Mensile di approfondimento e inchiesta
Nuova Serie - n° 6 - 15 giugno 2016 - 3 euro
Conoscere la realtà per trasformarla
Editoriale
Primo piano
Riforma costituzionale: chi semina vento raccoglie tempesta di Mario Dogliani
Nei prossimi numeri: un progetto di ricerca sulla vita di prossimità a Torino
PAGINA 5
PAGINA 23
Opinioni Essere laici oggi di Alfonso Di Giovine PAGINA 13
ISSN 1971-6117
NUOVASOCIETA’
NUOVASOCIETA’ Mensile di approfondimento e inchieste
Direttore responsabile: Diego Novelli Vicedirettori: Andrea Doi Giorgio Merlo
Editoriale Chi semina vento raccoglie tempesta di Mario Dogliani.......................................5 Primo Piano Progetto di ricerca sulla vita di prossimità di Diego Novelli..................................8 Il faticoso diritto degli usurati di Giovanni Avonto.............................................11 Opinioni Essere laici oggi di Alfonso Di Giovine................................................................13 Politica Renzi non può cambiare la “ragione sociale” del Pd di Giorgio Merlo............................16
Caporedattore: Giulia Zanotti
Avamposto Un marziano a Roma di Angelo d’Orsi............................................................................18
In redazione: Moreno D’Angelo Bernardo Basilici Menini
Internazionale Isis e Brigate Rosse, Caselli: “Mondi diversi” di Bernardo Basilici Menini..........21 Turchia, quanto ti armo! di Enrico Mugnai........................................................23
Segretaria di redazione: Anna Rapelli Hanno collaborato a questo numero: Mario Dogliani, Angelo d’Orsi, Alberto Gaino, Giovanni Avonto, Gian Carlo Caselli, Alfonso Di Giovine, Darwin Pastorin, Caterina Olivetti, Emanuele Rebuffini, Claudio Mellana, Valentina Stella, Enrico Mugnai, Daniel Monasteri, Aldo Novellini, Jana Zanoskar
Solidarietà Una speranza per i bambini di Cernobyl di Caterina Olivetti.............................25 Inchieste La voce di un ex recluso di Villa Azzurra di Alberto Gaino.................................27 Attualità Torna l’ombra di Ali Agca sul caso Orlandi di Moreno D’Angelo........................30 Pietro Orlandi: “Non ci arrendiamo” di MDA..................................................32
Grafica e impaginazione: Giulia Zanotti
Interviste Aldo Ravaioli: “Affrontare il terrorismo con la verità”di Valentina Stella.............33 Luigi Chiabrera, di corsa... alla scoperta di Torino di Giulia Zanotti..................35
Redazione e amministrazione: via Garibaldi 13 – 10122 Torino redazione@nuovasocieta.it amministrazione@nuovasocieta.it
Ritratti Giuseppe Montesano, un commissario a Torino di Andrea Doi.........................36
Responsabile diffusione e abbonamenti: Lorenzo Simonetti (3478600077) Abbonamenti: Annuo 30 Euro Sostenitore 50 Euro Versamento tramite bonifico a “Associazione Culturale Nuovasocieta.it” IBA N IT90K0335901600100000014301 Per la pubblicità: 3496478508 pubblicita@nuovasocieta.it Stampa: Pixartprinting Spa, via I Maggio 8, 30020 Quarto d’Altino (Venezia) Distribuzione: Fratelli Devietti, Strada Cebrosa 21 10036, Settimo Torinese (Torino) Registrazione tribunale di Torino n.17/07 del 8/3/2007 Mandato in stampa il 31/05/2016 Foto di copertina Gianluca Verdorosa www.nuovasocieta.it
Sport La felicità smarrita del calcio di Darwin Pastorin...............................................38 Costume e società Cavallo Pazzo: jeans e aggregazione giovanile di Giulia Zanotti..........................39 Gli angoli della città Il passaggio silenzioso di Mozart nella Torino sabauda di Daniel Monasteri.......41 Legacoop La storia delle imprese cooperative raccontata in un libro..................................42 Musica I “piccoli cambiamenti” di Mimmo Locasciulli di Emanuele Rebuffini...............44 Spazio ai lettori Ingiusto l’attacco a Napolitano.........................................................................45 Arte “Forza lavoro” di Emanuele Rebuffini.................................................................46 Biblioteche L’infiltrato di Andrea Doi..................................................................................47 Un’ordinaria fucilazione di Aldo Novellini.......................................................47 Cinema Sole Alto di Andrea Zummo...............................................................................48 Racconti Il tempo trafugato di Jana Zanoskar...................................................................49 Pelo&contropelo..............................................................................................51
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LA BOHÈME GIACOMO PUCCINI
SANSONE E DALILA CAMILLE SAINT-SAËNS
WEST SIDE STORY LEONARD BERNSTEIN
LA BELLA ADDORMENTATA PËTR IL’IČ ČAJKOVSKIJ STAATSBALLETT BERLIN
PAGLIACCI
RUGGERO LEONCAVALLO
KATIA KABANOVA LEÓŠ JANÁČEK
MANON LESCAUT GIACOMO PUCCINI
L’INCORONAZIONE DI DARIO ANTONIO VIVALDI
IL FLAUTO MAGICO
WOLFGANG AMADEUS MOZART
MACBETH
GIUSEPPE VERDI
www.teatroregio.torino.it
Editoriale
Una mossa antipolitica dall’alto
Chi semina vento raccoglie tempesta La riforma costituzionale è chiusa a ogni dialogo e insultante verso le voci dissonanti di Mario Dogliani *
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l Presidente del Consiglio ha scatenato il suo plebiscito, convinto di vincere perché pensa di avere contro solo dei piagnoni (la memoria fiorentina gli fa pensare di essere un Lorenzo de’ Medici contro dei Savonarola, i cui seguaci erano detti, appunto, dalla brillante società ultracorrotta del tempo, “piagnoni”). Che il referendum “confermativo”, o “oppositivo”, si trasformasse in un plebiscito, era ovvio. Ed altrettanto ovvio era che si sarebbe trattato in uno scatenamento - come dice la parola - della plebe. La riforma Renzi è infatti una mossa di antipolitica dall’alto per cavalcare (o meglio, per ingoiare) l’antipolitica dal basso.
tra Stato e Regioni; ma, primo fra tutti, genererà una determinazione della politica nazionale avventurosa (più simile a una partita a poker che al coagularsi di un indirizzo politico-sociale maggioritario nella società) e, conseguentemen-
te, una frantumazione delle forze politiche sulla base di motivi egoistici sempre più superficiali, perché sempre più determinata da mosse di corto respiro (di reazione a sondaggi, campagne giornalistiche ...), e dunque una loro sempre maggiore subalternità alle pulsioni irrazionali dell’elettorato e dei mass-media, accompagnata, di converso, da una sempre maggiore cecità politico-intellettuale di fronte alle dinamiche profonde del Paese e del contesto internazionale.
1) Con la calma della ragione continuiamo a dire che: a. La revisione costituzionale cd. Renzi-Boschi (unita alla nuova legge elettorale) è fatta male. E’ malfatta nel senso che, dati (presi per buoni) i suoi fini proclamati, essa è intimamente contraddittoria e, dunque, incapace di raggiungerli. Aumenterà la sudditanza del Parlamento verso il Governo (il rapporto di fiducia si trasforma in una catena di comando); genererà ulteriori malfunzionamenti nello svolgimento dell’attività legislativa e nel rapporto
La raccolta firme contro la riforma costituzionale voluta dal governo Renzi
b. Il giudizio sulla coerenza e sulla efficacia della revisione rispetto ai fini da essa stessa prefissati non può essere disgiunto dal giudizio su quegli stessi fini rispetto a quelli costituzionalmente stabiliti. Ogni Costituzione è un programma di altissima politica sui profili fondamentali che la società deve raggiungere. Un programma aperto al conflitto, o, se si preferisce, “l’asse della morale politica di un popolo”. Certi fini (ad esempio perseguire l’onnipotenza nell’esercizio dei diritti di proprietà) sono vietati; altri (ad esempio impedire
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Editoriale che sul suolo della Repubblica si possa morire di una malattia curabile) sono obbligatori. La riforma renderà più agevole perseguire i fini obbligatori, e più difficile perseguire i fini vietati? Il giudizio sulla revisione dipende dalla risposta a questa domanda. Non è dunque possibile una discussione che si esaurisca sul piano tecnico: la congruità dei mezzi rispetto ai fini richiede che contemporaneamente si definiscano criticamente i fini (mantenere o sostituire esplicitamente gli obblighi e i divieti che la Costituzione impone; facilitarne l’attuazione o propiziarne lo scivolamento nell’oblio). c. La natura del potere democratico è oggi estremamente confusa, e va chiarita; ma la riforma non lo fa.
I voti si contano, non si pesano azione collettiva (dei cittadini “associati”, come dice la Costituzione) e contemporaeamente di azioni individuali, di cittadini come elettori “liberi”, i cui voti si contano, non si pesano. E infine, il potere politico è “fatto” dagli eletti e da tutti coloro che attuano le loro scelte, che dovrebbero agire con disciplina ed onore. La materia di cui dovrebbe essere fatto il potere politico dovrebbe dunque essere solo e soltanto la volontà dei cittadini, e la “disciplina e onore” (che comprende il divieto di vendere, e comperare, i voti) con cui questa volontà viene politicamente tradotta in atti pubblici ed eseguita. Il potere politico, insomma, dovrebbe essere fatto della stessa pasta della democrazia organizza-
Il ministro per le Riforme istituzionali Maria Elena Boschi
La Costituzione vigente è fondata sull’assioma ottimistico che il volere del popolo sia “cosa in sé buona”. Caduto il fascismo e il nazismo, sperimentata l’unità ciellenista e quella costituente, si pensava che il popolo si sarebbe risollevato con tutta la sua forza, e con una sostanziale unità d’intenti, dovuta alla condivisione degli stessi problemi vitali, al di là delle divisioni politiche, sostanzialmete esogene. Di qui la scelta del sistema pluripartitico e della legge proporzionale pura come fondamenti dello “Stato di tutto il popolo”. Il potere politico è dunque - secondo l’idea di democrazia adottata dalla nostra Costituzione - “fatto” di scelte compiute dagli individui intesi come parti del popolo concreto, e dunque delle “formazioni sociali” che lo compongono (alcune volontarie, altre determinate dall’economia o dalla tradizione). Di
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ta e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta. Invece la democrazia d’investitura (non prevista dalla nostra Costituzione) presuppone il potere istituzionale come un potere pre-politico, e cioè progettato, finanziato, finalizzato da qualcuno, nell’ombra, e poi “investito”, scelto, votato, acclamato, con un delega assoluta, da maggioranze irrazionali. La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura. 2) Le vicende - di carattere finanziario e sovranazionale (crisi del debito pubblico italiano con rischi di contagio a tutta la UE, impennata dello spread, lettera della BCE al Governo) - che hanno portato alle dimissioni del IV Governo
Berlusconi, alla formazione del governo Monti, e alla confusa e inedita rielezione del Presidente Napolitano, sono state, per il nostro sistema politico e il nostro assetto costituzionale, unitamente allo zoccolo duro del malaffare e della mala gestio della cosa pubblica, una “Algeria”, che mise a nudo - come reale e tragico - il divario tra volontà popolare e capacità di assumere scelte politiche “buone” (che almeno salvassero il paese tutto dal naufragio). Conseguentemente, e contemporaneamente, quella crisi manifestò in tutta la sua drammatica evidenza e urgenza la necessità di una politica costituzionale che rafforzasse lo Stato, travolto da una crisi finanziaria che non aveva saputo prevenire e combattere per i suoi antichi mali, ma che al contempo (secondo il pensiero di molti) salvaguardasse la Costituzione del ‘47, mettendola al riparo dagli umori populisti che infuriavano in quei tempi. Che cosa voleva dire? Garantire continuità e stabilità ai Governi, ma senza schiacciare il pluralismo. Solo il pluralismo, e cioè la libertà, rende accettabile il principio (il mito, la finzione ...) del popolo buono, perché ciò che è veramente buono non è il “popolo” in sé, ma la libertà, e la saggezza, con cui affronta i suoi conflitti interni senza autodistruggersi (cioè stando dentro le “forme e i limiti della Costituzione”: art. 1 della Cost. italiana). Ma non tutti hanno creduto in quella drammatica e urgentissima necessità. Senza ripercorrere i tentativi del Governo Letta, fatti abortire, va sottolineato che il presidente del Consiglio avviò - è questo il punto - un procedimento che è stato il contrario di quello che avrebbe dovuto essere un procedimento di revisione costituzionale: il più possibile inclusivo, tale da tendere alla unanimità. L’antico principio, da cui tutti discendiamo: “ciò che tocca tutti sia approvato da tutti” è stato messo sotto i piedi, all’urlo di “Abbiamo i voti!” (distorti dal premio di maggioranza e, ciononostante, insufficienti ad evitare aiuti ambigui). Il disegno di revisione si è caratterizzato fin da subito come un disegno
La casa brucia. Ma chi spegne l’incendio? di rottura, sprezzante della tradizione costituzionale italiana e delle sue nobili e straordinarie origini - si è detto, a ragione, “miracolose” (Onida) -, chiuso ad ogni dialogo e insultante verso tutte le voci anche solo dissonanti. Con questo inizio, il procedimento di approvazione dell’attuale testo è stato obbrobrioso. L’originale “maggioranza riformatrice del Nazareno” si è spappolata; una nuova maggioranza è stata rabberciata con il ricatto e con le negoziazioni sottobanco; il Parlamento, anche grazie alla stupefacente arrendevolezza dei Presidenti delle due Camere, è stato costantemente tenuto sotto schiaffo; e - in questo vuoto di politica - si è andato progressivamente cementando un blocco affaristico-finanziario con contorni inquietanti (fino al riapparire di personaggi della P2) che ha imposto la scrittura del testo che ora ci troviamo a giudicare. La riforma, di per sé, è essenzialmente un pasticcio. Ma collegata con la legge elettorale crea un meccanismo micidiale per cui l’indirizzo politico sarà la plebiscitazione delle scelte opache compiute da quel blocco (che scioccamente ha ritagliato la riforma su se stesso, come se fosse eterno). 3) Occorre essere chiari: se ci limitiamo a queste critiche, senza interrogarci con spietatezza sulle cause dei nostri antichi mali, e sul perché dell’emergere di “cerchi magici” che privatizzano il potere pubblico, si dà l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati. E invece i cittadini sanno bene di non essere vissuti affatto, negli anni recenti, in un paradiso che rischia di essere perduto. Le nostre istituzioni politiche ed economiche - sono collassate; e sono collassate alla radice. La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar ...). Per questo è urgente uscire da questo avvi-
tamento impantanato. Occorre però una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e privatizzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata per gli squilibri che porta con sé. Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è direttamente - quella dei partiti. La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio? La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento, è vero, che è stato ed è il peggior nemico di se stesso. In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe invece consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla - in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni - rifiutare). Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo (incentrati sull’inevitabile investitura irrazionale) e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa sulla ripresa della politica organizzata. Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma proprio questa
Editoriale incertezza (cioè il dubbio che “forse sì”) dovrebbe non impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà e dignità parlamentare: una forma di governo cioè che non trasformi il rapporto di fiducia in una catena di comando del Governo sul Parlamento. E’ questa la riflessione che deve essere subito avviata. 4) Certo, quale che sia l’esito del referendum, la Costituzione avrà subito un terremoto. Sarà difficile continuare a dire che è la casa di tutti, l’asse condiviso della nostra cultura politica, il “bene comune” per eccellenza, o addrittura, usando le parole di un costituente (Togliatti) “l’Arca dell’Alleanza” tra le parti di un popolo, uscito da una guerra, anche civile, e che è stato capace di non precipitare in un’altra. La spaccatura, parlamentare e civile, c’è già stata; e il Governo irresponsabilmente soffia sul fuoco. E chi, come molti tra noi, ha avanzato in questi anni proposte e obiezioni (preoccupato, e angosciato, dallo stato delle cose e dalle pieghe che stava prendendo il discorso sui rimedi), e se le è viste respingere e disprezzare, che cosa deve fare? Se gli italiani voteranno massicciamente “si”, e gli avversari verranno “asfaltati”, la cultura politica del pluralismo e della democrazia redistributiva, inclusiva ed emancipante verrà sepolta, e chissà se risorgerà (preoccupazione che è in cima ai nostri pensieri, a differenza di quel che sembra pensare l’ex Presidente Napolitano). Se questo non avverrà, la lotta per la Costituzione potrà continuare. Il Governo ha già ammesso che su alcuni punti saranno necessari approfondimenti e correzioni. Ammissione straordinaria e stupefacente se pronunciata dal protagonista di una ampia revisione, perché denuncia la consapevolezza che in ogni caso i nodi di questo testo confuso, contradditorio e pericoloso verranno al pettine. *Docente di Diritto Costituzionale
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Primo piano
Nei prossimi numeri di Nuovasocietà
Progetto di ricerca sulla vita di prossimità nella comunità torinese L’indifferenza trionfante sui pianerottoli dove non c’è amicizia mentre sotto la Mole crescono i gruppi di aggregazione sociale, culturale e religiosa di Diego Novelli 1980. Il 23 dicembre l’Italia fu percos-
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sa dalla Sicilia al Piemonte da una scossa di terremoto. L’epicentro del fenomeno si manifestò nella regione Campania, colpendo in modo particolare la zona dell’Irpinia, provocando gravissimi danni all’abitato e alle persone con 2.914 morti, 8.848 feriti e 280.000 sfollati. Il movimento tellurico registrò il 7° grado della Scala Mercalli. La scossa fu avvertita, sia pure leggermente, anche a Torino. L’assessore alla Cultura dell’epoca, il Professor Giorgio Balmas, quel giorno mi raccontò un episodio da lui vissuto che non solo mi fece riflettere, ma suggerì alla Amministrazione Comunale, che mi vedeva Sindaco, una serie di interventi ovviamente non antisismici, ma riguardanti i rapporti di prossimità, per usare una espressione molto cara al Professor Giuseppe De Rita: le relazioni tra singoli individui, abitanti nello stesso caseggiato, nella stessa strada o quartiere. La “parva favilla” che “gran fiamma assecondò”, fu appunto quella leggera scossa di terremoto. Balmas da una decina di anni abitava in un moderno caseggiato e non aveva mai avuto, sino a quel giorno, occasione di incontrare un condomino con cui fermarsi, per intrattenersi, per fare conoscenza e scambiare quattro parole. Arrivava a casa con
la sua macchina, direttamente scendeva nel sottostante garage dal quale partiva l’ascensore che lo risucchiava ai piani alti. Tipica la scena quando si incontra sull’ascensore qualcuno che non si conosce col quale non si sa mai come comportarsi: per darsi un contegno si legge per l’ennesima volta il cartellino appeso ad una delle pareti del piccolo vano, dove sta scritto: “Portata Kg. 350, persone 4”. Arrivati al proprio piano, di
regola, scappa un grugnito che vuol dire pressappoco: “ buongiorno” o “buonasera” e così per anni ha fatto l’educatissimo Balmas. Il giorno della piccola scossa tellurica tutti gli abitanti di quel condominio torinese si precipitarono per le scale, non usando, ovviamente, l’ascensore per paura di restare imbottigliati. Si trovavano, nello spazio di una manciata di secondi, nell’androne dell’edificio:
Due torinesi su tre si ignorano
improvvisamente saluti, addirittura abbracci, descrizioni reciproche del modo come si era mosso il proprio lampadario, sul movimento dei piatti e di altre suppellettili nella credenza. Di fronte a quella dettagliata e partecipata descrizione dell’assessore mi sono chiesto con un po’ di amarezza: “E’ mai possibile che nella mia città si abbia bisogno si una scossa di terremoto perché la gente reimpari a parlarsi, a stare assieme, a conoscersi, a solidarizzare reciprocamente?”
Primo piano crocia un vicino nell’androne di casa o di non degnarsi di uno sguardo in ascensore. Le ragioni di questo comportamento dei torinesi intervistati vanno ricercate nella frenesia della routine quotidiana (74 per cento); nel poco tempo a disposizione per socializzare (67 per cento), ma anche nell’aumentata percezione di micro-criminalità e terrorismo attraverso i media (49 per cento). Secondo la ricerca, quasi un torinese su due (il 47 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 38 per cento ha paura di risultare invadente e il 26 per cento sostiene di essere troppo timido. Otto su dieci dei monitorati dichiara di fare finta di niente (79 per cento), abbassando gli occhi, o finge di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda motivazione sarebbe la fretta (66 per cento), seguita da “Sono in ritardo”. Le categorie più asociali con il vicino sono i manager (78 per cento), liberi professionisti (65 per cento), avvocati (64 per cento) e impiegati (62 per cento). Il cronista di Repubblica ha chiesto al filosofo Gianni Vattimo “Perché i torinesi stanno alla larga dai propri vicini?”, il quale ha così risposto: “Non credo sia una problema di torinesità. Non caviamone l’idea che i torinesi siano falsi e cortesi. Torino, oltretutto, è la città più meridionale d’Italia”. Infatti la capitale del Piemonte, dopo Napoli e Palermo, è quella abitata dal maggior numero di
2016. Sulle pagine di cronaca di To-
rino di “Repubblica”, il 23 aprile, leggiamo un articolo di Gabriele Guccione dall’illuminante titolo: “Sul pianerottolo non c’è amicizia. Due torinesi su tre si ignorano”. Il dato emerge da uno studio finanziato da Nescafé “forse promosso – scrive ironicamente il giornalista - nella speranza di spingere le persone a dialogare di più, magari sedute attorno a una tazza di caffè”. Vale la pena riportare alcuni dati espunti da questa cronaca. Il 68 per cento dei torinesi monitorati dall’indagine riconosce di tenere la testa bassa quando in-
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Primo piano italiani nati o figli di emigrati dal sud. La conferma di questa asserzione del filosofo Vattimo ci viene da un articolo pubblicato tre giorni dopo (il 26 aprile) a pag. 29 de “La Stampa”. Sotto l’esplicito titolo “I vicini di casa? Teniamoli lontani” Alberto Mattioli scrive da Milano che la ricerca della casa produttrice dal noto caffè, legata al video-esperimento sociale “The Nextdoor hello”, rileva che “il 61 per cento degli italiani vede con fastidio chi gli vive accanto. Anzi, si sforza proprio di non vederlo. Non potendo eliminarlo, cerca almeno di evitarlo. Siamo passati dal “condominio familiare” pieno di poveri ma belli dei film degli anni Cinquanta al “condominio asociale” di oggi, dove si conosce a malapena il nome di chi vive dall’altra parte della parete”. Gli italiani più restii a rapporti con i vicini di casa sarebbero i milanesi con il 69 per cento, seguiti come abbiamo visto, dai torinesi (68 per cento), i veneti (66 per cento), i romani (57 per cento), i napoletani (55 per cento), i palermitani (52 per cento). Fermiamoci sulle motivazioni dei milanesi che hanno il primato della classifica. Trionfa la “frenesia della routine quotidiana” (77 per cento), il “poco tempo per la socializzazione”; il 52 per cento teme di essere ignorato dal vicino; il 49 per cento spaventato dalla microcriminalità e dalla minaccia terroristica,
Un’altra faccia della realtà il 34 per cento ha paura di essere invadente, mentre il 23 per cento confessa di essere timido. A non amare il prossimo (contravvenendo il motto evangelico) sono in maggioranza gli uomini (76 per cento), con le donne al 62 per cento. Anche nella città della “Madonnina” l’idiosincrasia per l’ascensore, quando c’è già un altro inquilino che lo aspetta, sfiora il 50 per cento mentre il 33 per cento prima di uscire di casa controlla che sulle scale non ci sia nessuno. “Il Giorno”, quotidiano milanese, ha controbilanciato all’indagine di Nescafé, il record italiano che la città detiene, di “social street”: sono 71, dieci in più dell’anno scorso. Le “social street” sono le strade 2.0 che hanno una pagina Facebook a cui si iscrive chi vive in quella via. Ricorda Mattioli nel suo servizio su “La Stampa” che la prima al mondo di queste strade socializzate fu la mitica via Fondazza di Bologna che attualmente ha 1226 amici. A Milano sono 23mila, e condividono con i vicini di strada attività ludiche, eventi di solidarietà, iniziative di manutenzione urbana. La nostra Associazione Culturale che pubblica “Nuovasocietà” ha promosso una ricerca per scandagliare la grande platea di cittadini presenti e attivi sull’area torinese, che hanno un rapporto con altre persone in gruppi organizzati.
Una equipe di giornalisti e collaboratori di Nuovasocietà con il contributo di psicologi, massmediologi, storici, esponenti del mondo culturale, politico e religioso sta realizzando una radiografia della vita di prossimità sotto la Mole che verrà pubblicata sul nostro mensile. Il progetto prevede l’uscita di altri venti capitoli avendo come base per l’azzonamento della città le 23 Circoscrizioni delineate sin dagli anni ’80. I principali gruppi di aggregazione già individuati sono i Comitati di Quartiere o di Borgata spontanei, le Associazioni del volontariato sociale, assistenziale e sanitario, le Parrocchie e gli Oratori, i Centri Sociali, i Circoli ricreativi, i Dopolavori aziendali, le Famiglie Regionali, i Sindacati a livello di base, i Centri Anziani, i centri sportivi, i Cine Club, le Filodrammatiche, i Partiti e i Movimenti Politici, le Comunità Religiose. Al termine della pubblicazione (entro il 2017) su Nuovasocietà, la ricerca sarà raccolta in un volume. Riteniamo questo nostro impegno utile al fine di accrescere i momenti di aggregazione tra i cittadini in una fase storica, politica e sociale tormentata, in cui i valori fondanti di una comunità, come la solidarietà e il senso civico, sono spesso appannati da un individualismo ipertrofico, da intolleranza e da comportamenti violenti.
SI RINGRAZIA PER LE ILLUSTRAZIONI ALBERTO RUGGIERI www.albertoruggieri.net
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Primo Piano
Se ne discute da vent’anni
IL FATICOSO DIRITTO DEGLI USURATI di Giovanni Avonto
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uale differenza fra la flessibili- conflitto fra i lavoratori) e altro conto che mettesse ordine alla materia e uno tà del pensionamento – di cui è avere le risorse disponibili per rispon- specifico regime previdenziale per catesi discute oggi – e l’accesso dere alla questione usuranti e pensione, gorie di lavoratori ben individuate. anticipato al pensionamento per lavo- cioè riduzione dell’età anagrafica e con- Attualmente possono esercitare il diri usuranti? Nel primo caso sindacato, tributiva richiesti per legge. ritto di pensionamento anticipato i laparlamento e governo sembrano cercare Teniamo anche conto che sono occor- voratori impegnati in attività previste una soluzione con porte di uscita dallo si sei anni per arrivare a costituire una dal decreto Salvi, e in quelle successisbarramento creato dalla legge Fornero, commissione tecnico-scientifica (legge vamente introdotte: lavoro notturno in ogni caso pagando una penale. Dini del 1995) che definisse i criteri (2003), linee a catena di montaggio e I lavori usuranti sono invece un terreno per avere un indicatore globale dell’u- conducenti di veicoli pesanti per il tradibattuto e rivendicato come abbuono sura (risultati recepiti nel decreto Salvi sporto pubblico (2007). previdenziale fin dal tempo della rifor- del 1999, che restringeva le tipologie I requisiti oggettivi sono un’anzianità ma Amato (legge 421/1992). Dunque previste nel ’93, per esempio non inclu- contributiva di almeno 35 anni e lo chi ha diritto a questo anticipo del pen- dendo i lavori in altezza). Si iniziò con svolgimento dell’attività usurante per sionamento avendo esercitato lavori la legge Finanziaria 2001 a mettere a di- almeno sette anni negli ultimi dieci. usuranti? Per esempio i lavoratori delle sposizione risorse per 6 mila lavoratori Ma ci sono disposizioni che rendono costruzioni hanno diritto di accesso? ammessi. difficile l’applicazione (come l’attività Il criterio generale definisce lavori usu- Però passarono altri sette anni perché usurante anche nell’ultimo anno di laranti quelli per cui è voro). richiesto un impegno Insomma siamo a oltre psico-fisico particovent’anni di discussiolarmente intenso e ni, tentativi, rallentacontinuativo, in conmenti, difficoltà per un dizioni che non pospilastro pensionistico sono essere rimosse da che ha avuto conferme misure idonee. a livello internazionaVediamo il percorso le (ILO) e in Europa a ostacoli incontrato (Comitato Economico nella storia per questo Sociale 2002). diritto. Ma la realtà è che il Il decreto 374/1993 fondo lavori usuranti comprendeva una taprevisto nelle succesbella che individuava sive leggi di stabilità è dettagliatamente i lasottoutilizzato, oppuvori considerati partire il governo dirotta colarmente usuranti, L’ex ministro del Fornero promotrice della tanta contestata riforma sulle pensioni quote di questo fondo e quindi meritevoli di verso altre utilizzazioni accedere al beneficio. Tra i lavori previ- un negoziato sindacale e poi la legge per finanziare interventi non previdensti per i lavoratori del settore costruzioni 247/2007 sancisse il diritto come nor- ziali. I sindacati Cgil, Cisl e Uil nella figuravano quelli in gallerie, fognature, ma; e poi come esigibilità piena e con- loro ultima piattaforma rivendicativa e i lavori in altezza (cioè su scale aeree, creta per una platea ben precisa col de- (2015) hanno riproposto la questione ponti a sbalzo, gruisti e copritetto...). creto legislativo 67/2011. del pensionamento anticipato dei lavoMa un conto è definire la platea degli Cioè il percorso è stato complesso per ratori con attività particolarmente fatiusurati rispetto alla generalità dei lavo- arrivare, attraverso la consultazione cose e pesanti: dovrebbero essere inclusi ratori (in modo che mansioni e criteri delle parti sociali e il lavoro delle com- anche gli edili che svolgono lavori in abbiano una obbiettività e non creino missioni parlamentari, a una normativa altezza.
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Opinioni Concetto espunto dalla grande informazione
ESSERE LAICI OGGI Le “dieci virtù” alla base della separazione tra Stato e Chiesa di Alfonso Di Giovine *
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nnanzitutto una premessa sul concetto di “laicità”. Pur nella sua polisemicità, ai fini di queste brevi note si può muovere dalla sua nozione minimale, largamente condivisa dalla cultura e dalla giurisprudenza costituzionale italiana: laicità è quel principio che impone allo Stato la neutralità e l’equidistanza fra le diverse confessioni religiose e, più in generale, fra le diverse concezioni del mondo, ateismo compreso. I Paesi che interpretano nel modo più compiuto questo principio sono gli Stati Uniti e la Francia. Della costituzione americana è celeberrimo l’inizio del primo emendamento
redatto nel 1787, che stabilì – come scrisse T. Jefferson – un muro di separazione (Wall of Separation) tra sfera politica e sfera religiosa: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una religione di Stato o che proibisca il libero esercizio di una religione”. L’articolo 1 della costituzione francese definisce la Francia “una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale”. Il fondamento storico e giuridico dell’aggettivo che ho scritto in corsivo è la legge di separazione tra Stato e Chiesa emanata nel 1905, il cui incipit è sobrio e incisivo come pochi: “Articolo I – La Repubblica assicura la libertà di co-
scienza. Garantisce il libero esercizio dei culti sotto le sole restrizioni relative all’interesse dell’ordine pubblico. Articolo II – La Repubblica non riconosce né stipendia né sovvenziona alcun culto”. Passando alla nostra Costituzione, gli articoli chiave sono il 7 e l’8, lontanissimi dalla temperie culturale che ispira le norme americane e francesi appena citate: dandoli per conosciuti, li si può commentare dicendo che in essi si trova
I Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America stabilirono “un muro di separazione” tra la sfera politica e quella religiosa. Nel celebre dipinto di John Trumbull la firma della Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776
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Opinioni verbalizzata – agli antipodi dell’equidistanza prima richiamata – una macroscopica differenza fra la religione cattolica, che troneggia all’art. 7, e quelle che vengono definite, per semplice differenza rispetto alla religione principale, “confessioni religiose diverse dalla cattolica” (art. 8). E allora “essere laici oggi” dovrebbe significare, almeno dal mio punto di vista, praticare le seguenti dieci “virtù”: 1) essere d’accordo con Norberto Bobbio laddove scrive che “tra Stato laico e regime concordatario c’è incompatibilità dal punto di vista dei principi”;
Le ingerenze della Chiesa cattolica le se una “cosa” non appare sul piccolo (e tanto meno sul grande) schermo o in prima pagina è perché non esiste; 3) considerare irricevibili gli articoli 1 e 9 II co. del Concordato del 1984, là dove impegnano Repubblica italiana e Santa Sede “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese” e, nell’ambito del riconoscimento del valore della cultura religiosa, attribuisce un particolare status ai principi del cattolicesimo, in quanto facenti parte “del patrimonio storico del popolo italiano”.
ventismo, ricordando che se la Chiesa cattolica fosse ancora più potente di quanto non sia, l’Italia sarebbe l’unico Paese avanzato a non prevedere istituti come il divorzio e l’aborto: Salazar – a suo tempo molto apprezzato dal card. Ottaviani – sarebbe la nostra guida spirituale; 5) il laico ritiene che il segretario generale della Cei non possa permettersi di definire – come fece nell’agosto scorso – la classe politica italiana un “puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”. In casi simili a questo, Zapatero inviava ufficiali note diplomatiche di protesta. La chiesa scatenerebbe il finimondo se un ministro della Repubblica esprimesse pubblicamente l’opinio communis che i cittadini italiani hanno del ceto cardinalizio;
6) il laico non prova alcun senso di sudditanza – come purtroppo la provava Bobbio – verso le opere di carità che la Chiesa e le associazioni cattoliche promuovono: esse provengono da Secondo il filosofo Norberto Bobbio “tra Stato laico e regime concordatario c’è incopatibilità dal punto di una delle più grandi vista dei principi” potenze finanziarie del mondo e sono 2) dissentire radicalmente dalla comu- C’è da chiedersi – riprendendo le con- condotte nello spirito messo in luce da nissima opinione secondo la quale i siderazioni di un’acuta ecclesiasticista Hélder Câmara, arcivescovo cattolico principi fondamentali della Costituzio- – “di quale promozione si tratta – pro- brasiliano morto nel 1999, in odore di ne sono intangibili, posto che fra di essi mozione in che modo e in che senso – e santità per volere di Francesco: “quansono inseriti i due peggiori articoli della di quale bene del Paese e soprattutto di do do da mangiare a un povero tutti nostra Carta fondamentale (il 7 e l’8, quale uomo… a quale principio debba mi chiamano santo, ma quando chiedo appunto). Il motivo per cui si continua riportarsi questo inusitato privilegio perché i poveri non hanno cibo, allora a ripetere stancamente e irriflessivamen- che concede ad una Chiesa di porsi ac- tutti mi chiamano comunista”; te il ritornello dell’intangibilità è forse canto allo Stato nella guida del Paese…, da rinvenire nel fatto che la “questione recuperando un anacronistico modello 7) il laico ritiene che papa Francesco laicità” è in progressiva e dolosa scom- di Stato che presta la sua collaborazione sia il più grande fenomeno mediatiparsa dai radar della discussione pub- alla Chiesa per la costruzione di una so- co di questo secolo da poco iniziato e blica, i “grandi” (ma sono solo “grossi”) cietà che risponde alla visione del mon- oscilla fra stupefazione e indignazione nel vedere l’esaltazione acritica di cui è mezzi d’informazione avendola espunta do che essa ha”; fatto oggetto dalla stragrande maggiodalla loro narrazione. 4) pur essendo evidente che le disposiranza della cultura laica (segnalo due È – se è permessa una digressione – zioni concordatarie appena citate aproeccezioni: G.E. Rusconi e L. Lombardi quanto è capitato alla classe operaia, la no autostrade alle più disparate ingeVallauri) e dell’incredibile spazio che cui soggettività è diventata a un certo renze della gerarchia cattolica, il laico gli dedica un sistema informativo “in punto invisibile e perciò irrilevante, in trova intollerabile tale ossessivo interginocchio”. conformità al principio secondo il qua-
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Il valore del dubbio non è negoziabile Eppure il suo coraggio a costo zero si riduce a praticare uno stile di vita sobrio (senza azzardarsi a imporlo ai vari Bertone della compagnia di giro), a oceanici bagni di folla in cui invoca la fine delle guerre, la compassione per gli scarti della terra; a interviste nelle quali non infierisce sui gay (ma con il sottinteso che devianti restano); a encicliche in cui fa propria la tesi sull’equilibrio ecologico che la cultura laica ha elaborato ben più approfonditamente da decenni; a discorsi ufficiali in cui dice di “sognare” un’Europa più equa e solidale. Il tutto, ovviamente, senza cambiare una virgola del fantascientifico apparato dogmatico della Chiesa cattolica, pur auspicando il dialogo interreligioso (concretizzato, per ora, nell’incontrare altri “papi”). Ma quando il coraggio avrebbe avuto un costo – attirarsi l’ostilità della Cina – si è rifiutato di ricevere il Dalai Lama; 8) il laico non si unisce all’universale entusiasmo per il giubileo (o festival?) della misericordia e non va in visibilio per il concetto – cifra distintiva dell’attuale pontificato – che la parola esprime, quanto di più lontano dalla visione laica della vita, ben scolpita fin dal titolo di un articolo di L. Lombardi Vallauri (che Scalfari dovrebbe leggere): “Sì alla laicissima parità. Non alla asimmetrica ‘misericordia’”;
9) il laico s’indigna per le numerosissime manifestazioni di “confessionalismo di costume” (come lo chiamava Jemolo) cui lo spirito di sudditanza della classe politica lo costringe ad assistere. Si è calcolato che il commissario di Roma, prefetto Tronca, quello del profondissimo inchino con baciamano a Bergoglio, ha incontrato in tre mesi ben quattro volte Bergoglio in terreno ecclesiale. Meglio di lui ha fatto Mario Monti, che incontrò otto volte Ratzinger, la prima delle quali, poche ore dopo la formazione del suo indimenticato governo, raggiungendolo in aeroporto dove il papa era in partenza per un viaggio pastorale. Ma abbiamo visto in televisione che all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Cassazione assiste, a fianco di Mattarella, un cardinale, considerato evidentemente dal cerimoniale la seconda autorità della Repubblica; che ai due lati della teca che custodisce la Sindone prestano servizio d’onore due Carabinieri (ma onore a chi? alla più scientificamente squalificata superstizione cattolica?); che tante aule scolastiche (anche universitarie!) e giudiziarie (e anche quella del consiglio comunale di Torino) esibiscono inconcepibili e brutti crocifissi fermamente difesi dal papa “rivoluzionario” nel discorso dell’ultimo venerdì santo; che i funerali di Stato si svolgono in Chiesa; e poi, e poi…;
Opinioni 10) stanco di fare “l’indignato speciale” (come diceva Longanesi), alla fine il laico se ne fa una ragione, ricordando la memorabile profezia che nel 1973 fece un illustre canonista (Orio Giacchi): “il giorno in cui la «laicità» non sarebbe più un apparecchio ideologico maneggiato da poche schiere di intellettuali e di politici, e sarebbe invece un sentimento penetrato nella grande maggioranza della Nazione è un giorno che non albeggerà mai”. Pur riconoscendo che si tratta di una previsione azzeccata (ma lo fu anche quella del card. Bellarmino, che, dopo l’assassinio di Giordano Bruno, disse: “Quel rogo rischia di bruciare in eterno”), l’homo laicus ritiene che il principio fondamentale di una repubblica laica si ricavi, anche se può sembrare una frivolezza, dai versi di Jacques Prevert: “Padre nostro che sei nei cieli | restaci”. In realtà non si tratta solo della mite bestemmia di un uomo struggentemente innamorato della sua “Barbara”, ma di un vero e proprio manifesto di laicità: Iddio – che esista o no – deve restare lassù, non scendere nell’agone politico, inquinando la libera discorsività della dialettica democratica. Di “conversation stopper”, per dirla con Richard Rorty, che traduce in inglese il latino “ipse dixit”, non se ne sente proprio il bisogno: ne va del culto del dubbio, valore non negoziabile della laicità. * Docente di Diritto Pubblico Italiano e Comparato
La presenza del crocifisso in luoghi laici come scuole, ospedali e sale dei consigli comunali è da sempre al centro di un aspro dibattito tra sostenitori e detrattori
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Politica
E’ necessaria una “moratoria”
Renzi non può cambiare la ragione sociale del Pd Il cosiddetto Partito della Nazione è in conflitto con le radici del centrosinistra di Giorgio Merlo
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l confronto, ormai avviato, e l’esito del referendum costituzionale di ottobre si intrecciano con la prospettiva politica italiana. E nello specifico, del Partito Democratico. Sotto questo aspetto, l’esito delle elezioni amministrative passa in secondo piano perché la personalizzazione del referendum impressa dal Presidente del Consiglio e segretario nazionale del Pd lo rende di fatto una scelta favorevole o sfavorevole a Matteo Renzi. E, di conseguenza, sulla prospettiva politica del partito del Presidente del Consiglio. Ora, al centro della contesa politica c’è la trasformazione, o meno, del Pd nel cosiddetto partito della nazione. O meglio, la trasformazione dei “comitati del sì” al referendum di ottobre in un nuovo soggetto politico.
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In entrambi i casi ci troveremmo di fronte ad un cambiamento sostanziale del profilo, della storia – seppur recente – e della stessa identità del Partito Democratico. Ma, senza scivolare nella dietrologia e nei soliti retroscena, probabilmente c’è del vero in questa affermazione ma forse anche un po’ di caricatura nell’accentuare questa potenziale trasformazione del partito. Per fermarsi ai fatti, però, è indubbio che i “comitati del sì” possono dar vita ad un nuovo soggetto politico che si identifica con il progetto della riforma costituzionale voluta dal Governo e approvata a più riprese dal Parlamento con una maggioranza risicata. Una eventualità che, per il momento, viene smentita, seppur debolmente, ma che sta prendendo piede in virtù della per-
sonalizzazione, appunto, della prossima consultazione referendaria, ma anche per la coerenza tra il riconoscersi in un progetto del genere e la sua immediata trasformazione in progetto politico. Certo, anche la minoranza del Partito Democratico voterà sì – tranne forse rarissimi casi isolati e non destinati a far notizia – ma è indubbio che il dibattito e il confronto interni verteranno principalmente sul dopo-referendum. E il dibattito, su questo versante, è già decollato e non può essere relegato ad un fatto secondario e del tutto marginale. Ecco perché ritengo importante, al di là delle dichiarazioni e delle rassicurazioni che fioccano su questi temi, tracciare alcuni punti fermi. Innanzitutto il Pd era, è e deve restare un partito di centro sinistra. Non può
Fondamentale il rispetto del pluralismo interno trasformarsi in un cartello elettorale indistinto e riconducibile esclusivamente alle fortune o meno di un leader politico. L’identità del Pd è tracciato nel suo Statuto e soprattutto nella sua carta fondativa. Una identità che prevede una convinta e forte adesione alla cultura riformista e ad una seria e non effimera cultura di governo. Un profilo che fa del Pd un partito riconducibile strutturalmente al campo riformista e progressista e che non può prevedere una sua mutazione in corso d’opera per calcoli legati prevalentemente all’accoglienza di pezzi di partito
di sinistra. Tutti hanno a cuore la continuazione di una presenza politica che non sia funzionale ad altri progetti o a finalità diverse da quelle originarie e tutti, credo, non possono trasformare il prossimo dibattito referendario come nella occasione finale per “regolare i conti” interni al partito. Se così fosse, non ci troveremmo di fronte ad un confronto politico e di merito ma solo e soltanto ad una contesa di potere fatta e pensata per disegnare altri scenari e tracciare altre prospettive. Serve, cioè, quella che in gergo si definisce una “moratoria” capace di far convi-
Politica nel medesimo soggetto politico di culture e filoni diversi. In ultimo, il Pd continua ad essere, forse, l’unico partito che mantiene una presenza politica e organizzativa diffusa e radicata nel territorio nazionale. Un partito che difficilmente è compatibile con la riduzione di spazi democratici interni o con una eccessiva personalizzazione della sua leadership. Al di là degli indubbi meriti di Renzi nell’aver trasformato la sua presenza politica in un significativo “valore aggiunto” per la stesso consenso che il partito riscuote alle varie elezioni. Ma tutto ciò non può trasformarsi in una sostanziale riduzione della democrazia interna
Il premier Matteo Renzi e il senatore di Ala Denis Verdini: un’alleanza ormai consolidata che per molti potrebbe portare alla nascita di un nuovo soggetto politico
o di singoli esponenti che provengono da altre esperienze o da altre formazioni politiche. Insomma, il Pd non può cambiare la sua “ragione sociale” per motivazioni legate ad operazioni trasformistiche. In secondo luogo il merito di una consultazione elettorale – referendaria o meno che sia – non può essere lo strumento per avviare nuovi percorsi politici. Su questo versante credo sia necessario un confronto chiaro e franco tra la maggioranza renziana e la minoranza
vere all’interno della stessa formazione politica opinioni diverse senza arrivare alla sostanziale espulsione dei dissidenti o alla impossibilità di esprimere opinioni contrastanti con la maggioranza. Un partito, del resto, è realmente democratico quando riesce ad esprimere una posizione politica chiara nel pieno rispetto del pluralismo interno. Che, del resto, resta un aspetto qualificante nella breve storia del Partito democratico anche per la sua impronta originaria che prevedeva la confluenza
sacrificata sull’altare di una presunta modernità ed efficacia del linguaggio politico. Insomma, il referendum di ottobre non può e non deve cambiare l’identità, la prospettiva e il ruolo che il Partito democratico ha esercitato sino ad oggi nella politica italiana. E questo non solo, come ovvio, per il bene del Pd ma anche, e soprattutto, per la qualità della nostra democrazia e per la serietà e la fedeltà democratica delle nostre istituzioni.
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Avamposto
La defenestrazione del sindaco Marino
UN MARZIANO A ROMA
Un libro che fornisce le chiavi di lettura del maleodorante pozzo della politica nella Capitale di Angelo d’Orsi
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l 30 ottobre 2015, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, “dimissionato” pochi giorni prima, per una congiura di regime (non di palazzo, in quanto gli esecutori erano tutti pilotati dall’esterno del Campidoglio), in una conferenza stampa, pronunciò la famosa frase: “I miei accoltellatori sono 26, ma il mandante è uno e siede a Palazzo Chigi”. Era l’ultimo atto di una guerra intestina al Pd, con Renzi (l’inquilino di Palazzo Chigi) che raccoglieva la sua vittoria, ai danni del “sindaco ribelle” con i proconsoli renziani che gongolavano, mentre il Movimento 5 Stelle, e Sel, trovatisi accanto alla destra di Alemanno, cominciavano invece, troppo tardi, a rendersi conto di aver contribuito a un atto politico di cui non ci sono precedenti nella storia repubblicana, un atto di una gravità istituzionale enorme. Ossia, la defenestrazione per via notarile di un sindaco legittimamente in carica, giunto al suo scranno forte di una valanga di consensi: una maggioranza di consiglieri (26 appunto) si era infatti presentata nello studio di un notaio romano, per certificare le dimissioni, in modo che la giunta cadesse, ai sensi di legge. Una regia nascosta, nel senso di non dichiarata, ma tutt’altro che occulta, aveva portato alla fine di una delle più interessanti esperienze di amministrazione della capitale d’Italia, esperienza tanto più notevole, e da salvaguardare, in quanto faceva seguito
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alla peggiore di tutte le amministrazioni della città, quella del sindaco Gianni Alemanno, caduto nella polvere ignominiosamente, con una serie di pesanti accuse che certificavano quello che ogni romano perbene già sapeva: l’occupazione del potere fatta da una nutrita schiera di “post-fascisti”, che si erano sistemati per bene negli innumerevoli anfratti della vita pubblica cittadina. E che avevano munto la lupa romana, facendo crescere a dismisura un indebitamento già gravissimo, che aveva pesato fino ad allora sulle spalle non soltanto degli abitanti di Roma, ma di tutti i cittadini italiani, grazie alla sciagurata politica di ripianamento costante dei debiti della capitale da parte dei pur esangui forzieri dello Stato italiano. L’oscena gestione di Alemanno e dei suoi camerati, era stato l’ultimo sacco di Roma, ennesima calata di lanzichenecchi venuti nella “caput mundi” a depredare la cosa pubblica, con una disinvolta gestione che mescolava tranquillamente malaffare, criminalità piccola e grande, furbizie, ruberie. E soprattutto un totale disinteresse per il funzionamento, e dunque per il disfunzionamento, delle istituzioni, della finanza, dell’ordine pubblico, dell’urbanistica, del sistema-Roma nel suo complesso. Inevitabile sorse negli animi degli onesti di Roma e d’Italia (ma
se ne parlò anche fuori dei confini patrii), la domanda: perché Matteo Renzi, segretario di un partito politico di cui Marino era esponente di spicco, aveva deciso a tavolino la fine di quella esperienza di pulizia e trasparenza che si stava portando avanti? Perché aveva voluto la cancellazione della libera scelta degli elettori romani? E perché aveva optato per quella via forse legale, ma non certo legittima, per annientare colui che ormai sentiva come un suo avversario
Avamposto personale? Come mai si era spinto ad cacciando o facendo in modo che se dibili gaffes, da lui commessi, Marino è un atto così grave, così antidemocratico ne andassero i dissidenti, inducendo al stato semplicemente annientato perché e così autenticamente “antipolitico”? silenzio coloro che vollero rimanere, o aveva osato rompere equilibri consoliLe risposte per quanti non ne avessero tutt’al più concedendo loro un risibile dati da una lunga cogestione tra le disaputo dare (rivendico il titolo di essere ius murmurandi. verse forze politiche, compresi i partiti stato tra i primi a scrivere in difesa del La lettura di questo libro fornisce so- di sinistra, all’insegna del totale disprez“soldato Marino”), si possono leggere stanziose chiavi di lettura di una vi- zo della buona amministrazione, di una ora, nero su bianco, nel libro-confes- cenda paradigmatica non soltanto opacità dei comportamenti politici, di sione dello stesso Marino (Un marziano dell’arroganza del potere, ma del male- una assoluta mancanza di trasparenza a Roma, Feltrinelli), vittima sacrificale odorante pozzo che è da troppo tempo nelle scelte economiche, urbanistiche, sull’altare dell’arroganza di un padron- la vita politica della capitale: ambienti commerciali, persino culturali e turisticino che non ammette disobbedienza, finanziari, lobby potentissime e spesso che: il che, per una delle centrali monche non tollera dissenso, che non accet- sottovalutate (dai palazzinari ai tassisti, diali del turismo e della cultura vuol ta la dialettica usuale in un partito non dai burocrati ai bancarellai, dagli autisti dire molto, anzi moltissimo. Marino si di marionette: il fatto è, invece, che, dell’ATAC agli addetti alla Nettezza Ur- è messo contro troppi gruppi parassitacome il caso Marino, ha contribuito a bana, dai vigili urbani fino ai musicisti ri, troppe rendite di posizione, troppi dimostrare in modo palese, direi cla- dell’Opera di Roma…), l’immarcesci- centri di sottopotere; e il riconoscimenmoroso, a tratti persino violento, il PD bile curia vaticana, cricche di politican- to dei diritti degli omosessuali a sposarè ormai un si, aveva urtato partito comla Chiesa (proposto nella prio a Roma, quasi totalità si saranno detti da figure ingli Alti Prelati!), sulse pronte come la chiusura semplicemendei Fori Impete a piegare riali aveva indila testa, nel spettito bancatimore di rellai e tassisti… dover rinunMarino, un vero ciare a qualmarziano deche piccola, gno di Ennio piccolissima Flaiano, nel suo posizione di indimenticabipotere, da un le racconto che seggio parlaha suggerito il La piazza del Campidoglio, sede del Comune di Roma mentare a un titolo di questo assessorato, libro, si era mesda una seggiola di consigliere a una più ti – non saprei come appellarli, anche so in testa di “fare pulizia”, insomma: lucrosa poltrona in un Consiglio di am- quando di fama nazionale – sovente di pretesa assurda, come quasi patetica apministrazione. Parlo del PD, non come infimo livello intellettuale e morale; e pare, ex post, la sua volontà di risanare popolo, non come iscritti e militanti le ben note, fameliche schiere di postu- le finanze cittadine, affondate sotto il che spesso sono non soltanto degnissi- lanti, esponenti perlopiù di una vasta, peso di un debito stratosferico che non me persone, autentici “compagni” che inquieta, piccola borghesia declassata, e potrebbe essere risanato da nessun inperò non si sono resi conto di che cosa di un vasto esercito di sottoproletariato tervento statale, che pure non è mancasia accaduto in quello che considerano urbano o urbanizzato, ma non certo nei to anno dopo anno, anche nelle allegre ancora il loro partito: anzi, “il Partito”. modi. Il libro, va detto, è inutilmente gestioni di Rutelli e Veltroni (da qualParlo della dirigenza centrale e locale lungo, lezioso, con superflui svolazzi cuno prese incredibilmente a modello: di quel partito, la cui degenerazione, a letterari (di modestissimo livello), come il che dimostra come sia facile ingannamio avviso era cominciata addirittura ai del resto ci si poteva attendere dal suo re il popolo). tempi di Enrico Berlinguer (che se ne autore, a cui si deve imputare un’auto- Era davvero troppo, per una città-monsera reso conto, dolorosamente, senza referenzialità, e una presunzione, che tre come Roma, dove la rassegnazione è avere la forza né il tempo di porvi ri- sono state tra le principali cause del l’altro volto della complicità. E Renzi, medio), e che giunse nel dicembre 2013 moto di insofferenza che da tante par- che a quelle lobby, a quella politica, a al punto di non ritorno con l’ascesa del ti anche simpatetiche politicamente, si quegli ambienti ecclesiastici e finanziari sindaco di Firenze alla carica di segre- era generato verso di lui, più che verso e commerciali è legato, non poteva toltario; di là, con un atto improntato a le sue politiche; ma, come è evidente, si lerare che un simile impiccione, goffo un cinismo agghiacciante, accoltellan- tratta di peccati veniali, come i famosi come Forrest Gump, pasticcione, vanido il suo compagno Enrico Letta, il scontrini delle cene, per i quali Marino toso, ma onesto, pulito, scompaginasse nuovo leader era rapidamente asceso fu crocifisso, e trattato alla stregua degli quel castello, e facesse venir fuori tutto alla Presidenza del Consiglio dei mi- orrendi personaggi di “Mafia capitale”. il marcio che si annidava e si annida nel nistri. E altrettanto rapidamente aveva In realtà, al di là dei suoi limiti persona- partito che il “Grande Rottamatore” provveduto a “normalizzare” il partito, li, e dei tanti errori tattici e delle incre- proclamava di voler rinnovare.
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Internazionale
Il magistrato risponde sul terrorismo islamico
L'ISIS COME LE BRIGATE ROSSE? Caselli: "Mondi completamente diversi" di Bernardo Basilici Menini
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ian Carlo Caselli, magistrato che ha dedicato la vita alla lotta al terrorismo e alla mafia. Procuratore Capo della Repubblica di Torino dal 2008 al 2013 e in precedenza aveva guidato la Procura di Palermo. Nella sua carriera, durata mezzo secolo, ci sono gli “anni di piombo”, quando da giudice istruttore seguiva i processi contro le Brigate Rosse e Prima Linea, e coordinava le inchieste sulla colonna torinese delle Br. E proprio il terrorismo degli anni Settanta e Ottanta è stato ultimamente usato come paragone per quello di matrice islamica. Gian Carlo Caselli, ma ci sono veramente similitudini tra la stella a cinque punte e la bandiera nera dell’Isis? Regge la comparazione? No, il raffronto è estremamente forzato. Parliamo di mondi totalmente e profondamente diversi. Inoltre il terrorismo indigeno italiano, pur collocandosi in una stagione che a livello mondiale vedeva soggetti per certi versi simili (Rote Armee Fraktion tedesca, Esercito rosso giapponese, Pantere nere statunitensi, Nouvelle resistence populaire in Francia), agiva solo dentro lo Stato, con l’obiettivo di colpire le istituzioni dentro i confini del paese. Farneticando, i brigatisti volevano obbligare lo stato a “gettare la maschera” della finta democrazia, e mostrare il lato autoritario e fascista.
Gian Carlo Caselli, una vita a difesa della legalità contro mafia e terrorismo
Nelle indagini sul terrorismo oggi emergono nuovi strumenti con nuove modalità. Possiamo trovare qualche trait d’union con il passato? Chiaramente i metodi, anche in riferimento allo stesso fenomeno criminale, cambiano, si evolvono e si perfezionano. Tuttavia, quando si tratta di crimine organizzato, sia “indigeno”, come le Br, sia internazionale, il quadro è analogo e sul piano investigativo bisogna mettere in campo due carte fondamentali. La prima è la specializzazione: chi si occu-
pa di crimine organizzato deve fare soltanto questo, per capirlo sempre di più, affinare la propria sensibilità e la capacità di penetrare dentro il problema. La seconda è la centralizzazione, che vuol dire evitare il più possibile la frammentazione, far confluire ogni elemento in solo unico contenitore, in modo da non disperdere nulla. Perdere qualcosa per strada, anche un dettaglio, può significare portare le indagini su una pista sbagliata e non riuscire ad arrivare alla verità. In tutto questo il coordinamento è essenziale, soprattutto se ci sono più forze dell’ordine, più magistrati,
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Internazionale più Stati coinvolti. Quando invece, ad esempio, succede come in Belgio, dove i poliziotti valloni non parlano con quelli fiamminghi , si verifica uno scollamento pericoloso.
za. Cosa che, dove c’è la democrazia, è assolutamente inaccettabile: la violenza non risolve mai nessun problema, anzi, rende molto più difficile risolvere quelli che già ci sono.
Il parallelismo tra il terrorismo italiano degli anni ‘70-’80 e quello Isis guarda anche alla componente ideologica: il proposito di voler creare un nuovo mondo e una nuova società. Si tratta solo di una giustificazione per l’azione violenta?
Nel terrorismo “nostrano” c’era una rivendicazione non solo politica, ma anche sociale. In quello attuale, vediamo come molti terroristi siano nati e cresciuti in paesi europei, nei “blocchi” di periferia, nelle banlieue. Qual è la componente sociale?
Non si può generalizzare, bisogna distinguere gruppo per gruppo e soggetto per soggetto. L’elemento comune, secondo me, è che tutti coloro che praticano la violenza come metodo criminale di lotta politica hanno come obiettivo l’imposizione della propria visione del mondo a tutti. Coloro che non la accettano devono essere ammazzati. E questo è il credo comune: imporre con la violenza la propria visione del mondo ed eliminare quelli che non sono d’accordo. Poi, sarò sincero, nel caso ad esempio delle Brigate Rosse faccio fatica a vedere una volontà di cambiare il mondo, da parte di chi usava l’omicidio sistematico di persone indifese. Questa è solo barbarie, che non può essere nascosta da nessuna copertura ideologica, politica o religiosa.
E’ troppo complicato rispondere in un paio di battute: ci sono volumi che riempiono biblioteche intere che se ne sono occupati. Ma una cosa la voglio dire. Qualunque terrorismo, nero, rosso, mafioso, indigeno, internazionale, pone un problema grave, quello della sicurezza, che è un bene per cui è giusto spendere tutte le risorse e l’impegno possibile. Ma attenzione a che la sicurezza non diventi qualcosa sul cui altare si sacrificano i diritti, individuali o collettivi che siano. Senza pace non c’è giustizia, ma senza giustizia e rispetto dei diritti non c’è pace. E parliamo di tutti i diritti: quello a una vita decorosa, a non essere sfruttati, perseguitati, costretti a vivere in povertà. Dall’ingiustizia deriva la rabbia, dalla rabbia derivano le forme di ribellismo e violenza, fino alla macelleria degli attentati. Ed ecco la necessità di non costruire un cortocircuito: se intervengo con la repressione per creare sicurezza, ma non intervengo anche sugli altri piani, creo una situazione di insicurezza. E, sia chiaro, dicendo questo non giustifico niente, semplicemente ricostruisco una “filiera”, una sequenza logica. Questo vale anche nel caso in cui, cercando di “esportare” la democrazia, si finisce per creare poteri nuovi, che con la democrazia non hanno niente a che fare.
Malgrado le differenze, c’è una somiglianza tra il terrorismo di ieri e di oggi: l’ordigno esplosivo. La bomba in un luogo pubblico, per uccidere i civili, con il fine di minare la percezione della sicurezza. Questo metodo continua a funzionare?
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Si, ma dobbiamo fare alcune precisazione tra le varie modalità e i diversi tipi di terrorismo. Quello selettivo, tipico delle Br, mira a spaventare persone o gruppi precisi, ad esempio gli appartenenti a una determinata categoria professionale o politica, ma colpendo loro cerca di terrorizzare e piegare tutta la società, com’è avvenuto a Torino uccidendo l’avvocato Croce. Il terrorismo di matrice fascista, stragista, mafiosa, e adesso anche quello dell’Isis, tende a colpire nel mucchio, perché nessuno si possa sentire sicuro e tranquillo: la bomba in un luogo di ritrovo colpisce in maniera indiscriminata e diffonde più terrore. Ma in ogni caso sono sempre tecniche di intervento che hanno al centro l’omicidio e la volontà di imporre la propria visione del mondo con la violen-
Quindi nel fronteggiare questo fenomeno serve un’azione di ampio respiro? Direi di si. E’ questo il metodo che dobbiamo usare per sconfiggere il terrorismo di oggi. Ovviamente la strada non è facile, anche perché ci sono delle domande molto importanti ancora aperte: quanto è difficile l’emersione dell’Islam moderato? La frattura generazionale che si sta verificando nelle moschee renderà più difficile questo passaggio? In che modo fare i conti con quegli Stati, come l’Arabia Saudita, che
in maniera paradossalmente ambigua finanziano i terroristi con armi e risorse e poi si inseriscono nelle “sante alleanze” per attaccarli? Riusciremo a costruire una vera cooperazione internazionale tra tutti gli attori, che miri all’obbiettivo concreto e non sia preda di interessi particolari? Senza sciogliere questi nodi non si può costruire un vero percorso, appunto di portata maggiore, che oggi rimane l’unica via per sconfiggere il terrorismo. Secondo lei, non bastano quindi interventi militari e repressivi per affrontare il fenomeno? Esattamente, questa è la grande lezione che ci ha insegnato il terrorismo indigeno. Sconfiggendolo, nelle sue varie forme che si sono riproposte per quindici anni, l’Italia è diventata il Paese dell’antiterrorismo per eccellenza, dato che siamo riusciti a farcela seguendo le regole, e non accettando quelle delle brigate rosse, che volevano far crollare la democrazia uccidendo le persone e intrappolando lo Stato nella stessa logica. Non siamo venuti a patti con il clima di violenza che tentavano di imporre, non abbiamo usato scorciatoie, non abbiamo creato tribunali speciali, ma siamo andati avanti celebrando regolari processi. I principi fondamentali dello Stato di diritto non sono mai stati abbandonati. E se vogliamo combattere e vincere il terrorismo internazionale, non possiamo abbandonarli nemmeno oggi. Tantissimi sostengono che nei barconi carichi di immigrati si nascondono terroristi o “aspiranti tali”. Che ne pensa? Non mi sembra che gli elementi concreti fin qui raccolti possano avallare una simile ipotesi. Ma quel che è vero oggi potrebbe essere smentito domani da nuove risultanze.
Internazionale
La scarsa trasparenza dell’industria bellica italiana
TURCHIA, QUANTO TI ARMO! Record di vendite nel 2015. Ankara bombarda i il popolo curdo con gli elicotteri della Agusta di Enrico Mugnai
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numerosi conflitti, nuovi e decennali, dall’Afghanistan alla più vicina Siria, creano condizioni propizie per l’industria militare. Il settore bellico italiano è uno dei pochi comparti nazionali ad aver aumentato i propri profitti nel 2015. L’annuale relazione del governo sull’export militare italiano, riporta che le autorizzazioni sono aumentate del 200%, passando da 2,6 miliardi del 2014 ai 7,9 del 2015. Un successo che ha portato l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti a promettere 200 posti di lavoro nel distretto aerospaziale di Torino, che conta 4mila dipendenti, entro il 2017, e 1 miliardo di investimenti nei prossimi 5 anni. Uno dei mercati più ambiti dall’industria bellica italiana è quello turco, di cui siamo i secondi fornitori dopo gli Usa. Nel 2015 abbiamo esportato nel Paese della Mezzaluna armi per un va-
lore di 129 milioni, rispetto ai 53 del 2014. L’esportazione di armi è regolata non solo dalle legge italiana 185 del 1990, ma anche dalla posizione comune UE 2008/944 e il Trattato sul commercio delle armi. La legge 185 dispone che l’esportazione e il transito delle armi siano vietate «nei Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani» e la 944 che «gli Stati membri sono determinati a impedire l’esportazione di tecnologia e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale». Ma le leggi che regolano il mercato delle armi non sono così vincolanti e lasciano margine di interpretazione agli Stati, come sottolinea Alessandra Pietrobon, professoressa di Diritto in-
ternazionale dell’Università di Padova e membro del think tank per il disarmo e la non proliferazione dell’Unione europea: «Queste valutazioni consentono purtroppo, ma forse inevitabilmente, un largo margine di discrezionalità ai governi. La decisione è particolarmente difficile se il governo è quello di un Paese che le armi le produce e le vende. Ufficialmente, peraltro, nessuno produce, vende e compra armi, ma solo “prodotti per la difesa”, e la difesa per ogni Stato è un diritto sancito come diritto naturale dalla Carta dell’ONU». «Negli ultimi anni le relazioni dei vari governi sulle esportazioni di armi sono diventate sempre meno trasparenti, non solo a causa di decreti, ma per una precisa volontà politica. I vari Ministeri (Esteri, Dogane, Finanze) forniscono informazioni incomplete rendendo così impossibile sapere con chiarezza la tipologia, la quantità e i valori monetari dei
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Internazionale sistemi militari che vengono esportati. In questo modo né la società civile né i parlamentari possono vederci chiaro» dice Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal), che continua «Il motivo di tanta opacità sta nei numeri: più della metà delle armi vendute dall’Italia è andato a Paesi in stato di conflitto armato o che violano i diritti umani, e negli ultimi cinque anni la maggior parte dei contratti è stata stipulata con molti regimi autoritari del Medio Oriente e del Nord Africa».
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Il genocidio del popolo curdo dura da trenta anni ed è tornato ai massimi livelli. Dall’estate del 2015 lo Stato turco ha iniziato a cingere d’assedio numerose città del sud est a maggioranza curda. I cecchini sui tetti, gli elicotteri da guerra e l’artiglieria pesante hanno ucciso, 159 civili, tra cui alcuni bambini e 30 donne. La libertà di stampa in Turchia vive uno dei periodi più difficili della storia, come dimostra l’arresto di Erdem Gul e Can Dundar, del quotidiano Cumhu-
risalito alle aziende di provenienza di questi componenti, tra cui, la maggior parte, sono turchi. Profughi e curdi: le due armi della Turchia
La Turchia usa le armi dell’Europa contro profughi e popolazione curda, e l’arma dei profughi contro l’Europa. Molti rapporti di agenzie internazionali descrivono come vengono accolti i profughi siriani: sparando. Human rights watch e l’Osservatorio siriano per i diritti umani hanno documentato solo negli ultimi cinque mesi l’uccisione di trenta profughi, compresi quattro bambini e quattro donne, e il ferimento di altre decine di persone in fuga dalla guerra. E mentre la Turchia blocca il flusso dei migranti, la rotta balcanica, con snodo cruciale sul suolo turco, rimane la preferita dai trafficanti di armi. A Trieste è stato scoperto un camion proveniente dalla Turchia con 800 fucili diretti in Belgio. Che la Turchia si prepari a rispondere alle proteste, che siano dei curdi, della società civile, delle forze politiche di opposizione o dei A 129-Mangusta: l’elicottero italiano che l’esercito turco utilizza nei raid contro i curdi migranti, si evince dai dati relativi alle armi antisomUna mancanza di informazioni che col- riyet, responsabili di aver svelato il traf- mossa. Dal 2015 il budget per l’esercito pisce anche gli stessi addetti del com- fico di armi verso la Siria protetto dal è stato incrementato di 750 milioni di parto Finmeccanica. Pier Paolo Cal- servizio segreto turco Mit. euro, 220 milioni per armi antisomcagno, da 39 anni in Alenia, delegato O il commissariamento di Zaman, mossa, un aumento del 700%. Fiom: «Da quando si è insediato Mauro principale quotidiano della Turchia, ac- Mentre la Turchia ha da tempo istituito Moretti, la gestione dell’azienda è di- cusato di “propaganda terroristica” col un processo di islamizzazione (sunnita) venuta più verticistica. Dal 2013 non conseguente appiattimento della linea e repressione delle minoranze, l’attuavengono più convocati gli Osservatori editoriale su posizioni filo-governative. zione del Confederalismo democratico regionali, che prima avevano scaden- Nel 2014 l’Unione europea ha conferito che i curdi stanno portando avanti in za semestrale. Sedi di confronto nelle un mandato all’organizzazione indipen- Bakur (Kurdistan turco) e in Rojava quali venivano fornite informazioni dente CAR (Conflict Armament Rese- (Kurdistan siriano) ha una traiettoria sull’andamento dei programmi, e sulle arch), di analizzare il traffico illegale di diametralmente opposta: «Stiamo coprospettive industriali». armi in Siria ed in Iraq. Da una analisi struendo un presente ed un futuro nuodettagliata delle armi dell’Isis recupe- vo, fondato sulla democrazia diretta dal “Pace in patria, pace nel mondo” rate sul campo, risulta come molti dei basso, sull’autogoverno, sulle assemblee (motto della Turchia) componenti siano di provenienza turca. di quartiere, sul ruolo delle donne e la Si va dalle sostanze chimiche come il parità di genere, sulla convivenza paciSecondo l’indice di democrazia dell’E- nitrato di ammonio e la pasta d’allu- fica tra etnie, religioni e culture diverse. conomist, autorevole giornale londi- minio, ai detonatori, ai cavi e ai com- Quello che si sta costruendo in Rojava nese, la Turchia si piazza al 98° posto, ponenti elettronici per la detonazione, è più di un esperimento, è una rivoluappena sotto Uganda e Kenya. tutti prodotti utilizzati per la fabbrica- zione. Una rivoluzione che passerà muri Gli arresti immotivati e le torture sono zione di Ied, Ordigni esplosivi improv- e confini e che sarà un nuovo modello molto frequenti. La minoranza religiosa visati, uno dei più terribili e utilizzati per tutto il Medio Oriente». alevita, è discriminata ed emarginata. strumenti di guerra dell’Isis. Il CAR è Al netto delle armi turche.
Solidarietà
A trent’anni dal disastro nucleare in Ucraina
Una speranza per i bambini di Černobyl Il Comitato “Girotondo” di Gassino Torinese accoglie ogni anno i bimbi provenienti dalle zone ancora contaminate di Caterina Olivetti
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La ruota panoramica divenuta un triste simbolo della città fantasma di Cernobyl
li anniversari resuscitano la storia per un solo giorno, come l’esplosione del reattore numero 4 di Černobyl, il 26 aprile 1986, che è tornata in primo piano con le parole e i numeri spaventosi di una tragedia che continua silenziosa. Soprattutto in Bielorussia: una piccola terra “schiacciata - come dice Svetlana Aleksievič, Nobel per la letteratura 2015 - dal tritacarne della storia, tra l’esplosione della
centrale nucleare e quella dell’impero socialista”. Ma Anna Rapalino non ci permette di dimenticare. Ricorrono i 30 anni del disastro e Anna celebra i venti del Comitato Girotondo, associazione che ha fondato a Gassino Torinese per accogliere i bambini bielorussi che vivono nelle terre ormai per sempre contaminate. Sul pieghevole c’è una bambina bionda che guarda tra le tende di pizzo
e i vetri incorniciati d’azzurro della finestra di una casa in legno. Una Gretel di oggi che sembra spiare un pericolo più grande della strega che nella fiaba mangia i bambini. Ad Anna l’idea venne ascoltando un esperto a un talk show: diceva che 40 giorni trascorsi in una zona pulita dimezzano la radioattività dell’organismo riducendone la probabilità di ammalarsi.
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Solidarietà “Una speranza per i bambini di Černobyl” è il motto che sul pieghevole dà voce allo sguardo della bimba: lo sguardo che si incontra trovando il volantino su un banco a una sagra di paese, nel sacchetto dei bimbi dell’asilo o nello zaino dei grandi con le figurine dei calciatori, che interpella chi lo incontra, al quale rispondono tante persone. All’interno del pieghevole si legge anche un messaggio, un invito diretto ma discreto: puoi accogliere anche tu, non servono soldi, né conoscere una lingua, né uno spazio grande, ma disponibilità, affetto, attenzione. A pensarci, dir di no è quasi difficile. Anna è una signora minuta, gentile quanto tenace, che ogni giorno da
taliano con Laura Dusio, insegnante di lettere esperta conoscitrice di lingua e letteratura russa. Quest’anno sono stati accolti 25 bambini in altrettante famiglie, tutte diverse. Francesca e Umberto, una grande casa ai margini del bosco, si sono sposati tardi e un figlio non è arrivato, ma da qualche anno a primavera arriva una bimba bielorussa. Tonia, ucraina di Odessa, e Roberto abitano a Baldissero, con i loro tre figli hanno accolto Kirill e lei ci aiuta a comunicare con i bambini in russo. Rosanna ha trovato il volantino nello zaino del figlio, ha telefonato ad Anna l’ultimo giorno possibile per fare i documenti necessari e ha deciso ancor pri-
dei villaggi rurali, segue le famiglie dei minori in difficoltà, promuove l’accesso all’università di giovani che non hanno mezzi, e tutti gli anni in estate organizza un campo di lavoro in Bielorussia per continuare le attività svolte a distanza. Quest’anno i bambini sono arrivati a Gassino Torinese una sera di marzo, stanchi, un po’ spauriti. Ad accoglierli c’erano le famiglie emozionate: chi è Dimitri? qual è la mia bimba? Poi due mesi bellissimi insieme. Sono ripartiti la mattina del 1° maggio, 30 anni esatti dopo quella parata tradizionale che non fu annullata, esponendo per ore la popolazione a radiazioni di livello altissimo. Sasha, Igor, Julia ritorneranno, poi ne
Sono tanti i bambini ucraini e bielorussi ogni anno ospitati dalle famiglie di Gassino Torinese
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vent’anni lavora per questa accoglienza e lei stessa, con il marito Paolo, ogni anno ospita un bambino. La affiancano compagni fedeli da tempo, come Lia e Oscar che accolgono dal 2003, e Roberta, la figlia, oggi responsabile degli animatori che si occupano dei piccoli ospiti nel tempo libero. Il Comitato Girotondo sostiene l’accoglienza soprattutto durante il periodo scolastico: in un locale presso l’Istituto Figlie della Sapienza a Gassino è nata una vera classe. I bambini, fra i 7 e i 10 anni, studiano russo, matematica, tedesco con la maestra bielorussa che li accompagna, e ogni giorno anche l’i-
ma di poterne parlare al marito Salvatore: ma lo conosco bene, dice, ero sicura che sarebbe stato d’accordo. Eugenio, dentista di Arignano, con la moglie Carola ha ospitato Sasha, e insieme ad alcune amiche dentiste ha curato la bocca di tanti piccoli ospiti. Annamaria ha accolto Anastasia insieme al marito Dario, che ha anche organizzato una grande paella per raccogliere fondi: quasi 1000 euro che diventeranno una borsa di studio. Perché il Comitato Girotondo non fa solo ospitalità: con il progetto CUROMA porta in Bielorussia medici volontari per la profilassi dentaria e oculistica sui bambini
verranno altri, anche perché l’Italia, che ha cominciato nel ’93, continua a essere il Paese europeo che dalla Bielorussia accoglie il maggior numero di bambini. Nell’anniversario del più grande disastro nucleare, tra la primavera e l’estate, sta passando in Piemonte uno spettacolo bello e toccante, creato da un gruppo di studenti universitari e giovani laureati di Minsk, ispirato alla Preghiera per Černobyl di Svetlana Aleksievič. Pochi giorni fa da quel palcoscenico, la giovane protagonista diceva commossa a un pubblico emozionato: se da bambina non fossi stata accolta in Italia, non sarei la stessa persona che sono oggi.
Inchieste
“Il manicomio dei bambini”
La voce di un ex recluso di Villa Azzurra Questo racconto è il primo pezzo del libro – Il manicomio dei bambini – che ho scritto con la psichiatra Caterina Corbascio e abbiamo pensato di collocarlo in testa a tutto il resto perché rappresenta la testimonianza di Beppe, nome di fantasia, che è uno dei pochissimi a poter ricordare che cosa fu l’Istituto Psico Medico Pedagogico di Grugliasco, più noto come “Villa Azzurra”. Molti dei bambini che vi furono ricoverati negli anni 60 e 70 sono morti o vivono in comunità, con ricordi frammentari del loro passato o non sono rintracciabili. Noi abbiamo consultato le loro cartelle cliniche e con altrettanti nomi di fantasia abbiamo ricostruito le storie di una parte di loro che compongono – insieme alle relazioni medico-statistiche di fine anno, i verbali del consiglio di amministrazione dell’Opera Pia che amministrava gli Ospedali Psichiatrici di Torino – una storia corale di segregazione, sofferenze, abusi (legati in particolare, ma non solo, alla figura di un medico discusso, Giorgio Coda) che nessuno aveva mai raccontato dando voce agli “ineducabili” o agli “arnesi”, così come venivano chiamati allora i bambini dimenticati di Villa Azzurra. Il nostro libro è anche molto altro: non si ferma al passato. Ma ora e qui, in attesa della pubblicazione, anticipiamo, grazie a Nuovasocietà, il lucido racconto di un sopravvissuto.
Alberto Gaino
I ricordi fanno di noi ciò che siamo Avevo otto anni quando un’assistente sociale mi portò a Villa Azzurra che di quel colore non aveva proprio nulla. Ci
finii perché quella buona donna di mia mamma mi aveva avuto da un uomo che della paternità se ne infischiò allegramente, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola, e lavorava come operaia in una maglieria. Mi portò in via
Giovanni da Verrazzano, a Torino, che era un centro della Provincia. Là, un’assistente sociale scelse per mia madre e per me: potevo andare all’Istituto Levi, che era un posto per bambini poveri ma normali, finii invece nel manicomio per
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Inchieste i più piccoli. Giusto per avere un letto e un piatto di minestra. Ovviamente questi sono pensieri che ho avuto dopo. A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Ricordo che mi punivano e io scappavo per le grondaie sul tetto, mi nascondevo nei tombini, mi rifugiavo nella camera mortuaria in fondo all’ospedale psichiatrico di Grugliasco.
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Di fronte alla paura, non ho mai pensato di provare a fare pena. Ho sempre reagito alla paura con la rabbia, la protesta. Era la mia natura. E, come ho già detto, mi hanno definito un oppositivo. E, per la verità, molto altro. Ero curioso e la notte mi alzavo, uscivo scalzo dalla camerata, mi attirava la luce accesa nella stanza in fondo, dove stavano gli infermieri. Una volta vidi un’infermiera che faceva la festa ad un infermiere, lo dissi alla suora e lei mi punì. Cominciai ad essere legato al letto, o al termosifone, che avevo quattro anni. Così diventai un ribelle. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Ero arrivato da Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa 52 volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: “Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamoli a non farla più”. Oppure bastava che lo avessi guardato storto. E mi faceva schiattare dalla paura, prima, ma cercavo di non darlo a vedere. Cercavo… Una volta partita l’elettricità nel mio corpo, non capivo più niente e svenivo. Saranno stati secondi, ma era come per quei bambini, fra di noi, che avevano le convulsioni. Partivi come un frullatore. Solo che eri tu, una persona. Non una macchina. Ho letto quello che ha detto un altro ricoverato cui avevano fatto l’elettroshock, a proposito dei movimenti del suo corpo: “Li senti come se fossero gli ultimi della tua vita”. Io sono vivo, sono stato male, anche malissimo, più di una volta, ma non so, non lo so ancora cosa si prova quando si sta per morire. Ma sono d’accordo con questa
descrizione. Era… mi sembrava che fosse come morire. Sono andato a leggermi cosa scrisse Coda: “Il medico che si commuove crea la piaga purulenta”. Tutte quelle volte. Mi abituai persino all’elettroshock, nel senso che nemmeno domandavo più perché continuassero a punirmi in quel modo. E quando mi svegliavo, ore dopo, se andava bene mi trovavo nel mio letto sul materasso, se no sulla rete: avevano tolto il materasso perché non si lordasse. In ogni caso io ero legato. Ricordo che prima di svenire me la facevo regolarmente addosso. Me ne accorgevo al risveglio. Sporco com’ero rimanevo così per ore, a volte anche per giorni, una volta per quattro giorni, e mi sporcavo ancora di più. Al centro della rete c’era il cuculo. Ce l’avete presente il film Qualcuno
volò sul nido del cuculo? Noi chiamavamo cuculo il buco che veniva fatto in mezzo alla rete perché non ci sporcassimo. Ma c’erano le volte che non si poteva evitare di sporcarci. Dipendeva da come ti legavano. Se nella fretta ti legavano tutto storto non c’era niente da fare: te la facevi addosso. E restavi così. Passavano gli infermieri, mi dicevano “Poi ti cambio”. Oppure: “Hai fame? Dopo te ne do”. Magari passava una giornata intera. Semplicemente si dimenticavano di me. Avevo cinque, sei, sette anni. Ho vissuto la mia infanzia in quella maniera. Ricordo abusi e adusi di Villa Azzurra. Gli abusi ce li ho stampati nel cervello più di tutto il resto. C’era l’infermiere che si prendeva e si portava dove solo lui sapeva le bambine più sviluppate. Che
Inchieste avevano 13 anni, ma anche 11. La suora caporeparto, quella che andava tanto d’accordo con Coda, lo copriva. Ce ne furono una o due, di quelle bambine, che erano diventate grosse, la suora ci diceva: “Mangiano tanto, troppe caramelle”. Quali caramelle? Non ne vedevamo mai. Poi, quell’una o due bambine non le abbiamo più viste. Ho capito e saputo dopo anni che l’infermiere le aveva messe incinte. Erano abusi, i suoi, che erano diventati adusi. Abitudini nel linguaggio comune. Come i massaggi che un’infermiera bionda faceva a noi più piccoli quando ci faceva il bagnetto. L’infermiera pianista. Li ricordo bene quei 4/5 soggetti fra Coda, la suora caporeparto, due tre infermieri che ci prendevano di mira, a differenza di tutti gli altri. Li ricordo perché, in negativo, hanno inciso di più nel mio cervello e mi hanno fatto crescere ancora più ribelle. Ricordo che sotto la palazzina dove dormivano le suore c’era la sala chirurgica e che ci portavano dei malati che non tornavano. Mi ricordo di bambini e bambine che hanno portato là e non sono tornati da noi. I più grandi di noi dicevano che ci facevano esperimenti in quella sala chirurgica. Faceva paura quando portavano via qualcuno.
Sono passati cinquant’anni e sono convinto che facessero esperimenti su di noi. Esperimenti di farmaci che ci intontivano: io mi dicevo se vedo i merli dalle finestre vuol dire che sto bene e a posto con la testa, se invece il cervello era tutto confuso, dipendeva dai giorni, era per i farmaci che mi davano. E poi c’erano esperimenti ancora più strani come l’elettroshock sui bambini epilettici. Su quelli come me, lo ripeto, avevano solo un obiettivo punitivo: almeno questo mi era chiaro. Nel resto della mia vita mi sono reso conto di tante cose che mi hanno fatto là dentro, cose che mi pesano nella testa e sullo stomaco. E mi hanno avvelenato di rabbia il sangue. Tipo il contenermi per qualsiasi cosa. Neanche i cani alla catena diventano buoni. Io non sono diventato buono. L’unica cosa positiva che aveva la contenzione era evitare che i bambini epilettici, quando avevano le loro crisi, sbattessero la testa contro le sbarre del letto. Ma ho anche capito che i bambini epilettici non dovevano trovarsi là. Come i mongoloidi, o i più gravi, che non si potevano muovere e venivano trattati come cose. Per la verità, eravamo tutti cose. Ma con loro era persino peggio: non riuscivano a pensare bene
come me, a reagire, non potevano ribellarsi. Sono stato nove anni a Villa Azzurra, che a chiamarla così, adesso che ci ripenso, era proprio uno scherzo a noi bambini. Ricordo che non c’erano giocattoli, li ho visti poi nelle vetrine quando sono andato fuori, ma allora ero già grande per la mia età e non ci avevo più testa per i giocattoli. In quel posto l’unico gioco che abbiamo mai fatto era con la Marisa, la maestra che ci faceva fare un po’ di ginnastica: lei portava il pallone e noi maschi ci correvamo dietro. C’era anche un’altra maestra a tempo, che ogni tanto ci portava i dolcetti, ci sembrava chissà cosa. Non ho più rivisto nessuno dei bambini di Villa Azzurra. Se non Oscar. Quando lo rividi era diventato un tossico. Fu lui a dirmi di Flash morto di droga. Come altri di Villa Azzurra. Come lo stesso Oscar più tardi. Sono già morti in tanti. Anche Albertino. Il bambino che divenne famoso perché Coda lo prese particolarmente di mira ma che aveva avuto, nella sfortuna, l’occasione di farsi una vita non così storta con una famiglia che aveva deciso di adottarlo. Gli è però andata peggio che a me, che sono sempre stato solo: è morto che era ancora giovane.
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Attualità
Torna l'ombra di Ali Agca sul caso Orlandi Una telefonata dell’attentatore di Papa Wojtyla alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” riaccende i riflettori sul mistero. E sui mandanti degli spari di piazza San Pietro di Moreno D’Angelo
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a verità sul rapimento di Emanuela Orlandi, un caso che si trascina da ben 33 anni, potrebbe portare a una rilettura politica di uno dei misteri più inquietanti e controversi del Novecento: l’attentato a Papa Wojtyla. Il sequestro delle due quindicenni, la “ragazza con la fascetta” e Mirella Gregori, avvenuto nel 1983, si inserisce nella feroce contrapposizione Est-Ovest legata alla Guerra fredda. Anni in cui era aspro lo scontro tra l’America di Ronald Reagan che, con lo storico incontro del 7 giugno 1982, aveva forI manifesti affissi nei mesi successivi alla scomparsa di Emanuela malizzato l’asse Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983
con Giovanni Paolo II, e chi propugnava in Europa e anche nel Vaticano la ostpolitik, una politica di conciliazione e dialogo con i “rossi”. Sono gli anni dei finanziamenti occulti al sindacato polacco Solidarnosc, che diede l’avvio allo sgretolamento del blocco sovietico con un effetto domino ai tempi impensabile, e delle scorribande dello Ior, guidato da monsignor Marcinkus. Con una telefonata al programma di Rai 3 “Chi l’ha visto?” Ali Agca, l’uomo che attentò a papa Giovanni Paolo II, ha riacceso la polemica sul caso. L’ex Lupo grigio ha parlato di una trattativa legata alla sua scarcerazione e rilanciato le sue accuse contro Cia e Vaticano come soggetti coinvolti nel rapimento di due ragazze quindicenni: Emanuela Orlandi, figlia di un messo pontificio, e Mirella Gregori. Si tratta solo di farneticazioni di un uomo in cerca di visibilità, oppure dietro le parole del turco si nasconde una terribile verità oggetto di costanti azioni di depistaggio e insabbiamento? Da poco il caso Orlandi è stato chiuso da una sentenza della Cassazione che ha fermato le indagini su una serie di esponenti della banda della Magliana, oltre che di Marco Accetti, il fotografo romano che nel 2013 si è autoaccusato del duplice rapimento, per conto di una fazione vaticana a suo dire interessata a contrastare la politica anticomunista di
Attualità Wojtyla. Per Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, la questione resta aperta. «Non ci fermeremo nella nostra richiesta di verità e giustizia». Nel crogiolo di ipotesi e di piste pesa come un macigno un documento preso poco in considerazione dalle tante voci che si sono espresse sul caso. Si tratta di una agenzia Ansa del 24 agosto 1984 in cui il Costa Rica manifesta ufficialmente la sua disponibilità ad accogliere l’attentatore del papa. Il segno tangibile ed inequivocabile che qualcuno si atti-
si verificò sei giorni dopo il rapimento». Insomma un modo per “far credere” ad Agca che la sua liberazione fosse un obiettivo possibile. Questo nell’ambito di una trattativa riservatissima che vedrebbe come suoi principali possibili protagonisti la diplomazia vaticana e i servizi italiani in contatto con realtà del Centroamerica come Panama e Costa Rica. Ma torniamo al rapimento: erano da poco passate le ore 19 del 22 giugno 1983 quando una quindicenne cittadina vaticana, Emanuela Orlandi, uscendo dalla lezione di musica a Sant’Apol-
municazioni il Vaticano installò un’apposita linea telefonica con il codice158. Un numero il cui anagramma creerebbe un collegamento significativo con l’attentato (5-81, maggio 1981, stesso mese e anche giorno delle apparizioni mariane a Fatima). Dalle comunicazioni si evince il collegamento tra il rapimento della cittadina vaticana e la figura di Ali Agca. I sequestratori chiedono un intervento per la sua liberazione prospettando uno scambio con Emanuela. Purtroppo il Vaticano non ha mai concesso le rogatorie necessarie
Papa Giovanni Paolo II incontra nel carcere romano di Rebibbia il suo attentatore Ali Agca, è il 27 dicembre del 1983
vò per l’estradizione del turco, sotto il ricatto dei rapimenti delle due ragazze e attivò delle trattative. Il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci, autore di due libri sul caso Orlandi, afferma: «Quando Agca parla del rapimento per favorire la sua liberazione penso sia in buona fede, ma ho motivo di ritenere che la verità sia un’altra e che, in realtà, si trattò di una falsa promessa. Nessuno poteva pensare alla liberazione di un criminale del genere a due anni dall’attentato. La vera posta in palio era la ritrattazione delle accuse ai bulgari lanciate da Agca: e guarda caso questo
linaire, sparisce dopo aver telefonato a casa per comunicare di aver ricevuto da un uomo una offerta di lavoro, con una retribuzione spropositata, come promotrice di prodotti Avon. La ditta in esame si accertò che non aveva a che fare con la circostanza. Domenica 3 luglio 1983, nel corso dell’Angelus da Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II rivolge un appello, di fatto avallando la tesi del sequestro. Ne segue una serie di comunicazioni telefoniche tra rapitori e Vaticano che vedono protagonista un personaggio definito “l’amerikano”. Per queste co-
a verificare il contenuto di queste telefonate e per l’ascolto dei presunti porporati coinvolti nella vicenda. Nel sequestro ha un ruolo operativo la Banda della Magliana. Nessuna prova sul fatto che Emanuela sia viva e dove e in che mani sia verrà mai fornita dai rapitori. Per quanto riguarda Mirella Gregori, sparita a Roma il 7 maggio 1983, sono state ipotizzate pressioni sul Presidente della Repubblica sempre nell’ottica di liberare o far credere al turco in un intervento per concedergli la grazia. Sul caso si formulano ipotesi di tutti i tipi: dai festini in Vaticano a base di
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Attualità sesso e droga, ai finanziamenti dello Ior (Istituto Opere Religiose) di Marcinkus, al crack del banco Ambrosiano ad attività di riciclaggio di denaro sporco. Si tratta di uno dei periodi, quello a cavallo degli anni settanta e ottanta, tra i più turbolenti e torbidi della storia italiana e internazionale tra P2, scandali, intrighi internazionali. Proprio in questo contesto i rapimenti si inserirebbero in una vera e propria guerra tra due fazioni che si combattono senza esclusione di colpi in Vaticano. La tesi è ben argomentata nel libro “Il Ganglio” scritto da Peronaci. Una delle inchieste più complete sul caso Orlandi, che prende significativamente il nome da quello di una fazione che
intendeva contrastare la politica anticomunista del Papa polacco che di lì a poco condizionò non poco quell’effetto domino che portò al disfacimento del blocco sovietico. Di questa fazione, che fu la mente dei rapimenti, avrebbe fatto parte l’enigmatico Marco Fassoni Accetti. Si tratta del funambolico fotografo che si è autoaccusato di aver operato nel sequestro delle ragazze anche come “avvicinatore” e di aver preso parte a diverse operazioni di screditamento degli avversari. Intorno a questa controversa figura si concentrano oggi le speranze di Pietro Orlandi e dei comitati di solidarietà che, con tante iniziative, hanno consentito che questa vicenda non finisse nel
Pietro Orlandi: "Non ci arrendiamo" di M.D.A. Dopo l’archiviazione in Cassazione più che puntare sulla giustizia internazionale (Corte Europea dei diritti dell’uomo) Pietro Orlandi, il fratello della “ragazza con la fascetta” rapita nel 1983, spera negli sviluppi del processo a Marco Fassoni Accetti. «Mi auguro che dal processo per calunnia e autocalunnia possa emergere qualcosa». Accetti, enigmatico fotografo autoaccusatosi del sequestro Il fratello di Emanuela ha prodotto un dettagliato e discusso memoriale sulla vicenda. Orlandi sottolinea come però il fotografo, incontrato nel 2013, gli abbia confessato che: «Io tutta la verità non la posso raccontare». Orlandi è convinto che ci sia la volontà di mettere una pietra a tutta la vicenda: «ma noi questo macigno lo toglieremo sempre» e punta il dito contro il nuovo procuratore di Roma Pignatone per una archiviazione che vede incredibile dopo la mole di riscontri e persone coinvolte e aggiunge un particolare: «Non è strano che il capo della squadra mobile romana Rizzi e il funzionario Petrocca, quanto mai coinvolti nelle indagini sul rapimento, furono allontanati dopo l’arrivo del nuovo procuratore?». Il fratello di Emanuela si definisce comunque “fortunato”: «Io almeno posso sfogarmi in tv, lottare e ricevere tanta solidarietà rispetto ad altri che vivono nel silenzio drammi simili. Sento che la mia tenacia possa essere di stimolo a tanti che subiscono ingiustizie di cui mi sento portavoce». In conclusione ci esprime la sua convinzione che la sorella, che oggi avrebbe 48 anni, sia ancora viva. Questo anche se in un breve incontro Papa Francesco, appena eletto, disse a lui e i suoi familiari: «E’ andata in cielo». Secondo Pietro in Vaticano e anche fuori tanti sanno la verità e si domanda: «Come costoro non sentano il peso della loro coscienza». Più volte il fratello di Emanuela, cittadino vaticano, ha espresso la sua amarezza per l’atteggiamento che sente intorno nella realtà dove è nato e in cui suo padre, messo vaticano, lavorava e a cui resta molto legato. Un posto dove anche un immaginetta di Emanuela su un tavolo di un ufficio dà molto fastidio.
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dimenticatoio come tanti misteri italiani irrisolti. Infatti il processo ad Accetti potrebbe dare ancora fiato alla richiesta di verità sul caso da poco archiviato nel suo filone principale d’inchiesta dal Procuratore Pignatone. Nella marea di voci che la vicenda ha scatenato ci sono dei punti fermi che legano Agca al rapimento delle quindicenni: come detto, pochi giorni dopo il rapimento il turco ritrattò facendo crollare la pista bulgara. Questo risulta un fattore fondamentale per chi crede nella tesi del ricatto. Ricordiamo che Il lupo grigio Ali Agca, esponente della destra estrema turca, pochi mesi dopo l’attentato indicò i bulgari come mandanti. Una posizione forse frutto della famosa “imbeccata”, vale a dire delle pressioni ricevute in carcere da parte di due emissari dei servizi Usa. Fatto è che le accuse al blocco sovietico fecero molto comodo, in quel clima da guerra fredda, al blocco occidentale, nel quale figurava anche la Santa Sede, che di lì a pochi anni (nel 1989) avrebbe avuto ragione di fronte al tribunale della storia con il crollo del muro di Berlino. Ancora oggi se chiediamo alle persone over 45 chi ritengano possano essere stati i mandanti che hanno armato Ali Agca, molti indicano, in un contesto poco chiaro, la matrice dell’est. A questa pista credette fermamente anche il magistrato Imposimato, ma a questo punto il dubbio emerge più che in passato. Non è che la chiarificazione del movente del doppio rapimento può gettare luce anche sul mistero dell’attentato al papa, rafforzando lo scenario della matrice “occidentale”? Di certo la Turchia, in quegli anni, era sotto il controllo della Cia. E un colloquio che il fratello di Emanuela ebbe con Agca in Turchia nel febbraio 2010 porta nella stessa direzione. «Mi sembrava sincero, mi disse che Emanuela era viva e che il rapimento era avvenuto per conto del Vaticano, riferendo il nome di un cardinale», raccontò Pietro Orlandi, che poi riuscì ad avere un incontro con il cardinale indicato da Agca, ma Giovanni Battista Re smentì ogni suo coinvolgimento. A distanza di tanti anni resta aperto un interrogativo storico fondamentale: se non era bulgara la matrice dell’attentato a Wojtyla chi e perché armò Ali Agca? Nella risposta a questo interrogativo si potrebbero trovare anche le chiavi del mistero della sparizione di due quindicenni avvenuto nel lontano 1983.
Interviste
Il presidente dell’Associazione delle vittime
Aldo Ravaioli: "Affrontare il terrorismo con la verità" di Valentina Stella
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errorismo di oggi, terrorismo di ieri. Chi ha conosciuto sulla propria pelle gli anni di piombo, non può fare a meno di ritornare con la mente a quell’epoca ogni volta che scoppia una bomba di matrice jihadista. Aldo Ravaioli è uno di quelli: sparato alla gambe da un commando delle Brigate Rosse, vittima di un tentato omicidio perché, come lui spiega, odia il termine “gambizzato, considerando quanti morirono dissanguati a seguito di spari alle gambe”. Presidente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, l’Aiviter, fondata a Torino nel 1985, in base alla sua drammatica vicenda può aiutare a comprendere come la società stia reagendo a questa ombra oscura del terrorismo del 2000.
il presidente dell’Unione Industriale di Genova, il giorno successivo colpirono me, residente della Piccola Industria dell’Unione Industriale di Torino, ed in successione il vicepresidente di Assolombarda. Il tentato omicidio avvenne al mattino, giorno del mio compleanno, mentre
uscivo di casa e sotto gli occhi di mia figlia, con nove colpi di pistola che costrinsero gli ortopedici del C.T.O. ad un lunghissimo e miracoloso intervento e costarono una lunghissima riabilitazione, ma fortunatamente non colpirono arterie femorali e sono qui a poterlo raccontare.
Al giorno d’oggi la parola “terrorismo” è un po’ sulla bocca di tutti. Lei ha vissuto questa esperienza in quanto vittima. Potrebbe raccontarci la sua storia? La mia storia è quella di molte altre vittime del terrorismo degli “anni di piombo”: colpivano un vestito, totalmente indifferenti all’uomo che stava dentro, al massimo privilegiavano coloro che lavoravano per comporre i conflitti all’interno della società. Così il 5 Luglio 1978 colpirono
Le pagine de L’Unità del 7 luglio 1978 quando le Brigate Rosse spararono ad Aldo Ravaioli
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Interviste
Aldo Ravaioli, terzo da sinistra, durante una commemorazione nella Sala delle Colonne del Comune di Torino
Quando si vivono esperienze così forti o ci si lascia intimorire o si decide di combattere. Lei ha deciso di optare per la seconda. Quale sentimento l’ha indotta a continuare ad andare avanti e non mollare? Nel ciclostile che rivendicava l’attentato ero accusato di svolgere innumerevoli attività nell’interesse di aziende, imprenditori, mondo del lavoro ed io, come molti in simili condizioni, ho vissuto l’atto violento come una intimidazione, un “forte” invito ad abbandonare e rinnegare la mia attività nella società civile. La decisione conseguente è stata legata alla volontà di superare paura e ogni forma di psicosi e così ho scelto di raddoppiare quanto facevo, aggiungendo all’attività confindustriale quella politica nel consiglio comunale di Torino, per dieci anni: nel 1990 sono tornato alla mia vita originale di industriale, come un uomo libero. In un periodo di paura e di insicurezza verso “lo straniero”, come quello che sta attraversando il nostro Paese, visti tutti gli attacchi e le pressioni mediatiche che ci raggiungono, quanto pensa sia importante il lavoro dell’Aiviter?
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Aiviter nasce il 30 Marzo 1985, con la presidenza di Maurizio Puddu, con gli obbiettivi di assistere le vittime del terrorismo ed i loro famigliari nei difficili momenti che seguono l’attentato, ottenere un riconoscimento non solo formale, ma anche economico e assistenziale a chi aveva sacrificato la vita o parte della sua idoneità fisica in difesa della democrazia e libertà del nostro Paese e svolgere una attività diffusa ed educativa in ogni sede e con particolare attenzione alle scuole “per non dimenticare”: la commemorazione è importante, ma ciò che veramente conta è la “memoria”, fatta di vittime, tentati omicidi, processi e sentenze, ma soprattutto di una lunga e dolorosa lotta, fatta di gravi momenti di incertezza, di dubbi su chi erano questi assassini, di vaste aree grigie, se non di complicità certo di rifiuto di schierarsi dalla parte dello Stato con chiarezza e senza eccezioni. Alla fine gli operai, dopo l’uccisione del sindacalista Guido Rossa a Genova, respinsero le deliranti idee di tutte le sigle terroristiche sul terreno e le assemblee, a difesa dello Stato, contarono decine di migliaia di partecipanti e terroristi e complici occulti non trovarono più “acqua in cui nuotare” e vigliaccheria e pentitismo emersero come le caratteristiche prevalenti, chiudendo un’era terribile.
Quindi Aiviter non è solo commemorazione ma anche attività culturale per mantenere viva la memoria... Sì, questa “memoria” Aiviter vuole mantenerla viva, contro ogni tentativo di dissimulazione, di “voltare pagina”. Nelle conferenze cui partecipano i carnefici le vittime non hanno nulla da scambiare se non la sfortuna di aver incontrato degli assassini. Questa “memoria” occorre difenderla, perché un popolo senza memoria è un popolo senza futuro e la ricerca di “verità e giustizia” deve essere la base quotidiana di ogni democrazia. Il terrorismo e la paura del terrorismo, secondo lei, in quale modo possono essere affrontati? Raccontando la verità, con grande severità ed attenzione a tutti i segnali di radicalizzazione, ma senza rinunciare ai principi di solidarietà. Non bisogna isolare chi non ha colpe, ma solo gli attori diretti e tutti coloro che a questi danno spazio ed ospitalità, reale ed intellettuale. Con le armi della democrazia abbiamo sconfitto il terrorismo degli anni 70/80 e con le stesse armi dobbiamo sconfiggere quello di oggi.
Interviste
Parla il patron della Turin Marat hon
Di corsa... alla scoperta di Torino Luigi Chiabrera: “Gli eventi sportivi preziosi alleati del turismo e del benessere” di Giulia Zanotti
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a Torino turistica passa anche per un paio di scarpe da corsa. Infatti, oltre ai suoi luoghi di interesse storico e ai suoi musei ad attirare visitatori dal resto d’Italia e da altri Paesi sono anche le gare di atletica che si svolgono sotto la Mole. Lo sa bene Luigi Chiabrera, patron della Turin Marathon, che tornerà puntuale ad ottobre con i suoi 42.195 chilometri. «I grandi eventi sono di grande richiamo per il turismo, garantendo presenze in alberghi, musei, bar, ristoranti per più giorni creando nel contempo una notevole visibilità della città. Il mondo dell’atletica permette anche questo: persone, spesso accompagnate da amici e familiari, che vengono da altre città o dall’estero». Come è nata l’idea della Turin Marathon? E’ nata in realtà un po’ per caso, quando ero assessore ad Avigliana. Volevamo promuovere i territori e abbiamo pensato di creare una maratona della Valsusa. Poi da lì siamo arrivati a Torino. Ma con uno scopo preciso: attrarre investimenti e fare conoscere turisticamente la città visto che proprio la maratona è una delle gare che fa muovere molta gente e produce turismo. E’ soddisfatto di quello che ha realizzato in questi anni? Possiamo dire di essere il più grande gruppo privato impegnato nella promozione del turismo in città. Così
come la maratona di Torino è diventata l’ottava al mondo in termini tecnici. E organizziamo anche la più grande corsa di bambini in Europa. Però... Però ci sono problemi che non vengono risolti, limitando così anche gli effetti che un evento come la Turin Marathon può avere per la città e le persone.
una pratica sportiva importante per la salute, e uno degli strumenti più efficaci per ridurre anche i costi della sanità. Proprio quello che cercate di insegnare alla Cascina Marchesa, dove la Turin Marathon ha sede Esatto, noi abbiamo recuperato e ristrutturato questa cascina che è anche un patrimonio della città e qui, nel verde del parco della Pellerina, organizziamo lezioni di corsa per tutti, dai bambini agli anziani. Una vera e propria strategia del benessere, che sostengo da tanti anni nonostante per molto tempo non sia stata compresa.
Luigi Chiabrera, fondatore della Turin Marathon
Ad esempio? Beh, un primo problema è di sicuro che manca una vera cultura sportiva in Italia, per quel che riguarda la corsa. Basti pensare a quante gare ci sono in città: ogni tanto qualche viale viene bloccato e c’è gente che corre, senza sapere bene perchè. Ormai la corsa sta diventando una questione di moda, non più una strategia per il benessere delle persone. Ci sono tante scimmiottature e tante invenzioni di gare fatte solo per le pubblicità e per gli investimenti, senza nessuna etica. Invece è importante far capire che correre non è solo un’attività per passare una domenica diversa, ma è
Lei parlava di due problemi in Italia per quanto riguarda il mondo della corsa e delle gare di atletica
Si, il primo come detto è che ormai è diventata una moda con tanto di lustrini e sponsor e poca serietà. L’altro è il fatto che in questi anni le stesse istituzioni non hanno investito come si deve in queste attività né hanno “regolamentato”. Non hanno capito che gare come la maratona è per una città un’occasione importante per mostrare se stessa e il suo territorio. Ma il tutto va fatto con attenzione e precisione. Se si permettono troppi eventi si rischia solo un depauperamento degli stessi, un’eccessiva abbondanza che non produce ricchezze e che non fa essere presi sul serio. Proprio il contrario di dove si dovrebbe andare.
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Ritratti
Giuseppe Montesano
UN COMMISSARIO A TORINO Il Maigret italiano amico dei cronisti, nel 1968 era alla guida della criminalpol torinese. Tra i casi che lo resero celebre quello di Martine Beauregard di Andrea Doi
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uando si cerca di raccontare chi era il commissario Giuseppe Montesano si rischia di cadere nella retorica dello “sbirro alla vecchia maniera” di cui spesso si abusa soprattutto quando si paragonano i metodi investigativi di decenni fa a quelli più tecnologici di oggi. Resta il fatto che dietro quegli occhiali scuri e quel forte accento meridionale, che caratterizzavano il commissario, c’era veramente un poliziotto dal grande fiuto, ma allo stesso tempo uno che credeva molto nei metodi scientifici. Nato in Puglia, Montesano ha sempre amato studiare. A 20 anni si laurea in giurisprudenza. Poi la decisione di diventare poliziotto. Dopo la scuola di polizia scientifica a Roma, visto che conosceva tre lingue, francese, inglese e spagnolo, viene inviato in diversi paesi europei per occuparsi di traffico di droga. Nel ‘54 è vice commissario a Bologna. Un breve periodo a Monza e il 9 febbraio 1968
Il commissario Giuseppe Montesano con dei cronisti e alcuni suoi uomini nell’ottobre del 1972. Dal 1968 dirigeva la Squadra mobile della Questura di corso Vinzaglio 10
arriva a Torino. Qui riceve l’incarico di dirigere la squadra mobile della Questura di corso Vinzaglio 10. Il suo primo caso riguarda una banda di falsari che fabbricavano banconote da 50 mila lire. Per alcuni criminali mostra rispetto, come lui stesso ammetterà anni dopo in un’intervista ad Enzo Biagi: «perché hanno una religiosità nel loro lavoro». Li trova poetici e arriva al punto di paragonarli, per la loro dedizione, con chi lavorava nelle fabbriche torinesi: «Sono come operai specializzati». Nel ‘72 arresta un “don”. Domenico Tripodo, boss della mafia calabrese. Doveva stare in soggiorno obbligato a Latina e invece Montesano lo scova in via Giulio: «Don Nico, volete una sigaretta? Poi nel mio ufficio ci beviamo una bella tazza di caffè e vi faccio sentire un po’ di musica», dice il commissario al mafioso mentre lo ammanetta. Montesano oltre che con i
Ritratti
Il Magret italiano insieme al dirigente di Ps Cuccorese e al maresciallo Mare
criminali ci sa fare con i media. Con i giornalisti i rapporti sono ottimi. Due di loro, Piero Novelli della Gazzetta del Popolo e Riccardo Marcato del Corriere della Sera, scrivono il libro “Un Commissario a Torino”, da cui verrà tratto il film “Un uomo, una città”, una pellicola del 1974 di Romolo Guerrieri. Il protagonista, Enrico Maria Salerno, attinse a piene mani dal carattere e dai comportamenti di Montesano. Qualcuno lo riconosce in Marcello Mastroianni e nel suo commissario Santamaria, anche se Carlo Fruttero e Franco Lucentini, confesseranno che per “La donna della domenica”, da cui nacque il film di Comencini, non s’ispirarono all’amico. Piace il commissario, al punto che viene paragonato a Maigret e nel ‘70 al Circolo della Stampa viene organizzato un incontro tra Montesano e l’indimenticabile Gino Cervi, che interpreta il protagonista di Georges Simenon. «Caro commissario è lei il vero Maigret, non io», gli dice Cervi durante la serata. La Rai chiede addirittura al capo della mobile di interpretare se stesso in uno sceneggiato. Caso dopo caso Giuseppe Montesano raccoglie successi: arresta un pensionato che ha prima abusato e poi ucciso un bambino di sette anni, risolve il giallo dell’assassinio di Franca Anselmino, una prostituta di 25 anni uccisa dal protettore. Montesano risale a lui grazie al cagnolino della donna. C’è poi il caso Beauregard, che ha te-
nuto col fiato sospeso i torinesi e che è rimasto irrisolto. Martine Beauregard era una ragazza, trovata morta la mattina del 18 giugno 1969 poco lontano dall’ippodromo di Vinovo, sulla statale che da Nichelino porta a Stupinigi. Il corpo della giovane era sul ciglio della strada, nudo. Al polso un orologio, al dito un anello. Vicino al seno sinistro alcuni graffi e due linee parallele profonde. Martine era nata a Parigi, ma viveva a Torino con il padre, un artista, la madre, casalinga, e tre sorelle. Dalle indagini si scopre che Martine era una prostituta e che l’ambiente che frequentava, dove veniva chiamata “la parigina”, è quello della Torino bene. I suoi
“Strada facendo..Ricordando il Commissario Montesano” Daniela Piazza Editore
clienti sono ricchi industriali e “figli di papà”. L’ultima volta che viene vista in vita era con uno di loro a cena, Ugo Goano. Il ragazzo finisce in cella con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e omicidio, ma grazie ad alibi forniti da un proprietario di night club viene liberato. Il caso Beauregard fa conoscere l’altra Torino, molto diversa da quella operaia. È La Torino dei privè, delle belle macchine, del sesso a pagamento, non quello di via Barbaroux, ma quello di “accompagnatrici” e trans della Crocetta. Sei mesi dopo l’omicidio, il 5 dicembre, Carlo Campagna, 27 anni, figlio di un industriale di macchine calcolatrici, chiama il Montesano e confessa di aver ammazzato lui la ragazza. Dice di non poter più vivere con il rimorso. Montesano tranquillizza Carlo e poi va a prenderlo. Il reo confesso viene interrogato ma emergono le prime contraddizioni. Montesano sospetta che il ragazzo abbia confessato per coprire qualcuno. Pochi giorni dopo l’arresto del figlio, il 14 dicembre il padre, Guido Campagna, si toglie la vita sparandosi alla tempia. Carlo verrà scarcerato: il suo avvocato, l’allora ventottenne Antonio Foti, riesce ad ottenere una perizia psichiatrica dove il suo assistito risulta essere un “mitomane affetto da alcoolismo cronico”. “Charlie Champagne” come i cronisti soprannominarono Carlo Campagna, verrà prosciolto per insufficienza di prove da tutte le accuse. Montesano diventerà questore il 10 gennaio 1980. Tra i suoi estimatori c’è Francesco Cossiga, allora presidente del Consiglio, che lo vuole alla guida della Questura di Sassari. Poi sempre in Sardegna ricoprirà lo stesso incarico anche a Cagliari per poi tornare in continente come questore di Venezia. Nell’84 è a capo della Questura di Palermo. Dopo un anno nel capoluogo siciliano la sua carriera rischiò seriamente di compromettersi. Nel corso di un interrogatorio un indagato muore. Montesano viene accusato di aver coperto i suoi uomini, i quali avrebbero torturato, fino ad ucciderlo, Salvatore Marino, un calciatore, sospettato di essere un uomo di Cosa Nostra. Montesano viene destinato a Brescia e infine Bologna. A Torino non tornò più. Morirà il 20 maggio 1990, ma quegli occhiali scuri, quell’impermeabile e l’eterna sigaretta tra le dita non sono stati mai dimenticati dai torinesi.
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Sport
Come il più bel gioco del mondo è cambiato
La felicità smarrita del calci di Darwin Pastorin
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mo da sempre il calcio. Come spettacolo, ovvio: ma anche come una sartriana “metafora della vita” o un pasoliniano “linguaggio”. Giocare a pallone, da bambino, nel quartiere Cambuci di San Paolo di Brasile, con i miei coetanei musulmani, ebrei, mulatti e giapponesi, mi ha insegnato (a me, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti) che il razzismo è, per davvero, la cosa più stupida del mondo. I miei genitori decisero di tornare in Italia nel ‘61 nel pieno di quel tempo effimero chiamato “Boom Economico”. Giocavo, a Torino, in piazza Montanari, nei prati vicino a casa, perché c’erano ancora tanti prati a Santa Rita, e poi ho frequentato il Nagc (Nucleo Addestramento Giovani Calciatori) nel Pertusa e nel Bacigalupo, per poi far parte della Rappresentativa del mio Liceo, il Quinto Scientifico di via Juvarra, oggi Volta. Giocavo ala destra o centravanti, segnavo molti gol e avevo come riferimento il mio idolo: Pietro Anastasi, attaccante della Juventus, il bomber dalla rovesciata proletaria. Feci anche un provino, a dodici anni, per la società bianconera, davanti ai maestri Pedrale e Grosso, realizzai una rete con un ginocchio, ma
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alla fine presero il figlio di Cinesinho, numero 10 brasileiro della Vecchia Signora. Racconto il football dai tempi liceali, sono stato praticante al “Guerin Sportivo”, inviato speciale e vicedirettore di “Tuttosport”, direttore di Tele+, Stream, ai Nuovi Programmi di Sky Sport, a La7 Sport e a Quartarete Tv. Ho scritto diversi libri mettendo insieme calcio, memoria e letteratura. Perché vi racconto tutto questo? Perché mi piacerebbe vedere il pallone recuperare la sua epifania, la sua innocenza, il suo romanticismo, la sua folgorante bellezza. Mi piacerebbe rivedere gli stadi pieni di famiglie. E, soprattutto, assistere a disfide di ragazzini senza l’odio e il rancore dei genitori, senza quei padri e quelle madri convinti di avere in casa un piccolo Lionel Messi. E anche i ragazzini devono finirla di imitare il peggio dei loro beniamini. Riportiamo l’allegria sui prati verdi, riportiamo la voglia di correre e divertirsi. Giovanni Lodetti, che fu il compagno ideale di Gianni Rivera ( il breriano “abatino”) negli Anni 60 e 70 del Milan campione, mi disse, un giorno, prima di una diretta televisiva a Sky: “Sai, Darwin, ho intenzione di
mettere in piedi una scuola calcio. Con tre campetti e un cinema”, “Un cinema? Perché Giovanni?”, “Semplice: per mandarci i genitori quando i loro figli giocano o si allenano!”. Sante, santissime parole. Sì, salviamo il nostro amato football. E portiamo nelle scuole la bellissima letteratura sul calcio: da Arpino a Saba, da Soriano a Galeano, da Sereni a Giudici, da Montalbán a Marías. Günter Grass, premio Nobel per la Letteratura nel 1999 e autore del capolavoro “Il tamburo di latta”, fece una proposta, per calmare gli animi dei tifosi durante le partite, soprattutto quelle,più accese: “Nell’intervallo, leggiamo le più belle poesie sul pallone!”. Una proposta che non ha avuto seguito, ma perché non farlo qui da noi, Juve Stadium e Stadio Grande Torino? Un’utopia, certo: ma (pure) una sfida che è possibile vincere. Scrisse Eduardo Galeano: “Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: ‘Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?’. ‘Non glielo spiegherei, rispose, gli darei un pallone per farlo giocare’”. Non serve aggiunger altro.
A sinistra, Darwin Pastorin con Pietro Anastasi. Nella foto centrale Pastorin segna un gol nel 1974. A destra: con Diego Armando Maradaona nel 1984
Costume e società
Una passione tramandata da padre in figlio
Cavallo Pazzo: jeans e aggregazione giovanile Un negozio icona per la generazione degli anni Ottanta di Giulia Zanotti
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ell’epoca delle grandi catene a basso costo non tutta la moda è fast fashion. Lo sa bene “Cavallo Pazzo”, storico negozio di abbigliamento vintage e sartoria che vanta una lunga storia, tanto da rappresentare nei ricordi dei torinesi non solo un marchio di vestiti ma un vero e proprio ritrovo di giovani, dove sono nati e si sono diffusi stili di vita e tendenze. Era infatti il 1981 quando in via Rattazzi, a due passi da Porta Nuova, apriva un negozio che vendeva jeans e abbigliamento giovanile offrendo anche riparazioni sartoriali. Allora si chiamava Ulisse, ma questo nome durerà poco, e già dodici mesi dopo l’insegna diventa quella di “Cavallo Pazzo”. Trentacinque anni dopo l’insegna c’è ancora, ma in via XX Settembre 28/A, dove nel 2014 Igor Tommasi ha riaperto l’attività di famiglia, sulle orme del padre, ma con uno sguardo ben proiettato al futuro. «Nel negozio di via Rattazzi ci sono cresciuto. – ci racconta – Fin da quando ero bambino era un po’ come se fosse
casa mia. E stando lì per tanti anni ho imparato a fare questo lavoro e ereditato la passione da mio padre. Per questo ho deciso di riaprire, per portare avanti
Pazzo” alla generazione dei quarantenni perchè i ricordi vadano a quei pomeriggi passati davanti al negozio, sui marciapiedi, quando il comprare un
Il logo storico di “Cavallo Pazzo”, quando era in via Rattazzi
un’attività che è sempre stata di famiglia e un nome, quello di “Cavallo Pazzo” che per me ha sempre avuto un forte valore affettivo».
nuovo paio di blue jeans era solo una scusa per ritrovarsi, parlare di sé, condividere amicizie, amori e gusti musicali e nell’abbigliamento.
Certo, le cose sono cambiate da quegli anni Ottanta, nella moda, ma soprattutto negli stili di vita dei giovani. Infondo, basta nominarlo “Cavallo
«Allora i giovani letteralmente si accampavano davanti al negozio e passavano lì molte ore – spiega Tommasi. - Da sempre è stato un punto di aggregazione e
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Costume e società
Una lotta contro la massificazione confronto dei giovani provenienti dalla periferia come dalla collina e anche dalla Val d’Aosta e dalla Liguria». «Giovani che apprezzavano anche l’abbigliamento che vendevamo perchè era un modo di mostrare la propria personalità lontana dal mainstream. Negli ‘80 l’universo era quello della musica afro, ma anche proveniente dall’esperienza di Woodstock, di astrazione fondamentalmente Hippy. E allo stesso modo i nostri clienti chiedevano jeans vintage provenienti dagli stessi States, a zampa, a sigaretta da rielaborare insieme per poterli far sentire creatori del proprio stile». Principi che rimangono alla base dell’e-
sperienza di “Cavallo Pazzo” che ancora oggi offre capi personalizzati, seppure in una realtà che è molto cambiata. «Oggi non ci sono più i giovani che si danno appuntamento davanti a una vetrina di un negozio in cui si identificano. La comunicazione passa tutta dai social, magari a casa ciascuno sul proprio divano. Non c’è più quell’aggregazione che c’era una volta, se non virtualmente». Quello che invece resta immutato, per Igor Tommasi, è lo spirito alla base del lavoro di “Cavallo Pazzo”: un’esperienza artigianale nel panorama della moda, fatta per offrire capi unici e per-
Nella foto in alto i giovani che si radunavano davanti a “Cavallo Pazzo” negli anni Ottanta chiacchierando di musica e amicizia. A destra il negozio come è oggi, dopo la riapertura di Igor Tommasi nel 2014 e il nuovo logo celebrativo dei 35 anni di attività
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sonalizzati. «Basta pensare che siamo una parallela di via Roma: lì ci sono i supermercati dell’abbigliamento, tutti omologati e mordi e fuggi. Il mio lavoro è una lotta contro la massificazione, offrendo un acquisto che ha un valore anche culturale, da parte di chi conosce il genere e lo apprezza». Già, perchè se non ci sono più giovani che si radunano su un marciapiede per condividere le loro istanze, ci sono tanti che si ricordano di quegli anni e che entrano da “Cavallo Pazzo” con lo sguardo nostalgico di chi ricorda un luogo che ha fatto la storia del costume di Torino.
Gli angoli della città
Il passaggio silenzioso di Mozart nella Torino sabauda di Daniel Monasteri
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no dei più grandi musicisti e no per lungo tempo inserito l’opera tra re quelle inviate dal padre Leopold alla compositori di tutti i tempi è le sue composizioni giovanili. moglie e la presentazione del conte Firpassato per la capitale del regno Mozart viene apprezzato molto nell’am- mian. Il carteggio è stato ritrovato solo sabaudo. Eppure pochissimi si ricorda- biente nobiliare ed ecclesiastico, ma ciò nel 1996, ed è attualmente custodito no di questo fatto e nelle biografie a lui non gli basta per ottenere l’incarico nell’Archivio Nazionale di Torino. dedicate è raro trovare descrizioni ap- nel Teatro Regio. Antonio Greppi, in Uno dei maggiori studiosi delle carprofondite del soggiorno torinese. rappresentanza del re, gli riferisce che te è Fabio Zeggio, hotel manager del Una fredda giornata dell’inverno 1771, la stagione è stata già programmata e Dogana Vecchia, grande appassionauna carrozza proveniente da Milano at- lo invita a presentarsi l’anno seguen- to di Mozart e promotore di diverse traversa la Porta d’Italia, l’attuale Por- te; Mozart decide così di festeggiare il iniziative per ricordare il soggiorno ta Palazzo, e si dirige all’Osteria della compleanno nella capitale sabauda, per torinese del grande musicista: sua, ad Dogana Nova. Dalla carrozesempio, l’idea di ricreare la za scendono due austriaci: stanza dove soggiornarono i Johann Georg Leopold Modue illustri austriaci con un arzart e suo figlio, Wolfgang redamento dell’epoca, la suite Amadeus. Il giovanissimo Mozart appunto, e di nominatalento ha riscosso grande re “Amadeus” la sontuosa sala successo a Milano con il Misettecentesca dove viene servita tridate re di Ponto, e ora, nel la colazione. Un’altra iniziativa suo primo viaggio italiano ha riguardato la creazione di iniziato nel 1769, ambisce ad un fumetto, Mozart a Torino, ottenere la commissione di che in quaranta pagine racconun’opera nel prestigioso Teata gli episodi più importanti e tro Regio. ricostruisce attraverso tavole a Il 16 gennaio assiste all’opera colori la Torino settecentesca Annibale in Torino di Gioche i Mozart videro. Uno spacvanni Paisiello, un grande cato della capitale del Regno esponente del Classicismo sabaudo del tempo è presente italiano, che ha conosciuto La targa posta dal Comune di Torino per ricordare Mozart nel anche nel libro Amadè scritto 250esimo anniversario della sua nascita l’anno precedente durante un da Laura Mancinelli, docente di soggiorno a Napoli, e lo stesso compo- poi ripartire il 31 gennaio per Milano. Filologia germanica all’Università di sitore lo introduce nei salotti dell’alta A nulla vale la lettera di raccomanda- Torino, nel quale si mescolano elementi società torinese. Il giovane Mozart ha zione firmata dal conte Firmian, pleni- storici del soggiorno torinese di Mozart così l’occasione di mostrare il suo in- ponteziario degli Asburgo a Milano, nel a episodi verosimili nati dalla fantasia finito talento alle più importanti fami- quale veniva elogiato il sorprendente dell’autrice. glie della città e ai musicisti Pugnani talento del giovane musicista austriaco. Il breve passaggio di Mozart a Torino e Gasperini. Proprio a quest’ultimo è Il soggiorno di Mozart a Torino non non è ricordato solo da due targhe comcollegato un curioso aneddoto: nei suoi ha trovato spazio nelle cronache locali, memorative, poste al Dogana Vecchia giorni torinesi Mozart ricopia per stu- fatto sorprendente se si pensa che Ama- nel 2006 in occasione dell’anniversario dio alcuni spartiti, e tra questi quello deus era già molto conosciuto nelle cor- del suo duecentocinquantesimo comdel Adoramus Te Christe di Gasperini. ti d’Europa nonostante la giovane età. pleanno, ma anche da studiosi o semPer motivi sconosciuti, forse per gioco, Gli storici, tuttavia, hanno ricostruito plici amanti della musica torinesi. Che pone la sua firma su una copia, con il ri- la vicenda basandosi sugli appunti di forse avrebbero desiderato vantare un’osultato che gli storici della musica han- Mozart e su alcune lettere, in particola- pera di Mozart dal sapore sabaudo.
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Legacoop
L’esempio di Enea Mazzoli
La storia delle imprese cooperative raccontata in un libro E’
stato presentato a Torino, lo scorso 5 maggio, presso Fiorfood il libro di Vera Zamagni dal titolo: “Come si è affermata la grande impresa cooperativa in Italia. Il ruolo Strategico di Enea Mazzoli”.
L’evento organizzato dalla Lega delle Cooperative del Piemonte con la collaborazione di Nova Coop e Unipol ha visto la presenza di importanti relatori, protagonisti dell’imprenditorialità cooperativa. Il libro infatti è la biografia di uno dei massimi dirigenti italiani del movimento Cooperativo degli ultimi cinquant’anni, dapprima dirigente dell’AICC (Alleanza Italiana Cooperative di Consumo) e poi Presidente di Unipol. La presentazione è stata un importante momento di discussione, alla scoperta del segreto di questa fioritura cooperativa, che risiede in un modello d’impresa
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sostenibile, perché tiene insieme efficienza di mercato e ideali di solidarietà. Una storia importante che per Enea Mazzoli ha inizio a Torino nei primi anni sessanta come Direttore generale dell’Alleanza Cooperativa Torinese (ACT), in un territorio ricco di poten-
L’idea di svolgere l’evento a Torino presso Fiorfood, il primo Concept Store di Coop, ha permesso di rappresentare il connubio, evidenziato nel libro di Vera Zamagni, tra radici storiche e innovazione. Sono intervenuti Giancarlo Gonella - Presidente Legacoop Piemonte che ha introdotto e moderato il dibattito, Piero Fassino - Sindaco di Torino, Vera Zamagni - autrice del libro e docente di Storia Economica presso l’Università di Bologna, Enea Mazzoli - Presidente Onorario Gruppo Unipol, Ernesto Dalle Rive - Presidente Nova Coop, Pierluigi Stefanini - Presidente Gruppo Unipol.
zialità, una città in grado di ospitare un’idea di sviluppo imprenditoriale ambiziosa tenendo alti i valori insiti nel mondo cooperativo. Un grande esempio e uno stimolo per tutte le imprese cooperative che quotidianamente affrontano le difficoltà e le sfide del mercato. Come afferma Enea Mazzoli: “Il movimento Cooperativo ha, in sé, la forza e la voglia di cambiare: ai valori solidaristici, che permangono, ha saputo aggiungere i propri valori autogestionali di nuovo tipo, che rifiutano l’appiattimento egualitaristico e proclamano meritocrazia commisurata all’efficienza, anche sociale”.
Enea Mazzoli, presidente onorario del Gruppo Unipol. A fianco un’immagine dell’evento al Fiorfood
Relazioni industriali
Politiche di sviluppo e strumenti finanziari Fisco lavoro e amministrazione Gestione risorse umane
Consulenza gestionale Formazione
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per le imprese cooperative Via Livorno, 49 – 10144 Torino
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Musica
Una vita mascherata da canzoni
I "piccoli cambiamenti" di Mimmo Locasciulli di Emanuele Rebuffini
“H
o svolazzato per tanti anni sulle tavole, sui pentagrammi, sulle strade e su ogni tipo di onda sonora. Questo è il disco di tutti gli anni sghembi, di tutte le visioni oblique, di tutte le nitidezze distorte che hanno condotto i miei anni e avvolto le mie note. Ognuno ha la sua musica, ognuno la declina come sa”: si intitola “Piccoli cambiamenti” il doppio album di Mimmo Locasciulli, uno dei più raffinati cantautori italiani. Un viaggio quarantennale che ripropone alcuni dei suoi brani più significativi – tra questi Il suono delle campane, Cala la luna, Piccola luce, Stella di vetro, Aria di famiglia, Siamo noi, Intorno ai trent’anni, e Confusi in un playback interpretata per l’occasione insieme a Luciano Ligabue – con la partecipazione di molti artisti con i quali nel corso degli anni ha condiviso la propria musica, come Francesco De Gregori, Enrico Ruggeri, Alex Britti, Andrea Mirò, Alessandro Haber, Frankie Hi-Nrg MC, Gigliola Cinguetti, Stefano Delacroix. “Questo disco non è una celebrazione, ma una festa tra amici, allegra e gioiosa. Festeggiamo i 40 anni dall’uscita del mio primo disco, quasi clandestino, per l’etichetta Folkstudio. Era il 1975 e ne sono molto orgoglioso, perché è stata la miccia
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che ha innescato tutto. Sono seguiti altri 18 dischi, il che dimostra che per 40 anni ho pensato alla musica in maniera profonda”. “Piccoli cambiamenti” allude al fatto che riproponi le tue canzoni, rilette ma non rivoluzionate? L’idea è nata da una richiesta di un gruppo di fans che mi sollecitavano un disco a stesura limitata dedicato a loro. Così sono andato a rovistare nel mio archivio, a riascoltare vecchie registrazioni, tracce alternative, provini, pre-produzioni di dischi pubblicati. Ho raccolto, scomposto, ricomposto. Un cantautore deve rappresentare e scrivere il tempo che vive, perché i fatti che osservi, che ti trafiggono, destano delle sensazioni e tu le rivesti in forma di canzone. Piccoli
cambiamenti raccoglie 40 anni di risposte emotive a quanto ho vissuto. Mentre nella morale e nella cultura, come nella tecnologia e nella comunicazione, i cambiamenti sono stati epocali e veloci, le mie canzoni sono cambiate poco, mi sono limitato ad una riattualizzazione dei suoni, un restyling nel rispetto delle stesure originali. La musica classica non cambia mai, invece la musica leggera segue delle mode e certe sonorità degli anni ‘80 oggi appaiono obsolete. “Piccoli cambiamenti” è anche il titolo dell’unico brano inedito dell’album. Lì scrivi: “ti presto la mia vita mascherata da canzone”: una frase che potrebbe essere il tuo manifesto… Ho sempre detto che scrivo per me,
Mimmo Locasciulli durante un’esibizione
Musica senza pensare alla possibile accoglienza da parte del pubblico. Mi sono sempre reputato un ospite esterno nel mondo della musica, un dilettante professionista. Scrivo per una mia esigenza interiore, con un vocabolario e immagini molto personali, il che può essere anche un limite da un punto di vista commerciale. La mia vita è realmente mascherata dentro le canzoni, e questo è il mio modo di fare autocoscienza, di analizzarmi e comunicare con me stesso. C’è un vecchio dibattito sulla questione della proprietà intellettuale: per alcuni l’opera appartiene a chi la fruisce, io sono sempre stato convinto che appartenga a chi la compone. Il fruitore, chiaramente, se ne appropria poi in una maniera diversa rispetto all’autore. Il fatto che non mi sia dovuto sostentare con la musica, perché ho continuato a lavorare in ospedale, mi ha permesso di avere una certa libertà, di non essere condizionato dalla politica discografica, e così sono passato dalla canzone d’autore a quella elettronica alle collaborazioni con i jazzisti ai territori nuovi in cui mi ha condotto un grande contrabbassista come Greg Cohen. Una libertà forse eccessiva, ma non ho mai riscritto la stessa canzone. Hai mosso i tuoi primi passi al Folkstudio di Roma, ma un altro luogo del cuore è il Folkclub di Torino, dove a gennaio hai presentato in anteprima il tuo disco… Il Folkstudio è stato la mia mamma, lì ho mosso i primi passi nel 1971, ho conosciuto De Gregori, ho pubblicato il mio primo disco. Il Folkclub, invece, è come una nutrice, una seconda mamma. Riconosco in questi due luoghi tante similitudini, nello spirito, nella filosofia e nella politica. C’è umanità, rispetto della musica, poco occhio al business e suonarci è un’esperienza gioiosa. “Confusi in un playback” è un brano del 1985, scritto e cantato con Enrico Ruggeri. Racconta di chi ha preso il campo e chi è rimasto di lato, confuso in un playback. Come giudichi quelle fabbriche di cantanti che sono i talent? Non sono molto generoso verso i talent, forse sbaglio, ma quando nel ’64 da perfetta sconosciuta Gigliola Cinguetti vinceva Sanremo c’era solo Castrocaro a fare selezione. Tra 1000 aspiranti al successo, 50 ce la facevano, oggi
il rapporto è diventato un milione per 5 posti. I discografici hanno scelto di conquistare gli spazi televisivi con ogni genere di talent, e il televoto favorisce la partecipazione. La penso come la critica teatrale di Birdman quando dice a Michael Keaton: tu sei un personaggio famoso, non sei un attore. Nei talent tutti sanno cantare, ma cantano quasi tutti nello stesso modo, pochi sanno scrivere. L’aspetto più amaro non è chi ottiene un successo effimero, ma chi arriva ad esibirsi lì, non vince e così viene bruciato. Nel 1987 al Premio Tenco aprivi il concerto di Tom Waits. Nel 2007 a
Torino mettevi in musica le liriche di Leonard Cohen. Due importanti punti di riferimento per te… Sì, ma ci aggiungo Bob Dylan. Leonard Cohen è il più profondo dei poeti che fanno musica, Dylan è un pirotecnico sognatore che meriterebbe il Nobel perché testi come i suoi non li scriverà più nessuno, e Tom Waits scrive canzoni che sono come film, una rappresentazione sonora e al tempo stesso visiva. Anche se da ragazzo amavo la canzone francese, che resta sempre un riferimento per la mia scrittura, Dylan, Waits e Cohen sono la triade da cui non si può prescindere.
Spazio ai lettori
Ingiusto l'attacco a Napolitano Caro Direttore, l’attacco di D’Orsi al Presidente Napolitano sul numero 5 del mese di maggio è ingiusto, scortese e infondato. Da un uomo della sua cultura mi sari aspettato un atteggiamento almeno più prudente. Napolitano è rimasto uno degli ultimi uomini politici ad avere il senso dello Stato e soprattutto capace di assumersi responsabilità per decisioni gravi e non rinviabili. Mi spiace: trovare queste righe nella tua rivista è stata una sorpresa, ma è molto giusto che tu non opponga censure e chi vuole partecipare esprima in libertà il proprio parere. Un caro saluto. Lorenzo Ventavoli Via Pomba 7 - Torino
Grazie al dottor Lorenzo Ventavoli per il suo intervento, che dimostra quanto Nuovasocietà sia aperta al dialogo e non alla censura. Un confronto che parte dagli interventi dei nostri collaboratori come nel caso dell’articolo “Tutti gli uomini del Quirinale” e si sviluppa tra i nostri lettori. Alcuni ci hanno anche ricordato che di presidenti della Repubblica l’Italia “ne ha avuti di ben peggiori di Giorgio Napolitano”. Come detto uno degli obiettivi del nostro mensile è proprio quello del confronto. Il direttore
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Arte
"Forza lavoro" Il Requiem di Marzia Migliora per Palazzo Nervi
di Emanuele Rebuffini
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apolavoro architettonico progettato da Pier Luigi Nervi, simbolo di Italia ‘61 e delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, poi vuota scatola di acciaio, vetro e cemento abbandonata al degrado e all’incuria, infine oggetto di una ristrutturazione che vedrà il Palazzo del Lavoro trasformarsi in uno spazio commerciale, ma Marzia Migliora ha messo il Palazzo del Lavoro al centro del suo ultimo progetto artistico, intitolato “Forza Lavoro” e ospitato recentemente dalla prestigiosa galleria milanese Lia Rumma. Alessandrina di origini, vive da anni a Torino e utilizza diversi linguaggi, dalla fotografia al video all’installazione, per realizzare opere che riflettono sul lavoro, la memoria, l’identità.
sistema resistente è un atto creativo” che riproduce sul pavimento un modulo del solaio a nervature isostatiche. Perché hai utilizzato mattonelle di carbone? Innanzitutto, vuole essere un richiamo all’incendio scoppiato all’interno del Palazzo, per anni lasciato a se stesso, senza sorveglianza, così da diventare un luogo altro rispetto a quello che fu. La scultura realizzata a terra potrebbe essere una fondamenta di un qualcosa che ha la potenza di salire verso l’alto, oppure potrebbe essere una rovina di qualcosa
Come è nata l’idea di costruire un progetto artistico intorno, anzi dentro, a un edificio come il Palazzo del Lavoro? Innanzitutto, perché è un edificio a cui sono affezionata visivamente, infatti percorro spesso quelle strade e ho potuto vedere anno dopo anno la sua decadenza. E poi perché da tempo mi occupo del tema del lavoro nelle sue diverse sfaccettature, come valore nella vita di un individuo, come bagaglio culturale e sociale, come assenza di lavoro. Quel Palazzo non è solo un edificio architettonicamente straordinario, ma assume un significato simbolico. La molla è scattata quando nell’agosto del 2015 è scoppiato un incendio e vedendone le immagini è nato nella mia mente un collegamento tra il Palazzo come oggetto simbolico e la condizione dell’occupazione. Non era solo una costruzione ad andare a fuoco. Attraverso l’arte tento di restituire un diverso punto per poter osservare la realtà e trovare pensieri nuovi. Il progetto “Forza Lavoro” si apre con l’installazione “L’ideazione di un
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che non c’è più. Un’immagine speculare che ha in sé la costruzione verso l’alto o il crollo di qualcosa che è caduto a terra. Il Palazzo del Lavoro venne inaugurato nel 1961 con una grande mostra su l’uomo ed il lavoro, curata da Giò Ponti. Era un’Italia pronta a rischiare, a sperimentare nuove tecniche di produzione e nuovi materiali, a meccanizzare e velocizzare i processi. Si parlava di sviluppo, conquiste e prospettive, un inno al benessere senza avere consapevolezza dei rischi che quell’accelerazione avrebbe portato come carico alle generazioni future in termini di sostenibilità. Ora conosciamo bene il problema dell’aria irrespirabile a causa degli scarichi industriali e della combustione fossile, dello sfruttamento indiscriminato delle materie prime e delle fonti energetiche,
e siamo qui a fare i conti con l’eredità dell’Eternit. “Forza Lavoro” propone una serie fotografica, “In the Country of Last Things”, sorta di nature morte degli oggetti abbandonati nel Palazzo, e sette monocromi neri… Palazzo Nervi al suo interno racconta molto di più di quello che possiamo immaginare, racconta ciò che siamo noi umani in questa società. Gli oggetti rimasti sono quelli considerati privi di valore perché tutto il resto è stato rubato, dai soffitti smontati ai cavi elettrici. L’analisi dello scarto è interessante per capire cosa siamo, cosa vogliamo e consumiamo, cosa ha valore e cosa no. Così ho realizzato cinque fotografie a partire dagli oggetti che ho trovato dentro il Palazzo, per esempio centraline elettriche, con i quali ho costruito delle macchine fotografiche a foro stenopeico, trasformando così uno scarto in un dispositivo fotografico, quindi un qualcosa in grado di avere e creare valore. Anche i monocromi sono realizzati con scarti, con la polvere residua prodotta dall’incendio o con polveri di risulta derivanti dalla lavorazione industriale dei metalli. “Forza Lavoro” si chiude con un video, “Vita Activa”, dove Francesco Dillon esegue al violoncello il Requiem in Re minore k626 di Mozart… Il video è stato realizzato il giorno prima dell’inizio dei lavori di smantellamento. Mi piaceva l’idea di ridare vitalità al Palazzo sia attraverso il violoncello di Dillon, sia grazie alla produzione di suoni utilizzando i vari detriti trovati nell’edificio. L’improvvisazione con il violoncello prende avvio da un accordo del Requiem, ovvero il testamento di Mozart. E’ stato come dare un ultimo saluto a quel luogo e farne risuonare ancora una volta la voce.
L'infiltrato
Biblioteche
Il racconto della collaborazione tra il genarale Dalla Chiesa e il Pci contro il terrorismo di Andrea Doi
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n infiltrato del Partito Comunista Italiano all’interno delle Brigate Rosse avrebbe agito dopo il 1978. Un piano per sconfiggere il terrorismo che con la strage di via Fani, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro sembrava imbattibile. Un’altra verità che esce fuori dai cassetti, colmi di segreti che fanno da cornice agli anni di piombo. Il nuovo romanzo di Vindice Lecis, “L’infiltrato”, racconta questa storia, una realtà, romanzata, ma pur sempre realtà. Perché il dirigente del Pci Ugo Pecchioli effettivamente s’incontrò veramente con il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, come viene narrato all’inizio del volume di 190 pagine edito da Nutrimenti. Insieme collaborarono, al punto d’infiltrare un militante del Pci all’interno delle Bierre. Un’operazione ancora avvolta nel mistero, ma di cui si parla, aldilà del romanzo di Lecis, giornalista
L’infiltrato - Vendice Lecis Edizione Nutrimenti pagg 192 euro 15
sardo del “Gruppo Espresso”, da tempo. Dopo l’omicidio del sindacalista comunista Guido Rossa a Genova, secondo l’autore Dalla Chiesa chiese a Pecchioli un uomo da infiltrare, che nella realtà fu fondamentale per sconfiggere la colonna romana delle Br. Un episodio che fa capolino dal buio della notte della Repubblica, ancora coperto dal segreto. Nel romanzo a fianco di Pecchioli c’è un uomo di fiducia, racconta Lecis: Antonio Sanna. Lo scrittore utilizza questo personaggio di fantasia, per farci rivivere le riunioni segrete e i metodi di spionaggio utilizzati realmente dal Pci all’epoca dei fatti. Vindice Lecis riesce ricostruire minuziosamente l’attività dei comunisti italiani contro il terrorismo, attirando il lettore riga dopo riga. E alla fine le domande su quanto letto, su quanto sia finzione o realtà, inevitabilmente affiorano.
Un'ordinaria fucilazione di Aldo Novellini
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l libro di Andrea Geymet, “Un’ordinaria fucilazione” (LAReditore), ci riporta alla guerra di Liberazione, raccontandoci della tragica vicenda che segnò Campiglione Fenile, località nei pressi di Pinerolo, in provincia di Torino. Il 30 dicembre 1944 un reparto fascista della Guardia nazionale repubblicana circondò il paese e fece un rastrellamento. Ne seguì la cattura e l’immediata
fucilazione di un partigiano, il 19enne Renato Geymet (zio dell’autore del libro). Il corpo del caduto, secondo la barbara usanza delle brigate nere, venne esposto a monito per l’intera popolazione. L’autore ci offre l’affresco di un mondo nel quale la lotta di Liberazione si nutre di una solidarietà diffusa, una vera e propria rete di protezione che fornisce ai patrioti appoggio morale e materiale. La Resistenza è un fatto con-
diviso ben al di là dell’appartenenza ad un banda partigiana. Dall’altro lato della barricata stanno invece i repubblichini, della banda Novena, dal nome del comandante della brigata che guidò la rappresaglia. Emerge qui la triste peculiarità della nostra guerra di Liberazione: non solo, come negli altri Paesi europei, combattuta contro l’invasore germanico, ma anche contro altri italiani, determinati a colpi-
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Biblioteche La ferocia del repubblichino Novena condannato a morte ed amnistiato dopo la Liberazione re i partigiani, considerati alla stregua di banditi. La seconda parte del libro è dedicata agli eventi successivi, dopo la Liberazione. Nel marzo 1946 Novena viene condannato a morte ma poi il clima cambia. Giunge innanzi tutto, l’amnistia per coloro che, dopo l’8 settembre, si erano macchiati di reati politici. Poi subentra un vero e proprio riflusso che diviene predominante soprattutto
dopo la vittoria della Dc del 18 aprile 1948. Si fa allora strada una sorta di restaurazione in chiave moderata e conservatrice che tenta di rallentare il corso della giustizia. Un ulteriore motivo di sofferenza per le famiglie dei caduti che non riescono a ottenere piena riparazione dei torti subiti, insieme all’amarezza di vedere che l’Italia del dopoguerra sembra quasi dimenticare la Resistenza, il nostro secondo Risorgimento.
Un’ordinaria fucilazione - Andrea Geymet LAR editore - pagg 190
Cinema
SOLE ALTO
di Andrea Zummo
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re storie nei Balcani, a cavallo della guerra e oltre, scandite dall’inizio degli ultimi tre decenni. La prima è ambientata nel 1991, Ivan è croato e suona la tromba, Jelena è serba invece: sono giovani, si amano e vogliono fuggire, anche perché le avvisaglie della guerra si fanno sempre più insistenti; gli amici e i famigliari non sono molto d’accordo, in particolare il fratello di Jelena, che è stato arruolato tra i soldati. Nella seconda, nel 2001, madre e figlia serbe tornano nella casa distrutta dalla guerra: si fanno dare una mano a rimettere in sesto l’abitazione da un giovane croato che fa lavori di fatica; la ragazza guarda con ostilità il ragazzo, anche perché i croati le hanno ucciso il fratello, 6 anni prima. Nell’ultima, nel 2011, il croato Luka torna al paese natio, da dove era stato costretto ad allontanarsi perché la famiglia si opponeva alla sua relazione con una ragazza serba. E’ in compagnia di un amico e insieme vanno a una festa,
ma lui vuole assolutamente incontrare la donna di cui è ancora innamorato. Si può fare un film sulla guerra sporca, nel cuore dell’Europa (con una comunità internazionale che fu incapace di reagire), appena vent’anni dopo? Si può districare una materia che fu impastata allora di odio etnico, calcolo politico, faide famigliari, cinismo occidentale alla finestra? Ci ha provato Dalibor Matanic, senza indagare sui massimi sistemi di scienza politica, ma offrendo lo sguardo minoritario di tre storie, che possono assurgere a chiave di interpretazione universale. Perché se è vero che le famiglie infelici lo sono tutte a modo proprio, forse le tragedie della guerra sono tutte simili, perché il sangue è uguale e i morti si ripetono con la stessa sofferenza. Una pellicola interpretata, in tutte tre le vicende, dallo stesso eccellente gruppo di attori, premiata a Cannes nella sezione “Un certain regard”. “Sole alto” è un film sulla guerra nei Balcani, dove la guerra quasi non si vede, dal ritmo len-
to ma implacabile, dove spesso lampi violenti risolvono l’apparente quiete. Il conflitto è un’ombra che incombe nella prima storia, una ferita ancora aperta che strazia i ricordi, nella seconda parte. Nella terza invece è un fantasma lontano (le case sono ormai quasi tutte ricostruite), che condiziona ancora la vita delle persone, quindici anni dopo la fine del conflitto. Tre storie amare, sotto il segno della violenza, dell’amore e del desiderio, dell’odio e del senso di colpa, dell’espiazione e della vendetta. Ricorda, a tratti, “Prima della pioggia” (scritto e diretto da Milčo Mančevski), più per i temi, che per la trama; molto lontano dalle atmosfere oniriche del cinema di Kusturica, ma profondamente reale e dolente. Non c’è giudizio, né retorica, ma feroce umanità, che rende bene la tragedia della guerra. Suggerisce il bisogno di andare oltre, lasciandosi alle spalle i lutti e cercando la vita (l’adrenalinica sequenza della festa è una metafora?) e fa intravedere una speranza, alla fine della terza storia.
Racconti
IL TEMPO TRAFUGATO
di Jana Zanoskar
fonde con il rumore dei veicoli sulla strada che scorre sotto, oltre il cancello della grande villa.
amanti del mare e gioiscono delle bellezze del Tirreno. Sono abbronzati perL’estate è finita all’improvviso con la ché il vento mitiga i cocenti raggi del pioggia scrosciante e forte verso la fine sole e si accorgono di aver esagerato con di agosto. 1985 l’abbronzatura quando è ormai troppo “Ci avviciniamo a un autunno precotardi e si trovano con la pelle scottata. ce,” pensa Anna, stando all’ingresso del- Anna adora l’autunno e i suoi colori, le Trovano l’ombra solo approdando in la cucina, sulla vasta terrazza coperta. dispiace che l’estate stia finendo qualche pittoresca insenatura e allora Si avverte già un venticello fresco, quasi così velocemente. aprono il telone che copre tutta la parfreddo. Sul terrazzo c’è un tavolo con le sedie, te posteriore dello scafo iposano cullati Guarda la pineta davanti a se che s’in- per sedersi in pace con la mente piena dalle onde, mangiano, si dissetano e si nalza ritmicamente verso l’alto e respira di ricordi e poter ritornare con i pensie- sentono in pace. l’umidità. ri a quindici anni fa. All’avvicinarsi della sera, Nino riaccenNon si è ancora abituata che nessuno le Le tornano in mente le dolci immagini de il motore e si mette al volante del stia vicino, che nessuno la chiami. estive, il mare azzurro e calmo, un mo- motoscafo mentre Anna tira su l’ancoNino, il suo marito, è morto l’anno toscafo rapido, la scia lunga e spumeg- ra. scorso nel tardo autunno, improvvisa- giante che lascia dietro di sé. Il sole sta calando lentamente nel mar mente, con Tirreno in una velocità uno splendiinimmagido tramonto nabile, in un che colora solo minuto, tutto di roslasciandola so. I gabcon la testa biani sono vuota e un appollaiati dolore forte sulle rocce, nel petto. ognuno ha Le è rimasta il suo sasso questa grande che sporge casa per dover dall’acqua. continuare Motore dela viverla da lo scafo rugsola. gisce, alza la Osserva la piprua e Anna neta gocciocavalca le lante davanti onde seduta a sé, l’erba davanti, agcresciuta rigograppata al gliosamente parapetto. “Mostro scarabocchio” - 2006 - tecnica mista acrilico (J.Zanoskar) pure lei quasi in un minuto, di Fiancheggianun verde intenso da fare male agli occhi. Sulla costa ripida crescono miseramen- do la costa questa cambia il suo aspetDalla terra si alza vapore che conserva te i cespugli rossicci sulla roccia nuda. to da rocciosa a bianca per gli enormi ancora il calore di un agosto caldissimo Qualche contorto e piccolo pino vege- blocchi di granito bianco striato da rie asciutto. ta accontentandosi dell’umidità della ghe scure e perciò davanti alla foce del Tutt’intorno c’é solo l’umidità e il ru- brezza del mare e sembra triste e soli- fiume Magra a questo spuntone e stamore dell’acqua sgocciolante dai rami, tario. Molti gabbiani volteggiano sulle to dato giustamente il nome, la Punta dal tetto, che si mescola con il cinguet- correnti d’aria. bianca. Povera di vegetazione lascia solo tio degli uccelli che fanno festa e si con- Anna e suo marito, sono entrambi lentamente il posto brullo alle pinete, LA FINE D’AGOSTO 2000
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Racconti
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sempre più folte e di un verde scuro intenso, alle rosse buganvillee avvinghiate sulle ringhiere delle ville, già in ombra. Finalmente, entrati nella foce, procedono lentamente e Anna sporgendosi guarda la lenta corrente del fiume Magra dove si mescolano ancora l’acqua dolce con quella salata e nota sbigottita galleggiare sulla superficie molti pesci morti con le pance gonfie. Il colore del fiume è di un incerto marrone sporco mentre l’acqua emana un cattivo odore. Puzza come l’immondizia, come l’aria delle discariche. Nino teme che ci sia un guasto all’impianto di depurazione che riceve le acque di scarico di Sarzana. Pochi anni fa qui era pieno di bagnanti e di pescatori. Ora lo stabilimento balneare è chiuso perché troppo vicino al fiume. Qualche pescatore solitario si vede ancora e Anna non sa se pesca i pesci morti, perché quelli vivi non ci dovrebbero essere. “Com’è cambiato tutto.” afferma Anna, pensando al fiume pulito, senza tante barche, molto più modesto ma vivo. Senza ristoranti con i loro cartelli pubblicitari appesi dappertutto. Veramente di ristoranti c’è n’era uno solo, allora, dove cucinavano un ottimo pesce fresco e una buonissima pasta con le vongole. “Chissà,” continua Anna, “se anche da noi in Slovenia il fiume Sora ha fatto la stessa fine. Sarei molto curiosa. Andavo con il gruppo di amici con la bicicletta da Ljubljana. Era favoloso ma avevo solo diciotto anni!” Ormai Anna e Nino sono arrivati al rimessaggio e lui è molto bravo nel parcheggiare la barca in fila con le altre. Le pulizie della barca si fanno in fretta, presto verrà la notte. A casa, quando scendono dalla Fiat Uno, è già buio, ma i loro animali amati hanno avvertito che stanno arrivando quando non erano ancora al cancello. Tutte e due, la nera cagnetta e la gatta siamese aspettano le loro carezze. Cagnetta si chiama Blacky è la prima a saltare addosso a Nino che è da sempre il suo grande amore. La gatta Cilla, con la coda dritta, aspetta il suo turno, un passo dietro. “Che bello tornare a casa!” La voce di Anna accaldata chiama a sé i due animali mentre Nino scarica la borsa dalla macchina. “Ci pensi tu, domani, a mettere a posto vero? Vado al fresco sul terrazzo mentre prepari qualcosa da mangiare.” “Già”, pensa Anna, “tocca a me mettere
sul tavolo quello che è rimasto nel frigorifero.” Trafficando con le pietanze rammenta la bella la giornata appena passata. Domani mattina potrà alzarsi piena di forze e di buona volontà per andare al lavoro. Dovrà passare tutta la settimana fino al prossimo sabato per ripetere, sole permettendo, una nuova bella giornata. Mentre Anna si muove dalla cucina al terrazzo, fisicamente è presente ma la sua mente è altrove. Sta pensando al tempo, molto breve, che le è cocesso con tutte le delizie da riporre subito in un cassetto particolare, dedicato ai momenti felici rubati al tempo.
JANA ZANOSKAR
Nata in Slovenia, dove si è diplomata all’Accademia delle Belle Arti, vive in provincia di Pisa. Scrittrice, scultrice e pittrice ha vinto diversi premi nel nostro Paese, dove si è trasferita negli anni Sessanta. Con le sue opere ha partecipato nel 2015 alla Biennale di Venezia.
“Albero della vita” - tecnica mista acrilico (J. Zanoskar)
Pelo&contropelo A cura di Claudio Mellana. Con la collaborazione di Dino Aloi, Gianni Audisio e Danilo Paparelli
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