SESTO NUMERO, Giugno, a.s. 2014/2015

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L’editoriale

di Andrea Sarassi

Ave Maturità, Maturandi te salutant!”. Finalmente queste ultime settimane di studio matto e disperatissimo stanno giungendo al termine e il Carducciano medio pregusta già il sogno estivo, con eccitazione di giorno in giorno crescente. Com’è consuetudine, è giunto il momento del bilancio di fine anno: c’è chi pensa che avrebbe potuto studiare di più, chi di meno e chi, invece, è così occupato a prepararsi per la maturità che non ha nemmeno il tempo di pensare. Per la nostra scuola questo è stato un anno di incontri ed eventi importanti, ma soprattutto è stato l’ultimo anno di liceo per noi ‘95, noi eroi, noi vittime sacrificali della maturità 2014. Il liceo non è altro che un percorso dantesco, un’ascesa dall’iniziale inferno del ginnasio verso la paradisiaca contemplazione della libertà; tuttavia, prima della fine, c’è un ultimo muro di fuoco da attraversare, un nemico finale e peggiore di tutti gli altri, che testa

nota dell’autore)

quento l’ultimo il Primo premio y di Roma, nella Carol Oates. Si al Teatro Litta, e

LE ECLOGHE ALLEGORICHE

hanno alcuna o pure che siaella tradizione i racconti, non ma soprattutto rba, sconvolge on le passioni, gli della cultura gni ecloga, esvolta rischiano ono d’altronde raprendere un mazione di un o nella mente, splicito”.

SIMONE POSSENTI

STRADE

Simone Possenti

Le Ecloghe Allegoriche

le capacità apprese durante l’anno: la Maturità! Questo essere mitologico dalle quattro teste mette alla prova l’organizzazione dei nostri eroi, che, in pieno contrasto col nome della bestia, si sentono tutt’altro che maturi di fronte al nemico. Tuttavia, è proprio in questi ultimi momenti di estremo pericolo che ogni studente apprezza i suoi fedeli compagni d’avventura e ripensa a tutti i (in)successi conseguiti insieme. Nasce, dunque, una riflessione su quello che per ognuno è stato il liceo e solo per un istante (davvero, solo per un’istante!!!) la commzione e la nostalgia prevalgono sull’ansia sempre crescente. Ma noi abbiamo fiducia nel futuro: nel trascorrere dei cinque anni abbiamo visto arrivare al Carducci altri piccoli eroi, pronti a prendere il nostro posto nella verticale ‘societas’ scolastica. A voi, ragazzi del ginnasio e del liceo, futuro del Carducci lasciamo in eredità la scuola, fatene buon uso. Sperando nella proverbiale frase “chi non muore si rivede”, vi salutiamo: ci mancherete... Sayonara!

A dimostrazione del fatto che il Carducci è stato e continua ad essere culla di piccoli talenti, vi presentiamo la copertina del libro pubblicato da Simone Possenti di 5A. L’opera, intitolata “Le ecloghe allegoriche”, racchiude in sè dieci brevi racconti che, come suggerisce l’autore stesso, non hanno alcuna pretesa se non quella di far sorgere delle riflessioni nel lettore. Per qualsiasi informazione o per procurarvi una copia del libro stesso potete contattare direttamente Simone.

La redazione dell’oblò

redattori | Cleo Bissong, Francesco Bonzanino, Bianca Carnesale, Giulio Castelli, Julia Cavana, Rebecca Daniotti, Alice De Gennaro, Federica Del Percio, Letizia Foschi, Sofia Franchini, Alice de Kormotzij, Filippo Lagomaggiore, Martina Locatelli, Edo Mazzi, Beatrice Penzo, Francesca Petrella, Carlo Polvara, Beatrice Sacco, Claudia Sangalli, Andrea Sarassi, Sara Sorbo, Alessia Tesio, Alessandra Venezia vignettisti | Leonardo Zoia, Silena Bertoncelli DIRETTRICE | Martina Brandi Capo redattore | Chiara Conselvan Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Francesca Bassini, Bianca Brinza, Simone Possenti, Marco Recano 2

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Pag

sommario

4-5 risultati europee 6-7

comfort care

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nuove basi azotate

9 1011

notizie random dal web

vincitori concorso dell’oblò

12- addio carducci 13

14 cyclopride

15 16

dialogo con l’alzheimer

17 1819 cinema 2021

o

alle origini di un mit

teatro: solo essere

cinema

22

audiophiles

23 Sting and the police 2425

2627 28

welcome to jazz

brevi storie di artisti ciò che conta

29

...è la fine

30 segui la mia voce 31 l’ultima nota

mundialito 2014

32

33 hala madrid! fumetti

34

35

bakeka ostriche senza perla

36

37

tweetanatomy

3839

giochi

40

addii


twitta e ti dirò se sei felice di Chiara Conselvan

N

on vi è mai capitato che i vostri nonni, guardando con disappunto l’ultimo modello di smartphone che avete tra le mani, vi abbiano chiesto: “Ma fa anche il caffè?”. Le risorse delle nuove tecnologie superano ogni immaginazione, ma no, non è di caffè che voglio parlarvi. Intendevo concentrarmi sulla quantità di funzioni che queste svolgono e raccontarvi le più insospettate. Il collegamento al web è la chiave per ognuna di esse e in particolare è il mondo dei social a farla da padrone. Ma se abbiamo sempre e solo pensato di essere noi ad agire attivamente sui social network, aggiornando quotidianamente la nostra pagina per farci conoscere, prepariamoci a ricevere in risposta un’analisi attenta di ciò che abbiamo voluto consegnare alla rete. E’ Voices from the Blogs , una start-up tutta italiana, creata da alcuni professori dell’Università Statale di Milano nel 2012, che si occupa di “ascoltare” quotidianamente tutti i tweet che vengono postati dagli utenti italiani per sondarne le variazioni di umore. Esiste un vero e proprio indice “iHappy”, che riporta tendenze caratterizzate a livello provinciale, grazie a una divisione dei post in “felici” e “infelici” già disponibile in automatico da parte di Twitter. Tali dati, ci tiene a sottolineare il sito stesso della società, “sono basati interamente sulle reazioni istantanee dei singoli individui agli avvenimenti che accadono nella vita di ciascuno”, per questo l’aggiornamento avviene quotidianamente. Una volta compreso l’andamento del sistema, veniamo allo studio pubblicato da Voices from the Blogs riguardo alla felicità italiana dell’anno 2013 agli occhi del cinguettante social. L’analisi è stata compiuta su oltre 40 milioni di tweet e ha mostrato un’Italia con un indice medio iHappy del 60,3%: meglio dell’anno precedente. Dai dati veniamo raccontati come un popolo meteoropatico: l’inverno è la stagione più triste. In particolare è gennaio il mese peggiore, in cui la media nazionale iHappy scende bruscamente attorno al 40%, per i chili accumulati dopo Natale e per la fine delle festività. Sul podio del giorno più triste sale proprio il primo venerdì dopo le vacanze, l’11 gennaio, in pieno caos da polemiche per i simboli clonati della

campagna elettorale. Anche la politica, infatti, incide sul nostro buonumore: la vittoria di Renzi alle primarie ha fatto salire l’indice al +7%, e uno dei picchi nazionali (74%) si è registrato in occasione della condanna di Berlusconi nel processo Mediaset, mentre, invece, lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena, legata al PD, e la proposta di restituire l’IMU lo hanno fatto scendere ai minimi annuali. Non solo la politica, ma anche l’economia emerge come una variabile non indifferente all’interno di questo studio e lo spread appare come il punto di riferimento: per ogni 50 punti di calo del differenziale la felicità degli italiani cala di un punto percentuale. Ma arriviamo alla parte più lieta: le ragioni della nostra felicità. Sono le giornate con le quali interrompiamo il “trantran” quotidiano, in particolare le festività, a farci spuntare un sorriso. Al primo posto c’è il Natale, seguito a ruota dalla festa della mamma. Ma il giorno in assoluto più felice dell’anno è stato il 12 luglio con l’indice a quota 80,4%. In quella giornata una ricerca di Telethon ha fatto guarire alcuni bambini da malattie prima considerate incurabili, la sedicenne pakistana Malala Yousafzai ha pronunciato un discorso all’ONU difendendo il diritto allo studio e, giusto per fare entrare un po’ di Carducci in uno studio di dimensioni nazionali, la

nostra dolce amica Sara Alessandro di 5 E ha finalmente compiuto 18 anni. Interessante e forse indice delle tendenze politiche degli italiani, manifestate un po’ crudelmente vista l’occasione, ricordo anche come secondo giorno più felice dell’anno il 9 aprile: diffusione della notizia della morte di Margaret Thatcher. Ma la felicità non è omogenea in tutta Italia e la variabile lampante appare la latitudine. Da sud a nord l’indice iHappy va diminuendo e, come dice lo studio stesso, “la felicità sembra dunque essere ben distinta sia dal BIL (benessere interno lordo) che dal PIL (prodotto interno lordo)”. L’eccezione la fanno, però, le provincie che non affacciano sul mare, fonte di costante felicità in modo indifferenziato in tutta Italia. A conferma di questo Genova appare come la provincia più felice d’Italia (75,5%) e Aosta come la più triste (44,2%). Nella classifica Milano si trova al 96º posto, su 110 provincie, con il 52,2%. Possiamo fare decisamente di meglio, perché non partendo dalle nostre giornate al Carducci? Sarà che sono in fase amarcord, essendo le ultime settimane di scuola, ma se ci penso non sono poi così rare le volte in cui non ho degnato questa scuola di un sorriso che, in fondo, si meritava.

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Attualità

europee 2014

com’è andata a finire? di Carlo Polvara

A

nalizzare i risultati delle Elezioni Europee appena tenutesi è un esercizio complesso, difficile da compiere senza scadere in facili banalizzazioni. I cittadini europei, chiamati a rinnovare il proprio Parlamento, hanno risposto in misura e proporzione differenti di paese in paese. Il dato dell’ affluenza è un utile strumento di misurazione della partecipazione democratica e dell’ interesse politico dei cittadini: emerge subito chiaramente come l’affluenza complessiva sia stata abbastanza bassa, con risultati tendenzialmente peggiori nei paesi dell’ Est Europeo ( il record negativo appartiene alla Slovacchia in cui solo il 13% degli elettori si è recata alle urne ). E’ significativo riscontrare come l’ affluenza più alta, eccettuati i paesi come Belgio e Lussemburgo in cui il voto è obbligatorio e le democrazie scandinave, sia riscontrabile in alcuni paesi del Sud Europa, come la Grecia. In Italia, pur in calo, l’ affluenza è una delle più alte: un chiaro segno di come, al netto di tutte le polemiche e l’ astio contro la politica, al popolo italiano piaccia

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ancora votare e parlare di politica, ben più di alcuni “civilissimi” paesi del Centro e Nord Europa. Passando ai risultati, il proporzionale in uso per le elezioni europee non consente trionfi indiscussi: il PPE, che raccoglie le forze cristiano- democratiche e popolari di tutti i paesi, mantiene la maggioranza relativa perdendo tuttavia moltissimo in voti e seggi. Ha pagato l’ identificazione con le politiche dell’ Unione negli ultimi anni, ha subito in molti paesi un rilevante smottamento a destra del proprio elettorato. Il risultato dei socialisti è agrodolce: guadagnano terreno, ma restano secondi e subiscono dure sconfitte in alcuni paesi. Si è molto parlato del “boom” degli euroscettici: queste forze, che effettivamente sono cresciute con queste elezioni, costituiscono un gruppo né omogeneo né compatto. Come è del resto abituale nei periodi di crisi, le urne hanno penalizzato i partiti al governo premiando le forze alternative. Due rilevanti eccezioni: la Germania, che ha visto crescere il Partito Socialdemocratico impegnato in una difficile coalizione con la Merkel, grazie forse anche

alla presenza del candidato alla commissione Martin Schulz e l’ Italia. Quest’ ultimo caso vede il Partito Democratico, da poco membro dei socialisti, ottenere un risultato estremamente rilevante: sicuramente hanno pagato le iniziative riformiste del governo che, benchè in buona parte ancora inattuate, hanno dato un’ impressione di dinamismo al quadro politico. Analizzando i flussi elettorali appare evidente come attorno al PD si sia stretta gran parte dell’ elettorato che aveva scelto Monti alle ultime elezioni politiche: l’ insieme dei votanti rimasto orfano di Scelta Civica, che ha scelto di costituire con Fare per fermare il Declino e Centro Democratico un’ alleanza di impronta liberale che ha raccolto bassissimi risultati, ha preferito, di fronte all’ aggressiva campagna di Grillo, votare il Partito Democratico. A sinistra, la Lista Tsipras è riuscita a superare il quorum del 4%: in realtà la Sinistra italiana ha ricevuto meno voti rispetto alle precedenti europee ma ha pagato la scelta unitaria. Analizzando i risultati degli altri paesi emerge che, forse, i paesi mediterranei hanno uno stato di salute democratico insospettabilmente migliore di quello di alcune “democrazie perfette”. Né in Spagna né in Portogallo hanno fatto breccia movimenti di estrema destra, in Grecia Alba Dorata non ha sfondato.


I Partiti di estrema destra hanno vinto in Danimarca, Regno Unito, Francia. In Francia i veri sconfitti sono i partiti tradizionali, sia il Partito Socialista al governo sia il Centro Destra Gollista: dalle loro ceneri è emersa la vittoria del fascista Front National di Marine Le Pen. Benchè sia troppo presto per dirlo, questo risultato potrebbe significare l’ inizio della fine per il tradizionale bipolarismo alla francese. Nel Regno Unito, da sempre paese non entusiasta dell’ integrazione europea, i conservatori sono relegati al terzo posto, i labour crescono ma al primo posto svetta il populista UKIP. Ormai del tutto prevedibili sono i risultati dell’ estrema destra in Ungheria.

Appare evidente come le forze di estrema destra prosciughino il bacino elettorale e dei partiti di destra e di quelli di sinistra raccogliendo un consenso interclassista, traendo giovamento e dalla crisi dei propri paesi e da quella delle istituzioni europee. In ciò tali forze differiscono da quelle della sinistra, che tendono a essere premiate come forze alternative ai soli socialisti. E’ il caso della Spagna, in cui il Partito Socialista non riesce a scalzare il Partito Popolare pagando la concorrenza dell’ Izquierda Unida e della nuova formazione movimentistica Podemos. La sinistra com’ era prevedibile vince in Grecia e in Portogallo ( primo partito

i Socialisti, buona affermazione dei Comunisti ). E’ chiaro che le elezioni europee non sono ancora un’ effettiva consultazione per l’ Europa ma che tendono a trasformarsi in una somma di referendum sul governo in carica nei singoli paesi: è urgente trovare nuovi metodi che rendano queste elezioni sempre più europee. Il risultato delle forze xenofobe e delle spinte centrifughe è in effetti preoccupante: l’ ottimismo della volontà ci porta a sperare che un buon governo, un rilancio del sogno europeo e politiche efficaci per i diritti, il lavoro e il benessere dei cittadini europei possa sconfiggere i mostri generati dal sonno della ragione.

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Attualità

Comfort Care un lampo di vita

di Giulio Castelli

I

l 13 febbraio in Belgio la camera approvava a piena maggioranza una legge per la depenalizzazione dell’eutanasia anche ai minori di diciotto anni, senza limiti d’età; il governo francese a gennaio, poiché le donne devono poter “disporre come vogliono del proprio corpo”, varava una legge per trasformare l’aborto da eccezione a diritto, consentendolo “a tutte le donne incinte che non vogliono una gravidanza”. In Europa è sempre più diffusa una cultura della morte, dolce o embrionale che sia, cultura che poggiando su una certa visione antropologica dell’uomo e della società promuove una cieca liberalizzazione che non si ferma nemmeno di fronte alla vita più innocente. La morte diventa così un antidoto legalmente e socialmente del cuore di una donna di amare il accettato di cui disporre in casi proprio figlio, che nel 2006 nasce il estremi. Ma di fronte ad un bambino comfort care. Durante una riunione sofferente, ad una nonna in stato di diagnosi prenatale dove si presenta terminale, ad una donna gravida il caso di due bambini destinati ad disperata, si può davvero solo dire un’esistenza molto breve, le cui madri “morte”? non vogliono abortire, Elvira, difronte “Purtroppo oggi la diagnosi all’imbarazzo dei ginecologi che prenatale è sempre più centrata solitamente proponevano l’aborto, sull’identificazione dei difetti propone il comfort care. Nasce così; congeniti al fine di abortire il bambino, dalla spontaneità di un cuore libero e nel caso non sia sano. Eliminare il amante della vita. “Non è stato per un paziente invece di curarlo mi sembrava progetto, mi ci sono trovata in mezzo. la negazione della mia vocazione E dicendo sì a quelle circostanze ho professionale”. È Elvira imparato cos’è la vita Ma di fronte Parravicini, neonatologa e cosa vuol dire fare ad un bambino il medico”. Il comfort italiana che dal 1998 lavora al Morgan Stanley sofferente, ad una care è un progetto donna in stato Children’s Hospital di medico per cui non New York, un ospedale esistono protocolli da terminale, pediatrico affiliato alla si può davvero solo seguire, esso infatti Columbia University. si costruisce con e dire “morte”? “Ogni vita, breve o per quello specifico lunga che sia, è vita; è data ed in bambino e i suoi genitori, perché quanto tale va rispettata. Inoltre, lo scopo è il far vivere bene in ognuno di noi non è la somma dei unità e intimità la famiglia in quei propri cromosomi, ma è un essere pochi momenti dati da vivere. unico ed irripetibile, frutto del “L’esistenza ha un inizio e una fine. Mistero ed ogni nuova nascita ha insita E non la stabiliamo noi. Ma nel mezzo in sé la speranza, una promessa di facciamo tutto quello che è possibile felicità.” È da questa consapevolezza perché la loro vita sia bella”. Questo della dignità di ogni vita umana, percorso, così difficile e naturale breve o lunga che sia, dalla volontà insieme, propone un’alternativa alla di sostenere il desiderio più profondo morte che si offre come il rimedio più 6

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semplice e meno doloroso ai pazienti (specialmente quando si ha a che fare con bimbi non ancora nati); esso mostra come l’amore per la vita sia la risposta più bella e vera (nonché buona) al male, alla malattia, come dice Elvira: “Non è proprio vero quello che alcuni dicono, che ‘non c’è più niente da fare’! Al contrario c’è molto, moltissimo da fare, da inventare: basta essere attenti ai loro bisogni personalissimi!”. Sono bellissime ed essenziali, per capire cosa sia realmente il comfort care, le esperienze di tante donne e famiglie che si sono trovate improvvisamente ad affrontare un grande dolore e da esso ne sono rinate più belle e umane. È la storia di Giacomo e dei suoi genitori, Natascia e Mirko. Lei è incinta del quarto figlio, ma l’ecografia del terzo mese è drammatica: anencefalia. Il suo bambino è “incompatibile con la vita” e non potrà vivere. Inizia così una dolorosa esperienza di attesa che porterà Natascia ad un parto cesareo il primo di ottobre a Bologna, nell’ospedale sant’Orsola. Lì, nella sorpresa generale, tutto il personale medico si adopera e abbozza un comfort care, facendo di tutto per Giacomo e la sua famiglia. Dopo quasi un giorno Giacomo muore, lasciando un grande segno nei cuori di tutte le


persone che gli sono state accanto; “Giacomo è proprio venuto tra noi per dire: “Io ci sono” e “sono amato come sono”. Penso che tutti abbiamo dovuto fare i conti con questo” dice la mamma Natascia. A un certo punto entrano in stanza la caposala, l’ostetrica e il responsabile della sala parto per ringraziare: “Siamo commossi da voi, da ciò che ci avete testimoniato. Qui c’è stata una collaborazione mai vista. È bello lavorare così, è stato bello potervi accompagnare così. Vogliamo scrivere alla Direzione sanitaria per raccontare quello che è successo e iniziare un “percorso Giacomo” per i bambini come lui”. È la storia di Martamaria, figlia di Giacinto e Imma che, alla dodicesima settimana di gravidanza, scopre che la bambina è affetta da acrania e se mai fosse nata non sarebbe vissuta a lungo. Rifiutato l’aborto Martamaria nasce nell’Ospedale Villa Betania di Napoli, dove, racconta la madre, “ ho trovato delle persone di un’efficienza ed un’umanità che nessuna parola può descrivere”. Martamaria nasce il 17 gennaio 2014, nell’attesa generale. “Ci siamo sentiti dire molte volte: “Quanto coraggio avete” oppure “Io non so, forse al vostro posto avrei scelto una strada diversa”. Scelto? Ma cosa dovevamo scegliere io e Giacinto? Di uccidere nostra figlia? Noi non abbiamo mai

scelto; abbiamo semplicemente accolto questo progetto d’amore, accudendo la bambina che avevamo amato da subito. E non perché siamo cristiani e crediamo in un Dio che ci ama, ma perché noi siamo e restiamo innanzitutto i genitori di Martamaria. Il nostro compito, il nostro dovere è di proteggere i nostri figli e non scegliere quello che per il mondo fa meno male”. Racconta ancora la mamma ricordando i momenti vissuti assieme: “La nostra bambina è vissuta cinque giorni nei quali ci ha fatto vivere emozioni indescrivibili, ci ha fatto assaporare ogni singolo istante della sua breve vita, così intensa. E’ stata circondata di amore e ci ha donato amore. E’ stata coccolata, accudita dalla sua famiglia e da tutto lo staff medico dell’ospedale che l’ha amata come noi; e quando le infermiere la prendevano, per cambiarla o farla mangiare, si lamentava perché voleva stare sempre con me(…)Mettere al mondo un figlio, pur sapendo che avrà solo un Lampo di vita, significa battezzarlo, dargli un funerale, farlo sentire amato, accolto, desiderato e dargli una dignità di essere umano che abortendo non avrebbe mai. Certo io e Giacinto portiamo nel cuore la tristezza umana (che ci accompagnerà sempre) di aver perso una figlia, ma abbiamo anche la gioia di aver conosciuto un angelo che ha

arricchito la nostra vita, e quella di chi l’ha conosciuta, di un senso nuovo!”. Di esperienze come queste ve ne sono moltissime altre; tutti uomini e donne coraggiose che nel dramma e nel dolore scelgono lieti la vita. Il problema sta nel proporre sempre e comunque un’alternativa alle pratiche di morte, il resto è attrattiva del bello, del vero e del buono. Dice Elvira: “Qui in America è molto accesa la polemica tra pro life e pro choice, ma si rischia una contrapposizione meramente ideologica. Io disapprovo l’aborto, lo considero un crimine. Ma non voglio combattere guerre, offro alle donne un’alternativa con la comfort care. E accade che sempre più mamme che hanno dubbi sulla scelta da fare, quando sanno di questa possibilità la chiedano per sé e i propri figli. Capiscono che è qualcosa di bello, e la bellezza ha una capacità di attrazione più forte di tante polemiche. Si dice che quando nasce un bambino con problemi e destinato ad una breve esistenza, le madri vengano prese dallo sconforto, ma le assicuro che il sentimento prevalente è la gioia di vederlo nascere e di averlo con sé, anche per un tempo breve. Allora si assiste alla vittoria della bellezza sul limite, perché la vita, qualsiasi vita, è esigenza di felicità. E il momento della nascita è quello in cui ciò è più evidente”.

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Attualità

A-T,C-G…X-Y?!

di Beatrice Penzo

M

utazioni, evoluzione a c c e l e r a t a , intelligenza artificiale, cura universale… per la prima volta ho davvero pensato che potremmo arrivarci e che forse ci siamo addirittura più vicini di quanto avessi sempre creduto. Questa considerazione è nata dal fatto che l’altro giorno mi sono trovata sotto il naso un articolo che annunciava la sensazionale riuscita di un esperimento da parte di un team di ricerca americano. Il suddetto esperimento consisteva nell’impiantare due nuove basi azotate (d5SICS, DNAM), sintetizzate in laboratorio, nel DNA di un comunissimo Escherichia Coli. La parte incredibile dell’esperimento non è tanto la costruzione di due basi artificiali, ma il fatto di essere riusciti ad impiantarle in un batterio che le ha riconosciute come proprie e addirittura le ha replicate correttamente. È una scoperta sensazionale che dà improvvisa credibilità a ipotesi che fino a ieri sembravano solo fantascienza. Con i futuri sviluppi di questo esperimento si potrebbero fare passi da gigante in molti settori, primo fra tutti la medicina. Si potrebbero creare nuove proteine per medicinali e vaccini, che siano stabili, controllabili e riconoscibili grazie alle nuove basi (per semplificare la 8

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vita abbreviate in X e Y). Infatti sono ad immaginarli: nanotecnologie, i ricercatori a fornire i “mattoncini” nuovi materiali, nuovi combustibili, necessari al batterio, così che se ne forse addirittura nuove forme di vita. possa controllare la riproduzione. Dopotutto, se con solo quattro lettere Inoltre non essendo presenti le si costruisce la vita sulla terra sin nuove basi in natura, gli organismi dalla sua nascita, chi può anche solo con sei lettere sarebbero facilmente immaginare dove si potrebbe arrivare riconoscibili. Il team di ricercatori con sei lettere? Non si parla solo di dello Scripps Research Institute, una mutazione, di una manipolazione guidato da Floyd E.Romesberg, lavora di basi già esistenti, ma di una vera dagli anni novanta per individuare le e propria espansione dell’alfabeto molecole che sarebbero potute servire genetico. Qui si tratta di andare come nuove basi, e anche oltre GATTACA. questo è forse il risultato È una scoperta D’altronde non sarebbe più importante della la prima volta vedere sensazionale ricerca. I biologi sono realtà superare che dà improvvisa la riusciti ad inserire le la fantascienza. È credibilità due nuove lettere nella incredibile pensare che doppia elica sfruttando a ipotesi che fino dopo quattro miliardi di una specie di microalga a ieri sembravano anni si potrebbe creare che ha trasferito la solo fantascienza. qualcosa di totalmente coppia artificiale nuovo a partire dalle all’interno del DNA dell’Escherichia basi della vita per ampliarle, renderle Coli. La vera difficoltà, e al contempo più complesse e dare il via ad un novità dell’esperimento, è quella filone di ricerca che sembra molto che per la prima volta si è agito su promettente in tutti i sensi. È anche un organismo vivente, con tutte le facile immaginare il nuovo megadifficoltà del caso(prima fra tutte dibattito che si aprirà con i primi la possibilità che il batterio non esperimenti riusciti, e come sempre accogliesse la nuova coppia XY e la sarà difficile definire dei limiti in riconoscesse come non sua).Questo un campo così complesso. Per ora è, per quanto sensazionale, solo un però non possiamo far altro che primo passo, e forse è ancora troppo congetture, e divertirci a immaginare presto per fare previsioni, ma i campi in quale romanzo di fantascienza di applicazione potrebbero essere ci catapulterà questa nuova ed così tanti da non riuscire nemmeno emozionante scoperta.


curiositas notizie random dal web

di Chiara Conselvan

ebike

Si chiama Folkvänlig la nuova bici elettrica a pedalata assistita firmata Ikea, mossa astuta verso un mercato che sta raddoppiando le cifre di vendita in tutta Europa. L’ecologia e l’economia sono le nuove frontiere della mobilità. Il prezzo di lancio è 749 €.

internet in europa

In periodo di europee non dobbiamo ricordare solo i nomi dei nuovi arrivati, ma anche dei vecchi che hanno fatto bene il loro lavoro. Infatti è grazie all’ex parlamentare olandese Neelie Kroes che, entro la fine dell’anno prossimo, le tariffe di roaming saranno abolite nei confini europei. Finirà finalmente l’incubo “ricordati di spegnere il roaming appena scendi dell’aereo”.

milano per turisti Use-It è un network europeo di volontari che ridisegnano le mappe delle proprie città offrendo ai turisti di viverle da abitanti. In Italia è già attivo per Bari, Bologna, Brescia e Palermo e adesso anche Milano sta costruendo la sua, e tutti possono contribuire a migliorarla. Non manca la divertente sezione “Act like a local” che insegna le abitudini milanesi, dalla cotoletta al culto dell’aperitivo.

Facebook verso Shazam e oltre

Grazie a un’opzione attivabile su smartphone, Facebook a breve assumerà il sistema di identificazione di canzoni in stile Shazam. Ma non solo. Saranno riconosciuti anche film, programmi e serie televisive e sarà possibile condividere l’audio per una durata di trenta secondi allegandolo allo stato. Tutto questo mentre il progetto #Music di Twitter, lanciato quasi un anno fa, è fallito nel silenzio.

i funzionamenti delle stampanti 3d

Avete sentito parlare di stampanti 3D ultimamente? Probabilmente solo da Grillo che, a “Porta a Porta”, ha spiegato a modo suo come si costruiscono le turbine per i boing, debitamente imitato poco dopo nello show di Crozza. Questi apparecchi sono davvero una risorsa che da poco si è imposta anche nelle sale operatorie. A Utrecht, infatti, una ragazza di 22 anni ha recentemente subito un intervento nel quale, per la prima volta, una protesi stampata 3D è stata utilizzata per un trapianto di una parte importante del cranio.

diritto all’oblio Da pochi giorni Google ha lanciato alla sola Europa il “diritto all’oblio”, attenendosi alla decisione della corte di giustizia europea. Il servizio apre alla possibilità di essere dimenticati dal più grande motore di ricerca al mondo, che non garantisce di cancellare informazioni dai server Google, ma ne impedisce la visibilità al pubblico. Le richieste, già arrivate a 12 mila in pochi giorni, avvengono grazie alla compilazione di un semplice modulo online.

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cronache carducciane

(C[o[n[c[o[r[s[O) ecco a voi i nomi tanto attesi dei vincitori del concorso fotografico/letterario indetto dall’oblò sul cortile ostacoli - claudia sangalli 5d

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Piove. Gocce sottili mi scivolano lentamente sulla fronte, bagnandomi gli occhi. Ma ho fretta, non ho tempo di farmi accarezzare. Mi faccio strada tra le vie umide della città, evitando la folla indefinita che mi sfreccia accanto: voglio essere più veloce di loro. Il mio passo è sicuro, deciso. O almeno io vorrei che fosse così. Finisco spesso in pozzanghere, causando un ghigno in uno di quei volti grigi che incrocia il mio sguardo. La gente mi terrorizza. Non ti puoi fidare, della gente. Ignoro l’acqua che gela la mia pelle, e continuo a correre. Non distinguo più le mie lacrime dalla pioggia: si crea una miscela pericolosa che mi riga le guance, ma soprattutto il cuore. Quello stesso cuore malconcio di cui non riesco più a trovare tutti i pezzi, perché li hai nascosti e portati via con te. Ed è per questo che ora sono qui, fradicio, distrutto, ma puntuale, davanti alla stazione. Voglio che tu conservi anche il resto. Ho portato il nastro adesivo, così potrai ricomporlo e attaccarlo nella tua nuova casa. Per non far sbiadire il mio ricordo. Adesso sono qui, davanti al binario. Tu ancora non ci sei. Nel frattempo il cielo, stanco di piangere, accoglie un sole sbiadito e pallido. Sento i tuoi passi pesanti salire le scale, e quando arrivi in cima si sente il fischio del treno: tu sorridi al vento, perché sai che ti aspetta una vita nuova. Quando incroci il mio sguardo non sorridi più. Se qualcuno ci vedesse adesso, in questa stazione sperduta e desolata, vedrebbe due ragazzi divisi dalle rotaie, che impediscono un loro ultimo abbraccio. Ormai il fischio del treno è lontano, e ti porta verso nuove destinazioni, nuovi esperienze, nuovi amori. Io non ho corso, per tornare. Mi sono fatto travolgere dalla folla che prima avevo schivato. Apro la porta di casa, e il mio gatto è ancora sul divano, dove l’avevo lasciato. Mi fissa per un attimo con occhietti stanchi, per poi riprendere a sonnecchiare. Avrei dovuto fare come lui, lasciar vincere la pigrizia e rimanere rinchiuso a ripensare agli sbagli fatti. O forse sarei dovuto partire con lei, per girare il mondo insieme, come avevamo progettato… Voleva insegnarmi a guardare le città negli occhi, e non nei riflessi delle pozzanghere; voleva che alzassi lo sguardo verso il sole. Ma non è accaduto nulla di tutto questo. Tra le mie numerose maschere, ho indossato quella del codardo, preferendola a quella dell’indifferente o del coraggioso. Rimango solo, soffocato dagli ostacoli che il nostro amore non ha saputo superare… con il tuo ultimo sorriso negli occhi.

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senza titolo - emma pelizzari 5d Mi sveglio sudato, ma non ho caldo. E’ luglio, pieno inverno, a Mathiveri, nell’Atollo nord di Ari. Indosso di fretta la divisa della scuola – camicia bianca e pantaloncini neri – e saluto la mamma. «Dov’è il papà?» «A Gangehi, oggi aveva le colazioni». Gangehi è l’isola dei miei sogni. C’è un albergo – anche se la mamma lo chiama sempre “resort” – bellissimo e di lusso, ed è li che lavora il mio papà. Vorrei tanto che mi ci portasse, un giorno. Imad mi sta aspettando fuori dalla porta: andiamo sempre a scuola insieme. «C’è una macchia sulla tua camicia, Armann» mi dice. Non me n’ero accorto. «Non importa, andiamo». Attraversiamo l’isola in pochi minuti e ci fermiamo davanti al mare. Guardiamo Gangehi. «Un giorno sarò così ricco da poter comprare l’intera isola, e allora andremo a viverci insieme! Me lo prometti, Armann?» Ero distratto, non lo ascoltavo. Tenevo le mani dietro la schiena, appoggiata al muro. «Mi stai sentendo? Solo io e te! Tutta l’isola sarà nostra!» «Si, proprio tutta nostra». Le lezioni vengono interrotte spesso: ogni volta che entrano dei turisti, dobbiamo alzarci in piedi e salutare come dei burattini - “kihine”! Odio i turisti, hanno un odore strano. E mi guardano sempre dall’alto in basso, quasi volessero portarmi via con loro, ma io non lascerò mai le Maldive. La scuola finisce a mezzogiorno: giusto in tempo per la preghiera,che inizia dal momento in cui il sole incomincia la sua declinazione dallo zenit verso occidente. Sto giocando con alcuni amici, mi siedo in una carriola, ascolto il Muezzin: non ho tempo di andare alla Moschea. Mi rivolgo verso la qibla, in direzione della Mecca. Di pomeriggio giochiamo spesso a calcio. E’ divertente, mi piace. Abbiamo un campo molto grande, sull’isola. L’erba è alta in alcuni punti, il fango ci sporca i piedi. Mio fratello, Seelan, non riesce a giocare: è troppo piccolo. Si presenta ogni giorno con la sua divisa rossa, ma nulla. Lo prendono tutti un po’ in giro, e non lo difendo mai. Lascio che sistemi la rete dopo i goal, senza mai avere la possibilità di segnarne uno. Mi sento in colpa, ogni tanto. Alcuni miei amici hanno magliette regalate loro dai turisti. Imad dice che la sua è del Brasile, ma ci credo poco. Non so dove sia, il Brasile.

MITORAJ AD AKRAGAS matteo abruzzo 5d

Sicilia, 16 aprile 2011: la città di Agrigento accoglie, sullo sfondo della mitica Valle dei Templi, diciotto statue dello scultore polacco Igor Mitoraj, attivo esponente del movimento “anacronista”. Un incontro per nulla casuale, questo, tra le polveri di Agrakas e la Girgenti del duemila; secondo Mitoraj, che da tempo aspettava l’opportunità per poter organizzare un’esposizione nel parco della Valle, “Anacronismo” è l’espressione della volontà di riconciliazione con la forma d’arte più grandiosa dell’antichità: l’architettura templare della Magna Grecia. Intervistato dal “Sole 24 Ore”, un Mitoraj emozionato, ma pago della propria impresa, ha tenuto a precisare che la Sicilia rappresenta per lui un ritorno alle origini, l’immersione nel mondo incorrotto dei classici da cui ogni sistema moderno, inconsapevole, trae avidamente spunto: la politica, se pur in modo molto molto subliminale, la filosofia, e per intero il mondo dell’arte. “ Il mio lavoro parla all’anima inconscia che è dentro di noi” - esordisce Mitoraj nell’ intervista- e segue: “non trovo giusto che un artista parli della sua arte, sono le sue opere che devono parlare per lui”. Questa dunque l’atmosfera del parco durante le visite giornaliere dei turisti provenienti da tutto il mondo; sguardi incuriositi, perplessità delle macchine fotografiche difronte ad un insolito quadretto. Nessuno, infatti, si sarebbe potuto immaginare che a guardia dei mastodontici templi, per la prima volta dalla già calda primavera siciliana di tre anni fa, sarebbero comparsi busti, teste, arti alati in bronzo, altrettanto giganteschi, ma di origine ben differente. Mitoraj fa arte partendo da quello che del “tempio” è visibile: una struttura rigida, mutila, un eco di quello che era un tempo; ma che nonostante tutto, dice lo scultore, in questa decadente essenzialità, acquista un’ immediatezza comunicativa addirittura superiore. L’ “Anacronismo” coglie il messaggio e ne fa tutto un programma. Nel seguito dell’intervista rilasciata al famoso quotidiano, Mitoraj dichiara: “La gente ha il diritto di dire quello che vuole, ma queste sculture sono un’ espressione contemporanea. Con un eco di antichità.[…]A me interessa il contenuto delle opere antiche, la loro anima, non la forma estetica”. Un forte richiamo per una società dispersiva come la nostra, in cui le chiacchiere e le parole di troppo non mancano mai, soprattutto nei momenti di difficoltà, nella quale a chiacchiere da liceo (ma che liceo) vengono ridotte l’arte e la cultura. L’esperimento di Agrigento speriamo sia il primo di una lunga serie curata dal maestro Mitoraj, che più di tutti ha saputo accordare l’ inavvicinabile classicità alla moderna avanguardia.

Giugno 2014 | L'Oblo' sul Cortile

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cronache carducciane

Addio Carducci

E’ sicuramente molto strano e indescrivibile prendere improvvisamente consapevolezza che il mio quinquennale percorso al Carducci sta vorticosamente giungendo al termine. La nostra scuola possiede indubbiamente un carattere polimorfo: infatti, dietro tutte le fatiche scolastiche vi è sempre stato un “quid” di creativo e stimolante, che ha reso possibile sensato (e a volte, permettetemi l’ ‘Υβρις’, anche piacevole) tutto l’impegno scolastico. Dunque, il mio è a metà tra un addio nostalgico e uno a lungo sentito e desiderato. Il Carducci, soprattutto per i nuovi iscritti, può dare un forte, troppo forte impatto; infatti, la nostra è indubbiamente una scuola di prestigio dove nessun risultato è dato per scontato. Tuttavia, che sia di esempio la mia esperienza! Molte volte nel corso dei cinque anni ho pensato che il carico di lavoro fosse eccessivo e i risultati fuori dalle mie possibilità, ma mi sbagliavo. La nostra scuola è alla portata di tutti, ma, solo se è compresa per quello che realmente è, può essere benvoluta e apprezzata. Il Carducci è un scuola che, in cambio di molto impegno, da’ molti risultati; è una scuola che mette lo studente in un ottica di studio e di lavoro consapevole e organizzata, plasmandolo per il futuro. Quasi a nessuno piace il Carducci all’inizio, ma poi tutti lo rimpiangono. Andrea Saeassi

Negli ultimi giorni dell’ultimo mese dell’ultimo anno di scuola (l’ultimo per sempre!), non c’è nulla di magico, di diverso o trascendente. Il tempo non si ferma, anzi accelera all’impazzata. I programmi incalzano e si comincia a (ri)studiare tutto da capo a ritmi frenetici. I prof interrogano senza posa e da un giorno all’altro ci si ritrova a parlare di Einstein e di Plutarco, dei crepuscolari e delle ultime avanguardie architettoniche, delle rocce sialiche e delle novità del sonetto inglese: nozioni e nozioni che si accumulano e si comprimono nel disperato tentativo di far spazio alla nuova tonnellata in arrivo, saturando ogni angolo del cervello (si arriva a dimenticare persino il nome dei compagni di banco!). Da un lato lo sforzo mentale è allucinante, barbaro e demenziale, ma dall’altro, voltandosi a guardare indietro dal traguardo, tutto quello che si è studiato durante l’anno assume un senso nuovo: tutto torna, un grande puzzle si ricompone. Ci si sente davvero più ricchi nel proprio bagaglio culturale e quella che all’inizio sembrava solo una favola, “il liceo classico più che nozioni fornisce nuovi strumenti per interpretare la realtà”, ci si accorge che all’improvviso è diventata realtà. E un po’ si è fieri di sé quando in un film si coglie “una chiara citazione nietzschiana” o a cena con tutti i parenti si riporta quel famoso passo di Seneca. Eppure quante cose, già adesso, sono andate dimenticate, perse nell’oblio; un po’ dispiace pensare che in meno di un anno saranno scordati tutti quei paradigmi, frutto della fatica fatta in cinque anni. Ma almeno saremo in quella piccola fetta di umanità che sa cos’è un paradigma e questo, ve lo assicuro, non è poco! Non so se capite cosa intendo, ma alla fine del liceo sarà una sensazione innata in voi. E in fine, sebbene ormai si sia già con un piede e tre quarti nel mondo universitario, coglie un po’ di nostalgia: per tutti i professori, che bene o male si ricordano il tuo nome e hanno avuto a cuore il tuo apprendimento; per gli amici e la propria classe, con tutti i suoi equilibri, le battute celebri, e gli episodi che passeranno alla storia; per il Carducci, che con i suoi monotoni corridoi è diventato in qualche modo familiare. D’ora in poi il nostro futuro è tutto nelle nostre mani: niente panico e buona fortuna! Martina Brandi 12

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 6


La maturità avanza minacciosa, e tra meno di un mese pretenderà uno scontro diretto. Nonostante l’ansia e molto altro, spesso mi concedo un istante per immaginare un orizzonte che ancora non conosco: mi attende ancora un po’ sfuocato e silenzioso aldilà di queste pile di libri. Sarà una vita nuova, lontana dal Carducci, che ormai a noi maturandi sta un po’ stretto. Però, nonostante la voglia di andarmene e di avere più tempo per vivere, so già che questa scuola mi mancherà, ed è strano pensare che presto non sarà più il mio posto. La prima volta che ho varcato questa soglia ero molto diversa. Piena di quella superficialità che le medie ti lasciano in omaggio, pensavo che sarebbe stato facile sopravvivere, magari anche brillantemente. Invece mi hanno fatto scoprire il magico mondo dei pomeriggi pieni di studio e quello dei debiti a settembre, e allora ho dovuto cambiare atteggiamento. Il primo anno mi sono sentita spaesata, perché effettivamente è difficile abituarsi all’idea di dover passare cinque anni rinchiusi in queste quattro mura a studiare e studiare e studiare, ma una volta ambientata ho capito che non è tutto qui. Certo, gli sfasi ci sono sempre, e quel tre che non ti aspettavi magari ti butta a terra facendoti perdere la speranza; ma poi ti rialzi, perché capisci che accanto a te hai delle persone che patiscono il tuo stesso inferno, e sorridi. Magari il sorriso è isterico, ma va bene lo stesso. Il Carducci, in fondo, mi ha dato tanto, dalle lezioni di vita all’amore per la letteratura, ma il suo regalo più prezioso sono state le amicizie. Tra queste mura ho incontrato persone che hanno stravolto la mia vita, migliorandola anche con semplici gesti... So che può sembrare banale, ma sono state la mia ancora di salvezza in mezzo a una tempesta furiosa, e si meritano tutta la mia gratitudine. Dunque lascio questa “Scuola d’Eccellenza” con un’invisibile lacrima sul viso e con tutti i ricordi nel cuore, sperando che coloro che rimangono -senza disperarsi troppo- sappiano far tesoro di questa loro occasione. Ciao Giosuè! Claudia Sangalli

Quando sono entrata in questa scuola una delle prime cose che ho scoperto è stato proprio il giornalino, insieme all’inaspettato valore di un sei e mezzo. La prima redazione è stata forse la più bella: pendevo dalle labbra di chi mi parlava della storia del Carducci e dell’Oblò, come non ne avessi mai sentita una. Per quasi tutti gli ambiti scolastici mi ricordo come una spugna pronta a farsi inondare. E, infatti, sono stata plasmata da questa realtà così a fondo che mi sembra di non aver avuto una reale identità prima di essere entrata qui. E forse è così. Quest’ultimo anno, tanto agognato e odiato insieme, è fuggito come tutte le cose intense della vita. Non ho mai sognato tanto come quest’anno, mai sono stata così poco coi piedi per terra e mai mi sono sentita così fuori luogo, perché l’ “essere la più grande” scade facilmente nell’ “essere già troppo grande”. L’inguaribile inconcludenza, l’immancabile bisogno di tempo sono le sensazioni che ho provato di più. Ho pensato fino all’ultimo di non sentire nessun tipo di malinconia nell’abbandonare queste mura, e in effetti è la gioia liberatoria che prevale, ma questo giugno di riflessione mi fa salutare la mia scuola cogliendo il “pathos” che mi lega ad essa, nel suo duplice significato di turbamento e affezione. Chiara Conselvan

Silena Bertoncelli

Giugno 2014 | L'Oblo' sul Cortile

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cultura cyclopride di Beatrice Sacco

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aino, bici e gambe in spalla. Bambini, giovani, adulti e nonni. Intere famiglie. Gruppi di amici, quelli di una volta. Tutti, proprio tutti. E’ tra le vie di Milano che l’11 maggio si è svolta la più imponente manifestazione ciclistica collettiva della nostra storia. Più di ventimila ciclisti in sella a pedalare intorno alle mura spagnole. L’evento, col nome di Cyclopride, ha riunito fiumi di biciclette in una primaverile domenica mattina: si è trattato di un giro in bici in città lungo un percorso protetto e senza automobili, per affermare una mobilità più dolce e sostenibile: una tranquilla pedalata adatta a ogni gamba. E’ stata una grande festa, fatta di emozioni e divertimento: il racconto di un’Italia che vuole tornare a migliorarsi, a raggiungere standard di civiltà che ancora non abbiamo, ma che meritiamo. Anche in bicicletta. Il tragitto partiva da Piazza Castello, proseguendo verso Moscova e a nord su Corso Sempione; raggiungeva poi il Cimitero Monumentale e ritornava verso Porta Venezia, per circoscrivere il centro storico toccando le porte Romana e Genova; per ultima la fermata della metro Conciliazione e di nuovo in Piazza Castello. C’è da dire che forse si è finalmente riusciti a smaltire l’ex pranzo di Pasqua, con 16 km di pedalata! Ma non tralasciamo gli inconvenienti; il percorso è filato liscio fino a un certo punto. La polizia non è riuscita a spargersi omogeneamente e a chiudere tutte le strade: gli automobilisti hanno incominciato ad intrufolarsi tra le bici, azione molto pericolosa. Ma è stato lo spirito di squadra a spronare qualche coraggioso ciclista ad intrattenere svariate liti con i guidatori. Ovviamente avevamo ragione noi, ed è stato proprio questo il nostro orgoglio: potersi imporre sulle macchine e non viceversa. Eravamo tanti puntini che si muovevano veloci. Bici da città, bici da corsa, bici d’antiquariato, bici moderne, monopattini-bici, bici assurde a cui non so dare un nome, risciò che trasportavano birra, bici14

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musica che trainavano una cassa acustica: questo evento è stato anche occasione di sfoggio del proprio pezzo forte. Aria, fresca e pulita, è tutto ciò che un amante della bicicletta desidererebbe. E sottolineo il condizionale. Già, perché ormai in una metropoli come Milano si parla solo di traffico e smog. Le macchine è come se non finissero mai. Troppe, sono troppe. Una bicicletta in più e una macchina in meno rendono il traffico più sicuro e la città più bella. Sì, ma perché usare la bici in città? Basta rispondere con una semplice equazione: bici = libertà, piacere, risparmio e salute. Pedalare è un’attività che ti può cambiare la vita e, nello stesso tempo, migliorare la qualità della tua città. Cyclopride espone in un manifesto le ragioni del pedalare: chi pedala cambia il mondo dolcemente senza danneggiare nessuno; chi pedala rispetta ciò che ha intorno, perché la bicicletta non si impone, non fa rumore, non sporca l’aria e non occupa spazio; chi pedala sta bene, si tiene in forma ed evita lo stress; chi pedala conosce meglio il luogo dove vive, si sposta senza perder tempo, non ha l’assillo del traffico e del parcheggio; chi pedala risparmia

carburante, bollo e assicurazione; chi pedala migliora il proprio carattere; chi pedala ha bisogno soltanto di un telaio, due ruote e qualche ingranaggio, e i chilometri sono illimitati! Con ciò non voglio infierire contro l’uso della macchina, ma soltanto farvi partecipi dell’esistenza di questo mezzo molto più comodo, semplice ed economico per muoversi in città. E’ fastidioso abitare in un quartiere rumoroso, no? Scommetto che tanti di voi neopatentati non vedano l’ora di guidare la loro macchina. Chissà che emozione, però siate intelligenti: in città è scomodo utilizzarla. Per andare al cinema, o a praticare sport, o a fare shopping (in generale negli spostamenti brevi) non state ad accendere il motore; se piove, piuttosto salite su un tram o un autobus, che sono fatti apposta per muoversi in città. Scommetto anche che molti non sanno di possedere una vecchia bici, magari del nonno e coi freni a bacchetta, nascosta e impolverata in una cantina. Se volete presentarvi all’antica, prendetela, da oggi, risistematela e montateci sopra: guarderete la vostra città da un’altra prospettiva, sicuramente migliore.


alle origini di un mito di Claudia Sangalli

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ino al 13 luglio, il Palazzo Reale di Milano sarà lo scenario dell'arte di Klimt, noto artista viennese. La mostra è stata realizzata soprattutto grazie alla collaborazione del Museo del Belvedere di Vienna, proprietario della maggior parte delle opere esposte. Non appena varcata la soglia si viene invasi da un'ondata di ricordi di una vita che forse ancora non conosciamo. La prima sala permette, infatti, di entrare in confidenza con l'artista: non è possibile continuare la mostra se non si è a conoscenza della sua essenza più pura, delle sue origini. I primi ritratti giovanili ci presentano un'artista ancora "acerbo", ma da essi si può dedurre ugualmente la brillante carriera artistica che lo attende. Successivamente, vengono mostrate le opere che hanno caratterizzato i suoi primi tempi alla Scuola d'Arte Viennese; in queste stanze Klimt non è solo, ma viene affiancato soprattutto ai lavori di suo fratello Ernst, morto prematuramente, e a quelli dell'amico Franz Matsch, con i quali fondò la "Compagnia degli Artisti". Si rimane quasi spiazzati dal fatto che queste prime opere non contengano nessuna traccia d'oro: infatti, la luminosità sfarzosa che le contraddistingue non è nemmeno accennata. Ci troviamo davanti a un Klimt diverso, ancora legato al mondo accademico e all'esempio di Hans Makart. L'artista, dunque, non è sempre stato come siamo abituati a vederlo. La sua arte non è un qualcosa di statico, ma è stata in grado di cambiare nel tempo, di

migliorare, stupendoci sempre con un suo lato nuovo, nascosto, impensato. In seguito, lo stesso Klimt diviene presidente della cosiddetta "Secessione", che comprende giovani artisti stanchi dell'ambiente intellettuale e decisi a distaccarsi dalle sue rigide regole accademiche per aderire all'avanguardia internazionale. Il “Fregio di Beethoven”, del 1902, è l'emblema di questo periodo. In tutto il suo splendore occupa un'intera stanza, e viene dolcemente accompagnato in sottofondo dalla Nona Sinfonia del musicista, che aiuta a vivere con più intensità il significato dell'opera. E' diviso in tre parti: “l'Anelito alla Felicità”, che si scontra con “le Forze Ostili”, per poi trionfare con “l'Inno alla Gioia”. Rappresenta un Cavaliere, obbligato a scontrarsi con mostri terrificanti per poter finalmente raggiungere l'estasi amorosa, ovvero la liberazione. Simboleggia l'eterna lotta tra il Bene e il Male, e l'unica possibilità di vittoria è racchiusa nell'Arte. L'oro comincia già a farsi spazio, anticipando il celebre "periodo aureo", posteriore alla Secessione. L'abbraccio finale, dato da una donna che desidera soltanto sottomettere l'uomo, può essere anche considerato soffocante. L'artista sembra avere una strana ossessione per il genere femminile, ritratto in molte opere presenti all'interno della mostra. Le donne sono al centro del suo impegno creativo: sono sempre caratterizzate da una forza che le eleva ad assolute protagoniste. Esempio più alto è “Giuditta II” o “Salomè”, del 1909, simbolo

dell'intera esposizione; da un corpo quasi snodato, rinchiuso in una cornice lunga e stretta, emerge una donna moderna, sensuale e tragica. Il suo sguardo sfuggevole cattura, la sua eleganza è spiazzante. Le sue mani, come artigli, afferrano la testa mozzata di Oloferne, in segno di vittoria. L'ultima opera esposta è quella di “Adamo ed Eva”, che sembra avere qualche accenno dello stile dei Fauves. La figura di Eva, molto più chiara e curata rispetto ad Adamo, occupa l'intera tela, riprendendo il tema della donna "dominatrice". Purtroppo è rimasta incompiuta per la morte dell'artista: rimane l'amaro in bocca, perché non potremo mai sapere quali altre sorprese questo suo stile variegato ci avrebbe riservato. Klimt muore nel 1918, anno coincidente con gli esiti dolorosi toccati all'Austria dopo la Prima Guerra Mondiale. Egli rinchiude l'epoca del grandioso impero Asburgico nel suo "sarcofago dorato", come avevano fatto i Bizantini con i loro mosaici: entrambi hanno esaltato la potenza di imperi ormai agonizzanti, senza più speranza. Come disse lo stesso artista, "l'opera d'arte è un'avventura della mente". C’è chi potrebbe rimanere deluso dall'assenza dei capolavori fondamentali, ma sarebbe un errore non cogliere quest'occasione per compiere un viaggio singolare dentro l'esistenza di Klimt. Un viaggio che forse potrebbe rivelarsi anche scoperta della nostra stessa interiorità.

Giugno 2014 | L'Oblo' sul Cortile

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cultura dialogo con l’alzheimer di Letizia Foschi

Come ti chiami?” “Francesca” “E io come mi chiamo?” “Non mi ricordo.” Avete mai provato la sensazione di parlare con qualcuno che conoscete da una vita e sentire che non c’è più nulla a legarvi? Voi ricordate tutto, ogni singolo dettaglio di ogni singolo momento passato insieme, ma il vostro interlocutore no? Nel peggiore dei casi, come nel mio, la situazione è irreversibile. Nessuna possibilità di riallacciare un rapporto basato su anni e anni di ricordi. “Quando sei nata?” ho chiesto un giorno a Francesca. “Io… io sono del 1974” “Ma no France, del 1934!” Io chiamo questa malattia Alzheimer, ma solo perché è il nome più famoso per quanto riguarda le malattie della vecchiaia, per far capire alle persone, più o meno, cosa significa non ricordare nulla. Francesca, però, non ha l’Alzheimer : è reduce da dieci minuti di anossia al cervello nel 2010, e da allora non è più stata lucida. “Dove sei nata?” “A Genova.” “E ti piace di più Milano o Genova.” “Milano. A Genova ci sono le bombe.” I ricordi che ha risalgono a più di cinquant’anni fa. Ricorda perfettamente la guerra, quando stava in collegio e la bomba che ha quasi ucciso lei e alcune sue compagne, e ricorda quando curava mia mamma e i miei zii al posto di mia nonna negli anni ’50 e ’60. Dalle foto ricorda quasi tutti i visi dei parenti, ma dal vivo riconosce solo amici di vecchia data e me. Sono il suo ricordo più recente e questo, ogni volta, mi fa rabbrividire. Ci pensate? Sono a questo mondo da 15 anni e non sono l’ultima nata della famiglia che ha potuto conoscere da lucida. Ma sono il suo ultimo ricordo e tra tutti cerca sempre me (o mia sorella maggiore). “France te lo ricordi il nonno Luciano?” “Sì, me lo ricordo benissimo. Voleva tanto bene a tutti.” “E ti ricordi che fumava?” “Sì. Fumava sempre. Anche mentre lo portavamo all’ospedale il giorno della sua morte io e tua nonna, fumava in macchina. E tua nonna non gli ha nemmeno lasciato fumare l’ultima 16

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sigaretta.” Incredibile, vero, la lucidità con cui ricorda un fatto avvenuto nel 1985? Tante volte le ho chiesto di avvenimenti passati e, anche quando si scoraggiava perché nemmeno sforzandosi ricordava le date, alla fine, sia pure dopo un’ora o due, tirava fuori tutto. “France perché non mi hai accompagnata fino al liceo? Faccio il classico adesso, sai?” “Ah fai il classico? Come tua sorella?” “Sì, nello stesso liceo dove andava lei.” “Ave maria, gratia plena…” “Sai le preghiere in latino?” “Sì. Tu non preghi più come da piccola?” “Prego, ma non in latino.” A chi non ha mai provato la sensazione di cui parlavo all’inizio, queste conversazioni possono sembrare normalissime. Vi garantisco che non è così, anzi, tra una frase e l’altra solitamente canta un verso di “Bella ciao”. “Ma France, non mi porti più in Duomo?” “In Duomo? Quando andavo in Duomo io?”

“Mi portavi sempre alla Rinascente. Provavamo tutti i profumi e la mamma si arrabbiava.” “Ah, andavamo alla Rinascente? Non mi ricordo.” “Se vuoi un giorno di questi ti porto a prendere un caffè su alle terrazze, adesso sono proprio belle.” “A me piace il caffè.” Io non sapevo cosa fosse l’Alzheimer finché non si è ipotizzato che potesse essere la malattia di Francesca. La teoria è stata smentita rapidamente, ma non ne sono stata lo stesso felice. Non ero preparata a perdere così, da un giorno all’altro, una persona che viveva con la mia famiglia da 60 anni. Persino le “litigate delle feste”, quelle tra lei e mia nonna per decidere se fare i ravioli o le lasagne a Natale, mi mancano. Non mi piace augurare la morte a qualcuno, ma col tempo ho imparato che vivere degli anni a fianco a una persona che c’è fisicamente ma non mentalmente è peggio della morte, perché è un veleno che brucia nello stomaco ogni giorno sempre di più.


teatro: solo essere di Simone Possenti

I volti umani ridono con chi ride e piangono con chi piange. Se vuoi che io pianga, prima devi provare dolore tu: allora la tua sofferenza mi toccherà; ma se farai male la tua parte, mi addormenterò o mi metterò a ridere». Questo scrive Orazio teorizzando una concezione da sempre molto comune della recitazione: l’attore deve immedesimarsi nelle passioni che rappresenta, solo così il suo lavoro sarà efficace. Quest’idea prevalse per secoli, fu solo Diderot nel saggio critico “Paradoxe sur le comedien” (pubblicato postumo nel 1830) ad andare per primo controcorrente, sostenendo la tesi opposta: «l’attore è veramente grande solo quando resta privo di sensibilità e dirige il proprio corpo come fa il burattinaio con il burattino». Un altro momento di svolta è individuato in Konstantin Stanislavskij: il suo metodo comporta un vero e proprio percorso, che coinvolge il corpo, la mente e l’etica stessa dell’attore. L’idea centrale è che si giunga a plasmare la mente, agendo sull’universo psichico dell’attore, così da risvegliare in lui una dimensione creativa, che darà nuovo spessore anche ai gesti e agli atteggiamenti del corpo. «Continuate a concentrare l’attenzione sulle immagini che sono davanti agli occhi della vostra mente. Formate i pensieri e le immagini della fantasia secondo il testo e le circostanze fornite dall’autore e dal regista. Ma siccome li avete fatti nascere entrambi – pensieri e immagini – dal vostro cuore, le parole e la verità che voi mettete in queste parole, proprio come se fossero la vostra vita, si fonderanno nel

cerchio della vostra immaginazione e sulla scena» (L’attore creativo. Conversazioni al Teatro Bol’Soj, 19181922). Per riattivare le forze creative bisogna che l’attore raggiunga una disciplina tale da porre ordine nella sua mente. L’intuizione crea l’aspetto esteriore del personaggio, che nasce naturalmente dall’uomo interiore: l’attore; il corpo e l’anima del personaggio e dell’attore si fondono organicamente l’uno nell’altro. Siamo davanti a una sorta di fisiognomica teatrale, dove le caratteristiche fisiche e le qualità morali e psicologiche si traducono immediatamente le une nelle altre. Un ulteriore contributo viene dal francese Antonin Artaud, il quale, nel teatro della crudeltà, fa rivivere la parola attraverso la fisicità carnale dell’attore. L’attenzione è posta ora sull’azion: incontro fra interiorità corporea e comunicazione. Le tappe fondamentali di questo processo creativo sono: l’improvvisazione libera, la formalizzazione dell’azione e l’applicazione del testo all’azione. Nella prima fase, la creatività dell’attore ha libero campo: egli mostra il suo grado di scissione tra ciò che è, e ciò che vorrebbe essere. Lo psicologo e psicoanalista tedesco Erich Neumann spiega che l’esperienza creativa non può esistere come qualcosa che ha relazione con il "superamento della scissione" operata dalla coscienza e con il ritrovamento della realtà originaria, poiché essa è in continua evoluzione. Improvvisando una scena, l’attore entra in contatto con la sua realtà originaria, il suo sé profondo, ma non lo può afferrare né fissare, in quanto esso è in continua

trasformazione. Egli può, attraverso la momentanea scissione della personalità, intravederne l’altra immagine e farla sua nell’azione scenica. Il personaggio mostra così, a chi osserva, il riflesso del sé dell’attore, della sua realtà originaria, quella che si dice essere vera. La scissione dell’Io è diventata in Occidente una funzione, una prestazione fisiologica e non più occasionale. L’Io occidentale non ha memoria circa la nascita della scissione come dinamica difensiva (una reazione psichica per eludere un pericolo esterno), ma concepisce la scissione come norma permanente. Lo psichiatra americano Arthur Kleinman scrive: «Ogni individuo nel moderno occidente soffre di una dissociazione della sensibilità. Tale dissociazione lo pone in una situazione che lo costringe a cambiare continuamente la sua collocazione per passare, non senza difficoltà, dal partecipare emotivamente alla vita ad adottare un atteggiamento che lo pone sopra ed al di fuori del sistema nel quale è coinvolto. […] La potenza razionalizzante del moderno e secolare occidente, ha determinato ed intensificato la costruzione di un osservatore critico interno che guarda e commenta l’esperienza stessa. Questo osservatore critico interno è simile ad un forte Super-io che giudica le azioni e le intenzioni» (Teatro delle normalità, Orioli, 1996). "Lascio che accada il terremoto interiore: ho smesso di difendermi, ho smesso di controllare, ho lasciato cadere il passato. Desidero solo essere, mostrare ciò che mostro, dire ciò che dico".

Giugno 2014 | L'Oblo' sul Cortile

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INGLORIOUS REVIEWERS

Locke

di Bianca Carnesale

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n uomo guida nella notte. Locke stesso a raccontare come è giSi dirige da Birmingham a unto a quel punto, ad un atto che per Londra. La cinepresa è lì lui è di responsabilità di fronte ad un con lui, per tutti gli ot- errore. E’ una scelta che fa d’istinto tantacinque minuti del e che comporta non solo un sacrificio film, che coincidono col per sé, ma anche per chi gli vive actempo reale della storia: lo inquadra e canto, come ha dichiarato il regista, registra le sue telefonate, dalle quali Ivan Knight: “ una scelta che non per lo spettatore apprende la storia che tutti è giusta, e che per certi versi è si sta svolgendo. E’ un uomo come anche egoistica”. Un film sulla motanti, con una famiglia come tante, ralità, sul libero arbitrio (Ivan sente un lavoro come tanti. Ma, messo di pesare su di sé la scelta opposta che fronte ad una scelta, aveva fatto il padre), prende una decisione Tom Hardy (...) qui sulle conseguenza che che non è da tutti. ogni singolo atto delappare in tutta L’uomo che guida nella sua grandezza, la nostra vita e sulle la notte è Ivan Locke, scelte che ci troviamo in grado di costruttore edile, con compiere. sostenere un ruolo aPotrebbe un importante appunessere un totalizzante, tamento di lavoro il film noioso e invece giorno dopo, a casa senza mai venir meno è un film d’azione, al realismo di una il viaggio letterale e una moglie e due figli sceneggiatura adolescenti che lo asmetaforico di un uomo semplice, ma pettano. Ha saputo che fa i conti con la rivoluzionaria che una donna, con la propria moralità, con quale ha passato una la propria vita e con le nel linguaggio. notte e che non ama proprie origini. neppure, sta per partorire un figlio Girato in solo otto notti consecutive, suo in un ospedale londinese: subito con l’utilizzo della cinepresa digitale in compie la sua scelta, dirigendosi ver- notturna che crea l’immagine in moviso Londra. Dopo la svolta (letterale e mento sullo sfondo, mentre nell’auto metaforica) all’uscita da Birmingham, tre camere riprendono il protagonista sono le voci fuori campo, attraverso da angolazioni diverse, con le voci deil cellulare, e soprattutto la voce di gli altri intrepreti registrate a parte 18

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e con pochi aggiustamenti in fase di montaggio, Locke è una grande prova proprio per la centralità del protagonista e dell’ambientazione. Il difficile ruolo di Locke è affidato a Tom Hardy, attore inglese con esperienze teatrali e televisive, noto al cinema per il ruolo di Bane, il mercenario nella terza parte della trilogia di Batman, Il Cavaliere oscuro. Qui, nella normalità di un viso incorniciato dalla barba, appare in tutta la sua grandezza, in grado di sostenere un ruolo totalizzante, senza mai venir meno al realismo di una sceneggiatura semplice, ma rivoluzionaria nel linguaggio. Pur in scena da solo, grazie alle telefonate interpreta di volta in volta il ruolo di padre, marito, amante, lavoratore. Negli ottantacinque minuti del film lo vediamo guidare nel traffico della notte, con le luci della strada che, suggestive, si riflettono sul suo volto: vediamo le sue espressioni passare dalla riflessione alla rabbia, con primi piani e inquadrature che mettono in risalto particolari, per esempio la mano con l’anello nuziale, simbolo della vita tranquilla condotta fino a quel momento. E’ una grande prova per un attore un film così assoluto e claustrofobico, prova che Hardy supera con successo. Non è il primo film in cui un unico at-


tore regge l’intera trama. Basti ricordare l’adattamento di Secret Honor in cui Robert Altman dirige Philip Baker Hall interprete di un presidente Nixon ormai in decadenza; o ancora Tutto è perduto, dove Robert Redford è alle prese con una natura ostile; o ancora la gran parte di Cast Away interpretato da Tom Hanks. La novità qui è che il tempo della storia e quello della narrazione cinematografica coincidono: gli ottantacinque minuti del film sono gli ottantacinque minuti del viag-

gio. Innovativo è anche il minimalismo della vicenda: non è la rievocazione di una vita eccezionale, né la rappresentazione di un eroe solitario, è solo la piccola e breve storia di una decisione, presa da un uomo qualunque in un momento della sua vita, che non fa di lui un eroe, ma solo un uomo di fronte ad una scelta. Per essere precisi di un uomo di fronte all’ignoto: perché la storia e il viaggio si interrompono prima del raggiungimento di una meta, svelando così che la natura del

film sta nella ricerca di una scelta responsabile, più che nella scelta stessa. Il regista Steven Knight, sceneggiatore pluripremiato, alla sua seconda prova di regista, si dimostra un grande sperimentatore, ottenendo, con essenzialità di tempi e mezzi, un film di grande valore, incomprensibilmente fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un film che dimostra come l’azione possa essere narrata senza effetti speciali, ma solo attraverso luci ed espressioni.

e all’interno di un amplesso la pone ad un livello di superiorità, di dominio; per una volta, nella sfera della sessualità, il ruolo dell’uomo e della donna sono invertiti e la telecamera riprende questo sovvertimento di convenzioni, questo punto di vista insolito, che forse è stato proprio ciò che ha messo a disagio, segretamente, molti critici e spettatori. Come un’eroinomane, Joe cerca compulsivamente uomini che possano soddisfare le sue pulsioni sessuali e ne trova con facilità, con estrema facilità, ovunque si volti. Molto presto, indotta dalla “necessità”, scopre che non esiste uomo in grado di resistere al potere della libido e che nessun freno morale, per quanto saldo (o presunto tale) possa essere, riesce a vincere e reprimere in loro la pulsione del sesso. Il suo essere donna diventa un’arma potentissima, in grado di colpire il sesso maschile nell’immancabile e profonda debolezza che lo caratterizza e di assoggettarlo per il suo piacere. Il film, tuttavia, non si presenta come un inno femminista, non è proprio nello stile di LvT, ma piuttosto come una presa di consapevolezza; un occhio maschile indaga apertamente l’universo maschile e ne mette in luce con disinvoltura un aspetto da sempre presente ma celato, sotto mille

forme, in ogni costume e tradizione della società. La storia ce lo insegna: vedere rovesciati i ruoli di donna e uomo può essere destabilizzante per quest’ultimo, soprattutto nell’ambito della sessualità, dove egli prevale ignaro del fatto che la sua virilità può essere anche il suo più grande punto di debolezza, non dipendendo mai pienamente dal suo controllo bensì dagli stimoli provenienti dal mondo esterno. Così Joe, impugnando l’arma della seduzione, distrugge la psiche di molti uomini, le loro vite e le loro famiglie, incurante e indifferente, mossa soltanto dalla sua mania. Essa ci appare nelle vesti di una vera e propria femme fatale, diabolica e seducente, che domina l’uomo attraverso la potenza dell’eros. Ma questo non è il solo volto dell’universo femminile: l’altra faccia della medaglia, infatti, è rappresentato dalla signora H. (incantevolmente interpretata da Uma Thurman), unica figura femminile all’interno del film oltre a Joe. Si tratta di una madre e moglie la cui vita verrà interamente distrutta dal tradimento del marito: ma non è amore quello che lega il signor H. a Joe, bensì attrazione, desiderio, pulsione, indomabile a tal punto da poter mandare in frantumi un’intera vita di affetti. Da un lato

di Martina Brandi

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n molti hanno definito l’ultimo film di Lars von Trier “un porno troppo ricco di trama”, esibendo una nauseabonda retorica e un’incredibile superficialità interpretativa. Ci sono film sull’amore, sulla libertà, sulla guerra e sul sesso, Nymphomaniac è un film che parla di sesso. Ma parlare di sesso, checché se ne dica, è ancora un tabù e farne cinema, a quanto pare, va oltre i limiti della tollerabilità: una prodezza esagerata per attirare su di sé le luci dei riflettori. Il film, in realtà, lungo al punto da dover essere suddiviso in due pellicole, offre innumerevoli spunti di riflessione, pur senza mai deviare l’attenzione dal tema principale. Il regista conduce lo spettatore a una riflessione cruda e senza veli sulla potenza sconvolgente e devastatrice di una forza che giace inestirpabile in ognuno di noi, quella dell’eros, della pulsione sessuale. La narrazione è suddivisa in otto capitoli, firma caratteristica dell’autore: la narratrice è Joe (l’abilissima Charlotte Gainsbourg) e la storia è la storia della sua vita irrequieta, sconvolta dalla ninfomania, la dipendenza malata per il sesso. Un espediente interessante, che, per una volta, mette la donna alla ricerca bramosa della soddisfazione sessuale

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INGLORIOUS REVIEWERS

la libido del marito, dall’altra la disperazione della moglie, che in nome della libido vede sconvolto il suo universo familiare, valoriale e affettivo; da un lato l’uomo volubile, dall’altro la donna che ha catalizzato la sua esistenza in un sistema di solide basi. E questa differenza, forse, ha le sue radici nella storia. Ma ancora una volta il regista è imparziale, osserva e riporta, non facendo pendere il piatto della bilancia da nessuna delle due parti. Tuttavia è da sottolineare l’importanza di questa dimensione affettiva messa in luce dalla figura della donna-moglie, dimensione, e forse in qualche modo vincolo, propria della donna e invece del tutto assente in di Joe, per questo motivo “libera” di rispondere con disinvoltura ai propri appetiti sessuali. Nonostante tutti gli uomini di cui si era circondata, infatti, la solitudine era sempre stata l’unica compagna di Joe: la lussuria portava distruzione tutt’intorno a lei e, accecata dalla dipendenza, ella non aveva mai provato empatia con alcun essere umano. Tuttavia, questo aveva permesso a Joe di osservare dall’esterno le relazioni altrui, gli affetti umani e la loro indicibile precarietà, facendola approdare ad un giudizio assai amaro: non esistono sentimenti sinceri e puri, tutto è menzogna, pronto a crollare alla prima brezza. Tutto è umano, troppo umano. Ma von Trier si spinge oltre: egli scava in profondità nella psiche di Joe, mettendo in luce, più che con durezza con una sorta di malinconia, lo sconforto che la pervade di fronte alla desolazione e all’insensatezza dell’esistenza. Quasi buttate lì, tra un capitolo e l’altro della sua storia, Joe pronuncia queste parole, velate come 20

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di un ironico stupore: “Nonostante tutto ero ancora incline ad una certa tristezza. Così, quando la mia vita molto attiva me lo consentiva, facevo una passeggiata. Queste passeggiate ripetute diventarono una metafora della mia vita: monotona e inutile. Sì, esattamente come i movimenti di un animale in gabbia. In fondo, aspettiamo tutti il permesso di morire...”. Nell’estasi sessuale si dimentica la morte, nell’eros svanisce il ricordo di zanathos, ma i due corrono sempre paralleli e quando uno svanisce l’altro affiora immancabilmente. Come in una disperata danza, forse, Joe cercava insieme all’estasi una fuga dalla vacuità dell’esistenza; così come la si cerca in ogni dipendenza. Un’altra considerazione, però, ci riporta all’insuccesso scaturito presso la critica (non solo) italiana: alcuni,

infatti, hanno definito il film un inno al libertinaggio, avendo provato disgusto per la qualità e la quantità delle scene di sesso. La maestria delle riprese, al contrario, è notevole: esse si presentano volutamente permeate dall’estasi sessuale, che l’artista si sforza di catturare e immortalare come faceva Klimt nelle sue tele erotiche. Non c’è impudicizia in von Trier, non c’è volgarità; le riprese “senza veli”, ricercate, anzi, nella loro bramosa attenzione ai particolari, ai volti, alla carne, hanno come unico scopo quello di trasmettere l’estasi dell’orgasmo in tutta la sua pienezza, la fuga dai sensi, lo tsunami di sensazioni travolgenti, il culmine massimo del piacere. Riuscendoci, con dirompente impatto. Ma forse, da questo punto di vista, il film è ancor più assimilabile all’opera pittorica di Schiele, artista prepotentemente attratto dalla figura umana e dal suo rapporto con la sessualità. Nella sua pittura egli si spinse oltre l’insegnamento klimtiano, raffigurando una vastissima gamma di nudi femminili colti nei più diversi atteggiamenti sessuali; disegni diretti, crudi, privi di qualsiasi ornamentazione, dai quali emana, tuttavia, una fortissima carica erotica. Con l’accusa di pornografia, l’artista passò un breve periodo della sua vita in prigione; la sua opera, tuttavia, rimase anche in seguito una provocazione contro quella borghesia falsa e moralista,


sempre pronta a condannare i suoi disegni e le sue idee. Provocazione che un secolo dopo Lars von Trier ha lanciato contro la “nuova” borghesia, ottenendo pressoché un identico riscontro. Ancora una volta l’artista svela l’ipocrisia del suo pubblico, un falso perbenismo a cui egli risponde con la violenza provocatoria delle sue immagini. Nessuno, ci dice LvT, è immune alla sua stessa natura a metà fra l’uomo civilizzato e la bestia. Già Euripide, nelle sue Baccanti, insegnava quanto grande fosse il potere dell’eros, da un lato liberatorio e dall’altro indomabile e distruttivo. Durante i baccanali, i riti orgiastici di Dioniso, i partecipanti si radunavano sui monti per dar sfogo alle loro pulsioni più bestiali e primordiali, in una sorta di abbandono dei sensi e di mania collettiva, istigati dal dio dell’irrazionalità e dell’ebrezza. Chi tentava di opporsi, di cancellare le proprie pulsioni e la propria fusis, era condotto alla rovina. L’uomo civilizzato, avvertiva Euripide, non doveva seguire il modello di Penteo: questi, nel tentativo di annullare la propria istintualità in favore della razionalità, del pudore e dell’ordine, era caduto preda dei suoi stessi schemi

mentali, finendo cruenta vittima delle Baccanti. Impari era stata la sua battaglia contro la potenza divina di Dioniso: più l’uomo aveva tentato di opporsi all’abbandono dei sensi, più la rete del dio gli si era stretta intorno fatale. Il rito, dunque, e ciò che esso incarna, doveva essere accolto e accettato da tutta la popolazione come un’occasione necessaria di sfogo, al termine della quale veniva ristabilito l’ordine iniziale. Non solo: all’interno del film, altro elemento di genialità, si alternano continuamente alla narrazione spunti e rimandi al mondo dell’arte (significativa è la scelta della colonna sonora!) e al mondo naturale, a dimostrazione del fatto che la sessualità corrisponde a quell’afflato vitale che permea tutta la Natura e il sublime artistico e che è dunque imprescindibile alla natura umana. E infine giunge la conclusione, amara, apogeo di quell’ipocrisia che LvT ha denunciato nel suo pubblico e che ora, con estremo pessimismo, rappresenta l’ultimo messaggio del film. L’ipocrisia che domina nei rapporti umani alla fine affiora dirompente anche fra Seligman, l’interlocutore di Joe durante tutto il

film, e la donna che davanti a lui ha messo a nudo la sua coscienza, i suoi giudizi (sempre amari) su se stessa, le sue paure e i suoi buoni propositi e per questo è divenuta nelle sue mani estremamente vulnerabile. Fino alla fine l’insolito uomo si era dimostrato un ottimo ascoltare, privo di qualsiasi pregiudizio e preconcetto sulla sessualità per via della sua condizione di “puro”, di naturale asessualità. Egli aveva introdotto uno sguardo luminoso nella narrazione, così tetra agli occhi della donna stessa che più volte si era definita “un pessimo essere umano”, non punitore ma, al contrario, benevolo e comprensivo. Narrare la sua storia così come Seligman le aveva permesso era stato per Joe una sorta di trattamento maieutico grazie al quale aveva potuto comprendere la reale natura della sua dipendenza. Da tale consapevolezza era maturato in lei il desiderio di combattere quell’ossessiva sessualità che la dominava. Ma di fronte a questo barlume di luminosità per il futuro di Joe, si conclude il film con un atto osceno; nessuna parola nell’ultima scena e il buio dello schermo, perché non esistono parole o immagini per commentare il dramma.

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musica

audio philes

“E dittatura e religione fanno l’orgia sul balcone” (Litfiba, Santiago) Nirvana Nevermind (Geffen Records, 1991) di Andrea Sarassi

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l titolo può essere tradotto in non importa, e si riferisce al distacco dei giovani dai problemi reali. Il disco uscì il 24 settembre 1991 ed è il secondo lavoro della band statunitense dopo l'album Bleach del 1989. La copertina ritrae un bambino di quattro mesi fotografato in una piscina di Pasadena in California mentre insegue un biglietto da un dollaro infilato in un amo da pesca. Quintessenza della musica grunge, l'album si apre con la celeberrima “Smell like teen spirit”, strutturata in modo molto semplice ma efficace: uno splendido lavoro alla batteria di Dave Grohl, e un avvolgente assolo di chitarra di Kurt Cobain, leader del gruppo. «With the lights out, it's less dangerous/ Here we are now, entertain us/ I feel stupid and contagious/Here we are now, entertain us». A seguire viene “Come as you are”, dominata da un assolo di chitarra che dà i brividi e che fa da sottofondo a un testo introspettivo e malinconico « Come as you are,/ as you were,/As I want you to be». In“Polly” l'ammaliante voce di Kurt racconta un fatto realmente accaduto a Tacoma nel giugno del 1987: una ragazza di 14 anni tornando da un concerto punk venne rapita da un uomo che l’appese a testa in giù, la violentò e la torturò. La ragazza riuscì fortunatamente a scappare ed il delinquente fu arrestato. Cobain chiama la ragazza “Polly”, nome del suo pappagallo, per paragonare drammaticamente la prigionia della ragazza a quello dell'animale nella sua gabbietta: «Polly wants a cracker/Maybe she would like some food/She asked me to untie her/A chase would be nice for a few». Si ritorna a ritmi più sostenuti con “Stay Away”, una canzone trascinante, e dominata da un riff di chitarra prepotente. Segue“Something In The Way” che vede la collaborazione di Kirk Canning al violoncello; si riferisce ad un periodo difficile della vita di Cobain costretto a vivere sotto il ponte di Aberdeen perché cacciato di casa e senza denaro «Underneath the bridge/The tarp has sprung a leak/ And the animals I've trapped/Have all become my pets/And I'm living off of grass». Dopo dieci minuti di silenzio dopo la fine dell'ultima traccia esplode “Endless, Nameless” la ghost track: chitarre distorte all’inverosimile ed urla selvagge ti aggrediscono senza pietà! Da notare che questa canzone non era stata inclusa nelle prime 50.000 copie di Nevermind.

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Litfiba La Trilogia del Potere (Warner records, 1985-88) di Edo Mazzi

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on la “Trilogia del Potere” si fa riferimento a tre album del gruppo fiorentino dei Litfiba: Desaparecido, 17 re, Litfiba 3; Tutti e tre questi dischi, infatti, sono accumunati da alcuni temi di denuncia sociale e politica, tra cui in particolare una forte critica ai regimi totalitari. Ad aprire le danze della canzone new-wave “Eroi del vento” troviamo la strepitosa chitarra di Ghigo Renzulli. L’inconfondibile voce di Piero Pelù emerge nel brano “Lulù e Marlèn”. “Pioggia di Luce” è una canzone dal testo estremamente poetico, e si contraddistingue per un interessante melodia di suoni creati al synth: « Steppa distesa dentro il mio/ Occhio dell' anima/Pioggia di luce bianca che /Mi accechera`». Inizia lenta, ma poi è un continuo crescendo in cui emerge ancora una forte linea di chitarra: si tratta di “Come un Dio” un brano superbo, in cui il cantante tra i suoi “trallelolà” paragona se stesso a un divinità: «Io sono come Dio /E gli uomini li rifarei come ora /Occhi per non vedere, bocche per non parlare». “Pierrot e la Luna” è ispirata, invece, alla celebre composizione di “Pierrot Lunaire” di Arnold Schönberg. “Sulla Luna” lascia trasparire una forte polemica nei confronti delle relazioni umane, in cui è sempre presente una volontà di dominare gli altri, spesso accompagnata dal tradimento di un amico; ecco allora che nel testo si fa riferimento all’episodio di Giuda:«Come Giuda scappo via/spezzo le catene/ ho tradito il mio/amico […] La saggezza è una pazzia/E impedisce di vedere/Ogni uomo spera di comandare/Bestie in guerra/ Sulla Terra, sulla Terra». Elementi di rock latino emergono in “Santiago”, canzone che mette in luce il controverso rapporto tra Giovanni Paolo II e il dittatore cileno Pinochet: «E l' uomo in bianco vide la muerte /Ma era al di la` delle barricate /E dittature e religione /Fanno l' orgia sul balcone». Da non dimenticare anche un altro importantissimo brano: “Paname”. La stupenda “Lousiana” s’inserisce nel dibattito riguardo la pena di morte - purtroppo una realtà ancora presente in molti stati del mondo-. Un ritmo pop rock pervade “Tex”, un’aspra polemica nei confronti dello sterminio dei nativi americani:« Oh, che cazzo dici?/La vostra libertà?!/Uoh, ma cosa dici?/Noi ce l'avevamo già […] La mia gente è come un'aquila senza ali/e tu cavalca, cavalca mio cowboy che la terra tanto ce la rubi a noi.». La trilogia si conclude con due bonus-track: “Versante Est” e “il Vento”.


Sting and the police di Letizia Foschi

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ignore e signori, è finalmente arrivato! No, non giugno, non l’iPhone 6, bensì l’unico gruppo di successo del XX secolo con solo tre componenti: alla batteria Copeland, al basso Sting (nome d’arte per Gordon Matthew Thomas Sumner) e alla chitarra Summers (sostituto di Henry Padovani, che lasciò la band pochi mesi dopo la formazione della band nel 1977)! I Police nascono così, nel febbraio 1977, e si preparano a sette anni di successi continui. Come tutti cominciano con due album di cui poco rimane nelle radio, “Outlandos d’Amour” e “Reggatta de Blanc”. Ma è con i due album successivi che cominciano i grandi successi: viene estratto, dall’album “Zenyatta Mondatta”, il singolo “De Do Do Do De Da Da Da” che è impossibile non aver mai sentito; un motivetto accattivante, orecchiabile, indimenticabile. Dal quarto album, “Ghost in the Machine”, nasce il singolo “Every little thing she does is magic” (sempre titoli corti), scritta da Sting sei anni prima, in un momento di romanticismo, nel quale si cattura il suo caratteristico timbro vocale che, d’ora in poi, prevarrà in ogni canzone. Ma questi non sono ancora i veri successi della band. “Every Breath you take”, successo pubblicato nel loro ultimo album nel 1983, raggiunse la vetta delle classifiche in Inghilterra, USA e Canada, e il terzo posto in Italia; il singolo probabilmente più famoso e ascoltato è “Message in a bottle”: conosciuto per il suo ritmo costante, e la ripetizione continua delle frasi nel ritornello: “I’ll send an SOS to the world, I’ll send an SOS to the world, I hope that someone gets my, I hope that someone gets my, I hope that

someone gets my, message in a bottle, message in a bottle”. La band, per quanto poco sia rimasta unita, ha lasciato un’impronta significativa nella storia della musica. Un fatto che lasciò “di stucco” gli ammiratori del gruppo, rimasti fedeli anche dopo più di vent’anni dallo scioglimento, fu l’annuncio di una riunione dei tre componenti per un tour mondiale nel 2007, che vide numerosi spettatori e, nell’ultimo concerto al Madison Square Garden, ben 20000 biglietti venduti. Cosa rimase di loro dopo lo scioglimento? Solisti di successo. Sting ha pubblicato una quantità enorme di dischi, e ha ricevuto diverse nomine agli oscar per la miglior colonna sonora; Summer con diciannove album da solista oltre i cinque con i Police; e infine Copland che ha collaborato con varie band, e alla realizzazione di numerose colonne sonore. Tutti e tre riscossero grande successo, come ho detto prima, con o senza una band di supporto. Come numerosi altri cantanti in precedenza (John Lennon, Phil Collins, Paul McCartney etc.) hanno dimostrato di avere le capacità necessarie per portare avanti una carriera da soli.

Tra i singoli più famosi di Sting ci sono “Fields of gold, Englishman in New York” e “Russians”, tutti fantastici esempi della sua tenacia vocale. Per quanto riguarda la sua partecipazione nel cinema, ricordiamo la sua recente comparsa nel cartone animato “Bee Movie”, dove viene accusato di utilizzare il suo nome d’arte (che significa “pungiglione”) senza chiedere i diritti d’autore alle api. Venne nominato agli Oscar per la miglior colonna sonora nel 2000 per “le follie dell’imperatore”, nel 2002 per “Kate e Leopold” e nel 2004 per “Ritorno a Cold Mountain”.

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musica WELCOME TO JAZZ

a cura di Martina Brandi

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iù mi addentro nell'universo del jazz e più mi rendo conto di quanto esso sia vasto, affascinante e sconosciuto, a me, come a moltissimi altri. Per questo, avendo avuto l'opportunità di contattare Pietro Leveratto, contrabbassista, e attualmente tra i più importanti musicisti di jazz del panorama italiano, ho voluto realizzare la seguente intervista: l'idea è quella di condurre i più inesperti alla scoperta di un genere che ha segnato in modo imprescindibile la storia della musica. 1) Quali sono le origini del jazz, storicamente parlando? In quale contesto sociale fonda le sue radici e quali valori incarna originariamente? Immaginiamo una ricetta di cucina “fusion” che unisca ingredienti molto diversi tra loro per origini geografiche e culturali, riuscendo ad armonizzarli per diventare un piatto nuovo e anche 24

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molto buono. Il jazz nasce in maniera simile, i ritmi e alcune sonorità e prassi esecutive della musica africana,(ma sarebbe un discorso lungo), che, arrivate negli Stati Uniti al seguito della tratta degli schiavi, incontrano gli strumenti della tradizione europea, le concezioni armoniche di origine “colta”, qualche residuo della musica popolare del vecchio continente, la banda e il blues che percorreva il nuovo mondo fino a raggiungere Londra e diventare il rock moderno. 2) Quali sono le peculiarità che fanno della musica, musica jazz? Come si caratterizza dal punto di vista musicale? Probabilmente la caratteristica principale del jazz sta nella pratica dell'improvvisazione; è vero che molti grandi del passato sono stati improvvisatori geniali (basti pensare a Mozart) ma nel jazz la percentuale di un pezzo destinata a essere rimepita

con note che nascono sul momento, scaturite dalla fantasia dei musicisti, rappresenta la parte più importante; sulla carta un blues non è che 12 battute di musica, pochi secondi, mentre la sua esecuzione in una jam session può durare 20 minuti e più. 3) Quali sono le successive e più rilevanti evoluzioni del genere? Si diversificherà, col tempo, in più “correnti”? Sarà determinante, in questo senso, il passaggio dall'America all'Europa? Il jazz è nato all'inizio del secolo scorso, il primo disco pubblicato con la parola jazz nel titolo è “Livery stable blues” inciso della Original Dixiland Jazz Band nel 1917; sembra impossibile che in pochi anni quella musica, apparentemente semplice e che oggi può sembrarci antiquata, sia divenuta anche molto complessa e articolata, tanto da trasformarsi da musica d'intrattenimento a vera e


propria espressione artistica evoluta, persino cervellotica per le orecchie di un ascoltatore non troppo ben disposto. Una linea cronologica vorrebbe il Jazz classico dei padri fondatori (Louis Armstrong, Jelly Roll Morton), seguito dallo Swing di Benny Goodman, dal Be Bop di Charlie Parker, fino al jazz moderno e contemporaneo, a partire da Miles Davis e Ornette Coleman. Ma poi, molto spesso, le cose e le persone si sono mischiate tra di loro e non sempre il calendario degli eventi risulta così coerente.

2) Conoscenza del linguaggio jazzistico (sembra una cosa ovvia, ma è proprio il cuore della faccenda, conoscere il linguaggio vuol dire conoscere le tradizioni e le prassi anche tecniche) 3) Interplay, cioè la capacità di interagire tra musicisti, sapersi ascoltare. Un gruppo che improvvisa bene diventa una sola cosa, un organismo con molte braccia -gli strumenti- ma un pensiero comune e la stessa meta alla fine del viaggio musicale che si sta compiendo.

4) Quali sono gli strumenti caratteristici del genere? Esiste una formazione standard? E all'interno di essa esiste una gerarchia fra gli strumenti? È un aspetto molto rilevante: la batteria o la chitarra elettrica non esisterebbero senza il jazz, e alcuni strumenti, che erano negletti alla loro nascita - basti pensare al sassofono- hanno avuto fortuna e popolarità incontrando questa musica. Naturalmente come in tutti gli stili musicali ci sono strumenti dedicati alla melodia principale e strumenti più adatti all'accompagnamento, la formazione standard, più o meno da sempre, vede il sassofono, la tromba e magari la voce in posizione di “frontline”; mentre la sezione ritmica formata da piano o chitarra, basso e batteria si occuperà di costruire un solido retroterra sonoro alle improvvisazioni dei solisti, ma naturalmente le varianti sono infinite, dal pianoforte solo fino a big band formate da decine di strumenti, fino ai gruppi più moderni che possono vedere antichi strumenti etnici accostati a sintetizzatori e chitarre distorte. 5) Su quali regole è basata l'improvvisazione, elemento principe dell'esecuzione jazzistica? Essenzialmente l'improvvisazione del jazz ha bisogno di tre cose: 1) Conoscenza delle regole armoniche (si improvvisa soprattutto sugli accordi dei pezzi).

il jazz sia musica in grado di unire persone anche molto diverse tra loro, forse proprio perchè è nato da una mescolanza culturale e umana. 7) Come si ascolta jazz? Come superare il probabile scoglio iniziale di un genere che, a un orecchio inesperto, può apparire caotico e non immediatamente piacevole? Molti pensano che il jazz sia noioso o difficile semplicemente perchè hanno poche occasioni di ascoltarlo, il trucco sta nel dimenticarsi quello che sul jazz si crede di sapere e andare a qualche concerto disposti a intraprendere un percorso assieme ai musicisti sul palco: nemmeno loro sanno del tutto dove andranno a finire...il pubblico del Jazz ha la fortuna di assistere ogni volta a qualcosa che non potrà essere uguale il giorno dopo ed è parte integrante della performance. Poi, con calma, cercarsi i dischi giusti (tanto ormai si trovano anche nei “bassifondi” di internet), vedersi qualche filmato su “youtube”, leggersi la biografia di un musicista per sentirlo vicino a noi. 8) Esiste una tradizione jazzistica puramente italiana?

6) Dove sopravvive oggi il jazz? Chi lo ascolta? È diventato un genere “d'élite”, per frequentatori raffinati di jazz club? Il pubblico del jazz è spesso formato da appassionati, a volte molto competenti e un po' “maniaci”, però è anche vero che si sta verificando un certo rinnovamento, a me è capitato di suonare in luoghi molto lontani, da Hong Kong all'America latina ed è impressionante come in tutto il mondo

In Italia, come in Germania, il jazz era stato proibito come “arte degenerata” durante gli anni bui del nazifascismo, infatti mentre molti musicisti americani si traferivano in Europa, (come il grande sassofonista Sidney Bechet che già viveva in Francia dagli anni '30), da noi non era possibile nemmeno ascoltare i dischi provenienti dagli Stati Uniti. Negli ultimi decenni però il nostro paese ha fatto decisamente enormi passi avanti, e oggi i nostri musicisti godono di grande rispetto e sono a pieno titolo presenti nelle più importanti manifestazioni in tutto in mondo. Forse non esiste uno specifico “stile italiano”, semplicemente perchè il jazz ha un respiro che vuole essere universale, patrimonio e luogo d'incontro per tutti coloro che lo amano, lo ascoltano, lo suonano.

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musica brevi storie di artisti

a cura di Cleo Bissong

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nteressandomi a quello che è il percorso musicale di un’artista, ho deciso di intervistare due giovani musicisti, oltreché exclassicisti, Jacopo Milesi e Stefano Grasso. Jacopo Milesi appartiene alla Woody Gipsy Band, un gruppo di cinque ragazzi che suonano con due chitarre manouche (strumento appartenente al jazz manouche, stile musicale tipico delle band tzigane), un contrabbasso, un cajon (percussione) e una diamonica (un pianoforte a fiato), svariati generi musicali. Stefano Grasso invece, attualmente studente alla facoltà di Lingue, è membro di tre gruppi musicali, dove in tutti questi suona batteria e percussioni, e trovando così un modo per potersi esprimere. Intervista a Jacopo Milesi Come e quando è iniziata la tua passione per la musica? A dodici anni, ascoltando Bob Marley sui vinili di mio padre. Hai studiato con degli insegnanti o hai avuto un percorso da autodidatta? Sì, dai dodici ai quindici anni da un maestro che mi ha insegnato il rock, il blues e la musica moderna. A sedici anni mi sono iscritto al conservatorio da esterno, frequentavo ancora il liceo, e nel 2009 ho preso il quinto

(l’esame intermedio) di chitarra classica. In seguito ho preso lezioni di jazz per un anno dal maestro Bebo Ferra. Da autodidatta ho studiato la musica manouche parallelamente agli studi classici. Quale scuola superiore hai frequentato e come ti ha aiutato o ispirato nel campo musicale? Il liceo classico (Berchet). Il classico t’influenza perché t’insegna a usare la testa in modo autonomo, anche fuori dagli schemi. Nella musica questo è fondamentale, così come lo è il rigore e l'apprendimento di un metodo. Senza rigore non si va da nessuna parte. Quando hai iniziato a suonare il tuo strumento e perché lo hai scelto? A dodici anni ho iniziato a suonare la chitarra, banalmente perché ce ne era una in casa! Ne suoni altri? L'anno scorso ho comprato un pianoforte. Suono un po' di tutto, ma bene solo la chitarra. Il gruppo nel quale attualmente suoni è stato il tuo primo gruppo musicale? Se no, quali altre esperienze hai avuto precedentemente? Ho avuto almeno altre tre band. Quella del liceo, con cui facevamo grunge, una band di progressive jazz verso i vent'anni, a Londra suonavo la chitarra nella band di Anoushka Lucas: l'ho fatto per un anno, mi ero trasferito a Londra; è stato molto bello. Poi nel

2011 è arrivata la Woody. Riesci a spiegare cos’è la musica per te? Se non ci fosse sarei già impazzito. Nella tua vita che tipo di musica hai ascoltato? C’è qualche gruppo in particolare che ti ha segnato? Qualsiasi tipo di musica. Dal reggae, al rock al jazz al pop. Mi piace tutto ciò che è bello, non importa il genere. Esistono due tipi di musica: good music e bad music. Anche adesso che lavori con la musica la ascolti allo stesso modo? O hai cambiato gusti? I gusti cambiano in continuazione, sicuramente quando si suona per un pubblico, ci si chiede che cosa possa piacergli e allora magari si fanno degli ascolti mirati. In questo periodo, ad esempio, sto ascoltando molto i Vampire Weekend, il cui genere è molto diverso da quello che facciamo noi, hanno, però, un interessante approccio ritmico, a cui ci si può ispirare. Sei un compositore? Sì, ogni tanto scrivo, anche se per la Woody sono soprattutto Michele (Michele Ionis Rusconi, l’altro chitarrista) e Stefano (Stefano Scarascia, la parte melodica con la diamonica) i compositori. Succede quando le parole non bastano. Le parole arrivano sempre solo fino a un certo punto. Avresti qualche consiglio da dare a un giovane che ambisce a diventare musicista? Sì, molto semplice: suona più che puoi. C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che reputeresti importante dire? Si, di venire a trovarci a uno dei prossimi concerti (www.woodygipsyband.con) e di seguirci su Facebook! Intervista a Stefano Grasso Come e quando è iniziata la tua passione per la musica? E’ iniziata quando ero molto piccolo perché in casa c’è sempre stata molta musica: sentendo la musica che ascoltava mio padre, e quella che ascoltava mio fratello penso di essere

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stato influenzato subconsciamente. Hai studiato con degli insegnanti o hai avuto un percorso da autodidatta? A sette anni, per volere dei miei genitori, ho iniziato a studiare pianoforte con un insegnante, ma lo strumento non mi è mai piaciuto. Quindi per allontanarmi il più possibile da esso, a undici anni ho iniziato a studiare,sempre con un insegnante, la batteria. Ho scoperto in seguito che i due strumenti non lo sono poi così tanto. Quale scuola superiore hai frequentato e come ti ha aiutato o ispirato nel campo musicale? Ho frequentato il liceo classico Carducci, che mi ha aiutato molto per vari motivi. Soprattutto la mia professoressa è stata un’importante fonte d’ispirazione. Ci faceva sempre delle belle lezioni; e poi anche i compagni, con cui mi sono ritrovato spesso anche a suonare. Quando frequentavo il Carducci, inoltre, c’era l’orchestra sinfonica. Era il mio ultimo anno (2010-2011) e per me è stata una bella esperienza. Facevo anche molti concerti durante le feste del Carducci o di altri licei milanesi con un mio gruppo, i “Crash Nebula” (il nome è di un cartone animato). In quale gruppo suoni in questo periodo? Al momento suono in tre gruppi

diversi:“I figli di Pulcinella” (un sestetto, con un particolare genere musicale, autonomo rispetto a quelli consolidati, che unisce la tradizione afroamericana dello scorso secolo e l’improvvisazione totale); nell’ “Innesco Trio” (un trio di jazzisti); e poi in un progetto che si chiama “TextOrchestra”. Sei un compositore? Sì, compongo. Molte cose le tengo per me, mentre alcune le porto fuori. Penso sia giusto comporre a seconda di un contesto; ci sono delle composizioni che mi vengono quando sono da solo e che spesso tengo per me o che rielaboro in seguito. Riesci a spiegare cos’è la musica per te? Sì, ci ho pensato! E’ un linguaggio, un modo come un altro per comunicare, ma più trasversale, universale. Nella tua vita che tipo di musica hai ascoltato? C’è qualche gruppo in particolare che ti ha segnato? Ho sempre ascoltato molta musica, spesso a livello inconscio, la musica in mezzo alla quale vivi. Ascoltavo molta musica in radio, ad esempio, in macchina con mia madre ascoltavamo Lucio Dalla, Battisti, Vasco Rossi. Ascoltavo la musica di mio fratello: molto punk italiano. Ascoltavo anche la musica che i miei maestri mi trasmettevano. In particolare sono

stato piuttosto segnato dai Nirvana, soprattutto dal batterista, Dave Grohl; ma anche da altri, come i Led Zeppelin o Frank Zappa. Anche adesso che lavori con la musica la ascolti allo stesso modo? O hai cambiato gusti? La ascolto di meno, non spesso come vorrei. E’ una cosa che per me richiede concentrazione, ma spesso la ascolto soprattutto come sottofondo. Non ho un MP3 e mi accorgo che questo è svantaggioso se voglio ascoltare musica. Avresti qualche consiglio da dare a un giovane che ambisce a diventare musicista? Avere delle orecchie aperte a tutto, non chiudere la mente, cercando di assorbire qualcosa da tutto, anche solo per scoprire che non ti piace. Di sviluppare un gusto personale, critico, che forse è una conseguenza dell’ascoltare molta musica. E di avere molta fede “secolarizzata”, credere molto in se stessi ed essere determinati. Avere un obiettivo determinato e fare di tutto per raggiungerlo, sapendo che ci saranno momenti bassi e alti. C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che reputeresti importante dire? No, nulla che non abbia già detto. Siate aperti a tutto, e non di mente chiusa!

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Racconti

ciò che conta continua dallo scorso numero...

di Silena Bertoncelli

L

unedì mattina. Una sistemata alla cravatta. La porta girevole. L’usciere saluta. Le scale in marmo. Gambe svelte a passo di marcia. Un raggio di sole tra le nuvole. Una lattina per terra. «Bonjour. Le Figaro, Le Monde, e il Times» sorridendo, il giornalaio gli porge un sacchetto che teneva da parte. «Solito, monsieur. Ecco il resto». Un bimbo sorride. Il telefono vibra. Profumo di ciambelle nell’aria. Uno sguardo al polso, è tardi: ‘Non ci voleva. Rimanere a piedi di lunedì è quasi peggio del caffè del Commissariato.’ Spinta l’enorme porta d’acciaio dell’edificio Limier Assicurazioni, saluta Geoffry e Margot alla reception, striscia il suo badge e dopo il bip spinge deciso il tornello. Preso l’ascensore, dopo 21 piani irrompe fuori: «Polette, un caffè nero. Forte. Anzi, fai due, e non far entrare nessuno nel mio ufficio fino a q..» apre di scatto la porta. «Signore, veramente..» si affretta Polette. Nella confusione del lunedì, un imprevisto non ci voleva. Odia gli imprevisti. Odia non avere tutto sotto controllo. «Le dicevo, monsieur Gaillard è qui per la questione dei fascicoli Fabergè e » «Grazie, Polette, puoi tornare al lavoro ora» fulminandola con lo sguardo. Un uomo brizzolato si alza dalla poltrona del suo ufficio e si avvicina a Lucas per tendergli la mano. ‘Ventiquattrore in pelle, mano grande e curata, anello d’oro al mignolo e Rolex Cosmograph Daytona. Sorriso bonario ma sguardo indagatore.’ Si presenta: «Conrad Gaillard, mi rincresce per il mancato preavviso, monsieur Dumont» «Oh, non si preoccupi, il lunedì c’è sempre 28

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trambusto. A cosa devo questa visita repentina? Non credo di averla sull’agenda» si volta e lo guarda con aspettativa. «Il caso Fabergè sei mesi fa ha scaturito scompiglio e confusione, inoltre la scomparsa dei fascicoli ha incrementato l’interesse dei piani alti, sa com’è nei casi di questa “urgenza”» «Solo ieri ho inoltrato la notifica

di sparizione e la segretaria dell’amministratore ha più volte ripetuto quanti giorni o settimane ci avrebbe messo per comparire sulla scrivania del capo. Inoltre il suo orologio mi dice del suo notevole interesse per la velocità e le macchine da corsa: non sembra il tipo da scrivania. La manicure recente

non è riuscita a coprire i calli di una vita passata a sporcarsi le mani, e l’abitudine di sistemarsi la giacca palesa la volontà di coprire una pistola, azzarderei una Walther P22» Schietto. Pacato. Ora ha di nuovo il controllo. «Complimenti, Dumont, complimenti, tranne che per la pistola, preferisco le rivoltelle alle semi-automatiche.» Dopo una pausa di silenzio e sguardi vigili, aggiunge: «Mi avevano parlato bene di lei, ma non avevo idea del suo talento. Ora se mi permette dovrebbe ascoltarmi..» «Se non posso fare altro per lei, può prendere un appuntamento dalla mia segretaria, se non le dispiace sono molto occupato» accendendo il computer gli tende la mano «Arrivederci». Dopo una stretta non troppo convinta, l’omone, con tono calmo «Capisco - dice - Non le piacciono le bugie. Abbiamo iniziato col piede sbagliato» «Non credo ci sia piede giusto con cui ricominciare, se vuole scusarmi» indicandogli determinato la porta. «Nî hǎo, Jao» «Nǐ hǎo, Lucas. Ecco te tuo oldine, sono 39,40 €» preso il portafoglio estrae una banconota «A te, e tieni il resto» «Xièxiè, Lucas, Xièxiè» dice il cinesino sorridendo «Prego, Jao, a lunedì!» e richiude l’enorme porta per buttarsi sul suo enorme divano ascoltando Debussy. Sistemando sul tavolino in vetro i contenitori del take-away, si accorge di non avere le bacchette. Non appena sta per alzarsi, suonano alla porta. Sollevato per non dover percorrere scalzo il lungo corridoio sino all’ascensore, si fionda ad aprire dicendo: «Jao, bravo, hai dimenticato le bacchett..» Non era Jao. Nessuna bacchetta. Non sa neppure se riuscirà a cenare.


è la fine

...continua dalla pagina accanto ok» e la guarda attonito e ammutolito. Lei gira gli occhi e va verso lo studio. Solo, dice tra sé, ironico «Certo, Marcus, come mai non ci hai pensato prima, era ovvio: impianto dell’aria, imbracatura, cimici, micro cam...»

«

Come facciamo?» «Rusty, non lo so. Non saprei da dove cominciare. Certo, sfrutteremo il vantaggio sorpresa che abbiamo tolto loro, in ogni caso serve un sopralluogo più approfondito e magari qualcuna delle tue fantastiche cimici». La colazione è il pasto che preferisce: è il momento della pianificazione e dell’aspettativa. La mattina il mondo si sveglia piano e poco alla volta, proprio come lei: parlarle prima di un’ora da quando ha aperto gli occhi garantisce morte certa. Cambia colazione ogni mattino, a seconda di come si sente al risveglio. «Cospirate per consegnarmi ai cattivi e scamparla illesi?» Marcus irrompe in boxer e capelli scompigliati, lo sguardo da pesce lesso e un asciugamano piegato tra le mani. «Vedo che hai dormito bene. Fin troppo.» «Bisogna sempre lasciar trascorrere la notte sulle ingiurie del giorno innanzi» «Napoleone? Come puoi, tu, citare Napoleone?» «Detestabile. Approfittatore. Usurpatore.» s’intromette Rusty, con uno sguardo compiaciuto. «Affascinante. Calcolatore. Vincente.» «Haha» risata ironica di lei, che aggiunge «Uniche cose per cui gli somigli sono testardaggine e presunzione, pomposità e insolenza.» «È la tua normale acidità o non sono ancora passati i sessanta-minuti-offlimits?» «Magari non sono io ad essere

acida quanto piuttosto tu ad essere stupido.» Di scatto si alza, afferra la sua tazza di caffè – unica costante nelle sue colazioni – e si lascia alle spalle, sbattendola, la porta del terrazzo. ‘Non può essere così. I russi non agiscono in questo modo. Pedinamenti e ricerche sui miei lavori? Mirate, poi, ma non capisco con che criterio. Dettagli di cui neanche io ero a conoscenza.’ Sospira turbata e beve un sorso: scotta. Ha classe anche in pigiama e maglione lungo: entra e si dirige al lavandino per posare la tazza. Di Rusty neanche l’ombra. Marcus da dietro la porta mostra le mani dicendo «Vengo in pace, appoggia la tazza con calma e allontanati dai coltelli» «Sembra tutto un gioco per te» «Io sdrammatizzo. Prenderla con il sorriso non significa non prenderla sul serio. A proposito, ci ho pensato e volevo dirti che mi dispiace. Sono rispuntato portando solo guai..» «Ma..?» «Ma non credi che se fosse una questione di mero ricatto saresti già imbavagliata e legata in uno posto umido e buio?» «Dovrei ringraziarti per le scuse?» Appoggiandosi di spalle all’isola della cucina, incrocia le braccia: «Comunque credo tu abbia ragione. Per questo ho chiesto a Rusty di preparare cimici e micro-cam. I piani dell’edificio sono sul tavolino. Pensavo di entrare dall’impianto di areazione, calarmi giù fino a terra e piazzarne qualcuna in giro.» «Ah, ehm,

‘Mi hanno beccata. Mi hanno beccata. È successo, per la prima volta hai sbagliato qualcosa.’ Pensa ad una soluzione mentre sta immobile sulla sedia a fissare impassibile l’uomo che le sta puntando una pistola addosso: mascella pronunciata e occhi di ghiaccio. Dopo poco la raggiungono Rusty e Marcus, con le mani legate, spinti da altri due mastini. «Voglio parlare con chi comanda.» dice convinta, poco prima che entri Milad Afanasyev: «Parla» dice, non appena le si avvicina. «Voglio parlare con chi comanda» ripete, per poi aggiungere: «I tuoi uomini si sono guardati per pochi secondi: dubitano del loro capo o sanno che in questo momento sta lavorando per qualcuno? Voglio quel nome.» Da una parte del magazzino si sente un applauso, seguito da passi irregolari, come sostenuti da un bastone. «Dovevo sapere che l’allievo avrebbe superato il maestro». «Papà?!» «Ciao Fenny» Se lo ricordava diverso, il lungo corridoio: più caldo, arioso. Vedendo il ragazzo delle consegne si ricorda di non aver cenato. Arrivano all’attico 375. Lì, dove tutto è iniziato. Il padre non era morto. Suo nonno aveva legami con la mafia russa a causa dei quali fu costretta a separarsi dalla madre. Le verità in cui ha creduto e sofferto per cinque anni non sono altro che polvere. ‘Cosa facciamo da Dumont? Perché me lo tiene nascosto? Perché è così importante per lui?’ «Jao, bravo, hai dimenticato le bacchett..» «Mi rincresce, si aspettava qualcun altro..» «No, si, mi scusi. In cosa posso esserle utile?» facendo un caldo sorriso. «Dio, hai lo stesso sorriso di tua madre.»

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Racconti

segui la mia voce

il racconto di un redattore ispirato alla foto “afghan girl” di steve mccurry

di Rebecca Daniotti

B

uio. Era questo che la circondava. Uno spesso strato di buio, che sembrava impenetrabile e al quale i suoi occhi non riuscivano ad abituarsi. Ogni tanto vedeva delle chiazze di luce, ma era consapevole del fatto che erano i suoi occhi a crearle. Sentì uno scricchiolio, appena percettibile, che però nel buio era come amplificato: d’altronde tutti i suoi sensi in quel momento erano in allerta, pronti a captare un odore, un suono, un qualcosa che le avrebbe detto dove si trovava. “Buon giorno” una voce profonda, leggermente ovattata, proveniva da qualcuno poco distante da lei, “Giorno” mormorò titubante e la voce risultò troppo acuta e cristallina. “Paura?” la voce parlò ancora, “Un pochino sì, a dire la verità” le sembrò di sentire l’altra persona sorridere, “In tal caso – si soffermò per un secondo, come a voler trovare le parole giuste – devi solamente seguire la mia voce, per evitare di perderti” “Perdersi? Dove andiamo?” non rispose nessuno; in compenso avvertì uno spostamento d’aria che le fece temere di essere rimasta sola. “Dove sei!” strillò angosciata “Qui, sono qui. Seguimi” le gambe le tremavano, ne mosse prima una e poi l’altra, piano, quasi barcollando, come un bambino che muove i primi passi; si bloccò: non sentiva niente, poi di nuovo “Segui la mia voce, forza” “Come faccio a seguirla se non parli?”. Nulla. Non disse nulla e lei si fermò. Le sfiorò le narici un odore forte di gelsomini e arance: indietreggiò per un secondo e gli occhi le si riempirono di lacrime. “Matilde...” mormorò piano e un ricordo le affiorò nella mente. “Non mi prendi!” Stava urlando sua sorella mentre correva ad arrampicarsi su un albero. “Matilde! Scendi! Non sei divertente, non ci arrivo” protestava lei tentando inutilmente di fare come la sorella, ma ricadendo pesantemente al suolo ogni volta. “Matilde!” aveva 30

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iniziato a scuotere l’albero. L’albero era troppo fragile. Ricordava solamente il suo urlo,, poi Matilde era volata via. Si ridestò come da un sogno “Vedi, ci stai riuscendo” “Ma se non sto nemmeno camminando” “Certo che sì; non senti? siamo in un ambiente diverso” la voce non si sbagliava, la stanza in cui si trovavano adesso era più grande e vuota, lo capiva da come i suoi passi rimbombavano. Le gocce del liquido all’interno della flebo producevano un rumore cadenzato. Guardò con infinita tenerezza il volto raggrinzito che riposava davanti a lei, mentre le mani di sua mamma stringevano la coperta: poteva vederne tutte le vene. “Che ci fai ancora qui?” mormorò, aprendo un occhio “Ti tengo compagnia” sorrise, ma venne fuori una smorfia, “Ti fa molto male?” aveva scosso la testa tossendo e si era rannicchiata su un lato, quasi ricordando un bimbo piccolo. Si sedette accanto a lei “Andrà tutto bene mamma. Ti voglio bene”. Le prese la mano e gliela strinse forte, dicendo “Lo so, lo so, ti voglio bene anche io”; poi si era addormentata senza lasciare la presa. Riaprì gli occhi, accorgendosi solo adesso di averli chiusi, e notò che non c’era più la voce rassicurante di prima: l’avvolgeva solo un freddo silenzio. Poi sentì qualcuno canticchiare in lontananza, e si affidò a quel mormorio

sommesso; ma appena lo riconobbe si fermò. “Nonno!” “Sei arrivata, ti stavamo aspettando. Ho visto che ti sei fatta una splendida famiglia, e che hai avuto una bambina: l’hai chiamata Matilde, come tua sorella” “Pensi che lei sia ancora arrabbiata con me?” “Non lo è mai stata; non è colpa tua, è capitato, un incidente” poi si strinse nelle spalle come se avesse freddo; sentiva qualcosa in lontananza, come delle voci che la chiamavano, delle urla “Cos’è questo rumore?” “Le voci? È la tua famiglia che ti chiama, cerca di riportarti indietro” “Indietro? Da dove?” “Da dove sei adesso” una fitta acuta le raggiunse la testa e un forte dolore si estese per tutto il corpo. Incespicò: “Dove sono?” “Non l’hai ancora capito?” chiese incredulo, “Io…non può essere... vuoi dire che sto morendo?” “Si” “No, no – gridò e il suo urlò squarciò il buio – Matilde! Voglio tornare indietro, fammi tornare indietro! Aiutami!” era disperata, le lacrime scivolavano senza controllo lungo il suo viso “Aiutami ti ho detto!” “Non posso fare niente ormai, devi venire con me” “E come faccio?” “Ti basterà seguire la mia voce” cercò di ignorare il dolore che aveva in tutto il corpo, come mille spilli che la colpivano contemporaneamente, e iniziò a camminare scomparendo piano.


l’ultima nota

di Alice De Gennaro

D

ue bianchi, tre neri, due bianchi, tre neri. Perché sono di più quelli neri? Forse sono io a non capire niente. In fondo, la vita va’ così: due bianchi, tre neri, due bianchi, tre neri. E tutto il resto è nero. Una lunga, eterna distesa di lucente nero. Da quanto tempo non tocco un tasto? Tanto, troppo. Avevo smesso. Ma giuro, questa è l’ultima nota. La mia mano trema, al solo pensiero di sentirne il suono. Mi siedo, chiudo gli occhi. Ci sono voluti secoli prima che mi decidessi, ma ecco. Do. La più bassa, sulla scala. La più bassa, eppure la principale. Perché l’ho scelta? Io non sono essenziale, io non valgo abbastanza per meritarla. Ne scelgo un’altra: questa, lo giuro, è l’ultima nota. Re. È piuttosto bassa anche quella, eppure, ha qualcosa in più, come se fosse sottovalutata. Forse… No, che motivo ho di sentirmi sottovalutato? Assolutamente no. L’ultima. Mi. Una via di mezzo, semplicemente perfetta. Ma cos’ho, io, di perfetto? Un’altra; ma questa, davvero, sarà l’ultima. Fa. Non so perché, ma ha un suono così triste, a soffermarcisi sopra… Io non sono

così! Io sono più di questo! Mi rifiuto. Un’altra, un’ultima, piccolissima nota. Sol. Così elevata, come se volasse fin sopra le nuvole verso il vasto cielo stellato… Questa me la posso anche sognare. Un’altra. La. Si. Do, di nuovo. Ma questa è più alta, si eleva sopra le altre. Ecco, sono finite. Ancora. Re. Mi. Fa. Sol. La. Si… Un’altra. Do. Re. Mi. Fa… Fa… Ma a cosa serve? Continuo a suonare, ogni giorno, ripromettendomi inutilmente, ogni volta, che avrei semplicemente suonato l’ultima nota, l’ultima di una sfilza di altre ‘ultime note’. Perché lo faccio? Forse perché ho paura? Ho paura di ammettere che questa possa essere l’ultima nota? Perché la allungo inutilmente? Perché, su 88 tasti, ne cerco uno, uno in particolare? Voglio che mi rispecchi, forse? No, no, impossibile. Come fa una nota a rispecchiarmi totalmente? Io sono Do, sono Re e Mi, Fa, Sol, La, Si, e poi si ricomincia. Perché torno indietro? Vorrei smettere, vorrei poter guardare il pianoforte, e dire: Ce l’ho fatta. Ho suonato la mia ultima nota, e ne sono soddisfatto. Ma quando mai! L’ultima nota? Io non avrò mai un’ultima nota. Continuerò a suonare,

a suonare, aspettando che appaia dal nulla una nuova nota, perfetta, unica nel suo genere. Ma c’è già quella nota! Sono io, quella nota! Perché non ci sono, su questa tastiera? Non ne sono forse degno? Ovvio, che non lo sono. Cosa ho in comune, con queste note? Niente! Sono la nota che si sono dimenticati di aggiungere, perché non era essenziale! Come tutte quelle altre note! Io, quelle note, le vedo ogni giorno! Sono le note con cui mi sveglio al mattino, le note con cui cammino nel parco, le note al cui suono mi addormento ogni notte. Noi esistiamo! E allora perché? Perché nessuno conferma la nostra esistenza? Perché ci abbandonano senza neanche un indizio? Perché, perché ci lasciano vagare nell’oscurità fino alla pazzia, fino a quando uno non decide di eliminare la propria nota dalla tastiera di quel vasto pianoforte che è il Mondo, per sempre, una volta per tutte?... Beh, sapete che vi dico? Io la troverò. Sì, io domani tornerò qui, e non avrò pace finché non l’avrò suonata, finché non avrò suonato la mia ultima nota.

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sport

MUNDIALITO 2014

di Marco Recano e Filippo Lagomaggiore

D

opo il “Maracanazo” del ‘50 ad opera di Schiaffino e Ghiggia, dopo 64 lunghi anni d’attesa, il Mondiale di calcio torna nella terra del “fùtbol bailado”, e il Brasile è determinato a riprendersi quello che ai tempi gli fu tolto da quel fantastico Uruguay. L’attesa è spasmodica, e vari “countdown” stanno accompagnando il pianeta verso le 22.00 del 12 di giugno, quando all’Arena Corinthians di San Paolo sarà Neymar Jr. a toccare il primo pallone della manifestazione. L’opinione pubblica sponsorizza l’evento come il “Mondiale dei Mondiali”, e in effetti le caratteristiche per essere un Mondiale esaltante ci sono tutte. In primis, tutte le squadre sono in grado di sconvolgere le sorti dell’evento(tenderei ad escludere da questo discorso Algeria e Corea, in quanto il cosidetto“do you believe in miracles?” vale fino a un certo punto). Come detto, il Brasile parte col favore delle terne/cinquine arbitrali (trovatemi una squadra che sia ‘vergine’ nella storia dei mondiali casalinghi), ma a molti non dà l’impressione di avere l’organico e l’esperienza necessari per trionfare in tutti gli scontri ad eliminazione diretta nella #RoadToRio. Nel girone successivo rispetto a quello materasso dei verde-oro, invece, fanno capolino le bandiere delle due finaliste di Johannesburg 2010, ovvero la Roja ispanica e l’Arancia meccanica oranje; la prima potrebbe coronare la storica impresa di chiudere il poker EuropeoMondiale-Europeo-Mondiale sotto la 32

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guida del santone Vicente del Bosque (grazie sempre ad Aragonès), mentre la seconda punta a riprendersi quello di cui, prima della firma del Cavaliere Pallido al 116’ minuto, sono stati privati da Casillas prima e dal suicida Robben poi nella finale in Sudafrica. Continuando a scorrere il programma del prossimo meraviglioso giugno di calcio, ci si imbatte nel girone D, dove si fronteggeranno l’ Uruguay di Suàrez e Cavani (e Gargano), gli Inglesi condotti per mano da Rooney (“Dio ci salvi dagli inglesi” può valere ovunque, ma non ai Mondiali di calcio, sarebbe insensato come chiedere a Hurst e Banks se avrebbero mai vinto nel ‘66 se non fossero stati a Wembley) e soprattutto la nostra Italia. Perchè il tifoso italiano è pessimista, è disfattista, è sempre pronto alla sconfitta. Tuttavia, tolto il 2010 partito male e finito peggio e il Moreno del 2002, quand’è che gli Azzurri hanno fallito nel momento della verità? Gli altri ci temono, perlomeno, quanto temiamo noi stessi! Nel gruppo E di “blatteriana” memoria ci sono i sempre ostici francesi, ma se Deschamps ha cominciato lasciando casa Nasri, a voi le previsioni su dove potrebbero mai arrivare. Gruppo F, nemesi della nazionale verde-oro è da sempre l’albi-celeste: inserita in un girone dove anche Franco di Santo potrebbe tentare di fare un gol, ha in Leo Messi il faro a intermittenza (obiettivo = Diego Armando, che sia la volta buona?) e crede nel proprio attacco stellare per inseguire il successo che gli manca dal ‘78 (e dove si giocava? Chiaro, in Argentina). A mio parere

il barrilete cosmico (grazie Morales, grazie) potrebbe essere quell’Angel Di Marìa reinventato mezzo sinistro da Ancelotti, ma Sabella potrebbe anche essere in grado di metterlo in panchina (vedi Carlitos Tèvez in vacanza)... Nella corsa lungo il calendario, il girone G è di culto: il Portogallo, Cristiano Ronaldo “man in a mission” e una squadra di franchi picchiatori che farà sicuramente strada con la forza dell’orgoglio, e, infine, i tedeschi. Loro potrebbero metter su una squadra con undici mezze punte di livello assoluto, e Lineker lo disse chiaro e tondo: “il calcio è uno sport semplice: si gioca in undici contro undici, le partite possono durare 90’ o 120’, e alla fine vincono i tedeschi”. Il girone H avrà anche quel non so che di anticalcio, ma il 1° luglio alle 17.00 p.m ‘Belgio-Portogallo’ sarà il manifesto futurista del nuovo gioco del fùtbol. Attorno ai top team che si contenderanno la Rimet, le vere storie mondiali sono però quelle delle nazionali che partecipano solo e unicamente per un popolo, ma per un popolo intero: dall’Iran di Reza Ghoochannejhad (provate a leggere il nome, almeno un tentativo), bomber per caso delle qualificazioni, alla Bosnia di Dzeko e Pjanic, alla prima apparizione internazionale post-Jugo, dalle Black Stars ghanesi, all’Algeria dell’iper-sottovalutato Rafik Djebbour. I Mondiali sono lo spettacolo calcistico più appassionante del mondo, ma un secondo senza contorno è come un cielo senza stelle: chi sa solo di calcio, lo dice anche il vate di Setubal, non sa nulla di calcio.


HALA MADRID!

di Marco Recano e Filippo Lagomaggiore

C

he partita! La finale di Champions League di Lisbona ha rispettato i pronostici e si è rivelata emozionante al cardiopalma. Una vittoria tanto sognata e tutto sommato meritata quella del Real Madrid, che festeggia sul tetto d’Europa per la decima volta nella sua storia. È però l’Atletico del Cholo la vera sorpresa di questa stagione calcistica. Infatti, anche se non ha raggiunto un risultato tanto storico quanto clamoroso doblete, ha dimostrato sul campo tutto il suo enorme valore. Non si può che elogiare il lavoro svolto da Simeone: con la sua garra ha portato i Colchoneros, quelli che una volta erano materassai, a traguardi che non vedevano da decine di anni, superando il Chelsea in semifinale e conquistando la Liga spagnola con l’impresa al Camp Nou. L’unico errore di sabato sera del Cholo è stato quello di puntare a tutti i costi sul proprio indiscutibile fuoriclasse, Diego Costa, anche se era più al di là che al di qua del campo. Dopo soli nove minuti infatti il brasiliano naturalizzato spagnolo è costretto a lasciare il terreno di gioco, causa una ricaduta dell’infortunio alla coscia destra procuratosi durante la partita scudetto contro il Barça. I Rojiblancos,

però, non si arrendono e, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, si portano in vantaggio. A segnare il gol del vantaggio è Diego Godin, che deve però ringraziare un uscita “avventata” di quello che per una serata tutto è stato tranne che San Iker. Da quel momento in poi, però, il Real si sveglia e si trasforma in un martello pneumatico: scandisce i tempi, ritmi da playstation, filtranti, cross etc. etc. che, però, o vengono sfruttati male da un Gareth Bale sprecone oppure finiscono tra le braccia tentacolari di Courtois. Di Maria sembra un indemoniato, un alieno caduto in campo e, anche grazie a Luke “Skywalker” Modric e ai suoi millimetrici passaggi, penetra nell’area dell’Atletico come un coltello nella gelatina. Le ‘Merengues’ continuano l’assedio per tutto il secondo tempo fino a quando, al 92’, Ramos con un incornata degna di “goat simulator” riapre i giochi. È delirio sugli spalti: il grande assente Xabi Alonso impazzisce in tribuna e trascina i suoi. Ormai è finita: il Real è sull’onda dell’entusiasmo, ma l’Atletico, sfinito invece, non regge più e nei tempi supplementari subisce altri tre gol: Bale, Marcelo, Ronaldo. Proprio CR7, pur non al top della condizione e un po’ Casper soprattutto nel primo tempo, con il rigore siglato raggiunge quota

17 gol in una Champions League, non c’è mai stato nessuno come lui: SIMPLY THE BEST (non un caso che lo storico 7 nordirlandese dello United, su Cristiano Ronaldo, disse: “ci sono stati vari giocatori nel corso degli anni segnalati come il nuovo George Best, ma questa è la prima volta che è stato un complimento per me”). Qualche esultanza di troppo, però, si è vista da parte di Varane, che davanti alla panchina del Cholo pecca di “ὕβρισ”, e rischia di rovinare una partita nel complesso corretta (non ha giocato Pepe, il macellaio: coincidenze? Io non credo). Questa Champions è merito anche, e sopratutto, di quel Carletto e della sua immancabile cicca (è sempre la stessa secondo me), già abituato a sollevare la coppa dalle grandi orecchie (due da giocatore e tre, con questa, da allenatore). Quando Kuipers fischia tre volte, il tabellino segna 4-1: un risultato sicuramente troppo duro per un Atletico che ha combattuto come un giaguaro, ma così è il calcio: è imprevedibile e continua, rinnovandosi, ad emozionarci. Magari l’anno prossimo ci sarà anche un’italiana in finale come, ai tempi, la Samp del buon vecchio Vujadin che diceva: “Calcio è calcio”.

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LA VOSTRA

BAKEKA

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ostriche senza perla

Quanto spesso quei signori che vogliono parire dotti e ineccepibili ai vostri occhi si tradiscono nel modo più brutale ed esilarante? Inviaci a nche tu le peggiori frasi dei TUOI prof... DURANTE LA LEZIONE DI GRECO Prof: Lo studioso P. Scazzoso ha scritto il nostro libretto delle Baccanti. X: Ah ma quindi è Scazzoso che ha scritto le Baccanti? Io pensavo fosse Euripide! EVENTI RARI Prof: Ora stiamo applaudendo X perchè ha portato il libro. OGNUNO SI E’ FATTO I SUOI CALCOLI Prof (a X che ha ancora il libro incartato): Siamo al 9 di maggio... X: Prof me lo lasci conservare, così posso rivenderlo come nuovo! L’ORA DI INGLESE E’ UN OPTIONAL X: Prof esco! Prof: Vanish, disappear! Y: Prof esco anch’io! Prof: Oh, well yess, if you want to have a shower or a massage... ORMAI E’ UN’AMBIZIONE Prof: Esigo che le mie barzellette vengano pubblicate sul giornalino, copyright incluso! RAGIONAMENTI Prof: Secondo voi è possibile passare tutta la giornata in silenzio? X: No. Y: No. Z: I muti ce la fanno... DURANTE LA LEZIONE DI STORIA Prof: Il Natale nell’antichità era la festa del dio Mitra. X: Però! Pacifici questi qui... LUOGHI IRRAGGIUNGIBILI Prof (a X che non ha mai il libretto): Si può sapere dov’è il tuo libretto?? X: E’ finito nel mondo delle idee. C’E’ CHI STUDIA PER I TEST X (impreparato): Prof tra due giorni ho il test quindi non sono riuscito a studiare... Prof: Il test d’intelligenza! PARLANDO DEL FUTURO Prof (a X che andrà a fare fisica): Esci un po’ dal tuo buco nero! DURANTE LA LEZIONE DI LATINO Prof: La morale di questa favola è “a caval donato non si guarda in bocca”. X: Ma perchè lo chiamano sempre Donato il cavallo?! CULTURA GENERALE Prof: Chi ha dipinto la Cappella degli Scrovegni? Inizia per G... Tutti: GALILEI! 36

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l’anno è finito, tutti i presidi sono andati a presid-land per qualche settimana di relax prima del duro anno di lavoro che li aspetta... un nostro inviato è riuscito a immortalare le loro vacanze: riesci a vedere dove si trova ognuno?

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monopoli

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caspani

bonetti

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i g

i h oc

il sudoku circolare beccatevelo!!!

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prof giovannetti

autista ufficiale

CORRIERE UFFICIALE

VIGNETTISTA

CLEO NASCOSTA

AIUTO-IMPAGINATRICE

La redazione vi augura

BUONE VACANZE!!!

QUELLE CHE ERANO IN GITA QUELLE GRANDI, SERIE E RESPONSABILI

DIRETTRICE E CAPOREDATTRICE AUGURANO ALLA FUTURA REDAZIONE BUON LAVORO!


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