Nuova Serie - n° 7/8 - 15 luglio/agosto 2016 - 3 euro
Conoscere la realtà per trasformarla
Mensile di approfondimento e inchieste
MA NON ERA LA PIU’ BELLA DEL MONDO? Editoriale
Primo piano
Proposta della Cgil per tutelare i lavoratori di Enrica Valfrè
La Costituzione non deve diventare brutta di Nando Dalla Chiesa
PAGINA 5
PAGINA 12
Cultura Dove nacque il cinema a Torino di Steve Della Casa PAGINA 43
ISSN 1971-6117
NUOVASOCIETA’
NUOVASOCIETA’ Mensile di approfondimento e inchieste
Direttore responsabile: Diego Novelli Vicedirettori: Andrea Doi Giorgio Merlo Caporedattore: Giulia Zanotti In redazione: Moreno D’Angelo Bernardo Basilici Menini
Editoriale Sfida per i diritti di Enrica Valfrè.........................................................................5 Primo Piano La più bella del mondo: contrordine di Roberto Benigni......................................8 Non deve diventare la più brutta del mondo di Nando Dalla Chiesa..................12 Le diseguaglianze sociali sono causa determinante di malattia di Diego Novelli.....14 Opinioni Dieci tesi per una politica della prossimità di Marco Albeltaro............................17 Politica Si apre una nuova fase politica? di Giorgio Merlo.............................................................19 Avamposto Storia di un portafogli di Angelo d’Orsi...........................................................................21
Segretaria di redazione: Anna Rapelli
Internazionale Dighe contestate di Riccardo Graziano...............................................................24
Hanno collaborato a questo numero: Enrica Valfrè, Nando Dalla Chiesa, Angelo d’Orsi, Darwin Pastorin, Caterina Olivetti, Emanuele Rebuffini, Claudio Mellana, Daniel Monasteri, Steve Della Casa, Riccardo Graziano, Marco Albeltaro, Andrea Zummo, Isabella Bresci
Inchieste Svuotare le carceri conviene di Moreno D’Angelo................................................26 “I detenuti vogliono lavorare” di M.D.A............................................................27
Grafica e impaginazione: Giulia Zanotti
Solidarietà L’altra vita di Roberto e Piero, fuori dal Cottolengo di Caterina Olivetti............30
Redazione e amministrazione: via Garibaldi 13 – 10122 Torino redazione@nuovasocieta.it amministrazione@nuovasocieta.it
Spazio ai lettori Tagli ai malati di Alzheimer di Francesco Santanera............................................33 Su Giorgio Napolitano in risposta a Lorenzo Ventavoli.....................................33
Responsabile diffusione e abbonamenti: Lorenzo Simonetti (3478600077) Abbonamenti: Annuo 30 Euro Sostenitore 50 Euro Versamento tramite bonifico a “Associazione Culturale Nuovasocieta.it” IBA N IT90K0335901600100000014301 Per la pubblicità: 3496478508 pubblicita@nuovasocieta.it Stampa: Pixartprinting Spa, via I Maggio 8, 30020 Quarto d’Altino (Venezia)
Interviste Domenico Minervini: “Rivoluzionare il concetto di espiazione” di Moreno D’Angelo...28
Legacoop Progetto Pachamama.........................................................................................34 Sport Lo stadio come cattedrale della memoria di Darwin Pastorin.............................36 Gli angoli della città Il misterioso soggiorno di Nostradamus sotto la Mole di Daniel Monasteri........38 Arte Franceso Jodice, la fotografia come anomalia di Emanuele Rebuffini..................40 Rendere visibile l’invisibile di E. R. ..................................................................41 Cultura Tutto cominciò sotto i portici di via Nizza di Steve Della Casa..........................43 Cinema In nome di mia figlia di Andrea Zummo.............................................................45
Distribuzione: Fratelli Devietti, Strada Cebrosa 21 10036, Settimo Torinese (Torino)
Biblioteche Tra calcio e storia, l’ultimo rigore di Faruk di Darwin Pastorin..........................46 Schiava di Picasso.............................................................................................47
Registrazione tribunale di Torino n.17/07 del 8/3/2007
Racconti La casetta del ciliegio di Isabella Bresci...............................................................48
Mandato in stampa il 1/07/2016
Pelo&contropelo..............................................................................................50
www.nuovasocieta.it
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LA BOHÈME GIACOMO PUCCINI
SANSONE E DALILA CAMILLE SAINT-SAËNS
WEST SIDE STORY LEONARD BERNSTEIN
LA BELLA ADDORMENTATA PËTR IL’IČ ČAJKOVSKIJ STAATSBALLETT BERLIN
PAGLIACCI
RUGGERO LEONCAVALLO
KATIA KABANOVA LEÓŠ JANÁČEK
MANON LESCAUT GIACOMO PUCCINI
L’INCORONAZIONE DI DARIO ANTONIO VIVALDI
IL FLAUTO MAGICO
WOLFGANG AMADEUS MOZART
MACBETH
GIUSEPPE VERDI
www.teatroregio.torino.it
Editoriale
Mobilitate tutte le piazze italiane
SFIDA PER I DIRITTI La proposta della Cgil per un nuovo statuto dei lavorati al passo con i tempi di Enrica Valfrè
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el nostro Paese c’è bisogno di privati e che sancisca una serie di diritti re il ciclo lavorativo e il lavoro che viene lavoro, quello vero. Non quel- validi per tutti. svolto. Un aspetto importante se si tielo frammentato, precario e in- Infatti in questa Carta sono contenuti ne presente che, come detto, il mercato certo, che sovente però viene accettato diritti fondamentali e consolidati come del lavoro è cambiato, è diventato più quasi nella convinzione che non ci sia quello al riposo e alla maternità insieme frammentato e per questa ragione bisoaltra scelta. Insomma, un lavoro buono, a nuovi elementi importanti per i lavo- gna declinare i diritti in modo diverso ben pagato, non a termine, che possa ratori di oggi. Ad esempio, quello che da quello che succedeva in precedenza. rappresentare un fattore di crescita an- noi abbiamo definito come diritto ai sa- Una parte della nostra Carta è poi deche per la società e l’economia dell’Ita- peri: chiunque deve poter accedere alla dicata alla contrattazione. Perchè una lia. formazione, utile non solo per cono- volta stabiliti i diritti fondamentali che Per questo come Cgil abbiamo deci- scere i compiti che si svolgeranno, ma devono essere in capo a ciascuna persoso di elaborare un nuovo Statuto delle anche per l’acquisizione di una una co- na questi devono poter essere esercitati lavoratrici e dei lavoratori che abbia- scienza critica che consenta di conosce- collettivamente. Per questo abbiamo mo chiamato “Carta provato a immaginare dei diritti universali un nuovo modello di del lavoro”. Si tratta di relazioni industriali e una proposta di legge di relazioni sindacali che presenteremo in che assieme a Cisl e ottobre e per la quale Uil abbiamo presentaabbiamo già raccolto to ai datori di lavoro: centinaia di migliaia di si tratta di valorizzare firme. Novantasette aril contratto nazionale ticoli, scritti da giuristi, e chiediamo che ogni che provano a immagicontratto debba essenare un nuovo sistema re approvato da tutte dei diritti dei lavoratori, le donne e gli uomini adatto ai nostri tempi. a cui esso verrà appliUna vera e propria sfida cato. anche nei confronti di Un lavoro buono, chi pensa la Cgil come poi, passa anche per una organizzazione che un buon contratto. sa dire solo di “no” e Per questo quello che che difende solo devogliamo con la noterminate categorie di stra Carta dei diritti lavoratori. Invece, pur è intervenire sulla proseguendo le nostre miriade di tipologie mobilitazioni come abdi contratti che si biamo sempre fatto, absono diffuse negli ulbiamo voluto realizzare timi vent’anni. Oggi un documento che sia ormai i lavoratori costruttivo e propositivengono chiamati il vo per i lavoratori del giorno prima, il matnuovo Millenio, dipentino per il pomerigdenti e autonomi, stagio, fanno turni di Enrica Valfrè, segretaria della Cgil Torino, durante una manifestazione bili e precari, pubblici e due ore al mattino e
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Editoriale due al pomeriggio: serve invece ricomporre il rapporto di lavoro a tempo parziale, intervenire sugli appalti stabilendo che tutte le volte che c’è un cambio di appalto i lavoratori abbiano le tutele necessarie. E ancora, regolamentare il lavoro a tempo determinato. Uno dei primi atti del governo Renzi è stata la norma per cui per instaurare un rapporto di lavoro a tempo determinato non c’è più bisogno di una motivazione. Noi chiediamo invece che per un rapporto a termine ci sia una motivazione altrimenti si rende Lo slogan della raccolta firme per la proposta di legge per una “Carta dei diritti universali dei lavoratori” solo precario un lavoro che potrebbe essere a tempo indeterminato. Diritti fondamentali, dunque, quel- voli spese, che ci siano dei tempi certi e Già, il governo Renzi e il suo Job Acts. li che abbiamo disegnato nella nostra che quando ci sono delle sentenze queCome sin dall’inizio l’abbiamo sempre Carta. Non ultimo, e necessario proprio ste vengano fatte eseguire. contestata ora vogliamo modificare il per far valere anche gli altri, è anche il A sostenere i contenuti della Carta abcuore di questa legge, ovvero il con- processo del lavoro che fino a qualche biamo anche lanciato tre referendum tratto a tutele crescenti: un contratto anno fa era gratuito e adesso è diventato per cui sono state raccolte un milione a tempo indeterminato è tale se si ha oneroso: noi chiediamo invece che per i e centomila firme (di cui 40mila a Torila tutela del reintegro e non solo di un processi non si debbano sostenere note- no) già depositate in Cassazione. risarcimento in caso di licenziamento. Il primo riguarda l’abrogazione di quella che è la forma più precaria di lavoro: i voucher che in questi anni si sono diffusi in misura esponenziale. Abolirli significa lottare contro la precarietà del lavoro in generale. Il secondo verte sulla responsabilità solidale degli appalti. Vogliamo ripristinare la responsabilità di chi dà un appalto quando chi lo vince non paga stipendi e non paga contributi. Una norma che c’era ma che il governo Renzi ha cancellato e che invece serve a combattere la frammentazione del lavoro produttivo. Con il terzo referendum chiediamo invece di cancellare la norma che prevede che quando si viene licenziati ingiustamente si venga risarcirti con pochi soldi e non si possa più essere reintegrati. Insomma, tre referendum “simbolici” che riportano al centro quello che è il cuore del mondo del lavoro. Ovvero i lavoratori e i loro diritti.
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Primo Piano
La legge del desiderio
LA PIÙ Il prossimo ottobre gli italiani sono chiamati alle urne per esprimere un si o un no sulla proposta di legge presentata dal governo per modificare la nostra Costituzione approvata dal Parlamento, senza la maggioranza prescritta dalla Carta stessa. Tra i grandi “poeti” della nostra Costituzione ricordiamo Roberto Benigni il quale il 17 dicembre 2012 pronunciò alla televisione (Rai 1) uno stupendo monologo esaltando i contenuti della Costituzione italiana nata dalla lotta di Liberazione antifascista, i valori di libertà, di uguaglianza e di solidarietà che pone come prioritari. Fu lo stesso Benigni che la definì in quel monologo “La più bella del mondo”. Fermo restando che nulla vieta di apportare delle modifiche per aggiornare il testo entrato in vigore nel 1948 non può non destare sorpresa la replica del monologo di Benigni chiesto alla Rai dal Governo, alla vigilia della Festa della Repubblica, con un prologo dell’attore col quale ha cercato di giustificare le ragioni (senza entrare nel merito) della sua adesione alla campagna per il sì al prossimo referendum sostenuto dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Crediamo di fare cosa gradita ai nostri lettori pubblicare il monologo di Benigni prima maniera, prima che gli giungesse il “contrordine” del suo corregionale. “Maledetti toscani”, direbbe Curzio Malaparte!
D.N. di Roberto Benigni
I
l 2 giugno del 1946 ci furono le prime votazioni libere della nostra storia. Le donne hanno votato per la prima volta. Le donne e anche certi ceti sociali della popolazione. Tutta l’Italia ha votato, non potete sapere la bellezza di quel momento, che cosa è stato. Le
tutti gli schieramenti politici (democristiani, comunisti, socialisti, liberali, azionisti, uomini qualunque) divisi in tutto escluso su una cosa: essere uniti. Non so cosa accadde loro. Divennero dei giganti, alcuni lo erano di già.
Mentre la legge vieta, proibisce, la Costituzione ti protegge e ti spinge, è la nostra mamma. Una cosa di una bellezza... Tutto a favore, un sì. Avete visto i dieci comandamenti: è tutto un “no”, “non desiderare quello, non fare questo”. Invece la Costituzione è la legge
prime votazioni libere dove si doveva scegliere tra monarchia e Repubblica, e come sapete vinse la Repubblica.
Ci hanno fatto volare, hanno illuminato quelle macerie e hanno detto: “Avanti, rialzatevi”. Profetici. Lì dentro c’è la strada per risolvere tutti i nostri problemi. Ci hanno portato in un luogo dove si proclamava il primato della persona umana, della sua dignità, ma non fra gli ultimi, fra i primi. È una cosa impressionante questo testo, è una poesia.
del desiderio. Calamandrei, Dossetti, Alcide De Gasperi, uno dei più grandi statisti del mondo, Giorgio La Pira, un santo. Benedetto Croce, un filosofo che ha influenzato tutto il pensiero europeo.
E in una seconda votazione si votò per 556 parlamentari che scrivessero, tutti uomini politici, regole per vivere insieme, altrimenti si ricadeva nella guerra civile. Si formarono questi uomini di
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Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Giorgio La Malfa, Lussu, la biografia di que-
Primo Piano
Il lavoro è sacro
BELLA
sti era un capolavoro, Ferruccio Parri, Nilde Iotti, Angelina Merlin, ci hanno messo 18 mesi per scrivere questo. Con una lingua meravigliosa. C’era Amintore Fanfani. C’era Giulio Andreotti anche, piccolino, vabbè lui sta dappertutto, stava allo Statuto albertino, ma lo hanno visto anche dietro Mosè scrivere i dieci comandamenti. C’erano tanti presidenti della Repubblica: Einaudi, Segni, Saragat, Giovanni Leone, Pertini, Scalfaro. Alcuni di loro erano stati in galera per difendere la libertà e poi sedevano in Parlamento. L’opposto di quello che succede oggi, prima siedono in Parlamento, poi finiscono in galera.
il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Cioè, qualsiasi governo deve promuovere il lavoro, perché il lavoro è sacro e ogni legge che ostacola il lavoro è un sacrilegio.
C’è voluto veramente tutto questo amore, e tutta questa morte, per cui un giorno alcuni uomini e alcune donne potessero scrivere queste parole: il capo provvisorio dello Stato, vista la deliberazione dell’Assemblea costituente, che nella seduta del 22 dicembre 1947 ha approvato la Costituzione della Repubblica italiana (...) promulga la Costituzione della Repubblica italiana nel seguente testo. Principi fondamentali. Articolo 1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Sentite l’articolo 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini
riconosce a tutti questa cosa qua. Amare il proprio lavoro è la vera e concreta forma di felicità sulla terra. Quello che spetta alle future generazioni, ai futuri governi è far sì che ciascuno ami il proprio lavoro. Un sogno da Woodstock. Perché con la disoccupazione le persone non perdono solo il lavoro, perdono se stesse. Quando non c’è lavoro si produce infelicità e perdiamo tutto. Quando ci danno la busta paga dentro non troviamo solo i soldi, quella paga non è avere è essere, essere. Quella è la cosa importante, la nostra libertà, indipendenza, dignità, la nostra vita. Loro lo sapevano, conoscevano il legame fortissimo
Ma io dico, la bellezza: “Materiale e spirituale”. Tu devi farmi stare bene, col corpo e l’anima. È inutile che mi dai tutti i diritti, la prima cosa mi devi dare il lavoro, sono le fondamenta. E
tra il lavoro e la nostra personalità, perché il lavoro nutre l’anima e senza crolla tutto: crolla la Repubblica e crolla la democrazia, che sono il corpo e l’anima delle nostre istituzioni. L’impianto della Costituzione sapete chi l’ha fatto? Un ragazzo pugliese che aveva 29 anni e si chiamava Aldo Moro. Sentite l’articolo 5, qui si entra in cose tecniche, ma vale la pena, vi vorrei far presente che per gli alti incarichi gli uomini politici giurano sulla Costituzione: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono
dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Rivoluzionario, spettacolare. Qui c’è il decentramento del potere. Il coraggio. L’unità d’Italia era stata fatta da poco, durante il fascismo c’erano i prefetti, dipendeva tutto dallo Stato centrale: Roma padrona veramente. Loro hanno detto: i cittadini sono maturi. Chi ha il potere non lo divide con nessuno, e loro invece si sono inventati una forma di Stato che non c’era. Lo Stato regionale. Un federalismo come Cattaneo, meraviglioso, magari venisse attuato.
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Primo Piano
La guerra è ripudiata
DEL MONDO: Hanno dato potere alle Regioni, principio straordinario del pluralismo regionale. Hanno messo la divisione dell’Italia nell’articolo dove proclamano l’unità, guardate la bellezza. Una e indivisibile, l’hanno messa fra due virgole, come dire: si sa, non c’è bisogno di mettere il punto esclamativo. Umberto Terracini con Alcide De Gasperi, “Umberto scrivi questo articolo, scrivi: l’Italia, una e indivisibile”, e Umberto: “Ma che c’è bisogno di scriverlo?”. “E magari tra trenta o quarant’anni arriva qualcuno e la vuol dividere”. Articolo 2: Dopo vi racconto due o tre storie. La Repubblica riconosce... (sentite i verbi, eh!) e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo
sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. E richiede, richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il nostro articolo 3 della nostra Costituzione ce l’hanno copiato in tutto il mondo. Scopiazzato. Andate a leggere, scopiazzato, fatto un po’ peggio per non farsi riconoscere. Una cosa impressionante. Sentite la poesia, sentite la bellezza. Rispetto a quello che c’era prima. I nostri babbi, nonni, padri. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
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di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese. Articolo 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. E state a sentire l’articolo 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani. Sovrani, sovrani! I loro rapporti sono
regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Articolo 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. È grandioso, finalmente, tutte libere. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge in base a intese con le relative rappresentanze. Sentite:
garantire pari dignità a tutti. Articolo 9: Questo fa andare al manicomio. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Sentite l’articolo 10 che sembra chissacché. Ora qui s’apre una cosa che non avete idea. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. È lungo ma sentite che roba. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità con le norme e i trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo
Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici. Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità. Limitiamo la nostra sovranità a casa nostra. Alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Dite ai vostri figli di esserne orgogliosi
Primo Piano
CONTRORDINE Sentite questo articolo 11: questo è davvero famoso in tutto il mondo. L’Italia ripudia la guerra. Io faccio subito un applauso per la parola, eh. È famosissimo. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli (ma sono poesie...) e come mezzo di soluzione delle controversie internazionali. Allora, articolo 12: Qui rimarrete stupiti. È il mio preferito. La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Nel Medioevo c’erano nei parlamenti dell’epoca, i corrotti. Stavano lì e facevano leggi. C’erano dei potenti che
quando erano in minoranza compravano con dei soldi e facevano passare al partito opposto. Facevano delle leggi spaventose. Una cosa che fecero, non si può dire su Raiuno perché è proprio una cosa da maiali. Si chiamava Porcellum. E quando la fecero, nel 1280, una cosa medievalissima, dopo averla fatta dissero: fa schifo e la adottarono. Ridevano tutti con questo Porcellum, ce lo fecero mangiare due volte. Si compravano lecca lecca con i soldi pubblici e si stupivano se uno gli diceva: “Ma che fai?”. “Che vuoi che sia?”.
Arrivò un cavaliere da lontano, da Mediolanum, la casta aveva tutti i privilegi, avevano i cavalli blu. Questo cavaliere prese il potere e fece come nel Rinascimento, feste, orge, confusione, donne, ci fu uno scandalo con una nipote del conte Ugolino che si arrabbiò da morire: “Ma io non ho nipoti”. E tutto il parlamento votò che il conte Ugolino aveva una nipote. E questo cavaliere si alleò poi con un gruppo del nord, veramente medievale, si chiamavano “i barbari che sognavano”, facevano paura con degli elmi, dei corni. Il loro slogan politico ufficiale era “noi ce l’abbiamo duro”. E la gente li votava. Voi mi direte: “Non ci credo”. Era così. Poi non erano normali, facevano paura: non avevano cin-
il vaffa. In tutta questa confusione c’era il povero Dante Alighieri che fondò un partito, si chiamava Per Dante, Pd, non vinse mai, fece anche le primarie da solo e perse.
que dita, ne avevano uno solo, il medio, sempre alzato. E facevano dei riti pagani, col dio Po. E il capo di questa setta faceva l’amore col dio Po. E nacque una trota. La prima trota nella storia dell’umanità che ritornò con una laurea dell’Albania. In tutta questa confusione, con chi predicava la fine del mondo, nacquero giullari, demagoghi. Uno di questi giullari andava nelle piazze con venti, trenta mila persone, e vedeva tutti “morti, cadaveri, zombie”. Diceva il nome di una persona e faceva urlare “ma vaffa...”. Trenta mila persone che urlavano
sta alta, di essere orgogliosi di appartenere a un popolo che ha scritto queste cose tra i primi nel mondo. Dei politici lo hanno scritto. Ditegli di essere orgogliosi che abbiano fiducia e speranza. Ci vuole fiducia e speranza per far entrare un figlio nella vita.
Ma c’è la Costituzione, il regalo che i padri e le madri costituenti ci hanno lasciato in eredità. Le cose regalate dobbiamo conquistarle, farle diventare nostre. Qui dentro ci sono le regole per vivere tutti insieme, in pace, lavorando. Mi permetto di dire una cosa che solo un papa o un buffone possono dire. Domani mattina quando vi svegliate dite ai vostri figli che sta per cominciare un giorno che prima di loro non ha mai vissuto nessuno. In secondo luogo ditegli di andare a te-
(Le immagini sono tratte dallo spettcolo televisivo del 17 dicembre 2012)
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Primo piano
Aggiornare la Carta senza sconvolgerla
Non deve diventare la più brutta del mondo Le modifiche al Senato non hanno né capo né coda di Nando Dalla Chiesa
C
he dire di questo referendum? Intanto premetto che la mia opinione non è quella standard dei sostenitori del “no”. Io non affermerò qui infatti che questa Costituzione “è la più bella del mondo”. Perché non lo so, non le conosco tutte. Ammetto che quando Benigni lo diceva riempiendo magistralmente le piazze mi piaceva. Sentivo una corrente calda di emozione che mi avvolgeva. Avere, noi italiani, la Costituzione più bella del mondo…Era gratificante, quasi ci riscattava dalle nostre brutture. Mafia, corruzione, clientelismo, certo; però la Costituzione più bella del mondo. Lo diceva d’altronde anche don Luigi Ciotti. Che ci sono due testi contro la mafia, non c’è bisogno di scriverne altri: il Vangelo e la Costituzione. Don Ciotti, che io sappia, non ha cambiato parere. Benigni invece sì. Gli piace an-
cora, ha spiegato, ma è meglio cambiarla. Anzi, ha detto, il suo bello, è proprio che la si può cambiare. Come se il bello di un libro o di un regalo fosse che lo si può riportare al venditore. Misteri (affascinanti) del genere umano. Ma torno alle mie incertezze. Non so, dicevo, se la Costituzione del ’48 sia effettivamente la più bella del mondo. So che da molti anni mi sembra un po’ inadeguata ai tempi. E non per colpa dei Costituenti. Che cosa ne sapevano loro, in effetti, che da lì a sei anni sarebbe arrivato in Italia un oggetto chiamato televisione? Che cosa ne sapevano che quell’oggetto avrebbe alterato gli equilibri delle libertà che avevano così sapientemente disegnato? Che avrebbe modificato i meccanismi di formazione del consenso? Certo, esiste l’articolo 21, prezioso e necessario. Ma non basta. Si possono dedurre i principi utili dall’ordito costituzionale, vero. Però dal dopoguerra a oggi sono successe altre cose importanti. Allora, sempre per esempio, nessuno pensava che il pianeta stesso fosse a rischio. Si sono scoperti i diritti ambientali. Ma Don Luigi Ciotti, per lui ci sono due testi contro la mafia: il Vangelo e dell’ambiente la Costituziola Costituzione
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ne si occupa solo per dire che la Repubblica tutela il paesaggio. Un po’ poco, e infatti le Costituzioni più giovani, anche se non sono le più belle, se ne occupano di più. Si può nuovamente ricorrere, per deduzione, all’ordito costituzionale; vero una seconda volta. Ma i diritti della popolazione anziana o vecchia, cresciuta a dismisura? E i diritti di quarta generazione, legati a una delle più grandi rivoluzioni di sempre, quella informatica? Ecco, tutte questioni che riguardano la famosa prima parte della Costituzione, quella che tutti, anche quelli che vogliono disfarsi dei principi della Carta, professano e anzi giurano di non voler toccare. E a me piacerebbe invece che venisse toccata, per ammodernarla; per dare, anzi, piena attuazione al suo spirito in un contesto storico e sociale tanto diverso. Al contrario, non sono così sicuro che la seconda parte possa toccarsi e cambiarsi come bere un bicchiere d’acqua. Perché nella seconda parte, a ben vedere, c’è l’indipendenza della magistratura, ancora per esempio. Ovvero uno dei principi che hanno consentito a un Paese lacerato e sfregiato da mafia e corruzione di resistere ai ciclici assalti della malapolitica. Che cosa sarebbe stata l’Italia se nella Palermo degli anni ottanta o nella Milano degli anni novanta o nella Roma degli anni duemila non vi fosse stato questo autentico baluardo costituzionale? Non solo. Nella seconda parte
I contrappesi non vanno ridotti della Costituzione c’è anche il principio che le leggi si votano articolo per articolo. Quando diedi l’esame di diritto costituzionale alla Bocconi questa norma mi appariva una specie di orpello. Che principio pleonastico…Non ne capii l’importanza nemmeno quando entrai in Parlamento. E nemmeno quando vi tornai la seconda volta. Fu solo alla terza esperienza, nella legislatura 20012006, sotto le folate anticostituzionali delle leggi ad personam di Silvio Berlusconi e soci, quando chi era in aula
per esempio, o meglio, nessuno mi ha mai spiegato per filo e per segno, che cosa sia il “Senato delle Regioni”. Ho sempre sofferto il bicameralismo perfetto con i suoi andirivieni e le sue paludi che inghiottono le leggi. Ma ho anche visto che una Camera che finisca, anche grazie a quell’oggetto nato negli anni cinquanta, in balia delle emozioni di massa (vedi il voto degli italiani all’estero o addirittura la famosa “cura Di Bella” contro il cancro), può votare cose di cui sarà costretta a vergognarsi. E che i
Primo piano re) dedico da sempre molta attenzione, noto che questo progetto di “riforma” è assolutamente insensibile ai diritti diffusi. Anzi li comprime. In particolare, e non è un dettaglio trascurabile per il nostro ordinamento, viene triplicato il numero delle firme necessarie per portare in parlamento le leggi di iniziativa popolare (mentre cala in paralleo il numero dei consiglieri comunali o di zona che possono autenticare gratuitamente le firme). Viene sapientemente congelato il quorum per la validità dei
Dalla riforma costituzionale che si voterà ad ottobre sono in gioco la natura e la qualità della democrazia
non poteva discutere e chi non c’era poteva votare, fu allora che compresi fino in fondo la grandezza dei Costituenti. Ossia quando mi resi conto che le leggi venivano votate trasformandole in un unico articolo attraverso emendamenti proditori. Ecco, la democrazia, le sue modalità di funzionamento stanno in fondo nella tanto bistrattata seconda parte: Parlamento, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura. E altre inezie ancora. Sicché mi domando spesso perché mai sia stato possibile che nell’opinione pubblica e nel discorso politico prendesse piede con tanta facilità e con ancor più conformismo l’idea che “la seconda parte si può toccare, quella sono dettagli”, mentre “la prima parte non si tocca, quelli sono i grandi principi”. Insomma, gira e rigira, di questa Costituzione si discute poco e non sempre bene. Non ho mai capito fino in fondo,
vizi dello stesso bicameralismo perfetto potrebbero tranquillamente essere quasi azzerati intervenendo sui regolamenti parlamentari. Che cosa penso quindi del progetto di Costituzione su cui saremo chiamati a pronunciarci? Che non ha né capo né coda. Che vengono annunciate novità che non ci sono, come l’abolizione del Senato. Il quale resiste, invece, assumendo forme incerte e limacciose. E aggiungo che i cambiamenti non mi piacciono “a prescindere”, per il solo fatto di essere tali. Se invece di fare le vacanze a Stromboli dovessi farle all’Idroscalo non gioirei per il cambiamento, anzi lo eviterei volentieri. E lo stesso se invece di avere una cattedra all’Università di Milano dovessi andare a insegnare in una università telematica. Piuttosto, proprio perché ai diritti dei cittadini (e ai doveri di chi ha il pote-
referendum, fissato al 50 per cento in un’Italia in cui andava a votare il 90 per cento degli aventi diritto, laddove oggi in Emilia Romagna (!) va a votare alle regionali il 37 per cento degli elettori. E nulla si fa per garantire finalmente la vita democratica dei partiti, o per restituire il diritto di scelta agli elettori attraverso le preferenze o la reintroduzione dei collegi. Insomma: di qua l’estensione dei poteri di chi comanda e la riduzione dei celebri contrappesi, visti dai grandi teorici del pensiero liberale come conditio sine qua non della democrazia. Di là la compressione dei diritti dei cittadini. Per questo non voglio seguire discussioni oziose sulla prima e sulla seconda parte. Sono in gioco la natura e la qualità della democrazia. Per questo dirò no. Attendendo che questa Costituzione diventi ancora più bella, non certo che ne facciano Carta straccia.
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Primo piano
Un rapporto scientifico che fa meditare
Le diseguaglianze sociali sono causa determinante di malattie Gli abitanti della collina torinese hanno una aspettativa di vita superiore (82,1) a chi vive alle Vallette ( 77,8) di Diego Novelli
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a sorpresa più eclatante riservata dal voto amministrativo di giugno nella città di Torino, a quanto risulta dai commentatori più qualificati dell’ampio specchio politico, sarebbe stata provocata dalla forte perdita di consensi del sindaco Piero Fassino nei quartieri dell’estrema periferia (Vallette, Falchera, Mirafiori Sud) e nei rioni popolari (Barriera di Milano, Borgo Vittoria, Borgo San Paolo, Vanchiglia) un tempo roccaforti della sinistra. Lo stupore di questo risultato è stato accentuato dalla speculare affermazione positiva registrata dallo sconfitto nel centro storico non più “refugium peccatorum” degli emarginati come accadeva sino a 25 anni fa nel Quadrilatero romano, così come nella verde Collina oggi abitati dalla media e alta borghesia torinese. Come è mai possibile che i benestanti votino per gli eredi del pensiero solidaristico del socialismo marxiano o del cristianesimo sociale, mentre le fasce più deboli, un tempo chiamate proletarie, usano al rovescio l’arma che la democrazia offre loro, per contestare la precaria condizione in cui vivono? Il tutto mischiato in una grande marmellata dai sapori equivoci, comprendente
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cure”, dell’Ordine dei Medici subalpini. Si tratta di un secondo rapporto su “L’equità nella salute in Italia”, pubblicato da Franco Angeli con il contributo della Fondazione Smith Klean, una istituzione indipendente costituitasi nel 1979, ente morale non profit riconosciuta nel 1982 dal Presidente della Repubblica e nel 1987 dall’Organizzazione Mondiale dalla Sanità (Oms). Il professor Giuseppe Costa ci spiega che “il libro bianco” (un tomo di oltre 500 pagine) sulla diseguaglianza di salute in Italia Il professor Giuseppe Costa, epidemiologo mette ordine in un unico perdell’Università di Torino corso logico ad alcuni saggi che raccogliendo le principali conostalgici fascisti (Casa Pound), populinoscenze scientifiche, attualmente dismo, razzismo, leghismo (Salvini e Borsponibili a livello nazionale, regionale, ghezio), con giovani e non, vogliosi di locale, rivelano quale sia il potenziale un non meglio definito cambiamento, di salute che si può guadagnare controlcomunque dai connotati non reazionalando la diseguaglianza di salute, quali ri. siano i principali punti di ingresso atIn un rapido commento al voto scrittraverso cui queste possono essere conto a botta calda per la versione online trastate e infine quali siano le politiche di Nuovasocietà la notte stessa dello e gli interventi che meriterebbero di esscrutinio, mi sono permesso di portasere ricalibrati per ottenere tali risultati. re a conoscenza dei nostri lettori una Da queste fonti risulta che diseguaricerca scientifica curata dal professore glianza sociali nella mortalità a favore Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Udelle categorie più avvantaggiate sono niversità di Torino, coordinatore della presenti in tutti i Paesi europei. L’inten“Commissione Solidarietà Nazionale e sità delle diseguaglianze di salute varia Internazionale equità dell’accesso alle
Reddito e beni disponibili
Primo piano
Una veduta dalla Mole Antonelliana sulla Collina torinese, dove ville e appartamenti della media e alta borghesia si intervallano ai numerosi spazi verdi
geograficamente passando da un effetto di media intensità nei Paesi dell’Europa nordica e occidentale, ad uno di minore intensità tra i Paesi mediterranei, ad uno decisamente più intenso nei Paesi centro orientali di nuova adesione. L’illustre epidemiologo sostiene sulla base di dati scienfici che «in Italia si osservano diseguaglianze sociali nella salute a sfavore dei più svantaggiati che riguardano tutte le dimensioni di salute - l’incidenza (ammalarsi), la prevalenza (rimanere nello stato di malattia), la letalità (morire a causa della malattia) – e tutte le dimensioni della posizione sociale, sia quelle di carattere relazionale centrate sulla capacità di controllo delle risorse disponibili (classe sociale e credenziali educative), sia quelle di carattere distributivo delle risorse stesse, come reddito e beni posseduti». In tempi non sospetti, quando i politologi senza distinzione tra dilettanti e professionisti si accanivano a fare sondaggi elettorali pronosticando per Fassino un successo al primo turno, al massimo una sicura, netta vittoria al ballottaggio un cronista di razza, Riccardo Staglianò, si appassionava su “Il Venerdì di Repubblica” a compilare una classifica sulle aspettative di vita tra gli abitanti della Collina torinese e quelli delle Vallette. Il lettore di questa nota si domanderà: “Che c’entra con il discorso che vai conducendo?” C’entra! C’entra! Scrive Staglianò: “Chi nasce nella zona precollinare di Torino ha un’aspettativa di vita di quasi quattro anni superiore (82,1) da chi viene al mondo
nella Circoscrizione operaia delle Vallette (77,8)”. Sino a qualche anno fa i due antipodi erano collegati da una linea tramviaria che in 45 minuti ti portava da piazza Hermada (collina) alle Vallette, dove la toponomastica porta nomi delicati come viale dei Mughetti, delle Pervinche, dei Gladioli. Ad osservare questa distinzione riguardante le aspettative di vita calcolate su mortalità per età e per quartiere di residenza è sempre lo studioso della scienza medica, il curatore del citato rapporto, il professor Giuseppe Costa con il quale hanno collaborato Maurizio Bassi, Gian Franco Gensini, Michele Marra, Anna Lisa Nicelli, Nicolas Zengarini.
Le Vallette definite tempo fa con molta efficacia dallo storico Marco Revelli “il cuore carnoso di una città metallica” vennero progettate negli anni Sessanta e destinate in grandissima parte a lavoratori richiamati dal sud dalla Fiat che assicurò loro un lavoro, ma non una residenza per vivere con la famiglia. Provvide l’edilizia pubblica (le case Gescal) e per l’urbanistica primaria e secondaria (strade, illuminazione, fognature, scuole, asili, mercati, cioè i servizi alla persona) le spese gravarono totalmente sul Comune. Fu alle Vallette che è stata sperimentata per la prima volta l’idea del “tempo pieno” scolastico, come quella dei Consultori che si sono poi diffusi nel resto d’Italia. «Un vero e pro-
L’edilizia popolare del quartiere Vallette, sorta negli anni Sessanta durante il boom della Fiat che richiamava masse di lavoratori dal Sud
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Primo piano prio laboratori sociale» scrive Staglianò. La crisi economica che ha investito il mondo nel primo decennio del nuovo Millenio ha picchiato duro sulle fasce più deboli, con un aumento dei senza lavoro, soprattutto tra le generazioni al di sotto dei 30 anni e delle donne. La brutalità del Capitalismo finanziario ha accentuato in modo mastodontico le differenze tra ricchezza e povertà, quando non si arriva alla miseria vera e propria. In questo quadro reale la questione salute assume un rilievo di notevole importanza. «Se si aumentano i livelli di dettaglio – sostiene ancora il professor Costa – tra i più sfortunati la differenza si accentua all’interno degli stessi quartieri dove in alcuni casi la durata media di esistenza è più breve di sette anni». Ciò dimostra che la vita, a differenza di come cantava Renzo Arbore (“E’ tutta un quiz”), è più che mai una questione di classe come la scienza dimostra in questo “Secondo rapporto sulle diseguaglianze sociali in sanità”.
Un tram che segnava l’esistenza
Le Vallette 77,8
Borgo Vittoria Cit Turin
78,2
Parella
Crocetta Borgo S. Paolo
79,4 Centro
San Salvario
Piazza Hermada 82,1
Mirafiori Sud
La linea 3 che un tempo attraversava la città da Piazza Hermada, nel precollina, al quartiere Vallette, periferia nord di Torino. Un tragitto fatto anche di vite, che sembra dividere in due la città. A sinistra, il voto dell’ultimo ballottaggio semplificato in zone: Fassino vince in centro e collina, Appendino trionfa nei rioni più popolari
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Opinioni
Senza nostalgia...
Dieci tesi per una politica della prossimità di Marco Albeltaro
M
olte analisi si sono affollate nei giorni successivi alle elezioni amministrative di Torino. Non volendo aggiungere un’altra voce al coro, mi limito a una riflessione ad alta voce, divisa per tesi, su alcune possibili strade che la sinistra torinese e, forse, non solo essa, potrebbe percorre. Si tratta di un documento aperto, parzialissimo, da integrare, emendare e discutere. Vorrebbe essere, soprattutto, una proposta per iniziare un dibattito.
mente i problemi, fungono da “tampone emotivo” per le ansie che vengono manifestate. Questa ansie non sono affrontate come problema politico ma semplicemente come terreno nel quale coltivare un malcontento che può portare frutti elettorali.
Tesi n u m e ro 3 La fine del Novecento ha concluso l’esperienza pedagogica della politica. Nessuna forza politica, oggi, si pone l’obiettivo di educare la popolazione, fornendo gli strumenti per riconoscere il proprio presente, per leggerlo, comprenderlo e criticarlo.
Tesi numero 1
Tesi numero 4
L’esito delle elezioni amministrative di Torino ci consegna uno scenario dal quale emerge che le forze progressiste ottengono un consenso significativo soltanto fra la cosiddetta borghesia riflessiva. Questo elemento introduce un problema di classe che a lungo si è sottovalutato. Gli strati più poveri e meno istruiti della popolazione fanno riferimento a forze politiche di protesta.
La politica si limita ad assecondare le paure delle persone, senza indagarne le cause. La raccolta delle istanze non è più uno strumento sociologico ma semplicemente un esercizio compilatorio da sfruttare per costruire programmi in cui i problemi vengono assecondati e non affrontati e risolti.
Tesi numero 2 Le forze politiche di protesta svolgono la loro azione politica e di propaganda alimentando le paure degli strati più in difficoltà, per poi fornire loro delle risposte che, pur non affrontando concreta-
Tesi numero 5 Senza alcuna nostalgia per schemi politici del passato, è però necessario riaffermare fra i compiti della politica quello di interpretare e non soltanto di assecondare i bisogni indipendentemente Nelle elezioni amministrative dello scorso giugno le forze progressiste hanno ottenuto consenso significativo solo nella dalla loro reale portata. La borghesia riflessiva, segnando un notevole stacco dagli strati più decostruzione delle ansie e poveri e meno istruiti della popolazione delle paure deve essere prati-
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Opinioni
...per costruire un soggetto nuovo
cata in modo attento e partecipato.
Tesi numero 8
Tesi numero 10
Tesi numero 6 Il distacco fra politica e strati più marginalizzati della popolazione è l’esito estremo della fine della politica di prossimità: la frammentazione individualista ha prodotto una politica che si rivolge al singolo e non ai gruppi, una politica che si occupa di elettori e non di cittadini, una politica che considera le persone come soggetti portatori di voti e non di bisogni.
È necessario fare politica nelle periferie raccogliendo bisogni e richieste. Ma una forza politica non può non sottoporre questi bisogni e queste richieste a una indagine critica. Non tutto ciò che viene chiesto è giusto, non tutto ciò che si vuole è utile, non tutte le paure sono reali. Se la politica non si fa carico di decostruire i bisogni e le ansie indotti non ha ragione di esistere. Ma questa decostruzione non deve diventare un alibi per l’immobilismo.
Tesi numero 7
Tesi numero 9
La politica in una città deve rapportarsi ai cittadini con strumenti nuovi che facciano della partecipazione permanente il principale momento di costruzione di programmi e di progetti, ma deve essere anche capace di fare “la sintesi” dei bisogni, senza inserirli in una galassia puntiforme di richieste e di soluzioni che finiscono, spesso, per essere in contraddizione le une con le altre.
Politiche di sinistra e politica di prossimità devono fondersi in un unico nuovo progetto che si ponga come obiettivo la ricostruzione di un soggetto capace di riconnettersi sentimentalmente con la città, di costruire proposte, di individuare strumenti per realizzarle e di andare ad inserirsi dove si sono creati dei vuoti e dove la demagogia ha occupato un terreno che sarebbe stato naturale appannaggio della sinistra.
Cinque anni sono lunghi ma per ricostruire una sinistra di prossimità non sono molti. È necessario partire da alcune realtà già esistenti, come le energie raccolte attorno a formazioni come “Progetto Torino”, per realizzare una vera inchiesta nelle sacche di bisogno e di malcontento presenti in città. Questa inchiesta deve avere come obiettivo raccogliere i bisogni, analizzarli scientificamente, discuterli in modo partecipato con chi ne è portatore, decostruendo, laddove esistano, quelli indotti, dando corpo, infine, a percorsi concreti di soluzione. Ciò a cui si deve tendere è la costruzione di una politica di prossimità nella quale, attraverso strumenti di partecipazione, si ritorni a conoscersi e a riconoscersi. Soltanto attraverso la prossimità con quello che percepiamo come altro da noi, è possibile lasciarsi alle spalle quegli steccati e quelle divisioni che fomentano la paura e aprire nuove strade in grado di riunire ciò che ora si è spezzato.
I risultati definitivi del ballottaggio del 19 giugno scorso che ha decretato la vittoria del Movimento Cinque Stelle sul Partito Democratico annunciati dal profilo Twitter del Comune di Torino
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Politica
Renzismo e antirenzismo
Si apre una nuova fase politica? In discussione i vecchi equilibri all’interno del Pd di Giorgio Merlo
A
vremo modo e tempo di commentare, interpretare e comprendere il significato politico del voto del 5 e del 19 giugno nelle principali città italiane. Un voto che ha modificato lo scenario politico italiano e che può innescare un processo sino ad
indubbio che in questa campagna elettorale più volte si è sentito ripetere lo stesso slogan. E cioè, si rischia un “voto contro il Pd e contro il suo leader”, cioè il segretario nazionale e Premier. È inutile nascondere questo aspetto che è risuonato in quasi tutti i Comuni che
Eppure qualcosa si è rotto nel rapporto tra la “narrazione” renziana e la concreta realtà dei fatti. Si ha la sensazione che quello che viene quotidianamente raccontato non viene percepito e condiviso da settori sempre più crescenti della pubblica opinione. Da qui la diva-
Il presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico Matteo Renzi con il suo esecutivo
oggi imprevedibile e inaspettato. Se non tratteggiato dai sondaggisti e da alcuni commentatori dei principali organi di informazione del Paese. Comunque sia, sono almeno tre gli elementi centrali che non possiamo sottovalutare quando si parla di un possibile “nuovo scenario” politico all’orizzonte. Innanzitutto il cosiddetto renzismo. Lo definisco così per abbreviazione. È
si sono recati alle urne e che ha fatto capolino nelle mille iniziative del Partito democratico nella lunga e variegata periferia italiana. Insomma, un renzismo al capolinea? I vertici del Nazareno negano decisamente questa versione liquidando la competizione di giugno come una semplice sequela di sconfitte locali – tante per la verità – e di vittorie – pochissime, tra l’altro – altrettanto locali.
ricazione crescente tra la proposta che si avanza e il consenso che si riscuote. In questa contraddizione, forse, si annida un elemento decisivo che ha portato alla pesante sconfitta dei candidati Pd ai vari ballottaggi. In secondo luogo la natura di questa competizione politica. Cioè i ballottaggi. L’ha detto chiaramente il candidato a Sindaco sconfitto a Torino, Piero
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Politica
Fassino. E cioè, in un contesto tripolare quando due poli convergono il terzo inesorabilmente perde. È talmente banale il ragionamento che si fa fatica a comprendere come la maggioranza del Pd abbia potuto approvare un sistema elettorale per eleggere i futuri deputati, l’Italicum appunto, che prevede il ballottaggio tra le prime due liste di partito che non hanno raggiunto il 40% dei consensi negando alla radice ogni ipotesi di coalizione. E, di conseguenza, negando il premio di coalizione che è sempre stata una costante del sistema politico italiano dal secondo dopoguerra in poi. Ora, è noto che il ballottaggio è la regola per l’elezione dei sindaci nelle città al di sopra dei 15 mila abitanti se non si vince al primo turno. E, quindi, se nessuno raggiunge il 50% al primo turno si ricorre a quello strumento. Ma prevedere, e qui sta l’anomalia, che il sistema elettorale per le politiche debba prevedere anche il ballottaggio tra singoli partiti rischia di diventare fatale per una eventuale vittoria del Pd. Ma anche qui non possiamo trascurare un elemento politico di non secondaria importanza. E cioè, l’isolamento politico del Partito democratico. Un isolamento, e una avversione, che hanno fatto convergere partiti che si collocano su fronti opposti ma che si alleano, seppur silenziosamente, “contro” qualcuno, cioè nel caso specifico il Pd. Un isolamento politico che, però, può avere effetti duraturi e lunghi se non cambia la rotta politica del Pd e del suo gruppo di comando. Una guida che, seppur recuperando giustamente la cosiddetta “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria predicata all’inizio dell’esperienza del Pd, si è poi trasformata progressivamente in una solitudine disprezzando
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Un contesto politico tripolare
e ridicolizzando tutti gli avversari. E, quindi, nella sconfitta ai vari ballottaggi nei Comuni che si sono recati al voto il 19 giugno scorso. In ultimo, ma non per ordine di importanza, il “sistema” che il Pd da varie parti e in forme diverse ha rappresentato e costruito nei territori e che è stato, in alcune realtà, il vero elemento da battere. Su tutti svetta il “caso Torino”. Se ne è scritto in migliaia di articoli, addirittura si sono scritti libri al riguardo. Un sistema di potere onnipresente e asfittico – così lo hanno definito tutti gli avversari – o un sistema di relazioni e di condivisione dei problemi come invece lo descrivono da sempre i suoi sostenitori e che però è stato al centro delle polemiche e delle contestazioni? Un sistema di potere, o la “coesione istituzionale”,
a seconda delle varie definizioni, che comunque sia ha condizionato le scelte concrete di molti elettori. E quando si parla di sistema, seppur nella diversità che hanno caratterizzato i vari comuni al voto, il riferimento corre immediatamente al Pd. A Torino – seppur trasparente, credibile e noto a tutti – come a Roma, dove gli intrecci e i collegamenti trasversali hanno assunto aspetti di ben altra natura. Al di là e al di fuori, come ovvio, delle vicende giudiziarie a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi. Ecco, le ragioni della sconfitta del Pd e della vittoria del Movimento 5 stelle alle recenti elezioni comunali sono molteplici e variegate. Fattori locali che si intrecciano con fattori nazionali; eredità negative della classe dirigente al potere mischiate ad una semplice volontà di rinnovamento e di ricambio generazionale; voglia di battere sistemi di potere collaudati portando l’inesperienza e aria fresca ai posti di comando e via discorrendo. Ma, al di là di tutte le valutazioni e i commenti politici che accompagnano da sempre i risultati elettorali, una cosa è chiara a tutti: forse siamo alle porte di una nuova fase della politica italiana. Una fase che può mettere in discussione vecchi equilibri politici e favorire una rapida circolarità della classe dirigente. Purchè il tutto avvenga nel rispetto della democrazia e dei principi che sono scolpiti nella nostra Costituzione. Il resto appartiene solo alla contingenza e al dibattito politico quotidiano.
Chiara Appendino (nella foto in alto) e Virginia Raggi rispettivamente sindaco di Torino e di Roma. Le due donne del Movimento Cinque Stelle hanno sbaragliato al ballottaggio gli avversari del Partito Democratico
Avamposto
Una esperienza amara sull’Eurostar
STORIA DI UN PORTAFOGLI di Angelo d’Orsi
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urostar Torino-Roma delle 7,50. Fa caldo, mi tolgo la giacca e l’appendo al gancio. Dopo la fermata a Milano mi alzo per cercare un posto più tranquillo, infastidito da due signorine che raccontano con voce stentorea le loro vicende amorose, e nell’indossare la giacca mi rendo conto che manca qualcosa: il portafogli. Lo cerco tra le poltrone, sul pavimento, anche quello del corridoio… Nulla. Una gentile addetta di Trenitalia mi aiuta a cercare, senza fortuna. Mi rassegno. A Roma, ho un incontro soltanto alle 16. Non ho in tasca un euro. Gli ultimi
spiccioli li ho spesi per comprare i giornali. Sceso a Termini, provo un senso di smarrimento. Devo andare in hotel, non ho documenti, non ho denaro. Mi sovviene di aver tempo fa scansionato la carta di identità. Il portiere dell’albergo è gentile, e riesco a trovare la scansione del documento sul mio portatile. Il mio appuntamento è piazza del Parlamento. Mi incammino, sotto un cielo che di tanto in tanto lascia cadere gocce di pioggia. Ho fame. Mi rendo conto di non potermi concedere neppure un trancio di pizza in piedi. Incrocio burberi poliziotti: abbasso lo sguardo, non
sia mai che gli venga in mente di chiedermi i documenti. Nel portafogli avevo tutto, oltre al denaro. E improvvisamente tocco con mano che cosa voglia dire essere indigente. Anzi, essere un “sans papiers”. Rifletto che si tratta della tipica situazione di un migrante dall’Africa o dal Medio Oriente. La sola differenza è il mio aspetto, di uomo bianco e “ben vestito”. Capisco che ciò che dà l’identi-
I militari dell’esercito presidiano l’ingresso e i binari della stazione di Roma Termini
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Avamposto tà a una persona, nel nostro mondo, è il portafogli: documenti amministrativi e carte di credito: senza, non esisti. Con questi pensieri cerco di arrivare all’ora dell’appuntamento, sopravvivendo ai morsi della fame, mentre percorro chilometri a piedi. Ricupero del contante da un’amica e rimedio la giornata. L’indomani ho un seminario che mi tiene occupato. Finalmente il giorno dopo, mi reco a Termini per denunciare il furto. Termini, nel solito caos, aggravato da lavori di “ammodernamento”, è percorsa da pattuglie di soldati con fucile mitragliatore alla mano (non in spalla, proprio alla mano). Chiedo a un soldatino dove sia il posto di polizia: non lo sa. Mi guardo intorno, cercando insegne, che non trovo. Incrocio un addetto alla sicurezza della stazione, il quale mi informa che il posto di polizia è ubicato al binario 1. Mi incammino, ma lungo il tragitto mi imbatto in una vetrina: ”Trenitalia. Assistenza alla clientela”. Rincuorato entro, e mi rivolgo all’impiegata allo sportello, spiegando il mio problema. Mi conferma l’ubicazione del posto di polizia, ma aggiunge che esiste un box al centro della hall, al quale posso rivolgermi; precisando “Non so se gliel’accolgono, la denuncia”. Ringrazio, e visto che sono là chiedo dove si trovi l’ufficio “Oggetti rinvenuti”: mi fa un dolce sorriso di compatimento (quello che si rivolge ai vecchi da rottamare): “Non esiste più”. Resto basito, ma non commento, e ritorno indietro alla ricerca del box di polizia. Lo trovo: è una specie di kaaba di acciaio, con delle agghiaccianti porte a specchio. Sembra tratta da un racconto di fantascienza un po’ rétro, diciamo anni Cinquanta. Individuo una maniglia, provo a spingere: niente. Busso, con le nocche della mano (non vedo pulsanti). Silenzio. Il box è sigillato. Rinuncio e mi avvio verso il binario 1. Ripasso davanti all’inutile ufficio di Trenitalia, e cammino, cammino, cammino. Il marciapiede del binario 1 è scarsamente illuminato, e i suoni e le luci della stazione sono alle mie spalle.
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Soldati con i mitra con polizia “disarmante” Spingo lo sguardo avanti, ma non colgo segnali che mi dicano della presenza dello Stato. Incrocio un nugolo di agenti che passeggiano, e chiedo informazioni: ”Avanti, vada avanti…”, mi sento rispondere. Infine, arrivo: vedo una insegna su di una porta sbarrata. Suono il citofono. Nessuna risposta. Al terzo tentativo, una poliziotta dall’accentuata pronuncia romana, mi risponde:
zio blocco carte. Grazie. Non gli dico che ovviamente quel numero con tutti gli altri numeri utili ce l’ho. E mi invita recarmi l’indomani alla più vicina stazione dei carabinieri (”pensavo fosse questa la più vicina…”, provo a mormorare, ma non raccoglie). L’indomani ho il treno del ritorno. Rinuncio a sporgere denuncia. Intanto, mentre mi dirigo all’uscita, medito. Ma
Uno dei punti di accoglienza Trenitalia situato nelle stazioni
“Sì, chi è?” – “Vorrei sporgere denuncia” (non spiego che tipo di denuncia). “Non possiamo. Provi coi carabinieri, più avanti”. Fine della conversazione. Riprendo la mia stanca marcia, sempre più scoraggiata. I carabinieri sono collocati al termine del marciapiede. Stessa scena. Suono. Stavolta la risposta è sollecita. Spiego, alla domanda “Di che si tratta?”. Una voce impacciata mi informa che “non è possibile”. Davanti alla mia rimostranza, mi dice di aspettare che viene fuori “e vediamo che si può fare”. In effetti arriva, e chiudendo la porta alle sue spalle mi informa che sono impossibilitati a ricevere la denuncia “perché abbiamo un fermo”. La spiegazione mi lascia di stucco. Il carabiniere, gentile, mi passa, come un prezioso reperto, un pezzetto di carta strappato (due centimetri per dieci), con un numero di telefono. È il servi-
se una persona deve denunciare un fatto più grave del furto di un portafogli? Se viene aggredita? Eccomi di nuovo nella hall della stazione, brulicante di individui. Piccoli gruppi, colonne di scolari in gita, famiglie stracariche di valige, uomini d’affari con la ventiquattr’ore, frettolosi viaggiatori, vengono attraversati dai manipoli di soldati con i loro grossi mitra. Ora so che tutto questo è apparenza. Quei ragazzi in divisa, che imbracciano armi che non sono affatto certo siano in grado di controllare, non mi danno alcuna sicurezza. Non è del resto il ruolo che loro deve competere. E chi invece dovrebbe garantirla, questa sicurezza, le forze di polizia, restano inaccessibili ai cittadini. Come sempre, in questo Paese, la politica si fonda sull’emergenza. Ma non è in grado di gestire l’ordinario.
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Internazionale
Costi elevati e rischi ambientali
DIGHE CONTESTATE
Secondo un rapporto della Oxford University tre progetti su quattro hanno sforato le previsioni di spesa del 96%. Solo il nucleare è riuscito a fare peggio di Riccardo Graziano
N
on sempre energia rinnovabile è sinonimo di produzione sostenibile. Intendiamoci, le fonti rinnovabili sono sempre preferibili a quelle fossili, che comportano l’emissione di anidride carbonica e il conseguente “effetto serra” che surriscalda il pianeta e contribuisce ai cambiamenti
di paesaggi di particolare pregio, o dei problemi di smaltimento dei pannelli solari esausti. Ma, soprattutto, le problematiche maggiori si riscontrano sull’idroelettrico, in particolare riguardo ai mega-progetti che sono stati messi in cantiere negli ultimi anni, anche se, in realtà, una diga ha sempre un certo
un tempo asciutte, siano esse prati da pascolo, pendici montuose friabili o zone abitate. Maggiore è la portata della diga, più è rilevante il problema. Basta pensare al Colorado, fiume impetuoso e formidabile, capace di scavare il Grand Canyon, che oggi muore insabbiato nel deserto del Messico, senza più la forza
I lavori ora sospesi della diga di El Quinbo, in Colombia
climatici in atto. Tuttavia, alle volte anche l’energia “verde” presenta qualche zona grigia. È il caso delle gigantesche pale eoliche che spesso cambiano la fisionomia
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impatto sul corso d’acqua e sul territorio circostante, perché interrompe il flusso del fiume con una cesura che ne altera i normali processi biologici, mentre comporta l’allagamento di zone
di sfociare in mare, a causa dei poderosi sbarramenti della Glen Canyon Dam e della Hoover Dam, quest’ultima costruita per garantire acqua ed elettricità a Las Vegas, energivora metropoli nel
A rischio il 30% dei pesci di acqua dolce cuore del deserto del Nevada. Discorso simile per la diga di Assuan, che ha tranciato il corso del Nilo, impedendo i periodici straripamenti che portavano il limo, sedimento ricco di minerali in grado di fertilizzare in modo naturale e a costo zero la fascia agricola situata lungo le sponde e nella zona del delta e costringendo a compiere un’impresa faraonica (letteralmente!) per porre in salvo il tempio di Abu Simbel, destinato a venire sommerso dal lago Nasser. Quanto all’Italia, è emblematico il caso del Vajont, tragica diga costruita dove non si doveva, con le catastrofiche conseguenze che ricordiamo. Ma è negli ultimi anni che la tendenza a costruire impianti sempre più colossali ha pericolosamente ampliato il problema, rendendolo di portata planetaria,
Internazionale
nuncia di Greenpeace - che implicano l’allagamento di estese aree forestali e il conseguente degrado di ingenti quantità di sostanza organica, provocano il rilascio di metano, un gas serra molto più potente della CO2. Inoltre, proprio a causa dei cambiamenti climatici, è previsto che la portata dei fiumi della regione amazzonica subirà drastiche riduzioni, mettendo a rischio il raggiungimento della capacità produttiva sperata. Il 40 per cento della nuova capacità proposta, peraltro, non sarebbe necessaria se il governo decidesse di optare per l’efficienza energetica». In effetti, gli studi sulle mega-dighe costruite negli ultimi anni comprovano le previsioni dell’organizzazione ambientalista: gli esperti che hanno analizzato gli impianti già esistenti hanno potuto verificare come i promotori di queste
impianti per procurarsi l’energia destinata a sostenere la crescita industriale. Attualmente, il progetto relativo al fiume Tapajos è stato congelato per l’intervento del FUNAI, l’Agenzia del governo brasiliano che si occupa delle questioni indigene, ma la faccenda non può dirsi risolta, dal momento che, prosegue Greenpeace: «Lo stesso iter ha portato prima alla sospensione e poi all’esecuzione della devastante diga di Belo Monte, sempre in Amazzonia: un disastro ambientale e umanitario di dimensioni impressionanti dietro il quale si celano corruzione e tangenti adesso oggetto di processi in Brasile». Fortunatamente, l’Enel si è ritirata dal consorzio di imprese che insistono sul progetto, ma anche il colosso energetico italiano non è esente da pratiche di questo tipo: è il caso dell’impianto realizzato dalla controllata Green Power a Palo Viejo, in Guatemala, nonostante la strenua opposizione della popolazione autoctona maya, sfociata in numerose manifestazioni represse duramente dal Governo. Vicenda analoga in Colombia, dove Enel è coinvolta nel contestatissimo progetto di El Quimbo, dove le comunità locali sono riuscite a ottenere il parere favorevole della Corte costituzionale di Bogotà, che ha bloccato i lavori. Se ai bilanci economici negativi e ai drammi sociali delle popolazioni coinvolte aggiungiamo le ricadute ambientali, il quadro diventa disastroso. Abbiamo già detto del mancato afflusso di sedimenti fertili utili all’agricoltura, ma anche i cicli riproduttivi delle specie ittiche ne risentono pesantemente, Dal Guatemala al Cile, dall’Amazonia all’Uruguay: il Sud America è vittima della speculazione tanto che si ipotizza la perdita di delle multinazionali un terzo dei pesci di acqua dolce, tanto che si moltiplicano gli allarmi opere tendono a enfatizzare benefici se tutti i progetti attualmente previsti in di molti ricercatori che evidenziano la economici che poi si rivelano inferiori Asia, Africa e Sudamerica venissero reanecessità di bloccare la realizzazione alle attese, quando non addirittura ne- lizzati, con un impatto devastante sulla di nuove mega-dighe, in quanto dan- gativi. Un rapporto della Oxford Uni- pesca e sull’alimentazione locale. nose dal punto di vista ambientale e versity che ha preso in esame le rese Non è un caso dunque se l’Uruguay, il non convenienti sul piano economico. economiche di 245 dighe realizzate fra Paese più avanzato nel campo delle rinIn particolare, il rapporto “Amazzonia il 1934 e il 2007 in 65 Stati evidenzia novabili, dove lo scorso 9 maggio si è sbarrata” di Greenpeace rivela «un mega come tre quarti di esse abbia sforato le arrivati a coprire con l’energia verde il progetto di oltre 40 dighe che portereb- previsioni di spesa in media del 96 per 100% del fabbisogno nazionale, sta grabe all’allagamento di un’estesa area della cento. Nel settore delle infrastrutture, dualmente sostituendo l’energia idroeForesta amazzonica, all’inondazione di solo il nucleare è riuscito a fare peg- lettrica con quella eolica. In tal modo, villaggi e territori». Oltre all’impatto gio, con sforamenti di budget superiori l’Uruguay compensa anche il calo di sociale sulle popolazioni costrette ad al 200%. Queste spese fuori controllo produzione dovuto alla diminuzione abbandonare le proprie abitazioni, sus- hanno spesso contribuito a peggiorare delle portate fluviali, effetto della siccità sistono problemi ambientali rilevanti: i bilanci dei cosiddetti “Paesi in via di crescente determinata dai mutamenti «Questi megaprogetti – prosegue la de- sviluppo” che avevano puntato su tali climatici in atto.
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Inchieste
SVUOTARE LE CARCERI CONVIENE I detenuti in Italia in via definitiva sono 34.519 e 20.000 di questi potrebbero essere oggetto di misure alternative ma mancano fondi e gli iter burocratici sono troppo lenti di Moreno D’Angelo
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i è aperta una nuova stagione di trasformazione del sistema penitenziario. Obiettivo: condurre ad una reale e consistente riduzione della popolazione detenuta. A parlare di svuotamento delle carceri è una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP). Sono sempre più forti le indicazioni che puntano al ricorso a pene alternative alla detenzione nel rispetto di quella giustizia rieducativa indicata dall’articolo 27 delle nostra Costituzione. Il carcere costa troppo, quasi tre miliardi all’anno, e permane il problema del sovraffollamento, nonostante la riduzione registrata in questi anni, (53.495 detenuti a marzo 201 rispetto ai 67.971
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del dicembre 2010), risulta tra il 105 e il 106% (era vicino al 150% nel 2013), secondo quanto emerge dai dati forniti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il ministro ha anche sottolineato come “la recidività” tra i detenuti (56%) sia tra le più alte d’Europa. Una percentuale che si ridimensiona, anche oltre il 30%, tra chi è oggetto di misure alternative e progetti di reinserimento. Ma per favorire il reinserimento sociale di queste persone sono fondamentali adeguati percorsi formativi, opportunità lavorative e stanziamenti che latitano su un problema che molto spesso è stato di fatto ignorato mentre si parla tanto di sicurezza e da molte parti si invoca la “tolleranza zero” verso chi ha
sbagliato trattandolo come un rifiuto umano da isolare e incattivire. Non ci si occupa di quanto si vive dentro le celle figuriamoci di chi deve uscire e del suo reinserimento, per poi sorprendersi del fenomeno dei recidivi. In Italia la gran parte delle pene si sconta dentro i pochi metri di una cella mentre nel resto di Europa sono tanti i detenuti che, ritenuti come una risorsa, lavorano all’esterno con una notevole riduzione dei costi a tutti i livelli. In Italia calano i detenuti e anche i reati. Secondo quanto riportato nell’ultimo Rapporto dell’associazione Antigone, che fotografa ogni anno le problematiche del mondo carcerario, la crisi economica non ha prodotto un aumento
Inchieste della criminalità e non sussiste legame tra tassi di detenzione e quelli di delittuosità. Una considerazione che smentisce i tanti che animati da pulsioni giustizialiste continuano a proclamare: “Più criminali in carcere e meno delitti fuori”. Il quadro che emerge tra i 34.519 detenuti condannati in via definitiva dà respiro a questi nuovi approcci. Gran parte ha pene residue da scontare inferiori a tre anni, mentre è alta la percentuale dei tossicodipendenti (25%) e extracomunitari (33,45%), come quella dei detenuti in attesa di giudizio (34,6% del totale, rispetto a una media europea del 20,4%). Un contesto valido per l’applicazione di concrete misure che portino a un graduale svuotamento delle carceri. Si stima che siano circa 25.000 i detenuti potenziali fruitori di misure alternative e di questi circa 20.000 potrebbero accedere alle misure dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare. Per rendere più vivibile il contesto penitenziario, che resta oggetto di sovraffollamento, servono corsi di formazione professionale e progetti di reinserimento che per ora viaggiano sulla sporadica disponibilità di alcune regioni e sulle iniziative del Terzo settore e del volontariato di giustizia. Su questo fronte in Piemonte è da tempo attivo il Crvg (Coordinamento Regionale volontariato di Giustizia) che riunisce una quindicina di associazioni attive nelle carceri, nei Cie e in altre situazioni difficili. «Il nostro – precisa il presidente Renato Dutto - non è un volontariato compassionevole o sostitutivo ma qualificato e specialistico che interviene e dialoga con le istituzioni, promuovendo corsi e iniziative tese a un reale reinserimento sociale. Questo ponendo anche attenzione a quel delicato momento in cui il detenuto finisce la pena e può sentirsi solo e allo sbando, facile preda per il mondo dell’illegalità. Tutto questo a costo zero». Per andare oltre ai bei propositi dei convegni servono fondi e il coinvolgimento attivo di diversi soggetti. Su questo fronte a Torino un gruppo di professionisti ha già programmato un lavoro condiviso per dare continuità a modelli possibili ed attuabili,sin da subito, all’interno dei penitenziari piemontesi.
"I detenuti vogliono lavorare" Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Monica Cristina Gallo di M.D.A Quali sono dal suo osservatorio privilegiato le principali istanze che riscontra oggi nel mondo carcerario? Due i temi fondamentali: lavoro e salute. Insomma i detenuti indipendentemente dalla durata della pena, chiedono di lavorare. Come è articolato il lavoro dentro il carcere? Si tratta di quelle mansioni che ancor oggi vengono denominate spesino, scopino, porta vitto, piantone e scrivano e che impegnano i detenuti inseriti in una graduatoria a rotazione. Sono mansioni per le quali la retribuzione non viene aggiornata dal 1993 e la paga oraria si aggira sui 2.50 euro l’ora. Con l’aumento delle spese di mantenimento dello scorso settembre a 108.6 euro al mese, il detenuto lavorante percepisce mensilmente una cifra irrisoria. Vi sono poi le problematiche legate alla salute? La popolazione detenuta ha un elevato numero di persone in gravi condizioni di salute. Il complesso quadro è aggravato dalla mancanza di numerosi specialisti con detenuti costretti ad attendere mesi per ottenere una visita dall’oculista, dall’otorinolaringoiatra, dall’ortopedico, dal cardiologo. Tutte figure che in carcere da parecchi mesi non sono presenti. Altri problemi che emergono dalle richieste dei detenuti a Torino? Vi sono lamentele per le condizioni strutturali dell’Istituto. Un carcere che dopo trent’anni presenta ormai molti problemi. In alcune celle piove all’interno, malgrado gli interventi fatti di recente i bagni di diverse sezioni sono fatiscenti e la mancanza di spazi comuni obbliga i detenuti a fare socialità nelle proprie celle. In una realtà come Torino quali sono le intese con enti locali e sociali che possono assicurare lavoro e aiuto ai detenuti che escono dal carcere? Come ufficio Garante orientiamo gli ex detenuti verso le uniche due realtà che si occupano di reinserimenti: lo Sportello Carcere del Centro per l’Impiego e il progetto Logos dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo. Negli anni passati lo Sportello Carcere svolgeva un lavoro capillare captando le emergenze già all’interno dell’Istituto. C’è un grande sforzo del volontariato per dare un contributo fattivo che non si limiti alla compassione ma che segua concretamente il discorso del reinserimento sociale... Il mondo del volontariato è una risorsa importantissima che mette in pratica diversificate attività di supporto intramurario e d’accoglienza temporanea a fine pena e durante i permessi premio. Gli appartamenti adibiti a questa funzione non sono però sufficienti e stiamo lavorando per incrementare le unità abitative. C’è anche la necessita di un volontariato “giovane” che sappia guardare al carcere con altri occhi, in grado di contribuire ad una trasformazione culturale capace di mettere in atto modalità innovative di ascolto dei bisogni.
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Interviste
Parla il direttore del carcere di Torino
Domenico Minervini: "Rivoluzionare il concetto di espiazione" di Moreno D’Angelo
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a le idee molto chiare Domenico Minervini, direttore del carcere Lorusso e Cotugno di Torino, su come dovrebbero strutturarsi luoghi di pena e percorsi detentivi. Una trasformazione che passa attraverso un ricorso sempre più ampio al lavoro esterno e a concreti progetti di formazione. Per questo crede fortemente nella messa in prova, sfidando pulsioni sociali che vedono il carcere solo come un luogo punitivo e non rieducativo. Da dove parte la rivoluzione che lei auspica?
biamento del concetto di espiazione della pena? Due anni fa, quando abbiamo iniziato ad aprire le sezioni detentive, percepivo un diffuso senso di scetticismo intorno. Ora le dico che non basta solo aprire le sezioni ma occorre andare oltre.
cella deve essere solo come un pernottamento. E possibilmente essere impiegati fuori dal carcere, certo con tutte le dovute garanzie. I percorsi di reinserimento sociale incidono sulla recidività? Sì molto. Abbiamo calcolato che la reiterazione dei reati scende di oltre il 30%. Crede alle esperienze dei percorsi attuati in nord Europa? Credo nel cambiamento che passa da percorsi di rieducazione strutturati ed esperienze di lavoro esterno come la semilibertà. Un processo che coinvolge società civile, enti locali e amministrazioni.
I detenuti devono uscire ed essere messi alla prova. Occorre trasmettere Il direttore della casa circondariale di Torino Domenico Minervini e coinvolgere tutti in questa Cosa ha favorito grande trasforquesto processo mazione culturale del carcere per la Cosa intende con andare oltre? di apertura? quale non basta aprire le sezioni. I detenuti non devono stare in cella e Sicuramente i rischi legati alle pesanti Come si è sviluppato questo proces- devono passare più tempo impiegati in sanzioni derivanti dalle sentenze comso che punta su un profondo cam- attività culturali, sportive e di lavoro. La minate dalla Corte Europea sulla que-
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Detenuti impegnati nella pulizia della città stione del sovraffollamento delle carceri italiane, che hanno spinto l’applicazione di nuove filosofie e stimolato il ricorso a forme di pena alternative. Come si conciliano queste esigenze con la carenza di fondi? Tra le note dolenti riscontriamo la carenza di due figure fondamentali nei percorsi di reinserimento come i mediatori culturali e gli psicologi. I progressivi tagli dei fondi costringono queste figure ad operare appoggiandosi esclusivamente a progetti. Quali altre indicazioni le sembrano utili? Nel sottolineare che è fondamentale non superare la soglia del 117% di sovraffollamento, voglio precisare come questo processo di apertura e trasformazione del carcere passi anche attraverso un miglioramento degli spazi di detenzione. Gli ambienti sono importanti e
per questo abbiamo effettuato e stiamo portando avanti opere di abbellimento con tinteggiature e interventi che coinvolgano anche i nostri sei cortili. Aree di condivisione che da alienanti e tristi spazi grigi in cemento possono diventare campetti di calcetto in sintetico. Quanti detenuti sono coinvolti nelle attività formative, sportive e culturali? Circa 700 su oltre 1000. Purtroppo tutte queste iniziative sono vincolate al fattore numerico. Se la popolazione carceraria continua a crescere è molto difficile mantenere attività e progetti funzionali ad un reale reinserimento. Per tutto questo sottolineo l’importanza del ruolo del personale che in gran parte è costituito dalla polizia penitenziaria. Senza il loro coinvolgimento non si va da nessuna parte. E per quanto riguarda il lavoro esterno?
Interviste Dalla fine di luglio un gruppo di una trentina di detenuti affiancherà gli operatori dell’Amiat in interventi di pulizia dei giardini della città. Un’opera che dopo una iniziale diffidenza è stata molto apprezzata dalla cittadinanza. Le esperienze di inserimento al lavoro in corso di pena coinvolgono una cinquantina di detenuti. E mi auguro che, attraverso nuove convenzioni e opportunità, possano aumentare. Cosa la preoccupa riguardo allo sviluppo di questi percorsi di apertura? Tutte le iniziative possono procedere se non si superano delle soglie di affollamento. Oltre le 1300 presenze la situazione si complica e aumentano le criticità sul piano del clima interno che al momento sono molto contenute. Per questo è fondamentale anche il contributo di psicologi e mediatori culturali oltre ovviamente alla preziosa opera dei volontari della giustizia.
Nel carcere torinese si registra un aumento della popolazione dopo un graduale calo. Sono circa 1300 i detenuti
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Solidarietà Quando i servizi sociali funzionano
L'altra vita di Roberto e Piero, fuori dal Cottolengo Accolti nel reparto Angeli Custodi della Piccola Casa della Divina Provvidenza, dopo oltre 30 anni hanno trovato un lavoro e una casa di Caterina Olivetti
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na vita privata come tante. lengo, che doveva essere “riccovero… di nasce Roberto la guerra non è ancora Perfettamente normale. Che a que’ molti miserabili… non ammissibi- finita e la sua mamma, vedova con tre molti può sembrare anche no- li in alcun venerando spedale… che al- figli, non ce la fa a tenere il figlio nato iosa, perché distratti come siamo non ci trimenti potrebbono essere… disturbo da un relazione andata male. Piero inaccorgiamo quasi che questa vita banale della pubblica pace…”. Quando nel ‘45 vece nasce a fine anni ’50 e al paese i ha in sé la meraviglia della libergenitori non possono accudirlo. tà e l’orgoglio dell’autodetermiCosì vengono accolti nel reparnazione. Che comincia con il to Angeli Custodi. Roberto e piacere di farsi il caffè la mattiPierino ricordano i lunghi corna e continua con tante piccole ridoi, le camerate enormi. Nei attività, leggere quel che vuoi, loro grembiulini a righe tutti i farti la spesa, magari un lavoro. giorni i bimbi venivano esposti Il diritto a questa vita è ciò per ai visitatori che lasciavano qualcui Piero e Roberto hanno lotche caramella insieme a qualche tato a lungo con una forza gransorriso. dissima e che hanno conquistaE ricordano il seggiolone. Roto ormai da anni. berto ci resta fino a 6 anni: non Le loro storie, diventate poi una gioca, non parla. storia sola, le hanno raccontate Piero a 3, dal seggiolone si buta Emilia De Rienzo e Claudia ta giù, ce lo rimettono, ma lui De Figueiredo che ne han fatto giù di nuovo. Si sposta rotolanun piccolo grande libro, asciutdo e strappa sempre i pantaloni to e toccante, uscito da Rosenfacendo arrabbiare le suore. Un berg & Sellier nel 2000 e pregiorno il suo papà gli porta un sentato da Maria Grazia Breda, paio di scarpe di cuoio tagliapresidente dell’Ulces. te apposta per lui e comincia a Piero è quel che si dice un pezzo muoversi sulle gambe. La sua d’uomo: una bella testa virile, il famiglia lo accoglie nei fine corpo robusto, ma nella pancia settimana e durante le vacandella sua mamma, la natura si ze: vanno a prenderlo di notte è come distratta e non ha finiquando le strade sono deserte to di scolpire gli arti. Roberto perché nessuno lo veda. A cena, ha tratti fini, regolari, è spastise suona il campanello, lo manco forse per una sofferenza alla dano in camera e nascondono il La statua all’ingresso della Piccola casa della Divina nascita. suo piatto. Finché a 18 anni una Provvidenza, in via Giuseppe Cottolengo La loro vita comincia al Cottosera che il campanello suona e
La meraviglia della libertà e l’orgoglio dell’autodeterminazione lui ancora una volta si deve nascondere, decide che a casa non ci torna più. Ma in questo luogo triste Roberto e Piero fanno anche incontri importanti. Claudia, la suora giovane che quando Roberto ha 7 anni lo toglie dal seggiolone prendendolo in braccio, gli parla, lo coccola, gli mette i primi pantaloncini e lo aiuta a camminare appoggiandosi a una panchetta. E poi suor Candida che a 14 lo incoraggia a fare i primi veri passi senza appoggio. Fratel Ludovico insegna a Piero a vestirsi e a mangiare da solo e gli fa scuola di volontà. Giacomo, francescano che passa le vacanze come volontario al Cottolengo, fa amicizia con Roberto e lo stimola a fare le cose in cui crede e a studiare. Piero e Roberto si conoscono da anni ma diventano amici solo a un certo punto, quando Roberto è isolato per le sue idee rivoluzionarie. Roberto è sempre più critico, non va più a messa, legge tantissimo, decide di continuare a studiare e chiede a Piero di andarci con lui, grazie al servizio taxi appena istituito: a scuola fuori dal Cottolengo, alle Magistrali insieme a tanti altri ragazzi! E’ in questi anni che Roberto e Piero capiscono che possono farcela, che dal Cottolengo se ne possono andare. Ro-
berto ci aveva già provato, facendo domanda al Comune per entrare in una comunità alloggio, ma inutilmente; ora però l’esigenza di Piero e Roberto diventa un argomento di discussione in classe, diventa una mozione al sindaco firmata da tutti gli studenti della scuola in cui si chiede per loro l’assegnazione di una casa popolare. Roberto ha 36 anni e Piero 24 quando a giugno dell’81 la casa finalmente arriva. E il 9 settembre le porte del Cottolengo si chiudono per sempre alle loro spalle. Son passati 35 anni e convivenze analoghe si sono moltiplicate. Maurizio Pia, dirigente del Servizio Disabili al Comune ci dice che alla fine del 2015 erano in funzione 53 comunità alloggio, 29 gruppi appartamento, 40 servizi di autonomia, 5 comunità di tipo familiare e 15 case famiglia, secondo modelli che riproducono il più possibile relazioni e stili di vita familiari. Ma resta ancora molto da fare, soprattutto sull’inserimento professionale. Uscito dal Cottolengo Piero desiderava un’occupazione: ha seguito corsi di informatica e grafica, ha lavorato per un anno in una cooperativa, dove al computer impaginava un giornale, riproduceva libri per ipovedenti ingrandendone
Solidarietà
i caratteri, illustrava libri per bambini e aveva anche un piccolo mensile. Ma poi l’esperienza non ha avuto un seguito. Roberto invece dall’83 è stato prima presidente della sezione torinese della “Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati” e poi dell’associazione “Mai più istituti di assistenza” in difesa dei diritti dei minori ricoverati negli istituti. E’ anche nel comitato di redazione di Prospettive Assistenziali, rivista che dal 1968 è ininterrottamente impegnata contro l’esclusione sociale. Piero e Roberto vivono ancora nello stesso appartamento al primo piano nel tranquillo lembo di città compreso fra la riva destra della Dora e la sinistra del Po. Nel quartiere li conoscono tutti: Piero fa la spesa correndo al supermercato in carrozzina, ordina la carne restando sotto il gradino del negozio e il macellaio va a dargliela sull’uscio. Al ristorante il cameriere spontaneamente taglia il cibo per loro nel piatto. Andare a trovarli è una lezione di dignità e di educazione. Tutto è ordine, modestia. I loro movimenti sobri, essenziali, sono pieni di grazia. Piero, con le posate e il tovagliolo, è più bello che un giocoliere di strada. E la loro storia resta ancora oggi esemplare.
Roberto e Piero, cresciuti nel reparto Angeli Custodi del Cottolengo da tanti anni condividono un appartamento
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Spazio ai lettori Gli effetti della delibera del C.C. del 11/6/2012
I tagli ai malati di Alzheimer
Caro direttore, in merito ai risultati elettorali di Torino, su La Stampa del 20 giugno scorso, l’ex Sindaco Valentino Castellani ha affermato che durante la gestione Fassino «il welfare in città è stato mantenuto». Purtroppo non è vero. In realtà erano e sono ancora attualmente assai devastanti gli effetti della delibera approvata dal Consiglio comunale di Torino l’11 giugno 2012 che ha ridotto di ben 3
milioni e 150mila euro l’importo delle prestazioni socio-assistenziali già largamente insufficienti, assegnate alla fascia più debole della popolazione per il secondo semestre del 2012. Detta riduzione è tanto più allarmante in quanto ha riguardato anche – per un importo raddoppiato – il 2013 e gli anni successivi. In particolare sono stati colpiti dal provvedimento citato gli anziani malati cronici non autosufficienti e le persone affette dalla malattia di Alzheimer che sono indiscutibilmente gli “ultimi degli ultimi” in quanto le loro esigenze socio-sanitarie sono indifferibili (tutti sono destinati a morire nel giro di 4-5 giorni se non ricevono le cure) e nello
stesso tempo sono impossibilitati – a causa della totale perdita della salute – ad autodifendersi. Gravemente vessatorie sono state e sono, ad esempio, le norme del sopra citato provvedimento in base al quale i succitati infermi, che quasi sempre hanno fatto sacrifici anche notevoli per l’acquisto di un alloggio (in genere una camera e cucina), non beneficiando più della franchigia prevista dalle disposizioni allora vigenti sulla prima ed unica casa (articolo 25 della legge 328/2000 e decreti legislativi 109/1998 e 130/2000), sono stati costretti a vendere o svendere la loro casa per il pagamento dell’intera quota sociale (euro 1.200-1.500 al mese) della retta di ricovero presso le Rsa, Residenze sanitarie assistenziali, la nuova denominazione dei cronicari. Prima della delibera dell’11 giugno 2012 dovevano versare – dedotta l’eventuale quota per il mantenimento del coniuge (euro 600-700 al mese) e per le piccole spese del ricoverato (euro mensili 120-150) – l’assegno di accompagnamento e la parte rimanente delle loro pensioni; dopo il provvedimento in oggetto il Comune di Torino pretendeva e pretende l’intero importo di cui sopra (1.200 – 1.500 euro al mese). Da notare che per effetto della citata delibera, al 15% degli utenti che ricevevano l’integrazione economica alla retta socio-sanitaria per il loro ricovero (240 persone su 1655), è stata revocata l’integrazione (di cui 180 per sforamento dei valori relativi al patrimonio immo-
biliare). Per quanto riguarda i servizi domiciliari il 2% dell’utenza (111 persone) si è vista togliere il contributo del Comune, mentre per 192 casi ha scelto l’inserimento residenziale (soluzione che il Comune ha giustificato con un mai dimostrato aggravio delle condizioni di salute dei pazienti) che ha sicuramente portato maggiori oneri alla spesa pubblica. Un altro deplorevole aspetto della “Gestione Fassino” è la passiva accettazione dell’inserimento da parte delle Asl di oltre 10mila torinesi anziani malati non autosufficienti in liste di attesa, che – tenuto conto delle loro indifferibili esigenze sanitarie – sono in realtà liste di abbandono terapeutico. Cordiali saluti, Francesco Santanera Presidente Ass. Promozione Sociale
Su Giorgio Napolitano in risposta a Lorenzo Ventavoli Lorenzo Ventavoli liquida, disinvoltamente, un mio articolo pubblicato sul numero 5 di Nuovasocietà a carattere storico-politico sui presidenti della Repubblica riducendolo a un “attacco” a Giorgio Napolitano; attacco, per giunta, a suo dire, “ingiusto, scorretto e infondato”. Lascio a Ventavoli la responsabilità di tali aggettivi: per quanto mi riguarda ho ricostruito, en historien e non en idélogue, la vicenda dei capi di Stato italiani, sommariamente, nello spazio di una rubrica di Nuovasocietà, e ho dedicato qualche riga anche a Napolitano, la cui condotta, negli ultimi anni, lungi dal dimostrare quel che Ventavoli sostiene, ossia essere egli stato “uno degli ultimi uomini politici ad avere il senso dello Stato”, ha invece spesso sfiorato, e persino oltrepassato i limiti della Carta costituzionale. Per non parlare del comportamento politico generale che appare quello di un capo fazione e non di un capo di Stato. E i miei giudizi non possono che essere negativi, al di là dell’uomo, che peraltro ho avuto il piacere di incontrare, e di dialogare con lui, prima che ascendesse al Quirinale. E prima che diventasse invece che un paladino della Costituzione, il suo affossatore. Angelo d’Orsi
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Legacoop
Ecoturismo, didattica ambientale, formazione
Progetto Pachamama
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i è svolta presso il Parco Naturale di Rocchetta Tanaro, il 13 giugno l’iniziativa “Le opportunità del territorio: ecoturismo, formazione ed educazione ambientale. La Cooperazione per lo sviluppo dell’economia e dell’impresa sociale”, evento organizzato da Legacoop Piemonte in collaborazione con la Cooperativa Sociale Produzione e Servizi CSPS.
realizzazione del progetto Pachamama.
Tra gli ospiti autorevoli che hanno arricchito il programma di questo importante momento di discussione Giorgio Ferrero Assessore all’Agricoltura, Caccia e pesca Regione, Silvana Accossato Presidente Commissione Ambiente Regione Piemonte, Elsa Aliberti Sindaco di Rocchetta Tanaro e Gianfranco Miroglio Presidente del Parco Naturale di Rocchetta.
La rete creata tra queste tre realtà permette la gestione di tre importanti strutture “turistiche” rappresentanti assieme un Centro Diffuso, una sorta di grande laboratorio dislocato sul territorio tra Monferrato, Langa e Ande (Chile centrale) con il fine di creare opportunità lavorative per figure professionali con una formazione di tipo ambientale (educatore professionale, guida naturalistica Regione Piemonte, istruttore federale survival e outdoor, istruttore nordic walking, Ornitologo, bagnino di salvamento, addetto alla ristorazione), ampliare il circuito ecoturi-
L’iniziativa ha fatto emergere tutte le attività che vengono svolte quotidianamente dalla Cooperativa grazie alla fitta rete di soggetti che collaborano nella
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Il progetto Pachamama è l’interazione di diverse realtà operative: Cooperativa Sociale CSPS, Associazione Sportiva Monferrato Outdoor - riconosciuta dalla fisss (federazione italiana survival sportivo e sperimentale) come scuola federale di survival e outdoor - Società Pachamama International.
stico e responsabile, offrire opportunità formative a chi intende conoscere e approfondire il mondo dell’Outdoor e della didattica ambientale. «L’incontro di oggi è un punto di inizio – ha affermato Davide Bologna Cooperativa CSPS - abbiamo voluto coinvolgere il mondo istituzionale per trasmettere il concetto di interazione tra operatori e realtà amministrative che per quanto riguarda il nostro percorso per la prima volta si sono trovare a curare un progetto unico, quindi la rete che fa capo al progetto Pacha Mama, oggi diventata rete dei comuni outdoor». Giancarlo Gonella Presidente di Legacoop Piemonte ha dichiarato: «La cooperazione dimostra ancora una volta la sua missione: creare occupazione, valorizzare il territorio e le sue importanti risorse naturali». La sinergia creata da questa collaborazione fa si che il Centro Pachamama sia
Legacoop Nelle due pagine alcune delle immagini della giornata del 13 giugno al Parco Naturale di Rocchetta Tanaro organizzata da Legacoop Piemontre con la collaborazione della Cooperativa Sociale Produzione e Servizi Csps
oggi un punto di riferimento in ambito di turismo ambientale e scolastico con presenze annue superiori alle 1300 unità. Le principali attività proposte quali TREKKING, CANOA, SURVIVAL, MOUNTAIN BIKE, BIRD E ANIMAL WATCHING da luglio 2016 potranno essere praticate anche in Chile presso il neonato “PACHAMAMA REFUGIO ANDINO”, VALLE LAS TRANCAS – PROVINCIA NUBLE – REGIONE DEL BIO BIO – CHILE CENTRALE. In seguito al progetto “Comuni Outdoor” le Amministrazioni che ad oggi patrocinano con delibera comunale e affissione del cartello “Comune Outdoor” l’Associazione Monferrato Outdoor e la Cooperativa CSPS sono: Comune di Asti, Comune di Nizza M.To (AT), Comune di Canelli (AT), Comune di Rocchetta Tanaro (AT), Comune di Cerro Tanaro (At), Comune di Incisa Scapaccino (AT), Comune di Vinchio (AT), Comune di Vaglio Serra (AT), Comune di Castelnuovo Belbo (AT), Comune di Tigliole (AT), Comune di Masio (AL), Comune di Castelletto Uzzone (CN). Il progetto ha come obiettivo quello di creare una “REGIONE DELL’OUTDOOR” mettendo in rete Comuni con differenti caratteristiche ambientali e culturali. L’incontro si è concluso con la suggestiva ed emozionante liberazione in natura di un barbagianni curato e assistito dal Centro Lipu di Tigliole d’Asti.
Per informazioni: PAGINE FACEBOOK : DAVIDE BOLOGNA PACHAMAMA ASSOCIATION WWW.PACHAMAMA-INT.COM CONTATTI: DAVIDE BOLOGNA 334-7670535, 0141-644254 PACHAMAMA.ASSOCIATION@GMAIL.COM
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Sport
Dolore, miseria e rivoluzione
Lo stadio come cattedrale della memoria Dall’America Latina al Filadelfia
di Darwin Pastorin
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a Juventus ha il suo stadio (“J Stadium”), il Torino riavrà il suo “Filadelfia”. Gli stadi sono memorie, cattedrali, luoghi che ci accompagnano nel tempo, che ci fanno, perennemente, sentire ragazzi. Quando “il campo era la quiete e l’avventura”, poetava Maurizio Cucchi ricordando la sua prima volta a San Siro con il padre. Il mio primo stadio fu quello nominato “Palestra Italia” a San Paolo del Brasile. Lì giocava la mia squadra del cuore: il Palmeiras. Centravanti era un tipo dal gol facile, rosso di capelli, con le lentiggini, che tutti chiamano “Mazzola” per la sua somiglianza con capitan Valentino. Poi, una volta tornati in Italia i miei genitori, non più nella loro Verona ma a Torino, ecco aprirsi i cancelli del “Comunale”. La mia prima partita non fu della mia Juve, ma della Nazionale, un’amichevole contro l’Argentina: 22 giugno 1966, doppietta di Pascutti del Bologna e gol funambolico della “farfalla granata” Gigi Meroni. Ricordo che venne espulso il bianconero Gianfranco Leoncini e che il portiere della Selección si chiamava Roma. In seguito, ovviamente, ci fu tantissima Juventus: in curva “Filadelfia”, con il mio primo scudetto da tifoso, il tredicesimo per Madama, che giunse, di giovedì, nell’ultima di campionato della stagione 1966-67, con l’Inter capolista sconfitta a Mantova e i tigrotti di Heriberto Herrera a superare la Lazio per 2-1. In curva andavo con i miei amici, soprat-
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Darwin Pastorin davanti allo Juventus Stadium durante una diretta per Sky Sport
Sport
Durante il golpe di Augusto Pinochet lo stadio Nacional di Santiago del Cile venne trasformato in un campo di concentramento. Qui vennero torturati e assassinati gli oppositori
tutto con Giancarlo, che abitava un piano sopra il mio, con mia mamma, con i miei fratelli e anche con taluni torinisti, primo fra tutti il mio compagno di banco Mauro. Non c’era la violenza di oggi, tutto si risolveva in uno sberleffo per lo sconfitto e nei peana per i vincitori. Il pallone era davvero una grande passione. Andavo anche al “Fila” per farmi fare gli autografi, ricordo quelli di Nestor Combin e di Gigi Meroni, con dediche bellissime. Al campo “Combi” fermavo i miei beniamini, da Gori a Castano, da Anzolin a Cinesinho, dal mio idolo Petruzzu Anastasi a Gino Stacchini, che oggi in Romagna fa il poeta. Davvero non vedevamo l’ora, noi ragazzi, della partita, la lunga attesa, sotto il sole, la pioggia o la neve, prima di veder sbucare dallo spogliatoio i nostri giocatori: c’era l’abbaglio del verde sotto il cielo immenso. E le bandiere sventolavano al vento della spensieratezza e della leggerezza. Durante la settimana, nei prati di Santa Rita, perché ancora c’erano i prati, giocavamo per ore e ore emulando i nostri campioni. Gli stadi sono anche diventati luoghi di orrore. Come in occasione del vergognoso mundial d’Argentina del 1978, dove in uno si giocava e in un altro si torturava. Scrisse Eduardo Galeano, su quella manifestazione: “Parteciparono dieci Paesi europei, quattro americani, Iran e Tunisia. Il Papa inviò la sua benedizione. Al suono di una marcia milita-
re, il generale Videla decorò Havelange durante la cerimonia di inaugurazione dello stadio Monumental di Buenos Aires. A pochi passi da lì era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di Meccanica dell’Esercito. E alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare”. Dopo il vile golpe di Augusto Pinochet, che cancellò il sogno socialista di Salvador Allende, presidente eletto democraticamente dal popolo, anche lo stadio “Nacional” di Santiago del Cile si trasformò in un campo di concentramento: lì conobbe la morte, tra
i tanti, il cantautore, regista teatrale e poeta Victor Jara. Prima di assassinarlo, gli tagliarono le mani. Ma altre mille mani suonarono, alla chitarra, le sue canzoni di ribellione e di amore! Nei giorni scorsi, finalmente!, dopo 40 anni, è cominciato il processo per l’uccisione di Victor. Al “Morumbi” di San Paolo, invece, negli anni della dittatura brasiliana, la squadra del Corinthians, capitanata dal dottor Socrates, l’intellettuale del football che leggeva Marx e Gramsci, scendeva in campo con la scritta “Democrazia” sulle maglie. Così è il calcio: memoria e dolore, miseria e rivoluzione.
Dittatori e pallone: 1978. Il capitano dell’Argentina Daniel Passarella alza la coppa del mondo di fronte al sorridente Jorge Rafael Videla
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Gli angoli della città
Come prova una lapide
Il misterioso soggiorno di Nostradamus sotto la Mole L’incisione venne ritrovata il secolo scorso nel quartiere Parella. L’astrologo e guaritore, autore delle profetiche Centurie, fu chiamato a Torino dai Savoia di Daniel Monasteri
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Notre damus aloge ici”. Così inizia un’iscrizione lapidea ritrovata in una villa di Torino negli anni ’30, testimonianza del passaggio nella città sabauda di uno dei più intriganti personaggi della storia. Siamo nel 1934, e lo storico Pagliani ritrova in una villa nel quartiere Parella, in via Michele Lessona, una lapide in cui sono incise in antico francese le parole “Nostradamus alloggia qui, dov’è il Paradiso, l’Inferno, il Purgatorio. Io mi chiamo la Vittoria, chi mi onora avrà la gloria. Chi mi disprezza, la completa rovina”. Da quel momento studiosi e curiosi ricercarono il significato di queste parole. Alcuni ritennero che non ci fosse alcun significato nascosto, e che la Vittoria fosse solo un riferimento a una principessa di casa Savoia mentre l’Inferno, il Paradiso e il Purgatorio i nomi delle contrade o dei terreni circostanti. Altri invece furono da subito convinti che Nostradamus avesse voluto lasciare un significato tra le righe. Entrambe le ipotesi si scontrarono con una difficoltà evidente: la lapide, dopo la scoperta di Pagliani, era scomparsa. Nella metà del ‘900, infatti, la villa che aveva ospitato la lapide e prima di lei l’illustre ospite francese, fu distrutta per far posto alla costruzione di nuovi appartamenti che trasformaro-
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Il profeta Nostradamus fu a Torino nel 1556 e alloggiò nell’attuale quartiere Parella
no la zona in un quartiere popolare, e con essa sembrò sparire anche una delle poche testimonianze del passaggio di Nostradamus a Torino. Dopo un po’ di tempo, però, la lapide fu ritrovata a casa di alcuni discendenti proprietari della villa. In quegli anni era stata custodita da una signora che in un primo tempo, racconta la nipote, l’aveva posta in cantina. Dopo una serie di disavventure avrebbe deciso di porla nella sala principale. Così facendo, la fortuna sarebbe tornata a visitare la casa.
La lapide rappresenta l’unica testimonianza concreta del soggiorno torinese di Nostradamus, mentre le altre informazioni sono scarse e molto dibattute. Una delle ipotesi più verosimili è che il profeta fosse stato chiamato a Torino per aiutare il concepimento dell’erede di Margherita di Valois e del duca Emanuele Filiberto, grazie ai suoi oli portentosi famosi in tutta Europa. La nascita di un erede era fondamentale per il Duca: a seguito degli accordi di Cateau-Cambrésis, egli avrebbe potuto
L’ermetismo medievale chiave di lettura
Ottobre 1975. Renuccio Boscolo davanti alla targa che testimonia il soggiorno di Nostradamus sotto la Mole
fare ritorno a Torino solo a seguito della nascita di un discendente legittimo. Nostradamus non solo avrebbe favorito il concepimento, ma anche profetizzato il nome del nascituro, Carlo Emanuele.
Questi che sarebbe morto “quando un nove si troverà di fronte a un sette”. E così si verificò: morì a 69 anni, prima di compiere 70 anni. Un’altra ipotesi, invece, è che l’atten-
Gli angoli della città zione di Nostradamus fosse riposta alle grotte alchemiche che si trovavano nella regione, anche se non esiste alcuna fonte che ne faccia riferimento. Il dibattito sulla veridicità del soggiorno torinese di Nostradamus e sull’interpretazione della lapide è ancora molto vivo, in particolare grazie al contributo di Renuccio Boscolo, che ha trascorso buona parte della sua vita ad indagare le profezie di Nostradamus. Lo studioso ha ipotizzato, attraverso calcoli complicatissimi ispirati all’ermetismo medioevale, di aver trovato una chiave di lettura per comprendere il messaggio nascosto della lapide torinese. Grazie a questa interpretazione Boscolo ha ricostruito un testo alternativo, nel quale si fa riferimento a un certo “Ranolo”, versione antica del suo nome, Renuccio, quasi che Nostradamus avesse già profetizzato il nome di colui che avrebbe scoperto in futuro i suoi segreti. Anche in questo caso esistono dei dubbi sulla veridicità di tali suggestioni, ma l’aspetto più curioso è che nonostante siano passati diversi secoli dal soggiorno torinese di Nostradamus, non si è ancora spenta la fiamma della curiosità di appassionati e studiosi.
Avviso importante per tutti i lettori Comunichiamo a tutti i lettori di Nuovasocietà che per esigenze strettamente editoriali-organizzative il prossimo numero
del nostro mensile sarà in edicola il 15 di settembre. Stiamo lavorando per un allargamento della diffusione di Nuovasocietà a partire da settembre nei principali punti vendita del Piemonte estendendo il servizio abbonati in tutta Italia e all’estero. Chiediamo in particolare agli amici lettori che ci seguono da più antica data di sostenerci in questa fase di rilancio di Nuovasocietà facendo conoscere al maggior numero di persone la nostra testata che non ha alle spalle nè padroni nè padrini. Con nuovi lettori, in particolare abbonati, è possibile garantire continuità a questa esperienza unica nel campo editoriale in un momento difficile da un punto di vista politico, sociale e civile. Arrivederci e buone vacanze per coloro che sono in grado di farle e con tutta la solidarietà per chi non è in grado di godere di un diritto acquisito nella storia di tutti i lavoratori. A settembre!
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Arte
“Panorama”, fino al 14 agosto a Camera
FRANCESCO JODICE,
la fotografia come anomalia
di Emanuele Rebuffini
F
ormulare dubbi, mettendo lo spettatore in una situazione disturbante attraverso un’anomalia dello sguardo: questo il compito della fotografia secondo Francesco Jodice (Napoli, 1967). In vent’anni di lavoro Jodice ha indagato attraverso foto, video e installazioni lo scenario geopolitico e le trasformazioni sociali, antropologiche ed urbanistiche. Ora Camera, il Centro Italiano per la fotografia di Torino, ospita fino al 14 agosto “Panorama”, retrospettiva curata da Francesco Zanot.
parte della fotografia e dell’arte che si è confrontata con i mutamenti sociali, politici, culturali, etici del mondo. Non solo ho tentato di investigare e pedinare alcuni degli eventi più importanti o collaterali della storia dell’urbanistica e dell’antropologia, ma questa attenzione
foto, da Tokyo a Mazara del Vallo?
What We Want nasce come un osservatorio sulle capacità delle collettività di proiettare i propri desideri sul territorio. L’indisponibilità da parte dei diversi consorzi umani ad accettare l’impressione dall’alto di un modello abitativo e culturale, il loro intento, insistente ed ossessivo, di opporsi a questa terraformazione e ribaltare il processo governativo di gestione del territorio. Poi mi è sembrato importante tenere conto di alcuni eventi come l’11 settembre, le recrudescenze del conflitto israelo-palestinese, il What We Want crollo della Lehman è un progetto Brothers e l’era glache nasce nel ciale dell’economia. 1996 e tocca 150 Non essendo un città. Una sorfotoreporter inteFrancesco Jodice, What We Want Sao Paulo R35, 2006 ta di atlante sui ressato alla cronaca, cambiamenti genon ci sono scatti opolitici e non solo... verso il cambiamento dei comporta- che richiamano in modo diretto questi menti ha fatto sì che la fotografia stessa eventi, ma piuttosto l’attenzione a una È stata una scelta naturale aprire la re- subisse dei metamorfismi e si adattas- condizione atmosferica, ad un cambiatrospettiva con What We Want, non se come codice e linguaggio. Un os- mento umorale come conseguenza deperché vi sia un intento cronologico servatorio sul cambiamento nelle cose gli stessi. Non conta quello che c’è nelle o filologico, ma perché “Panorama” è osservate, ma anche sul cambiamento foto, ma il modo di mettere a sistema anche un tentativo di raccontare cosa è dell’osservatorio stesso. le immagini. In un testo di Peter Hanaccaduto alla cultura dell’immagine in dke si parla di un libro fittizio intitolato questi vent’anni, in particolare a quella C’è un filo rosso che unisce queste ‘Comparazione di fenomeni simili in
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Arte distinte parti della terra’: questo titolo illusorio è perfetto per il mio lavoro, che mette a confronto fenomeni vagamente simili che presentano elementi di comparabilità. Le città sono al centro di un altro progetto, Citytellers, tre video che raccontano São Paulo, Dubai e la realtà del lago Aral… È uno dei pochi progetti che nel titolo riporta un luogo, ma i luoghi per me sono solo un pretesto. Ho scelto queste tre realtà perché portatrici di fenomenologie che avevo urgenza di indagare. São Paulo, la capacità auto-organizzativa delle comunità a fronte di uno governo molto corrotto o del tutto assente; Aral, un’umanità che resiste a uno dei più grandi disastri ambientali della storia; Dubai, l’analisi di una forma di neo-schiavismo. Il desiderio di auto-organizzarsi in mancanza di una struttura forte o di vivere nell’opulenza a scapito di poplazioni più deboli sono fenomeni riscontrabili in luoghi distanti geograficamente e culturalmente, e sono pur sempre una proiezione dei desideri di una collettività sul territorio.
spazio lattiginoso. Sono foto notturne sovra-esposte, per dare l’impressione di ispessimento della materia, una visione lacustre del mare. Mi interessava mettere a confronto una foto più cronachesca di Hong Kong con quella più escatologica di Capri, proprio perché il mio lavoro progressivamente ha creato una lente distanziale per instaurare finestre temporali tra i fenomeni.
“Panorama” si apre con una foto di Hong Kong e si chiude con una foto di Capri... La prima fotografia racconta cosa mi interessava quando ho iniziato a lavorare, l’antropologia urbana, in quel caso la resistenza di una piccola casa lignea all’interno di un perimetro di architettura contemporanea. La foto di Capri è del 2013, in occasione del centenario della morte del pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach. Quella che apparentemente sembra una foto solare parla in realtà della posizione dell’artista rispetto alla società. Diefenbach morì a Capri nel 1913, al tramonto dei grandi imperi e alla vigilia della prima guerra mondiale, in una fase di grande cambiamento. Ritengo di essere nella stessa posizione: è finito il secolo breve e iniziato uno stillicidio di guerriglie che forse sono la forma di una terza guerra mondiale che genera instabilità e insicurezza. Nella foto Capri diventa non un luogo mediterraneo, ma un posto ancestrale, una specie di trasposizione delle scenografie dei romanzi di Lovecraft, un grande brodo primordiale dove i faraglioni paiono emergere da uno
Hai dichiarato che da tuo padre Mimmo hai imparato a coltivare un’anomalia dello sguardo... C’è un oggetto che mio padre ha staccato e riattaccato ogni volta che cambiava studio, nella stessa posizione, vicino all’interruttore, così da essere l’ultima cosa che vede prima di entrare nella camera oscura. Un cartoncino bianco con una scritta a pennarello rosso che recita: non c’è arte dove non c’è inquietudine. Ad accomunarci è un sentimento fortemente anti-reportagistico, la fotografia non documenta, non oggettivizza e non didascalizza nulla, non cerca di ritagliare un pezzo di realtà per farlo rientrare sotto un passepartout, ma è un processo di verifica della ricezione di un’anomalia.
La poetica di Giovanni Anselmo
Rendere visibile l'invisibile
Al Castello di Rivoli il progetto artistico di uno dei Maestri dell’Arte Povera di E. R.
“M
entre la mano indica, la luce focalizza, nella gravitazione universale si interferisce, la terra si orienta, le stelle si avvicinano di una spanna in più…”: un titolo che sembra una poesia per una mostra che è un concentrato di poesia. Curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria e ospitata dal Ca-
stello di Rivoli fino al 25 settembre, la prima esposizione personale di Giovanni Anselmo in un museo torinese non è un’antologica, ma un progetto artistico articolato in cinque momenti, cinque installazioni realizzate tra il 1969 e il 2001, ora riproposte e riattualizzate nella Manica Lunga, quasi fossero esperimenti scientifici ripetibili a distanza
di anni. “L’arte di Giovanni Anselmo – scrive Marcella Beccaria - è così profonda che provoca vertigine. Fatte con pietra, ferro, acciaio, oppure proiezioni luminose, pigmento pittorico, tela, vetro, ma anche materiali fossili, spugna, cotone e addirittura lattuga, le sue opere mettono in atto, rendendole visibili, talvolta addirittura tangibili, le
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Arte Molti cercano di essere spettacolari, io non amo i fuochi di artificio perché non durano. Preferisco andare alla sostanza di un’opera, indagando l’essenza della realtà e la verità delle cose. La mostra inizia con Il panorama con mano che lo indica, un disegno del 1982, che rende omaggio a secoli di pittura: la mano indica uno spazio reale, indica il visitatore che la sta guardando L’esposizione personale di Giovanni Anselmo, fino al 25 settembre al Castello di Rivoli e se sali sulla pietra forze incommensurabili che regolano sulla terra, tra cose visibili e invisibili, e che sta ai piedi del disegno puoi vedere l’esistenza umana”. Nato a Borgofran- per me l’invisibile si identifica soprat- lo spazio intorno. La spanna è la misuco d’Ivrea nel 1934, Giovanni Anselmo tutto con l’energia. Pensiamo alla gra- ra della mano distesa. La mano è uno è un gigante dell’arte contemporanea: vità, una forza con cui tutti facciamo i strumento che possiamo usare tutti: per protagonista della stagione dell’Arte conti. Ho utilizzato la bussola, perché scrivere una poesia, per fare una carezza Povera alla fine degli anni Sessanta, nel un’opera con un ago magnetico inserito o per dare un pugno. Sembra poca cosa, 1990 riceve il Leone d’Oro alla carriera al suo interno si mette immediatamente eppure consente di metterci in relazioalla Biennale di Venezia e nel maggio in relazione con l’energia dei campi ma- ne con distanze infinite. Infatti, se sali del 2015 una sua Torsione è battuta da gnetici terrestri. L’opera non è tutta lì, su uno dei blocchi di pietra, alti una Christie’s a New York per 6,4 milioni non è tutta visibile, si estende fuori da spanna, le stelle si avvicinano di una di dollari. “Anselmo ha partecipato in sé e ha a che fare con qualcosa che sta al spanna in più. I cinque momenti della maniera unica e straordinaria alla riat- di là del proprio spazio. mostra sono un unicum e ci mettono in tualizzazione dei precedenti concetti di rapporto con queste forze straordinarie, scultura mediante opere che collocano i Questo è evidente soprattutto in umanizzando distanze incommensurafenomeni osservabili in un contesto ter- due opere: Mentre la terra si orienta bili come quelle tra noi e l’infinito. restre” (Anne Rorimer). Quattro tubi (1967), una bussola circondata da del di neon inseriti in blocchi di cemento terriccio, e Interferenza nella gravi- Nel 1968 la galleria di Gian Enzo (Neon nel cemento, 1967), una spugna tazione universale (1969), fotografie Sperone a Torino ospitava la sua priche separa due sbarre di ferro (Respiro, scattate camminando verso il sole… ma personale. Che bilancio trarre 1969), un gruppo di proiettori che illudell’Arte Povera, che tra i suoi prominano dei dettagli (Particolare,1972). La Manica Lunga mi è apparsa come tagonisti ha avuto molti piemontesi Attraverso un vocabolario elementare uno straordinario spazio libero, vuoto. (Merz, Zorio, Penone, Pistoletto, Fae l’uso di materiali naturali e oggetti L’orientamento lungo l’asse est-ovest, le bro, Boetti)? di origine industriale (aghi magnetici, finestre, tutto fa sì che lo spazio chiuso pietre di granito, terra, blu oltremare, sia collegato con l’esterno. Ho ripreso Arte Povera fu un’etichetta inventata legno, pelle), la ricerca artistica di An- un lavoro del 1969, venti foto scattate da Germano Celant. Ci furono alcune selmo è un dialogo costante tra visibile ogni venti passi come per rincorrere il mostre comuni tra il ’67 e il ‘71, ma e invisibile, materiale ed immateriale, sole e prolungarne la luce, percorrendo non eravamo una scuola e ognuno ha una parte e il tutto, il qui-e-ora e l’in- una traiettoria che è opposta alla rota- poi seguito un proprio percorso. Ad acfinito. Opere che indagano e catturano zione terrestre e, quindi, interferendo comunarci era la volontà di metterci in le forze che governano l’universo, por- con la gravitazione. Lo spettatore può una relazione più diretta con la realtà tandoci così una spanna in più verso il percorrere lui stesso quella traiettoria che ci circonda, che non necessariamencielo. interferendo a sua volta, con la gravi- te è quella visibile: non la pittura, non tazione universale: diventa un agente e il quadro, ma l’arte come presentazione Quando è nato il suo interesse per le vive l’opera fisicamente. di parti di realtà. I nostri lavori non riforze dell’universo, la gravità, i campi entravano nelle visioni tradizionali, tanmagnetici? La mostra di Rivoli sorprende e spiaz- to che in occasione di una mostra alla za: la prima impressione è entrare in Gam nel ‘70 su Conceptual Art, Arte Ho sempre cercato di fare opere che un posto vuoto. L’essenzialità come Povera e Land Art, un critico intitolò fossero in funzione di una situazione di una delle cifre della sua arte… il suo pezzo “Povera arte”. Oggi tutto è energia. L’energia di per sé è invisibile, possibile, c’è più varietà, ma rispetto ad ci accorgiamo che c’è perché ci sono de- Entrando nella Manica Lunga sem- allora c’è meno stupore. gli effetti che questa produce. Viviamo bra esserci nulla, invece c’è tantissimo.
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Cultura
Dove nacque il cinema a Torino
Tutto cominciò sotto i portici di via Nizza I primi produttori furono i fotografi, mentre la famiglia Agnelli non investì mai nella Settima Arte di Steve Della Casa una sala da lui aperta che porta il suo nome. Per quanto riguarda i posti in cui si proiettava, erano tutti caffè o birrerie. Ottenne grande successo la birreria del Fortino, che poi sarà abbattuta e trasformata in un cinema (attivo fino a fine anni Ottanta, oggi anch’esso abbattuto). Ma c’era anche il caffè Norman, che era molto aperto alle nuove iniziative (dieci anni dopo, sarà proprio quel caffè a tenere a battesimo la nascita del Torino Calcio), e anche il caffè della Borsa che aveva sede nella vecchia via Roma (che sarà poi, come è noto, abbattuta e rifatta completamente in epoca fascista). L’interno della Fert, uno dei primi stabilimenti cinematografici sorti a Torino
A
ll’inizio, il cinema non veniva proiettato nei cinema. Sembra un gioco di parole, ma era proprio così. La nuova invenzione dei fratelli Lumière, che realizzavano il vecchio sogno dell’uomo di poter riprodurre immagini in movimento, era considerata da tutti (anche dai due fratelli che l’avevano brevettata) come un’attrazione simile a quelle che rendevano allettanti gli spettacoli di arte varia sia nei caffè più rinomati sia nelle piazze dei paesini. La prima proiezione infatti avvenne, a fine dicembre 1896, in un caffè elegante dei Grands Boulevards parigini. Nel giro di pochi mesi, i Lu-
mière invasero prima la Francia e poi il mondo intero con i loro apparecchi. E l’Italia fu uno dei primi centri di irradiazione, con Torino che (per questioni geografiche, ma non solo) fu il primo agglomerato metropolitano a recepire la nuova arte. Pare che i primi a mostrarsi interessati nel comprare le licenze per fare cinema siano stati i fotografi. Uno in particolare, che aveva il suo negozio sotto i portici di via Nizza, si mostrò più intraprendente degli altri. Si chiamava Arturo Ambrosio, diventerà uno dei più grandi produttori italiani, a Torino c’è ancora
Le sale arriveranno solo qualche anno più tardi, spazi dedicati esclusivamente alla proiezione dei film. Non è chiaro se il primo luogo esclusivamente dedicato alla Settima Arte sia stato il cinema delle Famiglie (ricavato da una scuderia in via Po, poi diventato cinema Poi, cinema King Kong e attualmente sede del Bla Bla, locale con qualche venatura cinefila), oppure il locale in via Garibaldi (che allora si chiamava ancora via Dora Grossa, o almeno la maggior parte dei torinesi la chiamava così). Erano sale piccole, in ogni caso, e ricavate da magazzini già esistenti. Poi verrà l’epoca delle sale fatte apposta: il Ghersi (anch’esso abbattuto nella ristrutturazione di via Roma, elegante
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Cultura
Un affascinante viaggio nel passato
locale in stile Liberty), il già citato Ambrosio (che era costruito con il criterio di avere un atrio sufficientemente grande da poter ospitare in piedi tutti i 2.500 spettatori che poteva contenere per le proiezioni) e molti altri ancora. Il Romano, che in precedenza era un patinoire molto frequentato soprattutto dagli studenti della vicina Università (in questa chiave è citato nella piece “Addio, giovinezza!” di Camasio e Oxilia, uno dei testi teatrali più amati del periodo), a sua Un fotogramma di Viaggio nella luna (Le voyage dans la lune) di Georges Melies, proiettato per la volta si trasforma in ciprima volta il 1° settembre 1902. E’ anche considerato il primo film di fantascienza della storia nema. E così molti altri locali. I proprietari di questi locali non erano esponenti della bor- tomobilistica e che si era fatto costru- Sono ricordi lontani, ricavato spulcianghesia industriale peraltro molto attiva ire in corso Giovanni Lanza la famosa do giornali e riviste. Il fatto che una di in città, e a conferma di questo dato “Villa Scott” resa celebre dal film “Pro- queste sale (in via Garibaldi 13, dove ha possiamo citare il fatto che la famiglia fondo rosso”; ma anche lui, dopo alcuni sede Nuovasocietà) sia stata restituita Agnelli (già avviata, grazie alle commes- abboccamenti, dovette rinunciare. Il ci- alla sua vecchia vocazione da Nanni Sase belliche della prima guerra mondiale, nema faceva paura alla borghesia indu- lio, uno dei militanti pacifisti più attivi a diventare dominante in città) non in- striale, e forse proprio per quel motivo in città e da poco scomparso, ci ha convestirà mai nel cinema. alla fine degli anni Dieci il cinema di- sentito questo viaggio nel passato. L’unico industriale che si mostrò inte- venterà quasi completamente romano, Un viaggio che vuole essere anche un ressato alla prospettiva di ottenere pro- dove si potevano trovare capitali e dove augurio: possa questa sala svolgere il fitti con la Settima Arte fu l’ingegner a investire nel cinema furono soprattut- compito altamente sociale che si prefigScott che guidava una piccola casa au- to i costruttori edili. ge, in una città che tende a dimenticare.
Piazza Castello e via Garibaldi all’inizio del Novecento, quando i primi cinematografi iniziarono a sorgere in città
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Cinema Un drammatico film dalle molte domande senza risposte
" IN NOME DI MIA FIGLIA" di Andrea Zummo
Il caso Kalinka Bamberski: la vera storia di un commercialista francese che ha lottato per ottenere giustizia su chi aveva violentato e ucciso la figlia quattordicenne
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l 10 luglio 1982 Andrè Bamberski (Daniel Auteuil) riceve una telefonata in cui la ex moglie gli comunica la morte della figlia quattordicenne Kalinka. La ragazza stava trascorrendo le vacanze in Germania con la madre e il fratello, a casa del patrigno, il dottor Dieter Krombach (Sebastian Koch). Col passare delle settimane Bamberski si convince che dietro il decesso della figlia ci sia la responsabilità di Krombach: inizia a sospettare che l’uomo possa averla violentata e poi uccisa, simulando un collasso grazie alle sue competenze mediche e manipolando gli esiti dell’autopsia. Bamberski raccoglie prove in questa direzione, e dopo anni di impegno riesce a far processare in contumacia il dottor Krombach, che viene condannato da un tribunale francese; tuttavia le pratiche dell’estradizione sono lunghe e macchinose, ma
più che altro manca la volontà politica di riportare in Francia il colpevole. La Germania (Krombach è tedesco) vuole evitare di dare risalto a una vicenda vergognosa, di cui è protagonista un suo cittadino. Bamberski si scaglia contro l’ignavia dei funzionari delle burocrazia, l’ottusità del personale politico e giudiziario, viene tacciato di paranoia e medita di mettere in pratica un’azione illegale, pur di assicurare il colpevole alla giustizia. La sua lotta dura 27 anni, prima di riuscire nel suo intento. Storia vera e straziante, sostenuta da un ritmo secco e implacabile, come il protagonista della storia (al solito un Auteuil in gran forma), che non concede smagliature o scarti retorici: in questo la regia di Vincent Garenq è funzionale e sottile. Colpisce la determinazione di un uomo che finì per dedicare la sua vita alla ri-
cerca dell’assassino di sua figlia, non per vendetta, ma per giustizia, pur trovandosi ostacolato nella sua richiesta legittima. A questa causa rischia di sacrificare anche i suoi affetti più cari e il suo lavoro. Inquietante la figura di Krumbach (bella prova anche di Koch), professionista dall’aspetto rassicurante, che invece era un criminale seriale; deprimente quella dell’ex moglie di Bamberski, che non riesce a vedere il male che aveva sotto gli occhi per tanto tempo, nemmeno a distanza di anni. Restano gli interrogativi profondi, al di là della vicenda tragica, sulla giustizia, la possibilità di punire i colpevoli, la ricerca di verità contro un sistema a volte pachidermico e distratto, per non dire forse negligente. Ritratto di un uomo clamorosamente determinato, in un film che lascia molte domande e si astiene da ogni giudizio.
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Biblioteche
Segnò la fine della Jugoslavia
Tra calcio e storia, l'ultimo rigore di Faruk di Darwin Pastorin
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l calcio è letteratura, storia e memoria. Attraverso il pallone possiamo leggere il nostro tempo o le vicende di ieri. Perché il calcio, come ci insegnò, Thomas Stearns Eliot “è un elemento fondamentale della cultura contemporanea”. Grazie a Giovanni Arpino scrivere di football è diventato “narrare”, anche se oggi le produzioni sono diventate troppe, spesso di scarso livello. Scialbe biografie o il “già letto”, nello scopiazzare, senza ritegno, Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano. Per fortuna, ci sono Sandro Veronesi ed Enrico Brizzi. Per fortuna, ecco arrivare in libreria un gioiello prezioso. Sì, non perdetevi, di Gigi Riva (che non è il breriano Rombo di Tuono, ma il caporedattore centrale de “L’Espresso”), “L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra”, Sellerio. Il filo conduttore è il penalty fallito dal difensore Faruk Hadzibegić nei quarti di finale tra Jugoslavia e Argentina al mondiale di Italia ‘90. I Balcani stavano andando a pezzi, tra odio e vendette, serbi contro croati, tutti contro tutti, guerre fratricide, in una Europa che si stava, faticosamente, ridisegnando dopo la caduta del Muro di Berlino. Riva, che seguì quell’atroce conflitto da inviato speciale per il quotidiano “Il Giorno”, ricostruisce quei giorni tremendi e i
una bella definizione di Roberto Baggio: “È la rottura dell’ordine, la scheggia impazzita, l’imprevisto, la differenza. Un’epifania”. Già, Roberto Baggio... Gigi Riva, che aveva pubblicato questa sua opera per la prima in lingua francese nel maggio del 2016 per la Éditions du Seuil, curata da Bernard Comment, letterato che fu amico di Antonio Tabucchi, mette insieme, con maestria, la guerra e il football, i criminali e gli eroi, i buoni e i cattivi, facendoci rivivere quelle ore drammatiche della fine della Jugoslavia e le notti del mondiale italiano. Sport e politica, come spesso accadde e accade, vanno a braccetto, e il rotolare di una palla da festa si trasforma in tragedia. Perché, scrive l’autoL’ultimo rigore di Faruk - Sellerio, Euro 15 re, che a Parigi è stato paragonato ad Albert Camus, “nei Balcani lo protagonisti di una squadra, dell’allesport come la guerra non è una metafonatore Osim al “Maradona dell’Est” ra. La guerra è prosecuzione dello sport Stojković, dal fantasista Savićević al con altri mezzi”. goleador Pančev, che, vincendo quella Coppa, avrebbero (forse) cambiato il “L’ultimo rigore di Faruk” dovrebbe didestino di un popolo, nella riscoperta ventare un testo da studiare nelle medie di un nazionalismo jugoslavista. Ma qui superiori e nelle università. Per capire il siamo sul piano delle ipotesi affascinan- tempo in cui, anche approfittando di ti e assurde, delle utopie. Ma “L’ultimo un match di calcio, la Jugoslavia decise rigore” si legge anche come un libro di di dare a vita alla stagione dello scempio storia, una storia a noi così vicina. E c’è, e dell’orrore. tra le pagine che si leggono d’un fiato, Con il mondo alla finestra.
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Biblioteche L’ultima opera di Osvaldo Guerrieri, critico teatrale de La Stampa
SCHIAVA DI PICASSO U
n gelido gennaio del 1936 a Parigi. Seduta a un tavolino del “Deux Magots”, una donna si toglie i guanti, estrae dalla borsetta un coltello e comincia a pugnalare in gran velocità gli spazi tra le dita della mano aperta a ventaglio. A volte sbaglia il colpo e sanguina. Seduti lì accanto, Pablo Picasso e il poeta Paul Eluard osservano il gioco. Il pittore si alza, si avvicina alla donna e le chiede in dono i guanti: vuole collocarli nella vetrinetta dove conserva i ricordi più preziosi. La donna glieli concede levando su di lui due occhi dal colore indefinibile. Non si tratta di una donna qualunque. E’ la fotografa surrealista Dora Maar. Scossa da questo momento uno degli amori più tormentati del Novecento raccontato da Osvaldo Guerrieri nel suo ultimo romanzo “Schiava di Picasso” edito da Neri Pozza (pag. 237, euro 16). Quando conosce Picasso, Dora è reduce da un legame devastante con Georges Bataille. Al fianco dello scrittore ha oltrepassato la linea che divide l’erotismo dalla crudeltà. Ma anche con Picasso l’amore è violento. Picasso ama Dora, ma ama soprattutto sé stesso. La divide con altre donne, per esempio con Marie Thérèse, che gli ha dato una figlia quando lui è ancora sposato con Olga; la costringe a fare da spettatrice ai propri tradimenti; la umilia obbligandola ad abbandonare la fotografia. Fra i surrealisti Dora è considerata la rivale di Man Ray, ma per Picasso esiste un solo genio: lui. Sono anni in cui infuria la tempesta. La Spagna è dilaniata dalla guerra civile, l’Europa sta per subire l’assalto di Hitler e Picasso diventa la coscienza critica di quel tempo feroce. Dipinge Guernica e Dora lo fotografa mentre crea il capolavoro. E quando Parigi è occupata dai nazisti, Dora divide con Picasso la fame, il freddo e la paura dell’arresto. Schiava di Picasso è il romanzo di un amore e di un’epoca. Usa il documento
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Schiava di Picasso - Nera Pozza, Euro 16
per staccarsene e per narrare di un momento irripetibile della storia: della Parigi degli anni Trenta e Quaranta, in cui Paul Eluard, Jacques Prévert, Brassai, Man Ray, Jean Cocteau furono i comprimari e i testimoni di una schiavitù amorosa che con le sue crudeltà portò alla follia Henriette Theodora Markovitch, l’artista che, portando sul viso “la grazia di una madonna che non sorride”, divenne famosa col nome di Dora Maar.
Osvaldo Guerrieri è nato a Chieri e vive a Torino. E’ critico teatrale de La Stampa, attività per la quale ha ricevuto nel 2003 il premio Flaiano. Con Neri Poza ha pubblicato L’insaziabile (premio internazionale Mondello 2009), Istantanee (2009), I Torinesi (2011), Col diavolo in corpo. Vite maledette da Amedeo Modigliani a Carmelo Bene (2013), Curzio (2015). I suoi racconti Sibilla d’amore e Alè Calais sono diventati spettacoli teatrali rappresentati in Italia e a Parigi.
Racconti
La casetta del ciliegio di Isabella Bresci Scrissi questo racconto nel 2008 dopo esser passata per anni per quella strada per Castellazzo, vicino a Novara, che fiancheggia la risaia. Ora quel il ciliegio non c’è più...
C’
era una volta un campo di grano, un contadino antico lo coltivava col sudore della fronte. Si riposava nella casetta porta attrezzi dalla calura del mezzogiorno mangiando il suo semplice pasto e sorseggiando vino rosso dalla bisaccia. Un giorno era molto stanco e si addormentò. Sognò che dalla sua terra sarebbe nato un sogno per genti future… Il tempo passava lento, le stagioni si alternavano, l’odore della terra era tanto forte. Un mare di spighe ondeggiava nel vento. In estate le cicale cantavano e le grida fanciulle dei giochi all’aperto vibravano nell’aria dalle cascine lontane. Il tempo passava e venne la guerra. Carri armati e scarponi lasciarono tracce profonde sul campo infangato. La casetta diventò rifugio di soldati in quel tempo senza luce.
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Il tempo passava e la guerra finì. La gente cambiava e il campo di grano diventò campo di riso. In primavera la terra si tinse di cielo e poi di verde brillante. Arrivarono le rane a cantare i loro amori nelle sere d’estate.
In estate due ragazzi innamorati entrarono nel rudere per amarsi. Le ciliegie mai così buone e il cielo mai così vicino per loro… Nuvole bianche, piccole e rade si gonfiarono di risa di gioia per dissetare altra terra.
Il tempo passava e da lontano arrivarono le donne. Cantavano fatica, nostalgia e speranza e la terra calpestata dai loro piedi nudi, raccoglieva il canto e il sudore di quelle donne.
Il tempo passava e un seme di ciliegia germogliò. Passò qualche anno al riparo nella casetta, protetto da uccelli e intemperie finché poté finalmente affacciarsi oltre le mura scrostate.
Il tempo passava e la gente cambiava. Il contadino padrone morì benestante e contento. Suo figlio vendette la terra con il campo, e la casetta ebbe un nuovo padrone. Le macchine sostituirono le donne e la terra paziente beveva veleno per dare più frutti.
Il tempo passava e il cemento aumentava. Il nastro d’asfalto nero come lutto, correva vicino alla risaia e le auto sfrecciavano incuranti. Umani indaffarati rincorrevano il tempo per trasformarlo in denaro.
Il tempo passava e la neve cadeva. Il peso era tanto e il tetto crollò.
Il tempo passava e una ragazza cominciò ad amare la casetta col ciliegio. L’amava in ogni stagione, e ogni volta che la ve-
Racconti deva scorrere dal finestrino dell’auto in corsa l’amava di più. Diventò per lei rifugio dell’anima, simbolo di un mondo antico e perduto, del sogno silente di una terra paziente che dona bellezza e vita nonostante gli oltraggi. Il tempo passava e la donna sognava rispetto e speranza per la sfera celeste che la ospitava. Una mattina, seduta di fronte a una pagina di vetro, scrisse il suo sogno. La storia della casa del ciliegio navigò lontano trasportata da impulsi al silicio e fece il giro del mondo. … Ma… Il tempo passava e il contadino sognava. Poi il suo cane abbaiò, si svegliò e riprese il lavoro nel campo di grano. Le spighe ondeggiavano, le cicale cantavano, i bambini giocavano e il tempo, lento, passava…
Isabella Bresci
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“ADALBERTO MINUCCI”
Sono nata a Torino il 23 dicembre 1961. Capricorno ascendente Acquario. Sono figlia di Edoardo Bresci (19161990), l’editore delle edizioni “L’Età dell’Acquario” (1970-2000). Dall’età di 21 anni, ho lavorato nella casa editrice e l’ho portata avanti fino al 2000. Ho vissuto a Torino, un anno negli USA e nove anni presso l’ecovillaggio Villaggio Verde, nel novarese. Ora vivo a Torino, non sono più un editore e non ho rimpianti. Amo ogni forma d’arte ma in particolare la danza che ho praticato per 23 anni. Fosse per me passerei la vita a danzare, cantare e scrivere. Collaboro con il Centro Studi Sereno Regis di Educazione alla Pace.
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