Terzo numero

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L’editoriale

di Alessandra Venezia

Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle” Queste le celebri parole di Voltaire, oggi più che mai attuali e condivise. Mi viene facile riferirle almeno a due episodi degli ultimi mesi. Il primo riguarda il piccolo universo carducciano. Il 2014, infatti, si è concluso con una grande polemica riguardo un articolo pubblicato sul nostro giornale nel mese di dicembre. Per questo scelgo di dedicare alcune righe per spiegare la vicenda, così da sgravare dalle responsabilità la redazione e rendere chiare a tutti gli studenti le dinamiche. Appartenere alla redazione di un giornale scolastico fornisce alcuni degli strumenti necessari per capire come funziona una redazione vera, nel mondo vero, e pone davanti a delle decisioni e a delle responsabilità. Nessuna scelta è casuale. Vi è una faticosa organizzazione dietro le pagine che, circa ogni mese, vi trovate fra le mani: una squadra di correttrici di bozze, un team di impaginatrici e, alla fine, io e il professore referente, che abbiamo il compito di revisionare l’intero prodotto, correggere le imperfezioni rimaste e risolvere gli ultimi dubbi. Solo dopo questa lunga serie di passaggi il giornale va in stampa e finisce sui vostri banchi. Nessuna scelta è casuale. La decisione di pubblicare un articolo, come quello del numero scorso, così provocatorio e non condiviso da gran parte della scuola e prima ancora della redazione, è stata

Pag presa considerando che il nostro non è un giornale di parte, dunque tutti hanno lo stesso diritto di scrivere ed esporre le proprie idee. Non c’è, nella storia dell’Oblò, un solo episodio di censura per contenuti, e basta che ciascuno prenda i numeri degli anni scorsi perché trovi almeno un articolo che non condivide. La censura per ideologia avrebbe provocato problemi ben peggiori di una mattinata di dicembre infuocata dalle polemiche e dalle discussioni di disapprovazione generale, che poi è anche quello a cui dovrebbe servire un giornale: stimolare, indurre al confronto e, perché no, anche all’arrabbiatura. Questo numero è la dimostrazione della nostra coerenza: troverete infatti pubblicate le varie risposte all’articolo sui “Falsi miti del progresso”, nessuna esclusa. Più amara risulta, invece, la citazione iniziale se collegata all’attentato alla redazione del giornale francese Charlie Hebdo del sette gennaio scorso. Dodici persone uccise e insieme a loro anche la libertà di stampa. Che in un Paese occidentale, oggi, nel 2015, non si abbia la certezza di poter scrivere, disegnare, recitare o cantare ciò che si pensa senza subire danni fa riflettere. Si può non condividere un’idea, ma ci si deve battere fino alla morte perché, nei limiti della costituzione, essa venga espressa, e non di certo costringere alla morte coloro che la esprimono. È all’intera redazione di Charlie Hebdo che dedichiamo questo numero, a partire dalla copertina speciale. De tout couer avec Charlie Hebdo.

La redazione dell’oblò

redattori | Cleo Bissong IIIB, Alice De Gennaro IIB, Bianca Carnesale IIIA, Giulio

Castelli IIID, Letizia Foschi IIB, Margherita Ghiglioni IC, Giorgia Mulè IE, Alice de Kormotzij IIIA, Martina Locatelli VA, Beatrice Penzo IIIE, Francesca Petrella VC, Rebecca Daniotti IIF, Cristina Isgrò IIIA, Valeria Galli IIIA, Federica Del Percio IIIB, Julia Cavana IIID, Marta Piseri IIIE, Giulia Casiraghi IVC, Tatiana Ebner IF, Davide Recalcati IB, Olivia Manara IF, Filippo Lagomaggiore VA, Giulia Pasquon VA, Linda Del Rosso IIC, Isabella Marenghi IF, Emma Cassese IB, Maria Chiara D’Agruma IC, Elena Scloza IIID, Sara Monaco IIID, Greta Anastasio IIIB DISEGNI DI | Olivia Manara, Cleo Bissong, Beatrice Penzo DIRETTRICE | Alessandra Venezia VB Capo redattore | Beatrice Sacco IVD Docente referente | Giorgio Giovannetti Collaboratori esterni | Emanuele Caporale IVD, Leonardo Zoia IVD, Giuseppe Pietro Pepe IVB, Isadora Seconi VB, Giovanni Bettani IIID, Giorgio Di Maggio VB, Elena Coen Tanugi VC, Oliviero Leonardi VC impaginatori | Beatrice Sacco, Rebecca Daniotti, Bianca Carnesale 2

L'Oblo' sul Cortile | Anno IX, n° III

sommario

4 #jesuisnigeria 5

“la libertà comincia dall’ironia” victor hugo

6-7 omosessualità: proviamo a fare chiare

zza

8

libera di scegliere

9 la vera libertà gayzebù

10

il diavolo veste xs

11 12-13

come l’ignoranza uccide

14

vanni padovani

15 debunkers’ report

16

report from the usa

17

l’anarchia esistenzialista di fabrizio de andrè

18 lesbica non è un insulto 19

spettacolo teatrale “come d’au

20

dimmi come scrivi e ti dirò chi sei

tunno”

21

ter mitty i sogni segreti di wal

22

magic in the moonlight

23

il ricco, il povero e ggiordomo | braccialetiltima rossi

24

the imitation game

25

class enemy

26 27 28

l tutto

| la teoria de

mad sounds l’amante di lady chatterly

agura trat | joyland

29

il deserto dei tartari e il valore dell’ attesa

30

il paradiso dipende da noi | l’offesa

31

32

l’oroscopo a

retro copertin


Attualità

charlie e il web di Cleo Bissong

L

'attentato del 7 gennaio alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, che ha causato la morte di dodici vittime, ha attirato su di sé attenzione mondiale. Tutto il mondo si è rivoltato, scandalizzato da quell'azione così aggressiva mirata a mettere a tacere una voce sgradita all’ISIS, i terroristi che hanno quindi deciso di prendere le armi per porle fine. Poche ore dopo la tragedia ha iniziato a diffondersi per la rete a incredibile velocità un messaggio di solidarietà e di protesta per la violata libertà di espressione: Je Suis Charlie. Questa affermazione è nata appena un'ora dopo l'attentato, quando l'artista e giornalista Joachim Roncin ha pubblicato su Twitter un'immagine con lo slogan, che entro il pomeriggio seguente era comparso sotto forma di hashtag più di 3,4 milioni di volte. In seguito ad esso se ne sono diffusi in pochissimo tempo numerosi altri, sempre dedicati alle diverse vittime, e sempre con la funzione di rendere attivamente partecipi tutte le persone che erano potute essere solo semplici spettatori di questa tragedia, e che nell'impotenza di chi non può fare nulla, sul momento, avevano trovato una soluzione nel diffondere il più rapidamente possibile la notizia, seppur inconsciamente e a volte semplicemente seguendo la massa. È stato osservando questo fenomeno che mi sono resa conto della presenza di varie “fazioni” o “parti”, possiamo dire, riguardo a questa storia. Infatti quella di cui ho appena parlato è appena la maggioranza che si esprime, ed è formata da coloro che, come ho già detto, non hanno avuto nulla a che vedere con l’attentato, ma che sono rimasti così colpiti che la diffusione virale è stata inevitabile. Della stessa parte, anche se in altre situazioni sarebbe strano, ci sono i contrari, le persone controcorrente che hanno trovato una falla nelle azioni della massa e hanno voluto metterle in evidenza, facendosi notare per riuscire nell’intento.

Queste persone hanno quindi chiamato l’attenzione attraverso hashtag come #JeNeSuisPasCharlie, che afferma l’esatto contrario del suo parente più popolare: Io non sono Charlie. Il primo pensiero che attraversa la mente di un individuo che legge queste parole è di aver individuato un terrorista o un loro alleato, che pensa che la morte dei redattori del giornale e delle altre vittime innocenti casualmente coinvolte sia stata giusta e meritata. Ed è così che l’attenzione dell’individuo medio è attirata, individuo che resterà deluso dal rendersi conto che, solitamente, chi fa uso di questo hashtag, pur rispettando la morte dei giornalisti, esprime la sua disapprovazione nei confronti delle vignette satiriche del settimanale che accusa di essere spesso di carattere infantile e spesso razzista. E contro ciò non si può dire nulla, essendo un’opinione che può essere condivisa o meno. L’hashtag è stato però usato anche da alcuni che protestavano per il risalto in cui era stato messo l’attentato terroristico francese rispetto a quello avvenuto in Nigeria nella stessa settimana e anch’esso a opera di un gruppo di estremisti islamici e con un numero di vittime di molto superiore. Effettivamente, di quest’ultima notizia si è parlato molto meno, probabilmente per la lontananza del contesto rispetto alla realtà occidentale, che quindi lo rende meno spaventoso. E

ciò potrebbe spingere l’individuo a una riflessione che magari gli farà assumere un’opinione più individuale rispetto a quella di massa a cui poteva essersi unito. E simili a loro altri hanno postato opinioni contrassegnate da diversi hashtag come #JeSuisJuif o #JeSuisFlic (rispettivamente “Io sono ebreo” e “Io sono poliziotto”) nel momento in cui tutta l’attenzione era incentrata su Charlie, ignorando i fatti che accadevano ai lati, meno notati. Ma un’altra voce ha voluto farsi sentire attraverso la rete, che io reputo l’altra “fazione”, l’altra parte, non esattamente opposta, ma nemmeno associabile con la prima. Attraverso l’hashtag e antico slogan ripreso “Not in my name”, col quale tutte le persone di religione musulmana che ne sentono la necessità rendono chiaro ciò che vorrebbero dire a ogni singola persona che chiede loro un’opinione, aspettandosene una concordante con l’attacco: non sono d’accordo e condanno l’ISIS che abusa del nome dell’Islam con i loro atti terroristici. La necessità di questa iniziativa (nata con una serie di foto da parte dell’Active Change Foundation a Londra) è data dal non volersi giustificare di un’azione di cui delle persone regolari vengono ingiustamente accusate pur non avendola compiuta, ma nello scenario della quale, in una visione d’insieme, vengono inseriti.

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Attualità

#jesuisnigeria di Beatrice Sacco e Rebecca Daniotti

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ondra, Berlino, Roma, Madrid, Bruxelles, Atene, Buenos Aires, Sidney, Tokyo e New York. Tutte queste città e molte altre sono scese per le strade a manifestare contro il terrorismo e l'attacco del 7 gennaio alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Milano non è da meno. È il 10 gennaio quando diecimila persone, tra cui noi due, si riuniscono in piazza Duomo per far capire al mondo che la nostra città non si deve solo ricordare come capitale della moda, ma anche come città sensibile e pacifista. Tra le associazioni che hanno aderito al presidio organizzato da Emergency ne ricordiamo alcune in particolare: Acli, Altra Europa Milano, Associazione Città Mondo, Comunità Kurda e Somala di Milano, Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano, Giovani Musulmani d’Italia, Istituto culturale islamico di viale Jenner, Unione degli Studenti Milano. A parlare sul palco sono vari esponenti delle sopra elencate organizzazioni milanesi, che con parole piene di speranza scaldano l'aria invernale. È soprattutto con l'intervento di Maryam Ismail, rappresentante della comunità Somala, che ci investe un senso di amarezza. Banalmente, perchè fare di tutta l'erba un fascio? Come Etty Hillesum scriveva nel suo diario: “Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero”, così dobbiamo sempre ricordarci di non identificare come terrorista l'intera comunità musulmana. Perchè come non tutti i tedeschi sono nazisti, allo stesso modo non tutti i musulmani sono terroristi; l'errore, che porta al luogo comune, sta nel generalizzare. La giornata si chiude con il discorso di Cecilia Strada, presidente di Emergency: “Il messaggio di oggi deve essere “Da una matita spezzata ne rinascono due”. Quando si attacca una scuola bisogna costruirne cinque, quando si attacca un ospedale bisogna costruirne dieci. Pensiamo che i diritti 4

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siano veramente l’unico antidoto alla violenza, anche perché ci sembra che questi quattordici anni di guerra al terrorismo non abbiano funzionato. Abbiamo più paura e più terrorismo di prima”. E’ sempre stimolante ascoltare parole come quelle di Cecilia, che fanno capire quanto grande sia il bisogno di rimboccarsi le maniche per cambiare e migliorare il mondo in cui viviamo. Un mondo in cui i diritti ora come ora sono calpestati dall’odio e dal terrorismo. Ed è per questo che dobbiamo partire da noi, in quanto cittadini di questo Paese, scendendo in piazza a far sentire il nostro no contro tutte le tragedie e barbarie che ancora oggi, purtroppo, all’alba del ventunesimo secolo, avvengono. Ma è bene sottolineare che quello di Charlie non è stato l’unico atroce episodio svoltosi in questi giorni. Quasi nessuno lo sa, perché quasi nessuno ne ha parlato, ma a Baga, in Nigeria, tra il 3 e il 7 gennaio, è avvenuta una strage che ha contato un numero di morti pari a duecento volte quello del giornale parigino. Vittime del massacro da parte dell’organizzazione jihadista Boko Haram sono stati uomini, donne e bambini. L’attacco, inoltre, ha portato alla distruzione totale di sedici villaggi e della città stessa di Baga. Era Gad Lerner a parlare così nel suo

intervento del 10 gennaio: “La voglia è di girare la testa dall’altra parte; credo che sia una voglia delle tante, tante migliaia di persone che sono qui nel centro di Milano a guardare le vetrine e a fare acquisti e che non sono con noi, che pure siamo numerosi. Ma perché è molto faticoso rimettere in gioco anche i nostri schemi, fare delle scelte, imparare le lezioni della storia quando eventi di questo tipo si manifestano”. Siamo tutti spaventati davanti ad attacchi simili, e tutti abbiamo l’impulso di voltare le spalle a ciò che non riguarda il nostro piccolo. Diremmo proprio che la strage di Baga non si possa considerare un episodio di minore importanza; infatti come la libertà di parola, violata con l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, così il diritto alla vita è di ugual, se non di maggior rilevanza. Eppure la voce non si è sparsa e di manifestazioni non ce ne sono state. Nessun europeo è sceso in piazza a sostenere la Nigeria e i suoi abitanti. Nessun cartello, nessuna immagine di #JeSuisNigeria. Se le tragedie avvengono in una casa che è la nostra, siamo subito pronti a batterci per la giustizia e la non violenza. Ma se le tragedie avvengono in una casa che non è la nostra, cosa siamo disposti a fare?


“la libertà comincia dall’ironia” victor hugo a cura di Giorgia Mulè

L

’attentato terroristico a Parigi ha fatto tremare tutto in mondo. Ecco l’opinione sull’accaduto della giornalista Emanuela Mastropiero, lavoratrice in Francia, che ci concede un’intervista in cui la parola chiave è “tolleranza”. 1) Da giornalista, come si sente dopo l’attentato a Charlie Hebdo accaduto pochi giorni fa a Parigi? Sono sempre stata cosciente che la professione di giornalista, in alcune regioni del mondo, comportasse dei rischi. Nel 2014, secondo le stime dell’International Federation of Journalists, 118 reporter hanno perso la vita facendo semplicemente il loro mestiere. È successo in Pakistan, Siria, Afghanistan, Palestina, zone di guerra e di conflitti. Non avrei mai immaginato, però, che potesse accadere anche nel cuore di una capitale occidentale, nella normalità di un mercoledì di gennaio dove il titolo principale della giornata era dedicato ai saldi post-natalizi. Sono passate diverse settimane dall’attacco ma la sensazione che mi pervade è ancora d’incredulità. 2) Qual è l’aspetto della vicenda che l’ha colpita di più? Il clima di unità nazionale che si è instaurato dopo gli attentati. La classe politica ha messo da parte divisioni e conflitti per condannare all’unanimità gli atti terroristici e incitare il popolo francese a non cedere alla paura. Due immagini mi sono rimaste particolarmente impresse: la stretta di mano tra due nemici giurati, il presidente François Hollande e il suo predecessore all’Eliseo, Nicolas Sarkozy, e la Camera dei deputati che, spontaneamente, intona la Marsigliese.

nostre libertà, e come vadano difese. 4) Molti sostengono che il giornale avrebbe dovuto moderare la satira contro la religione islamica. Cosa ne pensa a riguardo? Credo che moderazione e satira siano due termini in contraddizione. La satira (in particolare quando si esprime attraverso la caricatura) è di per sé eccessiva, poiché fa leva sulla provocazione. In ogni caso, nessuna vignetta, anche la più insolente, può giustificare il ricorso alla violenza. Detto questo, il dibattito sui limiti della libertà d’espressione è legittimo. Dove finisce la libertà e comincia l’insulto? In democrazia, è la legge che fissa i confini. Ma la legge si basa sulla morale generale, che può variare da un paese all’altro, anche in Occidente. Per esempio, in Francia, patria della laicità, non esiste il reato di blasfemia e ogni critica alla religione è legittima. Non è il caso dell’Italia, dove il vilipendio della religione è tuttora previsto dal codice penale. Negli Stati uniti, paese in cui in nome della libertà d’espressione è possibile istigare all’odio razziale senza essere sanzionati (contrariamente a quanto succede in Francia e in Italia), la religione resta un soggetto tabù. Che fare allora? La risposta non può essere la censura ma piuttosto l’invito alla tolleranza e, soprattutto, al rifiuto del fanatis-

mo. Come scriveva George Orwell, l’autore di «1984» «la vera libertà di stampa è il diritto di dire alla gente quello che non vorrebbe sentirsi dire». 5) Ha partecipato alla manifestazione che ha avuto luogo due giorni dopo l’attentato in Place de la République? Sì, e ci sono andata con la mia famiglia. Nei giorni precedenti c’era chi sconsigliava di parteciparvi per timore di possibili incidenti. Quando mia figlia, che ha 14 anni come te, mi ha detto che voleva assolutamente venire alla grande marcia per la libertà d’espressione, ho avuto un attimo d’esitazione. Poi mi sono detta che cedere alla paura significava fare il gioco dei terroristi. Così abbiamo stampato dei cartelli con la scritta « Je suis Charlie » e ci siamo unite alla marea umana che ha invaso pacificamente Parigi . 6) Si aspettava una reazione così partecipe da tutto il mondo? Ci speravo, ma la risposta è andata al di là di ogni previsione. C’erano persone di tutte le età, di culture e origini differenti. Moltissimi bambini e adolescenti. La gente si scambiava sorrisi, applaudiva le forze dell’ordine, si teneva per mano. È stato un grande momento di fratellanza e un balsamo sulle ferite provocate dagli attentati. Ne avevamo tutti bisogno.

3) Secondo lei si può ancora parlare di "libertà di opinione e di stampa" dopo l’attentato? Sì. È stato proprio Charlie Hebdo a dimostrarlo: pur decimata, la redazione è riuscita a preparare un numero che resterà nella storia, venduto a 7 milioni di copie. Il massacro nella sede del settimanale ci ha costretto a riflettere su quanto siano preziose le

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Attualità

omosessualità: proviamo a fare chiarezza

di Giorgio Di Maggio

N

onostante la maggioranza degli Stati europei e delle Americhe riconoscano le unioni di coppie omosessuali e di recente Roma abbia approvato il registro delle unioni civili, nonostante cioè tutto il mondo occidentale si stia muovendo nel riconoscere i diritti dei gruppi LGBT, parlare di omosessualità è ancora tutt’altro che facile e banale. Benchè tutti, infatti, abbiano la loro opinione in merito, e non si facciano troppi problemi ad esprimerla, non sono altrettanti quelli che hanno ben chiaro ciò di cui stanno parlando: la tematica omosessuale (se mi si permette il paragone) è un po’ come quelle canzoni talmente famose che tutti sanno più o meno cantare, ma su cui i più, puntualmente, stonano, perché a studiarle per bene non ci si mette quasi nessuno. Questo è il motivo per cui vorrei esporre sinteticamente ciò che, ad oggi, si sa sull’omosessualità, premettendo fin da subito, per correttezza, che sono personalmente a favore della parità di diritti per omosessuli e coppie di fatto, nonché omosessuale io stesso. In realtà, anche la comunità scientifica ha le idee poco chiare in merito all’omosessualità: le ricerche che si accumulano, e che vertono quasi unicamente sull’ omosessualità maschile, non sono ancora giunte a una conclusione esaustiva. Si sono sviluppate in questi anni numerose teorie in merito, che si possono fondamentalmente raggruppare in tre macroinsiemi: la teoria innatista, che lega per lo più l’omosessualità a fattori di ereditarietà genetica, la tesi psicologica, che afferma che l’orientamento sessuale sia il frutto dello sviluppo della psiche individuale, e la tesi volontaristica (ad oggi forse la più debole) secondo cui compiere atti omosessuali è il risultato di una libera scelta individuale. Ad arricchire ulteriormente la visuale sul fenomeno, si sono recentemente sviluppati studi di carattere evoluzionis6

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tico che, in ottica darwiniana, collegano l’omosessualità maschile alla fertilità femminile nelle speci animali a riproduzione sessuata (visto che l’omosessualità non è un prerogativa unica degli esseri umani). La comunità scientifica, quindi, non riesce ancora a fornire una spigazione definitiva sull’origine del fenomeno; si ritiene, tuttavia, che tratti umani così complessi, come la sessualità, non possano che dipendere da una molteplicità di fattori, e che, dunque, una spiegazione condivisibile debba attingere da piü di una tesi finora sviluppata. E noi cosa possiamo dire? Di certo basta un minimo di umiltà per comprendere che, su una questione così complessa, è impossibile esprimere, su basi og-

gettive, un giudizio qualitativo, quale che l’ omosessualità sia da condannare, soprattutto di fronte al dato di fatto della sua esistenza in tutte le comunità umane dei vari secoli. Se, tuttavia, si è in dubbio sulla possibile origine dell’omosessualità, di sicuro i dubbi non sussistono sulle così dette “teorie riparative”, che pretendono di rendere eterosessuale chi non lo è: queste terapie sono inefficaci, nel migliore dei casi, e spesso possono anche procurare danni a chi vi si sottopone. Mettendo da parte la domanda che a me sorge spontanea, di come si possa pretendere di curare qualcosa di cui, come abbiamo appena visto, non si conosce il valore e la meccani-

ca, sono fin troppi i dati oggettivi che dimostrano l’inconsistenza di tali trattamenti. Innanzitutto non esistono studi definitivi che abbiano comprovato l’effettiva uscita dall’omosessualità da parte di omosessuali che dicono di essere diventati eterosessuali; i pochi esistenti (quasi tutti svolti da associazioni di matrice religiosa) non sono mai stati sottoposti a revisione paritaria e sono aspramente contestati per la loro metodologia d’indagine ritenuta ascientifica. Inoltre, l’associazione americana degli psicologi e quella degli psichiatri, insieme a quelle italiane unitesi piü di recente, negano l’efficacia delle terapie e in uno studio condotto dall’associazione americana degli psichiatri del 2009 aggiungono che esistono “prove che tali tentativi procurino danni ai pazienti”. Il documento, però, analizza solo le terapie che hanno un chiaro programma medico; infatti, molte comunità riparative si rifiutano di rendere noti i loro metodi, e si può ben capire il perché, visto che da testimonianze sappiamo che i mezzi di “recupero dall’omosessualità” sono: sedute di psicanalisi demolitiva, astensione da qualunque contatto fisico, condizioni di semi isolamento, terapie di condizionamento (che consistono nell’associare al dolore di una piccola scarica elettrica le immagini “scorrette” che provocano eccitazione), sedute di preghiera e purificazione di gruppo. E questi sono i trattamenti attuati in occidente, ma in altri Paesi, come l’America Latina, più che di terapie riparative si dovrebbe parlare di vere e proprie torture, visto che si arriva alla segregazione, alle percosse e all’esorcismo. Se tutto ciò non fosse sufficiente a dimostrare l’assurda insensatezza di queste terapie, si possono anche considerare i fallimenti da esse collezionati nel corso degli anni. Nel gennaio 2012, Alan Chambers, presidente di Exodus International (la più importante organizzazione promotrice delle terapie riparative, poi chiusa nel 2013) ha


dichiarato che il 99.9% dei soggetti al trattamento non aveva vissuto un cambiamento dell’orientamento, e si è dovuto scusare per per lo slogan “Change is possible”. Qualche anno prima, i fondatori stessi del cordinamento, Gary Cooper e Michael Bussee, si sono innamorati l’uno dell’altro e, abbandonata l’organizzazione e le mogli, sono andati a vivere insieme, dopo aver leglizzato la loro unione. E questi piccoli esempi farebbero certamente ridere, se al loro fianco non si considerassero anche i traumi e i danni riportati dai pazienti che, in un numero non trascurabile di casi, sono anche andati in contro al suicidio. Forse troppo spesso, infatti, ci si dimentica che queste idee non sono mere questioni ideologiche, ma che incidono direttamente e, ammettiamolo, negativamente sulla vita di molte persone: dietro alla discriminazione, dietro a una battaglia in nome di opinioni personali, ci sono persone, ragazzi e adulti, costretti a vivere una quotidianità fatta di incertezze, confusioni e paure. Ma indipendentemente da ciò che determina l’orientamento sessuale, elemento che a mio parere dovrebbe essere di puro interesse scientifico e, tutt’al più, filosofico, le persone omosessuali non causano certo più danni di quelle

eterosessuali. Non esistono basi oggettive che possano dare adito alla discriminazione: gli omosessuali non sono malati (controllate qualunque testo clinico, “omosessulaità” non compare tra le voci), non sono contagiosi, non vogliono conquistare il mondo, vivendo la loro vita non danneggiano in alcun modo gli etero, e in quanto genitori non danneggiano i propri figli, (visto che c’è più di una ricerca valida che dimostra la salute psico-fisica dei figli di coppie dello stesso sesso) ma se mai li sottraggono alle ben meno accoglienti case famiglia, per dar loro un ambiente più stabile e salutare. In poche parole non esistono ragionevoli basi per negare il rispetto e la parità dei diritti agli omosessuali. Tutt’al più ci possono essere opinioni personali, e personali motivazioni religiose; ma queste non sono altro che posizioni individuali, che ognuno è libero di assumere, ma in base a cui nessuno si può sentire in una posizione di superiorità tale da permettersi di minare la libertà di altri e la loro possibilità di vivere una vita sana e felice: perché gli omosessuali non si limitano ad andare a letto tra loro come animali e a far sfoggio della gay culture (che non si capisce perché dovrebbe dare piü fastidio di altre culture), ma si innamorano, si

affezionano e provano a destreggiarsi tra le mille complicazioni della vita, come fanno tutti gli altri. L’unica sostanziale differenza, forse, è che alle altre difficoltà si aggiunge quella di dover render conto di chi si ama, di far attenzione a non suscitare gli sguardi di disprezzo e imbarazzo, sfidarli o se non altro sopportarli. So che non è corretto pretendere che tutti si battano per i diritti dei gruppi LGBT, ma lo è esigere rispetto e comprensione in nome di un dialogo e una vita in comune vissuta in modo civile. In conclusione, quindi, in questo articolo non chiedo a chi non la pensa come me di spararsi un colpo in bocca e lasciare questo mondo, e neanche di cambiare subito la propria opinione, ma di prendere atto che sull’argomento non tutte le posizioni sono lecite e corrette, di tener presente il peso delle proprie idee sulla vita altrui, e di usare un minimo di empatia e umiltà, per non lasciarsi andare a un odio e a una sopraffazione ciechi e insensati, più adatti a un aguzzino che a una persona. Perché, se proprio non si vuole considerare il riconoscimento dei diritti LGBT un segno del progresso umano, per lo meno si consideri tale la civile comprensione e convivenza di gruppi eterogenei all’interno di una stessa comunità.

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Attualità

libera di scegliere

E

’ interessante osservare come l’aborto sia diventata una questione pubblica, legislativa e politica, quando è prima di tutto una questione privata, personale e femminile. Questa scelta riguarda innanzitutto il corpo e la vita di una donna. Secondo gli antropologi l’aborto è una pratica vecchia di quattromila anni ma solo nel 1978 in Italia, grazie alla lotta e all’impegno civile delle donne, la legge 194 ha legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza. In precedenza abortire era considerato un crimine ma era comunque praticato, in segreto e in condizioni non sempre sicure per la paziente. Ciò significa che, in caso di una gravidanza indesiderata, una donna non avrebbe avuto altra scelta se non diventare madre. Essere donna, tuttavia, non significa sempre essere madre o voler diventare madre: oggi una donna deve poter scegliere chi essere e che tipo di vita condurre. L’immaginario collettivo è influenzato da stereotipi riguardanti sia l’aborto, sia chi lo pratica, che non corrispondono sempre alla realtà. Sei donne su dieci che decidono di

abortire sono, infatti, già madri e non, come si tende a pensare, impreparate adolescenti. Sette donne su dieci che scelgono l’interruzione di gravidanza hanno motivazioni economiche, hanno un reddito molto basso, ovvero pochissime possibilità di mantenere un bambino. Abortire non è, dunque, attribuire poco valore alla vita: in questo caso fa parte del prendersi cura dei figli capire quando non è una buona idea metterli al mondo. Non si può parlare di aborto senza toccare l’argomento della violenza sulle donne. Negli Stati Uniti il 16% della popolazione femminile è stata vittima di coercizione riproduttiva e il 9% ha subito “sabotaggi” da parte del partner, che nascondeva pillole anticoncezionali o manometteva contraccettivi. In Italia il 40% delle donne ha subito un abuso sessuale. Dietro i numeri degli aborti c’è anche un mondo di violenza, che non può non influire sulle percentuali. E’ fondamentale anche sfatare alcuni miti antiscientifici. Innanzitutto non è possibile considerare l’aborto omicidio, infatti l’embrione passa allo stato di feto

di Isadora Seconi solo dalla dodicesima settimana in poi e l’operazione di interruzione di gravidanza avviene nei primi 90 giorni. Un altro dato interessante e poco conosciuto è che, in seguito all’applicazione della legge 194, il numero degli aborti ha presentato una forte diminuzione. Molti affermano, inoltre, che l’interruzione di gravidanza è una causa scatenante di traumi. Nel 2009 in uno studio pubblicato sull’Harvard Review of Psychiatry è emerso, invece, che il 90% delle donne che avevano abortito si sentivano sollevate e che l’8% provava rimorso ma riteneva giusta la propria scelta. Ho voluto citare numeri, percentuali e dati scientifici riconosciuti per rendere innegabili e incontrovertibili alcune affermazioni. Dietro ai dati, tuttavia, c’è la donna, la sua identità, la sua volontà e la sua storia. In passato il ruolo della donna era relegato solamente a funzioni riproduttive, familiari, casalinghe ed educative e la sua identità consisteva principalmente nell’essere moglie, madre, cuoca, educatrice e donna delle pulizie. Oggi la parità di genere è, almeno sulla carta, stata raggiunta. Una donna può scegliere di se stessa e per se stessa, può decidere la propria individualità. Di conseguenza, donna e madre non sono più un sinonimo obbligato, perché diventare madre non è più l’essenza di una donna ma un carattere dell’individualità femminile che si può volere o meno. Avere un diritto significa avere libertà di scegliere, mentre non averlo equivale a un’imposizione, quella di portare avanti una gravidanza che può non essere desiderata o quella di avere un ruolo di madre a cui si può non aspirare. A proposito di questo argomento in molti si sono pronunciati. La libertà di ognuno finisce dove inizia quella di qualcun altro e questo vale anche per la libertà di parola, che è fondamentale e che è necessario difendere. Il poter parlare dovrebbe, però, rispettare il poter decidere delle donne e non imporsi su esso. Io voglio poter scegliere. Fonti: Istat, Ministero della Salute, Harvard Review of Psychiatry, Center for Reproductive Rights, studi pubblicati dalla Brown University e dai giornali Huffington Post e Internazionale.

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la vera

libertà

di Elena Coen Tanugi e Oliviero Leonardi

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l grande potere della parola libertà, in tutte le sue declinazioni, risiede nel complemento di specificazione che la segue: permette a chiunque di giustificare le proprie sentenze reazionarie e discriminatorie, rifugiandosi dietro alla libertà di pensiero, o di arrogarsi il diritto di inneggiare pubblicamente a diritti imprescindibili per schiacciarne altri, ritenuti meno importanti, tramite la libertà d'espressione. Servirsi di questo sacrosanto diritto per creare un'indigesta mescolanza di sentenze prive di fondamento empirico, col solo scopo di scrivere un articolo-manifesto di propaganda ideologica, promuove un'immagine del Carducci che non è quella che questo Liceo merita. Parliamo allora di aborto e partiamo da una premessa comune, come voleva il buon Socrate: siamo tutti umani. In quanto umani non siamo né onniscienti né onnipotenti. Ci chiedevamo quindi se parlate così perché conoscete un numero sterminato di donne che hanno abortito e avete ascoltato le loro storie e se siete mai entrati in una casa per ragazze madri, prostitute per lo più e minorenni, che costituiscono la percentuale maggiore di aborti nel nostro Paese. Non si sta parlando solo della vita che nascerà, ma anche di quella che è in corso. Davvero volete assumervi il fardello di esprimere, con tanta superficialità, un’opinione netta su un tema così importante? Per parlare invece di eutanasia sono necessarie decine di pagine, competenze scientifiche, numerose argomentazioni e svariati riferimenti a studi e casi e non una riflessione il cui unico scopo è sentirsi grandi grecisti che, analizzando soltanto il nome della pratica clinica, sostengono la disumanità nel concedere un accompagnamento alla morte. Sostenere che lo Stato non sia degno di prendere decisioni

riguardo la vita o la morte di una persona, e concludere che l'eutanasia sia una pratica aberrante, è una tesi semplicemente in contrasto con le premesse iniziali: nessuno dovrebbe giudicare la vita o la morte. E perché allora si può giudicare questa m o r t e aberrante? Sono formidabili armi a doppio taglio le tesi sull'etica, perché rare volte valgono a senso unico. Per concludere con il botto parliamo di omosessualità. Citiamo direttamente: “Il diffondersi della cultura gay, dell’esaltazione dell’omosessualità come se fosse un pregio […] sono tendenze sbagliate”. Vi poniamo dunque le stesse domande di prima, perché siamo monotoni e ripetitivi: parlate perché siete a contatto tutti i giorni con qualcuno che vive il disagio e la difficoltà di essere in una società che, non solo non lo accetta, ma in primis lo obbliga ad essere giudice di sé? O forse parlate per fare della bellissima retorica che serve solamente agli omosessuali, quelli veri -non le figure mitologiche che descrivete voi- per sentirsi ancora più cittadini di serie B e minoranza non accettata e calpestata dalla società? E inoltre vorremmo spezzare una lancia in favore della famiglia non convenzionale: quella che è sotto gli occhi di tutti ma che ancora è un taboo e un' immagine diseducativa per i bambini, che crescono bene solo se allevati

da mamma e papà a pane, Nutella e famiglie convenzionali da tutte le parti. Sicuramente le famiglie perfette alla Mulino Bianco non esistono, ma non è certamente l’avere due genitori dello stesso sesso che amano i propri figli a determinare la felicità e l’equilibrio della famiglia. Appellarsi alla liberté, egalité, fraternité per poi rigirarne il concetto e giustificare conclusioni che minano libertà, uguaglianza e fraternità di altri individui è ossimorico. Dunque crediamo che le riflessioni sulle sanguinose conquiste della rivoluzione francese vadano lasciate a chi la storia l'ha studiata per davvero. Sappiamo che ognuno di questi nostri pensieri è una presa di responsabilità e posizione, ma in fondo quando si cerca di far aprire gli occhi a chi li vuole tenere chiusi si è consapevoli delle conseguenze: ci sono voluti secoli e qualche rogo per dimostrare che la terra gira intorno al sole e non il contrario, rivolte insieme a numerosi morti perché le donne divenissero uguali all'uomo. Quindi non c'è da stupirsi se continueremo a opporci a dimostrazioni di chiusura mentale a cui tutti sono abituati. Inutili sono i tentativi di classificazione per chi esprime opinioni come le nostre: anarchici, anticonformisti, radical chic, comunisti, omosessuali, congiuratori... vi rispondiamo noi: umani.

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Attualità

Gayzebù di Giulia Pasquon

C

ari Giulio,Alessandro e Stefano, nonostante l’ardire di andare incontro al pubblico ludibrio pubblicando un articolo-kerosene, ho degli appunti da fare.

Il primo grosso appunto è di non motivare ciò che scrivete: <<Movimenti culturali definiti progressisti ma che in realtà azzerano la dignità umana (è da saggio filosofico parlare di dignità umana), ritornare indietro di millenni (cliché), esortazione ad un’Europa più umana (cosa vuol dire umana? Tra gli uomini non esistono suicidi, omosessuali e orror degli orrori donne che abortiscono?) e, sbadabam, i valori inalienabili punto di riferimento per tutta l’umanità (quali sono? pietas fides humanitas..? Non vedo perché non vi possa rientrare quella che definite gay culture…)>>

Io non posso dire che sia o non sia una scelta, perché non lo so, ma mi sembra strano. Ma anche se l’omosessualità fosse una scelta, cosa significa che è condizionata dall’ambiente esterno? Che è dettata dalla cultura e non dalla natura? Ma che cosa allora del nostro carattere è naturale o culturale? Io non credo che lo sappiate, perché ci dibattono ancora oggi i filosofi.

Ora una questione storico-culturale: <<Le battaglie per i nuovi diritti sono in realtà frutto del diffondersi della cultura gay.>>

Inoltre non potete affermare che sia qualcosa di negativo, questo è un vostro parere, ma, non capisco che critiche vogliate muovere con le opinioni.

Ma come? I nostri amatissimi greci, Platone quoque, attestano una “cultura gay” molto più diffusa della nostra.. non è uno scoop.

Nella frase in cui difendete la famiglia archetipo ho annusato del catechismo fatto male, ma magari no, in ogni caso ci terrei a sfatare un mito eterosessuale.

Ma, a parte questo qui pro quo, che sono sicura essere una svista essendo voi a un classico, cosa vuol dire la frase? Che le battaglie per i diritti discussi nel vostro articolo, ossia eutanasia e aborto, sono figlie dell’omosessualità? Davvero? E se sì, perché? Non lo spiegate.

Nella Bibbia si parla di omosessualità nella Genesi (distruzione di Sodoma 19,1-29), nei Giudici (delitto degli uomini di Ghibea o Gabaa 19,22) e nelle norme di purezza (Levitico 18,1-30 e 20,1-27).

A mio avviso il concetto di famiglia è ampiamente arbitrario perché ciò che la contraddistingue non è inscrivibile in leggi universalmente valide, ma dipende da quella particolare intimità che si ricrea nelle condizioni più varie e disparate.

Nella distruzione di Sodoma e nei Giudici, non vengono castigati gli omosessuali, ma coloro che nel primo caso abusano degli angeli e nel secondo del levita di Efraim.

Tirando le fila, non avete mosso una critica concreta ai falsi miti del progresso, a parte qualche sprazzo di asserzioni compiute riguardo i primi due argomenti.

Nelle norme di purezza invece l’omosessualità diventa perseguibile, pena la morte. Ma non per una qualche motivazione etica, bensì l’opposto: le norme di purezza si possono barbaramente tradurre in norme igieniche, e qui ho detto tutto.

Mischiando azzardatamente temi titanici quali eutanasia aborto e omosessualità, peraltro sguarniti di motivazioni e del filo logico che permette a un discorso di essere tale, quel che risulta, anche a una terza lettura, è un composto eterogeneo di opinioni personali, stereotipi e disinformazione.

Passiamo oltre, discutiamo intorno a questo lungo periodo: <<L’omosessualità non è una malattia genetica ma una scelta spesso condizionata dall’ambiente esterno che rimane comunque negativa perché rinnega la natura, la relazione naturale di amore tra un uomo e una donna, ovvero il modello archetipo da cui proviene innegabilmente ogni singolo individuo su cui si fonda non solo ogni relazione sociale, ma l’esistenza stessa>>.

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E’ evidente che non può essere che ogni relazione sociale si basi sulla famiglia archetipo, altrimenti non avreste portato alla luce la questione della gay culture come fenomeno sociale. Un’ultima questione riguarda l’adozione dei bambini da parte di coppie omosessuali. I bambini orfani finiscono in comunità, che è una famiglia molto meno che una coppia innaturale, inoltre i bambini che superano i 10 anni difficilmente vengono adottati. Quindi perché non allargare l’utenza? Io stessa, come molti altri, non ho una famiglia archetipo ma non conta, non è peggiore per questo.


Il diavolo veste XS di Giorgia Mulè

Vorrei vedere una persona diversa quando mi guardo allo specchio: mi sento estremamente grasso e di conseguenza inadeguato. Per riuscire a dimagrire sto provando a farmi passare l’appetito e sto mangiando sempre meno. Quando per strada vedo una persona in carne passarmi accanto, mi sento fortunato a non essere come lui”. Queste parole non sono il frutto di una ricerca su Internet, nè di un sondaggio condotto tra gli studenti del Carducci: mi è bastato chiedere ad un amico cosa ne pensasse del suo aspetto e delle sue abitudini alimentari. Purtroppo molti altri hanno la stessa opinione di sè: in Italia circa tremilioni di persone soffrono di anoressia, un disturbo alimentare che consiste nella mancanza (spesso voluta) d’appetito e in seguito alla repulsione e al disgusto per il cibo. La causa del disturbo è principalmente l’insicurezza, avvertita soprattutto tra gli adolescenti, che

spinge le persone a compiere gesti estremi con la necessità, talvolta inconsapevole, di lanciare una richiesta di comprensione. È il caso di Geneviève Brisac, scrittrice francese che nel libro “Petite” racconta la sua esperienza da ex anoressica: a tredici anni, dopo la morte della nonna e l’interruzione del nuoto in piscina, decise di nutrirsi solo dell’indispensabile per sopravvivere. La sua scelta è stata condizionata anche dalla freddezza della sua famiglia: ”Ogni sera” racconta “scrivevo dei bigliettini affettuosi ai miei genitori… non mi hanno mai ringraziata”.Cominciò ad eliminare ogni alimento e a misurare quotidianamente la circonferenza delle gambe. Il suo medico le prescrisse delle pillole per stimolare l’appetito, quando ormai Geneviève non conosceva più il significato di questa parola. Pesava ventinove chili. “Poi mi hanno ‘arrestata’. Mi portarono in ambulanza in una clinica specializzata. Nella mia camera in ospedale c’erano soltanto un bagno ed una finestra chiusi a chiave, per evitare tentativi di suicidio”. A quattordici anni pesava ventisette chili. Quando la fecero uscire dalla clinica, la affidarono ad una famiglia del sud della Francia, dove ricevette l’ordine di non fare troppo movimento per non perdere il poco grasso accumulato.

Poi tornò a casa: iniziò a frequentare il nonno, che l’accettava così com’era, con le sue incertezze ed ossessioni. La sicurezza che le trasmise fu importante per la sua completa guarigione. Il suo libro è uscito il 20 di gennaio: “I volumi sull’anoressia sono cupi e pessimisti; io invece ne volevo uno che dicesse quanto si può imparare da questa malattia. A me ha insegnato la vulnerabilità e la fragilità della vita, l’empatia per chi soffre; mi ha fatto capire quanto è facile far male agli altri”. Spesso è il modello di bellezza offerto dalla società ad indurre le persone a dimagrire eccessivamente: fino a trent’anni fa una donna formosa, con qualche chilo in più, era considerata la bellezza ideale. Adesso invece si è quasi sul punto di dare un nome alla bilancia. Per quanto mi riguarda preferirei pesare 200 chili piuttosto che uniformarmi ad una società superficiale come quella in cui viviamo. Una società dove si vive nell’ossessione del giudizio altrui, dove una taglia in più potrebbe portare al suicidio.

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Attualità

come l’ignoranza uccide di Beatrice Penzo

Se state leggendo questo messaggio, vuol dire che mi sono suicidata e quindi non sono riuscita a cancellare questo post programmato. Per favore, non siate tristi, è meglio così. La vita che avrei vissuto non sarebbe stata degna di essere vissuta… perché sono transessuale. Potrei entrare nei dettagli per spiegare perché lo penso, ma questa lettera sarà già abbastanza lunga così. Per farla semplice, mi sento una ragazza intrappolata nel corpo di un ragazzo da quando avevo quattro anni. Per molto tempo non ho saputo dell’esistenza di una parola per definire questa sensazione, né che fosse possibile per un ragazzo diventare una ragazza, così non l’ho detto a nessuno e ho semplicemente continuato a fare cose convenzionalmente da maschi per cercare di adattarmi. Quando avevo 14 anni ho imparato cosa volesse dire la parola “transessuale” e ho pianto di gioia. Dopo dieci anni di confusione avevo finalmente capito chi ero. L’ho detto subito a mia mamma e lei ha reagito molto negativamente, dicendomi che era una fase, che non sarei mai stato davvero una ragazza, che Dio non fa errori e che ero io a essere sbagliata. Se state leggendo questa lettera: cari genitori, non dite così ai vostri figli. Anche se siete cristiani o siete contro i transessuali, non dite mai questa cosa a nessuno: specialmente ai vostri figli. Non otterrete niente a parte far sì che odino se stessi. È esattamente quello che è successo a me. Mia mamma ha iniziato a portarmi da terapisti ma solo da terapisti cristiani, tutti con molti pregi12

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udizi, quindi non ho mai avuto le cure di cui avrei avuto bisogno per la mia depressione. Ho solo ottenuto che altri cristiani mi dicessero che sono egoista e sbagliata e che avrei dovuto cercare l’aiuto di Dio. Quando avevo 16 anni mi sono resa conto che i miei genitori non mi avrebbero mai aiutata, e che

avrei d o vuto aspettare di compiere 18 anni per iniziare qualsiasi terapia e intervento di transizione, cosa che mi ha davvero spezzato il cuore. Più aspetti, più la transizione è difficile. Mi sono sentita senza speranze, sicura che avrei passato il resto della mia vita con le sembianze di un

uomo. Quando ho compiuto 16 anni e ho capito che i miei genitori non avrebbero dato il loro consenso per farmi iniziare la transizione, ho pianto finché non mi sono addormentata. Ho sviluppato nel tempo una specie di atteggiamento “vaffanculo” verso i miei genitori e ho fatto coming out come gay a scuola, pensando che forse sarebbe stato più facile così un giorno dire che in realtà sono transessuale. Per quanto la reazione dei miei amici sia stata buona, i miei genitori si sono arrabbiati. Hanno pensato che volessi compromettere la loro immagine e che li stessi mettendo in imbarazzo. Volevano che fossi il classico piccolo perfetto ragazzo cristiano e ovviamente non era quello che volevo io. Quindi mi hanno tirato via dalla scuola pubblica, mi hanno sequestrato il computer e lo smartphone e mi hanno impedito di frequentare qualsiasi social network, isolandomi così completamente dai miei amici. Questa è stata probabilmente la parte della mia vita in cui sono stata più depressa, e sono ancora stupita di non essermi uccisa già allora. Sono stata completamente sola per cinque mesi. Nessun amico, nessun sostegno, nessun amore. Solo la delusione dei miei genitori e la crudeltà della solitudine. Alla fine dell’anno scolastico i miei genitori finalmente mi hanno restituito il mio smartphone e mi hanno permesso di tornare sui social network. Ero felicissima, finalmente potevo riavere indietro i miei amici. Ma solo all’inizio. Alla fine mi sono resa conto che anche a loro non importava molto di me, e mi sono sentita persino più sola di quanto fossi prima.


Piacevo agli unici amici che pensavo di avere per il solo motivo che mi vedevano per cinque giorni ogni settimana. Dopo un’estate praticamente senza amici unita al peso di dover pensare al college, di risparmiare per quando avrei lasciato casa, di tenere alti i miei voti, di andare in chiesa ogni settimana e sentirmi di merda perché in chiesa tutti sono contrari a quello che sono, ho deciso che ne ho abbastanza. Non completerò mai nessuna transizione, nemmeno quando andrò via di casa. Non sarò mai felice con me stessa, col modo in cui appaio e con la voce che ho. Non avrò mai abbastanza amici da esserne soddisfatta. Non troverò mai un uomo che mi ami. Non sarò mai felice. Potrò vivere il resto della mia vita come un uomo solo che desidera essere una donna oppure come una donna ancora più sola che odia se stessa. Non c’è modo di averla vinta. Non c’è via d’uscita. Sono già abbastanza triste, non ho bisogno di una vita ancora peggiore di così. La gente dice che “le cose cambiano” ma nel mio caso non è vero. Le cose peggiorano. Le cose peggiorano ogni giorno. Questo è il succo, questo è il motivo per cui mi sento di uccidermi. Mi dispiace se per voi non sarà abbastanza una buona ragione, lo è per me. Per quel che riguarda le mie volontà, voglio che il 100 per cento delle cose che possiedo sia venduto e che il denaro (più i soldi che ho da parte in banca) siano donati a un movimento per il sostegno e per i diritti delle persone transessuali, non importa quale. L’unico momento in cui riposerò in pace arriverà quando le persone transessuali non saranno più trattate come sono stata trattata io: quando saranno trattate da esseri umani, con sentimenti validi, sinceri e legittimi, e con dei diritti umani. Le questioni di genere devono essere insegnate a scuola, prima è e meglio è. La mia morte deve significare qualcosa. La mia morte dev’essere contata tra quelle dei transessuali che si sono suicidati quest’anno. Voglio che qualcuno guardi a quel numero e dica “questa cosa è assurda”, e si occupi di sistemarla. Sistemate la società. Per favore. Addio Leelah Josh Alcorn”

La prima volta che ho letto questa lettera ho pianto. Se non l’avete mai letta vi consiglio di cercarla in inglese, di leggere le ultime parole di Leelah senza passare per una traduzione che non le rende giustizia. Come ha spiegato nella sua lettera, Leelah si è suicidata lasciando un post programmato su Tumblr, che si è pubblicato automaticamente dopo la sua morte. Le cause sono spiegate in modo esauriente e con lucidità nel testo. Questa ragazza si è trovata a dover vivere una vita estremamente difficile e senza alcun aiuto è cresciuta in un ambiente che non l’ha accettata, l’ha respinta, ha cercato addirittura di cambiarla. E la cosa peggiore è che questo ambiente fosse la sua stessa famiglia. Dobbiamo provare ad immaginarci cosa voglia dire vivere ogni giorno consapevoli di non trovarsi a casa né con la propria famiglia, né con il proprio corpo. Non avere alcun sostegno e sentirsi ripetere in continuazione di essere “sbagliati”, al punto di cominciare a vedere il proprio futuro tinto inesorabilmente di nero. La morte di Leelah è l’ennesima riprova di come l’ignoranza possa uccidere. Per fortuna, proprio come voleva lei, la faccenda non è passata sotto silenzio. La comunità dei social network ha risposto con forza all’appello di Leelah, con

post, citazioni e commenti per non dimenticare. Sono anche partiti molti commenti indignati contro i genitori della ragazza, dato che le dichiarazioni rilasciate a posteriori del tragico evento hanno lasciato tutti i sostenitori di Leelah a bocca aperta. Essi infatti non si sono schiodati dalle loro ottuse posizioni e hanno indirettamente negato tutto ciò di cui li ha accusati la ragazza nella lettera. Si sono anche rifiutati di utilizzare pronomi femminili in tutte le dichiarazioni ufficiali, dimostrando che nonostante il loro “incondizionato amore” non l’hanno mai accettata così com’era. Ecco, è stata questa cieca presunzione di chi crede di stare sempre nel giusto ad uccidere Leelah. Quella stessa ottusa ignoranza che ha spinto alcune persone a sparare sentenze che sembrano uscite direttamente dal secolo scorso. Si è parlato addirittura di “possessione demoniaca”. Io mi chiedo come sia possibile che al giorno d’oggi si possa ancora giudicare una persona in base alla propria religione e non alla sua personalità. O come si possano utilizzare elementi di giudizio che esprimono solo ignoranza e intolleranza, non fede. Quindi mi sento di rivolgere a voi lo stesso appello che ci ha lanciato Leelah: “please, fix the world”.

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Attualità

Vanni Padovani

L’uomo che ha creato e (quasi) distrutto gS a cura di Giuliano Toja

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er chi non lo conoscesse, l’ex-Don Vanni Padovani fu il secondo di Don Giussani per tutto il periodo della vecchia GS, l’antenata di CL, dal ’54 al drammatico ’68 -anno in cui il movimento fu investito dalla bufera ideologica che colpì il mondo della guerra fredda- prima di andarsene, diventare laico convinto e sposarsi. Probabilmente nessuno oltre a lui può dire di essere stato Giessino e Marxista, sacerdote e uomo sposato, amico di Don Giussani ed estimatore di Mario Capanna… Quest’uomo contraddittorio riassume dentro di sé i pro e i contro di un movimento che ha fatto la storia culturale del nostro Paese. Nella prima parte dell’intervista Padovani ricorderà gli anni ’50 della GS originaria, analizzando gli aspetti alla base della prima esperienza del movimento di Don Giussani, quando cominciarono a svilupparsi i valori su cui è ancora fondata la CL dei giorni nostri. Partiamo dalla figura di Don Giussani: cosa ricorda della sua personalità, e in particolare perché aveva una tale presa sulla gente? È difficile spiegare il carisma di Don Giussani… Certamente è stato un uomo carismatico, con una grande capacità di aderenza alle esigenze, alla vita, alle problematiche delle persone a cui si rivolgeva. Le sue doti principali, dunque, si possono riassumere da un lato nella capacità di entrare nel mondo interiore dei ragazzi che aveva davanti, dall’altro in quella di esprimere le sue convinzioni in modo molto semplice e suggestivo. Prima di Don Giussani esisteva già GS? No: il movimento fondato nel ’45 agganciato all’AC (Azione Cattolica), la più antica e tradizionale delle organizzazioni laiche fondate dalla Chiesa, non aveva l’obbiettivo né la fisionomia di GS, che voleva riunire tutti i ragazzi Cattolici all’interno delle scuole. Qual era l’intento di Don Giussani nel far nascere una nuova GS nel ’54? 14

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La sua era un’idea molto precisa, ovvero che tutti i giovani che si professavano Cattolici dovessero essere attivi nella loro fede e proporla all’interno delle scuole a tutti i loro compagni. Aveva identificato tre filoni dell’operatività di GS: la cultura, cioè approfondire la cultura Cristiana, la carità, che era condividere la vita dei poveri, e la missione, che era portare nel mondo l’esperienza di Milano. Come funzionavano i primi Raggi di GS e perché erano così importanti? Veniva dato un ordine del giorno a tutti gli studenti dei singoli licei, che poi si radunavano in un giorno fissato ed esprimevano le loro opinioni sugli argomenti proposti, e chi dirigeva il Raggio, solitamente un prete, dopo aver sentito tutti tirava le conclusioni. Gli argomenti erano molto disparati: potevano essere tre righe di un autore come Leopardi, oppure un tema politico come la libertà dell’insegnamento religioso, oppure un argomento più personale, ad esempio i rapporti con la famiglia. Erano importanti perché erano un momento di dialogo tra la comunità Cristiana e gli altri studenti. Quindi partecipavano tutti? L’invito era rivolto a tutti: a volte venivano studenti e studentesse che erano veramente lontani dalla Chiesa. La caritativa in Bassa (Associazione che si occupa di solidarietà sociale e fa parte della Federazione Nazionale dei Centri di Solidarietà della Compagnia delle opere. Ndr.): qual era il senso di fare opere di carità per Don Giussani? Questo è discutibile… Il verbo che si usava per definire la caritativa era “condividere”: condividere le esigenze dei ragazzini che vivevano nei luoghi più socialmente esposti della Bassa Milanese; sta di fatto però che di questi luoghi si condividevano le esigenze di tipo interiore e spirituale, ma si è sempre accuratamente evitato di interpretare e favorire il soddisfacimento delle esigenze di tipo materiale

dei paesini e delle cascine dove si andava. A queste esigenze GS si è sempre sottratta: io ho guidato per alcuni anni un’esperienza simile in Calabria, dove però questo limite della caritativa è emerso ancora più chiaramente perché in Calabria le esigenze di sviluppo sociale ed economico erano fortissime. Quindi secondo lei GS non interpretava la caritativa in modo abbastanza concreto? In modo molto settoriale. Parliamo della missione: perché in Brasile? Penso sia stato un fatto puramente casuale, ovvero l’amicizia nata tra Don Giussani e il responsabile di una missione del PIME che all’epoca aveva come suo terreno privilegiato il Brasile. Don Giussani ha detto che la missione è nata in GS, ma poi è diventata qualcosa di diverso; Benedetto XVI ha detto addirittura che l’esperienza del Brasile è stata un fallimento. Che cosa non ha funzionato? In Brasile più che nella Bassa, più che in Calabria, era evidente una necessità di un impegno, soprattutto politico. In quegli anni il Brasile è caduto sotto una dittatura feroce e molti di quelli che sono andati là si sono trovati a fraternizzare con chi combatteva la dittatura seguendo la “Teologia della liberazione”, ma questa posizione di impegno politico non è stata accettata a Milano, al centro di GS. Nella seconda parte dell’intervista, che troverete nel prossimo numero, lo sguardo critico e autocritico di Padovani si sposterà sulle grandi contraddizioni ideologiche e politiche che negli anni ’60 causarono la nascita delle polemiche con le associazioni studentesche che noi ben conosciamo, fecero interrogare GS sul suo ruolo nella Chiesa e per poco non portarono nel ’68 alla rovina del movimento; alla fine sentiremo il suo giudizio amaro (ma forse non più imparziale) sulla CL di oggi e il suo rapporto con la politica.


DEBUNKERS’ REPORT

Il lato oscuro dell’ allunaggio di Elena Scloza e Sara Monaco

S

apevate che secondo recenti sondaggi il 6% degli americani, circa trentunmilioni di persone, ritiene che lo sbarco sulla Luna, il 20 luglio 1969, sia stata tutta una messa in scena? Non sono solo dicerie, ci sono libri, video e siti internet che portano prove “schiaccianti” sul fatto che quello che tutto il mondo ha visto in televisione, quel 20 luglio, è stato in realtà filmato in uno studio cinematografico. Lo scopo di questa bufala mondiale ci potrebbe apparire insensato, ma alcuni di questi complottisti ci spiegano che l'America avrebbe speso milioni di dollari nell'allestire questo inganno per combattere la propaganda sovietica, che era già riuscita a mandare in orbita il primo satellite artificiale. Ora proviamo a far luce su questa oscura faccenda, analizzando insieme alcune tra le tesi, a nostro parere più interessanti e assurde, che vengono proposte dai “luna-complottisti”. “Perchè nelle fotografie di tutte le missioni Apollo le sole stelle visibili sono quelle della bandiera americana?” - Bill Kaysing Basta solo capire un poco di fotografia per sapere che le stelle mancano non per una distrazione di quelli della NASA, ma bensì per una questione di obiettivi e luminosità; se le si volesse vedere, infatti, bisognerebbe aprire il diaframma e in tal modo si sovraesporrebbe il suolo, rendendolo accecante. Giustamente, però, gli astronauti hanno preferito concentrare i loro scatti sul suolo lunare, piuttosto che sul cielo e gli astri, che ogni giorno possiamo banalmente osservare noi stessi dalla terra. Quindi Bill, non disperarti se le sole stelle che vedi sono quelle americane. “Come mai tutte le foto sono perfette?”

Questa sembra una prova evidente per i “luna-complottisti”, ma semplicemente, come in qualsiasi reportage fotografico, la NASA ha pubblicato solo gli scatti migliori. Ora però, per tacere queste voci, sono facilmente reperibili anche le migliaia di foto sfocate, sovraesposte, incomprensibili e mal inquadrate scattate sul suolo lunare. “Una delle foto più famose dello sbarco sulla Luna mostra una roccia in primo piano, con quella che sembra essere una lettera “C” incisa sopra” In realtà, questo strano segno, che a prima vista

potrebbe sembrare la terza lettera dell'alfabeto, è un semplice e innocuo pelucco; se si controlla la foto originale infatti, la “C” non appare ed è probabile che sia stato un difetto di scannerizzazione della copia originale, su cui poi i “luna-complottisti” hanno fondato le loro tesi. Ricordiamo che in quegli anni non esistevano i moderni apparecchi per permettono una scannerizzazione perfetta, infatti le foto non si duplicavano al computer, ma si rifotografavano. “La bandiera americana sventola, come se ci fosse aria. Ma sulla Luna non c'è aria.” Se si osservano attentamente le riprese effettuate sulla Luna, si nota

che la bandiera sventola esclusivamente se mossa dagli astronauti, che le danno la forza necessaria per continuare a ondeggiare solo per un breve periodo di tempo, data anche la limitata forza di gravità sulla Luna. Celebri sono anche le foto che mostrano la bandiera conficcata nel suolo che sventola, cosa impossibile se non fosse che i previdenti scienzati della Nasa avevano già pensato a un escamotage: un’asta orizzontale che la tiene aperta. Sicuramente una bandiera floscia e spiegazzata non avrebbe avuto lo stesso effetto. “Perchè non siamo più tornati sulla Luna?” A questa domanda i complottisti sono soliti rispondere: “Non possiamo tornarci perché in realtà non ci siamo mai stati e non siamo in grado di arrivarci", ma noi preferiamo affrontare la questione in modo più oggettivo. Per prima cosa precisiamo che dopo la missione del 1969 ne sono state compiute altre, concluse nel 1972, dopo aver portato ben dodici persone sulla Luna. La principale causa, per cui questa importante missione non si è più ripetuta, è data dall'elevata necessità di risorse finanziarie. Infatti, ben quattrocentomila persone lavorarono a questo progetto, furono spesi ventiquattromilioni di dollari (di quel periodo) e purtroppo tre astronauti persero la vita durante i precendenti test. E inoltre la sfida per il primato spaziale era già stata ampiamente vinta e non c'era più neanche l'entusiasmo dell'epoca per sconfiggere l'URSS. Infine, se i complottisti mettono in discussione lo conquista della Luna da parte dell'uomo, nonostante le evidenti prove, non potrebbero addirittura arrivare a mettere in dubbio l'esistenza della Luna stessa?

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cronache carducciane

Report from the USA di Leonardo Zoia

O

rmai sono in America da un po’. Domani saranno quattro mesi. Ho deciso di iniziare a scrivere questi appunti per raccogliere un po’ le idee che mi sono venute in mente riguardo agli aspetti culturali con i quali, in tutto questo tempo, ho avuto la possibilità di convivere. Non cercherò di fare un’analisi sociologica scientificamente accurata! Questo e´ ciò che ho potuto osservare dalla mia esperienza personale fino ad ora! Prima di tutto bisogna dire che la cultura americana non esiste: altro non è che il risultato di secoli e secoli di coesistenza di varie culture totalmente differenti tra di loro. L’America non è abitata da americani, ma da rappresentanti di numerosi popoli (il famoso melting pot), gente di ogni genere, razza ed estrazione sociale giunta in questo paese scappando dai nemici, dalla giustizia, da una tirannia o perché portati qui contro la loro volontà. La grande poesia con cui gli americani sono soliti descrivere il loro popolo e la loro nazione, come una grande isola di amici pronta ad accogliere i reietti e gli indifesi, è in realtà piuttosto forzata. Si può dire, in effetti, che i primi americani fossero per lo più carcerati, ricercati e schiavi. I padri pellegrini non erano che una minoranza, anche se non si può non riconoscere che esistessero anche loro e che fossero spinti da speranza e fede! Questa premessa non nega comunque il fatto che l’America sia stata in grado, nel corso della storia, di compiere grandi cose, proprio per la dedizione e l’orgoglio che contraddistinguono la 16

L'Oblo' sul Cortile | Anno IX, n° III

sua popolazione. Tutti fieri di far parte di questo assurdo, ma incredibile ammasso di gente…! Loro non se ne rendono conto. Io stesso ne ho avuto conferma sentendo frequentemente fare riferimento ad aspetti presenti nella cultura americana considerati originari degli Stati Uniti (...secondo loro) e sentir parlare della pizza e dell’apple pie, che però, purtroppo per i fieri USA, sono di origine italiana e tedesca! Il loro rapporto con la religione, poi, è davvero particolare. E questo è un eufemismo per dire che fanno tutti quello che vogliono. Più di una volta alla mia domanda: “Di che religione sei?” la risposta è stata: “Sono Cristiano!” e qui un sorrisone da orecchio a orecchio e uno sguardo fisso sulla mia faccia perplessa: come a dire “Contento?!”. Dopo qualche secondo, conscio del fatto che l’interlocutore non aveva intenzione di continuare, spesso decidevo di venirgli incontro e suggerirgli: “Ah, bene. Di che tipo?”. A questo punto il sorriso il più delle volte si scioglieva e, con gli occhi del cane bastonato, quasi a chiedermi perché volessi infierire su di lui in questa maniera, sussurrava con fare incerto: “Cristiano...” per poi aggiungere timidamente: “Il tipo più diffuso….”! A quel punto, felice di avere un indizio, esultavo: “Ah, allora sei Cattolico!”. Ma lui inspirava con forza:“Ma no! Ho detto che sono Cristiano!”. E’ il mio turno di essere perplesso: “Ma i Cattolici sono Cristiani...!”. Il tipo medio, quasi stordito dalla nuova cognizione che lo aveva shockato, per essere sicuro di aver capito bene chiede: “Ma sei sicuro? Ma scusa, quanti tipi di cristiani ci sono?”. Io, per paura di spaventarlo, gli rispondo: “Mah...tipo cinquanta diversi...”. A quel punto, confuso e sconvolto, mi accennava: “Mah... io vado ad una chiesa mista...”, dopodiché si allontanava di fretta o cambiava velocemente il discorso con uno svelto: “So, how do you like America, so far?”

(“Allora, ti piace l’America, per ora?”). Ed io, per non infierire sul poveretto, faccio finta di non accorgermene e accolgo senza problemi il nuovo argomento. La maggior parte della popolazione è dedita al protestantesimo, ma quasi nessuno ha frequentato alcun genere di catechesi e in molti non hanno neppure idea di quale sia il ramo che stanno seguendo, quali siano i suoi principi e fondamenti, limitandosi ad andare a messa quando gli hanno insegnato ad andare e pregare, perché si fa così, non per scelta personale. Ecco, questo, da quello che ho potuto osservare fino ad ora, è il modo in cui gli Americani celebrano e vivono la maggior parte delle loro tradizioni e cerimonie, dal Thanksgiving, al Natale, alla semplice messa domenicale o alla Pledge of Allegiance, il saluto e ringraziamento alla bandiera (la celebre Stars and Stripes) che ogni giorno va recitata a scuola, alzandosi in piedi, faccia allo stendardo (che si trova in ogni classe nello stesso luogo dove si trovava il crocefisso nelle nostre, fino a qualche anno fa), mano sul cuore, nessuno escluso, “And recite it loud, for Heaven’s sake!” (“E recitatela ad alta voce, per amor del cielo!”). Questo ci dà una vaga idea di quanto indecisa e confusa sia la cultura Americana, splendida nella sua diversità, ma dai contorni decisamente imprecisi e sfocati... l’americano medio apprezza le sue tradizioni e le segue, anche scrupolosamente, nel modo in cui gli sono state insegnate dai suoi genitori, il più delle volte senza chiedersi il perché e senza approfondirle o studiarle. Sono in pochi a spiegare ai propri figli perchè fanno ciò e quindi in molti, ormai non solo i più giovani, non lo sanno. Questo ha portato ad un generale livello di ignoranza elevato, anche dal momento che la scuola è piuttosto semplice; ma di questo parlerò un’altra volta, dal momento che non voglio cadere nel banale e ritengo che questo argomento richieda di essere approfondito con più accuratezza. Quindi, per ora è tutto dagli Stati Uniti. Mi farò vivo al più presto per raccontarvi altri fatti curiosi e novità (sigla di Super Quark in sottofondo) e per darvi consigli su cosa va di moda qui, così sarete in anticipo sugli altri italiani e farete la figura dei magnaccioni sempre all’ultimo grido! Saluti dagli USA!


Cultura

L’anarchia esistenzialista di Fabrizio De Andrè di Tatiana Ebner e Emma Cassese

È dal 1957, io avevo 17 anni allora, da quando frequentavo i circoli libertari di Genova e di Carrara, che io mi sono schierato in maniera precisa e da allora non ho mai più trovato durante la mia vita nessuno schieramento che dal punto di vista sociale, morale mi garantisse qualcosa di meglio”. Fabrizio De Andrè , l’anarchico. Il suo ruolo nella musica italiana degli anni Sessanta non è di certo stato quello del cantante apertamente schierato politicamente, come lo sono stati per esempio Claudio Lolli o Fausto Amodei. Di certo aveva una sua opinione: Fabrizio De Andrè era anarchico. Il suo rapporto con l’anarchia era però molto particolare. Era pienamente cosciente del fatto che gli ideali anarchici fossero utopici, per questo non si è mai definito “anarchico” ma sempre libertario, era infatti più legato al concetto dell’anarchia che al vero e proprio movimento politico. Preferiva le parole ai fatti. Preferiva condividere i suoi ideali trasmettendoli come poteva, ovvero con le sue canzoni. In un’ intervista dichiarava: “Sono più portato ad aprire i cancelli alle tigri che non a cavalcarle. Questo vuol dire, detto metaforicamente, aver dato un input, laddove una canzone lo può dare, ad una determinata classe sociale, a ribellarsi a determinate vessazioni, ad andare in piazza a rivendicare i propri diritti.” Incoraggiare a ribellarsi. Ma quando ha parlato di Libertarismo nelle canzoni? Pensando alle sue canzoni più famose, come ad esempio Bocca di rosa, non salta all’occhio tanto l’aspetto politico, quanto la scabrosità dell’argomento. Ma, leggendolo in un contesto ben specifico, insieme agli altri testi, Il pescatore, Rimini, Via del campo, ne si capisce il senso. Parlano tutti di libertà, la libertà degli emarginati, protagonisti delle sue canzoni, di difendere la propria diversità o, come dice lui, il diritto di assomigliare a se

stessi. In realtà, ha scritto anche canzoni apertamente politiche, come Il bombarolo e Nella mia ora di libertà, che appartengono tutte al disco Storia di un impiegato. In un’intervista affermava “Quando è uscito Storia di un impiegato avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. L'idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l'unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”. Alcune delle canzoni del disco sono state censurate

per la loro vena politica, non erano le prime. Già nel 1970, infatti, il disco Buona novella era stato censurato dalla radio della Rai per il suo contenuto blasfemo. Dopo quasi un anno però la censura fu cancellata perché effettivamente nel disco non compariva neanche un’affermazione irrispettosa verso la religione, ma ci si limitava a raccontare ed esaminare la vita di Gesù, usata come filo conduttore. Dal punto di vista della religione, De André si mostrava enigmatico. Non credeva nel Dio delle Chiese, ma si è sempre interrogato sull’esistenza di una “paternità” superiore. Ha sempre coltivato il dubbio, cercando nelle

sue canzoni le tracce del divino, con uno spirito religiosamente ribelle, polemico verso ogni culto organizzato. “Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo” diceva in una sua intervista. De André non era ateo, non aveva nulla dell’ateo privo di dubbi. Si mostrava insofferente e contestatore nei confronti delle arroganti certezze delle “ istituzioni religiose”, come dimostra ampliamente con la sua canzone Il testamento di Tito. Durante il sequestro, vissuto con sua moglie, Dori Ghezzi, in Sardegna nel 1979, iniziò, come diceva in un’intervista, a pensare continuamente a Dio e a crederci con tutte le forze, ma continuò a non piacergli l’idea che la religione fosse dominio di un ristretto gruppo di persone, persone che “rubano in nome di Dio”, come commenta nella canzone Il testamento di Tito. Ancora oggi De André viene considerato un genio sia per la sua musica che per i suoi testi. Fabrizio è sempre stato una persona molto schiva, normale, con molti problemi, con molti dolori. Non era il solito cantante ricco. Se Faber avesse incontrato Fabrizio lo avrebbe sicuramente ritratto in una sua canzone: il cantautore emarginato, alcolista e geniale. Potremmo dire che lui si rispecchiava nei suoi personaggi. In tutta la sua vita è rimasto coerente, senza lasciarsi modificare dal successo. Ha sempre continuato a frequentare i circoli libertari di quando aveva 17 anni, ha sempre continuato ad essere l’uomo diverso, ed è sempre rimasto convinto che essere diverso fosse la più importante forma di libertà. Lui con le sue canzoni ci ha detto questo e ce lo ha confermato una seconda volta con la sua vita e con il suo carattere, perché Fabrizio De Andrè era le sue canzoni. Fabrizio De’ Andrè era i suoi ideali.

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Cultura

LESBICA non è un insulto a cura di Rebecca Daniotti

“ del

Lesbica non è un insulto” è un progetto fotografico incentrato sulla figura della donna lesbica oggi e sugli stereotipi che la circondano. Ecco l’intervista all’ideatrice progetto: Martina Marongiu.

1) Come è nato il progetto? Il progetto è nato a Torino nel 2013 da una mia idea e dalla collaborazione di altre amiche di vecchia data: Fabiana Lassandro, Dunja Lavecchia, Morena Terranova e Letizia Salerno. Avevo terminato da poco un corso di fotografia e ho scoperto il bellissimo progetto fotografico di Liora K, le foto erano state scattate a donne che avevano subito violenza e che si erano fatte fotografare con un messaggio rivolto al proprio aguzzino scritto sul proprio corpo. Ho pensato di utilizzare la stessa tecnica per un altro scopo, ovvero sfruttare il corpo come se fosse una tela per ospitare un messaggio, una frase diretta che aiuti l’osservatore a ragionare sui luoghi comuni che riguardano l’omosessualità femminile nell’Italia di oggi. 2) Dopo varie esposizioni quali sono state le reazioni del pubblico? Dipende molto se ci troviamo a esporre presso la sede di un’associazione LGBT, di un locale oppure a una manifestazione artistica, quindi varia se ci troviamo davanti a un pubblico a stretto contatto con le tematiche LGBT che si sente addosso i luoghi comuni espressi nelle foto oppure se il pubblico è più eterogeneo e non abituato ad immagini così esplicite. Durante Paratissima (*) una delle reazioni più diffuse è stata la risata: ero perplessa, poi ho realizzato di aver provocato in loro imbarazzo e ne sono stata contenta. Alla fine di ogni esposizione capiamo il valore del progetto, poiché non sono mancati, sul libro dei commenti che lasciamo a disposizione del pubblico, insulti e ir 18

L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

risioni. Comunque, il sostegno ricevuto è stato davvero grande ed eterogeneo. Ricordiamo una bimba dai capelli rossi che all’ultima edizione di Paratissima si ferma al nostro tavolino e ci lascia un commento: “È bella la vostra arte”. 3) Perché la scelta di fotografare corpi nudi? Il corpo gioca un ruolo essenziale nella scoperta della propria omosessualità e per questo ho pensato di utilizzarlo nelle mie foto per comunicare al pubblico i concetti esplicati dalle scritte nere oggettivandolo tramite una luce forte, diretta e volutamente denaturante. 4) Amen è l’evoluzione del vostro progetto che affronta il rapporto fra omosessualità femminile e religione. Perché avete deciso di parlare di ciò? Quali sono le vostre considerazioni? L’intento è dare visibilità all’omosessualità femminile censurata in molti ambiti e mai menzionata in quello religioso. Abbiamo deciso di affrontare questo argomento perché la religione cattolica è una matrice culturale di grande rilievo in Occidente che ha permeato il contesto in cui siamo cresciute e in cui tuttora viviamo. Vogliamo mettere in luce la duplice discriminazione subita, in quanto donne e in quanto lesbiche. Con AMEN intendiamo porre l’accento sull’ambito discriminatorio religioso, appropriandoci di una parola molto utilizzata nei testi sacri e utilizzandola come simbolo per comunicare la propria esistenza. AMEN vuole comunicare che le lesbiche esistono, sono sempre esistite, e che non c’è peccato nell’amore. Ed

è un messaggio per le donne lesbiche che si riconoscono nella religione cattolica e che vogliono riappropriarsi di questo termine così simbolico. 5) Quali pensate saranno gli sviluppi futuri del progetto? Il progetto è composto da 12 scatti, ma è nostra intenzione ampliarlo, andando alla ricerca di persone, storie e modelle dalle fisicità diverse che diano idea della varietà e complessità dell’argomento trattato, rendendo meno automatica e superficiale la costruzione di pregiudizi e stereotipi nei confronti dell’omosessualità femminile. È in corso la nostra campagna di crowdfunding sulla piattaforma web BeCrowdy, attiva fino al 18 febbraio (pur avendo raggiunto l’obiettivo, è ancora possibile sostenerci); è importante per raccogliere fondi utili a rispondere alle numerose richieste da parte di associazioni e gallerie di portare la mostra al di fuori del Piemonte. Vorremmo continuare ad esporre le nostre foto, arrivando in tutte le regioni che non siamo riuscite a raggiungere. Questa campagna ha riscosso grande partecipazione e ha ricevuto un grandissimo sostegno e ne siamo felici perché significa che in “Lesbica non è un insulto” vengono riconosciuti contenuti che meritano attenzione e spazio per ragionarne insieme. (*)Manifestazione artistica che promuove giovani talenti o chi non ha la possibilità di entrare nell’ambiente esclusivo dell’arte contemporanea di oggi.


SPETTACOLO TEATRALE “COME D’AUTUNNO”

di Davide Recalcati

Come d’Autunno” è uno spettacolo teatrale portato in scena dalla compagnia “I love you subito”, scritto e diretto da Lello Gurrado in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale. Lo spettacolo prende spunto da un fatto realmente accaduto nel 1921 a Roma, ovvero la scelta del Milite Ignoto. In quella occasione fu chiesto alla madre di un soldato disperso in guerra di scegliere fra undici la salma che sarebbe stata seppellita a Roma in memoria dei soldati deceduti in guerra, là dove sarebbe stato eretto il monumento italiano al Milite Ignoto, sulla scorta di quanto già realizzato per esempio in terra francese. La trama racconta di una donna angosciata davanti ad undici piccole fiammelle, che spera che tra i resti di quei poveri soldati ci possano essere anche quelli di suo figlio Tonio. Sommessamente chiede un aiuto simbolico al figlio che non c’è più, perchè le possa essere d’aiuto nella scelta. Ed ecco che si assiste ad un vero e proprio dialogo tra madre e figlio, l’una ancora mossa da orgoglio per il figlio morto a causa di una guerra che ha sempre ritenuto giusta, l’altro che racconta

quanto poco di valoroso e giusto ci sia nella guerra. Egli le appare, quasi come un fantasma, e le fa capire che il suo corpo non si trova lì. Il dialogo continua con in leggero sottofondo un assolo di chitarra che rende il tutto più malinconico ed etereo. Tonio racconta del periodo passato in trincea, dello squallore in cui vivevano i soldati, della fatica a cui erano sottoposti ogni giorno, della paura e della solitudine, del freddo e della fame; soldati persi dentro una trincea come topi che si nascondono silenziosi dai nemici. Ci sono altri topi, in un’altra trincea, ma con la stessa paura e lo stesso sconforto. Tutti soldati partiti per un fronte che prometteva gloria e valore, tutti finiti a sbattere contro la dura realtà di una guerra inutile, a piangere per la lontananza da casa lasciata per raggiungere un ideale vuoto. Due attori interpretano scene di vita vissuta in trincea mentre sommesso continua il dialogo tra madre e figlio. Lo spettacolo è accompagnato dal musicista Gipo Gurrado e durante i dialoghi vengono citate alcune poesie di Giuseppe Ungaretti tra cui appunto “Soldati”, dalla quale prende il titolo. Ed ecco il soldato “(...) come d’autunno sugli

alberi le foglie”, fiero di partire e poi inerme e spaurito perso in un combattimento privo di senso. Una volta arrivati sui campi di battaglia tutto cambia, e si scopre che di buono e dignitoso non c’è nulla, che si è ucciso e che si è visto togliere la vita per una briciola di niente. Là nella buia trincea si può solo aspettare che tutto ciò finisca, cercando di non morire e andando avanti grazie all’alcool.La cosa che colpisce di più dello spettacolo è il modo in cui gli attori riescono ad immedesimarsi completamente nei personaggi, lasciando trasparire disprezzo, odio e dolore per gli accadimenti narrati. Il tutto termina con la scelta della salma (rimane accesa una sola fiammella), e così ha conclusione uno spettacolo molto bello e coinvolgente che consiglio per la maniera delicata di proporre un tema così forte ed attuale. Mentre nella penombra della sala gli attori continuano, quasi come una nenia, a ripetere i bellissimi versi “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, a voler sottolineare la fragilità umana nel vento del conflitto, cala il sipario e ci si sente insieme un po’ più tristi e un po’ più ricchi dentro.

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Cultura

DIMMI COME SCRIVI E TI DIRÒ CHI SEI PRATICO TEST DI GRAFOLOGIA di Linda del Rosso

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n giorno, curiosando tra gli scaffali del salotto di casa mia, il titolo di un libro mi ha attirata particolarmente: “Leggere la scrittura, manuale pratico di grafologia” di Barbara Majnoni d’Intignano. Nonostante non sia solita leggere saggi, l’argomento ha suscitato subito la mia curiosità. Ma che cos’è la grafologia? L’enciclopedia ci dà questa definizione: “Analisi della scrittura in quanto espressione della personalità.” Come disciplina nacque nel ‘600, e parte dal presupposto che la scrittura, superata la fase dell’apprendimento, diventi un processo automatico, influenzato dal nostro inconscio. Sono stati fatti moltissimi studi sulla validità di questa teoria e io non sono in grado di giudicare se sia vera o meno, ma ho deciso di rendervi partecipi sottoponendovi a un simpatico test fai-da-te. Quindi, Carducciani, se una lezione vi sta annoiando a morte e non sapete cosa fare… penne alla mano! Per prima cosa procuratevi un foglio bianco (possibilmente di formato A4), scrivete una decina di righe e firmatelo. Il contenuto non è importante, potete anche scrivere informazioni personali come nome, sesso e altro. Ora siete pronti per iniziare l’analisi, procedendo secondo i seguenti punti: 1) I margini Chi ha iniziato a scrivere in alto senza lasciare spazio non darà molta importanza alle autorità, definendosi indipendente, mentre chi ha lasciato uno spazio vuoto sarà più attaccato alla tradizione. Se tra i bordi laterali del foglio e la scrittura ci sono margini ben simmetrici, lo scrivente è ordinato e preciso, ma dominato dal timore dell’imprevisto e di trovarsi in un contesto diverso dal solito in cui non si sentirebbe a proprio agio. Al contrario, l’assenza di margini rivela spontaneità e allo stesso tempo invadenza. 20

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2) La riga La scrittura che va in su è il modo di scrivere degli “ottimisti”, coloro che hanno iniziativa, sono intraprendenti e credono in ciò che fanno. L’eccesso, cioè una grafia troppo inclinata dal basso verso l’alto, indica una certa tendenza ad imporre il proprio modo di pensare (rifiutando quello degli altri). La scrittura che va in giù è tipica dei pessimisti, coloro che temono sempre di sbagliare, di essere perseguitati, sfruttati, colpiti da disgrazie. Talvolta rappresenta semplicemente uno stato d’animo transitorio di malinconia, ma l’eccesso indica stati depressivi. 3) La pressione Se lo scrivente calca sul foglio, avrà bisogno di fatti concreti e visibili; al contrario, un tratto poco marcato caratterizza una persona più serena e libera. 4) L’inclinazione La scrittura sinistrogira (inclinata verso sinistra) manifesta egoismo ed introversione, quella destrogira significa partecipazione generosa. Se infatti la scrittura avanza la persona sarà portata ad aprirsi al mondo e ad avere tanti interessi. 5) Prolungamento delle aste Consideriamo le lettere con allunghi superiori (b, d, h, l, t), inferiori (g, p, q) o con entrambi (f). Se le aste superiori sono molto lunghe si sarà propensi a tendenze intellettuali, mentre il prolungamento verso il basso indica il predominio dell’istintività, del senso pratico e della necessità motoria.

6) Grandezza Chi scrive con caratteri piccoli è legato alle cose materiali e attiva strategie per accumulare, sa prevedere, organizzare e gestire. Ha un gran senso del dovere ed è capace di ragionare. La scrittura a caratteri grandi invece caratterizza chi si distingue dal gruppo, accetta il rischio ma vive sempre sotto tensione, è irrazionale e giudica in modo più soggettivo. 7) Forma Se la scrittura è ricca di rotondità, curve e gonfiezze lo scrivente è una persona accogliente, che si adatta alle circostanze. Chi, invece, scrive dritto e forma angoli, è più spigoloso, retto sulle proprie idee. And last but not least… 8) La firma La firma è forse la parte più importante, l’elemento grafico che ci contraddistingue, sia a livello sociale che burocratico. Uno stile diverso da tutto il resto della scrittura simboleggia conflittualità interiore, bisogno di differenziarsi dalla massa. Chi la pone a sinistra, secondo il nostro modello occidentale, è dominato da uno spirito di conservazione, passività, tradizione. Invece una firma sul lato destro del foglio rappresenta intraprendenza e desiderio di procedere. Direi che vi ho dato abbastanza elementi per divertirvi, ma se volete approfondire l’argomento basta recarsi in libreria o visitare siti come http://www.analisigrafologica.it, dove potrete trovare altri piacevoli quiz.


CINEMA

I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY di Francesca Petrella

Tesoro, non hai ancora fatto quello che ti ho chiesto”. “Allora, cosa fai, sei ancora incantato?”. “Certo che sogni sempre ad occhi aperti”… Quante volte è capitato di sentirci rivolgere frasi di tale genere, in un momento in cui immaginiamo una dimensione parallela, dove noi siamo super eroi, affrontiamo terribili pericoli o, più nella vita quotidiana, ci sentiamo leader nel gruppo classe o nel gruppo di amici. L’uomo è un essere sognatore e tutto ciò che lo circonda lo misura in base ai suoi desideri. Eppure, qualcuno è sempre pronto a richiamarci alla nostra opprimente e noiosa realtà quotidiana, mondo in cui effettivamente sentiamo di non avere alcun valore o peso nelle decisioni. Ci sentiamo come pesi inerti nella nostra stessa vita, annichiliti da un senso di alienazione e di penetrante insicurezza che quel meccanismo chiamato società instilla in noi. Siamo in uno stato di perenne attesa, aspettando una svolta nella vita che sembra non arrivare mai e perciò viviamo insoddisfatti, non gratificati dal duro lavoro. È in questo modo che sopravvive alla routine quotidiana il protagonista impersonato da Ben Stiller, che in questa rappresentazione cinematografica ricopre anche il ruolo di regista: sto parlando di Walter Mitty, che però può essere identificato con ognuno di noi. Egli lavora alla rivista Life da molti anni, tuttavia il suo lavoro è stato in ogni modo sminuito, per di più viene visto dagli altri solo come una “macchina da sogni”; anche lui, come noi, è in attesa di una svolta nella sua vita che viene proiettata unicamente in una dimensione onirica. Inoltre, Walter immagina anche una vita da condividere con una collega di lavoro, alla quale non riesce a dichiararsi. Finché un giorno questa dimensione diventa reale: Walter deve recuperare un negativo di una foto indispensabile per la copertina della prossima rivista e per farlo deve

rintracciare un fotografo freelance in giro per il mondo. Questa ricerca lo porta all’esplorazione di terre lontane dalla sua banale routine, viaggia attraverso la Groenlandia, Islanda fino ai confini dell’Afghanistan; per queste ragioni il film può essere definito un road movie, capace di penetrare ancora più in profondità grazie alla fotografia di Stuart Dryburgh, che riesce ad immortalare il paesaggio più caratteristico ed emozionante di ogni Paese. Tuttavia non è solo una spedizione per recuperare il negativo di una foto, questo potrebbe rappresentare anche un percorso alla ricerca di se stesso. Il protagonista ha avuto il coraggio di mettere in discussione tutta la sua esistenza, ha abbandonato (quasi) tutto per intraprendere un viaggio spirituale, che per certi aspetti può apparire dantesco; come Dante ha attraversato Inferno, Purgatorio e Paradiso per espiare i suoi peccati e raggiungere i beati, cosi Walter esplora quelle lande desolate per scoprire se stesso. Da questo cammino nasce un uomo nuovo; finalmente riesce a vivere quelle avventure che solo qualche giorno prima poteva concedersi unicamente nel mondo dell’immaginazione, riesce a essere l’eroe della sua vita. I veri

eroi, a differenza di quanto Hollywood vuol far credere, non sono solo alti e biondi come i vichinghi, bensì persone normali che riescono a realizzare i loro sogni anche più segreti; da qui il titolo del film. In questo film, infatti, ritroviamo la stessa energia e la stessa urgenza che ogni film dovrebbe trasmettere: usare il cinema come strumento di autoriflessione per comunicare con gli altri. Questa è davvero una storia che vale la pena di raccontare, la storia di un uomo che ha affrontato le sue paure e insicurezze per ritrovarsi, una volta provato da durissime vicissitudini, finalmente gratificato dalla sua vita. Appena tornato negli Stati Uniti, infatti, viene licenziato poiché non è stato in grado di recuperare il negativo ma ha una sorta di rivalsa nei confronti del suo capo che prima non aveva mai avuto il coraggio di affrontare; inoltre, proprio nella scena finale del film, Walter ha il coraggio di prendere per mano mentre passeggia la collega con la quale vorrebbe una storia d’amore, gesto che fino ad allora sognava nel suo piccolo mondo. Forse, in fondo in fondo, quando Cenerentola diceva “I sogni son desideri”, non era cosi lontana dalla realtà.

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CINEMA

MAGIC IN THE MOONLIGHT di Alice de Kormotzij

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pensierata. È stato così che mi sono sentita appena dopo aver visto il film, dimentica della realtà nella dolce compagnia di un amico e di una brulicante sala di vecchietti persino più romantici di me. Nella spettacolare Costa Azzurra degli anni ’20, Stanley Crawford (Colin Firth), gentiluomo inglese scettico e disincantato, viene incaricato di smascherare una presunta medium, la giovane americana Sophie Baker (Emma Stone). I due non potrebbero essere più diversi, e, forse proprio per questo, tendono a influenzarsi a vicenda fino ad innamorarsi completamente e inconsapevolmente l’uno dell’altra. Woody Allen non lascia tuttavia mai nulla al caso e dunque, anche dietro a una commedia fresca e leggera, non mancano spunti di riflessione. In particolare, vi è la costante ponderazione sulla presenza di un Dio o perlomeno di un essere superiore che governa le vite degli uomini. A Stanley, considerato da tutti un uomo estremamente cinico e misantropo, preme non tanto smascherare la ciarlatana Sophie, ma dimostrare a se stesso e quindi agli altri che non es-

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L'Oblo' sul Cortile | Anno IX, n° III

iste alcun tipo di magia, che ogni cosa è come la si vede. Colin Firth appare superbo nelle vesti di Stanley, trasmettendo allo spettatore una sagacia e un sarcasmo che delineano perfettamente il personaggio, rendendolo una figura difficilmente dimenticabile. Nel momento in cui egli parla, sembra che le parole non siano solo parte di un dialogo, ma siano anche dirette allo spettatore. Questo naturalmente è dovuto anche al ben riuscito lavoro della regia, che si cala perfettamente nell’ambiente e risulta sempre coerente con il ritmo della storia. Le inquadrature non si soffermano mai su molti personaggi, ma specialmente sui due principali, forse per mettere in evidenza la sinergia presente tra di essi fin dalle prime battute. Nonostante infatti siano una coppia assolutamente improbabile non solo come personaggi nel film, ma anche come attori in sé, Woody Allen è talmente abile da giocare su questo dualismo e trasformarlo in evidente armonia. Naturalmente anche Emma Stone è eccezionale e dimostra di essere un’attrice molto versatile oltre che bellissima, avendo anche recitato e cantato negli ultimi

mesi con Cabaret a Broadway. La sua comparsa nel film è attesissima, poiché non si parla d’altro che di lei per l’intera prima parte della pellicola. L’aspettativa è tale che lo spettatore attende l’arrivo di Emma Stone proprio nei panni di Sophie Baker. Quando Sophie infatti entra in scena, tutta l’attenzione converge verso di lei e inevitabilmente lo spettatore desidera conoscerla meglio, sapere se le voci su di lei siano veritiere o meno. Un’altra componente che mi ha affascinato moltissimo è stata la musica, che, tipica degli anni ’20, ha saputo catapultare me e tutti gli altri spettatori proprio nell’atmosfera del film, senza distogliere l’attenzione dai dialoghi e riuscendo ad accompagnare chi guarda il film scena per scena, conferendo sempre emozioni intense. In “Magic in the Moonlight” si fondono razionalità e magia e quest’ultima si riesce a percepire anche dove non c’è. Per essere felici forse serve anche questo: un po’ di illusione e finzione, rendendo magico anche qualcosa che non lo è e vivendo la magia che la vita ci offre, che qui in particolare è l’amore.


IL RICCO, IL POVERO E braccialetti rossi IL MAGGIORDOMO di Alice De Gennaro

I

l famosissimo trio italiano è tornato: nel loro nuovo film, Giacomo è un ricco broker con una moglie esigente, Giovanni il suo maggiordomo, segretamente innamorato della collega Dolores che insiste affinché si sposino, e Aldo l’allenatore disoccupato di una squadra di calcetto senza speranze, molto richiesto dalle donne che però teme. I loro destini si incrociano quando Giovanni e Giacomo investono Aldo e gli promettono un risarcimento da ritirare il giorno dopo: nel frattempo però avviene un colpo di Stato nel Burgundi, dove Giacomo aveva investito un’enorme somma di denaro; Giacomo perde pressoché tutto, compresa la somma che Giovanni gli aveva affidato per poter sposare Dolores, e si affidano all’ospitalità di Aldo e della sua bisbetica madre Calcedonia, ognuno con i propri obiettivi: Giacomo con quello di recuperare la sua fortuna, Giovanni di convincere Dolores a tornare in Italia e di trovare i soldi per sposarla e Aldo di avere il risarcimento per aprire la sua bancarella personale al mercato. Il film ha suscitato opinioni estreme: molti rimpiangono i vecchi filmi alla “Tre uomini e una gamba” e “Chiedimi se sono felice”, paragonando la pellicola a un “Cine-panettone” -affermazione con la quale mi trovo decisamente in disaccordo-, altrettanti trovano che il trio abbia creato un nuovo capolavoro. Intanto, diciamocelo: per quanto possa amare il trio, hanno perso un po’ di smalto. Tuttavia, paragonarlo ai film evidentemente fatti solo per fare soldi con battute facili a Natale mi sembra un estremismo esagerato (non c’è bisogno di dire che molti si sono fermati al trailer). Personalmente ho trovato il film soddisfacente: sebbene alcune battute siano scontate e alcuni plot-twist prevedibili, la comicità c’è, la trama pure. Non credo che sia un grande film, figuriamoci ai livelli delle loro prime performance, ma dire che è il peggiore film mai visto o chiedere anche solo scherzosamente il rimborso dei soldi è a dir poco ridicolo. Perciò: niente di strabiliante, ma ottimo per una domenica sera da passare in famiglia o per una maratona del grande trio.

di Greta Anastasio

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ommovente, profonda e a tratti comica la serie televisiva che ha appassionato milioni di italiani: “Braccialetti rossi”, la versione italiana di “Pulseras rojas” tratta dal romanzo “Il mondo giallo” di Albert Espinosa. La fiction tratta l’amicizia nata in ospedale di sei ragazzi uniti nella stessa battaglia: guarire dalle proprie malattie facendosi coraggio a vicenda, superando insieme ogni ostacolo che si presenta, perché la vita per loro è più forte di tutto e non saranno dei medici a togliere loro il sorriso. Il coraggio, la malattia e la fiducia nel futuro sono solo alcuni dei temi affrontati dal regista della fortunata serie: Giacomo Campiotti ha dichiarato di voler trasmettere speranza e un po’ di divertimento a tutti i ragazzi e le loro famiglie, ma soprattutto a quei bambini veramente ammalati, che magari vedendo “Braccialetti rossi”, non si sentiranno più così diversi e affronteranno il loro malessere con più serenità. Una favola moderna sulla forza della condivisione, una storia di sogni ma anche di malattia e sofferenza, che ha per protagonisti un gruppo di ragazzi: Leo, Vale, Rocco, Cris, Davide e Tony che, nonostante la vita abbia riservato loro più dispiaceri che gioie, non si arrendono convinti che un giorno quell’ospedale, dove alcuni hanno vissuto per anni, sarà solo un ricordo. I “braccialetti rossi”, ognuno con il proprio fardello fisico (dall’ingessatura per un banale incidente, all’anoressia e ai tumori), sono uno il sostegno dell’altro: hanno caratteri complementari, anche se talvolta non mancano scontri e fraintendimenti, che li porteranno comunque a maturare insieme e a scoprire i valori della vita e della solidarietà. In più i ragazzi sono legati da un braccialetto rosso, un cinturino con il gruppo sanguigno che riceve il paziente prima di essere operato, che portano al polso come il loro segno distintivo che li unisce e che attribuisce anche il nome alla fiction.La serie ha colpito milioni di persone in tutto il mondo, tra cui anche il regista Steven Spielberg che, rimasto folgorato dal grande successo di Rai Uno, ha deciso di acquistare i diritti per gli USA per crearne una versione americana, sperando di avere lo stesso esito positivo avuto in Italia e Spagna.E proprio per il buon risultato ottenuto, i “Braccialetti rossi” tornano a febbraio con una seconda serie che, come nella prima, ci farà entrare in un mondo reale, duro ma anche avventuroso e commovente, proprio come è la vita.

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CINEMA

THE IMITATION GAME di Bianca Carnesale

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ilm tratto dalla biografia, scritta da Andrew Hodges: Alan Turing - Storia di un enigma. The imitation game è la storia di come un gruppo di matematici riesce a decifrare Enigma, codice creato e usato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e apparentemente indecifrabile. Realizzato da un gruppo creativo europeo, a partire dal regista norvegese Morten Tyldum, il film è stato definito “una macchina da Oscar”, infatti candidato agli Oscar con ben otto nominaton. Strutturata attraverso una serie di flashback, in cui il passato spiega o complica il presente, la storia ruota attorno agli avvenimenti del 1939, anno in cui Turing viene accolto a Bletchley Park, sito dell’unità Britannica di critto-analisi, fino alla decifrazione di Enigma e alla tragica conclusione. Ma Enigma, alla lettera “parlare in modo oscuro”, non è solo il sistema della Germania nazista per rendere indecifrabili le comunicazioni belliche: è anche il modo in cui Alan, creatore dell’attuale informatica, si rapporta con gli altri esseri umani, incapace di instaurare rapporti non solo profondi e stabili, ma anche solo socialmente accettabili, rifacendosi alla tradizione del genio solitario, incurante delle convenzioni, incapace di qualsiasi tipo di omologazione. Il che, nella Gran Bretagna degli anni ’50, lo conduce al suicidio per omosessualità, considerata come una malattia da una società retrograda, messa a duro confronto con una mente geniale, l’unica in grado di salvare quella stessa società che lo condanna. Uno dei primi flashback riguarda Alan bambino con il compagno di scuola Christopher, l’unico con il 24

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quale riesce ad instaurare un’amicizia interrotta solo dalla morte precoce di Christopher. Proprio con il nome dell’ amico, Alan chiamerà la macchina destinata a decifrare Enigma. Nome che per il protagonista è segno d’amore , ma che etimologicamente significa “colui che porta Cristo”: Alan mette a disposizione dell’esercito il proprio genio per battere il nazismo e conclude la sua vita vittima di quella mancanza di libertà di pensiero e di agire che aveva contribuito a combattere. Alan non è solo in questa lotta, ma è affiancato da un gruppo di menti brillanti come Hugh Alexander, il giovane Peter Hilton, la venticinquenne

Joan Clarke, selezionata dopo aver risolto un cruciverba in meno di sei minuti battendo lo stesso Alan. Per nascondere la propria omosessualità e per permettere a Joan di restare all’interno del progetto, Alan la sposa. Il “gioco imitativo” del titolo si riferisce anche alla vita di Turing, che è costretto a giocare con regole non sue in un contesto sociale che lo rifiuta, in un’ Inghilterra cupa non solo per la guerra, ma anche e soprattutto per il clima di omologazione a cui tutti sono tenuti ad aderire, al di fuori del quale non vi è spazio alcuno. Non a caso la fotografia predilige i toni scuri e gli spazi chiusi, quasi opprimenti,

con primi piani illuminati dei volti, in particolare del protagonista. La decifrazione di Enigma da parte di Alan inizia con la comprensione della necessità di distinguere l’intelligenza artificiale da quel fattore umano presente nella programmazione, fattore umano che rinvia al tema dell’amore, perché uno dei tedeschi che scrivono i messaggi criptati usa le lettere del nome della fidanzata, Cilly, per iniziare ogni messaggio. Turing, apparentemente incapace di rapporti umani, intuisce l’importanza di quel nome e di quel sentimento d’amore, proprio perché ne è privato. Una volta costruito Christopher, una volta che i tedeschi sono battuti, Alan è costretto a fare i conti con quella società che ha bisogno di eroi omologabili, come lui non può essere; considerato malato, obbligato alla castrazione chimica, la cui alternativa è il carcere, ad Alan non resta che chiudere la propria esistenza, dopo aver appreso che anche Joan ora ha una vita normale e che si è sposata con un militare. Troppi temi, forse, per un solo film che è poi una ricchissima biografia di una persona geniale. Una persona che ha contribuito a salvarci dal pensiero nazista, quello dell’omologazione per eccellenza, quello della ragione da una parte sola e degli inferiori dall’altra, portatori di malattie e degni solo di morire. Se oggi possiamo essere diversi gli uni dagli altri, pensare cose diverse, lo dobbiamo anche a uomini come Alan Turing. “Sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.”


CLASS ENEMY

la teoria del tutto

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di Marta Piseri

resentato alla Settimana della Critica nel 2013 a Venezia, finalista del LUX Prize 2014, Class Enemy è l’ultimo arrivato nel filone cinematografico che tratta le tematiche sociali relative alla scuola. Ci viene proposta la situazione di un liceo sloveno, ben più liberale del nostro caro Carducci, in cui il giovane regista Rok Biček fa abilmente uso di una vicenda vissuta personalmente per descrivere lo scontro sociale e generazionale che è quasi connaturato all’istituzione scolastica. Al prof. Zupan, severo insegnante madrelingua di tedesco, viene assegnata una classe di ragazzi un po’ troppo vivaci; rappresentate dal forte elemento della distanza culturale, le tensioni tra docente e alunni nascono immediatamente, secondo un meccanismo di reciproca incomprensione che torna familiare a tutti noi, ma la situazione si fa incontenibile quando Sabina, una ragazza chiusa e molto sensibile, si toglie la vita (spoiler necessario) in seguito ad un pesante discorso del professore. La condanna dei ragazzi è durissima: il nazista l’ha uccisa. Figurarsi quando questo ha la pretesa, dopo una settimana di lutto e terapia di classe, di riprendere le lezioni. Allora il trauma diviene subito rabbia, lasciando poco spazio alla tristezza, e la compagna scomparsa fa da strumento per una serie di rivendicazioni spinte da una partecipazione chiaramente superficiale e inconsapevole. Del resto il regista dichiara di voler rappresentare “una generazione estremamente vulnerabile e, in quanto tale, propensa ad assorbire quel che le succede intorno, sia a livello conscio che inconscio.” Si rispecchia così nella scuola lo scontento sociale globale, delineato con forti tratti specifici per ognuno dei ragazzi. Da chi spara sentenze per partito preso, a chi incolpa il sistema perché “l’ha detto papà”; e in questo crescendo di ideali frammentati e stravolti, gli sporadici tentativi di mediazione vengono rigettati e condannati. Tra le tinte chiaroscurali scelte consapevolmente dal regista, che afferma di astenersi dal giudizio morale “bianco o nero”, maggiormente calcata è la figura del genitore, che, chiamato in aiuto per risolvere una situazione ormai ingestibile, riesce solo a complicare le cose, pensando esclusivamente al proprio figlio e incoraggiando il labirinto di dita puntate, la cui origine prima va perdendosi sempre di più. Un film da tenere presente, per non cadere nella dannosa volubilità di cui è esempio, e un regista da tenere d’occhio.

di Valeria Galli

La teoria del tutto” è un film biografico del 2014 diretto da James Marsh, candidato a cinque premi Oscar e vincitore di due Golden Globe. Cambridge, 1963. Stephen Hawking è un giovane studente di cosmologia, che ha intrapreso il corso di dottorato in fisica. Il tempo è l’argomento del suo dottorato e l’obiettivo di Stephen è quello di dimostrare con un’unica e semplice equazione che il tempo ha avuto un’origine. Ad una festa incontra Jane Wilde, studentessa di lettere, e tra i due è amore a prima vista. Peccato che, inaspettatamente, gli viene diagnosticata una terribile malattia, la malattia del motoneurone, che comporta la progressiva perdita dell’uso dei muscoli. Ora l’aspettativa di vita di Stephen è di due anni. Jane decide di stargli affianco e di combattere la malattia insieme sebbene, come le dice il padre di Stephen, “sarà una sconfitta terribilissima”. Al contrario di quanto ci si aspetti, però, il corso della vita di Stephen prende una piega straordinaria, lo sviluppo della sua malattia e il conseguente indebolimento fisico sono direttamente proporzionali alla fama accademica che acquista grazie alle sue teorie. Hawking, infatti, supera di anni la sua aspettativa di vita e, dopo la sua prima tesi secondo la quale il tempo è stato originato dall’esplosione di un buco nero, giunge ad affermare che l’universo non ha confini. Il regista Marsh decide di concentrare la narrazione soprattutto sulla vita personale di Hawking, in particolare sul rapporto con la moglie Jane e i tre figli. L’interpretazione di Eddie Redmayne è senza dubbio eccezionale, sia nell’incarnare il declino fisico di Hawking sia nel dar volto alla sua espressione ingenua e ironica. Jane Wilde, interpretata da Felicity Jones, ricopre un ruolo fondamentale nel corso nello sviluppo dell’intreccio, tanto da sembrare lei stessa la protagonista del film. La relazione tra lei e Stephen è rappresentata in modo straordinariamente suggestivo e realistico, l’amore tanto forte all’inizio è destinato ad affievolirsi con il tempo, ma permane sempre una complicità che difficilmente non cattura il pubblico. La resa ne è un film toccante, coinvolgente e commovente al punto giusto. Capace di trasmettere il pensiero, la tenacia e la voglia di vivere del più grande e celebrato astrofisico della nostra epoca. Ci tengo a ricordare le sue parole: “Non devono esserci limiti agli sforzi dell’uomo. Per quanto possa essere brutta la vita, finché c’è vita, c’è speranza”. Ciao Stephen!

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musica Mad Sounds

di Federica Del Percio

Titolo: Just like Honey Artista: Jesus and Mary chain Album: Psychocandy Anno: 1985

di Giovanni Bettani

Titolo: Behind blue eyes Artista: The Who Album: Who’s next Anno: 1971

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Listen to the girl / As she takes on half the world / Moving up and so alive / In her honey dripping beehive” si apre così il brano capolavoro della band scozzese formata nel 1984 dai fratelli Jim e William Reid, i quali proprio grazie a psychocandy riusciranno ad imporsi sulla scena underground inglese. Il brano, che inizialmente è sostenuto dai toni darkeggianti del basso di Douglas Hart, viene squarciato con prepotenza dalla chitarra di Will, che così facendo apre la strada al fratello, il quale, con la sua voce cupa e squisitamente malinconica, trasporta l’ascoltatore in un mondo parallelo, trascendentale. ”Walking back to you / Is the hardest thing that / I can do” Accordi semplici ma imponenti feedback lacerano il testo e si impongo in un caos sonoro, elevato. Tali sono i presupposti (lampanti in “Just Like Honey”) che porteranno la band dei fratelli Reid

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circa sei anni dall’uscita del primo singolo “My generation”, diventato ormai simbolo dei movimenti MOB londinesi, la band britannica incide nel 1971 uno dei più importanti album della storia del Rock&Roll. Sulla cresta dell’onda dopo l’uscita di “Tommy” nel 1969, Peter Townshend, chitarrista e leader della band, concepisce un’altra opera rock intitolata Lifehouse, che vorrebbe mischiare rock e teatro. Tuttavia il progetto fallisce e Pete decide di salvarne le tracce per pubblicarle successivament: così nasce “Who’s Next”. Principalmente composto da canzoni d’amore, questo disco in pieno stile anni ‘70 contiene questa ballata originale e passionale, e punta a definire una volta per tutte il vero volto della band. La canzone inizia con una melodia eterea ma associata a parole aspre, piene di orgoglio e di autocommiserazione “No one knows what it’s like / To be the bad man / To be the sad man/ Behind blue eyes”. Townshend esprime tutta la sua sdolcinatezza pizzicando le corde e Roger Daltrey con voce potente e spensier-

a scoprire un nuovo movimento, il “shoegazer”, ossia una filosofia musicale introspettiva che presenta l’estetica vincitrice sull’etica e l’assenza di qualsiasi messaggio politico-sociale nei testi. “I’ll be your plastic toy / I’ll be your plastic toy / for you / Eating up the scum / Is the hardest thing for me to do”. Tre minuti di pura follia dark che vanno scemando con la ripetizione alternata da due voci delle parole “just like honey” mentre la base incalza il ritmo, come un’esplosione ritardata, come un sogno a scadenza, come un rimpianto. “just like honey...” e tutto finisce. Il singolo successivamente entra a far parte della colonna sonora del film di Sofia Coppola “Lost in Translation” del 2003; esso infatti viene astutamente inserito nell’ultima scena donando allo spettatore un lieve tocco di poesia ma non infrangendo l’intimità che lo ha trasportato durante l’intera pellicola. atezza poetica riesce a interpretare il viaggio nell’anima di un fallibile e patetico essere umano che implora aiuto di fronte alle tentazioni della sua vita. A strofe strazianti si contrappone un desiderio di rivalsa “But my dreams / They aren’t as empty / As my conscience seems to be” e di libertà di fronte alle catene del proprio amore “I have hours, only lonely / My love is vengeance / That’s never free”. La chitarra domina incontrastata insieme alla voce solista e, quasi sussurrando, attaccano anche basso, tastiera e una seconda voce, e tutto si aggroviglia in un climax e scoppia. Si passa a un secondo tema in cui si riprende il riff di “Won’t get fooled again”, e Roger si rivolge direttamente all’ascoltatore. È lui la sua ultima speranza, e lancia un ultimo disperato lamento, cercando un conforto: “If I shiver, please give me a blanket / Keep me warm, let me wear your coat”. Pete non resta con le mani in mano e lascia spazio a virtuosismi con la sua Gibson. Solo nel finale Daltrey ritorna se stesso e tutto finisce con una tristezza velata dietro a quegli occhi blu.


Libri

In libro libertas L’amante di Lady Chatterly di Cristina Isgrò

L’Amante di Lady Chatterley” di David Herbert Lawrence è stato per anni definito “il romanzo piú indecente del mondo”. Pubblicato nel 1960 in Inghilterra, dopo essere stato censurato nel 1928, fu al centro di un sensazionale processo per oscenità e fu bandito per diverso tempo a causa della sua schietta rappresentazione dell’amore carnale fra Lady Constance Chatterley e Mellors, il guardiacaccia di suo marito. Lady Chatterley è una donna libera e rivoluzionaria, che, anche a causa delle sue esperienze giovanili, è inadeguata alla vita rigorosa di una signora dell’alta società. In giovane età conosce Sir Clifford, un giovane intellettuale aristocratico, che si infatua di lei e la prende in moglie. I due si trasferiscono nel ricco maniero di proprietà della famiglia di Sir Clifford nelle Midlands, Wragby, circondato da miniere di carbone di proprietà dello stesso; per Lady Chatterley, Wragby è un luogo triste e lugubre, e spesso nel romanzo si perde nel ricordo di quando abitava nel Sussex, tornando poi tristemente alla realtà. Poco dopo il matrimonio, Sir Clifford parte per la guerra, dove verrà ferito alle gambe e ne perderà l’utilizzo, diventando paraplegico. Dopo il ritorno del marito in quelle condizioni, il rapporto fra lui e Connie (Lady Chatterley) cambia e diventa freddo e formale; la giovane donna

vive in uno stato di perenne soggezione rispetto al marito che è più ricco e più autoritario di lei, credendo di amarlo e accettando così di vivere con lui una vita agiata, tranquilla, solitaria e priva di ogni vitalità. Connie si riduce così dal ruolo di moglie a quello di

“badante” del marito, fino a quando sua sorella, venuta in visita presso di lei, la trova deperita e stanca e decide di procurare a Sir Clifford una persona che si prenda cura di lui al posto di Connie: Miss Bolton. Con l’aiuto di quest’ultima, Lady

Chatterley può finalmente dedicare un po’ di tempo a se stessa e, durante una delle sue lunghe passeggiate nel bosco intorno a Wragby, incontra Mellors, il guardiacaccia: fra i due nascerà una coinvolgente passione sessuale, che abbatterà ogni barriera di classe che separa i loro mondi. In Mellors la donna troverà appagamento e gli concederà tutta se stessa. Lo scandalo che il libro suscitò alla sua uscita è oggi molto ridimensionato: infatti le scene che negli anni ’60 erano ritenute “oscene”, sono oggi completamente accettabili. Interessante è inoltre analizzare le lotte di classe: siamo negli anni dopo la Prima Guerra Mondiale e gli aristocratici della cerchia di Sir Clifford sono dei conservatori, spaventati del progresso e della modernizzazione, che porterà gli operai e i domestici alla ribellione. Lady Chatterley si trova fra due fuochi: il mondo aristocratico e conservatore del marito, una vita stabile, agiata, ma monotona, e quello del guardiacaccia, fatto di passione fisica e semplicità, e mentre dapprima Connie funge da mediatrice fra queste due fazioni, ad un certo punto sarà costretta a prendere una decisione e a scegliere fra l’uno o l’altro mondo. La scrittura è raffinata, coltissima e ricca di citazioni ai grandi della letteratura: tutto questo rende il libro pieno di suggestioni e tutt’ora molto attuale.

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Libri

Agura Trat di Letizia Foschi

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ggi parliamo di una piccola dose d’amore che viene somministrata ai bambini intorno ai sei anni attraverso un libro alquanto curioso (sì, sto parlando di un racconto di Roald Dahl che ho letto in prima elementare, cosa vi aspettavate, un bel trattato scientifico su “Zio Tungsteno” di Oliver Sacks?). Tutti gli uomini cercano di fare colpo, almeno per una volta, sull’amore della loro vita, e anche l’anziano signor Hoppy, innamorato perso dell’altrettanto anziana signora Silver che ha il terrazzo sotto il suo. Siccome in ogni storia che si rispetti c’è sempre un triangolo, bisogna

che vi dica che la signora Silver ama solo la sua tartaruga, Alfio. Questo libro è una dimostrazione di come si possa essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di rendere felice una persona amata, come ad esempio, in questa storia, creare una filastrocca affinché la tartaruga del proprio amore cresca di dimensioni e quindi andare a comprarne su e giù per la città tutti gli esemplari esistenti. Il piano del signor Hoppy è infatti quello di scambiare regolarmente la tartaruga della signora Silver con una più grande per veder sorridere sempre di più la vicina. Il fatto che poi si ritrovi i pavimenti di casa ricoperti da animaletti verdi è solo un effetto collaterale dell’amore!

Joyland di Letizia Foschi

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uando scrisse questo libro (2013) Stephen King aveva già abbondantemente superato i sessant’anni, e forse con la sua za se n’era andato

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anche quel tocco terrificante che aveva avvolto molti dei suoi romanzi tra cui IT, Pet Sematary, La bambina che amava Tom Gordon e L’ombra dello scorpione.Più che un horror da “Re del brivido” sembra che Joyland abbia deciso di rientrare in quella categoria di thriller che vengono spesso catalogati come scadenti. La quarta di copertina ha il compito di accendere quella scintilla che diventa subito un fuoco e ti costringe a leggere il romanzo, ma i problemi si presentano dopo: ci sono libri a cui resti legato fino all’ultima pagina, altri da cui ti stacchi rapidamente. Ascoltando e leggendo varie recensioni a proposito di Joyland mi è sembrato che i tre quarti degli accaniti lettori di Stephen King lo reputino come “il romanzo malriuscito”. Io, in effetti, l’ho trovato un po’ lento, spesso esageratamente descrittivo, ma con una trama che in qualche modo rapisce. Ci troviamo catapultati nell’estate 1973, a Heaven’s Bay, Carolina del

Nord: il giovane squattrinato Devin Jones, studente universitario che ha appena concluso la sua unica relazione d’amore, trova un lavoro estivo in un parco divertimenti, Joyland. Fino a qui, tutto normale. Ma cosa è successo, proprio in quel lunapark, qualche anno prima? Linda Gray, uccisa dal “serial killer dei parchi di divertimenti” nel tunnel degli orrori, sembra aver lasciato lì il suo fantasma a terrorizzare gli impiegati di Joyland. Buttatosi appieno nel lavoro, Devin comincerà a raccogliere indizi, testimonianze e fotografie per trovare una volta per tutte il colpevole. Per quanto io abbia ampiamente preferito Christine, la macchina infernale a questo romanzo, Stephen King non è ancora riuscito a deludermi completamente: fa impressione il modo spontaneo con cui Joyland è scritto, e, anche se non si trova tra i migliori nella sua categoria, resta un romanzo che merita una lettura.


Il deserto dei tartari e il valore dell’attesa di Maria Chiara D’Agruma

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l Deserto dei Tartari è un romanzo di Dino Buzzati, pubblicato nel 1940. Il protagonista della narrazione è Giovanni Drogo; questo, nominato ufficiale da poco, parte una mattina per raggiungere la fortezza Bastiani, situata ai confini di un deserto lontano dal suo luogo natio. La rocca è, però, vecchia e consumata, e abitarvi non è piacevole quanto il protagonista si aspettava: proprio per questo, Giovanni desidera in un primo momento rincasare in città. Tuttavia, senza che lui possa accorgersene, una forza sconosciuta, forse scaturita dalla sua stessa anima, lavora contro il suo ritorno. Stanco di trascorrere la vita invano rinchiuso in una rocca, Giovanni è alla ricerca di qualcosa che possa dare un significato e una scossa alla sua esistenza, finché questo qualcosa non si identifica nel sogno di un arrivo dei Tartari che, secondo le antiche leggende, vivono nel Deserto situato a Nord. Questa popolazione nomade, di cui si parla nel romanzo, non è però da identificarsi con la popolazione dei Mongoli dell’Asia Centrale; Buzzati parla infatti di “Tartari”, solamente perché vuole evocare l’idea di una minaccia militare da parte di guerrieri crudeli e sconosciuti: luogo ed epoca della narrazione rimangono, pertanto, vaghi ed indefiniti. Giovanni, per poterli affrontare e restituire così la nomea di un tempo alla fortezza, li attenderà per tutta una vita con impazienza ma, a causa di determinate vicissitudini, egli non riuscirà mai a incontrarli e, quindi, fronteggiarli. Interessante sicuramente è il messaggio che Dino Buzzati vuole, a mio avviso, trasmettere attraverso il personaggio di Giovanni Drogo. La vita del protagonista, infatti, ci spinge alla riflessione circa un’importante tematica: quella dell’attesa, e del valore che essa ricopre nelle nostre vite. Giovanni è il perfetto esempio di uomo che progetta la propria vita aspettando un solo evento. L’attesa di Giovanni può, però, essere considerata come la forma degenerata dell’attesa stessa: essa, infatti, nel caso del protagonista, è un desiderio illusorio e fine a se

stesso nel quale, più o meno consciamente, vengono riposti tutti i desideri, le speranze e i significati esistenziali che, alla fine, non realizzandosi, gli procureranno solo tristezza. Egli infatti, come ben emerge nel VII capitolo della narrazione, è fermamente convinto che «Dal deserto del nord [sarebbe giunta] la fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno». A questo punto, sorge spontaneo un quesito: qual è il vero valore dell’attesa? Qual è il giusto modo di porsi nei suoi confronti? A mio parere, è giusto che nella vita di ognuno di noi ci siano attese di eventi importanti, che pensiamo possano renderci felici. Tuttavia, ritengo non sia opportuno riporre tutti i nostri desideri solamente nell’ipotetica realizzazione di un’attesa, poiché, anche qualora quest’ultima dovesse risolversi in un qualcosa di concreto, nulla assicura che questo qualcosa ci renderà effettivamente felici. Ritengo inoltre che, eccezion fatta per eventi piacevolissimi (si pensi, per esempio, al vero amore) ed altri indiscutibilmente portatori di dolore (come potrebbe esserlo la morte di una persona cara), tutti gli episodi della nostra vita si trovino fra questi due poli e fondamentale sia la disposizione d’animo con cui li accogliamo. La capacità di sapersi porre dinanzi agli eventi della vita in un’ottica (nei limiti della ragionevolezza) quanto più positiva possibile è, a mio avviso, uno dei più importanti mezzi con cui

raggiungere quanto di più importante ci sia per ciascuno di noi: la felicità. In ultima analisi, il romanzo mi è piaciuto molto, poiché invita il lettore ad importanti riflessioni: nella storia del protagonista possiamo infatti trovare dinamiche che caratterizzano alcuni tratti delle nostre vite. Si può infatti dire che Giovanni è come una sorta di alter ego di una parte di noi stessi, quella che assumiamo, in maniera spesso inconsciamente sbagliata, quando attribuiamo troppo valore a qualcosa che proiettiamo in un futuro più o meno lontano. Quando, insomma, l’attesa finisce con l’essere l’unico mezzo con cui crediamo di poter aspirare alla felicità. In conclusione, consiglio questo libro a tutti coloro che cercano una lettura che inviti a riflettere, in particolare a chi ama romanzi velati da un alone di mistero, elemento con cui Buzzati arricchisce magistralmente la narrazione, conferendole un carattere, per così dire, magico.

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Racconti

Il paradiso dipende da noi

di Tatiana Ebner

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gni giorno l’infermiera entrava alle otto nella sua stanza e le alzava la tapparella fino a metà finestra. Non lasciava mai entrare troppa luce, nonostante fosse l’unica cosa che lei desiderasse: la luce del sole e un cielo azzurro. Se non da vivere almeno da guardare dal suo letto da ospedale. Aveva provato a dire alle infermiere di aprirla tutta quella tapparella, ma nessuna l’aveva mai ascoltata, e quindi aveva continuato a passare le giornate con quella grigia e fioca luce che trapassava da metà finestra, con una lampadina sul comodino. Quella era la luce che la stava accompagnando nei suoi ultimi mesi di vita. Eppure in tutti quei mesi non aveva mai perso il sor-

riso. Anche lì, nella sporca stanzetta di un centro di ricovero nella periferia di Milano, con il riscaldamento che ogni notte scricchiolava, con un forte odore di chiuso, senza nessuno che la andasse mai a trovare , nessun amico, nessun parente, aveva sempre continuato a sorridere. Aveva continuato a scherzare e a ridere con le infermiere, a farsi portare in giro per l’edificio per parlare con tutti, si faceva accompagnare in altre stanze per far ridere quelli che da soli non ci riuscivano. Anche in quel postaccio continuava a vivere come se niente fosse, continuava a leggere, a disegnare, a cantare. Cantava tutto il tempo, sempre stonatissima. Avevano cercato di dirle di stare zitta, ogni volta le ricordavano che quello non era mica un parco gi-

ochi. Lei, sempre sorridendo rispondeva ogni volta con le stesse parole : “ Il paradiso dipende da noi, chiunque voglia, vive nell’eden, nonostante Adamo e la cacciata”.

L’offesa di Bianca Carnesale

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gni riferimento è puramente casuale. Nessuno si senta offeso. Nessuno si senta escluso.

L’Entità volse il suo sguardo verso la Terra, come faceva ogni tanto. Vide che gli attribuivano leggi, parole, come sempre. E come sempre li lasciò liberi, quei piccoli uomini. Lo chiamavano, Lo usavano per colpirsi gli uni con gli altri. Era già successo e molto sangue si era sparso sulla terra. Sparso in Suo Nome. Armi usate in Suo Nome. Per difendere il Suo Nome. Ora dicevano che qualcuno Lo aveva insultato. Era terribile pensare come non riuscissero a capirLo. Aveva mandato sulla Terra piccoli uomini e piccole donne in villaggi dispersi; poi messia, profeti, santi, che avevano lasciato un’impronta nei secoli. Non era servito. Era stato accanto a lebbrosi, streghe, bambini che morivano di sete su barconi mentre annegavano accanto a uomini e donne che erano 30

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gli ultimi degli ultimi, vicino a chi era visto come un malato solo perchè non era come si pensava dovessero essere tutti. Sorrise l’Entità. Sorrideva spesso, nonostante tutto. Sentiva che dicevano che Lo avevano offeso e nella Sua mente

infinita per un momento pensò che i piccoli uomini sulla Terra avessero capito. Certo che era offeso, offeso da milioni di anni al pensiero che l’uomo che aveva l’intelligenza per creare opere d’arte eccelse, per

scoprire l’origine della materia, per esplorare lo spazio, non vedesse come portare pace, fratellanza, giustizia, uguaglianza. Le voci si facevano più alte: salivano da pulpiti, da cattedre, da mezzi di comunicazioni che attraversavano lo spazio. Continuava la morte per fame, per guerra, c’era chi lottava tra i rifiuti per un pezzo di pane e chi viaggiava in jet privato, c’era tanta miseria, tanta bruttura. E gli uomini gridavano all’offesa! Lo consideravano come un bambino che si offende per una parola in un litigio. Gridavano all’offesa! Per disegni su un giornaletto di nome Charlie. Con quei morti, e non solo quelli, ancora caldi. L’Entità ebbe uno scatto d’ira e per un secondo, per un solo secondo, pensò di cancellare tutto. Come potevano fraintenderlo così? Infine, nel suo infinito amore, decise di lasciarli vivere. Che aggiungessero un altro errore ai tanti già commessi. Volse il Suo sguardo e decise di regalare ai piccoli uomini un’altra primavera. Che ne facessero buon uso.


varie ARIETE (21 marzo - 20 aprile) Siete molto fantasiosi: avete mai pensato di essere pedinati dall’FBI? Avevate ragione! Dagli USA i servizi segreti hanno individuato traffici sospetti di caramelle Goleador e siete nel centro del mirino. Guardatevi bene dai primini: al Carducci potrebbero esserci spie tra gli studenti.

BILANCIA (24 settembre - 23 ottobre) Tutte le notti di questo mese gli oggetti della vostra camera si animeranno, specialmente il vostro orsetto di peluche preferito. Per fortuna lo Zodiaco ci ha mostrato una soluzione: collocando un sasso bagnato sotto il vostro cuscino bloccherete la tensione dei pianeti e restituirete tranquillità all’ambiente.

TORO (21 aprile - 21 maggio)

SCORPIONE (24 ottobre - 23 novembre)

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano).”- Antoine de Sant-Exupery. I n questo periodo i mocciosi sono il vostro incubo: fratellini, cugini, nipoti spesso vi opprimono lasciandovi senza respiro. Alla domanda “Giochi con me a nascondino?” non rispondete un NO categorico. Provate ad abbandonarvi ai piccoli piaceri dell’infanzia: solo così troverete la serenità.

La vista di un amico che non vedevate da tanto tempo segnerà un grande cambiamento. Vi ricorderà, infatti, che gli dovete una ventina di merende per avervi fatto copiare durante i compiti in classe e se non glieli date subito rivelerà tutto ai prof.

GEMELLI (22 maggio - 21 giugno) Per gli appassionati di scommesse, è il vostro mese fortunato! Secondo gli astri i vostri numeri sono il 9, il 18 e il 23. Non è detto che dobbiate giocarli al Lotto, magari sono solo i giorni fortunati del prossimo mese.

CANCRO (22 giugno - 22 luglio) Per gli amanti dello sci o dello snowboard eccoci finalmente nel mese delle fantastiche gare a Pila. Purtroppo per voi sono previste cadute. Quindi cercate di tenere a bada lo spirito competitivo e siate prudenti se volete arrivare sani e salvi al traguardo.

LEONE (23 luglio - 23 agosto) Da qualche tempo siete colti da improvvisi attacchi di fame, difficili da gestire (come l’istinto di divorare i vostri libri). Non preoccupatevi: è una cosa normale. Cercate però di trattenervi dallo sbranare i vostri cari.

VERGINE (24 agosto – 23 settembre) Questo mese la campanella del Carducci si romperà a causa di atti vandalici. Il preside Monopoli, poiché siete famosi in tutta la scuola per la vostra musicalità, convocherà personalmente uno di voi per affidargli uno speciale incarico: far rintoccare la nuova campana. Che fortuna!! Cosa ne dite di anticipare un po’ l’uscita da scuola…?

SAGITTARIO (24 novembre - 22 dicembre) Questo mese il pianeta Giove si è tinto di un lieve rosso… Innamoramenti in vista!! Gli astri rappresentano una pari attrazione verso l’Ariete, persona decisa e testarda, o la Vergine, mite e placida.

CAPRICORNO (23 dicembre - 20 gennaio) “Excusatio non petita, accusatio manifesta.” Gli antichi Romani avevano ragione! Una scusa non chiesta è evidentemente un’ auto-accusa. Siete dei ritardatari pazzeschi e se entrate un paio di minuti dopo, non cominciate ad accampare scuse ai prof senza che vi siano richieste. Forse così eviterete la sgridata.

ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio) “Memento mori” E’ il periodo del vostro compleanno. Se pensate che una candelina in più o una in meno non faccia la differenza vi sbagliate! Vi siete avvicinati di un altro anno all’inizio della vecchiaia. Quindi godetevi al massimo la vostra adolescenza!

PESCI (20 febbraio – 20 marzo) Non è il vostro periodo: per colpa della luna mal allineata con Saturno, la scuola e la famiglia non danno le soddisfazioni sperate per l’anno nuovo. Troverete conforto in una Bilancia che vi aiuterà a ritornare alla felicità passata, ma attenzione a non farvi condizionare dalle idee troppo radicali di un Leone che cercherà di manipolarvi.

Febbraio 2015 | L'Oblo' sul Cortile

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#CHARLIE


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