POSTMODERN GRAPHICS IN PRINTED PUBLISHING: «EMIGRE» (1984-2005), A MAGAZINE WITHOUT BOUNDARIES

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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE POSTMODERN GRAPHICS IN PRINTED PUBLISHING: «EMIGRE»(1984-2005), A MAGAZINE OF RESEARCH AND EXPERIMENTATION

POLITECNICO DI TORINO

TESI DI LAUREA DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTO GRAFICO E VIRTUALE RELATORE: Caterina Franchini STUDENTE: Nensi Shapllo/166361


POLITECNICO DI TORINO

DAD-DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA E DESIGN A.A 2013/2014 TESI DI LAUREA IN PROGETTO GRAFICO E VIRTUALE

RELATORE Caterina Franchini STUDENTE Nensi Shapllo/166361 TITOLO TRADOTTO IN LINGUA INGLESE Postmodern Graphics in printed Publishing: «Emigre» (1984-2005), a magazine of research and experimentation CONTENUTI, IMPAGINAZIONE E PROGETTO GRAFICO Nensi Shapllo e-mail: nshapllo@hotmail.com TESTO COMPOSTO IN Helvetica Neue STAMPA E RILEGATURA Centrocopie Srl. dicembre 2013



INTRODUZIONE p.10 CAPITOLO 1 IL PASSAGGIO DALLA MODERNITÀ ALLA POSTMODERNITÀ NELLA CULTURA CONTEMPORANEA 1.1

LA DIMENSIONE FILOSOFICA DEL POSTMODERNISMO

INDICE

1.1.1 La negazione dell’utopia: l’impossibilità di un qualsiasi destino comune p.15 1.1.2 La negazione della totalità come presa di coscienza della diversità p.21 1.1.3 La negazione della finalità: l’instabilità del significato del linguaggio p.25

FOCUS 1 UNA DELIBERATA CITAZIONE DEL PASSATO NELLO SPAZIO ARCHITETTONICO E URBANO p.30

CAPITOLO 2 IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO 2.1

LA TENDENZA ANTIMODERNISTA A EVADERE LE REGOLE p.40

2.2

LE TEORIE DECOSTRUZIONISTE NELLA TIPOGRAFIA PER UNA NUOVA CATEGORIA DI LETTORI p.43

2.3

LA RIVOLUZIONE DIGITALE: ALLA RICERCA DI UNA NUOVA ESTETICA TIPOGRAFICA p.46

2.4

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA EDITORIA: DALLE RIVISTE UNDERGROUND A QUELLE PUNK (1968 -1975) p.54


2.4.1 La New Wave Californiana (1984) p.68

FOCUS 2 FORME DI COMUNICAZIONE VISIVA VERNACOLARE p.84

FOCUS 3 LA COMMERCIALIZZAZIONE DEL PRIMO PERSONAL COMPUTER MACINTOSH E LE RICADUTE NEL CAMPO DELL’EDITORIA p.90

CAPITOLO 3 IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) 3.1

3.2

I FONDATORI DI «EMIGRE»: RUDY VANDERLANS E ZUZANA LICKO 3.1.1 La ricerca di Rudy VanderLans nel campo dell’editoria: le fonti d’ispirazione p.97 3.1.2 La ricerca di Zuzana Licko nella progettazione del carattere tipografico digitale p.103 LA NASCITA DI «EMIGRE»: UNA RIVISTA “DO IT YOURSELF” 3.2.1 Il punto d’incontro: la fondazione della fonderia di caratteri tipografici digitali “Emigre Graphics” e del periodico p.110 3.2.2 Una rivista autoprodotta e finanziata p.112 3.2.3 La trasformazione formale e di contenuti della rivista: tre periodi fondamentali p.117


CAPITOLO 4

1968>2005

«EMIGRE»: UNO SPAZIO DI CRITICA E DIBATTITO SULLA PROGETTAZIONE GRAFICA 4.1

4.2

LE CRITICHE NEI CONFRONTI DI «EMIGRE» 4.1.1 La mancata committenza alla base di un progetto non convenzionale p.146 4.1.2 Gli anni Novanta e lo scontro tra Massimo Vignelli ed «Emigre» in merito alla “nuova tipografia” p.148 4.1.3 “Cult of the Ugly”: esempi di bruttezza al servizio di una progettazione sperimentale alternativa p.149 LA FINE DI UN PERCORSO ALTERNATIVO DI PROGETTAZIONE: I RICONOSCIMENTI DELLA CRITICA NEI CONFRONTI DI «EMIGRE» p.157

CONCLUSIONI p.162 RINGRAZIAMENTI p.166 BIBLIOGRAFIA p.168 ARTICOLI p.172 SITOGRAFIA p.172



INTRODUZIONE

Il design grafico contemporaneo è una disciplina in continua trasformazione. Nuove culture progettuali si sono affermate grazie alla rivoluzione digitale e mediatica che ha investito le società dei Paesi più industrializzati a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento. Epocale è stato l’impatto sulla professione del grafico, sui suoi strumenti di lavoro e sul suo modo di operare. La rivoluzione digitale ha consentito l’interconnessione di diversi metodi progettuali rendendone infinite le possibilità di elaborazione. In questo nuovo scenario, il computer non ha rappresentato solo un mezzo per fondere diverse tecniche grafiche, ma ha anche suggerito un nuovo tipo di linguaggio della rappresentazione visiva. Questo nuovo linguaggio digitale è stato oggetto di un’ondata di ricerca sperimentale i cui risultati sono stati imprevedibili e innovativi e si sono manifestati come attegiamenti sovversivi rispetto alle regole tradizionalmente accettate e sono stati al centro del dibattito critico. La tesi nasce dalla personale necessità d’indagare storicamente le ragioni che hanno portato negli anni Ottanta a un’intensa attività di sperimentazione nel campo dell’editoria cartacea disponibile sul mercato che, invece, sembra essere assente ai giorni nostri. La ricerca mira a individuare le ragioni che hanno consentito una tale eccezionale sperimentazione al fine di comprendere i motivi per cui questa non sia stata perseguita nel tempo. Il nuovo linguaggio grafico degli anni Ottanta, spesso ettichettato come “brutto”, è qui riletto in positivo partendo da un’analisi storico-critica delle esperienze editoriali negli Stati Uniti d’America e in Europa dalla fine degli anni Sessanta.


Sorprenderà, allora, scoprire che la grafica californiana ha alcune origini in Svizzera, oppure che i grafici quanto mai sperimentatori ebbero una formazione modernista, nella profonda risoluzione che è necessario imparare le regole prima di romperle. La tesi, ripercorrendo la storia dei più radicali cambiamenti della grafica cartacea a partire dalla fine degli anni Sessanta fino alle più ardite sperimentazioni New Wave, ne indaga gli esiti attraverso un confronto tra le fonti storiografiche e iconografiche. Partendo da questo presupposto, una particolare attenzione è stata riservata ai dibattiti sulla nuova estetica del carattere tipografico digitale, elemento catalizzatore per la nascita della sperimentazione nel campo grafico. Dalla “New Typography” e dai poster realizzati con sfondi a effetto moirè (1968) di Wolfgang Weingart (Salem Valley, 1941), alle sperimentazioni di April Greiman (New York, 1948) nate insieme alla comparsa dei nuovi strumenti digitali (Quantel Paintbox nel 1981) e del Macintosh (1984), ci vengono forniti esempi esaustivi dell’inevitabile “rottura” degli stilemi tradizionali. Le teorie decostruttiviste di Jacques Derrida (Parigi, 19302004) che vedono la struttura formale dell’elaborato grafico abbandonare le gerarchie “universali” dettate dal Modernismo, portano allo svilupparsi delle teorie di Katherine McCoy, direttrice della Cranbrook Academy of Art. Il suo approccio alla rappresentazione si avvale di un nuovo disordine che decodifica gli elementi compositivi del progetto con il desiderio utopico di liberare i modelli grafici dagli imperativi commerciali. Questo approccio esplora l’interconnessione dei linguaggi


della stampa, dei new media, dell’architettura, della grafica e sarà soggetto ad aspre critiche di autori come Steve Heller (New York, 1950) e Massimo Vignelli (Milano, 1931), convinti della validità delle rigide reglole moderniste. È indubbia la fertilità del terreno di questa frontiera aperta, su cui si sono sviluppate negli Stati Uniti d’America ed in Europa le ricerche grafiche di altri progettisti come ad esempio Edward Fella (Los Angeles, 1938), Terry Jones (Northampton, 1945), David Carson (Texas, 1954), Rudy VanderLans (Voorburg, 1955), Zuzana Licko (Bratislava, 1961). Il metodo, alla base della ricerca storica è approfondito facendo ricorso a un caso studio: il periodico statunitense «Emigre» (1985-2005). Si è scelto il periodico «Emigre» e non altre pubblicazioni dello stesso periodo, come «RayGun», «The Beach» o «The Face», in quanto «Emigre» non tratta del design grafico solo all’interno delle sue pagine; l’intera rivista, dai font alla carta, dalla stampa alla distribuzione, in breve l’intero percorso produttivo come sostiene il suo fondatore Vanderlans «è una discussione su che cosa è il design e quali sono le possibilità del designer in quanto autore»1. La tesi si compone in quattro capitoli. Prima di analizzare l’esperienza grafica di «Emigre» è svolta un’indagine sul periodo storico-culturale in cui affonda le radici la rivista: il Postmoderno. Dal punto di vista filosofico il periodo in oggetto è caratterizzato da un cambiamento radicale rispetto il Modernismo. A partire dalle riflessioni dei primi filosofi del postmodernismo: Jean - François Lyotard (Versailles, 1924 - 1998), Jaques Derrida (Algeri, 1930-2004), Gianni Vattimo (Torino, 1936) e dalle tesi dei critici Charles Jencks (Baltimora, 1939) e Robert Ven-

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 198. 1


turi (Filadelfia, 1925)si è ricostruito un quadro concettuale di riferimento. Da questo quadro generale, nel secondo capitolo si sono indagate le manifestazioni nel design grafico. Quest’analisi è stata supportata da una serie di esempi di prodotti editoriali che sono stati descritti dal punto dell’approccio progettuale e tecniche di produzione. Gli ultimi due capitoli sono dedicati esclusivamente al periodico «Emigre». Per la stesura di questi due capitoli si è fatto riferimento principalmente a due testi i cui autori sono i fondatori stessi di «Emigre», VanderLans e Licko2. Si è così indagata la formazione dei fondatori della rivista, le loro influenze e la loro identificazione con l’individuo postmoderno. Si è inoltre analizzata la sperimentazione grafica e tecnica della rivista, la trasformazione subita negli anni e in conclusione i successi e gli insuccessi di «Emigre» supportati da vari articoli dei maggiori critici statunitensi3.

Rudy VanderLans, Zuzana Licko, Mary E. Gray, Jeffrey Keedy, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993; Rudy VanderLans, Zuzana Licko, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005. 3 Ellen Lupton, Lewis Blackwell, Rick Poynor e Catherine McCoy. 2


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IL POSTMODERNO IL PASSAGGIO DALLA MODERNITÀ ALLA POSTMODERNITÀ NELLA CULTURA CONTEMPORANEA LA DIMENSIONE FILOSOFICA DEL POSTMODERNISMO

Prima di analizzare l’esperienza grafica del periodico «Emigre», si ritiene opportuno tratteggiare un quadro generale del contesto all’interno del quale si inserisce l’attività dei due fondatori della rivista: VanderLans e Licko. La crisi energetica del 1973, conseguenza della guerra del Kippur tra israeliani e arabi, non rappresenta solo il crollo di un sistema economico basato sullo sfruttamento delle materie prime provenienti dal Terzo Mondo, ma chiude una fase storica, iniziata nel secondo dopoguerra, in cui era riposta una totale fiducia politica e ideologica in un modello di sviluppo illimitato. Svanisce l’illusione di una crescita progressiva e infinita del benessere sociale, di un’evoluzione quasi naturale della società occidentale verso la felice e integrale risoluzione dei problemi dell’umanità. I movimenti contro culturali degli anni Sessanta, in particolare il movimento del 1968, sono stati la reazione culturale e politica di questa trasformazione che andava manifestandosi all’interno delle società occidentali. Di fronte all’apparente irrazionalità della crisi energetica del tutto imprevista e non pianificata, va in frantumi anche il modello culturale “moderno”, sia quello con connotazioni progressiste, sia quello più conservatore di supporto al capitale e al mercato. Non è più possibile credere in un ideale conciliatorio, dove capitale e forza lavoro, vanno verso un radioso progresso. Negli anni Settanta la disoccupazione cresce, lo scontro nelle fabbriche si radicalizza e nasce il terrorismo; in Germania la Rote Armee Fraktion e in Italia le Brigate Rosse attuano la

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tattica terroristica e si annullano progressivamente gli spazi di “contestazione” per i gruppi alternativi. L’intelligenza progressista, di cui gli architetti e i designer modernisti sono parte, reagisce a questa situazione di dichiarata “impossibilità rivoluzionaria” cadendo nel totale silenzio (Italia) oppure facendo sentire la propria voce: in Francia con i Nouveaux Philosophes1, in Inghilterra e in USA con teorie d’architettura di Charles Jencks (Baltimora, 1939) e Robert Venturi (Filadelfia, 1925) che cercarono a fatica di elaborare un nuovo modello culturale, che tenesse conto della reale crisi della ragione dimostrata nei fatti economici e politici. Nato fra il 1968 e il 1972, il postmodernismo prende forma compiuta nella metà degli anni Settanta. Il concetto di postmoderno è apparso problematico sin dall’inizio e allude a un fenomeno sostanzialmente “vago”. Non ci sono definizioni univoche. Ci si chiede se il postmodernismo rappresenti una rottura radicale con il modernismo, oppure sia semplicemente una rivolta interna al modernismo, contro una certa forma di «alto modernismo espressa, per esempio, dall’architettura di Mies van der Rohe o dalle superfici vuote

della pittura espressionista astratta minimalista?»2. Secondo il filosofo francese Jean - François Lyotard (Versailles, 1924 - 1998) il termine “postmoderno” è apparso quello più adatto a designare «lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine degli anni Sessanta»3. Più importante che la definizione in sé, sembra che i critici4 concentrino le loro forze nel descrivere i cambiamenti che distinguono le esperienze culturali del postmodernismo da quelle del modernismo.

Nouvelle Philosophie è il termine usato per indicare quel movimento intellettuale che si contrappose al marxismo nei primi anni Settanta. I Nouveaux Philosophes criticano il Post-strutturalismo, Jean-Paul Sartre, nonché la filosofia di Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. 2 Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 60. 3 Cfr. Jean F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli 1981, p. 5. 4 Si veda ad esempio: Robert Venturi, Denise Scott-Brown, Steve Izenour, Learning from Las Vegas, New York, Abingdon 1972; Charles Jencks, The language of post-modern architecture, Londra, Academy copyr 1977; Jean F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli 1979; Frederic Jameson, Postmodernism, ot the cultural logic of late capitalism, 1984. 1


IL POSTMODERNO IL PASSAGGIO DALLA MODERNITÀ ALLA POSTMODERNITÀ NELLA CULTURA CONTEMPORANEA LA DIMENSIONE FILOSOFICA DEL POSTMODERNISMO

La negazione dell’utopia: l’impossibilità di un qualsiasi destino comune

La modernità concepisce la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo appare capace di una sempre più perfetta realizzazione della propria natura, di un esercizio sempre più ricco delle proprie facoltà. L’uomo moderno è contrassegnato dalla fiducia in sé stesso come creatore e protagonista di una civiltà nuova più avanzata e più democratica di ogni epoca precedente e in costante movimento verso ulteriori traguardi. Dal 1972 si assiste a un cambiamento nel mondo culturale e nel mondo politico-economico. Il cambiamento culturale è legato a un profondo mutamento nella struttura del sentire e dall’emergere di un particolare modo di essere nel mondo, di averne esperienza e d’interpretarlo. Questo periodo viene caratterizzato dallo scetticismo sulla possibilità collettiva di realizzare un destino comune, per esempio il dominio equilibrato della natura, l’organizzazione razionale delle forme sociali, la fine delle oppressioni e dello sfruttamento. La tendenza anti-utopica è contro tutto ciò che attribuisce valore alla pianificazione. Ad esempio i postmodernisti si staccano nettamente dai concetti modernisti per quanto riguarda il modo di considerare lo spazio. Mentre i modernisti vedono lo spazio come qualcosa che dev’essere modellato per scopi sociali e perciò è sempre subordinato alla costruzione di un progetto sociale, i postmodernisti vedono lo spazio come qualcosa di indipendente e di autonomo, che deve essere modellato secondo fini e principi estetici non necessariamente legati ad alcun obiettivo sociale dominante se non forse al raggiungimento

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di una bellezza senza tempo e “disinteressata” quale obiettivo in sé. Per capire questo nuovo modo di essere nel mondo il postmodernismo si richiama a quella corrente di pensiero che fa capo a Nietzche in particolare, che sottolinea il profondo caos della vita moderna e la sua scarsa maneggiabilità da parte del pensiero razionale. Una particolare interpretazione di questo aspetto viene data dal filosofo torinese Gianni Vattimo (Torino, 1936). Secondo Vattimo la metafisica classica considerava l’essere, l’oggetto, la cosa come un qualcosa che esisteva in maniera innegabile e non lasciava più opportunità ad altre domande: è come una autorità che tacita si impone senza fornire spiegazioni. C’è, esiste, è presente e dunque non può essere messa in dubbio. Questo è un tipo di pensiero violento. La metafisica classica prelude alla violenza, fa violenza al pensiero perché non gli permette di mettersi in dubbio, di criticarsi, di esaminarsi. Di fronte all’essere così concepito si può solo tacere (o provare ammirazione) o esserne sottomessi5. Noi non possiamo considerare più la verità come l’adeguamento del pensiero all’oggetto esterno. «Dico: qui c’è un tavolo. È un’affermazione vera se riconosco che qui, in questo momento, c’è davanti a me un tavolo. Io quindi mi adeguo a quello che vedo»6. Ma la verità dipende dal soggetto conoscente ed è quindi interpretazione, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo. Per Vattimo il pensiero è arrivato alla fine della sua “avventura metafisica”. La filosofia diventa «pensiero debole» in quanto

Cfr. Gianni Vattimo, Oltre L’Interpretazione: Il Significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma, Laterza 1994, p. 15. 6 Cfr. Ivi, p. 19. 7 Cfr. Gianni Vattimo, Pier A. Rovatti, Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli 1985, p. 24-26. 5

Gianteresio Vattimo, detto Gianni, è un filosofo e politico italiano. Nelle sue opere Vattimo si è occupato dell’ontologia ermeneutica contemporanea, proponendone una propria interpretazione, che ha chiamato “pensiero debole”.


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abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è giocata come continua interpretazione. «Il pensiero debole» si configura esplicitamente come una forma di nichilismo, la specifica condizione di assenza di fondamenti dell’individuo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze e delle verità stabili che deve essere accettata, sempre secondo Vattimo, come nostra unica chance. Il soggetto postmoderno, per Vattimo, è quindi colui che, dissolto il pensiero metafisico tradizionale, riesce a vivere in un mondo in cui «Dio è nietzscheanamente morto», dove ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità svanisce e sa accettare il nichilismo come propria chance destinale, imparando a vivere senza ansie e nevrosi nel mondo delle mezze verità e delle fondatezze infondate7. L’essere non sarà più concepito d’ora in poi come puro oggetto, le cui caratteristiche sono tali senza l’apporto di un soggetto, come coglibile attraverso una verità oggettiva, con un metodo scientifico-positivo, ma si dovrà parlare dell’essere solo più in termini di evento. E questo vuole appunto dire pensare l’essere in maniera debole, secondo un pensiero che vuole essere debole. La verità non è per Vattimo una evidenza perentoria e oggettiva, ma è interpretabile e raggiungibile a fatica attraverso la diversità delle prospettive. Per Vattimo, quindi, l’espressione «pensiero debole» significa soprattutto una «teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della metafisica»8.

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8 Cfr. Gianni Vattimo, Pier A. Rovatti, Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli 1985, p. 33.


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Rifuggendo dall’idea di progresso, il postmodernismo abbandona ogni senso di continuità e ogni memoria storica, mentre al tempo stesso sviluppa un’incredibile capacità di saccheggiare la storia e di assorbire, quale aspetto del presente, qualsiasi cosa vi trovi. Ciò non implica, tuttavia, che il postmodernismo sia semplicemente una versione del modernismo; le vere rivoluzioni della sensibilità si verificano quando le idee che sono latenti e represse in un certo periodo divengono esplicite e dominanti in un altro periodo. Attraverso i film, la televisione, i libri, ecc., la Storia e l’esperienza del passato vengono trasformati in un archivio apparentemente vasto di facile consultazione a cui attinge a piacere. Se, la Storia può essere vista come una riserva infinita di eventi uguali, allora gli scrittori, agli artisti, gli architetti e i designer possono sentirsi liberi di citarli in qualsiasi ordine desiderino. La tendenza postmoderna a mescolare tutti i tipi di riferimento agli stili del passato rappresenta una delle sue caratteristiche più importanti che viene manifestata in arte, architettura e nel design9. Fino al Rinascimento il criterio nel giudizio di valore nelle arti non era l’originalità, ma il principio della pienezza. Un’opera letteraria e

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artistica era apprezzata per la sua capacità di contenere e riepilogare il maggior numero di riferimenti alla tradizione; era apprezzata quanto più fosse comprensiva dei valori e degli interessi collettivi. L’innovazione era una conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non era perseguita come fine dell’arte. Il postmodernismo riutilizza il già fatto e dichiara di farlo con una consapevolezza che rende il riuso una citazione ironica. La novità risiede nella consapevolezza di copiare: quello che una volta poteva essere plagio ora è citazionismo. Il romanzo postmoderno può presentarsi con una struttura narrativa di tipo tradizionale, come per esempio il romanzo storico oppure il romanzo giallo o quello di fantascienza, generi letterari che la narrativa modernista del Novecento non amava. Non si tratta di un recupero completamente serio, ma l’autore si pone in atteggiamento ironico nei confronti della storia che racconta. Infine il testo è spesso ricco di allusioni e citazioni raffinate che solo pochi lettori, molto esperti di letteratura, possono cogliere. Lo stesso ragionamento si può fare in architettura dove componenti dell’architettura del

Per approfondimenti si veda Focus 1: Una deliberata citazione del passato nello spazio, p. 31.


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Charles Jencks è un architetto statunitense. Critico, storico e teorico dell’architettura e del paesaggio. Jencks è stato il principale teorico dell’Architettura postmoderna.

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passato, specialmente di quella classica, vengono riciclate, spesso solo superficialmente, in edifici che sono attualissimi come concezione costruttiva e tecnologia di produzione. Il risultato dell’inserimento di una tale pratica ha portato una serie di risultati. Robert Hewison (Londra, 1942) - uno storico che dedica maggior parte della sua attività a scrivere articoli per The Sundey Times – rivela in The heritage industry (1987) la sua preoccupazione per l’identità, le radici personali e collettive. Questa preoccupazione è molto simile a quella espressa dall’architetto Aldo Rossi (Milano, 1931-1997) ed è diventata molto più pervasiva a partire dai primi anni Settanta a causa di una diffusa incertezza nei mercati del lavoro, nei mix tecnologici, nei sistemi di credito e così via10. Lo stesso giudizio può essere riferito al modo in cui l’architettura e il design postmodernista citano l’ampia gamma di informazioni e di immagini, forme urbanee architettoniche che si trovano in varie parti del mondo. Il postmodernismo, sostiene Hewinson, ritiene che ogni arte non può isolarsi ed evitare qualsiasi connessione e scambio di esperienza col mondo11. Lo stesso concetto viene ripreso dal critico statunitense dell’architettura e del paesaggio Charles Jencks (Baltimora, 1939) il quale sostiene (The language of post-modern architecture 1985), che tutti noi portiamo un “musée imaginaire” nella nostra mente, tratto dall’esperienza (spesso turistica) di altri luoghi, e dalle conoscenze ricavate dai film, dalle mostre, dai dépliant turistici, dai giornali popolari, ecc. È inevitabile, dice, che tutto questo vada avanti di pari passo;

Per approfondimenti si veda Focus 1: Una deliberata citazione del passato nello spazio costruito, p. 27. 11 Cfr. Robert Hewison, The heritage industry, Londra, Methuen 1987, p. 86. 10


La negazione della totalità come presa di coscienza della diversità

«Se uno può permettersi di vivere in diverse epoche e culture, perché limitarsi al presente, al locale? L’eclettismo è l’evoluzione naturale di una cultura che può scegliere»12. La geografia delle culture si trasforma così in un potpourri di internazionalismo che è sotto molti aspetti sorprendete, forse perché più confuso di quanto mai lo sia stato l’alto internazionalismo. Quando viene accompagnato da forti flussi migratori, di lavoro e di capitale, questo fenomeno produce una pletora di Little Italy, Little Havana, Little Tokyo, Korea, Kingston e Karachi, e poi Chinatown, barritos latino-americani, quartieri arabi, zone turche. È cosi che il mascheramento delle superfici architettoniche nasce non soltanto dall’inclinazione postmoderna alla citazione eclettica, ma anche da un evidente fascino per le superfici, limitando il conflitto, per esempio, fra lo storicismo dell’essere radicato in un luogo e l’internazionalismo dello stile tratto dal “musée imaginaire”, fra la funzione e la fantasia, fra l’obiettivo di significare del produttore e la volontà del consumatore di ricevere il messaggio.

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L’aspetto più liberatorio del pensiero postmoderno è la sua preoccupazione per la diversità. Viene criticato l’imperialismo della modernità illuminata che presumeva di parlare per gli altri (popoli colonizzati, neri e minoranze, gruppi religiosi, classe operaia) con una sola voce. L’idea che tutti i gruppi abbiano il diritto di vedere accettata la loro voce in quanto autentica e legittima è essenziale per la posizione pluralistica del postmodernismo. Di conseguenza, anche un egualitarismo dei bisogni e del gusto rispetto alle distinzioni sociali tipiche di quella che, dopo tutto, rimaneva una società capitalistica classista, creò un clima di domanda repressa se non di desiderio represso che è in parte espresso dai movimenti culturali degli anni Sessanta. Questo desiderio represso probabilmente svolse un ruolo importante nello stimolare i postmodernisti ad esplorare il campo dei gusti differenziati e delle preferenze estetiche. Già nel 1961, Jane Jacobs (Toronto, 19162006) nel suo libro The Death and Life of Great American Cities, notava come alcuni processi di mercato tendevano a contrastare una naturale affinità umana per la diversità e

Cfr. Charles Jencks, The language of post-modern architecture, Londra, Academy copyr 1984, p. 84.


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Jane Jacobs (Pennsylvania, 19162006) è stata un’antropologa e attivista statunitense. Le sue teorie hanno influito profondamente sui modelli di sviluppo urbano delle città nordamericane. Nell’inquadratura sopra riportata si vede nello sfondo un esempio tipico di edilizia popolare a Baltimora; un esempio di quello che lei chiama “La Grande Tragedia della Monotonia”.

tendevano a produrre una soffocante conformità di usi del territorio. Il problema era reso più complesso dal fatto che gli urbanisti si dichiaravano nemici della diversità, temevano il caos e la complessità in quanto disorganizzati, brutti e disperatamente irrazionali. Jacobs lamentava che «l’urbanistica non rispetti la spontanea auto diversificazione delle popolazioni urbane e tanto meno si sforzi di sollecitarla, così forza di auto diversificazione, né sembrino attratti dai problemi estetici inerenti alla sua espressione»13. Nel disegno urbano questa attenzione per i gusti differenziati si manifesta in una sensibilità verso le tradizioni e le storie locali, i bisogni e i capricci particolari, generando così forme architettoniche specializzate, quasi su misura, che possono variare dagli spazi intimi personalizzati alla monumentalità tradizionale, alla fantasia dello spettacolo. Tutto ciò è sviluppato facendo appello a un notevole eclettismo di stili architettonici. Il postmodernismo coltiva così, un concetto secondo cui il tessuto urbano è necessariamente frammentato, un “palinsesto” di forme del passato sovrapposte l’una all’altra, un “collage” di usi correnti, molti dei quali possono essere effimeri. Finzione, frammentazione, collage ed eclettismo, in un senso di caducità e caos, sono forse i temi che più di altri dominano l’architettura e il disegno urbano degli anni Settanta. Nel 1972, Robert Venturi (Filadelfia, 1925), Denise Scott Brown (Nkana, 1931) e Steve Izenour (New Heaven, 1940-2001) nel

Cfr. Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House 1961, p. 302. 14 Cfr. Robert Venturi, Denise Scott-Brown, Steve Izenour, Learning from Las Vegas, New York, Abingdon 1972, p. 92. 15 Cfr. Jean F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli 1981, p. 26.

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loro testo fondamentale Learning from Las Vegas osservano: «Per il cittadino medio che vive in periferia che vive non in un palazzo d’anteguerra, ma in una piccola abitazione persa in un grande spazio, l’identità deve essere raggiunta attraverso il trattamento simbolico della forma della casa, o con uno stile assicurato dal costruttore (coloniale a piani sfalsati, per esempio) o con una varietà di ornamenti simbolici successivamente applicati dal proprietario»14. Nell’opera in questione, si sostiene che gli architetti hanno più da imparare dallo studio di paesaggi popolari e locali (periferie e zone commerciali) che dal perseguimento di ideali astratti, teorici e dottrinali. Era giunto il momento, secondo gli autori, di costruire per la gente e non per l’uomo. Le torri di vetro, i blocchi di cemento armato, le lastre di acciaio che sembravano travolgere ogni paesaggio urbano da Parigi a Tokyo, da Rio a Montreal hanno lasciato progressivamente il campo a edifici decorati, a imitazioni di piazze medievali e di villaggi di pescatori, a case di gusto locale o progettate “su misura”, a fabbriche e magazzini rinnovati, a paesaggi restaurati di ogni tipo; e tutto questo in nome della creazione di un ambiente urbano più

“soddisfacente”. L’accettazione della frammentazione, del pluralismo e dell’autenticità delle altre voci e degli altri mondi pone il problema della comunicazione e dei mezzi per esercitare il potere attraverso il controllo della stessa. La maggior parte dei pensatori postmodernisti è affascinata dalle nuove possibilità di produzione, analisi e trasferimento di informazione e conoscenza. Uno dei più influenti filosofi degli inizi della filosofia postmoderna Lyotard, infatti, inquadra le sue argomentazioni nel contesto delle nuove tecnologie di comunicazione. Egli esamina da vicino le nuove tecnologie per la produzione, la diffusione e l’uso di una conoscenza quale principale forza produttiva. Con Lyotard, si avanza l’ipotesi che il modernismo sia cambiato perché sono cambiate le condizioni tecniche e sociali della comunicazione16. Questo concetto viene ripreso più tardi, nel 1984, da Charles Jencks nel suo The language of post-modern architecture dove si sostiene che l’architettura postmoderna ha le sue radici in due importanti mutamenti tecnologici17. In primo luogo, le comunicazioni contemporanee hanno abbattuto i consueti confini di

Cfr. Jean F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli 1981, p. 26. Cfr. Charles Jencks, The language of post-modern architecture, Michigan, Rizzoli 1984, p. 80 - 81. 15 16


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In alto: Copertina del testo Learning from Las Vegas di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steve Izenour, 1972. In basso: Pagine interne dell’opera Learning from Las Vegas, Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steve Izenour, 1972.

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spazio e tempo e hanno prodotto un nuovo internazionalismo, forti differenzazioni interne nelle città e nelle società basate sul luogo, sulla funzione e sull’interesse sociale. Questa frammentazione prodotta esiste in un contesto di tecnologie di trasporto e comunicazione che hanno la capacità di gestire l’interazione sociale attraverso lo spazio in modo estremamente differenziato. Rispetto all’immediato dopoguerra, quindi, l’architettura e il disegno urbano si sono trovati ad avere nuove e più ampie opportunità di diversificare la forma spaziale. Forme urbane disperse, decentrate e non concentrate sono ora molto più facilmente realizzabili, dal punto di vista tecnologico, rispetto al passato. In secondo luogo, le nuove tecnologie (in particolare i modelli computerizzati) hanno eliminato la necessaria associazione di produzione in serie e ripetizione permettendo una produzione in serie flessibile di prodotti quasi personalizzati che esprimono una grande varietà di stili. Analogamente, sono ora disponibili a basso costo nuovi materiali da costruzione, alcuni dei quali permettono un’imitazione quasi perfetta di vecchi stili (dalle assi di quercia ai mattoni rustici). Sottolineare in questo modo l’importanza delle nuove tecnologie non significa interpretare il postmodernismo come un movimento determinato dalla tecnologia. Negli anni Ottanta Jencks afferma che gli architetti e gli urbanisti operano in un contesto non più caratterizzato da alcuni dei rigorosi limiti presenti nell’immediato dopoguerra. Di conseguenza, gli architetti e i designer urbani postmoderni possono più facilmente provare a comunicare con diversi

18 Cfr. Charles Jencks, The language of post-modern architecture, Londra, Academy copyr 1984, p. 82.


La negazione della finalità: l’instabilità del significato del linguaggio

gruppi di clienti in modo personalizzato, adattando i prodotti alle varie situazioni, funzioni e “culture di gusto”18. Di conseguenza, gli architetti e i designer urbani postmoderni possono più facilmente provare a comunicare con diversi gruppi di clienti in modo personalizzato, adattando i prodotti alle varie situazioni, funzioni e “culture di gusto”. Essi si preoccupano molto, afferma Jencks, di segni di status, storia, commercio, comfort, appartenenza etnica, segni che indicano socievolezza, e vogliono prendersi cura di ogni gusto, anche di quelli consacrati a Las Vegas o a Levittown – gusti che invece i modernisti tendevano a respingere in quando comuni e banali. Sempre secondo Jencks in linea di principio, l’architettura postmoderna è antiavanguardista; riluttante a imporre soluzioni, a differenza di quanto tendevano, e tendono, a fare gli alto-modernisti, gli urbanisti da lui considerati burocrati e autoritari.

I postmodernisti tendono ad accettare una teoria alquanto inedita riguardo all’oggetto del linguaggio e della comunicazione. Mentre i modernisti avevano presupposto l’esistenza di una relazione stretta e identificabile fra ciò che si dice (il significato o messaggio) e il modo in cui lo si dice (il significante o mezzo), secondo il pensiero post - strutturalista questi due aspetti si associano e si riassociano di continuo in nuove combinazioni. Il decostruzionismo19 entra qui in gioco come potente stimolo ai modi di pensare postmodernisti. Alla fine degli anni Sessanta Jaques Derrida (Algeri, 1930 - 2004) critica le basi dello strutturalismo proponendo un nuovo modo di interpretare il segno distaccandosi dalle teorie di Ferdinand de Saussure (Ginevra, 1857 – 1913), il maestro dello Strutturalismo linguistico, che in Course in General Linguistics (1916), considera il segno solo come una traduzione della lingua colloquiale. Secondo Saussure, il segno ha un intrinseco dualismo: il significante e il significato. Esiste una sorta di separazione tra il significato e la forma, la cui associazione è stata fondata da una comunità di persone arbitrariamente. Ogni segno esiste sulla base della sua relazione con gli altri segni di un sistema più

Un movimento che trae origine dall’interpretazione del pensiero di Martin Heidegger (Meßkirch, 1889-1976) da parte di Jacques Derrida (Algeri, 1930-2004) alla fine degli anni Sessanta.

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Jacques Derrida, nato Jackie Derrida, è stato un filosofo francese. Egli ha elaborato un percorso filosofico, originale e provocatorio, che si caratterizza come decostruzione della “metafisica della presenza”.

grande. Derrida, invece, criticata la limitatezza del significato implicito nel concetto saussuriano del segno. Egli sottolinea “l’inafferrabilità del significato” e il suo continuo spostamento in opposizione alla determinatezza del segno come unità. Il segno non esiste solo sulla base della sua differenza da altri segni nel sistema del loro rapporto, ma anche sulla differenza nel suo interno, in un gioco di scorrimento, di sostituzione e di modifica20. Gli scrittori che creano testi o usano parole, sostiene Derrida, fanno ciò sulla base di tutti gli altri testi e di tutte le altre parole che hanno incontrato e i lettori affrontano testi e parole nello stesso modo. Il prodotto culturale viene quindi visto come una serie di testi che si intersecano con altri testi e producono nuovi testi. Questo intreccio intertestuale ha una vita propria. Qualsiasi cosa scriviamo trasmette un significato che noi non comprendiamo o non possiamo comprendere fino in fondo e le nostre parole non riescono a esprimere ciò che noi vogliamo dire. La lingua funziona attraverso di noi. Da questa presa di coscienza, il metodo decostruzionista consiste nel cercare nel testo un altro testo, nel dissolvere un testo in un altro testo, o nel costruire un testo in un altro testo21. Derrida considera, quindi, il collage/montaggio la forma principale del linguaggio postmoderno. L’eterogeneità intrinseca di qualsiasi linguaggio, si tratti di pittura, scrittura o architettura, stimola i fruitori del testo o dell’immagine «a produrre un significato che non può essere né univoco né stabile»22. Sia i produttori sia i consumatori di “testi” (prodotti

Cfr. Hal Foster, The anti-aesthetic: essays on postmodern culture, Port Townsednd, Bay Press 1983, p. 89 - 90. 21 Cfr. Ivi, p. 91. 22 Cfr. Hal Foster, The anti-aesthetic: essays on postmodern culture, Port Townsednd, Bay Press 1983, p. 95. 20

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culturali) partecipano alla produzione di significati. Ad esempio se consideriamo l’architettura comunicazione, come insiste Roland Barthes (Cherbourg-Octoville, 19151980) critico e linguista francese dell’ordine strutturalista. «La città è un discorso e se questo discorso è veramente un linguaggio, allora dobbiamo prestare molta attenzione a ciò che si dice, soprattutto perché noi di solito assorbiamo tali messaggi nel mezzo di tutte le altre molteplici distrazioni della vita urbana»23. Nel 1972, Venturi, Brown e Izenour nella loro Learning from Las Vegas insistono sulla necessità di recuperare la funzione “simbolica” dell’architettura e del design. Secondo gli autori l’architettura e il design devono simboleggare una condizione presente, e non i valori decaduti dell’“ottimismo” modernista24. L’architettura secondo Venturi, deve incarnare un doppio codice, «un codice tradizionale popolare che, come la lingua parlata, cambia lentamente, pieno di cliché e radicato nella vita familiare» e un codice moderno radicato in «una società che cambia rapidamente, con i suoi nuovi compiti funzionali, nuovi materiali, nuove tecnologie e ideologie», ma anche un’arte e una moda che cambiano rapidamente25. Alla luce di quanto detto finora, una delle conclusioni è che l’autorità del produttore di cultura viene minimizzata e si creano le possibilità di una partecipazione popolare e di una determinazione democratica dei valori culturali, anche se a prezzo di una certa incoerenza o, più problematicamente, di una vulnerabilità alla manipolazione del mercato. Il produttore

Cfr. Roland Barthes in: David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 98. 24 Cfr. Robert Venturi, Denise Scott-Brown, Steve Izenour, Learning from Las Vegas, New York, Abingdon 1972, p. 22. 25 Cfr. Ivi, p. 23. 23


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di cultura semplicemente crea materie prime, frammenti ed elementi, lasciando al consumatore la possibilità di combinare a piacere quegli elementi. Si comprende qui l’accento posto sul “processo”, la “performance”, “l’happening” e la “partecipazione” nello stile postmodernista. L’effetto consiste nell’infrangere (decostruire) il potere dell’autore di imporre significati od offrire una narrazione continua. Ciascun elemento citato, afferma Derrida, «rompe la continuità o la linearità del discorso e porta necessariamente a una doppia lettura: quella del frammento percepito in relazione al suo testo di origine; quella del frammento incorporato in un tutto diverso, in una diversa totalità»26.

Un nuovo concetto dell’individuo postmoderno: l’individuo “schizofrenico”

L’attenzione per la frammentazione e l’instabilità del linguaggio porta Fredric Jameson (Cleveland, 1934) - conosciuto per le sue analisi sulle correnti culturali dell’età contemporanea ad esplorare il tema di uno specifico concetto di personalità, quello schizofrenico. Egli usa la descrizione di Jacques Lacan (Parigi, 19011982) - noto filosofo e psichiatra francese - secondo cui la schizofrenia è un disturbo linguistico, un’interruzione nella catena significante che crea una semplice frase. Quando la catena significante si spezza «abbiamo schizofrenia sotto forma di un mucchio di significanti distinti e non collegati»27. L’effetto di una simile rottura nella catena significante è tale

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Cfr. Hal Foster, The anti-aesthetic: essays on postmodern culture, Port Townsednd, Bay Press 1983, p. 97. 27 Cfr. Fredric Jameson, Postmodernism, or the cultural logic of late capitalism, «New Left Review», n. 146, 1984, p. 53. 26


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da ridurre l’esperienza a una serie di tempi presenti puri e non collegati. Non offrendo alcun contrappeso, il concetto di linguaggio di Derrida contribuisce alla produzione di un certo effetto schizofrenico. È interessante notare come Jencks, riprende nel suo celebre The language of postmodern architecture (1985) il concetto della schizofrenia in architettura e di come la multivalenza dell’architettura genera a sua volta una tensione che la rende «radicalmente schizofrenica per necessità»28. Secondo le teorie illustrate si può, in estrema sintesi, concludere che il modernismo riguardava in larga misura il perseguimento di futuri migliori, anche se l’eterna frustrazione per il mancato raggiungimento di un simile obiettivo portava alla paranoia. Il postmodernismo invece allontana quella possibilità concentrandosi sulle circostanze schizofreniche indotte dalla frammentazione e da tutte le instabilità, comprese quelle linguistiche che impediscono anche solo di rappresentare in modo coerente un futuro radicalmente diverso, per non dire dell’impossibilità di ideare strategie per costruire un tale futuro. Nell’estetica postmoderna sembra che l’alienazione del soggetto sia sostituita dalla

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frammentazione del soggetto. Se come insisteva Marx «c’è bisogno di un individuo alienato per perseguire il progetto illuministico con sufficiente tenacia e coerenza da portarci a un futuro migliore, allora la perdita del soggetto alienato sembrerebbe precludere la costruzione di futuri sociali alternativi»29. Nel prossimo capitolo si analizzeranno delle teorie postmoderniste nell’ambito del design grafico e i relativi approcci progettuali.

Cfr. Charles Jencks, The language of post-modern architecture, Michigan, Rizzoli 1984, p. 61. Cfr. Fredric Jameson, Postmodernism, or the cultural logic of late capitalism, «New Left Review», n. 146, 1984, p. 65.


FOCUS 1 UNA DELIBERATA CITAZIONE DEL PASSATO NELLO SPAZIO ARCHITETTONICO E URBANO

Léon Krier è un architetto e urbanista lussemburghese. È ritenuto uno dei più influenti architetti neo-tradizionali. Il progetto più conosciuto è quello per il villaggio di Poundbury in Dorchester, Inghilterra per il Principe del Galles.

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Una caratteristica che comunemente è stata usata per identificare il postmoderno in architettura è la citazione. Componenti dell’architettura del passato, specialmente quella classica, vengono riciclate, spesso solo superficialmente, in edifici che per il resto sono attualissimi come concezione costruttiva e come tecnologia di produzione. Léon Krier (Lussemburgo, 1946), riconosciuto soprattutto per la grande influenza sul movimento New Urbanism, specialmente in USA, persegue l’attivo ripristino e la ricreazione dei tradizionali valori urbani classici. Ciò significa il restauro di un tessuto urbano e la sua riconversione a nuove utilizzazioni, oppure la creazione di nuovi spazi che ricuperano le prospettive tradizionali con tutta la perizia che le tecnologie e i materiali moderni consentono. Pur rappresentando soltanto una delle molte possibili direzioni che i postmodernisti possono prendere – abbastanza diversa, per esempio, dall’ammirazione che Robert Venturi (Filadelfia, 1925) nutre per Disneyland, Las Vegas e le sue decorazioni suburbane – il progetto di Krier insiste, però, sulla reazione a un certo concetto di modernismo. Il problema centrale per Krier sta nel fatto che l’urbanistica modernista opera principalmente mediante zonizzazioni monofunzionali. Di conseguenza, la circolazione delle persone fra zone diverse attraverso arterie artificiali divenne la principale preoccupazione dell’urbanista, e il tutto porta a uno schema urbano che è secondo Krier «antiecologico» in quanto implica sprechi di tempo, energia e spazio: «La povertà simbolica dell’architettura e del paesaggio urbano


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attuali è il risultato diretto e l’espressione della monotonia funzionalista determinata dalle pratiche di zonizzazione funzionale. I principali tipi moderni di costruzione e modelli urbanistici come il grattacielo, l’edificio basso ed esteso, il centro degli affari, l’area commerciale, la zona degli uffici, il sobborgo residenziale, ecc., sono invariabilmente superconcentrazioni orizzontali o verticali di singole utilizzazioni in una zona urbana, in un edificio o sotto un solo tetto»1. Krier mette a confronto questa situazione con la «città buona» (tale in virtù della sua natura ecologica) in cui la totalità delle funzioni urbane è assicurata da distanze compatibili che si possono piacevolmente percorre a piedi. Riconoscendo che una tale forma urbana non può crescere estendendosi in larghezza e in altezza ma può soltanto moltiplicarsi, Krier cerca una forma urbana fatta di «comunità urbane complete e finite», ciascuna delle quali costituisce un quartiere urbano indipendente all’interno di un ampio gruppo di quartieri urbani che a loro volta costituiscono delle «città nelle città». Soltanto a queste condizioni sarà possibile ricuperare la “ricchezza simbolica” delle forme urbane tradizionali basate sulla

Cfr. Robert Krier, Tradition - modernity - modernism: some necessary explanations, «Architectural Design Profile», s 65, 1987, p. 27. 1

Dall’alto al basso: Aldo Rossi è stato un architetto italiano, tra i più influenti del XX secolo. È stato il primo italiano a vincere il Premio Pritzker, seguito anni dopo da Renzo Piano; Il progetto di Aldo Rossi per un complesso di alloggi per studenti a Chietti suscita un’impressione del tutto singolare nell’eclettismo dell’architettura postmoderna.


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«prossimità e su un dialogo della massima varietà possibile e quindi sull’espressione di una vera varietà evidenziata dall’articolazione significativa e veritiera degli spazi pubblici, del tessuto urbano e dello skyline»2. A differenza di Krier, il quale cerca di ricuperare direttamente i valori urbani classici, l’architetto italiano Aldo Rossi (Milano, 1931-1997) propone un’argomentazione diversa: «Distruzioni e sventramenti, espropriazioni e bruschi cambiamenti nell’uso del suolo così come speculazione e obsolescenza, sono tra i mezzi più conosciuti della dinamica urbana. Ma oltre ogni loro valutazione essi restano come l’immagine del destino interrotto del singolo, della sua partecipazione, spesso dolorosa e difficile, al destino della collettività. La quale, come insieme, sembra invece esprimersi con caratteri di permanenza, nei monumenti urbani. I monumenti, segni della volontà collettiva espressi attraverso i principi dell’architettura, sembrano porsi come elementi primari, punti fissi della dinamica urbana»3. Nella citazione è presente ancora una volta la tragedia della modernità, ma questa volta stabilizzata dai punti fissi dei monumenti che incorporano e mantengono un “misterioso” senso di memoria collettiva. Il mantenimento del mito attraverso il rituale «costituisce una chiave per la comprensione del valore dei monumenti e per noi del valore della fondazione della città e della trasmissione delle idee nella realtà urbana»4. Il compito dell’architetto, nella visione di Rossi, consiste nel partecipare liberamente alla produzione di “monumenti” che esprimono la memoria collettiva, riconoscendo al tempo stesso che ciò che costituisce un monumento è a sua volta

Cfr. Aldo Rossi, L’architettura della città, Milano, Cittastudi 1973, p. 13. Cfr. Idem. 4 Cfr. Aldo Rossi, L’architettura della città, Milano, Cittastudi 1973, p. 13. 5 «L’impulso a conservare il passato è parte dell’impulso a conservare se stessi. Se non sappiamo dove siamo stati è difficile sapere dove stiamo andando. Il passato è la base dell’identità individuale e collettiva, gli oggetti del passato sono fonti di significato in quanto simboli culturali. La continuità fra il presente e 2 3

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un mistero da ritrovare nella volontà segreta e instancabile delle sue manifestazioni collettive. Altri postmodernisti si limitano a ricercare legittimità storica attraverso citazioni ampie e spesso eclettiche di stili del passato. Ma il risultato dell’inserimento di una tale pratica nel contesto socio-economico e politico ha portato una serie di risultati più o meno riusciti. A partire all’incirca dal 1972, per esempio, ciò che lo storico e pubblicista del The Sunday TImes Robert Hewison (Londra, 1942) chiama «l’industria del patrimonio artistico» è improvvisamente diventata un grande business in Gran Bretagna. Musei, case di campagna, paesaggi urbani ricostruiti e restaurati che echeggiano forme del passato, copie di infrastrutture urbane del passato, sono diventati parte integrante di una vasta trasformazione del paesaggio britannico al punto che, secondo Hewison, la Gran Bretagna già negli anni Settanta stava rapidamente passando dalla produzione di beni alla produzione di patrimonio artistico. Hewinson spiega l’impulso che ha determinato questo cambiamento in termini che in qualche modo ricordano l’approccio di Rossi5. Hewison rivela la preoccupazione per l’identità, per le radici personale e collettive, la quale è diventata molto più pervasiva a partire

dai primi anni Settanta a causa di una diffusa incertezza nei mercati del lavoro, nei mix tecnologici, nei sistemi di credito, e cosi via. È stato impossibile però separare la predilezione del postmodernismo per la citazione storica e per il populismo dal semplice compito di soddisfare o di favorire gli impulsi nostalgici. Hewison vede una relazione fra l’industria del patrimonio artistico e il postmodernismo: «Entrambi cospirano per creare uno schermo sottile che si frappone fra le nostre vite attuali, la nostra storia. Noi non comprendiamo la storia in profondità, ma, al contrario, ci viene offerta una creazione contemporanea, più dramma in costume e nuova messa in scena che discorso critico»6.

il passato crea il senso di una sequenza che supera il caos aleatorio, e poiché il cambiamento è inevitabile, un sistema stabile di significati ordinati ci permetti di affrontare sia l’innovazione sia il decadimento. L’impulso nostalgico è importante nell’adeguarsi a una crisi, è una medicina sociale e rafforza l’identità nazionale quando la fiducia si incrina o è minacciata». Cfr. Aldo Rossi, L’architettura della città, Milano, Cittastudi 1973, p. 13. 6 Cfr. Robert Hewison, The heritage industry, Londra, Methuen 1987, p. 90.


FOCUS 1 UNA DELIBERATA CITAZIONE DEL PASSATO NELLO SPAZIO ARCHITETTONICO E URBANO Lo spettacolo come architettura nel territorio Statunitense

Nelle città americane, lo spettacolo urbano degli anni Sessanta nasceva dai movimenti di opposizione di massa. Le dimostrazioni per i diritti civili, gli scontri sulle piazze, le rivolte cittadine, le grandi dimostrazioni contro la guerra e gli eventi contro culturali, (in particolare i concerti rock), erano fenomeni da interpretare nel quadro dello scontento urbano che ruotava intorno alla base del rinnovamento delle città e dei progetti edilizi modernisti. Ma a partire all’incirca dal 1972 lo spettacolo è stato catturato da forze diverse ed è stato utilizzato in modi diversi. L’evoluzione dello spettacolo urbano nella città di Baltimora è impressionante. Lo sforzo di rinnovamento urbano degli anni Sessanta aveva creato in Baltimora un centro estremamente funzionale e molto modernista fatto di uffici, piazze, e qui e là architetture spettacolari come il Mies van der Rohe Building nell’One Charles Center. Ma dopo gli scontri, scoppiati dopo l’assassinio di Martin Luther King nel 1968, un piccolo gruppo di importanti uomini politici, professionisti e uomini d’affari si riunì per vedere di rimettere insieme la città. Si cercava un simbolo attorno al quale costruire l’idea di città in quanto comunità, una città che potesse credere sufficientemente in se stessa per superare le divisioni e la mentalità secondo la quale il divertimento del centro della città era implicitamente riservato al ceto agiato. Nel 1970, in un rapporto del Dipartimento per l’edilizia e lo sviluppo urbano della città di Baltimora si dichiara: «Nata dalla necessità di bloccare la paura e l’abbandono delle aree del centro causati dalle agitazioni urbane della fine degli anni

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Sessanta, la Fiera di Baltimora sorge come un modo per promuovere il recupero urbano». La fiera, che doveva celebrare la diversità dei quartieri e la diversità etnica della città, fini per promuovere l’identità etnica e non razziale. La fiera fu visitata da 340.000 persone nel primo anno (1970) e nel 1973 il numero aveva quasi raggiunto quota due milioni. Più grande, e passo dopo passo inesorabilmente meno “locale” e più commerciale (anche i gruppi etnici cominciarono ad approfittare dalla vendita dell’etnicità), la fiera divenne l’elemento principale che attirava regolarmente folle sempre maggiori nell’area del centro per assistere a ogni tipo di spettacolo. Breve fu il passo che portò alla commercializzazione istituzionalizzata di uno spettacolo più o meno permanente con la costruzione di Harbor Place, 1980, un centro che si affaccia sull’acqua e che durante gli anni Novanta attira più visitatori che Disneyland, un centro della scienza, un acquario, un centro congressi, un marina, innumerevoli hotel e cittadelle del piacere di ogni tipo. Una tale forma di sviluppo ha richiesto un’architettura completamente diversa dal modernismo austero del rinnovamento delle aree del centro che era stato dominante negli anni Sessanta. Un’architettura dello spettacolo, con il suo senso di luccichio superficiale e di piacere transitorio di partecipazione, di esibizione e di fuggevolezza, di godimento, non è stata essenziale per il successo di un progetto di questo tipo. Baltimora non fu l’unica città a costruire questi nuovi spazi urbani. La Faneuil Hall di Boston, il Fisherman’s Wharf di San Francisco

In alto: Il modernismo del rinnovo urbano di Baltimora: il Mies van der Rohe Building nell’One Charles Centre. In basso: Il rinnovo urbano in stile modernista di Baltimora negli anni Sessanta: il Federal Building nella Hopkins Plaza.


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(con Ghirardelli Square), il South Street Seaport di New York, il Riverwalk di San Antonio, il Covent Garden di Londra (presto seguito da Docklands), il Metrocentre di Gateshead, per non parlare del West Edmonton Mall, sono soltanto aspetti fissi di spettacoli organizzati che comprendono eventi più transitori come i Giochi Olimpici di Los Angeles, il Liverpool Garden Festival, e la messa in scena di quasi ogni evento storico immaginabile (dalla battaglia di Hastings alla battaglia di Yorktown). L e città e i luoghi sembrano preoccuparsi maggiormente della creazione di un’immagine del luogo positiva e di alta qualità e hanno cercato un’architettura e forme di disegno urbano che rispondessero a questo bisogno. Che ci sia così tanta fretta e che il risultato sia una ripetizione in serie di modelli di successo (come l’Harbor Place di Baltimora) è comprensibile secondo Harvey «vista la storia di deindustrializzazione e ristrutturazione che lasciò la maggior parte delle grandi città del mondo capitalistico avanzato senza molte altre scelte a parte la reciproca concorrenza, soprattutto in quanto centri finanziari, di consumo e di divertimento»1. Immaginare una città attraverso l’organizzazione di “spazi urbani spettacolari” divenne, a partire dal 1973, un mezzo per attirare capitale e persone (del tipo giusto) in un periodo in cui erano più intense la concorrenza fra la città e l’imprenditoria urbana. È importante però considerare come l’architettura e il disegno urbano hanno risposto a questi nuovi bisogni urbani. La proiezione di una precisa immagine di un luogo dotato di certe qualità e l’organizzazione di spettacoli e teatralità, sono

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Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 121.


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state raggiunte attraverso «una eclettica miscela di stili, citazione storiche, ornamenti e diversificazione delle superfici (a Baltimora, Scarlett Place esemplifica l’idea in forma alquanto bizzarra)»2. Tutte queste tendenze sono messe in mostra nella Piazza d’Italia (1978) di Charles Moore (Michigan, 1925-1993) a New Orleans, in un’area bisognosa di rinnovamento, per gli italiani del posto. La descrizione nel catalogo Post-modern visions (1985) pone l’accento sulla forma e linguaggio architettonico della piazza le quali hanno portato nel Sud degli Stati Uniti le funzioni sociali e comunicative di una piazza europea e, più specificamente, italiana. Nel contesto di un nuovo gruppo di edifici che coprono una vasta area e hanno finestre relativamente regolari, lisce e angolari, Moore ha inserito una grande piazza circolare che rappresenta una sorta di forma negativa ed è perciò tanto più sorprendente quando vi si entra attraverso la barriera dell’architettura circostante. Un piccolo tempio posto all’ingresso annuncia il linguaggio formale storico della piazza che è racchiusa da colonnati frammentati. Al centro c’è una fontana, il «Mediterraneo» che bagna lo stivale italiano

In alto: Inquadratura dall’alto che ritrae la Piazza d’Italia (New Orleans, USA) progettata da Charles Moore (Coatesville, 1925-1993) nel 1978. In basso, da sinistra a destra: inquadratura dei singoli dettagli presenti nella Piazza. Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 121. 1


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che si estende dalle «Alpi». L’ubicazione della Sicilia al centro della piazza rende omaggio al fatto che la popolazione italiana della zona è costituita in prevalenza da emigrati siciliani. Il colonnato posto di fronte alle facciate convesse dell’edificio attorno alla piazza è un riferimento ironico ai cinque ordini classici (dorico, ionico, corinzio, tuscanico e composito) posto in un “continuum” appena colorato, che in qualche modo si ispira alla Pop Art. Le basi delle colonne scanalate sono composte come pezzi di un architrave frammentato, più una forma negativa che un dettaglio architettonico pienamente tridimensionale. In altezza sono ricoperte di marmo e la loro sezione trasversale è come una fetta di torta. Le colonne sono separate dai capitelli corinzi da anelli di tubi al neon che di notte sembrano collane luminose e colorate. Anche l’arcata al vertice dello stivale italiano reca sulla facciata luci al neon. Altri capitelli assumono una forma precisa, angolare, e sono posti come spille Art Déco sotto l’architrave, mentre altre colonne presentano ulteriori variazioni, con scanalature create da getti d’acqua. Tutto ciò aggiorna il vocabolario dell’architettura classica con le tecniche della Pop Art, della tavolozza postmoderna e della teatralità. «La storia è concepita come un “continuum” di accessori portatili»3, a riflettere il modo in cui gli italiani stessi sono stati “trapiantati” nel Nuovo Mondo. Viene presentato un quadro nostalgico delle piazze e dei palazzi italiani rinascimentali e barocchi, ma allo stesso tempo c’è un senso di dislocazione. La Piazza d’Italia è un pezzo di architettura e un pezzo di teatro. Nella tradizione della “res publica” italiana, la

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Cfr. Heinrich Klotz, Post-modern vision Catalogue, New York, Abbeville Press 1985, p. 211. 3


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piazza è un luogo in cui la gente si riunisce; ma allo stesso tempo non si prende troppo sul serio, e può essere un luogo di giochi e di divertimenti. Le caratteristiche alienate della patria italiana assumono il ruolo di ambasciatori nel Nuovo Mondo, riaffermando cosi l’identità della popolazione del quartiere in un distretto di New Orleans che minaccia di diventare uno “slum”. Ma se l’architettura è una forma di comunicazione e la città è un discorso, allora che cosa dice o significa una tale struttura inserita nel tessuto urbano di New Orleans? Gli stessi postmodernisti probabilmente risponderebbero che tutto dipende dai pensieri del produttore e forse in misura ancora maggiore, da ciò che sta negli occhi di chi guarda. Come afferma Klotz nel suo celebre catalogo della mostra Post-Modern Visions il postmodernismo «non è solo funzione ma finzione»4. «Nell’esempio di Moore si osserva l’inclinazione alla frammentazione, l’eclettismo degli stili, il peculiare modo di trattare il tempo e lo spazio»5. C’è alienazione compresa (superficialmente) in termini di emigrazione e formazione di quartieri degradati, che l’architetto cerca di ricuperare con la costruzione di un luogo dove l’identità può essere

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conservata anche in mezzo al mercantilismo, alla Pop Art e a tutti gli orpelli della vita moderna. La teatralità dell’effetto, la ricerca del piacere e dell’effetto schizofrenico (nel senso di Jencks) sono tutte consapevolmente presenti. Soprattutto, l’architettura e il disegno urbano postmoderni di questo tipo trasmettono il senso di una ricerca di un mondo fantastico, un qualcosa di illusorio che ci porta oltre le realtà attuali nella pura immaginazione.

Cfr. Heinrich Klotz, Post-modern vision Catalogue, New York, Abbeville Press 1985, p. 252. Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore 1993, p. 125.


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IL POSTMODERNO IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO LA TENDENZA ANTIMODERNISTA A EVADERE LE REGOLE

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta si fa strada l’idea che la cultura Moderna abbia oramai esaurito il suo ciclo. Tramontata la stagione dei grandi sistemi filosofici e ideologici, viene meno la fiducia in una ragione fondata sulla logica scientifica, misuratrice e positiva, emerge l’idea che solo un “pensiero debole”1, duttile e trasversale, possa dar contro di una realtà sempre più dominata dal concetto di complessità e disordine. Nel campo del progetto grafico ciò si traduce nella maggiore attenzione prestata alle forme di comunicazione visiva locali e vernacolari2, alla contaminazione dei linguaggi, alla trasgressività e alla rinuncia alla logica geometrica in favore di una marcata espressività, che si avvale, sempre più, delle nuove tecnologie informatiche e digitali. Il fenomeno è stato maggiormente avvertito negli Stati Uniti, dove tra l’altro ha dato vita a una sorta di revival di vecchie forme di comunicazione, risalenti all’Art Noveau3; ma è stato ben presente anche in Europa, dove tuttavia la tradizione ispirata al razionalismo è rimasta profondamente radicata nella prassi. Postmodernismo è diventato sinonimo del “rompere le regole” perché la maggior parte delle regole stabilite dal Modernismo sono infrante. Un esempio è il rifiuto della gabbia grafica rigida. La griglia grafica era imprescindibile per il Modernismo, come confermano le parole di Josef Muller-Brockmann (Rapperswill, 1914-1996), esponente della “Scuola Svizzera”: «lavorare con il sistema di griglia significa sottomettersi a leggi di validità universale»4. Muller-Brockmann sosteneva che il

Per approfondimenti si veda: 1.1.1 La negazione dell’utopia: l’impossibilità di un qualsiasi destino comune, p. 16. 2 Per approfondimenti si veda: Focus 2. Forme di comunicazione visiva vernacolare, p. 84. 3 Si vedano i poster psichedelici di Victor Moscoso e Wes Wilson, p. 59. 4 Cfr. Josef Muller-Brockmann, Grid Systems in Graphic Design, «Visual Language Journal», n. 15, 1981, p. 19. 1

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designer modernista guida l’osservatore durante il processo di “lettura” del progetto. Ciò presuppone un significato finito, imprescindibile dall’interpretazione del lettore, controllando in questo modo la lettura. Tuttavia, non si può negare la funzionalità delle griglie grafiche. Lo stesso autore sostiene che i progettisti divennero un semplice veicolo per la comunicazione5. Il Modernismo sottolineava l’importanza della chiarezza e della leggibilità al fine di catturare l’attenzione dei lettori. La funzione primaria della composizione tipografica era quella di trasmettere un messaggio ai lettori. Considerando che alcuni di questi lettori potevano non essere particolarmente interessati al messaggio, si riteneva necessario proporlo in modo tale da renderlo leggibile con la massima facilità e velocità. Con l’avvento della fotocomposizione, già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, la progettazione tipografica assume altre caratteristiche. L’obbiettivo diventa quello di promuovere una lettura multipla e indurre il lettore a diventare un partecipante attivo nella costruzione del significato. Quindi, diventa necessario sottolineare caratteristiche quali l’ individualità e l’originalità di ogni opera. Alcuni designer, come ad esempio Jeffrey Keedy

Cfr. Josef Muller-Brockmann, Grid Systems in Graphic Design, «Visual Language Journal», n. 15, 1981, p. 19. 5

In alto: pagine interne del testo di Josef Muller-Brockmann, Grid Systems in Graphic Design, New York, Hastings House 1981. In basso: due poster della serie Zurich Town Hall Poster, 1955. Rappresentativi dell’approcio modernista e strutturalista di Brookman.


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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

Copertina del testo di Josef MullerBrockmann, Grid Systems in Graphic Design, New York, Hastings House 1981.

(New York, 1954) sentirono, dunque, la necessità di realizzare caratteri specifici adatti allo scopo. Il carattere tipografico diventa, allora, una forma che veicola il significato, e che deve essere in grado di coinvolgere l’intelletto. Dopo le prime sperimentazioni delle teorie decostruzioniste, all’inizio degli anni Settanta, tra i progettisti tipografici si diffonde la convinzione che la leggibilità è solo una questione di abituarsi a qualcosa: «È la familiarità del lettore con i caratteri che determina la loro leggibilità»6. Secondo la visione postmodernista i caratteri tipografici diventano immagini non necessariamente legati al significato che trasmettono. Ciò implica che la forma non debba essere inevitabilmente soggetta alla funzione. Pertanto, il carattere tipografico, al di là del significato può intrattenere, divertire, convincere. Il nuovo elemento caratterizzante del carattere tipografico è concepito seguendo il principio della forma che segue l’emozione piuttosto che la funzione, e si oppone alla rigidità e alla regolarità tipica del design modernista, che è considerata ottusa e monotona.

Cfr. Zuzana Licko, Fear/Ambition Interviw, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 87. 7 Il modernismo strutturato si basa principalmente su tre concetti: griglia polivalente, carattere bastone, impaginazione assimetrica. Sosteneva l’esistenza di una sorta di “grafica oggettiva”, libera dalla soggettività e dal gusto personale del grafico e proponeva una comunicazione puramente funzionale opponendosi alla combinazione di diverse famiglie di caratteri, o addirittura all’uso di varianti di una stessa famiglia all’interno di un unico progetto. La regola era quella di evitare l’uso di corpi diversi e la superficie scritta doveva essere la più 6

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LE TEORIE DECOSTRUZIONISTE NELLA TIPOGRAFIA PER UNA NUOVA CATEGORIA DI LETTORI

Nel design il postmodernismo si manifesta come una reazione al modernismo strutturato7 che aveva dominato la progettazione grafica dagli anni Trenta fino agli anni Settanta. Negli anni Settanta in Svizzera si sviluppano i primi tentativi di un “nuovo design” (New Typography of Swiss Design)8 che si diffonde verso la metà degli anni ‘80 in seguito ai progressi tecnologici nel campo della progettazione digitale avvenuti in quegli anni, quale la commercializzazione del primo Personal Computer Macintosh (1984). Il cambiamento più profondo viene avvertito nel campo della progettazione tipografia che è stata fortemente influenzata dalle teorie decostruzioniste originate, come illustrato nel capitolo precedente, negli anni Settanta dalla filosofia rivoluzionaria di Derrida9. Il compito del filosofo, secondo Derrida, è quello di decostruire i testi, ovvero di smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie questa operazione permette al lettore di capire che in esso «non c’è l’essere, ma l’essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue tracce»10. In generale si può dire che la decostruzione è l’atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha condotto alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato. Derrida, a differenza di Saussure, sostiene che la forma del segno e il significato non sono necessariamente legati; il significato non è più vincolato dalla forma. Attraverso l’interpretazione del lettore il segno si arricchisce di altri significati, trasformando così il processo di lettura in un gioco di continua sostituzione e di modifica. L’osservatore può scoprire tramite

compatta possibile. L’interlinea non doveva consentire che restassero righe isolate; lo spazio tra le parole doveva essere uniforme. Si preferivano i caratteri bastoni, privi della decorazione prodotta dallo spessore variabile dei tratti dell’ornamento delle grazie. 8 New Typography of Swiss Design - New Wave of Swiss Design - New Wave Typography – New Wave sono tutti nomi che indicano un nuovo movimento antimodernista che si andava cercando in Svizzera a partire dagli anni Settanta. 9 Per approfondimenti si veda: 1.1.3 La negazione della finalità: l’instabilità del significato del linguaggio, p. 25.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

Copertina del volume di Jaques Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi 1971.

una reinterpretazione del linguaggio visivo differenti livelli di significato nascosti11. Quando l’approccio decostruzionista è applicato al design, attraverso l’uso del linguaggio e dell’immagine, l’osservatore può scoprire l’esperienza delle complessità nascoste del linguaggio e dare una reinterpretazione del linguaggio visivo, nello stesso modo con cui la critica letteraria scompone e decodifica il linguaggio del romanzo. Non si tratta di un semplice esercizio del “fare collage”. Il metodo consiste in un’unione di contenuti da spezzare ed esporre. Graficamente il metodo del decostruzionismo che nel campo del design si manifesta prediligendo griglie compositive caotiche e una tipografia ai limiti della leggibilità. Questi interventi sono tuttavia riconoscibili in alcune comuni forme di rappresentazione, che spesso si ripetono e contribuiscono ad individuare l’approccio decostruzionista. Le forme che sono considerate dai Modernisti anti-estetiche (schizzi, elementi irrilevanti per l’intento progettuale) vengono “manipolate” senza seguire uno schema fisso. La distorsione delle immagini, facilitata dall’evoluzione delle tecnologie, consente maggiore opportunità di intervento. Le immagini, grazie al “cutting-edge” (taglio del contorno) e ai “blur effects” (effetti di sfumatura), vengono trasformate rispetto alla loro natura originale. L’applicazione delle teorie decostruzioniste alla tipografia implicano un nuovo concetto di lettore. Come sostengono Byrne e Witte, il lettore deve avere la capacità di comprendere e spiegare le differenze complesse nel significato12. La tipografia decostruzionista assume un ruolo diverso da quello Modernista, il cui obiettivo era di raggiungere l’univer-

Cfr. Jaques Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi 1971, p. 125. Cfr. Ellen Lupton, Arthur Miller, Decostruction and Graphic Design, «Visual Language Journal», n.7, 1994, p. 28. 12 Cfr. Christine Byrne, Mary Witte, A Brave New World: Understanding Decostruction, «Print Magazine», n. 44, 1990, p. 27. 10

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salità, l’obiettività e la funzionalità. La tipografia è soggetta al testo e al suo contenuto. Come Emil Ruder, insegnante alla Allagemeine Gewerbeschule di Basilea nonché professore di Wolfgang Weingart (Basel, 1914-1970), dichiara: «Non spetta al tipografo preoccuparsi dell’interpretazione del testo, le parole parlano da sole. Il suo compito è quello di rendere più facile la lettura»13. Questo nuovo concetto di lettore-spettatore era già stato esplorato da Umberto Eco (Alessandria, 1932) alcuni anni prima, nel 1962 in Opera aperta, quando si era trovato a lavorare con l’apertura del significato nelle nuove forme di arte astratta.Il nuovo lettorespettatore è considerato completamente libero di esplorare e interpretare quello che ha visto. Pertanto Eco considera un progetto di design grafico così come l’arte, incompleto finché il lettore non lo interpreta. Questo concetto del lettore ha raggiunto le sue estreme conseguenze con le teorie di Barthes il quale dichiara la morte dell’autore a favore della nascita del lettore14. La tipografia decostruzionista è applicata al fine di capire le dinamiche della comunicazione e, di scoprire nuovi modi per incoraggiare il pubblico a partecipare. A complessificare

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il significato nella grafica sono le ricerche di Wolfgang Weingart (Salem Valley, 1941) in Svizzera presso la Schule für Gestaltung Basel nel 1968 e quelle di Katherine McCoy (Illinois, 1945) alla Cranbrook Academy of Art (USA) nel 1971.

Cfr. Emil Ruder, Typographie, «Visual Language Journal», n. 1, 1967, p. 5. Robert Barthes, La mort de l’auteur, «Manteia Magazine», 1968 (originale) ripubblicato in www.emeire.wordpress.com


IL POSTMODERNO IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO LA RIVOLUZIONE DIGITALE: ALLA RICERCA DI UNA NUOVA ESTETICA TIPOGRAFICA ANTIMODERNISTA

(fig. 1) Nell’OCR-A, e nel suo predecessore l’E13B, si riconosce l’influenza di caratteri stile «robot», come il Countdown della Letraset, e dei disegni elegantemente squadrati dell’Eurostile di Aldo Novarese (1920-1995, Torino), una rielaborazione del suo precedente Microgramma.

L’invenzione del riconoscimento ottico dei caratteri (OCR) nel 1968, la creazione dei primi caratteri leggibili dal computer e la necessità di creare delle lettere che potessero essere visualizzate a monitor, forniscono l’impulso adatto all’inizio della ricerca di un’estetica nuova. Un’estetica che si sviluppa sfruttando a pieno i nuovi mezzi offerti dal digitale, in grado di scuotere i dogmi della grafica tradizionalista mantenendo adeguati valori di qualità del prodotto finito, senza tuttavia limitarsi al ridisegno di caratteri già esistenti e pensati per la composizione a caldo15. Non è solo in Europa che si mette in discussione il canone modernista. Anche oltreoceano il progetto grafico, stimolato dalle nuove possibilità tecnologiche, si trova sempre più stretto nelle ferree gabbie concettuali e compositive svizzere. Soprattutto le agenzie pubblicitarie cercano un linguaggio in grado di sedurre i consumatori, ben lontano dal valore dell’obbiettività applicabile nella società Svizzera. A partire dalla fine degli anni Sessanta è possibile manipolare la tipografia, fino a renderla sempre più simile a un’immagine, senza tuttavia ricercare elementi propri dell’illustrazione e senza rinunciare a una buona qualità formale, ma ricercando valori comunicativi fino ad allora impensabili16.

La composizione digitale in tipografia: i caratteri OCR (1966-1968) A metà degli anni Sessanta si assiste a uno dei maggiori successi tecnologici del periodo: il riconoscimento ottico dei ca-

Composizione a caldo è il termine usato per indicare l’uso della macchina Linotype nel processo di fotocomposizione. In queste macchine veniva usato un crogiolo contenente piombo fuso (da cui il termine “composizione a caldo”) per la formazione di caratteri in piombo a rilievo. 16 Per approfondimenti si veda: Lewis Blackwell, 20th Century Type-Caratteri e tipografia del XX secolo, Bologna, Zanichelli 1995, p. 201. 17 Gli OCR (dall’inglese Optical Character Recognition) sono programmi dedicati alla conversione di un’immagine contenente testo, solitamente acquisite tramite scanner, in testo digitale modificabile con un normale software di editor. 15

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ratteri OCR (Optical Character Recognition)17 e la creazione dei primi caratteri leggibili dai computer. I caratteri OCR-A(fig. 1)e OCR-B vengono lanciati rispettivamente nel 1966 e 1968. Il primo è un disegno grossolano di lettere prodotte su una griglia rettangolare di 4x7 pixel. Mentre il secondo, realizzato con la consulenza di Adrian Frutiger18 (Unterseen, 1928), è costruito su una griglia rettangolare più definita, di 18x25 pixel, e il disegno ne risulta migliorato. I primi software di impaginazione (1974, lancio del sistema Ikarus) per computer non erano del tutto affidabili, dal momento che non sempre offrivano la stessa qualità nella spaziatura e nella sillabazione un tempo garantita da un buon compositore. La composizione a caldo, comunque, venne poco alla volta sostituita da quella a freddo19, meno costosa, e dalla stampa offset20, più adatta a soddisfare la crescente domanda di una migliore qualità della stampa a colori. Parallelamente alla risoluzione dei problemi legati alla stampa (1977, commercializzazione della prima stampante a laser Xerox 9700), continuava la ricerca di caratteri che potessero essere visualizzati a monitor. Si trattava di ridurre all’essenziale i tratti distintivi di

ciascun carattere, in modo che la macchina fosse in grado di registrarli, e allo stesso tempo l’occhio umano potesse leggerli. Il disegnatore olandese Wim Crowel (Groningen, 1928), era convinto che il video sarebbe diventato il mezzo prevalente della comunicazione tipografica e che occorresse concentrare gli sforzi sulla produzione di disegni adeguati perciò inventò, un alfabeto semplificato, costituito unicamente da elementi verticali e orizzontali e privo di diagonali e di curve. Tutti i caratteri avevano la stessa larghezza e per formare una «m» e una «w» era necessario ripetere rispettivamente la «n» e la «v». Era un alfabeto unico, senza maiuscole né minuscole21. Questo alfabeto sperimentale fu presto sostituito grazie al rapido miglioramento delle macchina, in grado di leggere, visualizzare e stampare caratteri con una maggiore quantità di informazioni, sufficienti per ottenere forme familiari e leggibili.

Adrian Frutiger (Unterseen, 1928) è un designer svizzero, molto conosciuto per la progettazione dei caratteri Univers (1956) e Frutiger (1968). 19 La fotocomposizione veniva definita composizione “a freddo” perché eseguita da un computer dedicato all’immissione dei testi e da una foto unità prima fotografica poi crt-cathode ray tube e laser, ad esso collegata che non aveva parti calde. 20 La stampa offset è un processo di stampa planografico (riferito al particolare sistema di stampa che utilizza matrici piane tipiche della fototipia e della litografia) indiretto che si basa sul fenomeno di repulsione tra acqua e sostanze grasse (nello specifico gli inchiostri). 21 Wim Crowel, si veda: Heller Steve, Merz to Emigre and Beyond: Avant-Garde Magazine Design of the Twentieth Cen18


Wim Crouwel

New Alphabet p.48

New Alphabet è stato concepito per ovviare ai problemi generati dall’elaborazione dell’immagine dei primi monitor per computer. Tale carattere, secondo lo stesso Crouwel, era troppo avanti e non concepito per essere impiegato realmente. Tuttavia, per quanto poco leggibile, il New Alphabet tornò in auge nel 1988 dopo che il designer Brett Wickens lo utilizzò per la copertina dell’album Substance dei Joy Division, Factory Records 1988.


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Le aziende di progettazione tipografica digitale: ITC (1979) e Bitstream (1981) Indipendentemente dal grido di allarme lanciato da Fernand Baudin22 (Bachte-MariaLeerne, 1918-2005) negli anni Settanta, i progettisti tipografici sì impegnarono comunque a far progredire il disegno dei caratteri e la tipografia di pari passo con i mezzi di produzione. Occorreva, intanto, capire il funzionamento della nuova tecnologia, e alcune scuole superiori cominciarono a interessarsene con l’appoggio dei principali produttori di software. Una svolta nella professione grafica si verificò anche con l’entrata in scena di un produttore di caratteri tipografici digitali il quale faceva uso dei potenziali della tecnologia emergente: l’ITC (International Typeface Corporation). Fondata nel 1970 dai disegnatori Herb Lubalin (New York, 1918-1981) e Aaron Burns (New York, 1922-1991) insieme a Ed Rondthaler (Pennsylvania, 1905-2009) della PhotoLettering Inc.23. La società avrebbe dovuto commercializzare i disegni di nuovi caratteri destinati ai produttori di caratteri e di impianti di fotocomposizione. Ma in realtà l’ITC era un’azienda che, sorta grazie alla competenza e al materiale già archiviato da Lubalin e Burns, intendeva tutelare il lavoro dei disegnatori cedendo le licenze ai produttori.

tury, New York, Phaidon Press 2003, p. 251. 22 Cfr. Fernando Baudin, Penrose, «International Review of the Graphic Arts», n. 71, p. 27. 23 Photo-Lettering è stata una delle prime aziende di progettazione tipografica ad utilizzare la tecnologia di fotocomposizione.

I disegnatori avrebbero ricevuto i diritti in base all’uso che si sarebbe fatto del carattere, il cui successo sarebbe andato, così, a vantaggio del suo creatore. Non era soltanto il tentativo di offrire un servizio all’insegna dell’equità, ma una reazione contro la pirateria imperante. Se un fornitore possedeva un disegno, altri potevano facilmente duplicarlo con la fotoriproduzione e presentarlo con un nuovo nome, senza pagare i diritti all’autore dell’originale. Ai disegnatori e ai produttori di caratteri capaci e preparati non conveniva che una tale situazione continuasse, ma non era neppure auspicabile che un buon disegno venisse utilizzato per realizzare progetti con un unico sistema di stampa.

Manifesto pubblicitario dell’azienda ITC, 1970.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

L’ITC si finanziava lanciando nuovi caratteri come fossero nuovi titoli e distribuendoli a vari rivenditori (o produttori di caratteri). Per rafforzare la propria posizione e informare sulle nuove pratiche tipografiche, l’ITC lanciava nel 1973 la rivista «U&Ic»: uno strumento di promozione diretta che rappresenta la comunità tipografica mondiale che ha contribuito a creare e sempre interessata ad aggiornarsi sulle tecniche e sui caratteri. Nel suo primo numero (1973) «U&Ic» avvia una campagna contro ciò che l’ITC aveva provocato, ovvero la pirateria dei caratteri. Uno degli articoli pubblicati era scritto dallo stesso Rondthaler, il quale, pur ammettendo che la riproduzione dei caratteri fosse antica quanto la loro fusione, e fosse certamente esistita anche nell’era della composizione a caldo, sottolineava il fatto che soltanto la comparsa della “fototipografia” aveva ridotto il tempo e i costi della duplicazione, al punto che la pirateria metteva in pericolo la possibilità di creare nuovi disegni24. Rondthaler affermava che nonostante la fotografia fosse stata la salvezza tecnologica della composizione, quando il suo utilizzo non rispettava i principi etici rischiava di seminare caos nel settore creativo dell’industria25. Rondthaler invitava i disegnatori a boicottare i fornitori che non offrivano caratteri debitamente brevettati e ne paragonava l’uso a quello del denaro falso. «Se non si prendono misure drastiche», avverte l’autore, «perché mai disegnatori, fonderie o produttori dovrebbero investire nel disegno di nuovi caratteri?»26 e concludeva ponendosi la domanda se gli anni Settanta avrebbero segnato la fine del disegno di ca-

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Cfr. Ed Rondthaler, n.d, «U&Ic Magazine», n. 1, 1978, p. 9. Cfr. Idem. 26 Cfr. Ed Rondthaler, n.d, «U&Ic Magazine», n. 1, 1978, p. 9. 24 25


ITC

«U&lc»

In alto, da sinistra a destra: «U&Ic» n.1, 1973; «U&Ic» n. 2, 1973, due pagina interne del secondo numero, articolo sul carattere Avant Garde. A destra, dall’alto al basso: pagine interne del terzo numero della rivista «U&Ic», raccolta della rivista «U&Ic» 1973-1975.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

(fig. 2) Esistono numerose varianti del carattere tipografico chiamato Garamond, tutte più o meno riconducibili al lavoro del tipografo francese del XVI secolo Claude Garamond. Il Garamond “originale” è un carattere con grazie di stile rinascimentale ed è uno dei caratteri più usati nell’editoria.

ratteri oppure l’inizio di una nuova stagione creativa. Si verificò la seconda ipotesi. Le leggi internazionali sul copyright27 arginarono il fenomeno della pirateria. L’esempio dell’ITC fu seguito da altre aziende e da nuovi produttori come Rudolf Hell (Eggmühl, 1901-2002) e Compugraphic28 che presero a commissionare e a distribuire nuovi caratteri. L’egemonia dell’ITC suscitò, tuttavia, parecchie critiche. Il fatto che fosse costantemente e massicciamente presente sul mercato significava che ogni suo nuovo disegno, per quanto scadente, venisse preferito a uno precedente, seppure migliore. La grafica americana Pula Scher (Virginia, 1948) ebbe a dire più tardi nel 1985, in un articolo realizzato in collaborazione con Steve Heller (New York, 1950) per il periodico «Print»: «L’ITC ha avuto un forte impatto in questo paese, perché era un’impresa nazionale. Vendeva a tutti i piccoli fornitori, ma ha distrutto il carattere Garamond (fig. 2) come ha distrutto il carattere Bookman». I caratteri dell’ITC hanno un disegno molto allargato e lettere ravvicinate, «caratteristiche moderne e forse funzionali, ma lontane dalla finezza dei disegni classici»29. Negli anni Settanta anche la tecnica di disegno dei caratteri subisce un cambiamento significativo: il carattere poteva essere tracciato direttamente sul video e quindi si lasciava che il programma svolgesse i compiti più ripetitivi. In questa evoluzione ebbe un ruolo importante il sistema Ikarus30, elaborato da Peter Karow (Polonia, 1940) ad Amburgo. Lanciato nel 1974, Ikarus è subito adottato dalla Berthold e dalla Linotype31

Per approfondimenti si veda: Heller Steve, Merz to Emigre and Beyond: Avant-Garde Magazine Design of the Twentieth Century, New York, Phaidon Press 2003, p. 312. 28 Compugraphic è un azienda fondata da Rudolf Hell che a partire dagli anni Settanta si occupa della produzione di macchinari di fotocomposizione. 29 Cfr. Paula Scher, Steve Heller, «Print Magazine», 1985, p. 32. 30 Ikarus è un software per la conversione di caratteri tipografici e loghi esistenti in formato digitale. 31 Azienda produtrice di caratteri tipografici tramite processi di fotocomposizio27

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e si diffonde in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone. Permetteva di convertire le immagini video in disegni al tratto, oppure i disegni su carta in informazioni digitalizzate. Elaborava, inoltre, automaticamente le varianti di un originale per creare i diversi spessori, inclinazioni, espansioni e le altre modifiche necessarie per creare una famiglia completa di caratteri. Successivamente, vennero lanciati altri sistemi con caratteristiche analogiche, ma l’Ikarus, con le sue versioni aggiornate e sofisticate, rimase uno dei programmi di grafica più diffuso, anche se negli anni Ottanta si affermarono numerosi programmi meno potenti destinati al DTP. All’inizio degli anni Ottanta non tutti i grafici potevano permettersi di comprare sistemi computerizzati; potevano però indicare ai fornitori le proprie esigenze rispetto ai caratteri tipografici. Disponevano di computer soprattutto i grossi produttori e “consumatori” di testi e di grafica, vale a dire gli stampatori e i quotidiani. Nel 1981 Mathew Carter (Londra, 1937) fonda l’azienda Bitstream insieme ad altri colleghi della Linotype32. In un certo senso, questa azienda seguiva l’esempio dell’ITC, rappresentando un fornitore indipenden-

te di caratteri. Ma la ragione d’essere della Bitstream era di vendere caratteri digitalizzati alle società che lanciavano sistemi per la realizzazione di immagini elettroniche e avevano bisogno di buoni repertori di caratteri. La Bitstream adottò la politica di creare caratteri digitalizzati su licenza per i singoli produttori, che così non dovevano crearseli da sé. Naturalmente furono adattati numerosi disegni classici, in modo da offrire una consistente biblioteca di font. Per la maggior parte si trattava di caratteri i cui disegni erano di pubblico dominio, non essendo più coperti da copyright, oppure erano concessi su licenza di altri come l’ITC. Dopo dieci anni, il repertorio Bitstream comprendeva più di 1000 caratteri dati su licenza a circa 300 produttori33. Sono cifre che indicano la crescita delle opportunità offerte alla produzione di caratteri, se paragonata al piccolo gruppo di aziende che avevano potuto investire seriamente nella composizione a caldo e, in seguito, nella fotocomposizione.

ne. Inizialmente faceva largo uso della macchina Linotype dalla quale ne deriva il nome. 32 Nel 1981, insieme col collega Mike Parker (Londra, 1929), fonda la compagnia Bitstream Inc., che fornisce tuttora caratteri tipografici digitali. 33 Per approfondimenti si veda: Lewis Blackwell, 20th Century Type-Caratteri e tipografia del XX secolo, Bologna, Zanichelli 1995, p. 225.


IL POSTMODERNO IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO ALLA RICERCA DI UNA NUOVA EDITORIA: DALLE RIVISTE UNDERGROUND A QUELLE PUNK (1968 -1975)

Le riviste underground: una stampa alternativa di protesta sociale

In alto: protesta contro la guerra nel Vietnam in Washington D.C, ottobre 1967. In basso: “Fate l’amore, non la guerra” è uno slogan contro la guerra nel Vietnam comunemente associato alla controcultura americana degli anni 1960.

La protesta contro la guerra nel Vietnam, iniziata a metà degli anni Sessanta, le rivolte studentesche del Sessantotto e una più accesa lotta politica in tutto il mondo immisero una linfa nuova nel settore della comunicazione visiva. Si cercava una comunicazione che nascesse dal basso, che dialogasse con le masse e che fosse al servizio di tutti, secondo un sistema egualitario - utopico in cui ciascuno potesse avere voce. Era l’inizio del nuovo approccio definito dal motto: “Do It Yourself”34 che avrebbe trovato consensi solo successivamente, quando i mezzi tecnologici si avvicinarono alle masse e agli ideali ugualitari. L’esigenza di comunicare questa controcultura portò alla nascita di esperienze molto spontanee e dirette, non programmatiche, che traevano dagli scarsi mezzi non professionali a loro disposizione gli spunti e gli stimoli per un’estetica originale. Sulla scia delle contestazione studentesca del Sessantotto, prende sempre più rilievo la tendenza della stampa alternativa35. Le riviste underground e le altre espressioni di protesta infrangevano volutamente le regole e la grafica vi si stava adeguando. Pur esistendo da anni pubblicazioni di opposizione ai sistemi politici e all’arte convenzionale, si trattava spesso di stampa occasionale, di opuscoli e giornali a circuito limitato. Le prime riviste underground con una organizzazione redazionale e una regolare distribuzione sono state: «Private Eye», «Ramparts» e «The San Francisco Oracle». «Private Eye» nasce nel 1961, a Londra e in breve tempo

Il DIY (abbreviazione di Do It Yourself, equivalente dell’italiano fai da te) è un’etica nata e diffusa all’interno della cultura punk. 35 Stampa alternativa (o stampa underground) sono quelle pubblicazione che con i loro contenuti tendono a porsi in antitesi e/o in alternativa alle pubblicazioni della cultura ufficiale della società di massa. 34

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si trasforma da una rivista umoristica ad una rivista di analisi critica verso le figure pubbliche dello sistema politico Britannico. Politici, banchieri finanzieri, incompetenti e corrotti venivano smascherati e denunciati davanti all’intera società. «Ramparts» e «The San Francisco Oracle», invece, erano due periodici, originariamente di San Francisco, nati rispettivamente nel 1962 e 1966. Le tematiche dominanti dei due periodici erano di natura culturale e riportavano i cambiamenti in corso durante la seconda metà degli anni Sessanta dal punto di vista dei gruppi etnici. In particolare, «The San Francisco Oracle» si discostava rispetto «Ramparts» in quanto inneggiante alla cultura delle droghe. Nel 1967 a Londra era nato «Oz», che da giornalino umoristico illustrato diventa un esempio di sovvertimento del linguaggio grafico, per essenzialità e aggressività nel trattamento delle immagini. Nei primi anni di pubblicazione, la grafica di «Oz» era eseguita da Jon Goodchild (Londra, 1941), che poi negli Stati Uniti realizzerà «Rolling Stone»36. Gli articoli di «Oz» uscivano con righe troppo lunghe che, se allineate a destra, sbordavano a bandiera nel margine sinistro e tutte

«Rolling Stone» è una rivista bi-settimanale, che si concentra sulla politica e la cultura popolare. «Rolling Stone» è stata fondata nel 1967, a San Francisco da Jann Wenner (New York, 1946). 36

A sinistra, dall’alto al basso: «Private Eye» n. 92, 1965, «Private Eye» n. 123, 1966, «Ramparts» n. 1, 1962. A destra, dall’alto al basso: «The San Francisco Oracle» n. 1, 1966, «The San Francisco Oracle» n.5 1967.


Fanzine

«oz»(1967) Al centro: copertina di «Oz» n.1, 1967. A sinistra: copertina di «Oz» n. 2, 1967. A destra: copertina di «Oz» n. 3, 1968. In basso: pagine interne di «Oz» n. 33 art director Jon Goodchild (nr. finale 1971)

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venivano stampate in negativo su una fotografia indistinta. Lo scopo principale non era la leggibilità, bensì ottenere una grafica che si facesse interprete della protesta. Il testo spesso era dattiloscritto, non soltanto perché costava poco, ma anche per manifestare il rifiuto dei processi industriali. Un certo tipo di trasandatezza divenne lo stile ricercato dall’underground. La sperimentazione anarcoide con cui si progettavano queste riviste, da una parte evidenziava un eccessivo disordine e una faticosa lettura, ma dall’altra spesso produceva soluzioni originali. È, questo, un genere editoriale in cui «subentrano sempre più l’uso del collage politicizzato e gli influssi della Pop Art»37.

La cultura psichedelica: una traduzione visiva della ricerca sull’inconscio e sulla psiche Un approccio meno politico, ma sempre legato alla controcultura giovanile si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta, con la generazione del surf, dell’hip-hop e del rock’n’roll.

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La convinzione che il crescente dominio della tecnologia e dei mezzi di comunicazione di massa andasse combattuto attraverso una creatività sempre più libera e spontanea ha portato ampi settori della cultura a perseguire nuovi modelli di rappresentazione visiva. La visione psichedelica, nella quale si tendeva a liberare le energie psichiche più profonde attraverso l’uso massiccio di droghe, soprattutto l’LSD, rappresentò, così, un terreno di sperimentazione che interessò anche la produzione grafica. L’idea che l’uso delle droghe favorisse la creatività grazie agli effetti allucinatori prodotti indusse artisti e letterati a saggiare le possibilità di nuovi universi visivi. Per esempio, le opere di Henri Michaux (fig. 3) (Namur, 18991984) furono lette con avidità da Wes Wilson (California, 1937), un noto grafico americano, che arrivò ad affermare che la sua scelta dei colori era direttamente legata alle immagini suscitate dall’LSD. I lavori grafici psichedelici, in prevalenza manifesti per concerti o altri eventi, si caratterizzano per: la disaggregazoine delle immagini spesso bizzare; per l’uso di colori luminosi e intensi a volte accostati in modo stridente; per l’aver portato il testo al limite dell’illegibilità

Cfr. Rick Poynor, No more rules, graphic design and postmodernism, London, Laurence King Pub 2003, p. 35.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

con parole scritte a mano o ingrandite fotograficamente. Negli Stati Uniti i manifesti psichedelici di Victor Moscoso (Oleiros, 1936) costituiscono gli esempi più raffinati di questa tendenza. Il suo lavoro si caratterizza per la disaggregazione delle immagini, l’accesso cromatismo e le vibrazioni della comunicazione. In esso domina una leggera vena grottesca, evidente legame con la sua attività nel campo dei fumetti38. In Gran Bretagna una rinascita dell’Art Nouveau trasforma le lettere molto ornate in forme psichedeliche. Viene così a crearsi una grafica percettiva che esprime tutta la contentua energia della comunicazione, ma che tuttavia si rivela alquanto effimera e finirà col disperdersi nell’informe crogiolo della cultura underground.

(fig. 3) Henri Michaux, scrittore belga che per un certo periodo alimentò il vago misticismo surrealista con l’assunzione di oppoio e altre droghe.

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Moscoso ha collaborato sin dall’inizio alla redazione di «Zap», il comic magazine fondato nel 1968 da Robert Crumb, dedicandosi in seguito al disegno di manifesti e ad altre opere grafiche. 38


Cultura psichedelica

Moscoso e Wilson In alto, da sinistra a destra: manifesti realizzati da Victor Moscoso. “Family Dog” series n. 56, “Neon Rose series” n. 6, “Family Dog” series n. 64. A sinistra, dal centro al basso: poster realizzati da Wes Wilson che vedono come commitente Bill Graham in San Francisco.


IL POSTMODERNO IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO ALLA RICERCA DI UNA NUOVA EDITORIA: DALLE RIVISTE UNDERGROUND A QUELLE PUNK (1968 -1975)

L’antiestetico: il movimento Punk e l’affermazione della cultura DIY Con l’inasprirsi e l’estremizzarsi della lotta politica e del dissenso dovuto ad una sempre crescente recessione, negli anni Settanta gli ideali e le forme estetiche del “peace and love” si infransero nella rabbia del movimento punk39. I toni divennero cupi, le immagini violente, la natura meccanica della riproduzione è mostrata con orgoglio. Per contrasto con le generazione precedente non c’era più spazio per colori vivi, morbide illustrazioni e rivisitazioni Art Nouveau. Il movimento Punk, nasce a Londra nel 1976 ed esprime un rifiuto dei valori imposti dalla società e dai media. È un movimento antiestetico, contro culturale ed è da intendersi in senso ampio, non limitato all’ambito musicale, nel quale affonda le sue radici (con gruppi musicali come The Clash, Ramones, Sex Pistols, Screamers). La carica sovversiva che lo caratterizza si manifesta in diverse forme e in vari ambiti; dalla politica, all’abbigliamento, al cinema, alle arti visive ad esmpio con Jamie Reid (1952, UK) o il fumettista Gary Panter (1950, Oklahoma). Dall’alto al basso: cover del secondo singolo discografico della band punk Sex Pistols “God Save the Queen” (1977). Progettato dal designer Jamie Reid, foto della band Sex Pistols (1975), foto della band The Clash (1976). In basso a destra: foto della band Joy Division (1977).

Punk è un termine inglese, che significa di scarsa qualità, da due soldi, nato per identificare una subcultura giovanile emersa nel Regno Unito e negli U.S.A. a metà degli anni Settanta. Il termine nacque dalla musica punk, o meglio punk rock, una musica rozza, rumorosa, poco complessa e diretta, nata a metà anni Settanta in Inghilterra e negli Stati Uniti con gruppi come: Stooges, Ramones, Sex Pistols, Dead Boys, The Damned o Clash. 39

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Il legame del Punk con le arti visive e le sue influenze sulla produzione grafica determinano uno stravolgimento stilistico, principalmente caratterizzato dal fotomontaggio, dal collage, dalla produzione di volantini e manifesti per gruppi punk-rock, dalla nascita di fanzine e altre pubblicazioni indipendenti. La fanzine rappresenta la massima affermazione dell’estetica punk del “DIY”. I collage di carta strappata, la litografia disallineata di macchine da scrivere rotte e le immagini fotocopiate divennero «la traduzione visiva di una musica chiassosa, stonata e distorta e di vestiti sdruciti e stracciati»40. Una delle prime produzioni grafiche punk è la fanzine «Sniffin Glue» del 1976, prodotta da Mark Perry (1952, Londra) e ispirata dalla scena musicale rock – punk dei Ramones (fig. 3). Il primo numero consisteva in una tiratura di solo 100 copie, ottenute tramite una fotocopiatrice Xerox, distribuite dallo stesso Perry direttamente al negozio di dischi “Rock on” a Londra. La fanzine assume un ruolo sociale d’indicatore di gusti e tendenze nascenti e rappresenta soprattutto la voce di coloro che cantano fuori dal coro. Fornisce uno strumento con cui tutti, in modo semplice possono raccontarsi41. Spesso questi artefatti comunicativi si caratterizzano per la loro natura “mista” e per essere realizzati con strumenti a basso livello tecnologico. Il mix di differenti elementi, il senso grezzo e del ruvido, dà vita a uno scenario turbolento. L’estetica Punk, «si oppone ad un universo parallelo, di design attento, ordinato, liscio, proprio delle tecniche dominanti e alla ricerca più convenzionale»42. Anche le tecniche di pro-

Cfr. Rick Poynor, The Art of Punk and Punk A esthetic, «Design Observer» n. 10, 2010, p. 31. 41 Cfr. Rick Poynor, No more rules, graphic design and postmodernism, London, Laurence King Pub 2003, p. 52. 42 Cfr. Idem. 40

(fig. 4) Ramones furono uno dei più influenti gruppi musicali punk rock statunitensi. Formatosi a Forest Hills, nel Queens (New York), intorno al marzo 1974, il gruppo fu tra i fondatori del movimento punk-rock newyorkese.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

In alto: raccolta di tutti i numeri della fanzine «Sniffin Glue», editor Mark Perry, 1977-1978. In basso: Doppia pagina del primo numero di «Sniffin Glue» (1977)

duzione si mescolano tra utilizzo di collage, scritte a mano, disegni, stencil, fotocopie, serigrafia e stampa offset litografica, strumenti che facilitano “la produzione in proprio” e che rappresentano un potente mezzo per esprimere le proprie opinioni, spesso di dissenso. Gli esempi più eclatanti di questa tenenza si vedono nel lavoro di due art director inglesi. Uno di essi è Terry Jones (1945, Northampton), che portò «i-D» (fig. 5) da semplice rivista di appassionati ad essere un grande successo editoriale. Il senso delle parole era sovvertito da sovrimpressioni sgargianti, da fotografie sovraesposte o ridipinte, da scritte in negativo su quattro colori, da distorsioni ottenute con la fotocopiatrice e da numerosi altri esperimenti grafici di evidente origine Punk, a cui ben presto si andò ad aggiungere anche la curiosità per la nuova tecnologia digitale. Tutto questo “rumore” era parte del messaggio. Per il pubblico di «i-D» la tipografia era qualcosa da vedere, più che da leggere. Jones veniva dal mondo della moda, per un certo periodo era stato art director dell’edizione inglese di «Vogue»43, e le sue idee rispondevano alle esigenze del settore. In termini tipografici, Jones praticava una sorta di terrorismo contro i bei caratteri, violando ogni norma per produrre qualcosa che, al di fuori dei propri parametri, era totalmente inaccettabile, ma al suo interno era strepitosa; faceva di tutto per catturare l’attenzione di un acquirente poco interessato a leggere, ma animato dal desiderio di guardare e di partecipare come chi si appropria di uno stile indossando un vestito.

«Vogue» nasce a New York il 17 dicembre del 1892 su iniziativa di Arthur Baldwin Turnure come “gazzetta mondana” settimanale. La rivista fu dichiaratamente creata al fine di rappresentare l’alta società newyorkese, raccontando gli interessi e lo stile di vita di questa classe agiata. Vogue era destinata ad un pubblico femminile e maschile. Nel 1912 «Vogue» diventa internazionale, vendendo la rivista anche a Londra. 43

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Il Punk

Terry Jones A sinistra, dall’alto al basso: copertina progetta da Neville Brody per la rivista «Vogue»,1988; Coertina progettata per la rivista «i-D», 1986-1988; Copertina e pagine interne della rivista «Blitz» n. 45, 1986; Copertina e pagine interne della rivista «Actuel», 1987.

(fig. 5) «i-D» è una rivista britannica pubblicata mensilmente dedicata al mondo della moda e dell’intrattenimento. La rivista viene fondata da Terry Jones (Colwyn Bay, 1942), ex direttore artistico di «Vogue», nel 1980. Il primo numero, rilegato a mano ed edito con una comune macchina da scrivere, fu pubblicato sotto forma di fanzine. Negli anni la pubblicazione ha acquistato grande popolarità fino a diventare una delle più note riviste di moda a livello internazionale.

(fig. 6) «BLITZ» era una rivista mensile britannica, fondata nel 1980 da due studenti universitari Carey Labovitch e Simon Tesler che si occupava di moda, musica e cultura pop in generale. Ha avuto notorietà a livello internazionale, così come nel Regno Unito. Chiude nel 1991.

(fig. 7) «Actuel» è stata una rivista francese alternativa, pubblicata mensilmente, che aveva come art director Claude Delcloo. Nella sua prima versione nel 1967 era dedicata al jazz e alla musica alternativa. Dopo le proteste studentesche nel maggio del ’68 la rivista si apre alla cultura rock e hippie e alle questioni sociali come la politica, la droga e l’ecologia.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

Riviste come «i-D», «The Face»44 e «Blitz» (fig. 6) in Gran Bretagna e «Actuel» (fig. 7) in Francia erano simili al distintivo di un associazione, qualcosa da indossare e non da leggere. Un altro grafico nato con la culturaunderground della fine degli anni Settanta fu Neville Brody (1957, Londra), che con una folgorante carriera, nel 1988, prima di aver computo trent’anni, ebbe il privilegio di una personale al Victoria & Albert Museum di Londra, lanciando uno stile che sarebbe stato molto copiato in seguito. Il suo lavoro per la rivista «The Face» ha fatto scuola in Europa. La sua tecnica grafica giocava con le forme delle lettere, con i nuovi caratteri commerciali e con gli elementi tipografici della pagina quali strumenti espressivi, traeva ispirazioni dalle avanguardie del passato per tradurle in un intreccio di figurazioni in cui il linguaggio grafico si faceva messaggio. La manipolazione del linguaggio della tipografia digitale quale elemento da sfruttare ed esprimere ricorda la tipografia espressionista insegnata da Weingart45. Nella prima metà degli anni Ottanta l’uso disinvolto e giocoso che Brody faceva degli elementi tipografici esercitò una grande attrattiva sui giovani grafici, benché, a volte, il suo lavoro fosse poco accurato, com’era inevitabile nel mondo delle riviste di musica e di tendenza realizzate con pochi mezzi. I lavori successivi, come grafico free-lance e come direttore della propria azienda per la produzione di caratteri digitali, la FontWorks46, sono più raffinati e più vicini alle idee del razionalismo e della scuola svizzera, basate sulla griglia e sulla semplicità. Il talento di Brody come disegnatore è certo, ma

Si veda fig. 8, p. 67. Iniziatore di una rivolta nei confronti dell’International Style, un’estetica considerata “fredda”, formale e dogmatica. Grazie alle sue ricerche tipografiche prenderà vita un nuovo movimento riconosciuto in Svizzera come “The New Wave of Swiss Design” che durante gli anni Sessanta si svilupperà anche in America, soprattutto nella East Coast, con caratteristiche analoghe. Per approfondimenti si veda: 2.4.1 La New Wave Californiana (1984), p. 68. 46 Fondato nel 1990 da Neville Brody e Stuart Jensen, Fontworks è un rivenditore specializzato di font progettati da oltre 100 diverse fonderie di tutto il mondo. 44 45

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I primi sperimenti tipografici di Neville Brody si caratterizzano da un segno molto violento che lo avvicina all’antiestetica del movimento Punk.

passa in secondo piano rispetto alla sua importanza per aver creato un “fenomeno nuovo” negli anni Ottanta. Egli è estremamente legato anche alla creazione dei contenuti dei suoi lavori e sviluppa a pieno il concetto di DIY, diventando così un chiaro esempio di grafico autore, figura sempre più diffusa nell’ambiente grafico grazie alla nascita del mezzo che rendeva ciò pienamente possibile: il Personal Computer. Nonostante la sua breve durata il Punk influenzerà la produzione legata alle arti visive e alla comunicazione grafica anche negli anni successivi. Verrà ad esempio collegata all’approccio di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta basato sui principi decostruzionisti applicati al design grafico come afferma Rick Poynor nel suo celebre testo No more rules. Anche Johan Kugelberg e Jon Savage (Cambridge, 1953), autori del recente libro Punk: An aesthetic, affermano che «l’anarchia caratterizzante l’estetica punk ha rivoluzionato il design», come per sottolineare che le sue caratteristiche vanno oltre la subcultura punk, inserendosi in un quadro ben più ampio di cultura visiva, che ha influenzato gli approcci del design grafico.


Copertina e pagine interne della rivista «The Face» del periodo (19811986). In basso: copertina e pagine interne della rivista «Arena» 2009/2010. A destra: Propaganda, font digitale progettato da Brody nel 1990 per la cover dalla band tedesca Propaganda.


“La bibbia degli anni Ottanta”

«The Face» A destra, dall’alto al basso: copertina e pagine interne della rivista «The Face» n. 70, 1986. In basso: pagine interne della rivista «The Face» n. 70, 1986.

(fig. 8) «The Face» è stata una rivista inglese pubblicata dal maggio 1980 al maggio 2004 da Nick Logan che si occupava di moda, musica, trend e cultura pop. Data la sua grande importanza come amplificatore di fenomeni mediatici, la rivista venne definita “La Bibbia degli anni Ottanta”.


IL POSTMODERNO IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO LA NEW WAVE CALIFORNIANA (1984)

Alle origini del movimento New Wave (1968)

Wolfgang Weingart (Salem Valley, 1941) è considerato il padre fondatore della New Wave Typography (New Wave of Swiss Design)

Una delle razioni più interessanti al modernismo della Scuola svizzera nasce proprio al suo interno, nel lavoro dei Wolfgang Weingart. Tedesco d’origine, dopo una formazione da autodidatta e un apprendistato da compositore tipografico a Stoccarda, Weingart si trasferisce nel 1964 a Basilea, il cuore della tipografia svizzera, dove ha come insegnante Ruder, uno degli esponenti più conservatori dello stile svizzero. Il suo approccio si distingue per la carica “sovversiva” rispetto all’International Style47. Oltre i dogmi compositivi della tradizione svizzera che imponevano una severa disciplina e senso di responsabilità, il suo metodo, è vissuto come evoluzione di una tipografica classica considerata base imprescindibile della conoscenza, che verso la fine degli anni Sessanta, si configura in una continua esplorazione alla ricerca di nuove forme di linguaggi. Dalla metà degli anni Sessanta la ricerca di Weingart si concentra inizialmente sul tentativo di rinnovare la tradizione modernista nel campo della tipografia grazie a sapienti conoscenze artigianali, a una nuova specie di tipografia, più adatta a quei tempi, Weingart ricerca una maggior espressività della pagina e un marcato dinamismo della struttura visiva del testo. Così si allontana dal gusto dell’ordine svizzero, realizzando strutture di spiazzamento e di disturbo nella configurazione dei materiali visivi che, tuttavia, potevano essere a loro volta tacciate di formalismo, proprio come i modelli da cui desiderava in ogni modo allontanarsi. Gli esperimenti di Weingart non erano esclusivamente grafici, ma erano basati su un interesse per la semantica, la sintassi

Espressione coniata da Philip Johnson e Henry-Russell Hitchcock nel saggio The International Style: Architecture since 1922, scritto nel 1932 a complemento della prima mostra di architettura moderna tenuta nello stesso anno al Museum of Modern Art di New York. Con questo termine spesso viene denominato tutto il Movimento Moderno. 47

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e campi di ricerca più propriamente linguistici. Il suo intervento sulla forma delle parole era anche volto a capire i «limiti entro i quali i caratteri tipografici mantengono la loro leggibilità e il loro significato di lettere e accostati tra loro, il loro significato di parole»48. Egli era convinto che alcune modifiche grafiche fossero addirittura in grado di «accrescere il potere di medium significante dei caratteri»49. La peculiarità della grafica di Weingart sta nel fatto che, all’interno del suo repertorio limitato di caratteri, la sua preferenza andava al carattere tipografico Akzidenz Grotesk (fig. 9). Egli afferma: «sono cresciuto con esso e lo amo, ha nella sua stessa natura una certa bruttezza che lo rende il mio preferito»50. Weingart aggredisce l’immagine delle lettere, tagliandole o distorcendole in molti modi. Ciò gli era permesso anche dalla sua costante attenzione e curiosità per i mezzi tecnici della tipografia: «per me la grafica è una relazione a tre tra idee progettuali, elementi tipografici e tecniche di stampa»51. Dopo aver sperimentato nei modi più imprevedibili le possibilità del carattere tipografico in metallo per la stampa di caratteri mobili, Weingart accoglie con entusiasmo il progresso tecnologico, sfruttando le nuo-

Cfr. Wolfgang Weingart, My only wish, «Visual Language Journal», n. 2, 1973, p. 22. 49 Cfr. Idem. 50 Cfr. Wolfgang Weingart, My only wish, «Visual Language Journal», n. 2, 1973, p. 25. 51 Cfr. Idem. 48

La sperimentazione di Weingart sulle possibilità del carattere tipografico in metallo per la stampa in caratteri mobili (1966).

(fig. 9) Akzidenz Grotesk è un carattere sans-serif in origine prodotto dalla fonderia di caratteri tedesca H. Berthold AG nel 1896. La versione attuale dell’Akzidenz Grotesk proviene da un progetto dei primi anni ‘50, diretto da Günter Gerhard Lange per Berthold, per espandere la famiglia di font, aggiungendo un grande insieme di caratteri, ma mantenendo le caratteristiche del modello del 1896.


New Wave

Wolfgang Weingart In alto, da sinistra a destra: sistema “mother-father system”: texture puntina che consiste nel sovrapporre due differenti sfondi, uno con una gradazione standard in scala di grigio, l’altra con il grigio al 20%. In basso, dall’alto al basso: due poster realizzati facendo uso dei nuovi materiali plastici introdotti che gli consentono di intrecciare elementi tipografici portati al limite del pittorico con immagini fotografiche. Risultati similli ai lavori di Herbert Matter (due immagini affianco); In basso a destra: Typographic Process, Nr 1. Organized Text Structures, 1974. Poster rappresantativo della ricerca di una maggiore espressività del carattere tipografico e di una relazione con la linguistica.


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In alto a sinistra: poster realizzato per la mostra Internazionale d’arte a Basilea, Wolfgang Weingart, 1989. In alto a destra: poster realizzato per la City Organisation of the Arts, Wolfgang Weingart, 1983. In basso, da sinistra a destra: Kunsthalle Basel Kunstkredit 80-81, Kunsthalle Basel Kunstkredit 82-83. Poster realizzati per il Gewerbe Museum Basilea, Wolfgang Weingart, 1980 e 1981.

ve potenzialità delle stampe fotografiche su pellicola e dei nuovi materiali plastici, che gli consentono di intrecciare elementi tipografici portati al limite del pittorico con immagini fotografiche variamente rielaborate con raster e altri espedienti tecnici52. Il metodo di Weingart può essere paragonato a quello di Herbert Matter (Engelberg, 1907-1984) che fu, il primo negli anni Cinquanta, ad utilizzare immagini fotografiche per composizioni di collage, trasformando la fotografia in elemento formale a servizio del progetto grafico. In modo analogo l’approccio di Weingart produsse un effetto di rottura rispetto ai metodi precedenti. La sua tecnica focalizza l’attenzione sul processo di stampa offset e sulla fotocomposizione, sviluppando un metodo nuovo per comporre il collage. Attraverso l’esplorazione delle proprietà delle pellicole fotografiche, ad esempio la sovrapposizione di pellicole positive di testi e immagini, Weingart crea un modo per integrare tutti gli elementi del progetto. I lavori di Weingart si trasformano da tipografici a grafici grazie all’uso della reprocamera53, essenziale per acquisire la libertà compositiva soprattutto per quanto riguarda la forma dei caratteri, la loro sovrapposizione e la defini-

Un esempio concreto di questo approccio ci viene dato dalle composizioni realizzate da Weingart per la Swiss Poster Advertising Company. 53 Macchinario che viene utilizzato durante il processo fotografico per ricavare le pellicole impressionate. 52


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

zione dei contorni tramite l’uso di fogli a mezzatinta (controllo delle tonalità e intensità delle immagini). L’uso della reprocamera e di pellicole trasparenti favorisce anche il metodo del layering54. La trasparenza dei fogli da assemblare permette infatti, la sovrapposizione delle pellicole durante il montaggio e la composizione finale55. L’attenzione di Weingart si focalizza anche sulle texture, che dagli anni Settanta, diventano il suo segno distintivo. Egli inventa un vero e proprio metodo per creare illimitati pattern, lo chiama “mother-father system”: texture puntina che consiste nel sovrapporre due differenti sfondi, uno con una gradazione standard in scala di grigio, l’altra con il grigio al 20%. Dal 1968, dopo il ritiro di Ruder, Weingart fu chiamato come insegnante a Basilea, proprio da Armin Hoffman (Basel, 1920), altro esponente di spicco dello stile svizzero, che però aveva vistò nel talento dell’allievo “terribile” il futuro della grafica dopo il Modernismo. La natura della sua formazione contribuisce allo sviluppo di un pensiero libero da influenze stilistiche e costituisce il punto cardine del suo insegnamento, ossia: infondere ai suoi studenti un metodo “esplorativo” e critico alla ricerca continua di un equilibrio e una stabilità lontana dalle tendenze del momento. Infatti è grazie a Weingart, ai suoi insegnamenti e alle sue conferenze che dalla metà degli anni Settanta tiene negli Stati Uniti si sviluppa il movimento che nei decenni a venire avrebbe contestato i dettami della Scuola svizzera. Una delle studentesse più meritevoli di Weingart è April Greiman (New York, 1948) che subito dopo aver concluso

Un metodo di composizione che sfrutta le infinite combinazioni di sovrapposizione delle pellicole durante il montaggio finale del prodotto grafico. 55 Con la pressa da stampa il solo modo di sovrapporre le immagini era quello della sovrastampa, avendo fasi ben distinte di preparazione e di risultato finale, non visibili fino alla fine. 54

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L’attività della Cranbrook Accademy of Art in California i suoi studi nel 1976 a Basilea si trasferisce in California, dove cerca di fondere la lezione del suo professore con la cultura visiva della West Coast.

Dalla fine degli anni Settanta, in California si iniziò a parlare di “un’onda anomala” destinata a scardinare per sempre le regole del buon design. Era la New Wave originata da Weingart e dalle sue ardite sperimentazioni del “fuori gabbia”. Ma fu soprattutto grazie all’introduzione del PC nel 198456 che questa corrente poté definitivamente affermarsi. Altri interessanti esperimenti nel campo dello strutturalismo e dei linguaggi, oltre che in quello grafico, che portarono alla destrutturazione della pagina di cui furono scardinati i principi, si iniziarono a svolgere nella Cranbrook Academy of Art in Michigan, grazie al lavoro inizato nel 1971 da Katherine McCoy (Illinois, 1945). McCoy portò avanti una generazione di allievi che raggiungeranno la notorietà di Jeffrey Keedy, Edwart Fella (Michigan , 1938), David Fray e Allen Hori (New York, 1964). L’accademia, portando avanti un’attività legata principalmente alla sperimentazione, si inserisce in modo del tutto nuovo nello scenario della fomazione alle arti visive. L’attività svolta da insegnanti e studenti che prendono parte a un progetto comune fa perno sull’obbiettivo di cercare nuovi linguaggi e forme per una comunicaizone visiva che

Per approfondimenti si veda: Focus 3. La commercializzazione del primo Personal Computer Macintosh e le ricadute nel campo dell’editoria, p. 90.

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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

In alto: ambienti della Cranbrook Accademy of Art, Michigan, USA, 1970. In basso: copertina del testo Cranbrook Design: The New Discourse, 1990.

rompe con gli stilemi imposti dalle tecniche dominanti indagando le potenzialità delle nuove tecnologie e la possibilità aperte all’iconografia ibrida57, sul piano tecnico e fromale. Questa possibilità è fornita dal libero accesso a laboratori e strumentazioni, che permettono agli studenti di “rompere” le regole dell’ascetico razionalismo dello studio fino ad allora dominante nel campo del graphic design svizzero. Come afferma McCoy nel 1990, in Cranbrook Design: The New Discourse, uno degli obbiettivi che si sviluppa parallelamente alla ricerca di nuovi linguaggi è quello di creare un significato, che funga da “ponte” tra il pubblico e il design grafico, un luogo nel quale gli studenti comincino a comprendere le dinaminche decostruttiviste del linguaggio visivo, che rappresenti un filtro con il quale manipolare la risposta del pubblico. Così facendo il design diventa una “provocazione”, un modo per invitare il pubblico a “ricostruire” il significato, considerare nuove idee rifutando preconcetti. McCoy crede in una “decostruzione” che non sia solo formale e nel 1990 dichiara: «Io sono interessata all’idea di incoraggiare la partecipazione del pubblico, aprendo il significato così che possa essere coinvolto. Questa è una strategia per frasformare il processo analitico in un processo sintetico»58. La Cranbrook Academy of Art viene spesso considerta la scuola del Bauhaus americano, ma «diversamente dalla scuola del Bauhaus, Cranbrook non ha mai abbracciato un solo metodo di insegnamento o un’unica filosofia: l’esortazione continua verso ogni studente è quella di ricercare la proprio strada»59. Fondamentalmente per lo sviluppo e per la visibilità della

Un’iconografia caratterizzata da una fase progettuale durante la quale si cerca di far dialogare tra loro immagini, video, testi di differente natura; si cerca di far interagire linguaggi eterogenei attraverso l’uso di supporti che offrono la possibilità del remix. L’esponente che ne fa maggior uso è April Greiman. Per approfondimenti si veda: L’attività di April Greiman: l’iconografia ibrida, p. 78. 58 Cfr. Hugh A. Williams, Daralice Boles, Niels Diffrient, Katherine McCoy, Lorraine Wild, Roy Slade, Micheal McCoy, Cranbrook Design: The New Discourse, New York, Rizzoli International 1990, p. 61. 59 Cfr. Rick Poynor, No more rules, graphic design and postmodernism, London, 57

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New Wave

Cranbrook Accademy of Art Le immagini riportate sono tutti lavori svolti da studenti all’interno dell’accademia. In alto, da sinistra a destra: Catherine McCoy (1971); Anne Budrick (1975), Allen Hori (1975). Al centro, da sinistra a destra: Katherine McCoy (1972) Jeffrey Keddy (1972). In basso a sinistra: Katherine McCoy (1972). Tecnica predominante utilizzata: collage.


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA IL POSTMODERNISMO NEL DESIGN GRAFICO

(fig. 10) «Visible Language» è una rivista americana fondata nel 1967 da Merald Wrolstad. Inizialmente nata per riportare le ricerche nel campo della tipografiche col passare del tempo si concentra sulla presentazione delle ricerche sulla comunicazione visiva.

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scuola fu uno dei primi progetti: l’impostazione grafica della seconda edizione del 1978 di «Visible Language» (fig. 10). Il testo aveva subito manipolazioni tipografiche tali da risultare quasi illeggibile: testi in negativo, spazio tra le parole esagerato, margini irregolari. Lo scompiglio creato dalla decostruzione delle impaginazioni intendeva far emergere la distinzione tra significato e significante sottolineando il ruolo primario che la semiotica rivestiva nei progetti della scuola e che in seguito avrebbe assunto nei progetti dei progettisti li formatasi. Per Catherine McCoy fu un’esercitazione per esplorare la “linguistica” della composizione. Il dipartimento del Graphic Desgin, sotto la direzione di April Greiman (Cansas, 1948) nel 1973, focalizza l’attenzione sullo studio teorico che si sviluppa parallelamente all’attività di laboratorio. Il metodo perseguito dal dipartimento si basa su cinque principi fondamentali: il lavoro svolto al dipartimento si trova a metà tra design e arte; vi si svolge un’eplorazione che è in continuo rapporto tra scrittura, critica e produzione; il processo di critica è uno strumento fondamentale in quanto generativo; l’approccio alla progettazione è interdisciplinare; gli elementi come: teoria, lingua e scrittura sono a stostegno dell’oggetto. Dall’applicazione di questi principi nasce un design sperimentale, afferma Greiman nel periodico «Eye» (1989), in cui l’unica questione centrale rimane quella dei bisogni umani, ma con un obiettivo più ampio sulle potenzialità estetiche e critiche per un nuovo tipo di paternità che non è più legato ai vincoli di progettazione di “massa”60. In definitiva, saranno i designer stessi che dovranno essere in grado di trovare un nuovo po-

Laurence King Pub 2003, p. 70. 60 Cfr. April Greiman, An Interview with April Greiman, «Emigre», n. 11, 1989, p. 14.


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sizionamento del porprio lavoro entro il cambiamento del panorama di idee, di pubblico e aziende. È indispensabile, quindi, che i designer «capiscano il loro contesto culturale, i metodi e le intenzioni del loro lavoro». Il lavoro portato avanti all’Accademia si traduce, sul piano tecnico, nell’uso delle metodologie più disparate: dalle ricerche sulle nuove tecnologie ai metodi analogici, le strade esplorate sono sempre diverse e vicine all’intento del progettista. Dal punto di vista formale, il metodo più utilizzato dagli studenti dell’Accademia a partire dalla metà degli anni Settanta è il collage. Il collage rappresenta un tipo di approccio che coinvolge soprattutto i contenuti del progetto; la stratificazione formale rappresenta soltanto un primo livello di lettura. Spesso, infatti, la parte più importante è data dal layering applicato ai contentuti, che rappresentano diverse interpretazioni, sottotesti, storie nascoste e con diversi tipi di interpretazioni possibili61. Emblematica è la produzione di Ed Fella all’interno dell’Accademia (1985), il quale, prediligendo l’intervento manuale, assume un approccio molto vario sul piano delle tecniche utilizzate per realizzare i suoi lavori. Solo l’o-

biettivo comune ai lavori è esplicito ed è quello di cui, sopra ogni altra cosa, si fa portavoce l’Accademia di Cranbrook: «la sperimentazione e l’intento di maturare il proprio modo di vedere e “fare desgin”»62. Fella, per esempio, ama riunire nel proprio lavoro, soprattutto in quello più tardo degli anni Ottanta, le differenti tendenze della grafica, a partire dalla stampa popolare Punk, fondendo caratteri e illustrazioni. Prima di studiare e di diplomarsi a Cranbrook nel 1985 Fella era stato un disegnatore pubblicitario e col tempo si era orientato verso la grafica d’arte. Le sue composizioni tipografiche, che comprendono sia lavori sperimentali che commesse pubblicitarie, sviluppano una serie di tecniche che contraddicono l’idea di “levigatezza” solitamente associata alla grafica aziendale, dove tutto deve essere estremamente “pulito”. Egli proprone un’estetica che è antiestetica: i caratteri hanno spazi e allineamenti variabili o sono sminuzzati, le grafie rozze sono mescolate a lettere danneggiate, riciclate. L’irregolarità e l’incoerenza sono tipiche del lavoro di Fella, i suoi stimoli sono violenti. In un’intervista a Keddy, Fella rivela che nel suo lavoro l’irregolarità è rigorosamente

Cfr. April Greiman, An Interview with April Greiman, «Emigre», n. 11, 1989, p. 14. Cfr. Rick Poynor, No more rules, graphic design and postmodernism, London, Laurence King Pub 2003, p. 85. 61

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esaminata, volutamente basta sulla decostruzione63. Fella sostiene che la ricerca dello spazio perfetto tra le lettere, tra le parole e tra le righe ha soffocato l’espressività; maggiore attenzione, inoltre, merita il tempo, cioè quanto si impiega per leggere le parti di un messaggio. I suoi esperimenti hanno avuto risonanza oltre i confini del mondo della “tipografia d’arte” di cui parlano tanto le riviste. Hanno esercitato, forse involontariamente, anche una notevole influenza sulla cultura della comunicazione con immagini in movimento, in particolare della televisione64.

I lavori di Ed Fella per la Cranbrook Accademy of Art (1985). Alla ricerca di un’espressività tipografica.

«Se la decostruzione è un modo per mostrare il collante che tiene insieme la cultura occidentale mi sono chiesto: cosa mai tiene insieme la tipografia? È lo spazio […] L’idea era semplicemente quella di giocare con quel pezzetto di sapzio e vedere se c’era un po’ di margine per manipolare quel collante che tiene assieme tutto». Cfr. Jeffrey Keddy, Graphic Design in the Postmodern Era, «Emigre Magazine», no. 33, 1998. 64 Cfr. Zuzana Licko, Reputation: Zuzana Licko, «Eye», n. 11, 2002, p. 38. 63

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L’attività di April Greiman: l’iconografia ibrida (1981) Una delle più interessanti esponenti della New Wave Californiana è April Greiman. Studentessa a Basilea all’inizio degli anni Settanta, ma trasferitasi subito dopo, nel 1976, a San Francisco. La Greiman dai “layering”e dai negativi di Weingart creò uno stile chiamato “iconografia ibrida”. L’iconografia ibrida propone un prodotto postmoderno inquieto e sperimentale estremamente variegato che attingevano, dalla cultura del computer a quella del video giunse a risultati molto colorati e tipograficamente complessi, volti a rafforzare l’ordinamento e la stratificazione dell’informazione. Greiman è considerata una delle pioniere della grafica digitale. In un’epoca che vedeva l’impiego del computer per lo più a scopo industriale, «April Greiman rappresenta uno dei primi casi in cui l’uso della tecnologia digitale diventa un nuovo medium visivo»65, uno strumento prezioso per la progettazione e l’esplorazione di nuove forme e linguaggi visivi. Greiman critica l’atteggiamento scettico che investe la maggior parte dei suoi colleghi contemporanei riguardo la digitalizzazione, dimostrando la sua assoluta apertura che vede nell’esplorazione e nella sperimentazione dell’arte digitale il centro della sua ricerca stilistica. Il suo lavoro è soprattutto legato agli esperimenti derivanti dall’utilizzo dell’Apple Macintosh e della Quantel Paintbox66, ma in generale, la caratteristica emergente dalle sue composizioni grafiche è l’eterogeneità formale: una contaminazione di differenti linguaggi resi espliciti dalla scomposizione tipica del collage e del fotomontaggio.

Cfr. Zuzana Licko, Reputation: Zuzana Licko, «Eye», n. 11, 2002, p. 38. Quantel Paintbox nato nel 1981, era un sistema innovativo e rivoluzionario nella manipolazione delle immagini, nel mondo della grafica, dell’audio-visivo, della post-produzione. Introdusse per la prima volta il menu “pop-up”, strumenti digitali tipici del disegno, e succ+essivamente penna grafica e il tablet. Il suo impiego nella creazione e gestione delle immagini è molto simile al Macintosh, ma adotta strumenti più sofisticati e precisi. Permette la creazione di una libreria di fotografie, disegni, screenshot video; questa libreria fornita di strumenti per la manipolazine e la creazione di immagini, diventa un potente “tavolo lumino65 66


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La sua formazione “mista” e duplice (anche geograficamente) che la vede prima alunna della scuola svizzera e poi esposta ad influenze ed energie californiane, troverà nella tecnologia digitale (soprattutto dopo la commercializzazione del primo Personal Computer Macintosh nel 1984) uno spazio interessante di convivenza e di sperimentazione. Proprio sulla tecnologia digitale la Greiman afferma: «non solo reinventa la tecnica di stampa, ma crea formati totalmente nuovi, nuovi spazi in cui si combina suoni, movimento, interattività. Questi nuovi ibridi digitali diventeranno la piattaforma per i designer di domani»67. Anche se l’approccio di Greiman è caratterizzato dall’uso di tecnologie emergenti, che accoglie con entusiasmo, è riduttivo limitare la sua esperienza al ruolo pionieristico. Nei suoi primi lavori (1979-1981), dove la componente digitale è ancora inesistente, si riconosce l’operazione continua di “layering”, suo tratto distintivo. Il sovrapporre livelli diversi di colori, immagini e informazioni, diventa una delle caratteristiche peculiari della sua produzione grafica, affinata in seguito con la nascita di Quantel PaintBox (1981) e del Macintosh (1984). ll suo percorso stilistico non convenzionale trova compimento in artefatti di fortissimo impatto visivo e comunicativo, ed è caratterizzato dal ricorso a una molteplicità di strumenti e materiali. L’utilizzo di metodi di produzione che spaziano dagli interventi manuali alla digitalizzazione di immagini e la rielaborazione tramite computer o Paintbox, con l’uso di immagini video, fotografie scansionate, vari metodi di stampa (serigrafia, foto-

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so” in cui le immagini possono essere ricomposte, trasformate, rielaborate, il tutto in modo simultaneo sullo schermo davanti a te. La Paintbox è stata considerata tra gli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta la “computer graphics workstation” (la stazione di lavoro della grafica computerica). 67 Cfr. April Greiman, An Interview with April Greiman, «Emigre», n. 11, 1989, p. 16.


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April Greiman è considerata una delle pioniere della grafica digitale. Le immagini sopra rappresentano i primi lavori di sperimentazione tipografica digitale (1981) con Quantel Paintbox.

composizione, stampa offset) non permette di tracciare confini definiti circa l’esperienza della Greiman. La predilezione per la sperimentazione, i colori forti, la sovrapposizione di diversi livelli di comunicazione e informazione si traducono in lavori per una committenza tanto eterogenea quanto il suo approccio progettuale: da riviste specializzate come «Art direction», «Wet», «Design Quarterly», ai musei (Los Angeles Country Museum of Art), a singoli artisti o designer (Peter Shire, Ron Rezek). Nel 1982 ha avuto l’incarico di dirigere un programma di comunicazione visiva presso il California Istitute of Arts, che le ha consentito di sperimentare le tecnologie televisive e digitali e di approfondire la dilatazione dello spazio grafico in una tridimensionalità destinata a far interagire gli elementi fotografici, tipografici e iconici in modo da sfruttarne al massimo l’energia comunicativa. Come sostento nel 1994 Rick Poynor, con Greiman «la grafica americana finalmente pose rimedio alla rottura nella sua relazione col l’arte»68. La New Wave non fu mai un gruppo o un movimento programmato come ben si evice da quelle divertenti riflessioni di Poynor69. Ancora una volta gli Stati Uniti e in particolare

Cfr. Rick Poynor, No more rules, graphic design and postmodernism, London, Laurence King Pub 2003, p. 86. 68


Iconografia ibrida

April Greiman In centro a sinistra: “Your turn, my turn”, manifesto per il Pacific Design Center, 1983. In alto, da sinistra a destra: April Greiman e Jamye Odgers, poster per Cal Arts, 1978; Poster “Does it make any sense?”; Raccolta dei lavori di April Greiman alla Cranbrook Accademy of Art. In basso, da sinistra a destra: copertina progettata da April Greiman per la rivista Wet, 1979; Copertina progettata per la rivista Wet, 1978; Copertina progettata per la rivista Design Quarterly, n. 56, 1964.


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la East Coast, furono il crogiolo in cui l’eclettismo postmoderno trovò il suo terreno più fertile. L’erosione dei vecchi confini permise a nuove grafiche ibride di svilupparsi. La dissoluzione di regole condivise creò la condizione fluida in cui ogni cosa poteva essere messa in discussione. Il prodotto della cultura postmoderna imperante negli anni Ottanta aveva caratteristiche come la frammentazione, impurità di forma, mancanza di profondità, indeterminatezza, intertestualità, pluralismo. L’originalità, nell’imperativo modernista di “creare il nuovo” cessò di essere un obbiettivo, parodie, pastiche e ironici riciclaggi di forme passate proliferarono. L’oggetto postmoderno problematizzò e moltiplicò il significato, offrendo molteplici punti di vista e rendendosi più aperto possibile alle interpretazioni. È, dunque, su queste basi in totale transisizione, tra significati, forme, assetti sociali e opotici, che lo stile postmoderno degli anni Ottanta tentò di fondarsi, finendo a sua volta per mutar aspetto fino a diventare il “non stile” di fine Millenio.

«Esiste un California Style? Cercando di rispondere alla domanda nella mia qualità di designer che opera in California, posso soltanto dire che non ne sono sicuro e chiedermi se Michelangelo abbia mai detto “Ragazzi, siamo proprio dentro a un gran bel Rinascimento!” o se non si sia limitato a fare il suo lavoro. I designer della California probabilmente non trasmettono al mondo una nuova estetica […] ci sono elmenti che sembrano apparire più spesso nella grafica californiana: l’uso del colore, un senso della sperimentazione, fantasia e lirismo sono tutti elementi che hanno un ruolo fondamentale nel design californaiano. C’è chi lo chiama New Wave o Post Modern, ma io preferisco definirlo “Svizzero Californiano” una “Scioltezza strutturata”.» Cfr. Rick Poynor, Design without bounderies. Visual comunication in transition, Londra, Booth-Clibborn Editions 2002, p. 120. 69


FOCUS 2 FORME DI COMUNICAZIONE VISIVA VERNACOLARE

Il significato di “stile vernacolare” va ricercato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. In questo passaggio si mette in discussione il sistema moderno di produzione industriale e si assume quello di consumo di massa. La nascita del Pop e le trasformazione dal rapporto tra uomo e macchina sono le basi da cui prende corpo un nuovo modo di concepire la comunicazione visiva che si orienta verso un immaginario visivo proveniente “dal basso”. Si tratta di un epoca che vede, di pari passo a sentimenti sovversivi, il proliferare di sperimentazioni e il contaminarsi di elementi di natura diversa. L’evoluzione tecnologica porta alla nascita di diverse forme in cui la ricerca stilistica spesso si muove parallelamente a una cultura vernacolare che “mischia”, si serve di metodi “fai da te” delineando così un uno scenario grafico ibrido. Come affermato da Steve Heller (New York, 1959) nel suo articolo Cult of the Ugly (1993) in riferimento alla produzione delle “bruttezze” grafiche, il vernacolare si lega a tutto quello che proviene da una cultura di massa. Spesso per questo motivo si veste di elementi misti, che rappresentando un luogo di negoziazione, di approcci e influenze diverse, elementi che possono essere grezzi e “rudi”, definiti a-progettuali e “ignoranti” e che, forse, non possono essere considerati progetti compiuti di comunicazione visiva, ma si limitano a un’esperienza di tipo sperimentale-accademico1. Il graphic design americano, in particolare, ha mostrato, a partire dalla fine degli anni Sessanta, una forte attrazione per il vernacolare, soprattutto nelle accezioni più casarecce e

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Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», n. 9, 1993, p. 13.


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artigianali, con un’intensa fascinazione per gli aspetti progettuali e anti-intellettuali legati allo spurio, al residuale, talora al deiettivo. Una multiforme compenetrazione e coesistenza di diversi linguaggi, diverse culture che si fondono in una cultura nuova, autoctona. Ed è appunto negli Stati Uniti d’America che questa forma di progettazione raggiunge i suoi picchi più evoluti. Si pensi al fenomeno dell’immigrazione e alla convivenza di diversi popoli negli Stati Uniti, dove il fenomeno è particolarmente vistoso sin dai prodromi del Pop. Lo statunitense, infatti, non ha tradizioni e radici che lo legano alla terra nella quale vive e per questo non ha avuto difficoltà a distaccarsi da un razionalismo che parallelamente è rimasto ben radicato in Europa. Heller afferma che la meticcia popolazione statunitense dovrà quindi lavorare per costruire un passato che lo renda autoctono nel nuovo mondo, ed è per questo che esalterà qualsiasi forma di produzione vernacolare. L’incontro di più popoli si fondono in un nuovo popolo, in un nuovo territorio ricco di opportunità e prospero. La terra dove i sogni possono avverarsi, dove tutto è più grande, dove il tempo scorre più velocemente, dove bisogna produrre e consumare2. Il vernacolare abbraccia una produzione visiva legata principalmente ad un’ottica consumistica del mercato, ad una cultura pop dell’artefatto comunicativo afferma Edward Fella (Detroit, 1938), uno dei principali designer di influenze vernacolari. L’imporsi di questa forma autoctona di grafica rende difficile la possibilità di perpetuare una politica della qualità nella comunicazione. Di fronte ad uno scenario di moltepli-

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Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», n. 9, 1993, p. 14.


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I primi lavori di Edward Fella erano delle foto polaroid che inquadravano gli angoli più “tradizionali” delle città statunitensi. Alcuni scatti venivano successivamente manipolate fino ad ottenere dei collage.

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ci produzioni caratterizzate da una aprogettualità, basate su configurazioni istintive e disarmoniche (ma non per questo meno competitive), il progettista è costretto a mediare con un cliente sempre meno raffinato, educato da un contesto visivo conseguenza di un mercato che guarda alla quantità, dove le leggi sono dettate dal marketing. Dove quasi più nessuno ti chiede di fare il meglio, ma il meno-peggio, dove tutti sono coinvolti e nessuno è escluso3. Si individuano due tipologie di comunicazione vernacolare: quella pura e quella progettata. Si può notare ad esempio che progettisti come Fella, hanno influenze vernacolari (polaroid scattate per le strade, culto per le forme e i colori catturati negli scenari urbani), ma che questo aggettivo non può essere applicato alla sua produzione grafica e tipografica, che si sviluppa sempre con uno studio accurato ed è sostenuta da basi di conoscenza delle arti visive e della progettazione. Il risultato, pur essendo impregnato di elementi riconducibili alla cultura vernacolare assume un’autorevolezza che eleva il suo lavoro, annoverandolo tra quelli che maggiormente hanno influenzato la produzione grafica successiva, in modo particolare il movimento Punk (1976). Il “vernacolare progettato” può validare la sua applicazione se visto come progettazione consapevole immersa in un reticolo interdisciplinare che si fa sempre più denso4. In un gioco di scambio e interiorizzazione, rielaborazione e contaminazione con elementi che possono venire anche dal basso si studiano nuovi modi di comunicare (senza l’utilizzo univoco degli strumenti progettuali), con una ricerca attiva sui

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Cfr. Edward Fella, Reputation: Edward Fella, «Eye», n. 8, 1992, p. 22. Cfr. Ivi, p. 24.


Edward Fella

1968>1976 A sinistra: collage di polaroid (1988). Al centro, da sinistra a destra: lavori della serie “Prismo Color Lettering Book“ (1989-1998). In basso: manifesto per la Cal Arts Institute.


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metodi e le tecniche che garantiscano i risultati più performativi. La tecnologia quindi è un fattore determinante, sia culturalmente che praticamente, nella produzione grafica vernacolare. Non a caso le produzioni di fine anni Sessanta fino a metà degli anni Settanta sono frutto di una forte e continua sperimentazione: nel primo caso la ricerca e conoscenza introspettiva legate all’inconscio ed alla psiche (mossa da un bisogno socio-culturale) e nel secondo caso (grazie alla diffusione commerciale delle fotocopiatrici) vi è la possibilità di produrre a basso costo il proprio magazine. La fotocopiatrice assume le sembianze di una stamperia personale e introduce quella possibilità di autoproduzione che servirà da rampa di lancio per tutta quella grafica vernacolare “fai da tè” che porterà in poco tempo, alla fine degli anni Settanta, a far coincidere nell’immaginario collettivo la figura dello stampatore con la figura del graphic designer.

p.88


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Pagine della tesi di laurea di Edward Fella alla Cranbrook Accademy of Art (1987).


FOCUS 3 LA COMMERCIALIZZAZIONE DEL PRIMO PERSONAL COMPUTER MACINTOSH E LE RICADUTE NEL CAMPO DELL’EDITORIA

Nella primavera del 1983 Steve Jobs cominciò a pensare alla campagna di marketing per il lancio del Mac. Il progetto fu affidato all’agenzia Chiat/ Day, che sviluppò uno spot di 60 secondi basato sullo slogan “Perché il 1984 non sarà come 1984”, un chiaro riferimento al romanzo di George Orwell.

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Nel 1981 nacque il primo vero Personal Computer (PC), una costosa macchina IBM, a partire dal 1987 disponibile in modelli molto più economici. Con il lancio dell’Apple Macintosh nel 1984, contraddistinto dall’approccio userfriendly della sua interfaccia per l’elaborazione grafica, il PC divenne uno strumento in grado di rivoluzionare la grafica e la sua produzione. La popolarità dei Macintosh è dovuta in buona parte al fatto che erano stati pensati per le categorie più disparate di utenti. Le novità introdotte con il Macintosh furono molte: prime fra tutte l’interfaccia utente particolarmente facile e lo schermo ad alta risoluzione, capace di visualizzare il testo con lo stesso carattere e corpo tipografico con cui sarebbe stato stampato, novità assoluta per un personal computer. Fino ad allora infatti il testo veniva visualizzato alla maniera delle macchine da scrivere, con corpo a carattere uniforme. L’Apple teneva nascoste le complessità del linguaggio operativo dei computer e presentava invece all’utente uno schermo che «era la metafora di una scrivania e dava una rappresentazione cosiddetta “What You See Is What You Get” (WYSIWYG)»1. Era una simulazione pensata per le grosse compositrici, ma offerta al grande pubblico assumeva tutt’altro significato. Rendeva più facile e più rapido il lavoro di composizione e non solo: rivoluzionava sia il modo di fare grafica sia il processo di creazione del carattere. Diversamente dai computer che esigevano una serie complessa di istruzioni da inserire nel documento sul quale si stava lavorando, sullo schermo del Macintosh appariva la simu-

WYSIWYG è l’acronimo che sta per l’inglese What You See Is What You Get (“quello che vedi è quello che è” o “ottieni quanto vedi”). Il termine è proprio del campo dell’informatica. 1


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lazione del suo aspetto una volta stampato. Pertanto i grafici potevano usare il PC quale strumento per impaginare e inserire direttamente il testo a video. Gli svantaggi del vecchio processo editoriale che il sistema del Desktop Publishing (DTP)2 elimina sono principalmente tre: tempi lunghi, coinvolgimento di molte persone, spesso in luoghi diversi, specializzazione marcata delle varie fasi. Il DTP fa risparmiare tempo, perché abbrevia molte fasi del processo produttivo, e denaro, perché elimina la ribattitura del testo producendo pagine composte meno costose di quelle ottenibili con le tecniche tradizionali. Il DTP può ridurre considerevolmente anche i costi della progettazione grafica, perché consente ai redattori di curare direttamente l’impaginazione e di produrre internamente le illustrazioni. All’inizio la composizione elettronica della pagina rientrava nelle mansioni del compositore, secondo la tradizionale divisione del lavoro, ma in effetti consentiva tali risparmi nell’intero ciclo di produttivo, e quindi grandi profitti, che era destinata a sconvolgere i modi tradizionali di produzione. Si ebbero degli scontri gravi nell’industria grafica, con forti resistenze alla riduzione dei posti di lavoro in

Il Desktop Publishing (DTP) è l’insieme delle procedure di creazione, impaginazione e produzione di materiale stampato dedicato alla produzione editoriale (libri, giornali, riviste o dépliant), usando un Personal Computer. 2

tutti i settori ad essa collegati. Il compositore tipografico ha la necessità di agire sul testo cambiandone a piacere corpo e stile, eventualmente rendendolo più vistoso per dare enfasi a certe parti, o adottando stili di volta in volta diversi, a seconda del tono della pubblicazione. Egli deve poter cambiare il carattere usato per il testo normale, per differenziare sezioni particolari o isolarne altre e si trova spesso a dover cambiare di poco il corpo e interlinea, per produrre un testo più o meno compatto. Per ravvivare una pagina altrimenti pesante, deve ricorrere talvolta anche all’uso di apparati grafici, come filetti o riquadri. Prima dell’avvento del sistema DTP chi redigeva un lavoro non aveva bisogno di sapere come venivano realizzate queste operazioni tipografiche. Ci pensava il redattore a curare le istruzioni del testo per la tipografia e a richiedere esplicitamente interventi particolari al compositore. Quest’ultimo eseguiva il lavoro, sistemando le imperfezioni di dattilo scrittura dell’autore o eventuali sviste del redattore. Il vecchio sistema, se applicato a dovere, garantiva infatti un’ottima qualità perché ognuna delle numerose fasi veniva eseguita da uno specialista3. Il prodotto editoriale si


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uno specialista3. Il prodotto editoriale si poteva quindi avvalere della somma di esperienze e di competenze diverse, difficilmente riscontrabili in una sola persona. L’ingresso della composizione negli studi grafici, richiede al grafico una conoscenza tipografica completa, e non più condivisa con il compositore. Un grafico che lavora su un Macintosh o sugli altri sistemi che offrono un’interfaccia per l’elaborazione grafica dovrebbe avere la competenza tipografica di un compositore, ma «questo aspetto è spesso trascurato nell’insegnamento della grafica»4. Perciò nella prima produzione in DTP (1981-1985) erano fin troppo marcati alcuni errori grossolani nel controllo delle funzioni tipografiche o nella stampa di originali o di matrici a bassa definizione: lo spazio tra i caratteri era mal ripartito, la corsivizzazione o l’aumento di forza erano ottenuti con procedure approssimative, vi erano errori di sillabazione, righe vedove o orfane, nonché svariate altre inesattezze alle quali avrebbe provveduto spontaneamente un compositore provetto, ma che il grafico aveva trascurato per ignoranza o mancanza di tempo. Le organizzazioni editoriali di maggiori dimensioni si suddividono generalmente in più funzioni (redazione, composizione, impaginazione, ecc). Questa suddivisione, piuttosto rigida, deriva dalla specificità delle professionalità necessarie per la realizzazione del documento finito. Con il DTP questa suddivisione ha meno ragione d’essere, perché la disposizione e la collocazione del testo, l’istruzione tipografica e tutte le altre operazioni d’impaginazione possono essere curate direttamente in redazione. Soprattutto nel caso di riviste, chi

p.92

Cfr. Lewis Blackwell, 20th Century Type-Caratteri e tipografia del XX secolo, Bologna, Zanichelli 1995, p. 190. 4 Cfr. Ivi, p. 191.

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commissiona il testo può anche provvedere direttamente alla sua realizzazione, riservare lo spazio per le eventuali illustrazioni e curarne le didascalie, vedendo subito l’effetto complessivo sulla pagina prodotta dalla stampante laser. L’utente di un sistema DTP deve invece sostenere di almeno cinque ruoli diversi: direttore editoriale, redattore, grafico, compositore e correttore. Con l’acquisto di un sistema DTP ci si procura uno strumento editoriale, ma non le conoscenze necessarie per usarlo al meglio. «Tutto infatti fa ritenere che la maggior parte dei problemi incontrati dalle società con l’adozione del DTP sia da attribuire non al computer o al software, ma alle persone non sufficientemente esperte di editoria che hanno tentato di utilizzare il nuovo sistema»5. I sistemi DTP non creano competenza editoriale, per quanto progrediti essi siano, «l’utente è l’unico esperto: il DTP non lo sostituirà mai»6. La tecnologia DTP è «una meraviglia di ingegneria elettronica»7 afferma Zuzana Licko, fondatrice della rivista «Emigre» nonché progettista dei caratteri tipografici digitali utilizzati dalla rivista e realizza funzioni che superano le possibilità dei grandi e costosi computer di una decina d’anni prima. Eppu-

re, benché assai progrediti, «i sistemi DTP restano macchine non intelligenti»8. Quando nel 1984 venne introdotto il computer Macintosh, i graphic designer impararono ad amarlo e a odiarlo allo stesso tempo. Il generale senso di scetticismo era comprensibile: «davanti agli occhi avevano una macchina promossa come lo strumento indispensabile per i grafici del futuro, ma tutto ciò che poteva mostrare erano crudi caratteri bitmap e pochi grezzi segni e programmi di wordprocessing»9. Persino per molti professionisti il computer rappresentava un passo indietro: «gli standard qualitativi nella creazione e gestione della tipografica e delle immagini aveva raggiunto livelli ben superiori a ciò che il Macintosh offriva, persino con la fotocomposizione»10. Tuttavia, a poco a poco anche i grafici professionisti iniziarono ad apprezzare il Macintosh grazie al lavoro di un piccolo gruppo di designer pionieri11, affascinanti da questo computer. Fin dall’inizio, essi videro nelle limitazioni imposte dal Macintosh di allora, una nuova sfida. Non solo riconoscevano che questo computer sarebbe servito a copiare e salvare ciò che era stato fatto prima, «ma per primi

Cfr. Lewis Blackwell, 20th Century Type-Caratteri e tipografia del XX secolo, Bologna, Zanichelli 1995, p. 191. Cfr. Idem. 7 Cfr. Zuzana Licko, Fear/Ambition Interview, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 87. 8 Cfr. Idem. 9 Cfr. Rob Carter, Working with computer type 4: experimental typography, Rotovision 1997, p. 76. 10 Cfr. Ivi, p. 77. 11 Cfr. Idem. 5

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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE GRAFICA

LA COMMERCIALIZZAZIONE DEL PRIMO PERSONAL COMPUTER MACINTOSH E LE RICADUTE NEL CAMPO DELL’EDITORIA

riuscirono anche a cogliere nuove ispirazioni dalla sua iniziale rozzezza»12.

p.94

Cfr. Rob Carter, Working with computer type 4: experimental typography, Rotovision 1997, p. 79. 12


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IL PERIODICO «EMIGRE» IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) I FONDATORI DI «EMIGRE»: RUDY VANDERLANS E ZUZANA LICKO

Dalla fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, il design grafico attraversa un esaltante periodo di trasformazione. Nel 1983 era stato introdotto il primo Personal Computer Macintosh. Le scuole di design, quali la Cranbrook Accademy of Art e il California Institute of Art, stavano esplorando le teorie linguistiche francesi1. Il vernacolare2 era diventato fonte di studio e ispirazione, la progettazione e la produzione di caratteri tipografici era improvvisamente aperta a tutti coloro in grado di utilizzare un computer. Per la prima volta negli Stati Uniti, New York non era più l’unico luogo a cui guardare per gli ultimi sviluppi nel design grafico ma le idee e i prodotti più innovativi provenivano anche dalla California e Michigan. Il California Institute of Art e la Cranbrook Academy erano, infatti, i focolai di sperimentazione grafica e tipografica. A Berkeley (California), stava nascendo la rivista «Emigre», dove molto presto i suoi fondatori sarebbero diventati appassionati osservatori e critici del design grafico. Nel 1984, a San Francisco (California), un ristretto gruppo di designer e scrittori: Rudy VanderLans (Voorburg, 1955), Marc Susan (Den Haag, 1953), Menno Meyjes (Eindhoven, 1954) e Zuzana Licko (Bratislava, 1961) fondano la rivista «Emigre». Una rivista che «racconta dell’artista globale, sempre in viaggio da una cultura all’altra e che ha totale conoscenza dei simboli culturali del mondo. Un émigré»3. Nello stesso anno Susan e Meyjes abbandonano la rivista lasciandola a Licko e VanderLans. «Emigre» vede come principale editore4 VanderLans e come progettista dei caratteri tipografici della ri-

Per approfondimenti si veda: 1.1.3 La negazione della finalità: l’instabilità del significato del linguaggio, p. 25. 2 Per approfondimenti si veda: Focus 2. Forme di comunicazine visiva vernacolare, p. 84. 3 Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 22. 4 Co-editore Jeffrey Keddy (a partire dal 1992), guest-editors Gail Swanlund, Anne Burdick, Andrew Blauvelt.

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La ricerca di Rudy VanderLans nel campo dell’editoria: le fonti d’ispirazione

vista Licko, i quali porteranno avanti le loro ricerche fino al 2005 quando sarà pubblicato l’ultimo numero.

Da sinistra a destra le opere di Edward Ruscha sopra riportate sono: Real Estate Opportunities (1970), Various Small Fires (1964), Nine Swimming Pools and a Broken Glass (1968), Babycakes (1970), Twentysix Gasoline Stations (1962).

VanderLans studia per due anni (1977-1979) alla Royal Academy of Art dell’Aja (Olanda), per poi trasferirsi in California nel 1979 dove studia fotografia presso l’Università della California, Berkeley. Nel 1982 VanderLans ha l’opportunità di partecipare al Visual Studies Workshop a Rochester, NY per la produzione di un “libro d’artista”5. Il progetto prevedeva la produzione completa di un singolo prodotto editoriale, preferibilmente sotto forma di libro, la progettazione, il lavoro di camera oscura e la stampa. Quando non lavorava sul suo progetto, VanderLans conduceva ricerche presso la biblioteca dell’istituto ricchissima di libri realizzati da artisti. Rimase particolarmente colpito dai libri di Edward Ruscha (Nebraska, 1937) perché gli consentivano di entrare a far parte di un “universo parallelo” in cui, al posto del testo, l’immagine regnava sovrana. Dei piccoli libricini che suscitarono in lui una grande curiosità. Per esempio una sequenza di foto di piscine, molte pagine vuote e nessun testo a eccezione del titolo a inizio pagina che recita Nine Swimming Pools and a Broken Glass. In questa pubblicazione le immagini di piscine sono accuratamente posizionati sulla pagina. La sequenza delle pagi-

Il libro d’artista o libro d’arte è un lavoro artistico realizzato sotto forma di libro, spesso pubblicato come edizione numerata a tiratura limitata, sebbene a volte sia prodotto come oggetto unico. Dieter Roth (1930-1998) e Edward Ruscha hanno definito il moderno libro d’artista. 5


Libri d’artista

EDWARD RUSCHA In alto: copertina della pubblicaizone Nine Swimming Pools and a Broken Glass (1986). Pagine interne del libro d’artista.

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ne, alcune con fotografie, molte altre lasciate bianche, creavano, secondo VanderLans, un bel ritmo sebbene il carattere tipografico utilizzato per i titoli pareva amatoriale6. Il libretto sembrava che trattasse di fornire una narrazione di qualche tipo, costringendo il lettore a trovare una storia attraverso le immagini di piscine e vetri rotti. VanderLans rimase affascinato dal fatto che il contenuto del libro non fosse appositamente strutturato per comunicare direttamente un messaggio e ricondurre a un significato univoco, bensì era aperto e chiedeva al lettore di costruire da solo la propria interpretazione personale. Egli sosteneva che quando un lettore si confronta con un libro, si aspetta di trovare un significato. In assenza del significato il lettore ne creava uno proprio7. Due anni dopo l’esperienza del “libro d’artista”, Joan Lyons (New York, 1937), una dalle persone incaricate nell’organizzazione del Visual Studies Workshop, mostra a VanderLans il libro di Warren Lehrer (New York), French Fries (1984). French Fries documenta una serie di conversazioni tra consumatori e dipendenti in un fast-food. Senza una griglia visibile, la tipografia fluisce liberamente attraverso le pagine, le immagini e marchi che evocano l’atmosfera e l’umore della situazione. Fatta eccezione per l’opera del famoso designer francese Robert Massin8 (La Bourdinière-Saint-Loup, 1925), VanderLans non aveva mai visto prima un approccio tipografico del genere. A differenza del lavoro di Massin, che era in francese, VanderLans poté effettivamente analizzare e sperimentare il rapporto tra il testo e la sua visualizzazione, affermando quanto

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 40. 7 Cfr. Ivi, p. 43. 8 Robert Massin è un progettista grafico e tipografico francese il quale è noto per le sue ardite sperimentazioni tipografiche di carattere espressivo. Tra i primi lavori, il più importanti è Exercises de Style (1963), un libro in cui viene raccontato/illustrato in 99 modi diversi un’unica storia. 6


Libri d’artista

FRENCH FRIES A sinistra: copertina della pubblicazione French Fries, 1984. Dall’alto verso il basso: pagine interne della pubblicazione.


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In alto: copertina della rivista «4 Taxis» n. 9-10, 1984. In basso a sinistra: copertina della rivista «4 Taxis» n. 1213, 1987. In basso a destra: copertina della rivista «4 Taxis» n. 15-16, 1989;

efficace possa essere il risultato. I libri di Ruscha e Lehrer aprirono a VanderLans nuovi orizonti grafici. VanderLans si rese conto che erano soprattutto i periodici meno vincolati dal marketing, dalle grandi tirature, dal vasto pubblico, quelli in grado di sviluppare le innovazioni stilistiche più avanzate e costituire un banco di prova, un laboratorio sperimentale9. Non a caso lui era stato influenzato, soprattutto dal punto di vista visivo, da riviste quali: «Furore»10 (1975), «Hard Werken» (1978) e «4 Taxis»11 (1978) che sembravano non avere come obiettivo principale quello di vendere pubblicità. In particolare, «Hard Werken» (Hard Working) era una rivista mensile lanciata nel 1978 da un gruppo di designer di Rotterdam. Due anni più tardi questi designer formarono lo studio “Hard Werken Design”, che era più un’associazione informale che un’impresa di business. Il gruppo comprendeva Henk Elenga (Rotterdam, 1947), che in seguito aprì “Hard Werken LA e Desk” (Los Angeles, 1990), Gerard Hadders (Rotterdam, 1954), Tom van der Haspel (Rotterdam 1953), Helen Howard (Rotterdam, 1950) e Rick Vermeulen (Rotterdam, 1950). Rifiutando tutti gli stili e le teorie, i membri della rivista hanno cercato di dare un’interpretazione soggettiva in merito alla progettazione grafica preconcetti. «Hard Werken» non sottolinea solo il contenuto del messaggio, ma anche i metodi e i materiali utilizzati per trasmetterlo al pubblico. In seguito alle difficoltà finanziare iniziate durante la fine degli anni Ottana, nel 1994 la rivista si fonderà con l’ufficio di progettazione di Ten Cate Bergmans (Amsterdam) per formare

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 48. 10 «Furore» è una rivista eclettica e esoterica curata e progettata da Piet Schreuders (Amsterdam, 1951) dal 1975. 11 «4 Taxis» è una rivista francese annuale fondata da Michel Aphesbero (Mauzac, 1947) e Danielle Colomine (n.d) nel 1978. Ogni numero aveva come soggetto una città diversa del mondo, ne catturava l’identità, la cultura e l’estetica. 9


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

una grande società di comunicazione denominato “Inìzio”. Saranno proprio Elenga («Hard Werken») e Schereunders («Furore») che spingeranno VanderLans a pubblicare una propria rivista negli anni Ottanta.

In alto a sinistra: copertina della rivista «Furore», n. 14, 1979. In alto a destra: copertina della rivista «Furore» n. 12, 1979. In basso: pagine interne di «Furore», n. 10, 1979.

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La ricerca di Zuzana Licko nella progettazione del carattere tipografico digitale

In alto: copertina della rivista Hard Werken n. 1 (1979) e n. 10 (1982). In basso a sinistra: copertina della rivista Herd Werken n. 2 (1979). In basso a destra: copertina del libro Inìzio (1990).

Licko si trasferisce negli Stati Uniti all’età di sette anni (1968) insieme alla sua famiglia. Nel 1978 studia architettura, fotografia e programmazione per un anno per poi passare al corso di “Comunicazione visiva” presso l’Università della California a Berkeley. Zuzana entrata in contatto con i computer aiutando il padre ad elaborare dati. Il padre era professore di biomatematica presso l’Università della California. Prima dell’avvento del PC Macintosh (1985) Licko non aveva mostrato alcun interesse particolare verso la progettazione dei caratteri tipografici. Al contrario, quando nel 1982 seguì un corso di calligrafia a Berkeley, risultò essere il corso da lei meno preferito. «Non sono mai stata molto attratta dalla calligrafia»12 dichiara Zuzana, spiegando che la procedura di disegno calligrafico diventava per lei più che un processo creativo un processo terapeutico dal momento che esistevano delle regole ben precise che si dovevano seguire. Questa esperienza più tardi si rivelò essere di grande importanza per la sua attività di progettazione di caratteri digitali destinati a essere visualizzati a bassa risoluzione. A differenza di altri designer, come per esempio VanderLans, Licko trova l’ispirazione cre-

Cfr. Zuzan Licko, Ambition/Fear, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 82. 12


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

(fig. 1) I bitmap fonts (I pixel fonts) sono una famiglia di caratteri che hanno come caratteristica quella di essere costruiti a partire “dai pixel”.

(fig. 2) I tipi di carattere PostScript risultano uniformi, dettagliati e di qualità elevata. Vengono spesso utilizzati per la stampa, soprattutto per quella di livello professionale utilizzata per libri o riviste.

ativa nell’uso del computer e non nel design grafico. Fin da quando venne introdotto il PC come mezzo per la progettazione grafica, venne criticata dai tipografi la qualità della progettazione e riproduzione del carattere digitale. Si sottolineava soprattutto il fatto che non si vedeva modo per rimediare agli errori. Licko è stata ispirata dallo studio di Chuck Bigelow (Detroit, 1945), Digital Typography (1983) in merito alla composizione digitale del carattere tipografico e dalla rivista «U&Ic»13. In particolare era rimasta affascinata dalle teorie di Bigelow, ma i risultati visivi la delusero soprattutto per l’uso tradizionale che lui aveva fatto del carattere digitale. Tuttavia, Licko intuì che c’era qualcosa d’inesplorato e interessante e volle provare a dare una soluzione al problema. Questo impegno coincide con il periodo durante il quale venne coinvolta nella progettazione del suo primo carattere tipografico a bassa risoluzione, in un corso di computer seguito presso l’Università di Berkley nel 1983. Licko si pose due obiettivi: prima di tutto, sperimentare le possibilità del computer nella manipolazione dei caratteri tipografici e poi verificare quanto le forme dei caratteri possano essere modificate mantenendone invariato l’aspetto funzionale. I caratteri tipografici disegnati da Licko vanno dalla quelli bitmap (fig. 1), a risoluzione grossolana, a quelli PostScript (fig. 2) ad alta definizione. La libreria tipografica di Licko è studiata per essere applicata con gli strumenti tecnologici più comuni e diffusi. Soprattutto i primi disegni di tipo bitmap sono creati

Per approfondimenti si veda: 2.3. La rivoluzione digitale: alla ricerca di una nuova estetica tipografica antimodernista, p. 46. 14 La stampante ad aghi ha una matrice di aghi. Le testine di stampa, mosse da elettromagneti azionati da driver appositi, battono sulla carta attraverso un nastro inchiostrato mentre si spostano lateralmente sul foglio. La sequenza dei colpi è generata da un circuito elettronico per comporre i pixel che costituiscono i caratteri o parte di una immagine. 15 Ci si riferisce a caratteri tipografici con grazie (in inglese serif) quali 13

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per la visualizzazione a bassa risoluzione e grossolana dello schermo del computer e per essere stampati con la stampante ad aghi14. In parte ciò è dovuto al fatto che i primi computer erano così limitati nelle loro possibilità che il grafico per emergere doveva progettare qualcosa di speciale. Licko sosteneva che era fisicamente impossibile adattare un Goudy Old Style (fig. 3) di 8pt a 72 pt per pollice, così com’era impossibile dedurre che il Goudy Old Style avesse come predecessore il Times Roman (fig. 4) o un qualsiasi altro carattere serif15, poiché «tanto marcata era la differenza nella riproduzione tramite le prime stampanti ad aghi rispetto alla visualizzazione su monitor dello stesso carattere»16. Licko disegna caratteri che funzionano bene sul computer, sia per ragioni funzionali che per ragioni stilistiche. Sostiene che se si fanno un numero elevato di editing su schermo o si utilizza la stampante ImageWriter, per ragioni pragmatiche, si ha bisogno di un carattere tipografico a risoluzione grossolano, come ad esempio il carattere Emperor (fig. 5). Altri caratteri invece, hanno un’aspetto geometrico o grossolano per ragioni puramente stilistiche. Per esempio, il carattere Matrix (fig. 6)

caratteri tipografici che possiedono alle estremità degli allungamenti ortogonali, detti grazie. 16 Cfr. Zuzana Licko, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 81.

(fig. 3) Il Goudy Old Style è un tipografico graziato creato da Frederic W. Goudy per American Type Founders (ATF) nel 1915.

(fig. 4) Il Times New Roman è un carattere tipografico con grazie, ideato nel 1931 da Stanley Morison, e disegnato da Victor Lardent comparso poi per la prima volta il 3 ottobre 1932 sul quotidiano britannico The Times.


(fig. 5) Emperor è un font appartenente alla categoria Coarse Resolution progettato da Susana Licko nel 1985. Sono caratteri tipografici a risoluzione grossolana.

A sinistra, dall’alto al basso: manifesto di lancio del carattere tipografico Matrix, Zuzana Licko, 1986; Le varie declinazioni del font Matrix; In basso: applicazione del font Matrix in un prodotto editoriale. A destra, dall’alto al basso: inquadratura del carattere tipografico Emperor, Zuzana Licko, 1985; Il lanco di Emperor in «Emigre» nr. 4, 1985. (fig. 6) Matrix è un font progettato da Susana Licko nel 1986. È un carattere tipografico a risoluzione grossolana.


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è un carattere senza grazie, che avrebbe potuto mantenere una forma più tradizionale, ma per un motivo stilistico, per farlo sembrare nuovo, Licko usa una forma più adatta ad essere generata dal computer. Licko dichiara di essere sempre stata molto incuriosita da alfabeti sperimentali che non hanno maiuscole o mescolano le maiuscole e le minuscole, come quello di Bradbury Thomson (Kansas, 1911-1995) Alphabet 26 (fig. 7). Questo alfabeto, infatti, ha solo lettere minuscole e utilizza caratteri in grassetto come maiuscolo. Per questo motivo Licko applica delle modifiche particolari in alcune lettere, come la “g” minuscola in Matrix o di alcuni dei caratteri del font Variex17.

I caratteri PostScript: Filosofia e Mrs. Eaves

(fig. 8) Bodoni è un tipo di carattere con grazie disegnato da Giovanni Battista Bodoni (1740-1813), caratterizzato da un alto contrasto tra le linee spesse e quelle sottili. È il classico esempio di font moderno con grazie.

(fig. 7) Thompson sviluppò nel 1950 un font chiamato Alphabet 26 o “monoalphabet” dove le forme maiuscole e minuscole di ogni lettera erano identiche.

Ad oggi i risultati più significativi di Licko sono la creazione di due famiglie di font, Filosofia e Mrs Eaves, entrambi progettati nel 1996. Filosofia è un font graziato, un revival (versione rivisitata) del Bodoni (fig. 8) invece Mrs. Eaves, chiamato così in onore di John Baskerville (Luton, 1706-1775), è un serif, molto simile al Baskerville ITC (fig. 9). Prima di lavorare con i computer, il carattere tipografico preferito18 di Licko era il Bodoni con le sue linee pulite e forme geometriche e la varietà di stili a disposizione. Non a caso la predilezione di Licko ricade su due caratteri simbolo del modernismo, il Bodoni e il Baskerville. Si noti come la caratteristica dell’artista postmoderno nel citare stili del passato si ritrova nella figura di Licko. A causa della

Vertex è un PostScript progettato da Susana Licko nel 1988 dove la designer mescola le maiuscole e le minuscole, per esempio usa il maiuscolo di “s” o “l”. 18 Per approfondimenti si veda: 1.1.1 La negazione dell’utopia: l’impossibilità di un qualsiasi destino comune, p. 16. 17


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(fig. 9) Baskerville ITC è una versione rivisitata dell’originale Baskerville progettato nel 1757 da John Baskerville a Birmingham, in Inghilterra. Baskerville è classificato come un tipo di carattere transitorio, posizionato tra i vecchi caratteri tipografici stile di William Caslon, i moderni stili di Giambattista Bodoni e Firmin Didot.

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sua predilezione per questo carattere, disegna il carattere Filosofia, uno dei suoi primi caratteri PostScript, destinato alla visualizzazione su monitor. Per creare Filosofia, Licko ha studiato diversi stili dei Bodoni originale e dei suoi revival, come ad esempio ITC Bodoni. Licko ne crea alcune varianti destinate alla visualizzazione su monitor e una versione della famiglia Filosofia destinata ad essere utilizzata nella stampa tradizionale. Come sostiene Licko la scelta del nome Mrs. Eaves rivela una storia molto interessante. John Barksville, il progettista del carattere tipografico Barksville ITC, assunse Sarah Eaves, la donna che amava, come sua governante e nel giro di un mese dalla morte del ex marito di Eaves i due si sposarono. Eaves divenne non solo la compagna di vita di Baskerville ma anche la sua assistente durante i processi di composizione e di stampa. La scelta del nome Mrs. Eaves onora, dunque, la memoria di una delle donne dimenticate della storia della tipografia19. Di fronte alla domanda del perché il carattere Mrs. Eaves avrebbe avuto successo Licko risponde: «Credo che Mrs. Eaves sia un mix quel tanto che basta della tradizione e un tocco di contemporaneo. È abbastanza familiare per essere facilmente accettato, ma abbastanza diverso per essere interessante»20. Rispetto al Baskerville originale, Mrs. Eaves ha delle proporzioni più larghe e un peso delle aste maggiore, caratteristiche utili per dare presenza/enfasi a piccole quantità di testo: come la poesia, i titoli e per l’uso in annunci stampa.

Cfr. Zuzana Licko, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 87. 20 Cfr. Ivi, p. 88. 19


Zuzana Licko

Mrs. EAVES A sinistra: poster di presentazione del carattere Mrs.Eaves. Al centro: studi di progettazione del carattere. A destra: applicazioni del carattere Mrs. Eaves sotto forma di pattern.

Zuzana Licko

FILOSOFIA In basso: copertina di un progetto editoriale con caso studio il carattere tipografico Filosofia. Pagine interne del booklet. In basso a destra: pagine interne del booklet.


IL PERIODICO «EMIGRE» IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) LA NASCITA DI «EMIGRE»: UNA RIVISTA “DO IT YOURSELF” (DIY)

Il punto d’incontro: la fondazione della fonderia di caratteri tipografici digitali “Emigre Graphics” e del periodico (1984)

La coppia Rudy VanderLans e Zuzana Licko dello studio Emigre Inc.

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VanderLans e Licko si sono incontrati all’Università di California, Berkeley nel 1982. VanderLans studiava fotografia invece Licko era una studentessa di Progettazione Ambientale. Entrambi conseguirono la laurea nel 1983. Dopo l’università i due esplorarono tutti i tipi di progettazione nell’ambito del design grafico. Un’anno dopo, nel 1984, il Macintosh è introdotto nel loro lavoro. Apprezzarono, ciascuno a suo modo, questa macchina mettendo in discussione tutto quello che gli era stato insegnato, spingendosi oltre i limiti nel processo di esplorazione. Nello stesso anno fondano la fonderia di caratteri tipografici digitali “Emigre Graphics”, il cui scopo principale era promuovere i caratteri tipografici bitmap progettati da Licko. Ma ci vorranno anni prima che i caratteri di Licko raggiungano la notorietà (1989). È significativo ricordare che «Emigre» sia nata in seguito al mancato finanziamento della rivista «Dutch Punch», che non vide mai la luce. VanderLans, Susan e Meyjes nel 1984 avevano come obbiettivo quello di avviare una rivista chiamata «Dutch Punch» una forma di “diario di progettazione” che raccontasse il lavoro degli artisti olandesi stabilitisi nella East Coast. Questa proposta non fu mai accettata da parte della “Bechtel”21, la quale non finanziò il progetto. Una rivista si realizza, ma a differenza del progetto iniziale non è il diario dei progettisti olandesi bensì di progettisti come VanderLans, Licko, Susan, Meyjes, il diario di un émigré. Dal punto di vista formale «Emigre» abbraccia i principi alla base della tipografia decostruzionista22, dell’illeggibilità e dell’espressionismo tipografico sfidando regole e convenzio-

Bechtel Corporation è la più grande società edilizia e di ingegneria negli Stati Uniti. È stata fondata nel 1898 da Warren A. Bechtel. 22 Per approfondimenti si veda: 2.1.1 Le teorie decostruzioniste nella tipografia: una nuova categoria di lettori, p. 43. 21


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ni. L’approccio promosso dal periodico impone che il lettore non sia chiamato ad una letture passiva, ma debba essere coinvolto e spronato a decifrare il significato del contenuto. VanderLans, infatti, non crede nei buoni propositi dell’International Style, nella validità di un unico linguaggio universalmente comprensibile e più adatto a raggiungere il maggior numero di persone, e neppure di migliorare il mondo grazie al design grafico. Nella progettazione, VanderLans respinge i formati standardizzati a favore di strutture con “griglie fluide” che riflettono il suo entusiasmo verso il contenuto. La composizione computerizzata della pagina gli ha dato la possibilità di reinventare l’immagine grafica della rivista a ogni numero. A volte diversi articoli correvano attraverso le pagine contemporaneamente, tutti i testi differenziati per tipo di carattere, dimensione, interlinea e larghezza delle colonne, creando l’impressione di intercettazioni su diverse conversazioni simultanee. Sfumature varie venivano inserite all’interno di frasi per creare un determinato ritmo delle parole pronunciate. Il motivo per cui VanderLans e Licko cambiano continuamente la grafica della rivista è perché gli è concesso, infatti. «Emigre» non

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è una rivista edicola, un settimanale o una rivista di gossip che si basa sulla pubblicità; di conseguenza VanderLans e Licko non sono limitati in questo senso. VanderLans dichiara a proposito: «Penso che abbia senso per una rivista di design esplorare diversi formati. Noi non ci limitiamo a parlare di design, lo pratichiamo! È una sfida»23.

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 20.


IL PERIODICO «EMIGRE» IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) LA NASCITA DI «EMIGRE»: UNA RIVISTA “DO IT YOURSELF” (DIY)

Una rivista autoprodotta e finanziata

«Emigre» nasce in un periodo in cui la grafica è sempre più permeata dall’approccio “fai da te” sviluppatosi verso la fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta. È stata una delle prime pubblicazioni realizzata con i computer Macintosh e ha avuto una grande influenza sul lavoro dei graphic designer che si stavano spostando verso l’utilizzo del Desktop Publishing (DTP). È infatti grazie alle possibilità offerte dal computer e alla sua progressiva evoluzione che è stato possibile per VanderLans e Licko raggiungere la completa indipendenza da qualsiasi figura intermediaria esterna a «Emigre», fino ad arrivare nel 1998 al numero 45, in cui il processo di prestampa è ormai interamente digitale. Il lancio del Macintosh è stato provvidenziale per la sopravivenza di «Emigre»; è solo grazie al risparmio di tempo e di denaro dovuto all’uso del computer che è stato possibile per loro continuare a pubblicare la rivista. Il senso degli affari di Licko ha permesso di trasformare le idee alla base di «Emigre» in qualcosa di concreto e fruttifero. Licko e VanderLans usavano la rivista «Emigre» come un mezzo per promuovere i caratteri tipografici disegnati da Licko. Spesso, è stata proprio la rivista il terreno dove testare i nuovi caratteri. Questa sinergia è diventata un marchio di garanzia che ha distinto «Emigre» dalle altre riviste. I font di Licko e la rivista sono stati complementari; VanderLans dichiara in merito: «Emigre Fonts24 divenne rapidamente il motore finanziario che ha sostenuto la rivista, mentre la rivista è diventata inavvertitamente promotrice dei font»25. VanderLans e Licko si sono trovati ad affrontare numerosi

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Emigre Fonts è un azienda di progettazione di caratteri destinati a risoluzione su schermo (font) fondata nel 1984 da Susana Licko. 25 Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 92. 24


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problemi scaturiti dal loro approccio imprenditoriale, come ad esempio: occuparsi delle azioni legali intraprese per tutelare le proprietà intellettuali di Emigre Inc. e gestire le licenze commerciali dei propri prodotti. Altra questione importante per VanderLans e Licko è stata quella di ottenere e mantenere l’indipendenza finanziaria, attraverso una serie di strategie commerciali più o meno efficaci. Il fatto che prima del numero 42 (1997) di «Emigre» non presentasse al suo interno altra pubblicità se non quella dei propri prodotti non è dovuto tanto ad un’eroica scelta interna, quanto al target della rivista. Essendo rivolta a un target non definito e ristretto, la rivista non suscitava alcun interesse commerciale nei confronti degli acquirenti di spazio pubblicitario e perciò tutti i tentativi iniziali di vendita in tal senso compiuti da VanderLans e Licko non andarono a buon fine. Numerose sono state anche le richieste di finanziamento a enti esterni come la NEA26, ma anche in questo caso l’esito non è stato positivo. Esemplare è il rifiuto da parte del Governo olandese, nel 1988, di finanziare il numero 10 della rivista dedicato allo scambio culturale e progettuale in corso tra la Cranbrook Academy of Art e i graphic designer olandesi. Nei primi cinque anni di vita (1984-1989) una parte cospiqua dei proventi che hanno permesso a «Emigre» di sopravvivere sono arrivati unicamente dalle vendite della rivista, grazie anche a un’accorta strategia di distribuzione che dopo un inizio delegato a terzi è stata presa in mano e gestita direttamente da «Emigre». Una mossa impegnativa dal punto di vista amministrativo e di immagazzinamento, ma efficace finanziaria-

National Endowment for the Arts è un’agenzia federale indipendente, fondata nel 1965. Essa promuove l’eccellenza artistica, la creatività e l’innovazione dei singoli artisti e delle associazioni. 26


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

mente, grazie a una politica che eliminava il problema dei costi di rientro delle copie invendute, associata a uno sconto sul prezzo d’acquisto da parte dei negozi che si facevano carico di rivenderla. Per raggiungere la completa indipendenza finanziaria della rivista, dal numero 3 (1985), sono stati utilizzati e pubblicizzati i font disegnati da Licko. La risposta del pubblico agli annunci pubblicitari è stata subito positiva portando alla creazione della fonderia commerciale “Emigre Fonts”. Il successo commerciale dei font di Licko, ha consentito, dunque, alla rivista di superare i primi cinque anni di pubblicazione. Prima, però, di sfondare definitivamente con i propri font (1989), e raggiungere la notorietà nel design grafico, VanderLans e Licko hanno creato “Emigre Graphics” (nel 1987 incorporata in Emigre Inc.) offrendo illustrazioni free lance per far fronte alle spese. Ad eccezione di una serie di illustrazioni digitali fatte per Apple Computer, il resto dei progetti seguiti da “Emigre Graphics” erano progetti a basso costo per organizzazioni no-profit, quindi poco remunerativi. Nel tentativo di mantenersi economicamente, VanderLans e Licko tentano di lanciare anche altre riviste; una più commerciale, «Glashaus» magazine proposta agli organizzatori dell’evento-party omonimo27 e una commissionata dall’Art Space Gallery di San Francisco, «Shift» magazine, un progetto low budget. L’iniziativa viene abbandonata subito dopo la pubblicazione del primo numero perché troppo impegnativa per ambo le parti.

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Glashaus è una società di organizzazione di eventi operante nel settore pubblicitario la cui sede si trova in California, USA.

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Nel 1995, in seguito ad alcuni problemi finanziari, ha iniziato il lento declino di «Emigre». Per ammortizzare i costi di produzione e distribuzione in quell’anno la rivista cambia formato, passando da un formato tabloid a uno più convenzionale. Nel 1997, «Emigre» adotta una politica promozionale più forte, aumentando la tiratura delle riviste fino a 400000 copie e spedendo gratis i propri numeri agli abbonati. In seguito all’aumento dei lettori, scaturisce un nuovo interesse per lo spazio commerciale messo a disposizione sulle pagine di «Emigre». La comparsa della pubblicità però non è ben accetta dal pubblico, che ritiene che la rivista si sia svenduta. Come più volte hanno puntualizzato VanderLans e Licko, uno dei più grandi ostacoli a cui si deve far fronte nel caso si voglia pubblicare una propria rivista è lo scoglio economico, ed è proprio per ragioni economiche «come l’impossibilità di competere con l’economicità di un medium come il blog»28 che «Emigre» magazine, nonostante la produzione e la distribuzione vengano affidate ad un editore esterno. «Emigre» si esaurisce nel 2005 con il numero 69. Secondo VanderLans il graphic designer non può essere semplicemente ridotto a una professione a servizio delle idee del cliente. Il graphic designer deve essere anche un produttore di idee, di messaggi e di prodotti. Allo stesso tempo non si deve pensare all’autoproduzione come una pratica semplice. In tal caso il designer diventa doppiamente responsabile per quello che fa. Diventa responsabile non solo di come usa le pagine della rivista e lo spazio al loro interno, ma anche per quali contenuti sceglie, per chi invita a collaborare. Ne

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 198. 28


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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

consegue che «Emigre» non discute del design grafico solo all’interno delle sue pagine, ma l’intera rivista, dai font alla carta, dalla stampa alla distribuzione, in breve l’intero percorso produttivo come sostiene il suo fondatore Vanderlans è una discussione su che cosa è il design e quali sono le possibilità del designer in quanto autore.

In alto: copertina di «Emigre» n. 69, 2005. In basso: copertina di Emigre No.70: The Look Back Issue, 2009. Una raccolta di 25 anni di «Emigre».

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La trasformazione formale e di contenuti della rivista: tre periodi fondamentali

La rivista «Emigre» non ha mai avuto un formato fisso. Nel corso degli anni ha cambiato i formati più volte: dal primo numero fino al trentaduesimo (1983-1994) veniva pubblicata trimestralmente in formato tabloid (ogni pagina misurava 28,5x42,5 cm). Nel 1994, alla pubblicazione del trentaduesimo numero, VanderLans e Licko hanno deciso di ridurre le dimensioni della rivista dalla sua dimensione originaria di tabloid a una più tradizionale 21,5 x 27,9 cm. Era semplicemente diventato troppo costoso e impegnativo spedire riviste di grandi dimensioni nelle loro scatole “costum-made”29. A partire dal numero 60 (2001) si è adottato un formato multimediale (un libretto dove ogni pagina è di 13,3 x 21,0 cm, più un CD o DVD) e infine, dal numero 64 (2003), la rivista ha assunto un formato libro, pubblicato semestralmente, in cui ogni pagina misura 13,3 x 21,0 cm. La decisione di cambiare formato a favore di quello più piccolo coincide inoltre con il crescente interesse di VanderLans per la teoria del design editoriale e la critica, la stessa motivazione che aveva generato il nuovo lavoro di progettazione. In altre parole, un tipo di scrittura critica che mettesse in discussio-

Rudy VanderLans al lavoro negli ambienti dello studio di Emigre Inc. (2005)

«Venivano stampate 7.000 copie e nel fra tempo il numero di abbonati era di circa 2500. Il costo era di $ 12,500 per la stampa e 2,400 $ per la spedizione. Circa 3.000 copie venivano distribuite nei negozi di tutto il mondo e il resto lo vendevano come arretrati (stock issues).» Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005, p. 198. 29


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ne gran parte di quello che avevamo imparato sulla progettazione grafica.

L’evoluzione dei metodi e processi di produzione Per quanto riguarda le tecniche di produzione, lo stile dei primi due numeri di «Emigre» (1984-1986) è frutto dell’approccio “fai da te” e del compromesso tra la tecnologia convenzionale e le risorse finanziarie a disposizione: le immagini e i testi (scritti con la macchina da scrivere) sono stati fotocopiati su fotocopiatrice Xerox per essere impaginati. Dal terzo numero (1985) e in poi «Emigre» sfrutta le crescenti possibilità di personalizzazione30 del prodotto grafico offerte dal Macintosh, iniziando a creare quella che poi si affermerà come una nuova estetica digitale31. Si noti ancora una volta l’importanza della rivoluzione digitale come caratteristica differenziale del prodotto postmoderno rispetto a quello moderno. In seguito lo stile di «Emigre» è ampiamente influenzato dalla presenza del computer. VanderLans e Licko si definiscono “primitivi di una nuova era”32 e concentrano le proprie energie nella ricerca di un nuovo standard, creato a partire del computer, senza tentare di forzare il computer a riproporre standard passati. Si noti come il concetto espresso da Vattimo, in merito all’individuo postmoderno, trovi completa manifestazione nell’approccio progettuale di VanderLans e Licko: la totale negazione di qualsiasi preconcetto passato come unico modo per scoprire nuovi percorsi alternativi.

Per approfondimenti si veda: 1.1.2 La negazione della totalità come presa di coscienza della diversità, p. 21. 31 Per approfondimenti si veda: 2.2.1. La rivoluzione digitale: alla ricerca di una nuova estetica tipografica antimodernista, p. 46. 32 Per approfondimenti si veda: 1.1.1 La negazione dell’utopia: l’impossibilità di un qualsiasi destino comune, p. 16. 30

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In centro, a sinistra: composizione manuale del primo logo della rivista «Emigre», 1984. In alto, da sinistra a destra: gli uffici dello studio Emigre Inc., Berkeley, California, 1988. In centro, a destra: spedizione del catalogo Emigre No.70: The Look Back Issue, California, Gingko Press 2005. In basso: spedizione dell’ultimo numero di «Emigre», Emeryville, California, 2005


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

La rivista è stata stampata su una varietà di macchine da stampa, da un piccola stampante monocolore Heidelberg presso una tipografia locale a Berkley, ad una stampante offset completamente computerizzata a quattro colori, heatset, presso una tipografia a Denver, Colorado. Il primo numero di «Emigre» (1984) è stato prodotto utilizzando le tecniche tradizionali di fotomontaggio (paste-up). I testi e le immagini venivano incollate su tavole successivamente sviluppate attraverso un processo di foto esposizione tramite il quale si ottenevano le pellicole in negativo. Dallo sviluppo di queste pellicole si ricavavano le matrici per la stampa. Il processo di foto esposizione veniva eseguito da fotocompositrici professionali, se il loro budget lo consentiva, oppure messe insieme dai designer su una macchina da scrivere elettrica e fotocopiatrice. Dal numero 2, le tecniche precedentemente adottate sono state combinate con stampe dal computer Apple Macintosh collegato ad una stampante Apple Imagewriter con una risoluzione di soltanto 72 dpi. Per la composizione del testo sono stati utilizzati caratteri tipografici a bassa risoluzione. Intorno al 1985, con l’introduzione del PostScript e la Apple LaserWriter, la qualità delle stampe è aumentata, ma le tecniche di montaggio risultavano ancora necessarie per organizzare il testo a mano sulla pagina per poi “incollarlo” su schede. Quando ReadySetGo!33(1985), uno dei primi programmi di impaginazione, è arrivato sulla scena dell’editoria “fai da te”, ha permesso per la prima volta di creare layout completi sul computer omettendo le lunghe procedure di taglio e di pa-

A completamento del proprio sistema DTP composto da Macintosh e Laserwriter, Apple fornisce “Ready Set Go!” realizzato inizialmente da Manhattan Graphisc. Si tratta di un buon software evolutosi fino ai nostri giorni e che si distinse anche in seguito per una notevole praticità soprattutto in rapporto alle minuscole dimensioni del suo codice. 33

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ste-up. Inoltre, la nuova fotounità Linotronic34 era in grado di stampare a una risoluzione molto alta fino a 2540 dpi, superando la qualità della fotocomposizione. L’output però era ancora riprodotto su carta fotografica per poi essere incollato su schede, da cui si otteneva il film in negativo. Mentre i fondatori di «Emigre» cercavano di usare il Macintosh come strumento di progettazione, la rivista viene spesso citata come all’avanguardia del design generato dal computer35. Ma i loro strumenti di produzione in quegli anni erano ancora il coltello X-Acto, il nastro adesivo, la carta da lucido, la cera calda Rubylith36, le schede Bristol e una fotocamera statica. Non prima dell’uscita del numero 42 di «Emigre», pubblicato nel 1997, e solo dopo il passaggio a QuarkExpress, ha avuto inizio la creazione di layout completamente sul computer con tutto il materiale acquisito digitalmente e posizionato nei layout digitale. L’uscita era direttamente su pellicola, eliminando la procedura del paste-up e le fasi della riproduzione. Questa varietà di tecniche di produzione è la prova dei cambiamenti in atto all’interno della professione. Nessun file in digitale esiste per i primi dieci numeri (1984-

1988). E tutti i file creati in ReadySetGo!, e le prime versioni di QuarkXPress sono irrecuperabili. Se ci fosse la necessità, i numeri da 9 a 41 pubblicati tra il 1988-1997, non sarebbero più riproducibili.

I collaboratori della rivista La differenza formale tra le varie fasi della rivista coincide anche con un cambiamento dei contenuti. Dal 1984 al 1992 «Emigre» vede come unico editore VanderLans, il quale cura i contenuti e il montaggio editoriale della rivista. Dopo i primi anni, si vede una tendenza sempre crescente da parte di VanderLans a collaborare con designer affermati (Weingart, 1985) o studenti di scuole di design (principalmente della Cranbrook Accademy of Art, 1988) per il montaggio editoriale. A partire dal numero 24 (1992) entra nel team come co-redattore Jeffrey Keddy. VanderLans sostiene che l’intervista è uno degli strumenti più potenti per l’editore. «Emigre» non cerca l’assoluta spontaneità nelle interviste che pubblica, tanto è vero che VanderLans dà spesso la possibilità di correggere e ampliare i testi delle conversazioni ai loro

Le unità Linotronic rappresentano una tipoglogia di stampanti le quali permettevano la riproduzione dei caratteri tipografici a basso costo superando però in termini di qualità la riproduzione di foto esposizione. 35 «Eye» (1990), «Visible Language» (1991), «Print» (1993) ecc. 36 Rubylith è un marchio di pellicola di mascheramento inventato e commercializzato dall’azienda Ulano Corporation. Rubylith è utilizzato in molti settori della progettazione grafica, tipicamente per la produzione di maschere da usare successivamente in varie tecniche di stampa. Per esempio spesso viene utilizzato per mascherare aree di un disegno per produrre le lastre di stampa in litografia o stampa offset. 34


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

autori. L’intervista diventa così un piccolo saggio sotto forma di domande e dà la possibilità agli intervistati di difendere o chiarire il loro processo creativo, la loro produzione e le loro strategie, alimentando così il dibattito sulla natura della comunicazione e sul ruolo che il designer occupa nell’editoria. Lo scopo dell’intervista per «Emigre» è molto più vicino a svelare le complessità e le contraddizioni della professione del designer. Mentre l’intervista del progettista «è in genere intesa nei modi più ovvi come la promozione del designer stesso e della sua visione»37, l’intervista di «Emigre» cerca di capire ciò che sta dietro la facciata del designer geniale e le motivazioni alla base delle sue decisioni progettuali. Allo stesso tempo attraverso «Emigre» si cerca di dare forma grafica alle digressioni che naturalmente si cercano durante una conversazione. Ad esempio nel numero 19 (1991) VanderLans riporta graficamente con l’intervista con McCoy, Fella, Scott Makela (Minnepolis, 1960–1999) e Laurie Haycock il suono dei cani e dei bambini che piangono, sottolineando l’ambiente in cui l’intervista è stata fatta e di come tutto ciò ha interagito con gli intervistati. In tutto il montaggio dell’editoriale di «Emigre» VanderLans considera i lettori della rivista come «parte del sistema di produzione del significato»38. I testi critici, le immagini, i racconti pongono il lettore davanti a un artefatto complesso dove il filo conduttore non è necessariamente percepibile a prima vista, ma anzi è incompleto fino a quando non è attivato dall’incontro con il lettore. Anche quando «Emigre» arresta la sua sperimentazione grafica, si può ritrovare nei testi critici

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Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 71. 38 Cfr. Ivi, p. 75. 37


The Magazine That Ignores Boundaries, ÂŤEmigreÂť nr. 1 , 1984


In alto: «Emigre» n. 12, 1989, pg. 16-17. A sinistra in basso: Press time, «Emigre» n. 12, 1989. A destra in basso: «Emigre» n. 12, 1989, pg. 10-11.


Starting from Zero, «Emigre» nr. 19 , 1991


Starting from zero, ÂŤEmigreÂť nr. 19, 1991, p. 14-18.


Starting from zero, ÂŤEmigreÂť nr. 19, 1991, p. 19-23.


Made in Holland, ÂŤEmigreÂť nr. 25, 1993


In alto: «Emigre» nr. 27, 1993, p. 2-4. In basso, da sinistra a destra: David Carson, «Emigre» nr. 27, 1993; «Emigre» nr. 27, 1993, p. 21-22.


In alto a sinistra: Ambition/Fear, «Emigre» nr. 11, 1989. In alto a destra: «Emigre» nr. 11, 1989, p. 7. In basso: «Emigre» nr. 11, 1989, p. 8-9.


Neomania, «Emigre» nr. 24, 1992


Other writings about Graphic Design, «Emigre» nr. 32, 1994


The Magazine Issue, «Emigre» nr. 41, 1997


The everything is for sale issue, ÂŤEmigreÂť nr. 49, 1999


In alto: «Emigre» nr. 49, 1999, p. 3-4. In basso, da sinistra a destra: «Emigre» nr. 49, 1999, p. 32; «Emigre» nr. 49, 1999, p. 42.


Honey Barbara: I-10 & W. AVE., «Emigre» nr. 60, 2001


Catfish, «Emigre» nr. 62, 2002


Graphic design vs. style, globalism, criticism, science, authenticity, and humanism, ÂŤEmigreÂť nr. 67, 2001


In alto: «Emigre» nr. 62, 2002, p. 2-4. In basso, da destra a sinistra: «Emigre» nr. 62, 2002, p. 15; «Emigre» nr. 62, 2002, p. 35-36.


Rant, «Emigre» nr. 64, 2003


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«la volontà di coinvolgere il lettore e non di presentargli una soluzione univoca»39. A partire dal 2003 i contenuti subirono un drastico cambiamento. VanderLans spiega che invece di concentrarsi sulle intenzioni dei progettisti e sul loro lavoro, si decise di ribaltare la situazione e vedere come il lavoro stesse influenzando la cultura40. L’insegnante della CalArts, Jeffery Keedy, affiliato alla rivista per quasi un decennio, e il cui carattere tipografico, Sans Keedy è distribuito da Emigre Fonts, è diventato un frequente collaboratore di «Emigre», come lo sono stati il professore della North Carolina State University Andrew Blauvelt e la scrittrice / designer Anne Burdick. Alla Cranbrook e alla CalArts, dottorandi e docenti avevano già iniziato a scrivere sulle teorie decostruzioniste, postmoderno nel design grafico, sperimentazione tipografica digitale, ecc. come parte delle loro ricerche di tesi, o come estensioni dell’insegnamento e della pratica, ma poche persone erano a conoscenza dei loro sforzi. Le riviste di design tradizionali avevano poco interesse in quanto i saggi erano troppo ermetici o troppo lunghi. VanderLans vedeva in loro un opportunità per creare un dibattito formativo sul design. Aveva deciso di dare spazio a un dibattito sul lavoro sperimentale che era trascurato da altre pubblicazioni di progettazione, perché non aderiva ai canoni tradizionali o era ancora in fase di formazione. I numeri della rivista, ciascuno costruito attorno ad un tema, hanno visto la collaborazione di Fella, Rick Valicenti, e David

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 76. 40 Cfr. Ivi, p. 81. 39


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE IL RAPPORTO TRA LEGGIBILITÀ E COMUNICAZIONE NELLA SPERIMENTAZIONE TIPOGRAFICA DIGITALE DEL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005)

Dear Emigre è una raccolta di alcune delle lettere e mail inviate alla redazione della rivista dal 1984 fino al 2005. Pubblicato assieme al libro Emigre No.70: The Look Back Issue, 2009.

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Carson dagli Stati Uniti, Vaughan Oliver, Nick Bell, Designers Republic e molti altri che stavano esplorando un nuovo territorio della comunicazione visiva. Diversi articoli controversi e le interviste sono apparsi nel corso degli anni, invitando altre pubblicazioni di design a diventare più critiche sul design grafico. ll cambio di formato e i lunghi saggi accademici hanno ricevuto reazioni contrastanti. La maggior parte dei lettori si lamentarono del fatto che la scrittura non si riferisse direttamente alle preoccupazioni pratiche del graphic designer. Un’altra denuncia, quella di Pat Watson era diventata un ritornello all’interno degli uffici di «Emigre» la quale ogni volta apriva con: «Smettetela di citare gli scrittori francesi!»41 Nonstante i feroci attacchi lo stile di «Emigre» è, infine, accettato, affermandosi come il più adatto per comunicare al mondo giovanile. In seguito il concept di «Emigre» sarà portato al successo commerciale dal lavoro di David Carson (1954, USA) , art director nel 1990 di «Beach Culture» e nel 1993 di «Ray Gun». L’opera grafica di Carson si è sviluppata soprattutto nel settore editoriale. Sovvertendo i criteri della tradizionale impaginazione strutturata secondo una rigorosa gerarchia visiva ha puntato a un calcolato disordine, con i titoli disseminati nello spazio della pagina, il corpo e i caratteri delle lettere che variano in un’apparente casualità, le didascalie che assumono dimensioni inattese e la regolarità delle colonne sagomate secondo un andamento irregolare. In questa sorta di azzeramento della leggibilità, la lettura diviene un’ardua decifrazione del testo, ma ciò che a Carson sta a cuore è soprattutto la

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 83. 41


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diretta relazione tra i contenuti e la loro espressione grafica. In un certo modo, egli interpreta graficamente il testo e mira, quindi, a trasferire il modello di lettura su un piano più articolato. L’accettazione dello stile di «Emigre» ha come conseguenza quella di frenare ogni ulteriore sviluppo sperimentale ed espressivo, nel 1995 infatti VanderLans decide di abbandonare la sperimentazione dei primi anni in favore di uno stile più convenzionale, più adatto al taglio più critico che intende dare ai contenuti di «Emigre». La rivista diventa un luogo di discussione e di confronto sulla teoria e la critica del design. Nonostante ciò «Emigre» non si preoccupa di creare un ambiente che giustifichi la grafica nella rivoluzione digitale o di creare una nuova linea teorica di regole, ma cerca di guardare, ampliando il suo orizzonte, al contesto sociale e culturale nel quale la grafica digitale si inserisce. Appaiono così sempre più spesso interviste e brevi saggi critici che continuano però a interagire con impaginazioni e con elementi grafici che sentono l’eredità delle importanti sperimentazioni che VanderLans e Licko avevano portato avanti nelle edizioni precedenti.


Tipografia espressiva

DAVID CARSON In alto a destra, dall’alto al basso: copertina della rivista «Beach Culture», n. 5, 1989; pagine interne di «Beach Culture» n. 5. In basso a destra: copertina della rivista «Beach Culture» n. 6, 1989. In basso a sinistra: pagine interne di «Beach Culture» n. 6, 1989.


In alto a sinistra: copertina della rivista «Ray Gun», n. 50, 1997. In alto a destra: pagina interna di «Ray Gun», n. 50, 1997. In basso a destra: copertina della rivista «Ray Gun», n. 55, 1998. In basso a sinistra: copertina della rivista «Wallpaper», 2012.

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IL PERIODICO «EMIGRE» «EMIGRE»: UNO SPAZIO DI CRITICA E DIBATTITO SULLA PROGETTAZIONE GRAFICA LE CRITICHE NEI CONFRONTI DI «EMIGRE»

«Emigre» non aveva la pretesa di raccogliere un consenso totale, poiché non cercava di soddisfare il grande pubblico, si poneva, piuttosto, come espressione della ricerca dei suoi ideatori. Ricerca grafica e ricerca nei contenuti teorici si ritrovano in ogni numero della rivista. Con la rivoluzione digitale, a partire dalla metà degli anni Settanta, i limiti tecnici della composizione dei testi e dell’impaginazione grafica venero in gran parte superati: l’elaborazione digitale permise, infatti, di mettere in atto un processo di progettazione più fluido e libero. VanderLans e Licko non temevano le incognite della sperimentazione e ignoravano di proposito cosa e come una rivista di grafica dovesse essere realizzata. Cercarono, dunque, di aprire intenzionalmente nuove strade alla sperimentazione grafica utilizzando la tecnologia digitale non per imitare uno stile già esistente, ma per scoprire le nuove inesplorate possibilità che essa offriva loro. Negli anni Novanta, «Emigre» si confronta con diverse reazioni da parte del pubblico e della critica. Molti furono coloro che ammirarono il lavoro di VanderLans e Licko e altrettanti furono quelli che non condivisero il loro modo di fare design o addirittura lo disprezzano, fino a considerarlo “spazzatura”.

La mancata committenza alla base di un progetto non convenzionale Una delle principali accuse a VanderLans e Licko da parte della critica è stata definire il design di «Emigre» indulgente con se stesso.

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(fig. 1) Massimo Vignelli è uno dei più importanti designer italiani di fama internazionale. Si è occupato di svariati rami del design. Nel design grafico è oggi riconosciuto come uno dei più importanti maestri viventi, avendo curato l’immagine di molte fra le più importanti aziende al mondo, fra le quali American Airlines (1967-2013), Benetton e Ford. A partire dagli anni Sessanta, inoltre, è stato uno dei principali artefici del rinnovamento della grafica americana, avendo importato negli Stati Uniti la metodologia progettuale tipica del modernismo europeo.

Massimo Vignelli (fig.1) (Milano, 1931) sosteneva in un intervista, concessa alla rivista «Eye» (1990), che fare design creando e formando i propri contenuti senza doversi relazionare con le richieste e le aspettative di un cliente è facile, così com’è facile trovare una soluzione visiva a problemi che si è generati e definiti da se1. La rivista viene considerata autoreferenziale e in questi termini viene messa in discussione la validità stessa di «Emigre» come progetto grafico, data l’assenza sia di un committente esterno sia dell’usuale percorso progettuale di problem solving tipico del design. Se però si prendono in considerazioni i pro e i contro comportati dall’assenza di una committenza, dichiara VanderLans in risposta alle accuse di Vignelli, ci si rende subito conto che è assai affrettato definire “troppo facile” il design grafico svolto in tale condizione. Perché se è vero che la mancanza di un cliente esterno può comportare vantaggi enormi quali un maggiore potere decisionale sul proprio lavoro e una maggiore indipendenza, è anche vero che il designer è tenuto ad essere doppiamente responsabile di ciò che fa2. Ogni scelta comporta un costo finanziario che deve essere sostenuto direttamente e

Cfr. Massimo Vignelli, Reputation: Massimo Vignelli, «Eye», n. 10, 1990, p. 22. 2 Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 118.

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LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE «EMIGRE»: UNO SPAZIO DI CRITICA E DIBATTITO SULLA PROGETTAZIONE GRAFICA

personalmente e i margini d’errore sono direttamente proporzionali alla propria disponibilità economica, cosa che rende le decisioni da prendere tutt’altro che semplici. In risposta alle accuse di auto indulgenza VanderLans e Licko si sono definiti in più occasioni come clienti di se stessi nonché designer imprenditori3.

Gli anni Novanta e lo scontro tra Massimo Vignelli ed «Emigre» in merito alla “nuova tipografia”

Copertina della rivista «Emigre», n. 18, 1991.

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A proposito della critica agli approcci sperimentali e alla qualità della progettazione grafica non si può trascurare la riflessione di Massimo Vignelli (1931, Milano) nei confronti di «Emigre». Nel 1991, durante un’intervista per la rivista «Print» - dove Vignelli era stato chiamato per un confronto diretto con Ed Benguiat (New York, 1927), suo collega type designer Vignelli muove forti critiche circa l’approccio decostruzionista della tipografia contemporanea che rifiuta i paradigmi propri del modernismo e trova piena manifestazione nella progettazione tipografica di «Emigre». Vignelli attacca in un manifesto scritto il proliferare incontrollato di caratteri tipografici digitali e il conseguente inquinamento visivo che ne deriva, arrivando più tardi a definire «Emigre»: «a typographic garbage factory» (una fabbrica di spazzatura tipografica)4. «Emigre» è considerata l’emblema di una progettazione “vuota” capace solo di fare “rumore” e si discosta in modo radicale dal concetto di “tipografia” che, secondo Vignelli ha poco

Cfr. Rudy Vanderlans, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 118-119. 4 Cfr. Massimo Vignelli, Massimo Vignelli vs Ed Benguiat (Sort of), «Print», 1991, p. 33. 3


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a che fare con i caratteri tipografici in sé, ma trova massima compiutezza nella definizione di “struttura” complessiva del progetto5. Il layout, gli spazi, le centrature, rappresentano l’equilibrio della pagina e il fatto di enfatizzare i caratteri tipografici senza una giustificazione progettuale è fuori luogo. Ancora Vignelli, afferma che i due fondatori di «Emigre» cercano la deformazione, anziché rifiutarla6. Vignelli, tuttavia, si autodefinisce un conservatore per la volontà di mantenere alta la qualità della produzione e non per chiusura preconcetta alla “nuova grafica”, nella quale distingue produzioni brillanti come quella di Greiman. Secondo Vignelli, infatti, la Greiman7 si discosta nettamente rispetto all’esperienza «Emigre», la quale, seppur inserendosi nel medesimo scenario che rifiuta le regole del movimento modernista, adotta una grafica che risponde a ricerche “personali” motivate da precisi studi e sperimentazioni sulle nuove tecnologie. Per tutta risposta, nello stesso anno, VanderLans chiederà proprio a Vignelli di pubblicare il suo manifesto in copertina di «Emigre» numero 18. Il risultato è alquanto ironico, ma sottolinea come in realtà «Emigre» cerchi di alimentare il dibattito invece

che ignorarlo.

“Cult of the Ugly”: esempi di bruttezza al servizio di una progettazione sperimentale alternativa Due anni dopo la critica di Vignelli, nel 1993, Steve Heller (fig. 2) (New York, 1950) pubblicò un suo articolo sul periodico «Eye» intitolato “Cult of the Ugly”. Heller additò lo stile spregiudicato e troppo personale di alcuni lavori che caratterizzano il design della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta. Come esempio prese i progetti degli studenti della Cranbrook Accademy of Art (in particolare Output, 1992), il lavoro degli ormai affermati professionisti Fella, Keddy e Allen Hori (ex-studenti dell’accademia) e il periodico «Emigre». Questo articolo non è semplicemente una critica da parte di un tradizionalista, ma rappresenta una riflessione ben più profonda dell’autore sul concetto di Good Design8 e quello che, all’opposto, viene definito “Cult of the Ugly”. Heller indicò questo “brutto stile” come dannoso per il mainstream perché a causa del suo successo rischiava di venir copiato e utilizzato impropriamente senza consapevo-

Cfr. Massimo Vignelli, Massimo Vignelli vs Ed Benguiat (Sort of), «Print», 1991, p. 33. Cfr. Idem. 7 Per approfondimenti si veda sotto 2.4.1 La New Wave Californiana (1975): L’attività di April Greiman: l’iconografia ibrida (1981), p. 79. 8 Termine usato per indicare un progetto di valore formale/estetico e funzionale. 5 6


LA GRAFICA POSTMODERNA NELL’EDITORIA CARTACEA: IL PERIODICO «EMIGRE» (1984-2005) TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE «EMIGRE»: UNO SPAZIO DI CRITICA E DIBATTITO SULLA PROGETTAZIONE GRAFICA

(fig. 2) Steve Heller è un critico, art director, giornalista ed editore statunitense specializzato nell’ambito della tipografia e design grafico. I suoi scritti compaiono in varie pubblicazioni: «Emigre», «SpeakUp», «Design Observer», «I-D», «How», «Eye», «Print», The New York Times Book Riview, «U&Ic».

lezza. L’articolo innescò una dibattito clamoroso. Il periodico «Eye» ricevette più lettere in risposta a questo saggio di qualsiasi saggio pubblicato prima e la discussione si allargò ad un certo numero di altre pubblicazioni di design («Print», «Speak Up», «Emigre» ecc). Invece di ignorare la discussione, ancora una volta la risposta di «Emigre» fu quella di darne spazio nelle sue pagine: il numero 30 di «Emigre» (1994) è dedicato a questo tema. All’interno di «Emigre» numero 30 Rick Poynor9 scrisse un articolo intitolato “Ugliness is in the eye of the Beholder”, dove si domandava quale contesto e quale catalisi culturale permise la nascita dell’Ugly Design e quale fosse il significato di tutto ciò. È interessante notare che VanderLans pubblichi questo articolo dove implicitamente si affermava che «Emigre» facesse parte dell’Ugly Design. In rifermento ad Output (1992), un progetto pubblicato dagli studenti della Cranbrook Accademy of Art, Heller criticando il loro approccio progettuale, affermò che a giudicare dall’evidenza, alla domanda cos’è la bellezza, gli studenti dell’accademia avrebbero potuto rispondere che la bellezza è il caos che nasce dalle lettere stratificate disposte su forme e motivi casuali. Continuò affermando che coloro che danno valore alla semplicità funzionale sostengono che la pubblicazione degli studenti della Cranbrook è brutta «proprio come le verruche di un rospo»10. «La differenza è che, al contrario del rospo, questi studenti hanno deliberatamente scelto di ricoprirsi di verruche»11. Output è una pubblicazione di otto pagine non rilegate fatte

Rick Poynor è uno scrittore britannico le cui tematiche predilette sono sulla progettazione grafica, tipografia e comunicazione visiva. Ha iniziato la sua carriera come giornalista lavorando nella rivista «Blueprint» a Londra per poi diventare il fondatore nel 1990 della rivista «Eye» e redattore della rivista «Print» nel 1997. Nel 2007 viene premiato per il suo cortometraggio Helvetica. 10 Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», n. 9, 1993, p. 9. 11 Cfr. Idem. 9

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di puntini, frammenti di lettere, parole casuali e segni grafici privi di valore che assumono artificiosamente l’aspetto, frutto di coincidenze fortuite, dei fogli su cui si imprime più volte durante la messa a punto di una stampa. La mancanza di una qualunque spiegazione lascia il lettore disorientato rispetto gli scopi e i significati, sebbene la forma faccia presumere che si tratti di un manifesto, ovvero di un altro esperimento sulla scia della corrente di elaborati grafici esteticamente discutibili. Per via della sua crescente diffusione all’interno dei corsi universitari in cui le attività di laboratorio si caratterizzano per la mancanza di obiettività da parte dei docenti e studenti, la pratica sperimentale ha creato una serie di violazioni delle norme più basilari della progettazione. Secondo Heller il valore degli esperimenti progettuali non dovrebbe essere misurato solamente in base alla loro riuscita, dato che i fallimenti sono spesso passi verso nuove scoperte. Heller considera la sperimentazione come il motore del progresso, il suo carburante un misto di istinto, intelligenza e disciplina. Ma il motore fonde quando troppo istinto si mescola a quantità insufficienti di buonsenso e rigore. Ed è proprio questo il caso di certi esperimenti di progettazione grafica venuti fuori negli ultimi anni Ottanta dalle università statunitensi ed europee, lavori guidati dall’istinto e oscurati dalla teoria, in cui la bruttezza è il principale sottoprodotto. Nel design postmoderno, a partire dalla metà degli anni Settanta, i sistemi esistenti sono messi in discussione, l’ordine è

In alto: Copertina della rivista «Eye», n. 9, 1993; Copertina della rivista «Emigre», n. 30, 1994.In basso: Copertina della publicazione Output, Cranbrook Accademy of Art, 1992.


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sotto attacco e lo scontro forzato delle forme più disparate è la regola imperante. È molto difficile dare una definizione di ciò che può essere considerato “brutto”. Secondo Heller gli esempi di bruttezza, diversamente dal Good Design, in cui il rispetto della sezione aurea e la preferenza per l’equilibrio e l’armonia sono alla base perfino delle composizioni meno convenzionali, si caratterizza dalla sovrapposizione di forme grafiche disarmoniche che si traducono in messaggi confusi12. Stando a questa definizione, Output potrebbe essere considerato un primo esempio di bruttezza al servizio della nuova moda della sperimentazione. Sebbene non destinato a scopi commerciali, fu distribuito a migliaia di designer professionisti attraverso le liste di indirizzi postali dell’American Institute of Graphic Arts e dell’American Center for Design, così, invece di rimanere appartato e protetto dalla critica in quanto “ricerca” universitaria, è diventato un buon modello da analizzare. Secondo Heller può essere legittimamente descritto come rappresentante del “Culto del Brutto”. Le immagini sovrapposte, gli ibridi vernacolari, le riproduzioni a bassa risoluzione e la cacofonica miscela di lettere differenti e di caratteri tipografici messi tutti insieme sfidano le convinzioni estetiche prevalenti e propongono paradigmi alternativi. Questo lavoro, come quello dei “ribelli” della comunicazione del passato (i Futuristi degli anni Venti o gli artisti psichedelici degli anni Sessanta), richiede che il fruitore accetti formati non convenzionali che, nel migliore dei casi, accompagnano l’occhio con un obiettivo dato attraverso una serie di “percor-

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Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», n. 45, 1993, p. 14.


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si” non lineari, mentre, nei peggiori, generano solo confusione. Si pensava che da istituti come Cranbrook Accademy of Art e CalArts, dove con concetti teorici si giustificava ciò che un occhio non allenato avrebbe potuto ritenere brutto, potesse venir fuori un progetto che rompesse le convenzioni e presto convertirsi nella base per la creazione di nuovi standard fondati sulla sensibilità contemporanea. Il “Design Brutto” può essere, così, considerato un tentativo cosciente di creare e definire standard alternativi. Gli stili dissonanti utilizzati nei loro lavori da molti designer contemporanei hanno lo scopo di spaventare un nemico, l’abitudine, così come di incoraggiare nuovi modi di leggere e di vedere. Ma è possibile che l’aspetto esteriore renda ciechi rispetto alla bellezza intrinseca, sarebbe a dire all’intelligenza, di questo lavoro? In risposta a questa domanda Ralph Waldo Emerson (Boston, 1803-1882) in The Conduct of Life (1860) scrisse: «Il segreto della bruttezza consiste non nel suo essere contraria agli schemi, ma nel suo essere poco interessante»13. Dati i parametri di Emerson, possiamo de-

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durre che il design è brutto solo quando è privo di giustificazioni estetiche o concettuali. Anche in un passato più remoto le idee dei giovani sul buon design e sull’arte furono attaccate da quelli della vecchia generazione. Sul finire degli anni Trenta, Paul Rand (New York, 1914-1996) quando criticato come uno di quei “ragazzi del Bauhaus”, dal maestro americano della tipografia William Addison Dwiggins (Ohio, 1880-1956), affermò di nutrire grande rispetto per il lavoro del maestro e di non comprendere come questi non fosse in grado di vedere il valore di ciò che lui stava facendo. VanderLans, che con gli esperimenti fuori griglia di «Emigre» e la “nuova tipografia”, fu aspramente criticato da Vignelli (1990), non rispose all’attacco, anzi dichiarò di ammirarne il suo lavoro, nonostante il proprio interesse fosse quello di esplorare le alternative rese possibili dalle nuove tecnologie. Da quanto detto, possiamo affermare che il linguaggio inventato dai “ragazzi del Bauhaus” di Rand sfidasse i canoni estetici del tempo similmente a quanto stava facendo VanderLans con «Emigre» negli anni Novanta. VanderLans e quei designer che «Emigre»

Cfr. Waldo Emerson, The conduct of life, Boston, Ticknor and Fields 1860, p. 23


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celebra per le loro invenzioni, inclusi gli ex-studenti del Cranbrook Fella, Keedy e Hori, stavano promuovendo negli anni Novanta nuovi modi di interpretare la grafica editoriale e di fare tipografia. La differenza è che il metodo di Rand era basato strettamente sui concetti di equilibrio e di armonia che ancora oggi reggono i colpi di rigorosi esami. I nuovi riformisti, di contro, rifiutano tali verità in favore di una discordanza e di una disarmonia forzose, che si trovano giustificazione come espressione personale, ma non come progettazione visiva attuabile, e che in definitiva rimarranno una pagina marginale, nella storia del disegno grafico14. I lavori degli studenti della Cranbrook Accademy of Art e CalArts, considerati da Heller come brutti eccessi o «piccoli mostri di Frankenstein»15, sono spesso esposti in pubblico per diffondere il “nuovo discorso sul design”. Egli sostiene che in realtà non fanno altro che promuovere la causa della ambiguità e della bruttezza. Da quando queste due scuole introducono i lavori dei loro studenti sul mercato (come ad esempio Output, 1992), qualcosa di ciò che è puramente sperimentale viene accolto dai neofiti come una strada percorribile e gli studenti ne fanno inevitabilmente un uso sconsiderato. Heller continua sostenendo che l’indulgenza è un atteggiamento comune a tutti i progettisti grafici appartenenti alla corrente in questione, e che proprio l’indulgenza informa alcuni dei peggiori esempi di arte applicata. In definitiva ciò che provoca la maggior parte di questo “rumore” è ciò che Heller chiama «disegni di adulti che giocano a fare i bambini»16.

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Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», vol. 3 no. 9, 1993, p. 14. Cfr. Ivi, p. 15.


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Se Art Chantry (Seatle, 1954) utilizza elementi naïf o brutti all’interno del progetto egli li trasforma in qualcosa di funzionale, al contrario, Lushus17 di Keedy, un carattere tipografico “licenzioso” e “violento”, è preso sul serio da alcuni e utilizzato sulle carta stampata (come per la copertina del Dutch Best Book Design) come un’offesa, e non come una caricatura, degli standard tipografici. Quando l’aspetto vernacolare è portato agli estremi, più o meno deliberatamente, non fa altro che contribuire a perpetuare di un cattivo design. Heller afferma che la bruttezza, come la bellezza, è valida, persino stimolante, quando è insita in un particolare linguaggio che rappresenta cultura e idee alternative. Sostiene inoltre che i progettisti oltre l’estetica, dovrebbero innanzitutto parlare di intelligenza, sostanza, senso del progetto, come elementi di base dai quali il progetto prende forma, prescindono da qualsiasi stilema. Secondo Heller, il problema con il “Culto del Brutto” nell’ambito del progetto grafico, diffuso dalle più importanti scuole e dai suoi laureati, consiste nell’essersi trasformato nell’arco di pochi anni (metà anni Novanta) in uno stile che attrae chiunque non abbia l’intelligenza,

In alto: Esposizione dei poster progettati da Art Chantry al Fulcrum Gallery, 2011. Al centro: Alexander Rodchenco Poster; Manifesto pubblicitario per la mostra di Art Chantry allestita da AIGA, 2005. In basso: Applicazioni del carattere tipografico Lushus progettato da Jeffrey Keedy: Copertina della rivista «Fuse», n. 20, 2011.

Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», vol. 3 no. 9, 1993, p. 16. 17 Carattere tipografico digitale progettato nel 1994 da Jeffrey Keddy appositamente per apparire sulla copertina della rivista «Fuse». 16


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la disciplina e il buon senso per fare qualcosa di più interessante. La confusione in cui è immersa gran parte della produzione visiva è vittima di questo limite, conclude Heller. Mentre i fautori di questi “brutti” esempi stanno inseguendo le loro muse, i seguaci stanno abusando della firma dei maestri progettando con uno stile privo di sostanza. La bruttezza come strumento, come arma, persino come codice non è un problema se risulta da forme che seguono la funzione. Ma la bruttezza come virtù di sé stessa, o come reazione di riflesso allo status quo, sminuisce tutto il design18.

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Cfr. Steve Heller, Cult of The Ugly, «Eye», vol. 3 no. 9, 1993, p. 16.


La fine di un percorso alternativo di progettazione: i riconoscimenti della critica nei confronti di «Emigre»

In alto: Poster promozionale per il carattere progettato da Zuzana Licko da parte di Massimo Vignelli, 1996. In basso: Inquadratura degli ultimi 6 numeri della rivista «Emigre» in formato 13,3 x 21 cm.

Nel 1996, la decisione di cambiare il formato della rivista a favore di uno più piccolo si deve non solo al crescente interesse di VanderLans per la teoria del design editoriale e della scrittura critica, come già detto in precedenza, ma anche all’attenuarsi dell’opposizione critica iniziale. Gli stessi disegni e caratteri, un tempo considerati “brutti” sono stati assimilati dalla cultura mainstream. Il lavoro di VanderLans e Licko non più visto come radicale o unico inizia, verso la metà degli anni Novanta, a ottenere riconoscimenti da molti personaggi autorevoli del settore. Basta pensare ai precedenti accanimenti critici di Vignelli contro «Emigre» (1991). Nel 1996, Vignelli pubblica una promozione per il carattere tipografico Filosofia di Licko. Il titolo del poster era “It’s their Bodoni” (è il loro Bodoni). La volontà di Vignelli a collaborare, sostiene Licko, potrebbe riflette la capacità di «Emigre» a indurre il lettore a prendere in considerare orizzonti alternativi di interpretazione21. I riconoscimenti proseguono con diversi premi assegnati alla coppia VanderLans e Licko: nel 1994 il Chrysler Award22, nel 1996 il Publish Magazine Impact Award23, nel 1997 AIGA

Cfr. Zuzana Licko, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 75. 22 Il Chrysler Award è stato istituito per la prima volta nel 1993. Questo premio viene assegnato a quanti hanno contribuito in modo innovativo nel campo dell’architettura e del design contemporaneo Statunitense. 21


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Gold Medal Award24 e nel 1998 Charles Nyples Award25. Infine, nel 2006, quando Aaron Betsky curatore della mostra permanente “Innovation in Digital Design” al Museum of Modern Art di San Francisco comunica a VanderLans il desiderio di acquistare l’intera collezione di «Emigre». Nel 1995, in «Emigre» numero 33, Keddy riflette sulla natura del design postmoderno. Egli sostiene che all’interno del design c’è sempre stato il conflitto tra il desiderio di essere un individualista espressivo e sperimentale e la necessità di standardizzare, sistematizzare il proprio lavoro. In estrema sintesi possiamo considerare la storia del design grafico del XX secolo è la storia di come si riconciliarono questi impulsi creativi in conflitto. All’inizio del secolo, artisti e architetti come Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879-1940), Vasilij Kandijsky (Mosca, 1866-1944), e Walter Grophius (Berlino, 1883-1969) cominciarono a sistematizzare la sperimentazione e razionalizzare l’espressione al Bauhaus. A metà del secolo, artisti commerciali nel settore della pubblicità crearono una cultura pop sfruttando al massimo i mass-media. Il XX secolo culmina, sostiene Keddy, con la riconciliazione finale, istituzionalizzando un sistema standard espressivo, un’identità sperimentale nota come “branding”. Per risolvere efficacemente i problemi, l’organizzazione delle informazioni, l’aumento della leggibilità e per risolvere le contraddizioni, il design è diventato poco più di una manifestazione di mediocrità culturale senza alternative. Keddy afferma che VanderLans e Licko attraverso la loro sperimentazione hanno dato vita ad un percorso alternativo, hanno seguito i loro istinto

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23 Il Publish Magazine Impact Award è stato assegnato per la prima volta nel 1995. Viene assegnato ogni anno alle aziende i cui prodotti dimostrano meglio l’innovazione nel campo dell’editoria. 24 AIGA Gold Medal Award, assegnata per la prima volta nel 1920, Viene dato come riconoscimento dei loro successi eccezionali, servizi o altri contributi al settore del design e della comunicazione visiva. Gli individui premiati possono lavorare in qualsiasi paese del mondo, ma il contributo per il quale vengono premiati dovrebbe avere un impatto significativo negli Stati Uniti.


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Foto scattata all’inaugurazione della mostra “Innovation in Digital Design” al Museum of Modern Art di San Francisco, 2006.


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anziché adeguarsi alla logica del mercato. Sono diventati i tipografi di loro stessi, promotori della propria marca, editori e distributori, praticando ciò che predicavano con un approccio fai da te26. Nel 2005, in «Emigre» numero 69, Catherine McCoy sostiene che ogni disciplina dipende dalla condivisione delle esperienze e conoscenze e dal lavoro critico. Spesso, la presenza del cliente e il confrontarsi con esso, l’organizzazione del lavoro e il budget preoccupano anche i più competenti designer che limitano la sperimentazione e la ricerca personale. I punti focali dell’impegno di «Emigre» secondo McCoy sono l’importanza degli agenti di cambiamento nel design. Non cambiare per il gusto di cambiare, ma cambiare per il bene della crescita, questo era il punto. «Emigre» è apparsa nel 1985, al culmine della rivoluzione digitale; in un momento in cui le nuove condizioni economiche, sociali e tecnologiche hanno catalizzato un’ondata di ricerca sperimentale mai vista prima. La pubblicazione ha servito da piattaforma critica, introducendo un lavoro e un pensiero alternativo rispetto alle norme e alla prassi comune della progettazione grafica27. Alla luce di quanto detto viene spontaneo porsi la domanda: l’assenza di «Emigre» influenzerà in qualche modo il mondo del design grafico? I tempi sono cambiati. Nel XXI secolo quasi chiunque può creare la propria rivista, i font, la musica e anche i film, per poi venderli da qualsiasi luogo. Il mandato di «Emigre» è meno urgente ora che tutti “ignorano i confini”. È confortante sape-

Il Charles Nyples Award è stato istituito dalla Charles Nyples Foundation per la prima volta nel 1985. Lo scopo della fondazione è stato quello di incoraggiare le innovazioni in tipografia. Per raggiungere questo obiettivo la Fondazione assegna un premio biennale di circa 15 000 Euro. 26 Cfr. Jeffrey Keddy, Graphic Design in the Postmodern Era, «Emigre», n. 33, 1998, p. 33. 27 Cfr. Katherine McCoy, Graphic Design in the Postmodern Era, «Emigre», n. 69, 2005, p. 41. 25

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re che oggigiorno c’è molto di più da leggere sul design grafico rispetto gli anni Ottanta. Altri designer si esprimono in forma scritta e ci sono più pubblicazioni di design, che vanno dalle riviste accademiche alle riviste professionali, dalle pubblicazioni digitali delle riviste basate sulle piattaforme web ai numerosi blog con diversi livelli di professionalità. Forse i blog stanno prendendo il ruolo di «Emigre» come luogo per voci alternative. Ma il loro contributo a lungo termine resta da indagare. L’attività di scrittura nei blog è una forma abbastanza effimera dell’editoria, che si conserverà solo fino a quando qualcuno continuerà a svolgere il lavoro di manutenzione del server. Le copie di «Emigre», d’altro canto, sono apprezzate, occupano migliaia di scaffali delle librerie di tutto il mondo e fanno risentire la loro influenza nel mercato dei libri usati e rari. Inoltre i blog di design sono in gran parte inediti, mentre «Emigre» godeva dell’intuito redazionale di VanderLans, che ha sempre richiesto un livello di rigore e raffinatezza ai suoi autori. Sfogliando le pagine di «Emigre» si percepisce con quanta dedizione e cura VanderLans e Licko si siano impegnati in questo progetto. La loro passione per il loro lavoro hanno reso

possibile che «Emigre» continuasse a evolversi e a ignorare i confini della progettazione per oltre vent’anni. VanderLans e Licko con i loro esperimenti e con le loro critiche a riguardo dell’Internetional Style hanno intrapreso un progetto che rispecchiava perfettamente il cambiamento di ottica che stava avvenendo e che mirava alla produzione di cultura e di un dibattito costruttivo. Hanno fornito un luogo dove i designer e gli autori potessero proporre e confrontare il proprio lavoro: hanno sperimentato i mezzi, i limiti e le libertà rese disponibili dalla rivoluzione digitale. Hanno creato il terreno fertile per una discussione sul design grafico.


NOTE CONCLUSIVE

A partire dagli anni Ottanta la grafica editoriale, al di là delle diverse concezioni espressive manifestate, entrava in un periodo di maturazione delle riflessioni su mezzi e strumenti della comunicazione visiva. L’introduzione delle tecnologie informatiche aveva sconvolto il mondo della grafica, da un lato aveva generato una sorta di euforia espressiva strettamente legata alle nuove possibilità delle tecniche di creazione e produzione digitali, dall’altro aveva portato a una messa in dubbio dei tradizionali mezzi di comunicazione editoriali cartacei come la rivista e il libro, a tal punto che verso la fine del secolo scorso si prevedevano mutamenti radicali. Nell’era del Web 2.01 si presentiva la “morte del libro” e la sua sostituzione con la versione digitale, l’e-book e l’imporsi di Internet su tutti i mezzi di informazione cartacei, riviste e giornali, poiché l’editoria cartacea sarebbe stata inadeguata a competere con la velocità di aggiornamento della rete. Sul piano delle strategie di mercato, si è assistito a un ridimensionamento delle strutture editoriali che ha visto la scomparsa quasi totale delle case editrici tradizionali nazionali di medie dimensioni e la creazione di grandi gruppi editoriali, anche internazionali, per fare fronte alla crisi delle vendite di libri e riviste. Oggi si constata una proliferazione di piccoli e piccolissimi editori indipendenti che puntano a prodotti di alta qualità sperimentalie che, tuttavia, esulano da questa trattazione. Alla luce di quanto elaborato nella tesi si può affermare che una delle ragioni principali che ha spinto RudyVanderLans(Voorburg, 1955) e Zuzana Licko (Bratislava, 1961) a portare a termine la loro ricerca nel 2005 con la pubblicazione dell’ultimo numero di «Emigre» è stata indubbiamente l’impossibilità di

II Web 2.0 è un termine utilizzato per indicare uno stato dell’evoluzione del World Wide Web, rispetto a una condizione precedente. Si indica come Web 2.0 l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono un elevato livello di interazione tra il sito web e l’utente come: i blog, i forum, le chat, i wiki, le piattaforme di condivisione di media. Il termine Web 2.0 è stato associato a Tim O’Reilly a causa della Web 2.0 conference alla fine del 2004. 1


competere con la velocità ed economicità delle pubblicazioni in rete. Ma più che concentrarsi sull’individuare la logica di questa dinamica concorrenziale tra la carta e il supporto informatico, parrebbe molto più interessante e promettente capire cos’è successo al lettore di massa. Ritorniamo dunque là da dove siamo partiti, dalla condizione postmoderna, per poter trarre delle considerazioni sugli esiti di quel periodo così inquieto. Nel primo capitolo si è trattato dei padri fondatori del postmodernismo; di Jacques Derrida (Algeri, 1930-2004) in particolare, un iper-decostruttivista che, in estrema sintesi, negli anni Settanta sosteneva che nulla esiste al di fuori del testo2, ma anche dell’interpretazione di Gianni Vattimo (Torino, 1936) il quale richiamandosi a quella corrente di pensiero, e a Nietchze in particolare, sostiene che nel mondo non ci sono verità ma solo interpretazioni3. Nella società di oggi pare ci sia la pretesa di far credere qualsiasi cosa. Nei telegiornali e nei talk shows si è assistito al regno del “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, logica che ha accompagnato anche i casi noti come fatti oggettivi. Così come affermato da Maurizio Ferraris (Torino, 1956) nel suo celebre Manifesto del nuovo realismo, la superiorità delle interpretazioni sopra i fatti e il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esisti emancipativi profetizzati da professori come: Derrida oppure Vattimo. L’esperienza dei populismi mediatici, delle guerre post 11 Settembre e della recente crisi economica hanno portato una pesantissima smentita di due dogmi centrali del postmodernismo: l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. Questo momento è forse la presa d’atto di un

Cfr. Hal Foster, The anti-aesthetic: essays on postmodern culture, Port Townsednd, Bay Press 1983, p. 93. 3 Cfr. Gianni Vattimo, Oltre L’Interpretazione: Il Significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma, Laterza 1994, p. 19. 2


cambio di stagione4. Detto ciò, Ferraris non intende affatto sostenere che nel mondo sociale non ci siano interpretazioni. Al contrario lui afferma che quello che ci serve ora non è tanto una nuova teoria della realtà, quanto un lavoro che sappia distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e cosa è culturale, che cosa e costruito e cosa no. È qui che si aprono le grandi sfide, etiche e politiche, e si disegna un nuovo spazio per la filosofia, conclude Ferraris5. Il fatto di ritrovarsi in questa realtà ancora da costruire rende ancora più difficile individuare un percorso alternativo, cosi come VanderLans, Licko o altri designer come April Greiman (New York, 1948), Neville Brody (Londra, 1956) e David Carson (Texas, 1954) auspicavano con i loro progetti. L’unica cosa certa è che oggi giorno si ha a che fare con un lettore di massa molto più consapevole e attento rispetto a quello di trent’anni fa. Il lettore pare essere infastidito da quelle teorie decostruttiviste di cui si parlava così tanto negli anni Settanta e che hanno dato vita a risultati caotici e a-estetici come: «RayGun» (1992), «The Face» (1980), «i-D» (1980) o «Emigre» (1984). Infastidito forse perché trovandosi in difficoltà a decostruire e interpretare elaborati sempre più ermeneutici che gli venivano proposti senza nessuna spiegazione da parte dell’autore, oppure perché non aveva più bisogno solo di interpretazioni soggettive, ma voleva che le informazioni venissero riportate con oggettività, per lo meno dal punto di vista dei contenuti. Il magazine ha sempre avuto, fin dai suoi esordi nella storia, il ruolo di catalizzatore di idee, di luogo di incontro, per riflettere sulla società contemporanea e per far riflettere il pubblico su-

Cfr. Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma, Laterza 2012, p. 102. 5 Cfr. Ivi, 111. 4


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gli avvenimenti e sul mondo circostante. Questo ruolo rimarrà tale anche negli anni a venire, quello che forse cambierà sarà il ruolo del designer. Come affermava VanderLans in Emigre: Graphic design into the digital realm il ruolo sociale del designer è quello di educare il lettore, ma per fare ciò prima deve fornire loro la chiave di lettura, altrimenti il lettore tenderà a rifiutare qualcosa che non capisce6. Prima ancora di dare questa chiave di lettura, pensiamo, che il designer debba avere innanzitutto l’abilita di capire le esigenze del lettore stesso. Alla luce di quanto detto, sembra lecito porsi la domanda: la mancanza di sperimentazione nel campo dell’editoria cartacea è una conseguenza dell’abbandono da parte del designer del suo naturale ruolo sociale? E se si, perché questo abbandono? È possibile sostenere la tesi chei designer si trovino in difficoltà a comprendere il lettore perché egli stesso non sa cosa vuole?

6 Rudy VanderLans, Zuzana Licko , Mary E. Gray, Jeffrey Keedy, Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, New Yorks, John Wiley & Sons Inc 1993, p. 77.


RINGRAZIAMENTI

Un ringrazimento particolare a: mia mamma e mio papà, per aver creduto nelle mie capacità e per avermi dato la fiducia permettendomi di intraprendere questo percorso. Mia zia e mia cugina, per non avermi mai lasciata da sola in questi quattro anni e per avermi dato coraggio nei momenti più difficili. Prof.ssa Caterina Franchini, per avermi accettato come tesista, per la sua disponibilità, pazienza e per la serenità e tranquilità trasmessa dopo ogni revisione. Prof. Pier Paolo Perruccio, per l’aiuto nella fase di ricerca, per il materiale fornito e i consigli utili. Davide Mugnieco, per i consigli e le revisioni effettuate fino alla fine, per il supporto fisico e morale. Francesco Mondino, per avermi sostenuta, sopportata e rassicurata soprattutto negli ultimi giorni di stesura della tesi. Le mie amiche più care Alessia Giazzi e Giulia Cappelo, per avermi ascoltata e consigliata fino alla fine. Tutti coloro che non potendo essermi vicino di persona hanno saputo darmi il loro sostegno in altri modi.



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News e articoli critici sul design, architettura, urbanistica e cultura di massa: <http://www. designobserver.com> (ultimo accesso: 21.10.13) Sitto ufficiale Edward Fella Design: <http://www. edfella.com> (ultimo accesso: 13.09.13) Sitto ufficiale di «Emigre»: <http://www.emigre.com> (ultimo accesso: 05.08.13) Rivista on-line «Eye»: <http:// www.eyemagazine. com> (ultimo accesso: 13.08.13) Rivista on-line «i-D»: <http://www.id-mag.com> (ultimo accesso: 22.08.13) Rivista on-line «Print»: <http://www.printmag.com> (ultimo accesso: 08.08.13) Rivista on-line «Ray Gun»: <http://www.raygun.com> (ultimo accesso: 06.08.13) Archivio on-line di scritti critici sul graphic design da Patrick Broderick: <http://www.rotodesign.com> (online accesso: 25.09.13)


Rivista on-line «Speak Up»: <http://www.speakupmag. org> (ultimo accesso: 15.09.13)




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