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L’ ARTE DELL’ INCONCLUDENZA “Inconcludènte Vocabolario on line inconcludènte agg. [comp. di in-2 e concludente]. – Che non conclude, che non raggiunge il suo fine, che manca di efficacia probativa: ragionamento i.; discorsi i. (anche, privi di nesso logico, sconclusionati). Per estens., che non giunge a termine, inutile, vano: sforzi, tentativi, propositi i.; di persona, che non viene a capo di nulla, che lascia ogni impresa a metà: è un uomo inconcludente. ◆ Avv. inconcludenteménte, non com., senza concludere, senza arrivare a una conclusione: parlare, discutere inconcludentemente.” 1
“ Fai della sfortuna la tua fortuna “ . Non so a chi appartenga questa citazione, né se è realmente una citazione famosa, in ogni caso, la sento mia. Tutto ispira. Tutto può essere l’ inizio di un capolavoro. Anche la cosa più banale, se studiata bene può essere l’ anello mancante di un’ opera d’ arte. Non a caso, l’ inimitabile surrealista Salvador Dalì dipinse i suoi famosissimi orologi sciolti traendo ispirazione da un pezzo di formaggio sciolto al sole. Questo per dire che il mio problema non è la mancanza di ispirazione. Anzi, forse ne sento talmente tanta a tal punto da non riuscire a mettere a fuoco l’ idea geniale. Penso a milioni di cose, a ogni modo per ottenerle quanto prima, parto a mille, sento l’ adrenalina salire…ma quando devo concretizzare, puntualmente, scompare tutto. In pratica, la mia negligenza mi porta ad essere inconcludente in molte cose. Tra queste, aimè, è compresa anche l’ espressione creativa. Ho sempre la carica, sento che potrei raggiungere ottimi traguardi, teoricamente ho tutto tra le mani ma, come al solito, ci impiego una vita a produrre. Pigrizia? Ozio? Svogliatezza? Mancanza di interesse? Non so di preciso da cosa sono affetta. L’ unica cosa che so è che con il tempo, sto imparando a gestire questo mio problema. A causa dell‘ inconcludenza, nel mio percorso artistico ho avuto vari problemi tecnici, quali ritardi di consegne, occasioni perse e tante, tantissime, innumerevoli prediche. ricordo sempre le parole di ogni singolo rimprovero. Sono sempre dispiaciuta quando questo difetto esce fuori. So che non mi porta a niente di buono e so che non è ciò che voglio. Voglio evolvermi. Voglio migliorare giorno per giorno
1. www.treccani.it/inconcludente/
per raggiungere i miei scopi. Ho provato tante volte ad uscire fuori da questo stato. Purtroppo, ho sempre fallito. So che ogni mio fallimento, però, serve per spronarmi, ma a parte questo, non posso assolutamente permettermi di essere ancora così. La cosa che mi fa più rabbia è il fatto che il mio essere inconcludente esce fuori soprattutto nell’ arte: il mio amore, la mia salvezza, la mia pace, la mia risposta e il mio tutto. Se non riesco nemmeno nell’ unica cosa che mi interessa veramente, proprio non so più cosa farci con me. I miei lavori realizzati durante gli anni sono sempre stati fatti con tutto l’ amore. Il cuore detta e le mani producono. Trovo tutto questo molto poetico. C’è poesia in ogni gesto, in ogni tocco di pennello, sento la consistenza dei colori, divento colore, divento tela, divento colla e filo, divento segno. Sento la passione scorrere a ogni minima azione artistica. E allora? Perché il più delle volte non concludo niente? La maggior parte delle volte mi sono salvata in calcio d’ angolo. Non mi rende orgogliosa questa cosa perchè fa di me una sfaticata. Voglio riuscire davvero a 360° e non soltanto per fortuna. La maggior parte dei miei lavori, oltre che con l’ amore, purtroppo, sono stati realizzati anche con molta accidentale distrazione, che mi ha portata involontariamente a recare danni all’ opera stessa. Danni anche irrecuperabili tra l’ altro: acquerelli troppo diluiti, impronte non volute, sangue di insetti morti, urina di cane…Il risultato? Il disastro creato diventava il pezzo forte del lavoro. Visto così, ammetto che fa ridere, sembra divertente e soprattutto cosa negativa, sembra essere tutto frutto di menefreghismo. Il punto è proprio questo, io amo quello che faccio e odio questo caos. Però, non demordo. Dopo infiniti tentativi mal riusciti, ho capito che come prima cosa bisogna accettare il problema. Dopo aver accettato il fatto di essere una persona distratta, ho lucidamente cercato una soluzione. la prima, e anche la più scontata, è stata quella di prestare più attenzione e concentrazione a ciò che facevo. Ci ho provato, e come al solito ero sempre punto e da capo. Ho provato ad evitare il problema. Ho allora pensato di essere volutamente negligente, ma si sa, approfittare non fa mai bene. Morale della favola? Ho fatto della mia inconcludenza un’ arte. Tutto è arte. Qualsiasi cosa. C’ è l’ arte di dipingere, costruire, realizzare, parlare, pensare, fare politica, l’ arte di amare e di odiare, di fare guerra e pace. Quindi perché non l’ arte dell’ inconcludenza? Sono arrivata a questo punto quando pensavo di non aver più nulla da dire. Ho quindi parlato del fatto che non sapessi precisamente cosa dire. Ho iniziato a pensare alla mia tesi circa un anno fa e nel corso del tempo ho cambiato mille idee e non ho concluso mai niente. Il fulcro del mio discorso è proprio qui. Non è vero che non ho concluso niente. Anzi, è grazie a questo niente che nasce il mio lavoro.
L’ I M B ROG LIO L A N A
N E W S T R O M
Ero intenta a ricercare qualche artista o qualche nozione interessante riguardo il vuoto. Tralasciando le opere già conosciute, ero curiosa di conoscere qualcosa di più attuale. Scavando tra i vari siti mi sono imbattuta in molti articoli dedicati ad una certa Lana Newstrom. Questa giovane donna, di recente ha ideato una “mostra invisibile”, ovvero una mostra all’ intero di una galleria completamente vuota. La mostra era impostata in modo classico cioè con biglietto da pagare all’ entrata, catalogo, sito internet, contatti vari e addirittura opere in vendita, valutate al costo di 35.000 dollari.
La filosofia della Newstrom può essere semplificata nello slogan : “ l’ arte è immaginazione”. Se un’ opera non può essere vista, non significa che debba essere sminuita. Anzi, lo scopo è proprio fermarsi di fronte a queste opere invisibili e immaginare ciò che si avrebbe voluto che ci fosse lì davanti. Qualsiasi cosa può prendere forma grazie alla immaginazione degli spettatori.
Visitatori della mostra invisibile
Incuriosita da questa artista, mi dedicai non approfonditamente a qualche ricerca più specifica, ma a parte articoli on line, purtroppo non riuscìì a trovare nulla. Cercai anche il suo sito personale, ma, una volta averci cliccato su, compariva il messaggio che questa pagina non c’ era più. Così provai a cercarla su Facebook. Trovai un contatto con il suo nome, residente a New York. La cosa strana era che non c’ era niente, era vuoto. Non c’ era né un messaggio, né una foto né un seguace o un contatto amico. Mi parve un po’ strano tutto questo, tant’ è vero che mi chiesi se fosse solo un caso o fosse proprio la volontà dell’ artista! Qualche giorno dopo, arrivato il momento di cercare qualcosa di più concreto, scavai più profondamente nei meandri del web e, con mia grande sorpresa e tanto divertimento, venni a conoscenza del fatto che questa vicenda non era altro che una cosiddetta “ bufala “! Tutto è nato grazie all’ idea di due comici canadesi che conducono un programma radiofonico della CBC. Il programma si chiama “This is that” e loro sono Pat Kelly e Peter Oldring. il loro scherzo era rivolto all’ arte contemporanea e a chi ne fa parte, artisti, galleristi, compratori, amanti. Successivamente, infatti, è stata pubblicata la foto non ritoccata che raffigurava la mostra nella realtà.
Foto originale
Comunque sia, nonostante tutto e nonostante la mia convinzione che l’ arte contemporanea non sia affatto un periodo storico inutile, ho apprezzato tantissimo la trovata dei due comici. Paradossalmente, anche questa potrebbe in un certo senso essere giudicata come una performance artistica dato che non è assolutamente una novità che l’ artista è tale anche perché è provocatore. Ogni artista, come ogni persona, è figlio del suo tempo. E oggi siamo molto spessi occupati ad interessarci troppo a quel che succede fuori e non dentro di ognuno di noi.
DELICATAMENTE R A C H E L
W H I T E R E A D
Credo che nel colore bianco si possa trovare qualun que cosa. E’ il colore con il massimo livello di luminosità. Arrivare alla luce mi fa pensare di entrare in una dimensione di assoluta purezza, un mondo in cui equilibrio e caos diventano un’ unica energia. Un mondo da esplorare. Se penso al bianco immagino l’ infinito. Terre da coltivare. Non vedo il niente, non sento il vuoto. E’ un’occasione per colmare le assenze. Avere avanti tutto e poterlo gestire. Nell’ arte, il bianco, gioca davvero un ruolo importante. Molti artisti si sono serviti del suo potere per descrivere pensieri nella loro forma più essenziale. Hanno scolpito il superfluo e lasciato emergere l’ anima. Tra i vari che seguono questo filone, non posso fare a meno di soffermarmi su Rachel Whiteread. Delicata, nostalgica e malinconica come solo una donna sa essere, è un’ artista appartenente al gruppo dei Young British Artists. Nasce a Londra nel 1963, laureata in pittura e scultura, attualmente vive e lavora nella sua città di origine. Le suo opere sono geometriche, pulite, minimal e fini. Sono dei tesori preziosi che racchiudono infinite storie. Oggetti di uso comunque che apparentemente sembrano scontati ma, senza i quali, non avremmo la tranquillità, anzi, l’ abituale tranquillità che solo un ambiente sicuro ci dona. La Whiteread lavora realizzando calchi di oggetti al negativo. Gli oggetti che utilizza sono assolutamente comuni, a tal punto da non apparire nemmeno particolarmente utili e importanti. Le sue sculture sono ricavate da oggetti ideati appositamente per il nostro corpo. Lavora con letti, sedie, vasche da bagno, pavimenti, stanze intere. Il suo scopo è proprio quello di prendersi cura di questi oggetti indispensabili e consueti. Tutti questi oggetti, silenziosamente, si impregnano di noi, della nostra essenza e del tempo che scorre. E’ come se percepissero la nostra attenzione verso di loro, il nostro rispetto o la nostra noncuranza. Avvertono l’ entità di chi li ha prodotti e di chi li utilizza . Mantengono la loro storia anche quando diventano arte. Gli oggetti acquistano così una nuova valenza ma, immancabilmente, conservano le loro radici originarie. La scultrice sceglie di realizzare calchi al negativo perché è come se tentasse di conservare ciò che resta del tempo passato, perso, ma poi ritrovato. Le sue opere mostrano l’ anima delle cose, internamente ed esternamente. Si prende cura di ciò che, in un certo senso, protegge l’ oggetto: il vuoto. Lo stesso vuoto che poi ne determina la forma. E’ solo grazie a questa mancanza che trasforma il vuoto in pieno.
I materiali che predilige sono gesso e gesso odontoiatrico da cui ricava solidità, compattezza, volumetria e rigidità e la resina perché essendo trasparente, l’ opera è come se mostrasse oltre che l’ esterno, anche l’ inter-
no. Utilizza inoltre la gomma, molto pratica e liberatoria, ed allo stesso tempo domabile. Con la gomma tra l’ altro, ha introdotto anche il colore, infatti, ha iniziato a collaborare con un’ azienda la quale prepara gomma appositamente per lei, dal momento che era solita chiedere colori atipici come il color urina e color sperma. Per l’ artista, un ruolo molto importante, è riservato anche al luogo dove la sua opera sarà ubicata. Ogni luogo, naturale o artificiale che sia, è dotato di proprie caratteristiche che, messe in relazione con l’ opera, potrebbero dare risultati completamente differenti. Rachel pensa a tutto, alla grandezza, all’ aria che tira, alle luci e soprattutto, alla geologia, dato che, se l’ ubicazione sarà in un luogo all’ aperto, i vari movimenti geologici non saranno sottovalutati, proprio perché recheranno modifiche all’ opera. Fondamentalmente, la scultrice ha imparato a padroneggiare i materiali, affinché ognuno possa trasmettere ciò che lei intende comunicare perché ogni materiale, se usato bene, nel rispetto della sua peculiarità, offre un effetto differente . Nostalgica e malinconica, l’ arte di Rachel è legata alla memoria. Come ho già accennato, la storia di ogni oggetto influisce particolarmente sulla sua scelta. Non a caso l’ artista realizzò il suo primo calco di un letto dopo la morte di suo padre. L’ artista ricerca oggetti d’arredo nei negozi di roba usata, a volte, ci trascorre molto tempo, a volte solo di sfuggita, come se stesse facendo un veloce schizzo preparatorio della futura opera. Anche se appartiene ai Young British Artists, non fa uso di nuove tecnologie ma il suo legame con la tecnologia è costituito dalle compere on-line, tramite siti come e-Bay. Oltre ad essere veloce e pratico, Rachel sostiene che è interessante il rapporto che si crea con il venditore, è come se, nonostante tutto, si creasse una relazione sottile, ma intima. Per quanto riguarda le sue opere, l’ artista ne ha realizzate davvero tante e quelle pubbliche, sono diventate dei veri e proprio monumenti. Tra questi ricordiamo sicuramente il Memoriale all’ Olocausto, situato nella Judenplatz a Vienna, collocato al di sopra gli scavi di una sinagoga del ‘200. Dopo aver vinto il concorso per poterlo realizzare, Rachel propose di costruire il calco al negativo di una biblioteca, con un rosone sul soffitto, a doppie porte ed uno spazio chiuso ricoperto dal calco di migliaia di libri anonimi. Il tutto realizzato in cemento, un cemento chiaro, che cambiasse nel tempo con i vari cambiamenti climatici. In seguito alla vittoria pero, dovette apportare delle modifiche all’ opera.
Memoriale
all’
Olocausto
–
Rachel
Whiteread
–
2000
–
Vienna
Un’ altra opera a sfondo socio-politico è il calco della stanza in cui lavorava George Orwell al suo libro 1984, nella quale spiegava, o meglio, anticipava, uno stato autoritario e la manipolazione dell’ informazione.
Senza titolo – Rachel Whiteread - 2003
Altra opera pubblica è House, un calco realizzato in cemento di una casa vittoriana. Realizzare quest’ opera, per l’ artista, è stato come scavare nei meandri del cuore e della mente di chi ha abitato la casa, attraversargli l’ anima e i ricordi. Ispezionare, esplorare, percorrere l’ interno di una casa, è come fare un viaggio in un corpo. Episodio significativo riguardante questa scultura, è stato il suo abbattimento. Ci furono tantissime offerte per l’ artista affinchè l’ opera andasse in salvo, ma era sempre tutto perchè, ogni opera, è pensata appositamente per un determinato luogo, di conseguenza, se House non poteva continuare a stare li dove era collocata, allora non sarebbe potuta stare in nessun altro luogo. Whiteread avrebbe voluto che House restasse lì per altro tempo. Desiderava che la gente passasse avanti ad essa e non la notasse più come una vola, come se l’ avessero dimenticata. Nonostante il suo abbattimento però, il legame con House è sempre stato particolare perché, l’ artista stessa, non ha mai potuto assaporarla e viverla come era di consueto fare con le altre sue sculture. In genere, quando aveva i suoi lavori nel suo studio, si creava una convivenza tra loro, nasceva un rapporto. Con l’ esposizione pubblica al contrario, non ha mai potuto gustare quest’ intimità perché House era sempre circondata da tantissime persone.
House – Rachel Whiteread – 1993
Con la produzione di opere pubbliche, inevitabilmente, inizia ad entrare anche in un meccanismo politico infatti, essendo tra le donne dell’ arte più talentuose, riguardo il femminismo dichiarò: “Ma quando mi chiedono se considero femminile la mia arte, o se il mio lavoro si inserisce nel contesto della storia femminista, non credo di essere politica in quel senso. Mi considero una scultrice e un artista, e credo che mia madre, sua madre e le loro madri e nonne abbiano faticato molto perchè la mia generazione avesse la possibilità di fare ciò che fa “ 1
Altra opera molto significativa della Whiteread, è Ghost, opera vincitrice del Turner Prize. Un calco in gesso di una stanza londinese simile a quella in cui ha vissuto. Il calco esprime rigidità e solidità. È geometrico e netto. La stanza al negativo, viene pensata per una sala espositiva, in modo da creare una stanza in un’ altra stanza. Con Ghost, come per House, la storia diventa parte stessa dell’ opera d’ arte, gli oggetti che componevano l’ abitazione, la memoria dei loro abitanti, la loro essenza, i loro tocchi, il loro passaggio e il loro odore, non fanno altro che determinare il significato stesso delle opere, sembra quasi ci trasportino indietro, facendoci rivivere momenti intimi e familiari.
1. Rachel Whiteread, cat. XLVII Biennale di Venezia, Londra, The British Council, 1997, P. 41
Ghost - Rachel Whiteread - 1990
Oggetto molto utilizzato dall’ artista è il letto. Il letto è il luogo dove nasce l’ eros e dove avviene la morte. Racchiude in sè molti aspetti della vita. I materiali che utilizza la scultrice per i suoi calchi di letti ovviamente, non sono mai scelti a caso. La duttilità della gomma e della fibra di vetro, per esempio, ricordano la morbidezza e la carnalità dei corpi. Inoltre, l’ introduzione nelle sue opere del colore fa anche pensare alle secrezioni che il corpo rilascia. Essendo quindi un letto vissuto, è come se anche l’ opera diventasse vissuta.
Yellow Bed – Rachel Whiteread
Freestanding Bed – Rachel Whiteread- 1991
Dato che il lavoro di Rachel è un’ unione tra la scultura e l’ architettura, lavori che incarnano perfettamente questo concetto sono quelli con il pavimento, cioè colui che definisce l’ area che è possibile percorrere, sia con il corpo che con la mente, che regge il peso di ogni nostro passo, ci sostiene ed è quindi la base di ogni esperienza vissuta. L’ opera Floor Ceiling simboleggia l’ unione tra i due estremi, cielo e terra.
Floor Ceiling – Rachel Whiteread – 1993 – Tate
Cast iron floor, invece, è il calco del luogo che l’ artista e il suo compagno hanno comprato per viverci e lavorarci. E ovviamente, il fatto che questa sia anche la loro casa, attribuisce ancora un significato particolare all’ opera, la scultrice ha ricavato il calco anche di altri oggetti e spazi della casa, come per esempio del sottoscala
Casts Iron Florr – Rachel Whiteread – 2001
Upstairs – Rachel Whiteread – 2001
Altri oggetti di cui ricava il calco, sono 14 porte; la porta, evidentemente, simboleggia un’ entrata, un passaggio tra due mondi, due stadi. Dentro e fuori, l’ io e il mondo.
IN-OUT – IX - Rachel Whiteread - 2004
Veduta di un‘ installazione della mostra ”Walls, Doors, Floors and Stairs” Rachel Whiteread - Kunsthaus Bregenz - 2005
La Whiteread, ha lavorato anche a Napoli, dove ha ideato un pezzo appositamente per la mostra al museo d’ arte contemporanea Madre. L’ opera si chiama Village ed è composto da circa un’ ottantina di case di bambole collezionate nel tempo. Sostiene che sono oggetti tristi, ma commoventi allo stesso tempo perché sono tutti realizzati da parenti che destinavano i giochi ai piccoli della famiglia infatti, dal momento che comprare giocattoli poteva essere cosa troppo costosa, si trascorrevano serate realizzarli artigianalmente (pottering). Tra l’ altro, Village, è un’ opera in un certo senso incompleta, perché potrebbe essere arricchita nel tempo o comunque modificata, è ancora in progress.
Village – Rachel Whiteread
Un progetto molto interessante dell’ artista, è, senza dubbio, Embankment. Tutto nacque da una piccola scatola di cartone che serviva a contenere i rotoli di nastro adesivo. La scatola fu rivista da Rachel mentre organizzava gli oggetti a casa della madre. Utilizzava la scatola per conservare tutti i suoi oggetti. Con il passare del tempo, la scatola invecchiava, ma conservava ancora l’ odore di una volta e le emozioni passate. Dopo trentacinque anni dal ritrovamento di questo prezioso contenitore, Rachel iniziò a pensare ad essa come ad una scultura. Ricordò anche di aver visto una scena in un film di Steven Spielberg “ Raiders of The Lost Ark ”, in cui sullo sfondo ci sono una quantità indefinita di casse sovrapposte. L’ immagine colpì profondamente la scultrice che non potè fare a meno di lasciarsi ispirare. R. Whiteread quindi, iniziò a pensare alla scatola come una metafora del prezioso “Vaso di Pandora”, che ha la capacità di custodire grandi poteri, o meglio, di conservare oggetti intimi e personali. Cosi, l’ artista, iniziò a realizzare opere facendo il calco del volume delle scatole, producendone circa 14.000 utilizzando il polietilene.
Embankment – Rachel Whiteread - 2005
La cosa che più mi ha colpito di quest’ artista è la delicatezza con cui si preoccupa di conservare le memorie del passato. Trovo che sia un gesto da ammirare, dato che, attualmente, la vita scorre frenetica e spesso non si ha il tempo di pensare e di dedicare un attimo alle proprie cose preziose. Gli oggetti che noi definiamo inanimati, in realtà, come sostiene la scultrice, assorbono ogni cosa, di noi stessi e del tempo che passa. Credo che il suo sia anche un invito a prenderci cura di ciò che ci ha fatto diventare quello che siamo, che siano oggetti o persone che appartengono alla nostra storia del passato. In fondo, sono le nostre radici che ci formano e ci fanno diventare ciò che siamo. Un’ artista come lei, è sicuramente una donna da ammirare, perché, nonostante possa sembrare facile, è davvero molto complicato riuscire a fare continui flashback della vita passata senza però lasciarsi trasportare da vecchi eventi. Ho apprezzato tantissimo soprattutto l’ amore che dedica al vuoto, a ciò che in realtà vuoto non è, ma che, più precisamente, è l’ elemento che dà forma alle cose.
SILENZIO RUMOROSO J
O
H
N
C
A
G
E
La musica mi incuriosisce. Mi piace scovare nuovi suoni e nuovi pensieri. Navigo fra le onde digitali di You Tube per provare nuovi sapori. Una volta, mi sono imbattuta in un mondo per me sconosciuto: John Cage. Tra i vari link consigliati mi apparve “ John Cage – 4’ 33’’ “, mai sentito. Senza troppo entusiasmo ci cliccai su. Come prima cosa, intendo precisare che, inizialmente, di questo pezzo ci furono due ascolti e il primo, come mio solito, fu fatto con distrazione. Dopo aver cliccato, tolsi quella schermata e andai su altri siti. Trascorsi i pochi minuti pensai: “ e la musica? Non sento niente! Il volume è alto, forse non c’ è connessione? “. Mi assicurai che volume e connessione fossero a posto poi, incuriosita, aprii di nuovo la schermata e mi ritrovai avanti la scena di un maestro che dirigeva un ‘ orchestra. La cosa inusuale? Nessuno suonava. Rimisi tutto da capo. Play: il maestro entra in scena, ha il suo spartito e la sua bacchetta. I musicisti sono pronti. Ecco, iniziamo. Mentre gli strumenti riposavano muti, poté ascoltare ed ammirare con mia grande sorpresa e con immenso piacere la vera musica: risate del pubblico, tosse, fogli che si muovevano, sguardi divertiti, movimenti, applausi e tutti gli altri rumori dell’ambiente. Ho trovato poetica e geniale quest’ opera. John Cage nasce nel 1912 e muore nel 1992 negli Stati Uniti. Fu compositore, scrittore e teorico musicale, è considerato uno dei massimi esponenti della musica contemporanea del ‘900. Appassionato di arte, si avvicina alla musica di Erik Satie, Bach e Stravinskij e, grazie a Henry Cowell, fu anche allievo di Schönberg e Varese. La sua grandezza è stata quella di rivoluzionare completamente la musica, sia a livello teorico che tecnico. Per esempio, sperimentò la tecnica del piano preparato e successivamente, aggiunse una serie di oggetti fra le corde del pianoforte, in modo da cambiarne il timbro e produrre sempre nuovi suoni non intenzionali. Quest’ azione, fu considerata una provocazione nei confronti degli strumenti classici, una polemica con il pensiero accademico. Ci furono innovazioni anche nella stesura di uno spartito, per esempio componeva musica basandosi sul metodo della sezione aurea o addirittura, componeva musica tenendo presente le imperfezioni della carta sui cui stava componendo. Molto importante nella sua storia, fu anche il suo forte interesse per le culture orientali, infatti, condizionarono molto il suo concetto di musica, soprattutto attraverso al libro cinese dei mutamenti l’ I Ching. Significativo di questo periodo è proprio la composizione Music of changes. All’ inizio della sua carriera infatti, disapprova il fatto che chiamassero “sperimentale” la sua musica, perché sosteneva che il compositore fosse colui che sapeva benissimo cosa stesse facendo, uno sperimentatore, invece, sperimentava mille volte prima di giungere all’ opera completa. Ma si sa, le cose bisogna guardarle da diver-
se prospettive, e Cage capì che un ascoltatore, a differenza del compositore che conosce perfettamente il suo spartito, si trova di fronte a un ascolto nuovo in tutti i sensi. Con il senno di poi infatti, anche lui iniziò a definire sperimentale la sua musica e quella che ascoltava.
« Chiamo musica “sperimentale” quella in cui si cerca. Ma senza sapere quale sarà il risultato. » (J. Cage.) 1
Ma perché fu definito sperimentale? John Cage portò la musica all’ essenza, oltre il singolo suono non c’ era niente. Un suono deve essere solo un suono, nient’ altro. Egli, non fa alcuna differenza tra suono e rumore. Un rumore può essere musica. In un’ intervista per un documentario (Écoute - Miroslav Sebestik), infatti, sostiene che un suono non deve avere un significato interno ma deve andare all’ esterno, e che, se un suono è considerato solo un suono, non significa che sia inutile. Cage ama il suono nella sua essenzialità massima, cosi com’ è. Anzi, per darci piacere profondo, non deve significare nulla. Ci sono solo suoni scritti e non scritti, e per quelli non scritti, si intendono i suoni che l’ ambiente circostante offre, i rumori. Tecnicamente, Cage spiega che un suono è composto da quattro caratteristiche: altezza, timbro, intensità e durata. Il silenzio invece, che è l’ opposto, è composto solo dalla durata. Di conseguenza, una struttura basata sulla durata è giusta perché coincide con la natura del materiale, mentre una struttura armonica è sbagliata, perché deriva dall’ altezza sonora,che non riguarda il silenzio. Proprio per questo, l’ esperienza sonora che Cage preferisce su tutte è il silenzio. Oggi soprattutto, è impossibile trovare il completo silenzio. Non c’è né spazio completamente vuoto né tempo completamente vuoto, ci sarà sempre qualcosa da vedere o da ascoltare. Attualmente in molta parte del mondo il silenzio è identificato con il traffico. Se lo si ascolta, notiamo che è sempre diverso ma soprattutto, è come se fosse una melodia composta dai rumori di cui l’ ambiente circostante è costituito. Che sia impossibile trovare completo silenzio, Cage lo scoprì anche durante il suo esperimento nella camera anecoica, una stanza realizzata con pareti insonorizzate affinché ci fosse la totale assenza di echi. Cage quindi, sentì solo due rumori, uno alto e uno basso e, grazie ad un tecnico incaricato, scoprì che erano il suo sistema nervoso (suoni alti) e la circolazione del suo sangue (suoni bassi). In pratica, ci saranno sempre dei suoni. Cage spiega che questa nuova consa-
1. John Cage, Silenzio, 2010, P. 8
pevolezza musicale è piuttosto una svolta psicologica perché ci mostra come l’ umanità e la natura, in realtà, erano un’ unica cosa. Se consideriamo il fatto che le emozioni nascono grazie agli incontri con la natura e che i suoni sono anch’ essi elementi naturali, non dobbiamo meravigliarci se proviamo qualcosa ascoltando un suono, un rumore. L’ importante è permettere al suono di essere se stesso.
« Permettere a ogni persona, come a ogni suono di essere il centro del mondo. » (J. Cage) 2
Emblema dell’ intera opera di Cage è appunto il silenzio. Ha dato al silenzio un nuovo senso e soprattutto un nuovo valore. L’ ha fatto diventare componente della musica e grazie ad esso, è riuscito ad estendere la percezione dell’ ambiente in cui ci troviamo. Quando siamo in un posto, siamo circondati da una serie di rumori. La cosa interessante di questo fenomeno è che se li ascoltiamo con attenzione, possiamo trovarli affascinanti. Se invece li ignoriamo, li trascuriamo, risultano indubbiamente fastidiosi. Scopo di Cage, era proprio riuscire a controllare ed usare questi suoni, non come i classici effetti sonori, piuttosto usarli come fossero dei veri e propri strumenti musicali. Grazie ad uno speciale fonografo, tutto questo sarebbe stato assolutamente possibile. Uno dei vantaggi della contemporaneità, è proprio quello che il compositore può fare musica in prima persona, senza alcun bisogno di un esecutore che lo faccia per lui. Per tradurre praticamente il concetto di silenzio secondo Cage, in quattro anni compone il suo capolavoro, sto parlando di 4’ 33’’, una composizione in tre movimenti fatta nel 1952 per qualsiasi strumento musicale. La genialità di quest’ opera, sta nel fatto che l’ esecutore è tenuto a non suonare per tutta l’ intera durata del brano, ossia 4 minuti e 33 secondi, per l’ appunto. Lo scopo di Cage, è proprio quello di dimostrare il fatto che è impossibile che ci sia silenzio, siamo perennemente immersi in suoni che nascono fortuitamente dai rumori di cui l’ ambiente circostante è composto. Vale a dire qualsiasi rumore che ci possa essere in un territorio. Questi suoni d’ ambiente, inoltre, evidenziano l’ importanza e il valore dell’ ambiente stesso, il quale, non è affatto da sottovalutare. Accettare l’ idea che un suono abbia una sua importanza anche se preso singolarmente, e soprattutto, visto per quello che realmente è, cioè solo un suono, è, come già detto in precedenza, pensiero frequente della poetica di Cage, nonché concetto principale della musica secondo lui. Il brano, tutto tranne che silenzioso, è quindi eseguito dai vari rumori casuali che si ascoltano nella sala. Probabilmente, invece, la durata dell’ opera fa
2. John Cage, Silenzio, 2010, P. 9
riferimento allo zero assoluto, o meglio: 4 minuti e 33”, tradotti in secondi, risultano essere 273. 273 che corrispondono anche allo zero assoluto in temperatura -273°, ovvero la temperatura irraggiungibile, proprio come il silenzio. Questa composizione, è erroneamente definita “4 minuti e 33 secondi di silenzio” !
Spartito della composizione 4’ 33’’ esposto al Moma di New York
Spartito della composizione 4’ 33’’ esposto al Moma di New York
Spartito della composizione 4’ 33’’ esposto al Moma di New York
Cage, oltre ad essere musicista, è ovviamente anche considerato un artista, infatti, molte sue conferenze, erano delle vere e proprie performance. Fra quelle più interessanti possiamo ricordare quella che riguardava la sua composizione Music of changes, durante la quale tenne un discorso della stessa durata dell’ opera e, cosa sorprendente, fu che parole e musica non si sovrapponevano mai perché Cage calcolò il tempo da impiegare per leggere il discorso e durante le pause, si poteva ascolta la musica. Un testo molto interessante, è una conversazione immaginaria tra Cage e Satie, nella quale parole di Satie sono realmente sue, tratte dai suoi scritti e da varie sue dichiarazioni. Un’ altra conferenza fu quella fatta di soli aneddoti, ma tra le più significative , non si può far a meno di ricordare la conferenza sul niente, pubblicata su “Incontri musicali” nel 1959. Molto interessante lo è perché è realmente una conferenza sul fatto che non ci sia nulla da dire! Strutturalmente è composta da quattro misure su ogni riga, dodici righe per ciascuna unità. Le unità sono quarantotto formate da quarantotto misure ciascuna. Il tutto è suddiviso in quattro colonne, la cui lettura deve essere fatta da sinistra verso destra e, cosa più importante, bisogna leggerla con la dovuta fedeltà all’ impostazione del testo.
« Io sono qui e non c’ è nulla da dire […] Quello che ser-ve a noi è il silenzio; ma al silenzio serve che io continui a parlare. » 3
« Non dobbiamo temere questi silenzi, possiamo amarli […] E’ come un bicchiere vuoto in cui puoi in ogni momento versare di tutto » 4
« Ho sempre più la sensazione che non arriviamo a nulla. Man mano che il discorso procede non approdiamo a nulla ed è un piacere » 5
3. John Cage, Silenzio, 2010, P. 149 4. John Cage, Silenzio, 2010, P. 150 5. John Cage, Silenzio, 2010, P. 159
Inoltre, per il dopo conferenza, Cage preparò sei risposte che avrebbe usato per rispondere alle domande che il pubblico gli avrebbe rivolto. Le risposte erano: 1. Ottima domanda, non vorrei rovinarla con una risposta. 2. La testa ha tutte le intenzioni di farmi male. 3. Se avesse sentito Marya Freund cantare il Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg lo scorso aprile a Palermo, dubito che avrebbe fatto una domanda del genere. 4. Secondo l’ Almanacco degli agricoltori è una falsa primavera 5. Può ripetere la domanda? Ancora… Ancora… 6. Non ho altre risposte da dare. 6
In fin dei conti, la grandezza di John Cage, è stata proprio nel suo essere geniale, aver completamente rivoluzionato la musica del ‘900 con gesti piccoli, ma carichi di significato. Credere nella potenza dell’ essenzialità a tal punto di eliminare quasi tutto. Ancora una volta, un grande personaggio ci ha dimostrato che, in realtà, è più difficile togliere che mettere.
6. John Cage, Silenzio, 2010, P. 167
VUOTO LIBERO! P I E R O
M A N Z O N I
Fresco, sveglio, sovversivo e geniale. Sono questi i primi aggettivi che mi rammentano la figura dell’ artista italiano Piero Manzoni. Con molto piacere, ho scoperto che, oltre le sue “classiche” opere tanto discusse, ha avuto una carriera artistica davvero piena, sempre in movimento, sempre dinamica. Un treno in corsa, che, senza mai fermarsi, ha sperimentato tante cose, sia dal punto di vista teorico che pratico. Piero Manzoni nasce a Socino nel 1933 e muore a Milano nel 1963. Artisticamente parlando, nasce come pittore di paesaggi e ritratti ad olio. Successivamente, poi, grazie al contesto in cui si trovava e ad importanti e buone conoscenze, entrò a far parte di vari gruppi artistici ed contemporaneamente, iniziò a sperimentare con la pittura, dipingendo impronte di oggetti quotidiani e scontati. Oltre che con la pittura, Manzoni ha conquistato il successo con i suoi lavori concettuali. E’ impossibile non citare la celebre Merda d’artista, un vasetto di latta con sopra un’ etichetta che riportava il testo: “ Merda d’ Artista. Contenuto netto 30 gr. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel Maggio 1961. “ . Sul lato superiore poi, c’ era la sua firma ed ogni vasetto era numerato. Altre opere molto discusse, sono per esempio la Linea, ovvero un contenitore cilindrico, con sopra un’ etichetta arancione con scritto l’ anno di produzione, il suo nome, e la lunghezza della linea che il cilindro conteneva. Ancora, possiamo citare Fiato d’ Artista, cioè palloncini gonfiati direttamente da lui. Molto interessanti furono anche le sue performances, come per esempio quelle con le Sculture viventi e Consumazione dell'arte dinamica del pubblico divorare l'arte. Non è possibile nemmeno tralasciare il suo “ Manifesto contro il niente per l’ esposizione internazionale di niente” , pubblicato a Basilea nel 1960, con la collaborazione di Bazon Brock, Enrico Castellani, Rolf Fenkart, Carl Laszlo, Mack Onorio, Piene e Herbert Schuldt.
“ Manifesto contro niente per l’ esposizione internazionale di niente ” Rappresentativa dell’ Avanguardia, del Convenzionalismo, del Modernismo, del Conservatorismo, del Comunismo, del Capitalismo, del Patriottismo, dell’ Internazionalismo, della Monocromia, della Monotonia, dello Zen, del Surrealismo, del Dadaismo, del Lettrismo, dell’ Informale, del Costruttivismo, del Neoplasticismo e del Tachismo. Una tela vale quasi quanto nessuna tela. Una scultura è buona quasi quanto nessuna scultura. Una macchina è bella quasi quanto nessuna macchina. La musica è piacevole quasi quanto nessun rumore. Nessun mercato d’ arte è fruttuoso quanto il mercato D’ arte. Qualche cosa è quasi niente ( nessuna cosa ).
Carl Laszlo, Basilea Onorio, Basilea Rolf Fenkart, Basilea Bazon Brock, Basilea Herbert Schuldt, Itzehoe Piero Manzoni, Milano Enrico Castellani, Milano Heinz Mack, Dusseldorf Otto Piene, Dusseldorf
Vendita di niente, numerato e firmato. La lista dei prezzi è a disposizione del pubblico. All’ inaugurazione non prenderà la parola nessuno. Su questo catalogo non è riprodotto niente. 1
1. Piero Manzoni Catalogo generale (tomo primo), a cura di Germano Celant, Skira, Milano, 2004, P. 260
Comunque, fase dell’ operato di Manzoni attinente alla mia ricerca è quella in cui si dedica ai suoi Achrome. In uno dei suoi celebri scritti, Libera dimensione, infatti, l’ artista, si chiede del perché, in un momento di cambiamenti radicali, evoluzioni, trasformazioni e rivoluzioni, teoricamente, bisognerebbe reagire con, nuove soluzioni, metodi innovativi e quindi maggiore apertura ed elasticità mentale. Di conseguenza, perché mai, Manzoni si domanda, c’ erano ancora pittori che guardavano il quadro come se fosse solo una superficie vuota da riempire? Riempirla a tal punto da far straripare i segni, le forme ed i colori. Tutto era così terribilmente superfluo. Egli, allora, immagina i motivi per quali questi artisti non provino a fare il contrario. Librare il vuoto, liberare la superfice dagli inutili elementi troppo eccessivi. La tela, è uno spazio totale e, in quanto tale, è già ricca di per sé. Brilla di luce propria ed è un’ entità pura. La potenza di cui una tela è fatta, la sua dinamicità, sono tutte caratteristiche traducibili, artisticamente, in una monocromia, o, ancora più precisamente, in un nessun colore.
« e in fondo una monocromia, mancando ogni rapporto di colore, non diventa anch’ essa incolore? » 2
Quando l’ artista riesce a raggiungere questo obiettivo, la materia di cui l’ opera è composta, diventa energia. L’ ideale, quindi, sarebbe abbattere anche i limiti del colore, dipingendo una superficie con un unico colore, ininterrottamente, dipingere di bianco affinchè risulti un’ area integralmente bianca, incolore e neutra. È anche una liberazione dai pensieri convenzionali dell’ arte. Achrome, esprime quindi l’ esserci della tela stessa. Scopo di Manzoni, è proprio di riconoscere l’ individualità dell’ opera, che, in questo caso, è un’ entità a se stante, è auto significante.
2. Piero Manzoni Catalogo generale (tomo primo), a cura di Germano Celant, Skira, Milano, 2004
Manzoni, sostenendo questa teoria, produce i suoi primi Achrome nel ’56. Sono lavori realizzati principalmente con gesso e calino. Le superfici sono piene di grinze e divise per quadrati, altra importante caratteristica dell’ Achrome infatti, è che sia un’ entità autosufficiente e auto produttiva. L’ opera, per tali ragioni, finisce quando essa stessa si completa, quando si asciuga naturalmente e prende delle determinate forme, spontaneamente. L’ Achrome, fondamentalmente, non vuole dire niente e non spiega niente, ma soltanto è. Manzoni tenta l’ azzeramento, l’ annullamento della pittura. Per questo, l’ Achrome, non è altro che una dimensione vuota in cui la sola cosa che emerge è la sua stessa materialità. L’ Achrome è un’ essenza auto fecondatrice, non è eredità dell’ artista, anzi, ha una sua unica identità, una sua indipendenza. Manzoni, tenta far resuscitare le energie sepolte all’ interno dell’ opera, cercando, tramite determinati materiali, di dare una forma a questa energia spirituale. Ed è proprio attraverso le forme spontanee della tela che si sprigionerà la potenza spirituale.
Achrome – Piero Manzoni – 1958
Achrome – Piero Manzoni
Achrome – Piero Manzoni -1958
Achrome – Piero Manzoni – 1961
Achrome – Piero Manzoni
Come già accennato, ho apprezzato davvero tantissimo il lavoro di Piero Manzoni. L’ ho ammirato per aver saputo intelligentemente approfittare della sua posizione di artista, e di aver quindi saputo rispondere perfettamente alla società del suo tempo. Proprio nel suo scritto Libera dimensione, si è infatti preoccupato proprio di elencare una serie di motivazioni per cui un artista medio del suo tempo, non stesse in realtà a spasso con i tempi. E’ anche in questa sua filosofia che risalta il suo essere “contemporaneo”.
UNA TESTA VUOTA Y
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« Insomma, il mio proposito è doppio: dapprima registrare l’ impronta della sentamentalité del’ uomo nella civiltà attuale; in seguito registrare la traccia di ciò che precisamente ha generato questa civiltà stessa, cioè quella del fuoco. Tutto questo perché il vuoto è sempre stata la mia preoccupazione esistenziale e io sono certo che nel cuore del vuoto, come nel cuore dell’ uomo, ci sono dei fuochi che ardono. » 1 Yves Klein – Manifesto del Chelsea Hotel, NY, 1961
Occupandomi dell’ argomento vuoto, come non nominare colui che per primo lo ha esposto? Mi riferisco all’ artista francese Yves Klein, il quale, sebbene sia conosciuto principalmente per i suoi lavori di colore blu, ha una storia molto particolare ed interessante, che va ben oltre il blu. L’ esposizione del vuoto di Klein, secondo il teorico dell’ estetica relazionale Nicolas Bourriaud, è vista come un’ anticipazione artistica. Bourriaud, sostiene che Klein, grazie alla sua cultura spiritualistica, è riuscito a rendere il visibile e l’ invisibile un’ unica cosa, facendo diventare il tutto una “realtà globale”. Fulcro del pensiero di Klein era portare la sensibilità allo stato di materia prima.
“ Un mondo nuovo ha bisogno di un uomo nuovo. “ Yves Klein
1. P. Restany, Yves Klein Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Gianpaolo Prearo editore, 2008, P. 2. Nota del traduttore Cristina Trivellin in P. Restany, Yves Klein Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Gianpaolo Prearo editore, 2008, P. 8
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Prima di arrivare alla famosa esposizione del vuoto, Klein attraversa varie fasi, a far accendere la scintilla è proprio il fuoco. Dobbiamo precisare che Klein era un fervido religioso, oltre che un curioso di alchimia, di conseguenza, spesso cercava di trovare un legame tra le due cose. Come dicevo, proprio il fuoco perché è il più forte tra gli elementi, forte nel senso di significato: è simbolo di vita pura, ed è grazie ad esso che è possibile combattere contro la morte materiale. Il fuoco è il segreto degli alchimisti, perché grazie ad esso, è possibile trasformare i metalli. E’ puro che simboleggia la vita ed è in opposizione al fuoco maledetto che brucia nell’ inferno. Oltre a quello del fuoco poi, molto importante nella storia dell’ artista è il suo periodo monocromatico, in particolare si tratta soprattutto dell’ utilizzo di una particolare tonalità di blu da lui stesso creata: IKB (International Klein Blue). E così, nel 1957, a Parigi, nella galleria di Colette Allendy, ebbe inizio la vera arte di Klein. In quel giorno, ci fu la sua mostra “Époque bleue”, in cui era esposto un dipinto di fuoco in una sala vuota. L’ opera in questione, intitolata Fuoco del Bengala - Dipinto di fuoco di un minuto, il cui titolo fa riferimento al tempo con cui i bengala si incendiano, era realizzata con un panello di compensato, dipinto interamente ad olio blu, sopra al quale c’ erano disposti in quattro file, sedici fuochi del Bengala, indirizzati tutti obliquamente verso il cielo. Klein, quando incendiò il pannello, i razzi crearono un blu intenso. Purtroppo per Klein però, questo episodio ricordava molto il pensiero del filosofo francese Gaston Bachellard, secondo il quale, riguardo questo colore, pronunciò: « Il cielo blu sprofonda sotto il sogno. » 3 L’ anno seguente, nel 1958, a Parigi, nella galleria di Iris Clert, ci fu la sua esposizione del vuoto, il raggiungimento dell’ “ atto maggiore”, cioè l’ approdo alla pittura immateriale, il vuoto appunto. Lo stesso Klein infatti, dichiara che i suoi quadri sono solo “ cenere” del suo pensiero artistico. La vera spiritualità dell’ opera va ben oltre la visibilità materiale. Testimonianza della sua forte fede religiosa è che, prima dell’ esposizione, Klein fece il suo primo pellegrinaggio a Cascia, in Umbria. Lì c’ era la sua protettrice, Santa Rita: l’ artista si recò laggiù per chiedere una grazia alla Santa, ovvero che la sua mostra avesse successo. L’ esposizione, chiamata « La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata », era composta da spazi e muri completamente vuoti. Alla mostra mostra accorsero davvero tantissime persone, circa tremila, e suscitò, ovviamente, ogni tipo di critica.
3. P. Restany, Yves Klein Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Gianpaolo Prearo editore, 2008, P. 13
La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata - Galleria Iris Clert – Parigi – 1958 – Yves Klein
La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata Galleria Iris Clert – Parigi – 1958 – Yves Klein
La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata Galleria Iris Clert – Parigi – 1958 – Yves Klein
La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata Galleria Iris Clert – Parigi – 1958 – Yves Klein
Dopo il successo ottenuto dalla mostra, l‘ artista ritornò di nuovo a Cascia e per ringraziare la Santa domenicana, dona un suo quadro IKB come ringraziamento per la grazia ricevuta. Successivamente, Klein ritorna a parlare della sua arte con parole altrui. Qualche anno dopo la mostra, l’ artista volle incontrare personalmente Gaston Bachellard, dichiarandosi suo fedele discepolo. Purtroppo per Klein, Bachellard non fu per niente felice di incontrarlo, lo definitì addirittura “ apprendista-stregone della più bassa specie ”, dato che l’ ingenuo Klein, seppe prendere in prestito soltanto i suoi concetti basilari. Evidentemente, questo episodio fu la goccia che fece traboccare il vaso perché da allora Klein sente il bisogno di cambiare direzione, scoprire nuovi mondi inesplorati e come prima cosa, scrive su un foglio a quadretti la parola “umiltà” venti volte di seguito.
Altro lavoro di Klein riguardo il vuoto, è lo scatto de il salto nel vuoto, in cui è raffigurato nell’ atto di gettarsi giù da un balcone.
Salto nel vuoto – Francia – 1960 - Yves Klein
Altra perfromance per dimostrare anche al suo pubblico cosa fosse realmente il vuoto, è stata quella di farsi pagare le opere non visibili, “zone di sensibilità pittorica immateriale” al costo di lingotti di oro. L’ oro è il materiale puro, nonché colore del Sole, (altro legame tra cristianesimo ed alchimia). Dopo aver ricevuto l’ oro, il compratore doveva bruciare la sua ricevuta, e Klein gettava una parte dell’ oro nella Senna, mentre l’ altra parte andava utilizzata per i suoi monocromi d’ oro.
Vendita di “zone di sensibilità pittorica immateriale” a Dino Buzzati – 1961
Avendo un letto un po’ di cose riguardo Yves Klein, sono arrivata ad una conclusione, che, secondo me, Klein ha realmente esposto il vuoto, cioè il vuoto nel vero senso della parola. Le sue opere sono indubbiamente molto interessanti, quelle visibili e quelle non visibili. Mi piace come utilizzava i materiali e le forme che creava, oltre ai colori che usava. Molto belle erano anche le sue performance. Il punto è che non condivido il pensiero che c’ è intorno al suo lavoro. A volte l’ ho trovato forzato, mi è parsa una persona che ha bisogno di dire tante, tantissime cose, cose sicuramente non da tutti i giorni, affinchè mascherassero la vera essenza, il vuoto appunto. Credo che Klein, fondamentalmente, realmente abbia raggiunto il suo scopo, smaterializzato talmente tanto il materiale, forse troppo, a tal punto da raggiungere il vuoto più totale.
PIÙ IN LÀ SOLO IL NIENTE K
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Se parlo del vuoto, del bianco e della massima espressione di essenzialità, di certo, non posso far a meno di spendere qualche parola per Kazimir Malevic, il creatore della corrente artistica del Suprematismo. Malevich nasce a Kiev nel 1878. Prima di arrivare all’ apice del suo successo, ovviamente, compie un periodo sperimentale. Trasferitosi a Parigi, infatti, si interessa dapprima all’ impressionismo e successivamente al cubismo e al futurismo. E’ nel 1913 che ha inizio la sua avventura, con il periodo del Suprematismo Meccanico (1913-1915). In questa fase, il suo pensiero ha ancora un retrogusto cubo-futurista, infatti, sostenedo che l’ astrazione è semplificazione delle forme, produce lavori prettamente geometrici, utilizzando il quadrato e il bianco ed il nero. E’ con la seconda fase della corrente che raggiunge il vertice della sua arte. Sto parlando del Suprematismo Cosmico, che va dal 1915 al 1919. Per Suprematismo, comunque, si intende la supremazia assoluta degli oggetti ricondotti alla loro forma più essenziale possibile. Malevich, infatti, intende spogliare l’ arte dalla convenzionale idea di rappresentare la realtà in modo unicamente figurativo, in quanto crede nella sua rappresentazione astratta, tramite la semplificazione attraverso le forme geometriche, mostrandole nella maniera più elementare possibile. Di conseguenza, con questa nuova filosofia, sarebbe stato possibile creare una nuova realtà, con oggetti propri che, di certo, non sarebbero stati di minore importanza rispetto la realtà classica. Le forme basi utilizzate per le opere suprematiste, erano quindi il quadrato e la linea retta. L’ arte perciò, doveva essere vista nella sua massima essenzialità. A segnare l’ inizio di questa fase, è la realizzazione del Quadrato nero su sfondo bianco, esposto ad una mostra a San Pietroburgo. Con il quadrato, Malevic rappresenta la forma geometrica da cui nascono via via tutte le altre forme.
Il dipinto in questione rappresenta appunto un quadrato nero su uno sfondo bianco. Lo sfondo bianco, però, non funge da cornice del quadrato, anzi, è il niente da cui il quadrato, unico elemento geometrico dell’ opera, appare. Il quadrato, per questa ragione, rappresenta la sensibilità sul niente, il raggiungimento dell’ assoluto, la vera essenza pura. Inoltre, il quadrato, essendo un oggetto inesistente in natura, è anche una provocazione contro rispetto all’ arte del passato, dove appunto, come ho già spiegato, lo scopo principale, era quello di rappresentare la realtà secondo fini estetici.
Quadrato nero su sfondo bianco - Malevich – 1915 – Musei di Stato Russo – San Pietroburgo
Malevic, raggiunge la massima espressione di essenzialità con la realizzazione di Quadrato bianco su sfondo bianco. Quest’ opera rappresenta l’ estremo annullamento delle forme e della cromaticità. Tocca così la sensibilità plastica più pura e assoluta. Cosa importante, con questo lavoro, l’ artista, raggiunge il niente per eccellenza. Con quest’ opera, eseguita nel 1919, Kazimir Malevic proclama la fine del movimento Suprematista.
Bianco su Bianco – Malevich – 1919 – MoMa – New York
Ho scoperto l’ esistenza di Kazimir Malevic quando, circa un paio di anni fa, ero alle prese con la realizzazione di una serie di tele. Erano dei lavori eseguiti con l’ utilizzo di materiali quale fil di ferro,spago, cotone, filo elastico e tele grezze. Mi ricordo che, per la produzione di una tela in particolare, ogni minimo spostamento di un filo mi sembrava eccessivo, tremendamente eccessivo. Non riuscivo a trovare la giusta armonia, l’ equilibrio che mi facesse vedere il lavoro terminato. Tolsi quello spago chiaro e grezzo dalla tela. Il quadro mi sembrava bello, non finito, ma sembrava che brillasse di luce propria, emetteva un bagliore. Mi sembrava bello non perché l’ avessi fatto io, ma perché era esso stesso un oggetto con una vita propria. Lasciarlo così, vuoto, bianco, nullo, mi sembrò affrettatamente una buona idea ma, per fortuna, un attimo dopo, pensai che molto probabilmente era un’ azione che già stata fatta. Mi documentai, e con piacere ed invidia, conobbi Malevic e il suo Bianco su Bianco. Mi documentai a riguardo, condividevo e condivido ancora oggi i suoi punti di vista. La cosa bella è che questa scoperta non mi ha scoraggiata mi ha aprto nuovi orizzonti e dato nuovi spunti.
ANDARSENE SENZA ANDARE Ho condiviso un momento particolare della mia vita con la mia professoressa Maria Cristina Antonini. Ad una mail, lei mi ha risposto scrivendo: “andarsene senza andarsene” . Avevo subito una perdita, ero triste perché mi sentivo come se un muro maestro fosse crollato all’ improvviso. Non riuscivo a crederci. Pensavo a tutto e niente e a niente e tutto. Mi sono lasciata travolgere. Il tutto e il niente si sono incontrati, si sono sfiorati, si sono conosciuti fino a mischiarsi. Ero curiosa. Navigavo con la mente con la speranza di imbattermi in nuovi mari. Sentivo il bisogno di distrazioni. Evitavo il problema perché pensavo che fosse la soluzione più facile. Ho finalmente trovato pace quando ho capito l’ importanza dell’ incontro di due estremi: il tutto e il niente. Ho messo a posto il mio disordine e placato la mia irrequietezza. una volta ho letto un libro, il Piccolo principe. Un libro molto dolce. Ricordo con gioia una sua citazione: “ L‘ essenziale è invisibile agli occhi ”. 1 Sante parole. Ho capito che la mia malinconia era naturale ed ovvia ma, cosa fondamentale, era modellabile. Ho pensato che niente è impossibile ma tutto è passabile. Ho guardato da fuori il mio tormento. L’ ho assaporato per capirne di più. So che il suo sapore amaro non cambierà mai, ma, cosa importante, ci sono entrata dentro, l’ ho incontrato e mi sono mischiata con esso. Cosa è derivato da questo incontro? Ho visto l’ arte. L’ ho sentita dentro e fuori, era calda, veloce e vibrante, l’ unica risposta e l’ unica soluzione. Ho fatto un percorso a ritroso. Ho pensato ad ogni mio singolo progetto. Mi sono apparsi come frame di un film. Li avevo tutti davanti. Mi ricordavo perfettamente ogni dettaglio, ogni goccia di acqua persa dal pennello imbevuto di acquerello, il rumore di ogni spilla che entrava violentemente nel telaio, la trama di ogni tela, i ricami dei vecchi lenzuoli di lino, l’ odore di vernice degli spray, i nodi da sciogliere dei fili, la brillantezza degli acrilici, gli errori non voluti ma senza i quali non c’ era un senso, la grana dei fogli, l’ essenzialità, i calcoli, ogni millimetro, Fibonacci e il sapore del bianco. Ho visto dei campi immensi. Mi sentivo forte e protetta. Li ho visti tutti insieme in un'unica scena. Mi sentivo tranquilla, stavo bene, per la prima volta dopo giorni respiravo serenamente. Vedevo lavori geometrici, puliti, ordinati. Il bianco mi dava sicurezza. I colori neutri dei materiali li sentivo amici. Non c’ era paura nell’ aria. Mi perdevo nel bianco, non perché fossero perfetti, tutt’ altro. Vedevo questo vuoto come un mondo pieno di ricchezza.
1. Antoine de Saint-Exupery , Il Piccolo Principe, 2000
Il vuoto non mi faceva paura, non mi faceva sentire triste. Non sentivo mancanza perché avevo tutto anche se non si vedeva. Volevo ancora più vuoto, perché il vuoto più era vuoto e più mi riempiva di positività. Ho trovato la pace con il vuoto. C’ è tutto quello che si desidera nel vuoto. Ci sono immagini, storie, ricordi e persone. C’ è spazio per ogni senso. Ecco perché ho deciso di fare una tesi sul vuoto.
BIBLIOGRAFIA Yves Klein, Centre Georges Pompidou, Parigi, 1983.
P. Restany, Yves Klein Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Gianpaolo Prearo editore, 2008
Rachel Whiteread, cat. XLVII Biennale di Venezia, Londra, The British Council, 1997.
Rachel Whiteread a cura di Mario Codognato, cat. MADRE, Milano, ELecta, 2007.
Rachel Whiteread “ Embankment “, cat. Tate Modern, Londra, Tate, 2005.
Piero Manzoni Catalogo generale (tomo primo), a cura di Germano Celant, Skira, Milano, 2004.
Piero Manzoni, a cura di Germano Celant, cat. MADRE, Napoli, Museo d’ Arte Contemporanea Donnaregina, Electa, Milano, 2007.
SITOGRAFIA http://www.treccani.it/inconcludente/
http://lananewstrom.com/?reqp=1&reqr=nzcdYaEvLaE5pv52Mj==
http://www.emettiladaparte.com/wordpress/arte-invisibile-lana-newstrom/
http://www.dailymail.co.uk/news/article-2781612/Media-duped-fake-article-artist-creates-invisible-paintings-fetch-millions.html
http://www.snopes.com/media/notnews/newstrom.asp