N.9_2016
ARCHITETTI L I V O R N O
Ordine
degli
Architetti
Paesaggisti
Pianificatori
Conservatori
In copertina: Giovanni Michelucci Chiesa di San Giovanni Battista Firenze
N.9_settembre_2016
Presidente Arch. Daniele Menichini presidente@architettilivorno.it mobile +39 333 9339212 Vicepresidenti Arch. Sergio Bini Arch. Marco Del Francia Segretario Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere Arch. Sibilla Princi Consiglieri Arch. Enrico Bulciolu Arch. Simona Corradini Arch. Vittoria Ena Arch. Fabrizio Paolotti Arch. Guelfo Tagliaferro Segreteria Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Redazione Arch. Gaia Seghieri redazione@architettilivorno.it Grafica e impaginazione Arch. Daniele Menichini Pubblicazione a cura Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it
Sommario. pagina 1
L’editoriale. Come può l’architetto tornare al centro della scena? Meno star, più competenza e nzeb. Daniele Menichini
pagina 3
Controeditoriale. Mi domando ... di che stiamo parlando? Fulvio Bondi
pagina 5
Vestire i fari di vento, sole e mare. Cristina Rotta
pagina 9
Vicinati energeticamente e alimentarmente autosufficienti. Cambiare modello da “ego” ad “eco”. Daniele Menichini
pagina 15
Le Corbusier. La poesia del cemento diventa patrimonio Unesco. Daniele Menichini pagina 19
Giovanni Michelucci. L’odore del vergatino. Marco Del Francia
pagina 23
Anche McDonald...può brillare! Gaia Seghieri
pagina 19
Anupama Kundoo. Gaia Seghieri
Daniele Menichini
Come può l’architetto tornare al centro della scena? Meno star, più competenza e nzeb.
Il tema dell’efficienza energetica era già uno degli elementi che dava la possibilità all’architetto di emergere con la sua competenza nel mezzo dei grandi numeri dei professionisti tecnici; con le nuove norme per la progettazione degli edifici secondo la logica del “near zero energy building”, azione indispensabile e non più rimandabile con gli step del 2018 per gli edifici pubblici e del 2021 per l’ambito privato, questo passaggio di competenza sarà ancora più evidente e ci darà ancora più possibilità di emergere quali coordinatori del processo progettuale. Quindi non abbiamo molte opzioni, si tratta di un passaggio decisivo insieme al fatto che l’architettura debba rispondere ad esigenze e problemi del vivere e dell’ambiente contemporaneo, non è solo un atto di creatività di per sé, ma anche una azione di responsabilità sociale, culturale ed economica. Mi sorprendo quindi che questo essere “facilitatore” nell’integrazione e nella multidisciplinarità del progetto, venga recepita come uno svantaggio o rappresenti un vincolo, un problema per l’architetto. Ben vengano invece le norme che migliorano la qualità della vita delle persone attraverso la riduzione dei consumi energetici e la diminuzione delle emissioni di anidride carbonica; il problema semmai sta nel fatto che il sistema normativo non si focalizza sul risultato da ottenere, ma spesso, tipicità tutta italiana, costruisca un impianto di regole che non lasciano margini di interpretazione, il focus, come architetti, dovrebbe essere sull’obiettivo, non sul metodo vincolante della norma: bisogna ridurre i consumi e migliorare l’efficienza per andare verso l’impatto ambientale zero. Come soddisfare queste condizioni? Dobbiamo avere la capacità di fare sintesi tra creatività e tecnologia adottata, spesso le norme non riescono a gestire questa complessità e irrigidiscono il sistema al punto che diviene difficile fare innovazione e si ha la tendeza a piegare il progetto 1
secondo la restrizione. Mirare ad un sistema normativo con un obiettivo di lunga visione, di grandi numeri, monitorando i risultati sistematicamente, per verificarne l’efficacia; su questo c’è ancora molto da lavorare L’obiettivo per migliorare l’ambiente in cui viviamo non può essere quello politico del “speriamo che piova”; occorrono azioni organiche e strutturate, inserite in un programma articolato, che hanno ovviamente bisogno di tempo, perché non si ristrutturano gli immobili in due minuti e senza promuovere vere azioni di rigenerazione urbana. Gli architetti, devono continuare ad essere dei visionari perché progettano oggi per il domani, ed oggi più che mai devono affrontare una grande sfida, della quale devono conoscere le condizioni; pensiamo in particolare agli obiettivi europei del 2050 o a COP 2021, non si tratta di argomenti astratti, ma molto concreti: come facciamo a disegnare gli edifici dopo l’era fossile, con che tipo di energia li alimentiamo? Con quali materiali li costruiamo, con quali criteri, anche culturali, procediamo? Quante di queste operazioni saranno ancora legate alla tradizione impiantistica e tecnologica dell’era industriale contemporanea degli ultimi 50 anni? Da qui l’urgenza di agire su competenze, formazione e tanti altri elementi, per proiettarci verso il futuro. In questo nuovo scenario, all’architetto spetta un ruolo specifico, che non mi piace identificare, come fanno molti, con quello del “regista”, un termine parecchio utilizzato, credo che oggi non si tratti più di un problema di “regia” ma di competenza. Da un certo momento storico, l’architettura non è più stata in grado di rispondere alle domande non solo di natura estetica, ma anche di responsabilità sociale e culturale, eppure storicamente, gli architetti hanno sempre posseduto la cultura del costruire: non c’era chi si occupava della forma dell’edificio e chi si preoccupava di farlo stare in piedi o di aspetti di natura ambientale, o ancora di impiantistica preindustriale. Il cambiamento si è verificato soltanto nell’ultimo
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L’editoriale
secolo: le competenze sono state scorporate, gli in-gegneri “fanno gli ingegneri” e cercano di far funzionare il lavoro degli architetti, ma l’architettura non è questo: è sapere come si costruisce un edificio, conoscerne il funzionamento, intendere l’estetica anche come una risposta ai problemi energetici. Con la specializzazione estrema delle diverse professionalità, ognuna con saperi specifici, gli architetti hanno perso un ruolo importante, che non è quello di uomo solo al comando tanto caro al sistema archistar, ma è molto più articolato. Aspetti energetici, ambientali, conoscenza approfondita di materiali e tecnologie: occorre riappropriarsi di tutte queste competenze, condividendole poi con gli ingegneri, nella forma di un dialogo continuo e aggiornato. L’aspetto estetico, morfologico e compositivo di un edificio è anche il risultato di questa complessità, non si può disegnare un edificio a forma di banana e poi lasciare agli ingegneri il compito di farlo funzionare ... quando ci riescono; questa purtroppo è la storia degli ultimi 50 anni di architettura, fatta da progettisti stravaganti, che ricorrono al linguaggio dei simboli, dei segni, mentre c’è chi si preoccupa di far andare gli impianti. Quel mondo non ci appartiene, la questione energetica ed ambientale, con le sue implicazioni sulla qualità della vita e dell’aria che respiriamo, porta al centro del dibattito il ruolo dell’architetto come figura completa, in cui convergono la capacità di dialogare con le tecnologie e il farsi carico di un compito sociale. Si tratta di un ruolo importante, che in Italia non è mai stato del tutto riconosciuto, forse perché anche nel nostro settore non sono mancati gli scandali e alcuni di loro hanno flirtato con la politica, quella di basso livello. Come dobbiamo guardare al concetto dell’edificio del futuro? Innanzitutto bisogna pensare che il futuro è già oggi perchè abbiamo perso troppo tempo, iniziare a guardare quello che in questo tempo perso e prezioso hanno fatto nei paesi che ci circondano, attuando un processo di trasferimento di conoscenza sulla centralità del progetto,
iniziare ad utilizzare i nuovi strumenti in grado di simulare i comportamenti e le performance dell’edificio, verificare virtualmente più condizioni (climatiche, geologiche, energetiche): invertire la logica per cui si è sempre investito sulla macchina invece che sulla conoscenza e sulla competenza. Nei prossimi anni lavoreremo di più nella fase di progettazione, sviluppando l’apporto creativo e riducendo gli innesti tecnologici degli impianti, faremo costruzioni efficienti grazie alla loro forma e ai materiali utilizzati, gli impianti tradizionali serviranno solo a completare quel livello di comfort a cui siamo abituati, la tecnologia sarà sempre meno visibile. La capacità di analizzare questo “invisibile” è un’opportunità che non abbiamo mai avuto o che non abbiamo mai saputo sfruttare, o meglio, gli architetti hanno posseduto per millenni questa sensibilità sui luoghi, sulla materia, ma poi l’hanno perduta. In un certo senso, l’evoluzione digitale ed il Building Information Modeling ci riporterà al nostro passato. Infine c’è un ultimo aspetto rilevante: abbiamo un patrimonio di costruito che ha una povertà edilizia inaccettabile, che corrisponde spesso alla povertà sociale, quindi il campo si allarga: oltre a pensare agli edifici nuovi che realizzeremo, dobbiamo traghettare il vecchio parco immobiliare nella nuova era, per ragioni anche di natura sociale appunto. Il cambiamento climatico, infatti, farà soffrire proprio le popolazioni più vulnerabili, smettiamo quindi di far sprecare energia agli edifici in maniera stupida. Abbiamo a disposizione risposte sempre più mirate: i nuovi materiali, esito di un’indagine che non è orientata solo agli aspetti estetici della materia, ma la indaga sulla loro essenza, svolgono ruoli e funzioni di natura anche ambientale: assorbono umidità e riducono gli effetti acustici, mangiano lo smog, immagazzinano energia ... Questa è la direzione da percorrere per realizzare città a basso consumo e ad alta qualità di vita e noi possiamo emergere con la nostra competenza. 2
Fulvio Bondi
Mi domando ... di che stiamo parlando?
In Italia: oltre 150.000 architetti, circa un terzo di tutti gli architetti europei. Edilizia pubblica e privata in crisi. Concorsi di idee: chiedono il computo metrico… non l’idea! Le leggi non mancano di certo. Sembra: Italia 150.000 circa; Francia 7.000 circa; Germania 5.000 circa; Regno Unito 3.000 circa. Norme, regolamenti, definizioni, contro definizioni, controcontro definizioni, interpretazioni delle norme e delle leggi, interpretazioni delle interpretazioni, burocrazia, burocrazia, burocrazia …e gli architetti nel mezzo, rimbalzano come palline da ping pong, leggono, studiano, cercano di capire. Le responsabilità: gli architetti devono dichiarare, sottoscrivere, asseverare, firmare, timbrare (in questo mare magnum di norme intepretabili). Abolizione delle tariffe. “Favorirà la crescita, il confronto. Darà possibilità ai giovani”. Sembra che abbia comportato solo un gioco al ribasso …al massacro. Scorrendo siti vari si trovano offerte da saldi commerciali Se questo è il futuro, i giovani andranno poco lontano. Me ne dispiaccio per loro. Se il progetto, il nostro lavoro, sono intesi come merce e non come prestazione intellettuale, creativa, come arte e tecnica, competenza, serietà e correttezza, anche il corrispettivo viene a mancare. Il ruolo dell’architetto è ridotto alla semplice vendita di qualche etto o chilo di “fogli”. Ma architetto, tutti questi soldi per qualche disegnino? Questo è il messaggio che circola nella maggioranza dei nostri concittadini. Il ruolo sociale ed il prestigio della professione sono racchiusi in queste parole. Salvo per gli archistar!!! Ma quello è un altro film i cui attori rappresentano 3
ela
una minima percentuale dei partecipanti. Gli altri sono comparse. Il mestiere più bello del mondo: studiare, creare, inventare spazi, volumi, ambienti… giochi di geometrie, di forme, di luci ed ombre, di percorsi orizzontali e verticali… lo studio dei materiali, dei colori, della tecnica…il tutto per soddisfare le esigenze umane. Ma quanti di noi hanno avuto, a vari livelli, la possibilità, l’occasione di fare architettura? Quanti, invece, hanno da comprendere la logica di certe norme del Regolamento Urbanistico e/o del Regolamento Edilizio o cercano di districarsi tra le definizioni di “straordinaria manutenzione” oppure di “risanamento igienico…” oppure si cimentano con la definizione di “ristrutturazione edilizia intesa come ristrutturazione edilizia consistente in interventi di demolizione con fedele ricostruzione…interventi di demolizione e contestuale ricostruzione, comunque configurata…interventi di demolizione e ricostruzione di cui al comma precedente … nel rispetto della sagoma dell’edificio preesistente…ripristino di edifici o parti di essi crollati… diversi da quelli di cui alla lettera i)…” etc…etc…etc… E poi viene il bello!!! Questo intervento che procedura prevede? Edilizia libera senza titolo abilitativo oppure è possibile intervenire “previa comunicazione, anche telematica”? Quest’altro intervento prevede la SCIA, la comunicazione di inizio lavori oppure la comunicazione di inizio lavori asseverata? …ma: - la normativa sismica; - la normativa sul contenimento dei consumi energetici; - la normativa sull’ acustica; - l’abbattimento delle barriere architettoniche; - il codice civile; - il vincolo paesaggistico; - il vincolo idrogeologico; - il vincolo delle aree percorse dal fuoco; - il vincolo cimiteriale;
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- il vincolo stradale; - le distanze tra edifici; - le distanze dai corsi d’acqua; - le distanze dalla linea ferroviaria; - le distanze dalla linea elettrica; - le distanze dal metanodotto; gli studi per le aree a rischio idraulico molto elevato ed elevato; - la Circoscrizione Doganale; - la pratica per l’area S.I.N.; - i parchi e le aree protette; - il calcolo dei volumi; - il calcolo delle superfici nette e lorde; - il calcolo del rapporto tra superfici e superfici finestrate; - il calcolo delle altezze; - la documentazione ambientale; - la richiesta dei pareri/Enti interni; - la richiesta dei pareri/Enti esterni; - il N.O dell’USL; - il N.O della Soprintendenza; - il progetto dei vari impianti; - il piano di smaltimento dei materiali da demolizioni edili; - la pratica per le terre da scavo; - la pratica per la bonifica dei suoli; - il permesso del condominio; - la documentazione fotografica; - le norme UNI; - l’atto di acquisto; - il documento d’identità; - la documentazione catastale; - la ricerca d’archivio delle vecchie pratiche; - la perizia giurata in tribunale; - la conformità edilizia; - la conformità urbanistica; - l’elenco delle ditte esecutrici; - il DURC con il numero di matricola INAIL, Cassa Edile, INPS; - l’elenco degli elaborati;
- i rilievi; - i rilievi del terreno; - lo stralcio del P.R.G.; - il fotogrammetrico; - lo stato attuale e modificato – piante, prospetti, sezioni; - lo stato sovrapposto (rosso e giallo); - la relazione architettonica; - i particolari costruttivi, esecutivi e decorativi; - l’elaborato tecnico grafico da cui risultino i materiali di finitura ed i colori; - il calcolo e pagamento degli oneri; - la pratica di abitabilità/agibilità e tutto ciò che comporta; il modello ISTAT; - l’elaborato per abbinare unità immobiliari e parcheggi pertinenziali; - l’elaborato tecnico per i lavori in copertura; - il parere di conformità antincendio; - il piano per la sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione; - la notifica all’USL; - il responsabile dei lavori; - il computo metrico estimativo; - il capitolato speciale d’appalto; - il contratto d’appalto; - la direzione dei lavori; - i rapporti con le ditte; - la contabilità dei lavori; - le perizie suppletive; - etc…etc…etc…? Senza dimenticare l’annosa questione delle competenze professionali (geometri, ingegneri, architetti) e, di primaria importanza, le disponibilità della committenza che, con poco, vorrebbe realizzare molto!!! Mi domando: tutto questo è architettura? Mi domando, altresì: a quanti interessa, se non a noi, la qualità del progetto, della composizione architettonica, della fruibilità delle superfici, degli spazi, dei volumi, della scelta dei materiali, del processo progettuale, del concetto creativo? 4
VESTIRE I FARI DI VENTO, SOLE E MARE. Cristina Rotta I Fari hanno da sempre affascinato l’immaginario collettivo; essi hanno origine in epoche lontanissime, in quanto vanno di pari passo con la storia della navigazione. Con l’avanzare della tecnologia i fari sono stati automatizzati e quindi manovrati a distanza, rimanendo comunque un simbolo della eredità marittima e quindi da preservare. La loro illuminazione è cambiata nei secoli per arrivare dalla metà del 1800 all’uso dei derivati del petrolio e infine all’elettricità. Poichè la nostra penisola è costellata da molti fari e fanali (la cui responsabilità del servizio è dal 1911 affidata alla Marina Militare) e la loro funzione è quella di “illuminare”, il filo conduttore del progetto integrato del team è stato quello di garantire suddetta funzione in un’ottica di autosufficienza energetica, risparmio delle risorse e minor impatto ambientale. FILOSOFIA PROGETTUALE Il progetto, prende in considerazione due tipologie di fari: - i fari collegati a infrastrutture locali (reti elettriche), spesso localizzati in posizioni sopraelevate delle isole; - i fari isolati, privi di ogni tipo di infrastruttura (in genere sono fari di segnalazione di scogli affioranti e /o secche). Analizzando entrambe le tipologie si rileva che oggi l’uso delle fonti non fossili per sopperire alla domanda energetica si è limitato all’impiego di pannelli solari fotovoltaici e, dove occorre, di un sistema di stoccaggio a base di accumulatori elettrici. Sia i sistemi di captazione fotovoltaica che gli accumulatori elettrici a batteria hanno impatto ambientale non trascurabile in riferimento sia al loro smaltimento
di fine vita che al possibile inquinamento conseguente ad incidenti con dispersione in mare. Per questo si propone di introdurre, in aggiunta alle tecnologie fotovoltaiche, sistemi eolici non convenzionali, derivanti da studio e rivalutazione di tradizionali tecniche marinaresche, generatori da moto ondoso e alternativi sistemi di stoccaggio dell’energia. SOLUZIONI: a) Cattura del vento Per la cattura del vento le pale eoliche sui fari non sono proponibili paesaggisticamente e funzionalmente. La tecnologia marinaresca tradizionale a cui si fa riferimento è quella delle maniche a vento orientabili che adornavano le coperte dei piroscafi di fine secolo XIX – inizio XX (fig.1). Queste maniche a vento avevano lo scopo di catturare e convogliare l’aria fresca di superficie verso i compartimenti inferiori per renderli più vivibili. Lo sfruttamento del vento con questa tecnica, anche se meno efficiente, è visivamente meno impattante rispetto alle pale rotanti. La soluzione consiste nel “rivestire il faro”, normalmente costituito da un corpo principale cilindrico, con maniche a vento tangenziali fisse che possano catturare l’energia del vento in maniera selettiva, qualunque sia la direzione di provenienza e convogliarla verso piccole turbine generatrici posizionate alla base della struttura (ventilatori centrifughi). Lungo la parte verticale non attiva di tali maniche modulari prefabbricate, possono essere eventualmente alloggiati pannelli fotovoltaici. Questa soluzione è applicabile a fari per i quali non esistano vincoli di tipo estetico o paesaggistico. Di seguito è mostrata un’applicazione esemplificativa al Faro Dell’ Isola Del Tino - La Spezia (fig. 2).
Fig.1-Le maniche a vento dell’antica marineria.
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Schemi progettuali di funzionamento.
Fig.2-Faro dell’Isola del Tino SP.
Render progettuale. 6
VESTIRE I FARI DI VENTO, SOLE E MARE. Fig.3-Basi del concept progettuale.
Schemi progettuali di funzionamento.
Render progettuale.
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b) Cattura del vento con struttura fissa. Per fari con caratteristiche architettoniche o vincoli paesaggistici che non ne permettono la “vestizione”, la soluzione, é pensata realizzando nelle vicinanze, in zona esposta al vento ed al sole, una struttura dedicata al recupero di energia con le tecnologie sopra riportate e ancora sul concetto delle maniche. Il concept architettonico, pensato per il Semaforo del Monte Arpagna nell’Isola di Capraia (LI), si ispira alla forma a spirale delle conchiglie (fig.3), dove la cattura del vento avviene sia attraverso delle bocche di presa, che riconducono alle spine del modello naturale, sia attraverso la coclea principale che in natura individua l’alloggiamento del mollusco. La struttura poggia su una piattaforma rotante che, attraverso un sensore, gira a favore di vento ed è composta da due materiali: - struttura puntiforme in acciaio tubolare, che permette un agevole trasporto sulle isole; - tamponatura in ETFE, che permette ai raggi del sole di raggiungere i pannelli fotovoltaici posizionati, all’interno, a protezione della turbina eolica. c) Generazione da moto ondoso e stoccaggio elettrochimico dell’energia Questa soluzione si applica, in particolare, a fari posizionati su scogli isolati, a pelo d’acqua, come per esem-
pio quello dello Scoglio d’Africa (formiche di Montecristo LI) (fig.4). Il sistema consiste in un camino idraulico, ricavato all’interno della battigia, collegato al mare aperto da un condotto comunicante. L’oscillazione della colonna d’acqua provocata dal moto ondoso alimenta una turbina idraulica ad asse verticale, alloggiata all’interno del condotto di comunicazione, che ruota sempre nello stesso senso all’invertirsi del moto nel condotto. Il sistema è un OWC (Oscillating Water Column) modificato con l’uso di una turbina idraulica di tipo Savonius. Per i fari di questo tipo, quindi su scogli circondati dal mare, la posizione del captatore è poco rilevante in quanto il moto ondoso risulta attivo qualunque sia la provenienza delle onde per effetto dell’impatto o della risacca. Nel Mar Tirreno Centrale, per la permanenza media di molti giorni di calma, è necessario stoccare l’energia elettrica prodotta attraverso un accumulo elettrochimico, non impattante per l’ambiente, costituito dall’impiego di celle a combustibile PEM ad idrogeno/ossigeno reversibili. I sistemi energetici proposti, frutto di una progettazione integrata multidisciplinare, al di là degli esempi studiati, trovano applicazione nella quasi totalità dei fari esistenti. Team di progetto: architetti Cristina Rotta, Iria Avanzini, Paolo Fatticcioni, Massimiliano Pardi; Ingegneri Piuerluigi Avanzini, Alessandra Rando; geologo Alessandro Damiani
Fig.4-Faro dello Scoglio d’Africa (Formiche di Montecristo LI).
Schemi progettuali di funzionamento.
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Vicinati energeticamente e alimentarmente autosufficienti. Cambiare modello da “ego” ad “eco”. Daniele Menichini Sempre di più si continua a parlare di rigenerazione urbana e si ricercano nuovi modelli che possano effettivamente essere funzionali per il futuro delle nostre città, e mentre in Italia il concetto di rigenerazione urbana sostenibile stenta a decollare, perché manca il parternariato tra iniziativa pubblica e iniziativa privata, in altri paesi dell’Europa si innescano invece modelli virtuosi come quello del ReGen Village ideato dagli architetti olandesi dello studio Effekt per un quartiere in Olanda. Oggi la metà della popolazione mondiale vive in città e la crescita non si arresta, anzi le stime dicono che continuerà con 2,5 miliardi persone che si sposteranno nei centri urbani nei prossimi 50 anni. Questo richiederà una massiccia urbanizzazione dei suoli urbani e periferici, i cui prezzi continueranno a salire causando grandi difficoltà alle città che sempre più andranno verso il modello della crescita verticale per trarre maggiori profitti, ed allo stesso tempo non avendo la possibilità di garantire i diritti fondamentali e di prima necessità come l’acqua potabile, l’energia ed il cibo associati a questa crescita della popolazione. L’idea di questo quartiere periferico, che punta ad essere autosufficiente dal punto di vista energetico e quindi off-grid oltre ad essere in grado di produrre e soddisfare i primari bisogno di alimentazione, offre una vera alternativa al concetto di urbanizzazione massiva delle città, e permetterebbe lo sviluppo e la riqualificazione delle aree periurbane e rurali in maniera intelligente, garantendo anche alle municipalità la possibilità di garantire i propri servizi a costi notevolmente ridotti. Perché e necessario pensare ad iniziare seriamente una politica di rigenerazione urbana? Semplicemente perché uno dei principali motori è quello del cambiamento climatico, che sta iniziando a produrre una delle più grandi crisi ambientali ed umanitarie del nostro tempo, basti pensa-
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re che con i nostri consumi energetici, le città stanno emettendo 150 volte più gas serra rispetto a 100 anni fa; valori che continuano a crescere in maniera esponenziale, e che continueranno altrettanto velocemente con una popolazione mondiale in crescita e che vede l’agricoltura come uno dei più grandi driver del cambiamento climatico oltre alla perdita delle biodiversità e alterazione del paesaggio, per far posto ad aree ad alta concentrazione agricola. Pensiamo che oggi il 40% della superficie dei nostri continenti è utilizzata per produrre cibo e che la produzione di alimenti è il soggetto che emette gas serra più di ogni altro soggetto industriale, il più grande attuatore di politica di deforestazione e che è responsabile per il 70% del consumo di acqua; spediamo il cibo da un’estremità del mondo all’altra, perdendone il 30% della produzione prima del consumo, e nonostante questo anche 1/7 della popolazione mondiale soffre la fame. In tutto questo l’architetto ha una grande responsabilità etica, morale, sociale e culturale e per questo come dice Sinus Lynge, uno dei fondatori dello studio Effekt, è giunto il momento di ridefinire lo sviluppo immobiliare per i prossimi 3 miliardi di persone che si avvicineranno alle città, con una vera e propria responsabilità verso il pianeta; solo riuscendo a creare le joint venture tra i vari partner della filiera del comparto edile si riusciranno a sviluppare progetti di comunità interamente autosufficienti in tutto il mondo. Ecco che in Danimarca, paese notevolmente sensibile al tema della sostenibilità, si è riusciti a mettere a punto una società di sviluppo per i “vicinati” di tipo ReGen, società che sta riuscendo a mettere insieme una notevole e significativa quantità di fondi di finanziamento, pubblici e privati, da investire sui nuovi modelli di rigenerazione e riqualificazione della città e del suo ambiente. Il primo passo dell’investimento consisterà nella ricerca di zone da acquisire e che abbiano una vocazione territoriale per ospitare il primo modello di
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ReGen Village, operazione che viene svolta in collaborazione con le municipalità locali, che sono anch’esse alla ricerca di partner che abbiano progetti sostenibili da sviluppare. In questa filiera la società di investimento ricercherà architetti locali, imprese edili e altri soggetti micro-investitori, metterà a disposizione la propria piattaforma tecnologica che sta alla base del progetto, piattaforma di aggregazione tra i vari soggetti che saranno poi gestori e distributori dei servizi agli utenti semplicemente con un canone di affitto. ReGen Village sarà presente al padiglione Danese della Biennale di Architettura di Venezia, e presenterà il primo modello sviluppato per la città di Almere in Olanda, un progetto per un “vicinato” di 100 case nella periferia della città, e dove proprio in questa estate 2016 inizieranno i lavori di costruzione. Un modello davvero virtuoso di rigenerazione e riqualificazione urbana sostenibile, che ha già avuto contatti per essere sviluppato in collaborazione con alcune municipalità in Svezia, Norvegia, Danimarca e Germania ed i cui modelli, anche climatici, possono partire dallo stesso concetto, mentre gli altri modelli dovrebbero prendere forma in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi, in Cina, Malesia, India, Stati Uniti e Canada, dove dovranno essere condotti
specifici studi ambientali e climatici. ReGen Village ed Effekt sono stati in grado di analizzare il problema, capire l’opportunità, trovare la soluzione, ed avendo a disposizione una municipalità illuminata è arrivata anche a far partire la realizzazione in un tempo breve. Con questo modello virtuoso di rigenerazione urbana purtroppo non posso concludere che facendo un triste paragone con la situazione italiana, in cui il principale attore dei processi di rigenerazione urbana è una amministrazione pubblica che non ha il coraggio di mettere in atto parternariati con l’investitore privato e che sta ancora a discutere di quali sono gli oneri di urbanizzazione da applicare agli interventi di rigenerazione e riqualificazione urbana, si pensa solo alle casse e non al bene delle città e dei suoi abitanti; basterebbe prendere in esempio la realtà della vicina Francia che è riuscita a mettere in piedi la ANRU (Agenzia Nazionale Rigenerazione Urbana), che opera innescando modelli di rigenerazione in cui il pubblico investe 1 euro ogni 4 euro investiti dal privato. In Italia siamo lontani anni luce, potrete approfondire il progetto attraverso il sito web http://www.regenvillages.com/
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Le Corbusier.
La poesia del cemento diventa patrimonio Unesco. Daniele Menichini Ci eravamo lasciati lo scorso anno con un articolo sui 50 anni dalla morte di Le Corbusier, approfondendo uno dei temi poco trattati, ovvero il rapporto del grande maestro con la cultura fascista; ci ritroviamo oggi invece a celebrare la sua opera grazie alla decisione di Unesco di inserire quale patrimonio mondiale 17 delle sue opere. Il cemento della sua epoca era poesia a differenza di quello dei nostri giorni che viene aspramente condannato, eppure lo stesso materiale è stato capace di generare opere di architettura di così grande pregio ed interesse e che sono alla base della storia dell’architettura moderna e dei corsi di laurea chi si fanno nelle università italiane ed in tutto il mondo; è indubbio che l’opera di Le Corbusier vada analizzata e valutata nel suo contesto temporale e non alla luce dei nuovi concetti sull’architettura sostenibile, che oggi pervadono tutto il nostro processo progettuale. I colossi di cemento armato di Le Corbusier non avevano certo un basso impatto sul paesaggio, ma sono stati capaci di trasformare il paesaggio stesso, condizionarlo, emergere e diventare loro stessi il paesaggio a cui ispirarsi, che questo sia stato un bene o un male possiamo analizzarlo solo oggi dopo quasi un secolo dall’inizio del suo lavoro, così come possiamo analizzare solo oggi quale impronta la sua opera abbia dato alle architetture che sono venute dopo e a cui molti si sono ispirati. Di fatto oggi la situazione è congelata o meglio fotografata in questo modo e solo la critica delle storia
e della letteratura architettonica ha fatto e può fare un bilancio su quanto l’opera di Le Corbusier abbia generato architetture di pregio o mostri che andrebbero demoliti per fare posto ad altro, che riqualifichi le città ed i paesaggi con una visione contemporanea. L’opera del maestro resta intoccabile, se mai a dover essere criticato è tutto il sistema universitario che ha ispirato il proprio lavoro di insegnamento su questa base, trasferendola come dogma ai propri studenti senza insegnare che dietro a tutto questi molossi c’era quello che poteva fare la differenza: il genio creativo di Le Corbusier. Ma vediamo quali sono le opere che l’Unesco ha inserito, dopo un lungo percorso di valutazione, all’interno del patrimonio mondiale dell’umanità, ricordando il principio che è stato movente della scelta: un approccio innovativo (sottolinea l’Unesco nella motivazione) che ha influenzato profondamente il XX secolo, cercando di rispondere alle esigenze della società moderna. Addentrarsi nella descrizione di ogni edificio senza aver vissuto l’emozione di visitarlo sarebbe inutile e quindi passiamo solo in rassegna fotografica l’elenco delle 17 opere. sperando che qualcuno ne abbia già visitato qualcuna o che abbia lo stimolo a farlo, io ho avuto l’occasione di vederne alcune in Germania e in Francia, e sono chiaramente rimasto affascinato oltre ogni parola di ogni libro che avevo letto sulle opere del grande maestro Le Cobusier.
Germania: Case WeissenhofSeidlung a Stoccarda
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Belgio: Maison Guiette ad Anversa
Francia: Cappella Notre Dame du Haut a Ronchamp
Francia: Capanno di Roquebrune
Argentina: Maison del dottor Curutchet a La Plata
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Francia: Cité Frugès a Pessac
Francia: Cité radieuse à Marsiglia
Francia: Convento di Sainte Marie de la Tourette a Evreux
Francia: Casa della cultura a Firminy
Francia: Palazzina per affitti Molitor a BoulogneBillancourt
Francia: Casa La Roche et Jeanneret a Paris 17
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India: Palazzi del Governo a Chandigar
Francia: Villa Savoye a Poissy
Svizzera: Edificio Clarté a Ginevra
Francia: Manifattura a Saint Dié des Vosges Svizzera: Villino sulla sponda del lago di Léman a Corseaux
Giappone: Museo Nazionale delle Belle Arti Occidentali a Taito-Ku 18
Giovanni Michelucci. L’odore del vergatino. Marco Del Francia Ci sono incontri nella vita delle persone che lasciano indelebilmente un segno. Personalmente ho avuto la fortuna di viverne diversi e tra questi ce n’è uno, senza dover recuperare una delle vecchie agende che ancora conservo, che ne ricordo ancora la data: 27 marzo 1990. Quel giorno la Facoltà di Architettura di Firenze riapriva “ufficialmente” le lezioni dopo mesi di occupazione del Movimento studentesco della “Pantera”. A presenziare alla simbolica inaugurazione (ritardata) dell’anno accademico gli studenti vollero la personalità forse più importante che la Toscana, architettonicamente parlando, abbia avuto nell’ultimo secolo: Giovanni Michelucci. All’epoca non si parlava ancora di archistar eppure quel giorno la Facoltà fiorentina si ritrovò gremita come mai si era vista; non solo l’Aula Magna, ma anche i corridoi, pieni fino al soffocamento; e altre due aule stracolme di studenti che seguivano l’incontro tramite collegamento video. Michelucci aveva 99 anni, ma davanti a noi non ci trovammo un anziano signore, se non nelle apparenze fisiche, bensì un lucido e giovanissimo spirito che trasmetteva vita e amore da quegli attenti occhi chiari. Accompagnando le parole con eleganti movimenti delle sue grandi e asciutte mani, parlò per più di un’ora (nonostante l’età), senza mai citare nessuna delle sue innumerevoli opere. Mi accorsi solo a sera, rientrando a casa, che Michelucci non aveva mai parlato direttamente di Architettura, ma allo stesso tempo non aveva fatto altro che toccare argomenti, apparentemente effimeri, per condurci in quella magica disciplina che non possiamo scindere da una qualsiasi azione del nostro vivere: da ciò che i nostri occhi vedono camminando ogni giorno per la strada; dagli incontri che facciamo; dagli odori e dai sapori che incameriamo; dai desideri che abbiamo così come dai sogni. Come quello che raccontò quella mattina stessa: Ho sognato una capanna in un bosco con la porta a bocca di lupo. Una capanna povera, provvisoria, il cui aspetto evocava l’infanzia, i ricordi ancestrali, gli odori e gli umori del muschio, del pane appena cotto, del formaggio. Ricordi di una realtà irrecuperabile se non nel sogno. Tanto è vero che, avvicinandomi alla capanna, invece di ingran-
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dirsi, rimpiccioliva sempre più. Un luogo talmente piccolo da considerarsi inabitabile. Ma d’un tratto ho intravisto all’interno l’ala di un angelo: una presenza angelica. E nessun luogo è povero o di poco conto se abitato da un angelo! Mi è parso di comprendere visivamente una realtà elementare eppure ricca di implicazioni: che non sono i luoghi che devono cambiare, ma le persone che li abitano. Uno spazio è sempre povero quando è privo di capacità di relazioni, ed è sempre bello quando è generativo di incontri, di possibilità sinora inesplorate. Questa, forse, è la felicità dell’architetto. A più di 20 anni dalla scomparsa il suo insegnamento è sempre attuale. Michelucci non ha mai inteso le sue architetture come un fatto isolato e implosivo legato ad un linguaggio formale. Al contrario ha sempre considerato ogni avventura progettuale come un’occasione per disegnare un elemento della città, in una visione dell’architettura consapevole del suo ruolo sociale. E l’ha fatto ponendo sempre al centro le persone e i bisogni dei cittadini. La “città variabile”, da lui così intesa in quanto essa rappresenta l’aspetto storico della città nuova, perciò variabile nel tempo, è per Michelucci architettura a scala urbana, che nasce dalla vita e dall’osservazione del quotidiano; non misurabile in rapporti amministrativi o di standard, ma come unità organica in cui tutti gli elementi vanno inseriti in un vero e proprio sistema di relazioni. Per questo l’architetto pistoiese ha sempre posto alla base del progetto lo spazio e l’uomo, in quanto lo spazio architettonico riveste funzione psicologica di una realtà variabile che si adatta alle esigenze individuali e collettive e che muta col mutare di queste. La concezione dello spazio come storia in continuo mutamento, non si può evidentemente tradurre in Michelucci in una ricerca formale, ma quanto nella ricerca di uno spazio attuale che è diverso sempre nelle incessanti esigenze in movimento degli abitanti della città. Che si risolve certo attraverso una forma, ma una “forma in espansione”, come testimoniano i suoi innumerevoli disegni densi di matasse di linee, che nel laborioso processo grafico trascrivono meglio di ogni parola la necessità – quasi impellenza - di mettere in relazione le ricche tematiche sociali all’interno di un pro-
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1. Studio per centro termale del Monte Belvedere a Massa Carrara (1980-81)
2. Disegno per “Radici della cittĂ â€? (1985)
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3. Studio per il progetto di ristrutturazione dell’area Garibaldi a Fiesole (1985)
4. Studio per monumento a Michelangelo sulle Apuane (1972)
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getto organico. E’ anche per questo che ogni edificio di Michelucci non ha mai unicamente la funzione per la quale è stata commissionata la sua realizzazione, ma amplia le sue possibilità di connessioni e funzioni: una banca allora può diventare piazza, una chiesa essere un teatro, una stazione una strada. Architetture che vanno così a costituire una vera e propria realtà urbana, fisica e di relazioni. La città variabile di Michelucci in questo senso è un approccio alla progettazione che non andrà mai fuori moda, perché vive e partecipa dei modi e dei comportamenti di usare lo spazio da parte delle persone, che sono in continua trasformazione: lo spazio che parla e che diviene proiezione delle attività umane, fornendo spunti ed elementi sempre nuovi alla progettazione. D’altronde il Genius Loci per Michelucci non è mai stato un concetto statico, bensì un’idea dinamica in perenne divenire. Ricordo le sue parole quando ci esortava a prestare attenzione alle “possibilità” che nascono sempre dall’incontro di qualcosa, tra noi e un oggetto ad esempio, o con un animale, un albero, una finestra che si apre al paesaggio; alle possibilità che nascono dall’incontro e dallo scambio
con un’altra persona. E quando chiedeva, a noi giovani studenti, come immaginassimo la città, come avremmo progettato ad esempio un mercato, lui, con quell’aria sorniona e divertita, raccontava: «Io ho cominciato, tanti anni fa, a riconoscere il giorno del mercato dall’odore del vergatino. Il vergatino è una stoffa che è profumata. E sentivo questo giorno, che cominciava così: si passava per le bancarelle, si facevano dei commenti, si dicevano cose più o meno utili. Arrivati a questa età, non l’età nostra, l’età della vita, abbiamo il compito… avete il compito, voi che sarete futuri architetti, di creare la città; una città che porti il mercato a esprimersi in tutte le sue possibilità, cioè che riveli quello che è il vero concetto dello scambio, ossia l’incontro, il contatto di persone che non si contentano di comprare oggetti e portarli a casa.» Progettare il mercato partendo dall’odore del vergatino, prima ancora di mettersi a disegnare rettangoli o griglie, a tracciare linee bidimensionali o volumi, destreggiarsi tra rapporti e superfici. Ho sempre pensato che una città e le sue architetture dovrebbero essere pensate così.
5. Progetto per un centro sportivo a Prato (1980)
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Anche McDonald...può brillare! Gaia Seghieri Premetto che non sono un amante di McDonald, anzi, rientra tra quei luoghi ed ambienti che per me possono tranquillamente non esistere, ma la sede di Rotterdam, disegnata e realizzata dallo studio Mei architects and planners, mi piace tanto, e per questo, continuando idealmente, per ora, con il mio viaggio olandese, scrivo un articolo a riguardo. Ho avuto la fortuna di conoscere Robert Winkel, titolare dello studio Mei Architects, nel 2015, ad Utrecht, ad una presentazione che lo stesso Robert fece sul suo studio, ed i suoi progetti. Uomo sulla quarantina, semplice, diretto e pratico, e per niente borioso, come solo gli olandesi sanno essere, ha parlato durante la serata dei progetti passati, presenti e futuri dello studio, tra cui edifici multifunzionali, appartamenti, magazzini, parcheggi, ed uffici, distribuiti su tutto il territorio Olandese, tra Rotterdam, Amsterdam, Gouda, ed Helmond, soffermandosi sull’edificio/padiglione sede della McDonalds. Questa sede è stata edificata in soli due mesi nel 2015, e rientra tra gli edifici indicati, come quelli da visitare a Rotterdam, insieme al Markthal, ed alla Fenix Food Factory. Rotterdam vede intensificarsi, la nascita di questi edifici, nati per accogliere il visitatore, e gli stessi cittadini, nel nuovo cuore architettonico della città. E’ un padiglione, totalmente vetrato e trasparente, con ingressi su tre lati, che si apre verso l’edificio delle poste
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più antico, e verso il contesto urbano, facendosi attraversare completamente da quest’ultimo, anche grazie alla presenza di forniture di arredo, che si trovano sia sulla terrazza del padiglione, sia in aree urbane della città. E’ un blocco edificato, luminoso, sia di giorno che di notte. La facciata è riccamente articolata, costruita con un unico materiale alluminio anodizzato dorato, materiale caldo ed elegante, a prova di vandali e duraturo nel tempo. Il padiglione è aperto 24/24, e dopo il tramonto è come se cambiasse aspetto, pelle. L’involucro è traforato con fori a forma di cuore, per formare un ‘velo’ intorno all’edificio vetrato, attraverso il quale l’illuminazione si espande. Quest’involucro, prosegue nelle pareti e nei soffitti interni, attraverso vari gradi di perforazione. Nella facciata i fori formano una folla di persone, che guardano verso l’ambiente circostante. L’illuminazione è integrata nelle facciate, e gli impianti tecnici sono inseriti all’interno del tetto, che è stato progettato come se fosse una quinta facciata, mentre il contatore, e la cucina si trovano al piano terra. In unico pezzo, la scala a chiocciola in acciaio conduce dalla hall alla zona salotto al primo piano. Da qui i visitatori hanno una splendida vista panoramica che si affaccia sul Coolsingel. In sintesi le parole che possono descrivere questo edificio, sono leggerezza, integrazione, fluidità, arte.
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Anupama Kundoo. Gaia Seghieri Alla scoperta di biografie interessanti, ho incontrato questa giovane donna, architetta indiana, Anupama Kundoo, che crea seguendo le possibilità locali, materiali e metodi costruttivi, del posto in cui progetta. I suoi edifici in India mi rimandano a Laurie Baker, architetto inglese, che decise di produrre in India la sua architettura. Come in Laurie, anche in Anupama, c’è quel mix di innovazione, raffinatezza, ed allo stesso tempo di semplicità. Strutture apparentemente povere, rivelano una grande abbondanza di forme e particolari costruttivi, come a volere far conoscere anche quella parte di prosperità dell’india, che non manca di certo, nei colori, nei disegni e nei materiali. Qui di seguito una presentazione, per introdurre Anupama Kundoo. L’architetta Anupama Kundoo è nata a Pune, in India, nel 1967. La sua formazione si è svolta tra la scuola superiore High School di Maria Immacolata Girls, e la facoltà di architettura Sir JJ all’Università di Bombay, dove ha ottenuto la sua laurea nel 1989. Successivamente ha ricevuto il Vastu Shilpa Foundation Fellowship nel 1996 per la sua tesi su “Urban EcoComunità: progettazione e analisi per la sostenibilità”, ed ha acquisito il suo dottorato presso l’Università Tecnica di Berlino nel 2008. Anupama ha insegnato presso l’Università Tecnica di Berlino e Darmstadt in Assia, Germania, nel corso del 2005. Ha lavorato come assistente di professore alla Parsons The New School for Design, di New York fino al 2011 per poi passare in Australia come docente presso l’Università del Queensland. Nel 2014, si è spostata verso l’Europa, dove ha iniziato a lavorare presso la Scuola Europea di Architettura e Tecnologia all’Università Camilo José Cela di Madrid, dove ha
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il proprio studio, Anupama Kundoo Architetti Anupama Kundoo si è affermata come architetto ad Auroville, dove ha progettato e costruito molti edifici economicamente innovativi, con infrastrutture energetiche ed idriche efficienti: ha lavorato qui dalla metà del 1990 fino al 2002. Il suo approccio alla progettazione degli edifici è basato sulla ricerca di materiale che riduce al minimo gli effetti sull’ambiente. La base della sua progettazione, è quella di utilizzare materiali di scarto. Uno degli edifici degni di nota costruiti da Anupama si chiama “Wall House”. Eretta in una zona comunitaria, di 6,1 ettari, in uno spazio di 100 metri quadrati, realizzati ad un costo di un milione di rupie nel 2000, in Auroville, per la vita di comunità. Questa casa presenta una pianta a forma di L, ha un cortile nel mezzo; concettualmente moderna, ma allo stesso tempo fatta di materiali tradizionali e vernacolari, quali terra compressa, cemento e acciaio. Anche il bagno caratterizzato da un design di apertura verso l’esterno, plasma insieme motivi moderni e tradizionali. Questa casa è stata riprodotta in dimensioni reali, alla Biennale di Architettura di Venezia Un’altra struttura interessante che emerge nella sua creazione architettonica ha il nome arioso di “Libertà”, una sorta di biblioteca all’aperto, in cui tutti possono sedersi e leggere tutto quello che desiderano”. Questa creazione è costruita con tre tipi di alberi fissati al centro di uno spazio quadrato. “Tronchi e rami” degli alberi sono in acciaio e le foglie fatte di libri recuperati, con il pavimento in cemento. Seduti all’ombra di questo albero si dialoga, si legge, si pensa, accarezzati dal vento leggero che soffia tra le “foglie/libro”. Questo creazione è stata esposta alla Placa de Salvador Segui a Barcellona nel mese di giugno-settembre 2014.
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