini, Enzo Pennetta, Francesca Romana Poleggi, Giulia Tanel, Vito Verrese

I sacrifici umani all’alba del terzo millennio

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Vito Verrese

LETTURE PRO-LIFE

43

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28

32 L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. La rivista Notizie ProVita non ti arriva con regolarità? Contatta la nostra Redazione per segnalare quali numeri non ti sono stati recapitati e invia un reclamo online a www.posteitaliane.it Grazie per la collaborazione! Le immagini presenti in questo numero sono state scaricate legalmente da www.pixabay.it

Toni Brandi

EDITORIALE

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Qualche tempo fa un amico mi ha illustrato la tecnica del “maschio sterile” (oggi più nota come “tecnica dell’insetto sterile”), appresa da un bollettino della Iaea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). In certe zone dell’Africa equatoriale, si è tentato di debellare le pericolosissime mosche tse-tse con diversi tipi di insetticidi, senza alcun risultato. Finché non si è provveduto alla cattura di un massiccio numero di insetti di sesso maschile (facilmente distinguibili per il dimorfismo tra i sessi), i quali sono stati irradiati con raggi gamma a dosi tali da renderli sterili senza ucciderli, e poi sono stati rimessi in libertà. In breve la popolazione di mosche tse-tse nelle zone trattate si è estinta naturalmente e spontaneamente. Questo stesso metodo è poi stato adottato con grande successo nella lotta contro numerosi altri tipi di parassiti. Quello che vale per gli insetti, può funzionare anche con gli esseri umani? Negli ultimi decenni abbiamo assistito passivamente a una progressiva evirazione degli uomini e a una contemporanea maschilizzazione delle donne. È cominciata con la moda unisex negli anni Sessanta e oggi vediamo maschi con pelle glabra, sopracciglia definite, che usano creme, makeup e frequentano saloni di bellezza tanto quanto le donne. E non è solo una questione estetica. La femminilizzazione del maschio è il risultato finale della propaganda dell’ideologia gender, che rientra nella più ampia deriva nichilista tesa a creare una società sempre più “liquida”, dove l’essere umano conta meno degli animali. L’uomo diventa un pupattolo senza identità definita, in balia delle armi di “distrazione” di massa: smartphone, Tv, social e videogiochi creano nuove dipendenze, subdole e comunque pericolose, come la droga, che del resto ormai è sempre più libera. Stiamo assistendo alla realizzazione di un progetto di ingegneria sociale, potente e riccamente finanziato dai fautori della cultura della morte tesi a distruggere l’umanità? A guardare l’andamento demografico, soprattutto in Italia e in Europa, sembrerebbe di sì. Per questo siamo tutti – uomini e donne – chiamati a impegnarci in prima persona per contrastare questa tendenza transumanista. Un impegno che passa anche per la riscoperta del valore delle caratteristiche e delle doti che la natura ha dato agli uomini, quelle dei cavalieri di una volta (v. p. 20). Non è di moda riscoprirle e rilanciarle, ma tutti gli uomini, nel proprio intimo, desiderano incarnarle.


Lo sapevi che... ? IN ARGENTINA HA VINTO LA VITA: NO ALL’ABORTO!

In Argentina la legge per la legalizzazione dell’aborto è stata bocciata. La vita ha vinto (… e le agenzie hanno “faticato” a dare la notizia)! Scriveva La Repubblica: «Il Senato argentino ha respinto oggi [9 agosto, ndR] con 38 voti contrari e 31 favorevoli un progetto di Legge sulla interruzione volontaria della gravidanza. […] Secondo la legge argentina, il “no” del Senato significa che per un anno non sarà possibile ripresentare una nuova legge sullo stesso tema. Inoltre il 2019 sarà un anno elettorale e quindi poco opportuno per l’esame di temi con un contenuto di forte tensione sociale». Il popolo argentino è in maggioranza pro life e ha avuto la meglio sulla propaganda abortista, che ha reagito con azioni violente al risultato.

BAMBINI TRANS: AL MONDO NUOVO NON SERVONO NUOVE LEGGI

Alla fine di luglio il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), interpellato dall’AIFA, ha dato il proprio parere positivo all’uso della triptorelina per bloccare la pubertà in preadolescenti cui è stata diagnosticata la disforia di genere: si tratta di minori che “si percepiscono” di un “genere” diverso dal sesso biologico.

L’unica a votare contro è stata la professoressa Assuntina Morresi che, in un articolo inviato a ProVita, ha scritto: «[…] ci si chiede come sia possibile “esplorare” la propria identità, le proprie percezioni personali sull’essere maschio o femmina, in una esperienza di “neutralità” di genere, cioè se, bloccando la pubertà, si cancellano proprio i caratteri sessuali che quel genere esprimono». Per non parlare poi degli scarsi studi sulla triptorelina, del problema del consenso informato, delle conseguenze – documentate – che provoca il “cambio di sesso”… Siamo di fronte a una rivoluzione antropologica sempre più capillare, evidenzia la Morresi: sta a noi mettere in campo azioni incisive «per cercare di salvaguardare quell’umano di cui si stenta, ormai, a individuare la sagoma».

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Jeremiah Thomas era un ragazzo sedicenne forte e sorridente, giocatore di CONTRO L’ABORTO football ad alti livelli. Ne parliamo al passato perché il giovane è morto, FINO ALLA FINE vinto da un osteosarcoma (un tumore maligno raro) che non gli ha lasciato scampo. Eppure, soprattutto nelle sue ultime settimane, Jeremiah ha dato compimento alla sua vita parlando in maniera chiara contro l’aborto. Un’esposizione coraggiosa, la sua, che gli è costata la gogna sui social, che tuttavia non l’ha fatto desistere. Pochi giorni prima di morire, inoltre, Jeremiah ha pubblicato una “Lettera alla mia generazione”: «Siamo cresciuti – scrive – in una cultura di morte, confusione sessuale, immoralità e assenza di padre. Questa cultura della morte di cui parlo consiste in aborto, omosessualità e culto del suicidio. […] Ci è stata consegnata una distinta di merci che ci ha completamente distrutti. Nella nostra nazione, abbiamo scelto la morte e ricevuto la maledizione».

Due bioeticisti – John Appleby, della britannica Lancaster University, e Annelien Bredenoord, dell’University Medical Center di Utrecht – hanno lanciato una proposta sulla rivista Molecular Medicine: allungare il periodo in cui è possibile fare sperimentazioni sugli embrioni da 14 a 28 giorni.

EMBRIONI MANIPOLABILI PER 28 GIORNI? PER LA CLONAZIONE

I due bioeticisti sostengono – riportava l’Ansa – che «ci sono ragioni sia etiche sia scientifiche per estenderlo [il limite, ndR], ad esempio, a 28 giorni». Vogliono creare embrioni artificiali, con cellule staminali, senza ovulo né spermatozoo: questa si chiama clonazione (… ma, attenzione! Per la neolingua questa parola suona “male”, e allora non la dicono!). Giocare con la vita è un business che arricchisce economicamente tanti, mentre costa la vita a tanti bambini allo stato embrionale, impoverendo il mondo intero di risorse umane che mai più torneranno.

5 N. 67


Dillo @ ProVita

A

rrivano numerose le vostre lettere a questa Redazione, cari Lettori, e vi ringraziamo. Privatamente rispondiamo a tutte, mentre qui ne pubblichiamo solamente alcune. Confidiamo però che questo non vi scoraggi: continuate a mandarci il vostro contributo a dillo@notizieprovita.it. Per rispettare la privacy pubblicheremo solo il nome di battesimo con cui firmate la vostra lettera, a meno che non ci diate esplicitamente altre indicazioni in merito.

Gentile Redazione, del mio paese, in Provincia desidero condividere con voi alcuni fatti accaduti nella scuola di Bolzano. classe alcune ore di Da anni la scuola elementare di lingua tedesca propone in quinta invitati a una serata stati sono educazione sessuale. Come ogni anno i genitori delle quinte referenti (un uomo due i ere conosc di presentazione del programma, dove abbiamo potuto ni. bambi ai alità” e una donna) che avrebbero spiegato – a lor dire – la “sessu come si svolge la lezione: Nel corso dell’incontro i referenti hanno spiegato ai genitori sessuali in pezza, il organi di tra le altre cose, ai bambini viene spiegato, con l’ausilio concepimento e la il é nonch nile, funzionamento degli organi sessuali maschile e femmi i, e leggono un animat i carton di nascita. Fanno poi vedere un video, presumo in forma libretto. e su un foglio, in forma I bambini erano stati invitati in precedenza dalle maestre a scriver ravano ricevere una deside quale anonima, qualsiasi domanda sulla sessualità per la classe dai referenti. in e rispost risposta. A queste domande sarebbero poi state date ata, ma la risposta formul l’ha che Quindi la domanda è anonima, per tutelare il bambino sentire certe cose, a pronto ancora la devono ascoltare tutti. Per cui se un bambino non è fatto partecipi hanno ci ti referen I la sua sensibilità non viene né rispettata, né tutelata. non hanno po purtrop ma ri, genito di queste domande leggendole tutte alla serata per i domande le Fra . classe in are fatto altrettanto sulle risposte che sarebbero andati a formul o?». orgasm a c’erano: «Cosa significa perversione?», oppure «Cosa signific maschi vengono invitati a Poi c’è uno spazio per lavoretti con la plastilina dove i bambini trovata… questa di formare un pene. Vi sfido a indovinare il senso pedagogico classe, affermando in vativi preser Per finire, i referenti hanno detto che non mostreranno con i temi della ntarsi confro classe che è ancora troppo presto per i bambini della quinta uno. Vogliamo rne mostra a ti prevenzione. Però… se i genitori desiderano, sono dispos chiamarla coerenza pedagogica? Passo la palla a chi legge. compagni che in Io i miei figli li ho tenuti a casa, ma hanno appreso da uno dei loro già, perché questo a... plastic in classe il referente ha spiegato come si chiama un pene a tal punto da “must” un , cucina oggigiorno è un utensile tanto comune come il mixer in l’ironia. emi Passat ni. bambi essere vitale come informazione per il sano sviluppo dei

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Alessandra


Versi per la Vita Silvio Ghielmi, classe 1926, laureato in chimica a Milano, Master alla Harvard Business School, lunga esperienza nella produzione di materie plastiche, è il meno giovane di una famiglia numerosa (85 membri). Già cofondatore e presidente di Mani Tese, nel 1978 è stato uno dei fondatori del Movimento per la Vita. Poi, insieme a Francesco Migliori, Mario Paolo Rocchi e Giuseppe Garrone [nella foto], nel 1994 ha dato avvio al Progetto Gemma, la nota “adozione prenatale a distanza”, per sottrarre all’aborto le mamme incinte in difficoltà (le donazioni arrivano specificamente e direttamente alla persona prescelta, non si tratta di una generica questua). Diffonde queste meditazioni in versi come strumento di legame con chi resiste in difesa di Verità e Vita. Lui ci ringrazia per questa pagina mensile dedicata ai suoi versi pro vita: noi ringraziamo lui e siamo onorati di ospitare il suo contributo. AMA IL PROSSIMO TUO

LA GRANDE PIAGA

Nemmeno più l’amore per se stesso per chi ha tendenza folle al suicidio, ma adesso, terminati i “tempi bui”, e procedendo tronfi nel Progresso, surroga un qualunquissimo fastidio per procurare il suicidio altrui.

Come un’antica piaga dell’Egitto adesso abbiam l’aborto ch’è un diritto. È una sventura tra le più funeste; autentico ritorno della Peste, che, subdola, procede senza tregua dentro codardo mondo che si adegua.

Lo si può far con adeguata legge, provvista dal Governo che ci regge, con leste procedure sanitarie, e “allegre” scelte dette volontarie.

Silenzio dolosissimo e balordo, fingendo d’ignorar che siamo al bordo ormai di irreversibile collasso.

Che furono materie di esultanza in questo folleggiare in fosca Danza. ------Silvio 30.04.2018

Intanto i condottieri intrepidi ed arzilli continuan con il loro turpe chiasso, come un gracchiare immondo di cicale od un allegro saltellar di grilli. Per loro è tanto semplice e banale. È solamente un vago Minor Male. ------Silvio 28.03.2018 7 N. 67


Allattamento: di Giulia Tanel

base per la vita

Da circa 25 anni in Italia, dall’1 al 7 ottobre, si svolge la Settimana per l’allattamento materno (Sam) «L’allattamento al seno è il modo normale di fornire ai bambini le sostanze nutritive di cui hanno bisogno per la crescita e il sano sviluppo. Praticamente tutte le madri possono allattare, a condizione che abbiano informazioni accurate, il sostegno della famiglia, del sistema sanitario e della società in generale». Scrive così l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che negli ultimi anni ha investito molto a livello divulgativo e informativo per sostenere la pratica – salutare per il bambino, ma anche per la mamma – dell’allattamento al seno. Ed è proprio su queste affermazioni che si basa la Settimana per l’allattamento materno (Sam), che da circa 25 anni si svolge in Italia dall’1 al 7 ottobre con lo scopo di informare, di creare sinergie e, soprattutto, di tornare a rimettere al centro questa pratica quale primo tassello della relazione madre-figlio, nonché di una corretta alimentazione. Il motto scelto per l’edizione Sam del 2018 è “Allattamento: base per la vita” e diverse sono le iniziative in programma. 8 N. 67

Di fronte al tema dell’allattamento, tuttavia, sono molte le preoccupazioni e i luoghi comuni che circolano tra le future mamme (e non solo). Con questo breve articolo, non medico-scientifico, bensì di carattere puramente divulgativo, vogliamo andare ad analizzarne e sfatarne alcuni, in favore di mamme e bambini. «Io potrò allattare?» Tendenzialmente tutte le donne possono allattare, salvo una percentuale molto ridotta che presenta problemi di carattere fisico od ormonale

IL PRIMO BISOGNO DEL BAMBINO, ANCORA PRIMA DI ESSERE NUTRITO, È QUELLO DI SENTIRE UN CONTATTO FISICO, DI ESSERE ACCUDITO

che impediscono la produzione di latte. Già nel secondo trimestre di gravidanza il seno della donna si prepara per produrre latte. Subito dopo il parto, nei primi giorni dalla nascita del bambino, il latte che viene prodotto prende il nome di “colostro” e ha un colore giallino: esso contiene


tutto quello di cui ha bisogno il bambino, lo protegge dalle infezioni e favorisce l’eliminazione del meconio, ossia le prime feci. In seguito, solitamente a 3/5 giorni dal parto, arriva la cosiddetta “montata lattea” e il latte si fa bianco e abbondante, con una regolazione della quantità relazionata alla suzione del bambino. «Allattare può far male?» Allattare non provoca dolore. Quando succede è perché il bambino non viene attaccato bene, oppure si attacca troppo poco, o per qualche problema ai capezzoli della madre. È per questo che talvolta possono insorgere ragadi, mastiti e ingorghi: si tratta di sintomatologie che vanno valutate caso per caso per capire quali azioni mettere in atto, ma che normalmente si superano con un po’ di sana testardaggine e di buona volontà. Anche in tal senso è molto importante che la donna sia ben accompagnata nei primi giorni di allattamento e che abbia la possibilità di avere accanto a sé figure di riferimento esperte in allattamento. «Ogni quanto bisogna allattare? E se poi il bambino si “vizia”?» Oggigiorno prevale l’impostazione di consigliare

OGNI MAMMA HA IL LATTE ADATTO PER IL PROPRIO BAMBINO: BASTI SAPERE CHE ESSO VARIA DI FIGLIO IN FIGLIO E CHE SI MODIFICA A SECONDA DELL’ETÀ DEL BAMBINO E DEI SUOI BISOGNI l’allattamento a richiesta, almeno per il primo mese e mezzo di vita del bambino. Questo significa che la mamma deve essere pronta a fornire il seno ogni volta che il bambino fa capire di avere fame, il che nel primo periodo di vita avviene tra le 8 e le 12 volte al giorno, con variabilità soggettive e legate al momento di sviluppo del bambino. È evidente che questo comporta una disponibilità non secondaria da parte della mamma, ma gli studiosi sono concordi nel dire che è questo l’approccio più adatto, soprattutto nei primi quaranta giorni di vita del bambino, anziché la consuetudine di dare da mangiare ogni tre ore, a scadenza fissa. Sarà poi il bambino a regolarsi autonomamente. In questa ottica non deve preoccupare l’idea di “viziare” il bambino, mostrandosi troppo disponibili: non va infatti dimenticato che il primo bisogno del bambino, ancora prima di essere nutrito, è quello di sentire un contatto fisico,

di essere accudito (… dopo nove mesi nella pancia, è più che comprensibile!). «Fino a quando è consigliato allattare?» L’Oms afferma che fino ai sei mesi è raccomandato l’allattamento esclusivo al seno, senza l’introduzione di altri cibi, pur sottolineando altresì che il periodo in cui il bambino necessita di latte materno si estende fino all’anno di età, quindi anche chi smette di allattare prima dei 12 mesi deve comunque utilizzare per un periodo il latte in polvere. Questo significa che fino al momento dell’introduzione dell’alimentazione complementare (il termine “svezzamento” è oramai superato) il latte materno è fondamentale: una volta poi che il bambino ha compiuto i

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sei mesi e notato che è egli stesso per primo a mostrare interesse per il cibo, che riesce a stare seduto da solo e che non mostra più il riflesso di estroflessione della lingua nel momento in cui gli si avvicina qualcosa alla bocca, si potranno introdurre anche altri alimenti, ovviamente senza interrompere in maniera repentina l’allattamento, che – sottolinea ancora l’Oms – può proseguire «fino a due anni di età e oltre», in base a una scelta soggettiva di mamma e bambino, talvolta anche legata a circostanze imposte dall’esterno (la necessità di tornare al lavoro, il distacco di molte ore al giorno dal bambino, una nuova gravidanza…). «Mi hanno detto che il mio latte a un certo punto diventa acqua. È vero?» Ogni mamma ha il latte adatto per il proprio bambino: basti sapere che esso varia di figlio in figlio e che si modifica a seconda dell’età del bambino e dei suoi bisogni nutrizionali, fornendogli costantemente tutto quello di

cui ha bisogno e garantendo altresì una protezione a livello di malattie. «Che vantaggi ci sono ad allattare e a non smettere dopo pochi mesi?» Non entriamo qui nel merito delle scelte soggettive, tuttavia le evidenze ci dicono che – naturalmente per chi ne ha la possibilità – il momento dell’allattamento è molto importante. Lo è per il bambino, sia sotto il profilo fisico (nutrimento, protezione immunitaria, minor rischio di morte improvvisa…), sia – come vedremo nel prossimo punto – per quanto riguarda lo sviluppo di un attaccamento sicuro. E lo è per la madre che, allattando, si riprende più velocemente dal parto e riduce le perdite di sangue, vede diminuire il rischio di cancro della mammella prima della menopausa, di cancro dell’ovaio e il rischio di osteoporosi… oltre, ovviamente, ad avere il prezioso dono di poter passare del tempo esclusivo con il proprio bambino.

ALLATTANDO SI RIDUCONO I RISCHI DI CANCRO DELLA MAMMELLA E DELL’OVAIO E IL RISCHIO DI OSTEOPOROSI

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«L’allattamento è solo nutrimento?» Come si è accennato, allattare al seno il proprio bambino va ben oltre l’assolvimento di una mera funzione nutritiva. Il che naturalmente non significa che le mamme che non allattano al seno non possano costruire un legame con il loro piccolo, anzi: quel che conta è infatti la qualità della relazione che ha origine dal gesto dell’allattare, che è alla base di un attaccamento sicuro del bambino ed è il primo tassello del futuro che sarà. Un bambino coccolato, che si è sentito accolto e voluto bene, sarà infatti un adulto consapevole di sé, con una buona autostima, emotivamente bilanciato. Credere che crescerà “mammone” è errato: un bambino che ha sviluppato un buon attaccamento sarà invece molto più propenso a staccarsi dalla madre per andare a esplorare il mondo.


AUTUNNO 2018 30 NOVEMBRE: PAVIA 7 DICEMBRE: REGGIO EMILIA

3 DICEMBRE: MILANO

5 DICEMBRE: LUCCA

11 DICEMBRE: UDINE

13 DICEMBRE: BOLZANO

PER MAGGIORI INFORMAZIONI SU LUOGHI E ORARI, SEGUICI SUL SITO E SUI SOCIAL! 11 N. 67


Non con i miei soldi

di Silvana De Mari

L’utero è tuo, lo gestisci tu e ottieni l’aborto, che è un disastro biologico. Ma non con i miei soldi…

Come diceva la buonanima di George Orwell, che era ateo, vale la pena di battersi per l’ovvio. Nel momento in cui abbiamo perso l’ovvio, abbiamo perso il reale, più graziosamente chiamato anche verità. Tutto diventa un baratro. Christopher Hitchens (19492011), giornalista e scrittore, era ateo pure lui, un ateo Doc, duro e puro. La sua indiscussa laicità, una vita passata a insultare Madre Teresa, lo rendono quindi un testimone attendibile, non accusabile di essere un bigotto baciapile, o anche solo vagamente credente, posizioni che nel mondo attuale sono una squalifica totale. Hitchens affermava che il feto è vivo e che è umano: «Sono sempre stato persuaso del fatto che l’espressione “bambino non nato” sia una genuina descrizione della realtà materiale. Ovviamente il feto è vivo, quindi la disputazione se debba o meno essere considerato “una vita” è casuistica. Lo stesso si applica, da un punto di vista materialistico, alla questione se questa vita sia o no “umana”. Cos’altro potrebbe essere? […] 12 N. 67

UNA DONNA NON VUOLE IL FIGLIO E CREDE DI VOLERE INTERROMPERE LA GRAVIDANZA, CHE INVECE IL SUO CORPO VUOLE

Dicono che l’aborto legale non obbliga nessuno. Ma il bambino abortito non lo obbligano a morire? Al fine di porre termine a una gravidanza, devi ridurre al silenzio un cuore che batte, spegnere un cervello che cresce e, al di là del metodo, rompere delle ossa e distruggere degli organi». In effetti che un organismo in cui batte un cuoricino sia vivo è un’affermazione ovvia, e che un feto umano sia appunto umano, non sia né un cane, né un gatto, né un canarino, è altrettanto ovvio.

Quindi l’aborto uccide un organismo umano. Questo è ovvio e reale, come il fatto che due più due fa quattro, non è un discorso religioso, ma semplicemente un discorso ovvio. Il suddetto organismo umano, che suona più morbido e meno impegnativo di creatura umana, ma il significato è lo stesso, sta dentro un’altra creatura umana, che lo nutre e lo protegge, che per comodità


NON CI INVENTIAMO CHE LA CREATURA UMANA NON SIA UNA CREATURA, NON SIA UMANA E NON MUOIA. E LA PROPRIETARIA DELL’UTERO SI ASSUMA LA RESPONSABILITÀ DELLA VERITÀ

descrittiva potremmo chiamare la proprietaria dell’utero così il linguaggio resta deliziosamente neutro, e nessuno ci accusa di terrorismo psicologico. Se la proprietaria dell’utero non vuole la creatura umana che sta dento il suo utero, dovrebbe avere il diritto di eliminare questa creatura, operazione che vuol dire ucciderla. Riconosciamo questo diritto, e ci limitiamo a pretendere la verità. La verità è che la proprietaria dell’utero, che è suo e se lo gestisce lei, ha diritto di uccidere l’organismo umano, cioè la creatura umana, cioè il bambino non nato che è dentro all’utero, ma pretendiamo che siano usate le parole vere. L’utero è suo quindi la donna non può che avere il diritto di vita e di morte sulla creatura umana contenuta nell’utero, ma non ci inventiamo il falso.

Non ci inventiamo che la creatura umana non sia una creatura, non sia umana e non muoia. Quindi la proprietaria dell’utero si assuma la responsabilità della verità. In nome del mio diritto a non cambiare la mia vita, io ho la volontà di uccidere l’organismo umano che porto nell’utero che, se nascesse, sarebbe il mio bambino. Gli antichi romani erano gente pragmatica. Il padre aveva diritto di vita e di morte sul figlio. Lui lo manteneva, lui poteva ucciderlo se non aveva voglia di mantenerlo. I Romani però non disumanizzavano il figlio. Non si inventavano che il figlio non era una creatura umana. Riconoscevano che era una creatura umana e che il padre aveva il diritto di assassinarlo senza ricevere punizioni. Questo assassinio non era né raccomandato né stimato. Chi lo commetteva non veniva punito, ma usciva dalla società civile. Oggi sui giornali femminili l’aborto viene venduto come un’opzione ovvia, anche carina e simpatica, una di quelle tappe della vita dove prima o poi bisogna passare, come il servizio militare ai tempi in cui si faceva. C’era stato un certo entusiasmo sui giornali femminili per l’aborto, quando Marina Abramovic dichiarò di averne fatti tre perché altrimenti la sua arte ne avrebbe risentito,

molti giornali femminili hanno inneggiato alla libertà e all’autodeterminazione. Non è un caso che l’arte della signora Abramovic consista nel farsi torturare dal pubblico senza cambiare espressione. Invece l’aborto è una follia, l’eclissi della ragione. Noi abbiamo disumanizzato il feto, lo abbiamo ridotto a cosa. Il diritto di ucciderlo diventa una bella festa con bandierine colorate e girotondi. Il feto è descritto e sentito come un parassita, un corpo estraneo. In realtà è un figlio, e il corpo della proprietaria dell’utero in realtà è il corpo della mamma: tutti i leucociti della mamma si fermano davanti al piccolino, anche se ha un patrimonio genetico diverso, tutto il corpo di mamma si modifica di ora in ora in armonia con le modifiche del piccolo, le mammelle crescono per poterlo nutrire, la mamma dorme moltissimo perché nel sonno il corpo del piccolino cresce meglio. Se l’io cosciente della donna pensa di non volere il figlio, il suo io inconscio, sempre, lo vuole con la potenza arcaica dei nostri corpi straordinari che hanno la arcaica magia di dare la vita, di proteggerla e di nutrirla e se il processo viene interrotto l’io inconscio si irrita, lui il bimbo lo voleva, si irrita e diventa una belva, e 13 N. 67


Secondo gli abortisti il feto non è un essere umano: significa che una donna concepisce esseri non umani?

NON VOGLIO IL TUO BIMBO SULLA COSCIENZA. NON VOGLIO IL TUO RIMPIANTO SULLA COSCIENZA. È LA MIA MANIERA DI AMARTI

scatena una serie di disastri, depressione, ansia, malattie allergiche, scelte autodistruttive, un amaro in bocca, un’ombra di morte sempre presente, lieve, in sottofondo, come l’odore di un topolino morto rimasto a marcire nella dispensa. Quindi torniamo alla verità: una donna non vuole il figlio, crede di volere interrompere la gravidanza, che invece il suo corpo vuole. Quel figlio morirà prima di nascere. Questa è una scelta. Il Sistema Sanitario Nazionale non paga le scelte, ma le cure obbligate. Curare un cancro non è una scelta. E non può causare rimpianto. L’aborto volontario è una scelta, può causare rimpianto, e porta alla morte di un organismo umano che ha un Dna unico e irripetibile. Non con i miei soldi. 14 N. 67

Se questo organismo viene soppresso con il mio denaro, io divento responsabile della morte di un organismo umano unico e irripetibile. Non col mio denaro. Ogni donna del suo utero faccia quello che vuole, inclusa una scelta anti biologica che porta alla morte di un organismo umano unico e irripetibile, ma con il denaro suo, non con il mio. Questo è un articolo pro choice, la mia scelta di non finanziare un disastro biologico. Not with my money. Non voglio il tuo bimbo sulla coscienza. Non voglio il tuo rimpianto sulla coscienza. È la mia maniera di amarti. Anche un bimbo nato da uno stupro è un bimbo. Per metà figlio di un orco, per metà figlio della mamma, anche davanti a

lui i linfociti si fermano, anche nella sua attesa le mammelle si gonfiano. Tutti noi, tutti, tutti coloro che stanno leggendo queste righe, tutti, abbiamo la stessa storia. Nelle ascendenze di ognuno di noi c’è almeno uno stupro etnico, probabilmente ben più di uno, una madre stuprata che ha accettato di mettere al mondo il suo bambino. Lo stupro è una violenza atroce, un aborto anche: non collaboriamo ad aggiungere violenza a violenza. Lo Stato non può finanziare l’eliminazione di Dna umano unico e irripetibile. Non vogliamo finanziare la morte. Un cuoricino che si ferma, è morte. È la nostra maniera di amarvi.


A DIFFONDERE LA CULTURA DELLA VITA! Per abortire fino a sei mesi (e oltre) bisogna trovare una “buona scusa” (per esempio? Il piede torto, o il labbro leporino, o la Trisomia 21!...). Ma fino a dodici settimane la legge italiana consente l’uccisione dei bambini a richiesta, senza troppe spiegazioni. La spilletta colore oro che vedete è la riproduzione esatta della grandezza dei

piedini di un bambino alla dodicesima settimana di gestazione: per alcuni è ancora un «grumo di cellule» o il «prodotto del concepimento». Il bambino in plastica è invece la riproduzione di com’è un bimbo nella pancia a 10 settimane. Il portachiavi, infine, è un utile accessorio per ricordare i cinque anni della nostra Notizie ProVita.

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di Vincenzo Gubitosi

La perduta autorità dell’uomo

Abbiamo parlato del “maschio scomparso” con don Mauro Tranquillo, della FSSPX, che ci ha fatto riflettere sul problema alla radice: la demolizione (e la demonizzazione) dell’autorità Quando si parla di femminilizzazione dell’uomo, molti sono portati a pensare al maschio effeminato o sessualmente confuso. Ma è davvero a questo che ci riferiamo? No, questo è un epifenomeno, un fatto secondario che accompagna il problema della crisi della figura maschile; queste sono solo le punte di una questione che è molto più radicale e riguarda il concetto di autorità. È perciò di capitale importanza sforzarsi di capire qual è il significato dell’autorità maschile di cui parla la natura umana prima ancora della Sacra Scrittura; e tanto più è importante quanto più questo principio è stato ridicolizzato, dal femminismo sicuramente, ma anche da un certo modo di agire dell’uomo stesso nel corso della Storia, e soprattutto in questi ultimi tempi. Questa caricatura è stata realizzata come se l’autorità avesse lo scopo di esaltare se stessa, schiacciando i suoi subordinati. È evidente che 16 N. 67

un’idea dell’autorità di questo tipo non può che indurre a respingerla. L’autorità stessa di Dio, Padre per eccellenza, è costantemente rigettata come qualcosa d’inaccettabile, se non di malvagio: è chiaro che in un quadro così delineato sarà l’uomo stesso a rifiutare di essere rinchiuso in questo tipo di figura, visto come odioso. In realtà, l’autorità ha il dovere, senza bisogno di imposizioni, di far crescere i sottoposti. In questo senso la figura del padre, immagine di Dio, doveva rappresentare al mondo questo principio: il padre è colui che fa crescere i propri figli e la propria moglie, sia in senso materiale sia spirituale, dimenticandosi di se stesso, mettendosi a disposizione per elargire quanto è necessario a tale crescita. Questo lo deve fare, e lo può fare, abitualmente senza bisogno di imposizioni: ogni volta che l’autorità, specie se familiare, deve ricorrere a imposizione autoritaria e non autorevole, significa che sta fallendo.

LA PROGRESSIVA E ATTUALE FEMMINILIZZAZIONE DELL’UOMO, FINO ALLA CONFUSIONE SESSUALE, È UN EPIFENOMENO, UN FATTO SECONDARIO CHE ACCOMPAGNA IL PROBLEMA DELLA CRISI DELLA FIGURA MASCHILE

Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo, 1668, Eremitage, San Pietroburgo Primo piano


Questa autorità, violenta e impositiva, è quella che è stata presentata (giustamente) come negativa e quindi tutti l’hanno rifiutata; ma, come si è detto, essa è solo la caricatura di un’autentica figura paterna.

L’AUTORITÀ, L’AUTOREVOLEZZA NON È TIRANNIA, BENSÌ SERVIZIO

Possiamo dire che questo processo di rifiuto inizia con la rivolta libertaria del ’68? Tale fenomeno è ben antecedente a questo periodo storico. Nel ’68 forse comincia a toccare più intimamente le famiglie e perciò l’uomo comune, nella sua vita quotidiana, comincia a sradicarsi, a disadattarsi dal suo ruolo. In realtà la crisi dell’autorità è molto più antica. Senza risalire fino al peccato originale, bisogna sicuramente arrivare all’epoca dei lumi e alla Rivoluzione Francese. Quella caricatura dell’autorità regia che fu l’assolutismo, che faceva della volontà del sovrano la legge, dimenticando che tutti siamo soggetti a un medesimo ordine di cose, ha provocato con la sua violenza

L’AUTORITÀ NATURALE DEL MASCHIO È NECESSARIA ALLA SUA VOCAZIONE A PROTEGGERE E A CUSTODIRE LE PERSONE A LUI CARE

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volontarista la Rivoluzione, un po’ come la deformazione dell’autorità paterna ha favorito il femminismo. Il rifiuto della Paternità di Dio, che ha origine nel giardino dell’Eden, si è così esteso a tutte le società, diventando rifiuto della paternità dei sovrani, del Papato stesso e infine dell’uomo nella famiglia. Se dunque parliamo di “autorità” in relazione al maschio, stiamo dicendo che si tratta di un ruolo che gli è legato, in certo qual modo, naturalmente; ed è esattamente ciò che la cultura odierna contesta. La necessità dell’autorità è un’esigenza della natura, e anche all’interno della famiglia l’autorità paterna si spiega attraverso il dato della natura: è normale che la donna, che deve generare i figli, trascorra dei periodi in cui è, per così dire, più vulnerabile, e perciò

senta il bisogno di affidarsi a una figura – l’uomo – che possa proteggerla. Ciò va inteso in senso lato ovviamente: non si tratta della protezione dalle bestie feroci, come se fossimo all’età della pietra, bensì di quella sicurezza, certo, materiale, ma anche psicologica, sentimentale, di cui sente il bisogno e che le dà la stabilità nel momento in cui deve mettere al mondo i figli per assicurar loro un futuro. Questa dimensione è radicalmente intima alla coppia in quanto società naturale. Non bisogna ridurla a uno stereotipo, ma arricchirla di tutto ciò che la ragione umana (che fa parte della natura umana) e la cultura ci danno, permettendoci di affinare questi modelli e di capirne il fondamento come anche le varie manifestazioni storiche: gli eccessi e gli errori così come i pregi. Però in tutto questo c’è qualcosa di radicale e non meramente culturale: il fatto, per l’uomo, di dover essere un punto stabile per la donna. Solo così si può comprendere il senso dell’autorità paterna come destinata al bene degli altri membri della società familiare, come ciò che produce l’augmentum (da cui 17 N. 67


auctoritas), ossia l’aumento, la crescita dell’altro e quindi il suo bene. La Chiesa è stata costantemente accusata di favorire l’oppressione della donna, proprio a causa del principio di autorità che viene ricondotto dalla cultura femminista al maschilismo quale retaggio di una società patriarcale. Secondo questa visione la rivolta delle donne e la loro mascolinizzazione sarebbero conseguenze di un’oppressione. È la cultura della gnosi (e quindi del peccato originale) che, dipingendo Dio come oppressore, riflette logicamente questa visione sull’autorità che di Dio, in qualche modo, porta l’impronta. Certamente l’abuso dell’autorità, nel corso della Storia, ha contribuito ad approdare a questo tipo di concezione. In questo non si può negare che i movimenti di protesta potessero vantare delle ragioni. La Chiesa, rimandando sempre alla figura di Dio che è Padre, che ama i suoi figli e che dà la vita per loro, offre sempre un modello di vera autorità familiare (così come di vera autorità ecclesiastica). Purtroppo l’intervento in sede di catechesi non è sempre stato all’altezza di questa dottrina: o lasciando che degli abusi insorgessero nelle famiglie o assecondando il mondo in quella concezione 18 N. 67

sbagliata che ha portato alla reazione femminista. La mascolinizzazione della donna può essere anche un effetto di compensazione, poiché se non si trova al di fuori, nel suo luogo naturale, quella stabilità di cui si ha bisogno, la si deve procurare da sé; però si finisce per fare una violenza su se stessi, nel bene e nel male. Ci troviamo, nella Storia, davanti a figure femminili molto forti, alcune riuscite e altre infelici; ma l’assenza di uomini che rappresentino questo modello, in parte spiega questo tipo di reazione. Non quella che nega il principio dell’autorità, ma quella che deve fare di necessità virtù… Quindi la ribellione femminista o femminile è parzialmente giustificabile? La ribellione contro i princìpi non è mai giustificabile, però tutte le rivoluzioni, se hanno successo, sono spiegabili. Il successo di una rivoluzione riposa sulla crisi dell’autorità. È questo un punto fondamentale: l’accusa, in questo caso, della mascolinizzazione della donna va rivolta all’autorità che ne doveva essere responsabile, ossia l’uomo.

È inutile parlare di autorità se poi scarichiamo la responsabilità su chi a questa autorità dovrebbe essere sottoposto. Se in una società gli inferiori delinquono, la responsabilità è da ascrivere innanzitutto ai superiori che non sono in grado di far valere la loro autorità. Ovviamente anche altre cause possono concorrere, ma il cattivo comportamento dell’autorità è sempre il fattore determinante. Gli esempi fatti poco sopra circa la società politica vanno letti in questo senso. Al di là dei grandi movimenti culturali e delle questioni di principio, secondo lei qual è, nel concreto, la causa che porta sempre più donne a prevaricare e sempre più uomini a “ridursi”? Credo che il problema sia legato o alla paura, da parte degli uomini, di presentarsi come rivestiti di un’autorità, o a un

LA CULTURA DELLA GNOSI DIPINGE DIO COME OPPRESSORE, IL PADRE COME TIRANNO E MINA IL TESSUTO SOCIALE Primo piano


LA RIVOLTA FEMMINISTA SI PUÒ SPIEGARE IN PARTE PER IL FALLIMENTO DELL’AUTOREVOLEZZA DELL’UOMO CHE È DEGENERATA IN ABUSO E PREVARICAZIONE esercizio di questa che viene fatto con imposizione. In realtà, è solo sforzandosi di diventare migliori che si può essere all’altezza di un ruolo di guida e dare qualcosa agli altri: se l’uomo, invece di rappresentare un modello da imitare per virtù, stabilità, onestà, ecc., si “riduce” a rappresentare i propri capricci, a curare i propri interessi particolari, non può stupirsi poi se il ruolo che deve ricoprire lui venga assunto dalla donna. E questo difficilmente avviene senza prevaricazione… Nella sua esperienza pastorale ha avuto occasione di riscontrare, ad esempio tra i giovani, questo tipo di deformazione? Direi che ci sono un paio di tendenze: da un lato si registra, anche nei ragazzi migliori, che si sforzano di recuperare i princìpi,

un’inclinazione che non va verso l’abnegazione, lo sforzo di diventare migliori, ma piuttosto di affermare che le cose devono essere così punto e basta; il che è un assurdo, perché il rispetto deve scaturire naturalmente dalla constatazione di un impegno verso il bene: un’autorità che pretende rispetto senza essere virtuosa, è semplicemente tirannica e finisce per delegittimarsi da sola. D’altra parte, invece, si riscontra sempre di più la tendenza a non impegnarsi, la fuga pura e semplice dalle responsabilità. Oggi tanti giovani hanno timore di andare oltre, di dover essere un punto di riferimento, e perciò si sottraggono il più possibile: sia dilazionando il matrimonio, sia assumendo comportamenti mondani e rifiutando una relazione stabile. In che senso possiamo dire che Nostro Signore ha liberato la donna? Se escludiamo la dimensione soprannaturale della liberazione dal peccato, che riguarda ugualmente i due sessi (in quel

senso non c’è più uomo né donna, come dice San Paolo) si può parlare di liberazione se si pensa alla schiavitù della donna in alcune forme sociali in cui è esistita una dipendenza di tipo servile della moglie dal marito, e che la Chiesa, fin dall’inizio, ha combattuto. Il punto però è questo: per gli gnostici prima, e i libertari poi, non esistono dipendenze buone. Dal momento in cui si ammette la necessità di una dipendenza si fa sempre, secondo loro, qualcosa di sbagliato e quindi non si potrà mai dire che Gesù Cristo ha liberato la donna, perché non ha mai disciolto l’ordine gerarchico del Creato voluto da Dio. Se invece si capisce che la dipendenza da un’autorità buona e ben esercitata è un grandissimo vantaggio, perché la sua funzione è di guidare verso il bene, allora si capirà anche che quella operata da Gesù è la liberazione da ogni forma di tirannia, perché il modello dell’autorità paterna diventa Dio stesso.

È SOLO SFORZANDOSI DI DIVENTARE MIGLIORI CHE SI PUÒ ESSERE ALL’ALTEZZA DI UN RUOLO DI GUIDA E DARE QUALCOSA AGLI ALTRI

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? A T R O M È A I R E L L A LA CAV di Roberto Marchesini

Fino a qualche tempo fa si diceva «quell’uomo è un cavaliere» per indicare una somma di pregi e di virtù che lo contraddistinguevano Le virtù cristiane e virili hanno trovato un archetipo ben definito nella cavalleria. In cosa consistette la cavalleria? Per capirlo possiamo rifarci a un testo del XIII secolo, il Lancelot en prose. In questo brano la Dama del Lago (allegoria della Madre celeste) inizia Lancillotto all’ordine cavalleresco spiegandogliene fini e caratteristiche: «I cavalieri non furono creati alla leggera, né tenendo conto della nobiltà delle loro origini o della loro nascita più illustre di quella di un uomo comune, poiché l’umanità discende tutta dagli stessi genitori. Ma quando l’invidia e la cupidigia si accrebbero nel mondo e la forza prevalse sul diritto, in quell’epoca gli uomini erano ancora uguali nel lignaggio e nella nobiltà. Ma quando i deboli non riuscirono più ad accettare e sopportare le vessazioni dei forti, per proteggersi si diedero dei garanti e dei difensori

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in modo da assicurarsi pace e giustizia e porre fine ai torti e agli oltraggi di cui erano fatti oggetto. Per assicurarsi questa protezione furono prescelti coloro che, per generale avviso, avevano maggiori qualità: gli alti, i forti, i belli, gli agili, i prodi, gli arditi, coloro che erano ricchi di qualità fisiche e morali. Ma l’ordine della cavalleria non venne loro conferito alla leggera e come vano titolo, essi dovettero assumersi un pesante fardello di doveri. Sapete quali? All’origine dell’ordine fu imposto a chi voleva essere cavaliere e ne otteneva il privilegio per legittima elezione di essere cortese senza bassezze, buono senza fellonia, pietoso verso i bisognosi, generoso e sempre pronto a soccorrere i miseri, a uccidere i ladri e gli assassini, a rendere equo giudizio senza amore e senza odio, senza debolezza di cuore per avvantaggiare il torto arrecando danno al diritto, e senza odio per non nuocere alla

giustizia facendo trionfare il forte. Un cavaliere non deve, per paura della morte, compiere atto alcuno macchiato da sospetto di vergogna, ma deve temere l’ignominia più della morte. La cavalleria ha per missione essenziale quella di proteggere la Santa Chiesa, cui è vietato prendere la rivincita con le armi e rendere male al male».

QUANDO I DEBOLI NON RIUSCIRONO PIÙ AD ACCETTARE E SOPPORTARE LE VESSAZIONI DEI FORTI, I CAVALIERI FURONO SCELTI COME LORO GARANTI E DIFENSORI: NON SI È CAVALIERE PER NASCITA, MA PER SCELTA E MERITO

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GLI UOMINI VORREBBERO ESSERE CAVALIERI, MA NESSUNO PIÙ INSEGNA LORO A ESSERLO

Dunque non si è cavaliere per nascita, ma per scelta e merito. Essere cavaliere non comporta una vita di agi e potere, ma il “privilegio” di dare la vita per difendere i deboli e i poveri dai soprusi dei malvagi. Perché il cavaliere, come Cristo, muore donando la propria vita per il bene degli altri; e considera la propria vita terrena come un mezzo, non come un fine. Tant’è che «deve temere l’ignominia più della morte». Un motto cavalleresco recita infatti: «Malo mori quam foedari», «piuttosto la morte, ma non il peccato». Pochi sanno che questo è uno degli insegnamenti che don Bosco affidava ai suoi ragazzi: li voleva cavalieri. Lo scopo della vita del cavaliere è vivere secondo le virtù: la fortezza, la giustizia, la temperanza e la prudenza. Il prototipo del cavaliere si incarnò in Pierre Terrail LeVieux, signore di Bayard (1476-1524). Proveniente da una famiglia nobile ma non ricca, entrò a servizio presso i Savoia e trascorse tutta la sua vita in Italia; qui era conosciuto come «il Baiardo», «il cavaliere buono» o «il cavaliere senza Primo piano

macchia e senza paura», come era chiamato sia dagli amici che dai nemici. Sempre il primo all’assalto e l’ultimo a ritirarsi, impose a chi lo voleva seguire un rigido codice etico che vietava azioni basse e volgari, violenze e razzie di animali. Proibì ai suoi uomini di usare le armi da fuoco perché «colpiscono da lontano e affrontano il nemico senza onore e senza gloria. L’avversario bisogna guardarlo negli occhi. E il valore occorre dimostrarlo sul campo. Sparando, un vile può trionfare e un valoroso può soccombere». Morì gloriosamente come aveva vissuto: colpito alla schiena da un’arma da fuoco mentre copriva la ritirata ai suoi, volle morire guardando il campo di battaglia e ruotando la spada a guisa di croce. Spese le sue ultime parole richiamando amici e nemici alla vita virtuosa.

Ora: è possibile proporre il modello cavalleresco agli uomini d’oggi? Vediamo un po’… è possibile chiedere agli uomini di essere sinceri, di non mentire? Possiamo chiedere loro di alzarsi contro le ingiustizie, di difendere i più deboli dai soprusi dei più forti? Di essere coraggiosi, cioè di non aver paura di farsi del male pur di conseguire il bene? Di non preoccuparsi dell’opinione di chiunque, di fregarsene della reputazione? Di ignorare le mode, di non attaccarsi ai beni materiali e, in generale, di avere una vita spirituale, una profondità?

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Di non far condurre la propria vita dalle passioni, ma di dominarle? Di trattare gli altri con giustizia e, se possibile, con benevolenza? Non solo credo sia possibile, sono addirittura convinto che gli uomini vogliano vivere così. Solo che nessuno lo insegna loro, nessuno li incoraggia a seguire questo ideale (cavalleresco). Quindi, al giorno d’oggi, è più difficile vivere la cavalleria? Può essere, non so se nei secoli passati fosse facile o difficile. Probabilmente non è mai stato facile. Ma al di là di questo: chi vuole vivere secondo l’ideale cavalleresco non si fa certo spaventare dalle difficoltà, anzi: la pazienza e la perseveranza fanno parte di questo ideale! O pensiamo veramente che l’ideale maschile che il mondo propone agli uomini – superficialità, edonismo, irresponsabilità, adolescenzialismo… – sia ciò che gli uomini, intimamente, vorrebbero per sé e per la propria vita?

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E le donne? Vorrebbero al loro fianco un cavaliere “senza macchia e senza paura” o un eterno ragazzino viziato, permaloso, irresponsabile? Ricordiamo, infatti, che furono le donne a inventare la cavalleria, chiedendo ai loro corteggiatori di comportarsi come i protagonisti delle chanson de geste e accettando le loro attenzioni solo a condizione che si dedicassero all’ideale cavalleresco. Così si legge nell’Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth: «Le dame cortesi non degnavano di ricevere l’amore di alcuno se per tre volte non si era cimentato nell’agone. Si serbavano quindi caste le dame e i cavalieri per amor loro divenivano più nobili».

Jason e Cristallina Evert

Funziona ancora così. Jason e Cristallina Evert sono una coppia che gira per il mondo parlando della Teologia del corpo di Giovanni Paolo II. Jason è arrivato al matrimonio vergine, Cristallina ha avuto una vita sessuale disordinata prima di scoprire la castità. Ecco le sue parole a proposito: «Io non accuso nessuno. Non dico “Voi ragazzi siete il problema”. Sono convinta che voi ragazzi sareste dei signori se noi donne lo esigessimo». Forse gli uomini hanno bisogno che le donne chiedano loro di essere cavalieri, per diventarlo. Confidiamo quindi in esse.

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LA CULTURA DELLA VITA E DELLA FAMIGLIA NON CONOSCE LIMITI: UNISCITI A PROVITA! 23 N. 67


Da Ulisse a Crono, passando per Playboy di Enzo Pennetta Nel Sessantotto i figli scappavano di casa. Poi sono diventati genitori e hanno continuato a scappare di casa... L’opera di femminilizzazione del maschio parte da lontano, era stato il ruolo paterno a essere contestato per primo e poi sempre più modificato nel corso di un’opera ormai cinquantennale, a partire da quel Sessantotto in cui la contestazione identificò la famiglia, e in particolare l’autorità paterna, con l’oppressione. Una decina di anni dopo, quando gli hippie lasciarono il posto agli yuppie, fu chiaro che anziché la liberazione da un potere oppressivo quella che ebbe luogo fu la liberazione degli istinti più egoistici e dei desideri più immaturi che, non più governati dalla temperanza dell’autorità paterna, rivendicarono la loro parte nella società. La rivoluzione dei figli dei fiori in nome della pace e dell’amore universale ha avuto come imprevisto sbocco il trionfo della società dei consumi, il sessantottino «Vogliamo tutto e subito» che era riferito alle riforme si trasformò in un attimo in uno slogan della bulimia consumistica veicolata 24 N. 67

dai consigli per gli acquisti. Con il Sessantotto i figli sono scappati di casa, ma poi essi stessi sono diventati i genitori della generazione successiva e anche allora hanno continuato a scappare di casa e da quel momento in poi sono stati i figli ad essere lasciati sempre più soli. È così che si è consumata la rottura del dispositivo di alleanza tra le generazioni, sostituito, come intuì chiaramente Michel Focault, da un dispositivo di piacere dove il soddisfacimento dei propri piaceri e desideri ha sostituito l’assunzione di responsabilità tra genitori e figli. Ma il prototipo del maschio edonista e refrattario alle responsabilità era già nato negli anni Cinquanta: il fasullo rapporto Kinsey, che dipingeva la società americana come una grande perversione coperta da un’altrettanto grande ipocrisia, si univa all’immaginario collettivo creato dalla rivista Playboy di Hugh Hefner. Il modello maschile di Playboy era l’uomo in vestaglia e pantofole, un tipo

IL SODDISFACIMENTO DEI PROPRI PIACERI E DESIDERI HA SOSTITUITO L’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ TRA GENITORI E FIGLI

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di maschio legato alla casa, ma il dato rivoluzionario è che la casa era senza bambini, l’abitazione non era il luogo della famiglia ma l’alcova dove il sesso fine a se stesso diveniva l’obiettivo senza senso dell’esistenza. Si intravede in questo tipo umano di maschio senza prole, o meglio avverso alla prole, la prima parte dell’opera di snaturamento. Se apparentemente il maschio era ancora riconoscibile, in quanto proteso verso la conquista della donna, al tempo stesso era lontanissimo dalla figura tradizionale in quanto rifiutante la paternità. La figura paterna è un tratto distintivo della civiltà, un ruolo che si discosta dalle dinamiche animali dove il compito maschile finisce col ridursi alla fecondazione e l’incarico della crescita dei piccoli grava esclusivamente sulla femmina. La rinuncia alla figura paterna porta dunque in sé l’allontanamento da questa

peculiarità delle civiltà umane di ogni latitudine. Questa rottura col passato è l’innesco di una serie di reazioni dalle conseguenze incalcolabili, la figura paterna assume un ruolo fondamentale nella seconda fase della crescita dei figli, cioè quando essi iniziano a rapportarsi col mondo esterno per elaborare una loro progettualità; la sua mancanza rischia quindi di provocare un vuoto di identità e inibisce la proiezione nel futuro. In ebraico la radice del termine che indica il seme maschile è la stessa del termine che indica il ricordare, il cui imperativo categorico è zachor. Per Israele il dimenticare, shakah, è un grave peccato perché con la dimenticanza si perde l’identità e lo stesso concetto di popolo. Ma anche nella cultura pagana la memoria è la base dell’identità, quando nell’Odissea Ulisse deve trascinare a forza sulle barche i suoi uomini che, avendo

DA PIÙ DI MEZZO SECOLO, IL MASCHIO, PUR PROTESO SESSUALMENTE VERSO LE DONNE, VIENE DIPINTO COME UNO CHE RIFIUTA LA PATERNITÀ

Il modello maschile di Playboy era l’uomo in vestaglia e pantofole

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incontrato i lotofagi e avendone mangiato i frutti, si sono dimenticati del passato e non vogliono proseguire il viaggio verso Itaca. Ulisse, come figura di maschio, è sia guerriero che padre e rappresenta uno dei tanti riferimenti antropologici che sin dall’antichità identificarono il dover essere del maschio, un’identità che ha sempre le radici affondate nel ricordare per potersi proiettare nella progettualità di un futuro rivestito di senso. E torniamo così all’immagine del maschio di Playboy, in pantofole e sterile, il suo seme non è più fecondo e non è più l’essenza del ricordo che proietta verso il futuro, e così è sterilizzata anche la progettualità e perde di senso il futuro che si riduce a una coazione a ripetere comportamenti di edonistica ricerca del piacere. Dalla rinuncia al ruolo storico del maschio alla sua colpevolizzazione il passo è stato breve, di Ulisse si sono evidenziati i lati oscuri colpevolizzando con essi il ruolo stesso della figura maschile, anche gli altri tratti legati alla mitologia di Marte, col suo scudo e lancia che sono il simbolo del sesso maschile, sono diventati qualcosa da condannare ed evitare, il guerriero è una figura che la società dei pacifismi aborre e con esso ogni manifestazione di fisicità e ruvidità. È qui che 26 N. 67

Ulisse, qui raffigurato quando curva l’arco, rivelandosi davanti ai Proci, è il simbolo dell’uomo, guerriero, eroe, padre, marito, che nonostante mille vicissitudini sempre ricorda, sempre ritorna

è iniziato lo slittamento della figura maschile verso quella femminile, nel momento in cui le sue caratteristiche tradizionali hanno iniziato a essere considerate politicamente scorrette, l’esaltazione delle qualità dell’effeminato trova origine proprio in questo, nel suo tendere ad essere femminilizzato, allontanandosi dalle caratteristiche maschili ormai ritenute negative. Una femminilizzazione sterile è evidentemente a sua volta una finta femminilizzazione, in quanto è l’immagine di una femmina che non genera. Appare quindi nella sua evidenza che la femminilizzazione del maschio e il modello di femmina che viene proposto sono a loro volta delle mutazioni del concetto di femmina, che ne vede stravolto Primo piano


il significato. Dal maschio non padre alla femmina non madre si compie un percorso di deriva antropologica da cui nasce una società nella quale il dispositivo di alleanza tra generazioni e all’interno della stessa coppia è rotto, se i figli sono stati abbandonati dai genitori anche la coppia come alleanza si è trasformata in dispositivo di piacere, il maschio femminilizzato alla ricerca del piacere sterile a ben vedere è dunque il prototipo dell’uomo atomizzato della società liquida, il consumatore ideale della società del mercato. Dal modello greco di maschio che vede Ulisse, Enea o Ettore lottare per i propri figli, al modello negativo di Crono che li divora per paura di essere spodestato, cioè per paura di essere fondamentalmente padre che come tale vuole vedere i figli crescere e assumere il proprio ruolo. Il maschio femminilizzato è quindi l’elemento necessario di una società che non ama né il maschio né le femmina e che, dominata da un pensiero sterile, vede la produzione dei nuovi componenti allo stesso modo in cui avviene la produzione dei beni nell’industria. Una società che nel proprio futuro non contempla più una riproduzione con la quale sono tramandate storie familiari fondate su radici genealogiche, ma che si orienta Primo piano

a una produzione di esseri umani indifferenziati come prodotti di tipo industriale, prodotti che trovano una prima realizzazione con l’utero in affitto. Una società che perde progressivamente il ricordo, lo zachor, e insieme ad esso il concetto di futuro, che orientandosi così verso un eterno “adesso” si stabilizza in una condizione senza scossoni, uno stato pienamente funzionale ai meccanismi di una distopia senza rivendicazioni e senza rivoluzioni, la base per quella dittatura dolce lucidamente preconizzata nella distopia di Aldous Huxley nel suo romanzo programmatico non a caso intitolato Il mondo nuovo.

DALLA RINUNCIA AL RUOLO STORICO DEL MASCHIO ALLA SUA COLPEVOLIZZAZIONE IL PASSO È STATO BREVE

Hugh Hefner (1926 -2017), fondatore di Playboy, celebre per lo stuolo di belle ragazze con cui viveva, aveva problemi di disfunzione sessuale: era dipendente dalla pornografia e dal Viagra

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di Giuseppe Fortuna

IL MASCHIO SCOMPARSO Negli ultimi anni si rileva la tendenza alla mascolinizzazione della donna e all’effemminatezza dell’uomo

C’era un tempo in cui gli uomini disdegnavano tutto ciò che potesse mettere in discussione, anche velatamente, la loro virilità. La classica distinzione dei colori, blu per i maschietti e rosa per le femminucce, lo sbrigativo taglio di capelli con la riga al lato per lui, le mille acconciature per lei erano caratteri distintivi che arricchivano l’unica natura umana cui entrambi i sessi appartengono. In realtà questa dualità non si riscontra solo negli intricati rapporti sociali dell’uomo, ma è spesso una peculiarità anche del regno animale. Di solito uno dei due sessi ha un aspetto più appariscente per attrarre l’altro. Ma di certo non sconvolge che la complessità umana, unita al continuo desiderio di novità, abbia col tempo introdotto

comportamenti eccentrici e distanti dalla nostra “bestialità” e, con essa, dalla stessa natura. Già da tempo, infatti, la moda maschile, ormai a corto di idee dopo aver riciclato i tre colori più usati e aver introdotto gessati e tessuti lavorati, ha pensato bene di cambiare completamente approccio. E così, se da un lato il desiderio (indotto) delle donne di imitare gli uomini nell’aspetto

e nei comportamenti (pantaloni, fumo di sigarette, lavori notoriamente ritenuti “maschili”) ha portato lentamente a una deriva della femminilità, dall’altro, e in maniera ancora più eclatante, si è pian piano imposta una figura maschile sempre meno virile, che riprende in maniera a volte incomprensibile quegli elementi definitivamente sottratti alle donne.

LE DIFFERENZE MASCHIO-FEMMINA SONO ACCENTUATE DALLA NATURA: NEL REGNO ANIMALE, DI SOLITO, UNO DEI DUE SESSI HA UN ASPETTO PIÙ APPARISCENTE PER ATTRARRE L’ALTRO 28 N. 67

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E così non è raro vedere donne in abito scuro e uomini con camicia rosa perlato e cravatta gialla. Si tratta semplicemente di moda? Forse, ma ci sono senza dubbio elementi che fanno propendere per qualcosa di più serio. Ad esempio i centri estetici, che da sempre vedevano quasi esclusivamente donne come clienti, ora sono frequentati in buona parte da uomini, attenti al pelo superfluo, un tempo agognato simbolo di virilità, o alle unghie spezzate, da sempre preoccupazione tutta femminile. Se la confusione di genere, che si sta imponendo vigorosamente nella nostra società, sia padre o figlia di questa tendenza, è difficile a dirsi. Di certo la neutralità nell’abbigliamento e nei costumi sociali non può non essere associata alle difficoltà nel riconoscersi nel proprio sesso/ genere. E benché molti studi abbiano evidenziato che non c’è una diretta correlazione tra l’educazione ricevuta e il genere percepito (checché ne dicano i sostenitori delle teorie gender), non è da escludere che alla lunga il perpetrarsi di comportamenti innaturali e forzati (perché di questo si tratta) possa avere un’influenza sul modo che ciascuno ha di percepire se stesso. A prescindere da questo, comunque, è palese a tutti che negli ultimi anni ci sia stata una Primo piano

LA NEUTRALITÀ NELL’ABBIGLIAMENTO E NEI COSTUMI NON PUÒ NON ESSERE ASSOCIATA ALLA CONFUSIONE DI GENERE CHE SI STA FACENDO STRADA NELLA NOSTRA SOCIETÀ

mascolinizzazione della donna e una tendenza all’effemminatezza nell’uomo. E, come in tutte le mode, anche in questo caso i modelli arrivano dal mondo dello spettacolo, in particolare dal settore dell’alta moda, quella che fa sfilare abiti che nessuno indosserà mai, ma che alla lunga determina le “tendenze” che pletore di persone preferiscono assecondare piuttosto che contestare. Altra fucina di stravaganze è poi il mondo delle boy-band, o in generale i personaggi creati ad arte dai reality show incentrati sullo spettacolo, che definiscono modelli di ragazzi di vent’anni e oltre che, nella migliore delle ipotesi, sembrano preadolescenti, fino ad arrivare a icone drag queen con trucchi pesanti, gonna e borsa. Spettacoli indecorosi al limite del grottesco, di cui però nessuno si scandalizza più. Anzi. A volte questi personaggi diventano vere e proprie icone sexy, ambite sia dal pubblico femminile, sia da quello maschile che, chiaramente, è attratto dalla trasgressione e dalla novità, non certo dalla persona o dall’eccentrico stile.

Alla lunga, però, si sa, le mode stancano. E anche questa non fa certo eccezione. Le ragazzine, in particolare le più giovani, sembrano aver perso interesse per la stravaganza. Anche perché la natura resta natura e l’istinto permane anche nell’evoluta società del ventunesimo secolo. E così le riviste femminili sono ormai piene di articoli che ironizzano sul “maschio moderno”, come un recente articolo apparso su Io donna, dall’eloquente titolo: Moda uomo 1950 vs 2018, qualcosa è andato storto: che fine ha fatto l’eleganza maschile?, accompagnata da una ancor più eloquente immagine che raffronta lo stile sobrio e fascinoso di Paul Newman con l’ultima trovata della moda londinese: calzettoni e boxer, mantella verde e un bel secchio dell’immondizia in testa, senza un filo di barba e labbra lucide e truccate. Nell’articolo il progressismo non ne usciva benissimo, segno che certi modelli ormai non “vendono” più. 29 N. 67


È PARADOSSALE CHE PROPRIO I SOSTENITORI DELLE “DIVERSITÀ” SIANO I FAUTORI DELL’APPIATTIMENTO UOMO-DONNA E DELLA NEUTRALITÀ DI GENERE

Paul Newman (1925 - 2008), Harper in Detective Story

La verità dietro questa presa di coscienza è che finalmente, forse, si comincia a capire che essere e apparire sono due concetti completamente diversi. Non serve che i due sessi appaiano o si comportino allo stesso modo per sottolinearne l’uguaglianza nella dignità come esseri umani, anzi è controproducente: non è uguale ciò che sembra uguale. Ed è paradossale che proprio i sostenitori delle “diversità” siano i fautori dell’appiattimento uomo-donna e della neutralità di genere. La diversità, quando è insita nella natura umana e non è frutto di artificiosi montaggi dettati dalla noia e dalla stravaganza, è un bene prezioso da difendere. Sostenere l’uguaglianza ontologica di ciò che apparentemente è diverso 30 N. 67

dovrebbe essere proprio della capacità di astrazione di cui il genere umano gode, ma di cui si sta pian piano privando, anche a causa di un evidente prolasso culturale ed educativo che sempre più confonde l’essere con l’apparire e l’apparire diversi con l’essere diversi. Ma spesso il riconoscimento della differenza è il primo passo per creare i presupposti all’uguaglianza nei diritti, nei doveri e nella dignità. Come disse Papa Francesco durante una pubblica udienza in un periodo caldo della discussione sulle unioni civili: «Rischiamo di fare un passo indietro. La negazione della differenza è il problema, non la soluzione».

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di Marco Bertogna

Skyfall

Fonte foto: www.mymovies.it

Titolo: Skyfall Stato e Anno: Regno Unito, 2012 Regia: Sam Mendes Durata: 143 min. Genere: Azione

Nel panorama del cinema odierno segnaliamo alcuni film “controcorrente”, che trasmettano almeno in parte messaggi valoriali positivi e che stimolino il senso critico rispetto ai disvalori imperanti. Questo non implica la promozione, né l’approvazione globale delle opere recensite da parte di ProVita Onlus.

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Potremmo dire: «Per l’uomo che non deve chiedere mai!». Questo slogan si addice benissimo a tutti i film dedicati all’agente segreto 007, serie per il cinema prodotta da Albert Broccoli prima e dalla figlia Barbara, poi. In Skyfall James Bond, in questo caso interpretato da Daniel Craig, cercherà di salvare M (il capo dell’organizzazione di cui fa parte 007), interpretata da una bravissima Judi Dench, andando a scovare un ex collega agente segreto, interpretato da un ottimo Javier Bardem. Questo film del 2012 è il 23° film della saga di James Bond e porta con sé alcune caratteristiche comuni a tutti i film targati 007. James Bond incarna uno stereotipo di uomo che difficilmente esterna le proprie debolezze e che, anzi, domina le emozioni ed esalta l’autocontrollo. L’agente segreto 007 ha la capacità di reinventarsi continuamente nella quotidianità e molto spesso si immerge in situazioni e contesti dove il lusso e il comfort gli fanno da sfondo. L’essere “macho” passa anche attraverso l’uso di armi e automobili, che indubbiamente aggiungono spettacolarità all’intero film e che aiutano il protagonista a esprimere e filtrare la propria aggressività, proprio grazie all’utilizzo di dispositivi

tecnologicamente avanzati e automobili con molti cavalli a disposizione. James Bond non può ovviamente essere preso come modello “unico” di uomo, ma sicuramente mette l’accento su alcune caratteristiche del maschio che, se perse totalmente, potrebbero sbilanciare le dinamiche nel rapporto maschio/femmina verso un esperimento antropologico che è un percorso del quale conosciamo la partenza ed in alcuni casi anche l’arrivo, poiché nei Paesi in cui questo si è verificato, l’indebolimento della figura maschile ha portato squilibrio nella coppia e un’inadeguatezza nell’educazione dei figli. Un’altra caratteristica comune agli episodi della saga è l’incipit dedicato ai titoli di testa che è sempre all’altezza delle aspettative: in Skyfall la canzone che condivide il nome con il titolo del film (title track) è scritta ed interpretata da Adele, che con questo brano ha vinto l’Oscar e il Golden Globe per la migliore canzone originale. Da sottolineare, oltre al cast stellare, anche la firma della regia che è stata affidata a Sam Mendes (già regista di American Beauty) e al quale verrà confermata anche la regia del 24° James Bond: Spectre. 31 N. 67


“CAMBIARE SESSO” È TROPPO FACILE di Francesca Romana Poleggi La storia di Billy non è rara. Sono moltissimi i transgender che si pentono amaramente di aver “cambiato sesso” La storia di Billy B. non è né eccezionale, né unica. L’abuso sessuale infantile è un’esperienza comune a molti di quelli che scrivono a Walter Heyer, un noto ex transessuale che si dedica al sostegno e al recupero psicofisico delle persone con disforia di genere e di coloro che si pentono di aver “cambiato sesso”. Scrive Heyer, su The Public Discourse, che le storie come quella di Billy riempiono da dieci anni la sua casella di posta elettronica. Billy ricorda di essere sempre stato, fin da bambino, curioso delle differenze tra maschi e femmine, tra lui e sua sorella. In prima elementare ha cominciato a pensare che il suo corpo era da maschio, ma i suoi pensieri gli dicevano che doveva essere una femmina. E si vestiva da femmina a casa, indossando il trucco e gli orecchini della sorella per divertimento, per gioco. «E questo gioco può essere innocente e benigno, anche comune tra i bambini che crescono, ma in alcune situazioni può trasformarsi in una fuga in 32 N. 67

un mondo irreale», dice Heyer. Così fu per Billy. Era un ragazzino magro e balbuziente. Veniva preso in giro dagli altri bambini. Era troppo piccolo fisicamente per reagire, così per anni ha ingoiato le sue emozioni e per questo ha cominciato a desiderare di fuggire dal suo corpo, con gli abiti di sua sorella. Più il tempo passava, più pregava Dio di trasformarlo in una femmina: gli altri bambini, così, non lo avrebbero più preso in giro.

È TIPICO VOLER SFUGGIRE AL DOLORE E AL TRAUMA RIFUGIANDOSI IN UN’IDENTITÀ TRANSGENDER, DICE HEYER.

Walter Heyer, autore di diversi saggi sul cambiamento di sesso, tra i quali Paper Gender, ha lui stesso vissuto per circa dieci anni come donna. Poi ha capito l’inganno. Ora, recuperata la sua identità naturale, aiuta le persone con disforia di genere e coloro che si pentono di aver “cambiato sesso” Primo piano


Poi, un’estate, quando aveva 11 anni, il nuovo istruttore di nuoto di Billy ha cominciato a molestarlo sessualmente: gli orchi hanno un talento per scegliere i bambini più deboli e vulnerabili. Billy – come spesso accade – ne fu così traumatizzato da non riuscire a dirlo a nessuno per molto tempo. Soffocava le sue emozioni con un’intensa attività fisica: andare in bicicletta, nuotare e correre, fino a quando il dolore nei muscoli diventava più grande del dolore nell’anima. E il gioco dei vestiti da donna ha cambiato sapore: gli abusi gli hanno fatto odiare i suoi genitali maschili. È tipico il tentativo di fuggire al dolore e al trauma rifugiandosi in un’identità transgender, dice Heyer: «La vergogna e il dolore che si provano a essere usati da un predatore sessuale va oltre ogni immaginazione».

Primo piano

LA MAGGIOR PARTE DELLE PERSONE CHE SI IDENTIFICANO COME TRANSGENDER SOFFRE DI UNA VARIETÀ DI DISTURBI NON DIAGNOSTICATI

Spuntano poi i professionisti votati all’ideologia transessualista, che di fronte a tale disagio suggeriscono come soluzione la somministrazione di ormoni sessuali, seguiti eventualmente da un intervento chirurgico “affermativo” di genere. Il problema è che gli ormoni e la chirurgia non servono a curare la depressione o gli altri disturbi causati dai traumi sessuali. «Troppi terapisti – scrive Heyer – si affrettano a prescrivere misure

ormonali e chirurgiche radicali prima di diagnosticare e trattare i disturbi psichiatrici che coesistono nella maggior parte dei pazienti con disforia di genere». La storia di Billy è uno dei tanti esempi. Essa mostra l’importanza di indagare sul perché una persona voglia “cambiare sesso”. È sbagliato presumere che il cross-dressing, o l’atteggiarsi nei ruoli del sesso opposto significhino che i bambini hanno bisogno di un cambiamento di sesso. Come molti uomini che si sentono donne, Billy in realtà era ancora attratto dalle ragazze. «Al college si è innamorato e l’intensità del sentimento ha spalancato le porte che avevano tenuto chiuse le sue emozioni dentro di lui. Sopraffatto, ha chiesto consiglio a sua sorella; lei lo ha aiutato a trovare un terapeuta della sessualità e ha cominciato a cercare di scoprire perché era così», racconta Heyer.

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I TERAPEUTI FORNISCONO TROPPO AFFRETTATAMENTE GLI ORMONI E LA CHIRURGIA PER IL CAMBIAMENTO DEL SESSO

Ma il terapeuta gli assicurava che quando avesse cambiato sesso, tutto si sarebbe risolto. Molti libri e molte altre persone confermarono questa diagnosi. La transizione non fu facile, ma Billy era ormai convinto di voler essere Billie. Dopo aver vissuto quasi otto anni come femmina, però, Billy ha cominciato a realizzare che stava vivendo una bugia, una finzione. Cominciò a frequentare una chiesa. E iniziò a pensare seriamente a ritrasformarsi nell’uomo che Dio aveva originariamente voluto che fosse. Billie si trasformò di nuovo con successo in Billy, incontrò una bellissima donna che aveva due figlie da un precedente matrimonio. Divennero amici, si innamorarono nel 2011 si sono sposati. 34 N. 67

«Lavoro da più di dieci anni con persone che mi contattano perché si pentono di aver tentato di cambiare sesso. Con impressionante consapevolezza di sé, giunge per loro un momento in cui riescono a capire chiaramente che cosa ha innescato la loro disforia di genere. Arrivano a indicare alcune situazioni del loro passato – molto spesso, anche se non sempre, abusi sessuali –che le hanno fatte fuggire dalla realtà, da ciò che erano e dal disagio che provavano, cercando di diventare qualcun altro. La maggior parte delle persone che si identificano come transgender soffre di una grande varietà di disturbi non diagnosticati. Sfortunatamente, i terapeuti forniscono troppo affrettatamente gli ormoni e la chirurgia per il cambiamento del sesso, ignorando le cause sottostanti, che dovrebbero essere

trattate con una psicoterapia sana ed efficace. È tempo che gli psicoterapeuti affrontino seriamente la disforia di genere delle persone prima di incoraggiarle a prendere gli ormoni e a ricorrere alla chirurgia», conclude Heyer. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo all’Agenzia Italiana per il Farmaco (Aifa) e al Comitato Nazionale di Bioetica che questa estate hanno dato il via libera all’uso della triptorelina (un ormone che blocca la pubertà) per i ragazzini che “soffrono di disforia di genere”.

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Mass media, veicoli della propaganda Lgbt di Giuliano Guzzo

Fiction, programmi televisivi, cinema e riviste da anni stanno facendo il gioco del mondo Lgbt, anche se in pochi vogliono accorgersene

Secondo l’antropologa Ida Magli, i nostri sono tempi in cui «alcuni organismi sovranazionali – Onu, Oms, Unione Europea – incitano all’omosessualità». Un’affermazione, quella dell’accademica romana mancata nel 2016, che a molti apparirà provocatoria, eccessiva, se non inaccettabile. Eppure un qualche fondamento potrebbe averlo, se si considera che nelle nove pagine del cosiddetto “memorandum di Jaffe”, contenente proposte volte a ridurre la fertilità umana che Frederick Jaffe, il primo presidente dell’ente abortista Guttmacher Institute, nel 1969 indirizzò al presidente del Population Council e all’Organizzazione Mondiale della Sanità, si legge che sarebbe consigliabile tra le altre cose fare proprio questo, ossia «incoraggiare l’omosessualità». Curioso peraltro che proprio a quell’anno, il 1969, risalga la nascita, in America, di organizzazioni come il GLF e la GAA, acronimi che

stanno rispettivamente per Gay Liberation Front e Gay Activists Alliance. Ad ogni modo, al di là di supposizioni che a taluni sembreranno infondate, è indubbio come negli ultimi anni, più che gli organismi sovranazionali, siano i mass media ad aver giocato un ruolo chiave, se non nell’incitamento, quanto meno nello sdoganamento dell’omosessualità. «In ogni fiction oggi», ha osservato a questo proposito l’avvocato e politico pro family Simone Pillon, «è obbligatorio che sia presente almeno una coppia omosessuale. Ovviamente si tratta di personaggi per bene, raffinati, culturalmente interessanti, proposti incessantemente come modello educativo ai nostri giovani». Come la Magli, anche Pillon esagera?

Giul Guz

laureato in Sociologia e Ricer collabora con diverse riviste e fra i quali Tempi.it, Libertaepe Campariedemaistre.com, Cog Uccronline.it e Corrispondenz È membro dell’Equipe Nazion Movimento per la Vita italiano * giulianoguzzo@email.com

@GiulianoGuzzo In realtà no, dato che grazie : www.giulianoguzzo.com al mezzo televisivo il mondo Lgbt si è culturalmente imposto e fatto conoscere: non è un sospetto, bensì storia. E prima ancora che le fiction cui si accennava, sono stati i Ann Pac programmi televisivi i veri veicoli dello sdoganamento arcobaleno. Maria Pacchiotti, presid Pensiamo a Queer EyeAnna For the dell’associazione “Onora la Vi Straight Guy, andato:inwww.onoralavita.it onda dal 2003 al 2007 sul canale americano Bravo, e che vedeva un concorrente etero sottoposto un make over totale (moda, stile, cura del corpo, interior design e cultura) a cura di maschi gay. A sdoganare il modello Giu gay contribuì anche The Real Tan Word, programma di Mtv al quale nel 1994 partecipò Pedro Zemora, persona apertamente Laureata in Filologia e Critica Le

Scrive per passione. Collabor libertaepersona.org e con alt riviste; è inoltre autrice, con F di Miracoli - L’irruzione del so storia (Ed. Lindau).

«ALCUNI ORGANISMI SOVRANAZIONALI INCITANO ALL’OMOSESSUALITÀ» (IDA MAGLI)

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sieropositiva, che nel corso degli episodi parlò apertamente della sua relazione col fidanzato Sean Sasser; nel corso della trasmissione fu mandata in onda anche la loro cerimonia di scambio di promesse. Allo stesso modo, altri programmi che manca qui lo spazio di approfondire singolarmente – per esempio The Real L Word, I Am Cait e Ru Paul’s Drag Race – hanno giocato un ruolo preziosissimo per normalizzare agli occhi del grande pubblico la minoranza Lgbt. Poi c’è il ricco versante cinematografico, che sulla propaganda arcobaleno riveste un’importanza decisiva. Basti dire che oggi un sito come Cinemagay.it presenta nel suo catalogo rigorosamente gayfriendly quasi 4.000 film. Un numero enorme. Per non parlare – sempre stando sul piano quantitativo – delle serie tv in cui i protagonisti Lgbt non solo non mancano mai all’appello, ma abbondano.

A stabilirlo non è stato qualche ente cattolico, ma la Gay & lesbian alliance against defamation che, in suo rapporto denominato Where we are on TV, ha rilevato come i personaggi arcobaleno nelle serie tv siano oggi il 4,8% del totale, percentuale che se da un lato magari continuerà ad apparire contenuta, dall’altro risulta comunque la più elevata degli ultimi 21 anni di rilevazioni. Non solo. Va evidenziato come questo dato sia enormemente più alto di quello che si riscontra nella società, se si pensa che l’Istat, nel 2011, ha stimato gli Lgbt come il 2,4% della popolazione totale, mentre l’istituto Gallup, nell’ottobre 2012, sondando un campione di oltre 121.000 persone, ha rilevato come sia il 3,3% degli americani a dichiararsi gay, lesbica, bisessuale o transgender. Dunque i mass media presentano ai telespettatori personaggi arcobaleno con

CINEMAGAY.IT PRESENTA NEL SUO CATALOGO RIGOROSAMENTE GAYFRIENDLY QUASI 4.000 FILM

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TRA LE PROPOSTE VOLTE A RIDURRE LA FERTILITÀ UMANA DI FREDERICK JAFFE C’ERA ANCHE QUELLA DI INCORAGGIARE L’OMOSESSUALITÀ

molta più frequenza di quanto questi possano, nella generalità dei casi, essere incontrati nella realtà. Ma oltre al piano quantitativo ne esiste uno anche qualitativo non meno importante. Anzi. Infatti, oltre ad essere numerosi, i personaggi Lgbt sono sovente caratterizzati – come notato da Pillon – da grande sensibilità, apertura mentale, intelligenza, creatività. Delle persone ideali, insomma, quasi da invidiare e, soprattutto, impossibili da non amare. Al tempo stesso, pure le tematiche care all’agenda Lgbt vengono sistematicamente presentate sotto una luce che sarebbe eufemistico definire solo positiva; anche tematiche eticamente sconvolgenti come l’utero in affitto. «Proprio l’argomento dell’utero in affitto», scrive nel suo libro, La cultura della morte (La Vela, 2017), il giornalista Stelio Fergola, «è propagandato con grande energia dalle serie americane. Non che chiaramente se ne parli in ogni dove, ma


FICTION, PROGRAMMI TELEVISIVI, CINEMA E RIVISTE SONO STATI, E SONO, DEI VEICOLI PER LO SDOGANAMENTO ARCOBALENO

quando ricorre viene proposto senza tanti complimenti e, ovviamente, in un’ottica completamente permissiva». Gli esempi al riguardo, in effetti, non mancano. In Friends, ricorda sempre Fergola, Phoebe, una delle protagoniste, decide di portare in grembo l’ovulo fecondato del fratello e dell’anziana consorte, mentre in Everwood una donna di nome Nina vende il proprio utero per consentire a una signora di 55 anni di avere un figlio. Tutto ciò è presentato senza particolari criticità, anzi con toni sentimentali quando non lacrimevoli. E parliamo, lo si ripete, di un tema nella più edulcorata delle ipotesi spinoso come l’utero in affitto. Proprio sull’utero in affitto, la Bbc sta preparando un film documentario che dovrebbe

andare in onda nel 2019 e il cui taglio per nulla equidistante è garantito dal fatto che, a condurlo, sarà nientemeno che il tuffatore britannico Tom Daley, modello – ha detto un entusiasta Alessandro Cecchi Paone – del «gay e vincente», il quale alla maternità surrogata è già ricorso. Un po’, si potrebbe ironizzare, come se un approfondimento sulla mafia fosse affidato ad Al Capone, o se una trasmissione sull’antica Roma fosse presentata da Nerone: la competenza del conduttore non sarebbe in discussione, ma sulla sua neutralità, ecco, ci sarebbe giustappunto qualcosa da ridire. D’accordo, ma questa occupazione arcobaleno dei media produce effetti? E se sì, di che tipo? Una risposta a queste curiosità ci viene da una fonte certo non omofoba come il Corriere della Sera

che, nel giugno di quest’anno, ha riportato gli esiti di un interessante studio promosso da Viacom, conglomerato di media statunitensi. Diciamo che questa ricerca è interessante perché prova che sì, nella promozione dell’agenda arcobaleno la comunicazione di massa un effetto lo sta avendo, eccome se lo sta avendo. Più precisamente, la ricerca – assai vasta, poiché condotta su 100.000 intervistati di 77 Paesi – ha rilevato come, tra chi non conosce una persona omosessuale, uno su quattro ammetta che i media in generale e la televisione in particolare abbiano contribuito a far sorgere in lui, rispetto all’omosessualità, sentimenti favorevoli. Sentimenti favorevoli che sono stati verosimilmente instillati grazie a quello che si è più volte

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poc’anzi sottolineato, e cioè il modo in cui i personaggi Lgbt sono solitamente presentati ai telespettatori, ossia come figure di grande sensibilità, di spiccata intelligenza, amici fidati, compagni sensibili, insomma un misto tra esseri umani e angeli. Del resto, che i media siano funzionali alle rivendicazioni arcobaleno è provato – oltre che dalla citata ricerca Viacom – dal fatto che, nell’estate di quest’anno, non uno bensì 45 gruppi tra agenzie e società di produzione abbiano con appello comune richiesto all’industria cinematografica di Hollywood di «curare l’ignoranza e il bigottismo dell’America nei confronti delle persone trans raccontando storie empatiche». Ebbene, che senso avrebbe una richiesta simile se non ci fosse la convinzione che il cinema ha un enorme potere propagandistico sulla mentalità comune?

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Perché chiedere esplicitamente a Hollywood di attivarsi per «curare» presunte patologie, se l’industria cinematografica fosse incapace di questo? È del tutto evidente come sia le illuminanti rivelazioni Viacom, sia questo singolare ma indicativo appello dimostrino che una propaganda Lgbt sia non solo efficace, ma in corso. Il che, comunque la si pensi su taluni argomenti, dovrebbe allarmare chiunque crede nella libertà del pensiero e soprattutto nel diritto dei cittadini di potersene formare uno liberamente, senza “aiuti” non richiesti. Tanto più che non ci sono “solo” il cinema e la televisione a propagandare le istanze del mondo arcobaleno, dato che anche la stampa, immancabilmente, gioca un ruolo. Fra i tanti esempi che su questo si possono fare, si può ricordare la copertina che il settimanale Panorama, comunemente ritenuto meno progressista del suo diretto concorrente, L’Espresso, fece trovare in edicola ai suoi lettori nel numero del 17 gennaio 2008, quindi quasi dieci anni prima che in Italia fossero approvate le unioni civili. Ebbene, quella copertina era sormontata da un grande titolo: «Le famiglie gay esistono già». Sotto il titolo, al centro della pagina, l’immagine di una donna con due bambine con questa didascalia: «L’Italia

LE TEMATICHE CARE ALL’AGENDA LGBT VENGONO SISTEMATICAMENTE PRESENTATE SOTTO UNA LUCE CHE SAREBBE EUFEMISTICO DEFINIRE POSITIVA

che cambia. Mentre la Chiesa si mobilita in difesa del matrimonio tradizionale, sono ormai migliaia i bambini che vivono con due mamme o due papà. Da Milano ad Avellino, ecco le loro storie». La scelta del tema, ma soprattutto del linguaggio – nonché la scelta di parlare di “famiglie gay”, di «Italia che cambia», di difesa esclusivamente clericale del “matrimonio tradizionale” – furono un chiarissimo esempio di supporto alla narrativa arcobaleno. Il tutto, lo si ripete, non nei mesi del dibattito sulle unioni civili, che poi sarebbero divenute legge, ma svariati anni prima. Ora, come non riconoscere in una simile copertina, che poi è solo un esempio fra i tantissimi che si potrebbero fare, un chiaro sforzo propagandistico? Come, insomma, negare l’evidenza? Perché sì, per alcuni tutto questo sarà complottismo. Ma per altri non può che essere mero riscontro della realtà.


I SACRIFICI UMANI ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO

di Vito Verrese

Se nei riti pagani l’umanità era sacrificata al capriccio degli dèi, nelle moderne democrazie è sacrificata al capriccio degli uomini

Nel mese di aprile 2018 un gruppo di archeologi, in Perù, ha annunciato un’orribile scoperta: sono stati dissotterrati gli scheletri di 140 bambini, di età compresa tra i 5 e i 14 anni, con le gabbie toraciche deformate (segno che gli aguzzini hanno tentato di strappar loro il cuore). I resti risalgono a circa 600 anni fa e si tratta del sacrificio rituale di bambini più grande della Storia. Si dà il caso che proprio in quei giorni veniva pubblicato, su Foreign Policy, un articolo dal titolo: Il diritto di uccidere. Il Brasile dovrebbe impedire alle proprie tribù amazzoni di togliere la vita ai loro bambini? Si riportava alla luce la macabra consuetudine che nell’area dell’America Latina esiste da secoli e perdura tutt’oggi: la soppressione dei bambini handicappati e perfino dei gemelli, considerati maledetti e portatori di un oscuro presagio. Leggere di simili pratiche nell’epoca dei “diritti umani” lascia stupefatti; tanto più se si considera la crescente vigilanza

delle più svariate organizzazioni internazionali sulle cosiddette crisi umanitarie... Costantemente, nel corso della Storia, determinate comunità hanno escluso dal proprio seno alcune categorie di individui perché privi dei “requisiti fondamentali” per l’appartenenza a quella specifica realtà sociale. La nostra epoca non fa eccezione, con una particolarità: il fenomeno di esclusione del “diverso” si è oggi radicalizzato. Alle forme

consuete di esclusione se ne aggiunge una più radicale, perché trova la sua occasione nella radice stessa di ogni relazione: la vita. Non riguarda più singole aggregazioni sociali, bensì l’intera comunità umana; non colpisce più un profilo specifico del soggetto (razza, colore politico, religione…), bensì il suo stesso essere. È la sua presenza nel mondo che viene messa in discussione e la sua “diversità” si situa a livello ontologico.

LA POTENZIALITÀ DELLE FACOLTÀ CORRISPONDE ALLA POTENZIALITÀ DELL’ESSERE UMANO: SE NON POSSO, NEANCHE SONO; È LA QUALITÀ DELLA VITA A DECIDERE DELLA VITA STESSA

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Facciamo qui tre esempi: 1. Ricordiamo la figura di Margaret Sanger, colei che ha contribuito a fondare nel 1916 quello che oggi è il punto di riferimento mondiale delle principali organizzazioni abortiste e antinataliste, l’International Planned Parenthood Federation (Federazione internazionale per la pianificazione familiare), della quale è stata presidente fino al 1959. Per giustificare il controllo delle nascite come programma sociale, nel 1922 la Sanger scrive un vero e proprio manifesto di cultura eugenetica, The pivot of civilization (Il cardine della civiltà), dove spiega che «la questione in gioco è opporre un fattore qualitativo a uno quantitativo e introduce le due categorie di cui si servirà per tutto lo svolgimento dell’opera: i “fit” e gli “unfit”, cioè i forti, gli adatti e i deboli, o inadatti» [E. Roccella - L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia, Piemme, 2005, p. 184]. Il suo sogno è quello di costruire una civiltà composta da un’unica, grande, efficientissima «razza di geni» dove non vi sia posto per i «deboli di mente». 40 N. 67

2. C’è anche chi, in tempi più recenti, ha abbordato la questione da un diverso angolo visuale: «La rivista New Scientist nel 1992 ha pubblicato un articolo di Donald Gould intitolato Death by Decree, letteralmente Morte per decreto. Gould, tenuto conto che il numero dei vecchi aumenta, che essi sono un costo – si pensi alle pensioni –, che abbisognano più di ogni altra categoria di ricoveri ospedalieri e di assistenza familiare, propone questa soluzione: la legge stabilisca un limite massimo di durata della vita. […] Lo Stato – suggerisce nei dettagli – convochi l’anziano arrivato al settantacinquesimo anno in appositi centri per sottoporlo all’eutanasia. La legge però deve contemplare alcune eccezioni: i Lords, gli scienziati, i vescovi, i sindacalisti, e i capitani d’industria a riposo devono essere esentati. Perché? Così facendo si faciliterebbe l’approvazione della legge – spiega Gould – e si

LA VITA UMANA È NATURALMENTE CARATTERIZZATA DAL LIMITE. MA OGGI È IN ATTO UN RIFIUTO RADICALE DI OGNI LIMITE ALLA “VOLONTÀ DI POTENZA”

premierebbero ambizione e successo, cioè fattori dai quali dipende la prosperità della nazione» [M. Palmaro, Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, San Paolo, 1996, p. 186].


Caravaggio, Il sacrificio di Isacco, 1594 – È la cultura giudaico-cristiana che segna la fine dei sacrifici umani

LA DIGNITÀ DELL’UOMO STA NELLA SUA EFFICIENZA O NELLA SUA ESSENZA?

3. Infine, a dimostrazione di quanto sia valida, in questa materia, la teoria del piano inclinato, citiamo un articolo pubblicato sul sito web del Journal of Medical Ethics nel 2012, dal titolo After-birth abortion: why should the baby live? (Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?), a firma di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, ricercatori presso l’Università di Melbourne. Nell’articolo, a proposito dell’ormai diffusa possibilità di abortire a prescindere dalla salute del feto, si legge: «Sosteniamo che, quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che

giustificano l’aborto prima della nascita, quello che chiamiamo aborto postnatale debba essere consentito. A dispetto dell’ossimoro dell’espressione, proponiamo di chiamare questa pratica “aborto post-natale”, anziché “infanticidio” per evidenziare che lo stato morale dell’individuo ucciso è paragonabile a quello di un feto (sul quale gli “aborti” nel senso tradizionale del termine sono normalmente effettuati) più che a quello di un bambino» [traduzione nostra]. Sorvoliamo pure sulla proposta “linguistica” e riconosciamo che gli autori seguono un percorso logico del tutto coerente con le premesse da cui partono. Se è consentito l’aborto durante la fase di vita prenatale, non si vede perché debba essere vietata la soppressione del neonato nel periodo di vita postnatale, giacché lo “stato morale” è sostanzialmente identico: una condizione di vita non autonoma in cui le cosiddette “funzioni superiori”, ossia le facoltà intellettive, non sono in atto ma solo in potenza.

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Sacrifici rituali Aztechi

Ecco il denominatore comune ai tre esempi: la potenzialità delle facoltà corrisponde alla potenzialità dell’essere umano nella sua interezza; se non posso, neanche sono; è la qualità della vita a decidere della vita stessa. Da dove trae origine questa visione del mondo? L’uomo, per sua natura, è destinato a vivere una vita contrassegnata dal limite, ed è proprio questa constatazione che il mondo contemporaneo ha in odio: ogni ostacolo alla piena realizzazione di sé va eliminato, si tratti di un figlio non voluto, di un anziano da accudire, o di un malato da 42 N. 67

curare. E lo Stato ha il compito di garantire questi “servizi”. In fondo l’unico essere umano che piace a questa cultura è quello al massimo delle sue capacità, indipendente, capace di contribuire al benessere collettivo senza costituire mai un “peso”. Insomma, un essere umano che esiste solo nell’utopia. Eppure, lungi dal rappresentare un’esaltazione dell’uomo, questa concezione lo svilisce, privandolo della sua vera dignità che non sta nell’efficienza, ma nell’essenza. Seguendo questo percorso logico si arriva a fare di chi persona non è (secondo l’arbitrio del più forte), nient’altro che una cosa.

Ed è per questo che una notizia come quella dei bambini delle tribù brasiliane, uccisi per motivi eugenetici, non fa il giro del mondo e non solleva un’ondata di indignazione. La post-modernità ci ha abituati a fare dell’autodeterminazione il valore supremo: una sorta di apoteosi della libertà sganciata da ogni vincolo di responsabilità sociale; il che, nel tempo dei “diritti umani”, appare un controsenso ma non lo è. I diritti, infatti, non sono oggi riconosciuti come inerenti alla natura dell’uomo, ma sono positivisticamente costruiti in base alle rivendicazioni della cultura dominante. Perciò l’autodeterminazione si configura secondo modalità eminentemente individualistiche (e quindi irresponsabili): la relazione con l’altro conta solo nella misura in cui permette l’espansione di sé e va compressa in caso contrario. Nessuna differenza, dunque, tra le pratiche della Germania nazista, delle tribù sudamericane e degli Stati post-moderni: il fine eugenetico di scartare i “difettosi” è il medesimo. Se nei riti pagani l’umanità era sacrificata al capriccio degli dèi, nelle moderne democrazie è sacrificata al capriccio degli uomini.


Letture Pro-life Carlo Casini con Marina Casini

40 ANNI PER IL FUTURO Ed. Cantagalli

Se guardiamo i danni prodotti in quarant’anni di aborto legalizzato, non possiamo che essere molto tristi. Tuttavia questo libro è stato scritto in una logica di speranza, la forza trainante di chi è a servizio della vita. A partire da una riflessione su uno dei più importanti eventi di questi ultimi quarant’anni – l’Enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II – il volume raccoglie le tante testimonianze sull’esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita che hanno favorito la nascita di oltre 200.000 bambini anche in situazioni molto difficili, restituendo gioia alle loro madri. Dalla meditazione sul significato della maternità, che indica il senso della vita umana, e dal riconoscimento del concepito come uno di noi, in coerenza con la scienza moderna e con la cultura dei diritti umani, ha inizio una nuova strada che ha come prospettiva la costruzione della civiltà della verità e dell’amore.

Michela e Christian Cinti

QUELLA NAVICELLA STA ENTRANDO IN ORBITA Tau Editrice

Il “diario di bordo di una famiglia adottiva”, un libro simpatico e commovente, che narra la storia di Christian e Michela e dei loro due figli. Un libro che spiega che le adozioni non sono storie di ripiego: non si adotta perché si vuole avere un figlio, ma perché si vuole dare amore a figli senza genitori. Un libro che insegna che la fecondità è un qualcosa che va oltre la fertilità. Scrive Robert Cheaib nella prefazione: «È questo il miracolo della tenerezza: saper dare alle persone un grembo per rinascere. Non a caso, nelle lingue semitiche, la tenerezza è associata all’utero materno. Avere tenerezza è come donare un utero all’altro per rigenerarlo». Questa “navicella” compie «un’avventura carica di quella capacità che solo l’amore ha di creare, ricreare e spaziare al di là dei limiti che la natura pone, prendendo forza dal Sole, Gesù Cristo, che tocchiamo con mano ogni volta che ci lasciamo raggiungere e attraversare dalla fecondità del Suo amore».

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