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“nel nome di chi non può parlare” Anno V | Rivista Mensile N. 40 - Aprile 2016
naturalmente
FAMIGLIA
Nuove “famiglie”: dietro l’arcobaleno, il buio
E se la maternità porta la felicità…?
Notizie
- Sommario Editoriale: Naturalmente... famiglia!
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“nel nome di chi non può parlare” RIVISTA MENSILE
Lo sapevi che...
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Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182
Attualità “Un gancio in mezzo al cielo”
N. 40 - APRILE 2016
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Giampaolo Scquizzato
Redazione
Antonio Brandi, Alessandro Fiore, Francesca Romana Poleggi
Tutti a Roma, l’8 maggio, alla Marcia per la Vita! 8 Daniele Sebastianelli
Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ)
www.notizieprovita.it/contatti - Tel. 329 0349089
Direttore responsabile Antonio Brandi
Primo piano
Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi
Nuove “famiglie”: dietro l’arcobaleno, il buio 10
Impaginazione grafica Francesca Gottardi
Giuliano Guzzo
Una generazione ad alto rischio
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Tipografia
Benedetta Frigerio
Sposarsi ha ancora senso?
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Massimiliano Fiorin
E se la maternità porta la felicità…?
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Distribuzione MOPAK SRL, via Prima Strada 66 - 35129 Padova
Costanza Miriano
L’adulterio in provetta - parte prima
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Francesco Agnoli
Scienza e Morale Dalla bio-poietica alla bioetica
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Aldo Vitale
Il sonno della ragione genera mostri Ferdinando Costantino
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Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Francesco Agnoli, Ferdinando Costantino, Massimiliano Fiorin, Benedetta Frigerio, Giuliano Guzzo, Costanza Miriano, Giampaolo Scquizzato, Daniele Sebastianelli, Aldo Vitale.
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Editoriale
Editoriale
Foto: sathyatripodi
‘Naturalmente’, cioè ‘secondo natura’: mai come in questo momento il concetto di natura è stato tanto stravolto. Direi del tutto lacerato. Da un lato s’invoca, giustamente, il rispetto dell’ecosistema, la tutela del mondo animale e vegetale, la salvaguardia dell’atmosfera terrestre e quant’altro; dall’altro si perde completamente di vista la natura dell’essere umano: si pretende – anzi – che venga riconosciuto il ‘diritto’ di violentarla, mutilandosi per ‘cambiare sesso’, fabbricando e distruggendo bambini in laboratorio, cancellando la maternità e la paternità (i concetti più naturali che possiamo immaginare) e sostituendoli con una serie numerata di ‘genitori-acquirenti’ imprecisati, spesso senza alcun legame naturale con i piccoli. C’è chi fa approvare leggi per vietare di togliere troppo presto i cuccioli agli animali domestici e nello stesso tempo è favorevole a strappare i bambini neonati alle madri con l’aberrante pratica dell’utero in affitto. Questa lacerazione della natura umana è forse la principale contraddizione del relativismo etico, del pensiero unico dominante, della cultura della morte. Una cultura che – appunto – mira alla distruzione delle persone, attuando una rivoluzione antropologica radicale che presuppone anzitutto la distruzione della famiglia: del luogo, cioè, dove la persona nasce, cresce e si fortifica preparandosi ad affrontare la vita nella società.
Notizie
Naturalmente... famiglia!
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Di famiglia naturale, quindi, si parla in questo numero di Notizie ProVita: si mette in luce il lato oscuro di violenza e sopraffazione che è celato dai colori dell’arcobaleno. Oltre ai dati forniti dalla scienza statistica sulla violenza che alberga all’interno delle coppie omosessuali, parla a ProVita un testimone diretto, quale il professor Robert Oscar Lopez, cresciuto con ‘due mamme’. Francesco Agnoli ci illustra poi le conseguenze che la fecondazione artificiale eterologa provoca nel rapporto di coppia, mentre la giornalista Costanza Miriano ribadisce come, invece, seguire la natura umana gratifichi e renda felici, le donne innanzitutto. Potrete inoltre leggere una testimonianza che è un inno alla vita e due interessanti riflessioni sulla bioetica e sulla ‘biopoietica’. Quello che conta è comunque non perdere la speranza. I due ultimi Family Day, che hanno visto milioni di persone scendere in piazza, dimostrano che, se da un lato la cultura della morte avanza, dall’altro gli uomini di buona volontà – che sanno vivere e testimoniare per la vita e la famiglia secondo le leggi di natura e la ragione naturale – sono tanti. “Le porte degli Inferi non prevarranno!”. Antonio Brandi
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N. 40 - APRILE 2016
Lo sapevi che... Il dottor Pascal Gagneux della University of California sostiene che gli effetti a lungo termine della fecondazione in vitro sono ancora in massima parte da chiarire: “[…] Stiamo facendo un esperimento evolutivo. [...] Lo paragonerei al ‘cibo spazzatura’ inventato dai fast food americani e allo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio: ora, dopo 50 anni, negli Stati Uniti i giovani sono più bassi, obesi, con tutte le patologie connesse, e muoiono prima. Ma ci sono voluti 50 anni per capirlo”, mentre le prime persone concepite in provetta oggi non hanno ancora quarant’anni. Secondo Gagneux, alcuni possibili effetti collaterali a lungo termine della fecondazione artificiale sono il diabete, l’ipertensione e in genere una morte prematura. Un certo numero di specialisti della fecondazione in vitro hanno risposto alle osservazioni del dott. Gagneux, dicendo che non aveva prove sufficienti per suffragare queste affermazioni. Secondo loro le patologie riscontrabili nei bambini ‘artificiali’ sono dovute a difetti genetici contenuti negli spermatozoi (chissà: magari in ambiente naturale quegli spermatozoi ‘difettosi’ non avrebbero mai raggiunto l’ovulo...). Costoro sostengono che ‘il principio di precauzione’ non si può sempre seguire. Anche quando ci vanno di mezzo la salute e la vita umana? Dicono che è perché altrimenti si ferma il progresso. Forse. Sicuramente si fermerebbero i loro lauti guadagni. Il Journal of Cryobiology ha dato una notizia importante per chi è interessato alla ‘crioconservazione’ del cervello. L’équipe di Robert McIntyre, della società 21st Century Medicine, è riuscito a congelare e a scongelare il cervello di un coniglio senza arrecargli alcun danno. Dopo cinque anni di tentativi hanno vinto un premio della Brain Preservation Foundation, perché sono riusciti ad evitare che l’acqua naturalmente contenuta nei tessuti ghiacciasse danneggiandoli, attraverso la vitrificazione, e usando sostanze crioprotettrici, come il glutaraldeide. È stato certamente un passo avanti, ma le sostanze in questione sono velenose, quindi ancora la strada per trovare una soluzione praticabile è lunga. Certamente queste notizie fanno fantasticare gli uomini di sempre e di ogni luogo. Il bagno nello Stige del piccolo Achille, l’elisir di lunga vita, Il ritratto di Dorian Gray... da sempre la creatura, che la natura porta ad anelare all’infinito, è spinta a valicare il limite, a sconfiggere la morte. Il problema è risolto, già da un paio di migliaia di anni, da coloro che credono che la morte sia solo un passaggio e che la Vita Vera, quella Eterna, comincerà dopo. Per gli altri resta la speranza del surgelatore.
Il traffico mondiale degli ovociti fermenta. Un’agenzia sudafricana che vende ovuli ha iniziato a spedire le donne anche in Australia: per le ‘uova fresche’ i clienti hanno pagato $13.600 all’agenzia (compreso il biglietto aereo per le ‘donatrici’). Ma il traffico degli ovociti è estremamente pericoloso, sia per chi dà gli ovuli, sia per chi li riceve, e anche per il bambino che nasce quasi sempre prematuro e con maggiori possibilità di disturbi fisici e psichici. Ne ha parlato nel febbraio scorso in Senato il professor Pino Noia. E l’argomento si può approfondire guardando il documentario Eggsploitation. Ma siccome dietro a tutto questo c’è un business miliardario, che fa valere i suoi interessi nei vari Parlamenti, i mass media di regime tutte queste cose non le dicono. Il Parlamento canadese ha recentemente approvato una legge sull’eutanasia. E subito qualcuno si è impegnato per cercare di delimitare in modo efficiente le fattispecie in cui si possono eliminare i malati. In particolare c’è una senatrice che si batte per la tutela delle persone malate di mente da quando suo marito (un ex deputato) si è suicidato, nel 2009: Denise Batters sostiene che le sofferenze psichiche devono essere escluse dal novero delle ragioni che giustificano l’eutanasia. Ha vissuto in prima persona l’impatto tremendo che ha il disagio psicoesistenziale, non solo sul soggetto interessato, ma anche sui suoi familiari ed amici. È necessario salvaguardare coloro che attraversano periodi di ansia e depressione: costoro meritano assistenza medica e psicologica, non un’iniezione letale. La Batters ha perfettamente ragione, ma è difficile “rimettere il genio nella bottiglia” dopo che lo si è fatto uscire. Questa espressione è stata usata dal medico olandese Theo Boer che – inizialmente favorevole alla regolamentazione del suicidio assistito – si è reso conto che la deriva eutanasica è inarrestabile. E ora si appella agli altri Paesi che meditano sulla legalizzazione dell’eutanasia invitandoli a non commettere lo stesso errore che è stato commesso in Olanda e in Belgio: la situazione è degenerata in pochissimo tempo, la morte sta diventando un optional a richiesta, senza limiti e anche senza il consenso del paziente o dei suoi parenti. Molti parlano, come per esempio la Senatrice Fedeli, di rivedere la legge attuale sulle adozioni, consentendole anche ai single e ai gay: ciò servirebbe a dare una casa alle decine di migliaia di ‘bambini senza famiglia’ che sembrerebbe languano negli orfanotrofi, tipo Oliver Twist.
Lo sapevi che...
Notizie
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La vignetta del mese di Francesca Gottardi
La Senatrice, però, non nomina espressamente gli orfanotrofi, perché sa che la legge 149 del 28 marzo 2001 ha decretato per il 31 dicembre 2006 la chiusura degli orfanotrofi, trasferendo i minori in case-famiglia e, dove possibile, presso famiglie affidatarie. Insomma, salvo episodi di cronaca incresciosi – tipo il Forteto, che è stato coperto e protetto per anni da esponenti politici dello stesso partito della Fedeli e di Renzi – la casa-famiglia è certamente meglio che l’orfanotrofio. La Senatrice, poi, forse non conosce bene la situazione reale dei bambini ‘fuori dalla famiglia’: infatti le coppie eterosessuali in lista d’attesa per l’adozione sono di gran lunga molte di più dei bambini in stato di adottabilità. Per fare un figlio servono un uomo e una donna. Un semino e un ovulino, scrivono nei moderni libretti per bambini. Ebbene, se si è carenti di uno dei due elementi è possibile diventare co-genitori o, per dirla all’inglese, ricorrere al co-parenting. Il coparenting è un fenomeno nato in Gran Bretagna, che consente a persone slegate da qualsiasi vincolo affettivo di ‘collaborare’ per realizzare il comune desiderio di avere un figlio. Oggi ‘finalmente’ si può fare anche qui da noi. Come si può leggere nell’home page del sito italiano, la co-genitorialità consisterebbe in “una divisione dei diritti e delle responsabilità dei genitori single, sposati, divorziati, o dello stesso sesso”. Co-Genitori.it collega i genitori o futuri genitori che desiderano crescere un bambino. Con buona pace dei bambini che ne nasceranno e che verranno palleggiati con turni più o meno predefiniti tra le due case dove vivono i due genitori biologici. Molto raramente, infatti, nel contratto di ‘multiproprietà’ è previsto di vivere tutti insieme sotto lo stesso tetto. Sarà interessante capire se sarà poi possibile che il bambino sia adottato dai rispettivi compagni dei genitori biologici e se per legge potrà, quindi, essere considerato figlio di quattro o più genitori... Quest’anno la Commissione Europea ha annunciato che sfilerà su una sua barca, la Europese Commissie, al Gay Pride di Amsterdam, che si svolgerà da sabato 23 luglio a domenica 7 agosto. La parata delle barche lungo il canale Prinsengracht e il fiume Amstel si terrà il 6 agosto. Se la cosa sarà confermata, non deporrà certo a favore della equidistanza dalle parti e dalle fazioni che dovrebbe contraddistinguere un organo istituzionale altamente rappresentativo di tutti gli europei.
Risuona nei media di regime l’ennesima bufala: “L’utero in affitto è usato prevalentemente dagli etero”. Anche ammettendo fosse vero, questo non toglierebbe nulla alla turpitudine di una pratica che viola la dignità di donne e di bambini e che, in quanto tale, va vietata in ogni caso. Ma, per analizzare i dati su coloro che ne fruiscono, parlare in numeri assoluti non ha senso: le coppie eterosessuali stabili sono assai di più (non c’è paragone: si parla di una dozzina abbondante di milioni) di quelle omosessuali (forse diecimila in tutto?). La stima corretta va fatta in proporzione: quante coppie eterosessuali fanno figli con l’utero in affitto? E quante coppie omosessuali? Quindi si confrontano le rispettive percentuali. Risultato: lo 0.0006% (cioè 6 coppie su 1.000.000), delle coppie etero ricorre all’utero in affitto, contro lo 0.3% (3 su 1000, circa 1 su 330) delle coppie omosessuali. Queste ultime, quindi, praticano il turpe mercimonio 500 volte di più. Sarebbe anche da rilevare, ancora una volta, che solo la minoranza degli omosessuali (che in sé sono già una minoranza, se no il mondo si sarebbe estinto da un pezzo) è concretamente interessata a matrimonio e figli. È prevalentemente una questione ideologica e lo dimostrano i numeri – bassissimi e che restano bassissimi – dei matrimoni gay nei Paesi dove sono consentiti. Quindi è ovvio che solo lo zero virgola ricorra all’utero in affitto (considerando anche il costo).
N. 40 - APRILE 2016
Foto: giografiche
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Un gancio in mezzo al cielo
Giulia Gabrieli, Un gancio in mezzo al cielo, edito dalle Paoline nel 2012, è un vero e proprio inno alla Vita. Il ricavato del libro finanzia l’AIRC, la ricerca sul cancro di Giampaolo Scquizzato La storia di Giulia Gabrieli non può lasciare indifferenti. Quattordici anni, malata di tumore: “Sappiate fin da subito che Giulia ce l’ha fatta. È vero, non è guarita: è morta la sera del 19 agosto 2011, a casa sua, proprio mentre alla Gmg di Madrid si concludeva la Via Crucis dei giovani. Eppure ce l’ha fatta. Ha trasformato i suoi due anni di malattia in un inno alla vita”. È una scintilla di speranza, di amore, di fede e di coraggio che tocca il cuore e ci indica la strada per affrontare la sofferenza, i dolori, le fatiche della vita con gioia, determinazione e fiducia. Giulia, con la sua famiglia, già da cinque anni ha cambiato la vita di molte persone, ha scombussolato molte tiepide coscienze, ha risvegliato nell’anima di tanti il proposito di cercare sempre un appiglio, Un gancio in mezzo al cielo (come dice Strada Facendo, di Claudio Baglioni, che era la sua canzone preferita), per vivere la sofferenza come dono di amore, come testimonianza di fede. E Giulia era davvero una ragazza speciale; speciale ma anche normale, come tanti ragazzi e ragazze della sua età.
Giulia Gabrieli
Aveva il talento della scrittura. Inventava storie fantastiche e avventure, così come lo è stata la sua malattia: “La malattia è un’avventura e Dio non abbandona mai… Il fatto è che la gente ha paura della malattia, della sofferenza. Ci sono molti malati che restano soli, tutti i loro amici spariscono, spaventati. Non bisogna avere paura! Se gli altri ci stanno vicino, ci vengono accanto, ci mettono una mano sulla spalla e ci dicono ‘Dai che ce la fai!’, è quello che ci dà la forza di andare avanti”.
“Il fatto è che la gente ha paura della malattia, della sofferenza. Ci sono molti malati che restano soli, tutti i loro amici spariscono, spaventati. Non bisogna avere paura!” Giulia conosceva la gravità della sua malattia, ma aveva sempre per sé e per le persone che erano al suo fianco – anche il personale dell’oncologia pediatrica di Bergamo – una parola di coraggio e speranza: “Se trovi la forza per pensare: eh va be’, vado in ospedale, faccio una chemio e poi torno a casa, è tutta un’altra cosa. Certo anch’io quando sto male mi chiedo: perché è successo proprio a me? Poi però quando sto meglio dico: ‘Massì, dai, è passato’. Ci rido anche sopra…”. E per i medici aveva sempre una parola di ammirazione e ringraziamento. “Se ci fate caso – scrive – non c’è molta differenza tra un supereroe e un medico. I supereroi salvano tutti i giorni la vita a delle persone, anche sconosciute. E lo stesso si può dire dei medici: solo che anziché usare le tele di ragno come Spiderman o le ali come Batman, usano le medicine. E poi, dal punto di vista umano, sono davvero imbattibili”.
Attualità
Così, nel giorno in cui i suoi supereroi le dovettero comunicare la recidiva del tumore, Giulia aveva già capito tutto e disse: “Ce l’ho fatta una volta ad affrontare la chemio, posso farcela anche la seconda. Forza, ripartiamo da capo”. Per parlare di Giulia bisogna raccontare la sua fede, anche prima della malattia: “La fede è la cosa che mi sta aiutando più di tutto ad andare avanti. Il pensiero che c’è un Dio che mi protegge e che fa di tutto perché le cose vadano al meglio, mi carica, mi dà questa grandissima forza… E in questo mi sta aiutando molto una ragazza, la beata Chiara Luce Badano: anche lei ha avuto vent’anni fa un tumore e purtroppo vent’anni fa non c’erano ancora i mezzi adeguati per curare. Lei è morta, però ha saputo vivere questa esperienza in modo così luminoso e solare, abbandonandosi alla volontà del Signore, che per me è un grande esempio. Voglio imparare a seguirla, a fare quello che lei è riuscita a fare nonostante la malattia. La malattia non è stato un modo per allontanarsi dal Signore, ma per avvicinarsi a Lui e al Suo grande amore. La sera, quando magari sto male e ho tutti i miei problemi dati dalle terapie, il pensiero che è accanto a me, che c’è Lui ogni giorno, che ci guida sulla nostra strada, sul nostro cammino, passo dopo passo insieme alla Madonna, la nostra mamma, il pensiero che Lui è accanto a me, che mi starà sicuramente coccolando, mi fa venire un sorriso e mi aiuta a stare meglio…”. Anche Giulia ha avuto momenti difficili, momenti di tenebra e scoraggiamento, momenti in cui ha gridato a Dio la sua rabbia e le sue domande: “Continuavo a dire ai miei genitori: ma Dio dov’è? Adesso che sto malissimo, ho addosso di tutto, Dio dov’è? Lui che dice che posso pregare, può fare grandi miracoli, può alleviare tutti i dolori perché non me li leva? Dov’è?”.
E Giulia era davvero una ragazza speciale; speciale ma anche normale, come tanti ragazzi e ragazze della sua età In uno di questi momenti, a Padova, dove Giulia era andata per la radioterapia, è passata nella basilica di Sant’Antonio. Lì ha posato la mano sulla tomba del Santo ed è cambiato tutto. Scrive: “Sono entrata arrabbiata, in lacrime, proprio in uno stato pietoso; sono uscita dalla basilica con il sorriso, con la gioia che Dio non mi ha mai abbandonata. Ero talmente disturbata dal dolore che non riuscivo a sentirLo vicino, ma in realtà penso che Lui mi stesse stringendo fortissimo. Quasi non ce la faceva più…”.
Copertina libro: “Un gancio in mezzo al cielo”
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La storia di Giulia è un inno coraggioso alla vita, una splendida luce che ci indica la strada per difenderla e amarla anche nella sofferenza e nelle difficoltà E Giulia lascia anche un incoraggiamento per i suoi coetanei, un testamento per tanti ragazzi, perché facciano diventare la loro vita una testimonianza di gioia e fede. Ecco le sue parole: “La prima cosa da guarire è dentro, è il cuore… ogni giorno le mie sofferenze e anche le mie gioie le affido tutte al Signore, perché so che lì sono nelle mani giuste e le offro per tante persone. Un giorno le offro per le persone che stanno con me, un altro giorno per tutti i non credenti, perché tutti abbiamo bisogno di preghiere, di sostegno. Ognuno ha un Dio, Dio c’è per tutti. Potete farlo anche voi, ragazzi! Offrite le vostre giornate a tanti altri ragazzi che soffrono perché non hanno la fede, hanno un grande vuoto. Dio ci dà questa grandissima forza: potete costruire grattacieli, scalare le montagne. Molti ragazzi, ne conosco tanti anch’io, pensano che non andare più a Messa sia un modo per essere più grandi, che andare a Messa sia una barba. Pensano di essere autonomi, di non avere più bisogno di Dio. No, no. State facendo una caccia al tesoro senza il tesoro... Ma come, lui ci mette un tappeto rosso sotto i piedi e ci guida, ci tratta come delle star, e noi poi lo snobbiamo? Questi ragazzi non sanno quello che si perdono: il fatto che Gesù ci ospita nella sua casa, ogni domenica. AndarLo a trovare, a riceverLo nel nostro corpo attraverso l’Eucarestia, è proprio una cosa speciale per me. Si stanno perdendo veramente tanto…”. La storia di Giulia è un inno coraggioso alla vita, una splendida luce che ci indica la strada per difenderla e amarla anche nella sofferenza e nelle difficoltà. Grazie Giulia di tutto cuore perché ci offri un altro ‘gancio’ cui aggrapparci per amare la vita. Come dice tuo fratello Davide: “Chi si dispera è perché non ha conosciuto Giulia”.
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Daniele Daniele Sebastianelli Sebastianelli
Laureato ininComunicazione Istituzionale Laureato Comunicazione Istituzionale alla Pontificia Croce, alla Pontificia Università Universitàdella dellaSanta Santa Croce, collabora con collaborato concon la la collabora con HLI HLIe ehaha collaborato Sala Stampa della Santa Sala Santa Sede Sedeeecon conl’Ufficio l’Ufficio Nazionale ComunicazioniSociali Socialidella della Nazionale per le Comunicazioni Conferenza Italiana. Conferenza Episcopale Episcopale Italiana.
Marcia per la Vita!
Tutti a Roma, l’8 maggio, alla Marcia per la Vita! Il Direttore di Vita Umana Internazionale (Human Life International) ci ha parlato della prossima Marcia Nazionale per la Vita: un momento di testimonianza sempre più necessario, di fronte all’insistente propaganda della cultura della morte di Daniele Sebastianelli Da quasi quarant’anni una legge dello Stato (la 194/1978) permette l’uccisione deliberata dell’innocente nel grembo materno. Finora ha procurato come minimo sei milioni di morti. Nel frattempo, gli attacchi alla vita umana innocente si sono moltiplicati. Vengono sferrati sulle persone più deboli, laddove non sono più produttive (anziani e malati per cui si cerca di far passare l’eutanasia come un gesto d’amore!) e sui bambini con tecniche sempre nuove e più letali: Ru486, EllaOne, pillola del giorno dopo ecc. “La Marcia per la Vita – dice il sito dedicato – è il segno dell’esistenza di un popolo che non si arrende e vuole far prevalere i diritti di chi non ha voce sulla logica dell’utilitarismo e dell’individualismo esasperato, sulla legge del più forte”. La Marcia per la Vita serve ad affermare la sacralità della vita umana e perciò la sua assoluta intangibilità dal concepimento alla morte naturale, senza alcuna eccezione, alcuna condizione, alcun compromesso. Perciò chiama a raccolta tutti gli uomini di buona volontà per difendere il diritto alla vita come primo dei principi non negoziabili, iscritti nel cuore e nella ragione di ogni essere umano e – per i cattolici – derivanti anche dalla fede in Dio Creatore. Si tratta di una ‘marcia’ e non una processione religiosa, perciò è aperta anche ai pro-life non credenti e a tutti i gruppi che potranno partecipare con i loro simboli, ad esclusione di quelli politici.
La Marcia per la Vita esprime la volontà di ribadire il proprio sì convinto e incondizionato alla difesa della vita umana innocente Anche la sesta edizione della Marcia, il prossimo 8 maggio, sarà a Roma, centro della cristianità e del potere politico. Le strade della capitale sono state attraversate, anche recentemente, da numerosi cortei indecorosi e blasfemi; il nostro corteo vuole invece affermare il valore universale del diritto alla Vita e il primato del bene comune sul male e sull’egoismo. La partenza è prevista alle 9.30 dal Colosseo. Ne abbiamo parlato con Don Francesco Giordano, direttore dell’ufficio romano di Vita Umana Internazionale. Don Francesco, il prossimo 8 maggio 2016 si svolgerà a Roma la sesta edizione della Marcia per la Vita. Può spiegarci in poche parole di cosa si tratta e perché, secondo lei, è importante partecipare? La Marcia per la Vita è la più grande manifestazione pro-life italiana. Si tratta della volontà di ribadire il proprio sì convinto e incondizionato alla difesa della vita umana innocente. Rappresenta un atto di cittadinanza attiva rivolto alle istituzioni per abrogare leggi ingiuste e inique come quella sull’aborto. La Marcia quest’anno sarà anche preceduta da un convegno organizzato da Vita Umana Internazionale alla Lumsa sabato 7 maggio alle 14.30, con ingresso gratuito.
Attualità È importante partecipare perché nessuno può restare indifferente alle sorti di bimbi soppressi nel seno materno o di anziani e malati eliminati perché considerati ‘inutili’, o un peso per i conti sanitari nazionali. È importante riaffermare la cultura della vita per assicurare nuove generazioni al Paese, per ritrovare la speranza nel futuro, per ridare dignità alla maternità e significato all’insostituibile e meraviglioso ruolo della donna nella società.
La Marcia per la Vita rappresenta un atto di cittadinanza attiva rivolto alle istituzioni per abrogare leggi ingiuste e inique come quella sull’aborto La Marcia per la Vita, in Italia, ha una storia molto recente. Eppure è riuscita in breve tempo ad affermarsi nel panorama sociale e mediatico come un appuntamento ‘irrinunciabile’ per tutti i pro-life. Come si spiega questo successo, tenendo conto che, ancora oggi parlare di aborto resta pressoché un tabù? La ragione è semplice: le persone non vogliono vivere nella menzogna e nell’inganno. Vogliono la verità. Per decenni ci hanno convinto che la libertà fosse il poter decidere della propria vita come meglio ci piaceva senza dover rendere conto a nessuno delle nostre scelte, senza proibizioni o limiti di sorta. Sei incinta e non vuoi il bambino? Abortisci. Non vorrai mica rovinarti la vita… Questa mentalità dove ci ha portato? All’infelicità. Oggi, grazie a Dio, esiste una forza intergenerazionale che ha capito che occorre liberarsi da quel tipo di libertà spacciata dai mercanti di morte. Le persone vogliono vivere nella verità e in essa trovare la felicità. Costi quel che costi. Le pressioni, gli ostacoli, le intimidazioni sono forti, ma oggi c’è una coscienza nuova che vuole combattere e cambiare le regole del gioco.
Le persone vogliono vivere nella verità e in essa trovare la felicità!
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Pur non essendo un appuntamento ecclesiale e non avendo l’imprimatur della Chiesa cattolica, la Marcia per la Vita vede ogni anno la crescente adesione di prelati, vescovi, cardinali e addirittura Diocesi che incoraggiano i fedeli a partecipare. Si tratta di una marcia confessionale? Da un lato, la Marcia è un’iniziativa di laici impegnati per migliorare la società. Come tale non ha bisogno di imprimatur o, come direbbe Papa Francesco, di ‘vescovi pilota’. Da un altro lato, trattandosi del contesto italiano, trovo normale che la maggioranza dei partecipanti sia cattolica. Anche se la presenza di atei o di esponenti di altre religioni è una risorsa per la buona riuscita dell’iniziativa perché sottolinea la ragionevolezza della posizione e la sua naturalità, ritengo che la ragionevolezza stessa si arricchisca con la Fede in Cristo. Il Signore – la Via, la Verità e la Vita – ci ricorda che ogni pensiero retto, ogni legge naturale, ogni legge giusta si fonda sulla Legge Divina ed Eterna. Perciò, Dio e la religione da Lui fondata non possono che avere il diritto di farsi sentire in piazza. Il fenomeno ‘Marcia per la Vita’ sta esplodendo in tutto il mondo occidentale con un dato interessante: la massiccia presenza delle nuove generazioni, la cosiddetta ‘generazione pro-life’. Perché dei giovani cresciuti in una società individualista che li spinge a ‘vivere’ per se stessi, spesso senza freni morali, decidono di marciare per la vita? Ritengo che molti giovani si rendano conto del nichilismo che li circonda, e se gli presentiamo la Verità con la sua profonda chiarezza e bellezza non può che attirarli. Ci deve essere un’alternativa al nichilismo prodotto dal relativismo. Il Vangelo della Vita è l’unica vera alternativa alla cultura della morte. Forse negli anni Sessanta la cultura della morte era attraente, però oggi abbiamo i risultati sotto i nostri occhi. Abbiamo i risultati devastanti della morte e la Fede ci spinge verso la vita, portandoci a rifiutare la cultura della morte e a cercare di costruire la cultura della Vita.
La Marcia vuole affermare l’intangibilità della vita umana innocente, dal concepimento alla fine naturale. Di fatto, chi marcia, chiede che venga abrogata la legge 194. Non le sembra un traguardo inarrivabile? Non crede che un Paese civile debba dare la possibilità a una donna di decidere sul suo corpo? Credo che un Paese civile debba rispettare e amare i suoi cittadini, soprattutto i più deboli, come i bimbi nel grembo materno. Questo è forse il più grande segno di civiltà. Credo che una donna debba essere aiutata a scoprire il dono che è in lei e la grande responsabilità che ha nel dare la vita. Il bimbo non è ‘parte del suo corpo’, ma vive nel luogo dove si forma e impara a relazionarsi con la mamma.
Marcia per la Vita!
10 N. 40 - APRILE 2016 Giuliano Guzzo
Giuliano Giuliano Guzzo Guzzo
Classe 1984, vicentino di nascita e trentino d’adozione, è laureato in Sociologia e
laureato in Sociologia e Ricerca Sociale, Ricerca Sociale. Appassionato di bioetica, collabor a con diverse riviste e portali web collabora con diverse riviste e portali web. fra i quali di Tempi.it, Libertaepersona.org, È autore La famiglia è una sola Campariedemaistre.com, (Edizioni Gondolin, 2014) Cogitoetvolo.it, Uccronline.it e Corrispondenzaromana.it. È membro dell’Equipe Nazionale Giovani del Movimento per la Vita italiano
Foto: Tú Anh
* giulianoguzzo@email.com @GiulianoGuzzo : www.giulianoguzzo.com
Anna Maria Pacchiotti
Nuove “famiglie”: dietro l’arcobaleno, il buio Anna Maria Pacchiotti, presidente dell’associazione “Onora la Vita onlus”.
Le coppie omosessuali sono molto più instabili e violente delle coppie etero. : www.onoralavita.it Lo dicono gli omofobi? No, la denuncia viene dal mondo LGBT di Giuliano Guzzo È indubbio come sia in corso, ormai da anni, un tentativo su più versanti – accademico, mediatico e politico – di presentare le coppie composte da persone dello stesso sesso come modello di ‘nuova famiglia’ del tutto equivalente a quella naturale, ribattezzata non a caso come ‘tradizionale’ e posta a sua volta sullo stesso piano di altre unioni alle quali, pur non essendo ‘tradizionali’, sarebbero riservate le medesime attenzioni. Se si guarda in particolare alle serie televisive o a come vengono confezionate molte trasmissioni non c’è dubbio come detto tentativo non solo sia in atto, ma sia sempre più insistito e non di rado giunga ad esaltare ‘nuove famiglie’ presentandole ai telespettatori come più equilibrate, più sensibili, più aperte mentalmente; quasi che le unioni gay fossero interpreti di una sensibilità nuova, rispetto alla quale la famiglia ‘tradizionale’ avrebbe solo da imparare.
Le relazioni fisse omosessuali non sembrano paragonabili a quelle eterosessuali da nessun punto di vista È proprio così? Davvero le coppie composte da persone dello stesso sesso sono un modello positivo e, comunque sia, tranquillamente paragonabile alla famiglia ‘tradizionale’? Il solo modo per farsi un’idea al di là delle diverse sensibilità e convinzioni morali di ciascuno è quello di volgere lo sguardo alla ricerca e alle statistiche. Statistiche le quali – strano ma vero –
raccontano sulle unioni omosessuali una realtà molto diversa da quella catodica tutta ‘baci e abbracci’. Infatti le relazioni fisse omosessuali non sembrano paragonabili a quelle eterosessuali da nessun punto di vista: né per durata, né per esclusività e neppure, Giulia anche se è politicamente scorretto dirlo, per i tassi Tanel di violenza interpersonale che le caratterizzano. Vediamo perché. Si può iniziare considerando la stabilità di coppia, condizione che se da un lato non è automaticamente indice diLaureata armonia relazionale dall’altro in Filologia e Critica Letteraria. Scrive per passione. Collabora con comunque non può essere ignorata. libertaepersona.org con altri siti internet e Ebbene, la realtà è che una coppia eeterosessuale riviste; è inoltre autrice, con Francesco Agnoli, viene considerata ‘duratura’ se raggiunge venti- nella di Miracoli - L’irruzionealmeno del soprannaturale cinque anni di convivenza; una storia (Ed.coppia Lindau). omosessuale, invece, può essere considerata ‘duratura’ se si protrae almeno per cinque anni [cfr. Pediatria Preventiva & Sociale, 2014;37-39]. Un terzo delle coppie omosessuali conviventi, infatti, sta insieme meno di due anni, un terzo tra i due e i cinque anni e l’ultimo terzo più di cinque anni [cfr. Barbagli M. – Colombo A. (2007) Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, Il Mulino]. Secondo uno studio olandese, la relazione ‘fissa’ media di coppie maschili dura 1,5 anni [cfr. AIDS, 2003; Vol.17(7):1029-1038]. La situazione non è diversissima in Inghilterra dove, secondo una ricerca, rispetto alle coppie eterosessuali sposate, quelle eterosessuali solo conviventi hanno entro cinque anni un rischio di rottura 2,75 volte superiore, rischio che sale addirittura a 5,25 se il termine di paragone sono le coppie conviventi omosessuali [cfr. Journal of Marriage and Family, 2012; Vol.74(5):973–988].
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Foto: melindarmacaronikidcom
È interessante osservare come neppure il riconoscimento giuridico riesca a rendere più solide le coppie composte da persone dello stesso sesso: uno studio condotto sulle unioni dello stesso sesso registrate in Norvegia e Svezia ha riscontrato per queste un rischio di divorzio superiore dal 50 fino al 167% rispetto a quello proprio dei matrimoni tra uomini e donne [cfr. Demography, 2006; Vol.43 (1):79–98]. Oltre a non essere duratura, la relazione omosessuale non risulta neppure caratterizzata da esclusività: Mcwhirter e Mattison – due studiosi omosessuali, dunque non sospettabili di parzialità – hanno esaminato 156 coppie formate da omosessuali maschi scoprendo come, di queste, solo sette avevano avuto una relazione sessualmente esclusiva, e nessuna di esse aveva avuto una durata maggiore di cinque anni [cfr. (1984) The male couple. Reward Books, Englewood Cliffs]. Con ogni probabilità ciò è il riflesso anche del fatto che molte persone omosessuali, nel corso della loro vita, tendono ad avere un numero altissimo di partner: un’ampia ricerca di alcuni anni fa svolta su un campione
Foto: Giovanni
Le ricerche statistiche sulle unioni omosessuali descrivono una realtà molto diversa da quella catodica tutta ‘baci e abbracci’
americano, mostrava che su 574 uomini omosessuali soltanto tre avevano avuto un unico partner, l’1 % ne aveva avuti 3-4, il 2 % 5-9, il 3 % 10-14, l’8 % 25-49, il 9 % 50-99, il 15 % 100-249, il 28 % 1000 (mille) e più [cfr. A.P. Bell – Weinberg M.S. (1978) Homosexualities: A study of diversity among men and women, Simon & Schuster, New York]. Si potrebbe a questo punto obiettare che tutto questo, però, sia dovuto al mancato riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali che, una volta socialmente accettate, renderebbero i soggetti che le compongono molto più sereni, appagati e con condizioni di salute migliori. Tuttavia questa osservazione, a prima vista plausibile, non solo non ha dati che la suffragano, ma ne ha che la smentiscono.
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Uomini che picchiano gli uomini che li amano – Gay maltrattati e violenza domestica, edito da Haworth Gay & Lesbian Studies, scritto da John Dececco Phd, Patrick Letellier, David Island, attivisti LGBT, è un dossier agghiacciate, che denuncia i livelli impressionanti di violenza fisica e psicologica all’interno delle coppie omosessuali.
In particolare, il fatto che il riconoscimento della unione omosessuale sia associato a migliori condizioni di vita e felicità è smentito da uno studio condotto sulla popolazione della Danimarca fra il 1981 e il 2010 i cui esiti sono così sintetizzati da padre Giorgio Carbone: “Tra i maschi sposati con altri maschi la frequenza del suicidio aumenta di 4,09 volte rispetto ai maschi sposati con donne e tra i maschi conviventi con altri maschi aumenta di 3,46 volte. Tra le femmine sposate con altre femmine la frequenza aumenta di 6,40; e nel caso delle conviventi aumenta di 1,79” [(2015) Gender, Edizioni Studio Domenicano]. Siamo insomma lontanissimi dalla felice cartolina arcobaleno che viene così frequentemente mostrata sui media.
I tassi di suicidio nelle coppie omosessuali ‘sposate’ è cinque o sei volte più alto che tra le coppie normali Lo dimostrano anche i dati sulla violenza: le relazioni omosessuali, infatti, risultano segnate in misura superiore da violenza – spesso suscitata da gelosia e desiderio di vendetta – di quelle eterosessuali [cfr. American Journal of Public Health, 2002; Vol.92(12):1964-1969]. Questo aspetto è ben noto agli studiosi, che ritengono molto frequente la violenza domestica all’interno delle coppie omosessuali al punto da considerarla responsabile di un numero di vittime superiore di quelle di cui sarebbe responsabile l’omofobia [cfr. Temple Political & Civil Rights Law Review, 1999; Vol.8]. Perché allora non se ne parla? Anzitutto le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer stentano a denunciare gli abusi subiti perché non vogliono essere visti come ‘traditori’ della comunità LGBTQ [cfr. Journal of Interpersonal Violence, 1994; Vol.9(4):469-492].
Inoltre, una seconda ragione per cui la violenza all’interno delle coppie omosessuali è un tema poco considerato è ‘esterna’ e riguarda la difficoltà, da parte di molti, a ritenerla possibile e diffusa. Fa molto riflettere, in proposito, il caso di un ragazzo di 35 anni della provincia di Bologna, il quale, dopo aver subito per quattro anni percosse ed abusi da parte del compagno, ha deciso di non tacere più, ma purtroppo non è stato preso sul serio dalle forze dell’ordine e neppure dal centro antiviolenza: “Il centro antiviolenza a cui mi sono rivolto ha deciso solo dopo una riunione straordinaria di accettare il mio caso: ho dovuto chiamare decine di volte. Poi abbiamo iniziato il percorso, ma con un grande imbarazzo. Ero il primo uomo che vedevano” [27esimaora.corriere.it, 22.3.2015].
Le coppie omosessuali non sono né stabili, né fedeli: le convivenze durano mediamente un paio di anni. Anche nei Paesi dove è ammesso il matrimonio. Le convivenze più lunghe sono quelle in cui ciascuno è libero di avere rapporti anche con terzi
Forse sarebbe il caso di smettere d’immaginare le ‘nuove famiglie’ stile Mulino Bianco 2.0 e d’iniziare a fare i conti con il buio finora tenuto ben nascosto sotto le bandiere arcobaleno.
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Robert Oscar Lopez, sul suo blog, ha pubblicato le testimonianze di persone con esperienze simili alla sua: Jean-Dominique Bunel, Bronagh Cassidy, Charles Mitchell, adottato da due uomini gay insieme ai due fratelli, Dawn Stefanowicz, Jeremy Deck, Rivka Edelman, Suzanne Cook sono alcuni degli adulti cresciuti con coppie omosessuali che hanno testimoniato il loro profondo disagio e la loro infelicità. Ma ce ne sono molte altre, rimaste anonime, che scrivono cose come quelle riportate in queste pagine.
Una generazione ad alto rischio
Intervista al professor R.O. Lopez, cresciuto da due lesbiche, che descrive la sua sofferenza nell’essere cresciuto senza il padre di Benedetta Frigerio
“Quando mi sposai avevo ancora molti amici omosessuali. Cominciarono anche loro a crescere i figli esattamente come ero stato cresciuto io. All’inizio provai ad accettarlo. Ma durò poco: davanti ai miei occhi vedevo ripetere il male che era stato fatto a me. Sebbene sapessi che era sbagliato, mi dicevo che non dovevo giudicare. Ma l’egoismo di queste persone che portavano via i figli dai loro padri o dalle loro madri, divenne insostenibile. Guardavo questi bambini disorientati e col passare del tempo sempre più aggrappati alle ragioni dei loro genitori. Ogni figlio del mondo può ribellarsi, litigare con la mamma e il papà, dire loro che sta male. Ma nelle case omogenitoriali questo non è possibile, perché i bambini devono dimostrare ai genitori e a tutti di essere perfetti e il desiderio che hanno di essere amati li porta a sottomettersi a questo diktat implicito. È per questo che a certe domande ribattono spesso con risposte preconfezionate”. Quando la sua storia ha fatto il giro del mondo, la sua persona, la sua famiglia e la sua carriera, sono state pesantemente messe a repentaglio. Eppure, nonostante abbia dovuto nascondere la sua residenza, difendersi da false accuse e nonostante sia sposato con figli, non si è mai arreso. Robert Oscar Lopez, professore di storia alla University State della California, è quello che per la cultura contemporanea rappresenta il bersaglio numero uno, un vero e proprio nemico pubblico.
Benedetta Frigerio
Classe 1983, è nata a Milano. Diventata giornalista quasi per caso, ora scrive per passione. Collabora con Tempi e con La Nuova Bussola Quotidiana, trattando principalmente temi di bioetica e di fede.
Perché lui dà voce a quella generazione futura mai così a rischio e a quel bambino che non può ancora parlare, gridando al suo posto che il re è nudo. “Sono cresciuto – racconta il professore a ProVita – con mia madre e la sua compagna, dopo che mio padre e lei divorziarono quando ero molto piccolo. Era il 1973 quando l’omosessualità di mia madre e la mancanza di volontà di mio padre di lottare per il suo matrimonio li portò alla separazione”. E così “crebbi senza uno dei miei genitori”. Lopez descrive la sua sofferenza e il fatto di non riuscire “a sviluppare la mia identità maschile: non avevo una figura di riferimento del mio sesso quindi mi comportavo come una femmina, parlavo come una femmina, vestivo come una femmina e tutti pensavano che fossi omosessuale”. Purtroppo, però, era l’unico comportamento che aveva imparato dagli adulti che lo stavano crescendo: “Non poteva che essere così, non conoscevo altro”. La sofferenza di quegli anni, la compensazione della mancanza paterna tramite “rapporti sessuali con i maschi adulti quando ero adolescente”, il rapporto totalizzante della madre con la compagna, che “non lasciava molto spazio a me”, hanno poi spinto Lopez a riunire i pochi adulti cresciuti come lui per testimoniare la verità di fronte ai parlamenti di mezza America. Attivandosi per cercare di opporsi alla decisione poi presa l’anno successivo dalla Corte Suprema sul cosidetto ‘same-sex-marriage’, cominciò nel 2013 a parlare ai legislatori del Minnessota spiegando loro la menzogna della lobby Lgbt. Il professore ricorda bene quando all’università cercò rifugio fra le associazioni di persone che come lui provavano attrazioni omosessuali: “Accusavano gli altri di discriminazione, ma se osavi dire che ti piacevano anche le ragazze ti emarginavano”.
16 N. 40 - APRILE 2016
Un giovane anonimo, ‘figlio di un padre gay e di una madre surrogata’, scrive sul blog di Lopez: “La mia madre biologica viene spesso a casa mia. Voglio chiamarla mamma, ma i miei papà si arrabbiano da matti quando ci provo. Non pensate che sia normale odiare i miei papà? Ma devo essere un buon figlio perché hanno deciso di avermi? Io non odio i gay, ma vorrei che i miei genitori fossero eterosessuali. Sono una persona cattiva a sentire così? Tutti vogliono che io accetti ciò che non posso e non voglio”.
Lopez ha spesso descritto il bullismo subìto da una lobby incapace di accettare qualsiasi posizione che uscisse dalla propria strategia del momento. “Per fortuna, però, smisi di frequentare il gruppo di studenti Lgbt, perché mia madre si ammalò e non avevo più le disponibilità economiche per rimanere in università”. Ma la svolta avvenne più tardi: “Tornai al college, mi laureai e cinque anni dopo mi ammalai di tumore”. Fu a quel punto che avvenne quella che Lopez ha definito una ‘guarigione’: “Quando stavo male mio padre venne a trovarmi in ospedale e mi accorsi che la sua assenza era dolorosa e che avevo bisogno di guarire ricostruendo la mia relazione con lui”. Lopez confessò quindi all’uomo: “Io sono tuo figlio e tu sei mio padre”, provando una pace nuova. “Dopo l’intervento andai a vivere da lui”. La trasformazione che seguì per il professore fu come una ferita sanata in cui tutta la natura maschile e involuta “cominciava a liberarsi”. La seconda svolta fu durante gli studi di dottorato: “Incontrai la mia futura moglie e realizzai che la amavo, perciò non volevo rimanesse incinta senza potere stare al suo fianco e a quello di mio figlio”. Così i due si sposarono e Lopez è sicuro che sarà per sempre. Non a caso quando gli si chiede quale sia il problema profondo della crisi attuale, il professore risponde convinto che “il male sta nel divorzio”, perché l’amore vero si attua con “il sacrificio del per sempre”. E se dovesse tornare a provare pulsioni per un uomo? “È da tanto che non accade”, ma che sia uomo o che sia donna “lascerei scemare il sentimento”. Non è questo l’importante della vita, per essere felici ci vuole ben altro: “L’amore è darsi per la più alta causa del piano di Dio sull’umanità”. Lopez intende quello della creazione descritto da Dio stesso nel primo capitolo della Genesi, oggi più che mai sotto attacco.
L’anno scorso, in una lettera a Giuseppina La Delfa, presidente delle Famiglie Arcobaleno, pubblicata da Tempi, Lopez scriveva: “1. La perdita del genitore non avviene con il consenso del bambino, mentre gli adulti gay sono grandi abbastanza per scegliere; 2. La perdita del bambino è qualcosa di universale: non tutte le persone si sposano, ma tutte le persone hanno un papà e una mamma; 3. La perdita del bambino è permanente. Due adulti gay possono divorziare mentre il bambino non può rimuovere metà del suo patrimonio genetico. Per queste ragioni vi chiedo di scusarvi con tutti i bambini per aver affermato questa cosa atroce: ovvero che le persone non hanno il diritto a un papà e a una mamma”.
Quello per cui ha deciso di sacrificare tutto: “Credo di doverlo fare per amore di Dio e dell’umanità”, in un momento in cui le vittime non sono solo i bambini, ma anche gli adulti che cadono nell’ideologia che incoraggia “le coppie dello stesso sesso a pensare che la loro unione non sia distinguibile dal matrimonio”. Una vera e propria illusione, come aveva già ribadito al Parlamento del Minnesota. Perché, come si può parlare “di amore a un figlio, quando si tratta sua madre come un’incubatrice o suo padre, venditore di sperma, come un tubetto da dentifricio?”. Lopez lo ha ripetuto in ogni occasione dichiarando che il figlio è “fatto per crescere con un padre e una madre uniti” e che “tutto ciò che si fonda sulla menzogna ci si ritorcerà contro”. Perché se Dio perdona l’uomo che si pente, la natura purtroppo non perdona mai.
Una ragazza scrive sul blog di Lopez: “I genitori gay sono egoisti, in un certo senso. Non pensano a cosa vuol dire per me vivere nel loro mondo. Sono l’unica che si sente così? Sono una cattiva figlia perché vorrei avere un papà? C’è qualcun altro che ha due mamme o due papà che si chiede come sarebbe stato se fosse nato in una famiglia normale? C’è ancora qualcuno in grado di usare la parola ‘normale’ senza prendere lezioni su ciò che è normale? Non conosco mio padre e non lo conoscerò mai. È strano, ma mi manca. Mi manca quest’uomo che non conoscerò mai”.
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Sposarsi ha ancora senso?
Economicamente sposarsi non conviene. Ce lo spiega un avvocato specializzato in diritto di famiglia di Massimiliano Fiorin
Tutte le volte che capita, mi tornano in mente le stesse parole. Quelle che ho letto su una rivista pubblicata addirittura nel 1852. Pensieri che risalgono ad ancor prima dell’Unità d’Italia, che tuttavia a volerli rileggere oggi sarebbero tornati di prepotente attualità. Spiegherò solo alla fine di che si tratta. Per ora sappiate che quelle parole mi vengono in mente quando, come accade a tutti gli avvocati familiaristi, mi trovo di fronte a certi casi anomali ma sempre più frequenti. Sono coppie di coniugi che vengono dall’avvocato a chiedere la separazione per ragioni puramente economiche. In genere sono persone oltre la cinquantina, ma talvolta ne capitano di più giovani.
I separati pagano molte meno imposte e tasse dei coniugati
Massimiliano Fiorin
Nato a Bologna nel 1967, svolge zla professione di avvocato civilista. Giornalista pubblicista, saggista e blogger, affronta principalmente i temi della famiglia. È autore di La fabbrica dei divorzi (San Paolo, 2008)
Foto: stevepb
Vista l’ipocrisia che regna sovrana nel mondo del diritto di famiglia, e ovviamente anche il segreto professionale, del fenomeno non si parla quasi mai. Eppure esiste, e parrebbe essere pure perfettamente legale. Lo ha indirettamente confermato anche la Corte di Cassazione in una sua sentenza del 2003. La separazione e il divorzio, infatti, non si possono ‘simulare’. Perché quello che alla legge interessa è solo la volontà di non essere più conviventi né sposati. Non è decisivo il fatto che tra gli sposi sia davvero venuta meno la comunione di vita. Tant’è che questo tipo di coniugi si separano non perché abbiano smesso di andare d’accordo. Anzi, al contrario, lo fanno solo perché vanno molto d’accordo. E quindi si fidano l’uno dell’altra fino alla complicità. Infatti, si separano unicamente per pagare meno tasse. Oppure, per lucrare agevolazioni e prebende pubbliche che solo chi all’anagrafe risulta separato può ottenere.
Tra gli addetti ai lavori è un segreto di Pulcinella. Se n’è accorta persino Equitalia, e lo ha segnalato in un suo studio riguardante la tassazione sugli immobili. Non a caso, perché è quando in famiglia aumentano le proprietà immobiliari che separarsi diventa davvero conveniente. Ovvero, dovremmo meglio dire, diventa meno sconveniente che rimanere sposati. Il vantaggio consiste principalmente nella possibilità di speculare sui benefici ‘prima casa’. Nello stesso tempo consente di risparmiare sulle future imposte e tasse, pagando Imu e bollette varie con la tariffa agevolata prevista in questi casi. Non si tratta di due spiccioli, perché il risparmio fiscale in queste situazioni può essere davvero forte. Di solito queste scelte di comodo vengono prese da coppie già anziane e collaudate. Ma in molti casi separarsi converrebbe anche ai più giovani, che in genere non hanno, e coi tempi che corrono forse non avranno mai, risparmi da investire sul mattone. Come certi politici ripetono inutilmente da anni, in Italia le politiche familiari sono scarsissime. Per le imposte sul reddito non esiste il cosiddetto ‘quoziente familiare’. Ognuno le paga solo sui propri guadagni. Le detrazioni per i familiari a carico esistono, ma sono irrisorie rispetto a quello che attualmente costa davvero mantenere i figli. Per non parlare del costo indiretto di una moglie che, come ancor oggi spesso accade, per meglio seguire la prole rinuncia ad avere un suo lavoro, o si accontenta di un impiego poco retribuito. Ecco, in questi casi, il costo vivo del suo mantenimento se la coppia è sposata rimane integralmente un affare del marito. Se la coppia invece si separa, allora i contributi stabiliti dal giudice diventano deducibili.
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18 N. 40 - APRILE 2016
Certo, va detto che per osare una separazione ‘fiscale’, bisogna fidarsi davvero l’uno dell’altra. Perché se la coppia poi dovesse scoppiare sul serio, i contributi fittizi potrebbero essere davvero pretesi con tanto di arretrati, interessi e denuncia penale. Alla base del fenomeno, infatti, c’è proprio un problema di fiducia. La fuga dal matrimonio non è solo una questione fiscale. Quella in proporzione riguarda solo pochi casi. Il vero problema sociale e morale dei nostri tempi è quello delle coppie che non si sposano nemmeno. Stando ai dati dell’Istat, in Italia il fenomeno è esploso dopo il duemila. I figli che nascono fuori dal matrimonio, nell’ambito di semplici convivenze, sono saliti a un quarto del totale. Nel contempo, in Italia il numero dei nuovi matrimoni è in calo verticale. Perché questo avviene? Sono molte le cause, ma ce n’è una in particolare. Molte coppie preferiscono la convivenza soltanto perché hanno paura di quello che potrebbe capitare in caso di rottura. Infatti, non solo gli specialisti del settore si sono ormai accorti di quanto costi realmente un divorzio. Sul piano economico ma anche, e soprattutto, esistenziale. Anche le persone più sprovvedute, vedendo accanto a sé l’esperienza sempre più frequente di tanti separati e divorziati, si sono rese conto di come un matrimonio fallito possa ridurre le persone in mezzo a una strada. Perché si perde la casa. Si perde la possibilità di veder crescere i propri figli. Si perdono il lavoro e i risparmi. Il divorzio, quello vero e non simulato, è la più grande e misconosciuta tragedia sociale dei nostri tempi. Anche per questo, oggi i più giovani spesso preferiscono non sposarsi nemmeno. Fanno così perché sanno di non potersi più fidare l’uno dell’altra.
Il divorzio, quello vero e non simulato, è la più grande e misconosciuta tragedia sociale dei nostri tempi La legge, i giudici, tutto l’ambiente in cui viviamo, non pongono più alcun argine alla futura possibilità di divorziare. Se uno dei due coniugi lo vorrà, non troverà
nessuno che cerchi, se non di dissuaderlo, almeno di mettergli qualche limite. Non gli verranno nemmeno chiesti i motivi. È il trionfo del desiderio individuale, che basta e avanza per porre fine al proprio matrimonio. Oggi è impossibile chiedere conto del fatto che, quando ci si era sposati, si era preso un impegno serio. Se un coniuge tentasse di far presente al giudice che lui non è mai venuto meno alle sue responsabilità, e vorrebbe che anche il suo partner tenesse fede agli impegni presi, rischia di vedersi ridere in faccia sia dal magistrato che dagli avvocati.
Il matrimonio si può salvare solo se sussiste un’istanza superiore alla quale appellarsi. Tant’è che i matrimoni religiosi tendono a durare molto di più di quelli civil Pertanto, l’unico modo di far sopravvivere l’impegno nuziale è tornare a potersi fidare l’uno dell’altra. Occorre qualcosa che possa tornare a garantire la fiducia. Poiché lo stato ha abdicato a questo compito, il matrimonio si può salvare solo se sussiste un’istanza superiore alla quale appellarsi. Tant’è che, dicono le statistiche, i matrimoni religiosi tendono ad avere un’aspettativa di durata nettamente superiore a quelli celebrati dal Sindaco. È la grazia sacramentale, certo, che opera anche quando la gente non se ne accorge. In questi casi la fede serve più della fiducia. Ed ecco perché, in conclusione, mi viene in mente quell’articolo del quale dicevo all’inizio. Lo scrisse il beato Antonio Rosmini nel 1852, commentando il fatto che il Lombardo-Veneto stava per introdurre il matrimonio civile, indipendente da quello religioso. Scrisse Rosmini che se si toglieva al matrimonio la base religiosa, esso avrebbe finito per posare su un terreno troppo “[...] fluido, insicuro, condizionato dagli umori delle maggioranze di turno”. Profetizzò che in quel modo sarebbe venuto il giorno nel quale le coppie avrebbero finito per dire: “Ma che bisogno c’è di sposarsi, non possiamo convivere e basta?”. Questo venne scritto nell’anno del Signore 1852. Insomma, c’è chi aveva capito tutto con largo anticipo. Basterebbe trovare il modo di tornare a dargli voce.
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E se la maternità porta la felicità…? L’esperienza di una donna emancipata, giovane e fortunata professionista all’ingresso nel mondo del lavoro, completamente e irrimediabilmente trasformata dalla maternità di Costanza Miriano Quando ho scoperto di aspettare il mio primo figlio ero una giovane – almeno per gli standard attuali – giornalista (ventisette anni) agli inizi della carriera, non rampante, questo no, ma curiosa di entrare nel mondo del lavoro, desiderosa di farlo bene, e convinta che sarebbe stato possibile anche da mamma grazie a una collaborazione totalmente paritaria con mio marito. Sono bastati nove mesi per cambiare completamente il mio punto di vista. Non è stata la testa: ero una donna pienamente del mio tempo, imbevuta di convinzioni piuttosto diffuse (quello che conta è la qualità del tempo, bisogna imparare a delegare, i figli crescono: non ti lasciar assorbire troppo, e via dicendo). Non è stata la testa, dicevo, è stata la carne. Mentre io continuavo a pensare che avrei fatto la giornalista, un mestiere che avevo ancora tutto da imparare – sono diventata mamma al secondo contratto a termine, proprio agli inizi della mia esperienza – e la moglie e la mamma senza nessun problema o lacerazione, dividendomi tranquillamente su tutti i fronti, la mia carne mi ha trasformata. E, mentre il mio corpo diventava materno e le mie viscere facevano sempre più spazio a questo esserino sconosciuto (che oggi peraltro supera il metro e ottanta di altezza), il mio cuore veniva trasformato per sempre.
Costanza Miriano
È giornalista, scrittrice e blogger. Nata a Perugia nel 1970 e residente a Roma, ha quattro figli e un marito. Cattolica fervente, convinta che in cielo si vada solo tramite raccomandazione, è sempre in cerca di canali preferenziali per arrivare al Capo Supremo: trova che la Messa e il Rosario siano quelli che funzionano meglio.
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Il cambiamento è esploso in tutta la sua forza quando purtroppo è stato il momento di tornare al lavoro: mio figlio aveva quattro mesi, e se stavo troppo lontana piangeva perché voleva il latte. Io invece piangevo perché non potevo dargliene ogni volta che avrei voluto, e perché volevo lui. Ricordo quel periodo come un enorme continuo sforzo di stare il più possibile con lui, e come una condizione profondamente innaturale.
Ricordo che scappavo dal lavoro come una ladra, una ladra di tempo, e scappavo via da mio figlio di nuovo come una ladra, una ladra di presenza ed energie. Tiravo il mio latte e lo lasciavo in frigo a chi si occupava del bambino in mia assenza – mio marito, la nonna, la baby sitter – perché non volevo il latte artificiale (sono riuscita a non usarne neanche una goccia con tutti e quattro: ce l’abbiamo fatta da sole io e la mucca), e telefonavo ogni volta che potevo a casa nell’illusione di tenere tutto sotto controllo.
Questa verità sulla donna non viene annunciata e proposta come desiderabile: la maternità è considerata una specie di disgrazia… Racconto questa esperienza, così normale, così poco interessante, perché mentre esponendo teorie possiamo essere contestati, di fronte a ciò che ognuno di noi vive nessuno può protestare, tacciarci di essere ideologici, rifiutare. Questa è stata la mia esperienza: da donna emancipata, da fortunata giovane professionista all’ingresso nel mondo del lavoro, e nella sua parte più ambita (per una giornalista televisiva lavorare alla Rai è certo una delle cose più desiderabili che possano capitare), sono stata completamente e irrimediabilmente rapita da questo fagottino di tre chili e qualcosa, ho cominciato a vivere in funzione del suo respiro, del suo odore di latte, dei suoi sorrisi sdentati e bavosi, delle sue poppate, dei suoi baci, e poi delle sue parole buffe e dei suoi abbracci.
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20 N. 40 - APRILE 2016
Non è stato il fatto di essere una “cattolica tradizionalista bacchettona omofoba repressa”... e via etichettando. È stata la mia normalissima, e neanche troppo meritoria, carne di essere umano, di donna a reclamare la sua parte, rispetto ai miei progetti e ai miei condizionamenti culturali. Credo che ogni donna faccia questa esperienza all’arrivo della maternità: il problema è che questo diventare madre è sempre più raro e più posticipato nel tempo. E così sempre più donne vagano alla ricerca della propria identità, perché sempre meno spesso questa nostra verità ci viene annunciata e proposta come non dico desiderabile (se provi a dire a una ragazzina che le auguri di diventare mamma, e che questo avvenga presto, verrai guardata con sdegno, quando non verranno fatti gli scongiuri, come se la maternità fosse una iattura, o una cosa “Sì, bella, ma non adesso”), ma almeno possibile. E così andiamo allegramente verso l’estinzione dell’Occidente, e questa responsabilità è soprattutto nostra, di noi donne che abbiamo dimenticato a cosa siamo chiamate. Magari l’estinzione della nostra storia e della cultura non è un argomento fortissimo per convincere le giovani generazioni a riprodursi, ma questo credo che lo sia: una donna, quando comincia a dare la vita, trova se stessa e diventa felice. Almeno, questa è stata la mia esperienza e quella che ho visto nelle vite delle ormai tantissime donne che ho incontrato. La donna è chiamata a dare la vita. Tutto in noi parla di questo, tutta la nostra carne e la mente e il cuore sono progettati per fare spazio ad altre vite, per non rimanere chiuse alla ricerca dei nostri obiettivi, della nostra realizzazione. Conosco anche tante donne cui questo regalo grandissimo non è dato, o viene lungamente atteso prima di arrivare. Oppure donne, le consacrate, che decidono da subito di essere feconde in modo diverso, mettendo i propri talenti e le capacità al servizio della vita quando è più debole e minacciata. Questa, scriveva Ratzinger, rimane la profonda intuizione della donna su se stessa: è questo il meglio della nostra vocazione.
In ogni caso, che sia madre nella carne o no, una donna che accoglie questa sua chiamata (ci sono anche madri nella carne che non la vivono appieno, seppellendola sotto più e più strati di convinzioni ascoltate qua e là), trova la sua pienezza. Siamo fatte per donarci, come anche gli uomini, ma noi in modo diverso. L’uomo ama facendo, compiendo azioni fuori di sé, trasformando lo spazio e la realtà che lo circonda, in qualche modo uscendo da sé. La donna invece ama lasciando entrare, facendo spazio.
La donna è chiamata a dare la vita. Tutto in noi parla di questo, tutta la nostra carne e la mente e il cuore sono progettati per fare spazio ad altre vite Di fronte alla debolezza e alla piccolezza della vita la donna naturalmente si china, e sa vedere le necessità. Noi siamo dotate di radar specialissimi di cui l’uomo è sprovvisto. Ci servono a capire chi abbiamo di fronte, e a capirlo anche senza le parole, o magari a dispetto di quello che dice (il radar si rivela utilissimo durante l’adolescenza dei figli). Ci servono a imparare a capire le richieste di aiuto e a soccorrere con più prontezza. Non sto dicendo che tutte le donne siano brave madri, per carità. Anzi, a volte il nostro interesse per gli altri può diventare morboso e dobbiamo fare un lavoro su di noi per imparare ad amare lasciando liberi coloro che ci sono affidati, lavorando per la loro felicità vera e piena. Dico che questo è quello che ci compie, che ci fa veramente e pienamente felici, mentre al contrario quando diciamo no a questa chiamata, come sempre più spesso fanno le donne in Occidente, perdiamo una grande possibilità di pienezza e di felicità. Mi piacerebbe avere il potere di dirlo alle tante donne che cercano se stesse nei posti sbagliati: fate spazio nella vostra vita, aprite i cancelli, non mettete le barriere della contraccezione… e se una vita dovesse bussare alla porta, apritele! Non sta venendo a portarvi via niente, tanto meno la vostra libertà, perché quella che chiamate libertà spesso è solitudine. Sta venendo solo a portarvi qualcosa in più, un regalo dal valore incommensurabile e totalmente immeritato, qualcosa che vi renderà più capaci, più felici, più realizzate, e infinitamente più amate di prima.
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L’adulterio in provetta - parte prima
La fecondazione artificiale (anche omologa) è sempre da condannare, in quanto comporta un numero imprecisato di bambini morti. L’eterologa comporta inoltre diversi disagi e sofferenze ai ‘genitori’ committenti di Francesco Agnoli
In Italia la fecondazione artificiale eterologa è stata vietata dalla legge 40/2004, ma nel 2015 la Corte Costituzionale, presieduta dal magistrato Giuseppe Tesauro, ha sentenziato che l’eterologa è un diritto. Come si possa essere arrivati a una simile affermazione è un mistero, ma non è questo il luogo per affrontare l’aspetto giuridico della questione.
Quando l’uomo è sterile si sente in qualche modo ‘colpevole’, e finisce per credere che accettare il seme di un altro faccia felice la moglie e riporti la tranquillità in famiglia. Il ‘figlio’ non ha nessun legame genetico, biologico, con lui. Non è nato da un rapporto tra l’uomo e la donna, da una vera reciprocità, ma da un gesto da cui uno dei due partner è stato escluso (non senza patirne un’inevitabile umiliazione). Capiterà di certo che qualcuno, ingenuamente, gli dirà: “Guarda un po’, non ti assomiglia per nulla!”. Mettiamo qualche lite, tra moglie e marito, magari proprio a causa dell’educazione del figlio divenuto adolescente: non è difficile capire che il padre si sentirà in molti momenti ‘secondario’, e che di fronte a una tensione con la madre, ella dimostrerà di sentirsi l’unica vera genitrice, mentre lui tenderà a farsi da parte. “Non è neppure mio figlio, tienitelo tu! Sei tu che lo hai voluto!”.
Francesco Agnoli
Bolognese d’origine, risiede a Trento. Sposato, è in attesa del quarto figlio. Storico e saggista, è docente di Liceo e collabora, tra gli altri, con Il Timone, Radio Maria e Libero. Autore di diversi libri, nel 2013 ha ricevuto il premio “Una penna per la Vita”.
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Analizziamo, invece, alcune implicazioni di questa pratica, partendo da una domanda posta da molti bioeticisti: siamo sicuri che quel figlio che si va a ‘produrre’ con seme o ovociti di un terzo estraneo non sarà un domani condannato a far soffrire i committenti e a soffrire lui stesso? Partiamo dal primo punto, cioè dalle conseguenze dell’eterologa all’interno della coppia, esordendo con una citazione di Carlo Flamigni, celebre alfiere della fecondazione artificiale. Nel 2002, nel suo La procreazione assistita, scriveva: “Molto importanti e degni di attenzione sono i riferimenti alle risonanze negative che la donazione di gameti può far nascere sia nel padre che nella coppia”.
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Escluso dal rapporto generativo, l’uomo passa facilmente dal sentirsi umiliato, al desiderio di vendetta (sulla moglie o sul ‘figlio’ non suo); dall’abbattimento psicologico, all’affermazione della sua irresponsabilità nei confronti del non-figlio. Possiamo davvero pensare che un figlio che non nasce dall’unione della coppia, ma da un ‘adulterio’ in provetta, non destabilizzi i rapporti di coppia? L’equiparazione che qualcuno tenta di fare tra ricorso all’eterologa e adozione è falsa: nell’adozione si salva un bambino che c’è già; si danno dei genitori a un bambino che non li ha più; inoltre i coniugi partono e rimangono su un piano di parità (sono entrambi esclusi dalla generazione biologica). A questo si aggiunga che, nonostante queste evidenti differenze, l’adozione, che pure è un bellissimo gesto di generosità, è questione da maneggiare con delicatezza, senza lasciarsi guidare dal solo romanticismo: l’accesso a essa (a differenza dell’accesso all’eterologa) prevede un controllo multiplo – psicologico, socio-economico e giuridico – e, nonostante questo, talora esita in un fallimento adottivo, eventualità più frequente quando il figlio è stato ‘voluto’ con gradi di convinzione diversi. Tornando all’eterologa, la sua problematicità per il rapporto di coppia è così evidente che il partito comunista nel 1985, a prima firma di Valentina Cardioli Lanfranchi, propose – invano – un disegno di legge in cui l’eterologa era permessa, ma era previsto il ricorso al consultorio familiare per ovviare (e come?) ai turbamenti
che possono nascere nell’uomo “in relazione al senso di impotenza, all’angoscia di castrazione, alla vergogna della sterilità”. E questo per via di numerosi allarmi lanciati da psicologi, psichiatri ed esperti in generale.
Escluso dal rapporto generativo, l’uomo passa facilmente dal sentirsi umiliato, al desiderio di vendetta sulla moglie o sul ‘figlio’ non suo; dall’abbattimento psicologico, all’affermazione della sua irresponsabilità nei confronti del non-figlio Sempre negli anni Ottanta, Willy Pasini – psichiatra, sessuologo e direttore del Servizio di ginecologia psicosomatica e di sessuologia di Genova – riassumeva il dibattito in corso notando che: “La maggioranza degli uomini percepiscono il ‘donatore’ come un rivale nei riguardi del quale i sentimenti di inferiorità, di gelosia, per non parlare di delirio di persecuzione, possono scatenarsi”; e aggiungeva che vi sono donne che desiderano “[…] una gravidanza per se stesse, non per la coppia”. Esse “sono talvolta indotte a respingere il marito una volta che siano divenute gravide o che abbiano partorito”, divenendo “di più in più allergiche e frigide verso il marito”.
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Una ricerca di O. Ferraris e D. Guerrini su 49 coppie che praticavano l’eterologa in un centro di Roma prima della legge 40/2004, rivela che “non è raro il caso di uomini in cui l’inferiorizzazione aumenta all’idea di una gravidanza da eterologa vissuta nei termini psicologici di un’infedeltà coniugale: il 40% degli uomini intervistati non desidera essere presente alle applicazioni; analogamente il 37% delle donne non desidera che il marito lo sia”. Si potrebbero aggiungere tanti altri fatti: la presenza invisibile del ‘donatore’, nell’immaginario dell’uomo (come rivale) e della donna (come salvatore, ma anche come intruso); la conflittualità, rilevata nello studio sopra citato, all’interno di varie madri, tra il desiderio del figlio e il rifiuto – conscio o inconscio – dell’inseminazione artificiale (conflittualità psichica che sfocia persino in alterazioni ormonali, nel verificarsi di cicli anovulatori non presenti in precedenza, in sogni in cui il figlio, potenziale tanto desiderato, viene respinto…). Oppure si potrebbero citare almeno altri quattro fatti che dimostrano come il riconoscimento nel figlio dei propri tratti biologici (riconoscimento negato a uno dei due genitori nell’eterologa) non sia per nulla secondario e ininfluente, come sostengono invece i fautori dell’eterologa stessa. Il primo: tante coppie ricorrono alla fecondazione artificiale omologa, anziché all’adozione, proprio per avere ‘un figlio tutto nostro’. Il secondo: sin dal principio le banche del seme, per ‘rispondere’ evidentemente a una domanda esistente, e per provare a tamponare il fenomeno dei
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Tra la fecondazione artificiale eterologa e l’adozione c’è una grandissima e sostanziale differenza: gli adottanti ‘salvano’ il bambino abbandonato. I committenti ‘programmano’ un bambino abbandonato disconoscimenti paterni, hanno proposto anche la possibilità di selezionare un seme con caratteristiche il più possibile simili a quelle del padre ‘sociale’. Il terzo: è già accaduto che donne ricorse alla fecondazione artificiale omologa siano rimaste incinte per errore con il seme di un altro uomo (eterologa involontaria), e siano ricorse all’aborto per eliminare il nascituro (Corriere della Sera, 11.12.2009). Il quarto: oggi, nei cosiddetti matrimoni gay, i due maschi da una parte fanno di tutto per frammentare la figura materna (comperano gli ovuli da una donna, affittano l’utero da un’altra), per poi occultarla meglio (prevedendo che un giorno il figlio la ricercherà); dall’altra spesso mescolano il loro seme, affinché non sia chiaro quale dei due gay sarà il padre biologico, e non si creino quindi contrasti all’interno della coppia (essendo uno dei due uomini ‘genitore’ per la legge, ma un semplice conoscente, in realtà, per natura). Un discorso, questo, che è necessario completare andando ad analizzare cosa provano i ragazzi quando vengono a sapere che non sono figli biologici dei genitori che li hanno cresciuti. Ne riparleremo prossimamente su Notizie ProVita.
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Dalla bio-poietica alla bioetica
La bio-poietica è il complesso di tecniche di cui l’uomo dispone per incidere artificiosamente sui percorsi naturali della vita di Aldo Vitale
Selezione embrionale, procreazione medicalmente assistita omologa ed eterologa, maternità surrogata, aborto, aborto eugenetico, stanze del buco, suicidio medicalmente assistito, eutanasia, controllo delle nascite, coppie di fatto, manipolazione genetica, clonazione: ecco alcuni tra i più rinomati elementi che compongono il sottile limite, l’evanescente frontiera fra bioetica e bio-poietica. La bioetica, come ha notato Van Potter negli anni ’70 del XX secolo allorquando coniò il termine, è la scienza della sopravvivenza, cioè quella che tramite analisi critica di carattere medico, filosofico ed etico mette sotto osservazione gli sviluppi della tecnica per evitare che, pur pensati nell’ottica di favorire l’essere umano, si risolvano in pratiche antiumane.
È fondamentale che una coscienza bioetica vigili sempre su una scienza bio-poietica
Aldo Vitale
Avvocato, è dottore di ricerca in Storia e teoria generale del diritto europeo, presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Tor Vergata, a Roma, ed è cultore della Biogiuridica e della Filosofia del diritto.
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Più difficoltosa sembra profilarsi l’identificazione del concetto di bio-poietica, mancando una definizione ufficiale della stessa. Dal greco bios (vita) e poiesis (letteralmente fabbricazione, ma da intendersi più liberamente come manipolazione), per bio-poietica si può intendere il complesso di tecniche di cui l’uomo dispone per incidere artificiosamente sui percorsi naturali della vita, creandola a condizioni diverse da quelle dettate dalla natura, modificandola in termini diversi da quelli naturali, determinandone la fine in modi e per motivi diversi da quelli naturali.
Il concetto di poiesis è da intendersi, così come lo era per i greci, strettamente correlato a ciò che le menti elleniche definivano techne, cioè abilità, capacità tecnica. Nell’ambito della bio-poietica, dunque, assume una significativa rilevanza la techne, la tecnica, a tal punto da poter ritenere che la bio-poietica si traduca concretamente nella bio-techne, la bio-tecnica, cioè le modalità tecniche con cui si può gestire artificialmente la vita dalla sua origine al suo termine. La bio-poietica si fonda dunque sul bio-tecnicismo, cioè sulla capacità dell’uomo di poter usufruire di un variegato possibilismo tecnico con cui intervenire a piacimento sulla vita. Essa indica, allora, il processo sincretico fra volontà di gestire e manipolare la vita da un lato, e la possibilità tecnica (bio-tecnicismo) di farlo dall’altro. Insomma, la bio-poietica si fonda, in ultima istanza, sul cosiddetto tecnomorfismo, cioè, come spiega il prof. Francesco D’Agostino, la dimensione in cui “diventa ingenuo evocare il detto comune secondo il quale non è lecito fare tutto ciò che è possibile fare, perché il fondamento della liceità coincide col fondamento stesso della possibilità. Posso dunque devo”.
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La bio-etica insegna, invece, ad affrontare il problema di come stabilire, secondo parametri legati alla ragione e alla giustizia, cosa sia giusto e cosa non lo sia a proposito della vita e dei comportamenti umani. Trascurando i problemi di cui ciascuna tematica soffre di per sé, maggiori dilemmi sorgono nel momento in cui bio-etica e bio-poietica interagiscono. Il nodo gordiano da sciogliere è stabilire se le operazioni della bio-poietica siano inquadrabili nell’ambito della bio-etica o se diversamente possano rappresentare un catalogo autonomo di valori. Stando alla semplice osservazione delle innovazioni legislative degli ordinamenti giuridici europei, si osserva un aumento della tendenza del legislatore a disciplinare materie sempre più attinenti la vita. Il legislatore, infatti, arranca dietro il progresso tecnico che al continuo galoppo crea infinite lacune normative, una continua ‘vacatio legis’ su tematiche sempre più importanti che egli ritiene – non sempre a ragione – non possano non essere subordinate al vigore di una legge, perché attinenti a questioni fondamentali per l’individuo e per la società.
La bio-poietica comprende la bio-tecnica, cioè le modalità tecniche con cui si può gestire artificialmente la vita dalla sua origine al suo termine L’attività del legislatore, dunque, si adagia, in un certo senso, sull’attività scientifica che si configura non solo come priva di regole, ma come normativizzante piuttosto che normativizzata, cioè, in definitiva, assolutamente autonoma dal contesto etico-giuridico.
Il legislatore, che nella maggior parte dei casi si ritrova davanti ad un fatto compiuto, prende atto di ciò che è accaduto e disciplina di conseguenza. Tuttavia il legislatore gode di una significativa libertà nel momento in cui deve scegliere il modello di riferimento, il sistema di valori a cui riferirsi, il tipo di libertà da garantire e disciplinare con il suo operato; al legislatore è, insomma, rimessa la facoltà di decidere se propendere per una visione bio-etica o per una visione bio-poietica.
La bio-poietica si fonda, in ultima istanza, sul tecnomorfismo, cioè la dimensione in cui è lecito fare tutto ciò che è possibile fare, perché il fondamento della liceità coincide col fondamento stesso della possibilità. Posso, dunque devo! La prospettiva bio-poietica, e con essa tutti i suoi sostenitori, presuppone, esige anzi, che il legislatore propenda per concedere quanto più spazio possibile all’evoluzione tecnica e alla possibilità di applicazione della stessa o che, addirittura, non disciplini del tutto la materia, lasciando alla comunità scientifica la libertà di autodeterminarsi. La prospettiva bio-etica, invece, richiede non solo che il legislatore disciplini una determinata materia o questione tecnica, ma si adoperi per definire i perimetri di ciò che è giusto e di ciò che non lo è all’interno di una determinata operazione scientifica o tecnica, sia quando essa è soltanto al livello sperimentale, sia quando di essa si faccia esplicita applicazione a livello sociale.
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Oggi la ricerca scientifica tende a dettare le norme giuridiche, non si accetta che essa debba sottostare alle regole. Invece è il legislatore che dovrebbe (eticamente) porre limiti e confini del lecito e del giusto alla tecnica, soprattutto nei campi attinenti alla vita e alla morte
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La dimensione bio-poietica esprime con chiarezza il concetto per cui solo nelle infinite possibilità di fare dell’uomo può esservi un progresso autentico oltre ad una reale libertà, mentre la bio-etica ritiene che la vera libertà possa talvolta essere minacciata, e con essa la giustizia, la razionalità e le leggi di natura, dall’infinito possibilismo tecnico e che il progresso non sia necessariamente coincidente con il suddetto possibilismo tecnico, ma che anzi possa identificarsi con un limite da porre razionalmente giustificato dalle leggi naturali.
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Nell’ottica bio-poietica, insomma, l’unico limite umano è rappresentato dalla mera possibilità tecnica di eseguire determinate operazioni – quasi in un delirio di onnipotenza – creando un Superuomo di stampo nietzschiano, laddove nella prospettiva bio-etica, invece, l’uomo è perimetrato nei confini della sua umana e naturale finitudine sancendo, dunque, che sono proprio i suoi limiti a determinarne l’umanità. Le azioni dell’uomo per la prospettiva bio-etica hanno dunque un limite, il limite di non alterare, lacerare o annientare l’umanità dell’uomo stesso con procedimenti tecnici e scientifici di dubbia eticità in quanto di dubbia razionalità. La bio-poietica, insomma, esprime la percezione che l’uomo ha di se stesso come homo faber, esplicitando una forma di volontarismo assoluto fondato su un sostanziale relativismo etico e giuridico che porta a negare l’inderogabile cogenza delle leggi di natura con la possibilità, dunque, di poterle manipolare e stravolgere a proprio piacimento. Ecco perché non ogni potenziamento tecnicoscientifico è per se stesso un progresso; ecco perché qualunque potenziamento suddetto potrebbe rivoltarsi contro l’uomo, ledendone la dignità; ecco perché è fondamentale che una coscienza bioetica vigili sempre su una scienza bio-poietica.
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Ferdinando Costantino
Classe 1977, è geologo e ricercatore universitario in chimica generale e inorganica presso l’Università di Perugia.
Johan Heinrich Füssli, L’incubo, 1871
Il sonno della ragione genera mostri
La ricerca dell’etica condivisa alla luce della legge naturale serve a evitare i mali della ragione secolare, che oggi mostrano i loro frutti in un Occidente privo di identità di Ferdinando Costantino All’indomani della storica votazione in Senato che ha approvato per la prima volta in Italia una regolamentazione delle unioni civili fra persone dello stesso sesso è ancora importante chiedersi quale sia il ruolo dei parlamentari cattolici nella ricerca del bene comune e della loro azione politica.
Il potere non può essere mai separato del diritto, e solo quando il potere esprime giustizia può riscuotere quella fiducia necessaria al vivere sociale: perciò il diritto deve ancorarsi a qualcosa di più che il semplice principio maggioritario L’insegnamento di Benedetto XVI sui rapporti tra Fede e Ragione consta di tanti documenti redatti in età giovanile, e soprattutto durante il suo pontificato. Nel 2004 a Monaco il Cardinal Ratzinger si incontrò con J. Habermas durante la conferenza I fondamenti prepolitici dello stato liberale. Durante l’incontro il filosofo sosteneva che “la ragione secolare deve aprirsi osmoticamente alla fede, per imparare e creare la ‘sfera pubblica polifonica’ nella società post-secolare”.
Nella sua risposta (Ciò che tiene unito il mondo) il Card. Ratzinger ribadiva che l’apporto che l’etica cristiana poteva dare alla società civile era “far riscoprire ciò che nella società occidentale è dimenticato: il potere non può essere mai separato dal diritto, e solo quando il potere esprime giustizia può riscuotere quella fiducia necessaria al vivere sociale. Ma il diritto ha bisogno di riferirsi a qualcosa che lo superi, non basta la formazione democratica, perché in nome della democrazia anche le maggioranze possono essere cieche e ingiuste, come dimostra abbondantemente la storia”. Fra le patologie della religione Ratzinger parlava apertamente dell’uso della violenza giustificata dalla religione (vedi anche Discorso di Ratisbona), ma fra le patologie della ragione secolare indicava la bomba atomica e l’uso sempre più frequente di tecniche di fecondazione artificiale. È interessante vedere come le due questioni, seppur separate da mezzo secolo di storia siano messe sullo stesso piano. Entrambe esprimono una pretesa di onnipotenza dell’uomo moderno che si fa Dio decidendo della vita e della morte del proprio fratello. In tal senso l’uso retto della ragione serve a curare le patologie della religione, ma anche un ascolto delle istanze e dei contenuti di fede aiuta la ragione secolare a non superare i limiti imposti dalla legge naturale e a non diventare hybris (tracotanza) e autoreferenziale. I mali della ragione secolare mostrano i loro frutti in un occidente privo di identità, inerme di fronte all’emergere dei valori dei
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Il senso del limite non deve essere visto come castrante. La ragione è chiamata ad andare oltre, ma deve sempre contenersi entro il bene comune, che è un dato oggettivo. Altrimenti genera distruzione e sopraffazione dei più deboli.
Paesi a maggioranza islamica, incapace a far nascere figli e soprattutto di farli crescere in un tessuto sociale che li protegga e li valorizzi, ma tutto incentrato nel chiasso caotico di chi urla di più nel mettere sul piatto della bilancia le proprie istanze. Istanze che sono valorizzate non in quanto ‘buone’ secondo un criterio di giudizio oggettivo e condiviso, ma in quanto giudicato tale soggettivamente e a volte violando i diritti dei più deboli: basti pensare alle ignominiose pratiche della fecondazione artificiale, dell’utero in affitto, che per alcuni esprimono un ‘giusto diritto a un figlio’; basti pensare – appunto – alle istanze di chi vuole sia permessa l’adozione alle coppie omosessuali, con evidente (ma negato, anche contro l’evidenza) detrimento per la crescita sana ed equilibrata dei bambini. Riguardo all’uso della tecnica Giovanni Paolo II in Fides et Ratio descrive il relativismo di gran parte della cultura occidentale: “Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull’uomo. I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta a indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato a indirizzarsi verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento a essa, ciascuno resta in balia dell’arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell’errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. È così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana.
Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunto. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto a un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo”.
La ragione secolare è diventata autoreferenziale, fonda la sua etica in un pragmatismo di tipo tecnicistico che non ha più l’istanza del bene Ciò che sta succedendo oggi è esattamente quanto predetto e ribadito da molti pontefici: la ragione secolare, diventata autoreferenziale, fonda la sua etica in un pragmatismo di tipo tecnicistico che non ha più l’istanza del bene comune ma che vede nel bene dell’individuo (cosi come lui lo percepisce) l’unica fonte positiva di diritto, da perseguire in ogni modo se la tecnica lo permette. Se viene meno la percezione del bene comune fondato su un’etica condivisa non c’è da stupirsi se i parlamentari di ispirazione cattolica che ci rappresentano votino leggi come quella sulle unioni civili con l’avallo di qualche vescovo che vede in esse “un contributo importante al bene comune” eludendo volontariamente quanto espresso da Benedetto XVI nella nota della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2006. C’è da sperare che la rilevanza del mondo cattolico nelle istituzioni d’ora in poi sia fondata su persone che non fanno della fede o della propria condotta personale un fatto privato da esporre all’occorrenza per prendere voti, ma che formino la propria coscienza tramite l’uso corretto della ragione illuminata dalla fede. E che usino parte del loro tempo per leggere e approfondire gli scritti dei grandi pontefici che abbiamo avuto. Solo così potremmo dire che il popolo del Family Day sarà ben rappresentato e le sue istanze difese nella maniera migliore.
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Letture consigliate Costanza Miriano Quando eravamo femmine – Lo straordinario potere delle donne Sonzogno Editori “Noi donne ci siamo, per così dire, emancipate, abbiamo conquistato la libertà di scegliere, nel lavoro, nell’amore, nella vita. Ma a che prezzo? Siamo davvero più felici? E, soprattutto, rendiamo più felici le persone che ci sono affidate? Non è che per caso femminismo, rivoluzione sessuale e battaglie per la parità hanno finito per lasciarci più sole e tristi?”. Per rispondere a queste domande – afferma ancora Costanza Miriano – è necessario “liberarsi dagli schemi della rivendicazione e capire quale grande privilegio sia l’essere femmine, destinate dalla natura ad accogliere la vita […]. E quale grande avventura possa essere per noi diventare spose e madri, accanto all’uomo con cui possiamo arrivare a diventare una carne sola”. Perché, in fondo, è questo il segreto per essere veramente felici.
Aurelio Pace, Carlo Di Pietro Gender – Ascesa e dittatura della teoria che non esiste Edizioni Radio Spada Cosa c’è di vero nella cosiddetta ‘teoria del gender’? Che cosa dicono i ‘gender studies’? Il saggio esalta il valore della persona e si contrappone al pensiero dominante. Andando a sviscerare l’attualissima questione del gender, gli Autori la risolvono con oggettività, superando i limiti delle passioni e del sentimentalismo. Cronache politiche, storiografia del problema, ricerca scientifica, esperienze di vita vissuta e una limpida esposizione della dottrina caratterizzano il libro, che si distingue inoltre per l’ironia usata nel demolire certe convinzioni e per una notevole dose di indomito polemismo.
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