L'OblòSulCortile_2013bDicembre

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L’editoriale

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di Alessandra Venezia

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Si può tenere la morte in bocca in un secondo e subito dopo trovarsi seduti davanti ad una scrivania a scriverla, per liberarsene.” È di questo che voglio parlarvi oggi, Carducciani. Di disgrazia e di salvezza. Soprattutto di salvezza. Non ho intenzione di dettarvi una definizione unica di salvezza e neppure di imporvi la mia. Posso però darvi un consiglio, un invito non obbligatorio, così che voi siate liberi di seguirlo o meno. Un paio di settimane fa, al teatro Elfo Puccini, ho avuto l’occasione di seguire la presentazione di “Caduto fuori dal tempo”, l’ultimo libro di David Grossman, noto scrittore contemporaneo israeliano. Ecco, ad un certo punto David ha detto una cosa che mi è frullata in testa per diverse ore nei giorni successivi: “Ho bisogno di parole perché sono un uomo e questo è un buon modo per riuscire a descrivere la realtà.” Mi sono venuti in mente i grandi scrittori della storia: ho pensato a Virgilio, Dante, Shakespeare, Hugo, Tolstoj, Pirandello, Proust e… voi, gli studenti del Liceo classico Giosuè Carducci. Scrivete! Scrivete tanto e scrivete cose belle,

raccontate e raccontatevi, inventate! Vedrete com’è bella la sensazione che proverete subito dopo aver vomitato tutte le vostre parole. È una sensazione di libertà. Certo scrivere non risolve ogni problema, però vi assicuro che allevia il peso. Non vi fidate? Allora provateci subito. Su! Appoggiate la copia del giornalino che tenete fra le mani, prendete un foglio di carta, anche piccolo e stropicciato, non importa, avrà subito un’aria vissuta. E non scuotete la testa! Bravi. Ora pensate ad una cosa brutta che vi è successa oggi e scrivetela, di getto, alla forma ci penserete poi. Io vi aspetto qui. Bene. Non fingete che non sia servito a nulla, non fate gli orgogliosi. Sono sicura al cento per cento che il mio sia un ottimo consiglio. Se non vi sembra di aver risolto, riprovateci stasera, magari da soli, vedrete che prima o poi funzionerà. Se vi arrendete venite sconfitti e sopraffatti dalla disgrazia. Grossman è un esempio di letteratura alta, ma ciascuno di voi, di noi, può utilizzare la scrittura, non per evadere dalla realtà, ma come strumento per la sua interpretazione. Diamoci da fare.

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sommario Per sempre addio, gazzella date al celeste... ... quel che e’ del celeste sa shooting

7 sa shooting 8

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il mio amico arnold

il mio amico arnold

racolo

non aspettatevi un mi

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11 il banco alimentare 12 cdi: inizia il cambiamento

13 ichino 14 cinema 15 cinema

16 cinema: sex blood & tarantino 17 cinema: sex blood & tarantino

18 bibliobussola 19 il romanzo giall o non e’ 20

quattro stracci

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audio-philes

22 la figlia di parsifal 23

sifal

la figlia di par

24 Il gallo che salvò roma #2 25 rappus romanus metropolitanus

La redazione dell’oblò

redattori | Cleo Bissong 1B, Francesco Bonzanino 4E, Martina Brandi 4E, Gaia

Cantone 1D, Alessandra Ceraudo 4B, Chiara Conselvan 4E, Francesca Grassi 1D, Edo Mazzi 4E, Carlo Polvara 4B, Federico Regonesi 5A, Beatrice Sacco 2D, Claudia Sangalli 4D, Carlo Simone 5D, Alessandra Venezia 3B, Dario Zaramella 5A. vignettisti | Silena Bertoncelli 4C, Francesca Bonini 5A, Federico Regonesi 5A, David Thiam 3D.

DIRETTRICE | Eleonora Sacco 5F Capo redattore e impaginatore| Jacopo Malatesta 4C Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Anna De Ponti 5F, Susanna Fiori 5A, Riccardo Galbiati 5H,

Lorenzo Giudici 5A, Morgana Grancia 5E, Pietro Klausner 4E, Letizia Latocca 5G, Alessandro Palazzo 5D, Simone Possenti 4A, Silvia Santarelli 5A, Maria Tornielli 4C. 2

L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° II

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I BAGNI! la bacheca Y ONLY FRIEND...

M THIS IS THE END,


PER SEMPRE ADDIO, gazzella di Eleonora Sacco

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asciarla così mi dispiaceva: sì, la solita incompatibilità di carattere, interessi diversi, ma mi ci ero affezionata, dopo così tanto tempo. Avevo pensato di darle un’altra possibilità. Le avevo detto che ci saremmo potute vedere, lei voleva al mattino, alle nove!, a Porta Venezia. E va bene. Arrivai come al solito in ritardo, lei non c’era. Speravo mi aspettasse, e invece no. Cominciava male: forse ero stata fin troppo buona... In fondo a Corso Venezia vedevo del fumo rosso. Che fosse lei, con qualche strano scherzo? Un nuovo messaggio: “Sono in piazza Cinque Giornate!”. Monta in bici. Raggiungila, la maledetta. Che scocciatura. Giocava a farsi inseguire? Non c’era. “Sono già in Cairoli!”. Al diavolo! Pedala fin là. Era il nostro (ultimo) appuntamento, non una caccia al tesoro! Al suo posto mi trovai un gruppetto di ragazzini accampati nelle aiuole con striscioni sbrodolati. Avevano appiattito al suolo le recinzioni e preparato il Cavallo per un toga party. Tra un tiro di fumo e l’altro urlavano patetici insulti a un certo Monti: in effetti Vincenzo Monti non è mai piaciuto neanche a me. Nelle notti di studio gli ho dato del logorroico, del ridondante esaltato, dell’egocentrico mitomane, ma mai del pezzo di merda. Comunque lei non la vedevo, soffocavo nel fumo, volevo uscire dalla piazza ma non mi facevano passare: mi dicevano di rimanere nel corteo. L’avessi visto, ci sarei anche rimasta. C’era anche la polizia, attrezzata da Terza Guerra Mondiale: addirittura con gli elicotteri... Chiesi loro informazioni; domandai se avevano visto dove si era diretta. In realtà furono gentili: “Giù di là, da Cusani fino a via dell’Orso!”. Mi incamminai, affiancata da qualche figurino devastato e imbacuccato in una kefiah decisamente fuori moda (anche se in ambito fashion non dovrei esprimermi). Ma di

vignetta di Francesca Bonini lei non c’era traccia. Ricambiai il saluto ai megafoni che mi urlavano “bella, ciao!” e chiesi a due (sì, in effetti erano un po’ tonti) perché fossero lì: seguivano i loro amici. Ma allora era una festa! Altri, di gran lunga più svegli, erano un po’ sconvolti ma decisamente allegri e simpatici: protestavano contro l’austerità. Avevano ragione, quest’austerità non piaceva neanche a me. Più avanti invece ce n’erano quattro più nervosetti: spaccavano tutto, rompevano i vetri dei negozi, imbrattavano i muri, lanciavano botti e fumogeni. Assurdo: e io che pensavo che i derby si facessero solo di sera (lo ammetto, non ci ho mai capito molto di calcio). Superate pure le ragazze che vendevano birre e focaccine, trovai i milanobene, che invece che andare a piedi si erano presi il camion e sparavano i Modena City Ramblers a tutto volume con i pugni alzati. I soliti radical chic, per giunta sguaiatissimi. Qualche canzone però la sapevo pure io. Chiesi anche a tre ragazze che volantinavano per qualche accademia di arti marziali o di fitness, lotta di qui o spartaco di là, non ricordo bene: mi indicarono la strada e proseguii. Una compagine di poliziotti si scontrava con degli invasati che si erano fatti le corazze di libri (Ulisse di Joyce, che coraggio!); tedeschi fulminati in un revival medievale, o roba del genere. Recitavano bene, però: sembrava vero. Alla fine mi dissero di andare in Duomo, perché l’avevano vista dirigersi lì (anche se ormai non ci speravo più). La cercavo tra musica, urla, bandiere e striscioni ancora contro Monti (stucchevole, ok), il Profumo (troppo è nauseabondo, è vero) e un certo dott. Aprea - che effettivamente incuteva un bel timore anche a me. Di lei non c’era traccia, ero stravolta e non avevo più voglia di perdere

tempo. In più mi stavo saltando scuola per i capricci di un’isterica che voleva a tutti i costi uscire con me al mattino. Questa sua messinscena patetica mi chiarì le idee: altro che seconda chance, tra di noi finiva lì! Non era carino, avrei voluto dirglielo di persona, ma... le scrissi l’ultimo sms. “Ti ho cercata tutta la mattina ma continuavi a scappare: se pensavo che tra di noi le cose potessero migliorare, mi sbagliavo di grosso. Ho capito che non ti amo più e che non voglio più stare con te. Rimaniamo amiche, però, e ricordiamo con un sorriso i momenti felici passati insieme. Ciao.” Rileggo. Dai, va bene. Invia a “Manifestazione”. Ps. La manifestazione del 14 Novembre 2012 mi ha lasciata profondamente amareggiata. Mi hanno delusa le modalità vergognose di protesta e la violenza ingiustificabile, da entrambe le parti, a cose e persone. L’inciviltà di pochi ha rovinato tutta la protesta. La critica è al modo, non al contenuto.

Dicembre 2012 | L'Oblo' sul Cortile

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Attualità/Italia

date al celeste quel che e’ del celeste di Carlo Polvara

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l centrodestra italiano dispone da sempre di una singolare proprietà: nel momento in cui ci si illude che abbia raggiunto l’apice nell’ambito delle dichiarazioni clamorose, si è inevitabilmente smentiti. Può quindi accadere che un importantissimo esponente di questo schieramento - assediato e travolto dagli attacchi e dalle critiche per il coinvolgimento di un suo fedelissimo in un grave processo penale - candidamente dichiari: “Anche Gesù ha sbagliato a scegliersi dei collaboratori”. Direi che come apologia non sia un granché e penso che in tribunale funzioni poco. Comunque, il soggetto non è l’attuale e indiscusso primatista nel campo, l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ma un outsider: il presidente della regione Lombardia, il ciellino Roberto Formigoni. Membro attivo del movimento fin dagli anni ’70, Roberto Formigoni è stato “governatore” della Regione Lombardia dal 1995 al 2012, quando ad ottobre è stato costretto a dimettersi. Analizzare i diciassette anni di presidenza del Celeste in un unico articolo necessariamente condurrebbe a banalizzazioni riduttive: già tracciare il 4

L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° II

quadro di profondissima crisi della IV Giunta Formigoni permette di trarre conclusioni assai interessanti. Cercherò a questo punto di sintetizzare le tre principali questioni che vorrei sottolinearvi nell’analisi di questa chiusura di ciclo di potere, quindi proverò a dare un giudizio strettamente personale. In primo luogo: perché la Giunta Formigoni è caduta? Formigoni è sempre stato eletto con maggioranze elettorali schiaccianti: non era un presidente a cui siamo stati condannati da giochi di potere, ma era stato scelto direttamente da una gran parte dei cittadini lombardi. Poteva quindi contare, almeno in teoria, su una maggioranza stabile e salda in Consiglio Regionale, e su una giunta compatta attorno al suo presidente. Dovremmo dire “avrebbe potuto contare” perché nell’ arco di due anni il numero di indagati in Giunta e Consiglio era sufficiente per formare una squadra di calcio e - visti alcuni recentissimi scandali - continua a crescere. Non voglio peccare di “giustizialismo”: sappiamo perfettamente che si è giuridicamente innocenti fino alla condanna definitiva.

Credevo però che la dignità di un politico unita al suo senso del ridicolo bastasse da sola a suggerire la remota eventualità di dimettersi prima di avere per compagine di governo un’arca di Noè dove i singoli membri si distinguono principalmente per qualità e quantità di “scelleratezze” che sono stati accusati di aver commesso con denaro proprio ed altrui. Una breve carrellata tra gli applausi del pubblico e una simpatica marcetta: l’assessore al Turismo Pier Gianni Prosperini, Lega, (17-12-2009 – giunta precedente) condannato per corruzione, turbativa d’asta e truffa; Franco Nicoli Cristiani, PDL, vice-presidente del consiglio regionale, arrestato per traffico illecito di rifiuti tossici (3011-2011); Massimo Ponzoni, PDL, consigliere, per corruzione, concussione, finanziamento illecito e bancarotta fraudolenta (16-1-2012); Gianluca Rinaldin, consigliere, condannato per corruzione e truffa (10-2012); Angelo Gianmario, consigliere, indagato per corruzione e finanziamento illecito (12-3-2012); Romano La Russa, consigliere, indagato per finanziamento illecito durante la gestione dell’ALER


(19-3-2012); la ormai celeberrima Nicole Minetti, PDL, che per l’accusa sembra essere più versata nel lenocinio che nella politica (10-2012); Daniele Belotti, Lega, indagato per concorso in associazione a delinquere come capo ultras dell’Atalanta; Monica Rizzi, Lega, Sport e Giovani, per induzione al falso, (4-2012), poi assolta; Renzo Bossi, alias il Trota, Lega, per appropriazione indebita; Davide Boni, presidente del consiglio regionale, per corruzione (16-3-2012) ; Marcello Raimondi, PDL, all’ambiente, per corruzione (18-10.2012) e Massimo Buscemi, per uso illecito di denaro pubblico (10-10-2012). Infine il migliore della compagnia, Domenico Zambetti (1010-2012), eletto, secondo la Procura, grazie alla gentile collaborazione ben remunerata della ‘ndrangheta. Aggiungiamo il consigliere regionale e sconfitto candidato alla presidenza del PD Filippo Penati, indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito, poi espulso dal partito. Grazie a tutti i gentili spettatori, e arrivederci! Un momento, non manca qualcuno? Certo, proprio lui, il Presidente: è accusato di aver ricevuto in dieci anni 7 milioni di euro in vacanze, barche, ville in Sardegna dal faccendiere Pierangelo Dacco’ in cambio di 200 milioni di euro di denaro pubblico fatto pervenire tramite una quindicina di delibere favorevoli alla Fondazione di sanità privata Maugeri. Appare inoltre assai improbabile che il Celeste non si accorgesse di tutto questo sommovimento che lo circondava. Quando qualcuno vi verrà a dire che Formigoni, descritto come una novella Sant’Agnese, vergine e martire, abbia resistito fino all’ultimo agli attacchi delle forze avverse per poi dimettersi spontaneamente per amore delle istituzioni, potrete guardarlo e fargli notare che è rimasto incrostato sulla poltrona rilasciando dichiarazioni e minacce di querela in maniera inconsulta e compulsiva fino al perdere anche l’ultimo straccio di credibilità politica. Per questo Formigoni si

è dimesso: perché non poteva più andare avanti con la credibilità degli organi regionali tanto deteriorata. Veniamo alla Sanità Lombarda, la “migliore d’ Europa”. E’ uno dei punti sbandierati come eccellenza. Il modello è quello di un sistema fondato sulla libera concorrenza tra pubblico e privato, che enfatizza la libertà del cittadino nella scelta di cura, fingendo di dimenticare che, se la sanità pubblica ha come compito la tutela della salute di ogni cittadino, la sanità privata persegue, da buona azienda, il proprio profitto: per conseguirlo si sono spesso allegramente “gonfiati “ i costi per aumentare i rimborsi pubblici, anche con prestazioni inutili, a volte dannose. Lo spazio a disposizione è troppo breve per affrontare altre annose questioni, come il San Raffaele, la Santa Rita, il tasso di medici obiettori per la Legge 194 (64%) e tanto altro. E’inoltre proprio in Sanità che il nepotismo formigoniano ha dato il meglio di sé, forse seconda soltanto alla nomina del proprio cognato come assessore alla Famiglia (forse non era chiaro che era l’assessorato ALLA Famiglia, non DELLA Famiglia). Abbiamo la bellezza di tredici Direttori Generali di chiara

appartenenza a CL ed uno solo non del centro destra: forse erano solo un gruppo di amici che condividono un’esperienza, cosa che sembra abbastanza comune in questo periodo. Il dubbio, comunque, rimane. Per quanto riguarda l’istruzione, La Regione ha istituito il buono scuola, che altro non è che una regalia agli utenti delle instituti privati. Per il pubblico c’è il Sostegno al Reddito. Ambedue dovrebbero fornire un aiuto economico agli studenti che hanno un ISEE (indice socio-economico che considera reddito, beni mobili e immobili e composizione della famiglia) più basso, ma il buono, nella forma di “sostegno alla libertà di scelta”, è erogato a famiglie con un tetto di ISEE doppio rispetto a quello per le scuole pubbliche. Sembra proprio uno strumento per aggirare l’ art. 33 della Costituzione, che prevede che possano esistere scuole private purché non comportino oneri a carico dello Stato. Credo di aver delineato un quadro abbastanza evocativo. La mia personale visione del Presidente e sul suo modus operandi è quella di un uomo che ha millantato la primogenitura per ben più di un piatto di lenticchie. Dal canto mio non riesco ad apprezzare una figura politica che ha usato le più alte parole e ciò che di più serio può esserci nella vita di molti di noi per pulire e rendere presentabili i soliti trenta denari.

Dicembre 2012 | L'Oblo' sul Cortile

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Attualità/Esteri

RITORNO ALL’APARTHEID? di Simone Possenti

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dipendenti neri della miniera di platino protestano nella città sudafricana di Marikana, a 70 km da Johannesburg, per ottenere degli aumenti salariali, e in tutta risposta la polizia, ancora in prevalenza bianca, apre il fuoco sulla folla. Nessuno si sarebbe stupito se questo fosse avvenuto anche solo vent’anni fa, quando il regime razzista dell’Apartheid era al governo in Sudafrica; peccato che sia successo quest’anno, poco più di tre mesi fa. L’attenzione che è stata dedicata alla vicenda è stata vergognosamente minima, soprattutto considerando i precedenti del Sudafrica. L’episodio ci deve sorprendere: dal 1990 - anno della liberazione di Nelson Mandela - ad oggi, il Paese africano ha svolto incredibili passi avanti in ogni settore possibile, dai diritti umani all’attiva cooperazione internazionale, fondando addirittura l’African Union, nel 2002, ed entrando a far parte dei G20. Eppure non è nemmeno possibile parlare di una vicenda isolata. Ma cerchiamo di capire cos’è successo: secondo la testimonianza di un cameraman la sparatoria è stata 6

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innescata dall’assalto dei minatori, scesi da una formazione rocciosa accanto alla miniera di Marikana, contro i poliziotti, che stavano ergendo delle barriere con il filo spinato. La polizia era già intervenuta con proiettili di gomma e lacrimogeni contro le migliaia di minatori in protesta, molti dei quali armati di bastoni e machete. La miniera Marikana della società britannica Lonmin, terzo produttore mondiale di platino, minaccia il licenziamento di tremila lavoratori: la condizione è interrompere lo sciopero. Il sindacato AMCU chiede per i minatori il triplo rispetto al salario attuale, pari a circa 400 € al mese. Il 16 agosto la società aveva fatto sapere in una nota che i minatori che non si fossero presentati al lavoro sarebbero stati licenziati. “I dipendenti in sciopero si legge nel comunicato - sono armati e non lavorano: è illegale”. Intanto, agenti di polizia hanno detto che dopo la rottura delle trattative con l’AMCU non resta altra opzione che l’uso della forza. Un leader dell’AMCU al megafono ha urlato: “Non ci muoviamo. Se necessario, siamo pronti a morire!”. I produttori di platino lamentano che il calo del prezzo del prezioso me-

tallo - di cui il Sudafrica ospita l’80% delle riserve mondiali - e la crescita del costo del lavoro li stanno portando al fallimento. Nel corso della settimana, prima che contro i poliziotti, gli addetti alle trivelle hanno rivolto le armi l’uno contro l’altro, con un bilancio di 10 morti, per un dissidio fra il tradizionale sindacato NUM, legato a doppio filo con l’ANC, il partito di Mandela, e il nuovo, arrabbiato AMCU, i cui militanti, per lo più poverissimi e analfabeti, in questi giorni hanno ripetuto ai megafoni di essere «pronti a morire» pur di non recedere dalle loro richieste. Alla fine il tragico bilancio di 44 morti e 78 feriti è stato confermato dalla polizia*, e il ricordo degli orrori dell’Apartheid è stato il collegamento più immediato. «I poliziotti hanno dovuto usare la forza per difendersi dal gruppo che li attaccava» ha dichiarato in conferenza stampa il capo della polizia, Riaf Phiyega. Secondo il ministero della polizia, la sparatoria è stata breve ma intensa. Le forze dell’ordine, ha spiegato il portavoce del ministero, Zweli Mnisi, sembrano aver risposto a colpi d’arma


da fuoco. «Ciò che è accaduto non sarebbe dovuto accadere in democrazia, dove manifestare è un diritto legale e costituzionale riconosciuto a ciascun cittadino», ha ammesso il portavoce, secondo il quale, tuttavia, «considerando la volatilità della situazione, la polizia ha fatto del suo meglio». «È ovvio che deploriamo profondamente queste morti», ha detto il presidente della britannica Lonmin, Rober Phillimore. «Ma qui si tratta chiaramente di un problema di ordine pubblico piuttosto che di un conflitto sociale», ha aggiunto. Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha annunciato la creazione di una Commissione d’inchiesta per fare luce sulla sparatoria, dicendosi «scioccato e costernato». Il 7 novembre si è ufficialmente aperta la Commissione, dimostrandosi la più importante del post-apartheid, composta da tre giudici e capeggiata da Ian Farlam, ex togato della Suprema Corte d’Appello, ed è stata incaricata dal presidente in persona di risolvere la questione entro gennaio 2013. Gli stessi sudafricani l’hanno giudicata competente e col pregio di essere indipendente dal governo, tuttavia per alcuni è stato concesso un tempo troppo breve per far chiarezza sulla vicenda con effica-

cia. Le prove e le testimonianze raccolte indicano che la maggioranza dei feriti e delle 46 vittime sono stati colpiti a distanza ravvicinata mentre fuggivano, alcuni raggiunti dalla pallottole alla schiena. La polizia ha fatto largo uso dei fucili mitragliatori R5 e di granate, posizionando i loro veicoli e il filo spinato in punti strategici per impedire che i manifestanti in fuga si rifugiassero nella adiacente bidonville. Alcuni di essi sono stati colpiti dai cecchini dagli elicotteri. Intanto la situazione sul fronte sindacale è ancora tesa: nonostante la ripresa del lavoro dei minatori sotto promessa di consistenti aumenti salariali, vari “embrioni” di futuri scioperi resistono all’interno delle organizzazioni dei lavoratori. Sembra che la Lonmil stia ponendo ostacoli sugli accordi e promesse prese. Intanto anche nella miniera di carbone Forbes Coal & Manhattan Coal Corp. nel KwaZulu Natal, il 31 ottobre scorso due minatori sono stati uccisi dalle guardie della compagnia privata incaricata della sicurezza della miniera.

I dipendenti sono in sciopero da metà ottobre per ottenere aumenti salariali e miglioramento delle condizioni di lavoro. Ma che riflessioni può sollevare in noi questa serie di avvenimenti, oltre alla curiosità di cercare qualche informazione per vedere come andrà a finire? Chiaramente è anche un processo alla politica intrapresa dal Sudafrica post-Mandela, ma potremmo anche domandarci dove e come si limita il potere delle forze armate rispetto alle libertà, o addirittura ai diritti, del singolo cittadino. Una riflessione che può partire da un caso estremo come questo, dove la polizia uccide decine di civili, per arrivare con uno sguardo più ampio alla violenza con cui ci confrontiamo anche nelle piazze d’Europa.

Dicembre 2012 | L'Oblo' sul Cortile

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Attualità/Personaggi

IL MIO AMICO ARNOLD di Riccardo Galbiati

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ia madre ha iniziato a farsi delle domande vedendo comparire i primi poster: là dove nelle camere dei miei coetanei campeggiano i calendari di Belén e delle conigliette di Playboy, da me ci sono solo gigantografie di uomini muscolosi in pose equivoche. Mio padre mi ha impedito di pagare con la sua carta di credito libri assolutamente fondamentali per la mia

formazione, quali “La Bibbia del tricipite” o “Terrorizza i tuoi adduttori”. Mia sorella si è indignata solo perché so citare a memoria quanto sollevano di panca piana i più grandi palestrati d’America ma proprio non ricordo la data del suo compleanno. Il professore di filosofia ha minacciato di convocare la famiglia quando, con grande intraprendenza, ho paragonato durante l’interrogazione la ragion pratica di Kant all’imperativo morale di Schwarzenegger. Di fronte all’evidenza – e messo alle strette – ho deciso di fare coming out: «Mamma, papà, devo dirvi una cosa: amo il bodybuilding». Ora, al di là dello sconforto dei pa-renti, la ragione del mio amore ha un nome: Arnold Schwarzenegger, la quercia austriaca. Come non adorare il 5 volte Mr. Universo e 7 volte Mr. Olympia? L’uomo capace di dedicarsi con eguale successo alla carriera di atleta, imprenditore, attore e politico? L’eroe nazionale a cui l’Austria ha dedicato uno stadio e una gigantesca statua in bronzo? Condensare in un solo articolo una vita all’insegna dell’esagerazione è praticamente impossibile, nondimeno tenterò di dimostrarmi all’altezza dell’arduo compito. Arnold Schwarzenegger nasce nel 1947 a Thal (in Austria) da una famiglia povera. Il padre, ex sostenitore del partito nazista, è un uomo violento, che spesso picchia i figli. Arnold inizia a dedicarsi all’esercizio fisico un po’ per tenersi lontano da casa un po’ perché ispirato dalle riviste americane che allora iniziavano a circolare anche in Europa. Dopo aver vinto le prime competizioni di culturismo di rilevanza nazionale, nel 1968, a 21 anni, si trasferisce negli Stati Uniti per inseguire il proprio sogno: diventare il più grande body builder del mondo.

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La strada non è certo facile, soprattutto perché la scena è monopolizzata da Sergio “il Mito” Oliva, l’unico nella storia a sconfiggere Arnold in una competizione ufficiale. Proprio la presenza di un rivale è però ciò che dona a Schwarzenegger la forza e la determinazione necessarie per superare i propri limiti: nei dieci anni successivi stabilisce un incredibile record laureandosi per 5 volte Mr. Universo e per 7 volte Mr. Olympia. A oggi, è considerato il più grande di sempre in questa disciplina. Accanto alla carriera da atleta affianca poi quella di imprenditore: insieme all’amico - anche egli body builder – Franco Columbu inizia a farsi un nome nell’edilizia. In particolare, la loro ditta è rinomata perché composta solo da culturisti. Tutte le demolizioni sono pertanto realizzate a mani nude: i muri vengono abbattuti a colpi di martello e, come raccontato da Schwarzenegger stesso, i camini distrutti grazie alla spinta dei quadricipiti. Ma Arnold è sempre in cerca di nuove sfide, e decide perciò di tentare la carriera di attore. Le prime pellicole si distinguono per il forte impegno civile e l’altissima densità concettuale, vere opere di nicchia destinate ai più attenti cinefili: titoli come “Un Ercole a New York”, “Conan il Barbaro” e “Conan il Distruttore”. Proprio a testimonianza delle profonde implicazioni filosofiche di “Conan il Barbaro”, in una conferenza il regista John Milius ha arditamente accostato il messaggio del film a quello del libro “Il crepuscolo degli idoli” di Friedrich Nietzsche – certo, non ha poi approfondito quale questo messaggio fosse. Il nome di Schwarzenegger è però legato soprattutto alla stagione d’oro del cinema d’azione statunitense. Arnold è infatti il celebre interprete di film come “Terminator”, “Predator” e “Commando”, che gli valsero, oltre che la fama,


importanti riconoscimenti. Il titolo di cui Schwarzenegger va probabilmente più fiero è infatti quello – ambitissimo – di “attore che ha ucciso più nemici nella storia del cinema”, grazie a 383 vittime ufficialmente conteggiate nelle sue pellicole. Il solo “Commando” può vantare - in 88 minuti di film - 78 caduti (con un’impressionante media di 0.886 morti al minuto). Guardare questi film mi fa però sempre male. Queste pellicole, così rozze, così brutali, così ignoranti, mi portano a vagheggiare di uno stato d’innocenza ormai irrimediabilmente perduto. Un tempo il fanciullo veniva infatti preso per mano e portato fin sulle soglie della vita adulta da Schwarzenegger e Stallone, espressione di un mondo idillico in cui prima si spara e poi – forse – si parla. Tutto questo si è, ahimè, infranto. Gli eroi della nostra infanzia sono stati sostituiti da maghetti e vampiri: evidentemente sono venute meno figure centrali per lo sviluppo della psiche dei ragazzi, e la degenerazione dei costumi che spesso lamentiamo ne è la più ovvia conseguenza. L’ultima parentesi della vita di Arnold è caratterizzata dall’impegno politico: dal 2003 al 2011 si è dimostrato, come governatore della California, un repubblicano sui generis, partico-

larmente moderato oltre che attento alle tematiche ambientali e scolastiche. È dunque innegabile che la figura di Schwarzenegger sia eccezionale e poliedrica, e per questo viene giustamente celebrata. Ricordo per esempio che la casa dove Arnold ha trascorso l’infanzia (a Thal) è diventata un museo di rilevanza internazionale: questa è un’inequivocabile testimonianza del grande peso che il governo austriaco sa attribuire alla cultura. Molti mi chiedono se, al di là degli scherzi, Schwarzenegger mi piaccia veramente. La risposta è semplice: sì. Mi piace infatti il messaggio che incarna: con l’impegno, il sudore e la dedizione assoluta, è possibile realizzare i propri sogni. Pur non avendo nulla, Arnold è riuscito a ottenere tutto, perché spinto da una fame insaziabile e dal fuoco che dentro di lui bruciava. In questo senso lo reputo la vera concretizzazione del sogno americano, o – guardando più indietro – dell’homo faber fortunae suae. La scalata verso la vetta è stata certamente dura e ricca di sacrifici (lui stesso racconta che appena arrivato negli Stati Uniti dormiva in palestra per avere più tempo per allenarsi), ma il solo impegno lo ha portato a

compiere imprese cui gli altri nemmeno avevano pensato. Mi piace d’altra parte la sua piena fiducia nei propri mezzi e in se stesso: in numerose occasioni ha detto che sentir definire qualcosa “impossibile” o “irrealizzabile” lo ha sempre spronato, perché ciò significava che sarebbe stato il primo a farlo. Tutto ciò deve però essere unito a una lucida consapevolezza dei propri limiti, che permetta di superare le proprie debolezze. A questo proposito cito un ultimo, apparentemente assurdo ma in realtà significativo aneddoto: dopo la cocente sconfitta contro Sergio Oliva, a Schwarzenegger era stato consigliato di lavorare sui polpacci, il suo vero tallone d’Achille. Fino ad allora, Arnold era solito girare per le strade di Los Angeles con solo i pantaloni addosso, mettendo così in mostra i colossali pettorali, che erano il suo vero motivo di orgoglio. Da quel momento in avanti però si ripromise di girare sempre coperto con maglie e felpe, tagliando al tempo stesso tutti i pantaloni all’altezza del ginocchio ed esibendo così al pubblico ludibrio proprio gli “esili” polpacci. In questo modo sapeva che sarebbe stato costretto a irrobustirli per superare la sua vergogna. Inutile dire chi fu il vincitore del successivo Mr. Olympia.

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Attualità

NON ASPETTATEVI UN MIRACOLO di Carlo Simone

S

e dovessi scegliere un’emozione emblematica per questa stagione della storia umana, opterei per la rabbia. Guardatevi in giro: sono tutti arrabbiati. La manifestazione del 14 ne è un esempio drammaticamente perfetto: perfino una realtà positiva come quella del manifestare un disagio e denunciare un’ingiustizia si tramuta in una catastrofe. In tutta Italia la violenza scende in strada. Verrebbe quasi da pensare che noi nuove generazioni siamo soltanto sfortunati ad essere apparsi 10

L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° II

René Magritte: Jeunesse (1924)

adesso sulla faccia della Terra. Ma è proprio di fronte a queste cupe riflessioni che io prego si scateni nel vostro cuore l’incendio indomabile del bisogno di trovare un senso e una soluzione alla vita. Non più il fuoco della rabbia, che non fa altro che mordere se stesso, distrugge tutto e non lascia spazio alla vita, bensì quella fiamma nobile e splendente che cauterizza le ferite e permette all’organismo di sopravvivere. Se c’è una cosa che noi giovani non abbiamo il diritto di dimenticare è proprio questo: che siamo giovani. Possiamo essere poveri, ma rimaniamo i più ricchi

di tutti: perché abbiamo quella che è la vera ricchezza, quella che nessuno ci può rubare, ovvero il tempo. E’ proprio in momenti come questi che un popolo, una comunità possono dimostrare la loro maturità. Io ho speranza nei ragazzi. Ho fiducia che siano abbastanza coraggiosi da ricevere a testa alta la montagna di spazzatura ereditata dai genitori, archiviarla e iniziare una nuova epoca. Per essere più felici fin da subito. Il futuro è tutto ciò che un ragazzo possiede, e il vero modo per rubarglielo è convincerlo già da quand’è giovane che non l’ha più. Al contrario, il diritto al futuro è legato al fatto stesso di avere la nostra età. Siamo noi per primi a doverlo esigere da noi stessi, dalle nostre scelte e dalle nostre azioni negli anni a venire. Ascoltando i racconti di mio nonno ho potuto farmi un’idea della situazione italiana nel dopoguerra. Allora c’era da riportare in vita una nazione che non esisteva più, altro che diritto al lavoro: c’era solo da rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Protestare non è sbagliato: è irreale credere che basti questo per risolvere i problemi e soddisfare quell’esigenza di speranza che c’è in ognuno di noi; giovani soprattutto. I mezzi non ci mancano, anzi, nessuno mai ne ha avuti quanto noi oggi. E conoscendo la voglia e la grinta dei miei coetanei so che c’è anche l’esigenza di ricominciare. Impegniamoci nella politica di domani, noi, noi scontenti, ma con le mani aperte per costruire, non chiuse a pugno per rovinare ogni cosa in preda allo sconforto. Consapevoli che abbiamo le carte in regola per essere migliori. Nessuno ha mai detto che debba essere facile, e infatti non lo è; “non aspettatevi un miracolo, ma un cammino”, diceva un prete; per il semplice fatto che siamo qui vale la pena di reagire. Siate orgogliosi, e non spaventati, di essere giovani. Ricordatevelo sempre: il mondo è nostro, non di chi ce l’ha lasciato. Se dovessi scegliere quando nascere, nascerei oggi. Perché c’è la possibilità di creare un mondo nuovo, migliore. E più un obiettivo è difficile, più ne è bella la conquista.


il banco ALIMENTARE di Letizia Latocca e Silvia Santarelli

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l 24 novembre si è tenuta la sedicesima Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. Questo evento di beneficenza consiste nel dedicare una giornata a raccogliere cibo a lunga conservazione in tutti i supermercati d’Italia per destinarlo sia alle famiglie più bisognose che alle mense dei poveri. Il lavoro del Banco durante il resto dell’anno è di salvare quei 6 milioni di tonnellate di cibo in eccesso accumulato nei supermercati che altrimenti andrebbe perduto e ridistribuirlo alle strutture di beneficenza. L’impegno del volontario che sceglie di partecipare alla Giornata è di invitare i clienti del supermercato in cui si trova a donare parte della sua spesa. Come c’è da aspettarsi non tutti reagiscono allo stesso modo quando vedono i ragazzi volontari. C’è chi li scansa abilmente, chi sostiene di aver già dato il giorno prima quando però la colletta è solo una volta all’anno, altri che non capiscono perchè dovrebbero dare una mano se in questo momento di crisi loro per primi si trovano in difficoltà, ma c’è anche chi partecipa con grande entusiasmo. Durante il nostro turno di colletta

abbiamo incontrato due persone che ci hanno particolarmente colpito. Il primo è stato un vecchietto un po’ burbero che borbottando ha obiettato che a mala pena aveva i soldi per comprare da mangiare. Senz’altro aveva ragione, però gli abbiam buttato lì che c’era perfino chi stesse peggio di lui. Questo ha fatto una smorfia ed è entrato nel supermarket. All’uscita ci ha lasciato un sacchetto con degli alimenti e se ne è andato in silenzio. Il secondo incontro curioso è stato con una signora anziana che senza considerare la Colletta si è messa a raccontarci di lei. Faceva 91 anni proprio quel giorno e più che mai sentiva la mancanza del marito morto da tempo. Potete ben comprendere l’imbarazzo che provavamo. Cosa c’entra la Colletta con due personaggi così? L’aiuto che il banco alimentare dà a persone sole come loro va al di là della semplice risposta all’elementare bisogno di cibo, perché durante tutto l’anno ci sono dei volontari che periodicamente visitano le famiglie biso-gnose e che oltre

a portare da mangiare passano del tempo in loro compagnia. Siamo convinte che questo tipo di impegno trascenda il semplice atto di carità e restituisca all’individuo bisognoso quella dignità che lui ha per il semplice fatto di essere un uomo come noi. Ci ha sempre colpito che nonostante la quantità di cibo donato dai singoli sia risibile, l’impegno di questi anonimi ben efattori tutti insieme possa concretamente, se non eliminare la fame nel mondo, almeno venire in contro al bisogno di alcune famiglie. Abbiamo accolto questo impegno di volontariato con entusiasmo perché cogliamo in questo modo di fare beneficenza qualcosa di davvero rivoluzionario: un aiuto costante e concreto che, oltre a combattere il morso della fame, si dedichi a tutte quelle persone sole mai lasciate tanto in disparte quanto nella nostra epoca di egoismo.

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cronache carducciane

CDI: INIZIA IL CAMBIAMENTO di Federico Regonesi

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iamo a inizio dicembre ormai, sono passati due mesi di scuola, e si sono già tenuti i primi due consigli d’istituto. Ovviamente il grande evento di quest’anno è l’arrivo di un nuovo Dirigente Scolastico, Michele Monopoli. Lo svolgersi dei CdI è radicalmente cambiato: una grande concordia si è diffusa, tutte le tensioni sembrano essersi appianate e si cerca di trovare soluzioni comuni ai problemi. Il nuovo Dirigente è molto più collaborativo ed efficiente, capace di spiegare questioni tecniche ai non “addetti ai lavori” , è aperto all’ascolto e sa anche essere simpatico. Ma non solo. Pare che sia un uomo con dei programmi per questa scuola, grandi programmi. Innanzitutto, la riduzione delle le spe-se per i progetti, ovverosia tutte le attività proposte dalla scuola, che prima erano molte e costose. Questa manovra è stata necessaria, anche se un po’ sofferta, dato che la legge Bersani impone di stanziare un tot minimo di fondi per la restaurazione ed il potenziamento delle strutture della scuola, fondi che prima erano insufficenti anche solo per la manutenzione di base delle aule, e che ora permetteranno invece di riparare muri, controssofitti e bagni danneggiati. A proposito di “restaurazione e potenziamento”, le due aule, occupate da due classi del ginnasio, dichiarate inagibili saranno a poco nuovamente disponibili per gli studenti, con un’aggiunta sbalorditiva: una lavagna multimediale LIM per classe. Questo è parte del progetto di modernizzazione, in cui il DS crede molto. Se-condo i piani, in capo a qualche anno, ogni aula possiederà una LIM. Sempre a questo proposito si sta lavorando per risistemare l’aula di informatica. Alcuni dei computer sono nuovamente collegati alla rete Symposium (quel programma che serve a controllare tutti i computer degli studenti da quello principale e ad evitare che tutti vadano su facebook) e pian 12

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piano anche gli altri torneranno a pieno regime. La difficoltà nel procedere sta nel fatto che la vecchia DS aveva assunto come responsabile dei programmi in aula computer una ditta canadese ormai fallita. Per concludere con l’innovazione tecnologica, si sta lavorando anche per ripristinare la rete wi-fi. Il segnale sarà potenziato - pare che il cablaggio ora installato sia molto debole, probabilmente perché la tecnologia è un po’ superata anche perché entro i prossimi anni sarà richiesto il passaggio dai registri cartacei a quelli multimediali. Su quanto le innovazioni tecnologiche possano migliorare la didattica in sè c’è molto da discutere. Un buon professore può appassionare e insegnare bene anche senza lavagne multimediali, bacchette magiche o chissaché. Ma va anche detto che la scuola ha il dovere di mantenersi al passo con i tempi - sia per una questione di capacità di adattamento a nuove procedure che vengono imposte, come il catalogo multimediale - sia per il bisogno di confrontarsi con lo studente nel campo della vita reale. Bisogna trasmettere l’idea che tutti gli strumenti, se usati bene, siano utili, e che non ha senso cristallizzarsi su metodi sempre uguali a se stessi, sopratutto nel mondo in continuo cambiamento di oggi. Questo clima di serenità ha anche aiutato gli studenti a prendere parte più attiva nei consigli d’istituto, sia nel dibattito, sia nel presentare le loro

proposte di lista. In conclusione cito una frase pronunciata dal dirigente scolastico durante il primo consiglio d’istituto. Ha detto, parlando dei progetti e dell’interazione tra studenti e scuola: <<Se avviene in un quadro democratico e di reciproco rispetto, tutto è ricchezza.>> Questo si potrebbe definire come il manifesto del suo pensiero riguardo alle iniziative studentesche. Il preside ha più volte - sia durante che fuori dal consiglio - ribadito il suo appoggio ad ogni progetto degli studenti ed il suo apprezzamente per quegli eventi da noi organizzati, come l’assemblea tenuta dal Senator Pietro Ichino, ma non solo. Trovandsi ad apprezzare molto tutte le attività “altre” rispetto alla scuola mattutina, vorrebbe fare sì che queste avessero più peso sul rendimento e sui giudizi dati allo studente. Questo è un progetto molto in fieri e che dovrà essere approfonditamente discusso con gli organi collegiali preposti, ma che è il miglior indicatore della profonda differenza tra la gestione Monopoli e la gestione De Carolis.


Crisi: l’imprevedibile istante dell’Io di Anna De Ponti

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enerdì 16 novembre il nostro liceo ha avuto l’onore di accogliere Pietro Ichino. Durante l’assemblea la trattazione lucida e semplice ha offerto una chiara analisi della crisi del lavoro, le molteplici cause, le radici e le conseguenze riscontrabili oggi. Eppure, fin dal suo esordio, è parso evidente a tutti che la spiegazione si sarebbe rivelata insufficiente se non fosse sfociata nell’indicazione di un punto nevralgico da cui ripartire (e tutt’ora la domanda non può non farsi profondamente nostra). Ichino ha avanzato delle ipotesi, toccando alcune delle recenti risposte governative, dalla riforma Fornero del 18 luglio alla legge Aprea, bersaglio delle manifestazioni di questi giorni. E’ stato chiaro nell’inquadrare tali riforme come provvedimenti tesi a ridare credibilità all’Italia ma, al contempo, nel sottolineare i limiti di un sistema legislativo carente dell’apporto originale dei singoli. Il problema della cassa integrazione, ha spiegato, sta nella degenerazione che, spesso e volentieri, vede procrastinare la chiusura definitiva di un’impresa incapace di uscire da una crisi non più definibile come temporanea senza garantire un adeguato servizio di ricollocamento per

i dipendenti, come invece avviene all’estero. Spesso infatti, statistiche alla mano, il lavoro c’è, manca piuttosto un canale di ricerca e di immissione guidata, che non abbandoni chi ha perso il posto come chi esce dagli studi, i quali restano invece soli ad affrontare l’ardua ricerca di un impiego. Per i neolaureati, non ci s’illuda, la situazione non è diversa la crisi investe i giovani, anche i futuri ingegneri (per quanto le statistiche li indichino come i più richiesti, si tratta però di lavori a termine, il posto fisso si può scordare.). Sembra emergere un’unica soluzione: essere disponibili a tutto, senza attendere che il lavoro cada dall’alto, ma piuttosto muoversi alla ricerca, senza scoraggiarsi. La prospettiva è quella di un percorso duro, fitto di ostacoli e di imprevisti: una sfida. In quest’ottica, l’assemblea ha suscitato in me e in alcuni amici il desiderio di condividere con tutti i compagni carducciani la mostra «L’imprevedibile

istante. Giovani per la crescita» esposta lo scorso agosto al Meeting di Rimini e concepita come descrizione del percorso di giovani che dopo la scuola superiore accedono all’università e poi al mondo del lavoro, oppure che frequentano una scuola professionale per avviarsi al lavoro, percorso documentato da esempi, fatti autentici sorti in risposta alla crisi stessa. “Fatti positivi, in comune sempre quell’ “imprevedibile istante” che rende cruciale chiedersi “cosa mi piace fare?” da Milano a Palermo e in cui si genera novità, movimento, prodotto, servizio, valore aggiunto per sé e per gli altri.”. Così presenta la mostra il giornalista Gianluigi Da Rold, membro del comitato scientifico che l’ha curata. La tesi sostenuta dalla mostra è la certezza in un “imprevedibile istante” che risvegli l’Io e il suo desiderio, la scintilla dell’umano, e la convinzione che le circostanze non possano ridurre l’essere pienamente se stessi, immersi nella ricerca di ciò da cui siamo stati stimolati. Perché la mostra? Perché documenta esempi di persone che, di fronte alla crisi, hanno saputo trovare una via d’uscita senza scendere a compromessi con i loro desideri, anzi, trovandovi un’attuazione insolita, fuori dagli schemi prefissati. Sarebbe bello, partendo da queste esperienze, trovare un altro spazio di confronto perché la provocazione di Ichino non sia lasciata cadere nel vuoto.

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INGLORIOUS REVIEWERS

di Morgana Grancia

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uesto 23 novembre è uscito, nelle sale cinematografiche americane (in Italia invece si vocifera una possibile uscita per febbraio) , il film “Hitchcock”, che racconta il dietro le quinte delle riprese di “Psycho”, opera più famosa del regista dall’eco immortale. Un’altra produzione di “metacinema”, un genere che si serve di film per raccontare le dinamiche di realizzazione di un lungometraggio precedente, con un posto d’onore nella storia del cinema: ed è accaduto recentemente con il fortunato “Marilyn”, uscito al cinema lo scorso maggio. Dunque, nei panni di Alfred Hitchcock, a febbraio, vedremo Anthony Hopkins, e in quelli dell’attrice Janet Leigh (la ragazza della doccia di “Psycho”, appunto) la discussa Scarlett Johansson. Nel frattempo però, mentre negli Stati Uniti si attendeva l’uscita del film (che comunque noi ci rassegniamo ad aspettare ancora qualche mese), il canale televisivo HBO non si è lasciato sfuggire l’occasione di assecondare questa momentanea nostalgia per il maestro del giallo, producendo un film televisivo intitolato “The Girl”, trasmesso questo 20 ottobre, che approfondisce, e spiega in parte, la natura del rapporto tra Alfred Hitchcock e Tippi Hedren, considerata da molti ultima musa del grande regista. Il caratterista Toby Jones e Sienna Miller, i protagonisti.

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HITCHCOCK: THE GIRL Evidente sin da subito è la volontà di colpire lo spettatore con continui riferimenti ai film di Hitchcock, dalla disposizione dall’arredamento dello studio di produzione, esattamente come quella di “Marnie”, all’inizio del film, all’inquadratura delle scale, riprese dall’alto, come nel film “La donna che visse due volte”, alla fine. E ancora: l’insistere sul profilo di Toby Jones, accentuando l’identificazione dell’attore con personaggio di Hitchcock, di cui ricordiamo soprattutto la sagoma abbozzata in un suo disegno, e altre scene che ricordano ancora quella, della doccia di “Psycho”. Interessante per chi ha amato classici come “Gli Uccelli” e “Marnie”, di cui si ripercorre la realizzazione e i retroscena, non si sa fino a che punto verosimili. “Hai preso una donna viva, Hitch, e ne hai fatta una statua.” riassume il personaggio di Tippi, per descrivere come l’amore così morboso del re-gista nei suoi confronti l’avesse mutata e sfinita. È un film che consiglio a chi, come me, considerava Alfred Hitchcock come immerso in un’aura candida

e inviolabile, un’aura che proteggesse l’autore di alcune opere non lontane da essere definite geniali. Scopriamo ora un personaggio triste, il suo difficile rapporto con le donne, con la moglie Alma, il suo essere attratto da un certo tipo di donna - la bionda sofisticata che così spesso ritroviamo nei suoi film-, l’insofferenza del possedere un aspetto nel quale egli non si ritrovava. Improbabile sarebbe per lo spettatore comprendere fino a che punto il ritratto del regista, in “The Girl”, corrisponda a quanto è stata la realtà, fino a che punto davvero Tippi Hedren rimase turbata dalle avance del regista; ma ciò che comunque emerge dal film rimane un ritratto interessante della coppia, imperdibile per tutti gli amanti di Hitchcock e, oso dire, del cinema in generale. Se avete amato anche solo una pellicola di Hitchcock lasciatevi affascinare dal profilo che ne viene fatto in questo film, enigmatico, a tratti fastidioso: un’ombra di cui forse non sospettavate l’esistenza.


i soliti sospetti

di Alessandro Palazzo

S buffalo ‘66 di Susanna Fiori

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ella provincia americana più sporca e desolata incontriamo la storia di Billy Brown, nato a Buffalo nel 1966, proprio nel giorno in cui, dopo trent’anni, i Buffalo Bills vincono il campionato. La scena iniziale vede il protagonista, appena uscito di prigione, vagare, con i suoi improbabili stivaletti rosso acceso, in preda a quel bisogno fisiologico raramente preso in considerazione nei film: la pipì. Appena giunto in città, quindi, la necessità di un bagno lo spinge a entrare in una scuola di Tip Tap. Lì, dopo una telefonata alla madre, rapisce una delle allieve, Layla, per obbligarla a recitare la parte di sua moglie in una visita ai suoi genitori. Dalla telefonata, infatti, capiamo che Billy ha taciuto i cinque anni di prigione alla famiglia, cercando di sostituire all’immagine di un fallito carcerato quella di una figlio di successo, con una bella moglie e un posto di responsabilità. Parte così un sequestro assurdo: la ragazza, una Christina Ricci giovane e in carne, è un angelo azzurro con le scarpe luccicanti da Tip Tap, una fatina stramba che non si scompone né per il rapimento, né per le continue offese e i rimbrotti del nevrotico Billy. L’allampanato ed emaciato Vincent Gallo, un ragazzo con gli occhi da pazzo e il fascino sciupato, prima la minaccia e poi la prega di aiutarlo, ma persevera nei suoi comportamenti ossessivi e maniacali. È il punto di partenza per una storia d’amore al contrario, tra due personaggi problematici, accomunati dal bisogno di compiacere chi li disprezza e li maltratta, e per un percorso nell’intera esistenza di Billy, di cui arriviamo, alla fine del film, a conoscere praticamente tutto: le vite monotone dei genitori, il cane compagno d’infanzia, i suoi due unici amici, la sua passione per il bowling, l’unico amore

non corrisposto; infine, il suo progetto: il gesto eroico in cui vede l’innalzamento dal regno del fallimento a quello del sacrificio tragico, la vendetta. Buffalo ‘66 è l’opera prima di Vincent Gallo, artista dichiaratamente narcisista, che firma la regia, la sceneggiatura e alcune delle musiche. Sebbene si tratti della sua prima pellicola, mostra scelte registiche originali e interessanti, quali la tecnica dello split screen, mediante la quale sullo schermo sopraggiungono scene della memoria del protagonista, o inquadrature che spiazzano lo spettatore, cambiando repentinamente la visuale soggettiva; sperimentazioni che si inseriscono nella narrazione senza prevaricare sul contenuto. Notevole l’incursione dell’onirico e del surreale nelle scene del Tip Tap sui King Crimson e dell’esibizione canora del padre; particolarissimo è poi l’uso del colore e della fotografia: la saturazione è al minimo cosicché, in tonalità fredda e bianca, la figura di Layla sembri quasi eterea, con i capelli biondo platino e la pelle pallida, mentre spicca, in molte scene, il rosso. La sceneggiatura è semplice e pare che Gallo tenti di irritare lo spettatore con frasi brevi ripetute ossessivamente. Punto di forza del film è, infatti, il non detto: i sentimenti impliciti e sotterranei, i gesti silenziosi e minimi, come le scene che portano al definitivo avvicinamento dei due personaggi, di infinita tenerezza. Insomma, il film è uno scavo psicologico approfondito e, se vogliamo, narcisistico di una personalità quella di Billy - che è un prodotto del fallimento e del grigiore. Egli, testardo nella sua depressione e convinto del suo destino di fallito, crede che il gesto disperato sia l’unico modo di liberarsi dalla condizione di ridicola pedina, ma una fatina azzurra lo guiderà alla sua epifania.

iete a casa da soli, stravaccati sul divano, a rigirarvi tra le dita il telecomando, cercando un film diver-tente che sapete già di non trovare; il giorno dopo non ci sono compiti e state morendo di noia; dovete proporre o consigliare un film a qualcuno e siete in panico… Insomma, in qualsiasi situazione di indecisione vi troviate, acquistate quel dvd che risponde al nome di “I soliti sospetti” e godetevi lo spettacolo. Sono certo che da quel momento vi sarà difficile allontanarsi da lì, anche per aprire la porta o rispondere al telefono. Come faccio a dirlo con tanta certezza? The Usual Suspects è l’esordio alla regia di uno sconosciutissimo Bryan Singer, genio ebreo emigrato in America, che con un budget di soli $ 5.000 confeziona un thriller capolavoro che conquista il continente. Dopo una rapina, la polizia sottopone ad un classico confronto all’americana cinque delinquenti (un ex-poliziotto corrotto, uno scassinatore, due ricettatori e un criminale minore claudicante). I cinque, che paiono essere stati riuniti in modo assolutamente casuale, vengono però contattati da un misterioso criminale, tale Kaiser Soze, per un colpo grosso apparentemente suicida. Ma chi è costui? E perché manda cinque uomini al massacro contro una nave attraccata al porto che pullula di nemici? Qual è il suo obiettivo? Ne risulta un film tanto contorto quanto intrigante, dove la realtà si mescola progressivamente con la menzogna. La violenza è parecchia, ma mai gratuita. Il finale a sorpresa è travolgente e, inevitabilmente, ci ripenserete per due giorni. Cast superbo, tra cui spicca un immenso Kevin Spacey nella sua recitazione più azzeccata (suo l’unico Oscar, oltre a quello – meritatissimo – di Christopher McQuarrie per la sceneggiatura originale), ma pieno di ottime prove, tra le quali quelle di Chazz Palminteri e Benicio Del Toro. Accolto con discreto successo al momento della sua uscita nelle sale (1995) e ormai quasi del tutto dimenticato, la sensazione è che il film non sia mai stato considerato in tutto il suo valore.

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INGLORIOUS REVIEWERS

SEX, BLOOD & TARANTINO di Dario Zaramella

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noxville, Tennessee. 27 marzo 1963. Quentin Tarantino nasce da una giovane infermiera statunitense di origini cherokee e dall’italoamericano Tony Tarantino, attore appassionato di film western e di karate. Figura importante è anche il musicista Curt Zastoupil, padre adottivo del piccolo dopo la separazione dei genitori. Chi di voi è già avvezzo allo stile tarantiniano non potrà non riconoscere, già in queste poche righe, i germi di quelli che saranno gli interessi del regista maturo: un cosmopolitismo di fondo, legato ad una curiosità viscerale per tutto ciò che è esotico; l’amore per la musica; nonché un’immensa, enciclopedica, passione per il cinema, che, ancora ragazzo, lo porterà a lavorare alla videoteca del paese. Tarantino si forma come sceneggiatore e come attore, ma è proprio durante il suo lavoro alla videoteca che decide di tentare la strada della regia: dotati 16

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di mezzi di fortuna, lui e i suoi colleghi si buttano in un progetto, My Best Friend’s Birthday, destinato però a non vedere mai la luce in forma definitiva. Knockin’ on Hollywood’s door, alias “il primo successo”: Le Iene Nonostante questo primo insuccesso, il tenace Quentin non si dà per vinto, e, sceneggiatura dopo sceneggiatura — tra cui ricordiamo quella di Dal Tramonto all’Alba — riesce a dare alla luce il suo primo, vero successo hollywoodiano: Le Iene. Ora, visto che d’ora in poi userò spesso il termine, anticipo la domanda che potrebbe sorgere: “cosa significa pulp?”. I cosiddetti “pulp ” nacquero nei primi anni venti, negli Stati Uniti, e devono il loro nome al tipo di carta scadente su cui erano stampati, tratta cioè dalla polpa del legno non rifilata (appunto pulp in inglese). Per metonimia, poi, il termine venne ad indicare il genere di rac-

conti che trovavano spazio sulle riviste, caratterizzati da violenza estrema, sangue a volontà e uno spiccato gusto del macabro e del fantastico. Per tornare a noi, il nostro Quentin sguazza fin da fanciullo in questo mondo fatto di copertine hard, sventramenti e dialoghi brillanti, ai limiti del trash: il risultato non può che essere Le Iene, crime story in cui un gruppo di rapinatori di professione, ciascuno identificato con un nome in codice (Mr. Blonde, Mr. Pink, Mr. White, ecc.), viene ingaggiato per portare a termine un furto di diamanti. La trama viene infittita da un magistrale uso di flashback e flashforward, marchi di fabbrica che il regista ha mutuato dal genere noir. Degna di nota è la sequenza iniziale, durante la quale lo stesso Tarantino, che nel film interpreta Mr. Brown, si lascia andare ad una fantasiosa interpretazione del testo di Like a Virgin di Madonna.


“Now I wanna dance, I wanna win, I want that trophy, so dance good”. Pulp Fiction e l’Oscar. Tarantino, ormai famoso, decide di declinare ogni offerta e di ritirarsi ad Amsterdam, dove inizierà la stesura di Pulp Fiction. Il film sarà un successo eclatante, tanto da meritarsi l’Oscar per la “migliore sceneggiatura originale”. E in effetti faccio fatica a trovare un difetto nell’intreccio: suspense, humour, citazionismo selvaggio; il tutto diluito in più di due ore di flashback, flashforward — qui più presenti che mai —, rimandi ad altri film del regista, dialoghi fulgenti e ipnotizzanti. Un esempio? Pensate alla scena in cui Samuel L. Jackson e John Travolta, due dei personaggi principali, riflettono sull’importanza del massaggio ai piedi: quattro minuti di inquadratura fissa sui due personaggi, totalmente ininfluente ai fini della trama; eppure capace di tenere lo spettatore attaccato allo schermo. Il feticismo di Tarantino, evidente in questa scena, viene ripreso in maniera così ossessiva in tutti gli altri film da diventare uno dei segni distintivi dell’autore, oltre a sottolineare il legame, squisitamente pulp, tra violenza ed erotismo. Emblema dell’eros provocante e malizioso è sicuramente Mia (Uma Thurman), caratterizzata, come la maggior parte delle donne tarantiniane, da una forte personalità e da una spiccata passione per la musica.

“Bang bang, my baby shot me down”. Kill Bill vol. 1 & 2 Pulp Fiction esce nel 1994, e fino al 1997 Tarantino si dedica a diversi progetti minori, tra i quali un episodio della celebre serie E.R - Medici in Prima Linea e un lungometraggio, Four Rooms, che non avrà però il successo sperato. Nel 1997 esce Jackie Brown, considerato uno dei peggiori film del regista nonostante la magistrale performance di Samuel L. Jackson. Ma è nel 2002 che esce il primo volume di Kill Bill, inizialmente concepito come film unico, poi diviso per esigenze di spazio. Tarantino era rimasto così colpito dalla performance di Uma Thurman in Pulp Fiction da regalarle, in occasione del suo trentesimo compleanno, la parte da protagonista nel film. Lungi dall’essere un mero tributo all’attrice, però, Kill Bill può essere considerato un’enciclopedia delle più recondite passioni del regista: duelli all’arma bianca, vecchio west, anime giapponesi, vecchi eremiti e sangue, litri e litri di sangue. La trama? Uma Thurman/Beatrix Kiddo si risveglia da un coma durato quattro anni, e giura di vendicarsi di tutti coloro che l’hanno ridotta in quello stato, tra cui il famigerato Bill. Inizia così una vicenda che non ha nulla del realismo cini-

co dei precedenti film, nutrendosi invece di esagerazioni, parodie, espedienti che più trash non si può — la Pussy Wagon di Beatrix, l’infermiera con la benda sull’occhio —; eppure non mancano momenti di suspense, o addirittura toccanti. Bastardi Senza Gloria. “See these eyes so red, red like jungle burning bright” Dopo un non eccelso Death Proof, horror-splatter che si rifà alle pellicole a basso budget dell’America anni ‘70, Tarantino può dedicarsi a un progetto che aveva in mente da tempo. Nasce così Inglourious Basterds (Bastardi Senza Gloria), storpiatura del titolo di un altro film, a cui tarantino ha “preso in prestito” il periodo storico. La vicenda si svolge infatti nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, e i “Bastardi” del titolo non sono altro che un gruppo di sanguinari soldati anti-nazisti. Alle imprese del tenente Raine (Brad Pitt) e dei suoi Bastardi si intrecciano le figure, tra le altre, del colonnello nazista Hans “cacciatore di ebrei” Landa, e della superstite ebrea Shosanna Dreyfus, ora in cerca di vendetta. Dopo Pulp Fiction, Tarantino dimostra ancora una volta la propria abilità nel creare intrecci, fregandosene persino della veridicità storica (basti pensare alla fine che il regista riserva a Hitler e al suo entourage). Nota di merito alle musiche di Morricone e all’interpretazione da Oscar di un Cristoph Waltz (colonnello Landa) qui agli esordi. E in futuro? “Ma come!”, vi chiederete, “tutta questa passione per gli spaghetti western ‘a la Sergio Leone’ e neanche un film di questow-

genere?”. Dubbio più che lecito; ma ecco le buone notizie: il 17 gennaio del prossimo anno tutti in sala a vedere Django Unchained, primo, vero western made in Tarantino.

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Cultura / letteratura La BibliobussolaI

La parte dell’altro

di Carlo Simone

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on so se vi è mai capitato di andare in Austria. Ci passavo l’anno scorso col pullman e mi chiedevo come in un posto così tranquillo, imbacuccato sotto la sua coperta di neve, potesse essere nato l’uomo che forse è stato il più marcio frutto del ventre di una donna: Adolf Hitler. Il male ha il suo fascino, finché rimane nella fiction: chi non fa il tifo per Dart Fener, Jason Voorhees o per il re degli Stregoni contro quella lagna di Éowyn? Tutt’altro paio di maniche è se questi “cattivi” escono dalla fantasia e purtroppo perpetrano i loro crimini qui, sulla Terra, sulla pelle di uomini veri. Solo un pazzo potrebbe stimare gente come Stalin o lo stesso Hitler, grotteschi nella loro disumanità. “Io non potrei mai essere come loro”, ci diciamo in un sussurro, stentando a credere che parole come sterminio e genocidio possano saltar fuori dal vocabolario e spargere per il mondo il sangue degli innocenti... ma ne

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siamo proprio sicuri? Probabilmente nemmeno Hitler e Stalin lo pensavano, a diciott’anni. Ed è esattamente questa la provocazione che raccoglie Eric-Emmanuel Schmitt, uno dei più attivi e profondi romanzieri francesi contemporaneiLa sua sfida è semplice e ardua al tempo stesso: indagare quel tema che forse racchiude tutti gli altri esistenti, cioè il confronto fra Bene e Male, ingabbiandolo nella storia più semplice: il cosa sarebbe successo se... Avete mai visto Sliding doors? Ecco, qui Schmitt si chiede come sarebbe potuta cambiare la vita del giovane Adolf Hitler - e la storia dell’umanità con lui - se all’età di diciannove anni fosse stato ammesso all’accademia di belle arti. Vi voglio rassicurare subito, nel caso dopo quest’ultima rivelazione voleste fare un aereoplanino con questa recensione: questo romanzo è tutt’altro che stupido. Schmitt ci ha messo anni per studiare e documentarsi sulla vita di Hitler; è un professore universitario e se c’è una cosa che non gli manca

quella è proprio la puntigliosità. La sua teoria è quanto mai seria: cosa sarebbe successo se Hitler fosse diventato un pittore bohème, amante dei bei quadri e delle belle donne, anzi addirittura sposato con una donna ebrea (!) Logicamente il romanzo presenta chiari sprazzi di ilarità: la vena ironica di Schmitt castiga tanto l’Adolf Hitler frustrato e povero che serba rancore verso gli ebrei e i nemici della Germania per nascondere i suoi problemi familiari e la sua fobia del genere femminile, quanto l’Adolf H. (l’Hitler pittore, la cui vicenda viene raccontata in contemporanea con quella del tristemente noto dittatore). Schmitt si sbizzarrisce e si concede addirittura di far incontrare Adolf H. con Sigmund Freud, per aiutarlo a superare quella sessuofobia della quale probabilmente Hitler era afflitto. C’è di tutto in questo romanzo: dalle risate di gusto e mai grossolane, ai sorrisi mesti o anche alle lacrime per le vicende che capiteranno ai due “gemelli” (in guerra ci andranno tutti e due, e tutti e due avranno amici, donne, lutti...). Ma la vera bellezza di quest’opera ingegnosa, oltre al fatto che costituisce un ottimo mezzo per approcciarsi anche storicamente ad una delle figure più complesse e importanti del secolo scorso, conoscendolo dal punto di vista biografico, famigliare e psicologico, è proprio quel brutale sbarazzarsi dei pregiudizi: chi l’ha detto che non potremmo essere noi Adolf Hitler? Da cosa dipende il male? Siamo destinati a compiere ingiustizie, siamo nati così? O dipende dalle nostre scelte? O magari anche dagli effetti dell’educazione e della crescita? Se siete orgogliosi non leggete questo libro, il tarlo che vi metterà nel cervello vi rovinerebbe il sonno. Ma se siete un minimo affascinati dal Male, in quanto necessario per capire il Bene, allora non troverete molti romanzi a riguardo più acuti e profondi di questo. Magari così evitiamo la nascita di qualche nuovo mostro…


IL ROMANZO GIALLO NON E’ di Maria Tornielli

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l genere del romanzo giallo non è il più considerato: è ritenuto, non a torto, una classica lettura di svago, il cui valore risiede nella costruzione più o meno efficace del mistero. Ma il fatto che al centro della trama ci sia un crimine sottende all’intera categoria un tema tanto fondamentale quanto complesso: la giustizia, presente in modo particolare nei libri che verranno presi in esame. I primi due sono di Agatha Christie (1890-1976). In Assassinio sull’Orient-Express il famoso detective belga Hercule Poirot è alle prese con la morte di un passeggero, Mr. Ratchett, pugnalato con dodici colpi. L’investigatore scopre la vera identità della vittima: Cassetti, autore del rapimento e dell’uccisione della piccola Daisy Armstrong, un’ereditiera di tre anni, che era riuscito a sfuggire alla legge, ma non sfugge alla vendetta di quanti erano legati alla famiglia Armstrong, distrutta dalla morte della piccola. Poirot infatti ricostruisce l’identità dei passeggeri della carrozza i quali (fatta eccezione per il dottor Constantine e Bouc, che collaborano con l’investigatore) sono tutti legati alla famiglia di Daisy e complici nell’uccisione di Cassetti. Nel finale Poirot accetta di presentare alla polizia una versione dei fatti che permetta di scagionare tutti i colpevoli. In questo caso la vendetta dei personaggi è presentata come compensazione delle mancanze della giustizia statale e nemmeno Poirot, che è solito riportare ordine in mezzo al caos provocato dalla violenza, è sfiorato dalla compassione per la vittima, che appare come l’unico criminale. L’altro romanzo preso in considerazione è Dieci Piccoli Indiani: in questo famosissimo libro Christie combina la straordinaria abilità nell’organizzare i misteri con suspense e ritmo in-

quale la Christie sviluppa due fra i misteri più ingegnosi della sua carriera. Nella produzione di Phyllis Dorothy James (1920), invece, i personaggi assumono più spessore, contribuendo a sviluppare tematiche in modo più approfondito. Mentre nei due libri della Christie è presente in qualche modo un senso di giustizia non tradizionale, P.D. James va a fondo di quella che è una questione tragica che riguarda la giustizia, sia privata che statale: è imperfetta, in quanto umana. Original Sin (1994) è ambientato a Londra, dove una prestigiosa casa editrice viene sconvolta dalla morte dell’amministratore delegato Gerard Etienne.

calzante. L’azione si svolge in una villa situata su un isolotto difficilmente raggiungibile dove ci sono solo dieci persone. Poco dopo il loro arrivo parte una registrazione che accusa ogni individuo presente nella casa di essere colpevole della morte di qualcuno. Gli ospiti iniziano così a cadere sotto i colpi di un boia che li uccide seguendo i versi di una filastrocca. Nell’epilogo il lettore viene a sapere che chi ha orchestrato questo grande piano è un uomo di legge. Sadico e morbosamente affascinato dalla morte, ma dotato di senso di giustizia. Per questo le vittime sono colpevoli sfuggiti alla legge, che trovano una punizione in una dimensione dove ordine e legge, di solito rappresentati dalla figura del detective, non sono presenti e non possono nulla. Tuttavia, la giustizia è qui soprattutto una cornice all’interno della

Dopo la morte di altre due persone un membro della squadra dell’ispettore Dalgliesh (l’investigatore di molti romanzi di James) arriva alla verità, come fa anche l’assassino, che pensa di punire l’uomo che ha ucciso i suoi figli, comprendendo così di aver ucciso degli innocenti senza alcun motivo. Tormentato da questa drammatica consapevolezza, si suicida. Anche A Certain Justice della stessa firma è ambientato a Londra. In uno studio legale viene trovata morta Venetia Aldrige, avvocato abile e senza scrupoli. Dopo un’indagine complessa che coinvolge altre morti e altri personaggi, l’ispettore Dalgliesh identifica l’assassino di Venetia, ma non è in grado di dimostrarne la colpevolezza. Il libro si chiude perciò con il colpevole che ricorda a Dalgliesh e al lettore che “è bene per noi ricordare di tanto in tanto che il nostro sistema legale è umano e perciò fallibile e che il massimo che possiamo sperare di ottenere è una certa giustizia”.

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Cultura / musica di Eleonora Sacco

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nguilla non credeva nella luna e nei falò, ma è tornato. Ad aspettarlo, in collina, il suonatore Nuto, adesso “sposato, uomo fatto”, ma con il clarino “appeso all’armadio”. Nuto, un umile Virgilio, non era mai uscito dalla valle. “Per lui il mondo era stato una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi”, poi, d’improvviso, la morte del padre, la guerra, e con la musica chiuse per sempre. Ma suonare “è come fumare, quando si smette bisogna smettere davvero”. Quando lui e l’amico Anguilla erano giovani, nelle notti estive di vino, fieno, risate e strimpellate sotto la luna, facevano impazzire le donne. Nuto non sta dalla parte di nessuno, e ormai è quasi rassegnato: sa troppo bene la sua gente ignorante e rozza, i crimini della guerra, l’ingiustizia del mondo. E ad Anguilla, tornato dall’America, racconta quelle terre bagnate di sangue con amarezza. “Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava l’idiota, il deficiente, il venturino. Figli di alcolizzati e di serve ignoranti, che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste”. Ma “perché ci deve essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?”. Nuto aveva girato la valle, aveva visto, “sapeva le miserie di tutti qui intorno”. E forse è proprio perché sapeva che abbandonò il clarino e la sua vita alla polvere dei giorni che si susseguono lenti. Che il clarino appartenesse al passato, alla folle gioventù? Che alla musica fosse legata la speranza di rifare il mondo mal fatto? Quale che sia, la guerra gliela strappò via tutta, e mai gliela restituì. Prima vivo musicante, poi arreso alle atrocità del male, astenuto alla vita, ma saggio. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare. Nuto era rimasto. Fiddler Jones di Masters non coltivò mai i suoi quaranta acri di terra, non poteva: la gente scoprì che sa20

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peva suonare, e suonare gli toccò, per tutta la vita. “The earth keeps some vibration going / there in your heart, and that is you”: ma come vivere con un cuore così sensibile alle più flebili onde sonore? Persino il vento nel granturco, il cigolio dei mulini o i sospiri dei pettirossi gli scioglievano le ginocchia. E allora egli andava e suonava, guidato dal cuore a forma di viola. E, alla fine, con essa si spezzò anche la sua vita. “I ended up with forty acres; / I ended up with a broken fiddle - / and a broken laugh, and a thousand memories, / and not a single regret”. Il Suonatore Jones di De André suonava il flauto per svegliare la sottile libertà, sopita “nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”. Più impegnato a vivere intensamente la sua esistenza del Fiddler, il Suonatore è un poeta dagli occhi e orecchi attenti al leggero scorrere del tempo, perso in nuvole di pensieri e vortici di polvere, ma capace di gustare a piccoli assaggi la bellezza del mondo. Suonava con una risata rauca per lo sfuggire delle gonne ai balli, per il vino o per i compagni di vita. Decise di lasciare i campi alle ortiche e di vivere libero, di musica, fino all’ultimo giorno: e, sfogliando i ricordi, non vi trova nessun rimpianto. Nuto ha perso la speranza, non suona più. Il Fiddler ha abbandonato i campi per necessità, Il Suonatore per scelta volontaria. Per Edgar Lee Masters Fiddler Jones è solamente una delle tante voci che emergono dalla collina

di lapidi, disegnato come un cuore sensibile; per Cesare Pavese Nuto rappresenta le colline della provincia di Cuneo, la vita campagnola, la necessità di portarsi a casa il pane e la miseria lasciata dalla guerra che soffocano la passione. De André, nel 1971, con straordinario gusto poetico seleziona solo nove poesie dall’Antologia di Spoon River di Lee Masters, riadattandole; il taglio scelto e la caratterizzazione dei personaggi di Faber vennero definiti, nell’intervista che lei gli fece, “migliori” persino da Fernanda Pivano, appassionata traduttrice dell’Antologia - consigliatale dal suo professore che l’amava, Cesare Pavese. Dei nove brani dell’album solo due presentano un articolo determinativo: La Collina, il primo, su cui tutti dormono (le voci sono infatti dei morti del paese di Spoon River), e Il Suonatore Jones, l’ultimo, anticipato già nell’ultima strofa di La Collina – Dov’è Jones il suonatore, che fu sorpreso dai suoi novant’anni e con la vita avrebbe ancora giocato? Lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo […]. Le altre voci sono di uomini falliti, auto costretti in un appellativo misero, spesso coincidente con la professione o con la malattia, che sfogano il rimorso di aver vissuto d’invidia, o di aver commesso errori troppo grandi, con un amaro rammarico. Jones aveva scoperto l’ingrediente segreto per un’elisir di giovinezza; De André l’ha eternata in parole musicate.


AUDIO PHILEs Neil Young – After the Gold Rush (Reprise Records, 1970)

Acustimantico – Tempo di Passaggio (Helikonia, 2012)

di Francesco Bonzanino

di Edo Mazzi

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uesto disco, preceduto dal celeberrimo “Harvest” e seguito dal sublime “Deja vù”, con Crosby, Stills e Nash, immortala il sound classico di Young, con una chitarra acustica che accompagna il lamento di una voce sul punto di spezzarsi, che però porta avanti testi introspettivi e, per certi versi carcihi di una certa rabbia. Con le prime tre tracce la chitarra acustica di Young ti riscalda e ti proietta in una baita tra le montagne del suo Canada, su un divano sfondato e senza molle, davanti ad un fioco caminetto; la bottiglia di whiskey è a terra in mille pezzi e voi siete tra le braccia di Morfeo a fluttuare tra i lontani ricordi della terra natia. “Southern Man” riporta alla realtà in modo brusco e prepotente, ma piacevole con un testo che affronta la scottante tematica del razzismo nel sud degli Stati Uniti con toni irriverenti e assoli stordenti. Il risveglio continua con “Till the Morning Comes” che ha un ‘quid’ di desperado. Nel secondo lato la percezione è più quella di essersi messi in viaggio su una vecchia decapottabile attraverso un paesaggio più caldo, senza che perciò aumentino le certezze.“Oh Lonesome Me” è una canzone di vecchia saggezza di delusione, di addio a sentimenti vecchi e di debole speranza. E’ sconsolata, invece, la distesa aperta da “Don’t Let it Bring You Down”. “When You Dance I Can Really Love”, e mai parole più azzeccate, sostenuta da una chitarra che svela picchi piuttosto alti e un flauto insistente; una melodia che ti sballotta come vuole lei e poi ti riporta indietro solo leggermente scosso. “I Believe in You”, a fatica, ma in modo vero e puro, come fosse una richiesta pietosa anziché un’affermazione; caldamente consigliata al vostro gentile ascolto. La goffa “Cripple Creek Ferry”dal ritmo ingombrante e quasi grossolano chiu-de il sipario su un disco strano da scoprire e da capire tanto per noi quanto forse per Young la sua vita in quel momento.

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Al cuore si comanda. » (Acustimantico, “Febbre Alta”)

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li Acustimantico, gruppo romano fondato nel 1998, sono uno dei pochi gruppi musicali italiani contemporanei, autori di una musica e di testi degni di un grande ascolto. La bellezza dei loro album come “Tempo di Passaggio”, infatti, sta proprio nei testi, narrazioni ispirate, vere e sensibili, accompagnati da melodie che variano nello stile dall’acustico, o jazz, allo psichedelico. Apre le danze “Canzone di Giugno”, un evidente richiamo all’estate, in cui la splendida voce della cantante è accompagnata da arpeggi di chitarra, percussioni e sax. Segue una delle canzoni più interessanti del disco, “Assoluto”. Ispirata a un’esperienza di una notte di dolore, ha in sé un’atmosfera molto triste, ma quello che colpisce è proprio il testo, il cui protagonista è un merlo; dalle note finali traspare un chiaro omaggio a “Blackbird” dei Beatles. Dal ritmo acustico, tipico dello stile del gruppo, è “Il Cane Infedele”. La “Canzone del Mattino”, in cui è citato un verso di Auden, arricchisce le capacità liriche a larga veduta dell’autore dei testi, Danilo Selvaggi. Dall’andamento lineare e conciso è “Febbre Alta”, in cui il testo commuove per grandezza e sincerità; quest’atmosfera sfocia, infine, in un delicato assolo in sordina. Colpisce davvero molto il ritmo di “Il Buon Insegnamento”, che si potrebbe definire arpeggiato, in cui sono molto presenti le percussioni, e il sax di Marcello Duranti. Con “Punk Islam”, cover dei CCCP, inizia la parte più interessante dell’album, una trilogia di canzoni dedicate alla Primavera Araba. Davvero singolare in questo brano è la melodia, che riprende abilmente lo stile orientale, in particolar modo quello arabo, e ovviamente notevole è l’abilità vocale di Raffaella Misiti. Il clarinetto e il basso caratterizzano “Piccolo Carro di Frutta in Fiamme”. La trilogia si conclude con “Libano”, in cui nuovamente si apprezza la grandezza dei testi, a cui gli strumenti fanno solo da contorno, ricreando un’atmosfera magica, alla voce della cantante. Di pochi versi è, invece, “Psico A”, canzone non per questo meno preziosa, perché resa grande da una stupenda atmosfera psichedelica, quasi totalmente strumentale. Un breve pianoforte caratterizza “Da un Luogo a un Altro”. L’album si chiude con la title track; canzone che porta con sé il messaggio dell’intero disco, esprimendolo attraverso un raffinato mix di parole e musica.

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Cultura / racconti LA FIGLIA DI PARSIFAL di Federico Regonesi

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Servivo un essere cui si dà il nome di Dio prima che si fosse permesso di espormi ad oltraggioso scherno e che mi ricoprisse di onta... Sono stato suo servitore sottomesso, perché credevo che mi avrebbe accordato il suo favore: ma d’ora in poi mi rifiuterò di servirlo.>> Parsifal - “Parzifal” di Wolfram von Eschenbach. La giovane Sofia era impegnata a stendere nel cortile sul retro, quando arrivò la notizia della tempesta. Tra le pieghe delle lenzuola stese vide un uomo lanciarsi a perdifiato lungo la piazza del paese. Sorridendo, si appoggiò allo steccatello di cinta della sua casetta colonica, osservando l’ometto macilento, ossuto, talmente sudato che la camicia gli stava appiccicata alle costole come uno straccio bagnato. Per il sudore l’unto dei capelli gli rigava il viso, aggiungendo al volto spigoloso una nota tribale; le labbra spaccate dal sole stringevano una bocca sottile; le gambe non smettevano di tremare, e le mani si serravano e si aprivano a un ritmo che toglieva

il fiato. entrò in casa e prese il bel portafogli Giunto nel mezzo della piazza, urlò di pelle di struzzo. Si diresse all’unica fino a che non sentì la gola spellarsi drogheria e alimentari e farmacia del per lo sforzo. paese -”Da Pepito”- dove comprò da Poi pronunciò le sue ultime parole:” un istupidito commesso svariati chili Sta arrivando... è la tempesta, La di riso, del latte fresco, pane, farina Tempesta...Cento anni, nove mesi e e formaggio in abbondanza. Ritornò nove giorni...non c’è salvezza, il cielo piano a casa, godendosi meticolosati schiaccia e mente l’ultimo ti abbraccia sole della sua Non aveva la loro stessa umanità. presente vita. contemporaneamente... Loro vivevano di infinite possibilità, Spinse i chiodi Lei mi ha nelle finestre, lei viveva nella certezza di detto di ansbarrò la poruna fine scritta nel cielo. nunciarla... ta. Accese per l’ha fatto col tutta la casa vento, sapete?...” Detto questo, il candele artistiche olezzanti di fiori volto si rilassò. d’oltremare. Poi cominciò a staccare Sorrise. e bruciare sistematicamente tutti gli Mormorò un saluto sommesso e specchi della casa. Ogni volta la stessa stramazzò al suolo come un sacco giovane donna la fissava dal riflesso. vuoto. La prima cosa che ogni uomo notava in lei erano gli occhi azzurri, gelidi e Completamente svuotati dalla consa- distanti. Erano di una profondità sipevolezza della verità, i paesani comin- derale, belli e vuoti come l’universo. ciarono a sbaraccare. Salirono su Aveva labbra fertili che sapevano di cavalli affamati e miserrimi carretti, terra e pioggia e campi gravidi di seallontanandosi col sorriso di chi ha menti; un nasino da orefice sbalordiva perso tutto. chiunque lo vedesse. Uomini di tutte Partirono tutti tranne lei, Sofia. le terre avevano versato lacrime di Subito dopo l’apparizione dell’eletto bambino alla vista di quel nasino. Il bel corpo era cinto d’una pelle puramente spirituale, fatta di lucciole e aria fresca dopo la pioggia. Sorrise di un sorriso amaro.

Edvard Munch: La tempesta (1893)

Finito che ebbe di distruggere l’ultimo dei cento specchi lunari che teneva in casa, si sedette in poltrona a osservare il falò della sua vanità. Ascoltò il cigolio ritmico dei caretti degli esuli che la lasciavano sola. In qualche modo li invidiava. Lei non poteva ricominciare. Ma sapeva che in qualche modo non poteva nemmeno finire. Non aveva la loro stessa umanità. Loro vivevano di infinite possibilità, lei viveva nella certezza di una fine scritta nel cielo. Lei era un’emanazione dello spirito di quel luogo, di quel nido. E dato che la natura aveva deciso di privarla della 22

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John William Waterhouse: Mirand, the Tempest (1916)

sua terra, allora lei aveva deciso di Il suo lato spirituale aveva finalmente privare il mondo di lei. prevalso. Lei aveva smesso di esiVenne la pioggia. Una goccia sul tet- stere, ma non aveva smesso di esserci. to. Scorre sulla finestra. Pioggia sui Da anni era spiovuto. Si portò fuori di sassi nel cortile, sotto l’erba in giar- casa, e in sé sentì la polvere di fango dino. Subito che ammorbalo steccatello va l’atmosfera. Il suo lato spirituale aveva diventa ranUn rigagnolo finalmente prevalso. cido d’acqua. giallastro scaIn un attimo vava il suolo Lei aveva smesso di esistere, il fango batte ma non aveva smesso di esserci. polveroso, non sulle mura di erano nuvole casa, bussa in cielo o alberi alla porta. Urlano i cardini delle fin- all’orizzonte. Non c’era più un uomo estre. Il vento. Le gocce scivolano al mondo che potesse gioire della sua sulle tegole. Lampi, fulmini. Tutti gli bellezza. alberi crollano, l’erba e strappata e Si aggirava per quel mondo solo, soffocata. Ma la casa resiste. La sua superando fiumi di zinco liquidecisione, la sua pelle d’aria dopo un do e montagne senzienti di celtemporale e di lucciole la sorressero luloide. Un pianeta artificiale, per anni. vivo di una vita di seconda mano. Poi un giorno Sofia si svegliò. Poi lo vide.

L’ultimo uomo al mondo. Stava lì, chino a terra, sporco e solo. Scava alla riceca di chissà cosa. Magari voleva solo sentire la terra sulle dita. Non era bello, ma aveva negli occhi lo sguardo di Adamo. Scavati dal piangere, erano profondi e neri, come l’universo. Lei si avvicinò. Lui era senza parole. Lei e lui erano pietrificati dalla bellezza inverosimile insita nell’essenza dell’altro. Finì nell’abbraccio, nell’amplesso di un secondo. Nessuno dei due cuori resistette all’improvvisa fine di una vita di solitudine, e serrati in un abbraccio di sussistenza sentirono la vita scivolare via. Lui mormorò un saluto. Sorrisero. Stramazzarono al suolo.

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Cultura / racconti IL GALLO CHE SALVO’ ROMA. #2 di Pietro Klausner

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state dell’anno 222 a.C. I consoli Marcello e Scipione assediano Milano. Aprì la porta e vide che la luce proveniva da un fuoco immenso dove vari oggetti, già troppo consumati dalle fiamme per essere riconoscibili, stavano bruciando. Da quel rogo infernale all’improvviso spuntò un cavaliere, imponente e fiero, che si avventò su di lui e lo tramortì. Accasciandosi al suolo, il ragazzo sentì il rumore di passi ritmati e di grida piene di terrore e sgomento… Furono quelle stesse urla a svegliarlo: le sentinelle sulle mura squarciavano il silenzio dell’alba con grida d’allarme. Guardò oltre i bastioni della città e vide la fanteria romana schierarsi, mentre catapulte e torri d’assedio venivano innalzate. Da quando era stato avvistato l’esercito romano, il ragazzo si era accampato sul tetto dell’edificio dei magistrati per osservare i movimenti del nemico; ora, però, comprese di doversene andare subito per rintanarsi nel nascondiglio che si era preparato vicino al negozio del fornaio. Prese a calarsi lungo una parete laterale del palazzo e, quando fu all’altezza della sala del consiglio, udì una voce straziata c h e lo incuriosì e lo turbò. Si acquattò sul cornicione per ascoltare meglio e capì che a parlare era il vecchio druido, quello c u i aveva rubato la pergamena: “Ah!” gridava dis p e r a t o il saggio. “Avremmo do24

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vuto usare quella potente droga per persuadere i consoli romani a non attaccarci! Ora non abbiamo più scampo!” “Interessante,” pensò compiaciuto il ragazzo. “Dunque, la formula scritta sulla pergamena è quella di una droga capace di soggiogare la volontà altrui. Davvero molto interessante…” Una volta a terra, corse sino al suo rifugio. Nelle notti precedenti era riuscito a rubare un pugnale e una spada, armi maneggevoli adatte a uno che, come lui, sapeva muoversi nell’ombra; ma, non avendo mai combattuto, non si era curato di rubare anche uno scudo: sapeva benissimo che in uno scontro diretto sarebbe morto. Si era invece procurato un’armatura leggera, in cuoio, che gli avrebbe dato un minimo di protezione. Quando fu al sicuro, sentì le mura cedere in un gran boato, segno che l’esercito romano stava per riversarsi nella città. Chiuse gli occhi per un istante cercando la calma, la freddezza che gli era necessaria a sopravvivere. Le urla si propagarono in pochissimo tempo. Senza vederlo, diversi soldati romani passarono davanti al suo nascondiglio, una piccola fossa ricoperta d’arbusti. Giaceva immobile, attento, respirando piano, quando all’improvviso il fornaio uscì correndo dalla porta della bottega, inseguito da un legionario. Il povero uomo inciampò e senza riflettere, senza neppure sapere cosa stava per fare, il ragazzo si

mosse in suo aiu-to a spada sguainata: cogliendo di sorpresa il nemico, gli trafisse il petto con un movimento rapido, uccidendolo sul colpo. Un gesto certo sconsiderato e pericoloso, per cui rischiava di essere scoperto dagli invasori. Si guardò intorno e solo allora si accorse di quanto stava succedendo: un enorme incendio era divampato in città, abbattendo edifici, distruggendo al suo passaggio ogni forma di vita; già diversi cadaveri giacevano per le strade ormai tinte d’un rosso spettrale, mentre urla colme d’angoscia tuonavano potenti per ogni dove. Tutto stava crollando, tutto stava finendo. Il ragazzo ebbe giusto il tempo di estrarre la spada dal morto, che un altro romano, questa volta a cavallo, comparve dal nulla e gli si piazzò davanti. Il giovane si mosse per proteggere il fornaio, senza mai lasciare lo sguardo del romano. “Non è da tutti riuscir a uccidere un legionario con un colpo solo… Sì, ho visto la scena da lontano,” esordì il cavaliere in lingua gallica, “e neppure lo è avere il coraggio di affrontare solo con una spada un milite a cavallo. Chi sei, giovane uomo? Chi è costui per cui ti batti?” “Le domande hanno entrambe la stessa risposta, romano: nessuno. Non ho altro da dirti. Puoi provare a uccidermi, ora” rispose spavaldo il ragazzo, con un tono di voce che tradiva l’arroganza delle parole. “Anche di fronte alla morte ostenti coraggio? Ammirevole. Credo proprio che ti siano propizi gli dei: ti porterò a Roma con me.” “Non…” iniziò il giovane, ma il romano aveva già spronato il cavallo, avventandosi su di lui e colpendolo alla nuca. Il mondo divenne scuro e le grida si fecero silenzio.


svago rappus LATINUS metropolitanus di Basta Rhymes

ALLA CREW DI MECENATE T-Bullo: Bella zio, anche se c’hai l’Ora davanti sto troppo messo male e sono in un brutto momento di MC fino ad oggi ne avevo stesi tanti con la metrica, il mio flow: il piano andamento Orazio: Oh T-Bullo il tuo stile fa le cimici, ora devi scrivere in esametri dattilici pure i tuoi argomenti mi sembrano un po’ empirici i verbi e i periodi per me son troppo ciclici non devi far sta faccia e inizia un po’ a sorridere come fosse l’ultimo ‘sto giorno devi vivere sei troppo preso male però non è possibile che ti tremi anche l’arto: la tua grafia è illeggibile! Mo’ dai retta a me che do le paste a Marracash, arrivo da Venosa e faccio solo roba fresh tu levati di mezzo perché ora faccio il cash sto troppo in equilibrio come disse John Ford Nash T-Bullo: C’hai ragione zio: devo proprio imparare a divertirmi tiro fuori le palle perché son proprio un vir, mi piacerebbe poi di una tipella invaghirmi mentre fumo un po’ di salvia al commercio potrei darmi. Io sono MC Albio e c’ho la rima che è magnifica Vengo da Roma e sono il king dell’elegia erotica Ti metto i piedi in testa perché sono io l’auctoritas ed il mio stile è definito tersus atque elegans Orazio: Non fare il grosso perché altrimenti io ti sfregio rimani sempre e solo un venduto delle major adesso appizzati ‘ste rime e sai tu cosa sei? amore? scrivi come quella di 50 shades of grey e i contenuti a dirla tutta sono proprio simili non sei un poeta ed i tuoi versi sono inconcepibili

ORAZIO - UT PICTURA POESIS Bella rega il mio flow è come un dipinto che può sembrare vero oppure può sembrare finto se lo ascolti da vicino poi ti desta lo scalpore ste rime son manate come il carmen saeculare oppure puoi ascoltare sto gran pezzo da lontano è una massima di vita, non un ode ad Ottaviano è troppo potente e dopo un poco ti arrendi io sono il maestro del tuo modus vivendi il mio stile è come in montagna una gran slavina non c’è nessuno che mi tiene testa qui in Sabina un tizio ha provato ad infangar le rime mie allora l’ho distrutto a suon di Odi e Carpe diem non parlo di pesci: è una massima che merita e non sono ovvietà ma sappi che la vita è brevitas concetti paiura insieme ad una grande metrica ti insegno come scrivere attraverso l’ars poetica

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Disegni di Francesca Bonini


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