Quaderni di Restauro

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I Quaderni di Restauro


In corpo Bartolomeo XIV - X

ms. Fanzag Biblioteca Vincenzo Pinali,


ore sano

Squarcialupi V secolo

go 2, I, 5, 28 , Sezione Antica, di Padova


J8CM@8DF LEÛÛ:F;@:<

Il restauro del volume medicale ms. Fanzago 2, I, 5, 28 di Padova

Restored in the framework of project “Save a Manuscript” for the 43rd Congress of the International Society for the History of Medicine, chaired by Professor Giorgio Zanchin and held in Padua on 12 - 16 September 2012, the Libro de le experiençe che fa el cauterio del fuocho ne corpi umani by Bartolomeo Squarcialupi, a Paduan physician, is preserved at the “Vincenzo Pinali” Medical Library in Padua. It is a fascinating medical and surgical treatise that describes the practice of cauterisation, namely the application of hot irons (cauteries) on body parts presenting a wide range of diseases.The text is written in ancient Italian with Venetian elements, in the wake of other famous manuscripts that were produced in Padua under the rule of the Carraresi family during the late 14th and early 15th centuries.The drawings in this work are equally important and reveal that the unknown artist closely followed the Paduan pictorial tradition that was deeply influenced by Giotto.

In corpore sano •

Restaurato nell’ambito del progetto “Salviamo un Codice” in occasione del XLIII Congresso della International Society for the History of Medicine, organizzato a Padova dal 12 al 16 settembre 2012 sotto la presidenza del professor Giorgio Zanchin, il Libro de le experiençe che fa el cauterio del fuocho ne corpi umani, custodito presso la Biblioteca medica “Vincenzo Pinali” di Padova, con un’attribuzione al medico patavino Bartolomeo Squarcialupi, è un trattato medico-chirurgico di singolare interesse, in cui la pratica della cauterizzazione, consistente nell’applicazione di ferri roventi (cauterii) nelle parti affette dalle più varie patologie, viene esposta in un volgare venetizzante che riecheggia altri celebri manoscritti realizzati nella Padova dei Carraresi tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV. Altrettanto rilevante è l’apparato illustrativo dell’opera, in cui l’ignoto autore dichiara la propria adesione alla tradizione pittorica padovana e segnatamente giottesca.


In corpore sano Il restauro del codice medicale ms. Fanzago 2, I, 5, 28 della Biblioteca Vincenzo Pinali, Sezione Antica, di Padova

Restoration of the medical manuscript ms. Fanzago 2, I, 5, 28 at the Vincenzo Pinali Medical Library in Padua a cura di Giorgio Zanchin


Libro dele experience che fa el cauterio del fuocho ne corpi humani trascrizione a cura di Leonardo Granata


(homo venarum, lato sinistro) ¶ Vale contra el dolore emigraneo17 dela testa (con linea rossa che indica la fronte). ¶ Vale contra l’anticho18 dolore di testa et contra stupore19 di mente (con linea rossa che indica la fronte, lato sinistro). ¶ Vale contra l’egritudine20 deli ochi con difecto de vedere21 (con linea rossa che indica la fronte, lato sinistro). ¶ Vale contra dolore d’orechie, d’ochi e lacrima22 e cativa veçura23 et contra ulçeratione d’ochi et dolore emigraneo (con linea rossa che indica la fronte, tempia sinistra) ¶ Vale contra el dolore de denti, di çençive, riema24 di testa, pustole nel capo, apostematione di labra, et è la vena del lato dentro del labro di soto dela bocha (con linea rossa che indica la bocca). ¶ Vale contra dolore di maselle per denti o per altra casione25, contra el plurito del naso e le pustole de la façia, e dolore de l’ochi [segue lettera espunta] (con linea rossa che indica il mento). ¶ Vale contra el dolore et contra la [segue: intestatione d., depennato] contratione de budelli (con linea rossa che indica l’addome). ¶ Valeno le vene di questo braço mancho26, come quelle del drito27, ecepto che se voi trare de la milça sangue dei trare del braço mancho, e se voi trare del ficato trai del braço drito, et non amare di sapere la raxone. ¶ Vale contra el dolore et contra la graveça28 de la milça, del pulmone e del ficato, ma melglio è per lo ficato nela man drita (con linea rossa che indica la mano sinistra, fra indice e anulare). ¶ Vale contra el dolore dela testa e del’ochi (con linea rossa che indica la mano sinistra, fra pollice e indice). ¶ Vale contra el dolore et contra el tumore de testicoli et dele rene, e so due vene da lato dentro dela corona (con linea rossa che indica il prepuzio). ¶ Vale contra el dolore del’anche, di cosse, di gotte29, contra le varixe30 et contra l’elenfansia31, et è una vena da lato di fuora sopra la chavichia del pe’, ma in çascuno pe’ le vene so pare, e avendo convegnança32 con le gambe insieme, como l’uno braçio con l’altro e l’[una] mano con l’altra (con linea rossa che indica la caviglia sinistra, lato esterno). ¶ Vale contra el dolore dela sciatica et dele cosse et contra l’apostema di testicoli (con linea rossa che indica entrambi i piedi, lati interni all’altezza dei malleoli).

(f. 1r)

Hic incipit noticia anothomie secundum eundem magistrum. (homo zodiaci) Aries (testa); Taurus (collo); Gemini (braccia); Cancer (petto); Leo (petto); Virgo (addome); Lybra (addome); Sagiptarius (cosce); Capricornus (ginocchia); Aquarius (gambe); Piscis (piedi). (homo venarum, lato destro) ¶ Vale contra el dolore dela parte de drieto del capo de l’uomo (con linea rossa che indica la fronte). ¶ Vale contra el panno1 dela facia e rosore et contra el fluxo deli ochi (con linea rossa che indica il naso). ¶ Vale contra l’apostema2 dela gola et contra la squinancia3 et ogni tumore4 de gola, et contra el fectore el dolore dela bocha (con linea rossa che indica la lingua). ¶ Vale contra el dolore del cuore, del stomaco e dele coste (con linea rossa che indica l’interno del braccio destro). ¶ Vale contra el dolore dela testa, del’orechie, deli ochi e dela lingua (con linea rossa che indica il braccio destro, altezza del gomito). ¶ Vale contra el dolore del ficato5 e contra el sangue di naso (con linea rossa che indica l’interno del braccio destro, altezza del gomito). ¶ Vale contra el dolore del pecto, del ficato, del polmone, contra la dificultà de l’anelito6 et contra el dolore del diaflama7 et dela milça. ¶ Vale a contemperare la caldeça8 del cuore et contra le moriçe9 (con linea rossa che indica la parte superiore del pene). ¶ Vale contra el dolore dele rene et del membro per caldeça10 (con linea rossa che indica la parte centrale del pene). ¶ Vale contra le posteme11 dele rene, dela vesicha et contra dolori de lombi e de matrice12 se femena (con linea rossa che indica la gamba destra, altezza del ginocchio). ¶ Vale contra el dolore dele coste, del’articuli13, contra l’apostema di testicoli et contra la retentione del mestro14 e dele morisce (con linea rossa che indica la caviglia destra). ¶ Vale contra la reteptione del mestro, contra l’otalmia deli ochi15 e pustole et contra el dolore di bodelli, dele coste, dele cosse16, di lombi, così in maschio como in femena (con linea rossa indica il piede destro, parte esterna). ¶ Vale contra l’otalmia et contra le pustole del’ochi e dele cosse (con linea rossa che indica il piede destro, parte interna). 1

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Gonfiore. Infiammazione. 3 Angina di gola. 4 Tumefazione. 5 Fegato. 6 Respiro.

Diaframma. Eccitazione, tachicardia (?). 9 Emorroidi. 10 Eccitazione. 11 Infiammazioni.

Utero. Articolazioni. 14 Mestruo. 15 Infiammazione degli occhi. 16 Cosce.

Emicranico. Cronico. 19 Confusione. 20 Malattie. 21 Diminuzione della vista.

Lacrimazione. Diminuzione della vista. 24 Catarro. 25 Causa. 26 Braccio sinistro.

Destro. Pesantezza. 29 Gotta. 30 Varici. 31 Elefantiasi. 32 Corrispondenza (?).

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(f. 1v) 000v)

(f. 000r)

ui cominça el proemio del libro dele experience che fa / el cauterio del fuocho ne corpi humani, compilato da / de [oppure: di] maestro Bartolo de Squarcialupi [oppure: di] [...]33 / Segondo che scrive el grande comentatore Averoys scrivendo de philo/sophi disse per meravegliarsi34 començono a philosophare. ¶ Cossì / meravegliandomi dico molti e nobelissimi homeni signori, re e / imperadori di grande animo e di grande intellecto, como per li antighi si recita/simo innançi che fosse la sciencia35 de medexina. ¶ Però che se-

gondo e naturali / philosophi fo tempo infinito. ¶ Et segondo la nostra fede fo tempo finito / niente di meno concedendo più e più miglara d’anni essere passadi innançi / che fosse Ipocrate. ¶ Al quale, segondo che si trova, [prima]36 ordinò la sciencia / de medexina. ¶ Et lui è posto come invendore d’essa, si come Pictaura primo / inventore di philosophia. ¶ Avegna Dio ch’io trovi scripto da l’antighi che / trovò Galieno, essendo philosopho per astrologia, musica, geometria et arismetrica, la / trovò, çoè si vol dire la ordinò, e pose con

Q

3

La nota, in ebraico, presenta difficoltà d’interpretazione nella seconda parte; le consonanti sono: dmiumit o dmiosit.

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Interrogarsi. Conoscenza. 36 Caduta dell’inchiostro con lettura incerta. 35


quello ordine e distintione che / presencialmente si trova. ¶ Como adoncha fasevano quilli nobilli homeni / innançi che Ipocrate fosse considerato, che sempre fo et è di necessità che ogni / corpo a la cui generatione concorre quatro elementi o che sia composto di quatro / elementi refrati37, come diceno i philosophi, siei sotoposto a le infirmità le quale / de necessità precedono la substanciale, parciale et totale corruptione, non solo / de l’uomo ma de çaschaduno animale. ¶ Et questo è solo per la contrarietà che / ànno li animali da la parte dentro e di fuora, como è manifesto. ¶ Et però stando / i corpi de li animali come sono ordinati da la natura è di necessità che ogni cossa ge/nerata si corrumpa, e questo dise el philosopho, e così neuno animale è né esere / pó che eternare si posa. ¶ Non è da rispondere per alcuno che abi intellecto / che i diti antighi non avesseno inçegno o arte a medicarsi açò che si preserva/seno, però che serebe contra ogni ordine bono di natura. ¶ Prima dicendo el / philosopho ogni cosa desidera preservarsi. ¶ Segondamente considerando che / la natura abi dato a principio a li animali bruti industria per la quale si possino cura/re e preservare, come vedi al cane la lingua e la saliva lecandosi la piaga si cura / perfectamente. ¶ E simelmentre la donola che abiando rotto l’ossa, o per caduta / da alto o per altro caso mançando la porciglola38 subito guarisse, e così quando è / stata morsa dal serpente mança la ceserbita39, segondo che si trova per speriencia. ¶ / Et questo à fato solo la natura açò che si preservino nele specie loro. ¶ Come / adoncha maiormentre a li homeni è da dire açò che non manchi la loro generatio/ne considerando che solo per lui Idio compose et fé el mondo40. ¶ Et imperò, / considerando la vita di i diti antighi e racogliendo insieme l’esperiencie e le ope/ratione mirabile de valenti homeni che precesseno Ipocrate, ¶ trovo che ogni in/firmità che pó ocorrere al corpo de l’omo, dal capo infine a li piedi, le quale mostre/rò chi di soto per exemplo in vinti figure tra homeni e done, de le quale le di/soto sono sperimentate e trovate innançi che fose Ipocrate, e l’altre doe sono tro/vate l’una da lui e l’altra da Galieno, segondo chi trovo. ¶ Ponendo çaschadu/no di loro çaschauna infirmità di queste aver curato con cauterio di fuocho / çaschaduno le soe. ¶ De quali el nome porò di soto e simelmentre le infir/mità e i luogi dove denno essere cauteriçati et di che figura dé essere el ferro con / che si dé cauteriçare li infermi ponendo çaschauna cosa ordinadamentre per e/xemplo. ¶ Le quale cose i diti antighi, parlando da Ipocrate innançi, non eb/beno per sciencia de medexina ma per sperimento41 e per rasone42, come provar si pó / bene per quello che dito è di sopra. ¶ E quali sono strumenti de ogni perfecta / operatione, come dise Galieno. ¶ Del quale sperimento parla Ipocrate, ove / disse el iudicio dificile et lo sperimento pauroso, segondo che spone Galieno. / ¶ Et però è da tenere che a lo sperimento debiamo credere e non negare [...].

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Distinti. Forse da identificare con portulaca. 39 Forse da identificare con cicerbita. 38

40

(f. 2r) [...] et de tutti e lengni et de tutte e le pietre et de tutti li corpi minerali et di / tutti fiori la qual cosa notificando Noè a tutti e paesi, di quatro paesi venne / a Noè homini, cioè d’Egipto, di Macedonia, d’India et di Siria. ¶ Quelli / d’India tolseno le vertù de lengni et di minerali. ¶ Quelli di Siria tolse/no le vertù dell’erbe et di loro semençe et de fiori et dele pietre. ¶ Quelli / di Macedonia come homini ingengnosi ordinorno el modo et l’ordi/ne d’operare cole dicte cose et così sono chiamati principiatori dell’ar/te di medescina. ¶ Quelli d’Egipto, vedendo le vertù de queste cose ope/rare et non operare, se non per la vertù de corpi celesti cioè dele stelle et dele / pianete del cielo, come sottilissimi homini cominciano aguriare et fu/rono chiamati primi inventori dela dicta arte quanto a quello tempo / benchè innançi el Diluvio era stato altri maestri i quali trovarono uno / libbro el quale fu de Caldei, el quale Ginasio figliulo d’[uno]43 el quale fu / figliuolo di Cedro traslato, el quale Ginasio, sigondo che trovo, fu pri/mo et nuovo inventore et principale maestro dell’augurii, po’ che fu / grandissimo tempo innançi el Diluvio e de quelli nasce Asclepio, el quale / cum trentanove auguriatori non solo in corpi celesti ma in are, in uscelli / et in bestie, in fuocho, in polvere, in osa, in aqua et in membri, le quale ar/te al presente sono chiamate per questi nome: nigromantia, aeri/mantia, piromançia, geomantia, ciromancia, spatulemancia44 et idro/mantia, et queste sonno sette spetie trovate da costoro e quali erano / in tutto quaranta, e queli insieme legati per sacramento, et vedendo la / grande et mirabele operatione che fasceano in queste arte, dando / al homini sanità et provedendo ancora ale cose che deveano occo/rere. Et questa era allora chiamata sciencia di medicina pensonno di vo/lere cercare più innançi et di volere trovare modo di fare chell’omo / non morisse mai, et questo credeano di fare si come loro aveano tro/vato a dalli sanità quando era malato. ¶ Trovando con loro aguri che / nel Paradiso Terestro era uno arbore el quale si chiama el Lengno / dela vita, dicendo loro chi mangiasse del dicto lengno mai non / morebbe. Et volendo trovare questo con grande animo et disiderio, / come ciascuno dé pensare, andonno ala porta del dicto Paradiso tutti / e quaranta, e quali aproximati ala porta del dicto luogo l’angnolo / che sta ala guardia dela porta con uno coltelo di fuocho in mano ve/dendo la loro presuntione, tutti quaranta col dicto coltello l’uci/se, et in questa forma et modo perì la scientia et l’autori, sigondo che / trovo equali. Quello tempo non funno chiamati auguriatori, né / aurispici, né indivini ma sommi medisci.

Da solo a mondo su rasura, sopra altro testo non leggibile 41 Conoscenza pratica, empirica.

42

Ragionamento. D’incerta lettura, forse su rasura. 44 Termine forse da identificare con scapulomanzia. 43

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2v) (f. 000v)

(f. 000r)

orti costoro tutti, stette el mondo mille secento et trenta anni che / mai non si trovò niuno che dell’arte dela mediscina s’ardisse a mette/re a operare o per paura o per poco ingengno ch’avesseno, ma penso / che vedendo la natura avere perduto tanto dono et cosa così necessaria / come ella è, po’ che sigondo che disce Salamone: “honora el medico”45, Idio / el criò per necessità. Et questo tempo così çença arte o mingengno di me/discina durò infine a Ipocrate Asclepio, nato nell’isola di Choo, el quale / con altri savi et in-

gengnosi homini, sigondo che trovo, veduti e libri co/modi et col’enventione de passati, in nel tempo sopradicto composeno li/bri in mediscina, et comitiò allora mediscina avere nome di scientia. Et / però, disce alcuno, che Idio rivelò a Ipocrate la scientia di mediscina, la quale / cosa non trovo vera né non è verisimile, po’ che Idio non rivela se non a ho/mini de buona conscientia, ma, sigondo che trovo, in nela vita del dicto Ipo/crate lui ebbe et fu vitioso di quello peccato che comunamente cade ne / medisci, cioè dogn’invidia, po’ che lui

M

45

Siracide, 38:“Onora il medico come si deve secondo il bisogno, anch’egli è stato creato dal Signore”.

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uscise el nipote carnale con le propri mano / chinandosi a cogliere una erba nel’orto del dicto Ipocrate, avendolo bene / Ipocrate menato a proposito d’uciderlo in quella forma et la cagione fu sola / invidia. ¶ Po’ che, singondo che trovo, avendo male lo [figliuolo del re]46 fu mandato per / Ipocrate; lui si scusò, essendo vecchio, che non li potea bene andare, ma che / li mandrebbe el nipote che era valentissimo homo, et così fu aceptato. Giun/to el nipote d’Ipocrate a casa del dicto re, veduto el figliuolo de re, per sua sci/entia vedendo e sengni cognobbe che, posto che e re lo tenesse per figli/uolo, lui non era suo. ¶ Et subito parlando cola reina disse:“Non guarò / mai costui se non mi disci el vero”; et disseli sacretamente allora a la rei/na:“Costui non è figliuolo de re”; lei prima negando poi vedendo costui per/tinasce a non volello medicare, mossa a pietà per lo figliuolo et incalciata / da la verità disse rispondendo a costui, come lui discea el vero et che / lui era figliuolo d’uno cavalieri el quale l’avea ingravidata, et lui li pro/mixe credençia tenerli et così fé et liberoli suo figliuolo de la infirmità, / et per questo el dicto nipote d’Ipocrate prese grandissima fama, come / dete pensare, la quale fama sentendola suo barba Ipocrate mosso da in/vidia diliberò ucidello, et così fé, si come dissi sopra et per questo è ben verisimile posto che siei vero sigondo che trovo. / Dapo’ costoro et massimamente dipo’ la morte di Ipocrate, trovo es/sere stati Galieno di Capadocia, Diascoride di Ballatea et Asab Ebre/o e quali per sua fulgente filosofia composeno, ordinoro et diri/çore la scientia di mediscina per forma che al presente si trova. Excep/to el laudabile et perfecto ordine che dipo’ costoro compose et fé Avicenna [...].

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Spazio bianco, forse con rasura, con rimando e integrazione al testo, scritta da mano coeva sul margine del foglio.

47 48

(f. 3r) nchora pone el dito Glauchio che se fose alcuno che avese dolore / di ginochi et di piedi, se avese enfiati li ginochi et li piedi, sia / inceso47 di due cocture48 a ogni ginochio, l’una dentro e l’altra di fuo/ra con uno ferro ritondo da capo e bogliente, come apare disopra.

A

Cauterizzato, scottato. Applicazioni di cauteri.

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3v) (f. 000v)

(f. 000r) 4r)

ufo imperadore el quale como homo di grande intellecto et di / sommo ingegno scrisse quello che vide per prova, açò che fose / a l’altri manifesto che se fose alcuno sciaticho, çoè li dolesse l’an/cha per difecto che fose in nela piside49 per per homore corsso50, sia cauteriçato / di tre cocture in terço51 suso la polpa de l’ancha per meço d[o]ve52 si congiunge / el vertebro con la piscide con uno ferro ritondo dal capo e bogliente.

pollonio el quale fo re e cittadino d’Antioça scrise e fé memoria, / per prova ch’ebbe come di cosa che avea sperimentato, che se fuse / alcuno el quale fuse tisicho, sia tolto uno ferro el quale sia reton/do dal capo e meso in focho, e quando è ben boglente sia inceso el dito tisicho / da due lati del collo su la vena del collo a lato a la cadena53 d’una incenditura e / uno nella fossa de la golla e doe a ogni poppa, lasando la poppa in meço l’una di/sopra e l’altro disoto, e uno soto l’una spalla e l’altro soto l’altra, come sta chì / disopra.

R

49 50

Articolazione femoro-iliaca. Eccesso di umore (?).

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51 52

Al terzo (?) Lettera o aggiunta nell’interlinea.

A

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Regione sopra claveare?.


000v) (f. 4v) nchora pone el dito re Apollonio che se alcuna dona avese dolore nele / poppe o in una o in ambedue et se in una solamentre sia cauteriçata / quella e se in tute due siei cauteriçata in tute due, d’una incenditura / da lato di sotto de la poppa con quello medesimo ferro che disi di sopra e sempre / esendo bogliente el ferro como apare chì di sopra.

A

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Respirare.

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000r) (f. 5r) nchora pone el dito re Apollonio che se fuse alcuno che avese / fadiga a larfiare54 la quale infirmità pó essere segondo imedisi dis/ma, o asma, o ortomia55, sia cauteriçato sula vena che è nela fos/sa del collo da ogni lato d’una incenditura et di due da ogni poppa lassan/do çaschauna poppa in meço e façendo i cauteri a pari l’uno dal’altro per lo / lado del peto con ferro bogliente, come disi e como sta chì di sopra in la fi/gura.

A

Forse riferimento al decubito ortopnoico?.

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Splendore

La legatura giĂ del codic Biblioteca Nazionale


Marciano

ce LAT. III, 111 (=2116) Marciana di Venezia


Splendore Marciano •

J8CM@8DF LEÛÛ:F;@:<

Il restauro della legatura già del codice LAT. III, 111 (=2116)

Dopo sette interventi felicemente effettuati negli anni scorsi, il progetto “Salviamo un Codice” ha promosso in questa occasione il restauro di un bene di natura diversa rispetto alle passate edizioni: la legatura staccata di un Messale marciano, raffinata opera di oreficeria bizantina. Mentre la coperta staccata torna a risplendere nel silenzio della sua solitudine tra le tessere dell’identità marciana, le icone preziose dei Santi suscitano nuovamente nell’osservatore il senso profondo di quella dimensione del sacro di cui il Libro è la testimonianza più alta e indissolubile.


Splendore Marciano Il restauro della legatura giĂ del codice LAT. III, 111 (=2116) della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia

a cura di Maria Letizia Sebastiani Paolo Crisostomi



L’intervento di restauro Paolo Crisostomi

I

l restauro della preziosa legatura si è composto di una serie di delicati e minuziosi interventi, che hanno visto il distacco e la pulitura dei fogli di guardia, la bonifica biologica sulle assi lignee con successivi interventi di consolidamento e restauro conservativo, il distacco dell’ex-libris e la sua pulitura, ed infine interventi di pulitura e consolidamento delle gemme, degli smalti e delle lamine.

Legatura LAT. III, 111, particolare del piatto anteriore: Cristo benedicente.

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Distacco della carta dai piatti lignei e pulitura

Da figura 1 a figura 6 Distacco della controguardia membranacea dall’asse anteriore e conseguente rimozione dei residui organici e cartacei.

1

2

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4

5

6

A lato Particolare del distacco della controguardia membranacea dall’asse anteriore.

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Fasi di pulitura e restauro dei piatti lignei

Da figura 1 a figura 6 Interventi di bonifica biologica sulle assi lignee e successivi interventi di consolidamento e restauro conservativo.

1

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3

4

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A lato Particolare della rimozione dei residui organici e cartacei dal contropiatto anteriore.

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Distacco dell’ex-libris e pulitura

Da figura 1 a figura 6 Distacco provvisorio dell’ex-libris dalla controguardia membranacea e successivi interventi di restauro conservativo.

1

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A lato Particolare del distacco provvisorio dell’ex-libris dalla controguardia membranacea. 5

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6



Pulitura di gemme, smalti e lamine

Da figura 1 a figura 6 Interventi di pulitura e consolidamento delle gemme, degli smalti e delle lamine.

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A lato Particolare del fissaggio della pellicola pittorica degli smalti.

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Un Libro per l

Collettario duece Museo Civico Med


le Domenicane

entesco (ms. 612) dievale di Bologna



Il monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra: cenni storici e caratteri peculiari Stefania Roncroffi

N

Monache domenicane, miniatura da un codice appartenuto al monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra. Bologna, Museo Civico Medievale, graduale-antifonario, ms. 545, c. 77v.

ella seconda metà del Duecento a Bologna erano presenti trentasei monasteri femminili, di cui sette dell’Ordine domenicano.1 San Domenico, poco prima della morte avvenuta il 6 agosto 1221, aveva espresso il desiderio di edificare in città una casa per le monache.2 Il progetto fu realizzato nel 1223 dal suo successore Giordano di Sassonia e da Diana della ricca famiglia degli Andalò che, dopo non poche difficoltà, ottenne dal padre il permesso di fondare il monastero in una piccola valle ai piedi di Santa Maria del Monte, detta Valle San Pietro, in un luogo attualmente identificabile con la zona fra porta San Mamolo e porta Saragozza, dove già si trovava una cappella dedicata a sant’Agnese.3 Alla santa, la cui figura era molto consona al programma di vita delle monache, venne dedicata la prima comunità femminile bolognese dell’Ordine, la seconda in Italia dopo San Sisto a Roma (1221), la quarta in Europa dopo Prouille (1206) e Madrid (1218). Di grande importanza storica a motivo delle sue origini, ospitò monache provenienti dalle più illustri famiglie nobili cittadine e fu il modello per l’istituzione di nuovi monasteri, tra cui quello di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra,4 che ricavò il nome dall’ubicazione in un luogo dall’aspetto scosceso, conosciuto appunto come Vallis Prede o Vallepreda per la presenza di cave di pietra.5 Nel corso del tempo l’edificio sacro aveva ospitato diverse famiglie religiose: dal X secolo era stato abitato da 35


monaci eremiti, in seguito passati alla regola di san Benedetto, con chiesa fin da allora dedicata a Maria Maddalena, figura emblematica della vita eremitica. Dopo l’unione di molte congregazioni nel nuovo Ordine degli Eremitani di sant’Agostino, voluta nel 1256 da papa Alessandro IV, i monaci di Val di Pietra abbandonarono la chiesa passando al convento di San Giacomo di Sàvena,6 e, nel monastero di Val di Pietra, probabilmente verso il 1265, si stabilì un gruppo di monache dell’Ordine di San Marco di Mantova, provenienti dalla comunità della Santissima Trinità di Ronzano, situata poco lontano sui colli bolognesi. A Ronzano aveva soggiornato provvisoriamente anche Diana d’Andalò e la comunità era diventata un vivaio per il sorgere di altre istituzioni: nel 1239 era partito un primo gruppo che aveva fondato il monastero di San Giovanni Battista, nel 1249 un secondo si era trasferito al santuario della Beata Vergine di San Luca, nel 1265 infine le ultime religiose di Ronzano si spostarono in Santa Maria Maddalena di Val di Pietra.7 Dibattuta e irrisolta la questione sull’epoca in cui le monache abbracciarono l’Ordine domenicano. Tommaso Alfonsi sostiene che già prima del 1280 seguivano liturgia e calendario domenicani, come attestano vari codici conservati.8 In effetti i libri corali più antichi custoditi al Museo Civico Medievale sono databili alla seconda metà degli anni Sessanta del Duecento,9 e ciò fa supporre un passaggio in tempi precedenti. Probabilmente le monache provenienti da Ronzano si dotarono dei primi libri liturgici in concomitanza con lo spostamento in Val di Pietra, e, in assenza di altra documentazione, la liturgia domenicana che emerge da alcuni volumi, quali il ms. 612, consente di ricondurre all’Ordine quella piccola comunità, che probabilmente attraversava ancora un momento di transizione e di non ben definita identità giuridica e religiosa. Un caso emblematico al riguardo è quello del monastero di San Giovanni Battista, fondato nel 1239: qui si erano trasferite quattro monache di Ronzano, perciò la comunità conservò per qualche 36


Adorazione della croce da parte di sant’Elena;, nel riquadro inferiore, Monache domenicane in preghiera, miniatura da un codice appartenuto al monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra. Bologna, Museo Civico Medievale, graduale, ms. 518, c. 200r. a fronte San Domenico e Diana d’Andalò. Bologna, Museo Civico Medievale, graduale, ms. 521, c. 54v.

tempo la regola di San Marco di Mantova, che mantenne anche dopo aver ottenuto nel 1247 la facoltà di osservare le costituzioni domenicane.10 Una situazione simile si verificò probabilmente anche per il monastero di Santa Maria Maddalena che, come quello di San Giovanni Battista, è una filiazione di Ronzano e quindi in un primo tempo soggetto 37



Monache domenicane oranti, miniatura da un codice appartenuto al monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra. Bologna, Museo Civico Medievale, lezionario, ms. 514, c. 166r.

alla regola di San Marco di Mantova,11 ma al tempo stesso con liturgia domenicana fin dal momento della fondazione. Si spiega dunque la presenza nel 1275 di un certo frate Alberto di San Marco di Mantova, incaricato di provvedere alle celebrazioni liturgiche per le monache di Val di Pietra. Per contro invece un frate domenicano,Angelo di Venezia, era addetto fin dal 1247 al monastero di Ronzano.12 Il legame di quest’ultima comunità con le prime istituzioni domenicane che ne sono una filiazione è del tutto evidente ed è quindi plausibile anche uno scambio tra sacerdoti. Interviene poi un altro elemento a favorire una circolazione di cappellani e confessori: il problema della cura monialium. Ogni comunità di religiose, indipendentemente dall’Ordine, aveva necessità di un sacerdote per la celebrazione della messa, l’amministrazione dei sacramenti e lo svolgimento di tutte quelle funzioni da cui una donna era esclusa. Considerato l’elevato numero delle istituzioni femminili e la difficoltà di provvedere a tutte, non era inconsueto incontrare casi di frati di un Ordine assegnati a istituzioni di altri Ordini. Ad esempio nel monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra si segnala ancora nel 1308 la presenza di un frate Aldovrando o Aldovrandino, non domenicano.13 Molti monasteri dunque, che erano spesso sotto la giurisdizione vescovile, venivano assegnati a sacerdoti di vari Ordini e solo saltuariamente potevano beneficiare del ministero dei loro confratelli. Soltanto nel 1504 la comunità di Santa Maria Maddalena chiese il passaggio ufficiale dalla giurisdizione vescovile a quella dell’Ordine, passaggio che venne concesso da papa Giulio II e poi riconfermato nel 1515 da Leone X.14 Mentre si andavano delineando gli aspetti relativi all’abito e all’osservanza, in Val di Pietra si provvedeva alla costruzione di un idoneo luogo di culto, probabilmente già in co struzione dalla metà del XIII secolo. A questo proposito fu determinante la figura di un mecenate privato, il professore di diritto canonico Egidio Foscari, che, nel 1273, so39


stenne l’edificazione della chiesa. Nel 1288 il Comune di Bologna venne poi in aiuto della comunità destinandovi un’elemosina di 100 corbe di frumento e di 50 lire. Agli inizi del Trecento il monastero, ormai compiutamente organizzato, ospitava una sessantina di monache.15 Un atto capitolare del 1332 riporta i nomi di ventidue professe, la cui priora era Beatrice Accarisi, conosciuta insieme a Marta Mattuani anche dal testamento di Jacopina Segnadieci, che il 4 luglio 1331 lasciava loro 30 soldi bolognini ciascuna.16 Come tutte le comunità femminili, il monastero di Val di Pietra era sostenuto anche dalle donazioni dei benefattori dell’Ordine domenicano: ai frati non era concesso avere proprietà, e il modo più comune per aiutarli consisteva nel donare beni stabili alle istituzioni femminili, assegnando loro una piccola parte dei proventi (generalmente la decima), con la clausola di lasciare il rimanente ai frati. Le monache di Val di Pietra sono così menzionate in parecchi testamenti, sia individualmente, sia più spesso come intera comunità.17 Nel corso del Trecento un evento di vasta risonanza caratterizzò il monastero e lo rese noto anche in seguito: è legato alla figura della giovanissima Imelda Lambertini, al secolo Maria Maddalena (1321-1333). Figlia di Egano e Castora Galluzzi, proveniva da un’illustre famiglia bolognese: prese l’abito monacale, ma per la giovane età non poteva accostarsi alla santa comunione. Il 12 maggio 1333, mentre assisteva in preghiera a una celebrazione davanti all’altare maggiore, nel momento in cui le consorelle si comunicavano, vide esaudito il suo desiderio di ricevere l’Eucarestia: un’ostia, staccatasi dalle mani del sacerdote, le si avvicinò, e la novizia, piena di gioia, morì. Imelda, protagonista di questo miracolo eucaristico, fu così venerata a Bologna col titolo di beata fin dal Trecento.18 Verso la metà del secolo il monastero attraversò un periodo di grande crisi a causa della peste scoppiata nel 1348. Varie comunità religiose rimasero deserte e per lunghi

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Morte di Maria Maddalena, miniatura da un codice appartenuto al monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra. Bologna, Museo Civico Medievale, graduale, ms. 520, c. 88r.

anni non si ripresero più. Per Val di Pietra il contagio fu rovinoso: ventisette anni dopo le monache erano ancora in numero molto esiguo e senza una priora. Il 3 novembre 1375 Don Ugolino, rettore della chiesa di Santa Maria di Porta Ravegnana, incaricato di sanare la situazione, nominò priora Caterina Gessi, domenicana nel monastero di Santa Caterina di Quarto.19 Lacune documentarie non consentono di conoscere le vicende della comunità fino al 1457, quando un’altra ondata di peste causò la dispersione delle consorelle: nel 1465 il monastero era deserto e venne richiesto dai frati dell’Ordine come luogo di rifugio. Le poche religiose sopravvissute si erano infatti ritirate nelle loro famiglie e avevano lasciato ogni cosa, compreso il sepolcro della beata Imelda.20 Nell’ultimo ventennio del Quattrocento comincia a profilarsi un generale incremento della popolazione che, unito a prosperità economica e a fattori di ordine politicosociale, favorisce l’aumento del numero delle monache e la fondazione di nuove comunità. Le istituzioni femminili sono considerate un bene proprio della città, e la classe dominante vi ravvisa uno strumento di conservazione del potere. Il notaio bolognese Giovanni Boccadiferro verso la metà del Cinquecento indirizza al vescovo di Bologna un Discorso sopra il governo delle monache, sostenendo la necessità dei monasteri femminili con argomentazioni di ordine demografico, economico e sociale: l’eccedenza femminile, l’esosità delle doti matrimoniali, l’eventualità che potrebbe presentarsi a un padre di far sposare una figlia con persone di ceto inferiore per l’impossibilità di dotarle.21 Se per il ramo maschile lo sviluppo è quantificabile, i monasteri femminili sfuggono a ogni controllo per la molteplicità delle giurisdizioni e i frequenti mutamenti di osservanza. In merito a Bologna i dati a disposizione consentono di affermare che nel 1490 le comunità femminili erano venti, e venticinque nel 1574, pur essendovi state alcune unioni e soppressioni.22 41


La presenza in città di molte istituzioni religiose femminili favorisce contatti, scambi e trasferimenti frequenti. Nel 1506 alcune monache di Val di Pietra, insieme ad altre della Misericordia, furono trasferite nel monastero di San Barbaziano, intitolato a santa Caterina da Siena. Il cambiamento di sede non durò a lungo, poiché ottennero ben presto di ritornare nelle rispettive comunità di origine. Nel 1526 le Domenicane di Val di Pietra, a seguito del passaggio a Bologna delle truppe del duca di Borbone, dovettero lasciare la loro residenza e trovarono alloggio nel monastero di Sant’Agnese, dove tuttavia vissero autonomamente, sotto il governo della loro priora. Successivamente si divisero: una parte ritornò a Val di Pietra e l’altra si stabilì in una nuova casa in via della Nosadella, acquistata per garantire un luogo sicuro in seguito a un’altra ondata di peste.23 La vita comunitaria continuò in Val di Pietra fino al 1566, quando una bolla di papa Pio V impose uno scambio di residenza con i frati serviti del convento di San Giuseppe

42

in via Galliera. La permuta trovava ragione nel desiderio delle autorità ecclesiastiche di difendere le istituzioni religiose femminili dai pericoli a cui erano soggette risiedendo fuori dalle mura e di poter controllare più da vicino l’osservanza della clausura, secondo le norme del concilio di Trento. Così il 1° giugno 1566 le monache si trasferirono in San Giuseppe e i Serviti si portarono in Val di Pietra; ognuno conservò tuttavia l’antico nome nella nuova dimora e il titolo della rispettiva chiesa.24 Le monache vissero dunque in via Galliera dove, seguendo i disegni di Alfonso Torregiani, nel 1736 riedificarono la chiesa, inaugurata nel 1739.25 La nuova costruzione ebbe vita breve: nel 1798 il monastero fu soppresso, la chiesa destinata a fienile, quindi a usi militari e il monastero venduto a privati. Fu allora che il marchese Piriteo Malvezzi fece trasportare il corpo della beata Imelda in San Sigismondo. In seguito, parte degli edifici furono abbattuti per allargare l’attuale Via Indipendenza e lasciar posto all’odierno teatro dell’Arena del Sole.26


NOTE 1

I monasteri domenicani femminili bolognesi fondati nel XIII secolo sono Sant’Agnese, San Giovanni Battista, San Guglielmo, San Mattia, Santa Maria Maddalena di Val di Pietra, Santa Maria Nuova e San Pietro Martire. Il passaggio frequente da un Ordine all’altro, i cambi di ubicazione delle comunità, le loro fusioni e la carenza di fonti documentarie non sempre consentono di arrivare a conclusioni certe circa le date di fondazione e i cambiamenti di Ordine. Non tutte le comunità erano governate allo stesso modo: parte sottostava alla giurisdizione del vescovo, altre dipendevano direttamente dal superiore dell’Ordine. Cfr. G. ZARRI, I monasteri femminili a Bologna tra il XIII e il XVII secolo, in “Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, XXIV (1973), pp. 133-223 e M.G. CAMBRIA, Il monastero domenicano di Sant’Agnese in Bologna. Storia e Documenti, Tipografia SAB, Bologna 1973, pp. 21-23. 2 Cfr. Cronaca di Sant’Agnese edita in M.G. CAMBRIA, Il monastero domenicano di Sant’Agnese…, cit., p. 227. 3 Sulla storia del monastero di Sant’Agnese cfr. M.G. CAMBRIA, Il monastero domenicano…, cit., e A. RONCELLI, Domenico, Diana, Giordano: la nascita del monastero di Sant’Agnese in Bologna, in Il velo, la penna e la parola, a cura di G. Zarri e G. Festa, Nerbini, Firenze 2009, pp. 71-91. 4 Sulla storia del monastero di Santa Maria Maddalena di Val di Pietra cfr. S. RONCROFFI, Psallite sapienter. Codici musicali delle Domenicane bolognesi, Olschki, Firenze 2009 (“Historiae Musicae Cultores”, 118) in particolare il capitolo II, paragrafo 2, da cui si è attinto ampiamente per rielaborare questo testo. 5 La zona è nell’immediata periferia di Bologna, appena fuori porta Saragozza, dove ora si trova la chiesa parrocchiale di San Giuseppe. Cfr. M. FANTI, La chiesa e la città, in San Giuseppe ai Cappuccini, a cura di R. Sernicola, Edisai, Ferrara 2001, pp. 7-12, spec. pp. 7 segg. 6 Cfr. G. GUIDICINI, Miscellanea storico-patria bolognese, Tipografia G. Monti, Bologna 1872, pp. 122-124. 7 Cfr. A. D’AMATO, I Domenicani a Ronzano. Nel V centenario della fondazione domenicana a Ronzano (1480-1980), in “Strenna Storica Bolognese”, XXX (1980), pp. 123-150, spec. p. 126, e G. ZARRI, I monasteri femminili…, cit., p. 218. 8 Cfr. T. ALFONSI, La beata Imelda Lambertini,Tipografia Parma, Bologna

1927, pp. 66 segg. e 71-74. 9

Cfr. lo studio di M. Medica, edito in questo volume e in particolare le argomentazioni sulla datazione dei manoscritti 514 e 612.

10

Cfr. G. ZARRI, Monasteri femminili…, cit., pp. 185-186.

11

Cfr. G. ZARRI, Monasteri femminili…, cit., p. 206.

12

Cfr. T. ALFONSI, La beata Imelda Lambertini…, cit., p. 67.

13

Cfr. Ivi, pp. 67-68.

14

Cfr. G. ZARRI, I monasteri femminili…, cit., p. 207, nota 219.

15

Cfr. T. ALFONSI, La beata Imelda Lambertini…, cit., pp. 71-74.

16

Cfr. Ivi, p. 75.

17 18

Cfr. Ivi, p. 77. Nel 1582 il nome di Imelda Lambertini veniva iscritto nel catalogo dei santi e beati bolognesi. Nel 1799, quando le monache furono costrette ad abbandonare la loro residenza in Via Galliera, molte di loro trovarono rifugio nel monastero domenicano di San Guglielmo e lì traslarono anche le reliquie della beata che, infine affidate al marchese Piriteo Malvezzi Lupari, furono esposte nella chiesa di San Sigismondo, dove sono attualmente custodite. Il culto di Imelda, la più giovane beata domenicana, fu confermato dal pontefice nel 1862 e culminò nell’istituzione della Confraternita della Buona Comunione e della Perseveranza (1896) con sede in San Sigismondo. Cfr. I santi della chiesa bolognese nella liturgia e pietà popolare, a cura di E. Lodi, ACED, Bologna 1994, pp. 106-109.

19

Cfr.T. ALFONSI, La beata Imelda Lambertini…, cit., p. 145.

20

Cfr. Ivi, p. 147 segg.

21

Cfr. G. ZARRI, Recinti, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 46-48.

22 23

Cfr. G. ZARRI, I monasteri femminili…, cit., pp. 144 segg. Cfr. M.G. CAMBRIA, Il monastero domenicano di Sant’Agnese…, cit., p. 101.

24

Cfr. M. FANTI, La chiesa e la città…, cit., p. 8.

25

Cfr. G. GUIDICINI, Miscellanea…, cit., pp. 252 segg.

26

Cfr. G. ZARRI, I monasteri femminili…, cit., p. 205, e G. GUIDICINI, Miscellanea…, cit., pp. 252 segg.

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Angeliche

Liber Pontificia Biblioteca A


e armonie

r VII Antoniana di Padova


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Il restauro del Graduale Liber VII

J8CM@8DF

Angeliche armonie •

Prezioso cimelio della comunità francescana di Padova, la serie dei corali oggi alla Pontificia Biblioteca Antoniana comprende un graduale, il Liber VII, meravigliosamente illustrato da Nicolò di Giacomo, uno dei più prolifici e importanti miniatori bolognesi del secolo XIV. Attivo tra il 1349 e il 1403, il grande miniatore vi profuse il meglio del suo magistero artistico, ponendo la propria firma sul primo foglio del codice. L’opera, che da tempo richiedeva un intervento tutelativo, ha ritrovato oggi il primitivo splendore grazie al restauro promosso da “Alumina” e dalla casa editrice Nova Charta nell’ambito del progetto “Salviamo un Codice”.


Angeliche armonie Il restauro del Graduale Liber VII della Pontificia Biblioteca Antoniana di Padova

a cura di Alberto Fanton



Nicolaus de Bononia fecit: miniatore d’eccellenza nei Graduali del Santo Federica Toniolo

N

Figura 1 Graduale Liber VII, c. 1r, foglio intero.

icolaus de Bononia fecit. Questa è la firma che appare dipinta sulla lastra del sarcofago posto in primo piano nell’iniziale con la Risurrezione di Cristo, miniata ad apertura del Liber VII, uno dei più raffinati volumi della serie di Graduali, libri corali per la liturgia della messa, realizzati nella seconda metà del Trecento per la basilica francescana di Sant’Antonio da Padova. La serie, già citata nell’inventario della libraria del convento redatto tra il 1396 e il 1397 è ancora oggi conservata quasi interamente nella Pontificia Biblioteca Antoniana. Nicolò di Giacomo da Bologna – responsabile delle miniature del Graduale VII di cui presentiamo il restauro – si firma accostando al proprio nome quello della sua città d’origine. Si tratta ovviamente di un elemento fondamentale per una identificazione non solo anagrafica ma anche di formazione e appartenenza a una scuola, quella bolognese, il cui prestigio nel campo dell’illustrazione libraria è decretato già a inizio Trecento dalla menzione che di essa fa Dante nel verso dell’XI canto del Purgatorio“più ridon le carte che pennelleggia Franco bolognese”, con il quale ha inizio il discorso di Oderisi da Gubbio sulla vanità della fama terrena. Nel palesare l’autografia, l’artista – come avviene in altri numerosi casi di pitture, sculture e miniature specie trecentesche – riconosce la fama raggiunta grazie alla qualità 57


del suo operare e congiuntamente dichiara il prestigio della committenza che a lui, un artista non padovano,si era rivolta.1 Ad avvalorare tale ipotesi la stessa tipologia di firma ricorre anche in altre opere eseguite per committenze non bolognesi, quale ad esempio il Messale del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia [Venezia, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. III, 97 (=2115)], o i Graduali olivetani appartenenti alla serie di corali ex Obizzi conservati oggi alla Biblioteca Estense di Modena (mss. Lat. 1002-1003, 1008, 1023-1025), che alcuni studiosi ritengono eseguiti per il monastero di San Benedetto Novello a Padova.2 Nicolò di Giacomo di Nascimbene fu in effetti vero protagonista dell’illustrazione libraria bolognese della seconda metà del Trecento, un periodo in cui la cultura figurativa della città, in un dialogo serrato tra la pittura monumentale e la miniatura, seppe rinnovare il portato giottesco in senso gotico con esiti autonomi e originali.3 Le carte d’archivio e le opere dell’artista testimoniano un’attività incessante che dalla seconda metà degli anni Quaranta del Trecento si protrae alle soglie del Quattrocento,quando,attorno al 1403, viene collocata la morte del miniatore. Cinquanta anni in cui Nicolò, coadiuvato dalla bottega, ebbe modo di operare in numerosi cicli di corali, manoscritti liturgici, testi classici e giuridici e molto anche in Matricole e Statuti delle corporazioni cittadine. Dai documenti si evince come l’artista, già prescelto dal nuovo governo popolare per miniare i nuovi statuti del comune promulgati nel 1376, a partire dagli anni Ottanta abbia avuto numerose cariche pubbliche, tra le quali quelle di podestà in diversi comuni rurali (1383, 1391), di sovrastante al dazio della baratteria (1386) e di castellano del Castello di Serravalle (1395). Di interesse è un estimo del 1385 nel quale i beni dell’artista, tra proprietà e averi, vengono valutati 665 lire di bolognini, una cifra che palesa lo status di Nicolò come quello di “un agiato artigiano, socialmente e professional58

Figura 3 Graduale Liber VII, c. 7r, iniziale I, Quattro uomini discutono dinnanzi alla terra promessa.



mente equiparabile ai primi pittori della città con cui durante la sua lunga carriera ebbe modo di intrattenere rapporti”.4 In effetti se è documentata la conoscenza con Simone di Filippo, detto dei Crocifissi, e con Andrea de’ Bartoli, attraverso l’attività svolta da Nicolò di Giacomo per il calligrafo Bartolomeo de’ Bartoli, fratello di Andrea, l’iter stilistico di Nicolò testimonia un vivace confronto sia con questi due pittori che con altri artisti bolognesi del periodo, quali Vitale da Bologna, i pittori attivi negli affreschi di Mezzaratta, oggi in Pinacoteca a Bologna e tra essi, in modo speciale, Jacopo Avanzi.5 Per meglio comprendere le immagini che decorano il 60

Graduale VII e anche quelle del Graduale XII, come vedremo anch’esso ascrivibile a Nicolò,è utile dare in sintesi alcune indicazioni sulla produzione del miniatore. La critica, e in particolare gli studi di Francesca Flores D’Arcais, Massimo Medica e Francesca Pasut, ha distinto nella lunga carriera dell’artista almeno quattro momenti in cui è possibile, con l’aiuto di opere datate e attraverso l’analisi stilistica, riconoscere caratteri distintivi sempre associati a peculiarità costanti dell’artista quali l’incisivo realismo, il preciso uso del pennello e la qualità cromatica,intesi a conferire alle immagini una piena adesione al naturalismo del gotico maturo.6 La formazione appare legata all’attività del Maestro del 1346, protagonista, assieme al più noto Illustratore, dell’interpretazione che la miniatura bolognese aveva dato nel secondo quarto della prima metà del secolo, specie nel codice giuridico, ma non solo, al linguaggio giottesco, di cui in città si era avuta piena manifestazione negli anni del legato pontificio Bertrando del Poggetto che di Bologna fece la nuova Avignone.7 A Nicolò giovane è ad esempio ricondotta la miniatura iniziale delle Clementine di Madrid (Biblioteca Nacional, ms. 1146) con il Consesso papale. L’artista vi ripete nell’architettura e nella posizione delle figure la composizione utilizzata dal Maestro del 1346 nel Decretum Gratiani, oggi a Ginevra (Bibliothèque Publique, ms. Lat. 60). Nelle opere degli anni Quaranta, quali l’Offiziolo del convento benedettino di Kremsmünster (Stiftsbibliothek, ms. Clm. 4), sottoscritto dall’importante calligrafo Bartolomeo de’ Bartoli nel 1349, e il Decretum Gratiani di Parigi (Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 14339), il miniatore si distingue dal Maestro del 1346 per la più profonda adesione alla coeva produzione di Vitale da Bologna. Crea composizioni serrate, gremite di figure che si contraddistinguono per una accentuata torsione dei corpi, un linearismo mosso e vibrante, nonché per l’insistita veemenza dei gesti e per la caricata espressività dei volti. Su


A fronte Figura 4 Graduale Liber VII, c. 12v, iniziale A, Un laico e un frate bevono alla fontana l’acqua di sapienza e di vita eterna. Figura 5 Graduale Liber VII, c. 18v, iniziale V, Maiestas Domini e le anime dei beati.


Modo di far navigabile il T

Cornelys Meyer, G XVII Codice Biblioteca dell’Accademia Naziona


Tevere da Perugia a Roma

Gaspar Van Wittel secolo

34 K 16 le dei Lincei e Corsiniana di Roma


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Il restauro del Codice corsiniano 34 K 16

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Sul biondo Tevere •

Nel 1675 l’ingegnere olandese Cornelis Meyer e il suo connazionale Gaspar van Wittel, giovane pittore agli esordi, percorrono le sponde del Tevere tra Perugia e Roma tracciando su un taccuino una serie di studi per rendere navigabile il fiume e numerosi schizzi della campagna umbra e laziale. Ora questo prezioso, toccante documento, custodito presso la Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, rinasce a nuova vita grazie a un intervento di restauro promosso da “Alumina” e Nova Charta nell’ambito del progetto “Salviamo un Codice”.


Sul biondo Tevere Il restauro del codice 34 K 16 della Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma

a cura di Marco Guardo



Introduzione alla trascrizione Arnold Witte*

L

o scritto di Cornelis Meyer riportato nel codice corsiniano 34 K 16 presenta il testo del libro, successivamente pubblicato nel 1683,1 in una facies assai nitida, leggibile e chiara sotto ogni aspetto, ma proprio per questo all’origine di alcune problematiche. Per esempio si pone la questione del motivo di una versione bilingue, del rapporto con il libro stampato e, infine, dell’incompletezza del testo nel manoscritto. Prima di avanzare qualche ipotesi in merito a tali questioni, occorre analizzare il trattato così come si presenta nel codice.

Codice 34 K 16, Isola con un villaggio sul lago, disegno applicato.

Il testo di Cornelis Meyer nel manoscritto 34 K 16 consiste in una versione in olandese e in una in italiano, che si alternano sul recto e verso di ogni carta, in modo quasi perfettamente sincrono. Questo vale non soltanto per il contenuto del testo, ma pressocché per ogni proposizione, talora addirittura lemma per lemma: la corrispondenza fra le due versioni è perfetta. Non sembra si tratti della redazione del testo in lingua originale e della sua traduzione provvisoria, perché la chiarezza della scrittura, quasi senza alcuna correzione o ripensamento, indica un testo in una fase avanzata di elaborazione, prossima alla stesura finale. Anche i lemmi impiegati verosimilmente non sono il frutto di una semplice traduzione: i dizionari di fine Cinquecento e inizio Seicento,come il Solenissimo Vochabuolista, il Dittionario volgare e latino di Toscanella o il Canepinus, rivolti 29


soprattutto al viaggiatore, al commerciante, o all’umanista, mancano completamente dei termini specifici dell’ingegneria idraulica.2 Con ogni verosimiglianza il testo che qui leggiamo era già stato sottoposto a controlli da parte di un editore di madrelingua italiana, dal momento che Meyer, pur vivendo in Italia da parecchi anni, aveva una scarsa dimestichezza con la lingua italiana. In altre parole, questo manoscritto non rappresenta una tappa nel percorso di produzione di un testo da tradurre in italiano, ma qualcosa in uno stato più avanzato. 30

D’altra parte il fatto che il manoscritto contenga un testo molto pulito e in una versione già rifinita non significa che questo sia davvero identico a quello attestato nel libro di Cornelis Meyer, apparso per la prima volta a stampa nel 1683 presso la Tipografia Vaticana. Innanzi tutto lo stampato del 1683 e tutte le edizioni seguenti non contengono un testo bilingue (troviamo soltanto nell’edizione del 1696 tre tavole “in lingua Latina, Francese, e Ollandese”); inoltre il testo manoscritto non corrisponde affatto alla divisione in capitoli del libro. Tuttavia alcuni elementi indicano comunque


un legame tra manoscritto e versione a stampa: il lettore attento può scoprire nel libro passi che coincidono in alcuni punti con quelli del manoscritto. Per esempio, nell’introduzione del codice corsiniano si legge:“Ne si starebbe più alla discretione de stranieri che ci conducano l’oglio della Riviera di Genova, li Vini di Sicilia, Corsica, et altre parti, quali tal volta ò per esser presi da Corsari, ò naufragati dalle tempeste cagionano non solo che se ne penuria, mà anche che se ne augmenti il prezzo.” (ms. c. 3r/p. 8). L’edizione del 1685 attesta la stessa frase riportata integralmente:“Nè bisognarebbe più aspettare, che li Stranieri a lor comodo, e piacere ci portassero l’oglio della Riviera di Genova, li vini di Sicilia, e Corsica, ò d’altre parti; quali tal volta, ò sommersi dalle tempeste cagionano non solo penuria, ma anco che se ne augmenti il prezzo.” Si deve anche notare che questo periodo ha una diversa collocazione: nel manoscritto prima della

A fronte Codice 34 K 16, Ratta dei Santi Padri, c. 19. Sopra Codice 34 K 16, c. 3r, particolare.

A lato Codice 34 K 16, Proposta di trasformare lo Stagno di Maccarese in porto, c. 44.

Nella pagina seguente Codice 34 K 16, Rimozione dal letto del fiume dei sassi di grandi dimensioni, c. 50. 31


frase citata si legge il seguente passo:“Li popoli delle Città, e communità contigue s’applicarebbero ad augmentare la coltura de loro terreni, e s’arrichirebbero con l’esittare le loro mercantie, e sostanze che cavano dal patrio paese”, mentre nel libro stampato questo brano si legge, in forma abbreviata, soltanto dopo la descrizione del traffico di olio e vino. Infine il libro stampato attesta molte citazioni di autori classici e riferimenti ad altre fonti che mancano del tutto nel manoscritto. Qual è allora la relazione tra il libro e il manoscritto? L’analisi comparativa con il libro edito nel 1683 fornisce una pos32

sibile data ante quem, mentre un passo riportato nelle carte finali del manoscritto offre un’indicazione della data post quem. Nella versione manoscritta il penultimo discorso sullo Stagno di Maccarese (ms. c. 43v/p. 81-c. 44r/p. 82) spiega la possibilità di usare questo antico porto come passaggio per le navi tra il mare e il fiume, e Meyer qui avverte il lettore della sua pubblicazione già apparsa prima. Il riferimento rinvia alla sua Delineatione del stagno di Maccarese, et modo di ridurlo in porto, con la pianta d’un canale nuovo dal sud.to porto sino a Roma, una pianta con breve spiegazione data alla luce nel 1678 da Bartolomeo Lupardi.3 Su questa base potremmo datare l’ultima stesura del nostro manoscritto nello spazio di tempo successivo al 1678, ove si supponga che il testo del manoscritto costituisca una fase preparatoria dell’edizione a stampa. Altrimenti Meyer, forse, elaborò una redazione del testo soltanto dopo la prima versione stampata, con l’idea di farsi un nome oltre l’Italia, nei Paesi Bassi, con un libro in formato ridotto,più economico sia per l’editore sia per il pubblico. La giustapposizione di immagini con brevi spiegazioni di una mezza pagina coincide perfettamente con il formato dei manuali brevi destinati ad architetti e muratori, basati sul trattato di architettura di Scamozzi.4 La presenza dei disegni originali di Van Wittel in questo caso potrebbe significare che Meyer intendeva inviare testo e immagini a un editore olandese nell’ottica della stampa. Questi elementi permettono di concludere che il manoscritto fu con ogni probabilità redatto in vista della pubblicazione di un libro bilingue, forse con lo scopo di allargare la fama dell’autore oltre i confini d’Italia, ma durante questa fase preliminare il progetto venne abbandonato. Soltanto così possiamo spiegare perché alla c. 46r/p. 88 il testo si interrompa, mentre le immagini proseguono per alcune carte. Le ragioni di questa decisione si possono soltanto congetturare: è possibile che l’autore non trovasse un editore che volesse produrre un’edizione in italiano e olandese, o forse


intervennero altri progetti. Possiamo anche ipotizzare che il manoscritto corsiniano fosse concepito per lo stampato del 1683 e che il testo in italiano, profondamente diverso nella versione a stampa rispetto a quella manoscritta, fosse espressamente richiesto dalla Stamperia della Reverenda Camera Apostolica. Ma qualunque sia stata la ragione, le variazioni e le differenze tra il manoscritto e lo stampato dimostrano quanto sia stato importante per Cornelis Meyer produrre nella Roma seicentesca il suo opus magnum sulla navigazione del Tevere per diffondere la sua fama di ingegnere idraulico.5

NOTE * Desidero ringraziare José van der Helm e Stefano Pierguidi per i suggerimenti che hanno contribuito a migliorare la resa testuale. 1 CORNELIS MEYER, Sac[ra] Congreg[atio] Riparum Tyberis Romana remunerationis pro illustriss[imo] D[omino] Cornelio Meyer memoriale, Reverenda Camera Apostolica, Roma 1683; due anni più tardi usciva la versione in italiano: IDEM, L’arte di restituire à Roma la tralasciata navigatione del suo Tevere […], Lazzari Varese, Roma 1685. 2 Vedi JOSÉ VAN DER HELM, “Bibliografisch repertorium van meertalige woordenboeken uit de zestiende eeuw waarin Italiaans naast Nederlands voorkomt. Bijdrage aan de geschiedenis van de Italiaans-Nederlandse lexicografie”, Trefwoord 2010,http://www.fryske-akademy.nl/trefwoord, specialmente pp. 3-6. 3 Si veda il saggio di Federico Bellini e di Claudia Conforti nel presente volume. 4 Per l’analoga vicenda di un libro redatto in versione abbreviata per un mercato diverso di ingegneri, muratori e altri artigiani, si veda ANDREW HOPKINS, ARNOLD WITTE, From deluxe architectural treatise to practical manual: the Dutch editions of Scamozzi’s L’idea della Architettura universale, «Quaerendo», 26/4 (1996), pp. 274-302. 5 Si veda per tutti i progetti falliti di Meyer K. VAN BERKEL, “Cornelis Meijer inventor et fecit”. On the rappresentation of Science in late Seventeenth-Century Rome, in Merchants and Marvels. Commerce, Science and Art in Early Modern Europe, a cura di P.H. Smith, P. Findlen, Routledge, London-New York 2002, pp. 277-295.

33


Appunti d

Vincenzo XVII

Musei civic


di Viaggio

o Scamozzi secolo

ci di Vicenza


Appunti di viaggio •

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Il restauro del Taccuino di Vincenzo Scamozzi

Nell’anno 1600, al ritorno da un lungo viaggio a Parigi, l’architetto vicentino Vincenzo Scamozzi (1548-1616), geniale erede di Andrea Palladio, descrive e illustra in un taccuino, oggi custodito presso i Musei Civici di Vicenza, le meraviglie architettoniche in cui si imbatte lungo il percorso. Oggi un sapiente intervento di restauro, promosso da “Alumina” e Nova Charta nell’ambito del progetto “Salviamo un Codice”, ha ridato nuova vita a questo prezioso documento, offrendo le migliori garanzie per la sua conservazione nel tempo.


Appunti di viaggio Il restauro del Taccuino di Vincenzo Scamozzi dei Musei civici di Vicenza

a cura di Maria Elisa Avagnina



L’iter archivistico del Taccuino Renato Zironda

I

Paolo Veronese (1528-1588), Ritratto di Vincenzo Scamozzi, Denver Art Museum

Taccuino, f. 2, particolare.

l Taccuino di Vincenzo Scamozzi, relativo al suo viaggio del 1600 da Parigi a Venezia, è conservato presso il Gabinetto di Disegni e Stampe del Museo civico di Vicenza fin dal 1855, allorquando Palazzo Chiericati fu inaugurato come Museo civico della città di Vicenza. Nel discorso d’apertura edito nel 1855, l’abate Antonio Magrini, grande sostenitore dell’allestimento del Museo nel palazzo palladiano, scrive nella sezione dedicata ai disegni: “In questa stanza medesima [cioè quella dei disegni] si conservano i registri originali della fabbrica del Palazzo Chiericati, della Basilica di Vicenza gotica, e moderna – un viaggio autografo per la Francia di Vincenzo Scamozzi con 50 disegni – il trattato autografo inedito dei cinque ordini di architettura di Ottone Calderari [...]”.1 Il racconto di viaggio faceva già parte, dunque, del patrimonio grafico e scrittorio del Gabinetto di Disegni e Stampe del neonato Museo di Vicenza. Il Taccuino di Scamozzi in realtà apparteneva alla raccolta di manoscritti della Biblioteca civica Bertoliana, alla quale Arnaldo I Arnaldi Tornieri lo donò, con parte del suo patrimonio librario manoscritto e a stampa,tramite il figlio Giacomo Tornieri.2 Non a caso Leonardo Trissino,che tentò di trascrivere il viaggio a Parigi di Scamozzi, non riuscì a completarlo, lasciandolo così manoscritto e con qualche disegno copiato, per la gelosia che il Tornieri dimostrava verso questa preziosa testimonianza di viaggio.3 21


Taccuino, f. 21, particolare. 22

Nell’impegno di erigere il Museo a Palazzo Chiericati, Antonio Magrini cercò di sollecitare i responsabili preposti alle varie istituzioni culturali per costituire il Gabinetto di Disegni e Stampe, cosa che non fu facile. Così dopo un primo sollecito del 14 novembre 1854,4 volto al fine di ottenere i disegni di Ottone Calderari e di altri architetti locali, ritornò sull’argomento il 20 novembre del 1854, chiedendo alla Congregazione Municipale della regia Città di Vicenza che fosse trasferita dalla Biblioteca civica Bertoliana al Gabinetto di Disegni e Stampe dell’erigendo Museo anche un’altra serie di disegni d’architettura “[...] dello Scamozzi, dell’Arnaldi, del Capra, del Tornieri, dello Zago e del Sorio [...]”.5 Al testo della lettera, il Magrini fa seguire anche l’elenco dettagliato e in ordine alfabetico degli autografi presenti in Biblioteca civica Bertoliana, tra cui: “[...] Scamozzi Vincenzo. AVolumetto autografo che comprenda la narrazione sommaria di un suo viaggio da Parigi in Italia nel 1600 di n° 76 pagine, delle quali n° 15 contengono disegni diversi di chiese vedute nel viaggio. B.Teatro di Sabioneta n° 1 [...]”.6 Fu dunque questo l’iter che il manoscritto seguì: giunse al Museo civico di Palazzo Chiericati dove fu oggetto d’interesse anche da parte della Congregazione Municipale della città,che chiese il Taccuino (forse per motivi di rappresentanza) il 5 agosto del 1858 e lo riconsegnò il 14 dello stesso mese. 7 A comprendere l’importanza documentaria del Taccuino di Scamozzi fu il colto e raffinato abate vicentino Bernardo Morsolin, che alla fine degli anni Settanta del secolo XIX stese un primo contributo dal titolo Viaggio inedito di Vincenzo Scamozzi da Parigi a Venezia, pubblicato dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti.8 Ed è sempre il Morsolin a donare, nel 1885, un estratto titolato “Squarcio del viaggio di Scamozzi, il cui autografo si conserva nel civico Museo, relativo alla Sciampagna tradotto in francese e pubblicato nella Revue de Champa-

Taccuino, f. 40, particolare.


Taccuino, f. 41, particolare.

gne et de Brie, Paris 1882, Octobre IV Livraison setieme anneé”.9 Tuttavia bisogna giungere al 1959 per vedere l’edizione trascritta e pubblicata con rigore scientifico da Franco Barbieri, per la prestigiosa collana della Fondazione Giorgio Cini.

NOTE 1

A. MAGRINI, Il Museo Civico di Vicenza solennemente inaugurato il 18 agosto 1855, Vicenza 1855, p. 46. 2 G. MANTESE, Memorie storiche della chiesa vicentina, V/2, Dal primo settecento all’annessione del Veneto al regno d’Italia, Vicenza 1982, pp. 814-816. 3 F. BARBIERI, Vincenzo Scamozzi. Taccuino di viaggio da Parigi a Venezia (14 marzo-11 maggio 1600), Venezia-Roma, Fondazione Giorgio Cini-Centro di Cultura e Civiltà, 1959, p. 141. Si veda anche BBVi, L. TRISSINO, Studi su Giandomenico e Vincenzo Scamozzi, ms. 3154. 4 R. ZIRONDA, Il fondo calderariano del Museo Civico di Vicenza, in I disegni di Ottone Calderari al Museo Civico di Vicenza, a cura di G. Beltramini, Venezia 1999, p.199. 5 ASCVi, Istruzione b.3: nella lettera così si legge: Conseguentemente al proprio rapporto 26 settembre1853 e analoga autorizzazione municipale n° 6405 in data 27 settembre a<nno> suddetto, andando ad effettuarsi nel palazzo del museo una collezione di disegni autografi di architettura, a renderla più completa importerebbe che alla medesima si aggiungessero quelli che si custodiscono anche nella Biblioteca Comunale, tra cui oltre la ricca serie del Calderari, ve ne sono di autografi dello Scamozzi, dell’Arnaldi, del Capra, del Tornieri, del Zago e del Sorio. Per effettuare la presente proposta, gioverà che il Municipio inviti il bibliotecario comunale a produrre una nota esatta degli autografi in discorso, e successivamente determini un giorno per la cessione e consegna. [segue elenco dei disegni] Il Presidente A. Magrini 6 Ivi. 7 MCVi, Registro di Protocollo della Civica Commissione alle Cose Patrie, ms, alla data 5 agosto 1858 la Congregazione Municipale: “Chiede per pochi momenti il Viaggio dello Scamozzi in Francia che è custodito in questo Museo. Consegnato il manoscritto all’incaricato Panizzoni.” E il 14 agosto 1858: “Ritorna il libro del Viaggio da Parigi in Italia di Vincenzo Scamozzi”. 8 B. MORSOLIN, Viaggio inedito di Vincenzo Scamozzi da Parigi a Venezia, “Atti del R. Istituto Veneto”, v. VII, (1881), s.V, pp. 781-805. 9 MCVi, Municipio di Vicenza,“Elenco dei donatori e dei doni da essi fatti al Civico Museo nell’anno 1885”.

Taccuino, f. 3, particolare. 23


Carte s

codi Biblioteca del Se

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scoperte

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Carte scoperte •

Il restauro del cod. 29 della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova

Realizzato per il medico senese Alessandro Sermoneta (1424-1487), docente in varie Università, il codice 29 della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova contiene il volgarizzamento delle Eroidi di Ovidio e della pseudo-ovidiana Pulce, e la Sfera di Goro Dati, accompagnata da numerose illustrazioni geografiche. Grazie al progetto “Salviamo un Codice”, promosso da “Alumina” e Nova Charta, il manoscritto, copiato e decorato in ambiente toscano con ogni probabilità nel terzo quarto del secolo XV, è stato sottoposto a un delicato intervento di restauro, recuperando la sua piena integrità.


Carte scoperte Il restauro del codice 29 della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova

a cura di Leonardo Granata



L’illustrazione Giordana Mariani Canova

Codice 29, c. 72v, particolare.

I

l restauro ha rivelato appieno la raffinatezza della prima pagina miniata del manoscritto n. 29 della Biblioteca del Seminario di Padova il cui testo, di mano quattrocentesca, reca in sequenza le Eroidi di Ovidio e la Sfera del Dati.1 Sul margine inferiore un fregio contesto di delicate filigrane a inchiostro, di sferette dorate e di leggiadri fiorellini dalle tinte delicate, include lo stemma della famiglia senese Sermoneta, applicato mediante sottili lacci scarlatti a una conchiglia purpurea dal colore finemente graduato in modo da evidenziarne la profonditĂ . La conchiglia a sua volta è circondata da un serto di lauro compreso tra due anelli dorati e sorretto da due geni alati di squisita eleganza rinascimentale, realizzati con fine disegno e con tinte leggere. Ăˆ stato ritenuto che

Codice 29, c. 1r, particolare del fregio.

41


lo stemma sia da correlare alla personalità di Alessandro Sermoneta, illustre medico senese, che sappiamo essere stato docente presso lo studio di Siena circa dal 1450 al 1470 passando poi a Perugia (1470-1473), a Pisa (14731479) e infine a Padova (1479-84) prima del definitivo ritorno a Siena dove morì nel 1487. Egli infatti fu attento bibliofilo e committente, specialmente nel primo periodo senese, di pregevoli manoscritti da lui lasciati al figlio Raffaello e oggi in gran parte alla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena dove furono recati nel 1811 dal convento dell’Osservanza che ancora ne conserva, nell’annesso Museo Aurelio Castelli, i due esemplari più splendidamente miniati.2 Tra essi spicca soprattutto il superbo De Animalibus di Alberto Magno (cod. 3), scritto nel 1463 e miniato da Francesco di Giorgio Martini, che si può considerare senz’altro il capolavoro della miniatura senese del Rinascimento.3 Alla bottega di Francesco di Giorgio, e magari alla mano del cosiddetto Fiduciario di Giorgio, mostra invece di spettare la bella Lectura super primo sententiarum di Alfonso Varga (cod. 6) scritta per il Sermoneta nel 1466.4 Ma anche tra i libri oggi alla Biblioteca Comunale alcuni sono miniati e almeno in uno di essi Alessandro si rivela con certezza anche fine disegnatore eseguendo, come vedremo, alcuni delicati disegni a penna.5 Particolare compiacimento dell’illustre medico fu quello di fare dichiarare nelle sottoscrizioni dei copisti la sua committenza e di esibire nella prima pagina dei suoi libri lo stemma di famiglia cir42

condato di lauro e sorretto, secondo la consuetudine umanistica italiana, da due geni alati. Bisogna riconoscere tuttavia che nel caso del manoscritto del Seminario il riferimento al celebre medico non è esplicito, ma anzi è reso problematico dalla legenda ‘Questo libro [si è] di Francesco Sermoneta’ scritta sul recto del primo foglio di guardia da una mano del secondo Quattrocento, e poi cancellata ma ancora visibile. Come fa notare qui nel suo saggio Leonardo Granata, essa è probabilmente da intendere quale nota di possesso di uno sconosciuto Francesco Sermoneta, evidentemente consanguineo di Alessandro, che potrebbe essere stato proprietario del manoscritto dopo l’illustre medico o eventualmente prima di lui. Se così fosse sarebbe facile ipotizzare che il docente, dopo avere portato con sé il manoscritto in Veneto, ve lo avesse lasciato, visto che esso si trovava a Padova già nel 1720 appartenendo alla biblioteca di Alfonso Alvarotti in quell’anno passata al Seminario.6 Ciò posto, è certo, come ha potuto stabilire la ricerca interdisciplinare qui condotta, che il testo appare scritto, nelle sue due distinte parti, su carta che reca una filigrana documentata a Pisa negli anni Sessanta e che la scrittura, tutta di una mano, si configura come una mercantesca centroitaliana.Anche la struttura codicologica risponde a criteri centroitaliani. Nella pagina d’inizio delle Eroidi, che è anche la prima del manoscritto del Seminario, appare il raffinato apparato celebrativo dello stemma Sermoneta di cui si è det-

Dall’alto Siena, Biblioteca degli Intronati, ms.L.IV. 34, c. 81v. Siena, Biblioteca degli Intronati, ms.L.IV.34, c. 50v. Siena, Biblioteca degli Intronati, ms.L.VII.18, c. 1r.


Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Slg. 2° 151.

to all’inizio. Il giudizio che se ne può formulare sul piano stilistico, e quindi della localizzazione e della datazione dell’immagine, non è privo di difficoltà. A suo tempo esso è stato giudicato senz’altro come prodotto senese degli anni Sessanta-Settanta eseguito nel gusto di Matteo di Giovanni e di Francesco di Giorgio Martini e, per quanto riguarda l’ornato, vi si è voluta vedere una conseguenza della presenza dei maestri padani a Siena.7 A mia volta, non conoscendo questa proposta, e tenendo conto della facies codicologica centroitaliana del manoscritto e al tempo stesso di un non facile riscontro a Siena dell’illustrazione, avevo dubitativamente avanzato l’ipotesi che potesse trattarsi di cosa romana vista la somiglianza dell’ornato e dell’impianto del fregio con alcuni dei codici eseguiti a Roma da artisti centroitaliani negli anni Sessanta per Iacopo Zeno vescovo di Padova e oggi conservati alla Capitolare di Padova. In particolare un esemplare delle Allegationes di

Lapo di Castiglionchio (ms.A 9), scritto nel 1467, esibisce sul margine inferiore un fregio, per l’appunto a fiori e filigrane, con due geni alati reggenti lo stemma Zeno, il cui effetto risulta paragonabile a quello del nostro, anche se i corpi infantili sono innegabilmente più tozzi e l’ornato più pesante.8 Volendo ora riprendere in esame la miniatura nella specifica ottica senese che la committenza suggerisce, il problema si configura comunque complesso. L’ornato infatti non presenta quella struttura prevalentemente acantacea a vivacissimi colori che è tipica della miniatura a Siena, tra secondo e terzo quarto del Quattrocento, come si vede per esempio nella già ricordata celebre pagina del De animalibus di Francesco di Giorgio Martini dove il fregio è per l’appunto fogliaceo, anche se le terminazioni sono realizzate a fiori e filigrane simili a quelli del nostro manoscritto. Lo stesso dicasi non solo per la pure menzionata Lectura del Varga, ma anche per i Problemata planetarum di Aristotele della Biblioteca Comunale degli Intronati (ms. L.IV.33), altro prodotto minore della stessa bottega, che reca in alto una vignetta dove, in un ampio paesaggio, una figura femminile regge la sfera del firmamento trapunta di stelle, mentre sui margini corre un fregio acantaceo di forte colorito con in basso lo stemma Sermoneta sorretto da due genietti in volo. Né d’altra parte è facile ricondurre il delicato ornato a filigrane, fiori e sferette dorate delle Eroidi a quello così saldo e regolare di Liberale da Verona e di Girolamo da Cremona presenti a Siena per 43


l’impresa dei corali del duomo nei primi anni Settanta.9 Per quanto poi riguarda i due deliziosi fanciulli delle Eroidi, la grazia squisita dei loro atteggiamenti così sapientemente bilanciati nel sostegno dello stemma, potrebbe ben inquadrarsi nel gusto senese, così attento alla raffinata eleganza delle posture, ma è comunque difficile trovare dei rapporti con il forte e compatto plasticismo, così energicamente dinamico, dei putti reggistemma raffigurati, sempre in volo, nei già ricordati codici di Francesco di Giorgio Martini e della sua bottega. Così è anche impossibile avvicinare la delicatezza formale e sentimentale dei due genietti ai putti irruenti di Liberale da Verona e a quelli così fermamente saldi di Girolamo da Cremona nei corali del duomo di Siena. E infine non è neppure possibile ravvisare delle convincenti assonanze tra il nostro fregio, considerato sia 44

nell’ornato sia nella figura, con la vasta e variegata produzione fiorentina del terzo quarto del Quattrocento.10 Volendo trovare delle analogie con gli altri libri di Alessandro Sermoneta, una volta scartata la possibilità di fare riferimento ai prodotti ‘professionali’, a pieno colore, della più tipica bottega senese del Quattrocento, bisognerà anche tenere conto di quegli esemplari, conservati alla Biblioteca degli Intronati, che si caratterizzano per una illustrazione a disegno condotta a livello amatoriale, ma con grande classe. Mi riferisco in questo senso innanzitutto al manoscritto con il commento di Paolo Veneto agli Analitica di Aristotele e il De pluralitate formarum fatto scrivere, come dichiara il colophon, da Alessandro Sermoneta nel 1445 (Siena, Biblioteca degli Intronati, ms. L.IV.34) e nel quale egli stesso interviene con due squisiti disegni raffiguranti l’uno un fanciullo nudo reg-

Siena, Biblioteca degli Intronati, ms. L.IV.33, c. 1r.


Codice 29, c. 69v.

gente con la sinistra un cartiglio con il motto ‘Tamen puntus’ e con la destra uno stemma dei Sermoneta non finito (c. 50 v), e l’altro un Leone accucciato pure con cartiglio con il motto ‘Unde apud’ (c.81v). Dell’autografia attesta la nota Alex. pinxit M°CCCC°LV°, apposta di mano del Sermoneta a fianco del leone, e ambedue i disegni, nella fine eppur sostenuta fermezza del tratto, ci dimostrano come il giovane medi-

co possedesse una straordinaria manualità e un colto gusto rinascimentale. Di impianto pollaiolesco e di forte impronta alla Francesco di Giorgio Martini è poi il bel disegno a penna con Ercole che smascella il leone, recando sulla schiena a mo’di scudo lo stemma Sermoneta, realizzato in prima pagina del Manfredus, Liber de simplicibus medicinis (Siena, Biblioteca degli Intronati, ms. L.VII.18). Nel confronto con i disegni precedenti penso non si possa escludere di trovarci di fronte ad una nuova esperienza di Alessandro Sermoneta disegnatore condotta in un momento di aggiornamento sullo stile dei manoscritti per lui eseguiti dal pittore senese e dai suoi aiuti e quindi negli anni Sessanta. La miniatura delle Eroidi si può avvicinare innegabilmente a questi due esemplari per la sobrietà dell’impianto, per l’effetto delicato, quasi da disegno acquerellato in tinte leggere, dei due nudi, e per la squisita finezza del segno, ma non sembra possibile ravvisarvi la stessa mano né la stessa cultura. Come allora inquadrare stilisticamente il nostro fregio il cui ornato a filigrane, sferette e fiorellini, ha un sapore così padano e dove sia l’impianto dei due genietti, non in volo come quasi sempre nella miniatura toscana ma stanti come d’uso in quella ferrarese e veneta, sia la loro delicata struttura e la loro patetica affabilità non si inquadrano in un contesto toscano? Per risolvere il problema è forse opportuno cambiare ottica e guardare non a Siena, ma altrove, tenendo conto dell’alta personalità del Sermoneta e delle sue frequentazioni che non 45


Per gius

Decretum Gratian Biblioteca M

Ce


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47


Di quest’ultimo commentario, in realtà cronologicamente primo della collana, non riusciamo a mostrarvi l’estratto. Possiamo però proporvi la quarta di copertina per permettervi di avere idea del contenuto.

Con il reintegno delle carte sottratte agli inizi degli anni Ottanta, l’edizione 2008 del progetto “Salviamo un Codice” promosso da “Alumina” e Nova Charta ha restituito all’antico splendore il Decretum Gratiani della Biblioteca Malatestiana di Cesena (Ms. Piana 3.207). Un famoso codice di diritto canonico di cui queste volume documenta e illustra la storia e le varie fasi del restauro



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