Amerindia - Eroi e Rivoluzionari

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10/2014

Eroi e rivoluzionari

RESISTENZA E INDIPENDENTISMO VERSO LA PATRIA GRANDE NUESTRAMÉRICA LE RIVOLUZIONI


SOMMARIO

Eroi e rivoluzionari

Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli Coordinatrice generale: Marnoglia Hernández Groeneveledt Coordinatrice di redazione: Emilia Saggiomo Hanno collaborato: Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia, Geraldina Colotti, Marnoglia Hernández Groeneveledt, Alessandra Riccio, Emilia Saggiomo, René Velásquez (articoli); Porfirio Hernández, Indira Pineda (partecipazione) Testi selezionati di: Alejandro Casas, Pablo Neruda, Eduardo Galeano, Gabriel García Márquez, Luis Vitale, Arturo Warman Traduttori: Ciro Brescia, Samanta Catastini, Marco Nieli, Pier Paolo Palermo, Simona Palumbo, Emilia Saggiomo Fonti: AA.VV., Concurso “Salón Libertadores y Héroes sociales de Latinoamérica y el Caribe”, pubblicazione a cura del Ministero del Potere Popolare per gli Affari Esteri, Repubblica Bolivariana del Venezuela; avn.info.ve, correodelorinoco.gob.ve, Alejandro Casas: Pensamiento sobre Integración y Latinoamericanismo, Ediciones Ántropos, Bogotá, Colombia, 2007; Ufficio del Viceministro per l’Africa della Cancelleria del Venezuela (da afroamiga.wordpress.com); Nina Bruni: La insurrección del Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela in Cuadernos Americanos 144 (México, 2013/2, pp. 205-225); Juan José Ramirez: alcaldiadematurin.gob.ve; radiocomunaelhatillo.blogspot.it, treccani.it, ccsbmontreal.org, blogs.elpais.com, pablo-neruda2-france.blogspot.com, sagarana.it, bbc. com, radiomundial.com.ve, theprisma.co.uk, simonbolivar.gob.ve, kyky.org, nocturnar.com, collater.al, psuvelhatillo.blogspot.com, albaciudad.org., granma.cu, 5av.it, eldiariointernacional.com, aporrea.org, alainet.org, muralespoliticos.blogspot.it Contatti: via A. Depretis, 102 – Napoli Tel.: +39 081 5518159 Per scrivere alla redazione: convenap. cultura@gmail.com Consulado General de la República Bolivariana de Venezuela en Nápoles ConsulVenNap www.consulvenenap.com Elaborazione Grafica: Dario Buonanno e Pino Buonanno

3 Editoriale

Eroi rivoluzionari di Marnoglia Hernández Groeneveledt

4 Resistenza e indipendentismo.Verso la patria grande 6 La resistenza indigena di Luis Vitale

10 Eroi ed eroine afrovenezuelani

di AA.VV. / Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia

16 Pensiero sull’integrazione e il latino americanismo.

Progetto unionista nell’Indipendenza di Alejandro Casas 21 Bolívar e Chávez: due epoche, due giganti, un progetto di René Velásquez 25 Manuela Sáenz, la Colonnella d’America di Marnoglia Hernández Groeneveledt 28 Da Anacaona a La Pola, L’America latina riscopre le sue eroine di Emilia Saggiomo

32 Nuestramérica. Le rivoluzioni 34 La Rivoluzione messicana

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di AA.VV. Novantanove anni fa Zapata e Pancho Villa di Adrián Durán Sandino, esaltatore dell’identità latinoamericana da “Correo del Orinoco” La Rivoluzione cubana di AA.VV. Storia di un’amicizia: il Che e Fidel di Alessandra Riccio La morte del Che di Julio Cortázar Salvador Allende attraverso gli scritti di Pablo Neruda / Gabriel García Márquez / Eduardo Galeano Storie di guerrilleros (In Venezuela ; Identità latinoamericana e guerrilla) di Geraldina Colotti

Agenzia di Pubblicità: Adek | adekcreative.it Foto di copertina: Dario Buonanno

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Il Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli declina ogni responsabilità circa la correttezza o completezza delle informazioni rese disponibili; inoltre, al di là di possibili affinità o divergenze di pensiero rispetto ai contenuti degli articoli, garantisce ai suoi collaboratori la libertà di espressione della loro personale opinione. Infine, la sede diplomatica si riserva esplicitamente la facoltà di sottoporre a revisione e, ove necessario, a correzione i testi tradotti, nonché di sospendere temporaneamente o definitivamente la pubblicazione di un articolo.


EDITORIALE

Eroi rivoluzionari di Marnoglia Hernández Groeneveledt*

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i può essere eroi senza essere rivoluzionari? O essere rivoluzionari senza essere eroi? Eroe è colui che compie atti coraggiosi diventando un personaggio degno di ammirazione che si distingue per le sue gesta e virtù. Nella mitologia greca l’eroe è un semidio, figlio di un dio e di un essere umano. D’altro canto, il rivoluzionario è qualcuno che con le proprie azioni provoca cambiamenti profondi nelle istituzioni politiche, economiche e sociali di un territorio. L’eroe politico-sociale è obbligato a essere rivoluzionario: dalla sua impresa valorosa dipenderà il destino altrui. Sebbene il rivoluzionario cambi il corso della storia attraverso le sue idee e azioni, tuttavia questi non suscita negli altri ammirazione immediata e, al contrario, provoca una moltitudine di detrattori: per questa ragione molti rivoluzionari non sono considerati eroi. Gli eroi rivoluzionari sono uomini e donne che hanno dato la vita in nome di una causa: per la terra, per la liber-

tà, per l’unione, per la giustizia sociale. Uomini e donne che hanno scosso una società e il cui modo di agire segna un precedente che cambia il destino di migliaia di persone. Sono eroi in carne e ossa, lontani dalla mitologia, persone che hanno osato fare grandi passi, che hanno tralasciato il benessere individuale e si sono consacrate alla lotta degli oppressi, degli emarginati, all’impegno nella costruzione di un’altra società, senza uniformarsi all’ordine stabilito e decidendo di combattere per i propri ideali. Da Mexicali a Capo Horn, la storia dell’America Latina è stata scritta da eroi rivoluzionari, con il loro valore e con il loro coraggio. Il lascito latinoamericano trasmesso al mondo intero è quello della resistenza indigena, con il coraggio di Lautaro e la prodezza di Cuauthémoc; quello delle gesta indipendentiste, la grandezza di Bolívar, l’audacia di Miranda, la passione di Sáenz e l’ingegno di San Martín; quello dei movimenti rivoluzionari nell’America Latina del Novecento, la rivolu-

zione di Zapata in Messico per la terra e la libertà, la rivoluzione cubana e il Che, la democrazia socialista del presidente Allende. Eventi e processi epici che preparano il Continente al consolidamento della Patria Grande nel XXI secolo. Questo numero è dedicato alla memoria dei creatori della Patria, dei combattenti per la libertà e per la giustizia, di coloro che nacquero mortali e che nella lotta divennero eterni; alle rivoluzioni che questi uomini e queste donne hanno concepito e compiuto, e all’eredità di cui hanno lasciato il seme in ogni dove in America Latina; eredità che li proclama oggi e sempre eroi rivoluzionari. Traduzione di Emilia Saggiomo * Console Responsabile cultura Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

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Resistenza e indipendentismo Verso la patria grande


La resistenza degli indigeni

di Luis Vitale*

Tra le tante leggende che ritroviamo nella tradizionale storiografia si distingue quella in cui si dice che gli indigeni, dopo aver ricevuto occhiali e bigiotteria, si sottomisero rapidamente ai colonizzatori. La resistenza degli indigeni ha avuto due fasi, una che riguarda i primi anni della conquista militare, caratterizzata da una forte difesa dell’etnia e della terra; e l’altra che riguarda soprattutto l’interminabile spedizione dove i conflitti tra etnie si intersecano con le lotte contro lo sfruttamento nelle miniere, fattorie e piantagioni. In generale, si potrebbe dire che popoli come i cañaris, mapuches, caribes, charrúas, tribù amazzoniche, ecc, -

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non soggetti ad imposta o a qualsiasi Stato, furono quelli più attivi e resistenti da un punto di vista militare. Tuttavia, altri, come gli Aztechi e Incas furono inizialmente i più sorpresi; alcuni, non concordi con il dominio dello Stato inca o azteco e con la tassazione forzata, all’inizio approvarono i ranghi spagnoli, credendo di liberarsi della precedente sudditanza. Ossia, il dominio dello Stato azteco ed inca e il suo sistema fiscale spianarono la strada per la conquista spagnola, generando il malcontento di molte tribù che, in una certa misura, li abituò alla tassazione. Al contrario, popoli come i Mapuches resistettero per più di tre secoli agli

spagnoli, nello stesso modo in cui avevano affrontato gli Incas [...] In realtà, i Mapuches non furono mai sottomessi, non furono costretti a pagare le tasse o ad obbedire al padrone. Anche altri popoli con esperienze simili, come i Charrúas ed i pampa argentini, non si inchinarono mai agli spagnoli. In ogni caso, sia l’uno che l’altro mostrarono una spietata resistenza nei confronti dei conquistadores. Seguendo il percorso della conquista spagnola, si può anche comprendere la lotta che intrapresero i Popoli Indigeni. Nell’isola La Espanola i Tainos intorno al 1500 realizzarono la prima spedizione contro gli spagnoli in America Latina. Secondo Roberto Cassà : “Il capo tribù indiano di Managua, Caonabo, guidò una lega militare di capi tribù indiani che riuscì ad ostacolare i propositi degli spagnoli. In seguito alla cattura di questo capo tribù indiano, si formò ancora un’altra lega più estesa dove apparentemente misero la maggior parte dei capi tribù indiani del settore centrale dell’isola e anche di altre regioni. La grande capacità di resistenza degli indigeni obbligò Colombo a pianificare una campagna che sarebbe durata diversi mesi e che portò poi alla totale sconfitta degli indios dopo una serie di scontri che culminarono nel combattimento del Santo Cerro”.1 I Tainos inizialmente si opposero rifiutandosi di pagare le tasse poi passarono ad altre forme di resistenza come la fuga verso le montagne, campi agricoli abbandonati per costringere gli spagnoli a lasciare l’isola per la fame, diffusa pratica di aborti e di alcuni suicidi individuali e collettivi. L’insurrezione più importante fu guidata da Enriquillo, capo tribù delle montagne del Baoruco, che riuscì ad unificare dopo 15 anni di lotta (15191533) diverse comunità e a far arruolare numerosi compatrioti che avevano abbandonato i propri incarichi. Le doti militari di Enriquillo si esternavano soprattutto nella capacità di scegliere le zone inaccessibili al nemico, 1 ROBERTO CASSA: Historia Social y Económica de la República Dominicana, Tomo I, p. 41, Ed. Alfa y Omega, Santo Domingo, 1978.


forniture sicure, scegliere per bene gli informatori e affrontare gli spagnoli nel campo più adeguato alle proprie esigenze. Enriquillo riuscì, per la prima volta in America, ad unirsi nella lotta con gli schiavi neri che si erano ribellati nella regione di Baoruco. Entrambe impiegavano la loro forza militare contro i conquistadores, sabotando le miniere d’oro del Cibao e le piantagioni, dove di solito gli spagnoli cercavano di convertire al cristianesimo gli indigeni e neri che lavoravano nelle encomiendas e nei campi che producevano zucchero. [...] Uno degli eroi della resistenza sudamericana all’epoca della colonizzazione spagnola fu l’indio Hatuey che arrivò a Cuba, fuggendo dalla persecuzione dei conquistatori , da una piccola isola nell’arcipelago della Hispaniola. Nella parte orientale di Cuba organizzò una guerriglia insieme ai Tainos. [...] Quando, catturato e legato ad un palo, un religioso di San francisco gli disse che sarebbe stato meglio morire da cristiano e che quindi avrebbe dovuto ricevere il battesimo egli rispose “per quale motivo, se i devoti di questa religione sono cattivi?”. Il Padre replicò: “coloro che muoiono da cristiani andranno in cielo, vedranno Dio e avranno gioia”. Egli chiese se in cielo sarebbero andati tutti i cristiani. Il Padre continuò dicendo che sarebbero andati solo coloro che si erano mostrati buoni. Al che concluse che non voleva andarci, perché essi andando lassù poi ci restavano per sempre.2 Quindi fu bruciato al rogo. [...] Gli Aztechi, a differenza degli Incas, furono conquistati rapidamente, in quanto l’unità dell’impero era meno solida e l’insoddisfazione di alcuni villaggi era maggiore. Difatti quando Hernán Cortés sbarcò e successivamente occupò Veracruz assediando Tenochtitlán, molti indigeni abbandonarono Moctezuma e altri, come gli indi Totonacas e Tlaxcalani passarono al fronte spagnolo. Tuttavia, 2 BARTOLOME DE LAS CASAS: Historia de las Indias, libro III, Cap. XXV, Ed. Aguilar, Madrid, 1927.

Tenochtitlán, che era ben sviluppata politicamente ed etnicamente omogenea combatté fino alla resa dell’ eroico Cuauhtémoc nell’agosto del 1531. Cuauhtémoc fu selvaggiamente torturato da Cortés rifiutandosi di indicare dove erano nascosti i tesori del suo popolo. [...] La tecnica adottata da Cuauhtémoc per la gestione delle ricchezze della propria cultura fu seguita da diverse popolazioni del Messico che ricoprivano i monumenti e le opere d’arte con terra e rami, - come possiamo ammirare nella piramide delle sette Culture Cholula- affinchè i conquistatori non li distruggessero o si impadronissero di essi con fini di lucro. Questa tradizione di difesa della cultura indigena e di ripudio nei confronti della conquista spagnola è rimasta così salda nel tempo che il popolo messicano è uno dei pochi in America Latina che ha statue di conquistadores spagnoli nei luoghi pubblici. Ricoprire le opere d’arte fu una forma di resistenza aborigena che non finì con la caduta della capitale dell’impero azteco. Dal 15241528, a Oaxaca, i Zapotechi minacciarono gli spagnoli. [...] In America Centrale si ebbe una forte resistenza ai conquistatori, un esempio fu Gil Gonzalez, che riuscì a sottomettere gli indigeni dell’Honduras, o ancora Pedrarias Dávila che fu nominato governatore del Nicaragua. Tuttavia, essi non riuscirono mai a sconfiggere il capo tribù Urraca, che affrontò per nove anni l’esercito spagnolo, utilizzando diverse tattiche di guerriglia. [...] In Colombia, i conquistatori trovarono resistenza nel capo tribù Bogotá che combatté per diverso tempo; suo figlio fu torturato dagli spagnoli. Questi ultimi miravano al tesoro di Bogotà. La morte del torturato non abbatté gli indigeni che riuscirono ad organizzare una nuova resistenza sotto il comando di Sagipa, un nipote di Bogotá. Si combatté sulle montagne del Gaitana, della panchea, los Pijaos de Ibague e le

chimilas di Santa Marta. 3 L’impero Inca ebbe una maggiore resistenza rispetto al popolo azteca grazie ad una più efficiente organizzazione territoriale e politica. La prigionia di Atahualpa e l’entrata di Pizarro a Cuzco nel 1533 non riuscirono a schiacciare gli indiani. Manco Inka assunse il comando del suo popolo marciando fino ad arrivare nel 1535 ad assediare Cuzco con l’intenzione di cacciare gli spagnoli. Vi trovarono una forte difesa e per tale motivo furono costretti a dar fuoco alla loro città. La resistenza momentaneamente si indebolì per la defezione dei “Canari” (Ecuador), che mai accettarono il dominio dello Stato Inca. La lotta ricominciò nella zona di Vilcabamba, dove gli indigeni del luogo e gli Incas riuscirono a costruire in breve tempo una grande fortezza. L’archeologo peruviano Edmundo Guillén ha riscoperto nel 1976 l’intera fortezza e nonostante la rapidità con cui fu costruita per far fronte ai conquistatori, è un’opera d’arte straordinaria quanto Macchu Picchu. La statua del leader della resistenza, Túpac Amaru, fu eseguita dal viceré Francisco de Toledo nel 1572. [...] I conquistadores guidati da Diego de Almagro, e poi da Pedro de Valdivia, continuarono l’esplorazione verso sud alla ricerca di El Dorado. Non lo trovarono. Trovarono, invece, la più fervida resistenza aborigena. I Mapuches (Mapu = Terra, Che = popolo), chiamati Araucaniani dagli spagnoli, che resistettero per tre secoli in una delle guerre più lunghe della storia universale, infliggendo agli invasori una perdita di soldati compresi tra 25 e 50.000 per l’intera campagna. [...] La prolungata resistenza fu dovuta non solo all’ingegno militare di leader come Lautaro, Caupolicán e Pelantaru, bensì fondamentalmente al sostegno attivo delle popolazioni indigene. La guerra Arauco fu una guerra vera e propria; una guerra popolare che durò tre secoli ispirata dal profondo 3 JUAN FRIEDE: La conquista del territorio y el poblamiento, en Manual de Historia de Colombia, T. I, p. 106, Bogotá, 1978.

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odio che gli indigeni provavano nei confronti dei conquistatori. I motivi di tale tenacia furono la difesa del territorio, le tribù, i costumi e il diritto di vivere liberamente in piccoli villaggi. [...] Gli indios delle pampas argentine furono tenuti sotto controllo per tutta la campagna spagnola. La colonizzazione della provincia di Buenos Aires, non avvenne oltre i 100 chilometri dal porto. Neanche gli spagnoli furono in grado di dominare l’area centro-nord a causa della spietata resistenza indigena. I Charrúas dell’ Uruguay sconfissero i primi conquistadores guidati da Juan de Solis nel 1516. Soltanto un secolo dopo, gli spagnoli osarono addentrarsi in questa zona, guidati da Hernandarias de Saavedra, che fu comunque sconfitto dai Charrúas. Solo i gesuiti ed i francescani furono in grado di garantire un certo assoggettamento mediante la fondazione di colonie, come quella di Soriano nel 1624. Pertanto alla fine della campagna, i Mapuches, i pampas ed i charrúas mantennero la maggior parte delle terre che già possedevano prima della conquista spagnola. I Guarani della zona paraguaiana, i guaycuríes del Chaco argentino e la

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regione brasiliana limitrofa del Paraguay nel 1525 affrontarono i primi conquistadores, uccidendo in breve tempo Alejo García, che era andato alla ricerca della Sierra del Plata. Più tardi, sconfissero anche il navigatore Sebastiano Caboto, il primo ad attraversare con navi europee il fiume Paraguay. Sia Garcia che Caboto fallirono nel tentativo di conquistare la terra con “sangue e fuoco”. Trovarono invece la feroce resistenza dei Guarani,” più facili da persuadere che da sottomettere”. 4 Gli indigeni del Brasile combatterono con i portoghesi; dopo la sconfitta si ritirarono nella foresta, qui fronteggiarono alcuni schiavi neri in rivolta. Alcune tribù delle Amazzoni si unirono a quelle dell’ Orinoco, ma in particolar modo ai Caribes, sorprendendo con imboscate i conquistadores. I caribes fecero diverse incursioni nelle Antille, lungo la costa e all’interno del Venezuela, arrivando a scontrarsi con gli spagnoli a Valencia (1572-1584). Attaccavano e nascondevano le loro canoe nel Guárico per tornare poi alla base di sicurezza, l’imponente Orinoco.

Secondo i cronisti, uno dei primi importanti scontri armati tra gli spagnoli e gli indiani si verificò sulla coste venezuelane nel 1515. Quattro anni più tardi, ci fu la ribellione. Il cronista Gonzalo Fernández de Oviedo e Valdes ha detto che “nel 1519, nello stesso giorno, gli indios di Cumana, quelli di Cariaco, di Chiribichi, Maracapana, Tacarras, Neveri e Unari si ribellarono e uccisero principalmente nella provincia di Maracapana circa ottanta cristiani spagnoli in meno di un mese”.5 Uno dei capi indios più importanti fu Guaicaipuro. Egli fece il suo primo intervento nelle miniere d’oro di Los Teques quando aveva appena venticinque anni. Riuscì a coordinare le tribù del centroamerica e a costituire un esercito di oltre 14.000 uomini tra il 1560 e il 1568. Il suo desiderio di guidare non solo la lotta dei popoli indigeni ma anche quella degli schiavi neri, fu espresso nel tentativo di combinare le battaglie degli indigeni con quelle dei seguaci di Miguel, capo della rivolta dei neri nel Venezuela occidentale. Guaicaipuro affrontò il più coraggioso degli spagnoli, Diego de Losada, che,

4 EFRAIM CARDOZO: Breve Historia del Paraguay, p. 10, Ed. Eudeba, Buenos Aires, 1965.

5 GONZALO FERNANDEZ DE OVIEDO Y VALDES: Historia General y Natural de las Indias, Bibl. de la Academia Nacional de la Historia, Vol. 58, T. I, p. 62 y 63, Caracas.


secondo il cronista José de Oviedo y Baños, “si trovò di fronte a più di diecimila indiani guidati dal capo tribù Guaicaipuro. Essi al battito dei tamburi e al risuonare dei fotutos annunciavano la nobile battaglia” .6 Il cronista ha distintamente sottolineato la prodezza di Gayauta, di Tiuna e dei bambini indigeni, come anche la strategia di guerra di Guaicaipuro che “incominciò a far commuovere i capi tribù indiani, ad agitare le nazioni e a fare in modo che queste ultime, interessate al bene comune, si presentassero completamente armate”.7 Insieme a Terepaima, Guaicaipuro riuscì a sconfiggere più volte Fajardo e altri comandanti spagnoli. Consapevole del pericolo, il governatore decise di organizzare una grande spedizione al comando di Diego de Losada, che dopo diversi attacchi riuscì a sconfiggere l’esercito di Guaicaipuro nel 1568. Tuttavia dopo la morte Guaicaipuro, la lotta continuò per diversi decenni con il comandante Pacamaconi e Conopoima. Tamanaco riuscì a radunare circa 15.000 uomini che fecero irruzione negli accampamenti e nei villaggi spagnoli. Fu sconfitto e condannato a tormentarsi come un cane rabbioso. [...] Il popolo dei Caribes fu quello che nelle Antille oppose maggiore resistenza ai conquistadores affrontando spagnoli ma anche inglesi, francesi ed olandesi. Gli spagnoli furono sempre sorpresi dalle incursioni dei Caribes. I francesi furono respinti quando nel 1635 cercarono di occupare l’isola di Dominica. Nel Guadalupe i Caribes resistettero a lungo fino a quando non furono sconfitti nel 1640. Tuttavia tornarono a ribellarsi nel 1653, devastando le isole di Grenada e San Vicente; stavano per conquistare la Martinica. Nel 1657 attaccarono diverse isole con una rivolta globale e ben guidata ma furono sopraffatti dal generale Du Parquet, che propose ai 6.000 Caribes

di vivere in pace a Dominica e San Vicente dove gli sarebbero state concesse delle terre. È importante sottolineare che, nelle insurrezioni dei Caribes furono coinvolti schiavi neri che riuscirono a scappare dalle numerose piantagioni che vi erano nelle Antille. Durante la resistenza gli aborigeni impiegarono diverse tattiche e metodi di lotta. Dopo le disastrose conseguenze delle prime esperienze, di attaccare in massa, gli indigeni riadattarono la loro tattica e affrontarono gli spagnoli attaccandoli a gruppi; in alcuni casi si arrivò a combinare i metodi che caratterizzavano una guerra di gruppo con quelli adottati in una guerra fatta di spostamenti ovvero concentrare le forze per attaccare, disperderle rapidamente e fare un nuovo attacco a lungo raggio, muovendosi in ampie fronti di lotta. [...] La genialità delle popolazioni indigene nel trarre conclusioni rapide sulle proprie esperienze militari si evidenziò anche nell’invenzione di nuove armi. In pochi anni sostituirono arco e freccia con le clave, scudi e lance con punta in acciaio, utilizzando strumenti di ferro che traevano dalle miniere o dalle armi nemiche. Ben presto impararono ad usare armi da fuoco, come i

moschetti e cannoni. Iniziarono a raccogliere lo zolfo per mettere a punto la polvere da sparo. Un’altra invenzione dei Mapuches fu il laccio, con il quale sorpresero gli spagnoli nella battaglia di Marigüeño, facendoli cadere dai loro cavalli. Uno degli aspetti più rilevanti della resistenza fu l’unità d’azione che si raggiunse in innumerevoli occasioni tra le ribellioni degli indigeni e quelle degli schiavi neri. Esempi notevoli di questa lotta comune furono Miguel il Nero a metà del XVI secolo in Venezuela e Enriquillo Bahoruco nella zona di Baoruco sull’isola La Española. Nonostante i combattimenti, gli aborigeni non poterono mai passare all’ offensiva strategica. Non superarono la tappa della difesa attiva e della controffensiva sporadica. È noto che al trionfo finale si arriva solo quando si conviene ad una guerra regolare, guerra realizzata con metodi convenzionali. [...] Traduzione di Simona Palumbo *Storico argentino-cileno

6 JOSE DE OVIEDO Y BAÑOS: Historia de la conquista y población de la provincia de Venezuela, Capítulo III, Bibl. de la Academia Nac. de la Historia, Caracas. 7 Ibid., Cap. IX, p. 54.

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Eroi ed eroine afrovenezuelani

di AA.VV.*

Con le loro idee e con le loro lotte hanno segnato la storia del Venezuela, sebbene rimangano sconosciuti ad alcuni. Un buon motivo per raccontare, almeno in breve, le azioni eroiche dei ribelli venezuelani afrodiscendenti, precursori dell’Indipendentismo.

HIPÓLITA E MATEA BOLÍVAR

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ipólita e Matea rimasero con il piccolo Simón di nove anni quando nel 1792 morì ancora molto giovane sua madre María Concepción Palacios. Hipólita lo adottò come figlio proprio mentre Matea lo curava come un fratellino. Le due donne lo accompagnarono nel penoso calvario, seguito alla morte nel 1803 di sua moglie María Teresa del Toro nella casa “El Ingenio” a San Mateo. Anni dopo, lo videro arrivare trionfante a Caracas nell’agosto del 1813, in

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seguito alla Campagna Ammirevole. Agirono come soldatesse e infermiere, quando la bella casa di San Mateo si trasformò in quartier generale dell’Esercito Liberatore. Bolívar per loro continuava a essere “il piccolo Simoncito”. Molti raccontavano che il Liberatore, nel vederle, dichiarò: “ecco le mie amate negre: Hipólita che mi ha dato da mangiare, Matea che mi ha insegnato i miei primi passi”.

Hipólita Bolívar era nata a San Mateo, stato di Aragua, nel 1763 e Matea Bolívar a San José de Tiznados, stato Guárico, nel 1773. I loro nomi sono da sempre nella memoria del Venezuela perché rappresentano la negritudine, l’afro-discendenza, l’identità venezuelana, oltre alla storia tenera e bella del Padre della Patria durante la sua infanzia, adolescenza e gioventù.


JUAN ANDRÉS LÓPEZ DEL ROSARIO, DETTO “ANDRESOTE”

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i dice che fosse nativo di Valencia, stato Carabobo, figlio di un afro-discendente e di un’indigena. Era uno zambo (cioè un meticcio nato da un genitore indio e da un genitore nero africano) schiavizzato in una hacienda di Yagua, proprietà di un Portoghese. Lottò contro la schiavitù e l’ingiusti-

zia degli Spagnoli e della compagnia Güipuzcoana, che voleva mantenere i suoi privilegi, uccidendo e punendo tutti quelli che non le obbedivano, non pagando il salario e mantenendo schiavizzati i negri e gli aborigeni. Il movimento di Andresote è uno dei primi organizzati contro gli Spagnoli – va contestualizzato tra i movimenti di pre-independenza, iniziati dal negro Miguel de Buría a Yaracuy, continuati con la rivolta del negro Guillermo a Barlovento e con quella dell’eroico José Leonardo Chirino nella sierra di Coro a Falcón – e vi presero parte aborigeni, negri, zambos, mulatti e bianchi creoli uniti in una lotta comune. La rivolta ebbe successo ma subito Andresote si vide obbligato ad abbandonare la lotta: con alcuni seguaci, si imbarcò su di un battello olandese – tra il 1732 e il 1735, nella regione del fiume Yaracuy - e non ritornò mai più in Venezuela. Ma tra le montagne dello Yaracuy rimase il focolaio della

ribellione, che arrivò a essere dominato solo grazie alla collaborazione che i missionari cappuccini offrirono alle autorità.

JUANA RAMÍREZ, “LA AVANZADORA”

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el 1790 nacque, nella hacienda di cacao dei Ramírez Rojas a Chaguaramas, a Piar nello stato Mongas, la mulatta Juana Ramírez. Dalla cucina, Juana ascoltava le notizie che alimentavano il suo spirito libertario. A 15 anni era già la mano destra del Generale Don Andrés Rojas ed era pronta ad affrontare le avventure della guerra; a vent’anni - mentre aveva luogo la rivolta del 1810, la Prima Repubblica - Juana era diventata una donna molto imponente e carismatica, che infondeva agli schiavizzati la passione per la lotta indipendentista. È così che, tra il 1813 e il 1814, Juana partecipò alle cinque battaglie che si realizzarono nelle vicinanze di Maturín contro Antonio Zuazola, de La Hoz, Monteverde e Morales. La più ricordata è quella di Alto de los Godos, una battaglia che, grazie all’intrepida avanzata di Juana fu una vittoria sicura per i patrioti: a causa di quest’episodio, l’eroina venezuelana è conosciuta come Juana “La Avanzadora”. Inoltre, Juana fondò il famoso battaglione che fu chiamato “Batteria delle Donne” formato da tutte le donne del popolo.

LEONARDO INFANTE

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ato a Maturín, stato Monagas, nel 1795, discendeva da una famiglia povera, abituata al rigore della servitù. Espresse fin dall’infanzia tutto il suo odio verso l’oppressione e l’amore per la libertà. A quindici anni di età, Infante, con tutta l’energia e la decisione del suo carattere, si manifestò devoto alla grande rivoluzione che assicurò le nostre libertà pubbliche. La rivoluzione del 1810 operò in quell’anima una trasfigurazione: l’uomo della pianura si trasformò in arcangelo della guerra. Con il suo comportamento nell’azio-

ne di Carabobo Infante si guadagnò le simpatie del Liberatore e il grado di Comandante, che lo destinò a servire nella cavalleria leggera per le sue brillanti attitudini nel maneggio della lancia. Il 17 aprile del 1818 a San José de Tiznados, nel luogo conosciuto come il Rincón de los Toros, salvò Simón Bolívar, in seguito a un agguato dei realisti. Partecipò insieme al Liberatore alle battaglie liberatrici della Nuova Granada, ottenendo il trionfo in ognuna di esse. Fu catturato e fucilato il 26 marzo del 1826.

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LUIS BELTRÁN PRIETO FIGUEROA

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u uno dei più importante educatori venezuelani del secolo XX, promotore di una educazione democratica, gratuita e obbligatoria, nonché distinto lottatore per i diritti del popolo. Nato a La Asunción, stato Nueva Esparta, il 14 marzo 1902, si laureò al liceo Caracas, diretto dal maestro Rómulo Gallegos e a 18 anni cominciò a lavorare come maestro di scuola nell’Isola di Margarita: da quel momento, non tralasciò di trasmettere i suoi insegnamenti a bambini e giovani. Dottore in scienze politiche e sociali all’Università Centrale del Venezuela, fu co-fondatore di diverse organizzazioni politiche di indirizzo democratico e popolare. Come conseguenza del colpo di Stato del 24 novembre 1948, Prieto Figueroa fu esiliato. Fino al suo ritorno in Venezuela – in seguito al ristabilimento della democrazia puntofijista il 23 gennaio 1958 - si dedicò al lavoro educativo all’estero come capo di missione al servizio dell’UNESCO, in Costa Rica e Honduras; fu anche professore dell’Università de La Habana. Come giureconsulto al servizio dell’educazione, integrò la Commissione Redattrice del Progetto di Costituzione Nazionale (1936) e della Carta Magna (1961). Morì a Caracas il 23 maggio 1993. Lungo tutta la sua vita esercitò importanti cariche pubbliche, ma i Venezuelani lo ricorderanno sempre come “il maestro Prieto”.

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LA COMANDANTA ARGELIA LAYA

JOSÉ LEONARDO CHIRINO

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dre era un montonero (membro della guerrilla contadina) e finì varie volte in prigione; sua madre, membro del “Gruppo Culturale Femminile”, le insegnò a difendere la condizione delle donne e dei neri. Essendo entrata nel Partito Comunista, nella politica della lotta armata e nel movimento guerrillero, si diede alla clandestinità e percorse le montagne di Lara: per sei anni fabbricò bombe molotov e impugnò il fucile, lottando quotidianamente contro l’ingiustizia sociale. La guerrillera conobbe Mao Tse Tung, Ho Chi Min e Fidel Castro e fu anche presidentessa del Movimiento al Socialismo (M.A.S). Argelia Laya muore nel 1987, lasciando un’eredità di eterna lotta per le donne, per il socialismo alla creola e per le trasformazioni economiche, sociali e politiche necessarie per migliorare le condizioni di vita.

la Legge dei Francesi, cioè, la Repubblica: l’eliminazione della schiavitù, l’eguaglianza delle classi sociali, la soppressione dei privilegi, la deroga alle imposte di gabella. Sconfitta la ribellione, Chirino fu catturato dalle autorità e trasferito a Caracas, dove la Real Audiencia lo condannò alla forca (10 dicembre 1796), sentenza che fu eseguita nella plaza Mayor (oggi plaza Bolívar). Come segnale di ammonimento e per scorag-

ata in una hacienda di cacao a Río Chico, stato Miranda, il 10 Julio 1926, la “Comandanta Jacinta”, originaria di Barlovento e orgogliosa della sua afro-discendenza, è l’esempio più alto della partecipazione politica della donna venezuelana nel campo della politica contemporanea. Suo pa-

el 1754, Curimagua, sierra Falcón, fu il luogo natio dell’eroe ribelle afro-discendente José Leonardo Chirino, forse il maggiore rappresentante dell’integrazione dei due continenti (Africa e America), grazie alla madre indigena e al padre negro schiavizzato, unione che fece sì che le sue lotte anti-schiaviste si estendessero anche ad altri gruppi etnici. L’eredità della rivoluzione francese (Libertà, Eguaglianza e Fraternità) e il processo liberatore e indipendentista di Haiti servirono da ispirazione per il suo lavoro rivoluzionario nel Venezuela colonizzato: nel 1795, si concretizzò l’insurrezione del leader afro-discendente, seguito in gran parte da negri della tribù dei “loangos” o “minas”, del Regno del Congo, che misero su un programma rivoluzionario: l’instaurazione di quello che chiamavano


giare future ribellioni, la testa di Chirino fu posta in una gabbia di ferro che fu messa lungo il cammino verso le Valli di Aragua e Coro.

PEDRO CAMEJO “EL NEGRO PRIMERO”

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ato nel 1790, a San Juan de Payara, stato Apure, il soprannome Negro Primero che gli fu affibbiato era ispirato alla sua destrezza nel maneggio della lancia. All’inizio della Guerra d’Indipendenza formò parte dell’esercito realista. Nel 1816 si arruolò nelle fila repubblicane, nelle forze che comandava il general José Antonio Páez nell’Apure. Fu uno dei 150 lancieri che parteciparono alla battaglia di las Queseras del Medio (2 aprile 1819) e in quell’ occasione, ricevette l’Ordine dei Liberatori del Venezuela. Nella Battaglia di Carabobo (24 giugno 1821) fu membro di uno dei reggimenti di cavalleria della prima divisione di Páez, e lì lasciò la vita: «Mio generale, vengo a dirle addio perché sono morto». Furono le ultime parole che diresse al Generale Páez a Carabobo.

GUILLERMO RIBAS, L’EROE CIMARRÓN

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onosciuto come “El Cimarrón” (schiavo ribelle fuggitivo), fu lo schiavo del regidor Marcos Ribas, dalle cui mani era fuggito nell’anno 1767; non volle adattarsi ai capricci del conquistador spagnolo e fondò - insieme al suo compagno Francisco Mina e alle eroine cimarronas Juana Francisca, María Valentina e Manucha Algarín - il cumbe della montagna di Ocoyta (1768), luogo considerato il primo bastione libertario contro la schiavitù e il colonialismo nella sotto-regione mirandina (gli Spagnoli chiamavano cumbe quei luoghi inaccessibili dove si rifugiavano gli afro-discendenti cimarrones che rifuggivano il giogo schiavista). Questo cimarrón cercarono di catturarlo in diverse occasioni ma inutilmente. Fino a che, il 16 ottobre 1771, il negro Guillermo con 18 dei suoi uomini si presentò nel villaggio di Panaquire, dove sequestrarono il tenente della guardia locale Pedro Casaña: per questo, gli hacendados spagnoli chiesero al governatore della Provincia di Venezuela un’azione urgente contro l’afro-discendeente ribelle, dal momento che costituiva un “cattivo esempio” per gli schiavi. Il cumbe di Ribas a Ocoyta fu circondato e attaccato: Guillermo e Francisco Mina morirono nell’imboscata; altri furono catturati e alcuni riuscirono a scappare. Il Negro Ribas fu decapitato e gli tagliarono una mano: la sua testa e la sua mano furono collocate all’entrata del villaggio di Panaquire, affinché servisse da segnale ammonitore per il resto dei negri intenzionati a liberarsi. Ciò nonostante, il cimarronaje a Barlovento continuò ad aumentare.

MARTA CUMBALE, IL BRACCIO DESTRO DELL’AVANZADORA

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ata a Güiria de la Costa, in una famiglia di negri manumisos, ancora giovane si confrontò alle tristi condizioni alle quali erano sottomessi gli schiavi, e per questa ragione si rifugiò nei culti e rituali ancestrali africani. Le condizioni di maltrattamento

e annichilimento nelle quali vivevano gli schiavi, provocarono la ribellione di quelle famiglie. Questa giovane gioiosa e di forte temperamento cominciò a militare sui campi di Chaguaramal, al lato di Juana Ramírez la “Avanzadora”. Già negli anni 1811-12, indios, negri, meticci creoli e orilleros formano un solo raggruppamento. Marta andò a integrare le fila della famosa Batería de las Mujeres, quelle eroine che combatterono senza tregua in cinque battaglie libertarie: il 18 marzo 1813, l’11 aprile 1813, il 25 maggio 1813, l’8 settembre 1814 e l’11 dicembre 1814. Il villaggio dove viveva fu raso al suolo dal furioso Francisco Tomás Morales, il quale

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agiva così per vendicare la morte del generale spagnolo José Tomás Boves. Alla fine della Guerra di Indipendenza, Marta cercò di dedicarsi alla vita familiare e a Carúpano si sposò con Don Santiago Aristiguieta, dal quale non ebbe figli. Morì il 28 dicembre 1864.

MIGUEL DE BURÍA, ANTESIGNANO DEI RIVOLUZIONARI

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iguel del Barrio diresse la rivoluzione degli schiavi di Nueva Segovia de Buría tra il 1552 e il 1553, la prima rivoluzione venezuelana. Le proficue alleanze con gli indios jiraharas gli permisero di por-

di insurrezioni, tra le quali possiamo ricordare: quella di Cañada de los Negros in Messico nel secolo XVII; quella di Palenque di Palmares in Brasile nel secolo XVII, diretta da Zumbí di Palmares; il sollevamento dei tre capi neri in Suriname alla fine del secolo XVII; la ribellione dei Sastres o Alfayates a Bahía; il Giuramento di Bois Caïman ad Haití nel 1791, al comando di Toussaint Louverture; la Cospirazione di Aponte a Cuba, tra il 1811 e il 1812, guidata dal liberto José Antonio Aponte. Nonostante l’importanza di questo atto di ribellione, la rivoluzione di Buría non è conosciuta in Venezuela. Tuttavia, compare come riferimento letterario o racconto storico nelle opere dei più autorevoli intellettuali e scrittori venezuelani: nel Resumen de la historia de Venezuela (1810) di Andrés Bello, nel racconto La negramenta di Arturo Uslar Pietri (1936), e in Cantaclaro (1934) e Pobre Negro (1937) di Rómulo Gallegos, i primi romanzi che fanno riferimento alla rivoluzione di Miguel.

sóstomo Falcón a Generale di Brigata e tre anni più tardi a Generale di Divisione. Morì il 18 gennaio 1865.

FRANCISCA PAULA AGUADO

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riginaria dello Stato Miranda, schiava della mantuana (aristocratica) Gertrudis Aguado, che le concesse la Lettera di Libertà a condizione che stesse a suo lato fino alla

JOSÉ ASCENSION FARRERAS

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iscendente di Africani, nato ad Angostura, Stato Bolívar, il 27 agosto 1785. Abbandonò le forze realiste nel 1817 e partecipò alla battaglia di San Felix, nella quale liberò la Guyana. Fu compagno di Bolívar e Sucre. Nel 1828, fu promosso a Colonnello. Nel 1861, fu promosso da Juan Cri-

tare a termine l’impresa con successo: attaccarono alcuni villaggi spagnoli, pianificarono la liberazione di El Tocuyo e della Nueva Granada, abolirono la schiavitù e organizzarono sotto forma di regno uno dei primi tentativi di stabilire in America uno Stato indipendente dagli Europei. Dopo il sollevamento guidato da Miguel contro l’oppressione spagnola nelle Minas de Buría nel 1553, si scatenò una serie

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sua morte. Dopo la morte di questa, l’erede di Gertrudis, Miguel del Toro, si rifiutò di darle la libertà. Francisca Paula vinse una causa che cominciò il 7 luglio 1800 e terminò il 9 agosto 1801. Così, ottenne un’importante vittoria giudiziaria nella lotta contro lo schiavismo.

GERÓNIMO “GUACAMAYA”

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iguel Gerónimo, soprannominato “Guacamaya”, era un Africano schiavizzato tra gli anni 1794 e 1795, nello Stato Miranda. Insieme a María Concepción Sánchez, guidò il cumbe di Taguaza nella comu-


AFROAMERICANI

nità di Aragüita, a Barlovento. Di questo cumbe, si riconobbe la forza dei membri cimarrones che, molto ben organizzati, reclamavano le proprie legittime libertà, dando vita a un’importante ribellione nel Venezuela di fine secolo XVIII.

INÉS MARÍA PÁEZ

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riginaria della Stato Carabobo, Páez, sposata con un mantuano, fu portata in Tribunale per avere osato utilizzare un cuscino per inginocchiarsi alla Messa, privilegio esclusivo delle mantuanas. Fu difesa da Juan Germán Roscio Nieves, i cui argomenti ottennero che la Real Audiencia Española si pronunciasse a favore di María Inés. Fu la prima causa contro la discriminazione e l’inizio della difesa dei diritti civili in America.

Traduzione di Marco Nieli *Si ringraziano: l’Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia per il suo contributo coi testi della mostra Heroes y heroínas de la afrovenezolanidad, nonché i siti e i testi consultati per i contenuti di questo articolo (afroamiga.wordpress. com, radiocomunaelhatillo.blogspot.it, Juan José Ramirez da alcaldiadematurin.gob.ve, e Nina Bruni da La insurrección del Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela in Cuadernos Americanos 144, México, 2013/2).

L’opposizione alla schiavitù fu tenace e attuata con tutti i mezzi possibili: la morte per inedia, il suicidio (fondato sulla concezione che l’anima ritorna ai luoghi degli antenati), l’aborto (per evitare al nascituro la schiavitù), il sabotaggio del lavoro, la fuga, le rivolte, numerose e sanguinose. Celebri quelle ad Haiti, a Santo Domingo, nelle Antille inglesi, a Puerto Rico, nella Martinica. La più famosa fu quella iniziata ad Haiti la notte del 14 agosto 1791 con una cerimonia vudù, che si concluse, dopo il massacro dei bianchi, con l’indipendenza dell’isola (1804). Si ebbero ribellioni anche nel Nord-est del Brasile come quella dei Malê, organizzata da capi musulmani. Fu famosa la ‘repubblica di Palmares’, fondata ad Alagoas da schiavi fuggiaschi (metà XVII secolo). Tali rivolte fallirono tutte (tranne ad Haiti). Le fughe diedero invece origine a persistenti comunità di afroamericani detti marrones (dallo spagnolo cimarrón, «porco selvatico»), rifugiatisi in località inaccessibili dove poterono sopravvivere tratti integrali di culture africane. Per esempio i Bush negroes (poi quasi scomparsi) che nel XVIII secolo costituirono nelle Guiane gruppi organizzati riuscendo perfino a fondare degli Stati, con i quali i governatori bianchi dovettero concludere trattati di amicizia. Altri gruppi finirono invece assorbiti dalle popolazioni aborigene. Schiavi di origine africana e popolazioni amerinde si sono talvolta fusi dando luogo a un tipo di meticcio detto cafuso o carioca in Brasile e zambo o lobo nell’America spagnola. Gli afrovenezuelani. Il Venezuela è oggi una nazione multietnica, e almeno il 32% della popolazione è di discendenza africana. Il presidente Hugo Chávez, in visita negli Stati Uniti, dichiarò in un’intervista: «Quando eravamo bambini, ci raccontavano di avere una madre patria, la Spagna. Successivamente, abbiamo scoperto, nelle nostre vite, che come dato di fatto, avevamo molte madri patrie. Una delle più grandi patrie di tutte è senza dubbio l’Africa. Noi amiamo l’Africa. E ogni giorno siamo sempre più consapevoli delle nostre radici africane. Il razzismo è una caratteristica dell’imperialismo. Il razzismo è una caratteristica del capitalismo. L’odio verso di me ha senza dubbio a che fare con il razzismo. A causa della mia grande bocca, a causa dei miei capelli ricci. Io sono molto orgoglioso di avere questa bocca e questi capelli, perché sono africano».

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Pensiero sull’integrazione e il latinoamericanismo

Progetto unionista nell’Indipendenza Genesi e apogeo di Alejandro Casas

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urante il progetto di indipendenza politica dalla Spagna e dal Portogallo, si possono identificare tre grandi tappe nella formulazione e conformazione del progetto di unità ispanoamericana, come costruzione della “patria grande”. La prima, precedente allo scoppio generalizzato dei movimenti rivoluzionari e che si identifica come quella dei “precursori”, in buona misura diede il fondamento e l’impulso iniziali delle fasi posteriori. La seconda, dal 1810 al 1821, che consiste nella formulazione e nello scambio di dichiarazioni unilaterali di unionismo continentale; la terza, fra il 1821 e il 1828, che porta la consapevolezza della necessità di una gestione diplomatica dell’unionismo continentale […] Se è vero che il progetto unionista di carattere ispanoamericanista fu quello dominante ed egemonico, in non poche occasioni coinvolse il Brasile direttamente o indirettamente, sebbene più nelle intenzioni che non nelle realizzazioni.

GERMI DEL PENSIERO INDIPENDENTISTA E INTEGRAZIONISTA

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na delle cause scatenanti della lotta indipendentista nelle colonie spagnole fu senza dubbio la detronizzazione del re di Spagna nel 1808 da parte di Napoleone, che fece da sti-

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molo per gli obiettivi di autogoverno già esistenti in importanti settori delle colonie. I creoli più radicalizzati videro l’indipendenza come una dinamica che doveva abbracciare tutto il continente. Si visualizzavano problemi comuni di oppressione e dipendenza, struttura sociale, tradizione e lingua che condussero i creoli (si comprendono in questo concetto bianchi, meticci, mulatti, neri e indigeni) a intendere l’indipendenza in una prospettiva continentale. Lo scontro che avrebbe portato alla sconfitta degli imperi oppressori doveva basarsi su una lotta unitaria e concertata. […] Non dobbiamo dimenticare che la prima rivoluzione indipendentista di successo, e con peculiarità notevolissime, ebbe luogo ad Haiti, che raggiunse l’indipendenza politica nel 1804, proclamata da Jean Jacques Dessalines – comandante in capo del primo esercito del primo paese libero dell’America Latina. La grande insurrezione di schiavi neri, scatenatasi nel 1791, e capeggiata da Touissant L’Ouverture, finì per assumere il carattere di guerra d’indipendenza. Nel 1793 si abolì la schiavitù, settant’anni prima che negli Stati Uniti. In Brasile, l’indipendenza arrivò per via graduale, dall’alto, senza che mancassero antecedenti rivoluzionari, come la Congiura dei Minatori, per la quale furono giustiziati nel 1792 Tiradentes e altri leader. Il principe

reggente e la corte di Portogallo si trasferirono in Brasile per non cadere prigionieri dei francesi dopo l’invasione napoleonica del 1808. L’erede del principe, diventato imperatore, dichiarò l’indipendenza nel 1822. L’America portoghese, a differenza di quella spagnola, riuscì a conservare la sua unità sulla base di un’importante centralizzazione politico-militare, e mantenne un modello monarchico che ritardò di molti decenni l’instaurazione della repubblica e l’abolizione della schiavitù.

MIRANDA: LA MAGNA COLOMBIA

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rancisco de Miranda è considerato un precursore fondamentale dell’unionismo latinoamericano. Il suo “piano unitario” prevedeva che il Brasile fosse


tere in discussione i principi e le istituzioni consacrati nella Costituzione venezuelana del 1811. Temeva di più la “anarchia e la confusione” della stessa dipendenza.

PICORNELL, GUAL E ESPAÑA: LA LOTTA UMANITARIA

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parte integrante della lotta di liberazione dei popoli della “Magna Colombia” (termine che comprendeva tutta l’America Latina), così come le regioni di lingua francese. Dopo 15 anni di preparazione, arrivò ad Haiti nel 1806, con un contingente militare chiamato “Esercito della Colombia al servizio del popolo libero del Sud America”. Aveva intenzione di instaurare un governo monarchico-repubblicano, con un’importante partecipazione degli Inca. Dopo la sua sconfitta in terra venezuelana, si dirige a Londra, dove raggruppa i settori latinoamericani di avanguardia. […] In Miranda predominano idee politiche conservatrici, più vicine al modello politico inglese di monarchia limitata dell’epoca e lontane dai principi dell’illuminismo francese. Questo lo portò fino a met-

spirati dai principi della Rivoluzione Francese e di quella Haitiana, Juan Bautista Picornell, Manuel Gual e José María España capeggiarono nel 1797 un altro movimento precursore, questa volta in Venezuela. Il primo, ispiratore in buona misura del programma rivoluzionario, oltre a proporre una rivoluzione liberal-borghese, era fautore dell’uguaglianza sociale e di un chiara difesa delle aspirazioni dei neri e dei popoli autoctoni. L’appello alla lotta unitaria fu un pilastro del suo movimento. Nel documento Ordenanzas Constitucionales si parlava di una società organizzata in base a un sistema repubblicano, federale e democratico, di modo che “fra bianchi, indios, pardos1e neri regni la massima armonia, vedendosi tutti come fratelli di Gesù Cristo”. Si chiedeva anche l’abolizione della schiavitù, pene per chi offendesse le donne e uguaglianza sociale.

CARATTERE CONTINENTALE DELLA PRIMA INDIPENDENZA

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partire dall’esplosione rivoluzionaria del 1810, le prime giunte governative rivoluzionarie (di Caracas, Bogotà, Buenos Aires, Quito, Cile e Paraguay) invocarono l’unità continentale. Il 21 dicembre del 1811 si licenziò la Costituzione della Prima Repubblica del Venezuela, che poneva un’enfasi ancora maggiore sull’idea unionista, prevedendo perfino l’ammissione di qualsiasi altra provincia del “continen-

1 Si definivano pardos i figli nati dall’unione di schiavi di origine africana con persone indigene ed europee.

te colombiano”, “che voglia unirsi sotto le condizioni e garanzie necessarie per fortificare l’Unione con l’aumento delle sue parti integranti e dei legami fra di esse”. Si proclamavano allo stesso tempo “l’amicizia e l’unione più sincere fra noi stessi e con gli altri abitanti del Continente Colombiano che vogliano associarsi a noi (…) alterare e mutare in qualsiasi momento queste risoluzioni, in accordo con la maggioranza dei Popoli della Colombia che vogliano riunirsi in un’entità nazionale” […] Nel 1810 il messicano Miguel Hidalgo si proclamava “Generalissimo d’America”, reclamava la “valorosa Nazione Americana” e l’unione per ottenere la sospirata libertà: “Uniamoci dunque, noi tutti che siamo nati in questa terra fortunata: vediamo da oggi come stranieri e nemici delle nostre prerogative tutti coloro che non sono americani”. Nel 1811 diceva il cileno Juan Egaña: Siamo uniti da vincoli di sangue, lingua, rapporti, leggi, costumi e religione […] Ci sembra che manchi solo che la voce autorizzata dal consenso generale di un qualsiasi popolo dell’America faccia appello agli altri, in modo solenne e chiaro. E chi impedirà questo Congresso? (citato in Ardao, 1997b, 7). Sempre nel 1810, a Buenos Aires, Mariano Moreno riaffermava la fratellanza e la solidarietà rivoluzionaria ispanoamericana, che si doveva spingere a “soffiare sul fuoco della ribellione del Brasile contro la dominazione portoghese”. […] In Uruguay, allora detto Banda Oriental, José Artigas esaltava nel 1811 la patria continentale, anche se non entrava nel tema del Congresso Generale e ancor meno in quello del governo unico. Nel 1812 manifestava la volontà di estendere i trionfi delle sue armi “fino a portarli in tutto il nostro continente”. Nel 1813, la sua coscienza continentalista si sarebbe manifestata così: “La libertà dell’America costituisce il mio sistema, e stabilirla (è) il mio unico anelito”.

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[…] Le idee di unità latinoamericana fecero la loro comparsa anche in Brasile. I patrioti di Pernambuco, che capeggiarono la rivolta del 1817 contro l’imperatore, aspettavano l’ingresso di Bolívar in Brasile affinché collaborasse al rovesciamento dell’impero portoghese e la proclamazione della Repubblica. D’altro canto, insieme a Bolívar e con un ruolo da protagonista, lottò poi Abreu Lima, figlio del martire di Recife. […] Nel 1823, O’ Higgins chiamò Bolívar “l’Anfizione d’America”. Era fiducioso che potesse realizzare la CONFEDERAZIONE degli stati americani, “che è ancora un sogno per l’Europa”. Nell’America Centrale si distinse José

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Cecilio del Valle. Questo honduregno invitava nel 1822 a tenere un congresso ispanoamericano, affinché nessuna provincia dell’America “sia presa da invasori esterni, né vittima di divisioni intestine”. […] Juan Nepomuceno Troncoso, anche lui centroamericano, formulò un progetto di confederazione continentale, con punti concreti “come la fondazione di una banca nazionale, un fondo di previdenza dei contadini e l’apertura del canale di Panama”. L’unità centroamericana riuscì a concretizzarsi per alcuni anni quando Francisco Morazán riunì con successo cinque stati durante gli anni Trenta. […]

SAN MARTÍN: “UN GOVERNO GENERALE DI TUTTA L’AMERICA UNITA”

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osé San Martín merita senza dubbio un posto di primo ordine nel pensiero e nella prassi di liberazione e unità latinoamericane. Dopo una paziente preparazione a Mendoza durante il 1816 e simultaneamente alle spedizioni di Bolívar da Haiti per riconquistare il Venezuela, San Martín intraprendeva nel 1817 la traversata delle Ande, che lo avrebbe portato prima a trionfare in Cile (1818), poi in Perù (1821) e infine all’incontro personale con Bolívar nella storica intervista di Guayaquil (1821).


[…] Da parte sua il Direttore Juan Martín de Pueyrredón, a capo del governo di Buenos Aires […] diresse una lettera a Bolívar nella quale esprimeva la volontà di unificare gli sforzi nella stessa causa di liberazione e unione delle nazioni americane. Nel Proclama agli abitanti della Tierra Firme sostiene che “arriverà il giorno in cui, conte d’allori, si uniranno le nostre armi trionfanti”. […] San Martín contò anche sulla importante collaborazione di O’ Higgins e di Manuel Rodríguez nella cosiddetta Guerra di Zapa. Con essa si intendeva minare il morale dell’esercito spagnolo in Cile, in una guerra di guerriglia che ebbe l’appoggio dei contadini, di buona parte del popolo e degli artigiani di Santiago […] Il 26 maggio del 1821, in una lettera a Bolívar da una Lima fresca d’indipendenza, scrisse San Martín: Difensori di una stessa patria, consacrati a una stessa causa e uniformi nei nostri sentimenti per la libertà del Nuovo Mondo, spetta a Vostra Eccellenza il merito del fatto che i soldati della Repubblica di Colombia si adoperino contro il potere tirannico della Spagna in qualsiasi parte del continente in cui siano afflitti i figli dell’America (citato in Ardao, 1998b, 9)

La vittoria di San Martín a Lima accelerò l’insurrezione creola di Guayaquil e del nord del Perù. A Lima pose la questione della liberazione degli schiavi e si affinò il suo progetto di una monarchia costituzionale in America Latina. Forse quest’ultimo aspetto fu una differenza importante rispetto a Bolívar nell’intervista a Guayaquil, il 27 luglio del 1822, in cui trionfa l’idea repubblicana di quest’ultimo. […]

BOLÍVAR: “UNA SOLA DEVE ESSERE LA PATRIA DI TUTTI GLI AMERICANI”

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istingue Bolívar dal resto delle figure dell’indipendenza il fatto di essere un grande scrittore, oltre che un grande statista, pensatore e militare di rilievo. Uno dei suoi più grandi meriti consiste nell’aver coniugato la chiarezza concettuale e dottrinaria con una visione strategica (non tatticista o di corto respiro) basata su principi progressisti di organizzazione politica e democratica, ancorati al contempo a un forte realismo politico (che ci fa respingere per lui l’etichetta di utopista), con cui si adattava ai momenti e alle sfide del processo indipendentista. Condivise una visione americanista con grandi dirigenti come San Martín e Sucre, Artigas e O’Higgins. Per questo si definirono il bolivariani futuri rivoluzionari come Francisco Bilbao, José Martí, Fidel Castro e Che Guevara, così come l’attuale rivoluzione del Venezuela. […] Da molto presto Bolívar si ispira alla concezione “magno-colombista” di Miranda e altri precursori. Già nel 1810 affermava da Londra: “Nemmeno tralasceranno [i venezuelani] di invitare tutti i popoli d’America a unirsi in una confederazione. Tali popoli, già preparati per questo progetto, seguiranno svelti l’esempio di Caracas”. Nel 1811 disse al riguardo: “Posiamo senza timore la pietra fondamentale della libertà sudamericana: vacillare vuol

dire perderci”. Mentre nel 1814 affermò chiaramente: “per noi la patria è l’America”. […] Bolívar non pretendeva la costituzione di un solo stato nazione in America Latina. La sua proposta girò intorno all’idea di una confederazione che raggruppasse gli stati esistenti, in base comunque all’esistenza di una patria grande o nazione americana, che permettesse anche di avere un governo unificato. […] Dopo quel periodo, si riprende il progetto rivoluzionario e americanista, a partire soprattutto dalla traiettoria liberatrice di San Martín nel Sud e del contatto più fluido fra i due grandi governi rivoluzionari ispanoamericani. Nella sua risposta, nel 1818, alla già menzionata lettera di Pueyrredón, il Libertador afferma nel 1818: “Una sola deve essere la patria di tutti gli americani, poiché in tutto dobbiamo avere una perfetta unità”. Torna all’idea della confederazione, nel promuovere il patto americano che, formando di tutte le nostre repubbliche un corpo politico, presenti l’America al mondo con un aspetto di maestà e grandezza senza pari fra le antiche nazioni. L’America così unita, se il cielo ci concede questo desiderio, potrà chiamarsi la regina delle nazioni e la madre della repubbliche. In questa epoca il progetto bolivariano acquista un chiaro carattere sociale. Su questo influì in modo decisivo l’esilio di Bolívar, la rielaborazione di alcune delle sue concezioni e strategie e il soggiorno ad Haiti, prima repubblica indipendente di ex schiavi […] Nel 1816 e 1817, sul suolo patrio, Bolívar dichiarò la liberazione degli schiavi, e abolì tutte le forme di servitù a Guayaquil e Quito (1820). Attuò il regime salariale, dopo la liberazione di queste regioni, fortemente marcate da rapporti di produzione servili. […] Nelle istruzioni ai suoi delegati diplomatici, nell’ottobre del 1821, Bolívar promosse “la formazione di una lega

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veramente americana” che superasse i principi della mera difesa militare comune. “È necessario che la nostra sia una società di nazioni affratellate, separate per ora e nell’esercizio della loro sovranità dal corso degli eventi umani, ma unite, forti e potenti per sostenersi a vicenda contro le aggressioni del potere straniero”. […] Nel 1822, rivendicando la nazione delle repubbliche, dice ai capi di Stato rivoluzionari: il grande giorno dell’America non è arrivato. Abbiamo cacciato i nostri oppressori, rotto le tavole delle loro leggi tiranniche e fondato istituzioni legittime: ma dobbiamo ancora porre le basi del patto sociale che deve formare a partire da questo mondo una Nazione di Repubbliche […] Chi resisterà all’America unita in un solo cuore, sottomessa a una sola legge e guidata dalla torcia della libertà? Prima della dominazione portoghese Bolívar, sollecitato da Alvear, si impegnò a lottare contro i propositi espansionisti dell’imperatore Pedro I del Brasile. Quello conosceva già il suddetto espansionismo, da quando le truppe brasiliane occuparono la provincia di Chiquitos, nell’Alto Perù. Ma non poté concretizzare le sue aspirazioni: né la Colombia né il Perù gli diedero il via libera per marciare verso il sud. Tuttavia, la cosa fondamentale fu la sua decisione di arrivare in Argentina per collaborare alla lotta contro l’imperatore Pedro I, che aveva già preso possesso della Banda Oriental, sotto il nome di Provincia Cisplatina, da vari anni. La solidarietà di Bolívar si estese anche ai leader del movimento libertario clandestino a Cuba e Porto Rico. Traduzione di Pier Paolo Palermo *Storico colombiano

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AMERICA LATINA E LATINOAMERICANISMO di Alejandro Casas America Latina è la denominazione proposta dal cileno Francisco Bilbao nel 1856 e poi, nel 1865, dal colombiano José María Torres Caicedo, per riferirsi al nostro subcontinente (compresi il Brasile e i Caraibi). Questa nozione si è imposta fino ai nostri giorni e ha ottenuto un importante consenso, insieme a quella di Nostra America, di José Martí. Sono esistite e perdurano altre denominazioni più restrittive sul piano concettuale o nella loro portata, come quelle di Colombia, (nella versione del precursore Francisco de Miranda), Ispanoamerica, Iberoamerica e Indoamerica, fra le altre. Il latinoamericanismo presenta due grandi accezioni: una più militante e l’altra più accademica. La prima è legata alla lotta per il riconoscimento e l’affermazione dell’entità storica dell’America Latina, in diverse forme: quella di comunità, quella di integrazione e quella di unione delle sue repubbliche o nazioni, nella sfera culturale, economica e politica. La seconda mirerebbe allo studio sistematico delle questioni concernenti l’America Latina. Il primo concetto emerge già a partire dai precursori latinoamericanisti delle rivoluzioni indipendentiste contro la Spagna e il Portogallo. Il secondo comincia a svilupparsi organicamente a partire dagli anni Quaranta del secolo XX, con il movimento della Storia delle Idee, che confluisce nel latinoamericanismo militante vincolato all’dea di unità continentale. Ad ogni modo, non dobbiamo adottare una distinzione rigida. Si tratta di due dimensioni di uno stesso processo sociostorico. Il latinoamericanismo, nelle sue diverse espressioni, come quella dello stesso Bolívar e quella di Martí, per nominarne solo due, fondamentali nel secolo XIX, è difficilmente scindibile in una versione militante ed una più propriamente riflessiva. La prima versione apporta diversi dei fondamenti politici e ideologici per la formulazione di un pensiero propriamente latinoamericanista. In questo senso, vale la pena di riprendere l’importanza del pensiero di José Martí e il suo carattere fondante di una tradizione di riflessione e pensiero, che lo rende il primo pensatore moderno dell’America Latina. Trad. P.P.P.


Bolívar e Chávez: due epoche, due giganti, un progetto di Luís René Velázquez*

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l 28 luglio di quest’anno in uno degli atti commemorativi per il 60° anniversario della nascita dell’ex Presidente Hugo Chávez, il Presidente della República Bolivariana del Venezuela Nicolás Maduro ha affermato: «A volte mi chiedo: perché Dio ce l’ha portato via così presto? Ce l’ha sottratto quando il mondo ne aveva più bisogno. Ma la Storia ha dimostrato che i profeti quasi sempre muoiono giovani. Vengono e accendono la luce che illumina il cammino dei popoli affinché questi continuino sul cammino da loro tracciato». Il Presidente Maduro si riferiva alla precoce scomparsa del Libertador Simón Bolívar a 47 anni e a quella del Presidente Chávez prima di compiere i 59. Le vite di questi due predecessori si sono spente dopo aver sofferto penose malattie. I due hanno compiuto ineguagliabili missioni storiche e considerarono che se ne sarebbero andati senza aver consolidato il grande progetto della creazione della Patria grande latinoamericana e caraibica costituita da nazioni pienamente indipendenti, sovrane e completamente integrate nonché

fondate sui valori della fratellanza, della pace, della cooperazione, della solidarietà, del rispetto, e sul rifiuto di ogni forma imperialista e colonialista. Bolívar, nel 1819, dopo il fallimento della I e della II Repubblica e dopo aver stabilito le basi dell’unità grancolombiana, nel suo celebre discorso di Angostura del 15 febbraio dello stesso anno, aveva affermato: «Nel mezzo di questo mare di angosce non sono stato nulla più che un semplice giocattolo dell’uragano rivoluzionario che mi travolgeva come una debole paglia.» Il 13 gennaio del 2011, 192 anni dopo, il Presidente Chávez nel suo ultimo discorso di fronte alla sovrana Asamblea Nacional disse: «Siamo obbligati a consolidare in questa terra latinoamericana e caraibica un mondo di pace, e dare l’esempio a questo mondo di guerre, di miserie, di invasioni e di violenze, di come si costruisce un mondo in democrazia.» Entrambi erano coscienti delle avversità che si presenta-

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vano nella loro epoca e accetarono la sfida di mettersi alla testa della lotta di classe provocata dalla Storia e riflessa nel vortice dello scontro tra forze politiche e sociali che tentano di rendere possibili i cambiamenti reclamati dai popoli, e quelle che oppongono una feroce resistenza difendendo modelli politici e strutture socioeconomiche già decadute nel loro momento. Per stabilire la relazione di continuità dell’opera che hanno intrapreso i nostri due personaggi bisogna tenere presente il contesto storico nel quale sono nati e vissuti da giovani ognuno di loro. Cominceremo identificando la diversa estrazione di classe che li contraddistinguevano. Bolívar nasce il 24 luglio del 1783 in una delle famiglie più ricche e agiate della società coloniale caraqueña. Egli, quindi, godeva di tutti i privilegi della nobiltà criolla. Era figlio di proprietari terrieri, padrone di schiavi, era stato formato nelle milizie del Re Fernando VII, ebbe l’opportunità di viaggiare e conoscere l’Europa, fu suo ospite e conobbe il lusso nel quale viveva il monarca. Perse i suoi genitori in età precoce ma ricevette un’educazione moderna grazie a personalità di riconosciuto spessore intellettuale come Andrés Bello, Simón Rodríguez, il padre Andújar, Miguel José Sanz e intrattenne lunghe conversazioni con il barone Alejandro Humboldt ed il Marchese Ustáriz, tra gli altri. Apparantemente non aveva ragioni per lottare contro un sistema che favoriva tutti gli interessi della classe sociale al quale apparteneva. Nella seconda metà del XVIII secolo, il sistema coloniale feudale e schiavista costituito dalla Spagna e dalle altre potenze in America mostrava indicatori di esaurimento che si riflettevano nelle numerose ribellioni e rivolte sociali contro l’inumano trattamento che i propietari terrieri e le autorità coloniali riservavano alle comunità schiave e i contadini come: La Ribellione di Andresote tra il 1730 e il 1733; La Ribellione di San Felipe dal 4 al 16 genaio del 1741; la Ribellione di El Tocuyo del 11 maggio 1744 e la Ribellione dei Comuneros di Mérida nel Maggio del 1781. È, però, la colonia francese di Haití, la prima nel dichiarare la sua indipendenza nel 1791. Quattro anni dopo, nel 1795 si produce la rivolta di José Leonardo Chirino nella Provincia di Coro, domini della Capitanía General del Venezuela, a seguito della Cospirazione ordita da Picornell, Gual e España nel 1797. Questi elementi indicano che in diversi settori della società coloniale albergava lo spirito dell’indipendenza e che era venuta meno la paura della tirannia coloniale. Questa storia recente è conosciuta e valutata criticamente dal giovane Simón e presto comincia a prendere forma in lui il suo spirito combattivo contro il sistema oppressore attuato dalla Spagna con i suoi propri antenati familiari. Di conseguenza, di fronte alle invasioni di Miranda nelle terre del Venezuela nel 1806, di Napoleone in España, con la conseguente abdicazione di Fernando VII nel 1808, a soli 22 anni e dopo aver perso molto precocemente sua moglie, il 15 aogsto 1805, in presenza del suo più influente maestro Simón Rodríguez, il

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giovane Simón realizza il suo celebre Giuramento di Monte Sacro, (Roma, Italia) nel quale dichiara: «Giuro davanti a voi, giuro per il Dio dei miei padri, giuro per loro, giuro per il mio onore e giuro per la mia patria, che non darò riposo al mio braccio, né riposo alla mia anima, fino a quando non avrò rotto le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo!» Diversa è la provenienza sociale di Chávez che è figlio di una famiglia contadina, il cui più grande privilegio risiede nel fatto che i suoi genitori sono maestri rurali e le loro più importanti virtù: l’umiltà e l’amore per il lavoro. Ma così come per Bolívar, la nascita del bambino Hugo Rafael, avviene in un monento di grandi cambiamenti e scontri che hanno lo stesso impatto in America. Nel mezzo di un susseguirsi di avvenimenti politici internazionali le cui circostanze aiutano l’avanzamento del socialismo conquistando spazi al capitalismo, inizia la vita del bambino Hugo Rafael. Si può affermare senza alcun dubbio, che così come i rivoluzionari borghesi di USA e Francia ispirarono i settori politici e sociali delle colonie europee dell’America per scontrarsi con il modello coloniale feudale e schiavista avvenuto alla fine del XV secolo e che ebbe come effetto nel XIX la fondazione di repubbliche oligarchiche dipendenti dal neocolonialismo europeo, nonostante gli USA emergessero come potenza egemonica nella regione all’inizio del XX secolo, imponendo alle nostre nazioni deboli, terribili dittature militari per la maggior parte di quel secolo, le rivoluzioni socialiste saranno il nuovo riferimento per la continuazione della lotta per l’emancipazione dei popoli latinoamericani. Giovane studioso critico della Storia, il leader inquieto e con alta sensibilità sociale, fin dall’infanzia, non dovrebbe sorprendere il suo allinearsi con le cause e le lotte dei popoli oppressi della sua Patria, e il dichiarare la sua simpatia per le rivoluzioni socialiste del mondo e dei governi progressisti in America latina. Il giovane Capitano Chávez è convinto di essere utile ad uno Stato dominato dalle elites politiche ed economiche prostrate agli interessi del capitale transnazionale. SI riafferma che… l’indipendenza, secondo El Libertador… unico bene conquistato a spese di tutti gli altri dalla guerra contro la Spagna era stata tradita in tutte le sue dimensioni. Lo rinforza lo spirito e la determinazione a impegnarsi completamente per il riscatto della dignità e della sovranità del suo popolo che tanto sangue aveva versato per conquistare una Patria libera e per superare le miserevoli condizioni di vita che ha subito per 500 anni. La realtà complessa svelata nella coscienza di Hugo Chávez come tragica e immeritata per il nostro popolo, è paragonabile alle situazioni in cui si è trovato Bolívar trasformatesi nel mare di angosce e con la stessa intensità anche lui si è visto trasformato in un semplice giocattolo dall’uragano rivoluzionario. Indignato altresì dai governi della conciliazione di cui furono protagonisti i governi del Pacto di


Punto Fijo che misero la sovranità e le richezze nazionali nelle mani dei capitali straieri, il Capitano Chávez convoca e motiva un gruppo di giovani compagni ufficiali con la sua abituale uniforme di campagna a riprendere l’impegno del giramento di Bolívar nel Monte Sacro nel 1805. La Storia lo narra in questo modo: «Giuro per il Dio dei miei genitori, giuro per la mia Patria, Giuro per il mio Onore, che non darò tranquillità alla mia anima, né riposo al mio braccio, finché non vedrò rotte le catene che opprimono il mio popolo per volontà dei potenti. Elezioni Popolari, terre e uomini liberi. Orrore all’Oligarchia». Giuramento del Samán de Güere, Maracay, 17-12-1982 Come si può vedere, la differenza delle origini di classe non è di alcun ostacolo per il giovane capitano dell’Esercito a che si allinei con la stessa missione storica del Libertador Simón Bolívar che non fu altro che quella di: «consolidare in questa terra latinoamericana e caraibica un mondo di pace, e dare l’esempio in questo mondo di guerre, di miserie, di violenze e di invasioni, di come si costruisce un nuovo mondo in democrazia.» Bolívar non ha sacrificato la sua vita solo per liberare i nostri popoli dalla dominazione politica spagnola e fondare alcune repubbliche borghesi, la sua visione andava oltre. Nel 1816 decretó in Carúpano, Stato Sucre, la libertà degli schiavi che si aggregarono alla causa patriottica. Tale giusta misura la propone nuovamente nel suo celebre Discorso di Angostura nel quale inoltre segnala per orientare il parlamento nella redazione della Costituzione della nuova Repubblica: «Il sistema di Governo più avanzato, è quello che produce la più alta quantità di felicità possibile, la più alta quantità di sicurezza sociale e la più alta quantità di stabilità politica.» Angostura, 15 febbraio 1819 Basandosi su questo documento, Chávez suggeriva che si sarebbe dovuto interpretare e considerare Bolívar come uno dei precursori del socialismo, solo che gli intrighi delle oligarchie e l’ingerenza diplomatica degli USA, nelle nascenti repubbliche sabotarono la grande opera liberatrice, antischiavista, umanista, integrazionista e antimperialista del genio d’America. Tanto acuta è stata la sua profetica visione che nel 1829 in una lettera di un colonnello amico, dichiara: «Gli USA sembrano destinati dalla Provvidenza a appestare l’America di miseria in nome della libertà.» Lettera al Coonello PATRICIO CAMPBELL, Guayaquil, 5 agosto 1829 Nei giorni successivi, disilluso dalla miseria dei suoi ne-

mici, per la disintegrazione dell’unità della sua amata Colombia, totalmente esautorato dal potere politico-militare che arrivò a detenere e frustrato da una penosa malattia, nel suo ultimo proclama enunciato pochi giorni prima della sua morte, Bolívar afferma: «Colombiani! I miei ultimi voti sono per la felicità della mia Patria. Se la mia morte contribuirà a che cessino i partiti e a che si consolidi l’Unione, potrò scendere tranquillamente nel sepolcro.» Santa Marta, Colombia 10 dicembre 1830. Nel caso di Chávez, la sua intensa attività politica comincia dopo il suo giuramento presso il Samán de Güere quando crea dalla clandestinità, con un gruppo di ufficiali dell’Esercito: il Movimento Bolivariano 200 (MBR-200). Con questa piattaforma politico-militare inizia ad eleborare il suo piano per la presa del potere. L’esaurimento del modello capitalista imposto dall’impero yankee con il Patto di Punto Fijo già indebolito, entra in crisi con l’esplosione sociale del 27 febbraio 1989 che avviene in conseguenza dell’applicazione del pacchetto di misure neoliberali imposto dal FMI e dalla Banca Mondiale all’inizio del secondo mandato di Carlos Andrés Pérez (CAP) e che passa alla Storia come El Caracazo. Il popolo indignato per le misure economiche abusive si riversò spontaneamente nelle strade a reclamare con la forza i beni primari e gli alimenti per la sua sussistenza. Questa rivolta fu selvaggiamente repressa dalle forze militari dello Stato borghese con un saldo di oltre 5 mila morti, uomini e donne disarmati, ma accellerò e fu di motivo per l’insurrezione del MBR-200 guidato da Hugo Chávez il 4 febbraio del 1992. È la prima apparizione pubblica del personaggio che cambierà la direzione storica, non solo del Venezuela ma della grande regione latinoamericana e caraibica. La ribellione fallisce e i protagonisti furono arrestati, ma il volto del leader del movimento con il suo breve intervento nei media nel quale pronunciòil fatidico por ahora, accesero la fiamma della speranza dei settori opporessi e tante volte traditi nella storia patria. Tanto profonda era la crisi in seno alle Forze Armate del puntofijismo che il 27 novembre dello stesso anno si produce anche la ribellione di un im-

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portante numero di ufficiali della Fuerza Aérea Venezolana, che ugualmente è controllata dagli stessi fattori militati e politici favorevoli al governo di Carlos Andrés Pérez, il quale in seguito la Contraloría de la República e il Congreso Nacional viene messo sotto inchiesta per fatti di corruzione; finisce per essere destituito dalla presidenza e la Corte Suprema di Giustizia lo condanna agli arresti domiciliari. Il periodo costituzionale dovette essere concluso dal Dottor Ramón J. Velásquez. Per il successivo periodo costituzionale (1994-1998) è eletto presidente, ormai svincolato dal Patto di Punto Fijo per la seconda volta Rafael Caldera. Questi decreta l’indulto e concede la libertà a tutti quelli che permangono presi per gli eventi insurrezionali del 1992. Chávez comincia a girare tutto il paese e decide di partecipare alla presa del potere nell’ambito delle regole del sistema puntofijista e per questo crea il Movimiento V República e la sua principale offerta elettorale era stimolare un processo constituente per rifondare le basi della Repubblica. Tale progetto denominato Revolución Bolivariana ottine il suo primo sostegno popolare vincendo le elezioni del dicembre del 1998. Al momento dell’investitura in quanto Presidente all’inizio del 1999, senza alcuna titubanza sollecita la Corte Suprema di Giustizia a che attivi un meccanismo per convocare un referendum e realizzato questo, conformemente a quanto stabilito dalla legge, il popolo elegge la prima Assemblea Nazionale costituente della storia venezuelana. Ciò che avviene successivamente è un susseguirsi di trionfi caratterizzati dal sostegno popolare. Allo stesso modo, però, della cariera politica di Bolívar, le forze reazionarie

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interne ed esterne non smettono di contrastare i cambiamenti stimolati da Chávez e si uniscono nella cosidetta Coordinadora Democrática, organizzazione che attivia tutti i meccanismi di cospirazione e destabilizzione con l’aperto sostegno del governo USA per abbattere il potere legittimo determinato dal popolo tramite elezioni liberee riconsciute nazionalmente e internazionalmente. Chávez è poi relegittimato successivamente dall’approvazione della Constituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il 5 marzo del 2013 avviene la sua morte per la quale non potrà esercitare il suo terzo mandato di governo dei successivi sei anni. Ma a differenza della sorte della opera iniziata dal suo ammirato Libertador de América, la sua non è stata tradita e la rivoluzione bolivariana-chavista continua affrontando e vincendo tutte le minacce e gli attacchi che naturalmente continueranno da parte dei nemici storici del socialismo. E come sostiene il Presidente Nicolás Maduro, nella citazione dell’inizio di questo articolo, Chávez e Bolívar morirono molto giovani ma la loro colossale opera, che in entrambi casi rimane inconclusa, lascia nelle diverse epoche storiche il cammino aperto e fertile per i popoli che continueranno questa opera emancipatrice e integrazionalista imprescindibile per la costruzione del pieno stato di sovranità, di giustizia ed uguaglianza per le grandi maggioranze storicamente dimenticate. Traduzione di Ciro Brescia *Docente (Universidad Bolivariana de Venezuela)


LEI Tu eri la libertà, liberatrice innamorata. Doni e dubbi portavi, irriverente adorata. Era spaventato il gufo nell’ombra finché la tua chioma passò. E rischiararono le tegole, gli ombrelli si illuminarono. Cambiarono veste le case. L’inverno si fece trasparente. Era Manuelita che attraversò le strade stanche di Lima, la notte di Bogotá, l’oscurità di Guayaquil, l’abito nero di Caracas. E da allora è giorno. (da Pablo Neruda, L’insepolta di Paita)

Manuela Sáenz, la Colonnella d’America di Marnoglia Hernández Groeneveledt

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Quito, nella seconda decade dell’Ottocento, vive una donna dal carattere di fuoco, di grande impeto, fedele alla causa di liberazione dei popoli della Nostra America. Una donna che ha destato sia odio che amore. La sua tempra e la sua intuizione la trasformano in nemica dei nemici del Liberatore Simón Bolívar. La società dell’epoca non le ha mai perdonato la sua irriverenza verso i costumi del tempo, la sua libertà di decidere come donna e soprattutto la sua lealtà verso Bolívar, sommergendola di calunnie incessantemente, fino ai secoli successivi. Questa donna è Manuela Sáenz Aizpuru, la Colonnella dell’Esercito Liberatore.

Manuela nasce nella città ecuadoriana il 27 dicembre 1797, da Simón Sáenz e María Joaquina de Aizpuru. Dopo la morte di sua madre viene portata in convento e, successivamente, per terminare gli studi entra in monastero (Santa Caterina da Siena). All’età di 19 anni, per mettere a tacere le voci sulla sua indole ribelle, contrae matrimonio con il medico inglese James Thorne a Lima, allora capitale del Vicereame. Nella società limegna stringe amicizia con Rosita Campusano, che la invita alle riunioni di patrioti che si tenevano in casa sua, e si avvicina alla causa patriottica di San Martín. La Manuela cospiratrice svolge diversi incarichi di spionaggio e ottiene che il battaglione

realista Numancia si unisca alla causa patriottica: questo e altri episodi persuadono lo stesso San Martín a decorarla nel 1821 con l’ordine “Cavalleresco del Sole”, come altre 111 donne impegnate nella causa dell’Indipendenza del Perù. Manuela, consapevole dell’infedeltà di suo marito e della campagna di liberazione che si ordiva a Quito, decide di abbandonare suo marito per unirsi a suo fratello e tornare alla sua città natale per proseguire la sua lotta patriottica. Arrivata alla città ecuadoriana, Manuela comincia a lavorare alla causa libertaria con l’invio di mule da trasporto al battaglione colombiano di Paya del generale Sucre, e nell’attività

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di spionaggio della pattuglia militare spagnola a Quito. Dopo la Battaglia di Pichincha, Manuela diventa Tenente. Nel 1822 Manuela conosce Simón alla sua entrata trionfale a Quito: l’aneddoto sul primo contatto tra i due patrioti vuole che durante l’accoglienza a Bolívar Manuela avesse lanciato una corona di alloro al cavallo del Libertador, e che questa fosse finita accidentalmente sul petto di Bolívar, che immediatamente avrebbe scorto l’autrice di tale gesto. Qualche ora dopo, durante il ballo di ricevimento, Bolívar, facendo sfoggio della sua galanteria, lusinga Manuela:

parabili. Sáenz era una donna sposata, ma nonostante le insistenti richieste di suo marito per riaverla al suo fianco, la combattente non cede; la sua decisione era già presa: decretava la fine del matrimonio con Thorne e l’unione a Bolívar e alla causa patriottica nel campo di battaglia. Nei mesi che precedono il tradimento a Bolívar, la società bogotana odiava Manuela. I nemici di Bolívar tentano di denigrarla in più di un’occasione, fino a richiedere di portarle via il titolo di Colonnella, per il fatto di essere donna. Manuela subisce le conseguen-

di custodire gli archivi del Libertador, impegno cui tiene fede fino all’ultimo momento della sua vita. Svolge anche attività di pattugliamento per la sicurezza di Bolívar, e infatti in due occasioni gli salva la vita: una volta durante un ballo in maschera, e poi di nuovo nel 1827, quando Sáenz mette in salvo Bolívar da un attentato ordito dai suoi nemici, affrontando dodici cospiratori mentre Simón fuggiva dalla finestra della sua camera. Di qui l’epiteto di Libertadora del Libertador. Manuela è stata una donna combattente, disposta a dare la vita per Bolívar e per la rivoluzione patriottica, un’eroina che ha sacrificato tutto per la Patria Grande. «Mia Capitana —mi disse un indio—, grazie a lei la Patria è salva». Lo guardai e vidi un uomo con la camicia sgualcita, insanguinata. Ciò che restava dei suoi pantaloni gli arrivava ai ginocchi sporchi. I suoi piedi avevano il grosso callo di quegli uomini che non ebbero neppure la possibilità di usare le alpargatas1. Ma era un uomo felice perché era libero. Non sarebbe più stato uno schiavo (da M. Sáenz, Diario de Paita).

Gli porsi le mie scuse per quanto accaduto la mattina e lui mi rispose dicendomi: «Mia cara signora, ma sei lei è la bella dama che ha incendiato il mio cuore toccandomi il petto con la sua corona! Se tutti i miei soldati avessero questa mira, avrei vinto tutte le battaglie». Mi vergognai un po’, cosa che S.E. notò all’istante e, scusandosi, mi prese per mano invitandomi a ballare una contraddanza (da M. Sáenz, Diario de Quito). Senza curarsi delle accuse di adulterio rivoltegli, Simón e Manuela da quel momento diventano compagni inse-

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ze della sua avversione all’ordine stabilito, soffre come chi si oppone a coloro che pretendono di decidere dell’altrui destino. Durante la sua partecipazione alla campagna patriottica, Manuela non solo si prende cura dei feriti in battaglia, ma vestita da ussaro cavalca al comando di una truppa di patrioti, battendosi anche a fuoco aperto contro il nemico nella Battaglia di Ayacucho insieme a Antonio José de Sucre. Per questo il Maresciallo di Ayacucho appoggia la sua promozione a Colonnella. Al tempo stesso, Manuela è incaricata

Manuela non ha potuto essere vicina a Bolívar nei suoi ultimi giorni: era a Bogotá, impegnata nella cospirazione per portare al potere il Generale Urdaneta (fedele alla causa bolivariana) dopo che i nemici di Bolívar avevano assassinato il Maresciallo di Ayacucho, presidente incaricato della Colombia. Dopo la morte del Libertador, gli attacchi aumentano: Sáenz è vilipesa, perseguitata, fatta prigioniera ed espulsa dalla Colombia e, non potendo reggere tanto dolore, tenta il suicidio. Esiliata in Giamaica, pianifica da lì il suo ritorno a Quito nel 1835 venendo immediatamente esiliata al porto peruviano di Paita. I suoi beni vengono confiscati, così Manuela si dedica al commercio di dolci e tabacco, al ricamo e al lavoro a maglia, e alla traduzione di testi. Nel 1847, alla morte del suo Thorne, Manuela rifiuta 1 Calzatura in fibra naturale, in tela o cotone, con la suola in corda di iuta o canapa, diffusa in Spagna e in America Latina.


l’eredità, pur vivendo immersa nella povertà e nonostante le buone relazioni che manteneva con il defunto. Presso la sua ultima dimora le fanno visita diverse personalità, tra cui Herman Melville e Giuseppe Garibaldi. Muore di difterite a 59 anni senza poter tornare a Quito, e avendo in custodia molti dei documenti del Libertador, che vengono inceneriti insieme a lei, probabilmente secondo la pratica utilizzata all’epoca per i defunti vittime del virus. Hanno voluto cancellare Sáenz dalla storia, eliminando ogni indizio della sua esistenza, e limitando la sua figura al solo ruolo di amante del Libertador. Ma Manuela era una donna colta, che aveva letto Plutarco, Tacito, Cervantes, Garcilaso e Álvarez de Cienfuegos. Una donna che già prima di incontrare Bolívar era impegnata nella causa patriottica, e non accettava l’oppressione e la giustizia della società dell’epoca; amava, invece, la libertà, e per questo amò Bolívar. Manuela stessa era l’emanazione delle idee di libertà e Independenza. Il lascito di Sáenz è andato oltre le nuove generazioni e nel 2007 il presidente Rafael Correa la proclama “Generalessa dell’Ecuador”. Manuela, la insepulta de Paita, non solo salva il Libertador, ma salva se stessa da una società spietata, rivendicando le donne rivoluzionarie d’America e sfidando gli schemi della società borghese. Manuela col suo coraggio, rivendica e fa insorgere la lotta di donne umiliate, punite pubblicamente ed esiliate; Juana Azurduy, Policarpa Salvatierra, Luisa Cáceres de Arismendi, Luisa Arambide de Pacanis; Nanny dei cimarroni, Micaela Bastidas, Josefa Camejo. Manuelita, la Colonella, è stata e sarà il simbolo delle donne valorose che hanno dato la vita per la causa patriottica. Traduzione di Emilia Saggiomo

JUANA AZURDUY, EROINA TRA MITO E STORIA Insieme a Manuela, c’è stata una seconda colonnella degli eserciti liberatori: Juana Azurduy, eroina dell’Alto Perù (attuale Bolivia). Di padre spagnolo e madre indigena, durante l’infanzia era in contatto con la cultura, i riti e le cerimonie dei popoli originari, parlava sia spagnolo che aymara. Dopo la morte dei suoi genitori entra in convento: qui forma gruppi clandestini e viene espulsa dall’istituzione. In ambienti legati alla rivoluzione patriottica conosce il suo futuro marito Manuel Padilla, che nel 1809 si unisce alla resistenza guerrigliera; Juana, nonostante le proibizioni imposte alle donne di prendere parte a quei conflitti, nel 1813 è tra i rivoluzionari che occupano Potosí. Nel mezzo della sommossa perde i suoi cinque figli a causa di malattie contratte nella zona. Nel 1816 Juana e suo marito al comando di 6.000 indigeni conquistano la regione di Chuquisaca e Santa Cruz de la Sierra, azione che vale a Don Manuel il titolo di Tenente Colonnello. Dopo il suo assassinio, Juana continua a combattere finché non perde il sostegno dei combattenti. Muore anziana e dimenticata da tutti. Ma gli indigeni la considerano l’incarnazione della Pachamama (in lingua quechua, la mitica Madre Terra). Trad. E.S.

DALLE LETTERE DI SIMÓN BOLÍVAR A MANUELA SÁENZ Senza data Manuela, sei arrivata all’improvviso, come sempre. Sorridente. Familiare. Dolce. Eri tu. Ti guardai. E la notte fu tua. Tutta. Le mie parole. I miei sorrisi. Il vento che avevo respirato e che dai miei sospiri arrivava a te. Il tempo è stato complice per il tempo che ho prolungato il discorso al Congresso per vederti di fronte a me, senza muoverti, calma, mia… Ho usato le parole più soavi e decise; ho indicato territori con problemi da risolvere mentre la mia immaginazione percorreva te; i generali che applaudivano in piedi non hanno immaginato che stessi descrivendo la notte di martedì quando i nostri cavalli hanno galoppato insieme; che la descrizione delle possibilità di superare il problema della guerra fosse la descrizione dei tuoi baci. Che le risorse che sarebbero arrivate per comprare aratri e cannoni fossero il miele dei tuoi occhi che nascondevi per proteggere la mia stanca persona, come mi ripetevi per nascondere le lacrime del piacere che ti inondava. Poi ho ascoltato la tua voce. Era la stessa. Ti ho dato la mano, e la tua pelle mi ha percorso tutto quanto. Come... i minuti eterni che hanno arrestato le maree, il vento del nord, la rosa dei venti, il tintinnio di stelle sospese in giardini segreti e l’arcobaleno che si vedeva fino a mezzanotte. Tutto questo sei stata, avvolta nella tua uniforme dai distintivi dorati, la stessa con cui aggredisci la ripugnanza di quanti ignorano come si costruisce la vita. Domani si terrà un’altra riunione al Congresso. Ci sarai? Trad. E.S.

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DA ANACAONA A LA POLA

L’America latina riscopre le sue eroine Una rassegna sintetica per ricordare le protagoniste della Resistenza indigena e dell’Indipendenza latinoamericana, recuperate alla memoria storica grazie al revisionismo e agli studi di genere indirizzati da nuove istanze politiche e culturali. a cura di Emilia Saggiomo*

PIONIERE DELLA RIVOLTA Repubblica Dominicana. ANACAONA (1474 - 1503). È considerata la prima eroina. Cacicca dei Taino, nell’isola La Española, e moglie del cacicco Caonabo, viene ricordata per la sua arguzia e per il talento poetico. Flor de Oro - questo il significato del suo nome nella lingua taino - governa Jaragua all’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1492 e in un primo momento è incuriosita dagli spagnoli; ma i loro abusi sulle donne taino a Fuerte Navidad le fanno cambiare atteggiamento: convince allora Caonabo a sterminarli. Al suo ritorno sull’isola, il 28 novembre de 1493, Colombo trova la fortezza distrutta e i suoi 39 uomini uccisi. Anni dopo Anacaona protesta contro il governatore Nicolás de Ovando: la cacicca viene catturata, condannata

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alla forca e giustiziata nel 1503. Nasce così l’eroismo in America. Colombia. GAITANA (anni ‘30/‘40 del XVI secolo). Cacicca di Timaná, nelle Ande colombiane, conosciuta anche come Guaitipán, guida il suo popolo contro i conquistadores spagnoli (1540 ca.). In quel tempo, vivevano nella regione gli indigeni Yalcón, che contavano cinquemila guerrieri, e i Timanaes, gli Avirama, i Pinao, i Guanaca e i Paez. La Gaitana (così gli spagnoli chiamavano la cacicca) mette insieme più di seimila indios, che all’alba attaccano Pedro de Añazco e i suoi 20 umonini: 16 vengono ammazzati, 3 fuggono, e Añazco cade in mano dei suoi nemici. Gaitana gli fa cavare gli occhi e lo esibisce portandolo con un cappio al collo di villaggio in villaggio fino alla morte. Qui la resistenza indigena conta molti episodi che portano alla caduta dei capitani

Ampudia e Añazco; finché gli spagnoli, tornati coi rinforzi, mettono gli indigeni in schiacciante svantaggio e fanno strage, fino all’estinzione di interi popoli: secondo fra Pedro Simón, di quindicimila indigeni presenti a Timaná nel 1626, ne rimasero forse 600. Venezuela. OROCOMAY (prima metà del XVI secolo). Cacicca, esempio del potere delle donne in epoca precolombiana: 5.000 indigeni delle comunità lungo del fiume Unare obbediscono a lei. Gonzalo Fernández de Oviedo riporta nel trattato Historia general y natural de las Indias (1535): «signori assoluti governano i loro Stati e praticano l’arte della guerra, come la regina Orocomay». Perú. KURA OQLLO e MAMA ASARPAY (anni ‘30 del XVI secolo), tra le prime eroine. Entrambe lottano e congiurano contro gli spagnoli in epoca incaica, ed entrambe trovano la morte (la prima a Cuzco, la seconda a Lima) per ordine, rispettivamente, di Hernando Pizarro e Francisco Pizarro. Cile. GUACOLDA (metà del XVI secolo). Combatte al fianco di Lautaro in difesa del territorio: l’espulsione dell’invasore spagnolo era una missione condivisa da tutto il popolo mapuche, incluse le donne. L’esistenza reale di Guacolda, e delle altre combattenti Fresia, Tila e Caupolicán, è oggetto di discussione: secondo alcuni storici, Guacolda sarebbe un mito nato dal personaggio letterario dell’autore spagnolo Alonso de Ercilla y Zúñiga nel suo poema epico La Araucana.


PERÙ, NEL SEGNO DI TÚPAC AMARU E SAN MARTÍN

ANA DE TARMA nel 1742 comanda un gruppo di 52 donne guerriere che combattono contro l’esercito spagnolo guidato da Benito Troncoso nelle battaglie di Río La Sal e Nijandaris, dove le truppe realiste vengono sconfitte. Per tredici anni tengono testa agli invasori. JUANA MORENO si ribella ai soprusi degli encomenderos: si occupa di approvvigionare di armi i suoi per affrontare il tenente governatore generale don Domingo de la Cajiga, che nel 1777 arriva nel paesino di Llata per riscuotere tasse. La casa dove alloggiava il capo dell’esercito viene circondata, e fu proprio Juana Moreno a uccidere il governatore. MARCELA CASTRO (1781) accusata di aver partecipato alla rivolta Tupacamarista a Marcapata e di non aver rivelato nulla agli spagnoli quando interrogata, viene giustiziata: del suo corpo viene dilaniato, la testa è collocata sul sentiero che va a San Sebastián, un braccio a Sicuani, l’altro al ponte di Orcos, una gamba a Pampamarca, l’altra a Ocongate, e il resto del corpo viene bruciato in piazza. CECILIA TÚPAC AMARU (1781) supporta la ribellione occupandosi della fornitura di viveri e di un fondo economico e prende parte ai preparativi bellici di Cerro Piccho con Túpac Amaru. Soffocata la rivolta, viene fatta prigioniera e condannata a duecento frustate per le strade di Cuzco e all’esilio nel convento Las Recogidas in Messico. TOMASA TITO CONDEMAYTA Cacicca di Acos e Acomayo, nel Dipartimento di Cusco. Combatte al fianco di Tupac Amaru II nella rivoluzione del primer Grito e muore giustiziata dagli spagnoli nel il 18 maggio 1781: il suo corpo viene dilaniato e la sua testa esposta nella piazza di Acos. MICAELA BASTIDAS PUYUCAHUA (Tamburco, Abancay, 1744 - Cusco, 1781). Coraggiosa precorritrice dell’Independenza ispanoamericana. Moglie e consigliera di Túpac Amaru II, che nel 1780 inizia un movimento contro la dominazione spagnola: Micaela assume in

esso molteplici ruoli. Una legione di combattenti andine, quechua e aymara collaborano con Micaela nella sommossa. Sono a capo del movimento anche Cecilia Túpac Amaru e Tomasa Tito Condemayta. Rimane gloriosa la vittoria di Sangarará (18 novembre 1780), quando Micaela viene nominata vice comandante della rivolta. Ma a causa di un grave errore tattico, il contingente di Túpac Amaru cade in un agguato realista: insieme a lui, Micaela, i loro figli Hipólito (18 anni) e Fernando (10), e altri famigliari vengono catturati e portati a Cusco. Condannati tutti alla pena capitale, il 18 maggio 1781 nella Plaza de Armas di Cuzco vengono giustiziati uno a uno con spaventosi strumenti di morte e sacrifici raccapriccianti. ROSA CAMPUZANO (Guayaquil, Ecuador 1796 - Lima, Perù 1851). Detta “La Protectora” perché amante del Generale José de San Martín esaltado come Protector del Perú. Attivista affiliata alla causa dell’Indipendenza del Perù. Le sue capacità intellettuali, la posizione economica e le importanti relazioni sociali da lei intessute le permettono di sostenere San Martín nella lotta di liberazione. LE EROINE TOLEDO (marzo o aprile 1821). A Concepción un episodio eroico nella storia dell’indipendenza del Perù si deve a queste tre donne: una madre, Cleofé Ramos, e le sue figlie María e Higinia Toledo. Nella sierra centrale, le “Toledo” guidano un gruppo di abitanti di Concepción per bloccare il passaggio alle truppe del generale realista Jerónimo Valdés: demoliscono il ponte sul fiume Mantaro, via d’entrata nel loro paese, così l’avanzata di Valdés è ritardata e le forze patriottiche si mettono in salvo. Il Protector José de San Martín le insignisce della “Medaglia delle Vincitrici”.

IN BOLIVIA

Il 5 settembre si celebra in America Latina la Giornata internazionale della donna indigena, istituita in Bolivia nel 1983 in memoria di Bartolina Sisa. Oggi molte comunità indigene, in particolare in Bolivia, Perù, Chile e Ar-

gentina, celebrano lei e le eroine della Coronilla. BARTOLINA SISA (Sullkawi del Ayllu, 1753 - La Paz, Vicereame del Perù, 1782). Eroina indigena aimara, viceregina e comandante con suo marito il viceré aimara Túpac Katari (Julián Apaza, 1750-1781). Nell’Alto Perù (oggi Bolivia) Bartolina, a capo di guerrieri indigeni, in battaglia l’esercito realista, è una protagonista della resistenza contro gli spagnoli insieme a sua cognata GREGORIA APAZA (Ayo Ayo, 1751 - La Paz, 1782), eroina e guerriera, sorella di Túpac Katari; poi le due eroine aimara vengono catturate e giustiziate: le membra mutilate sono inviate in diversi luoghi e il resto del corpo viene incenerito e dato al vento. EROINE DELLA CORONILLA (27 maggio 1812). A Cochabamba, durante la guerra d’Indipendenza dell’Alto Perù, valorose donne cochabambine, guidate dalla non vedente Manuela Gandarillas e da Manuela Rodríguez, lottano contro la corona spagnola sulla collina di San Sebastián, nella Coronilla, dove i soldati realisti le sterminano tutte.

PATRIOTE COLOMBIANE

MANUELA BELTRÁN (Santander, Colombia, seconda metà del XVIII secolo). Si sa poco di lei. Era “una donna del popolo”, ma sapeva leggere abbastanza da comprendere il testo dell’editto sui nuovi tributi imposti dal prefetto Juan Francisco Gutiérrez de Piñerez. Facendosi portavoce dell’indignazione del popolo, Manuela Beltrán al grido “Viva il Re e muoia il malgoverno!” strappa l’editto il 16 de marzo de 1781, divenendo con tale gesto la prima donna ad affrontare il regime spagnolo e prendendo parte all’insurrezione dei Comuneros. Beltrán, come la Gaitana, fino a quell’epoca sono le donne che si ricordano per il coraggio che le rese capaci di sfidare per prime la corona spagnola. POLICARPA SALAVARRIETA DETTA LA POLA (Guaduas, 1795 - Bogotá, 1817). Sarta e spia colombiana, opera per conto delle forze rivoluzionarie.

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Nel 1802 a Bogotá perde i genitori e due fratelli in un’epidemia di vaiolo, poi lavora come sarta a Guaduas; al suo ritorno a Bogotá nel 1817 è già politicamente attiva. La Pola, non essendo nata nella capitale, può muoversi liberamente e incontrare altri patrioti e spie senza destare sospetti; può anche infiltrarsi tra i realisti offrendosi come sarta alle mogli e alle figlie degli spagnoli: Policarpa entra nelle loro case e ascolta le conversazioni, raccoglie notizie sui loro piani, capisce i loro sospetti. Le sue operazioni segrete proseguono finché, scoperta e accusata di aver trasportato armi, munizioni e rifornimenti ai rivoltosi, viene arrestata con suo fratello Bibiano. Condannati a morte per fucilazione, il 14 novembre 1817, Policarpa, il suo amante Alejo Sabaraín e sei altri prigionieri vengono giustiziati. Salita sul patibolo, un soldato le porge un bicchier d’acqua e lei risponde: «Non berrò l’acqua di un tiranno». La Pola muore in quella che oggi è piazza Bolívar. Dal 1967, il 14 novembre è il “Giorno della donna colombiana” in onore all’eroina. Sul monumento del 1910 a lei dedicato, a Bogotà, un epitaffio riporta un anagramma perfetto del suo nome (secondo la variante arcaica grecizzante): “Polycarpa Salavarrieta - Yace por salvar la patria”. ANTONIA SANTOS (Santander, 1782 - El Socorro, 1819). È una delle eroine dell’Independenza della Colombia. Si unisce alla causa di Simón Bolívar e crea la «guerrilla de Coromoro», la prima formatasi nella provincia del Socorro per lottare contro l’invasione spagnola. Questo gruppo ha un ruolo importante nelle battaglie di Pantano de Vargas e Boyacá. Tradita da uno dei suoi, Antonia Santos è arrestata e giustiziata (28 luglio 1819). Tra i suoi discendenti, Eduardo Santos e Juan Manuel Santos, presidenti della Colombia nel 1938 e nel 2010.

GIAMAICA

NANNY DEI CIMARRONI (Costa d’Oro, Africa 1680 ca. – Giamaica,1750 ca.). Una madre del popolo, un leader politico e religioso, i cui avi erano di

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Asante (Ghana); le attribuivano poteri soprannaturali, magico-religiosi. Protagonista della resistenza contro il dominio inglese, Nanny conduce molti schiavi fuggiaschi verso le colline di Portland, zona che prende poi il nome di Nanny Town. Le forze coloniali invadono le colline per recuperare gli schiavi e Nanny e i cimarroni, combattono contro i soldati britannici. I cimarroni si organizzano poi in due grandi comunità: quella di Leeward a est, e quella di Windward che riconosce Nanny come regina (Queen Nanny, Nanny of the Maroons). Non hanno molte armi se non quelle prese ai soldati uccisi, ma gli schiavi fuggiaschi sono abili a combattere nella selva, nel posizionare trappole, negli agguati, e Nanny nel travestimento. Nanny Town viene distrutta dagli inglesi e cambierà nome in Moore Town. La resistenza Maroon è considerata storica presa di coscienza dell’autodeterminazione della componente africana in Giamaica (che diventerà poi maggioritaria) nei confronti di quella bianca e inglese; non a caso, come riconoscimento al valore della lotta contro i britannici, Nanny è l’eroina nazionale.

HAITI

CATHERINE FLON (Arcahaie, Haiti). È un simbolo della libertà haitiana: fu lei a cucire la prima bandiera della Repubblica. Il 18 maggio 1803, nei pressi di Port-au-Prince, il patriota indipendentista Jean-Jacques Dessalines prende la bandiera francese, strappa via la frangia bianca centrale e consegna le due frange restanti, dai colori blu e rosso, a Catherine Flon, la sua figlioccia, perché le imbastisca. Così

nasce la bandiera della Repubblica di Haiti. Il 18 novembre 1803 l’esercito di Dessalines aveva sbaragliato i francesi nella Battaglia di Vertières, e il 1º gennaio 1804 l’ormai ex colonia dichiara la sua indipendenza. È del 1988 il riconoscimento dell’importanza storica e simbolica di Catherine Flon, il cui volto appare sulle banconote da 10 gourdes e alla quale nel 2000 viene intitolata una piazza.

ARGENTINA

MANUELA PEDRAZA (Tucumán, Provincias Unidas del Río de la Plata). Manuela la tucumanesa, difensora della città di Buenos Aires durante la prima invasione inglese (1806), lotta eroicamente nelle giornate 10, 11 e 12 agosto nella battaglia della plaza Mayor intorno a La Fortaleza (oggi Casa Rosada, sede del Governo). In battaglia perde suo marito e Manuela insegue e uccide il soldato inglese che ne aveva causato la morte. Alla fine il comandante Liniers la inserisce nel Battaglione dei Patricios dandole il grado di sottotenente. Oggi una strada e una scuola di Buenos Aires portano il suo nome, così come numerose vie e cittadine argentine.

EL SALVADOR

MARÍA FELICIANA DE LOS ÁNGELES MIRANDA (1811) Patriota salvadoregna, guida uno delle prime insurrezioni contro le autorità spagnole: nasce il primo movimento indipendentista a San Salvador contro le autorità della Capitaneria Generale del Guatemala (divisione amministrativa del Vicereame della Nuova Spagna, nell’Impero coloniale spagnolo),


alla quale apparteneva la Provincia di San Salvador. Le sorelle María Feliciana e Manuela Miranda diffondono le notizie sul movimento. I patrioti Juan Morales, Antonio Reyes, Isidro Cibrián e le sorelle Miranda organizzano e guidano una rivolta a Piedra Bruja, Cabañas (29 de dicembre 1811). Catturati dagli spagnoli e imprigionati nel castello di Omoa in Honduras, mentre le sorelle Miranda, recluse nel convento di San Francisco, vengono poi processate a Sensuntepeque, condannate a cento frustate e a lavorare come serve senza paga nella casa del parroco Manuel Antonio de Molina y Cañas, sacerdote realista che taccia il movimento come eretico. Pare che María de los Ángeles Miranda sia morta durante il supplizio.

VENEZUELA, EROINE AL TEMPO DI BOLÍVAR

EULALIA RAMOS SÁNCHEZ (Tacarigua de Mamporal, 1796 - Barcelona,Venezuela, 1817). Conosciuta come Eulalia Buroz o Eulalia Chamberlain, eroina dell’Indipendenza del Venezuela, vicina ai seguaci del Libertador Simón Bolívar, nel 1812 sposa il patriota Juan José Velásquez, dal quale si separa a causa della persecuzione degli spagnoli. Sua figlia neonata perde la vita mentre Eulalia è in fuga sui monti di Tacarigua: dovrà scavare lei stessa la fossa per seppellire il piccolo corpo. Alcuni giorni dopo, a Río Chico viene catturata ma, poco prima della fucilazione, dei patrioti la soccorrono. Tornata a casa, trova riparo e alloggio presso la famiglia Buroz (da lì l’equivoco del cognome). Nel 1814, mentre Caracas è assaltata dalle truppe di José Tomás Boves, scappa in Colombia. Mesi dopo, viaggia a Cumaná e viene a conoscenza della fucilazione del marito a Río Chico. Più tardi sposa

il colonnello William Charles Chamberlain, un inglese che ha il ruolo di aiutante di campo di Bolívar. Nel 1817, a Barcelona, muore durante l’assedio realista di Juan Aldama: si dice che nello sparare a un soldato, gridando “Viva la Patria, a morte i suoi tiranni!”, sia stata a sua volta colpita a morte, e che il suo cadavere mutilato sia stato esibito per le strade. Oggi nell’antica Casa Fuerte di Barcelona si erge una statua dell’eroina con la pistola in pugno, e un municipio porta il nome di Eulalia Buroz. LUISA CÁCERES DE ARISMENDI (Caracas, 1799 - 1866). Moglie del patriota Juan Bautista Arismendi, suo padre José Domingo e suo fratello Félix vengono fucilati a Ocumare del Tuy dal comandante spagnolo Francisco Rosete (1814). Successive sconfitte e l’offensiva di José Tomás Boves e della sua “Legione infernale” obbligano le fuerze patriottiche ad abbandonare la piazza di Caracas; inizia la ritirata comandata da Simón Bolívar e José Félix Ribas (la Emigración a Oriente); durante la quale muoiono quattro membri della famiglia Cáceres. Molti trovano rifugio a Margarita grazie al colonnello Arismendi, che nel 1814 sposa Luisa Cáceres. Luisa, incinta, è catturata e interrogata su Arismendi e i suoi, messa in una cella buia dove iniziano torture e maltrattamenti ai quali non cederà mai. Viene obbligata a bere acqua mista a sangue dei patrioti ammazzati in prigione, e il 26 gennaio 1816 dà alla luce una bambina che muore appena nata a causa delle condizioni del parto e della cella. Dopo anni di prigionia e varie peripezie che la portano a spostarsi come prigioniera dal carcere della Guaira a Caracas, da Cadice in Spagna a Filadelfia negli Stati Uniti, nel 1819 le è concessa libertà assoluta. Vive a Caracas fino alla morte, dopo aver visto libera la sua

patria. Nel 1876 Luisa Cáceres diventa la prima donna i cui resti riposano nel Panteon Nazionale. JOSEFA CAMEJO DETTA “DOÑA IGNACIA” (Curaidebo, 1791 – Maracaibo, 1870 ca.). Eroina dell’Indipendenza e tenace difensora della Provincia di Coro, durante la guerra d’Indipendenza del Venezuela. Il 18 ottobre 1811 firma il “Manifesto del Gentil Sesso al Governo di Barinas”: le firmatarie, consapevoli dell’invasione che avrebbero tentato i guayanesi da San Fernando de Apure, si mettevano a disposizione per la difesa di Barinas, senza timore per gli orrori della guerra. In abiti maschili, insieme ad altre donne, si unisce all’esercito di Rafael Urdaneta in marcia verso Nueva Granada dove resta per cinque anni; da guerrigliera vive clandestinamente tra i monti, vagando, secondo alcuni racconti, travestita da vagabonda o da mendicante. Tornata dall’esilio, nel 1821, con trecento schiavi sostiene la ribellione contro le forze realiste della Provincia di Coro; ma è una disfatta. Il 3 maggio dello stesso anno, con un gruppo di quindici uomini si presenta a Baraived, dove riposava il capo realista Chepito González, che affronta e sconfigge. In seguito, si reca con altri patrioti a Pueblo Nuevo, dove il governatore è fatto prigioniero. Viene allora nominato un governatore civile repubblicano (Mariano Arcaya), e quello stesso giorno Josefa Camejo legge a Pueblo Nuevo il manifesto che dichiarava libera la Provincia de Coro e nel quale si giurava fedeltà alla Repubblica. L’8 marzo 2002 la Camejo è posta simbolicamente nel Panteon Nazionale. *Coordinatrice di redazione Amerindia Addetto alla cultura Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

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NuestramĂŠrica Le rivoluzionI


Novantanove anni fa

Zapata e Pancho Villa giunsero vittoriosi a Città del Messico di Adrián Durán*

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ra il 6 dicembre 1914, quando Emiliano Zapata e Francisco (Pancho) Villa fecero il loro trionfale ritorno a Città del Messico, capitale della nazione omonima. Fu un atto di vittoria e di conquista rivoluzionaria. Zapata, che era conosciuto come “Il leader del Sud”, e Villa, “Il Centauro del Nord”, avevano firmato due giorni prima il Patto di Xochimilco, con il quale si consolidava l’alleanza tra l’Esercito di Liberazione del Sud e le truppe della Divisione Nord, al fine di promuovere e far rispettare riforme agrarie e affidare ad un civile la presidenza della

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Repubblica. Fu un momento cruciale per la rivoluzione messicana, che ebbe inizio nel 1910 e si concluse nel 1920. Attivisti sociali, insieme a contadini e forze militari marciarono per le strade di Città del Messico, fino al Palazzo Nazionale, dove mesi prima c’era stato Venustiano Carranza, ritiratosi a Veracruz per stabilire il proprio dominio. Questo fu il plotone degli uomini della Divisione Nord e l’Esercito di liberazione del Sud; due forze che si unirono con anima, cuore e armi. Poco più di 50.000 uomini si concentrarono a Chapultepec e alle 11 del

mattino cominciarono a dirigersi verso il Paseo de la Reforma, secondo un resoconto del ricercatore Alejandro Rojas, il quale precisa che la giornata si concluse quando Villa, accompagnato da Zapata, si sedette sulla sedia presidenziale. Per la ricercatrice Elsa Aguilar Casas, storicamente, il viaggio intrapreso durante la guerra del Messico aveva come meta finale Città del Messico, dunque tutte le forze armate avrebbero dovuto trovare un modo per raggiungere questo luogo simbolico, che era sinonimo di vittoria. Fu l’atto che legittimò la vittoria.


Durante il soggiorno di queste forze armate a Città del Messico, Villa ordinò di cambiare il nome di via dei Plateros in Francisco I. Madero dimostrando così affetto e rispetto nei confronti del suo compagno che stava combattendo.

UN DURO CAMMINO

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Aguilar Casas nel suo testo Villa e Zapata a Città del Messico. Questo accadde quando ci fu l’ incontro tra tutte le forze patriottiche nella città di Aguascalientes, ossia quando Carranza fu respinta dagli zapatisti e villisti i quali non vollero riconoscere il Plan de Ayala, che prevedeva la riforma della normativa agricola, la libertà, la giustizia e la legge, e con la quale si ripudiava il governo del presidente Francisco I. Madero (1911-1913), accusato di tradire la causa contadina. A quel punto era impossibile generare un accordo per lo sviluppo del paese. Zapata e Villa decisero di unire i loro eserciti e quindi iniziarono la guerra contro Carranza, che a sua volta era sostenuto dal generale Alvaro Obregon il quale si era recato a Veracruz per avere il supporto degli invasori americani. Con questa unione, gli zapatisti e le forze della Villa riuscirono ad accedere a Città del Messico. «In perfetto schieramento / allinea-

er arrivare a Città del Messico, gli zapatisti e Pancho Villa dovettero tracciare un percorso e lottare con sangue, guerra, speranza e vittoria. Dopo l’assassinio di Francisco I. Madero, che governò il Messico durante il 1911 e il 1913 e quello del Vice Presidente José María Pino Suárez per conto del generale Victoriano Huerta, in Messico si sprigionò una lotta contro Huerta per tradimento e il colpo di stato che aveva causato. Con il passare del tempo, il governo , al di fuori della costituzione di Huerta, diventò impossibile da sostenere, in quanto durante la dittatura militare si sciolse il Congresso dell’Unione e Dopo questo evento storico che segnò si ignorò la Costituzione e successivala rivoluzione messicana, gli eserciti mente si intensificò anche la lotta di Villa e Zapata Carraza si affroniniziata nel 1910 contro gli zapatarono nel 1915 e 1916. tisti, poi ‘trattenuta’ nel 1911 Carranza, che nel 1917 fu eletquando si formò il governo di to presidente costituzionale, Madero. firmò la Magna Carta, con la Per contrastare il terrore in“Chi desidera essere un’aquila, voli! quale si stabiliva la distribustaurato da Huerta, le forze chi desidera essere un verme, strisci! zione della terra, ciò che inrivoluzionarie chiesero aiuto ma che non gridi quando lo pestano!” debolì la causa zapatista. a Venustiano Carranza, che Emiliano Zapata Il 10 Aprile 1919, Zapata fu divenne primo capo dell’eserucciso in seguito ad un ordine cito costituzionalista e rappreautorizzato da Carranza. Nel sentante del potere esecutivo. frattempo, Villa fu assassinato Gli oppositori di Huerta optaroin un agguato il 20 luglio 1923 . no per il costituzionalismo contro «Meglio morire in piedi che vivere la dittatura, dissolto poi nel 1914, in ginocchio tutta la vita»: così oggi quando Huerta fuggì dalla capitale e ricordiamo le parole di Zapata. presentando successivamente al Congresso le sue dimissioni. Questo segnò il trionfo dell’esercito costituzionale. to, rigoroso, fiero / conformemente Traduzione di Simona Palumbo Tuttavia, i conflitti interni , sia politici impostato / e di prescrizione militache ideologici, infuriavano. re/come ogni squadra di spessore/ si *Giornalista venezuelano AVN «Se si giunse ad un accordo, ottenendo sfilò in modo bizzarro guardando la così la resa di Huerta, è anche vero che gente che era lì ad assistere il soldato successivamente le difficoltà tra Villa che marciava fiero e che raggiungeva e Carranza, e tra Zapata e Carranza il fronte», dice una poesia di un autore divennero sempre più delicate», dice anonimo.

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LA RIFORMA AGRARIA MESSICANA: UN SEGNO CHE DURA NEL TEMPO di Arturo Warman* La riforma agraria messicana fu un processo lungo e complesso. La riforma ha avuto origine nello stesso tempo in cui era in atto una rivoluzione popolare per svilupparsi poi durante la guerra civile. Il Plan de Ayala, proposto da Emiliano Zapata e adottato nel 1911, chiedeva la restituzione ai popoli delle terre che erano state un tempo concentrate nelle haciendas. Nel 1912 alcuni leader militari rivoluzionari fecero le prime distribuzioni delle terre. Nel 1915 le tre principali forze rivoluzionarie, costituzionali, villisti e zapatisti emanarono le leggi agrarie. L’attenzione ad una diffusa richiesta di terra diventò una condizione di pace e di restaurazione di un governo nazionale dominante: la costituzione del 1917 comprendeva la distribuzione della terra nell’ articolo 27. Da allora, e con successivi adeguamenti fino al 1992, la distribuzione delle terre coincide con un mandato costituzionale e politico dello stato messicano. Questa distribuzione rimane la prerogativa dello Stato, se si considera la riforma agraria come una distribuzione più ampia del concetto di proprietà semplice. Durante il lungo periodo che va dal 1911 al 1992 agli agricoltori sono stati dati più di 100 milioni di ettari di terra, pari alla metà del territorio del Messico e circa i due terzi della proprietà totale del paese. [...] La riforma agraria è nata come un processo di formazione di alcune piccole aziende la cui produzione era insufficiente a soddisfare pienamente le esigenze delle famiglie rurali. [...] Nel primo periodo della riforma agraria, che va dal 1920 al 1934 le terre distribuite furono un supplemento del salario dei lavoratori rurali, beni che avrebbero dovuto fornire cibo di base, alloggio e altro per migliorare il reddito maturato presso le aziende agricole e le proprietà di agro-esportazione, il settore più efficiente dell’economia messicana. La distribuzione della terra viene quindi intesa come un atto di giustizia che eleva il benessere dei contadini; ma la sua importanza per lo sviluppo economico nazionale non è stata presa in considerazione. [...] Traduzione di Simona Palumbo *Antropologo ed ex ministro della Riforma Agraria in Messico

“TIERRA Y HOMBRES LIBRES” Ezequiel Zamora (Cua, Venezuela, 1817- San Carlos, Venezuela, 1860). Considerato il “Generale del Popolo Sovrano”, propugnò una radicale riforma agraria a favore dei contadini. E per molti fu il più grande leader popolare venezuelano del XIX secolo. Militare e politico, fu uno dei principali protagonisti della guerra federale e primo leader sociale venezuelano. Durante la sua gioventù un amico lo indirizza alla filosofia moderna, diritto romano e agli ideali rivoluzionari. Più tardi a Villa de Cura si occuperà di un negozio di alimentari ma subirà la crisi economica causata dalla Guerra di Indipendenza. Successivamente simpatizza con le proposte del Partito Liberale, capeggiato da Antonio Leocadio Guzman e diviene capo regionale dei liberali. Nel 1846 si presenta come candidato ad elettore per Villa de Cura, ma la sua nomina è contestata dai conservatori. Per questo motivo chiede di “far guerra ai nobili” a beneficio dei poveri. En 1846, mentre Jose Antonio Páez leader dei conservatori è nominato capo dell’esercito nazionale, a Guambra Zamora sta per attaccare, al grido di “terra e uomini liberi”. Risulta vittorioso a Los Bagres e Los Leones ma nel 1847 è sconfitto e catturato. Il tribunale di Villa de Cura lo condanna a morte, ma il presidente Josè Tadeo Monagas gli concede l’indulto. Nel 1859 durante la guerra Federale, si unisce al leader dei liberali Juan Crisóstomo Falcón, che lo nomina guida nelle operazioni in Occidente. Organizza un esercito popolare pro-federalista e fa in modo che lo stato di Coro si converta in Stato Federale. Il 23 marzo trionfa a El Palito e poi si dirige verso le pianure occidentali. Cinque giorni dopo occupa San Felipe e riorganizza la provincia con il nome di Stato Yaracuy. Il 10 dicembre sconfigge l’esercito centralista nella battaglia di Santa Inés. Nel 1860 decide di prendere d’assalto la città di San Carlos ma muore dopo essere stato colpito alla testa. La sua prematura scomparsa ha cambiato il corso della guerra. Dopo la sua morte, la sua persona è stata sistematicamente denigrata dai conservatori. Il nome di “Stato Zamora” con il quale si chiamarono gli attuali stati di Apures e Barinas dal 1862, fu cambiato definitivamente in Barinas nel 1937, in quanto i proprietari non furono d’accordo a rendere omaggio alla figura di Ezequiel Zamora. Inoltre, la statua che avrebbe commemorato la sua memoria nella piazza Zamora de Barinas è stata demolita e gettata nel fiume Santo Domingo. Tuttavia, le sue spoglie riposano nel Panteon Nazionale. Trad. S.P.

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A 121 anni dalla nascita

Sandino, l’edificatore della nazionalità latinoamericana da www.correodelorinoco.gob.ve

Nato nel 1893, Sandino ha combattuto contro l’intervento statunitense in Nicaragua. A partire dal 1926 si è impegnato nella battaglia contro le forze occupanti che si erano istallate sul territorio nicaragüense dal 1916 per difendere gli interessi delle transnazionali degli USA.

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l 18 maggio si commemora l’anniversario della nascita del leader guerrigliero nicaragüense Augusto César Sandino, originario della città di Niquinohomo, nel dipartimento di Masaya, edificatore dell’idealità nuestroamericana ereditata da Simón Bolivar e dalla Revolución Mexicana. Nato nel 1893, Sandino ha combattuto contro l’intervento USA in Nicaragua. A partire dal 1926, dopo essere stato in Honduras, Guatemala e Messico, dove ha lavorato presso gli zuccherifici e i pozzi petroliferi, si è distinto nella

battaglia contro le forze occupanti che si erano istallate sul territorio nicaragüense dal 1916 per difendere gli interessi delle transnazionali degli USA. Il Nicaragua era inoltre vittima dell’accordo Bryan-Chamorro, che concedeva agli USA i diritti di costruzione di un canale interoceanico e una base navale nel golfo di Fonseca; nonché del trattato Stimson-Moncada, firmato il 4 Maggio del 1927, tra l’inviato plenipotenziario di Washington Henry Stimpson ed il generale José María Moncada. Anche conosciuto come Pacto del Espino Negro, attraverso questo accordo il governo di turno e la fanteria di marina degli USA imposero la resa ed il disarmo dell’Esercito Costituzionalista nonché la supervisione delle elezioni da parte dei marines statunitensi. Tale patto segnò l’inizio della intesa

lotta di Sandino, che si oppose all’accordo decidendo di espellere i marines, dovendo scontrarsi con traditori ed invasori, in una lunga lotta di liberazione nazionale.

SIMÓN BOLÍVAR NELLA LOTTA DI SANDINO

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’insieme delle idee che hanno costituito la lotta di Sandino è stato costruito sulla base del pensiero di Simón Bolívar. Ciò si riconosce nel manifesto del 20 marzo del 1929, che il capo guerrigliero nicaragüense definì “Plan de realización del supremo sueño de Bolívar”, inviato ai 21 governanti latinoamericani dell’epoca. Tale Piano si presenta come uno degli antecedenti più importanti della Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) e della

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CASIMIRRI: DALLE BRIGATE ROSSE ALL’ESERCITO SANDINISTA? Alessio Casimirri (Roma, 1951), ex Br condannato a sei ergastoli nel processo Moro-ter per la partecipazione al rapimento di Aldo Moro e ad altri attentati, vive tuttora in Nicaragua, nonostante i ripetuti tentativi delle autorità italiane di ottenerne l’estradizione. A Managua ha aperto un ristorante con degli amici (Magica Roma) e ne possiede un altro tutto suo (La cueva del Buzo). Sommozzatore esperto e diplomato Isef, l’ex Br svolge attività di pesca ed esplorazioni subacquee, e pare che sia diventato istruttore per l’addestramento degli incursori dell’esercito sandinista.

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Unión de Naciones Suramericanas (Unasur). Sandino indica la necessità della creazione della Nazionalità Latinoamericana essendo “profondamente convinti come siamo del fatto che il capitalismo nordamericano (USA) è arrivato alla fase suprema del suo sviluppo, trasformandosi di conseguenza, in imperialismo, e che ormai non rispetta più alcuna teoria di diritto né di giustizia passando, senza alcun rispetto, sopra gli inamovibili principi della Indipendenza degli stati dell’America Latina”, si legge nel testo. Il progetto, che invita alla creazione di una Alianza Latinoamericana, dichiara “abolita la dottrina Monroe e, di conseguenza, annulla la pretesa di tale dottrina di immischiarsi nella politica interna ed esterna degli Stati Latinoamericani”. Inoltre si dichiara “riconosciuto il diritto di alleanza ai ventuno Stati dell’America Latina Continentale ed Insulare, e quindi, si stabilisce una sola nazionalità, denominata Nazionalità Latinoamericana, riconoscendo a tutti gli effetti tale nazionalità”. Altresì si invita a creare una Corte di Giustizia ed un Esercito Latinoamericano, per la difesa della sovranità dell’America Latina.

La sede della Corte viene battezzata con il nome di Simón Bolívar, definito “egregio realizzatore della Indipendenza Latinoamericana” e “massimo forgiatore dei popoli liberi”. Si conviene sulla creazione di un organo finanziario comune, avente l’obiettivo di farsi carico della “costruzione di opere, materiali e strade di comunicazione e trasporto”. Si invitano gli Stati Latinoamericani a stimolare “in maniera particolare il turismo latinoamericano al fine di promuovere il reciproco avvicinamento e la mutua conoscenza tra i cittadini delle nazioni del Continente”. Sandino ebbe come collaboratore importante il comunista salvadoreño José Farabundo Martí per consolidare il messaggio politico ed ideologico del suo movimento. Nel 1934, dietro un invito che era in realtà una imboscata per eliminarlo, il líder nicaragüense cadde sotto il fuoco dell’allora capo della Guardia Nazionale, Anastasio Somoza. Sandino è il riferimento ideologico dell’attuale Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN), oggi al governo, e della rivoluzione promossa da questo movimento che sconfisse la dittatura somozista nel 1979. Traduzione di Ciro Brescia


Storia di un’amicizia: il Che e Fidel di Alessandra Riccio*

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a storia della Rivoluzione cubana, a metà del secolo scorso, ha sorpreso il mondo per la sua aura di leggenda, corroborata dalle testimonianze fotografiche e cinematografiche che diffondevano le immagini di giovani, belli e determinati, con barbe e capelli lunghi, collane di semi al collo, armati senza apparire militareschi. Fra tutti si faceva notare un corpulento avvocato, ex dirigente studentesco, autore di un sensazionale e fallito attacco alla più importante caserma dell’esercito del dittatore Batista, la Moncada, ex detenuto nel carcere di Isla de Pinos, amnistiato a furor di popolo, esiliato in Messico da dove aveva organizzato una spedizione sul piccolo yacht Granma, sbarcando sull’isola per combattere il dittatore in una guerra di guerriglia sui contrafforti dell’impervia Sierra Maestra. Accanto a lui, un argentino, bello e terribile, imbarcato come medico del-

la spedizione, che aveva abbandonato la cassetta dei farmaci per imbracciare il fucile durante il drammatico sbarco e la disperata ritirata verso gli anfratti della montagna. Si erano conosciuti in Messico, dove Ernesto Guevara, ribattezzato dai cubani “Che” a causa dell’intercalare tipico degli argentini, si era rifugiato dopo il golpe contro il presidente Arbenz in Guatemala. Il suo incontro con Fidel è entrato nella leggenda: in una casa ospitale i due conversano tutta la notte e all’alba il Che è reclutato e la sua scelta di combattere per i diritti degli oppressi è definitiva. Ne scrive ai suoi familiari in Argentina quando ormai, dopo essere stato arrestato con tutti gli altri cubani, sorpresi ad addestrarsi con le armi, non può più continuare a fingere di voler proseguire nella sua carriera di medico, come aveva fatto credere fino a quel momento. Questo momento determinante è regi-

strato nelle ultime lettere che ha scritto a sua madre, amatissima, con una durezza che nasconde il dolore e la coscienza della gravità della sua scelta; la redarguisce con severità per gli appelli alla prudenza e a ripensare a quel che faceva, naturali in una madre, ricordandole che la sua decisione scaturiva proprio dall’educazione che aveva ricevuto da lei, donna colta e progressista. In quelle lettere, il Che non nasconde la possibilità di perdere la vita ma è disposto a farlo per partecipare, insieme a quei giovani compagni, a lottare per l’affermazione di diritti, per sconfiggere un dittatore sanguinario, per combattere lo sfruttamento, il neocolonialismo e l’imperialismo. La storia di Fidel Castro è diversa ma uguale nelle finalità, negli stimoli etici, nella visione antimperialista, nel dovere di affermare la sovranità dei paesi latinoamericani. Fidel è cubano e a Cuba dedica il suo impegno dopo aver sconfitto la dittatura nel gennaio del 1959 ed aver dato inizio all’immane lavoro di costruzione di una società rivoluzionaria. Resta a Cuba ma guarda al mondo in un momento in cui tutto il Terzo Mondo è in fermento e dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina sorgono reclami e movimenti di decolonizzazione che trovano eco a Cuba. Il Che, ormai cittadino cubano onorario, ha accettato importanti incarichi di governo, è Presidente della Banca, è Ministro dell’Industria ma la sua anima internazionalista lo porta a combattere nel Congo, appena dopo la morte di Lumumba, in un’avventura finita male ma importante per rafforzare il suo internazionalismo. Ricercato come un delinquente, entra in clandestinità, appoggiato, difeso, protetto e consigliato da Fidel Castro dal quale riceva anche l’aiuto –segretissimo- per organizzare la sua spedizione in Boliva con l’intento di unirsi poi alla guerriglia in Argentina. “En silencio ha tenido que ser”, il Che scompare dalla ribalta internazionale. Tutte le ipotesi, spesso grottesche e perfide, circolano per il mondo e mirano soprattutto a insinuare che è lo stesso Fidel ad aver fatto fuori il suo braccio destro, ad

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averlo gettato in manicomio, ad averlo liquidato. Ma la lettera di addio che Ernesto Guevara indirizza a Castro rivela la nobiltà di un’amicizia profonda: “Ripeto ancora una volta che libero Cuba da qualsiasi responsabilità, tranne quella che emana dal tuo esempio. Che se l’ora definitiva mi raggiungerà sotto altri cieli, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e specialmente per te. Che ti ringrazio per i tuoi insegnamenti ed esempio e che cercherò di essere fedele sino alle estreme conseguenze dei miei atti. Che mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra rivoluzione e che continuo a farlo. Che ovunque andrò, sentirò la responsabilità di essere un rivoluzionario cubano e come tale agirò. Che non lascio a miei figli e a mia moglie niente di materiale, ma ciò non mi preoccupa e mi rallegro che sia così. Che non chiedo nulla per loro, perché lo Stato darà loro quel che è sufficiente per vivere ed istruirsi”. *Docente (Università “Orientale” di Napoli) e condirettrice della rivista Latinoamerica

FELTRINELLI, KORDA E IL MITO DEL CHE È il 1964 quando l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli va a Cuba e incontra Fidel Castro, che gli affida l’opera di Che Guevara Diario in Bolivia, che diventerà uno dei maggiori best-seller della casa milanese. Nel 1968 Feltrinelli si recò anche in Sardegna: secondo i documenti scoperti dalla Commissione Stragi nel 1996, l’editore voleva entrare in contatto con gli ambienti della sinistra isolana per trasformare la Sardegna in una Cuba del Mediterraneo. A Feltrinelli viene anche regalata, dal fotografo cubano Alberto Díaz Gutiérrez, noto come Alberto Korda, la famosa foto del Che, Guerrillero Heróico. Scattata da Korda il 5 marzo 1960, essa divenne uno degli scatti più stampati e riprodotti nella storia della fotografia. Circostanza dello scatto, i funerali di 81 cubani morti durante un attentato terrorista finanziato ed appoggiato dagli anticastristi e dalla CIA nell’ambito dell’Operazione Mongoose. Il profilo della persona che appare nella foto accanto a Guevara è quello del giornalista italo-argentino Jorge Ricardo Masetti, amico del Che e fondatore dell’agenzia giornalistica cubana “Prensa Latina”.

La celebre foto Guerrillero Heróico

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CIENFUEGOS, SIGNORE DELL’AVANGUARDIA Insieme con Fidel Castro, Raúl Castro ed Ernesto Guevara, il rivoluzionario cubano Camilo Cienfuegos Gorriarán (L’Avana, 1932 - Oceano Atlantico, 1959) è stata una figura di spicco della rivoluzione cubana del 1956-‘59. Nato da genitori anarchici, Cienfuegos, nel 1956, dopo un soggiorno clandestino negli Stati Uniti, giunse in Messico per unirsi a Fidel Castro e ai “rebeldes”. Rientrato a Cuba con i “barbudos” a bordo del battello Granma, diventò in breve uno dei massimi comandanti militari della rivoluzione cubana e portò avanti, insieme a Ernesto Guevara, la strategia che permise alle colonne castriste a entrare all’Avana il 1° gennaio 1959, dopo la fuga del dittatore Fulgencio Batista. Dopo l’instaurazione del governo castrista, Cienfuegos assume il comando di tutte le forze armate cubane meritandosi l’appellativo di “signore dell’avanguardia”, coniato dall’amico Guevara; in breve tempo ricevette vari incarichi politici e divenne uno dei personaggi più popolari di Cuba. Pochi mesi dopo il trionfo della rivoluzione cubana, Camilo Cienfuegos fu inviato da Fidel Castro a Camagüey per arrestare il rivoluzionario Huber Matos, che si opponeva alla svolta marxista di Fidel. Ma non fece mai ritorno: il suo piccolo aereo, un Cessna, a causa di un uragano scomparve nell’Oceano Atlantico. Camilo è uno dei leader della rivoluzione più amati dalla popolazione cubana: il suo volto è scolpito, come quello del Che, sulla facciata delle sedi ministeriali a plaza de la Revolución, e il 28 ottobre di ogni anno i cubani gettano in mare un fiore alla sua memoria.

GINO DONÈ DALLA RESISTENZA ITALIANA ALLA RIVOLUZIONE CUBANA Gino Donè Paro (San Biagio di Callalta, 1924 San Donà di Piave, 2008), nato in Veneto da una famiglia di poveri braccianti in provincia di Treviso, è stato un partigiano e rivoluzionario italiano, unico europeo ad aver partecipato alla Rivoluzione cubana. Nel 1951 lavorava all’Avana come carpentiere per la costruzione della Plaza Civica (l’attuale plaza de la Revolución). Nel 1952 conobbe Norma Turino Guerra, sua futura prima moglie, amica di Aleida March de la Torre (futura moglie di Ernesto Guevara) e sostenitrice del Partito Ortodosso Cubano, il cui dirigente era il neolaureato avvocato Fidel Castro. In Messico, Fidel era in cerca giovani leali da arruolare nel suo Movimento 26 luglio: venuto a conoscenza che a Trinidad c’era un giovane italiano che aveva fatto il partigiano in Italia, lo volle incontrare per proporgli di fare parte della spedizione per liberare Cuba dal dittatore Batista. Tra il ‘55 e il ‘56, furono numerosi i viaggi di Donè tra Cuba e il Messico, per portare soldi e missive, grazie al suo passaporto italiano che non generava sospetti alle frontiere. In quanto ex soldato ed ex partigiano, collaborò agli addestramenti militari in Messico diretti da Fidel e divenne amico del medico argentino Ernesto Guevara. Il 25 novembre 1956 Doné fu tra gli 82 volontari imbarcati sul Granma, che salparono dal porto messicano di Tuxpan per sbarcare a Cuba a Playas de las Coloradas, nella Sierra Maestra. Con l’italiano Gino c’erano 78 cubani, l’argentino Che, il messicano Alfonso e il dominicano Ramin Mejóas. A bordo Gino era il più anziano degli 82, e aveva il grado di tenente del Terzo Plotone comandato da Raúl Castro. In seguito Gino, ricercato dalla polizia batistiana, ricevette dai capi del Movimento 26 Luglio l’ordine di salpare da Trinidad de Cuba per raggiungere Messico e Stati Uniti: “El italiano” era a New York quando, il 1° gennaio 1959, i suoi “barbudos” entrarono trionfanti all’Avana.

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CELIA SÁNCHEZ, FLOR DE LA REVOLUCIÓN

ALIUCHA, ALEIDA MARCH LA SOVVERSIVA Aleida March (Santa Clara, 1937), rivoluzionaria e politica cubana, è stata la seconda moglie di Che Guevara. Da giovane studia Pediatria all’università di Santa Clara e comincia a interessarsi alla politica quando la figura di Fidel Castro diviene a tutti nota per l’assalto alla Caserma Moncada. Dopo lo sbarco del Granma del 1956, la March partecipa a scioperi e azioni di boicottaggio, e viene bollata come «sovversiva» dalla polizia del dittatore Fulgencio Batista; iniziata la guerra civile, Aleida milita attivamente in clandestinità nel M-26-7 ed è la messaggera del responsabile di Villa Clara. Lolita Rossell, sua amica e militante, dice di lei: «non aveva paura di niente. Era molto impegnata, seria, sola, non le interessavano le feste o cose del genere». Intorno alla metà del 1958, Aleida ha modo di conoscere sulla Sierra dell’Escambray il comandante Ernesto Che Guevara. Una volta a Santa Clara, luogo natio di Aleida, la militante divenne la guida del Che all’interno della città, a lui pressoché sconosciuta: in questo periodo i due si avvicinarono, conoscendosi meglio e avviando un solido rapporto. Dopo la vittoria della Rivoluzione, il Che e Aliucha – come lui la chiamava affettuosamente – dapprima convivono; poi, una volta che Guevara ottiene il divorzio da Hilda Gadea, si sposano il 2 giugno 1959 a L’Avana. La coppia avrà quattro bambini: Aleida, Camilo, Celia ed Ernesto. Attualmente Aleida è il presidente del centro studi “Che Guevara”, situato nella casa in cui vivevano insieme all’Avana.

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Una delle donne più amate della Rivoluzione Cubana è Celia Sánchez Manduley. Nata il 10 Maggio 1920 a Media Luna, in provincia di Granma, era soprannominata “la más hermosa y autóctona flor de la Revolución”. Celia inizia a prestare aiuto al suo intimo amico Fidel Castro e ai suoi compagni, detenuti in prigione dopo l’assalto alla Caserma Moncada (26 Luglio 1953). Nel 1955 fonda e dirige la sezione di Manzanillo del Movimiento 26 de Julio, proponendosi successivamente per preparare attivamente il territorio allo sbarco dello Yacht Granma, proveniente dal Messico, con a bordo gli uomini che dettero il via alla Rivoluzione. Insieme a Frank País, (Santiago de Cuba 1934-1957), Celia organizza il primo contingente di rinforzi per i guerriglieri dalla Sierra Maestra e nel marzo del 1957 fa parte dei ribelli che operavano nella Sierra, occupandosi, insieme a Fidel, del comando generale del Movimiento 26 de Julio. Dopo la vittoria della rivoluzione, lavorò come segretaria del Consejo de Ministros e più tardi come segretaria del Consejo de Estado. Nominata membro del Comité Central del partito dopo la sua fondazione, e deputata al Poder Popular , è morta l’11 gennaio del 1980.

LIDIA E CLODOMIRA, EROINE DEL SILENZIO Lidia Doce Sánchez e Clodomira Acosta Ferrals, due militanti, coraggiose messaggere della Sierra Maestra, rimangono nella memoria per il loro valore e per la fedeltà alla Rivoluzione. Dal golpe del 10 marzo 1952, Lidia Doce manifesta la sua ribellione alla dittatura batistiana, e con lo sbarco del Granma decide di unirsi all’Esercito Ribelle. Secondo quanto racconta il Che, Lidia prende parte alle imprese della Rivoluzione con entusiasmo e devozione fin dal primo momento. Allo stesso modo Acosta, proveniente da una umile famiglia contadina del Cayayal, dal 1957 partecipa alla Rivoluzione come militare dell’esercito di Fidel Castro, lottando in scontri armati nella parte orientale e centrale di Cuba insieme a Guevara. Nel 1958 le viene assegnata la missione di messaggera all’Avana, per fare da nesso tra la città e la montagna: qui conosce l’altra rivoluzionaria, Lidia Doce. L’11 settembre 1958 le due donne vengono catturate e torturate: il 17 settembre, moribonde e senza aver confessato nulla ai loro persecutori, vengono lanciate in mare dentro sacchi carichi di pietre e lasciate affondare. Guevara le ricorda così: «I loro corpi sono scomparsi, stanno facendo il loro ultimo sogno Lidia e Clodomira, sicuramente insieme, come insieme lottarono fino agli ultimi giorni la grande battaglia per la libertà».


LA MORTE DEL CHE di Julio Cortázar Lettera a Roberto Fernández Retamar Parigi, 29 Ottobre 1967 Miei carissimi Roberto, Adelaida: Ieri notte sono tornato a Parigi da Algeri. Solo ora, a casa mia, sono capace di scrivervi coerentemente; laggiù, in un mondo dove contava solo il lavoro, ho lasciato trascorrere i giorni come in un incubo, comprando giornali su giornali, senza volermi convincere, nel vedere quelle foto che tutti abbiamo visto, nel leggere le stesse notizie e nell’entrare, ora dopo ora, nella più dura delle realtà da accettare. È stato allora che mi è arrivato il tuo messaggio per telefono, Roberto, e mi sono dedicato a questo testo che avresti già dovuto ricevere e che ti invio nuovamente perché tu possa trovare il tempo di vederlo un’altra volta prima che venga stampato, poiché so quali sono i meccanismi del telex e quello che accade con le parole e con le frasi. Voglio dirti questo: non sono capace di scrivere quando qualcosa mi ferisce tanto, non sono, non sarò mai lo scrittore professionale pronto a produrre quello che ci si aspetta da lui, quello che gli viene richiesto o quello che lui chiede disperatamente a se stesso. La verità è che la scrittura, oggi e di fronte a ciò, mi sembra la più banale delle arti, una specie di rifugio, quasi di dissimulazione, la sostituzione dell’insostituibile. Il Che è morto e a me non resta altro che il silenzio, chissà fino a quando; se ti ho inviato questo testo è stato perché eri tu che me lo chiedevi, e perché so quanto amavi il Che e quello che lui significava per te. Qui a Parigi ho trovato un telegramma di Lisandro Otero che mi chiede centocinquanta parole per Cuba. Così, centocinquanta parole, come se uno potesse toglierle dal portafoglio come monete. Non credo di poterle scrivere, sono vuoto e arido, e cadrei nella retorica. […] mi sento incapace di dire qualcosa di lui. Allora sto zitto. Hai ricevuto, spero, il telegramma che ti ho inviato prima del tuo messaggio. Era il mio unico modo per abbracciare te ed Adelaida, e tutti gli amici della Casa. E questo è per te, l’unica cosa che sono stato capace di scrivere in queste prime ore, questo che è nato come un poema e che desidero che tu tenga e che conservi affinché ci faccia sentire più vicini.

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Io avevo un fratello Non siamo mai vissuti vicini ma Non ha importanza. Io avevo un fratello Che vagava per i monti Mentre io dormivo. Gli ho voluto bene a modo mio, ho interpretato la sua voce libera come l’acqua, ho camminato volta volta vicino la sua ombra. Non ci siamo mai visti Ma non aveva importanza, mio fratello sveglio mentre io dormivo, mio fratello che mi indicava nella notte la sua stella eletta.

Ci riscriveremo. Un grande abbraccio ad Adelaida. Per sempre. Julio.

(Traduzione di Samanta Catastini)

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Salvador Allende

attraverso gli scritti dei grandi autori latinoamericani Il mio popolo è stato il più tradito di quest’epoca (da Confesso che ho vissuto) di Pablo Neruda

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ai deserti del salnitro, dalle miniere sottomarine di carbone, dalle alture terribili dove si trova il rame estratto con lavoro inumano dalle mani del mio popolo, è emerso un movimento liberatore di grandiosa ampiezza. Quel movimento ha portato alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende, affinché riscattasse le nostre ricchezze dalle grinfie straniere. Dovunque sia stato, nei paesi più lontani, i popoli hanno ammirato il presidente Allende e hanno elogiato lo straordinario pluralismo del nostro governo. Mai nella sede delle Nazioni Unite a New York, si è udita un’ovazione come quella tributata al presidente del Cile dai delegati di tutto il mondo. Qui, in Cile, si stava costruendo, fra immense difficoltà, una società vera-

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mente giusta, elevata sulla base della nostra sovranità, dal nostro orgoglio nazionale, dall’eroismo dei migliori abitanti del paese. Dalla nostra parte, dal lato della rivoluzione cilena, stavano la costituzione e la legge, la democrazia e la speranza. Dall’altra parte non mancava nulla. C’erano arlecchini e pulcinella, pagliacci, terroristi con pistole e catene, frati falsi e militari degradati. Gli uni e gli altri giravano nel carosello della disperazione. Andavano tenendosi per mano il fascista Jarpa e i suoi cugini di Patria e Libertà, disposti a rompere la testa e a spaccare l’anima a chiunque, pur di recuperare la grande azienda: per loro il Cile era solo questo. Pur di rendere più ameno l’avanspettacolo ballavano assieme a un grande banchiere un po’ macchiato di sangue; il campione di rumba Gonzales Videla,

che a passo di danza, aveva consegnato tempo fa il suo partito ai nemici del popolo. Adesso era Frei ad offrire il suo partito agli stessi nemici del popolo seguendo la musica che questi gli suonavano. Ballava al suo fianco l’ex colonnello Viaux delle cui malefatte è stato complice. Questi i principali artisti della commedia. Avevano preparato i viveri dell’accaparramento, i miguelitos, la garrota e gli stessi proiettili che ieri avevano ferito a morte il nostro popolo a Iquique, a Ranquin, a Salvador, a Puerto Montt… e in altri posti. Gli assassini di Hernàn Mery ballavano con chi avrebbe dovuto difenderne la memoria. Ballavano con naturalezza, facendo finta di niente. Si sentivano offesi se venivano rimproverati per questi piccoli particolari. Il Cile ha una lunga storia civile con poche rivoluzioni e molti governi


stabili, conservatori, mediocri. Molti presidenti piccoli e solo due presidenti grandi: Balmaceda e Allende. Curioso che entrambi provenissero dallo stesso ceto, borghesia ricca, che qui si fa chiamare aristocrazia. Come uomini di principi, impegnati a ingrandire un paese rimpicciolito da una oligarchia mediocre, i due sono stati condannati a morire allo stesso modo. Balmaceda costretto al suicidio per essersi opposto alla svendita delle ricchezze del salnitro alle compagnie straniere. Allende assassinato per aver nazionalizzato l’altra ricchezza del sottosuolo cileno, il rame. In entrambi i casi l’oligarchia ha organizzato contro rivoluzioni sanguinose. In entrambi i casi i militari hanno svolto la funzione di una muta di cani da caccia. Le compagnie inglesi con Balmaceda, quelle nordamericane con Allende, hanno incitato e finanziato rivolte militari. Le abitazioni dei due presidenti sono state svaligiate per ordine dei nostri distinti aristocratici. I saloni di Balmaceda distrutti a colpi d’ascia. La casa di Allende, grazie al progresso del mondo, bombardata dai nostri eroici aviatori. Eppure, questi due uomini erano molto diversi. Balmaceda, un oratore seducente. Aveva un aspetto imperioso che lo spingeva all’esercizio solitario del comando. In ogni momento era circondato da nemici. Nell’ambiente in cui viveva manifestava una superiorità così grande, e così grande era la sua solitudine da essere quasi costretto a chiudersi in se stesso. Il popolo che doveva aiutarlo esisteva come forza, vale a dire non era organizzato. E il presidente finiva per essere condannato a comportarsi da sognatore illuminato: sogno di grandezza che è rimasto un sogno. Dopo il suo assassinio i rapaci mercanti stranieri e i parlamentari del suo paese hanno messo le mani sul salnitro: agli stranieri la proprietà e le concessioni, ai criollos ricche percentuali. Incassati i trenta denari tutto è tornato alla normalità. Il sanguedi alcune migliaia di uomini del popolo si è subito asciugato sui campi di battaglia. E gli operai più sfruttati del mondo, quelli delle regioni settentrionali del

Cile, hanno continuato a produrre immense quantità di sterline per la City di Londra. Allende non è mai stato un grande oratore. E come statista chiedeva sempre consiglio prima di prendere qualsiasi decisione. Un antidittatore, democratico per principio anche nelle piccole cose. Ha ereditato un paese non più abitato dagli idealisti principianti di Balmaceda; c’era una classe operaia consapevole, sapeva ciò che voleva. Ed Allende l’ha guidata da dirigente collettivo, un uomo che pur non provenendo dalle classi popolari, era il prodotto della lotte di queste classi contro la stagnazione e la corruzione degli sfruttatori. Ecco spiegate le cause e ragioni per le quali l’opera realizzata da Allende in cosi breve tempo è superiore a quella di Balmaceda; non solo, è anche più importante nella storia del Cile. La nazionalizzazione del rame ha una storia titanica. E lo è la distruzione dei monopoli, la radicale riforma agraria e moltri altri obiettivi realizzati dal suo governo essenzialmente collettivo. Le opere e le scelte di Allende, di incancellabile valore, hanno reso furiosi i nemici della nostra liberazione. Il simbolismo tragico di questa crisi si rivela nel bombardamento del palazzo del governo; fa pensare ai blitz dell’a-

viazione nazista contro indifese città straniere, spagnole, inglesi, russe; e adesso il crimen si ripete da noi: piloti cileni attaccano in picchiata il palazzo che da due secoli è il centro della vita civile del paese. Scrivo queste righe a soli tre giorni da fatti inqualificabili che hanno portato alla morte il mio grande compagno, caro presidente. Sul suo assassinio si è voluto fare silenzio; è stato sepolto segretamente. La versione degli aggressori è quella di un corpo inerte, con segni visibili di suicidio. La versione che raccontano all’estero è diversa. Immediatamente dopo il bombardamento aereo sono entrati in azione i carri armati, molti carri armati, impegnati a lottare intrepidamente contro un solo uomo: il presidente della repubblica. Allende li aspettava nel suo ufficio, avvolto dal fumo e dalle fiamme con la sola compagnia di un grande cuore. Dovevano approfittare di un’occasione così bella. Bisognava colpirlo, mitragliarlo perchè mai si sarebbe dimesso dalla carica che il popolo gli aveva assegnato. Quel corpo è stato nascosto in un posto qualsiasi. E’ andato verso la sepoltura accompagnato da una sola donna, la moglie, sulle cui spalle pesava tutto il dolore del mondo.

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Martedì 11 settembre 1973 La vera morte di un Presidente (da Patria Grande) di Gabriel García Márquez

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ell’ora della battaglia finale, con il paese alla mercé delle forze della sovversione, Salvador Allende continuò afferrato alla legalità. La contraddizione più drammatica della sua vita fu quella di essere, contemporaneamente, nemico della violenza ed appassionato rivoluzionario, e credeva di averla risolta con l’ipotesi che le condizioni del Cile consentivano una evoluzione pacifica verso il socialismo, all’interno della legalità borghese. L’esperienza gli insegnò troppo tardi che non si può cambiare un sistema dal governo, ma dal potere. Questa tardiva constatazione forse fu la forza che lo spinse a resistere fino alla morte, tra le macerie fumanti di una casa che non era nemmeno sua, una residenza costruita da un architetto italiano destinata alla zecca dello

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Stato, e terminò convertita in un rifugio per un Presidente senza potere. Resistette per sei ore, impugnando il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro, fu la prima arma che Salvador Allende usò in vita sua. Il giornalista Augusto Olivares che rimase al suo fianco sino alla fine, ricevette numerose ferite e morì dissanguato in un ambulatorio pubblico. Verso le quattro del pomeriggio, il generale di divisione Javier Palacio, riuscì ad occupare il secondo piano, con il suo aiutante capitano Gallardo e un gruppo di ufficiali. Lì, tra le poltrone finto Luigi XV, il vasellame di dragoni cinesi e i quadri di Rugenda del salone rosso, Salvador Allende stava aspettandoli. Aveva un casco da minatore, stava in maniche di camicia, senza cravatta e con i vestiti macchiati di san-

gue. Impugnava il mitra. Allende conosceva il generale Palacio. Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che quello era un uomo pericoloso, perché manteneva stretti contatti con l’ambasciata degli Stati Uniti. Come lo vide apparire dalla scalinata, Allende gridò: “Traditore!” e gli riuscì di ferirlo ad una mano. Allende morì a seguito dello scambio di raffiche con questa pattuglia. Poi, tutti gli ufficiali, quasi seguendo un rito di casta, spararono sul suo corpo. Alla fine, un ufficiale lo sfigurò con il calcio di un fucile. Esiste una fotografia: la scattò il fotografo Juan Enrique Lira, del giornale El Mercurio, l’unico autorizzato a fotografare il cadavere. Era tanto sfigurato che, alla signora Hortensia, sua moglie, mostrarono il corpo solo quando stava nella bara. E non permisero che scoprisse il volto. Allende aveva compiuto 64 anni in luglio, era un Leone tipico: tenace, deciso e imprevedibile. Quel che pensa Allende lo sa solo Allende, mi disse una volta un suo ministro. Amava la vita, amava i fiori e i cani, era di modi galanti come si usava in altri tempi. La sua maggiore virtù fu quella di essere conseguente, però il destino gli riservò la rara e tragica grandezza di morire difendendo con le armi l’anacronistico diritto borghese; difendendo una Corte Suprema che lo aveva ripudiato e che poi legittimò i suoi assassini; difese un miserevole Parlamento che aveva contestato la sua legittimità e che poi finì per arrendersi agli usurpatori; difendendo i partiti dell’opposizione che avevano già venduto la loro anima al fascismo; difendendo tutti gli ammennicoli di un sistema tarlato che si era impegnato ad annichilire senza sparare una sola pallottola. Il dramma accadde in Cile, per disgrazia dei cileni, però passerà alla storia come qualcosa che irrimediabilmente coinvolse tutti gli uomini del tempo, destinato a rimanere per sempre nelle nostre vite.


1973, Santiago del Cile (da Memoria del fuoco / Il secolo del vento) di Eduardo Galeano La trappola. Arrivano con le valigie diplomatiche i verdi bigliettoni che finanziano scioperi e sabotaggi e cascate di menzogne. Gli imprenditori paralizzano il Cile e gli tagliano gli alimenti. Non c’è altro mercato che il mercato nero. La gente fa lunghe file in cerca di un pacchetto di sigarette o di un chilo di zucchero; trovare carne o olio richiede un miracolo della Vergine Maria Santissima. La Democrazia Cristiana e il quotidiano «El Mercurio» dicono peste e corna del governo e chiedono a gran voce il colpo di stato redentore: ormai è ora di farla finita con questa tirannia rossa; gli fanno eco altri quotidiani e riviste e radio e canali televisivi. Il governo fa fatica a muoversi: giudici e parlamentari gli mettono i bastoni tra le ruote, mentre nelle caserme complottano i capi militari che Allende crede leali. In questi tempi difficili i lavoratori stanno scoprendo i segreti dell’economia. Stanno imparando che non è impossibile produrre senza padroni, né

approvvigionarsi senza mercanti. Ma la moltitudine operaia marcia senza armi, a mani vuote, sulla strada della sua liberazione. Dall’orizzonte avanzano navi da guerra degli Stati Uniti, e si presentano davanti alle coste cilene. E il golpe militare, tanto annunciato, avviene. Allende. Gli piace la bella vita. Ha affermato più volte di non avere la stoffa dell’apostolo né le qualità del martire. Ma ha anche detto che vale la pena di morire per tutto ciò senza di cui non vale la pena di vivere. I generali ribelli gli chiedono le dimissioni. Gli offrono un aereo per lasciare il Cile. Lo avvertono che il palazzo presidenziale sarà bombardato da terra e dall’aria. Insieme a un pugno di uomini, Salvador Allende ascolta le notizie. I militari si sono impossessati di tutto il paese. Allende si mette un elmetto e prepara il fucile. Risuona il fragore delle prime bombe. Il presidente parla alla radio,

per l’ultima volta: - Non cederò... «Si apriranno i grandi viali», annuncia Salvador Allende nel suo messaggio finale. Non cederò. Sono venuto a trovarmi in un momento critico della nostra storia, e pagherò con la vita la lealtà del popolo. E vi dico che il seme che consegneremo alla coscienza e alla dignità di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere completamente distrutto. Loro hanno la forza. Potranno asservirci, ma i processi sociali non si fermano con il crimine e con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli... Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Andate avanti, sapendo che, più presto di quanto si pensi, si apriranno di nuovo i grandi viali per lasciar passare l’uomo libero di costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori! Queste sono le

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mie ultime parole. Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano. La casa di Allende. Prima del palazzo presidenziale hanno bombardato la casa di Allende. Dopo le bombe i militari sono entrati per distruggere quel che restava: a colpi di baionetta si sono avventati contro i quadri di Matta, Guayasamin e Portocarrero, e a colpi d’ascia hanno fracassato i mobili. È passata una settimana. La casa è un immondezzaio. Sparse dappertutto, braccia e gambe delle armature di ferro che adornavano la scala. Disteso a gambe larghe nella camera da letto, un soldato russa smaltendo la sbronza, circondato di bottiglie vuote. Nel soggiorno, si odono lamenti e ansimi. Lì è ancora in piedi, tutta spappolata ma in piedi, una grande poltrona gialla. Sulla poltrona la cagna degli Allende sta partorendo. I cuccioli, ancora ciechi, cercano il caldo e il latte. Lei li lecca. La casa di Neruda. In mezzo alla devastazione, nella sua casa anch’essa fatta a pezzi a colpi d’ascia, giace Neruda, morto di cancro, morto di pena. La sua morte non bastava, poiché Neruda è uomo di lunga sopravvivenza, e i militari gli hanno assassinato le cose: hanno ridotto in frantumi il suo letto felice e la sua tavola felice, hanno sventrato il materasso e hanno bruciato i libri, hanno spaccato le sue lampade e le sue bottiglie colorate, i suoi vasi, i suoi quadri, le sue conchiglie. All’orologio a muro hanno strappato il pendolo e le lancette; e hanno conficcato la baionetta in un occhio del ritratto di sua moglie. Dalla sua casa rasa al suolo, inondata d’acqua e di fango, il poeta parte per il cimitero. Lo scorta un corteo di amici intimi, capeggiati da Matilde Urrutia. (Lui le aveva detto: Fu così bello vivere quando vivevi.) A ogni nuovo isolato, il corteo cresce. A tutti gli incroci si aggiungono persone che si mettono a camminare nonostante i camion militari irti di mitragliatrici e i carabineros e i soldati che

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vanno e vengono, su motociclette e autoblinde, che fanno rumore, che fanno paura. Da dietro qualche finestra, una mano saluta. Dall’alto di qualche balcone, sventola un fazzoletto. Oggi sono passati dodici giorni dal colpo di Stato, dodici giorni di tacere e morire, e per la prima volta si ode l’Internazionale in Cile, l’Internazionale mugolata, pianta, singhiozzata più che cantata,

finché il corteo diventa processione e la processione diventa manifestazione e il popolo, che cammina contro la paura, comincia a cantare per le strade di Santiago a perdifiato, a voce piena, per accompagnare come si deve Neruda, il poeta, il suo poeta, nell’ultimo viaggio.


Storie di guerrilleros di Geraldina Colotti

IN VENEZUELA

E

mperatriz Guzman, alias Chepa. Terzo comandante del Frente Guerrillero Amèrico Silva. Sor Fanny Alonso, 32 anni. Carmen Rosa Garcia, 19 anni.... Tre guerrigliere venezuelane, uccise durante il massacro di Cautaura, nello stato Anzoategui, il 4 ottobre del 1982. Militanti del gruppo Bandera Roja, nato nel 1970 da una scissione del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (Mir). Trent’anni dopo, un libro della Defensoria del Pueblo, diretta da Gabriela del Mar Ramirez, ricostruisce quei fatti e spiega: “Per l’elevato numero di vittime – 23 – e per la violenza dimostrata dallo stato, il massacro di Cantaura costituisce il primo di quattro eventi emblematici,

durante la decade degli anni ‘80, che mostrano come la violazione sistematica dei diritti umani in Venezuela fu parte di una politica strutturata, cosciente e pianificata nelle più alte sfere di potere tra il 1958 e il 1998. In meno di dieci anni seguiranno il massacro di Yumare (8 maggio 1986), quello di El Amparo (29 ottobre del 1988) e il più grave di tutti: la mattanza del 27 febbraio del 1989 – il Caracazo -, di cui chissà mai se arriveremo a conoscere il numero esatto delle vittime”. Nel 2006, la Procuratrice generale, Luisa Ortega Diaz, ha creato una commissione della magistratura per indagare sui crimini commessi durante la IV Repubblica. I familiari delle vittime hanno potuto ritrovare i corpi di alcuni scomparsi e ristabilire la verità storica. Un lavoro che ha portato all’ap-

provazione della Legge contro l’Oblìo, diventata operativa alla fine del 2012. Una legge che rivendica il diritto dei popoli a ribellarsi, anche con le armi, e anche contro le “democrazie camuffate”: perché la lotta armata in Venezuela non si è rivolta contro regimi dittatoriali, ma contro governi usciti dalle urne, spesso lodati dagli Usa. “Noel Rodriguez è tornato, abbiamo trovato i suoi resti”, ha annunciato Ortega Diaz nel gennaio del 2013. Noel Rodriguez, un giovane di 27 anni attivo nelle lotte sociali e militante del gruppo armato Bandera Roja, scomparve il 29 giugno del 1973: durante uno dei governi presieduto da Rafael Caldera (1969-’74), che continuò la politica repressiva iniziata dai governi di Romulo Betancourt (1959-’64), e di Raul Leoni (1964-’69). I resti del

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ragazzo hanno ricevuto un funerale di stato. In quell’occasione, la Fiscal General ha annunciato il ritrovamento di altri resti (studenti, sindacalisti, contadini, combattenti in armi o impegnati nelle lotte sociali), scomparsi dal ’58 al ’98: ovvero dalla caduta del dittatore Marco Perez Jimenez, il 23 gennaio del ’58, e per tutto il periodo dell’alternanza di governo tra centrodestra e centrosinistra, nata dal Patto di Punto Fijo. Un patto fondato sull’esclusione dei comunisti dal governo, in base ai dettami di Washington. Gli esami hanno appurato che Rodriguez è morto per le torture subite, il 29 luglio del ’73, un mese dopo essere stato sequestrato dalla Direccion de Inteligencia Militar (Dim). L’ex agente della Dim, Felipe Diaz Marin, ha consentito di ricostruire i fatti. Secondo le testimonianze di alcuni militari, Victor Soto Rojas (fratello del deputato Fernando Soto Rojas) venne invece gettato da un elicottero mentre era ancora vivo. Scomparve nel luglio del 1964, dopo esser stato arrestato a Caracas dalla polizia politica e portato al Comando militare. Emperatriz, Noel e Victor sono tre simboli della lunga resistenza armata

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che si è sviluppata in Venezuela durante i governi della IV Repubblica e che – seppur a ranghi ridotti e divisi – è continuata fino agli anni ‘80-90: aggiungendo altre sigle a quelle prime guerriglie (come il gruppo Punto Cero oppure la Organizacion de revolucionarios (Or) in cui ha militato Fernando Soto Rojas). Un impegno generoso che non ha creduto nei processi di pacificazione che hanno visto rientrare nelle istituzioni gran parte delle formazioni: finché la ribellione civico-militare animata dall’allora tenente colonnello Hugo Chavez non ha portato a sintesi la rivolta degli ufficiali progressisti, schierati a fianco delle guerriglie, e i vari filoni del marxismo, in lotta contro quel sistema di potere. La guerriglia degli anni ‘60 – del cui percorso è impossibile dar conto qui in poco spazio – si è fatta le ossa durante la resistenza alla dittatura di Marco Pérez Jimenez e ha preso forma nella contestazione alle politiche pro-Usa di Romulo Betancourt, a metà degli anni ‘60: nel contesto della Guerra fredda, in corso allora tra Usa e Unione sovietica, tra democrazia borghese e socialismo. Il ‘62 fu l’anno dell’insurrezionalismo civico-militare,

ma già nel 1961, il Pcv e il Mir avevano adottato la lotta armata per conquistare il potere politico, contando anche sull’appoggio del gruppo di sinistra della Union Republicana Democratica (Urd), diretta dal giornalista Fabrizio Ojeda. Prima di essere eletto in parlamento per la Urd, Ojeda, in clandestinità, aveva guidato la Junta Patriotica, l’organizzazione che portò alla caduta della dittatura. Nel ‘62, lascia l’incarico di parlamentare e, nelle Ande, organizza un fronte guerrigliero delle Forze armate di liberazione nazionale (Faln), in contatto con il comandante Douglas Bravo. Il 20 giugno del 1966 viene catturato e ucciso. Per la polizia, si tratta di suicidio. Il 15 novembre del 2012, i resti vengono riesumati per ordine del Ministerio Publico. E si riapre l’inchiesta sulla sua morte, archiviata per 46 anni.

IDENTITÀ LATINOAMERICANA E GUERRILLA

L

a lotta di guerriglia è antica quanto l’America latina, e ha preso forma anche prima della Conquista. Ma è solo con


l’arrivo della dominazione europea che la presenza dei guerriglieri si è generalizzata per tutto il Continente. Lo stesso Bolivar si servì di questa forma di lotta. Nel XX secolo, basti pensare alle figure di Pancho Villa o Emiliano Zapata in Messico. Ma fu soprattutto con la vittoria della Rivoluzione socialista in Unione sovietica, nell’Ottobre 1917, che si aprì una speranza per i popoli oppressi in tutto il mondo. Il movimento guerrigliero contemporaneo in America latina nasce con Sandino in Nicaragua e continua nel Salvador e poi a Cuba. Nel ‘59, la vittoria della rivoluzione cubana spinge alla lotta insurrezionale i rivoluzionari di tutta l’America latina, ai quali si aggiungono ufficiali progressisti e altre tendenze avanzate, che abbracciano il marxismo-leninismo di fronte alla crisi dei vecchi partiti borghesi. Al-

lora nascono guerriglie in Venezuela, Guatemala, Colombia, Perù, Bolivia, dove Che Guevara perderà la vita. In quegli anni, Movimenti di liberazione nazionale costruiscono una speranza di riscatto anche in Asia e in Africa. E’ il contesto della Guerra fredda tra Stati uniti e Unione sovietica: tra il campo della democrazia borghese e quello del socialismo. Una lotta senza quartiere. Gli Usa affidano il controllo del loro “cortile di casa” ai dittatori del Cono Sur, che impesteranno gran parte del continente negli anni ‘70 e ‘80, e a strutture criminali come la rete del Piano Condor. Nel caso del Venezuela, le prime gesta di guerriglia rimandano alla figura di Guaicaipuro, leader dei popoli indigeni in lotta contro l’invasore, e a quelle del Negro Felipe, simbolo della resistenza dei popoli in catene del

continente africano. E proseguono poi con Simón Bolívar, Leonardo Chirino, Ezequiel Zamora.... Il loro esempio risuona nelle montagne dello stato Lara dove, nel 1926, nasce la prima cellula comunista che, nel 1931 darà luogo al Partito comunista del Venezuela, nella città di El Tocuyo. Dalla rivolta indigena del 1960, guidata da “El Indio” Jacinto Romero, nasce il nucleo fondatore del fronte guerrigliero Simon Bolivar, alla fine del ‘61. Alle gesta di quei primi “libertadores” si ispirerà Hugo Chávez per costruire una nuova speranza: quella del socialismo bolivariano. Il socialismo del XXI secolo. *Scrittrice e giornalista de Le Monde Diplomatique / Il Manifesto

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Questa pubblicazione, di distribuzione gratuita, è stata realizzata dal Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli nel mese di ottobre 2014.


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