L'OblòSulCortile_2011fDicembre

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Dicembre 2011

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Dicembre 2011

Giornalino del Liceo Ginnasio Statale G. Carducci


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L’Editoriale

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altando i convenevoli propri dell’attacco di un editoriale, che tendono a disorientarmi, vi do il bentornati dalle scorse inaspettate (e per questo più godute) vacanze e allo stesso tempo vi saluto prima che abbandoniate nuovamente il liceo per la pausa natalizia che ci attende. Nel periodo trascorso tra il precedente numero del giornale e l’attuale, nulla di sconvolgente ha turbato la quiete carducciana, nessuno scandalo ha animato i banchi di via Beroldo, mentre adesso il silenzio vorticoso, tipico dello studente impegnato in interrogazioni e compiti dell’ultim’ora, gela i corridoi della scuola, la frenesia del maturando che si accinge alla stesura della tesina nelle vacanze di Natale devitalizza l’umore di chi lo circonda. Gli orologi, tronfi e autorevoli, che dominano i corridoi segnano con lentezza le ultime ore del 2011 che lo studente carducciano passerà all’interno di questo edificio, mentre quelli da polso controllati ossessivamente durante le lezioni rincuorano i giovani con nuove speranze ogni cinque minuti circa. Purtroppo è questa l’indole dello studente medio: pigro, ma

Hello, Goodbye!

studioso, dedito alla scuola, ma non troppo, pensieroso in classe, fuggitivo al suono della campana. Coloro che invece hanno voluto smarcarsi dall’etichetta di studenti medi avranno avuto l’opportunità in questo mese di interessarsi alla vita extrascolastica e di partecipare con probabilità all’evento di Laterza, che ha visto come protagonista e relatore il giornalista Federico Rampini, inviato a New York di Repubblica e noto viaggiatore. Affascinante, questo incontro ha ricordato i racconti di Tiziano Terzani, di cui in Rampini si potrebbe cogliere il successore, altrettanto valido e altrettanto originale, quasi altrettanto coraggioso. Ricordando nell’introduzione all’intervento i tempi in cui, accintosi al giornalismo, si occupava del giornale scolastico, Rampini ha descritto, con somiglianza quasi allarmante, il lavoro che egli svolgeva prima della stampa e che ancora oggi alcuni di noi svolgono in ore notturne e buie dell’esistenza perché il giornale possa uscire, perfezionato o anche solo completato. Di extrascolastico in questo periodo hanno continuato a vivere un collettivo di cui difficilmente si sente la presenza, il giornale che dopo l’uscita di

novembre ha ricevuto complimenti e critiche (analizzate e utilizzate durante la stesura del presente numero), un cineforum di cui non passa notizia agli studenti e che ha ricordato, nell’anniversario della sua morte, il fu carducciano Monicelli. Stanno prendendo forma inoltre il corso di Cultura del ‘900, già presentato lo scorso anno dai Professori Viola, Giovannetti, Re e Patetta, e che avrà probabilmente nuova vita nel prossimo pentamestre, e una cogestione, non approvata quest’anno nella forma proposta lo scorso dal Professor Re: si tratta per ora di un’iniziativa studentesca, che riscontra però maggiori problematiche di attuazione rispetto al passato: non è più organizzata da un ristretto gruppo di studenti (è diventato un lavoro sempre più impegnativo e faticoso), ma è l’Assemblea dei Delegati che se ne occupa. L’Assemblea non potrà però completare il progetto se non perverranno da tutti proposte concrete e contributi pratici: servono materie per i gruppi ed esperti disposti a relazionarne. Perciò, carducciani, proponete, partecipate.

SOMMARIO Federico Rampini

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Un sorriso in corsia

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Necro-Elogio di Mario

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Oblogonia

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Lutto al Carducci + Il Carducci (h)a L’Ultima Parola

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La Foto del Mese

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Inglorious Reviewers

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Inglorious Reviewers

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Per non morire di mafia

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Da Bacon ai Beatles

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La Bibliobussola

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Pixarmania

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Musica

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Florilegio Natalizio

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Difesa in rosa + Babbo Natale

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La nuova bacheca dell’Oblò!

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CPS + La Redazione!

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In ambito interscolastico ricordo con piacere che, avvenute le elezioni interne alla Consulta, è stata rinnovata, tra le altre, la carica di Presidente, attualmente ricoperta da uno studente del Liceo Scientifico Leonardo di Milano, il quale ha acconsentito a scrivere per noi un resoconto dell’attività già intrapresa dai consiglieri. Potete leggere il suo articolo in ultima pagina e, oltretutto, deliziarvi della sua dote di scrittore! Per il momento, buona lettura attiva! Chiara Compagnoni

rtbreakers let 25, The Hea Blackout, Scar


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ATTUALITÀ

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G8 di Genova, 2001

“Piena piazza della Repubblica, i manifestanti arrivati a bordo dei pullman o in treno […]. Guerriglia urbana a Roma, feriti tra i manifestanti e tra le forze dell'ordine. Individui incappucciati provocano danni a banche, negozi, auto, agenzie pubbliche e private e sedi istituzionali. I manifestanti pacifici tentano di isolare i violenti e sottolineano la loro differenza: "Siamo il 99%". La polizia risponde. Lancio di bombe carta. Blindati tra la folla […]. Assalto contro i mezzi delle forze dell'ordine, almeno 70 feriti. Un blindato dei carabinieri dato alle fiamme. La polizia interviene, migliaia di persone in fuga.” Questi sono solo alcuni stralci delle notizie provenienti in tempo reale da Roma il 15 Ottobre 2011, giorno in cui l’immenso “corteo degli indignati” sfilò per le vie della capitale per dissentire con le soluzioni anti-crisi assunte dai governi di tutto il mondo. Ed è impressionante come sentendo tale cronaca vengano così nitidamente rievocati i fatti di Genova del 2001. Ancora gruppi di armati e incappucciati tentano, in parte riuscendo, di sviare l’attenzione mediatica dalla protesta (pacifica) facendola fallire, ancora la polizia costretta (?!) ad intervenire carica indistintamente manifestanti e provocatori, ancora a fine giornata la città è violentata e lo sconcerto e l’amarezza sono grandi per quanto è accaduto, o meglio riaccaduto. E se sotto tutto ciò ci fosse un intento ben preciso e un’organizzazione molto più minuziosa? Per conoscenza personale consiglio a tutti la visione integrale della puntata di Blu Notte da cui è tratto questo articolo, certe immagini raccontano meglio di qualsiasi parola…

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-II parte, il primo giorno di guerriglia-

enerdì 20 Luglio. Palazzo Ducale. Arrivano qui i grandi del mondo, accolti dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Fuori dalla zona rossa, intanto, oltre 20.000 manifestanti si radunano nelle rispettive piazze tematiche. Tutto sembra procedere regolarmente, ma non è così. Fin dalle 10.00 del mattino, infatti, un centinaio di Black Block si riuniscono in Piazza Danovi (tematica dei Cobas), dove con calma e meticolosità iniziano a smantellare le pietre del selciato e a sradicare cartelli stradali e ringhiere di aiuole, tutti oggetti che diventeranno armi, proiettili, spranghe. Ad assistere e riprendere ogni scena vi sono giornalisti e forze dell’ordine, ma nessuno interviene. Un altro gruppo di almeno cinquecento, intanto, partendo da Piazza Trento, attraversa la città a macchia di leopardo, devastando e dando fuoco a tutto ciò in cui s’imbatte: auto parcheggiate, vetrine, banche, ristoranti, ecc; attaccano le forze dell’ordine con il lancio di sassi e di altri proiettili, per poi disperdersi e riunirsi altrove. Verso le 3.00 del pomeriggio, come un testimone ci riporta, un gruppo di Black Block raggiunge Piazza Manin (tematica della Rete Lilliput) seguito da un vero e proprio esercito di polizia, che gli dava la caccia dopo che alcuni di loro avevano bombardato il portone del carcere di Marassi con bottiglie molotov. La polizia inizia a caricare i manifestanti, nonostante le mani alzate in segno di resa non violenta, e a sparare gas lacrimogeni, ricevendo l’ordine di “fare dei fermati, fare dei prigionieri”, ma non tra i Black Block, che ormai non ci sono più. Dalle testimonianze, dalle immagini e dai filmati di quei momenti emergono atteggiamenti di pura follia e accanimento da parte delle forze dell’ordine, che isolano singoli manifestanti accerchiandoli e picchiandoli violentemente con i manganelli. Sessanta saranno i feriti, due fermati: così inizia il disastro del G8 di Genova, con tutta la sua inspiegabile violenza. Il grande corteo organizzato dal Genova Social Forum per quel pomeriggio è il “corteo dei disobbedienti”: 15.000 persone che partiranno dallo Stadio Carlini dirette a Piazza delle Americhe, dove termina l’autorizzazione per la

manifestazione. Alle 14.30 il corteo arriva in tre il grosso del corteo viene respinto fino Via Tolemaide, a 1 km di distanza. Più a nord Corso Torino. L’intera zona è sgombrata, però, i Black Block stanno devastando Piazza “bonificata”; c’è rimasto solo il fumo dei Giusti; la questura ordina dunque alla compa- lacrimogeni. Poi, d’improvviso, un gruppo di gnia Alfa di carabinieri, sotto il comando di carabinieri del battaglione Sicilia, vedendo Mario Mondelli, di recarsi laggiù, ma in fret- un flusso di manifestanti avanzare ancora ta, per non incrociare il corteo autorizzato lungo via Tolemaide, si prepara a frontegche sta scendendo lungo Via Tolemaide, dove giarli in un clima teso, da battaglia. Da enarriverà intorno alle 14.50 incrociando i cara- trambe le parti ha inizio un fitto lancio d’ogbinieri della compagnia Alfa. Mondelli, invece getti. Dietro i carabinieri ci sono due defendi allontanarsi velocemente, ordina ai suoi der, che li hanno seguiti per tutta l’avanzata: uomini di scendere dai blindati, facendoli è un errore, contrario ad ogni prassi di ordischierare di fronte alla testa del corteo pronti ne pubblico, e infatti, quando i carabinieri al lancio dei lacrimogeni, giustificandosi con decidono di arretrare, i due defender li inl’essere stati accolti con oggetti scagliati co- tralciano, ostacolandosi a vicenda nella ritime proiettili dai manifestanti; i fatti in realtà, rata. I mezzi blindati vengono così raggiunti come testimoniano le centinaia di riprese, dal contrattacco di una ventina di manifeandarono diversamente, poiché l’intera pro- stanti, tra cui vi è un giovane di 23 anni: vocazione era Carlo Giuliani. In stata opera dei Piazza Alimonda uno Black Block, dei defender viene velocemente bloccato e isolato: al dileguatisi. Sono suo interno vi sono le ore 15.00 tre carabinieri, uno quando i carabidi loro è Mario Placanieri caricano i nica, di appena 21 manifestanti anni. L’automezzo facendo uso di viene preso d’assalto manganelli, Morte di Carlo Giuliani e dal finestrino polacrimogeni e steriore esce una un carico di violenza. Il corteo tenta di arre- mano armata: partono due colpi di pistola. trare, ma l’operazione risulta impossibile Quella sera il signor Giulio Giuliani e la moviste le sue enormi dimensioni e la conforma- glie, mentre i telegiornali parlano di un razione di Via Tolemaide, chiusa sulla destra gazzo, di cui non emerge il nome, rimasto dalla ferrovia; si forma così un “tappo”, la ucciso durante gli scontri, vengono raggiunti fiumana di gente non può proseguire né tor- da una volante della polizia e portati in quenare indietro, rimane bensì bloccata all’in- stura, dove vengono messi al corrente della gresso di Via Tolemaide. I manifestanti in tragedia senza troppe cautele: Carlo è mortesta al corteo tentano di disperdersi nelle to. È stato colpito sotto lo zigomo sinistro da viuzze che si affacciano laterali, inseguiti dai uno dei due proiettili sparati da Placanica blindati dei carabinieri lanciati a gran velocità per “legittima difesa”, come affermerà egli come non si vedeva dal ’75 (Aprile, a Milano in seguito - e poi schiacciato dal defender, muore Giannino Zibecchi, schiacciato da una che gli è passato sopra due volte nel tentaticamionetta dei carabinieri). La situazione vo di fare marcia indietro. Culmina con la degenera. Alcuni manifestanti bloccano la morte di Carlo la violenza di questa prima strada ai blindati con i cassonetti della spaz- giornata di G8 a Genova; sono le 17.27: “ci è zatura per poi bersagliarli con pietre e altri scappato il morto”. Gli ultimi scontri termioggetti: si innesca così una vera e propria neranno poco dopo. guerriglia tra manifestanti e forze dell’ordine. Martina Brandi Continuano le cariche nelle vie laterali, men-


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ATTUALITÀ

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Vita quotidiana di un reporter in viaggio

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uando arrivo, l’aula magna del Carducci è per la terza volta straordinariamente piena di gente desiderosa di ascoltare le parole del relatore di questa sera. Lui è lì, sul palco, in piedi, che parla con i relatori degli incontri precedenti e futuri – Gustavo Charmet ed Eva Cantarella. Subito mi ispira simpatia, non vedo l’ora di ascoltare tutto ciò che ha da raccontare, i suoi viaggi e il suo mestiere, che sicuramente lo portano ogni giorno in contatto con persone di culture molto diverse. Quando inizia l’intervento, ci avvolge in una piacevole atmosfera, come se si trattasse di una normalissima conversazione con un uomo assolutamente comune con qualche storia stravagante da raccontare. Subito dichiara che parlerà in piedi - cosa che, dice, gli permette di guadagnare qualche centimetro, occasione che non manca di cogliere qualora gli capiti. Si percepisce chiaramente la naturale tendenza di quest’uomo a raccontare tutto ciò che ha intorno, come se ogni aspetto del mondo lo colpisse e dovesse essere codificato per poter essere riportato agli altri in modo che possano comprenderlo. Deformazione professionale o, forse, passione innata. Rampini mette subito le cose in chiaro e afferma di aver cercato di fare con il suo mestiere ciò che gli viene da esso prescritto: scomporre in parti una notizia così da poterla riferire e spiegare nel modo più chiaro possibile. Inizia parlando di come da ragazzo si sia avvicinato al giornalismo a scuola, a Bruxelles, e degli studi, apparentemente lontani dalla professione futura; Rampini si è infatti laureato in economia all’Università Bocconi, dove è stato allievo di Mario Monti. Ma la passione per il giornalismo è rimasta ed egli trova in altre fonti le solide basi per costruirsi le capacità adatte ad intraprendere questo lavoro. Innanzitutto ci parla della grande predilezione per la lettura; in particolare cita Hemingway, definito il “signore della lingua”, amato per la sua disciplina e la sua pulizia, caratteristiche fondamentali di un buon reporter. A condividere con lo scrittore americano il posto nel cuore del nostro relatore sono tre grandi narratori italiani: Italo Calvino, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, ricordati soprattutto per le loro opere a proposito di viaggi, da cui emerge la passione per il racconto di usanze e culture di paesi lontani, il fascino esotico che essi esercitano sugli scrittori e la grande capacità evocativa e affabulatoria di questi ultimi.

Rampini ci parla poi dei primi incarichi per le testate giornalistiche: inizia la sua attività in Città futura e dal 1979 scrive per Rinascita, giornale vicino al partito comunista italiano. È chiaro che per quest’uomo, al di là dei corsi di giornalismo, è l’esperienza a formare il reporter. L’intervento procede infatti con il racconto di due importanti “lezioni” di vita e di giornalismo del nostro relatore; in primo luogo racconta del terremoto in Irpinia, durante il quale l’allora presidente del consiglio, Sandro Pertini, seppe dare una grande lezione di coerenza e di cosa voglia dire informazione trasparente. Un altro fatto storico che ha colpito molto Rampini agli inizi della carriera giornalistica furono i processi svoltisi contro alcuni operai della FIAT accusati di essere membri delle brigate rosse negli anni ’70. In quell’occasione ai giornalisti delle testate vicine al PCI sembrò naturale schierarsi al fianco degli accusati, che si rivelarono poi colpevoli; da questo fatto derivò una profonda delusione e un ripensamento del giornalismo politico. L’incontro procede su toni sempre più avvincenti ed entusiasmanti: mi rendo conto di che occasione unica e straordinaria sia poter ascoltare quest’uomo che ha documentato tra i momenti più importanti della nostra storia contemporanea. Racconta infatti di quando nel ’99 si è spostato nella Silicon Valley, spinto dal desiderio di “inseguire i laboratori dove si costruiva il nostro futuro”. Qui stava avvenendo una tra le più importanti rivoluzioni tecnologiche dei nostri tempi, e il fiuto e la curiosità del giornalista hanno spinto Rampini a recarsi nella San Francisco Bay Area. Emerge un’altra caratteristica fondamentale di ogni buon reporter, il desiderio di conoscere: è evidente che ciò che ha spinto il nostro relatore più di ogni altra cosa nei luoghi dove stava accadendo qualcosa di importante che doveva essere raccontato, è stata la sua curiosità, la voglia di scoprire quel che di “meravigliosamente interessante” era in atto.

imparare la lingua della nazione in cui ci si sta recando, anche se si dovesse trattare del mandarino, come gli è capitato quando è stato corrispondente da Pechino. La metropoli cinese permette al giornalista di riallacciarsi a un discorso più ampio sul giornalismo in questo paese: Rampini parla della Cina nei termini di “mondo dell’opacità”, contrapposta agli USA che sono il “mondo della trasparenza”. Negli Stati Uniti infatti vi è un tale rispetto della professione del giornalista che molte cose sono istituzionalizzate, il sistema stesso è fatto per dare informazioni. In Cina invece l’imperativo categorico è dire il meno possibile o non dire; vige infatti la censura e le notizie che filtrano sono rigidamente controllate dal regime. Tuttavia, afferma Rampini, è possibile fare giornalismo non completamente soggetto al controllo del governo, chiaramente per vie trasversali. L’intervento volge al termine, tra poco Rampini lascerà spazio alle domande, ma prima ci suggerisce altre caratteristiche del mestiere del giornalista. Fondamentale è la disciplina del tempo, la capacità di sapersi dare delle scadenze e rispettarle. Bisogna però conservare la serenità e l’elasticità: il giornalista suggerisce una sorta di “ginnastica mentale per capire il trapasso”. Quando si è recato in viaggio a Pechino gli è stato offerto di alloggiare in un meraviglioso e super accessoriato hotel nella zona più moderna e occidentalizzata della città. Rampini si è però rifiutato, preferendo abitare in una casa nella zona della città vecchia, un hutong. Così facendo è potuto entrare in contatto con la mentalità cinese e la popolazione, facendo incontri assolutamente unici: ci racconta infatti del barbiere quasi centenario che ha conosciuto, un ometto alto poco più di un metro e venti e che aveva vissuto decenni di storia cinese. Sono molte le domande nell’ultima mezz’ora, sembra che Rampini abbia risvegliato l’entusiasmo dell’uditorio; la curiosità è ancora tanta, c’è chi vuole sapere di altri compagni di viaggio stravaganti o celebri, chi gli domanda che percezione abbia avuto, in quanto italiano all’estero, del senso di inferiorità che l’Italia prova nei confronti del resto dell’Europa. Il relatore, con tono pacato e divertito, risponde a tutte le domande, e quando il tempo finisce è forte la sensazione che ci sarebbe ancora molto da dire.

Rampini passa poi al racconto della preparazione alla partenza per un nuovo paese in cui si reca per svolgere incarichi giornalistici: innanzitutto legge tantissimo, prima, per impregnarsi di chiavi interpretative. Non si limita alla lettura di testi storici o geografici, ma anche di economia e tanta letteratura, perché la fantasia creativa offre degli sguardi diversi. In secondo luogo è fondamentale

Esco dall’aula magna piena di entusiasmo, sembra che la voglia di viaggiare e di conoscere di quest’uomo sia stata contagiosa. Mi auguro che sia stato così anche per il resto dell’uditorio, ma a giudicare dagli sguardi contenti, un po’ meno grigi di com’erano all’inizio della serata, direi proprio di sì. Gaia De Luca


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Un sorriso in corsia

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n titolo probabilmente poco chiaro a prima vista, un titolo che mi piacerebbe facesse riflettere. Iniziamo con una domanda: che cos’è la corsia? A quale corsia mi riferisco? Sto parlando di quei lunghi corridoi, molto grigi e tristi se l’edificio non è ancora stato ristrutturato, molto belli e pieni di animaletti dipinti sui muri, se ristrutturati. Allora cosa si affaccia su questi corridoi? Chi è costretto a fissare il muro grigio o il muro allegro? Su questi infiniti corridoi si affacciano tante piccole stanze, all’interno ci sono bambini, creature innocenti che stanno male, passano le loro giornate in quei letti tanto bianchi quanto tristi. Su questi infiniti corridoi, però, non si affacciano solo le tante piccole stanze ma anche numerosi volti, i volti dei genitori che piangono per la preoccupazione e non hanno il coraggio di farsi vedere dai loro bambini. Ora abbiamo capito cos’è la corsia, quel luogo dove passano le infermiere con i carrelli pieni di medicine e medicazioni, quel luogo dove i bambini, se possono, camminano e trascorrono le loro giornate, quel luogo che la sera, quando non hai sonno, ti trasmette un senso di paura, di vuoto, di prigione. Questo è un reparto di pediatria di un ospedale. La mattina i bambini sono sottoposti ad analisi e visite specialistiche, pranzano, trascorrono il pomeriggio con qualche visita dei parenti, cenano e dormono. Tutto sommato può sembrare una vita normale. A questo proposito voglio condividere con voi un’esperienza; un giorno una compagna di classe della cara persona che condivideva con me la stanza in ospedale, venne a trovarla e le disse che lei, stando lì in ospedale, era più fortunata perché non doveva andare a scuola ed essere interrogata. Ora arriva la parte più interessante, la risposta della mia amica: “Tu sai che se sto qui in ospedale è perché sto male e soffro?” Già, nella nostra descrizione della giornata che un bambino trascorre in ospedale, ci siamo dimenticati questo dato di fondamentale importanza, quanto stiano male i bambini, quanto sia ostacolata la loro infanzia (in caso di problemi seri), quanto sia triste e anche traumatico un lungo periodo trascorso in ospedale. Figure fondamentali sono i dottori, spesso

amici dei bambini, che curandoli permettono loro di stare meglio e condurre una vita più serena. Molto spesso, però, i dottori non bastano a sanare quella tristezza che si accumula giorno dopo giorno nelle piccole creature e allora intervengono delle persone meravigliose: i pagliacci. Uomini e donne di varie associazioni di volontariato si recano nei reparti degli ospedali, in particolar modo in quello di pediatria, a portare un sorriso ai malati. Travestiti da pagliacci, da personaggi famosi dei cartoni attraversano quei grigi corridoi, quelle tristi corsie facendole diventare lo sfondo di un mondo fatato, il meraviglioso bosco dove transitano Biancaneve e i sette nani, l’arcobaleno splendente davanti al quale giocano i pagliacci. Vestiti nel modo più buffo possibile entrano nelle varie stanze e trovano il mo-

do per far sorridere tutti anche i più sofferenti, anche i bambini, ormai ragazzi, che magari potreste pensare non si lascino più rallegrare da un pagliaccio. Se ci tengo particolarmente a scrivere questo articolo, a trattare questo argomento è proprio per la mia grande devozione e l’immensa stima che nutro nei confronti di queste persone. Voi carducciani pensereste mai, se state soffrendo, che un pagliaccio possa entrare nella vostra stanza di ospedale e far ridere e distrarre voi così come sta facendo ridere e distrarre un bambino di due anni? Io inizialmente non lo credevo possibile, ero contenta in ospedale della presenza di queste persone ma non pensavo a quindici anni di potermi divertire grazie a loro. La mia idea venne smentita; una mattina intorno alle nove tentavo di dormire nonostante avessi accanto un bambino di sei anni tenero quanto pestifero che mi tortu-

rava. Ad un certo punto non sentendo più la sua voce ho aperto gli occhi preoccupata, fortunatamente stava bene, anzi stava benissimo, aveva un sorriso meraviglioso. Davanti a noi c’era un buffissimo ragazzo, o meglio un buffissimo pagliaccio, vestito e truccato a dovere con un piccolo mandolino tra le mani. Iniziò a suonare una canzoncina molto allegra e ci fece tanto ridere e divertire quando cacciò via quella donna delle pulizie che voleva interromperlo, a noi tanto antipatica. Nel momento in cui se ne andò, da un lato ero molto triste perché ci aveva fatto passare del tempo in allegria, dall’altro ero e sono contenta di sapere che al mondo esistano persone così. Molto spesso, quando rifletto, penso di non fare per gli altri tutto quello che invece potrei fare. La mattina attraversiamo tutti quanti via Beroldo, varchiamo la porta d’ingresso del nostro Liceo, ascoltiamo gli insegnati, prendiamo appunti, andiamo a casa e trascorriamo gran parte del nostro tempo immersi nei vocabolari di latino e greco, a fare conti matematici, ad immedesimarci nei pensieri filosofici. Quando abbiamo finito di studiare e ci rimane del tempo decidiamo di dedicarlo a noi stessi, uscendo con i nostri amici, andando a bere qualcosa, a vedere un film al cinema, a comprare quel vestito visto nella vetrina giorni prima. Sicuramente tutto questo è giusto, anzi giustissimo, è bello, anzi bellissimo, ma sto scrivendo per assicurarvi che occuparsi degli altri è meraviglioso. Il mio invito è quello a riflettere sempre su quanto sia preziosa una buona salute, su quanto sia bello, ma soprattutto non scontato, stare bene, non soffrire, poter andare a scuola e non conoscere gli ospedali. Purtroppo ci sono tante persone che non hanno ricevuto il dono di una buona salute, ci sono tanti bambini che giorno dopo giorno stanno sdraiati in quei lettini bianchi e fissano i corridoi grigi o con gli animaletti dipinti; perché non possiamo smettere di considerarli estranei e iniziare ad andare a trovarli portando loro un sorriso? Non ci possono fare del male, ma noi possiamo portare loro un gran bene. Alessandra Ceraudo


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Necro-Elogio di Mario Riposa in pace, Mario C’è un nuovo carducciano a scuola. Si chiama Mario. Ne parla molto il Collettivo. Non è nessuno, ma è come se fosse tutti. E’ insieme un’accusa, una provocazione, ma soprattutto una sfida. Mario appartiene più al mondo dei morti che a quello dei vivi: è qualunquista e disinteressato, vive con indifferenza e apatia gli eventi che riguardano la scuola e il mondo esterno, la sua ragion di (non)vita sono gli otto in greco e in latino, anche se spesso e volentieri si accontenta di un misero e debole sei, le ciambelle del bar e gli intervalli coi compagni. Creatura spensierata e superficiale, ha bisogno di cambiare, ha bisogno di essere svegliato, di essere richiamato all’interesse, al fervore, alla vita. “Il Carducci è morto!”: nella bara non c’è tutto l’istituto, ma solo Mario. Al suo funerale il prete dirà: “Non è che era stupido, solo non si applicava, era distante!”. In questo consiste la sfida: Mario siamo un po’ tutti noi, carducciani sterili e vuoti, che abbiamo bisogno di vivere. O forse di nascere per la prima volta. Ritratto di Mario Ma non sono soddisfatto, voglio vedere Mario coi miei occhi: osservarlo, studiarlo, giudicarlo. Il ‘sentito dire’ non mi accontenta. Allora lo cerco, mi guardo attorno e ne traccio un identikit. Non è Mario, ma Gianna – siamo o no una scuola in prevalenza femminile? –: viene dalla periferia ed è una studentessa zelante e diligente, fiera dei suoi studi classici. E’ di indole gioviale, spesso frivola, sempre pronta a scherzare e a divertirsi. Eppure il brio e l’effervescenza del suo temperamento si contrappongono alla torpida accidia della sua vita intellettuale: gli eventi del mondo circostante la trapassano senza che se ne accorga, le attività studentesche sono un’occasione per scampare alle interrogazioni, gli eventi di attualità sono solo inchiostro sulle pagine dei quotidiani. La sua misera cultura generale - chiusa entro i ristretti orizzonti dell’apprendimento scolastico – , le scarse doti critiche e la poca elasticità mentale ne fanno un individuo profondamente disinteressato, incapace di identificarsi in un’ ideologia politica o credo religioso. Semplicemente non gliene importa.

Mario non esiste Ma niente: non riesco ancora a vederlo, a trovarlo. Di questa figura nessuno sembra sapere molto: si ha solo qualche suo tratto vago e fumoso che gli conferisce un’aura di indecifrabile consistenza. Questo mio ritratto sembra piuttosto una caricatura informe e astratta di mille volti diversi: un nulla che ha la sembianze sparse di un tutto. Anziché rappresentarci tutti, Mario non è nessuno. E’ come se non ci fosse nessun Mario. Ed è proprio così. Inquadrare in un fantomatico “personaggio medio” centinaia di anime che popolano

uno stesso ambiente è un gioco intellettuale ma fuorviante. In un’immensa tavolozza di colori non troveremo mai una tonalità in grado di rappresentare e riassumere tutte le altre. Non esistono uomini medi in nessuna realtà umana, piccola o grande che sia: esiste solo una molteplicità di individui, ognuno con la propria storia, il proprio mondo, la propria vita, che per la loro eterogeneità non possono essere ridotti ad uno stereotipo o una caricatura valida per tutti loro. Mario è il risultato di quest’errore di linguaggio e di giudizio: una banale macchietta in cui confluiscono tendenze e caratteristiche comuni a molti carducciani, ma che di fatto non significa né dimostra niente. Dovrebbe permetterci di vedere negli occhi le persone attorno a noi e invece ci rende drammaticamente ciechi. Mario non esiste e non può esistere. Ora Mario è morto. Ma per davvero. Mario, il fantasma Ma ora mi rivolgo a te lettore, perché hai saputo capire e non capire. Finché Mario era tra noi tu non esistevi, perché ti immedesimavi in lui. Ma ora che Mario non c’è più che cosa rimane? Rimani

tu, con il tuo nulla, il tuo vuoto, il tuo Mario. Mario è il simbolo di una certa decadenza morale di quanti non riescono a dare un significato alle proprie azioni e un principio ai propri pensieri. Dalla sua metaforica morte emerge la necessità per l’individuo di colmare un vuoto di senso nel vivere quotidiano. Mario è morto perché la sua è una vita vacua, insipida: un’intera esistenza fondata su una carenza di significato e di sostanza. Più che il riflesso del disinteresse e della superficialità, Mario è un rifiuto, un nulla, un vuoto, è la conseguenza della mancanza di un punto di vista, di un’idea, di un senso. La sua famigerata morte non è un singolo evento che lo separa di colpo dalla vita, ma una lenta erosione che lo trascina nel baratro del più profondo nichilismo. E’ il trascorrere una vita senza credere in niente, sommersi dalla polvere di cose futili e vane. Le lancette del tempo girano a vuoto quando la vita non ha un senso. Tu lettore questo lo sai bene, lo vivi ogni giorno sulla tua pelle. Tu muori ogni giorno proprio come Mario: non riesci a dare un senso al tuo quotidiano e così vivi una vita dedicata a se stessa, priva di un valore che la legittimi. Mario è una maledizione, perché dall’aldilà perseguita e terrorizza noi altri, che siamo biologicamente vivi, ma spiritualmente morti. Fa annichilire tutti, il più possibile: addormenta, anestetizza, atrofizza. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, quindi impotente. Il potere azzerante di Mario è in proporzione all’impotenza altrui. Per sfuggire a questo nulla l’unica cosa che puoi fare è vivere una vita autentica, non una vita dedicata a se stessa, ma a qualcosa che la riempia. Dedicare i propri anni ad arti, mestieri, ideali, pensieri, valori, ricordi, imprese, creazioni, persone. Questo è il vero richiamo al fervore e alla vitalità, il vero rimedio contro la morte. Se non trovi un’alternativa a Mario, in quella bara ci sarai tu. Mario vivrà. E il funerale sarà il tuo. Jacopo Malatesta


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Oblogonia A tutti i Carducciani che scrissero e scriveranno sul Giornale Scolastico.

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uanti di voi sanno quali eventi, quali guerre fratricide, quali sacrifici vi furono, ai tempi dell’Oblògonia, perché ora voi possiate tenere tra le vostre mani queste pagine? Il Carducci nacque nel 1932. Negli anni ’40 si formò il primo giornale studentesco, per forza di cose fascista, ‘La voce dello studente’. Lustri più tardi sorse ‘Mr. Giosuè’, negli anni ’70 ‘La Ghigliottina’, poi ‘Neopoli’, ‘Odi barbare’, ‘Voci di corridoio’ e, nel 2002, ‘La Finestra Sul Cortile’, madre affettuosa dell’odierno Oblò. La Finestra usciva periodicamente in mattoni da 28 pagine, ricchissima e florida, finché, nel 2002, non si esaurirono i fondi stanziati dalla scuola. Dopo tre anni di doloroso silenzio e proteste, l’editoriale del Febbraio 2005 proclamò la “fine della schiavitù”. L’anno dopo La Finestra fu definitivamente riesumata dalla misteriosa figura di Elettra, ca p o r ed a ttrice: il giornale rifletteva la volontà di quegli studenti cui non piaceva il mortorio della scuola, e che cercavano disperatamente echi ai colpi che battevano in quell’obitorio che era il Carducci. La Finestra apriva dibattiti, denunciava (quell’anno ci furono decine e decine di furti) e conduceva inchieste (dobbiamo proprio alla Finestra/Lorenzo Rossi le nostre porte nuove ai piani bassi: prima erano di legno, vecchie e rotte, né si aprivano né si chiudevano), proponeva incessantemente spunti e stimoli creativi, però con scarsi risultati. Poi Elettra si diplomò. Lasciò l’anno dopo il testimone a Gabriele Merola, che decise di riformare il giornalino dalle fondamenta. Lo mise a dieta, per aumentarne la frequenza, appellandolo ‘Oblò’ perché più piccolo, e tale rimase, fino ad oggi. Per la questione delle porte, non del tutto sostituite, Martina La Stella scrisse una lettera aperta sull’ultima pagina del numero di Dicembre, denunciando la mancanza di dialogo con il DS, che costò due mesi di stop e trattative. Ci fu un caso giornalistico di censura. In seguito il DS impose un rigido statuto, tuttavia il giornale continuò a essere pubblicato. Francesco Zaffarano curò l’impaginazione e fondò il blog, nacquero rubriche come il ‘Dottor Sesso’, ‘Radio Voi’ (Il mio crice-

to si chiama Topo), e decollarono i dibatti- dell’oblio. Era più morto che vivo. Il più ti. grande numero, di 12 pagine, invece che Nel 2007/2008 i fondi finirono, e l’Oblò fu uscire il 22 Dicembre uscì a Gennaio, costretto a tornare in Presidenza. I soldi presentandosi con un ‘Buon Natale!’. Gli costarono ulteriori restrizioni, al che alcuni eventi più rilevanti dell’anno, Cogestione redattori proposero l’autofinanziamento. e Sit-In in verde, causa di intimidazioni, La maggioranza votò contro, e quelli si vennero però raccontati lo stesso dalla distaccarono fondando Satura Lanx, semi- guarente Cronaca Carducciana. mensile autofinanziato di “satira e cazzeg- E poi venne il 2010/2011, e c’eravate gio”. quasi tutti: avete assistito, e partecipato, L’accoppiata 2008/2009, frizzante come alla rinascita del Giornalino. Abbiamo fuochi d’artificio, vide l’Oblò, condotto dal avuto il coraggio di tentare un folle volo, binomio Riva-Serranò, protagonista dei cioè interessare il lettore, venirgli inconfatti eclatanti di quei tempi. Raccontò la tro, facendo, lo ammetto, anche manovre proposta del DDL Gelmini, le proteste ac- demagogiche: abbiamo tentato un primo, cese, le guerre intestine, le scissioni e gli enorme, concorso fotografico; la casella estremismi, l’occupazione dell’Istituto. La di posta è stata letteralmente intasata Redazione di Vittorio Riva attuò e pubblicò dalla grinta di voi Carducciani, che avete le temutissime pagelle ai professori, che reagito con una gioia inaspettata ad un sconvolsero i già allora fragili equilibri in- richiamo naturale alla libertà, alla parteciterni, fecero pazione. L’Oblò, travolto dall’euforia che dimettere in ci aveva rapiti, ha continuato ad espanlacrime una pro- dersi. La redazione aumentava in professoressa, pro- gressione geometrica, le pagine di quatvocando l’ira tro in quattro, finché non si toccò il tetto funesta di molte delle 24: spero che i futuri redattori, con ancora più forza, possano superarlo e altre. migliorarlo, quando noi non saremo più a L’Oblò capitanò scuola. lo scandalo giornalistico de ‘I 7 Ed eccoci a noi, figli ed eredi di tutte le Savi di Fausto parole d’inchiostro che sono passate di Melotti’, ritrovati qua, nipoti dei pensieri di migliaia di carin uno scantinato ducciani che hanno calcato i nostri banda alunni e pro- chi. Penso spesso a chi è passato di qui, e fessori, immorta- magari ha detto la sua sul Giornale. Emilati con fotogra- lio Tadini avrebbe potuto essere il Capo fie quasi uniche dall’ex redattore Mattia Vignettista, Valerio Onida il redattore Serranò. Con la splendida definizione di dello statuto del giornale. Mario Monicel‘intrattenimento intelligente’ l’Oblò riusci- li avrebbe diretto le riprese dell’intervista va a fare cronaca vera e divertire al con- ai candidati e della Sfilata dei Ronci... tempo. Tra scandali e denunce riusciva a Ma con che presunzione ci definiamo tener testa ai suoi due concorrenti: Satura Redattori! E chi saremo mai, noi, quattro Lanx e The Fool, altro simpatico secessioni- cani, che ci prendiamo la briga di portare sta, ‘sopravvissuto’ nell’Oblò tramite le avanti questa tradizione, questa briciola pagine finali di questo libellus e la presenza di storia, con umile orgoglio? di colei che scrive, ultimo baluardo della Come l’epos antico, questi racconti si resistenza Fooliana. Satura e The Fool mo- tramandano di redattore in redattore: rirono con il finire dell’anno scolastico, in ora il segreto che li celava è spezzato. desolante penuria di denaro. Avete sotto mano il frutto di decenni di L’anno seguente, il 2009/2010, vi fu una fermento giovanile, di storia. grande redazione tra potenze (io vi partecipai, quintaginnasiale, come portaborse E continuiamola, insieme. pagata in nero), in cui si decisero le sorti Eleonora Sacco dei tre giornalini. Una votazione oligarchica Ps: ringrazio di cuore le fonti dell’Oblogonia. Primo fra preferì la stipulazione di un trattato di pace tutti il mio caro amico Mattia Serranò, che ha passato perpetua. La Dieta dell’Aula Studenti, dell’- tanti pomeriggi a scuola per raccontarmi queste storie. Ottobre 2009, riunificò definitivamente le Poi Antonella Montanaro, che mi ha saputo dare i giusti Vittorio Riva, che mi ha dato tanti consigli, stampe carducciane sotto un unico nome, contatti. stimoli e idee, un sabato pomeriggio in un caffè vicino a il più illustre di tutti –L’Oblò. Molti di voi via Malpighi. E infine un enorme grazie a Lorenzo Rossi, forse non ricordano quei tempi. L’Oblò era che mi ha trasmesso, nelle ore di chiacchierate, l’amore magro e smunto, provato dalla guerra civi- per le vicende passate, e mi ha aiutato a ricapitolare raccontandomi con minuziosità e precisione le, malato, raschiava il fondo della fossa tutto, impressionanti ogni fatto per filo e per segno.


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Lutto al Carducci

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morire al Carducci non sono solamente i ragazzi del primo piano con l’inno “IL CARDUCCI E’ MORTO”, ma anche l’orchestra della scuola. Infatti il 23 novembre di quest’anno è morta l’orchestra del Carducci. Dopo anni di crescita e miglioramento che hanno raggiunto il culmine il 14 maggio scorso presso l’Auditorium G. Mahler di Milano, nella rassegna musicale “Giovani e giovanissimi in concerto”, i nostri musicisti sono stati costretti a sopprimere l’orchestra. Una specie di suicidio obbligato insomma. Ma partiamo dall’inizio. L’orchestra del Carducci nasce due anni fa su proposta dell’ex carducciano Martin Nicastro, maturato nel 2011, che insieme ad un altro vecchio carducciano, Michele Shafi, decide di dar inizio al progetto. Inizialmente è una piccola

e normale orchestra scolastica, che con il passare del tempo si trasforma in un vero e proprio complesso musicale, con archi, legni, ottoni e percussioni. Famosa per i suoi concerti in aula magna in occasione degli openday, in palestra durante la cogestione e nelle classi prima di Natale, ha riempito nuovamente di gloria il Carducci proprio nel maggio scorso, esibendosi nell’Auditorium. All’inizio dell’anno, con la ripresa del progetto, Martin si propone come collaboratore di Shafi, chiedendo per entrambi una modesta paga. Mentre la richiesta di Shafi viene accolta, quella di Martin no, non solo per motivi economici. Non riconosciuto e “bandito” dalla scuola, Martin sceglie di abbandonare definitivamente l’orchestra. I ragazzi riman-

gono così da soli con Shafi, che, per quanto esperto e qualificato, è difficilmente gestibile senza l’aiuto e la mediazione di Martin. Nonostante i diversi tentativi di convivenza tra i ragazzi e il loro insegnante, la situazione continua ad essere insostenibile, tanto che, in data sopra indicata, a causa della totale assenza dei componenti del complesso, Shafi si dimette e l’orchestra dichiara così la sua morte. È forse opportuno che un’attività scolastica, che per ben due anni ha animato la vita del nostro liceo e ha incrementato l’interesse di molti studenti per la musica, scompaia per un’incomprensione con la Dirigenza e senza la minima preoccupazione da parte degli studenti? I nostri musicisti hanno in progetto una protesta di sensibilizzazione: un piccolo concerto in cortile. L’idea è dimostrare che ogni lavoratore, giovane o vecchio che sia, ha il diritto di essere pagato e riconosciuto e che ogni studente, in questo caso musicista o meno, ha il dovere di interessarsi alla vita (ed alla morte) della scuola che frequenta. Alessandra Venezia

Il Carducci (h)a ‘L’ultima parola’ “Ultima parola” è un talk-show presentato da Gianluigi Paragone che va in onda tutte le settimane su Rai2 in seconda serata, nel quale, al classico dibattito di politici e giornalisti, viene affiancato un pubblico attivo composto soprattutto da giovani e giovanissimi che aprono la discussione a stimoli concreti. Laura Vitale Lollo, di 5E, ha avuto modo di partecipare a tre puntate di questo programma e per questo abbiamo ritenuto interessante porle qualche domanda su ognuna di esse. La prima puntata a cui hai partecipato è stata “Il digestivo. Poi il conto.”. Su cosa ti sei trovata a discutere e come hai avuto modo di intervenire? - In realtà per me la prima puntata è stata alquanto traumatizzante, perché credo affrontasse una miriade di argomenti in maniera superficiale, saltando di palo in frasca circa tematiche che invece avrebbero meritato una puntata a sé stante. Inoltre mi ha infastidito molto il servizio riguardante i giovani e il mondo del lavoro. Non so chi lo abbia realizzato, ma spero che fosse qualcuno totalmente privo di esperienza perché era zeppo di luoghi comuni. La sintesi era che, ovviamente, la disoccupazione giovanile è dovuta al fatto che nessuno vuole più fare lavori come mungere mucche o alzarsi alle 4 del mattino per fare il pane. Per carità, che i settori sopracitati non riscuotano tanto successo tra i giovani è un dato di fatto, ma non si può fare di tutta l'erba un fascio, e inoltre se i giovani fanno un certo corso di studi ottengono delle competenze in determinati settori, e non in altri. Tra l'altro era palese che si volesse dare un'im-

magine negativa delle nuove generazioni, dato che gran parte degli intervistati era composta da persone raccattate in bar/altri locali in maniera totalmente casuale. La successiva puntata si intitolava “L’arroganza del potere”. Come si è svolto il confronto? Hai trovato un divario molto ampio tra le opinioni del pubblico e quelle dei politici? - La puntata era molto improntata sui diritti dei lavoratori e impresari, ovvero del fatto che spesso gli operai si ritrovano a dover firmare contratti ai limiti della legalità pur di lavorare e portare a casa qualcosa, o dei piccoli e medi impresari che, soffocati dai debiti, sono costretti a ipotecare casa (o in casi estremi ad andarsene). In realtà questo programma punta molto sul contrasto destra/sinistra, infatti sia ospiti che pubblico sono divisi a seconda della fazione per cui simpatizzano. In sintesi posso dirti che tutti, in maniera anche diversa, sentono il peso della crisi, anche se dalla fazione di destra si guardava agli operai in cassa integrazione con forte scetticismo, come dei furboni che vogliono solo fare doppi lavori in nero. Purtroppo quando il discorso si è focalizzato più sulla classe politica il discorso è degenerato, perché in Italia c'è un numero spropositato di gente che gode di privilegi e percepisce stipendi da sogno con tassi di assenteismo in Parlamento agghiaccianti, oppure che presentano un disegno di legge all'anno per far vedere che lavorano. Leggi ovviamente inutili. L’ultima è stata “Si salvi chi può” riguardo alla globalizzazione e allo stato della politica

attuale. Come si è mosso il dibattito all’interno di un argomento così ampio? - La puntata riguardo la globalizzazione è stata decisamente la migliore fino ad ora, e il perchè è semplice: era quella che sembrava meno un talk show. Ospiti decisamente competenti (Osca Giannino e Fausto Bertinotti) che hanno espresso le loro opinioni su più punti tra l'altro concordanti- in maniera civile e pacata, senza cercare di nascondersi dietro astruse cavillosità quando venivano poste loro delle domande. Probabilmente questo è stato dovuto anche al fatto che si parlasse molto di economia, un campo in cui se non si hanno le competenze, specialmente in questo periodo, si capisce ben poco. Si sono analizzate le cause della crisi e il ruolo che l'euro e le leggi legate alla sua immissione sul mercato abbiano avuto. Chiaramente si è parlato anche molto del governo Monti, e di come dovrà far fronte alle leggi che si sarebbero dovute fare negli anni passati. Inoltre si è parlato anche della crisi dal punto di vista dell'Inghilterra e di eventuali proposte di superamento della crisi da parte di diversi economisti inglesi. Che cosa ti è rimasto di questa esperienza? La consiglieresti? -Nonostante il genere di programma sia spesso volutamente fazioso (specie per gli interventi del pubblico) affronta temi di attualità invitando in studio persone competenti, e quindi è indubbiamente un'esperienza interessante. Chiara Conselvan


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Novembre/Dicembre L’altissima percentuale di preferenze ricevute da questa rubrica-esperimento mi ha fortemente motivata a scrivere un sequel, che vi presento con gioia e mano tremante. A dir la verità, questo primo, grandissimo scatto non mi è stato inviato all’indirizzo email. L’avevo visto per caso, tempo fa, e non ero più riuscita a dimenticarmene. Artefice è Francesca Motta di 5F, pluripremiata ai concorsi fotografici, con la sua Nikon D5000 e un ottimo 18-105mm VR. La foto è all’aperto, senza una luce diretta; anche se le tonalità di grigio sono piuttosto fredde, il movimento e l’espressione concentrata, appassionata del ragazzo (Martin Nicastro, ex rappresentante della Consulta e fondatore dell’Orchestra Carducciana) contribuiscono a ‘scaldare’ l’atmosfera, rendendola molto dolce, romantica e, per i più sensibili o innamorati, commovente. L’elemento di forza della foto, molto decentrato forse per enfatizzare il movimento e il ‘suono’ visivo dello strumento, e per non scadere nel banale, è il violino-uomo, perfettamente a fuoco e in risalto grazie ai contrasti

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del bianco e nero. A livello generale, il movimento della foto tende verso destra, oltre il limite del formato 10x15, come se il soggetto volesse volare via sulle note della musica: il busto e il capo del ragazzo sono inclinati e quasi paralleli all’archetto del violino, per ‘suonare’ anche con il corpo e regalare un forte effetto visivo, intensificando il pathos del momento. Le ombre si impongono pacatamente, nascondono quasi la metà destra del volto, intensificano le piccole zone scure che compaiono al corrugarsi della fronte, al tendersi del collo, nelle pieghe della giacca e nella scollatura della maglietta, risaltano i tagli del violino.

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che non distrae l’attenzione dal nucleo emotivo dello scatto, il Martin-violino. La scelta più difficile è stata sicuramente il tempo: né troppo lungo, per evitare un effetto mosso eccessivo, né troppo breve, per evitare l’effetto “congelato” e una foto troppo buia. Francesca ha scelto 1/100, che le ha fatto ottenere un effetto di movimento naturale e spontaneo, una luminosità equilibrata, ombre marcate ma gentili.

Come immagino si sia desunto dalla sviolinata lusingante, questa foto mi ha lasciata senza parole: è riuscita a rappresentare, nel modo più dolce e passionale possiFrancesca ha usato l’impostazione manuabile, l’unione amorosa del musicista con il le, per poter controllare razionalmente suo strumento. ogni singolo aspetto dello scatto. I 640 ISO indicano le condizioni di scarsa luminosità. I Detto ciò, gambe in spalla e fotografate! 90mm ci suggeriscono la distanza della Eleonora Sacco fotografa dal soggetto, piuttosto breve; il diaframma non minimo ma comunque Hai fatto una bella foto? Manbasso, 5.6, è dovuto sia appunto alle esidala a eleonora.sacco@fastwebnet.it genze luminose, sia alla necessità di far spiccare il soggetto con una bassa ma non con nome, cognome, classe e dati eccessiva profondità di campo, ottenendo EXIF: potresti vederla pubblicata sulun suggestivo effetto sfumato sullo sfondo, l’Oblò!


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iei cari carducciani, "Inglourious Reviewers" è tornata anche questo mese con una buona dose di recensioni e speculazioni pseudo-filosofiche. Largo spazio alle riflessioni personali, quindi, in quanto due dei tre film presentati compensano la mancanza di una

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trama particolarmente articolata con un alto tasso di spunti più o meno visibili. Il primo, in particolare, "The Tree of Life" di Malick, è stato definito dalla critica "il nuovo '2001: Odissea nello Spazio'" per il suo impatto visivo e per il modo in cui il regista tratta una tematica come quella del rapporto tra uomo e Dio. E se "American Beauty", vuoi per la colonna sonora ormai riutilizzata

dappertutto, vuoi per alcune scene entrate nel nostro immaginario collettivo, non ha bisogno di presentazioni, nemmeno l'italiano "This Must Be the Place" di Sorrentino necessita di un'introduzione particolare, tanto è recente. Ricordo infine che è possibile inviare commenti, critiche, brevi recensioni o quant'altro all'indirizzo cinema.osc@hotmail.it. Scrivete, scrivete, scrivete! Dario Zaramella (Doris)

The tree of life

gesti: particolarmente efficaci sono le riprese, a tratti volutamente ‘artigianali’, che colgono alla sprovvista lo spettatore inseguendo i personaggi, proponendo inquadrature insolite e originali, emotivamente molto cariche, che calcano la proDa cogliersi nell’essenza generale, il film è spettiva particolare-universale, evidenincentrato sul rapporto filosofico Uomo- ziando l’analogia proporzionale tra Uomo Dio, sull’accostamento fonico, cromatico, e Dio. La vicenda tragica vede la morte del figlio concettuale dei due enti. “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamen- secondogenito. Con un lungo flash-back il figlio maggiore rivisita la sua infanzia, da ta della terra?” (Giobbe 38:4-11) adulto (Sean Penn), ricordandola con gli Candida e linda, pura e umile, la madre occhi di bambino. (Jessica Chastain) spiega ai tre figli, sottovoce, l’esistenza di una via della Grazia e di Alle emozioni semplici e mutevoli dell’uouna della Natura; le sue lunghe riprese nella mo, raffigurate a tratti rapidi ma marcati natura incontaminata la rendono simile ad sui difetti e sulle sofferenze, si contrapuna Ninfa, consentendole di incarnare, con pone la potenza invincibile e maestosa il suo alone semidivino, il ruolo della fede in del Dio creatore, che divampa in meraviun Dio-Sole universale, creatore, che si ri- gliosi e terribili fenomeni naturali, cui bella ai confini impostigli dalle dottrine Malick dedica una consistente parte del religiose, sebbene la pellicola sia evidente- film (la ‘Genesi’). mente ambientata in un contesto prote- Frequentissime sono le domande, che ricevono risposta solo tramite immagini e stante. Il padre (Brad Pitt), rigido e dalla severità suoni naturali, sussurrate a Dio, mai nomilitare, odiato dai figli, rappresenta la ra- minato. La trama umana, molto semplice gione umana che cerca supporto morale e legata al mondo dell’infanzia, anche alle sue azioni nella religione, andando grazie alle riprese in effetto ‘pellicola’ e ai spesso in chiesa, ma con l’arroganza del colori sbiaditi, è connotata da forte fragiself-made man. Cerca di crescere i figli inse- lità e sofferenza: eppure proprio lì emergnando loro a tirar pugni, a vantarsi dei loro ge l’appassionata idea di Bello nei gesti traguardi, a sfruttare la terra per il progres- degli uomini. elicatissimo, puro e naturale, spontaneo; il quinto film di Terrence Malick è un distillato della vita per immagini semplici, simboli, contrasti, suoni primordiali, dialoghi con Dio.

so dell’uomo, a cercare sempre il successo ‘L’albero della vita’ vanta un grande nosociale e lavorativo, a inseguire l’american me alla direzione della fotografia, valorizzante i contrasti simbolici del film, grandi dream delle auto e dei brevetti anni ‘50. La madre educa i figli nel rispetto della na- interpreti del silenzio e dei sussurri, musitura, insegnando loro l’attenzione ai piccoli che suggestive, una grande regia, semplice ma densa, che richiama quella concen-

trata e pensata di Kubrick. Le uniche due pecche sono la durata (138 minuti, che originariamente erano addirittura 480…) e una scena della Genesi in cui compaiono alcuni dinosauri, decisamente fuori tema e luogo, oltre che terribilmente dissonanti con la linea grafica del film. Un’originale poesia cinematografica esistenziale da non perdere. Ps. Meglio al cinema che in streaming: all’Apollo (Duomo M1, M3) tutti i Martedì e Giovedì c’è la rassegna ‘Rivediamoli’, fino al 29 Marzo, a 2,50€ (per chi è sempre senza soldi, come me). Eleonora Sacco

CITAZIONE DEL MESE "Io sto qui col naso ben ficcato nella terra e ci sto fin dall'inizio dei tempi, ho coltivato ogni sensazione che l'uomo è stato creato per provare. A me interessava quello che l'uomo desiderava e non l'ho mai giudicato, e sai perché? Perché io non l'ho mai rifiutato nonostante le sue maledette imperfezioni! Io sono un fanatico dell'uomo, sono un umanista... probabilmente l'ultimo degli umanisti. Chi, sano di mente, Kevin, potrebbe mai negare che il ventesimo secolo è stato interamente mio? Tutto quanto, Kevin! Ogni cosa! Tutto mio! Sono all'apice, Kevin! È il mio tempo questo! È il nostro tempo!" [Satana; L'Avvocato del Diavolo] Doris


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American Beauty "A volte c'è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare."

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'esordio come regista del britannico Sam Mendes non sarebbe potuto essere più vincente: 5 premi Oscar per un film che, con un'azzeccata armonia tra satira e dramma, ha proposto una personale ma molteplice analisi della società borghese dell'America di fine anni '90. Nel fare ciò si sofferma proprio sul concetto di "bellezza", che, declinato nelle sue varie accezioni, rappresenta il filo conduttore attorno al quale si dipana la vicenda. Il mio entusiasmo non è dettato tanto dalla trama, sulla quale mi soffermerò solo per poco, quanto dalla maestria con cui le tecniche registiche (insistenza su determinati particolari, scene al rallentatore, inquadrature più o meno claustrofobiche) sono state poste al servizio della sceneggiatura, potenziandone di fatto il messaggio. La trama, come dicevo, benché valida, è piuttosto semplice: si segue la routine di Lester, un impiegato di mezza età, di sua moglie Carolyn e della figlia sedicenne Jane; in seguitò entreranno in scena i loro vicini di casa, tra cui un ex colonnello ossessionato dal rigore militare e il figlio,

Ricky, dal carattere ambiguo; poi ancora Angela, l'amica sessualmente disinibita di Jane. Le vicende di questi e di altri personaggi si incrociano in un crescendo di fine analisi psicologica, che non sarebbe, però, così intrigante se solo non pendesse, sin dall'inizio, una "dichiarazione di morte" sulla testa di uno dei personaggi. Infatti il protagonista, Lester, ci racconta in un unico flashback gli avvenimenti precedenti alla sua morte, che avverrà inevitabilmente alla fine del film. Questa rivelazione preliminare non toglie l'effetto sorpresa, come si potrebbe pensare, ma mette lo spettatore in una condizione, sì, di attesa, ma anche di serenità, in quanto sa già cosa aspettarsi dal finale. Ed è come se il regista, con questo, ci avesse voluto sussurrare: "rilassati, e goditi ciò che c'è nel mezzo", perché quelle due ore che intercorrono tra la dichiarazione iniziale e la prevedibile fine delineano con maestria il percorso di crescita di Lester, che, da uomo represso e imprigionato nel grigiore della routine, grazie all'impulso

sessuale provocatogli dalla vista di Angela, inizia un processo di riscatto sociale e psicologico. La "bellezza" del titolo è inizialmente desiderio sessuale, per Lester come per la moglie; in seguito, però, il concetto verrà sviluppato fino a includere, ad esempio, l'amore di un padre per la figlia, o l'attaccamento di Ricky alla natura e a tutto ciò che c'è di bello in essa. C'è da dire che molte tematiche sono appena accennate nel film, che spesso si limita a suggerire riflessioni allo spettatore attraverso espedienti quali l'insistenza sul simbolo della rosa rossa, presente in svariate scene con significati di volta in volta interpretabili, o l'utilizzo di scelte cromatiche differenti in base allo stato psicologico del protagonista. Questa pluralità di spunti rende il film tanto difficile da sintetizzare in mezza pagina, quanto affascinante da analizzare, senza per questo essere pesante. Dario Zaramella

This Must Be The Place "Il problema è che passiamo troppo velocemente dall'età in cui diciamo 'farò così' a quella in cui diremo 'è andata così'"

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heyenne è stato una rockstar nel passato. All’età di 50 anni si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico, e ora vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane a Dublino.

casa-lei ha sollevato le ali/Sento che questo dovrebbe essere il posto”.) Il testo della canzone dei Talking Heads che dà il titolo al film, e che riveste un ruolo di primo piano in una delle scene più importanti e intense, rappresenta una La morte del padre, con il quale non aveva sorta di sintesi di questa opera in cui Sorpiù alcun rapporto, lo spinge a tornare a rentino mostra l’intimo percorso di vita di New York. Scopre così che l’uomo aveva questo particolare personaggio. un’ossessione: vendicarsi per un’umilia- Cheyenne, rocker ormai in disarmo, che zione subita all'interno di un campo di gode ancora dei frutti economici della sua concentramento. Cheyenne decide di pro- celebrità è un uomo che quotidianamenseguire la ricerca dal punto in cui il genito- te si trasforma in maschera, quasi avesse re è stato costretto ad abbandonarla, ini- bisogno di aggrapparsi a quel passato di ziando così un viaggio attraverso gli Stati gloria che ora non rinnega ma rifugge. Uniti. Accanto a lui, da 35 anni, una donna soli“And you’re standing here beside me/I love the passing of time/Never for money/Always for love /Cover up and say goodnight/Home – is where I want to be/But I guess I’m already there/I come home – she lifted up her wings/Guess that this must be the place” (“E tu sei qui vicino a me/Amo lo scorrere del tempo/Mai per denaro/ Sempre per amore/Copriti ed augura la buonanotte/ Casa- è dove voglio essere/Ma mi sa che ci sono già/ Vengo a

po, limitato, trasmettendogli inconsciamente un’ossessione che il figlio scoprirà di avere solo dopo la sua morte. Il castello in cui Edward/Cheyenne si è rinserrato è il suo aspetto esteriore, che lo lega all'amato/odiato passato e al contempo lo separa dal presente. Sean Penn è straordinario nel disegnare, ancorandolo alla realtà, un personaggio che potrebbe ad ogni inquadratura dissolversi nel grottesco o nella caricatura. Quest’uomo che fa di tutto per essere riconosciuto, e nonostante ciò nega pervicacemente con tutti la propria identità, ha la complessità di quelle figure che si imprimono con forza nell’immaginario cinematografico. Un personaggio che, anche se lo nega (“Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico, non in India”), compie un lungo viaggio per (ri) trovare un posto dentro di sé.

da che sa essere una sorta di sorridente argine alla sua pacata depressione. Al suo fianco un costante peso: che sia il carrello della spesa o il trolley da viaggio, Cheyenne si trascina dietro un bagaglio di situazioni irrisolte, prima fra tutte la dinamica This Must Be The Place è un film di Paolo Sorrentino. Con Sean Penn, Frances dei rapporti con la figura paterna. Cheyenne/John Smith è un Edward mani McDormand, Eve Hewson, Harry Dean di forbice dei nostri giorni, un essere u- Stanton. mano che il padre ha creato e, al contem-

Chiara Mazzola


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Per non morire di mafia

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afia. La nube di oscurità che sovrasta l’Italia da molti, troppi anni. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre uomini che vogliono ripristinare il sole della libertà per tutti noi. Persone come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Antonino Caponnetto,Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Pietro Grasso. Pietro Grasso, l’uomo che sarebbe dovuto morire nell’attentato a Borsellino, se solo quest’ultimo non avesse voluto aspettare la moglie per partire insieme. Così l’attuale procuratore nazionale antimafia conserva ancora il biglietto dell’aereo di linea di quel fatidico giorno. Grasso: il giudice del maxiprocesso antimafia del 10 febbraio 1986, già magistrato di Barrafranca a 24 anni. Uomo d’altri tempi, che ha colto cosa conta nella società odierna. Ebbene sì, un mezzo che un tempo era semplice intrattenimento oggi diventa ciò che spaventa i sicari più spietati. In un’intervista pubblicata su SiciliaOnLine dice che la stampa deve parlare sempre di tutto ciò che riguarda la mafia. Ma deve essere in grado di farlo senza far diventare i boss mafiosi dei miti a cui ispirarsi. Sbaglio che spesso vediamo nelle attuali fiction, dopo le quali il procuratore farebbe seguire dei dibatti con i giovani. Ottimo spunto da sostituire anche a programmi come Porta a Porta o Matrix, aggiungerei io. Così Pietro Grasso ha scritto il libro “Per non morire di mafia” e ne ha fatto anche uno spettacolo teatrale, per i più pigri come me (non preoccupatevi dopo aver visto lo spettacolo, l’esigenza di leggere il libro vi sovrasta). Monologo che riesce a farci sentire sempre di più quanto la mafia sia insita, sotto la pelle di ciascuno di noi. Spesso mi sembra che essendomene andata dalla Puglia, le organizzazioni mafiose siano una realtà lontana anni luce. La Sicilia appare davvero come una fetta di Africa quando ne sento parlare al tg. Solo alcuni libri mi hanno riavvicinato a questa stupenda regione che ho visitato soltanto una volta. Ero mol-

to piccola, sapevo qualcosa sulla mafia ma non molto. Eppure non riuscivo a intravedere nulla che avesse a che fare con essa, nonostante mi continuassi a ripetere di non dire tutto quello che pensavo come al mio solito o di guardare per più di 10 secondi la stessa persona. Leonardo Sciascia ha detto: "Forse tutta l'Italia sta diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma..." (Il giorno della civetta). Durante lo spettacolo l’attore Sebastiano Lo Monaco racconta la vita di Grasso, descrivendone soprattutto gli aspetti più meravigliosamente umani. Ci racconta un uomo che, andando a comprare una tuta per il figlio, si trova davanti un figlio di mafioso condannato a 8 anni durante il maxiprocesso che lo saluta dicendogli “Dottore, non mi riconosce? Ci siamo incontrati al maxiprocesso, lei era stato un po’ cattivello con me. Fortunatamente dopo ho trovato un giudice più bravo, che dopo 2 anni mi ha fatto uscire veloce veloce“. Il maxiprocesso, per cui lui e l’ormai amico Borsellino insieme a tanti altri si sono tanto penati, sembra essere un grosso buco nell’acqua. Ma ogni volta che si fa anche un solo, piccolo passo per

annientare la mafia non è mai invano. Durante i primi anni ottanta, la Seconda guerra di mafia aveva imperversato a tal punto che il boss dei Corleonesi Salvatore Riina decimò le altre famiglie mafiose, e centinaia di omicidi vennero commessi, inclusi quelli di diverse autorità di alto profilo come Carlo Alberto Dalla Chiesa, capo dell'antiterrorismo che aveva arrestato i fondatori delle Brigate Rosse nel 1978. Il suo omicidio è stato collegato all'assassinio di Aldo Moro e alla cosiddetta strategia della tensione. Il crescente sdegno dell'opinione pubblica per questi omicidi diede la spinta necessaria a magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a provare a colpire efficacemente un'organizzazione criminale più radicata nell'isola. Questo processo deve aver intimorito davvero molto la mafia se nel corso dell’atto giudiziario un poliziotto calabrese ha annunciato la minaccia di una “guerra dei mandarini”. Questa fantomatica guerra ha creato il panico in aula tanto che mentre i volti giudiziari più noti facevano proposte comiche su come difendersi (la proposta di Grasso: usare il codice penale come una racchetta da tennis), il poliziotto calabrese comunica che il rischio di rivolta è stato sedato. Hanno costretto gli imputati a mangiare tutti i mandarini nei cestini. Pietro Grasso sostiene di non essere più in trincea ma di combattere dietro le scartoffie. Ciononostante è ancora costretto a girare con la scorta e a temere per la vita dei propri figli. Racconta anche che quando ha tentato di fare una “fuitina” con la moglie, in moto, la moto gli è stata requisita e mai più restituita. Spesso la vita scolastica ci sommerge di bambagia che rende la vista offuscata da milioni di filtri, diversissimi tra loro. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra formazione serve anche per combattere tutto ciò che non ci piace nel mondo. Fichte diceva che l’intellettuale è tale solo se lo è all’interno della società e che “Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda”. Qualunque cosa accada,specchiatevi nella verità, sempre! Maria Rosa Miccoli


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DA BACON AI BEATLES “sex, art & rock’n’roll” Percorso di 35 min, per chi pensa che andare alle mostre sia palloso.

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er un pomeriggio all’ insegna dell’arte e della musica, noi giovani e inesperte reporter ci siamo recate in via Turati 34 al Palazzo della Permanente (tranquilli, non ha nulla a che fare con i parrucchieri). E sì, dobbiamo ammetterlo, ci aveva allettato molto la prospettiva di gustare del buon bacon croccante accompagnate dalla musica dei Beatles, ma i nostri sogni son stati brutalmente infranti quando all'entrata della mostra, perdonate l’ignoranza, abbiamo scoperto che Bacon era un artista! Quindi, munite di cuffie (comprese nel modico prezzo di 4 euro), ci siamo immerse nel mondo dell’arte moderna pop-rock. Appena entrate siamo state accolte da uno struzzo di ferro, di cui ancora ci è poco chiara la ragion d’essere. Ma siamo state subito confortate dalle note di “Roll over Beethoven” di Chuck Berry e da un cartellone esplicativo sul quale c’era scritto che la mostra “Da Bacon ai Beatles” era un insieme di

arte pop inglese, realismo esistenziale italiano e nouvelle figuration francese. Questa volta perdoniamo noi la vostra ignoranza! In poche parole quest’arte è caratterizzata da immagini scomposte e sovrapposte, ritagli e gesti liberi che rappresentano pienamente il pensiero degli anni ’60 e del rock.

Dopo aver superato la sala dello struzzo, la nostra attenzione, così come il nostro cuore, è stata catturata da una gigantografia di Jim Morrison, che è una figura rilevante per tutta la durata del percorso. Durante la mostra si trovano riferimenti espliciti al concetto di pacifismo incentrati soprattutto sulla guerra del Vietnam. Ad esempio il quadro che rappresenta la cantante Joan Baez sulle note della stessa Joan che intona “C’era un ragazzo…” di Gianni Morandi e l’imponente bandiera americana coperta da frammenti di corpi umani dipinta da William Utermohlen, accompagnata dalla chitarra di Jimi Hendrix che suona l’inno americano con sottofondo di bombe che esplodono, pezzo che esibì a Woodstock. L’opera più famosa della mostra è la copertina del celebre album dei Beatles, Sergent Peppers, firmata Peter Blake. In questa si possono riconoscere i volti personaggi famosi dell’epoca tra cui Charlie Chaplin e Marilyn Monroe. CURIOSITA’: sono stati omessi i volti di Hitler per ovvie ragioni e di Gandhi perchè avrebbe potuto compromettere la vendita in India. La mostra si conclude con l’ inizio degli anni ’70, data di cui si ricordano le tragiche morti di Janis Joplin e Jimi Hendrix e lo scioglimento dei Beatles. Ciò che più caratterizza e colpisce della mostra è la perfetta armonia che si forma tra musica ed arte. Chiara Guastamacchia e Alessandra Sale


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A NNO VI — N UM E R O I I

LA BIBLIOBUSSOLA

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entrovati, cari lettori dell'Oblò! Questa nuova rubrica tratterà di narrativa contemporanea. L'idea nasce dal fatto che sono stufo di sentire ripetere i soliti tormentoni, sui giovani d'oggi “a cui non piace più leggere”. Sfido io ad amare la lettura, se nelle librerie si viene investiti da tanta di quella spazzatura da riempirci una discarica (poveri alberi...), e troppo spesso a scuola i romanzi non vengono fatti vivere come esperienze di incontro utili per crescere, ma come compiti odiosi, e di conseguenza, purtroppo, inutili. Questa rubrica ha l'ambizioso obiettivo di guidare quei ragazzi desiderosi di riscoprire le meraviglie celate nel forziere di un bel libro, e che non sanno dove volgere i loro passi. Per qualsiasi domanda, critica, approfondimento, che non si esiti a scrivere a seremos@hotmail.it.

COSE CHE NESSUNO SA

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no che di giovani se ne intende queste pagine sono impregnate di consoladavvero è Alessandro D'Avenia. zione e speranza. Alla fine le lacrime saranBiondissimo caso letterario 201- no inevitabili, ma è un pianto di liberazio0 con il bestseller Bianca come il ne. Le storie di D'Avenia, banalizzate dalla latte rossa come il sangue, dal 2 di Novem- critica come “letteratura per ragazzi”, sono bre è tornato nelle librerie con la sua ultima tutte una meraviglia di talento espressivo e fatica, Cose che nessuno sa. É la storia di contenuti, e fanno riflettere un po' su tutMargherita, ragazza di 14 anni il cui padre to. Spesso paragonato a Moccia e Giordase ne va di casa. Grazie a nuovi amici (il no, D’Avenia si distingue radicalmente da ragazzo più tenebroso della scuola, una questi due scrittori, evitando di rovinare le compagna di banco sopra le righe, il profes- bellezze della vita passandole per banalità, sore d'Italiano sognatore ma codardo) e e senza inciampare in un inutile e sterile vecchie conoscenze (la nonna, sinceramen- pessimismo. La storia che racconta è unite uno dei personaggi più belli versale, tocca con mano più che io abbia mai trovato in un “É un romanzo potente, realtà diverse; le sue storie romanzo), Margherita, il cui che scava in profondità d’amore sono fresche, gionome in latino significa nell'animo umano, alla vani, passionali, e soprat“perla”, troverà la forza per tutto vere e belle: niente ricerca della bellezza superare il dolore e mettersi nascosta oltre il dolore” bambinate alla Moccia. alla ricerca del padre. É un L’amore raccontato da D’Aromanzo potente, che scava venia è travolgente, e porta in profondità nell'animo umano, alla ricerca da qualche parte; non si trastulla con vezzi della bellezza nascosta oltre il dolore. Le inutili, e non scade in banalità asfissianti. E’ pagine scorrono veloci e sembrano ricama- con questo stesso desiderio di scarnificare te, per via del talento narrativo di D'Avenia, la realtà e di liberarla dagli angoscianti (e che riesce a infilare con la grazia del bravo spesso falsi) luoghi comuni che D’Avenia cantastorie riflessioni e accenni quasi poeti- ha il coraggio di vedere la gioia dietro il ci senza gravare sul risultato complessivo. dolore, e di affermare con forza che soffriLa sensibilità dell'autore è avvolgente, pe- re non è mai qualcosa di fine a se stesso, netrante, saggia, e per il cuore di chi soffre ma ci lascia nel cuore gli elementi per cre-

scere e dare alla luce la nostra personale “perla”, come fa Margherita. Senza andare a parare in una storia fuori dal comune o eccessivamente fantasiosa, ma usando come base d’appoggio vicende purtroppo molto vere e molto diffuse, lo scrittore offre uno sguardo di ampio respiro sul mondo, scardinando gli stereotipi. Destreggiandosi tra Coldplay, Arancia Meccanica e Fight Club, i suoi adolescenti sono un po’ più profondi, i suoi bambini un po’ più saggi, i suoi adulti un po’ meno sicuri di quel che la società di oggi vorrebbe far passare. Ci racconta di gente normale che armata di reale coraggio può scendere fino in fondo alle proprie paure. Con la sua voglia d’incantare un pubblico di ogni età e soprattutto con la capacità di far diventare realtà la bellezza di un sogno, Cose che nessuno sa si afferma decisamente come un piccolo capolavoro, un romanzo esistenziale senza paura e senza confini. Considerato anche l’ottimo riscontro di pubblico dal momento della sua pubblicazione, con questo secondo romanzo (targato Mondadori) D’Avenia si afferma come uno dei più interessanti e talentuosi scrittori contemporanei.

OSCAR E LA DAMA IN ROSA ric-Emmanuel Schmitt è filosofo, romanziere, drammaturgo e sceneggiatore di successo. Oltre ad essere un raro caso di francese dotato di autoironia, è decisamente uno dei migliori romanzieri in vita. Il suo romanzo che vi consiglio in questo numero dell’Oblò è Oscar e la Dama in Rosa, che in effetti sembra proprio un fiore: piccolo come un filo d’erba, meraviglioso come il sole. Pubblicato da BUR, questo libricino ha la straordinaria capacità di concentrare tutta la vita umana in un ammontare ridicolo di pagine, e di fulminare il lettore con la sua acutezza. Racconta la storia di Oscar, un bambino di dieci anni malato di cancro, a cui la miste-

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riosa Nonna Rosa, infermiera dell’ospeda- con magistrale ironia si spinge fra le paure le, propone di tenere un diario in cui ogni e i luoghi comuni fossilizzati nel cuore dei giorno lui proverà a immaginarsi dieci anni suoi personaggi che, proprio come alcuni della sua vita. Schmitt è per primissima di noi spesso fanno, affrontano la realtà a cosa un uomo intelligente, testa bassa, senza illumi“Fa ridere, fa piangere, e conosce bene i segreti narla con la luce del cuodell’animo umano. In Oscar re. Non vi anticipo nienspinge al largo l’immagie la Dama in Rosa c’è den- nazione del lettore, che si t'altro sulla storia di Otro davvero tutto: fa ridere, ritrova a viaggiare con la scar, ma vi prometto che fa piangere, spinge al largo vi farà tremare. Questo fantasia” l’immaginazione del lettolibricino è di un' intellire, che proprio come Oscar si ritrova a genza e di una bellezza sconvolgenti, e viaggiare con la fantasia, destreggiandosi farebbe commuovere anche un sasso. fra le meraviglie della vita che potrebbe Tempo di lettura: mezz'ora. E vi posso essere, e i duri scogli della vita che è. Ma garantire che sarà una mezz’ora spesa Schmitt non è un pessimista, tutt’altro9; davvero bene. Carlo Simone


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PIXARMANIA Breve storia della Pixar Pixar nasce nel lontano '79 come Graphic Group, dipartimento grafico per lo sviluppo di software e hardware, all'interno della LucasFilm. Nello stesso anno Lucas, ideatore di Guerre Stellari, inizia una vivace collaborazione con Ed Catmull, basata sulla convinzione di entrambi che i computer fossero il futuro del cinema. Nell'’86 la Graphic Group cambia nome in Pixar, a seguito del suo acquisto da parte di Steve Jobs. Un volto fondamentale, prima all'interno della LucasFilm e poi nella Pixar, sarà John Lasseter (animatore, regista, sceneggiatore produttore cinematografico, ndr). Nel 2006 la Pixar è stata acquisita dalla Disney, con la quale aveva collaborato fino ad allora nella realizzazione di tutti i lungometraggi, per la modica cifra di 7,4 miliardi di dollari. Attualmente la Pixar ha sede a Emeryville, in California (USA) ed è una delle maggiori case di animazione mondiali. L'importanza dei cortometraggi e RenderMan Prima di ogni lungometraggio targato DisneyPixar, si assiste a spassosi cortometraggi, molti dei quali vincitori di Oscar, come Geri's Game o Pennuti Spennati. Ma perché non focalizzarsi solo sui lungometraggi? Inizialmente i corti erano mera sperimentazione di nuove tecniche informatiche e palestra per nuovi disegnatori e informatici. In principio, infatti, potevano essere animate solo semplici forme geometriche come cilindri, sfere, coni e cubi, che non permettevano di imprimere ai movimenti dei personaggi una fluidità tale da farli sembrare particolarmente realistici; ne è un chiaro esempio “The adventures of Andrè & Wally B.”, corto dell’'84 targato Lasseter, che permise agli sviluppatori della Pixar di imprimere le prime curvature nelle forme. Proprio grazie ai cortometraggi, la Pixar arrivò a sviluppare un software di randering che ancora oggi, insieme a Maya (altra tipologia similare di software informatici), è tra i più usati al mondo (es. Bussola d'Oro, Harry Potter, Transformers): il RenderMan. Alla base di questo processo, a cui si ricorre solo quando il film è quasi ultimato, c'è un principio creativo che pone in primo piano la storia e i suoi personaggi. RanderMan è un lungo processo in cui per renderizzare ogni fotogramma – 1/24 di 1 secondo di proiezioneci vogliono 6 ore circa. - (Cosa significa renderizzare? Scelgo la busta numero 3, non continuo e vi rimando a Wikipedia: generare un'immagine a partire da una descrizione matematica di una scena tridimensionale interpretata da algoritmi che definiscono il colore di ogni punto dell'immagine.)

Come si crea un film Pixar. Un film passa attraverso 4 passaggi: sviluppo (della trama), pre-produzione (creazione dell'ambientazione, modelli 3D), produzione (realizzazione vera e propria del film) e postproduzione (rendering,aggiunta di effetti speciali e musica). Meet the Media Guru. In generale l'evento rappresenta una di quelle tappe che il nerd medio non può perdersi, perchè consiste in un programma di incontri che, a partire dal 2005, hanno interessato protagonisti internazionali della cultura digitale al fine di creare un dibattito circa la nuove tecnologie e i loro risvolti in diversi settori. Quest'anno è stato il turno del rapporto tra animazione digitale /cinema, trattatosi il 21/10 al Teatro Dal Verme. L'incontro ha avuto come protagonista John Lasseter, che con la sua tipica camicia hawaiana è riuscito a fare pendere dalle sue labbra

l'intera sala, che era principalmente composta da studenti universitari interessati a lavorare nel campo di cui lui è un maestro indiscusso. Dopo una carrellata di tutti i cortometraggi realizzati da Pixar e Disney , compreso un lavoro realizzato da L. ai tempi dell'università dalle fosche atmosfere in stile Tim Burton, sono stati illustrati i metodi di lavoro del team Pixar. Pensate a un lavoro d'ufficio con operai chini sulle loro scrivanie e con le cornee bruciate a furia di stare di fronte a uno schermo. La Pixar è totalmente l'opposto, gli uffici sembrano concepiti da menti disturbate e/o come quelle di un bambino della materna, giochi ovunque, ingenti statue raffiguranti i personaggi dei film, dipinti e disegni su ogni parete. Due ore sono volate tra interviste video a disegnatori, addetti a luci e ombre, etc. Spezzoni di tutti i lungo/cortometraggi sono stati illustrati e commentati per giungere a una conclusione, la stessa che faceva da sottotesto al titolo dell'incontro : L'arte sfida la tec-

nologia e la tecnologia ispira l'arte”. Altro elemento chiave è stata l'analisi della componente ludico/cinefila. Tutti i film della Pixar sono saturi di citazioni che vanno dal cinema più classico (Sturges, Hitchcock, Kubrick) al panorama dell'animazione classica orientale; tra L. e Miyazaki vige infatti un rapporto di reciproca stima e gli omaggi a quest'ultimo sono particolarmente presenti in Up e Toy Story 3. L'incontro si è poi concluso sulla scia di due aforismi : “Be wrong as fast as you can”, come invito alla ricerca della perfezione, e “Scegli qualcosa che ti piace davvero fare e non lavorerai mai un giorno nella tua vita” (Confucio). Non poteva mancare l'omaggio all'amico defunto : “Don't just do something, make it insanely great” (S. Jobs) Pixar: 25 anni di animazione In allestimento al Padiglione d'Arte Contemporanea dal 23/11/11 al 14/2/12, la mostra si ripropone di analizzare, attraverso gli strumenti della pre-produzione dei film Pixar, il rapporto tra esseri umani e macchine e la tendenza a voler raggiungere l'emulazione perfetta del corpo umano. Ovviamente hanno avuto grande importanza non solo l'impiego di luci e ombre, fondamentale in particolar modo nella creazione dei set virtuali, ma anche i riferimenti alle diverse atmosfere in cui i film sono ambientati : dall'arte francese degli anni '20 in Ratatouille alla Saul Bass anni '50 negli Incredibili. Ma il cinema d'animazione, con i vari storyboards, modelli in 3D e disegni, è considerabile come una forma d’arte? «Molti non sanno che la maggior parte degli artisti che lavorano in Pixar utilizzano i mezzi propri dell’Arte – il disegno, i colori a tempera, i pastelli e le tecniche di scultura – come quelli dei digital media. La maggior parte delle loro opere prendono vita durante lo sviluppo di un progetto, mentre stiamo costruendo una storia o semplicemente mentre guardiamo un film. La ricchezza del patrimonio artistico che viene plasmato per ogni film raramente esce dai nostri studi, ma il prodotto finale – il lungometraggio – che raggiunge ogni parte del mondo, non sarebbe possibile senza questa fase artistica e creativa», ha detto Lasseter intervistato a riguardo. La mostra approda a Milano come anteprima europea e contiene oltre 500 opere, tra cui uno Zootropio di Toy Story e un ArtScape, installazione multimediale che sfrutta l’arte bidimensionale con un movimento tridimensionale simulato. Laura Vitale


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Bretelle e basso mancino

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na qualunque domenica sera, mentre voi eravate su facebook, a studiare intensamente per il fatidico lunedì, o a ingozzarvi per affogare il senso di colpa per aver passato tutto il giorno a poltrire nel cibo, noi, con molti altri carducciani, abbiamo assistito ad un evento unico. L’ultimo tour che toccò Milano risale a circa diciott’anni fa. Già dalle due del pomeriggio fiumi di gente si accalcavano di fronte all’entrata principale, che di lì a poco avrebbe ospitato una star mondiale dalla fama spropositata che ha fatto impazzire intere generazioni. Un’occasione imperdibile per tutti quelli che negli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di esserci. Due lunghissime file di persone aspettavano con ansia l’apertura dei cancelli. Il tempo sembrava non passare mai e per scaldare l’aria e la spessa coltre di nebbia si sentivano cori di ragazzi che cantavano per lui: Paul McCartney. All’apertura dei cancelli l’agitazione prese il sopravvento, pensare che ogni passo verso l’entrata era un passo verso il proprio idolo creava un clima di eccitazione nell’aria. Raggiunto il proprio posto, ormai il solo attimo da aspettare era la sua

entrata in scena. Improvvisamente la musica che fino a quel momento aveva intrattenuto la folla si fermò. Le luci si abbassarono, l’agitazione saliva. In quell’istante l’unico desiderio di tutti era che l’attesa si accorciasse, che lui salisse sul palco. Ed ecco finalmente, per la gioia di migliaia di persone, l’amato artista dei Beatles attraversare il palcoscenico con in mano il suo leggendario basso mancino. Vestito in stile Beatles con camicia e bretelle, nonostante la sua età, suonò con un entusiasmo smisurato. Un mare di urla lo prese d’assalto. Per iniziare bene la serata attaccò, insieme alla band che lo accompagnava, con la famosissima “Hello, Goodbye”. La musica riempiva l’atmosfera. Tutti cantavano sulle più celebri note con infinita partecipazione, anche quando le canzoni non erano conosciute da tutti come quelle dei

Fab Four. Il pubblico si scatenava anche sul repertorio degli Wings, gruppo formato da Paul negli anni ’70, dopo lo scioglimento dei Beatles. Uno dei momenti più entusiasmanti fu sulla canzone “Live and Let Die”, con un’esplosione di giochi pirotecnici e un susseguirsi di botti e lingue di fuoco che sembravano incendiare il palco. Tra i brani finali, “Hey Jude” è stato forse il pezzo che ha coinvolto di più il pubblico e che è durato di più in tutto il concerto. La moltitudine di fan, presa dal ritmo incalzante, si è messa a cantare in coro il ‘nanana’ finale, come per richiamare il musicista, che intanto aveva lasciato il palco. Sono stati dei minuti emozionanti, non si sentivano nient’altro che le voci di tutti i presenti rimbombare nel Forum. Per concludere la serata, Paul e la sfrenata band hanno eseguito come bis tre straordinarie canzoni: “Yesterday”, “Helter Skelter”, “Carry That Weight”. È stato bello vedere persone così diverse unite dalla musica. Beatrice Sacco e Chiara Checchetto

L’Indie che non conosci Peter Bjorn and John Questo mese il viaggio all’interno della musica indie comincia in terra scandinava, precisamente in Svezia. La band in questione, come facilmente intuibile, è composta da Peter Morén alla voce, chitarra e armonica, Björn Yttling al basso e alla pianola e John Eriksson alla batteria. Dopo che nel 2006 la rivista britannica NME pose il loro singolo Young Folks al secondo posto della classifica delle migliori canzoni dell’anno, i tre ragazzi di Stoccolma hanno pubblicato un nuovo album, “Gimme Some”. Durante gli undici brani appare evidente come il gruppo abbia deciso di distaccarsi dalle atmosfere più sperimentali, nonché meno riuscite a detta di molti, del precedente lavoro, per dar sfogo alle proprie chitarre, regalando un rock veloce, estremamente solare e con influenze pop che, senza troppo impegno, si fa piacere.

M83 E’ oramai il sesto album per questo affermato duo francese. Benchè il loro ultimo lavoro risalga al 2008, durante gli ultimi tre anni Nicolas Fromageau e Anthony Gonzalez non sono certamente rimasti con le mani in mano, ma hanno girato Europa e Stati Uniti tra stadi e festival, facendo da gruppo di spalla a gente come Killers, Kings of Leon, Depeche Mode. Nel loro “Hurry Up We're Dreaming” la carne al fuoco è tanta, dato che si contano ventitue brani per un totale di un’ora e dodici minuti di ascolto. Strutturato come i concept album di una volta (intro, parte centrale, outro) tutti i brani sono legati dal tema dei sogni, e di come essi mutano in base all’età del sognatore. Questa varietà tematica permette al duo di spaziare dall’elettronica ambient a quella più psichedelica, passando per il power pop e per lo shoegaze (genere musicale basato su un abuso di effetti della chitarra che arriva a creare un muro sonoro). Un album dunque molto corposo,

estremamente studiato e sudato, che farà la felicità di tutti coloro che ritengono che la musica elettronica non debba necessariamente essere ballat Lo Stato Sociale Finalmente anche il panorama musicale italiano si ritaglia uno spazio all’interno della rubrica. In rappresentanza di esso questo mese c’è una band di Bologna, Lo Stato Sociale. I tre ragazzi romagnoli avevano esordito l’anno scorso con l’Ep autoprodotto “Welfare Pop”, un misto tra electro, pop e indie, contenente quella perla di canzone “Magari non è gay ma è aperto” nella quale si ironizzava su chi fosse gay, e chi invece lo sembrasse. Quest’anno hanno pubblicato il secondo Ep, “Amore Ai Tempi Dell’Ikea”. I brani sono mediamente brevi, i testi non si distinguono per particolare creatività, e le armonie non sono complesse (eccezion fatta per Ikea, dove l’inserimento del sax si rivela una trovata quanto mai azzeccata), eppure la musica prende, e facilmente capiterà di trovarsi a cantare uno dei loro motivetti. Una band che forse potrà non piacere a tutti, ma che sicuramente merita di essere ascoltata. Luca Cassanego


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Florilegio Natalizio

ev’essere verso la fine d’ottobre, o l’inizio di novembre, fa un freddo biscio, fuori e talvolta anche dentro, si fa il cambio dell’armadio e scorta di Ciobar, i tuoi amici riprendono a presentarsi a casa tua con la scusa del “passavo di qua, è tanto che non ci vediamo” quando in realtà stanno solo cercando di sopravvivere ai quattro gradi centigradi dell’esterno. Eppure tutto questo significa che l’inverno è alle porte, gli zampognari stanno già suonando quelle cornamuse tarocche e la nonna sta già pensando a cosa cucinare il giorno di Natale, in cui orde di parenti affamati reclameranno il loro cenone -per la nonna è sempre un piacere, tranquilli- e il nonno piazzerà i nipotini davanti alla tivù perché non disturbino il processo creativo al momento di addobbare l’albero. Come ogni anno ci troviamo finalmente in un allegro periodo, da molti chiamato natalizio, da alcuni ritenuto mirabolante, e per i più, tempo di stress fino alle allucinazioni. Qualche inguaribile romantico pensa ancora alle caldarroste, alle luci, alle decorazioni, agli alberi e ai fenomenali presepi viventi. In realtà i presepi viventi sono la maggiore causa di disputa (saltuariamente risolta con coltelli) all’interno di oratori e simpatiche organizzazioni clericali: quale sano di mente vorrebbe mai passare tutta la serata ad alitare su un piccolo pargolo con un travestimento da Sacro Bue? Ma lasciamo per un momento i buoi, gli asini e le pecorelle per preoccuparci del lato umano del Natale. Analizzatevi interiormente e quando avrete ripulito il vostro karma capirete cosa per voi significa davvero questa festività. Un valido motivo per restarsene in vacanza? E’ un giorno santo? Un’occasione per ingozzarsi a sbafo? Il pretesto per presentarsi dai parenti più improbabili pretendendo un regalo ricambiato dal nostro enorme affetto e dall’eterna nostra riconoscenza? Anche tutte le cose insieme magari, perché no, in fondo è a questo che serve il legame di sangue. Anche gli antichi Greci (per noi che ce ne intendiamo) la ξενία prevedeva uno scambio di regali per riconoscere il proprio ospite, e questo garantiva di avere sempre un alleato sicuro. Ricordatelo quindi ai vostri genitori: onorate le degne tradizioni degli Antichi (fateglielo anche voi però ‘sto regalo).

Si parlava di stress natalizio: non può essere dato che dall’idea di dover uscire (sempre al freddo naturalmente), girovagare per ore nei negozi più vari, e se si è fortunati capitare nel posto giusto e ricevere l’illuminazione divina che vi porta davanti al regalo perfetto. In caso contrario si ricorrerà al solito ripiego, quale il libro di cucina alla zia, una copia a caso (ma da collezione!) del fumetto preferito di papà e qualcosa di vagamente inutile ai nonni. Fratelli e sorelle sono casi particolari: nel regalo c’è anche il personale interesse, infatti, se il sangue non mente, i beni di tuo fratello sono i tuoi, e questo vale anche per i regali. Un buon metodo per comprarsi qualcosa insomma. Quest’-

anno potrete finalmente regalare Relax ai vostri amici e parenti: vi basterà spiegare loro che il regalo non glielo fate proprio. In questo modo non dovranno sentirsi obbligati a ricambiare e gli risparmierete la fatica e lo stress che gli farebbero probabilmente spuntare un herpes. E per gli amici che insistono a mantenere viva la tradizione del regalo niente di meglio che qualcosa fatto da voi, in un momento di ispirazione tra una cioccolata calda con la panna e l’allestimento del presepe. In tal caso dei biscotti andranno benissimo. Si potrebbe parlare per ore delle possibilità di regalo che sono pressoché infinite: ci sono regali seri e pensati, regali utili, regali-scherzo, regali sorprendenti. La fine dell’autunno è anche un periodo denso di occasioni più o meno culturali: pare che mostre, concerti e serate impedibili si concentrino tra la fine di Novembre e l’inizio di Gennaio. Ci saranno talmente tante cose a cui pensare che nell’accompagnare diligentemente una serie infinita

di ragazze sfrenate alla Fiera dell’Artigianato (un locus tutt’altro che amoenus) ci si dimenticherà di impegni altresì importanti. Un altro dilemma natalizio riguarda senz’altro il come riuscire ad apparire un ragazzo modello e meritevole nel momento in cui ti trovi a tavola con decine di parenti che chiederanno immancabilmente come sta andando a scuola. A meno che tu non sia davvero il paradigma di ragazzo irreprensibile, sarà meglio adottare qualche strategia: innanzitutto evitare di parlare del fatto che non ce ne frega assolutamente di stare a tavola con le prozie, né ostentare l’uso smodato del cellulare per organizzare una festa di capodanno a base di alcol e incontrollato casino. Ricordarsi anche che alle feste con i parenti l’abito il monaco lo fa, eccome se lo fa. Per il colloquio con gli zii più simpatici è meglio prepararsi un largo repertorio di battute e risposte sarcastiche per distrarli dai loro intenti indagatori. Andare in visita dai parenti vi aiuterà sicuramente a diventare ministri degli esteri: niente di migliore infatti esiste per esercitare la nostra arte della diplomazia. Ricorderemo senz’altro qualche momento di imbarazzato silenzio quando si sfiora innocentemente, tocca casualmente, calpesta prepotentemente o si violenta incontrollatamente un tasto dolente. Evitare quindi di nominare la dieta della zia in tempi di cotechino, il giovane marito della figlia che ha tolto il disturbo e l’arrosto miseramente bruciato: in fondo sono tutti trascurabili inconvenienti! Sicuramente la nonna non ricorderà molto, ma ciò che le tornerà in mente non verrà trovato piacevole da tutti; è un’occasione come un’altra per imparare finalmente chi sia un genero, chi un cognato e chi la misteriosa nuora. La suocera invece lo sanno tutti chi è. Chi non ha dei cugini della provincia che spuntano solo per il sacrosanto Natale? Con loro probabilmente ogni singola frase sarà una figura barbina: si consiglia un ripasso delle dinamiche familiari prima che il cenone abbia e inizio e, in seguito, tragica fine. Un ultimo riguardo è dedicato alla questione che da secoli ormai tormenta ognuno di noi: è meglio il pandoro o il panettone? Anna Quattrocchi


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DIFESA IN ROSA

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a città di Milano detiene il record nazionale di violenze sessuali subite dalle donne. Secondo le statistiche, nella capitale economica del paese più di una donna al giorno viene violentata. Il comune di Milano, presi in esame questi dati spaventosi, ha dato inizio nel 2007 ad una serie di incontri tutti al femminile per preparare le donne a prevenire ma soprattutto ad affrontare le situazioni di pericolo. Quest’iniziativa si è subito rivelata vincente, in quanto in 13 edizioni hanno aderito circa 1.300 donne. Si è riscontrato che le violenze sessuali di strada sono diminuite dell’80% in quattro anni: dato che potrebbe in parte dipendere dai risultati del corso. Visto l’alto tasso di partecipazione, il comune ha deciso di riproporre questo ciclo di sei edizioni, che sono partite in aprile e termineranno nel maggio dell’anno entrante.

Il corso si sviluppa attorno a due livelli di interesse, la preparazione fisica e la preparazione tecnica. La fase di preparazione fisica è pensata per migliorare le capacità motorie delle partecipanti, mentre la fase di preparazione tecnica, tenuta da esperti di arti marziali, intende insegnare alle donne i modi per contrastare un eventuale aggressore utilizzando esclusivamente tecniche di difesa. L’iniziativa è totalmente gratuita ed è costituita da un totale di 9 incontri che si svolgono solitamente due volte a settimana nella fascia oraria tra le 18.30 e le 20.00 presso i parchi Sempione e Montanelli nei mesi estivi, e presso la palestra di via San Marco 2 durante i mesi invernali.

Inoltre quest’anno il comune di Milano ha introdotto un nuovo corso, pensato per gli adolescenti, che presenta diverse modalità di approccio alle tecniche di difesa personale, più adatte alle partecipanti minorenni. Nonostante ciò questa bellissima iniziativa non viene pubblicizzata a dovere; in molte scuole dell’hinterland milanese (ma anche nella nostra) questo progetto non è stato nemmeno nominato, e di conseguenza la maggior parte dei giovani non ne è al corrente. Questo articolo vuole essere un modo per iniziare a promuovere questa importante iniziativa del comune nella nostra scuola, e per contribuire a diffondere un atteggiamento di rispetto e salvaguardia nei confronti della donna. Martina Calcaterra

Babbo Natale

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li anni passano, le generazioni si susseguono e tuttavia il mito, se così si vuole chiamare, di Babbo Natale persiste. Ci sono diverse tradizioni sulla storia e sulla nascita del personaggio natalizio più amato dai bambini (e non..): in Islanda addirittura si stima l’esistenza di 13 Babbo Natale, perché si risale alla tradizione dei 13 folletti dei doni di natale, che portano 13 regali a tutti i bambini che durante l’anno si sono comportati bene. Tuttavia il primo Babbo Natale per eccellenza è San Nicola, conosciuto principalmente in Europa: si racconta che il 6 Dicembre trasportasse i doni per i bambini buoni, in groppa ad un asino bianco o ad un cavallo e spesso accompagnato dal suo fidato gnomo ” Peter Il Nero”, che si occupava di punire i bambini che si erano comportati male. Altro episodio di riferimento, risale al periodo di fondazione dell’odierna New York, l’allora Nuova Amsterdam, quando appunto gli immi-

grati Olandesi si spostarono in e portarono con loro anche la loro tradizione, che comprendeva quella di san Nicola, nome che in olandese era Sinter Klass e che poi venne ripreso e trasformato dagli inglesi come Santa Claus. La descri-

ra assai massiccia. Fu per la prima volta rappresentato con un abito rosso nelle cartoline di auguri natalizie del 1885, e questa immagine fu ben diffusa tramite la pubblicità della Coca-Cola realizzata da Haddon Sundblom nel 1931. Varie e diverse sono le leggende legate al paciocco signore con la barba lunga e la pancia, ad esempio infatti gli Europei collocano la sua dimora (fabbrica di giocattoli e dormitori per gli elfi inclusi) in Lapponia, invece altre tradizioni - come quella degli Stati Uniti - collocano il suo luogo di residenza in Alaska (Polo nord) . Ogni anno tutti i bambini del mondo desiderano vedere Babbo Natale e utilizzano gli stratagemmi più impensabili per arrivare al loro scopo; penso che credere in Babbo Natale non sia solo un desiderio dei bambini ma anche degli adulti e dei ragazzi perché dona al zione fisica di Santa Claus si deve a Cle- Natale quell’atmosfera di magia e fantasia ment Clarke Moore, che nel Dicembre1- che lo rende così piacevole. 823 pubblicò la poesia “The night befoMaria Calvano re Christmas”, dove delineava la sua barba lunga e bianca e la sua corporatu-


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CPS - Consulta Provinciale degli Studenti (o Carciofi Peperoni e Sarde )

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n nostro collega (redattore de “Il Caffè Macchiato”, Liceo Leonardo) e neoeletto Presidente della Consulta Provinciale degli Studenti, Eugenio Amato, ha accolto volentieri la nostra proposta di scrivere per “L’Oblò sul Cortile” una recensione sulle prime mosse e i primi propositi dell’organo che riunisce i rappresentanti degli studenti dell’intera Provincia di Milano. Ecco quindi le impressioni e la presentazione di Eugenio, che sembra nutrire nei confronti del “veicolo”, di cui ha assunto con impegno la guida, una forte speranza e un interesse promettente. Ringraziandolo per il suo contributo gli auguro un prospero mandato! “Non sapevo che Lampugnano fosse un gulag”. Defra è sull’entrata del Gentileschi, oltre la densa nebbia spaesante fuori dalla metropolitana; una lunga fila dietro alla cattedra nell’atrio per farsi registrare, il foglio di nomina, non lo abbiamo, non importa; dentro, la grande aula, un po’ sgangherata, ma pregna di quell’aura misteriosa, non sai ancora se benevola o contraria: è il respiro dell’istituzione. Organizzazioni rapidissime, lei si candida al sociale, lui consigliere; ne parlava così male, chi c’era stato, ma a me non sembra: sarà il periodo politico, sarà la reputazione della vecchia assemblea, ma qui non c’è nessuno con l’aria di non voler fare niente. Le votazioni, lo scrutinio, voto per voto, la voce tonante del segretario Chiapparino che enuncia i nomi, tutti quanti intorno, trepidanti, le mani cercano avambracci da stringere, e tutti che dicono “va beh, è solo un gioco”, con gli occhi sbarrati.

Chiara Compagnoni

l’insieme di persone diventa gruppo, ognuno sceglie una delle tre grandi commissioni –Scuola, Sociale, Arte e Cultura- e inizia l’avventura.

pomeriggio, seduti in cinque sui due tavoli all’ingresso dell’aula magna del Carducci, a discutere delle proposte, dei fondi, per arrivare alle scuole private, alla diffeMolti progetti sono stati proposti; l’arte sta renza e al concetto stesso di scuola pubnel trasformarli, come piccoli demiurghi, da blica, di diritto all’istruzione, di stato e, in idee astratte, modelli ante rem, a forme in fondo, di democrazia. re, cose fattibili, e non è semplice, non ci La Consulta è sì un organo rappresentatisono ancora arrivati soldi, la prof referente vo, è motore di organizzazione, come sostiene di dover piangere in turco per pre- parlamento studentesco, è anello adanotare il Gentileschi, comunicare tra cento mantino tra studenti e uffici scolastici, persone è un casino, e ci si perde in conti- che non sono tribunali kafkiani, come può nui divagare. sembrare, ma persone, alcune estremaMa esserci dentro è un esercizio mentale mente aperte e incoraggianti, altre meformidabile, ti fa conoscere i meccanismi no, ma tutte disponibili e presenti. Sodell’amministrazione delle scuole, permette prattuto però, la Consulta è un incredibile di ribellarsi, insieme ai rappresentanti delle veicolo del pensiero, del confronto, è il altre consulte lombarde, quando al coordi- nodo che intreccia tutte le scuole, è la namento di novembre ti mostrano un video strada della consapevolezza di apparteneterrificante di studenti imbambolati di fron- re a un tutto, e lo strumento per partecite ad iPad, con la prof che non li guarda parvi. Chi la presiede non è che il servitoneanche in faccia, e di dire che noi studenti re di ogni studente. Perciò, mi inchino a Finito tutto la tensione si scioglie, le mani si non vogliamo quei cosi, ma professori capa- voi. Buona giornata. stringono a vicenda, la serietà che aveva ci, trattati con dignità e non sottopagati. Eugenio Amato (Presidente CPS) aperto la disputa ne accompagna la fine; Momenti emozionanti. Come in un sabato

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