Antropologia, teatro e trance a cura di Antonio Luigi Palmisano
I LIBRI DI EMIL
Š 2018 Casa editrice Emil di Odoya srl ISBN: 978-88-6680-300-3 (PDF) I libri di Emil Via Benedetto Marcello 7 - 40141 Bologna www.ilibridiemil.it
Indice
Introduzione Antonio Luigi Palmisano
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PARTE I
Antropologia e trance
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Visione, possessione, estasi: teoria e spettacolaritĂ delle trance rituali Antonio Luigi Palmisano
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Presenza, assenza e rappresentazione nelle trance rituali Antonio Luigi Palmisano
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Silenzio, suono e parola divina nei culti zar dell’Etiopia Antonio Luigi Palmisano
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La struttura della trance nei culti di possessione afro-brasiliani Stefan Festini Cucco
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A Gondar con i posseduti, 2015 Laura Budriesi
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PARTE II
Trance, teatro e culto
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Trance e teatro, teatro e trance: divagazioni Laura Budriesi
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CantieriMeticci: dove migranti, rifugiati e italiani diventano «professionisti delle arti». Un viaggio verso l’Altro rileggendo La Tempesta di Shakespeare Laura Budriesi 223 Le Porte di Saba di Ariane Baghaï Laura Budriesi Khush Hal Nameh: un’esperienza etno-drammaturgica in ambito scolastico Veronica Boldrin
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PARTE III
Trance, ipnosi e terapia
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Doppio legame e ipnosi: la trance come processo costruttivista Antonio Luigi Palmisano
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Evidenze neuroscientifiche di trance ipnotica: evoluzione storica e applicazioni Giuseppe Vercelli
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La dimensione terapeutico-esistenziale della trance: un caso di studio Raffaella Sabra Palmisano
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INTRODUZIONE
Medicalizzando vita, rituale e messa in scena Antonio Luigi Palmisano
Antropologia, teatro e trance: quali sono i nessi fra queste esperienze o – per chi preferisce terminologie più audaci – fra queste arti? La contiguità fra teatro e antropologia è ben nota. Già da anni gli studi di Victor Turner hanno focalizzato l’attenzione degli antropologi intorno agli isomorfismi fra azione drammatica sulla scena e azione degli attori sociali nella vita quotidiana. Prima ancora, abbiamo studiato con incantata attenzione i lavori di Louis Gernet sull’antropologia della Grecia antica e l’origine del teatro greco: studi forse meno noti ma ancora più incisivi, che mostravano come il teatro comunicasse e comunichi riflessioni etno-antropologiche sulla struttura delle relazioni sociali nella società contemporanea agli spettatori, oltre a trattare di processi psichici condivisibili, con ogni probabilità, dall’uomo di ogni tempo e luogo. E prima ancora, almeno per molti antropologi, Luigi Pirandello è stato riconosciuto come indiscutibile maestro della “antropologia della persona” fuori dall’ambito accademico disciplinare. Uno, nessuno, centomila rappresenta, con tutta la sua pronta e immediata comunicabilità, un potente e ineludibile trattato di antropologia della percezione in un contesto autoetnografico. Di quanto sapere si priva lo studioso che non lo vive sulla scena con approccio antropologico! Alcuni autori – e Ariane Baghaï, discussa in alcuni di questi saggi, ne è un esempio –, lasciano rilevare una particolare concezione dell’attività dell’autore drammatico e del drammaturgo. Scrivere un dramma è descrivere la società nella quale si vive, mettere in scena un dramma è permettere agli attori sociali di osservare se stessi e gli “altri” sulla scena attraverso l’azione degli attori: ecco allora gli etnodrammi, il connubium fra teatro e antropologia. Un lavoro di dram-
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maturgia, dunque, che – oltre l’antropologia del teatro – si risolve in una antropologia delle società “Altre”, un lavoro etnografico che il teatro può riconsegnare criticamente allo spettatore-attore sociale. Sia questo spettatore un attore sociale nella società messa in scena oppure un attore sociale nella società dove quella viene a essere rimessa in scena. L’antropologo svolge il suo lavoro vivendo nella società che intende studiare. Con questa condivide infiniti momenti della vita quotidiana, perfino gli imponderabilia of everyday life. Bronislaw Malinowski parlava della “osservazione partecipante” come del processo metodologico conoscitivo per eccellenza, chiave di volta dell’etnografia e dunque dell’antropologia: apprendere a vedere lo “Altro” con i suoi stessi occhi. Evidentemente, un processo complesso e di difficile realizzazione; un processo che non può prescindere da una definitiva empatia, per quanto inconsapevole. Vivere insieme allo “Altro” significa condividere emotivamente il suo mondo, ovvero condividere un mondo di significati e di emozioni che è prodotto da tutti gli attori sociali, compreso infine l’antropologo. Una condivisione realizzabile in particolari condizioni, riproducibili dall’etnografo di talento impegnato sul terreno e forse riproducibili in teatro: fluidità dei processi emotivi e stati particolari di coscienza interagiscono in direzione dello stabilimento di processi cognitivi per mezzo dell’azione di scambio fra attori e fra attori e spettatori-attori, un’azione insomma comunicativa. Questo, almeno, nella mia concezione della trance e degli “stati modificati di coscienza”: forme di conoscenza e di costruzione della realtà sociale. E la trance è talvolta protagonista nei drammi, ancor più negli etnodrammi, quanto alcuni degli stessi personaggi rappresentati, che spesso agiscono appunto in stato di trance. È mai possibile, del resto, ignorare il ruolo che la trance ha rivestito nella pratica teatrale di Jerzy Grotowski, impegnato nella ricerca dell’efficacia, intesa come azione reale dell’attore sullo spettatore, dell’uomo sull’uomo, e come lavoro su se stessi? Insomma, sul palcoscenico gli attori quantomeno mimano la trance di chi loro personificano; e gli spettatori come recepiscono gli “stati modificati di coscienza” in questione? Il teatro è in grado di costituire in effetti situazioni molto particolari. E di riservare sorprese. Del resto, già per l’antropologo rimane aperta una fondamentale questione: anche ottenuta questa empatia, poco realizzabile in minuti
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e ore e comunque solo all’interno di un continuo e intenso dialogo, come comunicare alla società di appartenenza quanto si è vissuto e conosciuto nella società “Altra” e insieme ad essa? Le etnografie classiche descrivono la società “Altra” in termini canonici, proprio in monografie che fanno uso di una terminologia specifica in una struttura grammaticale e sintattica propria; è sufficiente pensare al cosiddetto “presente etnografico”, forma verbale che di fronte al lettore vivifica la società descritta. Ma la dimensione emotiva e affettiva è demandata al diario dell’antropologo, alle sue note di terreno, alle riflessioni private e più intime, neppure sempre pubblicate. Riflessioni che, però, sono risultate spesso essenziali per la comprensione non tanto della relazione fra l’antropologo sul terreno e la società in oggetto, quanto soprattutto per la comprensione tout court di quella società. Il diario di Malinowski alle Trobriand, pubblicato postumo dalla moglie, è l’esempio noto di come e quanto le emozioni provate e evocate siano parte costituente dell’etnografia, ovvero di un’antropologia che realizzi la comprensione dello “Altro”. L’illeggibile diventa leggibile e, grazie alla pletora delle sensazioni ridate in uno scandire finalmente emotivo del tempo, diviene perfino comprensibile. In effetti, solo le lunghe permanenze sul terreno possono permettere una empatia comunicabile. Ma non la sola monografia si propone a veicolo di comunicazione della stessa, seppure sostenuta dal cosiddetto “materiale audiovisivo”. Del resto, quanto comunica in forma drammatica il teatro, proprio rapendo lo spettatore in una dimensione onirica mentre lo estranea potentemente in un hic et nunc del tutto peculiare? Tragedie messe in scena permettono di entrare in mondi “Altri”, nei quali non siamo direttamente attori, come hanno già del resto permesso e permettono allo “Altro”, all’attore sociale locale, di osservare se stesso riflesso sulla scena. A pubblico e registi è poi affidato il compito di proseguire nell’interpretazione interattiva e comunicativa di queste esperienze etnodrammatiche. L’opportunità per l’antropologia di occuparsi di trance è meno sentita dagli antropologi. Eppure, fra le molte istituzioni che interessano l’antropologia e gli antropologi, la trance si impone per la sua spettacolarità e per la sua “marginalità”, ovvero per essere considerata un oggetto di studio senz’altro legittimo, ma comunque non del tutto
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appropriato: ai margini della ricerca scientifica, a meno che non lo si contempli all’interno del discorso medico, un discorso che istituisce un inossidabile ordine sociale e politico, oltre che epistemologico1. Così, all’interno dei processi di medicalizzazione della società o meglio ancora di medicalizzazione della vita2, ha trovato spazio la trance come terapia, e l’istituzione è divenuta comprensibile – dunque accettabile, eticamente e politicamente – agli occhi dell’Occidente e dei suoi ricercatori, ovvero è stata recuperata: permette di continuare a ragionare in termini di deficit, “cioè dell’impotenza che marca ogni individuo come debole e malato” e prosegue a nutrirsi del “paradigma dell’individuo da curare”3. Dove, evidentemente, per “curare…” non si intende “prendersi cura di…”. E all’interno della logica del deficit, chi meglio dell’Altro è in perenne deficit sociale, culturale, politico e ovviamente medico? Ecco qui lo snocciolarsi di visioni riassumibili in frasi emblematiche del genere: “Praticano [i famosi Altri!] culti di possessione, perché non dispongono di psichiatria e psicoanalisi…”4. Concezioni che risultano spesso interiorizzate e perfino condivise, in funzione di discorso auto-legittimante, anche dai praticanti i culti di trance sui più remoti palcoscenici della nostra globalità. Arduo risulta infatti agli occhi del medicalizzato mondo post-globale avanzare l’ipotesi: “Non praticano [i famosi Altri!] psichiatria e psicoanalisi, perché già dispongono di istituzioni della trance…”, e poi forse riflettere sulla eventualità che queste forme istituzionalizzate e ritualizzate dei processi dissociativi possano essere espressione di una forma superiore di costruttivismo, spinta decisamente “oltre la terapia”. Ovvero, “oltre la terapia” come definita, quest’ultima, a partire dalla cristallizzazione della diade contrappositiva soggetto/oggetto operata da Cartesio e resa religione dal tardo positivismo Ottocentesco. In questa visione, a tutti gli effetti cosmologica, il soggetto si dissocia dall’oggetto, trasformando in oggetto tutto quanto non è il soggetto, compreso l’Altro, se non a partire proprio dall’Altro. Mentre nel processo di trance, nello stato
Broekman, J.M. 1988, 1996. Rovatti, P. A. 2008. 3 Ibidem. 4 Inutile citare alcuni dei fautori di tale pensiero, tanto è numeroso lo stuolo dei fautori di quello che potrei definire “l’evoluzionismo compensativista”, ovvero del pensiero: “chi ancora non ha, si arrangia come può…”, applicato all’analisi sociologica e antropologica. 1 2
Introduzione
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alternativo di coscienza5, il soggetto compie l’esperienza – travolgente e affascinante e benefica – di dissociazione interna: l’Io si osserva e si contempla, interagendo con se stesso e gli altri fino a riconfigurare la propria posizione nel mondo. Nulla a che fare, dunque, con la terapia in quanto volgarizzazione e banalizzazione realizzata dalla medicina post-ottocentesca. Piuttosto, se è lecito impiegare in questa analisi il termine “terapia”, ci confrontiamo con quanto veicolato dal sostantivo therapeia, derivato dal verbo greco therapeuo: «servire, onorare (gli Dei, i genitori e gli altri esseri umani); dedicarsi a, avere cura di (Dei, genitori e altri esseri umani)». Non si tratta dunque di “cura” nel senso di esercitare un’azione di estirpazione della “malattia” – attività in fondo esorcistica –, operando su un corpo decisamente estraneizzato e infine oggettivato e perfino mercificato, quanto piuttosto di prendersi “cura di” un uomo o una donna, giovane o meno che sia, in modo da promuovere l’istituzione delle condizioni che permettono all’Altro ciò che consente proprio all’Altro di realizzare il suo, proprio il suo, esser-ci. E questo non è altro che la attuazione di una Anthropologie der Sorge – comprendendo Martin Heidegger –6 e quindi di una Anthropologie der Liebe – riconsiderando Ludwig Binswanger –7, tutta tesa de facto alla diminuzione della diversificazione fra soggetto e oggetto e alla fondazione di una nuova epistemologia all’interno della quale trova spazio un nuovo spazio, e tempo un nuovo tempo8. Considerando la trance rituale come un complesso processo 1. di istituzionalizzazione delle forme della rappresentazione e dell’autorappresentazione, 2. di interpretazione e fissazione dell’esperienza individuale e di gruppo, in particolare della “esperienza-limite”9, 3. di attuazione guidata dei processi di dissociazione e 4. di costruzione e convalida critica degli impianti cosmologici di riferimento10, è Rinunciando volentieri alla fallace locuzione “stato alterato di coscienza”, dopo aver adottato la più prudente locuzione “stato modificato di coscienza” ha senso considerare con attenzione l’espressione “stato alternativo di coscienza” proprio perché essa pone questo particolare stato sullo stesso piano dello stato di sonno e dello stato di veglia. 6 Heidegger, M. (1927) 2006, 1929, 1930, 1954. 7 Binswanger, L. 1942. 8 Ibidem. 9 Sul concetto di Grenzerfahrung e di Grenzsituation, cfr. Jaspers, K. Psychologie der Weltanschauungen. Berlin: Springer Verlag, 1919. 10 Per una più completa trattazione di queste componenti del processo di istituzionalizzazione delle trance rituali, cfr. Palmisano, A. L. 1996, 2000, 2001a, 2001b, 2002, 2003, 2006, 2013. 5
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possibile addentrarsi nel vasto e variegato mondo dell’attore sociale praticante la trance di visione, possessione e estasi, almeno in alcuni dei molteplici ruoli performabili. Non da meno, in questo contesto risulta di notevole interesse euristico addentrarsi nello studio delle trance non rituali, ovvero della trance in ipnosi e in particolare in ipno-terapia. E gli autori dei saggi qui raccolti offrono un esempio di analisi di alcune delle molteplici forme e modulazioni assunte dalle trance di visione, possessione e estasi. Alcuni di loro, sulla base di una considerevole e performante pluriennale attività di ipnotista e ipnoterapeuta, delineano lo stato dell’arte della conoscenza ipnotica con riferimento alle più recenti scoperte delle neuroscienze, contribuendo significativamente a sganciare l’ipnosi dalle sue mistificazioni e ad aprire il campo a una rinnovata e più profonda comprensione degli stati modificati di coscienza. Altri, proseguendo pluridecennali studi e ricerche sugli stati modificati di coscienza, focalizzano l’attenzione sull’uso del paradosso, e in particolare del doppio legame nell’induzione ipnotica e, soprattutto, nell’ipno-terapia. Gli effetti del doppio legame nella pragmatica della comunicazione umana, già noti a partire degli studi di Gregory Bateson e Paul Watzlavick, vengono a essere indagati così nel contesto del processo terapeutico. L’uso del doppio legame terapeutico – viene sostenuto sulla scia della pratica ipnotica e di alcune fondamentali considerazioni di Milton H. Erikson – non si configurerebbe allora come doppio legame schizogenico ma al contrario manifesterebbe una struttura decisamente specifica che nel contesto di un manifesto stato di trance, per definizione dissociativo, conduce a riconfigurazioni terapeuticamente efficaci dello “io”. Con ciò, la stessa ipnosi viene a essere definita come uno specifico campo della pratica degli stati modificati di coscienza. La struttura del doppio legame mostra del resto la sua plasticità e efficacia tanto nell’induzione della trance ipnotica come nell’induzione della trance rituale – in ogni tempo e luogo –, quanto nel mantenimento della trance attraverso una facilitazione dei processi di dissociazione in grado di permettere nuove costellazioni relazionali alla persona che così dispone finalmente a suo favore dello stato di coscienza modificato. È quanto del resto accade allo spettatore di
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una riuscita messa in scena drammatica, in una trasognata e spaesante rappresentazione teatrale. Il lavoro qui proposto non è dunque altro se non un semplice invito ad addentrarsi nella complessità delle istituzioni della trance, istituzioni che accompagnano l’ininterrotto fluire delle transizioni sociali e segnano significativamente il cambiamento nella prospettiva dell’individuo. Al contempo è un invito a riconsiderare il teatro nella sua dimensione di fornitore di drammi – condivisibili anche se solo per qualche ora – e etnodrammi: la vicenda umana è vicenda di gioia e di orrore. Orrori ripetuti fra l’eccezionale e il quotidiano delle vicende umane, insieme ad atti di amore e disperazione, senza spazio e senza tempo ma nel contesto specifico di ogni società. Bibliografia Baghaï, Ariane Etnodrammi. Tre incursioni nella drammaturgia etnografica. Pensa, Lecce, 2008 Binswanger, Ludwig Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins. Zürich: Max Niehaus Verlag, 1942 Broekman, Jan M. “Semiology and medical discourse”, in Methodology and Science, International Journal for the Empirical Study of the Foundations of Science and their Methodology, 1988 Intertwinements of Law and Medicine. Leuven: UP, 1996 Heidegger, Martin Sein und Zeit. Tübingen: Max Niemeyer Verlag, (1927) 2006 Kant und das Problem der Metaphysik. Bonn, 1929 Was ist Metaphysik? Bonn: Friedrich Cohen Verlag, 1930 Vorträge und Aufsätze. Pfullingen: Neske, 1954 Jaspers, K. Psychologie der Weltanschauungen, Berlin, Springer Verlag, 1919.
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Palmisano, A.L. “Sein and Mimesis”, in Law, Life and the Images of Man. Modes of Thought in Modern Legal Theory. Festschrift for Jan M. Broekman, Fleerackers, F., van Leeuwen, E. and van Roermund, B. (eds.), Duncker and Humblot, Berlin, 1996, pp. 185-200. “On the Theory of Trance: The zar Cult in Ethiopia”, in Kea. Zeitschrift für Kulturwissenschaften, 13, 2000, pp. 119-136. “Presenza, assenza e rappresentazione nelle trance rituali”, in Rimorso. La tarantola fra scienza e letteratura. Atti del Convegno sul Tarantismo, San Vito, 28-29 maggio 1999, Nardò, Besa Editore, 2001a, pp. 37-152. “I due volti della parola. Un approccio antropologico alla fondazione del mito”, in Etnostoria, 1-2, 2001b, pp. 147-194. “Esercizi in mistica pagana: suono e parola divina nei culti zar dell’Etiopia”, in Africa, LVII, 4, 2002, pp. 471-501. “Trance and translation in the zar cult of Ethiopia”, in Tullio Maranhao and Bernhard Streck (eds.), Translation and Ethnography, Tucson, The University of Arizona University Press, 2003, pp. 135-151. Tractatus ludicus. Antropologia dei fondamenti dell’Occidente giuridico, CNR, Istituto di Studi Giuridici Internazionali, Monografie 6, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, pp. 218. “Il teatro e la trance: drammaturgia etnografica o etnografia drammatica?”, in Baghaï, Ariane, Etnodrammi. Tre incursioni nella drammaturgia etnografica, Lecce, Pensa, 2008, pp. 11-20. “Visione, possessione, estasi: sulla teoria della trance rituale”, in DADA Rivista di Antropologia post-globale, www.dadarivista.com, n. 1 Giugno 2013, 2013, pp. 7-36. Rovatti, Pier Aldo “Note sulla medicalizzazione della vita”, in Aut Aut, n. 340, 2008, pp. 3-14.
PARTE I
Antropologia e trance
Visione, possessione, estasi: teoria e spettacolarità delle trance rituali Antonio L. Palmisano
Abstract Vision, possession and ecstasy: theory and showmanship of trance Ritual trances are the expression of the institutionalization of modified states of consciousness. This essay identifies and proposes three major paradigms of institutionalization – vision, possession and ecstasy – and proceeds then to the analysis of the modes and modalities of ritualization and institutionalization of modified states of consciousness – initiation, therapy, liturgy and divination – which lead to a thematization of the structure of trance. Beginning with the discussion of the preceding ethnographies which contribute to the elaboration of a new general theory of trance and are at the same time the result of this same theory of trance – certainly not wholly formulated although much has been done – the author examines the ethnographic material on the zar cults of Ethiopia on the basis of his many years of fieldwork in Ethiopia and in other ethnic, social, political and cultural contexts, always concentrated on ritual trances of vision, possession and ecstasy. Keywords: trance, social anthropology, vision, possession, ecstasy
Fra gli eventi più spettacolari e affascinanti ai quali possa assistere un antropologo impegnato nella ricerca etnografica sul terreno vi sono sicuramente i culti di trance.1 Ma in cosa consiste una trance?2 La letteratura etnografica parla di stati modificati di coscienza, talvolQuesto articolo è la versione rivista e corretta di Palmisano, A. L. “Visione, possessione, estasi: sulla teoria della trance rituale”, in DADA Rivista di Antropologia post-globale, www.dadarivista.com, n. 1 Giugno 2013, 2013:7-36. 2 L’autore ha condotto ricerca sul terreno in Etiopia da settembre 1992 a agosto 1996 in modo continuativo, e a più riprese durante gli anni seguenti fino a oggi. Ringrazia in modo particolare Paul Baxter e Ron Reminick per la lettura della prima stesura di questo 1
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ta di stati alterati di coscienza; considera innanzitutto le cosiddette trance di possessione, spesso anche le trance di visione, più raramente le trance estatiche.3 I lavori etnografici si concentrano sull’attore sociale, protagonista della trance, sulla sua prospettiva: agli occhi dell’etnografo questi pare “essere agito” da una estranea entità, spirito, forza, Divinità o altro, secondo le teorie locali e accademiche dello specifico culto in questione. L’antropologo intento al lavoro sul terreno si occupa poi degli altri partecipanti al rituale, di quanti sono presenti e in diversa misura fungono da co-attori. E infine focalizza l’attenzione sul professionista della trance rituale. Questi pare agire da medium, da interprete, più propriamente da traduttore. Il “signore degli spiriti”, come viene chiamato per esempio nei culti zar dell’Etiopia, traduce un mondo a un altro, ma soprattutto trasporta un uomo in un altro mondo, al di là dei limiti di questo, in una zona-limbo, che segue la vita e precede la morte. 1. Dalle etnografie alla teoria della trance Agli antropologi contemporanei non è rimasto alcun ambito di ricerca nel quale non risulti inevitabile un confronto fra le proprie etnografie e la straordinaria mole dei lavori realizzati in passato. Perfino la ricerca etnografica in un campo così specifico, quale è quello dei culti zar in Etiopia, deve prendere in considerazione le etnografie, decisamente numerose, su questi specifici culti di possessione in Africa dell’Est oltre, ovviamente, a considerare la letteratura relativa alle trance rituali (visione, possessione e estasi) nei differenti contesti sociali, culturali e politici dell’Africa in generale e degli altri continenti. Del resto, oltre a costituire al contempo specifici contributi a una teoria generale della trance, i precedenti lavori etnografici sono il risultato di quella stessa teoria generale della trance – certamente non ancora formulata in modo compiuto. La mia ricerca sul terreno non si sottrae a questo processo circolare caratterizzante la costituzione del sapere antropologico relativo alla scritto e gli articolati e precisi commenti. Infine, dedica questo lavoro alla memoria dell’amico Georges Lapassade. 3 Su questa classificazione e per la teoria dei culti di trance, cfr. Palmisano 2000.
Visione, possessione, estasi: teoria e spettacolarità delle trance rituali
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trance rituale. In fondo, anche il più modesto contributo etnografico verso la definizione del complesso dei culti zar in Etiopia – scopo di questo lavoro –, in quanto singolo gradino di una scala che conduce a una teoria generale della trance, inizia con la discussione delle precedenti etnografie, una discussione complementariamente funzionale alle proprie attività di ricerca sul terreno. Nessun antropologo è nato sul terreno dove si ritrova a ricercare; piuttosto, ogni antropologo decide di praticare una specifica ricerca sul terreno proprio sulla base del dialogo con la letteratura etnografica. Nel caso dei culti zar d’Etiopia, l’attore sociale, il protagonista della trance pare “essere agito” da altra entità, spirito o Divinità che sia, secondo le teorie tribali e regionali – e/o accademiche – del culto in questione. L’attore sociale può “essere cavalcato” da uno dei numerosissimi spiriti protagonisti del culto; e questa esperienza, sconvolgente e dolorosa in prospettiva emica, avviene durante lo stato di trance dell’attore sociale, lo ye zar faras, il “cavallo dello zar”, la cui azione consiste appunto nello “essere agito”.4 Mentre l’altro protagonista è il bale zar, anche chiamato bale wuqabi, “signore degli spiriti”;5 presiede la sessione di trance e agisce tanto da sacerdote del culto come pure da maestro dell’esperienza di trance nei confronti dei nuovi adepti e/o del cosiddetto “malato”; operando talvolta come incarnazione della stessa Divinità. Il gruppo dei credenti, infine, non è semplicemente presente al rituale limitandosi a una azione di supporto, ma costituisce il terzo polo intorno al quale si catalizza e dipana l’azione di possessione. Nella letteratura antropologica internazionale sono disponibili numerose monografie sulle trance rituali, ma questi lavori trattano generalmente due sole categorie di trance rituali: le trance sciamaniche e le trance di possessione. Dunque, considerano o sciamani o posseduti. Nel termine zar rilevo la radice semitica zar, con il significato di “visita”, una radice che allude a qualcuno che “viene”, che “raggiunge” o “scende” ecc. ma anche “affligge” (cfr. per esempio nell’arabo antico e moderno il verbo zara-yazuru, in uso nell’accezione di “visitare” ma anche “infastidire, affliggere”). Nella mistica musulmana e pre-musulmana, poi, il termine zar indica un colore, in particolare il colore oro, che insieme al blu esprime la pienezza dell’anima che ricerca la Divinità (mentre el hidr indica il verde, identificato nel cristianesimo più tardo con la figura di San Giorgio). Per quanto riguarda il termine faras, “cavallo” in amharico, rileviamo invece la sua assonanza con il sostantivo persiano firas che indica “chiaroveggenza”. 5 In amharico e in altre lingue semitiche, con il termine bal s’intende “proprietario, padrone, signore, maestro ecc.”; in poesia, ma anche nel linguaggio figurato, il termine bale indica un “messaggero”. 4
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Sebbene lo sciamanesimo sia propriamente siberiano,6 questo termine è stato e continua a essere impiegato – con mia perplessità – anche nei lavori etnografici che più in generale trattano delle trance di visione: l’antropologia culturale americana ha così adoperato il termine “sciamano” per etichettare i professionisti della trance di visione in qualunque parte del mondo si trovassero. In questo caso, sembra che il termine “sciamano” si riferisca a un ruolo; e questo, indipendentemente dal contesto sociale e religioso nel quale viene a essere performato, come se le esperienze visionarie non avessero alcun rapporto con il contesto all’interno del quale vengono a essere espresse o articolate. Il termine è comunque in voga anche nei lavori etnografici riguardanti le esperienze di trance visionaria in America del Sud e del Nord, e in Australia oltre che in Africa. Le trance di possessione, studiate in particolare da antropologi inglesi, francesi e italiani, sono invece state osservate specialmente in Africa. Per queste due categorie disponiamo dunque di una gran quantità di monografie classiche: Michel Leiris (zar), Alfred Metraux (voudou), Roger Bastide (candomblé), Conti Rossini (camminatori sul fuoco) ecc. Ma le opere in questione non costituiscono altro che delle sintesi parziali: restano monografie limitate a uno studio etnografico, soprattutto storico, di casi di sciamanesimo o di possessione rituale in questo o quel luogo, di questa o quella tribù. Sintesi generali riguardanti le trance rituali sono in effetti rare. Un’eccezione in questo senso è rappresentata dal lavoro di Fritz Kramer, Der rote Fez. Über Besessenheit und Kunst in Afrika, 1987, in cui viene proposta una teoria dei riti di possessione in Africa. Altra eccezione, nella letteratura francofona, è rappresentata da Luc de Heusch, Cultes de possession et religions initiatiques de salut en Afrique, 1962, che in una visione strutturalista ha tentato una contrapposizione, ormai celebre, fra sciamanesimo e possessione. Ma anche Gilbert Rouget, nel suo La musique et la trance, 1980, ha iniziato una sintesi sulle trance rituali, sebbene nella prospettiva dell’etnomusicologo. Si tratta comunque di specialisti delle trance di possessione e non certo delle trance di visione. In questi autori neppure la trance estatica 6
Cfr. Bogoras 1907, Shirokogoroff 1935.
Visione, possessione, estasi: teoria e spettacolarità delle trance rituali
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viene considerata; se non, come per esempio in Rouget, in opposizione alla possessione: l’estasi, caratteristica della grande mistica cristiana e musulmana, sarebbe individuale, presupponendo silenzio e immobilità, solitudine e raccoglimento, e così di seguito. I grandi mistici – Teresa d’Avila, Caterina da Siena, al Husayn ibn Mansur al Hallaj e numerosi altri – si ritirano nella solitudine, nell’immobilità, nella preghiera, nella contemplazione, mentre la trance di possessione, che Rouget chiama “trance” tout court, è collettiva, con musica e tamburi, e molto movimentata con le sue danze. Ecco dunque perché Rouget non considera l’estasi come oggetto del suo studio sulla trance e non tratta l’argomento: è solo in connessione con la musica, a partire dalla musica, che Rouget si pone il problema della trance. 2. Da una antica antinomia ai contemporanei paradigmi della trance Una definizione dei tre maggiori paradigmi della trance, ovvero una breve discussione delle istituzionalizzazioni degli stati modificati di coscienza – visione, possessione e estasi – permette di procedere a un abbozzo d’analisi della struttura della trance. Per “trance estatica” Georges Lapassade intende una trance che forse ha qualche parentela con il sufismo, ma che rovescia le concezioni sufi: nelle confraternite musulmane non c’è la solitudine, ma il gruppo, non c’è il silenzio ma i tamburi e i flauti, non c’è l’immobilità ma la danza estatica (cfr. la mawlaniya).7 Rouget affronta in un significativo capitolo quella che chiama la “trance araba” o “trance mistica”, trance delle confraternite popolari; ma non la definisce trance estatica. Come de Heusch, Rouget costruisce il suo discorso sulla antinomia sciamano/posseduto: lo sciamano è un visionario, si serve della musica ma non incarna alcuno spirito; egli semplicemente “viaggia” e semmai “raggiunge” questi spiriti. Riprendendo, insomma, una espressione fantasiosa, “Lo sciamano infila la sua testa nel cielo, mentre il posseduto fa entrare il cielo nella sua testa”. Così, Rouget resta fedele alla tradizionale antinomia fra lo sciamano e il posseduto, fra la trance di visione e la trance di possessio-
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Lapassade 1990.
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ne, e nei suoi lavori non riscontriamo il terzo paradigma, quello della trance estatica. Un altro esempio di pensiero antinomico, questa volta statunitense, è dato da Erica Bourguignon con la sua ricerca a Haiti.8 Bourguignon si considera una specialista della possessione, e il suo sforzo di teorizzazione, Psychological anthropology, 1979, ha avuto una grande influenza su Rouget. I risultati più importanti si ritrovano sintetizzati in un capitolo sulla strutturazione e percezione dello spazio, dei colori e delle emozioni in differenti società, ovvero come si relazionano emozioni, ragionamento e immaginazione. Uno dei suoi capitoli è così dedicato agli “stati alterati di coscienza”:9 è un capitolo sulle trance. Uno stato modificato di coscienza viene chiamato “trance” quando è socialmente organizzato o socialmente sfruttato, ritualizzato secondo le corrispondenti aspettative presenti in una determinata società. Le problematiche con le quali si confronta qui Bourguignon – e si tratta di una sintesi di una certa importanza – riguardano il passaggio dagli stati modificati di coscienza alla trance: le allucinazioni, per esempio, se collettivizzate possono divenire delle visioni. Considerare la visione come una sorta di allucinazione ritualizzata è un approccio sicuramente interessante, stimolante per la riflessione. Lo sciamanesimo implica la trance di visione, ma le trance di visione possono aver luogo anche in assenza di sciamanesimo, ovvero in assenza della ritualità sciamanica e della professione di sciamano. Lo sciamano esplica insomma la trance di visione fra tante altre attività: capo di caccia, guaritore, esperto di piante e erborista ecc. Non possiamo comunque parlare di sciamanesimo senza esperienza di trance di visione e senza la cosiddetta “esperienza extra-corporea”, the out of the body experience. Allo sciamano è attribuita in effetti la capacità di uscire dal proprio corpo per cercare, per esempio, una persona scomparsa. Un secondo contributo di Bourguignon riguarda più specificamente le trance di possessione, e al loro interno effettua una categorizzazione dicotomica. Nella sua sistematizzazione, Bourguignon distingue due grandi Per lavori etnografici più recenti sul voudou, vedi per esempio, Biton 1998, Braun 1994/1995, Hell 1999, Faldini 1993, 1994, 1995, 1999, 2007, 2012. 9 Il termine “alterato” impiegato da Bourguignon evoca il concetto di deviazione dalla norma, implicando una qualificazione negativa dello stato. Preferisco dunque l’uso del termine “modificato”, a indicare i processi di trasformazione di ciò che chiamiamo “coscienza”. 8
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insiemi di trance di possessione: la trance di possessione terapeutica, presente in Africa dell’Est – con danze nelle quali viene rappresentata la Divinità – e la trance di possessione cerimoniale, diffusa nell’Africa dell’Ovest. Questi due insiemi sono contrapposti l’uno all’altro, così come le trance di possessione sono contrapposte, nella loro unità, alle trance di visione. L’esempio fornito per l’Africa dell’Ovest è rappresentato dal candomblé e dal voudou, entrambi esportati poi in America. Bourguignon, che ha studiato il voudou in Haiti e nel Benin, nega a questo rituale ogni funzione terapeutica. Si tratterebbe di una messa in scena, una incarnazione della Divinità, una cerimonia senza alcuna finalità terapeutica. Nell’Africa dell’Est, al contrario, non vi sarebbe altro che terapia. Ma si tratta di una poco convincente distinzione geografica. Difatti, come si potrebbe classificare lo ndop, senz’altro presentato da tutti gli autori nei suoi aspetti terapeutici e così diffuso in Senegal?10 Soprattutto, poi, ogni etnografia in Africa dell’Est smentisce la validità della categoria introdotta da Bourguignon.11 De Heusch, Rouget e Bourguignon hanno il merito di contrapporre la visione alla possessione, due differenti istituzionalizzazioni di stati modificati di coscienza, due differenti trance rituali. Viene a non essere comunque presa di fatto in considerazione quella terza grande famiglia di stati modificati di coscienza che Rouget aveva chiamato “trance araba”. Si tratta di idealtipi, e per di più incompleti. Del resto, per esempio, anche presso gli sciamani si trovano trance di possessione. Perché poi, e soprattutto, non considerare le danze estatiche una terza categoria – un terzo paradigma – di stati modificati di coscienza, istituzionalmente ritualizzati? Rouget e gli altri non hanno messo sullo stesso piano di analisi la struttura delle trance di visione, possessione e estasi. È probabile che questo sia avvenuto per una consueta quanto diffusa, nonché erronea e fuorviante, identificazione della trance con esibizioni “psicopatiche”, ovvero per la riduttiva e fallace interpretazione della trance come terapia, e per l’usuale e consolidata riluttanza, almeno fino ai tempi recenti, a considerare oggetto di studio etnografico la mistica cristiana e musulmana. Gli studi di Ernest Gellner, raccolti in Muslim society, 1981, hanno chiaramente dimostrato, almeno per il mondo 10 11
Cfr. Lapassade 1990. Cfr. Lewis 1971; Palmisano 2000, 2001, 2002a, 2002b.
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dell’Islam, che una etnografia in questo senso non solo è possibile, ma conduce a interessanti e profonde riflessioni soprattutto nel campo della antropologia sociale e dell’antropologia della religione. Quando gli studi “etnografici” – di fatto pseudo-etnografici – su comunità dell’Europa e del Mediterraneo si distaccheranno dalla demologia a ideologia nazional-popolare e dall’approccio storico-culturale e folkloristico dal vago sapore paesano, quando non addirittura “strapaesano” – riferendoci a una nota espressione di Cesare Pavese –, riportato forse da quelle sagre campanilistiche di cui spesso tali studi si occupano, per entrare finalmente nell’antropologia sociale e riflessiva, potranno prodursi lavori probabilmente fruttuosi, come del resto già mostrano gli studi di Jeremy Boissevain, Jean G. Peristiany, Eric Wolf e alcuni altri.12 Lapassade ha comunque posto la trance estatica sullo stesso piano d’analisi della trance di visione e di possessione. Se si ammette che la trance è una sintesi di stato psicologico e rituale, è opportuno indicare – in prospettiva etica – lo stato psicologico che soggiace a tali rituali: la dissociazione. Per lo sciamano si dirà che è il viaggio visionario, ovvero l’allucinazione ritualizzata; per la possessione è lo sdoppiamento della personalità, ovvero la doppia dissociazione persona-corpo/ corpo, ben conosciuta in ipnosi;13 per l’estasi è lo stato d’estasi, che – nella prospettiva dell’attore sociale – non è una “uscita dal corpo” ma una fusione con il cosmo, con la Divinità (sufismo ortodosso) o l’annichilimento, l’annullamento del soggetto nella Divinità (sufismo eterodosso).14 Nella trance rituale non è tanto la distinzione fra i tre stati modificati di coscienza a permettere la comprensione della trance, quanto rilevare con quali modalità lo stato modificato di coscienza è ritualizzato nelle specifiche società, e questo nella prospettiva dell’attore Boissevain 1974, Peristiany 1965, Wolf 1964 e 1966. Erickson 1976. 14 Durante la trance, con il corpo divenuto luogo-casa della Divinità, l’iniziato si trova “fra le due soglie”, una zona che segue in termini temporali la vita e precede la morte; o che si colloca sulla linea di demarcazione fra vita e morte. (Cfr. Shihaboddin Yahya Sohravardi, 1155-1191, in L’arcangelo purpureo) Questo concetto è stato espresso anche da Muhyi ad Din Abu Bakr Muhammed ibn Ali ibn Arabi (1165-1240), nel suo Le rivelazioni meccane, impiegando il termine persiano barzakh, che sta a significare “intervallo fra la morte e la resurrezione, interstizio, isthmus” ma anche “situazione di pericolo, legame, inizio d’immaginazione, capriccio” e perfino “qualcuno innamorato di una donna”. 12 13
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sociale. Quando si dice che gli stati modificati di coscienza sono l’oggetto di un rituale, significa che alcuni rituali utilizzano questi stati modificati di coscienza con finalità sociali. Si tratta dunque di rituali che mobilitano, inducono e gestiscono specifiche esplicazioni di determinati stati di coscienza, e non necessariamente, ancor meno contemporaneamente, tutte le esplicazioni. Il rito di possessione non mobilita le allucinazioni. Anche se l’allucinazione è una potenzialità della specie umana, nello stato di possessione non è implicita una mobilitazione dell’allucinazione. Rileviamo invece in essa la mobilitazione di una disposizione allo sdoppiamento della personalità, quantomeno alla dissociazione persona-corpo: una sorta di sonnambulismo.15 Una personalità seconda, potenziale nello psichismo umano, può emergere attraverso le tecniche rituali e ipnotiche andando a servire di supporto psicologico alla danza, ovvero al rito di possessione. Diversamente, senza sdoppiamento della personalità, senza possibilità di una personalità seconda, non si comprende come l’attore-agito possa prendersi per Shango o qualunque altra Divinità: avremmo solo un teatro della possessione e non una trance di possessione. Perché ci sia quest’ultima è necessario che il posseduto “dimentichi” – ovvero, rivendichi di aver dimenticato – di aver espresso una personalità seconda. Alla fine della passeggiata sonnambulica, la sonnambula si sveglia, “dimenticando” di essere stata sonnambula durante il suo sonno. Egualmente, in una sessione voudou il posseduto “dimentica” di essere stato Shango e ritorna a essere il contadino, il carrettiere, il sottoproletario urbano haitiano di sempre.16 Alla concluIl sonnambulismo (cfr. Gallini 1983), scoperto e discusso nel secolo XVIII e XIX in seguito ai lavori di Anton Mesmer (1734-1815), e considerato non come trance ma come “stato magnetico”, era concepito come uno stato durante il quale un’altra personalità poteva emergere, rimpiazzando per un certo periodo di tempo la personalità ordinaria. Proprio questo stato – ipnotico, ma secondo la teoria del tempo – sarebbe servito di supporto all’incarnazione di Divinità. 16 Forse non è solo l’autorivendicato oblio, l’amnesia, a fare la differenza fra il teatro della trance e la trance, ma anche l’idea di Divinità: sono la cosmologia e la fede a fare la differenza. Cfr. a questo proposito il concetto di das Fremde come elaborato da Fritz Kramer. (Kramer 1987) In merito a questo tema, ricordo il frammento di una lunga conversazione con Lapassade, durata tre giorni, tenuta nell’estate del 1989 nella mia casa di campagna in Puglia: Lapassade – Si può fare anche un teatro delle Divinità: “Fammi fare la parte di Shango” ecc. E in quel momento l’attore sa che recita Shango… Palmisano – La differenza fra trance e teatro della trance sarebbe che tu, attore-agito, non puoi svolgere la parte della Divinità. Tu non puoi dare una rappresentazione dell’irrap15
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sione di una sessione zar di possessione in Etiopia, dopo essere stato Abdel Kader o Adal Muhammed, il posseduto continuerà a essere un contadino amhara o un allevatore oromo, rivendicando eventualmente di avere “dimenticato” l’esperienza di essere stato un’altra persona senza tuttavia negare i suoi stretti legami con lo zar, con la Divinità, qualunque fossero i suoi attributi: angelici o demoniaci. 3. Le ritualizzazioni degli stati modificati di coscienza L’analisi delle forme di ritualizzazione degli stati modificati di coscienza, ovvero l’analisi dei modi e delle modalità di istituzionalizzazione delle trance rituali, conduce così all’identificazione della struttura delle trance di visione, possessione e estasi. Per “modo” intendo una qualità secondaria – in termini filosofici – della trance, una qualità in effetti riscontrabile nella trance di visione, possessione e estasi. Per “modulazione” intendo il passaggio da un modo all’altro, ovvero sottolineo l’aspetto processuale di ognuno dei quattro modi citati – iniziazione, terapia, liturgia, divinazione – e la capacità di ognuno di questi modi di essere trasformato nell’altro, in accordo con i contesti e le condizioni sociali, politiche e individuali servite dallo specialista della trance, per esempio il bale zar. I due termini, spesso impiegati come sinonimi, sono presi in prestito dalla musicologia: lo specialista del culto zar è simile al direttore d’orchestra o al solista che armonizza musicisti del tutto inusuali o uno strumento molto particolare: uomo e strumento sono un unicum, un tutt’uno, per lo meno nella trance. A. Iniziazione Le cerimonie di iniziazione possono essere una modalità della ritualizzazione di stati modificati di coscienza. Ci sono ovviamente iniziazioni senza trance, e queste sono degli apprendimenti di routines presentabile; ma hai un principio, un saggio di conoscenza dell’invisibile, almeno nella prospettiva del posseduto… Lapassade – Se si spiegano a un attore i tratti essenziali della personalità di Shango, costui potrà rappresentarlo tranquillamente e fornirci un teatro del candomblé, per esempio. La differenza è che l’attore non sarà mai identificato completamente nella Divinità.
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e ruoli sociali per i quali non viene riconosciuta l’opportunità, ovvero la funzionalità, dell’attivare [avviare, procurare, produrre, indurre, facilitare] il cambiamento dello stato di coscienza. Perché ci sia trance, nell’iniziazione questa deve essere considerata in prospettiva emica come una “necessità”, funzionale a uno specifico esito, il basculement della coscienza – nella terminologia di Lapassade –, ovvero il cambiamento di stato di coscienza. Una significativa modificazione della coscienza, come può essere una allucinazione, provocabile per esempio attraverso sostanze allucinogene o altre e più sofisticate tecniche, viene realizzata in effetti durante specifici processi di iniziazione. L’uso per esempio della ayahuasca, un allucinogeno diffuso in Perù e in generale nell’America Centrale e del Sud, permette la modificazione dello stato ordinario di coscienza, provocando uno stato allucinatorio che viene ritualizzato come visione.17 Se si considera l’uso “sciamanico” o etnico della ayahuasca, e la letteratura sul suo uso ritualizzato, rileviamo riti di iniziazione in cui si somministra la ayahuasca a adolescenti ma non “per farne degli sciamani”, quanto “per farne degli uomini”, ovvero per facilitare loro l’attraversamento della pubertà, guidandoli istituzionalmente verso l’età adulta, verso l’assunzione di altri ruoli e responsabilità, verso l’acquisizione di un nuovo status. L’iniziazione consiste dunque nell’apprendimento a passare dalla allucinazione alla visione. Con l’uso della ayahuasca il giovane viene inserito in un gruppo adulto e già visionario, ovvero in un gruppo che conosce il passaggio iniziatico dalla allucinazione alla visione, avendolo reso una propria specifica e significativa esperienza. Gli adulti del gruppo hanno la competenza di gestire le allucinazioni che, così ritualizzate, divengono visioni socialmente, e non solo individualmente, significative. Le allucinazioni sono allora gestite come una sorta di imagerie collettiva. Ai giovani uomini viene trasmessa una intera simbolica, con il suo insieme di significati socialmente congruenti. In questo stato, l’iniziato non vede più serpenti o mostri, ma Divinità: dalla allucinazione popolata da indefinibili bestie feroci e minacciose passa alla visione di Divinità. Al posto di selvaggi e terrificanti animali, il giovane adulto comincia a “vedere” altro: le sue visioni sono ora Vedi le ricerche di Ron Reminick 2011, 2012, sull’uso rituale e non rituale della ayahuasca. 17
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visioni della Divinità. È il passaggio dalla allucinazione alla visione, è il passaggio dalla iniziazione alla liturgia; è il passaggio da una cerimonia di adolescenti terrorizzati dall’ignoto a una cerimonia di adulti avviati alla conoscenza dei misteri, una cerimonia nella quale finalmente si dialoga con le Divinità attraverso il canto, proprio con quelle Divinità verso le quali tutti anelavano e anelano. È comunque possibile provocare allucinazioni senza l’impiego di sostanze allucinogene. Presso i Lotuho del Sudan, per esempio, lo specialista del rituale, lo hobu, soffia nelle orecchie degli iniziati, dopo averli fatti danzare per giorni fino allo spossamento, mentre induce l’iniziato a ricorrere a specifiche tecniche di respirazione: viene così a prodursi uno stato di trance catalettica accompagnata da visioni.18 Questi “sonni profondi” durano anche più giorni. Ancora: nella letteratura etnografica classica leggiamo che, per esempio, i Sioux lasciano l’adolescente in una foresta; nella solitudine più completa, il giovane intende le grida degli uccelli notturni, dei rapaci: alle sue angosce e allucinazioni può così sostituire l’immagine, la visione del padre di suo padre, un uomo, che viene da lui e infine parla con lui.19 Questa iniziazione è dunque una liturgia. B. Terapia (conversione) La ayahuasca è impiegata anche in alcune terapie. E la terapia è una seconda possibile modalità di ritualizzazione di stati modificati di coscienza. La differenza fra iniziazione e etnoterapia è che la prima coinvolge come comunità dei gruppi o classi di età, ovvero si occupa del passaggio da uno status all’altro in termini di età sociale, divenendo azione politica; mentre la seconda assume come comunità uno o più malati che intendono essere socialmente riconosciuti tali, ovvero “malati” in attesa di “guarigione”, e anche qui si tratta di un passaggio di status ma questa volta in termini di guarigione, divenendo azione salvifica. In questo caso, dunque, non abbiamo più a che fare con una iniziazione tout court ma con una terapia, anche se la terapia può fungere adesso da iniziazione. In effetti, la persona definita come malata gua18 19
Palmisano 1989. Thénevin and Coze 1929; Hehaka Sapa 1953.
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risce divenendo capace di svolgere pratiche dapprima cerimoniali e quindi rituali e liturgiche proprio durante il processo di guarigione. Per esempio, nelle terapie che prevedono l’uso del chat, un contingentemente leggero allucinogeno molto diffuso in Etiopia e più in generale nel Corno d’Africa e in Yemen,20 il paziente sotto terapia mastica le foglie, e può “vedere” gli spiriti e “parlare” con loro; ma in ultima analisi il terapeuta conduce il paziente all’interno della modalità della liturgia, ovvero lo guida nel cammino verso la “guarigione”. Si tratta in un certo senso di una ripetizione individuale dell’iniziazione primaria; una iniziazione che ora non ha nulla più a che vedere con l’iniziazione al sistema di classi d’età ma che soddisfa la “richiesta di salute”, in quanto fa uso dell’immagine del processo di guarigione. I “malati”, dunque, non sono malati nel senso di una diagnostica occidentale, ma non sono neppure – in prospettiva emica – quello che dovrebbero essere, ovvero quello che ci si aspetta da loro che siano o che loro pensano di dovere essere, ossia che loro pensano che la società si aspetta che loro siano. Ripetono così l’iniziazione per divenire ciò che devono divenire o che pensano di dovere divenire. Ufficialmente l’iniziazione è una esigenza sociale di passaggio di età, di transizione di status e ruoli; mentre per il malato e per la sua società questa iniziazione è rappresentata come il passaggio dalla malattia alla salute. Sia in prospettiva sociale come pure nella prospettiva di una antropologia della religione, entrambe appaiono e sono de facto delle conversioni.21 Le categorie di “malattia” e di “salute” differiscono da quelle occidentali, ma come queste ultime anche le prime sono parte di un universo simbolico, espressione di una imago mundi. Una volta comprese nella prospettiva degli attori sociali, forniscono significato al mondo dell’osservatore: formano osservato e osservatore.
Le foglie di chat contengono phenilkylamine, principalmente due differenti chatamine (appartenenti alle phenilpropylamine) – cathinoni, che sono S(-)-alpha-propiophenoni, e cathine, ovvero (+) norpseudoephedrine –, e un gruppo di sostanze di complessa analisi, conosciute come catheduline, le cui proprietà farmacologiche sono ancora da studiare. (Cfr. Brenneisen 1984) La concentrazione di entrambe le chatamine e delle catheduline variano significativamente in rapporto alla qualità del chat, il metodo di coltura delle piante (irrigazione, fertilizzanti ecc.), la loro età, le parti della pianta e soprattutto il grado di freschezza delle foglie: i processi di ossidazione modificano considerevolmente concentrazioni e effetti dei composti contenuti in esse. (Cfr. Kalix 1984) 21 Messing 1958. 20
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C. Liturgia Iniziazione e terapia sono le prime due modulazioni di una trance la cui struttura viene a essere qui analizzata. La liturgia rappresenta la terza modalità, ovvero la terza forma ritualizzata di stato modificato di coscienza. Incontriamo la liturgia nella descrizione delle relazioni con il mondo extra-sociale, che sono relazioni di connivenza con il mondo super-naturale. Ma, paradossalmente, nella letteratura riguardante lo zar troviamo che raramente lo zar è considerato come liturgia: le componenti terapeutiche, e soprattutto le performances terapeutiche, sono enfatizzate tanto quanto sono ignorati dai ricercatori gli aspetti liturgici. Eppure, la liturgia nei culti zar è ricca, articolata, dettagliata e ancorata a una cosmogonia e teologia particolarmente sviluppate. Lo stesso accade nel ndop del Senegal, per il quale disponiamo appunto di numerose e ampie descrizioni, ma sempre relative a terapeuti e terapie. Siccome gli studiosi occidentali hanno indagato con lena le funzioni terapeutiche dello zar e dello ndop, questi culti sono stati conseguentemente ridotti a terapie. Per Bourguignon, addirittura, nei rituali di possessione liturgia e terapia si escluderebbero a vicenda. Ma ogni relazione socialmente codificata con la Divinità è una liturgia, e il suo apprendimento è una iniziazione. La sua realizzazione, poi, è una conversione; ed è una terapia in quanto tale. Ovvero, il linguaggio della “guarigione” si risolve nella prassi della conversione: conversione e “salute” – salvezza, ovvero armonia in una nuova struttura di relazioni – di fatto coincidono.
D. Divinazione Come quarta modalità di ritualizzazione degli stati modificati di coscienza consideriamo infine la divinazione. Con riferimento critico alle categorie proposte da Rouget e de Heusch, la divinazione sciamanica ancora una volta è una visione: lo “sciamano” mantiene la propria identità quando nello stato di trance va a vedere dove si trova l’oggetto perduto, o dove si trova la fonte della malattia, o come si prospetta la stagione della caccia. Durante lo
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stato modificato di coscienza lo “sciamano” ha delle visioni ma mantiene la sua personalità: è un veggente, un visionario che non esperimenta uno sdoppiamento di personalità. Nel caso della possessione, invece, non è il posseduto a “vedere” ma è la Divinità che, servendosi del corpo del posseduto, indica agli altri dove cercare per trovare l’oggetto perduto o dove cacciare la selvaggina nascosta ecc. In questo caso non abbiamo dunque a che fare né con un veggente né tanto meno con un profeta, ma con un medium. La profezia, difatti, appartiene alla categoria della trance estatica: i profeti possono essere definiti come messaggeri in stato di trance. Quando parliamo di “sciamano”, non possiamo affermare che sia un profeta, ma un indovino, proprio come era un indovino la Pizia di Delfi, del resto. Nello stato estatico, il profetismo è l’equivalente della veggenza nella trance di visione e della mediumship nella trance di possessione: il profeta non è il mezzo di Dio ma l’autorizzato da Dio a parlare in nome di Dio, mentre il posseduto è il mezzo della Divinità, e l’indovino è un semplice “visionario”. La divinazione è egualmente performata in tutti questi differenti ruoli. È qui in atto un processo cognitivo: la conoscenza umana viene fondata – legittimandola – attraverso specifici riferimenti alla Divinità, all’interno di specifici insiemi di regole nel contesto di specifiche cosmologie, ovvero nel contesto di un complesso e sofisticato sistema di rappresentazioni. La trilogia “trance di visione, trance di possessione, trance estatica” permette di meglio comprendere l’enorme mole di monografie e di note e resoconti etnografici riguardanti la trance e gli stati modificati di coscienza. E l’iniziazione, la terapia, la liturgia e la divinazione sono le quattro forme rituali, modalità e modulazioni, nelle quali si esplica ognuno dei grandi gruppi di trance che analizziamo.
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visione
possessione
estasi
iniziazione
terrore (allucinazione)
hypnos (inibizione transmarginale)
meditazione (reiterazione)
terapia
conversione
conversione (esorcismo/adorcismo)
conversione
liturgia
viaggio (scena)
(incontro commensale, connubiale) visita (scena)
preghiera (scena)
divinazione
veggenza (conoscenza)
mediumship (salute, armonia)
profezia (indirizzo sociale)
professione
sciamano
medium (kallicha, bale zar)
maestro, santo (sheykh)
Schema 1. Stati modificati di coscienza e loro modulazioni
4. Dalla teoria della trance alla etnografia dello zar in Etiopia Paese complesso, l’Etiopia presenta numerosi gruppi etnici, circa 78, in continua e complicata interazione. In quasi tutte queste società sono praticati culti di possessione. Ho avuto modo e occasione di venire a contatto con numerosi gruppi di culto e di conoscere specialisti della trance nei diversi contesti etnici, economici, politici e culturali del paese.22 Molti di questi gruppi religiosi hanno avuto un’incidenza politica e economica notevole nella storia dell’Etiopia. Per esempio, un gruppo che contava su decine di migliaia di seguaci era guidato durante gli anni ’60 e ’70 da Lijj Taye, notissimo personaggio pubblico scomparso durante il periodo di governo di Mengistu Hailemariam, che lo considerava un leader religioso e un oppositore politico di rilievo. Con l’eliminazione dalla scena pubblica di un personaggio di questa portata, si può avere il crollo economico di vaste aree rurali e anche urbane. Spesso, infatti, l’economia di una intera regione ruota intorno 22
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Il caso etnografico di Garesu e del culto di Wofa, un culto di possessione praticato sugli altopiani dell’Etiopia in un contesto chiaramente interetnico, è di particolare interesse per lo studio delle trance rituali e ancor più specificamente per come si articola in esso la quarta modalità di ritualizzazione dello stato modificato di coscienza, ovvero la divinazione. Il leader, un potentissimo “cavaliere di spiriti” quando incarna la Divinità Wofa, parla agli uomini una lingua sacra tradotta in consecutiva in oromo e in amharico da un altro specialista del culto, lo aggafari. Il processo di traduzione avviene in stato di trance, di fronte a numerosi fedeli, in un tempio situato all’interno di un villaggio-santuario fondato dallo stesso Garesu.23 I suoi confini chiaramente fondano un luogo, un luogo decisamente sacro, dove si praticano culti di trance in forma di culti di possessione.24 Nel tempio del santuario si trovano i protagonisti di una straordinaria performance: Garesu, che quando diventa Dio in terra è chiamato Wofa; lo aggafari, ovvero il suo aiutante, il cosiddetto “custode delle porte invisibili”; e fedeli in gran numero. Inizia così dunque un particolare processo di costruzione della realtà: «Sono le due del mattino. Entro nel gelma, già pieno di fedeli per le suppliche. Mi lasciano passare, con fatica. Non vi è più posto: 100-120 fedeli in un tempio di 15-16 metri di diametro. Mi fermo a pochi metri dallo aggafari. Dopo aver atteso per alcuni giorni, Wofa è finalmente sceso; e questa è la ragione per la quale mi hanno svegliato. Wofa sentenzia e risolve ogni problema, Wofa giudica, Wofa risponde. La sua risposta rimbalza ai supplicanti attraverso lo aggafari. Nella risposta i supplicanti sono aiutati dai più esperti o anche da qualche apprendista bale wuqabi. Il canto di Wofa è molto rapido e ritmico. Prima che sia terminato, il fraseggio è seguito dallo aggafari che traduce in oromo e poi in amharico alla stessa velocità, musicalità e ritmo. Il supplicante cerca di entrare in quello stesso ritmo mentre pone le sue domande, ma non sempre vi riesce. alle attività produttive e commerciali avviate da questi leader attraverso la fondazione di santuari, e fiorisce in virtù della dinamica dei pellegrinaggi nei luoghi di culto. 23 Il villaggio-santuario si trova a poche ore di guida da Addis Ababa, in direzione nord est. Non è direttamente visibile dalla strada asfaltata e non vi sono cartelli che lo indichino, sebbene sia il centro per eccellenza della pratica rituale di un gruppo religioso numericamente consistente, al contempo comunità etnica e politica. 24 Cfr. Palmisano 1996; 2000; 2001; 2002a; 2002b.
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La sua supplica è trasmessa con lo stesso canone dallo aggafari a Wofa. Infine, la risposta va da Wofa allo aggafari e da quest’ultimo al supplicante; e quindi di nuovo vice versa. La prossima parola è del supplicante; l’ultima parola appartiene esclusivamente a Wofa».25
Figura 1. Tempio di Garesu e posizionamento dei principali attori
La Divinità, protetta e nascosta da un muro, parla una lingua incomprensibile; al di là del muro-confine interno che segna lo spazio strettamente e assolutamente sacro, il non-luogo per eccellenza, si trovano i credenti; mentre, seduto per terra all’interno dello spazio sacro per antonomasia, eppure vicino alla porta-tenda più prossima ai fedeli, lo aggafari traduce: traduce dalla lingua divina, che risulta a tutti gli uomini ugualmente incomprensibile, in due lingue umane, diversamente contrapposte ma entrambe a tutti comprensibili. In questo caso, le due lingue umane costituiscono un’unità in giustapposizione all’incomprensibilità della lingua divina. Si tratta di un momento dunque di unità fra i credenti: unità e comunanza di esperienza, l’esperienza del sacro espressa politicamente. Fuori dal contesto di trance e di possessione divina che avviene 25
Dal mio diario di campo.
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all’interno del tempio, il ruolo principale dello aggafari è di consigliere sfuggente. Lo aggafari non si trova mai molto vicino al leader; resta in posizione defilata. Nella vita di tutti i giorni, costruisce e ribadisce questa sua posizione di marginalità o come tale rappresentata dallo stesso. La sua vita quotidiana è in funzione dell’espressione di se stesso in quanto uomo del margine: è protagonista ma nella zona d’ombra. Lo aggafari resta talmente “ai margini” che, per esempio, quando è nello elfigna si posiziona lontano dal divano-trono di Garesu, sulla soglia della porta che conduce all’esterno.26 Anche nelle riunioni pubbliche lo aggafari non è immediatamente visibile, eppure è presente, vicino alla porta, sempre in contatto visivo con il leader. Lo aggafari, una specie di bale zar secondario, ovvero un co-medium, sembra agire come una sorta di interprete, più precisamente come un traduttore, un semplice traslatore di oggetti, pensieri, parole e opere non sue, collocato ai confini del mondo degli uomini e ai confini del mondo divino. Il Dio Wofa discende su Garesu, e questo impressiona particolarmente i suoi seguaci. Spesso altri spiriti visitano Garesu, spiriti meno complessi, di più facile comprensione, con i quali la comunicazione risulta più semplice. Garesu è comunque in grado di “cavalcarli” tutti: è un potentissimo bale wuqabi.27 I seguaci del culto sono numerosi. Oltre ai fedeli della Chiesa Ortodossa d’Etiopia e dell’Islam vi è infatti in Etiopia una forte presenza di credenti che praticano culti locali, seguaci di quella che posso legit-
Lo elfigna è il luogo di soggiorno di Garesu. Nel salone si trova un gran divano; le porte della cucina, aperte, danno al suo interno. Diversi ospiti, tutti più o meno interessati a mostrarsi potenzialmente vicini a Garesu, conversano. Lo aggafari è seduto a distanza da tutti gli altri; frequentemente si trova in piedi vicino alla porta di uscita o sulla soglia delle cucine dello elfigna, mentre continua con gli occhi e con piccoli cenni delle mani a comunicare con Garesu, fornendo informazioni aggiuntive e consigli. 27 All’occorrenza, il gashe – gashe, letteralmente “scudo” in amharico, è titolo onorifico e anche forma di cortesia all’indirizzo di chi è riconosciuto dotato di carisma e autorità – poteva o può diventare anche ras, capo politico-militare di un gruppo etnico, ovvero di un gruppo di discendenza e/o locale: egli è uno “scudo”. Nella prospettiva emica, questo suo essere in grado di proteggere la comunità è infatti associato alla capacità di entrare in contatto diretto con la Divinità, un Dio in questo caso dal carattere molto difficile, Wofa, Divinità di un pantheon minore. 26
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timamente definire la Terza Confessione, un esteso insieme di culti e religioni locali che si affiancano alle due confessioni internazionali.28 La Divinità in questione, Wofa, si manifesta in determinati giorni del calendario rituale. Garesu stesso diviene la Divinità, e parla. Quando parla, giudica; e questi giudizi si risolvono in sentenze. Sentenze divinatorie! Due partiti in disputa si recano al tempio: chiedono un consiglio, un parere, un intervento. L’uomo, Garesu, entra dunque in trance e quando la Divinità lo pervade, nella prospettiva degli attori sociali, diviene di fatto la Divinità, Wofa. Nella sua mente esiste allora solo il Dio, e può giudicare il “caso”: definisce e risolve momenti di disordine e di sofferenza all’interno della comunità, dovuti a contingenze interne e esterne; dirime controversie e compone liti. Il giudizio formulato da Garesu in queste precise situazioni rituali e liturgiche è definitivo, senza possibilità d’appello. Una volta pronunciatasi, infatti, la Divinità non può essere discussa. Nessuna parola fonda quanto la parola divina.
Figura 2. Il suono-lingua divina (in rosso) emesso dalla Divinità si trasforma in lingua degli uomini attraverso lo aggafari e quindi la parola viene commentata (in nero) dai fedeli presenti e rinviata direttamente alla Divinità o passando per lo aggafari.
A proposito di culti non-monoteisti e della loro attuale incidenza nella vita sociale e religiosa, cfr. la recente e eccezionale opera di Bernhard Streck. (Streck 2013) 28
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Il “canto” di Wofa e dello aggafari è incalzante, melodioso, affascinante, ipnotico. Qualche supplicante piange. I volti mostrano sofferenza, e un intenso pathos è nell’aria. Alcuni mentono durante la supplica. Non hanno il coraggio di confessare pubblicamente le loro colpe, i loro problemi: temono di compiere passi falsi. Una giovane donna, accompagnata dalla madre, mente. La sua menzogna viene immediatamente scoperta da Wofa. Stravolta dal terrore, la giovane si getta per terra, striscia fra le nostre gambe e sui piedi; striscia invocando il perdono che non ottiene. “Presto morirai!”, dice la voce dello aggafari, che in amharico aggiunge: “…o tua madre morirà al tuo posto!”.29 Le terminologie religiose e giuridiche si complementano e si sovrappongono identificandosi: giudizio, giorno del giudizio, “giudizio universale”, comparire con il correo, nominare il testimone. Ma la parola ultima spetta alla Divinità. “Che cosa fare di questa donna?”, ecco in quali termini si pone la questione per quanti hanno inteso l’avvenimento come problematico; ecco perché nella prospettiva emica si parla di giudizio, ovvero di “giorno del giudizio”. È in questo giorno, infatti, che si chiude il processo corale di costruzione del caso. Gravi responsabilità sociali sono implicite nel processo decisionale. Ecco perché il termine tecnico adoperato localmente per definire un tale processo è “giudizio”. 5. Iniziazione, terapia, liturgia e divinazione nello zar d’Etiopia Un’articolata e esaustiva etnografia della trance può difficilmente prescindere dall’identificazione e distinzione analitica delle quattro modalità di istituzionalizzazione della trance, ovvero le quattro forme di ritualizzazione degli stati modificati di coscienza: iniziazione, terapia, liturgia e divinazione. E le quattro modalità possono essere ritrovate in ognuna delle principali interpretazioni emiche della trance, indipendentemente dalle loro specificità: trance di visione, trance di possessione e trance di estasi. Generalmente, però, pochi lavori etnografici trattano di più di una o due di queste modalità di istituziona29
Continuo a riportare passi tratti dal mio diario di campo.
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lizzazione di stati modificati di coscienza per una singola teoria emica della trance. Se analizziamo la letteratura riguardante lo sciamanesimo, per esempio, non troviamo mai le quattro modulazioni trattate distintamente, ma le incontriamo sempre descritte indistintamente, intrecciate le une alle altre, quando non confuse le une con le altre. Lo stesso accade per la letteratura sulle possessioni, per esempio il voudou o il candomblé o lo ndop o lo zar; come pure per la letteratura sulle estasi, dove le quattro modulazioni si ritrovano a essere descritte come un vero e proprio conglomerato. Disponiamo dunque di numerose etnografie sugli stati modificati di coscienza, ma solo alcune di esse considerano l’intero sistema rituale come un insieme integrato, e non indistinto. Anche i culti zar dell’Etiopia sono stati sottoposti a questo processo di frammentazione e decontestualizzazione, ovvero di riduttiva conglomerazione.30 Il lavoro di Lapassade sulle trance è interessante principalmente per l’ammissione di una co-presenza di questi quattro aspetti, o modulazioni della trance – iniziazione, terapia, divinazione e liturgia –, riconosciuta in ognuna delle grandi categorie della trance rituali, o stati modificati di coscienza istituzionalizzati, indipendentemente dalle loro specificità: trance di visione, di possessione e trance estatica.31 Per Lapassade, per esempio, anche la trance sonnambulica, che è un soubassement psicologico della possessione, può essere manipolata e incanalata secondo le quattro modalità rituali: iniziazione, terapia, liturgia (il cui aboutissement è la conversione) e divinazione.32
Rare sono state le eccezioni, per esempio un breve lavoro con ricerca sul campo realizzata da Torrey sullo zar. Secondo Torrey (1970) in Etiopia si riconoscono tre forme diverse di cerimonia zar: zar terapeutico (e di iniziazione), zar di conversione (liturgico) e “seer”-zar o zar “profetico” (ma “divinazione”, è termine che in questo caso preferiamo, perché “profezia” è una categoria propria dell’estasi e non della possessione). Tuttavia, solo pochi anni dopo, Torrey disconosce di fatto il suo primo lavoro sullo zar d’Etiopia, pubblicato nel 1970 ma già presentato nel 1966 alla Third International Conference of Ethiopian Studies, Addis Ababa 1966, focalizzando tutta l’attenzione sull’identità medium-psichiatra (Torrey 1972); e lo fa con successo di pubblico, a giudicare dalla diffusione dell’edizione rivista e corretta, pubblicata nel 1986. 31 Lapassade 1976, 1987, 1990, 1997. 32 Zempleni (1966) ha anticipato o comunque ha intuito quanto poi trattato esaustivamente da Lapassade (1990): senza impiegare il termine “liturgia”, ha descritto in effetti le liturgie che danno l’avvio al processo “terapeutico”. 30
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Così, nell’esempio dello zar dell’Etiopia, le quattro modulazioni della trance, le articolazioni o esplicazioni della trance, possono difficilmente essere trattate indipendentemente le une dalle altre e, ancor meno, indipendentemente dalla loro società: esse si rivelano come delle situazionalizzazioni ad hoc dei culti di trance. E questo non impedisce al ricercatore, come suggerisce la mia pluriennale ricerca sul terreno, di riconoscerle agevolmente: zar d’iniziazione, zar terapeutico, zar liturgico (zar di conversione) e zar di divinazione.33 Zar di iniziazione e zar terapeutico vengono performati indipendentemente da particolari eventi o festività dell’anno e indipendentemente dalle specificità dei wuqabi, ovvero a prescindere dalle connotazioni e desideri degli spiriti zar, dunque dalle cosiddette “necessità”, o come tali recepite, del posseduto o aspirante posseduto. Lo zar liturgico può venire identificato e osservato specialmente in occasione delle grandi feste nazionali, per il meskal o il timkat; questi grandi eventi festivi nazionali divengono altrettante opportunità per numerose iniziazioni individuali, ovvero conversioni al culto attivo degli zar. Lo zar di divinazione, invece, ha luogo secondo un particolare calendario degli spiriti e secondo le richieste di credenti e clienti, presentate individualmente o ancora più spesso in gruppo. A. Zar (terapeutico e) di iniziazione Nel processo iniziatico, i due ruoli principali sono svolti dal bale zar e dallo ye zar faras. Lo ye zar faras apprende a conoscere, ovvero a riconoscere lo spirito zar che lo possiede e a conciliarsi con questo. La sua iniziazione comprende innanzitutto l’apprendimento delle danze specifiche associate ai corrispondenti spiriti zar o wuqabi;34 queste danze, che hanno il loro acme nel gurri, una violenta e ripetuta rapida roteazione del capo e del busto, si distinguono attraverso variazioni nel ritmo e nei movimenti. Grazie allo stile di danza ogni wuqabi può essere identificato da ogni Lo zar divinatorio è a volte chiamato zar profetico, “seer”-zar, nella letteratura anglofona degli anni ’70 e ’80. È senza dubbio preferibile il termine “divinazione”, in quanto il termine “veggenza” o il termine “profezia” appaiono più appropriati nel caso della visione e dell’estasi, non della possessione. 34 Come del resto accade nel candomblé, cfr. per esempio Lacourse 1991, Pinto 1992, Prandi 1998. 33
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membro del gruppo di culto. L’iniziando apprende poi le “canzoni di guerra”, fukkara, di ogni spirito zar con il quale ha o presume di avere relazioni. Il canto viene intonato dal posseduto o aspirante-posseduto come espressione indubitabile della correttamente appresa forma di relazione con lo specifico zar. Nella prospettiva della cosmologia zar, il fukkara è il canto di guerra intonato dallo stesso spirito zar quando è finalmente sceso sulla persona facendone il suo cavallo, ye zar faras. Il bale zar padroneggia tutti gli spiriti del mondo dello zar etiopico (sempre contestualizzando il culto nella versione locale). È capace di rendere visibile, attraverso difficili domande e minacce, anche lo zar ancora sconosciuto all’interno di quel circolo di iniziati, e costringerlo a svelare la sua personalità e rivelare i suoi desideri in modo da poter essere soddisfatto.35 Per essere soddisfatto, infatti, dunque adorcizzato, uno spirito zar deve essere reso pubblico, ovvero riconosciuto. Il bale zar ha fra l’altro anche il compito di identificare, quindi di definire, la classe sociale dello spirito zar e conciliarla con la situazione finanziaria dell’adepto (oppure del cosiddetto “paziente”). Nelle gerarchie zar, per esempio, lo spirito zar degli adepti meno abbienti appartiene alla schiera dei servitori dei grandi spiriti zar, i cosiddetti wureza. Quando un bale zar valuta correttamente la situazione finanziaria dell’adepto, può associargli uno zar costoso, dalle grandi pretese, oppure uno zar servitore dei grandi zar, trasferendo così il primo spirito a un adepto (il “paziente”) che dispone di maggiori risorse economiche, kureynya,36 capace di sopportare finanziariamente le richieste dello zar più esigente. Tutte le attività di “soddisfazione dello zar” servono a trasformare quello zar in uno spirito protettore dell’adepto (il “paziente”), prevenendo e impedendo eventuali ulteriori e imprevedibili richieste da parte di altri zar. Mentre alcune richieste sono di natura simbolica, difatti, altri spiriti zar esigono gioielli, vestiti eleganti e lussuosi o oggetti di difficile reperibilità.37
Questi desideri sono spesso imprevedibili, cangianti e differenti a secondo della personalità, età, occupazione e sesso dello spirito zar. 36 Cfr. Young 1975. 37 Lo zar il cui simbolo è il leone, per esempio, può volere che regolarmente gli vengano sacrificate delle oche dello stesso colore del suo mantello. 35
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B. Zar terapeutico (e di iniziazione) Lo zar terapeutico – terapia di gruppo, per lo più – assume spesso la funzione di processo iniziatico, e lascia anche rilevare significative somiglianze con lo zar liturgico o di conversione. I partecipanti, presenti alle sessioni terapeutiche insieme al malato che prima o poi verrà posseduto dallo zar, hanno tutti già avuto esperienze di possessione: al di là dei posseduti durante la cerimonia, wadaja, altri partecipanti hanno avuto esperienze di possessione in precedenti occasioni proprio a opera dello specifico zar in questione. I partecipanti sono dunque tutti collegati da un filo comune: i più esperti sono insieme a coloro che devono essere iniziati e che adesso vengono presi in considerazione dal terapeuta zar. La terapia è de facto una iniziazione al culto zar, ovvero l’iniziazione al culto degli zar assume ad hoc la forma del processo di conduzione verso la guarigione. Ho avuto modo di incontrare diversi processi terapeutico-iniziatici che si risolvevano con l’integrazione dell’individuo nel gruppo di culto zar, e quindi nella sua integrazione nella comunità locale, con l’attribuzione e assunzione di un nuovo status e nuovi ruoli. Sulla base delle mie ricerche e della letteratura etnografica è possibile riconoscere le linee principali di questa struttura: • sospetto di “malattia”, da parte di parenti e amici, oppure rivendicazione di “malattia” da parte dell’attore sociale, da parte del “malato”; • richiesta individuale o di gruppo indirizzata a specifiche istituzioni taumaturgico-salvifiche: la persona e/o i suoi parenti si rivolgono al bale zar; • regolamentazione e normalizzazione delle relazioni fra la persona e il “suo” zar; • apprendimento delle corrette procedure nel rapportarsi allo zar in questione, oltre che con il mondo degli zar in generale: abilità formali e conoscenze specifiche vengono a essere conseguite (danze e canti); • aspettative di eventi di possessione nelle prossime sedute, terapeutiche o meno che siano, hadra; • sacrifici individuali e collettivi, compiuti in occasione della prima possessione elaborata con successo;
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• routinizzazione delle relazioni fra lo zar, ovvero gli zar, e la persona: “guarigione”. Parenti e amici si rivolgono al bale zar solo dopo aver esaurito l’iter della diagnostica medica, dopo essere stati in un ospedale e aver consultato numerosi specialisti, in modo da escludere una eziologia riconducibile con certezza a patologie definibili nei termini della medicina istituzionale. L’assenza di patologie chiaramente identificabili come “patologie mediche ufficiali” genera timore e, al contempo, soddisfazione: ora è possibile l’attribuzione dello status di “malato” nella prospettiva locale, con tutto ciò che ne consegue. Le richieste del medium – bale zar o altro che sia (il “medico”) –, infine, variano in rapporto all’adepto (il “paziente”), come del resto accade in molte pratiche psicoterapeutiche e in quasi tutte le prestazioni professionali, a onorario variabile in base alle difficoltà presentate dal caso e allo status del cliente. C. Zar liturgico o di conversione Il medium conduce l’uomo o la donna in trance alla scoperta di nuovi mondi – i mondi della trance, mondi situati fra le due soglie – e li riporta indietro: li conduce appena oltre la porta della vita, ma potrebbe condurli anche oltre la porta della morte.38 Durante la trance, infatti, con il proprio corpo prestato come luogo-casa della Divinità, la persona trova se stessa proprio “fra le due soglie”. È questa una zona che, secondo gli iniziati, segue in termini temporali la vita e precede la morte; una zona collocata sulla linea di demarcazione fra vita e morte. Nella preparazione dell’eventuale visita del suo spirito zar, un adepto, donna o uomo che sia, trascorre in trepidazione tutta una giornata o perfino settimane. Come del resto già accadeva per sua madre o suo padre, l’adepto viene posseduto una o due volte l’anno dal “suo” zar. Non sa però esattamente in quale fra quei giorni festivi, o forse durante un pellegrinaggio, lo zar farà visita. Ha comunque preparato tutto l’occorrente per l’imminente visita dello spirito zar: ha invitato i vicini, ha indossato i vestiti più belli, le collane, le perle, tutta la sua bi38
Cfr. Palmisano 2001.
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giotteria, profumandosi con cura. Ha preparato cibi raffinati, e nulla verrà toccato prima dell’arrivo dello spirito visitatore. Ha approntato il vino di miele e la birra – se è di fede cristiano-ortodossa – o il chat – se è di fede musulmana –, e attende ansiosamente la visita dello zar, dopo aver disposto tutto l’occorrente per il perfetto svolgimento della cerimonia del caffè.39 Sono stati anche sacrificati animali – polli, oche, agnelli e pecore, come pure vitelli, manzi e perfino tori –, a secondo del tipo di richieste manifestate dallo zar e a secondo del “colore” dello zar che “scenderà” a fare visita. Lo zar “scenderà” oppure non “scenderà”, e questo dipenderà – nella prospettiva degli attori sociali – dalla corretta organizzazione della festa, dall’esecuzione inappuntabile dei preparativi per accoglierlo; insomma, dal perfetto espletamento della liturgia. Se lo zar non “scenderà”, i parenti, gli amici, i vicini prenderanno parte al banchetto come si fa per un normale festino, e sarà una tranquilla e gioiosa festa come tante altre. Ma quando lo zar giunge, prende con forza possesso del suo “cavallo”: la donna comincia a gridare, a parlare come in un sonno agitato; cade per terra e si copre il volto con una stoffa colorata, del colore voluto dallo spirito. In quel momento il suo corpo diviene il luogo di residenza dello spirito zar, e lo spirito usa questo corpo come meglio gli aggrada: come cavalcatura. Ma anche altri fra i presenti possono diventare cavalcature di quello stesso o di altri spiriti. E tutti sono invitati a raggiungere lo stato di trance, con ogni genere di incitazioni. In un gruppo, per esempio, l’esortazione è: “Chi è il maschio che può superare il limite!?”; ben conosciuto dagli iniziati, ma dal significato nascosto per altri fra i presenti, il testo originale suggerisce: “Wesen bante lai wend alle wey!?”. Ora, wesen può significare “confine” ma allo stesso tempo è appunto il nome di uno spirito o una Divinità minore di questo pantheon, Wesen, in uno dei molti suoi attributi. Questa frase deve essere perciò intesa come un invito perentorio, un richiamo altamente significativo per i fedeli più attenti, pronti a raggiungere lo stato di trance, un obbligo per coloro che hanno dedicato la propria vita a Wesen: “Qualche uomo è disponibile ora ad andare in trance, a servire da luogo di manifestazione di Wesen, a rendere il proprio corpo un confine sicuro Il tema della visita dello zar, rappresentato come una sorta di sposo e/o amante atteso con ansia, traspare chiaramente nel complesso dei preparativi. 39
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all’interno del quale il nostro Wesen, il conoscitore dei confini, il confine stesso, possa trattenersi perché noi credenti possiamo ascoltarlo!? Avanti, coraggio! arka, arka! è il momento!”. L’adepto è divenuto “il cavallo dello spirito”, ye zar faras. Canta e danza eseguendo canti e danze che “piacciono” a quel particolare zar che si è manifestato in quell’occasione. Il posseduto può, secondo i contesti cultuali e teologici, correre velocemente, arrampicarsi sugli alberi, tagliarsi con lame senza sanguinare, ingoiare cocci di vetro senza ferirsi, “parlare lingue sconosciute”, o colpirsi duramente con pesanti bastoni o essere violentemente frustato. Lo stato di possessione può durare poche ore come anche alcuni giorni. La personalità dello spirito è rappresentata come estremamente gelosa e possessiva,40 ipersensibile, capricciosa e del tutto imprevedibile.41 I parenti, i vicini e gli amici che prendono parte alla cerimonia possono anche essere posseduti, ma nel caso di feste preparate ad hoc per la visita di uno specifico zar a una specifica persona ci si attende che tutti riconoscano un diritto primario di festeggiamento all’attore della cerimonia. E tutti hanno un compito preciso: chiedere e pregare lo zar perché tratti bene il suo “cavallo”, impegnandosi a tentare ogni possibile mediazione fra cavallo e cavaliere, e promettendo allo zar di soddisfare qualsiasi suo desiderio se non infierirà sul posseduto: “Ti preghiamo, non maltrattare il tuo cavallo…” (adorcismo). Essi sono i testimoni di una istituzionalizzata relazione fra l’uomo e la spirito zar. Le conseguenze di un mancato soddisfacimento dei “desideri” dello zar sfocerebbero – nella prospettiva degli adepti – nella pazzia, nella malattia o perfino nella morte del “cavallo”. Una volta soddisfatto, lo zar si ritira; ma solo fino alla prossima visita. L’adepto cade allora in un sonno profondo e, dopo essersi risvegliato, rivendica di non ricordare più nulla dell’esperienza di possessione. La modulazione liturgica è del tutto evidente. La liturgia è partecipazione alla venerazione dello spirito; e la conversione è il movimento verso una piena interiorizzazione della liturgia, verso una fede completa: la liturgia non è ipso facto una conversione. Quando c’è solo venerazione, inoltre, non si riscontrano necessariamente terapia e veggenza o divinazione. 40 41
Cfr. Reminick 1975. Cfr. Haberland 1960.
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D. Zar profetico o divinatorio Questo zar risolve i piccoli e grandi problemi di uomini e donne, di gruppi famigliari e comunità locali che si rivolgono al bale zar. Gli adepti, iniziati e iniziandi, si siedono in circolo, formando una assemblea, una jama’a, mentre gli assistenti, qeddam, del bale zar offrono a tutti i presenti caffè da bere, come in una visita di cortesia: si tratta della cerimonia chiamata guenda. Il bale zar si siede a parte; indossa vestiti particolari ed è con i suoi paraphernalia: collane, anelli di ogni genere, una lancia e così via, a secondo dei contesti locali o dello specifico gruppo di culto. Quando gli adepti – conosciuti in letteratura anche come “ospiti” o “clienti” – incominciano a sentirsi a loro agio, il bale zar inizia il suo intervento. Richiede con forza allo zar di manifestarsi. In effetti il bale zar è l’uomo capace di condividere il cibo insieme allo zar quando meglio crede, unico fra gli umani a essere in grado di mantenere lo spirito zar sotto controllo. Quando lo zar “scende”, ovvero prende possesso di lui o lei, gli adepti cominciano a battere le mani e a cantare le canzoni di quello specifico zar: tutti sono in grado di riconoscerlo. Il bale zar comincia allora a danzare, e compie azioni eccezionali. Parla infatti la lingua della Divinità, prevede il futuro, legge nel passato degli uomini, ingoia carbone ardente, risolve questioni spinose: media nei conflitti e realizza l’accordo e la pace fra partiti o fazioni in disputa. Gli ospiti cominciano così a sottoporre allo zar i loro variegati e complessi casi. Una donna, per esempio, ha perso un anello di grande valore, e vorrebbe ritrovarlo; il bale zar le indica quindi il luogo del probabile ritrovamento. Come già osservato dai primi ricercatori: “Finally the patient is enrolled for the rest of his life in the zar society of fellow sufferers …”.42 In queste occasioni i fedeli, i clienti, i “pazienti”, trovano inediti ritmi di vita e, attribuendo nuovi e più articolati significati alle loro difficoltà, elaborano nuovi stili di vita, nuovi e diversi atteggiamenti nei confronti dell’esser-ci nel mondo. Spesso la cerimonia all’interno delle performances di zar divinatorio agisce da iniziazione al culto zar. Tuttavia, come mostra il caso del gelma di Garesu, questa cerimonia ha forti connotazioni processuali: si tratta qui soprattutto di un giudizio-tribunale, in cui il bale zar è il giudice, mentre il posseduto, 42
Torrey 1970.
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ovvero il posseduto-zar, è l’imputato. Due vicini hanno litigato per una questione di confini di podere o per questioni adulterine o altro, e si ritrovano ora a discutere il caso insieme a parenti e amici per ascoltare le parole del bale zar; infine, accolgono attenti e timorosi la sentenza del bale zar, e il giudizio è inappellabile.43 Alla fine della seduta, in aggiunta ai doni offerti all’inizio della cerimonia, viene devoluta una somma in denaro o in beni al bale zar e alla casa ospitante. 6. Riflessioni sulla struttura dello zar in Etiopia Ognuna delle quattro modalità rituali del culto zar non appare in forma “pura” e disconnessa o comunque non interagente con le altre. Del resto, tali modalità sono presenti in ogni trance di visione come pure di possessione o di estasi. Nel caso dello zar d’Etiopia la formazione del culto, e dunque la processualità delle modalità rituali, è estremamente situazionale: dipende dal milieu in cui bale zar, adepti e ricercatore si ritrovano. Nella grande città incontriamo di tutto: zar con uomini, con donne, con giovani e anziani ecc. Frequentemente incontreremo zar di iniziazione e zar liturgico e, ancora più spesso, zar terapeutico; soprattutto, ci confronteremo con i processi terapeutici in presenza di cosiddetta “possessione maligna”: la terapia interviene in effetti quando uno zar, particolarmente scontento e rabbioso, agita e agisce il suo “cavallo” in modo violento e disordinato, facendolo soffrire. Quando uno zar è insoddisfatto, per adorcizzarlo è richiesto il sacrificio di uno o più animali; solo dopo aver organizzato un festino è possibile ritrovare la serenità. Nel contesto del culto zar, una “terapia” è innanzitutto un atto di riconciliazione con lo spirito: salute e salvezza coincidono. Ma quando si tratta di ritrovare un anello perduto o risolvere una disputa fra vicini, non è decisamente il caso di parlare di “terapia”: abbiamo a che fare con lo zar di divinazione. Nel contesto divinatorio lo zar può essere perfino subordinato al bale zar, divenendo un suo assistente: indica prontamente dove poter trovare l’oggetto smarrito o come poter sedare una contesa o risolvere un conflitto. La parola divina, la parola salvifica, risolutrice e inappellabile, vie43
Cfr. Palmisano 2002.
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ne traslata dal mondo degli spiriti al mondo degli uomini. Ecco allora la sequenza del processo di traslazione: silenzio, suono indistinto, suono, suono “articolato” musicalmente, lingua della Divinità, lingua umana, comunicazione di un messaggio all’esterno, linguaggio della comunità, linguaggio della persona. Questa è translatio: fondazione di una parola che è incontrovertibile, legittima, ordinatrice, solida come episteme.44 Il linguaggio adoperato dagli spiriti per parlare agli adepti durante il rituale di trance come pure la stessa lingua liturgica del bale zar, oltre a essere altamente complessi sotto l’aspetto lessicale e grammaticale, operano esclusivamente per metafore (traslati, iperboli, metonimie, sineddochi ecc.) arditissime e complesse, anche surreali. Necessitano pertanto di una traduzione. Non è però una traduzione che riguarda il topos della glossolalia, ovvero la traduzione di lingue straniere o misteriche in lingua locale o nazionale. È la traduzione di un mondo a un altro mondo. Di fatto, e ancor più, nei culti zar di divinazione viene partorito un mondo, un mondo di senso, dal nulla – prima ancora che da un altro mondo, prima ancora che da un secondo, ipotetico mondo, un aldilà. È che in questo mondo, apparentemente uno – come mi raccontava Garesu in una lunga notte di rivelazioni di teologia zar –, ci sono infiniti mondi. E questi mondi sarebbero, così, “pronti” – si fa per dire – a essere riconosciuti come esistenti al di là della tenda-muro, affinché da essi possa nascere il senso, il senso del mondo, del mondo della vita di tutti i giorni: il mondo del nostro ordine.45 L’attività del medium si concretizza quindi in un trans-latum sociale, politico ed esistenziale. Del resto, “Fiat lux!” fu la parola divina; “…e la luce fu!”, come confermano le Sacre Scritture. La parola prende corpo dal suono, che già la testimonia nel suo nascere; e uscendo dal recinto sacro, entra nei limiti di un mondo da essa stessa creato. “Fiat lux!”: una parola esternata ha fondato il cosmos, riempiendo il vuoto, trasformando il cavos in caos e infine in universo, con conseguenti nuove e più definitorie parole. I culti zar sembrano forse appartenere a un mondo estraneo, limitato a pochi gruppi di iniziati. Sono piuttosto il paradigma di forPalmisano 2002a. Cfr. il concetto di Lebenswelt in Edmund Husserl. Le tante parole della vita quotidiana nascono così, e tutte sono dotate di senso, di diversi significati: sono il significato del mondo. 44 45
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me diverse da quelle occidentali dell’organizzazione sociale, politica, religiosa e perfino economica del mondo: sono una teologia politica “altra”. È necessario comprendere, ed è necessario assumere prospettive “altre” per comprendere cosmologie e teologie di tale interesse anche per riflessioni epistemologiche. L’osservazione partecipante si impone. Ma non viene esclusa la possibilità al ricercatore di aderire al culto di visione, possessione o estasi in modo tale che, giunti a un sufficiente livello di fede, come è usuale per esempio nel caso dei culti zar dell’Etiopia, gli sia “concessa” – per impiegare un concetto emico cultuale – o comunque resa possibile l’esperienza decisamente significativa di una trance di possessione, magari prolungata e ripetuta, a opera di uno o più “spiriti”: esperienza che senza dubbio permette al ricercatore di meglio comprendere il tema sul quale riflette e del quale discute, proprio con gli “occhi dell’altro”. Bibliografia Ahmed Al-Shahi “Spirit possession and healing: the Zar among the Shaygiyya of the northern Sudan”, British Society of Middle Eastern Studies Bulletin, 1984, pp. 28-44. al Hallaj, al Husayn ibn Mansur Diwan. Traduit de l’arabe et présenté par Louis Massignon, Paris, Editions du Seuil, 1981. Diwan al-Hallaj: wa-yalihi akhbaruh wa-tawasinuh/jama’ah wa-qaddama lah Sa’di Dannawi, Bayrut, Dar Sadir, 1998. Arieli, A. and Aychek, S. “Mental Disease Related to Belief in Being Possessed by the Zar Spirit”, Harefuah, 1994, pp. 636-642. Bastide, Roger Le candomble de Bahia (Rite Nago). Paris, Mouton, 1958. African Civilizations in the New World, London, Harper & Row, 1971. Baxter, Paul T.W. “An Arsi Woman’s Neighborhood Festival”, in Colloque International sur les
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Presenza, assenza e rappresentazione nelle trance rituali Antonio Luigi Palmisano
Abstract Presence, absence and representation in ritual trances Pointing out the extraordinary amount of ethnographic work relating to trance, the Author demonstrates the possibility of distinguishing between the trance of vision, posession and of ecstasy thus challenging the current interpretation concerning tarantism, an interpretation that has implicitly encouraged the timid and hardly audacious research activity following De Martino’s studies: a kind of imaginary ethnography for internal use and consumption, or ad usum of the urbanized intellectuals who took a distance from the rural world of their forefathers. Considering trance as representation, it is then possible to recognize a specific image of man, and it is an image of suffering man. To analyze the story of humanity as a story of Grenzerfahrung, desired or feared, however realized and more or less controlled, leads us to recognize that all these experiences at the limit, these experiences of consciousness of alterity or also of an alterity to themselves, to their own egos, and their own unraveling can certainly lead the way to ethnopsychiatric or ethnopsychoanalytic interpretations; however the institutionalized trance demonstrates above all that society creates a cosmology, or rather represents this tragedy in the individual perspective but in the interests of everyone. Keywords: trance, ritual, political anthropology, ethnopsychiatry, De Martino
In una cittadina dell’assolata Puglia vidi per la prima volta una tarantata in azione, quando ero ancora un bambino.1 Quelle immagini Questo articolo è la versione rivista e corretta di Palmisano, A. L. “Presenza, assenza e rappresentazione nelle trance rituali”, in Rimorso. La tarantola fra scienza e letteratura. 1
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mi sono rimaste in un qualche modo nella mente e in un qualche modo ho sempre cercato di rivederle. E questo è uno dei primi aspetti che ritengo dover considerare quando si intenda analizzare attentamente le trance rituali: la loro spettacolarità. La performance di una trance ha la straordinaria capacità tecnica e potenza emotiva di impressionare un po’ tutti, anche i più freddi ed abituati osservatori. E questo non è certamente un aspetto delle trance che possa essere sottovalutato in sede di analisi. Mi sono occupato per decenni, da allora, di trance rituali. Ho partecipato a innumerevoli sessioni di trance, in gruppi nei quali il numero dei partecipanti variava da 2-3 persone ad alcune migliaia. E questo soprattutto in Africa, il luogo di elezione, oggi come oggi, di quelle trance rituali che consideriamo trance di possessione. Per cominciare a fissare dei punti di orientamento, per lasciare dei piccoli segnali, necessari come i fili di una ragnatela, per l’appunto, perché si possa poi serenamente ripercorrere la stessa strada o strade nuove, faccio riferimento ad una prima, triplice, fondamentale interpretazione, ovvero classificazione e differenziazione delle trance; una interpretazione ormai accettata da quasi tutti gli studiosi che si sono occupati di trance e che hanno avuto a che fare direttamente con persone in trance. Mi riferisco pertanto a studiosi che si sono occupati di trance in una prospettiva antropologica e non in una prospettiva puramente storica e filologica, ovvero a studiosi che se ne sono occupati in una prospettiva sociologica e non etno-psichiatrica. Rilevando la straordinaria mole etnografica relativa alle trance abbiamo dunque la possibilità di distinguere trance di visione, di possessione e di estasi.2 Questa è una sorta di classificazione che ha visto molti ricercatori più o meno esplicitamente consenzienti, da Erica Bourguignon (1979) a Georges Lapassade (1990) – fino già a partire da Alfred Metraux (1958) – e quanti si sono occupati di candomblé e
Atti del Convegno sul Tarantismo, San Vito, 28-29 maggio 1999. Besa Editore, Nardò, 2001a:137-152. 2 Tratto in maniera specifica questa triplice distinzione delle trance in un altro mio articolo, v. Palmisano 2000.
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di culti bori, di trance brasiliane come di trance africane, di trance di sciamani,3 di invasati e posseduti o di mistici.4 Ciò premesso, la Bibbia, per chi si è occupato di tarantismo, è questo testo, La terra del rimorso, un lavoro pubblicato nel 1961 da De Martino. L’edizione in questione è del 1996, sempre pubblicata presso la casa editrice Il Saggiatore. Ha una copertina molto adatta al tema: una copertina orrenda. In alto a sinistra vi è una testa umana staccata ed un ragno, un mostro incombente, su sfondo giallo. Eccolo qua, il mostro; una delle tante forme del mostro. Ora vediamo una parte di tarantata e relativa tarantola in copertina; poi, un domani, chissà, potremo vedere mostri decisamente più attuali. Dobbiamo soltanto avere fiducia e pazienza: ci saranno prima o poi uomini e donne posseduti da “Alien”, il mostro definitivamente addomesticato – ma ne siamo sicuri? – dalla agguerrita post-femminista Sigourney Weaver nel film Alien III. Per ora, comunque, noi antropologi abbiamo già visto un po’ di tutto: uomini e donne posseduti da saponette, da quadrimotori, da bomba atomica5, da volpi, da gatti, da cammelli e così via. Questo testo di De Martino rappresenta dunque per i ricercatori italiani delle trance rituali, o per gli italianisti e i meridionalisti, una sorta di Bibbia. Interessante è notare la struttura di questo libro. È diviso in due parti. La seconda parte si intitola “Commentario Storico” e comprende un po’ più della metà del libro; tratta degli autori che nel passato hanno dato notizie sparse sul tarantismo o degli antecedenti illustri e antichi. La prima parte del libro, invece, molto meno voluminosa, dovrebbe essere una etnografia. Andate a vedere a pagina 76. Si tratta di una unica etnografia, piuttosto breve, realizzata entro la data che va dal 20 giugno al 12 luglio del 1959. Tre settimane! Su questa base, pochi antropologi dovrebbero accettare una etnograE per queste prime intendo solo le trance siberiane o dell’Artico, e non altre. Parlare di trance sciamaniche per l’Europa del tarantismo è disconoscere come questo non abbia nulla a che fare né con quella visione del mondo, né con la cosmologia all’interno della quale è nata la concezione visionaria della trance, come del resto già mostra il classico studio di Shirokogoroff, 1935. Lo stesso argomento vale per le trance di visione descritte nelle etnografie della America del Sud, talvolta impropriamente definite ancora “sciamaniche”. 4 La letteratura internazionale a questo proposito è imponente. Per lo sterminato numero di testi a disposizione nelle varie lingue, valga qualcuno degli esempi riportati in bibliografia. 5 Mi pare essere particolarmente impressionante, forse per le sue implicazioni politiche e ultra-millenaristiche (cfr. Kramer 1978; 2000), fra le molte trance citate proprio per i contenuti di tragica attualità. 3
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fia.6 Tre settimane! Quelle tre settimane nel Salento hanno deciso che cosa è il tarantismo, ne hanno decretato la sorte. Tre settimane nel Salento hanno deciso cosa è il tarantismo, e lo hanno seppellito. Ci sono infiniti modi di distruggere illustri e antiche istituzioni. Uno dei più efficaci è trattarne, ma in una certa maniera anziché in un’altra; un po’ come nel giornalismo, dove dare una notizia in fretta e furia, e in un determinato momento, equivale a bruciarla. Tante volte gli antropologi hanno dovuto affrontare il problema del senso della pubblicazione dei risultati delle loro ricerche, quando queste erano state forzatamente troppo brevi o condotte fra troppe difficoltà contingenti; un problema che spesso per gli antropologi si è posto proprio in questi termini: pubblico o lascio? Anche Ioan Lewis, che ha passato lunghi periodi di field work in Somalia, e che si sarebbe ben guardato dal trarre un libro da un periodo di ricerca con tre settimane di field work, si sarà certamente posto il problema della opportunità di pubblicare o meno descrizioni di istituzioni più o meno fuggenti!7 Eppure, questo libro di De Martino è fondamentale. È considerato il lavoro che fornisce poi tutta la specifica interpretazione ad hoc del mondo subalterno, agrario e cela va sans dire involuto del Meridione; interpretazione che ha implicitamente invitato, infine, tutta la timida e poco audace attività di ricerca seguente a proseguire nell’analisi sul tarantismo sempre e solo in questa stessa prospettiva: una sorta di immaginaria etnografia ad uso e consumo interno, ovvero ad usum di intellettuali inurbati che prendevano distanza dal mondo rurale dei loro padri. L’Italia del “boom economico” e delle grandi migrazioni verso le industrie del Nord è stata l’Italia del neorealismo e della scoperta della classe neo-operaia – simpaticamente buffa e impacciata, talvolta gaglioffa ma sempre volonterosa e dunque portatrice di speranza – in contrapposizione al mondo magico rurale ed irrazionale, ovvero culturalmente perdente, perché solo da emancipare pur senza eccessive speranze, del Sud agricolo.8 Generalmente, chi scrive una etnografia con tre settimane di ricerca sul campo, in molte università europee come pure di altri paesi per esempio dell’Africa, non gode di eccessiva credibilità all’interno dei Dipartimenti di Antropologia Sociale, Etnologia ecc. 7 Mi riferisco qui necessariamente all’antropologo sociale gallese, perché è stato curiosamente molto citato durante le conversazioni informali nelle giornate del seminario, quasi fosse stato un vecchio conoscente per molti dei partecipanti. 8 Sul rapporto sado-masochista, almeno in termini psicoanalitici, fra Sud, intellettuali inurbati e sentimenti di riscatto e colpa, valga per molte altre l’emblematica asserzione: 6
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Emancipiamoci ritualmente da questo padre-padrone, piuttosto, per poter proseguire nello studio delle trance nel Salento! De Martino è venuto qui da estraneo, non da pugliese; è venuto da antropologo, insomma. Da parte mia, se conduco field work in queste terre, potrei dire che faccio auto-etnografia. Ma De Martino era originario di uno dei maggiori centri urbani del Mediterraneo, dunque giungeva qui da antropologo, non da emigrato di ritorno né da turista: ci si sarebbe potuti aspettare che per una ricerca così ambiziosa si sarebbe voluto intrattenere con noi un po’ più a lungo di tre settimane. Lo possiamo ringraziare per alcune ragioni, molto meno per altre. In effetti è stata troppo determinante questa sua produzione: un lavoro basato su un approccio storico-culturale, da sempre fortissimo in Italia, una ingombrante eredità crociana. Amato o meno da Croce, si tratta dell’idealismo e dello storicismo tedesco nella sua ricezione italiana, nel momento in cui il filosofo, e sulla sua scia l’etnologo,9 ha interpretato Antonio Gramsci in maniera determinante, con tutta la teoria delle classi subalterne, ovvero con la fissazione de facto di culture per così dire di prima e seconda categoria, en un mot avanzate ed arretrate, industriali e contadine ecc. L’antropologia italiana del periodo ha dunque scoccato una freccia dal suo arco, una freccia mai più ripresa. Non si riesce a fare nulla che ci permetta di tornare indietro e di studiare oggi il tarantismo in una prospettiva che possa essere di antropologia sociale o culturale. È finita. Non possiamo fare più nulla forse, con buona pace di noi tutti, per rivivere situazioni di ricerca sul terreno in Italia. A meno che non salti fuori una bella tarantata da qualche parte, qui a casa; una tarantata che possibilmente non abbia ancora letto De Martino; una tarantata che, gentilmente e abbastanza ragionevolmente, faccia quello che c’è da fare in una bella grotta, ancor meglio se di interesse paleoantropologico. “Nel contatto con le classi misere del sud, con la loro necessità di entrare nella storia, di ’essere uomini e non bestie’, Ernesto De Martino è etnologo di se stesso e della propria condizione”. (Lorenzetti 1982) Oltretutto, la condizione di De Martino era quella di borghese della città di Napoli, città di porto e dei commerci e non centro agrario. 9 A questo proposito è sufficiente far riferimento alla profondamente crociana tesi di dottorato di De Martino, pubblicata poi con il titolo Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1941, alla quale manca ovviamente l’approccio dichiaratamente marxista che esprimeranno i suoi immediatamente seguenti articoli “Marxismo e religione”, 1946, e “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”, 1949.
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Possiamo invece dire quanto segue, e affermarlo con legittima certezza. Tutte le trance rituali, e il tarantismo lo è sicuramente stato – e forse, senza troppo forzare le classificazioni, si è trattato di una trance rituale che rientra appunto nel campo delle possessioni – hanno delle strutture comuni ricorrenti. Questo l’aveva già compreso un autore che De Martino cita spesso: Jeanmaire. Questi sosteneva che ci fossero straordinari paralleli etnologici in un insieme di civiltà che ancor oggi chiamiamo proto-mediterranee10. All’interno di queste civiltà troveremmo, e difatti troviamo, un inizio di ciò che oggi chiamiamo tarantismo: culti dionisiaci, oistros ecc. o qualunque cosa simile noi si abbia la fortuna, la gioia, la volontà di investigare. A meno che, comunque, non si decida di restringere il proprio campo d’analisi, e dunque la propria interpretazione del tarantismo, alla filologia ed alla preistoria delle religioni, è possibile far riferimento alla pratica contemporanea, o almeno moderna, delle trance rituali. Con i numerosi casi etnografici direttamente osservati o anche descritti da altri autori,11 alcune riflessioni dunque si impongono. 1. Innanzitutto, quando considero la trance come rappresentazione, ho di fronte a me una specifica immagine dell’uomo, ed è una immagine dell’uomo sofferente. Questa immagine è quanto più immediatamente mi colpisce quando osservo trance rituali sul terreno: ho un uomo e una donna all’interno di una società in mutazione, in rapido cambiamento, o come tale esperita dall’attore sociale, attore passivo della sofferenza.12 Si tratta di uomini e donne che riflettono forse su se stessi. Qualcuno di questi o di queste, ha anche una volontà particolare, una volontà di uscita e non tanto dalla società, quanto da una situazione esistenziale, ovvero di uscita da sé, da se stessi. E questo non è altro che un desiderio culturale, ovvero un progetto, di muoversi, di avventurarsi, di indagare, di inoltrarsi in un percorso. E questa indagine, questo percorso è anche un percorso di trance; è anCfr. Jeanmaire 1939:147ss. Mi riferisco in particolare ai sistemi di trance dell’area mediterranea ed africana, proprio per le ricerche sul terreno da me effettuate nel Maghreb e nel Corno d’Africa, a partire dal 1974. Alcuni degli autori forse più conosciuti in questo campo sono citati nella bibliografia, da Bourguignon a Zempleni ecc. 12 A questo proposito è particolarmente significativo un saggio di Fritz Kramer, in cui l’antropologia che si occupa delle trance è stata definita come “Ethnologie der passiones”. (Cfr. Kramer 1984) 10 11
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che un percorso di modificazione degli stati di coscienza, un percorso di alterazione di stati di coscienza. Non mi voglio fossilizzare né sulle terminologie di Lapassade né su quelle di Bourguignon13. So anche di trance nelle quali non vi è alcuna forma di coscienza né alterata né modificata, per quello che mi è capitato di incontrare. Ci sono dunque trance dove osservo coscienze alterate, dove ho coscienze modificate, o altro. Ma il punto fondamentale da osservare nella prospettiva dell’attore della trance è che c’è uno “spostamento”, un movimento, una avventura, ed una tragedia in questa avventura. E in una prospettiva psicoanalitica o junghiana o freudiana, una analisi potrebbe forse essere anche una analisi dell’io, diretta comunque da un’altra persona che abbia compiuto già questo percorso o percorsi simili. Questo, palesemente, è l’insegnamento, forse la dottrina elaborata nel caso del don Juan di Carlos Castaneda e in tutta la scuola di etnometodologia.14 Ed è palese anche in quelle che noi chiamiamo le trance di visione o le trance sciamaniche, come pure nelle trance dei sufi, ovvero nelle trance che appartengono al sistema estatico. È proprio in queste ultime che incontro o posso incontrare questo maestro. Mawlaniya, gnawa, issawiya, ghaziliya… sono numerosissime le confraternite che praticano le trance rituali e presentano una guida, uno sheikh.15 Un uomo e una donna, dunque, percepiscono come una sorta di movimento interno, un mutamento, una sorta di avventura interiore; sentono il desiderio di una avventura in territori non conosciuti, all’interno dei quali si sono comunque già in parte addentrati. Una sorta di avventura interiore che filosofi come Karl Jaspers hanno chiamato Grenzerfahrung, ovvero l’esperienza delle situazioni limite.16 Si tratta di una esperienza fondamentale nella vita dell’uomo, fondamentale Cfr. Lapassade 1987, 1990 e Bourguignon 1979, 1993. Cfr. Garfinkel 1967, il fondatore di questa interessante corrente del pensiero antropologico. 15 Procedendo dal Bacino del Mediterraneo in direzione est, all’interno di questi gruppi sufi si riscontra una differenziazione crescente, passando dalle trance più estatiche alle più sconcertanti e questo per i loro attributi spettacolari, come avviene in India. 16 Sul tema della scoperta da parte dell’uomo che all’interno del proprio io ci sia qualcosa che lo trascende, vedi appunto Jaspers ed il vol. III, Metafisica, del suo fondamentale Filosofia, opera del 1932. Sul processo di trascendenza dell’io e la conseguente formazione di nuove ontologie o costituzione di nuove identità, vedi il mio lavoro sulla relazione fra l’essere e la mimesi, in Palmisano 1996. 13 14
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nella vita della donna. Ed è una esperienza che in tutte le società viene ad essere in qualche modo controllata attraverso istituti che l’antropologia chiama iniziazioni. In altre società dove non ho istituzioni di tipo dichiaratamente iniziatico trovo invece altri sistemi del controllo e della disciplina di queste esperienze. Uno di questi sistemi può essere appunto rappresentato dal controllo delle trance. 2. Posso allora analizzare la storia dell’umanità come una storia di Grenzerfahrung, desiderate o temute, comunque realizzate e più o meno controllate. Altro che tempo dionisiaco, allora! Potrei risalire ancora più indietro nel tempo, ponendomi alla ricerca del momento dell’origine della “cosciente” istituzionalizzazione di Grenzerfahrung, dunque della trance, e affermare che l’uomo si differenzia dalla bestia proprio perché conosce la trance, ovvero per la sua capacità di entrare in trance; dove lo stato di trance è da intendersi come momento di un processo di trascendenza dell’io. Posso affermare anche questo, e a ragione. Ho degli stati modificati di coscienza o stati alterati, dunque, e vi è la coscienza sociale e anche individuale di questa modificazione, di questa alterazione. E questa è una fondamentale differenziazione operata dall’uomo rispetto alla bestia. Cosa accade a questo punto della mia analisi? Rilevo che si tratta di culti antichissimi, forse proto-mediterranei. Forse è vero che ci sono degli elementi in comune fra tutti quei culti e fra culti antichi e culti moderni. Forse è vero che si potrebbe costruire una storia quasi diffusionista di questi culti. Un lavoro certamente enorme, ma realizzabile. Potrei probabilmente scoprire che in molti dei culti dell’Africa dell’Est ho non solo delle strutture molto simili a quelle che ritrovo fra i tarantati ma che addirittura ho anche delle simbologie simili. E questo è tanto più impressionante, perché nulla è più ambiguo del simbolo; eppure in questo campo ho delle simbologie simili e ricorrenti. Una di queste simbologie verte intorno all’idea dello “essere agito da”, come il venire cavalcati da un qualche essere di difficile definizione (spirito, angelo o demone) oppure come essere morsicati dalla pelosa tarantola e legato e mosso dai suoi fili multicolore, dai suoi lunghi peli carichi di riflessi: finire nella tela, impigliarsi nella rete. Nel film Morso d’amore è ben evidenziata questa metafora del filo, della rete e
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dunque del burattino.17 Certamente, era una metafora esasperata… con tutti quei fili di tutti quei colori, quasi dei coriandoli filanti in un tragico carnevale. In quel film, l’immagine della tarantata, legata e al contempo costretta a compiere uno specifico movimento, era stagliata in maniera del tutto esasperata. Ma questo “essere compulsi, essere coatti” è quello che accade in tante società e che trovo espresso con il termine “essere cavalcato da”: ho uno spirito che salta in groppa e che, come la tarantola che ti morde al collo o in aree ancora più delicate e sensibili, non ti lascia più. Ti fa soffrire dannatamente, una sofferenza da impazzire, da far sentire le tue urla ben oltre le mura della tua casa; urla che intendono sbriciolare silenzi sociali. Ti fa dunque compiere un processo dal quale non c’è ritorno. Ti fa andare troppo oltre il limite in quella che è già una esperienza limite; a meno che non ci sia una attenta guida o non ci sia stata una collaudata canalizzazione istituzionale di questa particolare esperienza. 3. Tutte queste esperienze limite, queste esperienze di conoscenza della alterità o anche, più semplicemente, di una alterità rispetto a se stessi, rispetto al proprio io, per il loro stesso dipanarsi possono certamente aprire la strada ad interpretazioni etnopsichiatriche od etnopsicoanalitiche. Ecco allora le famose dissociazioni, i dedoublement de personalité, le personalités multiples di cui parla Lapassade insieme ad un nutrito gruppo di ricercatori, nel quale sono compresi anche studiosi italiani con una più o meno elaborata lezione psichiatrica.18 Nel momento in cui le si considera malattie, però, e si elaborano specifiche terapie, queste esperienze sono considerate patologie – di fronte alle quali la medicina mostra la sua impotenza e inadeguatezza – e non sono recepiti come arricchimenti della complessità esistenziale
Il film Morso d’amore, 1981, è stato girato sotto la regia di Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti e Rony Daopulo, con le musiche di Luigi Stifani e con la consulenza tecnica di Luigi Chiriatti, leader storico del gruppo musicale Aramiré, da tempo impegnato nel rappresentare tarantelle per tarantati. A questo proposito sono in dovere di menzionare un altro gruppo straordinariamente attento alla ricostruzione filologica ma anche impegnato in una interessantissima e sperimentale innovazione della musica da e per tarantati, I tarantati di Tricarico, guidati da Antonio Infantino, eccezionale interprete di questo universo semantico ed emotivo. 18 Mi riferisco non solo a De Martino ma anche a etnomusicologi come Giannattasio (1983). 17
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dell’essere nel mondo, come veri e propri big bang epistemologici che solo la riflessione filosofica può affrontare adeguatamente. Lo stato di trance è facile da raggiungere: è sufficiente adoperare allucinogeni, e ce ne sono di ogni genere e potenziale. Anche solo ricorrendo alla botanica, se ne trovano centinaia: dall’inquietante fungo che troviamo nel bosco dietro casa, fino alla apparentemente più innocua noce moscata. È incredibile quante erbe l’essere umano è stato capace di trovare per poter disporre di allucinazioni. In una stessa società ne trovo magari due, tre o anche più e ben diverse.19 Certamente, anche un bel ragnetto poteva e può forse dare delle sensazioni forti col suo morso. Sensazioni che situano la vittima fra la depressione e la esaltazione: una sorta di ciclotimia indotta da una qualche sostanza tossica. Relativamente facile è dunque raggiungere stati modificati di coscienza. Più raro è raggiungerli con quella che veniva chiamata “la medicina perfetta”, ovvero senza assunzione di alcuna delle sostanze tossiche menzionate in precedenza. In questo ultimo caso, ritrovo delle tecniche, anche molto sofisticate, una articolata tecnologia insomma, per raggiungere gli stati desiderati e/o temuti. Più difficile è il controllo di questi stati. Ed è per questa ragione che in tutte le società, e chiarissimamente nella nostra società, come mostra l’esempio dei tarantati, l’esperienza di trance era ed è una esperienza sconvolgente, traumatica, una esperienza di grande sofferenza. È questa assenza da sé, questo non essere più se stessi, questa dialogia fra essere e non essere ad avermi sempre impressionato quando ho svolto ricerche sulle trance. È questo gioco di presenza-assenza da sé, questo essere ancora se stessi o già essere agiti da un altro essere – crudele o generoso, saponetta o ragno, quadrimotore o bomba, cane, formica, serpente, volpe, sciacallo, addirittura giraffa… – ad essere rappresentato sempre come una sofferenza, ad essere sempre esperito come sofferenza, come passio. Quale posizione assume allora la società di fronte a questa individuale crisi della presenza espressa nella ricerca di uno stato modificato di coscienza? La società trova una via di uscita, e la migliore via di uscita passa per il controllo della trance, ovvero coinPer esempio, i Guraghe dell’Etiopia ne conoscono almeno tre, dal fungo, alle pastiglie, al più originale chat, Catha edulis; quest’ultimo è un arbusto le cui foglie vengono masticate fino a formare delle palline che, trattenute in bocca per lungo tempo, rilasciano i principi attivi tanto desiderati. 19
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cide con la sua istituzionalizzazione. Il controllo inizia quindi con il sistema della rappresentazione, ovvero con il costruire una cosmologia intorno a questo stato, una cosmologia articolata elaborando ed adoperando metafore che siano in grado di guidare l’uomo in quelli che identifico come i labirinti della trance. Metafore che servono ad indicarmi la strada in una maniera indiretta, mai in una maniera diretta. E prosegue con tecniche di altro e vario genere, sempre elaborate per posizionare la trance nel contesto specifico; tecniche anche fisicomeccaniche, straordinariamente efficaci. Tecniche che vertono sulla modifica della respirazione, sulla modifica del battito cardiaco. È qui che interviene la musica; e il silenzio, che è una forma di musica. La pausa tra un suono e l’altro è parte della partitura; anche quella pausa mi permette di conciliarmi con me stesso, di riallacciarmi con me stesso a un filo, di non perdermi e di essere condotto per mano da queste dita musicali, da queste forti braccia sonore, da colori che formano e conformano nuovi luoghi, nuove case; perfino nuove patrie. Anche i colori mi conducono, mi riconducono all’interno di sicuri recinti. Musiche e colori che, diversamente dall’esser terapia, si pongono come infinite forme della guida, della compagnia: spesso, essere soli nella trance, o in cattiva compagnia, equivale a perdersi. Ma altre società dispongono di tutt’altro. Ci sono società nelle quali si esce dalle trance senza nessuna musica, con tecniche di manipolazione del naso, oppure di pressione di zone del corpo, o con la violenza: con la frusta. Si può vedere di tutto: è uno di quei campi dell’espressione così tanto affascinanti proprio perché si rinnovano di continuo! E ciò che dico oggi può darsi che già domani sia meno corretto… 4. La società crea dunque una cosmologia, ovvero rappresenta questa tragedia,20 nella prospettiva dell’individuo. Particolarmente elaborato risulta essere il cosmo descritto, per esempio, in alcuni culti di possessione praticati in Etiopia.21 I culti zar si occupano di guidare i posseduti in un universo abitato da Mi riferisco ora alle trance rituali appartenenti al sistema delle possessioni, non agli altri due sistemi che fan parte, piuttosto, di un altro universo di senso. 21 A questo proposito, per gli studi recenti, cfr. Arieli and Aychek 1994 e Aspen 1994. Gli studi classici riguardanti questi culti di possessione sono rappresentati da Leiris 1934 e 1958. Per altri studi, rimando alla presente bibliografia e al mio articolo, Palmisano 2000. 20
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qualche migliaio di spiriti diversi. Spiriti innumerevoli, certamente, e incalcolabili per i loro attributi e le loro caratterizzazioni, ma anche alquanto imprevedibili nelle loro azioni. All’interno di uno di questi gruppi con i quali lavoravo da tempo, alla fine di una delle sessioni settimanali nelle quali fra l’altro ricorrono gli stessi colori che trovo nel tarantismo – il gioco di alternanza del rosso e del bianco, la fuga dal nero, l’evitazione o ancora meglio la paura del nero –, ho esclamato,22 piuttosto improvvisamente: “Ma sapete che le terre dalle quali io provengo conoscono la possessione?” Forse sorpreso, qualcuno ha commentato: “No, non in Europa! E che cosa c’è da voi?” Ho risposto: “Un ragno”. Per tutta reazione ho ottenuto increduli versi di disgusto, soffocate grida di raccapriccio e qualche timida risata di compatimento: “Un ragno! Ma se venisse da noi questo spirito, non sapremmo cosa fare!” Una osservazione davvero giusta. Una osservazione che conferma la tesi della necessità di cosmologie adeguate all’interno di contesti culturali e politici specifici.23 Nell’assemblea di culto, quel tardo pomeriggio prevaleva l’orrore: un ragno nero, pelosissimo. Stavo sovraccaricando la descrizione; provocavo, nella mutua consapevolezza della provocazione, la reazione disgustata della assemblea della quale facevo parte. Subito, però, i fratelli e le sorelle del culto hanno aggiunto: “È un orrore, davvero. Ma siete fortunati voi, lì nelle tue terre. Perché è solo, quello spirito; mentre da noi c’è un nugolo di spiriti”. E io ho insistito: “È uno solo, certamente, ma in varie differenti versioni. C’è questa tarantola e poi quella; c’è la tarantola di un colore e quella di un altro. E c’è poi la tarantola che è già mamma da tanto tempo, la tarantola vecchia, la tarantola giovane…” Lapidaria, ha così concluso la mama: “Si, abbiamo capito: la tarantola giovane, la tarantola vecchia… Ma per voi è La conversazione qui riportata è avvenuta nel gennaio del 1994 ad Addis Ababa, durante una sessione di trance all’interno dei culti zar. Per un lungo periodo, i luoghi delle assemblee di culto – principalmente, abitazioni private – hanno rappresentato una seconda casa per me, anzi qualcosa di un po’ più di più case, dove ero accolto in un tessuto di relazioni che spesso erano anche di gioia e scherzo. 23 In alcuni contesti storici e sociali si rileva agevolmente la prospettiva politica dei gruppi di trance. In talune società ho forti connessioni fra gruppi rivoluzionari, o comunque revitalisti o millenaristi, e la prassi delle trance rituali. Ben noto è stato il caso dei dervisci come pure conosciuta è la funzione politico-militare svolta in passato dalle ribatin, ovvero quella sorta di monasteri e fortini ancora tanto diffusi nel mondo musulmano, spesso sede di confraternite che praticano la danza estatica. (Cfr. Palmisano 1991) 22
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facilissimo identificarle, rispetto a tutti i nostri spiriti…” Così diceva quella donna, la mama, la “madre dell’assemblea”.24 “Cosa accade da voi?”, chiedeva retoricamente. E concludeva temporaneamente le sue riflessioni: “Ma allora una mama fa presto ad aiutare chi è posseduto. Se ci sono 8 o 10 spiriti si fa presto ad identificarne uno con l’aiuto delle musiche e dei colori, o vedere quale è il tipo di danza; e quindi, una volta identificata, è semplice ricorrere ad adeguati rimedi. Da noi è invece più difficile il compito”. Una buona domanda potrebbe essere allora: “Perché in una società, che pure ha una cosmologia isomorfa, c’è questa idea di un orrore, percepito come intervento estraneo di possessione, c’è questa percezione di un attentato, di un attacco all’essere umano, con una molteplicità pressoché infinita di fattori, ovvero di attori – sempre nel mondo della rappresentazione –, mentre in un’altra società non ho questa molteplicità ma trovo semplicemente una solitaria tarantola? Una sola tarantola in una società, anche se in alcune (8 o 10) diverse forme, mentre in altre società ho anche migliaia di spiriti?” E si tratta di domande che richiedono risposte, perché le risposte a queste domande possono contribuire ad una teoria delle trance. Quello che possiamo fare noi come pugliesi, come abitanti di queste terre di antichi ed esperti tarantati, è continuare a ripensare il tarantismo. Ma con un certo distacco da quella che era stata la tradizione dei nostri “padri ideali”. E questo perché quelle fonti sono molto deboli. Non invito a tanto sacrilegio per passione verso un decostruttivismo che ancora oggi, sempre più tardivamente, mi appare imperante; ma perché queste fonti sono poco consistenti. Ad una analisi antropologica, questi resoconti non reggono. I racconti dei miei sacerdoti o dei medici dalmati che viaggiavano per la Puglia nei secoli scorsi sono certamente interessanti, ma sotto l’aspetto storico. Forniscono anche un contributo allo studio delle strutture della trance in questo paese? E in che modo potrebbero davvero farlo? Ci troviamo di fronte a una sorta di tragedia turistico-scientifica: io non ho più un solo tarantato con il quale parlare. Se voglio trovare un Nella terminologia dei culti zar, la donna che si occupa della guida delle trance viene chiamata “madre”. Anche nel tarantismo è evidenziato un fortissimo rapporto fra madre e figlia, fra tarantola e tarantella. Rilevo dunque questo parallelo fra i due culti, un parallelo riguardante la netta concettualizzazione in termini femminili della struttura delle relazioni interne al gruppo di culto, ma rinvio la mia analisi ad una prossima pubblicazione. 24
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tarantato, oggi come oggi, per poco che abbia intenzione di viaggiare, devo rivolgermi all’Africa. Ma non è da pensare che qui li abbiamo guariti. Piuttosto li abbiamo scacciati ed emarginati, i nostri tarantati! Lunga vita ai tarantati! Speriamo di incontrarne qualcuno, prima o poi, intorno al 29 giugno, a Galatina o nei dintorni. Bibliografia Arieli, A. and Aychek, S. “Mental Disease Related to Belief in Being Possessed by the Zar Spirit”, in Harefuah, 1994:636-642. Aspen, Harald “The bala wuqabi -Servant of Spirits and Men”, in Proceedings of the 12th International Conference of Ethiopian Studies, East Lansing, Michigan: The Red Sea Press Inc., 1994:791-815. Bastide, Roger Le candomble de Bahia (Rite Nago), Paris, Mouton, 1958. Bourguignon, Erica Psychological Anthropology, New York, Rinehard & Winston, 1979. Braukamper, Ulrich “Besessenheitskulte”, in Die Kambata, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag, 1983:256-269. De Martino, Ernesto Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Bari, Laterza, 1941. “Marxismo e religione”, in Socialismo, II, 1946. “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”, in Società, V, 1949. La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1961. Garfinkel, H. Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs N.J., Prentice Hall, 1967.
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Silenzio, suono e parola divina nei culti zar dell’Etiopia Antonio Luigi Palmisano
Abstract Silence, sound and the divine word in the zar cults of Ethiopia A man, who has become a Divinity, speaks in a state of trance. He speaks a language that is absolutely not comprehensible and reaches directly another man, the aggafari, his assistant. The aggafari translates in Oromo and Amharic so that everybody will understand what the Divinity is saying. The suppliants must still answer and are helped to formulate their answers by the more expert and by other specialists of the cult. The word of Divinity is a rhythmic song, sung at great speed. Before a sentence is finished, the aggafari has already caught the rhythm and proceeds thus with the translation keeping the same rhythm until the sentence is fully translated. When the Divinity gives the second answer the rhythm can change. The principle remains nevertheless the same: the translation starts before the end of the answer but it is always developed following the new rhythm. The rhythm is caught again before the end of the answer and its speed, musicality as well as cadence are respected. This game of questions and answers goes on. Considerable pathos can be perceived within the group of believers. The voice and the sounds heard can be fascinating for those who do not understand Oromo or Amharic, who do not know what the aggafari says. But if we understand the words of the Divinity there are good reasons to be terrified. During this particular night there was a trial in which decisions about the life or death of a woman were being taken. The aggafari, speaking to that woman was specifying: “nobody has to confess his guilt… in your place”. Keywords: ritual trance, Ethiopia, political anthropology, judgement, possession
I termini trance e traduzione hanno in comune più della semplice preposizione latina trans: qualcosa che ha luogo in entrambi i proces-
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si. Un caso etnografico, fornito dalla composita situazione etnica degli Altopiani dell’Etiopia, ci permette alcune osservazioni sui processi di trance e apre ad altre riflessioni sul concetto di traduzione. Agiti, co-attori e attori della trance1 Siamo spesso invitati a considerare la traduzione come un processo di appropriazione, di re-contestualizzazione, come metafora del processo di collegamento delle differenze, come pratica dell’affrontare la diversità. Tutte queste definizioni sono di fatto stimolanti e ci portano a riconoscere l’esistenza di almeno due mondi che comunicano, oppure che intendono comunicare, e pertanto si affidano a processi di traduzione. Questi mondi appaiono, ovviamente, differenti: diversamente sarebbero destinati all’immediato congiungimento, dunque rivelerebbero un’identità. In cosa consiste, ora, una trance? La letteratura etnografica parla di stati modificati di coscienza, talvolta di stati alterati di coscienza; considera in particolare le cosiddette trance di possessione, oltre che le trance di visione e le trance estatiche.2 Certamente, la letteratura si concentra sulla prospettiva dell’attore sociale, il protagonista della trance. Questi pare “essere agito” da altra entità, spirito, forza, Divinità o altro, secondo le teorie locali e accademiche dello specifico culto in questione. Nel caso dei culti zar dell’Etiopia,3 l’attore sociale può “essere cavalcato” da uno dei nuIl presente saggio – versione rivista e corretta di Palmisano, A. L. “Esercizi in mistica pagana: suono e parola divina nei culti zar dell’Etiopia”, in Africa, LVII, 4, 2002:471-501 – fa parte di una serie di studi, risultato di ricerche condotte continuativamente in Etiopia dal 1992 al 1996 e in successivi soggiorni. Ringrazio in modo particolare Paul Baxter e Ron Reminick per la lettura della prima stesura di questo scritto e per i loro commenti articolati, precisi e stimolanti, e il poeta Giulio Stocchi e l’artista Maurizio Predasso per le loro indicazioni e generose osservazioni. 2 Su questa classificazione e per la teoria dei culti di trance, cfr. Palmisano, A.L. “On the Theory of Trance: The zar Cult in Ethiopia”, Kea, 13, 2000. 3 Per altre descrizioni dei culti zar in Etiopia, cfr. Conti Rossini, Carlo “I camminatori sul fuoco in Etiopia”, Rassegna di Studi Etiopici, 1943:94-110; “Magica”, Rassegna di Studi Etiopici, IV, 1946:73-76; oppure v. Lewis, Herbert S., “Spirit Possession in Ethiopia: An Essay in Interpretation”, in Proceedings of the Seventh International Conference on Ethiopian Studies, April 1982. Addis Ababa: Institute of Ethiopian Studies, 1984:419-427; 1
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merosissimi spiriti protagonisti del culto. Questa esperienza, sconvolgente e dolorosa nella prospettiva emica, avviene durante lo stato di trance dell’attore sociale, lo ye zar faras, il “cavallo dello zar”, la cui azione consiste appunto nello “essere agito”.4
“Values and Procedures in Conflict Resolution among Shoan Oromo”, in Proceedings of the Eighth International Conference of Ethiopian Studies, Vol. II. Addis Ababa: Institute of Ethiopian Studies, 1989:673-678; ma soprattutto, per questi culti fra gli Oromo cfr. Baxter, Paul T.W. “An Arsi Woman’s Neighborhood Festival”, in Colloque International sur les Langues Couchitiques et les Peuples qui les parlent. Centre National de la Recherche Scientifique, 1969 ed “Atete in a Highland Arssi Neighborhood”, in Northeast African Studies, 1, 2, 1979:1-22, come per i culti zar in ambiente Amhara cfr. Reminick, Ronald A., “The Evil Eye Belief Among the Amhara of Ethiopia”, in Ethnology, 13, 1974:279291; “The Structure and Functions of Religious Beliefs among the Amhara of Ethiopia”, in Proceedings of the First United States Conference on Ethiopian Studies, 1973. East Lansing, Michigan: Michigan State University, 1975:25-42. I culti sono comunque altrettanto presenti in Somalia, cfr. Lewis, Ioan Myrdin, “Spirit-Possession in Northern Somaliland”, in Beattie, J. and Middleton, J. (eds.), Spirit Mediumship and Society in Africa. London: Routledge and Kegan Paul, 1969:188-219; Ecstatic Religion. A Study of Shamanism and Spirit-Possession. New York: Penguin Books, 1971; “Zar in Context: The Past, the Present and Future of an African Healing Cult”, in Lewis, I.M. and Ahmed Al Safi and Sayyid Hurreiz. (eds.), Women’s Medicine. The Zar-Bori Cult in Africa and Beyond. Edinburgh: Edinburgh University Press for the International African Institute, 1991:1-16. Sempre con lo stesso nome sono presenti in Eritrea e anche in Sudan, cfr. Ahmed Al-Shahi, “Spirit possession and healing: the Zar among the Shaygiyya of the northern Sudan”, British Society of Middle Eastern Studies Bulletin, 1984:28-44; Boddy, Janice, “Spirits and selves in northern Sudan: the cultural therapeutics of possession and trance”, American Ethnologist, 1988:4-27; ma soprattutto cfr. l’ottimo lavoro di Böhringer-Thärigen, Gabriele Besessene Frauen. Wuppertal: Ed. Trickster im Hammer Verlag, 1996; e perfino in altri paesi, cfr. per esempio Natvig, R. -”Liminal rites and female symbolism in the Egyptian zar possession cult”, Numen, 1988:57-68; oppure Shimizu, Yoshimi “Uno studio delle vie di diffusione dei culti ’zar’ verso i paesi del Medio oriente [in Giapponese]”, Bulletin of the National Museum of Ethnology. Osaka, 1985:1123-44. Sulla teoria dei culti zar hanno scritto numerosi autori: cfr. per esempio Kramer, F. “Notizen zur Ethnologie der passiones”, Kölner Zeitschrift für Soziologie. Soziologie als Sozialwissenschaft, Sonderheft 26. Opladen, 1984; Der rote Fez. Über Besessenheit und Kunst in Afrika. Frankfurt am Mainz: Athenaeum, 1987; oppure v. Lapassade, G. Essai sur la trance. Paris: Jean-Pierre Delarge, 1976; Les états modifiés de conscience. Paris: PUF, 1987; La trance. Paris: PUF, 1990. 4 Zar ha forse a che fare con la radice semitica zar, dunque con significato di “visita”, indicando pure qualcuno che “viene”, che “raggiunge” o “scende” ecc. ma anche “affligge” (cfr. per esempio nell’arabo antico e moderno il verbo zara-yazuru, che significa “visitare” ma anche “infastidire, affliggere”). Ma chi deve venire, spirito o uomo o Divinità che sia, è anche e soprattutto il Messia. Resta comunque impossibile ignorare come nella mistica musulmana e pre-musulmana il termine zar indica un colore, il colore oro, che insieme al blu esprime la pienezza dell’anima che ricerca la Divinità; mentre el hidr indica il verde, poi identificato nel cristianesimo più tardo con la figura di San Giorgio. Per quanto
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Ma che ne è poi degli altri partecipanti al rituale, di quanti sono presenti e in diversa misura fungono da co-attori? Ed infine, che dire dello specialista, il professionista della trance rituale, il bale zar, anche chiamato bale wuqabi, “signore degli spiriti”,5 che presiede la sessione di trance e agisce come incarnazione della Divinità, tanto da sacerdote del culto come pure da maestro nell’esperienza di trance nei confronti dei nuovi adepti e/o del cosiddetto malato? Questi pare agire da interprete, più propriamente da traduttore. Il linguaggio adoperato dagli spiriti per parlare ai malati durante il rituale di trance come pure la stessa lingua liturgica del bale zar, oltre ad essere altamente complessa sotto l’aspetto lessicale e grammaticale, è una lingua che opera esclusivamente per metafore (traslati, iperboli, metonimie, sineddochi ecc.) arditissime e complesse, anche surreali. Questa lingua necessita pertanto una traduzione. Non è però una traduzione che riguarda il topos della glossolalia, ovvero la traduzione di lingue straniere. Si tratta piuttosto di una duplice attività di traduzione. Il mio lavoro tenta di rispondere sostanzialmente a queste due domande: da cosa e in cosa traduce, e che cosa esattamente traduce il bale zar? La risposta mostra come la traduzione che egli opera è tutt’altro che linguistica, ovvero è un trans-latum sociale, politico ed esistenziale; e permette alcune riflessioni sul significato di traduzione in letteratura e in linguistica. Il “signore degli spiriti” traduce un mondo ad un altro, ma soprattutto trasporta un uomo in un altro mondo, al di là dei limiti di questo, in una zona limbo, che segue la vita e precede la morte.
riguarda il termine faras, “cavallo” in amharico, è invece impossibile non rilevare la sua assonanza con il sostantivo persiano firas che indica “chiaroveggenza”. 5 In amharico e nelle lingue semitiche, con il termine bal s’intende “proprietario, padrone, signore, maestro ecc.”; in poesia, ma anche nel linguaggio figurato, il termine bale indica un “messaggero”.
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Il caso etnografico: Garesu e Wofa Paese complesso, l’Etiopia presenta numerosi gruppi etnici, circa 78, in continua e complicata interazione, talvolta problematica e solo apparentemente prevedibile.6 Gli Oromo sono i più numerosi, seguono quindi gli Amhara, i Tigrini, i Guraghe, i Somali, gli Afar e tutti gli altri. In quasi tutte queste società sono praticati i culti di possessione. Ho avuto modo e occasione di venire a contatto con numerosi gruppi di culto e di conoscere specialisti della trance nei diversi contesti etnici, economici, politici e culturali del paese.7 In qualche modo, la contrapposizione fra gli stessi gruppi, ovvero la loro base etnica mi pare essere di significativa rilevanza per la loro strutturazione. Il caso etnografico di Garesu e del culto di Wofa è di particolare interesse: lungi dal poter essere banalmente liquidato come “sincretismo religioso”, è un momento straordinario di costruzione di comunità, di moderne comunità territoriali in grado di superare divisioni etniche. Questo caso illustra un culto di possessione praticato sugli altopiani dell’Etiopia in un contesto chiaramente interetnico, sebbene la componente Oromo prevalga sulla componente Amhara. Il leader, un potentissimo “cavaliere di spiriti” quando incarna la Divinità Wofa, parla agli uomini una lingua sacra che viene tradotta in consecutiva in oromo e in amharico da un altro specialista del culto, lo aggafari. Anche il processo di traduzione avviene in stato di trance, di fronte a numerosi fedeli,
Un giovane collega, dopo aver affermato di aver compreso tutto dell’Etiopia e di sapere tutto di Oromo e di Amhara, chiedeva dove fossero finiti i Galla, se fossero stati sterminati durante le guerre o se avessero lasciato il paese con un massiccio esodo. Quando poneva domande del genere sulla fine dei Galla, nessuno dei colleghi etiopici gli ha spiegato alcunché, per una questione di buone maniere. 7 Molti di questi gruppi religiosi hanno avuto un’incidenza politica ed economica notevole nella storia dell’Etiopia. Per esempio, un gruppo che poteva contare su decine di migliaia di seguaci era condotto durante gli anni ’60 e ’70 da Lijj Taye, un notissimo personaggio pubblico scomparso durante il periodo di governo di Mengistu Hailemariam, considerato da quest’ultimo come vero e proprio oppositore politico di rilievo, oltre che leader religioso. Con l’eliminazione dalla scena politica di un personaggio di questa portata, si può avere il crollo economico di vaste aree rurali ed anche urbane. Spesso, infatti, l’intera economia di una regione ruota intorno alle attività avviate da questi leader attraverso la fondazione di santuari e fiorisce in virtù della dinamica dei pellegrinaggi nei luoghi di culto. 6
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in un tempio particolarissimo, all’interno di un santuario fondato dallo stesso Garesu e dai suoi seguaci. Il villaggio-santuario si trova a poche ore di guida da Addis Ababa, in direzione nord est.8 Non è direttamente visibile dalla strada asfaltata e non vi sono cartelli che lo indichino, sebbene sia il centro per eccellenza della pratica rituale di un gruppo religioso numericamente consistente, al contempo comunità etnica e politica.9 Un alto recinto di spine di rovo sovrastante un muretto a secco e una porta di ingresso che si erge nella monotonia paesaggistica dell’altopiano etiopico attirano prepotentemente l’attenzione del viaggiatore, ma anche di chi già vive nella regione. Sono strutture che rivelano un assetto sociale ed economico del tutto particolare. Tutti questi assunti culturali immediatamente visibili non sono gli stessi rinvenibili altrove in Etiopia: sono dunque da scoprire.10 Non si tratta di un semplice luogo secolare, collocato nella suggestiva campagna dell’altopiano, ma di altro: il luogo dove si praticano in massa culti di possessione. Rafforzato dal muraglione di spine, il muretto a secco, in una zona dove già è difficile trovare semplici pietre, è il perimetro, il confine, il limite invalicabile di un luogo sacro, allo stesso tempo, la definizione dell’identità di Garesu e di quanti fanno riferimento a lui. L’entrata del perimetro può essere consentita direttamente solo dalla sua persona. Seduto su una sorta di trono, un confortevole sgabello a tre gambe Preferisco riferire il nome e la posizione di questo peraltro sperduto villaggio a colleghi antropologi che me lo richiedano direttamente perché interessati ad approfondire specifiche ricerche; e questo proprio per evitare un eventuale turismo del fenomenale. 9 Ho avuto accesso a questo villaggio-santuario fortificato grazie a Liliana De Martini, la straordinaria nipote dello Imperatore Lijj Yasu, legittimo erede al trono di Menelik. Lijj Yasu, figlio della figlia di Menelik, era morto di veleno nella prigione in cui Ras Tafari Makonnen lo aveva fatto rinchiudere prima di potersi incoronare imperatore di Etiopia con il nome di Haile Sellassie. Liliana De Martini, nipote di un “imperatore incompiuto” molto stimato, soprattutto in ambienti musulmani, godeva di grande prestigio e forti simpatie presso molti di questi gruppi religiosi. I loro leader le lasciavano libero accesso ai luoghi di culto, e manifestavano massima disponibilità di fronte alle sue inespresse richieste d’ospitalità. A lei devo molto per la conduzione di questa ricerca e per altre illuminanti descrizioni dell’Etiopia. Questo articolo è dedicato alla sua memoria. 10 L’antropologo si ritrova ad apprendere e vedere dunque costrutti ed azioni sociali di tale complessità ed originalità – e conseguentemente, a rilevarli per tali – non con i propri occhi ma con quelli dell’altro, con gli occhi dell’attore sociale. 8
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chiamato “trono della salute”, il bale wuqabi accoglie fuori della porta i visitatori, di solito molto numerosi. Per questa porta però entra solo chi è invitato. Uomini sono accampati nei dintorni, fuori del recinto. Aspettano di essere ammessi al suo interno; ed aspettano per settimane, se è il caso. La porta d’ingresso, chiaramente visibile da lontano, è impressionante. Non ha solo una tettoia: piuttosto, è una porta doppia. La prima porta è d’immediata identificazione, e di giorno rimane aperta; mentre la seconda porta, più interna, si trova chiusa. Gli alti muraglioni di rovo recintano rigorosamente alberi di ogni genere, anche varie piante da frutto, campi e costruzioni. Una poderosa tettoia sormonta la porta d’ingresso; e questo, in piena campagna. Porta, tettoia e muraglione segnano con forza, sottolineandola, una differenza, una profonda discontinuità nel cosiddetto ambiente naturale: si tratta di un nodo territoriale di grande portata. Il recinto segna infatti l’inizio di un’enclave, di una comunità locale e/o di discendenza; un’enclave politico-religiosa. Si tratta di diversi ettari di terreno ben curati, senza sterpaglie all’interno. Questo tipo di comprensorio – composto da bosco d’eucalipto, piantagioni, orti e caseggiato recintato – assomiglia ad una piccola cittadina: ha decisamente un assetto urbano. Una strada lastricata si diparte dalla porta d’ingresso, conducendo ad una prima piazza dove si arriva a piedi in breve tempo ed abbastanza agevolmente. All’interno della recinzione sono collocate diverse costruzioni. Garesu, infatti, cerca di ingrandire il suo villaggio e fa coltivare i campi anche all’esterno del caseggiato, ordinando di piantare alberi di continuo. Il contesto geomorfologico della regione è segnato da un’erosione forse inarrestabile, ma certamente rallentata dall’attività di quest’uomo tramite la riforestazione e la coltivazione appropriata e continua dei campi. Il bosco d’eucalipto, per le sue piante d’alto fusto, è ampio e rigoglioso; ma anche coltivazioni di quasi tutto ciò che può crescere a quella quota, -alberi da frutto, ensete, legumi e soprattutto orti- sono ottimamente curati.11 Un’intensa apicoltura complementa le attività Anche il t’ef è coltivato, sebbene la prevalenza etnica del gruppo locale non sia data dagli Amhara, i primi consumatori ed estimatori di t’ef in Etiopia. Si coltivano dunque soprattutto legumi e piante pregiate, altrimenti di difficile crescita nel contesto ecologico 11
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agricole. L’operato di Garesu consiste infatti anche in un tentativo di recupero delle risorse economiche ed ambientali, e pure -almeno nella terminologia dell’economia di mercato- umane. Si tratta di un impegno economico e politico non indifferente. A questo scopo, pastori e contadini lavorano pacificamente, dentro e fuori del villaggio. L’interno e l’esterno del caseggiato sono molto ben delineati. Non solo dai muretti a secco, ma anche dalle strade lastricate che marcano l’urbanizzazione vera e propria, con una rete idrica e fognaria di base e soprattutto con la fondazione di servizi specificatamente dedicati al trasporto di merci e persone, e alla comunicazione. Una comunicazione fra l’interno del caseggiato e l’esterno, piuttosto che il suo contrario, fra l’esterno e l’interno.12 Il ciottolato è in pietra dura, e questo in una regione che ha due stagioni; nella stagione delle piogge è diversamente impossibile camminare nel fango ed è frequente lo sprofondare fino alle caviglie: il ciottolato evita questa difficoltà. I tetti delle costruzioni in pianta rettangolare poste in prossimità dell’ingresso sono in lamiera, korkorò; un’espressione di modernità ma anche di ricchezza spesso non indifferente, almeno nel contesto locale. Le abitazioni sono costruite con fango su una struttura di legno. Hanno pareti levigate, tetti più frequentemente in legno e frasche.13 Tutto il complesso risulta impressionante, soprattutto sotto l’aspetto sociale ed economico. In quest’assetto territoriale è dimostrata la capacità d’identificare e trasformare risorse, anche ma non solo economiche, posseduta da Garesu. E molti uomini e donne, con i loro enormi problemi di sopravvivenza in ambienti sociali e economici altamente imprevedibili, sono attratti da questi poli del benessere e della ricchezza. Un tale impianto urbano è decisamente inusuale rispetto agli altri insediamenti contadini situati sugli altopiani dell’Etiopia. La stessa specifico, come lo ensete, una pianta di grande capacità produttiva che ha esigenze climatiche e di composizione dei suoli ben diverse da quelle dei cereali. 12 Interesse di questa comunità è la trasmissione verso l’esterno di una comunicazione prodotta al suo interno, anziché la ricezione di una comunicazione emessa dalla società esterna. 13 Garesu ha fatto allontanare tutti perché io potessi scattare fotografie in tutta calma. E questo per varie ragioni, principalmente locali e politiche. C’era un villaggio intero dedito alle consuete attività quotidiane: è stato fatto rientrare in casa perché non disturbasse mentre riprendevo immagini.
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poderosa cinta muraria, 3-4 metri almeno d’altezza per una profondità di 2-3 metri, delinea nettamente la specificità del luogo nello spazio rurale dell’altopiano. Questo limite aggiuntivo, è impressionante: non solo barriera ma anche confine chiaro e indiscutibile. Lo spazio interno è ben delimitato ed è definito in contrapposizione con l’esterno. Il perimetro non può essere oltrepassato: l’entrata non è consentita senza la previa approvazione del bale wuqabi. Chiunque entri per quella porta inizia, di fatto, il cammino dell’adepto. All’interno del caseggiato è costituito una sorta di paese di Bengodi, un luogo della salute e della sicurezza, un giardino del benessere, una sorta di città ideale dalla quale si rischia di essere cacciati come da un paradiso. Terminologie ricorrenti richiamano a queste espressioni, vicine a quelle che definiscono altri simili luoghi come città dell’utopia o luoghi utopici tout court. È qui che viene realizzata una sorta di utopia in terra. E capita, appunto, che villaggi-santuario di questo genere, rintracciabili talvolta sulle cime più alte dell’altopiano etiopico, si chiamino proprio gennet, paradiso. Passo per le due porte e penetro all’interno del luogo di culto, ovvero del villaggio-santuario. Mi dirigo verso il suo centro. Si tratta di una capanna di circa 15 metri di diametro, con un enorme palo centrale che sostiene il tetto ed una struttura muraria del tutto particolare al suo interno, inframezzata da tende. (Cfr. schema 1) Nel tempio si trovano alcuni personaggi, i protagonisti di una straordinaria performance: Garesu, che quando diventa Dio in terra si chiama Wofa; lo aggafari, ovvero il suo aiutante, il cosiddetto “custode delle porte invisibili”; e fedeli in gran numero. Inizia così dunque un particolare processo di traduzione. La Divinità, protetta e nascosta da un muro, parla una lingua incomprensibile; al di là del muro-confine interno che segna lo spazio strettamente e assolutamente sacro, il nonluogo per eccellenza, si trovano i credenti; mentre, seduto per terra all’interno dello spazio sacro per antonomasia, eppure vicino alla porta-tenda più prossima ai fedeli, lo aggafari traduce in due lingue. Traduce dalla lingua divina, che risulta a tutti gli uomini ugualmente incomprensibile, in due lingue umane, diversamente contrapposte ma entrambe a tutti comprensibili. In questo caso, le due lingue terrestri costituiscono un’unità in giustapposizione all’incomprensibilità della lingua divina. Un momento dunque di unità fra i credenti: unità e comunanza di esperienza, l’esperienza del sacro espressa politicamente.
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Schema 1. Schema del processo di trasformazione e traslazione della parole nel gelma
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Uomo e Dio: l’autore Il villaggio-santuario è stato fondato da Garesu, leader politico e religioso che all’occorrenza è anche leader militare. I suoi confini chiaramente fondano un luogo: un luogo sacro dove si praticano culti di trance in forma di culti di possessione.14 Il Dio Wofa discende su Garesu, e questo impressiona particolarmente i suoi seguaci. Spesso altri spiriti visitano Garesu, spiriti meno complessi, più facili da comprendere, con i quali la comunicazione risulta più semplice. Garesu è comunque in grado di “cavalcarli” tutti: è un potentissimo bale wuqabi. All’occorrenza, il gashe poteva o può diventare anche ras, capo politico-militare di un gruppo etnico, ovvero di un gruppo di discendenza e/o locale: egli è uno “scudo”.15 Nella prospettiva emica, questo suo essere in grado di proteggere la comunità è infatti associato alla sua capacità di entrare in contatto diretto con la Divinità, un Dio in questo caso dal carattere molto difficile, Wofa, Divinità di un pantheon minore. I seguaci del culto sono numerosi. Oltre alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia e allo Islam vi è infatti in Etiopia una forte presenza di credenti che praticano culti locali, ovvero di quella che posso legittimamente definire la Terza Confessione, un esteso insieme di culti e religioni locali che si affiancano alle due confessioni internazionali. La Divinità in questione, Wofa, si manifesta in determinati giorni del calendario rituale. Garesu stesso diviene la Divinità, e parla. Quando parla, giudica; e questi giudizi si risolvono in sentenze. Due partiti in disputa si recano al tempio: chiedono un consiglio, un parere, un intervento. L’uomo, Garesu, entra dunque in trance e quando la Divinità lo pervade, nella prospettiva degli attori sociali, diviene di fatto la Divinità, Wofa. Nella sua mente esiste allora solo il Dio, e può giudicare “il caso”. Egli definisce e risolvere momenti di disordine e di sofferenza all’interno della comunità, dovuti a contingenze interne Cfr. Palmisano, A.L. “Sein and Mimesis”, in Fleerackers, F., van Leeuwen, E. and van Roermund, B. (eds.), Law, Life and the Images of Man. Modes of Thought in Modern Legal Theory. Festschrift for Jan M. Broekman. Berlin: Duncker and Humblot, 1996; “On the Theory of Trance: The zar Cult in Ethiopia”, in Kea, 13, 2000; “Trance and translation in the zar cult of Ethiopia”, in T. Maranaho (ed.), Translationes, Proceedings of the International Conference on Intercultural Understanding, University of Leipzig, Leipzig 27.09-01.10.2000, Germany. Tucson: Arizona University Press, 2002. 15 Gashe, letteralmente “scudo” in amharico, è titolo onorifico ed anche forma di cortesia all’indirizzo di chi si riconosce dotato di carisma e autorità. 14
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ed esterne; dirime controversie e compone liti. Il giudizio formulato da Garesu in queste precise situazioni liturgiche e rituali è definitivo, senza possibilità d’appello. Una volta pronunciatasi, infatti, la Divinità non può essere discussa. Nessuna parola fonda quanto la parola divina. «Garesu sta arrivando: gashe Garesu! Un uomo dai profondi occhi fiammeggianti, scavati in un volto altrimenti impassibile. Tarchiato, con un torace molto ampio, robusto ma non grasso, di media statura, con un collo taurino che regge una testa perfettamente rasata. Un vero “scudo” di 70 anni d’età. Sta seduto: tutti i visitatori s’inginocchiano e baciano la terra prima di osare avvicinarsi a meno di cinque-dieci metri da lui. Appena sono vicini, gli baciano la punta del piede e poi la caviglia, iniziando con un piede e quindi procedendo all’altro. Dopo aver baciato i piedi, i fedeli gli baciano le mani, se lui lo permette. Ha la grandezza di alzarsi sereno dal suo “trono della salute” e di salutarmi stringendomi la mano all’europea. L’espressione del suo volto oscilla fra dolcezza e severità quando i fedeli gli rendono omaggio. Alcuni gli consegnano denaro, ognuno ha un dono. Spesso si tratta di caffè, zucchero o qualche oggetto raro o curioso che lui può aver richiesto precedentemente: un uovo di struzzo ma pieno, una parrucca, un coltellino svizzero, una fotografia di Clinton…»16 Garesu è rappresentato come un’autorità, un uomo di potere, uno ’scudo”, un protettore della propria come pure di altre comunità. “È un uomo colto, conosce il mondo, parla diverse lingue”, si dice di lui. Oltre all’oromo e all’amharico, il bale wuqabi parla un linguaggio di simboli e di gesti inequivocabili. Lo aggafari non lo affianca in queste occasioni. Ma quando il Dio Wofa si manifesta in Garesu o per Garesu, la presenza di un’alterità profonda e sconvolgente richiede l’intervento di un interprete, di un mediatore. Tout court, un medium. (Cfr. schema 1) «Sono le due del mattino. Entro nel gelma, già pieno di fedeli per le suppliche. Mi lasciano passare, con fatica. Non vi è più posto: 100-120 fedeli in un tempio di 15-16 metri di diametro. Mi fermo a pochi metri Riporto integralmente le mie prime impressioni, tratte dagli appunti presi sul terreno. Avevo scritto questo passo la sera del primo giorno passato in quel gelma di Garesu. 16
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dallo aggafari. Dopo aver atteso per alcuni giorni, Wofa è finalmente sceso; e questa è la ragione per la quale mi hanno svegliato. Wofa sentenzia e risolve ogni problema, Wofa giudica, Wofa risponde. La sua risposta rimbalza ai supplicanti attraverso lo aggafari. (Cfr. schema 1) Nella risposta i supplicanti sono aiutati dai più esperti o anche da qualche apprendista bale wuqabi. Il canto di Wofa è molto rapido e ritmico. Prima che sia terminato, il fraseggio è seguito dallo aggafari che traduce in oromo e poi in amharico alla stessa velocità, musicalità e ritmo. Il supplicante cerca di entrare in quello stesso ritmo mentre pone le sue domande, ma non sempre vi riesce. La sua supplica è trasmessa con lo stesso canone dallo aggafari a Wofa. Infine, la risposta va da Wofa allo aggafari e da quest’ultimo al supplicante; e quindi di nuovo vice versa. La prossima parola è del supplicante; l’ultima parola appartiene esclusivamente a Wofa. Il canto è incredibilmente melodioso, incalzante, affascinante, ipnotico. Qualche supplicante piange. I volti mostrano sofferenza, un intenso pathos è nell’aria. Alcuni mentono durante la supplica. Non hanno il coraggio di confessare pubblicamente le loro colpe, i loro problemi. Temono di compiere passi falsi. Una giovane donna, accompagnata dalla madre, mente. La sua menzogna viene immediatamente scoperta da Wofa e ora è stravolta dal terrore. La giovane si getta per terra, striscia disperatamente fra le nostre gambe e sui piedi; striscia invocando il perdono che non ottiene. ’Presto morirai!’, dice la voce dello aggafari, che in amharico aggiunge: ’…o tua madre morirà al tuo posto!’.»17 Il culto di Wofa costituisce sostanzialmente dei grandi momenti di comunità, ovvero di mutua comprensibilità: fonda i presupposti per l’efficace costruzione di un linguaggio comune, disegna la Torre di Babele prima della sua caduta. Ma quale è l’oggetto di questo scambio comunicativo? Il supplicante, in questo caso si tratta di una giovane donna, sembra aver compiuto qualche cosa di grave: avrebbe avvelenato la madre del marito. In questo contesto sociale e religioso, “avvelenare” è un’azione che si ammanta di numerosi significati, ed è un verbo che possiede uno spettro di significati decisamente diversi da quelli evo17
Continuo a riportare passi tratti dalle mie note sul terreno.
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cati nel nostro mondo. Nessuno sapeva dell’avvelenamento, vero o presunto, fino a quella notte; anche se certamente non si può escludere che qualche voce già corresse. La donna chiede di se stessa, della propria vita, di che cosa farà un giorno o l’altro, di che cosa accadrà, quali saranno i rapporti con la comunità, come andranno le cose nel suo mondo. Questo è quanto lei chiede alla Divinità, a Wofa, che per ora assume le sembianze dell’uomo Garesu, è nel corpo di Garesu. Il suo titolo onorifico è gashe, ovvero “scudo”; e lo scudo è lì, in effetti, dietro la tenda, dietro il muro: è la difesa della comunità. Si tratta di un Dio, e non di un uomo che sta seduto dietro un muro. Nello hic et nunc sociale ed esistenziale Garesu è un Dio: un Dio che parla e giudica. I linguaggi dell’uomo e della Divinità Il tempio, il gelma, è il luogo del parlare della Divinità. La Divinità parla in una lingua non umana, non comprensibile dagli uomini. Viene tradotta in simultanea dallo aggafari, “il custode della porta”, in oromo e in amharico, in modo che tutti comprendano. Ma il supplicante non è in grado di comprendere perfettamente quanto è stato tradotto: il linguaggio è permeato di simbologie complesse e di metafore ardite, anche di crittogrammi fonetici di difficile accesso. Tutti contribuiscono allora all’interpretazione, soprattutto coloro che hanno o rivendicano una maggiore esperienza nel campo liturgico e rituale. La risposta, ovvero il proseguire nella formulazione di altre e più specifiche domande, viene formulata dal supplicante con l’aiuto effettivo di chi lo ha coadiuvato nel lavoro di interpretazione. La Divinità canta un canto ritmato, ripreso dallo aggafari che riporta alla Divinità le parole del supplicante e le rende musicali dando loro un ritmo che ancora non avevano quando il supplicante ha cominciato a parlare, spesso con voce rotta dall’emozione se non dal pianto: musicalizzazione, parola e traduzione. Il terrore s’impadronisce comunque di una donna che ha mentito. Questi culti, lungi dall’essere esotici, “anomali”, limitati fenomeni, selvagge performances dell’uomo, sono piuttosto il paradigma di for-
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me altre dell’organizzazione sociale e politica della società, di strutturazione e di interpretazione del mondo, di un mondo “altro”. I protagonisti in questo culto sono innanzitutto Garesu, che nella sua veste di Dio in terra è chiamato Wofa, e lo aggafari; ma anche la comunità dei credenti. Il processo di traduzione è molto particolare. La Divinità parla dunque una lingua incomprensibile che viene pronunciata all’interno del tempio nella parte chiusa al pubblico, nella parte sacra. Al di qui del muro, si trova il gruppo dei fedeli. A mediare fra i due luoghi,18 collegati attraverso il suono che diviene voce, vi è lo aggafari che parla al pubblico in oromo ed in amharico. In un paese quale è l’Etiopia, dai numerosissimi gruppi etnici e dalla ancor più numerosa varietà linguistica, proprio i rapporti interetnici non sono sempre facili. All’interno di un luogo di questo genere, uno dei tanti gelma di Garesu, si radunano persone provenienti da gruppi etnici diversi; e questo è un evento di portata sociale, culturale e politica non indifferente. Con la presenza del gelma sul territorio, cominciando all’interno del gelma, si costituisce un momento straordinario di costruzione di comunità, più precisamente di comunità territoriali capaci di superare altre forme di categorizzazione delle relazioni interpersonali. Le traduzioni avvengono da una lingua divina in due diverse lingue umane. Mentre in altri contesti sociali e politici risultano essere contrapposte, in questo caso le due lingue, oromo e amharico, contribuiscono sinergicamente alla creazione di una comunità anche grazie alla doppia interpretazione consentita ai supplicanti sulla base del processo di costruzione sociale del mondo; una prestazione del tutto particolare fornita da due diverse lingue che sono parlate, anche se in diverso grado, da quasi tutti i presenti. Si tratta dunque di una sorta di Torre di Babele al contrario: due lingue umane definite in giustapposizione ad una lingua divina permettono un momento di forte unità fra i credenti. Questo culto, il culto che questo leader costruisce, fonda de facto profondi momenti di comunità culturale, sociale, territoriale e politica. Come avviene, allora, questo scambio di comunicazione? Quale è la dinamica di questo processo?
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Ma i due luoghi sono solo apparentemente due.
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L’imputata: giudicare e traslare Il supplicante, una giovane donna, disperata, ha compiuto un atto grave: ha “avvelenato” la madre del marito. Nessuno lo sapeva, almeno ufficialmente, fino a quella notte. Attraverso lo aggafari lei ha appena posto delle domande alla Divinità -che cosa ne sarà di lei, che farà nella sua vita, come andranno i rapporti con la comunità ecc. Per i fedeli, nel momento liturgico e oracolare Garesu non è un uomo ma Wofa stesso. In un caso del genere, la nostra prospettiva, la prospettiva dell’osservatore occidentale, poco conta. In performances simili è solo possibile cercare di capire come funziona il particolare microcosmo incontrato sugli altopiani dell’Etiopia: un mondo dove migliaia di persone seguono un leader in una situazione di eccezione che viene a definirsi proprio per la partecipazione di un gruppo di credenti a specifiche attività. Cercando di definire le regole interne a quella particolare situazione, quel particolare gioco sociale ed esistenziale della vita umana, si scoprono alcune cose del tutto significative per una antropologia comprensiva: si rileva come giudicare e tradurre, e viceversa, possano coincidere. La donna ha posto delle domande, ed il suo parlare giunge allo aggafari, in amharico. Prima che lei abbia finito di domandare, di tirare fuori la sua frase per intero, già è iniziata, nella stessa lingua impiegata dalla donna, la traduzione dello aggafari all’uomo-Dio, a Wofa. Costui risponde immediatamente; e prima che la sua risposta sia terminata, già è iniziata la traduzione dello aggafari. Traduzione in consecutivo, prima in oromo e quindi in amharico, di quei suoni, di quella lingua divina verso l’esterno dall’interno del santuario. La traduzione giunge alla supplicante. La risposta della Divinità può sembrare talvolta immediatamente chiara, altre volte meno. Ma l’uso di metafore è esasperato: “tornerai con un limone profumato…” Ci si può chiedere, da osservatori esterni, se questa richiesta-profezia fa parte dei desideri apparentemente assurdi, ovvero se appartiene alla categoria di richieste, quale per esempio ’una fotografia di Clinton’, ’un coltellino svizzero’, ’un uovo di struzzo ma pieno’ ecc. O piuttosto si tratta di ben altro? Comunque sia, si tratta di uno o più messaggi. La frase in questione, alquanto sibillina, in questo caso significa: “torna con il tuo amante, non con tuo marito…” La Divinità impone di fatto un comando, enunciato nella
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forma di una profezia autoavverantesi: “voglio che la prossima volta tu torni qui con il tuo amante!”. Insomma, Garesu sospetta, o Wofa sa con certezza, che vi è un amante in questa vicenda e vuole che gli compaia dinanzi, in giudizio. La risposta mette in crisi la supplicante. Che domanda formula costei, allora? La giovane, presunta adultera ed avvelenatrice, si ritrova in una situazione particolare d’attesa.19 Già da giorni aspetta il manifestarsi della Divinità, ed è ai limiti delle sue capacità di sopportazione. Si ritrova sotto stress e permane in una situazione-limite, in uno stato di dipendenza psicologica. Sostenuta da amici e consigliata da aiutanti dello aggafari – sebbene non dichiarati ufficialmente tali –, la supplicante è pronta a liberarsi dal peso della colpa, o dell’errore o del delitto perpetrato. Le terminologie religiose e giuridiche si complementano e si sovrappongono identificandosi: giudizio, giorno del giudizio, “giudizio universale”, tornare con altri, comparire con il correo, nominare il testimone. Non è mai solo l’uomo o la donna che vengono a trovarsi di fronte alla Divinità, all’uomo-Dio, al giudice. Dio è il giudice per eccellenza e la vita umana si risolve in un giudizio dell’uomo, in un giudicare l’operato dell’uomo. Il giudizio comprende le eventuali chiamate di correo alle quali è del tutto inutile tentare di sottrarsi. Questi appelli sono impossibili da eludere: neppure la giustificazione di una mancata comprensione della lingua regge, perché questa lingua è stata riportata addirittura fisicamente, traslata affinché nessuno potesse sottrarvisi. Lingua traslata, come traslato della persona della Divinità: la Divinità s’incarna in forma umana, ovvero come logos. Allora, l’uomo altro non è che parola: parola, unico medium con il divino, con lo extra-umano… parola anche violata, ovvero menzogna. Ma la menzogna ora si manifesta… Garesu ha compreso; la Divinità sa che vi è una storia particolare. Del resto l’onniscienza è un attributo della Divinità. Wofa, Garesu, sa o sospetta l’esistenza determinante di un amante in questa vicenda di “avvelenamento”. La sua risposta mette allora in crisi la donna. Ed essa formula un’altra domanda. La donna ha aspettato questo momento per diversi giorni, si trova sotto stress, è provata dall’angoscia dell’attesa, dalla sua attività di autogiustificazione. In questa attività Cfr. la confessione pubblica dei peccati in Raffaele Pettazzoni, La confessione dei peccati. Bologna: Zanichelli, 1929-1935. 19
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è sostanzialmente sola, forse sostenuta dalla sola madre, in pubblico, oltre che dal proprio amante, in privato. Il sapere del resto della comunità è tutto ancora da costruire socialmente perché infine vi sia la condivisione ribadita di quella realtà come realtà per tutta la comunità – lei, brava moglie, solo provata dalla malattia della suocera, fedele al marito e rispettosa della struttura locale delle relazioni sociali. La donna è quindi provata sotto l’aspetto psichico e fisico; mostra una certa cedevolezza, è abbastanza disponibile a parlare, a confessarsi, a liberarsi dal peso della verità. Una verità che promette angoscia e conflitto nella comunità. Nel suo ulteriore rispondere, la donna viene aiutata sia dai suoi amici come pure dagli aiutanti dello aggafari, di fatto aiutanti consenzienti eppure relativamente inconsapevoli dello stesso Garesu nel suo essere Wofa. Di solito si tratta di altri specialisti dei culti di trance, qui in visita come credenti e sacerdoti del culto in uno dei rituali più significativi, in una delle liturgie maggiori, celebrate da un grandissimo specialista, Garesu. Questi uomini e donne che ben conoscono le strutture rituali della trance, sono chiamati bale wuqabi, ovvero “signori degli spiriti”, “cavalieri degli spiriti”. Costoro sono in grado di addomesticare, di domare gli spiriti e farli muovere in direzione da loro scelta, aiutando così chi si trova a “soffrire per la presenza degli spiriti”. I bale wuqabi spingono allora la donna a porgere domande che vengono tradotte dallo aggafari alla Divinità; a queste domande seguono altre risposte che vengono ancora tradotte ecc. proseguendo il lavoro di costruzione sociale della realtà fino a soddisfazione degli attori; un processo segnato, chiuso dalla parola ultima che sempre spetta solo ed esclusivamente alla Divinità. La realtà locale viene dunque costruita socialmente anche se non esclusivamente in questi particolari momenti e situazioni di culto. L’inganno, il reato, il crimine, l’attentato al quieto vivere della comunità, al suo ordine, ovvero all’ordine dell’universo, viene scoperto, ed allo stesso tempo viene definito e statuito sinergicamente, a livello comunitario. C’è una partecipazione corale alla definizione del reato oltre che alla scoperta dello stesso. La comunità interviene nella definizione della stessa rottura delle norme e nel loro ribadimento, più che nella scoperta dello stesso crimine. A questo punto, anche la risposta è corale. Ma la parola ultima spetta alla Divinità. “Che cosa fare di questa donna?”, ecco in che termini si pone la questione per
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tutti quanti hanno percepito e recepito l’avvenimento come problematico; ecco perché nella prospettiva emica si parla di giudizio, ovvero di “giorno del giudizio”. È in questo giorno, infatti, che si chiude il processo corale di costruzione del caso. Gravi responsabilità sociali sono implicite nel processo decisionale. Ecco perché il termine tecnico adoperato localmente per definire un tale processo è “giudizio”. “Tu morirai!” non significa che la donna sia stata condannata a morte o che debba essere giustiziata da qualcuno che si occuperà, o sarà incaricato, di compiere il lavoro del carnefice. La pressione psicologica è straordinaria in questi contesti. Vi è una sorta d’autoisolamento, come se la donna fosse stata ostracizzata, come se avesse subito una maledizione di tale forza che anche le persone a lei più vicine volessero prendere prudentemente le distanze. Vivere in condizioni simili è arduo, specialmente in comunità locali di quelle dimensioni. Significa essere abbandonati da tutti; in effetti, significa essere messi al bando. La morte sociale può anche divenire morte fisica, per una sorta di autoabbandono, di autodistruzione. È perdersi nel mondo per una pesante e profonda depressione, per un’assenza, che è assenza dalla vita sociale. Quando ci si lascia perdere nel mondo perché assenti dal mondo, andare via dalla comunità può essere una soluzione; ma non in tutte le comunità abbandono, esilio o emigrazione sono realizzabili. Le grandi città sono il luogo di raccolta anche di persone che, proprio per ragioni simili, determinate da una situazione d’ostracismo, o per conflitti famigliari o di comunità locale o semplicemente per questioni morali, non sono in grado di vivere nella propria comunità: le sanzioni psicologiche possono essere molto efficaci, in alcune società. Prima di arrivare a questa soluzione d’abbandono del proprio mondo, vi è un processo che potrebbe essere definito di riesame e di revisione della propria azione oppure di pentimento; perché prima di arrivare a soluzioni estreme di condanna, la persona considerata colpevole e definita come tale nel “giudizio” ha infatti la possibilità di esprimere un pentimento. C’è un tentativo di reintegrazione della donna e della sua famiglia da parte della comunità e c’è la minaccia incombente sulla testa della madre: “morirai tu o tua madre!”. Chiamare in gioco anche la madre vuol dire coinvolgere la famiglia della supplicante in modo tale da giungere potenzialmente alla mediazione di questo conflitto. Alla soluzione di questo conflitto nato all’interno della comunità, infatti, partecipa la comunità in toto.
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Come reagiscono nel villaggio-santuario gli astanti al dramma sociale in corso, al dramma che si sta percependo come tale? I presenti sono credenti, possono essere amici o parenti ma anche nemici della donna o di sua madre, magari amici di chi si suppone sia stato avvelenato da questa donna. L’avvelenato può essere figlio, fratello, cugino, zio di uno dei credenti e contemporaneamente anche amante oppure marito di un altro, e questo per una o più persone fra i presenti. O magari anche padre, ufficiale dell’esercito, allenatore di una squadra di fondisti ecc. Lo stesso vale per i suoi amici e parenti, come per gli amici e parenti della sua presunta avvelenatrice. Quale di tutti i ruoli correnti può avere diritto alla priorità o comunque prevalere sugli altri? È impossibile una risposta definita a priori. Essa dipende dalla situazione, e questa è definita in termini socio-politici. In alcuni casi è talmente chiara l’articolazione dei ruoli che non si pone l’occasione di discutere sulle priorità: una cosa è essere figlio, un’altra è essere marito. Ma in altri casi il dilemma si pone. C’è un gioco continuo, una sinergia di questi diversi ruoli, nella stessa persona del credente. Costui non è solo credente di quel determinato culto ma è anche membro di quella comunità etnica e/o locale; e qualcuno, talvolta più di qualcuno, ha interesse a che il conflitto potenziale sia risolto, ovvero prontamente mediato. Il tentativo d’avvelenamento, riuscito o meno, porta alla distruzione di rapporti interfamiliari, e questo in maniera grave; tanto grave da minare la pace della comunità. Ci può essere dunque interesse a risolvere questo conflitto in fieri, ed in tempi brevi. Oppure, per ragioni politiche, ci può essere volontà d’esasperazione della conflittualità potenziale. Il gioco è effettuato secondo le dinamiche già mostrate all’interno del tempio. Qui sono presenti numerose persone e tutte possono captare battute particolari e capire in che direzione qualcuno o qualcun altro, più o meno coscientemente, sta cercando di indirizzare tutto il processo interpretativo, ovvero sta manipolando domande, risposte ed interpretazioni. La donna è molto ricettiva e suggestionabile, ormai, e risponde in modo contingente alla situazione creata ad hoc dai manipolatori, ovvero da tutti gli attori sociali presenti alla seduta rituale. Costoro colpiscono di nuovo, rafforzano una costruzione sociale anziché un’altra. È un gioco di ruoli; ruoli che in quanto attore non posso definire prima che il gioco sia iniziato. È solo possibile definirli mentre il gioco procede – certamente potendo prevedere alcune sue dinamiche – e soprattutto alla sua fine. Anzi, il
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gioco termina, ma solo in apparenza e temporaneamente, proprio con e per la completa avvenuta definizione di ruoli: di fatto, il gioco prosegue oltre le performances rituali e si trasforma in vita quotidiana. L’interprete e il traduttore Il ruolo principale dello aggafari, fuori dal contesto di trance e di possessione divina che avviene all’interno del tempio, è quella di consigliere sfuggente. Lo aggafari non si trova mai molto vicino al leader; è generalmente piuttosto defilato rispetto allo stesso. Nella vita di tutti i giorni, costruisce e ribadisce questa sua posizione rinforzata di marginalità o come tale rappresentata dallo stesso. La sua vita quotidiana è in funzione dell’espressione di se stesso in quanto uomo del margine: non vuole recitare la parte della primadonna, eppure è protagonista ma nella zona d’ombra. Lo aggafari resta talmente “ai margini” che, per esempio, quando è nello elfigna si posiziona lontano dal divano-trono di Garesu, sulla soglia della porta che conduce all’esterno.20 Nelle riunioni pubbliche, lo aggafari non è immediatamente visibile, eppure è presente, vicino alla porta, mostrando di occuparsi della cucina e dell’approvvigionamento, sempre però in contatto visivo con il leader. Lo aggafari, una specie di bale zar secondario, ovvero un co-medium, sembra agire come una sorta di interprete, più precisamente come un traduttore, un semplice traslatore di oggetti, pensieri, parole ed opere non sue, collocato ai confini del mondo degli uomini e ai confini del mondo divino. Il linguaggio usato dagli spiriti durante la sessione di trance per comunicare con i pazienti-supplicanti come pure l’intero linguaggio liturgico del bale zar, si basa su due principali attributi. Innanzi tutto, questo Lo elfigna è il luogo di soggiorno del leader, la reggia di Garesu. Nel salone si trova un gran divano; le porte della cucina, aperte, danno al suo interno. Diversi ospiti, tutti più o meno interessati a mostrarsi potenzialmente vicini a Garesu, conversano. Lo aggafari è seduto a distanza da tutti gli altri, oppure più frequentemente si trova in piedi vicino alla porta di uscita o sulla soglia delle cucine dello elfigna, mentre continua con gli occhi e con brevi cenni delle mani a far segni a Garesu, fornendo informazioni aggiuntive e consigli. (Cfr. schema 2) Nello elfigna è spesso presente anche Mamo Abba Ruski, “padre dei Russi”, un altro bale wuqabi così chiamato per la sua posizione nei confronti dei Russi durante il periodo del Derg: un modo per ricordargli ironicamente e criticamente il passato. 20
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linguaggio non è soltanto estremamente complesso sotto l’aspetto lessicale e sintattico, ma è anche un linguaggio che lavora esclusivamente attraverso difficili e complesse metafore (iperboli, metonimie, sineddochi ecc.) che sono spesso anche surreali. Infine, anche se è un linguaggio complesso, un linguaggio “altro” perfino sotto l’aspetto lessicale e semantico, il punto è che si tratta di un linguaggio divino. Non si tratta di oromo o di amharico né di un altro qualsiasi linguaggio parlato nel Corno d’Africa o in altro luogo di questa terra. Non è il linguaggio di Yahweh, la Bibbia, non è il linguaggio di Allah, il Corano: è il linguaggio del Dio minore Wofa, pur sempre capace di uccidere con la sua parola. Wofa è Waq fa, la lingua, il linguaggio di Dio, adorato come Divinità stessa ed incarnato nell’uomo. Il verbo di Dio, Waq fa, si è manifestato in quanto Wofa, incarnandosi nell’uomo, Garesu.21 Conseguentemente, questo linguaggio richiede una doppia traduzione: dal divino all’umano, dalle metafore al pensiero binario. Non è una traduzione che riguarda il topos della glossolalia, ovvero la traduzione da lingue straniere. È piuttosto un doppio lavoro di traduzione. Due domande sorgono allora spontanee. La prima riguarda da cosa e in cosa traduce il bale zar. Certamente, traduce da un linguaggio all’altro, da un mondo linguistico ad un altro, ma questa è solo una prima, immediata risposta. La seconda domanda riguarda che cosa traduce esattamente il bale zar. Forse, non traduce solo parole, ma piuttosto corporeità: da un luogo all’altro, da un mondo fisico ad un altro. Questo culto mostra come la traduzione performata dal “signore degli zar” è tutt’altro che linguistica ed è soprattutto un “trans-latum” sociale, politico ed esistenziale. E questo conduce a significative implicazioni anche per il concetto di traduzione in campo letterario e linguistico. Il potente bale wuqabi, ma anche lo aggafari, traduce, trasla un mondo ad un altro; ma soprattutto trasporta l’uomo in un altro mondo, oltre i limiti di questo mondo, in una zona che è limbo; e di nuovo lo riporta indietro, verso il mondo sociale, verso la vita quotidiana. Quanto di questa concezione di Dio, spirito e uomo è monofisita? E quanto piuttosto il monofisismo deve a questi culti, con la visione di un Verbo che assorbe l’umanità (teopaschismo) o che si dissolve nell’umanità (kenosis), o con l’idea di una metamorfosi reale od apparente (docetismo) del verbo nella carne? 21
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Schema 2. Disposizione di alcuni attori sociali nello elfigna
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Il caso etimologico: trance, traslazione e traduzione Trance, traslazione e traduzione sono tre termini che condividono la stessa preposizione latina trans. Il primo è un sostantivo derivato dal verbo trans-ire; il secondo è un participio passato del verbo transfero; il terzo è ancora un participio passato, dal verbo trans-duco. I tre sostantivi condividono la preposizione trans e non esauriscono in questo le loro attinenze. Il sostantivo “trance” deriva senz’altro dal verbo trans-eo, es, ii, itum, ire. Si tratta di un verbo che nella forma intransitiva indica “passare, portarsi, andare da una condizione all’altra”, dunque “trasformarsi, cambiare il proprio stato”, come pure “attraversare un luogo” o “passare attraverso qualcosa”. Nella forma transitiva esprime ancora più chiaramente il senso di “andare, passare oltre, oltrepassare”, sia luoghi (con ogni mezzo) come pure qualcosa, per esempio le difficoltà ed il tempo stesso. È un verbo che manifesta chiaramente lo sforzo del soggetto nella sua azione di modifica, trasformazione, superamento di una condizione di cambiamento, dunque dimostra il tentativo d’attuazione di un passaggio da parte del soggetto, e il sostantivo inglese “transition”, per esempio, deriva da questo verbo. Il sostantivo “traslazione”, deriva invece dal verbo trans-fero, fers, tuli, latum, ferre che ha uno spettro di significati molto ristretto. Significa soprattutto “trasferire, trasportare, trapiantare qualcosa o qualcuno da un luogo ad un altro”, sia in senso fisico che figurato. Lo stesso termine latino translatio, onis indica immediatamente l’azione del trasportare, “trasferimento, trasporto, trapianto e travaso”, spesso relativamente all’azione del contadino; solo in modo del tutto secondario, come ultimo significato, si riferisce al passaggio da una lingua all’altra, come nel termine “translation” delle moderne lingue anglosassoni. Infine, il termine “traduzione” deriva dal verbo trans-duco, ducis, duxi, ductum, ducere che ha come primo significato “far passare oltre, condurre al di là, trasportare attraverso, trasferire da uno stato ad un altro stato” oppure “condurre qualcuno o qualcosa attraverso qualcosa”, o addirittura “trascinarlo, esporlo di fronte a qualcuno o qualcosa”. Questi significati sono rafforzati poi nel sostantivo latino
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traductio, onis, e conservati pressoché integri in diverse accezioni correnti e nell’inglese “traduction”. I verbi composti con tale preposizione sono dunque verbi di moto. L’uno, trans-ire, esprime il muoversi del soggetto; gli altri due, trans-fero and trans-duco, esprimono l’essere stato mosso del soggetto o l’essere mosso. Non tutti i fedeli riescono a raggiungere un altro mondo della comunicazione, un altro luogo -un non-luogo molto particolare- nel momento in cui si prospetta l’assenza dal proprio corpo perché questo è divenuto temporanea residenza dello spirito, della Divinità; non tutti i credenti riescono ad andare in trance (ire), se non vi sono portati (fero) o se non vi sono condotti (duco).22 Traslazione e traduzione attraverso la trance La tenda-muro separa, almeno nella rappresentazione locale, due mondi (sacro e forse secolare), ovvero due mondi linguistici. Da una parte un linguaggio sacro con toni frammentati e ritmi esasperati, con una sonorità profonda e affatto peculiare, con un lessico che risulta del tutto incomprensibile ai credenti, all’uomo. Dall’altra parte, la lingua amharica e la lingua oromo della vita quotidiana, le lingue semitiche e cuscitiche di contadini e pastori, dei piccoli commercianti. Fra un mondo ed un altro, un mediatore – un translator o un traductor in termini latini – trasforma il linguaggio sacro in linguaggio di tutti i giorni. Il suo modo di parlare riecheggia i toni frammentati e riflette con assoluta fedeltà i ritmi del linguaggio sacro. Il suo lessico è chiaro tanto in oromo quanto in amharico, primo e secondo linguaggio della traduzione. Ma nella specifica situazione rituale le due lingue, oromo e amharico, sono articolate in metafore, sineddochi ecc. particolarmente elaborate, talvolta semplici da comprendere (“verrai con un limone profumato nella tua mano!” sta a significare “verrai con il tuo amante”) ma più spesso ancora di difficile comprensione, quando non di oscu-
Cfr. anche le nozioni di transfer, trasferimento e trasferitore, con riferimento alla classica immagine di Caronte che trasferisce, o traghetta attraverso lo Stige, le anime di spaesati defunti all’Ade. 22
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ro significato:23 l’intera comunità dei presenti s’impegna allora in una possibile interpretazione. Ecco la costruzione corale del significato, e quindi la fondazione di comunità e di realtà. I più coraggiosi e coloro che hanno maggiore esperienza, altri posseduti e altri “cavaliere di spiriti” tentano di aiutare il supplicante nel porre le domande più efficaci e significative e nel comprendere le risposte. Ma coloro che non sanno tacere pure parlano. E ne risultano grandi e aspri rimproveri. Interpretazione e ambiguità del testo orale sacro tradotto sono strettamente collegate: senza ambiguità della coppia Wofa-aggafari non è possibile alcuna interpretazione, alcuna costruzione sociale e religiosa della identità della comunità. Senza interpretazione, nessuna ulteriore domanda alla Divinità, forse nessuna comunicazione con la Divinità potrebbe aver seguito: ecco il testo sacro orale tradotto, ovvero trans-dotto, trans-lato. Ma questo significa “trasferito”, “trasportato”, “portato al di là”, “condotto oltre”! Trans, oltre, al di là … di cosa? Di questo muro, di questa tenda, di questo velo. Il testo orale sacro è trasportato, trasferito da quel luogo dietro la tenda in un altro luogo, dal luogo sacro del corpo in trance al luogo secolare della comunità che soffre. Confini di luoghi sacri: il corpo della persona in trance diviene il luogo d’accoglimento della Divinità. Il corpo, luogo terreno per eccellenza, diventa luogo di residenza dello spirito, ovvero diviene ou-topos, non-luogo, la degna casa dello spirito. Nella trance, la persona, con il suo corpo in qualità di luogo-casa della Divinità, si trova appunto fra le due soglie.24 “Chi è il maschio che può superare il limite?”, per esempio, significa “chi è un adepto di Wesen?”. Ben conosciuto dall’iniziato, ma dal significato nascosto per la maggior parte dei presenti, il testo originale dice: “wesen bante lai wend alle wey”. Ora, wesen può significare “confine” ma allo stesso tempo è appunto il nome di una Divinità minore di questo pantheon, Wesen, in uno dei molti suoi attributi. Questa frase deve essere perciò intesa come un invito quasi perentorio, un richiamo per i fedeli più attenti a raggiungere lo stato di trance: un obbligo almeno per coloro che hanno dedicato la propria vita al Dio Wesen. Equivale a dire: “qualche uomo è disponibile ora ad andare in trance, a servire da luogo di manifestazione del Dio Wesen, a rendere il proprio corpo un confine sicuro all’interno del quale il nostro Dio Wesen, il conoscitore dei confini, il confine stesso, possa trattenersi perché noi credenti possiamo ascoltarlo?! Avanti, coraggio! arka, arka! è il momento!”. 24 Durante la trance la persona, con il proprio corpo come luogo-casa della Divinità, trova se stessa proprio “fra le due soglie”. Una zona che, secondo l’iniziato, segue in termini temporali la vita e precede la morte; o che si trova sulla linea di demarcazione fra 23
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Nessuno può pretendere legittimamente di essere in grado di muoversi con il proprio corpo aldilà di questo muro, in questo spazio sacro. Nessun credente può essere trasportato oltre. Soltanto la voce può oltrepassare questa linea di confine, questa tenda-muro. Rivelazioni ed interpretazioni si originano attraverso, sono così partorite al mondo.25 Corpo e/o spazio geografico sono o possono essere considerati come matrice dell’identità: il trasporto, la traduzione di corpi, persone o testi o semplicemente parole, è anche un processo di modificazione dell’identità. L’utero stesso è il luogo della fusione e della fissione, ovvero della formazione dell’identità: madre in fieri e figlio in fieri coincidono inizialmente. Soltanto il cordone ombelicale, che costringe l’uomo a tagliarlo, fonda le condizioni per il riconoscimento di una nuova identità. Se questo è vero, è allora vero che il trasporto, la traduzione, la traslazione è anche modificazione d’identità, è l’acquisizione di una nuova identità. E questa nuova identità può essere comunicata, ovvero conseguita, realizzata. Anche il viaggio etnografico è una traslazione, un trans-latum, un uscire fuori da uno spazio geografico, un luogo, per entrare in un altro spazio, un altro luogo.26 Il fondamentale problema etnografico è difatti un problema “linguistico”, una questione di traduzione di alterità. vita e morte. Cfr. Shihaboddin Yahya Sohravardi in L’arcangelo purpureo. Questo concetto è stato espresso anche da Muhyi ad Din Abu Bakr Muhammed ibn Ali ibn Arabi (1165-1240), nel suo Le rivelazioni meccane, con il termine persiano di barzakh. Il termine significa letteralmente “intervallo fra la morte e la resurrezione, interstizio, isthmus” o indica “una situazione di pericolo, un legame, un inizio d’immaginazione, un capriccio” e perfino “qualcuno innamorato di una donna”. Il bale zar conduce l’uomo o la donna in trance alla scoperta di nuovi mondi – i mondi della trance, mondi situati fra le due soglie – e li riporta indietro, li conduce oltre la porta della vita, ma potrebbe condurli anche oltre la porta della morte. Cfr. Palmisano, A.L. “Presenza, assenza e rappresentazione nelle trance rituali”, in Rimorso. La tarantola fra scienza e letteratura. Atti del Convegno sul Tarantismo, San Vito, 28-29 maggio 1999. Nardò: Besa Editore, 2001. 25 Il trans-eo può attuarsi grazie al traductor e al translator: come il bale zar aiuta il supplicante a spostarsi oltre questa linea di trance, non con il corpo ma con l’anima, così aiuta a far passare la voce della Divinità oltre questa cortina, non come suono incomprensibile ma come parola della lingua umana. Da vero traghettatore e trasportatore, appunto. 26 Lo stesso viaggio etnografico non è altro che una traslazione, un uscire da uno spazio e un modificare la propria posizione e quindi identità. Il viaggio etnografico è traduzione
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Nel caso specifico poi delle traduzioni durante stati di trance, queste sono una metafora di come tutto sia comprensibile, e mostrano il trionfo della comunicabilità. Nelle situazioni di “crisi della presenza”, di crisi esistenziale manifestata dal supplicante che pratica il culto, il gioco della traduzione Wofa-aggafari-supplicante, portato a compimento con successo partorendo dall’incomprensibile il comprensibile, si convalida come metafora della irrazionalità e ineluttabilità del processo di guarigione, ovvero di salvazione. Affrontando le manifestazioni del negativo nella storia e nella vita, la traduzione compiuta con successo è una manifestazione dell’ingresso del divino nella storia umana: ciò che era incomprensibile ora non lo è più. Il miracolo della fondazione di senso e della sua comunicabilità si è realizzato ancora una volta. Il suono, la parola inesistente, è divenuta parola divina all’interno del tempio.27 Questa parola della Divinità è stata tradotta, traslata, sempre nel luogo segregato del tempio,28 ovvero comunicata – in stato di trance: c’è e non c’è una coscienza, c’è e non c’è un’imputabilità – al gruppo dei credenti. Insieme ai credenti, infine, questa parola – già tradotta ed interpretata coralmente nel tempio – è uscita dal tempio e quindi dallo stesso villaggio-santuario, per essere manifestata al mondo – vera e propria traslazione – come parola-volontà della Divinità.29 È come se dalla non-parola nascesse, all’interno del santuario, la parola: il suono è trasformato in parola, quando trasportato nel mondo degli uomini. Ecco allora la sequenza del processo di traslazione: silenzio, suono indistinto, suono, suono “articolato” musicalmente, lingua della Divinità, lingua umana, comunicazione di un messaggio all’esterno, lindi se stessi al mondo: l’altro è la pietra di paragone della traduzione del sé agli altri membri della comunità, ma anche a se stesso. Traduzione come interpretazione delle differenze fra il proprio mondo, il proprio essere nel mondo, e il mondo dell’altro, l’essere nel mondo che è specifico dell’altro. Il viator in itinere è confuso dalle sue visioni. Le terre dell’uomo sono terra d’esilio e la destinazione ultima del viaggio è al di là delle “pene del nostro pianeta”: “il sole illumina stupore e nostalgia”. Questo è quanto provo da antropologo quando vivo sul terreno, quando mi trovo viator in itinere: sono confuso e travolto dalla nostalgia, perché mi affaccio sul mistero. L’identità è data allora nella coincidenza di essere ed esistere. 27 Il suono acquista senso diventando parola. Oltre il velo il significato è appunto svelato. 28 Il gelma è il luogo par excellence della traslazione. 29 Traslazione in senso stretto è il trasporto della Divinità al tempio, ossia il trasporto che testimonia la sacralità di ciò che è trasportato. È poi quello che esprime il diritto canonico con il concetto di traslazione del corpo del Santo, ovvero delle reliquie. Nulla può essere perso o mutato: nell’interezza assoluta si deve compiere lo spostamento e così preservare, anzi fondare la sacralità di quel corpo o di quelle reliquie, e manifestare la presenza della Divinità nella storia umana.
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guaggio della comunità, linguaggio della persona. Questa è translatio: fondazione di una parola che è incontrovertibile, legittima, ordinatrice, solida come la episteme.30 Non è forse una casualità che l’intero santuario sembri riflettere, ingigantite nello spazio, le forme dell’apparato genitale femminile e dell’utero. Il villaggio-santuario non è altro che un utero con apparato vaginale, al cui interno trovo un feto. L’ano del feto coincide con la vagina del villaggio-santuario, il suo stomaco con le stalle, il cuore con lo elfigna, il naso con le cucine, la bocca con il gelma; mentre la testa ed il corpo sono di fatto i campi in cui si produce il cibo: sono il frutto, il parto del villaggio. (Cfr. schema 3) E la parola del bambino, ovviamente, esce dal gelma.31 L’interno del santuario è un mondo; un mondo straordinariamente chiuso, intimo e autoreferente, dove nascono parole dotate di senso compiuto, dove nascono verità che sono tradotte e trasportate all’esterno, traslate;32 un mondo al di fuori del quale sono trasportate e diffuse rivelazioni che riguardano la vita quotidiana, ovvero il mondo sociale e politico dell’uomo. Traduzione come Aufhebung di confini e di limiti, ma non come dissolvimento di differenze; traduzione come processo di co-fondazione di differenze attraverso nuove e impreviste relazioni e legami. Suono, trasformazione in parole, traduzione-traslazione di queste parole, interpretazione di parole, fondazione dell’ambiguità,33 e vita, vita sociale senza colonizzazione della vita quotidiana. Traduzionetraslazione come sofferta performance politica e non come squisita esecuzione tecnica. Chiamo questo processo “sequenza di traslazione”. L’immagine del bambino nato o che deve nascere o abortito è frequente nel mondo della metafora dei culti zar. 32 Ogni passaggio fisico e sociale è una traduzione, ogni traduzione è un passaggio fisico e sociale. Due lingue, di gruppi etnici confinanti, appaiono essere l’istituzionalizzazione e la fissazione pro tempore di due diversi passaggi o paradigmi del passaggio. 33 Traduzione è interpretazione. Optare per una traduzione è optare per una politica, è compiere una scelta politica. In questo senso, la filologia è l’arte dell’identificazione dell’ambiguità, un’ambiguità che è di casa nell’immenso spettro di significati posseduto da ogni radice semantica. La tecnicizzazione della traduzione è rinuncia all’esercizio dell’arte della comunicazione; l’annullamento del multilinguismo è abdicazione dalla politica; la corsa al monolinguismo è caduta verso la dittatura esistenziale dell’essere uno. 30 31
Schema 3. Piantina del villaggio-santuario
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Oltre l’interpretazione Così, dunque, si tratta solo apparentemente di un processo di comunicazione fra due mondi, diversi. Di fatto, piuttosto, si tratta di partorire un mondo, un mondo di senso, dal nulla; prima ancora che da un altro mondo, prima ancora che da un secondo, ipotetico mondo, un aldilà. È che in questo mondo, apparentemente uno, ci sono infiniti mondi, pronti – si fa per dire – ad essere riconosciuti come esistenti al di là della tenda-muro, affinché da essi possa nascere il senso, il senso del mondo, del mondo della vita di tutti i giorni: il mondo del nostro ordine.34 Non so quanto la comprensione di uno specifico caso etnografico relativo a culti di trance possa apparire gratificante o inquietante alle nostre coscienze. Ma forse è in sé rassicurante il concetto di traduzione a sé, perché presume la trasformazione, il trasferimento di qualcosa che, ovunque sia (in un altro mondo?) e comunque sia (comprensibile?), certamente esiste (evitamento dell’angoscia come presenza presunta del non-essere) ed è solo un problema tecnico il recuperarlo, ovvero il (ri)produrre il senso. Il mondo dell’arte è un non-luogo particolarmente fertile nel partorire se stesso, ovvero il nostro mondo; particolarmente capace nel riconoscere altri mondi, ovvero nel partorire il nostro mondo e dunque se stesso. Nella letteratura mondiale trovo poesie davvero insolite e particolarmente interessanti a questo proposito. Basta pensare a Finnegan’s wake di James Joyce o a poesie di Edward Eslin Cummings o di Velimir Hlebnikov o all’intera poetica dei futuristi italiani, con Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e poi più tardi con Andrea Zanzotto.35 Particolarmente stimolante e significativo per le riflessioni sul concetto di traduzione e interpretazione mi pare il riferimento ad alcune poesie composte da Fosco Maraini, poeta e studioso del pensiero e Cfr. il concetto di Lebenswelt in Edmund Husserl. Le tante parole della vita quotidiana nascono così, e tutte sono dotate di senso, di diversi significati: sono il significato del mondo. 35 Hlebnikov ha inventato addirittura una “lingua transmentale”, che ha chiamato “zaum”. 34
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della società giapponese, oltre che traduttore di testi letterari da quella lingua. Una sua poesia in italiano, intitolata Il lonfo, così recita:36 Il lonfo non vaterca né gluisce, e molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta. È frusco, il lonfo! E pieno di lupigna arrafferia molesta e sofolenta! Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna, se lugri ti botalla e ti criventa. Eppure il vecchio lonfo ammargelluto che bete e zugghia e fonca nei trombazzi fa lègica busìa, fa gisbuto; e quasi quasi in segno di sberdazzi gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto, t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.
Uno studio filologico di questo testo non ha certamente molto senso. Le parole che lo compongono, prese isolatamente, possono essere ricondotte ciascuna a numerose radici semantiche, a numerosi termini conosciuti in italiano, eppure indefinibili. Il testo integro, letto per intero e tutto d’un fiato, meglio ancora se con enfasi, poggiando sulla musicalità metrica inerente, ci pare altamente comprensibile: sembra toccarci emotivamente (non solo per il senso di stizza o del ridicolo connesso alla nostra accettazione/rifiuto, come sfida intellettuale…). Eppure, non ci permette un riassunto. È il corrispondente poetico della glossolalia, espressione della sacralità sfuggente ed indefinibile dell’essere. In ogni lingua è possibile, certamente per un poeta, creare un “lonfo”, un testo dunque evocativo, in una lingua che è nostra eppure ci sfugge, in una lingua che è da tradurre, se vogliamo mantenere nella memoria un senso che del resto già ci pare possedere (ci sembra evocare realtà emotive e di significato) e che vogliamo comprendere appieno perché famelici di senso, e d’oracolo e di arcano sapere: in una parola, di temuto e liberatorio giudizio. Un interprete può allora La parola “lonfo” (richiama associazioni fonetiche, quale tonfo, lonza, goffo ecc.), apparentemente un sostantivo, non è reperibile in nessun dizionario della lingua italiana e dei suoi numerosi dialetti; eppure sembra, per la sua sequenza di fonemi, evocare vaghissime, indefinibili e pertanto concretissime minacce. 36
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occuparsi del processo di costruzione di senso e della sua comunicazione, ovvero del parto: un aggafari, la levatrice. Quante volte abbiamo parlato, o scritto un articolo, o anche annotato semplici pensieri, e ci siamo aspettati che il traduttore, che il nostro interprete oromo, gurage o inglese specificasse e definisse puntualmente i nostri pensieri in nuce, quasi li facesse nascere da quei segni, pochi segni che formavano frasi abbozzate; e ci siamo affidati a lei o a lui per questo delicato, intimo trasferimento di parole, per questo parto di significati e creazione di idee, condivisione di sentimenti, ovvero creazione di senso, fondazione di mondo?37 Questi culti sembrano forse semplicemente appartenere a un mondo estraneo, limitato a pochi gruppi. Sono piuttosto il paradigma di forme diverse da quelle occidentali dell’organizzazione sociale, politica, religiosa e perfino economica del mondo: sono una teologia politica altra. È necessario comprendere, ed è necessario assumere prospettive altre per comprendere: osservazione partecipante; in questo caso, osservazione partecipante periferica. A meno che non si decida di divenire adepti del culto e praticare la trance, possibilmente di possessione.
“Fiat lux!” fu la parola divina; “…e la luce fu!”, come confermano le Sacre Scritture. La parola prende corpo dal suono, che già la testimonia nel suo nascere; e uscendo dal recinto sacro, entra nei limiti di un mondo da essa stessa creato. “Fiat lux!”: una parola esternata ha fondato il cosmos, riempiendo il vuoto, trasformando il cavos in caos e infine in universo, con nuove e più definitive parole. 37
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La struttura della trance nei culti di possessione afro-brasiliani 1
Stefan Festini Cucco
Abstract The structure of trance in afro-brasilian cults of posession Trance as a ritualized modified state of consciousness plays a key role in many moments of religious life in afro-brasilian cults. It is the main means of interaction, communication and the exchange of vital energy axé between devotees, gods and ghosts. As such, it characterizes the cult’s liturgy, initiatory rituals, therapeutic methods and divination techniques, which can hardly be considered solely if the aim is a holistic understanding of the structure of trance. The author begins with the examination of three trance institutionalization paradigms – vision, possession and ecstasy – and continues with the trance-structure analysis in the afro-brasilian context. Based on ethnographic data collected during a fieldwork in Rio de Janeiro, the author displays the emic perspective in a rather descriptive way. Therefore, the reader should get a good inside in the cult’s life and their use of trance states in ritual activities. Keywords: stati modificati di coscienza; trance; possessione; Macumba; Brasile.
«E, gostou do santo dele?» – «Beh, ti è piaciuto il suo Santo?» Questa domanda mi è stata posta più volte dopo riti e celebrazioni in case di culto afro-brasiliane durante la ricerca sul campo2. Un articolo simile in lingua tedesca è stato pubblicato su Dada - Rivista di Antropologia post-globale, speciale n. 1, 2014 “Visione, possessione, estasi” pubblicato il 25 febbraio 2014 a Trieste. 2 La ricerca sul campo ha avuto luogo a Rio de Janeiro nel 2011 e 2012. Qui, ho avuto la possibilità di partecipare a numerosi riti e celebrazioni in una casa di culto sul Morro do Pinto, nel quartiere Santo Cristo. Ho fatto ricerche anche in altre due case di culto, una nel quartiere di Jacarepaguà e l’altra a Pechincha, nella parte settentrionale di Rio de 1
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Con “santo” non si intendeva un’immagine o la statua di un santo cristiano, ma la rappresentazione di un essere metafisico e sacro, incorporato da un medium3. Durante il rito, egli cade in trance e viene posseduto da una divinità o da uno spirito. In prospettiva emica, il medium in questi momenti cessa di essere umano; non è più vicino di casa, sorella o padre, ma divinità o spirito come Ogum, Yemanjá, Zé Pelintra o Maria Molambo. Da una prospettiva etica, durante la mimesi ed il divenire divinità, il medium mette da parte la sua personalità quotidiana per appropriarsi di quella di un santo o di una entidade e di presentarsi come essa4. Il medium, una volta caduto in trance adotta i tratti specifici, i movimenti e gli idioletti che caratterizzano le divinità e gli spiriti della cosmologia del culto. Così, le persone presenti nella casa di culto riconoscono quando e quale entità agisce in e tramite il medium. Di conseguenza, i presenti, siano essi adepti, seguaci del culto o ospiti occasionali, interagiscono con la divinità o con lo spirito: parlano, ballano, condividono bevande e cibi preferiti da costoro, chiedono consigli e guarigione, o chiedono di infliggere sofferenza a qualcun altro. Nei culti di possessione afro-brasiliani la trance va di pari passo con la rappresentazione del divino e in combinazione svolgono un ruolo essenziale all’interno del rituale, poiché sono indispensabili per l’interazione tra divinità e spiriti, adepti e non-adepti. Stati di trance al di fuori del contesto rituale e quindi senza una rappresentazione del divino “standardizzata” sono invece considerati pericolosi, in quanto nella maggior parte dei casi si tratta di trance selvagge, incontrollaJaneiro. Tuttavia, la casa di culto sul Morro do Pinto è rimasta il luogo di ricerca primario. I dati etnografici raccolti attraverso l’osservazione partecipante ed interviste informali e non strutturate fungono da base di questo articolo. Uso la forma maschile, perché in queste case di culte i sacerdoti erano maschili. A Rio de Janeiro, ma anche in altri luoghi del Brasile sono però anche frequenti medium e sacerdoti di sesso femminile e transgender. 3 Nei culti afro-brasiliani si distingue tra medium, ovvero coloro che cadono in trance, e gli adepti che non cadono in trance, ma che sono comunque iniziati e assumono compiti importanti all’interno del culto. 4 “Santo”, parola portoghese con l’omonimo significato in italiano; usata in case di culto afro-brasiliane a Rio de Janeiro al posto della parola yoruba “orixà”. Ci sono però differenze nell’utilizzo dei termini per la definizione di divinità a seconda dei culti e sopratutto a seconda del loro status. Mentre in case di culto poco rinomate della macumba a Rio viene utilizzato “santo”, nelle case di Candomblé più rinomate di Bahia prevale l’utilizzo di “orixà”. Nel testo, farò uso di “orixà” per evitare equivoci con i santi cattolici. “Entidade” (port.) invece significa “entità”, e viene usata da seguaci per “spiriti”, ovvero esseri metafisici che non sono divinità.
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bili ed in casi particolari anche brutali. Al di fuori del contesto rituale l’assenza di un quadro cosmologico non permette di interpretare improvvisi cambiamenti comportamentali e le azioni del posseduto. Rappresentazioni del divino senza manifestazioni di trance sono diffuse, come per esempio per mezzo di statue, raffigurazioni, oggetti sacri, piante ed animali, o parafernalia. Tuttavia, divinità, spiriti ed esseri umani riescono a interagire solo attraverso un medium, ovvero un adepto in stato di trance. “Ti piaceva?”: da questa domanda si può dedurre che l’essere “santo” o sacro può essere rappresentato e percepito in modi diversi. La trance è dunque caratterizzata da una specifica estetica. Secondo la mitologia, le divinità ed entità spiritiche sono belle o brutte, buone o maliziose, benintenzionate o ingannevoli. Il medium posseduto rappresenta le qualità cosmologiche, mentre la comunità di culto definisce la rappresentazione innanzitutto dal punto di vista estetico. Ma cos’è la trance e come si struttura nel contesto afro-brasiliano? Che ruolo gioca nei diversi culti questo stato di coscienza modificato? E come viene ritualizzato dai loro seguaci? In questo articolo cercherò di approfondire queste domande considerando diversi autori e i miei dati etnografici di ricerca sul campo. Nella prima parte delineo le differenze dei tre termini “stato modificato di coscienza”, “trance” e “possessione”, al fine di analizzare la struttura della trance nei culti afro-brasiliani nelle sezioni a seguire. Per quest’analisi dunque prendo in considerazione quattro cosiddette modulazioni per la ritualizzazione degli stati modificati di coscienza, ovvero la terapia, l’iniziazione, la liturgia e la divinazione5, e riporto dati etnografici descrittivi che mirano a rispecchiare la cosiddetta prospettiva emica. Stato modificato di coscienza, trance rituale e possessione Uno stato di coscienza modificato – a volte definito anche stato di coscienza alterato – è una costituzione psicofisica che può essere indotta attraverso una serie di manipolazioni del corpo e sopratutto della mente. Ciò può avvenire attraverso la messa in atto di specifiche tecniche o anche attraverso la somministrazione di sostanza psicotrope, 5
Cf. Palmisano, Antonio Luigi (2000).
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meno importanti nel mondo dei culti afro-brasiliani. Il cambiamento dello stato di coscienza in genere è facilmente riconoscibile dal soggetto stesso o da un osservatore, in quanto accompagnato da condizioni fisiche assenti nello stato di veglia. Durante uno stato modificato di coscienza il soggetto sposta la propria attenzione verso l’interiorità e sui propri processi mentali, mentre il mondo esterno viene come offuscato. Oltre alla concentrazione, cambiano anche la percezione del tempo e dello spazio, il modo di pensare, la capacità di autocontrollo, l’espressione emotiva e fisica, così come la suggestionabilità6. Lo stato di coscienza modificato è un Existential e può essere vissuto da tutti gli esseri umani in diverse forme ed intensità: oltre all’induzione voluta, conseguenza di manipolazione attraverso una determinata tecnica, essi possono quindi verificarsi anche spontaneamente, sia in ambito rituale e religioso, che in contesti profani. Se in un contesto rituale si presentano stati modificati di coscienza, sono consapevolmente indotti ed integrati nella cosmologia e nelle pratiche sociali di un gruppo, si parla di “trance”. La trance può quindi essere definita come uno stato di coscienza modificato ritualizzato o istituzionalizzato7. Si possono distinguere diversi tipi di trance e categorizzarli in trance di visione, trance estatica e trance di possessione8. Le trance di visione si presentano principalmente nelle diverse forme di sciamanesimo: nella séance, lo sciamano intraprende un viaggio nei mondi cosmici per adempiere compiti importanti per la sua comunità. Egli interpreta le allucinazioni attraverso la cosmologia del suo gruppo e le trasforma in visioni e messaggi dal mondo degli spiriti. Nelle trance estatiche invece, a seconda della religione o del culto, uomo e Dio, o uomo e cosmo, formano un’unità, sia nella loro congiunzione che nella reciproca dissoluzione nell’altro. Troviamo la trance estatica soprattutto nelle grandi religioni monoteistiche spesso in opposizione all’ortodossia, ovvero in culti e correnti eterodosse, come per esempio nel sufismo, dove i dervisci che girano intorno a se stessi si uniscono a Dio nella danza della trance. Un’altra forma di trance ritualizzata è la possessione. Qui, un medium mette il proprio corpo a disposizione di un agente esterno, di divinità o spiriti, ma anche di una locomotiva o Ludwig, Arnold M. (1969:13-16). Palmisano, Antonio Luigi (2000:121). 8 Palmisano, Antonio Luigi (2013:10-12). 6 7
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un aereo9. A differenza della trance di visione, il posseduto non è soggetto ad allucinazioni, ma sperimenta una scissione della personalità10. Dalla trance estatica si differenzia per il fatto che il medium si lascia agire e diventa l’entità della quale è posseduto e la rappresenta. Tuttavia, la trance di possessione, di visione e quella estatica non si escludono a vicenda, ma possono essere parti integranti di un singolo culto. Per comprendere al meglio la struttura della trance in un determinato contesto religioso, un’analisi di terapia, liturgia, divinazione e iniziazione, cioè l’indagine delle modulazioni per la ritualizzazione e l’istituzionalizzazione degli stati modificati di coscienza così come della prospettiva emica, sono strumenti adatti11. La liturgia di un culto è caratterizzata dalla trance quando questa determina il corso del rituale ed il rapporto tra l’uomo e il divino. Come parte della liturgia del rituale, ma anche in una seduta separata, la divinazione può andare di pari passo con la trance se questa aiuta a comunicare con il divino e dunque permette l’accesso all’occulto. Quando la trance accompagna la transizione verso una nuova fase della vita nel rito di passaggio, essa è collegata anche all’iniziazione. In terapia, la trance può svolgere un ruolo eccezionale e servire al guaritore per trovare e combattere le cause di malattia, o pure quando una persona impara a controllare o quantomeno ad affrontare i propri stati modificati di coscienza e viene accettata nel culto. Le quattro modulazioni di ritualizzazione e la loro combinazione possono essere ritrovate in molti culti, indipendentemente dal fatto che la trance di un particolare culto sia associata alla possessione, allo sciamanesimo o all’estasi12. Nei culti di possessione afro-brasiliani di Candomblé, Umbanda e Macumba si possono trovare tutte e quattro le modulazioni sopra citate. Come vedremo più avanti, la trance è una componente estremamente importante nei riti di questi culti: se i medium non entrano in trance, gli adepti interpretano questa circostanza come conseguenza di una grave incoerenza nel rapporto con le divinità e con gli spiriti.
Kramer, Fritz (2005:153). Palmisano, Antonio Luigi (2013:12). 11 Idem. 12 Cf. Palmisano, Antonio Luigi (2000). 9
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Malattia e terapia – dallo squilibrio energetico al fechamento do corpo Nella prospettiva dei seguaci di culto afro-brasiliani, le malattie possono essere generate da un’ampia varietà di fattori associati al mondo degli dei e degli spiriti. A seconda della malattia, la comunità religiosa mette in atto specifiche sedute rituali sia per determinare le cause che per curarle. Anche se adepti e medium di culti diversi utilizzano denominazioni e spiegazioni per le malattie, quasi tutte vengono attribuite a uno squilibrio nei rapporti tra l’uomo e le divinità o gli spiriti. Questi squilibri diminuiscono il flusso della forza vitale axé e aumentano la suscettibilità a malesseri, malattie e disgrazie. Nell’Umbanda invece di axé si parla di fluido. Questo “liquido energetico” o energia vitale fluida, esiste e scorre in tutto, in forma positiva o negativa. Il fluido positivo sorge dal bene, dalla bellezza, dalla purezza e dal benessere, mentre quello negativo dal male, dal brutto, dall’impurezza e dalla malattia13. Sull’essere umano queste energie negative vengono trasmesse principalmente attraverso il malocchio o la magia nera, ed oltre a malattie possono portare con sé anche problemi d’amore o di natura economica14. Il primo passo per far fronte a malattie e problemi di qualsiasi genere è quello di chiedere una consultazione nella casa di culto. Qui l’interessato ottiene consigli dal capo o da un adepto del culto, che durante la consultazione è in stato di trance e posseduto da una entità spiritica. Queste consultazioni possono avvenire in gruppo e durante una cerimonia aperta al pubblico o possono essere tenute individualmente e privatamente. Nella prima variante, ovvero quella collettiva, il cliente15 entra in contatto con lo spirito attraverso il medium posseduto e gli avanza la sua richiesta. A trattare malattie del corpo sono principalmente i caboclos, spiriti indio esperti in piante medicinali, e pretos velhos, spiriti di vecchi schiavi africani caratterizzati da una grande empatia, frutto della loro sofferenza durante la schiavitù. Nelle loro vite, entrambi hanno accumulato molta saggezza, e sono riconosciuti come grandi conoscitori dei rimedi offerti dalla natura16. Ai problemi relativi ad amore e sessualità – dalla gelosia, all’impotenza – si Figge, Horst H. (1973:87). Goodman, Felicitas (1991:86). 15 Viene utilizzato “cliente” dato che le consultazioni sono a pagamento. 16 Lynch, Darrell (2005:18). 13 14
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dedicano le pombagira e gli exù, che attraverso la loro vita terrena da prostitute e delinquenti conoscono a fondo la debolezza della natura umana – sopratutto per quanto riguarda i poveri ed emarginati nella società brasiliana17. A volte, durante le consultazioni, gli spiriti curano i loro pazienti con le mani, adoperando “tecniche magiche”. Passano sopra il corpo del paziente con le mani aperte senza mai toccarlo. Cominciando dalla testa e finendo alla punta dei piedi, per poi scuotersi le mani. In questo modo raccolgono l’energia negativa nelle mani, e scuotendole la spazzano via dal corpo e quindi purificano il paziente18. Inoltre, alcuni spiriti sono in grado di trattare il corpo dei loro medium con le proprie mani. Questi medium dunque, non hanno bisogno dell’aiuto altrui per guarire, se non dello spirito che incorporano19. Se il trattamento si mostra effettivo, il cliente visiterà nuovamente il medium nella cerimonia a seguire, dove riceverà ulteriori trattamenti e istruzioni, mentre nel caso fosse guarito del tutto andrà a ringraziare lo spirito per il buon esito della terapia20. Inoltre, la maggior parte delle case di culto offrono anche consultazioni che avvengono al di fuori delle celebrazioni pubbliche e quindi per i singoli clienti su richiesta. Come durante la consultazione pubblica, anche nella consultazione individuale si incontra lo spirito che parla e agisce attraverso le trance del suo medium21. Oltre a movimenti magici della mano, gli spiriti guariscono anche con altre tecniche. Una di queste consiste nell’affumicare il paziente: caboclo e pretos velho, ma anche pombagira ed exù soffiano il fumo dei loro sigari, pipe o sigarette sulla parte malata del corpo. Così come i movimenti magici della mano, anche il fumo è considerato purificante. Esso non avviene soltanto durante la consultazione, ma anche durante il cosiddetto descarrego, una sorta di scaricare energia o fluido negatiThiele, Maria Elisabeth (2006:92). Lynch, Darrell (2005:21). 19 Marquard, Lena (2005:105). 20 In una grande casa di culto nella zona settentrionale di Rio de Janeiro, all’inizio della consultazione pubblica, mi è stato presentato un libro in cui i visitatori inseriscono il loro nome e il nome dello spirito che vogliono incontrare. Così accadde che durante la consultazione alcuni medium avevano una lunga coda di persone davanti a loro, mentre altri si annoiavano. Questo ha meno a che fare con la simpatia o l’antipatia verso un determinato medium, che con le capacità di guarigione dello spirito che incorpora. 21 Lapassade, Georges (2008:62). 17 18
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vo durante le celebrazioni collettive. All’inizio di ogni celebrazione e rito, per purificare la casa, gli altari e i tamburi, ma anche i medium ed i visitatori, il pai-de-santo attraversa il terreiro con l’incenso ed avvolge nel fumo tutto e tutti, proteggendo così il rito dalle forze negative e dagli spiriti malefici. Un altro metodo di purificazione è il cosiddetto banho de descarrego, un bagno rituale, o meglio pre-rituale. Durante questa pratica, un adepto pone due ciotole nel giardino o cortile interno della casa di culto, oppure in una delle stanze private, e ne riempie una con acqua e sapone e l’altra con una miscela di erbe aromatiche. Prima dell’inizio del rituale, tutti i medium devono sottoporsi al bagno purificatorio con l’ausilio di entrambi i liquidi. La miscela di erbe non è sempre la stessa, ma dipende dalla tipologia di rituale e cambia a seconda dell’orixà al quale è dedicato il rito. In prospettiva emica gli orixà hanno gusti diversi e preferiscono quindi anche determinate erbe e miscele. Il banho de descarrego, che equivale a un lavaggio rituale, al contrario delle purificazioni con il fumo è esclusivo e serve principalmente ai medium, ma non ai visitatori. Questi ultimi si lavano con i liquidi magici, solo se un determinato trattamento richiede una purificazione particolarmente efficace o protezione straordinaria22. Se un visitatore della casa viene portato in uno dei luoghi più sacri del terreiro, come per esempio davanti alle pietre sacre che stanno di solito in una stanza appartata e riservata, il bagno rituale è essenziale per proteggerli. Se il pai-de-santo scopre che uno spirito malvagio fa sentire male un suo adepto o seguace, per aumentare l’efficienza della purificazione disegna cosiddetti pontos riscados, anagrammi costituiti da punti e linee, che rappresentano diversi simboli in un cerchio chiuso. Con del gesso disegna il simbolo dello spirito malefico sul pavimento, per porvi accanto un foglio di carta con il nome del suo paziente ed alcune offerte. Così facendo, il pai-de-santo attira lo spirito nella casa, lo cattura nel simbolo per imprigionarlo e renderlo innocuo al suo paziente23. La polvere di gesso, viene inoltre utilizzata per soffiarla negli angoli del terreiro ed in alcuni luoghi della casa in una sequenza fissa, simile al fumo all’inizio di ogni rituale, e adoperato nelle consultazioni per la guarigione. Se in caso di malattia grave tutti i trattamenti elencati fino a questo punto non hanno effetto, il pai-dePer una descrizione dettagliata di un rituale di purificazione cf. Thiele, Maria Elisabeth (2006:150-151). 23 Figge, Horst H. (1973:98). 22
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santo utilizza l’arma più efficiente: il troca de cabeça, o cambio di testa. In questo rituale molto complesso, la malattia viene trasmessa ad un animale a quattro zampe, ad una pianta, o più raramente a un altro essere umano. Questo rito prevede che il pai-de-santo mette in strada una prestigiosa offerta, che spesso contiene anche denaro o gioielli, e che in questo modo facilmente riesce ad attirare qualcuno. Appena la persona tocca l’offerta gli viene trasmessa la malattia e viene così tolta alla vittima originaria24. Al fine di garantire la protezione contro tali metodi ingannevoli ed altri pericoli di magia nera, il pai-de-santo produce degli amuleti a forma di collana, o organizza un cosiddetto fechamento do corpo, la “chiusura del corpo”. Questa pratica richiede un rituale molto complesso e costoso, ma una volta acquisito il “corpo chiuso”, offre protezione contro spiriti maligni ed energie negative di ogni tipo – uno strato protettivo che rende il corpo impenetrabile. Oltre ad energie negative e spiriti, anche le divinità possono far ammalare le persone. Qui, il pai-di-santo deve scoprire chi e che circostanze relative agli orixà stanno alla base del malessere e per questo motivo compie un oracolo. Questo gli sarà innanzitutto d’aiuto nello stabilire quali tre orixà corrispondono al suo cliente e quale di questi è la divinità che vige sulla sua testa – il dono da cabeça. Durante lo stesso oracolo il pai-de-santo cerca di entrare in contatto con l’orixà, il quale gli comunicherà le proprie richieste. Quando il pai-de-santo ha ottenuto le informazioni necessarie le comunica al paziente e fornendogli le istruzioni necessarie su come soddisfarli. Le richieste delle divinità possono essere semplici misure ascetiche, offerte di cibo (bori) o l’avvio dell’iniziazione. L’iniziazione e l’ammissione al culto è particolarmente utile per i pazienti che subiscono possessioni nella vita quotidiana, ovvero al di fuori del contesto rituale. Possessioni spontanee, che gli adepti interpretano come crisi iniziatiche, sono spesso accompagnate da stati di trance selvaggi ed incontrollati, a volte addirittura brutali. La persona posseduta viene percossa violentemente e anche gettata per terra, causando notevoli danni a se stessa e all’ambiente circostante. Gli adepti chiamano questa trance selvaggia santo bruto, perché secondo la loro interpretazione si tratta di una punizione da parte di una divinità insoddisfatta25. Il santo bruto dai seguaci del culIdem. Una persona che diventa vittima di una trance selvaggia di solito non è chiamato medium nel contesto afro-brasiliano. Il medium, d’altra parte, è l’adepto che ha l’inizia24 25
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to è percepito pericoloso e allo stesso tempo lo interpretano segnale di capacità mediatiche, una sorta di chiamata a svilupparle e a metterle al servizio delle divinità, degli spiriti e degli uomini. Per la terapia del santo bruto o la crisi iniziatica sono previsti vincoli spirituali, rituali di purificazione ed offerte, determinate dal pai-de-santo. Il paziente è così sempre più integrato nella comunità di culto e viene istruito nelle pratiche religiose fino a diventare lui stesso un medium attraverso l’iniziazione, e per poi ridefinire la propria esistenza ed allocazione nel mondo. Riti di purificazione ed iniziazione non sempre sono garanzia per tenere sotto controllo divinità e spiriti. Ulteriori problemi, anche gravi, sorgono durante una guerra di orixà per la supremazia sulla testa di una persona, o invece che il suo orixà, gli viene “piantato” accidentalmente in testa uno sbagliato26. I problemi possono sorgere anche se due medium – uomo e donna – si sposano e i loro orixá non vanno d’accordo27. In tutti questi casi, l’orixà principale deve essere insediato nella sua nuova posizione con l’aiuto di una serie di rituali re-iniziatici. Le purificazioni e le guarigioni rituali vengono sempre eseguite da divinità e spiriti attraverso lo stato di trance dei loro medium. Sia per gli ospiti della casa che per i medium ciò significa che malattie e disagi colpiscono il loro corpo, ma non hanno origine in loro. Piuttosto, essi sono interpretati come segni divini e spiritici, come squilibri energetici, e assenze di axé o come conseguenze di magia nera. Malattia e sofferenza vengono interpretate attraverso la cosmologia e diventano parte integrante della vita spirituale. Una terapia quindi richiede innanzitutto la comunicazione con il mondo metafisico, resa possibile solo dalla trance. Inoltre, l’adempimento continuo di compiti e pratiche rituali, sono indispensabili e possono essere soddisfatti solo all’interno di un gruppo di culto28. Se la comunità di culto segue i doveri e rispetta le richieste degli orixà e delle entidades, migliora il benessere di tutti: di medium e adepti, seguaci e visitatori, così come di divinità e spiriti, perché anche se questi ultimi non vengono nutriti con axé, si zione alle spalle e può così controllare la sua possessione in una certa misura e limitarla al rituale. 26 Nella prospettiva dei culti afro-brasiliani, ogni persona di solito ha due o tre orixás che vivono nella sua testa, che si impossessano di lui durante la séance di trance. Inoltre, gli spiriti possono anche entrare nel corpo di un mezzo in cui fanno parte della cosmologia. 27 Gudolle Cacciatore, Olga (1977:255). 28 Seligman, Rebecca (2010:307).
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ammalano. La terapia nei culti afro-brasiliani è quindi onnicomprensiva; i confini tra guarigione e malattia sono sottili e si dissolvono in una dipendenza reciproca. Lo stato di trance rituale funziona come un camice medico: chiunque lo indossa può essere terapeuta. Iniziazione – fazer cabeça e set a lungo termine L’iniziazione può avere anche fini terapeutici. Trance selvaggia, malattia e malasorte possono essere curate o reinterpretate attraverso l’iniziazione. Se una persona diventa medium, un nuovo mondo si apre ad essa e attraverso l’apprendimento della cosmologia ed un nuovo stile di vita che le corrisponde, ottiene un nuovo quadro interpretativo. Malattia e malasorte vengono così esternalizzate: ragioni e cause scatenanti non sono più localizzate nella persona malata e nel mondo terreno, ma nel mondo di divinità e spiriti, e sono determinate dalle relazioni che l’uomo coltiva con loro. Spesso il desiderio d’iniziazione è preceduto da un sintomo di carenza. Se una divinità o uno spirito si sente affine ad una persona o vuole insediarsi nella sua testa, vuole essere anche nutrito da essa. L’essere metafisico mostra il suo desiderio all’uomo attraverso malattia, malessere, nei sogni, mediante la possessione e la trance selvaggia. Indirettamente così chiede al suo “cavallo”29 di andare in una casa di culto per iniziare ad instaurare una relazione con l’entità spiritica. Dopo che quest’ultimo ha partecipato ad una serie di rituali come visitatore, vorrà sapere a quale orixà o spirito è affiliato, sia per trovare il suo posto nella cosmologia del culto che per essere liberato dalle sofferenze finora inspiegabili. Di conseguenza, il pai-de-santo durante una séance di trance, lancia l’oracolo delle conchiglie per svelare il suo orixà principale e gli altri due orixás che condividono la testa con il primo. Se l’orixà principale richiede una partecipazione più attiva nel culto e la persona asserisce, diventa novizia. Di seguito, il pai-de-santo consacra al novizio una collana con i colori dell’orixà ed avvia così il processo iniziatico30. Lava la collana in erbe sacre e con il sangue di un Per “cavallo” o “cavalo” si intende il posseduto, che viene appunto cavalcato dallo spirito o dall’orixà. Questo termine è ricorrente non solo nel mondo delle possessioni afro-brasiliane, ma in tutto il mondo. 30 Prandi, Reginaldo (1996:18). 29
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animale sacrificato, che cola sulla pietra sacra del rispettivo orixà e sul pavimento del terreiro. Attraverso questa pratica rituale viene rafforzato il legame del novizio con il suo orixà e con la comunità di culto. Da questo momento in poi, il novizio passa attraverso vari riti sia negativi che positivi: i primi includono tutti i tabù proprie della sua divinità, che egli stesso è tenuto a seguire d’ora in avanti, mentre i secondi consistono principalmente nei riti di purificazione, nei sacrifici e in un ruolo più attivo nella vita di culto. Passa inoltre attraverso una fase di avvicinamento al suo orixà e la sua incarnazione in trance. Il novizio deve riconciliarsi con la sua divinità (adorcismo), che in nessun caso deve essere cacciata o combattuta (esorcismo)31. Nelle séance rituali, i medium lo invitano a far parte delle danze circolari in occasione di riti e celebrazioni, e prestano attenzione a che l’orixà del novizio sia percepibile. Se i segnali dell’incorporazione diventano evidenti, il pai-de-santo o il suo aiutante avvolge il novizio in un panno bianco e lo porta in una stanza sul retro32. Qui viene calmato e riportato al suo stato psicofisico normale, dato che la sua trance è ancora troppo selvaggia ed incontrollata per mostrare la divinità durante un rito pubblico. Tuttavia, la trance inizialmente selvaggia del novizio è di buon auspicio e viene considerato come dono divino, perché solo attraverso la sua comparsa può diventare medium. Il novizio, con l’aiuto del pai-de-santo e degli adepti, prepara un’offerta in onore di Exu, signore delle strade e dei crocevia così come mediatore tra uomini e divinità, perché senza la benedizione di questo orixà, l’iniziazione sarebbe estremamente rischiosa se non impossibile. Exu è anche trickster – imbroglione – e a volte induce in errore i novizi o li fa impazzire, se non gli viene concessa la prima offerta e se non viene onorato prima di tutti gli altri orixà. Per il rito d’iniziazione, la comunità di culto necessita di animali da sacrificare oltreché di una varietà di cibi, costumi, feticci e parafernalie. L’acquisto di tutto ciò comporta costi straordinari e il novizio viene sostenuto dagli adepti e spesso anche dalla propria famiglia33. Il vero e proprio rito iniziatico – nel gergo di culto fazer cabeça, “fare la testa” – ha una durata di diversi giorni o settimane, e consiste in una serie di rituali che si svolgono all’interno della casa di culto. Streck, Bernhard (2013:203). Verger, Pierre Fatumbi (1997:44). 33 Prandi, Reginaldo (1996:18-19). 31 32
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Inizialmente, il pai-de-santo e i suoi assistenti preparano il corpo del novizio per il sua orixà34. Mentre il novizio siede su un trono davanti all’altare principale, a seconda del culto, gli adepti gli rasano i capelli della testa oppure gli depilano tutto il corpo, e con del gesso gli disegnano sulla fronte i simboli dell’orixà35. La testa e la pelle nuda simboleggiano la nascita o la rinascita del novizio, mentre il simbolo della divinità servirà come porta d’ingresso nella sua testa alla divinità36. Gli adepti fanno un’offerta di cibo all’orixà del novizio (dar comida a cabeça o bori), per la quale macellano un animale sacrificale a due zampe. Fanno gocciolare il sangue sulla testa del novizio, sui feticci e sul pavimento del terreiro, instaurando così il legame sacro tra l’uomo, l’orixà, il gruppo e la casa di culto37. Attraverso il rito di passaggio, il novizio si separa dal suo mondo per entrare in un altro mondo, quello del culto di possessione38. Dopo queste prime pratiche rituali, i percussionisti suonano i ritmi degli orixà, mentre gli adepti cantano le rispettive canzoni – in gergo pontos cantados –, il cui scopo è quello di attirare la divinità del novizio nella casa di culto. Ritmi e canzoni vengono ripetuti fino a quando il novizio, posseduto dal suo orixà, cade in trance ed inizia a danzare nei suoi movimenti tipici della divinità. Questi rituali si ripetono più volte nell’arco di diverse settimane o mesi, quando il novizio viene sempre accompagnato dal pai-de-santo. Insieme lo introducono alle pratiche rituali, alla cosmologia, alla mitologia delle divinità e degli spiriti, al linguaggio rituale e alla liturgia del culto. Passo dopo passo, i misteri della casa vengono così svelati al novizio, che dal mondo profano viene così accompagnato nel mondo sacro, con il quale attraverso l’iniziazione entra in relazione per tutta la vita39. Il corpo del novizio deve apprendere i pattern di movimenti ed essere rafforzato di costituzione, in modo da avere la forza e perseveranza necessaria a ricevere e raffigurare la sua divinità durante il rito, al quale parteciperà anche il pubblico. Il rafforzamento, tuttavia, è puramente simbolico, perché Nelle grandi case di culto del Candomblé a Bahia, diversi novizi sono iniziati insieme e il gruppo iniziatore si chiama barco (barca). Cf. Verger, Pierre Fatumbi, 1997:44. Nelle case di culto più piccole, invece, vengono iniziati anche singoli novizi. 35 Torres de Freitas, Byron e Tancredo Da Silva Pinto (1970:93). 36 Bastide, Roger (2009:52). 37 Prandi, Reginaldo (1996:19). 38 Van Gennep, Arnold (2005:21). 39 Van Gennep, Arnold (2005:91). 34
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il suo corpo è indebolito e teso dallo sforzo fisico, dalla deprivazione del sonno, dalla dura disciplina, da tabù e astinenze alimentari e sessuali. Seguirà alcuni di questi tabù solo durante l’iniziazione, altri per il resto della sua vita. Durante l’iniziazione, il pai-de-santo e i suoi assistenti offrono al novizio bevande a base di erbe medicinali che hanno un effetto sedativo e rendono quasi impossibili semplici attività quotidiane. Attraverso l’indebolimento intenzionale del corpo e lo stress psicologico, l’autostima del novizio si indebolisce o addirittura si dissolve, per fare spazio al nuovo io o io del suo orixà40. In questo periodo si ritrova in una fase liminale: non è più se stesso, ma nemmeno un altro. Perde il senso del tempo e dello spazio, e vegeta in uno stato quasi incosciente. Più volte gli si manifesta un messaggero sotto forma di erê o criança – uno spirito infantile. È il giovane orixà che mette il novizio in uno stato di coscienza leggermente modificato – una sorta di semi-trance – allenandolo così alla trance controllata. In questa costituzione fisica il novizio riesce a recuperare le forze: incorporando l’erê gli è permesso di aggirare temporaneamente le rigide regole e i tabù dell’iniziazione. Si comporta come un bambino ribelle, ride e gioca, esprime gioia e insoddisfazione in un’atmosfera di leggerezza e sobrietà. La fase finale dell’iniziazione si svolge nella camarinha – una stanza spesso situata sul retro della casa di culto. A seconda della tradizione, il novizio può lasciarla sporadicamente o deve rimanerci nel silenzio più assoluto. Dopo questo periodo di segregazione e transizione, il novizio è pronto per il rito iniziatico vero e proprio, durante il quale incorpora ancora una volta la sua divinità. Quando l’orixà prende possesso di lui, viene accompagnato sul terreiro, e davanti al pubblico gli viene chiesto di gridare il suo nuovo nome, in modo che tutti possano sentirlo. In alcuni culti, il novizio prende in bocca un pezzo di carbone incandescente come prova dell’autenticità della sua trance, mentre in altri passa una candela accesa sulla propria pelle. L’apprendimento della trance e la rappresentazione di Dei e spiriti è il caposaldo della vita religiosa del medium nei culti di possessione afro-brasiliani. Durante l’iniziazione, il novizio si trova alternativamente in due stati modificati di coscienza, che gli adepti chiamano “stato di orixà”
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Ricardo De Souza, Patricia (2008:2).
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e “stato di erê”.41 Mentre nello stato di orixà è un essere personificato, come per esempio il Dio del tuono Xangó o il Dio della guerra Ogum, nello stato di erê il novizio è un essere spersonalizzato. Gli erê, che individualmente non hanno né un nome né un carattere specifico, sono da considerare meno come esseri, ma più come uno stato che caratterizza la transizione tra l’essere umano e l’essere orixà. Durante questa transizione il novizio si de-personalizza non appena cade nella semitrance dello stato di erê, per incarnare la personalità del suo orixà. Apprende questi stati psico-fisici durante l’iniziazione, dove essi agiscono principalmente sul suo subconscio e vi si stabiliscono come un set latente a lungo termine.42 Tramite riflessi condizionati43, il novizio, oramai diventato medium, attraverso il suono ed i ritmi di tamburo, dei canti rituali, del sonaglio del pai-de-santo, e grazie agli odori del cibo d’offerta, dell’incenso e dei bagni alle erbe, dei vestiti colorati, delle statue e delle manipolazioni corporee del sacerdote, tornerà ripetutamente allo stato psicofisico dell’iniziazione. L’insieme di questi stimoli sensoriali, ovvero il setting44 della casa di culto, congiuntamente al set iniziatico del novizio sono un affidabile innesco per la trance45. Attraverso i vincoli rituali (obrigações), che fungono da parziali ripetizioni dell’iniziazione, il set a lungo termine viene rinfrescato e ampliato con nuovi modelli e/o personalità, divinità e spiriti. Il set a lungo termine permette al medium di cadere ripetutamente in trance, sia nella propria, che in altre case di culto afro-americane46. Rouget, Gilbert (1985:47). La parola inglese “set” sta per “mental attitude”, “personalità”, “state of mind”, ecc. in relazione a stati alterati di coscienza e trance. Metzner, Ralph (1997:115). 43 Definiti anche come “riflessi acquisiti”; questi sono appresi e quindi formano l’opposto dei riflessi innata. Durante il condizionamento del riflesso, uno stimolo neutro in combinazione con uno stimolo biologicamente significativo innesca una reazione nel comportamento. Dopo il primo condizionamento, la reazione comportamentale si attiva anche quando lo stimolo biologicamente significativo è assente. Zimbardo, Philip G. (1992:231) 44 La parola inglese “setting” qui sta per “struttura”, “dispositivo”, “ambiente sociale e fisico” o “ambiente”. Metzner, Ralph (1997:115). 45 Lo stesso accade al di fuori dei culti afro-brasiliani, sia in altri gruppi religiosi che in un contesto profano, come l’ipnoterapia. Nell’induzione della trance, la combinazione di un set ricorrente e di ambienti gioca un ruolo eccezionale. 46 Qui si usava deliberatamente “afro-americano” al posto di “afro-brasiliano”, come una volta ho osservato come un pai-de-santo della Santeria cubana fosse ospite in una casa di Candomblé e cadde in trance durante il rituale. Sembra quindi possibile che i medium cadano in trance anche in contesti simili – in questo caso la Santeria e il Candomblé – e incorporare la propria divinità. 41 42
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Liturgia – consultazioni, despacho ed il cerchio dei santi Quando si considerano le forme liturgiche dei culti afro-brasiliani, la distinzione tra riti pubblici e non-pubblici è fondamentale. Questi ultimi comprendono la maggior parte delle pratiche iniziatiche, nonché le consultazioni private, durante le quali singole persone visitano il pai-de-santo. In entrambe le pratiche rituali le manifestazioni di trance sono parte essenziale della liturgia. Soprattutto nei riti pubblici e nelle celebrazioni, l’apice è raggiunto quando i medium entrano in trance e vengono posseduti dalle loro divinità o entità spiritiche. L’assenza di trance invece è un presagio estremamente negativo e, la ripetuta assenza di trance, alla casa di culto può costare non solo un calo di status e prestigio, ma anche la propria esistenza. Per il visitatore, la trance dei medium è il mezzo per interagire con le divinità e gli spiriti, per stabilire una connessione personale con loro, per scambiare axé e quindi porre le basi per una vita pienamente realizzata. I riti pubblici comprendono innanzitutto feste in onore di un orixà, che si svolgono secondo il calendario cattolico dei santi47. A questo scopo, gli adepti adornano la casa di culto, gli altari, i tamburi ed il palo al centro del terreiro con i colori specifici della divinità. Sacrificano un animale e preparano i piatti preferiti dalla divinità celebrata. Una volta che i preparativi sono compiuti, aprono la porta di casa e ricevono gli ospiti48. Questi portano offerte, soprattutto fiori, ma anche candele, cibi e bevande, che vengono collocate nei santuari o poste su un tavolo appositamente preparato. Davanti alle statue dei santi sul gongá – l’altare principale – e nei santuari minori, gli adepti accendono candele e collocano bicchieri d’acqua fresca. Fuoco e acqua danno luce e calore, purificano e dissetano gli spiriti e sottraggono energie negative a loro. Il santuario degli exù49 è coperto da un telo bianco, Ogni orixà ha come equivalente un santo cattolico e, di conseguenza, un giorno di onomastico; si applica quindi il 20 gennaio – giorno di San Sebastiano – l’orixà Oxossi, il 23 aprile – giorno di San Giorgio – l’orixà Ogum, il 13 giugno – Sant’Antonio, che corrisponde all’orixà Exu, ecc. Tuttavia, poiché nelle diverse regioni del Brasile si sono sviluppati culti e tradizioni diverse, un particolare orixà non sempre corrisponde allo stesso santo cattolico. 48 La porta aperta della casa di culto segnala un rituale o una celebrazione accessibile a tutti. Se un visitatore vuole entrare, di solito non deve chiedere il permesso. 49 Exù esiste sia come orixà e dunque come divinità parte del pantheon Yoruba, che come gruppo di spiriti nella Macumba. Per differenziare viene usato “Exù” per l’orixà ed 47
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perché gli spiriti rappresentati dai feticci non devono assolutamente interferire in questo tipo di rituale. Una volta che le file di visitatori sono piene, il pai-de-santo chiama al silenzio scuotendo il suo sonaglio con movimenti rapidi. I medium, che in precedenza si sono purificati con un bagno nel cortile di casa, entrano nella sala delle cerimonie (barracão) vestiti di bianco e si radunano in cerchio attorno al palo centrale del terreiro. Tenendosi per mano recitano un Padre Nostro e un Ave Maria, dopodiché il pai-de-santo chiede all’orixà Oxalá e a Gesù Cristo di vegliare sul rituale e di proteggere tutti i partecipanti. Medium, adepti e ospiti applaudono, mentre il pai-de-santo torna a scuotere il sonaglio. Gli adepti iniziano a cantare canzoni per Exù, accompagnati dai percussionisti sui loro strumenti. Tre adepti preparano il despacho, l’offerta per questo orixà: prendono la candela ardente, il bicchiere d’acqua e il piatto di argilla con la farina, che avevano precedentemente posizionato davanti al palo centrale e sotto gli sguardi di tutti i presenti lo portano all’esterno della casa di culto. Poi depongono gli oggetti per strada e tornano nella casa camminando all’indietro. Con questo atto chiedono ad Exù di non disturbare il rituale e allo stesso tempo di agire come mediatore tra la comunità presente sul terreiro e le divinità.50 Si tratta di un atto rituale negativo con l’obiettivo di separare gli esseri sacri, impedendo conflitti tra di loro e mantenendo così intatto l’ordine cosmologico. Atti o pratiche rituali negativi servono anche come prologo e preparazione per atti rituali positivi51. Dopo il despacho, il pai-de-santo inizia a girare per la sala con un incensiere e lo fa oscillare verso l’altare, il tamburo e davanti al palo centrale del terreiro. Anche i medium vengono avvolti nel fumo mentre tengono le braccia alzate e ruotano una volta intorno a se stessi. Se il pubblico non è numeroso, il pai-de-santo ripete la stessa procedura per ogni singolo ospite. Poi si reca alla porta d’ingresso, seguito da un adepto che porta un bicchiere d’acqua in mano. Una volta giunti sull’orlo della porta, tiene il bicchiere d’acqua sopra la testa, si gira tre volte intorno al proprio asse e getta l’acqua alle proprie spalle sulla strada. Così facendo elimina tutte le energie negative, che aveva raccolto all’interno della casa. Nella stessa sequenza, il pai-de-santo o exù per designare gli spiriti. 50 Gudolle Cacciatore, Olga (1977:216). 51 Durkheim, Émile (2007:440, 457).
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un adepto purifica i presenti per una seconda volta, attraversando la casa con una manciata di gesso per poi soffiarlo all’esterno. Dopo questa serie di atti liturgici, eseguiti per purificare la casa e i presenti, e per mantenere in sicurezza il contesto rituale, gli adepti iniziano il xiré, ovvero cominciano ad invocare divinità e spiriti. Per ogni orixà, il pai-de-santo intona almeno tre canzoni, che di seguito vengono ripetute da adepti e ospiti. Le canzoni raccontano miti e storie di vita, descrivono tratti caratteriali delle divinità e degli spiriti. Di regola, sono piuttosto brevi e composte da quattro o sei righe, con singoli versi che fungono da ritornelli.52 Nella fase iniziale della cerimonia, le canzoni di culto servono a chiamare divinità e spiriti ad entrare nella casa di culto, mentre verso la fine, cantate in ordine inverso e leggermente modificate, sono un richiamo a ripartire per il loro mondo. Le canzoni sono anche un richiamo per i medium di cadere in trance e di incorporare la loro divinità. Le canzoni di culto vengono accompagnate dal suono degli atabaque, i tre tamburi, battuti dai percussionisti che attraverso diversi pattern ritmici traducono in musica le caratteristiche dei singoli orixà. Suonano velocemente e veementemente per Ogum, il Dio della guerra, con tocco leggero e imitando le onde sull’oceano per Yemanjà, la Dea del mare, lentamente e con un ritmo strascicante per Omolu, l’orixà del vaiolo, con brio ma con tocco snello e meno accentuato per Oxossi, il Dio della caccia, e con suono marziale e fremente per Xangò, l’orixà del tuono53. L’ordine dell’invocazione degli Dei e quindi di canti e ritmi dei tamburi varia da casa a casa, da culto a culto. In genere però, Ogum è il primo ad essere onorato perché considerato guerriero dell’avanguardia e l’orixà più coraggioso – colui che apre il cammino –, simile ad Exù, ma più leale e meno ingannevole.54 Il “cerchio dei santi” (roda de santo o gira) si apre contemporaneamente all’inizio dell’invocazione delle divinità. Gli adepti danzano in cerchio attorno al palo centrale del terreiro, seguendo le orme del pai-de-santo ed il suono del suo sonaglio. All’inizio di ogni singola canzone, gli adepti onorano il medium del rispettivo orixà gettandosi a terra e baciandogli la mano. A questo punto, spesso e improvvisamente i medium cadono in trance. I loro corpi si contraggono violenFigge, Horst H. (1973:98). Arcella, Luciano (1998:93). 54 Idem 52 53
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temente, soffrono di convulsioni e cadono a terra, per poi rialzarsi e iniziare a ballare freneticamente nel terreiro. Poco dopo vengono portati rapidamente dall’assistente del pai-de-santo nella stanza sul retro. Se il rituale viene celebrato in onore all’orixà del medium posseduto, a quest’ultimo viene messo il vestito cerimoniale che rappresenta la divinità e viene di seguito riaccompagnato nella sala delle cerimonie. Qui, la divinità mostra il proprio splendore e la propria bellezza attraverso le coreografie della danza della trance. Gli ospiti, in soggezione della divinità, si alzano dai loro posti e dirigono i palmi delle mani verso la divinità per poter assorbire la forza vitale axé e per rafforzare il legame con il divino. Se, tuttavia, il rituale o la celebrazione si applica ad un altro orixà, il medium nella stanza sul retro si calma e la divinità viene espulsa. Anche nei rituali in onore a determinati spiriti, la liturgia è simile55. Se, per esempio, uno spirito indio cavalca un medium, a quest’ultimo viene fatta indossare una corona di piume, poi viene fornito del suo armamentario e messo a sedere su un trono. Inizialmente, lo spirito indio danza sfrenatamente, saluta i medium e gli ospiti, pronuncia discorsi e intona canzoni più o meno note, che raccontano delle sue origini, della sua personalità e delle avventure vissute nella vita terrena. A differenza degli orixà, che non sono in grado di parlare, spiriti come quello indio, aprono sedute durante le quali interagiscono con i presenti e danno consigli ad adepti e ospiti, o invitano singoli a una seduta terapeutica. In alcune case di culto, durante queste consultazioni, regna il silenzio più assoluto per non disturbare lo spirito nel suo lavoro, mentre in altre, la comunità di culto continua a suonare, cantare e dialogare. Uno spirito raramente giunge da solo nella casa di culto: quasi sempre porta con sé un’intera schiera di fratelli e sorelle, altri spiriti della sua falange o linea56. Il primo medium posseduto, subito dopo che da una trance violenta passa ad una trance più controllata, inizia a toccare altri medium con la mano destra o con una delle sue parafernalie tra le scapole, facendo cadere in trance anche loro. Lo spirito attraverso il Nella maggior parte delle correnti del Candomblé, i medium non incarnano spiriti (entidades), mentre nell’Umbanda incarnano spiriti ma non divinità (orixà). Nel culto dell’Omolocô e nell’Umbanda Cruzada, invece, compaiono entrambi, orixàs e entidades. 56 Simile ad un esercito, soprattutto negli spiriti Umbanda sono suddivisi in innumerevoli falangi (falanges), legioni (legioes) e linie (linhas). Solo gli specialisti e gli esperti di lunga data sono in grado di tenere traccia di questa rete confusa. 55
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primo medium posseduto, e in evidente stato modificato di coscienza, sembra scatenare una vera e propria epidemia di trance. Dopo che gli spiriti hanno finito le loro attività e danze, il pai-desanto inizia a cantare i pontos de subida – canzoni di ascensione – nelle quali chiede agli spiriti di lasciare i loro medium e di tornare al loro luogo di origine57. Uno a uno lasciano la casa, mentre i loro medium visibilmente esauriti, cadono su una sedia e si strofinano gli occhi come appena svegliati da una notte insonne. Dopo una breve pausa, che serve ai medium per riprendersi dalle fatiche della trance, tutti insieme cantano un cosiddetto ponto de encerramento, in cui la comunità di culto chiede il permesso di concludere il rituale. Le feste in onore degli exù e delle pombagira hanno una struttura liturgica diversa. Prima dell’inizio del rito, un adepto copre con un panno bianco l’altare principale su cui si trovano le statue dei santi cattolici, poi svela il santuario degli exù e delle pombagira e accende una candela davanti a ogni feticcio. Le due sfere vengono divise e tenute lontane una dall’altra: quella degli orixà, santi e spiriti sul “lato destro” separata da quella del povo da rua, il popolo o spiriti della strada, che occupano il “lato sinistro”. I tamburi dalla loro posizione laterale vengono spostati al centro e avvolti in un panno rosso. Il despacho non viene eseguito durante questi rituali, dato che l’obiettivo non è quello di tenere lontano gli exù e le pombagira, ma di invitarli o attirarli nella casa. Quando i medium cadono in trance e vengono posseduti da questi spiriti, essi trattengono simili sedute di guarigione, purificazione e consulenza come quando incorporano spiriti indio o spiriti di vecchi schiavi58. A differenza di questi ultimi, tuttavia, l’aspetto degli exù e delle pombagira è sempre festoso: ballano, scherzano, bevono e fumano con i visitatori che si soffermano nel terreiro fino a notte fonda. Se un ospite vuole lasciare la casa prima della fine del rito, deve chiedere il permesso a uno degli spiriti e farsi purificare, per non portare la loro energia all’esterno della casa. Nella liturgia dei culti afro-brasiliani, che si tratti di feste o rituali Gudolle Cacciatore, Olga (1977:226). Può darsi che un medium sia già posseduto prima dell’inizio del rituale, come ho potuto osservare più volte nella casa di culto sul Morro do Pinto. Nella maggior parte dei casi, il medium è ancora in trance, perché c’è stata una consultazione privata nel pomeriggio. Tuttavia, lo spirito viene espulso prima del rituale per poi essere nuovamente incorporato in un secondo tempo. 57 58
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per una divinità o più divinità o spiriti, l’apice liturgico è la trance dei medium e l’incorporazione, mentre l’assenza di trance viene interpretata dalla comunità di culto come conseguenza di un grave errore liturgico. Una repentina assenza di divinità e spiriti dalla casa di culto, è segno che probabilmente è diventata vittima di una disputa o di una cosiddetta demanda.59 La demanda è una sorta di incantesimo eseguito con l’aiuto di un orixà, e quindi più potente dell’attacco di uno spirito. L’orixà entra in battaglia contro quello del concorrente di un’altra casa di culto. L’adepto colpito dalla demanda deve rispondere all’attacco per mezzo di complessi rituali, invitando Ogum, l’orixà della guerra ad aiutarlo, vista la sua caratteristica di protettore e vincitore delle demande. Rituali e celebrazioni hanno uno specifico ordine, un sistema fisso di regole e un codice di condotta, ma nonostante ciò offrono molto spazio all’improvvisazione. Da un lato, nei culti afro-brasiliani non esiste un’istituzione centrale o ecclesiastica che dia linee guida e, dall’altro, perché divinità e gli spiriti sono di natura imprevedibili. La liturgia di questi culti è quindi da considerare dinamica, caratterizzata da continui cambiamenti, come anche dalla scomparsa di alcuni elementi cosmologici e mitologici e la comparsa di elementi nuovi. L’unica componente che crea un continuum liturgico e che tutti i culti afro-brasiliani hanno in comune è l’incorporazione del divino durante la trance dei medium. Divinazione – cipree, noci di cola, il babalaô e gli oracoli Nella società brasiliana, divinazione e rivelazioni mantiche godono di un’alta popolarità, come del resto confermano numerosi pai-de-santo in uno studio condotto da Reginaldo Prandi nel 1996. La divinazione nei culti afro-brasiliani prevale su molti momenti della vita religiosa60. Il ruolo attivo nelle pratiche di divinazione è riservato ai medium che non cadono in trance, mentre gli adepti, come l’assistente del paiPer un caso di studio dettagliato Cf. Maggie, Yvonne (2001). Prandi, Reginaldo (1996:93). L’autore ha intervistato 60 capi di culto nell’area metropolitana di San Paolo sulla loro clientela degli oracoli. Tra i clienti ci sono più o meno tutti i gruppi professionali e di età di tutte le classi sociali, indipendentemente dal sesso. Cf. Prandi, Reginaldo (1996:94-98). 59 60
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de-santo o l’ogã – il maestro dei tamburi –, pur essendo consacrati ad uno o più orixà, non hanno capacità divinatorie. La divinazione richiede comunicazione tra il divino e gli esseri umani, la quale, come abbiamo già visto, può avvenire quasi esclusivamente grazie alla trance dei medium. In tutti i culti, divinità e spiriti non comunicano verbalmente e direttamente attraverso il corpo dei loro medium. Questo è il caso di certe “nazioni” di Candomblé, dove i medium incorporano solo orixà, ma non spiriti. Durante le sedute di divinazione di questi culti, il pai-de-santo oracola tramite delle conchiglie, anche se non è in trance. Per questa forma di divinazione adopera 16 conchiglie cipree, che fa cadere su un panno. Utilizzando la figurazione delle conchiglie, che hanno una superficie liscia e aperta, il pai-de-santo può leggere il futuro del suo cliente, individuare malattie, trovare oggetti smarriti, svelare incantesimi e, soprattutto, determinare il principale orixà di chi ha davanti. Le conchiglie qui descritte sono sorvegliate da uno specifico orixà: Ifá – signore della divinazione e del destino. Ifá è la voce e l’ambasciatore della divinità suprema Orunmilá, e dopo il suo arrivo in Brasile è stato identificato con lo spirito santo. Secondo la mitologia degli Yoruba, Ifá ha sedici occhi che corrispondono in numero alle porte del futuro e alle conchiglie dell’oracolo.61 L’oracolo di Ifá non viene eseguito da un comune pai-de-santo, ma dal babalaô, il “padre dei segreti”, che già in giovane età viene istruito da un anziano della sua gilda nell’interpretazione delle cipree e della catena d’oracolo, e viene iniziato all’orixà Ifá. A differenza del comune pai-de-santo, il babalaô non incorpora la sua divinità e quindi non è in possesso della tecnica di trance.62 L’antico ruolo dei babalaô fu ripreso nei culti afro-brasiliani dai pai-de-santo, che sostituirono l’oracolo dell’Ifá con altre tecniche diviGudolle Cacciatore, Olga (1977:146). Il babalaô ricopre il più alto incarico nella gerarchia religiosa degli Yoruba ed è in competizione con il pai-de-santo (o babalorixá). L’ultimo babalaô del Brasile è morto negli anni ’30 e la tradizione dell’oracolo Ifá con lui, mentre i babalaô esistono ancora oggi in Africa occidentale e a Cuba. Questo perlomeno è ciò che suggerisce la letteratura specializzata a me nota. Durante il mio soggiorno in Brasile, però, ho potuto seguire un programma televisivo su un gruppo di brasiliani che si era costituito per diventare babalaô a Cuba. Nelle case di culto afro-brasiliani questo gruppo ha suscitato grande interesse. Per una descrizione dettagliata dell’oracolo Ifá Cf. Prandi, Reginaldo (1996:92-94). 61 62
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natorie. Anche se queste tecniche sono meno complesse, sono comunque popolari e molto apprezzate nella società brasiliana. Fondamentalmente, nei culti afro-brasiliani si possono distinguere divinazione oggettiva e soggettiva63, o divinazione attiva e passiva. La divinazione attiva include l’oracolo delle conchiglie, dove il pai-de-santo legge la volontà del divino nella disposizione delle cipree. Oltre a queste, i pai-de-santo utilizzano una serie di altri oggetti, come noci di cola, tarocchi, pietre, insegne in miniatura della loro divinità o spirito, piatti, pendoli o combinazioni di alcuni di questi oggetti per diversi culti, come per esempio del Candomblé de Angola e dell’Omolocô. Il medium impara le tecniche di divinazione attiva nei sette anni successivi all’iniziazione, dopodiché è consacrato al pai-de-santo stesso e può aprire un proprio tempio. Nonostante la quasi scomparsa dei babalaô in Brasile, elementi della loro tecnica di oracolo continuano a vivere in alcune case di culto, dove durante l’oracolo i pai-de-santo non cadono in trance. Ciò può essere dovuto principalmente al mutismo dell’orixà; il pai-de-santo che cade in trance e incorpora la sua divinità non può fare dichiarazioni verbali. Se, d’altra parte, il pai-de-santo non è in trance e quindi non incarna il suo orixà, quest’ultimo può sussurrargli messaggi. La divinità può anche apparirgli nel sogno ad occhi aperti o di notte, o può farsi sentire come voce interiore. Ma può anche, come nel caso dell’oracolo, dirigere i movimenti del corpo e i pensieri del medium dalla testa in cui è stato piantato con l’iniziazione. In questioni urgenti, e dove decisioni devono essere prese all’istante, i medium fanno uso di un altro oracolo che non richiede né la trance né una visita al pai-de-santo. L’oracolo con le noci di cola è una tecnica di divinazione piuttosto semplice in cui la divinità risponde in modo chiaro, ma indiretto, combinando le quattro noci di cola: se queste sono rivolte verso l’alto, la divinità risponde “sì”; se l’interno delle tre noci è rivolto verso l’alto, la risposta è “no”; se due sono rivolte verso l’alto e due verso il basso, significa “favorevole”, mentre se un solo lato interno è rivolto verso l’alto significa “sfavorevole”64. A differenza della divinazione passiva delle case di Candomblé più conservatrici, la trance gioca un ruolo importante nella divinazione 63 64
Bastide, Roger (2001:115). Bastide, Roger (2001:116).
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attiva dei culti più dinamici ed eterodossi. Prima dell’inizio della seduta divinatoria, i pai-de-santo incorporano uno spirito che è collegato all’orixà Exù, ovvero al messaggero tra orixà e ed esseri umani65. Di conseguenza, non sono i pai-de-santo stessi a eseguire l’oracolo, ma gli spiriti. Prima dell’inizio dell’oracolo di cipree, il cliente scrive il proprio nome o quello di un amico o parente su un pezzetto di carta che il pai-de-santo posseduto pone sotto un piatto, dove di seguito mette una candela e un bicchiere d’acqua. Poi lancia le cipree e, interpretando la combinazione di esse, se convesse o concave, dà risposte alle domande del cliente riguardo a futuro, salute e malattia, amore, sessualità e denaro. Il pai-de-santo adopera questo tipo di oracolo anche quando vuole determinare l’orixà o gli orixà che governano sulla testa di una persona. Considerando questa tecnica, tuttavia, le opinioni tra pai-de-santo si dividono: c’è chi insiste sul fatto che l’orixà dovrebbe essere determinato esclusivamente dall’oracolo, mentre altri integrano questa tecnica con l’individuazione di caratteristiche dell’orixà nel sistema della mitologia.66 Simile alla divinazione attiva, in quella passiva, cioè la divinazione caratterizzata dall’assenza di oggetti, esistono situazioni dove occorrono stati di trance (divinazione oggettiva) e situazioni in cui questi sono assenti (divinazione soggettiva). Nella divinazione oggettiva durante cerimonie pubbliche, gli spiriti comunicano con i presenti attraverso i loro medium. Durante un dialogo con il pubblico, lo spirito può per esempio parlare della situazione nella casa di culto, e volgere la sua attenzione su possibili conflitti tra gli adepti per poi risolverli in un secondo momento. In tal caso la casa di culto assume la funzione di tribunale e lo spirito il ruolo di giudice supremo67. Poiché nessuno osa contraddire uno spirito, la sua decisione equivale a un giudizio d’istanza suprema. Nella variante soggettiva della divinazione passiva, invece, lo spirito o la divinità, appare al medium non in trance. Per esempio in un sogno o nei pensieri, avvertendo così il medium da un pericolo imminente o dando consigli su questioni importanti. In tutte le forme di divinazione, attiva o passiva, soggettiva o ogGudolle Cacciatore, Olga (1977:36). Sul sistema di archetipi degli orixá e ulteriori tecniche per determinare l’orixà principale Cf. Segato, Rita (2005); Verger, Pierre Fatumbi (1997). 67 Palmisano, Antonio Luigi (2000:132). 65 66
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gettiva, caratterizzata o meno dall’incorporazione di Dei o spiriti, la trance gioca un ruolo essenziale, dato che la capacità di cadere in uno stato di trance e incorporare il divino è la caratteristica più elementare del medium nei culti afro-brasiliani. Nei culti afro-brasiliani, le quattro modulazioni di ritualizzazione di stati modificati di coscienza si intrecciano visibilmente e non appaiono linearmente una dopo l’altra, ma bensì si alternano in più momenti del rituale. L’analisi di una singola modulazione, come la terapia, è quindi possibile solo in misura limitata e può rendere difficile la piena comprensione della struttura della trance di un culto. La terapia può portare all’iniziazione se è ciò che la divinità chiede al malato. L’iniziazione è quindi anche terapia nel caso in cui il novizio guarisca. Tuttavia, l’iniziazione non è sempre necessaria per la guarigione, perché può essere anche conseguenza di un oracolo, se il responsabile di un incantesimo viene identificato e combattuto con successo. In questo caso la terapia è associata alla divinazione. Il medium impara le tecniche di divinazione dopo la sua propria iniziazione, e dopo che il suo orixà principale è stato individuato grazie ad un oracolo e poi consacrato al novizio durante l’iniziazione. Divinazione, iniziazione e terapia sono strettamente legate alla liturgia, perché fanno parte del rapporto tra l’uomo e la divinità, che nei culti afro-brasiliani esiste solo grazie alla trance. Bibliografia Arcella, Luciano Rio d’Africa – Macumbe e Candomblé nella città tropicale, Roma, Edizioni Mediterranee, 1998. Bastide, Roger Le rêve, la transe et la folie, Éditions du Seuil, 2003 [1972]. O Candomblé da Bahia, Sao Paulo, Ed. Schwarcz Ltda, 2009 [1958]. The African Religions of Brazil, Baltimore and London, The John Hopkins University Press, 2007 [1960]. Bourguignon, Erika Psychological Anthropology – An Introduction to Human Nature and Cultural Differences, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1979.
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A Gondar con i posseduti, 2015 Laura Budriesi
…perché i poeti sono sempre, senza saperlo, dalla parte dei démoni (Leiris 1934a)
Abstract In Gondar with the possessed, 2015 The article presents some results of the field research carried out by the author in Ethiopia, Gondar 2015, at the house of Abba G.M. a wukabi bale possessed by the great tsar Seifou Tchenger, a well-known zar in the area. It is the same spirit that in the 1930s mainly possessed the bale zar Malkam Ayyahou, giving her considerable authority. The author relates the cults that have been celebrated at Gondar in the 1930s with those she has recently witnessed. Intimately involved in the rituals, she also presents the activity and the functions of the Azmari musicians accompanying the possession ceremonies, whose music today is also required in many festive circumstances and family occasions. She also focuses on the rhetorical formulas, the qene, uttered by the bale zars and expressing a knowledge that can only be deciphered by the most experienced connoisseurs of that culture. Keywords: possession and theater, zar cult, Gondar Ethiopia , ethnomusic, Azmari, fieldwork
1. L’ingresso È Jamal, il mio intermediario a Gondar, il primo a parlarmi di pazienza: «Siamo pazienti. Oggi andiamo soltanto a pesca». La prima lezione per una buona ricerca di campo gliela aveva data un antropologo giapponese che doveva diventare monaco buddista: Itsushi Kawase.
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A Gondar sono stata nella casa di G. M., medium guaritore, sciamano, medice-man, grande posseduto, balezar, bale wekabi1, tutti attributi che gli vengono dati, e che tutti chiamano “Abba”, “padre”2. «Dovrai acquistare il vestito tradizionale etiope, la kemis abesha», fu tra le prime cose che mi disse Jamal ad Addis Abeba, mentre pianificavamo il fieldwork3 a Gondar: la veste di candido cotone con disegni tradizionali ricamati indossando la quale le donne si recano nei luoghi sacri, a cui si aggiunge la bianca e sottilissima netela o chamma, da portare sul capo che ricade sulle spalle, tradizionalmente indossata soltanto dopo il matrimonio. Uno dei beni più preziosi delle donne. Raccontano richiami il sudario di Maria. Anche io l’avrei indossata. Non mi era chiaro se ci saremmo recati alle cerimonie a Gondar come ricercatori, come fedeli, oppure dichiarandoci malati, ci dicevamo che avremmo “giocato” ad ogni modo la nostra parte. Jamal – che frequentava una scuola di cinema ad Addis Abeba e stava lavorando a un cortometraggio sugli ultimi minuti di vita di Romeo e Giulietta – conoscendo uno dei punti di osservazione della mia analisi, mi disse: «partecipare alle cerimonie è già teatro», e poi: «è necessario porsi fuori dalla società e osservarla». Itushi Kawase, mio primo contatto per stabilire con quali informatori avrei lavorato, antropologo e filmaker, nella sua ricerca a Gondar, presso la casa della posseduta Melem Mahmoud – ora deceduta – aveva anch’egli giocato la sua parte, indossando, duranti i rituali, la lunga tunica bianca, jellabia, attributo che anche Abba riteneva essere quello Letteralmente colui “che possiede lo zar” o “wekabi”. Il quartiere dove Abba G. M. (ometto il nome per intero su sua richiesta) opera è particolarmente povero; negli anni Cinquanta Simon Messing, confrontandosi con i tempi della Missione Dakar-Gibuti (1931-33) – notava: «mentre il culto zar prosegue a piena forza nella cultura abissina, a Gondar si possono rintracciare alcuni sensibili cambiamenti a partire dai primi anni Trenta, quando ebbe luogo una spedizione francese di osservazione, fino al periodo che ho studiato personalmente nel 1953-54 […]. Nel 1932 il centro del culto zar e la casa del balezar si trovava nel “rispettabile” settore copto (“Bäata”), in cima al colle tronco che costituisce il centro geografico della cittadina. Il balezar era una donna Amhara (gruppo etnico dominante in Abissinia) che godeva di buona reputazione presso la Chiesa Ortodossa d’Etiopia. Nel 1953-54 il culto si concentrava nel vecchio suburbio musulmano (Addis Aläm), alla base della collina, che ora è un quartiere malfamato persino per gli standard locali. Vi abitano soprattutto Amhara poveri, mezzosangue sudanesi musulmani, ed ex schiavi, i quali costituiscono la maggiore quota di aderenti al culto zar» (Messing 1958, p. 1121). 3 Questa seconda ricerca sul campo si è svolta nel corso del 2015. 1 2
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tipico dello spirito Seyfou Tchenger, il più potente degli zar di Gondar. E mi aveva insegnato molte cose sulla possessione da parte degli spiriti e su come rapportarmi ai bale zar. Nella didascalia introduttiva al documentario, When spirtis ride their horses (Kawase 2012), si legge: «According to her4 I have been possessed by Seyfou Tchenger, one of the most powerful spirits of the region»5. Avrei voluto essere uno spettatore compartecipante6, ero alla ricerca di un’adesione dell’anima rispetto a quelle esperienze, che già sapevo (per averle osservate nel Wollo) giocate nella carne viva dei posseduti, attraverso l’azione di un bale wekabi, osservatrice e osservata7. Ho tentato di condividere gli obiettivi della mia ricerca con Abba, ho cancellato per quanto possibile i nostri pregiudizi sulla trance da possessione – la cultura occidentale in genere rifugge dalla possessione, quella africana (o di altri continenti) la ricerca come stato “normale”, benefico – culture che affrontano, da prospettive e con metodi differenti, problemi comuni: «il male, la malattia, l’ignoto, il rapporto con il passato, le relazioni con l’alterità» (Remotti, in Pennacini 2012, p. XI). Avevo tentato di chiarire, grazie alla mediazione di Jamal, la mia posizione all’interno di quel particolare contesto; avevo espresso il desiderio di essere dentro e fuori del rito, allo stesso tempo: era possibile? Un’adesione più coinvolta si dimostrò, in realtà, imprescindibile per Abba che non mi volle relegare al solo ruolo di osservatrice, ma mi coinvolse nelle danze e nelle benedizioni. Sapeva che l’osservare e poi l’esperire saperi incorporati, memorie incarnate (embodiment memories) necessita della presenza attiva di chi partecipa e compartecipa alla produzione e alla riproduzione di conoSi tratta delle bale zar Melem Mahmoud, con cui Kawase ha lavorato, citata sopra. Il documentario girato in Etiopia e prodotto in Giappone, dura 28’ ed è visionabile sul sito: http://www.itsushikawase.com/ (ultima consultazione: settembre 2017). 6 Ricordavo i monaci che assistevano a un autodafè che «si tenevano a una certa distanza, quasi nascosti, permanendo immobili durante tutta la scena, così che si potevano sentire il fruscio del fuoco e il silenzio. Quelle persone compartecipavo realmente alla cerimonia. Nessuno batteva ciglio. Quelle persone compartecipavano realmente» (Grotowski, 2007, p. 111). 7 Come mi fu possibile fare nel Wollo, nel corso di una ricerca condotta in un gruppo di culto con forte connotazione islamica da cui ho tratto il saggio: Viaggio attraverso la possessione nell’Etiopia di oggi (Budriesi 2012) e altri scritti. 4 5
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scenze, una “partecipazione osservante”. L’immersione implica una lenta incorporazione, una forma di coinvolgimento pre-verbale, un apprendimento di quei saperi secondo la via esperienziale, saperi che sfidano l’epistemologia occidentale e fanno appello un “repertorio”8 corporeo di conoscenza, regolato da un tipo particolare di memoria (habit-memory) a cui fanno riferimento, fra gli altri, Paul Connerton (1989) e Roberto Beneduce (2002): «L’interesse di quest’ultimo tipo di memoria [habit-memory, ovvero capacità di riprodurre una certa performance] […] sta nel fatto che essa rinvia direttamente al corpo e a una caratteristica più volte messa in rilievo nelle cerimonie di possessione: quella di essere appunto caratteristica delle performance, delle recite, delle ripetizioni (re-enactments), delle rappresentazioni analizzabili alla stregua di un dramma o di una commedia (théâtre vecu, secondo l’espressione di Leiris, comédie rituelle per Métraux)».9 (Beneduce 2002, p. 234)
Le performance vanno intese come vitali “atti di trasmissione” – o di trasferimento (acts of transfer) – atti che trasmettono sapere sociale, memoria e senso di identità attraverso comportamenti reiterati, quelli che Schechner ha indicato come twice-behaved-behaviors (letteralmente: “comportamenti-due-volte-agiti”), corrispondenti, in sostanza, alla nozione altrimenti nota come “comportamento recuperato” (Deriu 2012, p. 156). Quando la cerimonia ebbe inizio, come gli altri presenti fui immersa in un’atmosfera densa, satura di aromi: l’odore pungente dell’incenso, quello bruciato dei chicchi di caffè, quello fresco del papiro sparso a terra. Accoglievo con emozione il profumo che Abba G. M. mi spruzzava sul capo e in pieno viso per risvegliare il mio spirito. Lo spirito, Il repertorio (le memorie incorporate) vengono opposte all’archivio anche come sfida politica: l’archivio come simbolo del potere (Taylor 2003). Comprendere gli eventi in quanto performance: «suggests that performance also functions as an epistemology. Embodied practice, along with and bound up with other cultural practices, offers a way of knowing» (Taylor 2003, in Deriu 2012). Celebre è la divisione schechneriana is/as performance, ovvero un primo livello di analisi che prevede una serie di comportamenti “organizzati”, dal rito alle manifestazioni politiche, e un secondo livello di analisi – a cui ho fatto riferimento nell’articolo – che prevede di analizzare gli eventi “come” performance (Deriu 2012, p. 156). 9 Cfr. anche Métraux 1955, Leiris 1958. 8
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ricercato nelle mie profondità, taceva, nonostante l’incenso, il caffè, la frusta appoggiata sulla mia spalla e ondeggiata da Abba10, un archetto sul mio corpo-strumento, manovrata da chi poteva essere in grado di farlo suonare: ma non ero culturalmente e psicologicamente pronta a rivelare il suo nome, a vivere l’oscurità bianca evocata da Maya Deren: «Ci siamo! Appoggiandomi sulla gamba sinistra sentivo uno strano torpore penetrarla come venendo dalla terra stessa e risalire nel midollo delle ossa, lento e copioso come una linfa che sale nel tronco di un albero […]. lo devo chiamare oscurità bianca per quello splendore di gloria e per quell’oscuro terrore». (Deren 1997, p. 305)
Abba, nella giornata cruciale, al termine della danza a cui anch’io partecipai, mi domandò – secondo la precisa “etichetta” prevista da queste cerimonie: «Abbiamo danzato, ora devi dirmi come ti chiami»11 – e il nostro informatore in loco, Addissu, temendo che non avessi compreso di chi mi volesse domandare il nome, chiarì: «il nome del tuo spirito!» –; io pronunciai quello che mi era più noto e che sapevo essere conosciuto da tutti a Gondar: Seyfou Tchenger, lo zar che tradizionalmente è detto: «la guida dei quaranta, organizzatore dei quaranta, colui che ne ferisce mille, colui che ne fa perire mille, colui che ne frusta mille, colui che ne fa frustare mille, Seifou Tchenger, il sostegno di tutti gli awolya» (Leiris 1933; trad. Budriesi 2017a, p. 61)12. Procedura comune per indurre la trance. Ho riportato questo dialogo nel documentario che ho girato sulle cerimonie: In search of wukabi: Demses e Seyfou Tchenger, 2016, Studio di montaggio Caucaso (montaggio di Stefano Migliore, supervisione di Enrico Masi). Nelle ricerche preliminari mi sono avvalsa dei consigli di Marco De Marinis, Itsushi Kawase e, successivamente, della traduzione di Zeleke Eresso Goffe. Per quanto riguarda il riferimento all’“etichetta” delle cerimonie, si veda Leiris 1958, p. 15 della trad. it. 12 Le insegne dello spirito sono declamate nel fukkara o tema di guerra. Leiris lo definisce: «tema di guerra, una sorta di pezzo di bravura analogo alle recite che in certe circostanze i guerrieri effettuano per vantarsi o per rendere omaggio al proprio capo» (Leiris 1934b, trad. it. Budriesi 2017a, p. 112). Il termine awolya è usato per identificare sia gli spiriti sia i medium. Abba G. M. utilizza indifferentemente i termini wekabi e awolya. Non l’ho mai sentito pronunciare il termine zar, che invece ho sentito spesso, in contesto musulmano, nel Wollo. Leiris fa risalire la parola awolya all’arabo waliy che significa “santo” o “taumaturgo musulmano” (Leiris 1934b, trad. it. Budreisi 2017a, p. 108). Leslau indica che awolya sarebbe chiamato il re degli zar e lo fa derivare sempre dall’arabo waliy (Leslau 1949, p. 211). Young osserva che il termine «era stato assimilato alla parola amarica “awakiy” (letteralmente “conoscibile”), che significa, quando è usato 10 11
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La famosa balezar Malkam Ayyahou presso la quale face esperienza Michel Leiris e che è la portagonista delle giornate gondariane descritte ne L’Afrique fantôme, chiamava questo zar «Abbậte Cangare», «padre mio Cangar» e diceva che Seyfou, lo zar principale che la possedeva, era una sorta di nome d’arte dietro il quale lei gradiva scomparire (Leiris 1958, p. 19, e Budriesi, 2017b). Malkam Ayyyahou ne portava le insegne anche fuori dal “teatro” della sua confraternita, Leiris nota: «Improvvisa visita della signora degli zar. Come un vecchio pieno di dignità porta una toga con un’ampia fascia rossa e un lungo bastone ferrato» (Leiris 1934a, p. 371)13. Questo stesso costume è indossato da Abba G. M. quando è nelle vesti del grande Seyfou (vedi foto alla fine). Abba rise quando mi dichiarai posseduta da quel grande zar e il mio mediatore, in un secondo momento, aggiunse: «Seyfou Tchenger is too much», ovvero uno spirito così potente «è troppo per te». Soltanto ai “grandi posseduti”, ai medium, spettano i “cavalieri” potenti. Possedere (o essere posseduto da) un potente wekabi significa acquisire prestigio nel proprio ambito sociale, in virtù del potere che lo spirito ha rispetto a quelli, minori, che possiedono altri fedeli: «la situazione gerarchica dello zar riconosciuto determina la posizione del posseduti rispetto agli altri membri della confraternita e inoltre è frequente sentire un adepto gloriarsi di essere posseduto da un grande zar» (Leiris 1958, p. 19 della trad. it.). Mi chiedevo quale ruolo mi attribuisse Abba G. M. durante le visite nella sua casa. Era consapevole che volevano filmare i riti: dimostrava infatti preoccupazione che le immagini fossero diffuse in Etiopia: in un momento di solenne silenzio, prima che il rito avesse inizio, bruscamente si fermò e domandò a Jamal – in quel momento nel ruolo di cameraman - «registrate, poi portare [tutto] via vero?»14. Credo che il ricordo delle persecuzioni subìte da molti operatori dei culti zar in momenti particolari della storia d’Etiopia, durante l’occupazione Italiana, o il regime militare del Derg, fossero ancora vive15: lui stesso – nelle interviste che gli abbiamo rivolto – ha raccontato di essere dovuisolatamente, “chiunque possa curare o praticare la divinazione con l’aiuto degli spiriti”» (Young 1975, p. 23). 13 Vedi in fondo la fotografia di Abba G. M. nelle vesti di Seifou Tchenger (Gondar, 2015). 14 Anche questa frase è riportata nel documentario, sia in amharico, sia in italiano. 15 A questo proposito rimando a Bishaw 1991 e a Pili 2011.
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to fuggire in Sudan, poi di aver scelto di ritornare a Gondar. Kawase scrive che, dopo la fine del Derg, come ci sarebbe potuto aspettare, c’è stato un “revival” delle cerimonie a base di possessione (Kawase 2012, p. 68). Questo ho potuto constatare anch’io, nella Gondar di oggi. Abba G. M. definiva Gondar la sua città, anche se Zeleke Eresso Goffe, docente di amharico all’Università di Bologna, che mi ha aiutato nel difficile compito della trascrizione del parlato delle cerimonie, ha letto nel suo amharico un accento e alcune parole tigrine. Abba G. M. si proclamava un buon cristiano: personalmente non ho riscontrato alcuna contraddizione, dal punto di vista dell’“operatore sociale”, nel venerare gli spiriti e nell’appartenere a una delle confessioni dominanti nel paese, Cristianesimo Ortodosso o Islam. Messing, a proposito dei preti che credono allo zar, nota: «probabilmente molti preti credono essi stessi, in segreto, alla cosmologia dello zar, in particolare a quegli spiriti che sono considerati cristiano-copti (mentre altri sono musulmani o pagani)» (Messing 1958, p. 1121)16. Kawase aggiunge che alcuni “zar-medium” oggi affermano che ci sono anche spiriti cristiani che “frequentano” la chiesa e leggono la Bibbia (Kawase 2012, p. 67). 2. Attraversare lo specchio Appeso al muro, nella casa di Abba G. M., c’è uno specchio (in amharico mestawot): «lo specchio fa vedere tutto, anche quello che non vedi», mi disse Abba. Lo specchio si trova di fianco ad alcuni oggetti rituali, attaccati al muro a grappolo che Abba G. M definiva « una pianta con le radici forti, nessuno la può togliere, ad essa i seytan [gli spiriti maligni] non si avvicinano». Ciò che inevitabilmente questi culti a base di possessione testimoniano è un fatale attraversamento dello specchio, del limen: un andare al di là, un passare dall’altra parte delle cose, delle realtà, operazione comune per Abba. Era consapevole che stavamo riprendendo con imMessing aggiunge: «Gli spiriti cristiano-copti sono considerati superiori nella loro statura sociale e culturale rispetto a quelli musulmani o “pagani”. Quelli di loro che hanno dimora nell’altopiano dell’Abissinia, sede di un’antica e raffinata cultura, sono ritenuti superiori agli zar che abitano tra le tribù di ex schiavi sudanesi delle pianure» (1958, p. 1122). 16
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magini video e fotografiche la cerimonia, ma sembrava comportarsi in modo naturale quando costruiva, a poco a poco, attorno a me un rito purificatore: il suo intento era guarirmi, benedirmi, mi domandava se mi fosse passato il mal di stomaco (che avevo dichiarato di avere), credeva o voleva credere che quello fosse lo scopo principale della mia visita e lentamente anch’io mi immergevo nell’atmosfera coinvolgente del rito e ne seguivo, sempre più coinvolta, le fasi. Verbalizzare quella esperienza equivale raccontare sensazioni complesse, difficili da decifrare anche per me e, pertanto, ancora più da raccontare seguendo un filo, tanto forte è stato l’accavallarsi delle sensazioni: parole, musica, profumi, gesti. Ricordavo l’altalena delle emozioni di Leiris, espresse ne L’Afrique fantôme, diario “intimo” della spedizione Dakar-Gibuti (1931-1933) cioè il suo vivere, a tratti, un’estraneità completa quando, ad esempio, scrive: «che sudiciume, che disordine, che miserabili orpelli! […] non parlando l’amarigna e trovandomi, unico osservatore, fra persone preoccupate soltanto di divertirsi o di delirare, mi sono sentito terribilmente estraneo […] questa e l’ Abissinia, ancora più lontana dell’altro mondo…». (Leiris 1934a, p. 363 della trad. it.)
O, all’opposto, febbrile coinvolgimento nelle cerimonie fino al desiderio sessuale per Emawayish, figlia di Malkam Ayyahou «la principessa dal volto di cera», desiderio che culminò nel momento della possessione della giovane: «Ho visto Emawayish in trance, roteare la testa e fare oscillare il busto, i tipici movimenti del gourri. L’ho sentita con voce più grave del solito declamare il tema di guerra di Abba Moras Worqié, inframmezzato da ruggiti. L’ho vista bere del sangue. L’ho anche vista seduta con il peritoneo e l’intestino arrotolato intorno alla fronte […], velo delicato e superbo cimiero scintillante […] E non avevo mai sentito fino a che punto sono religioso». (Leiris 1934a, p. 391 della trad. it.)
Di fronte al fenomeno delle possessioni a cui assisteva, Leiris diceva anche di sentire: «l’ardente sensazione di essere alla soglia di qualcosa di cui non riuscirò mai a esplorare il fondo, non potendo, fra l’altro, lasciarmi
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andare come dovrei, per vari motivi molto ardui da definire, ma fra i quali figurano in primo luogo questioni di pelle, di civiltà, di lingua». (Leiris 1934a, p. 375 della trad. it.)
Trovarmi coinvolta nel rito è stato urtante e coinvolgente nello stesso tempo, come lo è stato l’areqe, il liquore che Abba mi sputava in faccia con precisione e perizia, in un momento preciso del rituale, con l’intento di benedirmi: esperienza forte del corpo e nel corpo, trasmissione di energia, qualcosa che, in definitiva, può essere più vissuto che raccontato. I tempi che il bale zar ha deciso di concedermi, al di fuori dei riti sono stati sapientemente centellinati e dosati. Non voleva rispondere a troppe domande, sovente rispondeva: «sono io a fare le domande», oppure ci voleva fare credere che temeva che volessimo sottrargli il suo sapere e usarlo nel suo stesso modo: «questi vogliono copiarci!»17. Al mio pudore nel raccontare momenti di forte vissuto corporeo e, vorrei dire, di introspezione psicologica, di riflessione e rinegoziazione dei contorni del sé, si univa la reticenza, di fronte alle mie incertezze, di chi del culto era agente. In certi momenti il dialogo è divenuto conflitto, chiusura, espressa nella forma sapiente dell’oratoria amhara: «a fare troppo domande si scopre la morte della mamma».18 Abba G. M rispose in questo modo a una delle mie richieste, usando un’espressione densa di significato. Nel nord dell’Etiopia gli anziani esprimono il loro pensiero in modo indiretto, lanciano messaggi profondi, accessibili a chi, oltre la patina della cera, il senso letterale, sa arrivare all’oro, cioè al senso profondo e nascosto di quelle parole (Levine 1965): «come l’orefice cola l’oro in un modello di cera, spalmato internamente di terra, così il poeta infonde il suo soggetto nelle forme del linguaggio figurato» (Moreno 1935, p. XII). Queste espressioni figurate fanno parte di una cultura tradizionale orale e scritta tipica e possono essere presentate in forma di proverbi o di composizioni in versi, i qĕnē, nei quali, una parola o una frase si presenta nel suo senso letterale (sam-ĕnnā), cioè come “cera” che nasconde e mostra allo stesso tempo il suo senso più profondo, “l’oro”
Questa frase compare nei sottotitoli del documentario In search of wukabi, di cui qui alla nota 11. 18 L’espressione è registrata nel documentario sopra citato. 17
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(warq); si tratta di significati che può decifrare solo chi sa andare in profondità nella lingua e nella cultura di quella parte dell’Eiopia. Ecco un esempio qĕnē, che si trova testimoniato anche nel documentario che ho curato: «Una volta si facevano affari viaggiando a cavallo; Il cavallo non vale niente; Un mulo quando muore dispiace».
La parola “bechlo”, che in amharico significa “mulo”, può significare anche “giovane” o “persona che si è arricchita”. 3. Il sapere musicale degli azmari Durante le cerimonie alle quali ho assistito e alle quali ho partecipato anche direttamente, erano presenti dei musicisti, gli azmari19 la cui musica si lega a momenti precisi del rito (Kawase 2012, 2014, 2015; Teffera 2016). Un sapere segreto – in questo caso verseggiato con accompagnamento musicale – è tramandato dagli azmari, suonatori che partecipano anche ai culti di possessione dell’area di Gondar (North Gondar zone, parte dell’Amhara Region)20. Sono musicisti simili ai griot, e suonano il masinqo, strumento a corde simile al violino o il krar, la lira. La zona di Gondar in cui mi sono trovata a fare ricerca è ricca di questi musicisti che costituiscono un gruppo tendenzialmente endogamico, dotato di una lingua segreta che ne definisce l’appartenenza. La loro musica fa parte di quella secolare, definita zäfän (approssimativamente si traduce in “canzone e danza”), concettualmente agli antipodi della tradizione zema, la musica liturgica che è parte delle cerimonie religiose della Chiesa Ortodossa d’Etiopia. La musica secolare rientra tra le attività artigianali che la società attribuisce a una casta specifica e rende tabù per gli Il plurale in amharico è azmariwoch, ma, per maggiore leggibilità, uso il singolare azmari anche per il plurale. 20 Timkehet Teffera (2016), studiosa del culto che ha preso in esame i lavori Kawase e svolto lei stessa ricerche sul campo, dichiara che è abbastanza frequente incontrare musiche azmari nella zona di Gondar, mentre non le è capitato di trovarne nella regione Amhara, nel Wollo e nel Gojjam. 19
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altri. Per questo motivo il termine azmari ha assunto una connotazione negativa ed è usato soprattutto da chi non appartiene al gruppo: «in spite of their rich musical heritage, the dominant population of northern Ethiopia considered musical professions of these groups to be disgraceful and largely overlooked their value as cultural heritages that should be documented properly» (Kawase 2012, p. 65)21. Il termine amharico azmari, deriva dal ge’ez22 “zammara” che significa “ha cantato” o “colui che prega dio”. Uno dei racconti mitici che ne celebrano le origini riguarda le musiche cantate dall’angelo Ezra che suonava un violino a una corda insieme all’angelo Darwit, che suonava la bagana, una grande lira, per lenire il dolore di Maria al momento della sua morte. La loro area di origine corrisponde agli altopiani del nord: Scioa, Wollo, Begemender (oggi North Gondar zone), Gojam, Wollega and Tigray. Gli azmari sono menestrelli portatori di una controcultura nomade: «the azmari has been known to function as a news forecaster, social critic, companion clown, commentator, religious observer, political agitator, stroller, poet, servant, musician and beggar” at various time throughout history». (Kebebe 1971, p. 176)23
Nel passato molti signori e principi si sono serviti di azmari, la cui musica doveva essere lode per il signore e umiliazione per i nemici. Gli azmari solevano accompagnare con le loro canzoni anche i soldati in battaglia. Furono accusati di resistenza verbale durante l’occupazione italiana, quindi imprigionati ma ugualmente forzati a cantare le lodi dei gerarchi fascisti: nonostante gli obblighi loro imposti seppero mantenere una certa indipendenza: se, da una parte, cantavano le lodi dei dominatori, degli aristocratici e della corte imperiale, dall’altra erano vicini al popolo nel momento in cui, attraverso i versi nascosti delle proprie canzoni, criticavano la monarchia feudale e altre forme di potere. Grazie alla forma poetica dei qĕnē – che trattiene abilmente i significati nascosti e pericolosi – e grazie al loro modo di interagire col pubblico sono stati in grado, fino ad oggi, di creare, in cooperazione col pubblico presente, liriche spontanee di notevole rilevanza poetico/politica: «a good azmari is not the one with a beautiful voice ore Vedi anche Teffera 2010, p. 52. Lingua semitica, oggi estinta, parlata nell’Impero d’Etiopia fino al XIV sec. 23 Citato in Kawase 2012, p. 66. 21 22
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one who plays the masenqo skillfully, but one who can entertain and successfully uplift the feelings of the listener» (Kawase 2012, p. 69)24. Teffera scrive che durante il regime militare di Menghistu (1974-87) le loro canzoni di lotta hanno contribuito alla costruzione nell’immaginario del guerriero indomito e vittorioso, nel quale sia il regime sia i gruppi oppositori si potevano rispecchiare sicché la loro musica, ribelle per natura, ha, di volta in volta, appoggiato entrambi25. Kawase ne ha approfondito in particolare la dimensione performativa profana di oggi: oltreché nei battesimi, nei matrimoni e nelle celebrazioni annuali delle Chiesa Ortodossa, la maggiori parte delle performance azmari avvengono nei bar, ovvero i bunna bet, letteralmente “case del caffè”, o nei tella bet, “case della birra”, o anche nei più moderni night club. Le musiche azmari che accompagnavano i lavori agrari sembrano invece quasi scomparse; un tempo i contadini zappavano al ritmo di musiche denominate shilella (Kawase 2012, p. 66). Nei luoghi di intrattenimento le loro caratteristiche performance sono spesso costruite attraverso una dialettica tra partitura fissata e spazi lasciati all’improvvisazione, in cui il rapporto con il pubblico gioca un ruolo fondamentale: costruiscono melodie chiamate bet metta e bet deffa, che prendono le messe da informazioni desunte da un vivace scambio con l’audience, includendo e amalgamando abilmente nella propria composizione, versi composti dal pubblico. Quando suonano e cantano per un bale zar, la loro musica si presta, insieme agli abiti, ai profumi, all’aroma di incenso e caffè, ad attirare gli spiriti. Partecipando ai rituali a Gondar ho potuto assistere alla performance di uno di questi musici, di nome Gashe, nella casa di Abba G. M. Nel documentario etnografico26 che ho prodotto dopo quell’espeA sua volta l’autore fa riferimento al celebre saggio di Leslau 1964. Vedi Teffera, 2009. 26 Ben sapendo che la realtà non può mai essere restituita senza mediazione (cfr. Pennacini 2011), ho montato i materiali filmici ripresi nella casa di Abba G. M. in un documentario: la riproduzione video riesce a riprodurre gli stessi codici messi in scena dall’evento (verbale, gestuale, musicale, figurativo, scenografico), inoltre, la “riproducibilità tecnica” insita nel mezzo e la conseguente possibilità di riprodurre infinite volte il prodursi dell’evento può considerasi basilare per formulare interpretazioni scientifiche provabili, sia nel contesto di in un’analisi antropologica sia, ancor più, in uno studio dei codici performativi in atto. Il documentario etnografico rappresenta un’interpretazione «del referente reale attraverso l’organizzazione e la sintesi dei dati raccolti» (Pedretti in Mastropasqua 2007, p. 31) Lo stesso Kawase, più volte citato, dichiara che: «the need for estende forms of do24 25
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rienza, si possono ascoltare alcuni versi delle sue canzoni che hanno accompagnato le cerimonie. Dalla ricerca etnomusicologica di Kawase riporto alcuni versi cantati da un azmari che fanno riferimento allo spirito Seifou Tchenger: «Oh Lord, give us plenty of peace; you bring a lot f joy
Oh Lord give us plenty of peace; my dear Seifou brings lot of joy». (Kawase 2012, p. 70)
L’autore, traducendo l’amharico in inglese, sottolinea come la modalità di rivolgersi allo spirito in questione sia espressa in amharico con Seifou-ye che significa letteralmente “mio caro Seifou”. Kawase definisce lo spirito Seifou Tchenger «the one of the main figure to come to the cerimony and possess the medium» (Kawase 2012, pp. 70-71) sottolineando che lo scopo principale delle canzoni degli azmari, a qualunque contesto esse facciano da sfondo, sia ravvivare l’atmosfera e agire sui sentimenti dei partecipanti. 4. Spiriti guerrieri Nel nord dell’Etiopia, come già aveva rilevato Leiris27, sono mobilitati molti spiriti guerrieri, come guerriera sembra essere l’anima profonda del Paese. Si veda, a questo proposito, l’iconografia dei suoi santi, in particolare degli arcangeli Michele e Gabriele, quest’ultimo citato anche da Abba come colui che gli avrebbe concesso il potere di curare. Essi sono sovente rappresentanti mentre brandiscono una spada. Mercier descrive l’arcangelo Gabriele come l’angelo del “pronto soccorso”, che, una volta chiamato, accorre immediatamente e spazza via i nemici (Mercier 1992, p. 161). Si nota, in queste figure, un sincretismo molto evidente al quale faceva cenno anche Leiris:
cumentation and research are intensified. With respect to traditional music performances, an audio-visual medium in particular can be effective in describing the intonation and bodily practices of performer, along with musical accompaniment; interactions between performers, the public, and the researcher; clothing and scenography; the context and politics of the performance; and so on» (Kawase 2012, pp. 76-77). 27 Vedi, in particolare, L’Afrique fantôme nei passi riportati qui di seguito.
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«Malkam Ayyahou identificava lo zar musulmano Sayd-Qadar con Cristo Salvatore del mondo. Certi santi sono quasi assimilati a degli zar, oltre a Gabra-Manfas-Qeddus, iniziatore e alleato di Seifou Tchenger, si può ricordare san Michele […] e san Gabriele». (Leiris 1934b, trad. it. in Budriesi 2017a, p. 110)
Costellata di sanguinose battaglie fu la storia di Gondar, che divenne capitale dell’Impero durante il regno Fasilidas, nel 1636, dopo un periodo di aspri conflitti, tra incursioni e conquiste musulmane28 e l’invasione degli Oromo29. Del resto il repertorio “rivoluzionario” degli azmari ben si adatta a rappresentare questo spirito indomito, essendo ricco di leggendarie figure di guerrieri; i musicisti stessi accompagnavano spesso l’esercito in battaglia e le loro liriche potenti dovevano inspirane le imprese coraggiose: «the music tradition of the Amhara and Tigray comprise among others a lot of reference to ancient wars and warriors: this is represented in the song style known as Shilela that is inseparably connected with the Fukera style, speech-recitation. These patriotic, protest and war time music repertoires are connected with the nation’s long history. They are the product of the inter-terrotorial, international and civil wars the country has been facing in the course of history. The powerful lyrics and the agitating character of such songs are primarily meant to praise and inspire warriors to have pride, self-confidence and courage stimulating physical aggressiveness, demonstrate manliness and recklessness of Ethiopian warriors. Apart from stories and legends, key figures in ancient battles and their heroic deeds are preserved and immortalized in songs as well as in narrative speech-recitations such as the Shilela/Fukera style». (Teffera 2009)
Guidate dall’Imam Ahmad tra il 1527 e il 1543. Ai tempi noti come galla, sono un popolo che parla una lingua cuscitica. L’espansione all’estremo sud dell’Impero, sembra essere cominciata prima o contemporaneamente alle prime incursioni dell’Imam Ahmad (Pankhurst 1998). 28 29
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5. La danza che ruggisce Durante la permanenza presso il gruppo di culto di Gondar, partecipando alle cerimonie, bagnandosi, come desiderava, nella carne viva dei posseduti e riflettendo sul carattere della bale zar Malkam Ayyahou, Leiris definì «la vecchia zarina» come colei che «mi domina come una madre», ma anche come «ruffiana, pagliaccio e pitonessa», nell’ambiguità dell’alternarsi dei suoi sentimenti, come nel dipanarsi della sua personale relazione con gli adepti del culto, soprattutto donne. La sua è stata giudicata soprattutto una risposta poetica al mistero della possessione (Leiris 1934a, 1958, Budriesi 2017b). In un’atmosfera satura di polvere da sparo, nella Gondar degli anni Trenta, nella casa rotonda a due piani sulla collina di Gondar, calavano sulla confraternita, in particolare, su Malkam Ayyahou zar guerrieri: «un primo pizzico di polvere da sparo nel fuoco mette di buonumore Abba Qwosqwos. La mano sul fianco, il petto in fuori, canta delle canzoni militari, batte le mani, raddirizza la testa come un vecchio soldato di Napoleone […] la vecchia30, invulnerabile alle fiamme, declama delle tirate di guerra e ride a squarciagola.[…] Lo spirito è sceso, uno dei grandi awolya31, capi della savana e protettori delle bestie – elefanti, bufali e altri – da cui gli zar succhiano il latte. È bastata questa fumigazione di polvere, evocatrice di caccia, per portarla a un diapason così lirico». (Leiris 1934a, pp. 353-355 della trad. it.)
E, a proposito di un’altra danza in onore di spiriti guerrieri: «le quattro bottiglie di cognac che ho portato sono offerte rispettivamente alle quattro “personalità”32 [virgolette di chi scrive]: una per Abba Josef, una per Rahiélo, una per Abba Tchenguer33 e una in particolare per la piccola Chankit, provocano una danza militare che viene eseguita da Malkam Ayyahou». (Leriris 1934a, p. 363 della trad. it.)
La stessa Malkam Ayyahou. Vedi nota 12. 32 Celebre è l’interpretazione di Leiris e dei vari zar che possedevano Malkam Ayyahou che costituivano come un suo “guadaroba di personalità” (Leiris 1958). 33 Lo zar Seifou Tchenguer è qui chiamato “Padre” (Abba). 30 31
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Danze in onore di spiriti guerrieri che cantavano, e ancora oggi cantano, le proprie canzoni guerresche, inframmezzate dai caratteristici “ruggiti”. Leiris nel descrivere il gurri34 lo legava indissolubilmente al “tema” di guerra (fukkara): «la testa animata da un ampio movimento di rotazione su un piano verticale, […] danza e rugge: il ruggito comincia quando la testa è abbassata, e finisce con una brusca emissione, quando, rialzata, si rovescia all’indietro per riprendere fiato; fra l’inizio del ruggito e l’emissione definitiva del soffio si introduce come una specie di controcanto, la recitazione, molto rapida del foukkara o tema di guerra». (Leiris 1934a, p. 321 della trad. it.)
Una danza per cavalli e cavalieri35 avidi di fumigazioni e polvere da sparo. I due principali zar di cui Abba ci aveva dichiarato di essere il cavallo sono Seifou Tchenger e Demses di cui ci ha svelato i seguenti “temi di guerra”. Per Seifou Tchenger: «tchenger bale kumneger», in cui «tchenger” significa “frusta”; “bale” “proprietario”;”kumneger”, “fatto importante”, dunque: «essere il proprietario della frusta è importante» o, in altre parole: «sono al di sopra di chi teme di essere punito con la frusta». Per Demses: «esat Gorash»: Demses (nome proprio di spirito) «è colui che ingoia il fuoco» ovvero: «Demses è al di sopra di tutto, come un fuoco, che distrugge». Mi sembra interessante riportare un dialogo tra me, il mediatore Addissu, il cameraman Jamal e lo stesso Abba. Chiedevo ad Abba, attraverso gli interpreti, se gli spiriti zar/wekabi fossero stati uomini ragguardevoli prima di entrare nell’ombra: Abba (rivolto ad Addissu): «prima ero un contadino e San Gabriele (Kiddus Gabriel) mi ha dato questo potere - questo lei [riferito a me] lo deve capire!» Jamal (rivolto ad Addissu): «non hai capito, lei ti ha chiesto chi era prima» (si riferisce alla mia domanda su un presunto passato umano dello spirito Seifou Tchenger)36 La parola pare derivare da magurat che significa “muovere corpo e testa”. Il termine feras, è comunemente associato allo spirito che “cavalca” il posseduto, detto appunto feras che significa cavallo. 36 Mi basavo su quanto scrive Leiris: «in Etiopia alcuni zar, se non proprio spiriti di antichi maghi, sono almeno considerati di stirpe umana, esseri storicamente definiti […] Gli 34 35
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Addissu (rivolto a Jamal): «come si fa a chiedere chi era prima!?» Jamal (rivolto ad Addissu): «prima di diventare uno spirito [usa il termine amharico menfes] poteva essere stato un uomo!» Abba interrompe il dialogo d’autorità: «il wekabi [Seifou Tchenger] si riconosce da come è vestito! Il gabi che indossa deve avere una banda (usa il termine tilet) rossa».
Durante il dialogo sopra riportato, Abba aveva iniziato a frugare dietro una delle tende che delimitano il suo spazio (quello notturno da quello diurno dell’unica stanza che compone la sua abitazione che è, allo stesso tempo, il suo luogo di culto) alla ricerca del gabi di Seifou Tchenger, che avrebbe indossato per noi l’ultimo giorno, il giorno della possessione. Anche nella povera casa di Abba G. M. ho potuto percepire la valenza performativa dei riti zar, al di là di quelle che sono le “funzioni” dei culti stessi che spaziano: «dalla terapia al puro intrattenimento, dall’espressione di differenze sociali o di genere, a un loro concreto bilanciamento, dalla rappresentazione di una cosmologia, alla concettualizzazione di un’alterità». (Pennacini 1998, p. 27)
Il simbolismo di questo genere di rituali è espresso sovente in forme non verbali: «i culti di possessione sono sempre è sempre qualcosa di più e qualcosa di meno della terapia, dell’arte, dell’intrattenimento, della critica sociale» (Kramer 1993, p. 240). La linea tracciata da Kramer, seguita da Beneduce, Boddy, Pennacini (et al.) è una delle chiavi di accesso più convincenti a queste manifestazioni in quanto mette in particolare evidenza quello che Kramer definisce il carattere “rappresentazionale” dei culti, che mobilita, cioè, la potenza della mimesi, non nel senso platonico che la identifica come “imitazione” bensì nel significato profondo, greco, arcaico, di atto totale della rappresentazione drammatica (da Havelock 1963, in Deriu 2013), come «fenomeno originario di tutta l’attività artistica». In questo senso i comportamenti simbolici agiti durante la cerimonia ci portano di fronte:
zar femminili Sasitu Enqwelal e Dira sono considerati di stirpe umana: si dice che siano le figlie dell’imperatore Yasu (1680-1704) ritenuto un grande debtera, o “sapiente”, capace, come altri sovrani di un tempo, di evocare gli spiriti» (Leiris 1958, p. 14).
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«a comportamenti organizzati e codificati, nonché alle abilità correlate, nelle quali individui e comunità fanno sedimentare (cioè “immagazzinano”) elementi di “sapere” ritenuti utili e dotati di significato e valore». (Deriu 2012, p. 157)
Connerton sottolinea che gesti e posture «sono veicoli e strumenti di memoria particolarmente efficaci: un inchino, un saluto […] riattualizzano (ricordano) esperienze, significati, rapporti condizioni» (Connerton in Beneduce 2002, p. 234). Partecipare al rito ha rappresentato per tutti noi vivere la performance come un sistema di apprendimento (learning), immagazzinaggio (storing) e trasmissione (trasmitting) del sapere (knowledge). Abbiamo avuto a che fare con performance “trasformative” che sono forme ibride di rituali con un certa dose di teatralità: nessuna performance è mai “pura efficacia” e neppure “puro intrattenimento”: occorre, credo, meditare ancora sulla efficace affermazione di Messing, in cui si sente l’eco di Leiris: «il paziente è al corrente della performance che da lui ci si aspetta quando si ammala» (Messing 1958, p. 1120). Di fronte al mistero della possessione, al perdersi nel viaggio, vorrei concludere con le parole estatiche di Leiris: «perché indubbiamente l’estraneo, la savana, l’esterno ci invadono da ogni parte. Siamo tutti, o cacciatori che rinnegano tutto, che si votano volontariamente al mondo esterno per essere penetrati, nutrirsi e inorgoglirsi di certe forze superiori, grandi come il sangue che ribolle nel cuore degli animali, l’ispirazione fatalmente diabolica, il verde delle foglie e della follia, o dei posseduti che questa stessa marea esterna finisce un giorno per sopraffare e che, a prezzo di mille tormenti a volte mortali, acquisiscono il diritto di firmare definitivamente il patto con l’eterno demone immaginario del fuori e del dentro, il nostro stesso spirito». (Leiris 1934, p. 433 della trad. italiana)
e con il ricordo delle giornate trascorse nella casa di Abba G. M. che mi ha accolto con amabilità e pazienza, mi auguro comprendendo la mia adesione profonda al suo sapere e alla sua capacità di rapportarsi con l’Altro con la naturale empatia che gli deriva dal lungo lavoro a contatto con il disagio, la sofferenza, il male.
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Padre (Abba) G. M. durante una cerimonia nella sua abitazione nelle vesti di Seifou Tchenger (Gondar, 2015). Fotografia di Laura Budriesi
PARTE II
Trance, teatro e culto
Trance e teatro, teatro e trance: divagazioni Laura Budriesi
Abstract Trance and theatre, theatre and trance: digressions The article focuses on three subjects: First, the theatrical aspects of possession in Michel Leiris (1901-1990) who studied the rites which were the base of possession in Ethiopia in the ‘30’s (Gondar), upon which he elaborated in the essay ‘Possession and its ritual aspects in today’s Ethiopia’ (1958) emphasizing the aspect of the autonomy of the aesthetics of the zar cults which should not be separated from their therapeutic and social value. Furthermore, the relation between this essay and that of Alfred Metraux on ritual comedy in the Voodoo of Haiti (1955) was highlighted. Secondly: in part responding to the questions asked by two people studying the subject on the mechanisms that generate trance, we have looked into the altered states of consciousness in the light of recent lived experiences and multidisciplinary scientific contributions on the phenomenon (psychology, neurosciences, hypnotherapy, etc). Thirdly we have enquired into the role that trance has played in the theatrical practice of Jerzy Grotowski, teacher of Performance, in the search of effectiveness, understood as the real action of the actor on the spectator, of man on man and as work on themselves. Keywords: theatre, trance, Michel Leiris, Alfred Métraux, Jerzy Grotowski, Georges Lapassade
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Dunque cos’è «io»? È sbagliato dire che l’attore diventa «se stesso», l’esperienza dimostra piuttosto che il «se stesso» cambia e diventa un passaggio, io sono un passaggio, ci sono sempre meno proprietà e sempre più flusso. Fino al punto in cui cadono le frontiere (T. Richards 2011, Le Mans) Poiché l’attore è l’attuante dell’azione e ogni essere umano è attore, non si tratta di estendere o applicare il teatro al mondo, ma semplicemente di sapere che il mondo è un teatro nel quale coabitano attori professionisti della scena e attori sociali: tutti coloro che accedono alla dimensione teatrale, si sottopongono più o meno consapevolmente e rigorosamente alle leggi delineate da quelle quattro parole. E i migliori attori non sono necessariamente i professionisti, bensì coloro che sanno e coltivano questo aspetto peculiare della vita umana, ovvero la consapevolezza di esseri che sanno della morte e sanno dominare le forze della vita secondo le particolari modalità di composizione alle quali sono stati educati (A. Attisani 2015, p. 169)
Oggetto di queste divagazioni/erranze – che si collocano entro il mio percorso di analisi critica e di fieldwork sul “teatro della possessione” e gli stati modificati di coscienza nei culti zar in Etiopia tra gli anni Trenta/Cinquanta (indagini di Michel Leiris a confronto con Alfred Métraux)1 e gli anni Duemila (mie esperienze sul terreno)2 – è una riflessione su trance e teatro che si articola nei seguenti punti: focus su aspetti teatrali della possessione in Leiris (zar) e in Métraux (vodu); osservazioni sugli stati modificati di coscienza alla luce di esperienze vissute e di apporti scientifici multidisciplinari sul fenomeno; ruolo che la trance ha rivestito nella pratica teatrale di Jerzy Grotowski, teacher of Performer, nella ricerca dell’efficacia, intesa come azione reale dell’attore sullo spettatore, dell’uomo sull’uomo, e come lavoro su se stessi3. Ricerca che, come recita il titolo del progetto sul
Sulla base delle esperienze gondariana e haitiana di Michel Leiris, cfr. Budriesi, 2013, 2017 a, b. 2 Esperienze sui culti zar che ho condotto in Etiopia (Dessié e Gondar) cfr. Budriesi 2012 a, b, 2017, 2018. 3 Mi riferisco a De Marinis 2001, p. 7, che apre le riflessioni su Grotowski e il segreto del Novecento teatrale con un interrogativo che interpella chi, da varie posizioni e con vari gradi di consapevolezza/orizzonti di attesa, si avvicina all’universo del teatro: «Ma il teatro può aiutare a salvarsi?». 1
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teatro povero – a cui Grotowski premette l’avverbio “verso” (toward) – è cammino nella direzione di un teatro essenziale, teso all’essenza4: «In principio era un teatro. Poi un laboratorio. Adesso è un luogo dove spero di potere essere me stesso. È un luogo dove mi aspetto che ciascuno dei miei compagni possa essere fedele a se stesso. È un luogo dove l’atto, la testimonianza dati da un essere umano saranno concreti e carnali. Dove non si fa ginnastica artistica, non si fanno trucchi. Dove nessuno pensa di dominare il gesto per “esprimere” qualcosa. Dove si vuole essere scoperto, svelato, nudo; vero di corpo e di sangue, con l’intera natura umana, con tutto ciò che potete chiamare a piacere spirito, anima, psiche, memoria e simili. Ma sempre in modo palpabile. È l’incontro, l’andare uno incontro all’altro, deporre le armi, non avere paura gli uni degli altri, in nulla. Ecco cosa vorrei fosse il teatro laboratorio. E poco importa che lo chiami laboratorio, poco importa che si continui a chiamare teatro. Un tale luogo è necessario. Se il teatro non esistesse, si troverebbe un altro pretesto» [corsivi miei]. (Grotowski 2007, Ciò che è stato)
In altra sede ho esaminato il contesto autobiografico/letterario nel quale si colloca la complessiva esperienza di Michel Leiris (1901-1990) – autore ancora troppo poco conosciuto in Italia – a partire dagli anni della formazione – nella quale il teatro, lo spettacolo ebbero un ruolo generatore – toccando quindi le tappe principali dell’itinerario che ne caratterizzò l’esperienza umana, letteraria ed etnografica, guidata dal fil rouge del teatro che percorre l’intera opera5. Preme ricordare che nella sua quête si sono intrecciate varie dimensioni: poesia, letteratura, critica d’arte, etnografia sul terreno (Etiopia, Haiti) e militante in varie parti del mondo vissuta all’insegna dell’im«L’essenza: etimologicamente si tratta dell’essere, dell’esserità. L’essenza mi interessa perché niente in essa è sociologico. È ciò che non si è ricevuto dagli altri, ciò che non viene dall’esterno, che non si è imparato. Per esempio la coscienza (nel senso di the conscience) è qualcosa che appartiene all’essenza; è del tutto differente dal codice morale, che appartiene alla società» (Grotowski, Performer, Edizione rivista dall’autore pubblicata per la prima volta in Italia nel 1990, a cura del Workcenter di Pontedera, citato da Attisani 2015, p. 243). 5 Nel presentare i suoi titoli, in terza persona, in vista di una promozione al Musée de l’Homme, dove lavorava, nota: «L’importanza che Leiris attribuisce al teatro e agli spettacoli in generale, del resto, non poteva non portarlo a esaminare, con il desiderio ostinato di scoprirne i risvolti psicologici, quella sorta di «commedia rituale» (secondo i termini di Alfred Métraux) che praticano gli adepti di culti basati sulla possessione, come quello degli zar in Etiopia e come il vodu haitiano» (Leiris 1967). 4
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pegno politico nella sinistra estrema. Lo scopo: raggiungere, con sforzo titanico, consumato nella crudeltà dell’opera autobiografica (che si nutrì ampiamente dell’etnografia), votata all’imperativo del dire tutto, la conoscenza dell’uomo, di sé attraverso l’Altro, seguendo la linea eterodossa che aveva guidato intellettuali/artisti, come lui, fuori del coro: da Rimbaud, ad Artaud, Bataille, Sartre, Métraux, Bacon. Un’esigenza che lo spinse, molto giovane, a uscire da sé attraverso varie sostanze, poi a cercare una via di salvezza in Africa, eden sognato attraverso il jazz e la mitologia “di carta” che in Europa circolava sul continente nero alla fine della prima guerra mondiale. Giovane, subito dopo il conflitto (1918), aveva sperimentato l’ebbrezza di una religiosità nuova e immanente nell’incontro con la musica dei neri d’America, che considerò “fatale”. Riconobbe più tardi, quando costruì in L’Âge d’homme (Età d’uomo) la mitologia della sua infanzia/ giovinezza6, che quella prima manifestazione dei neri, quel mito degli eden di colore, lo avevano condotto «fino in Africa e, oltre l’Africa, all’etnografia» e, di ritorno, a compiere le spietato cammino autobiografico. Nel periodo di grande licenza che seguì le ostilità, il jazz fu un segnale di raccolta, uno stendardo orgiastico che agiva magicamente. Era l’elemento più adatto a dare alle feste a cui partecipava un senso religioso, attraverso la comunione stabilita dal ballo, dall’erotismo latente o manifesto, e dall’alcool, mezzo che considerò tra i più efficaci per colmare il fossato che separa gli individui gli in ogni occasione di riunione (Leiris 1946, p. 140). Se il whisky di cui abusava nelle serate di baldoria e di sballo nei locali parigini era instrument de délire, che faceva cadere le barriere della coscienza, il jazz agiva come una possessione, come irruzione del mondo esterno nel corpo, avendo il potere di indurre la trance7. Euforizzante espressione di modernità e di selvaggio, rivolta contro la musica classica – simbolo della cultura borghese da cui aveva preso le distanze – era una musica double-face che corrispondeva alla definizione che, in seguito, diede del sacro8, con un lato sinistro e uno destro9. Leiris 1946. Poitry 1995, p. 213. 8 Leiris 1938b, su cui Poitry 1995, indice, s.v. sacré. 9 «A sinistra l’Africa, i negri, un certo passato mitico: quello del continente Nero delle origini, del candore naïf, una sorta di stato d’innocenza di cui si ha nostalgia e da cui scaturisce una gioia animale alla quale ci si abbandona presi dal piacere che il ritmo suscita. A destra, le tracce di una civiltà finita, di un’umanità sottomessa ciecamente alla civiltà 6 7
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Nel 1948, nella conferenza Méssage de l’Afrique, (12 ottobre, Istituto francese di Port-au-Prince, Martinica), ritornò sul potere che hanno musica e danza che seguono percorsi misteriosi: «io che da sempre amavo il jazz, in quanto genere musicale cui è strettamente legata la danza, con tutta la sua misteriosa capacità di condurre a sentirsi più padroni del proprio corpo e, al contempo, fuori di sé; io che da sempre avevo amato quelle musiche e danze che testimoniano la straordinaria vitalità del genio nero, in grado di forgiare, nelle spaventose condizioni di trasferimento che sappiamo, un’arte su cui è oggi fondata gran parte dei divertimenti dei bianchi e dei gialli occidentalizzati…». (Leiris 2005, p. 174)
Sulla soglia degli ottant’anni, introducendo il poderoso saggio dell’amico Gilbert Rouget su Musica e trance, fedele a molte delle convinzioni giovanili, quando aveva fatto parte prima del movimento surrealista poi di “Documents”10, rivista eterodossa, si domandava: perché l’uomo non si appaga di quello che è, perché si maschera e vuole uscire da sé nei modi più vari? arrivando a concludere che la nostra è una specie singolarissima, non solo per le capacità inventive, ma soprattutto per il rifiuto di obbedire al proprio destino. Di qui la maschera, il rito, il desiderio universale di concepirsi diversi, che può condurre anche a perdersi, come accadde a Madame Bovary, personaggio che considera più vero del vero11. Attraverso i culti zar (che indagò tra il luglio e il dicembre 1932 della macchina. Per descrivere quella frenesia, nella quale la gioventù demoralizzata del dopoguerra cercava di stordirsi, si può ricorrere al termine ambiguo, ma pertinente, di “automatismo” in quanto rinvia alla meccanizzazione industriale del mondo americano ed europeo e all’abbandono surrealista verso ciò che giunge dal di là della coscienza; un mettere in sonno la ragione imposto dallo straniamento che ha seguito la guerra e che è, allo stesso tempo, inerente alle tecniche produttive della società moderna». (Poitry 1995, pp. 212-213). 10 Espresse un atteggiamento fortemente dissacratore nell’ambito della rivista di “Documents”, che, da rivista d’arte quale doveva essere, sviluppò un feroce controestetismo. Fondata da H. Rivière, C. Einstein e G. Bataille, che ne fu il segretario generale, nei due anni di vita rappresentò un’esperienza sovversiva, indisciplinata, sediziosa, controcorrente. Sulle sue pagine Leiris pubblicò articoli indirizzati a denunciare la stantia civiltà occidentale esaltando tutto ciò che era in grado di rimediare alle sua carenze. Sulla rivista cfr. Jamin 1999; Budriesi 2017b, pp. 67 ss. 11 Leiris 1980. Da vari decenni la neurofisiologia e la psicologia hanno messo in risalto che la specie umana è probabilmente la più emotiva di tutte le specie animali (Pradier 2016, p. 74).
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a Gondar, nel corso della missione etnografica Dakar-Gibuti 19311933)12 sperimentò la possibilità dell’uscire da sé in un contesto lontanissimo da quello europeo. A quell’esperienza dovette il suo ingresso nell’etnografia, che divenne il suo mestiere, quando, al rientro, entrò al Musée de l’Homme. Coltivò a casa, nel raccoglimento della camera da letto, la letteratura e la poesia. Ai culti zar dedicò lavori significativi negli anni Trenta13, per filtrare, più tardi, l’esperienza africana nel saggio Gli aspetti teatrali della possessione tra gli Etiopi di Gondar (= PTI) del 1958, ancora citato da antropologi, studiosi dei rito e del teatro. Lavoro complesso, per certi versi contraddittorio, che si articola in cinque capitoli preceduti da un’ Introduzione, tradotto in italiano trent’anni dopo la sua pubblicazione (1988)14. Per quanto attiene al tema che propongo, mi fermerò su alcuni punti del capitolo Possessione, divertimento, arte, dopo avere sottolineato che il saggio risente di una stesura affrettata, come se le immagini dei “suoi” posseduti gli si affollassero/sovrapponessero nella mente, risvegliando e illuminando ricordi sopiti da molti anni e, nello stesso tempo, richiamando esperienze più recenti e toccanti vissute ad Haiti a contatto con il vodu. Credo anche di poter dire che vi traspaia una sorta di euforia per la salute riacquistata dopo il grave il tentato suicidio del 1957, atto che fu culmine e, in certo senso, punto di svolta di una crisi depressiva che lo perseguitava dall’adolescenza, attraverso il quale forse risolse la dipendenza da quello che è stato chiamato opportunamente, il suo “zar”, lo scrittore Raymond Roussel conosciuto nella casa paterna nell’infanzia/adolescenza15. Leiris qui è alla ricerca (oggi potremmo dire “ingenua”, ma mai superficiale) della verità dei posseduti: sono davvero posseduti (sono Sulla missione rinvio a Budriesi 2017b, con riferimenti bibliografici. Vi partecipò come segretario archivista. 13 Tutti tradotti in Budriesi 2017a. 14 Leiris 1958, trad. it. 1988. 15 Non è questa la sede per approfondire il rapporto, fondamentale dal punto di vista della poetica, tra Leiris e Roussel, mi limito a rinviare all’opera pubblicata postuma, Roussel &Co (Leiris 1998), che riunisce gli scritti di Leiris sul suo ispiratore. Roussel, che non godette in vita del successo che si aspettava, è ritornato all’attenzione del pubblico internazionale grazie alla mostra corale e “multisensoriale” che Luca Trevisani gli ha dedicato nel Grand Hotel et Des Palmes di Palermo, nell’ambito della biennale Manifesta (11.5 – 30.10 2018). Al Grand Hotel Roussel si suicidò nel 1933. 12
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in trance?) o sono impostori/attori che recitano la possessione, come li aveva definiti, con toni sprezzanti, da europeo, Marcel Griaule (PTI, p. 9)? Illustra con efficacia momenti di distensione, scene “teatrali” vissute nell’ambito della confraternita guidata da Malkam Ayyahou (straordinaria bale zar di Gondar, la “zarina”, come Leiris chiama la “signora degli spiriti”, nel diario intimo della missione, L’Afrique fantôme (L’Africa fantasma = AFI) pubblicato nel 1934. Spettatore partecipante, in quei mesi cercò di entrare in intimità con i rituali zar anche perché visse una profonda, quanto non appagata, attrazione fisica per la bella figlia della bale zar, che sconvolse i suoi ritmi di scrittura del diario e gli fece toccare apici di emozione che aveva cercato invano nel corso di tutto il viaggio. Le scene “teatrali” propongono l’inestricabile intreccio, nello zar, tra rito e teatro (dimensione comune alla lettura di molti rituali), testimoniato dapprima nel diario, che fu accolto con grandi riserve a Parigi da quanti si aspettavano di leggere un tradizionale diario di viaggio; si arrivò al ritiro dell’opera, che rivelava particolari personali dell’autore e dei suoi compagni, ritenuta lesiva dell’immagine della spedizione finanziata dal governo francese e sostenuta da privati e istituzioni16. Si tratta, al contrario, di una scrittura straordinaria, tra etnologia e letteratura, alla scoperta dell’io attraverso l’Altro, da cui sprigiona l’intensità della ricerca etica che ha contraddistinto la quête di Leiris. Soprattutto nella prima parte, si sofferma sul suo corpo: bisogni fisiologici, malesseri, depressione, coiti mancati, sogni, masturbazione, annotazioni alle quali vale la pena di accennare: «27 maggio (1931) Durante la toilette mattutina, visto in bagno uno scarafaggio grosso come un mezzo indice (AFI, p. 17) 6 giugno sempre lo stesso nervosismo…rientrato ancora nervoso. Ucciso un millepiedi prima di andare a letto (p. 25) 4 luglio La vita che conduciamo qui è in fondo molto monotona, paragonabile a quella vita della gente del circo che si sposta ogni giorno, ma dà sempre lo stesso spettacolo (p. 45) 16
Cfr. Budriesi 2017b, pp. 153-164.
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12 luglio stamattina malinconia terribile, da piangere (p. 50) 23 luglio sognato che uno dei miei timori si realizza, e che comincio davvero a divenire calvo (p. 59) 18 agosto … stanotte dormito male. Mal di pancia, Nuovi crocros al piede destro. Nessuna voglia di lavorare. Ma quando ce ne andremo via di qui (p. 75). 9 maggio (1932) Per tutta la giornata ossessioni erotiche …Voglia di scrivere un saggio sulla masturbazione. Come, a onta della qualifica di “vizio solitario” che spesso le si attribuisce, la masturbazione possiede un carattere eminentemente sociale per il fatto che è sempre accompagnata da rappresentazioni di tipo allucinatorio. Che le figure gravitanti attorno all’uomo sul punto o nell’atto di masturbarsi siano totalmente immaginarie, o che esse siano (come sia il caso più frequente) costituite da un unico ricordo o da più ricordi fusi insieme, è escluso che il masturbatore possa soddisfarsi da solo (p. 256). 17 maggio Un solo uomo può pretendere di avere qualche conoscenza della vita in quella che è la sua sostanza, il poeta; perché sta nel cuore del dramma che si gioca fra questi due poli: oggettività e soggettività; perché li esprime a modo suo nello strazio, del quale si nutre egli stesso e del quale è, di fronte al modo il porta-veleno o, se vogliamo, il portavoce… Il suicidio – il cui risultato più sicuro è sopprimere il soggetto in quanto oggetto – è forse una soluzione elegante al problema sovraesposto» (p. 263).
Le “scene teatrali”, di cui dicevo, datano all’ottobre 1932. La missione è ferma a Gondar per problemi politico/burocratici. Leiris si dedica esclusivamente allo studio dello zar, sia attraverso inchieste con informatori e posseduti presso la sede dove sono accampato (presso il consolato italiano), sia frequentando assiduamente (fino a trasferirvisi per qualche tempo a vivere) la confraternita guidata da Malkam Ayyahou dove documenta le cerimonie con minuziosa attenzione, aiutato dall’interprete, il raffinato letterato di origine abissina, Abba Jérôme17. Siede tra gli adepti, gomito a gomito con la “zarina” e con sua figlia, sempre “protetto” dal taccuino su cui si proietta la luce fioca della 17
Cfr. l’intenso ritratto che ne fa Leiris 1983, trad. in Budriesi 2017a, pp. 192-194.
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lampada di Jérome. Assiste ad alcune cerimonie importanti, in cui si sacrificano grandi animali (montoni, tori) a vari zar per ottenerne i favori, rituali che si protraggono anche per una settimana. Queste cerimonie complesse, contrassegnate da trance ripetute, dalla discesa degli zar sui posseduti manifestata dal gurri (movimento rotatorio del busto e del capo che indica la discesa dello zar sul posseduto), dai canti dei temi di guerra degli spiriti (fukkara), sono seguite da momenti di “svago”, pause che sciolgono la tensione dei sacrifici e dei rituali di guarigione o di divinazione, ma che, in realtà, ne costituiscono un’altra faccia. Propongo tre momenti “teatrali”, secondo la definizione di Leiris, nella versione quasi integrale tratta dal saggio del 1958: 1. (Gondar 10 ottobre 1932, casa di Malkam Ayyahou). Il protagonista è Sayd, un amhara convertito all’islam, che si reca in visita a casa di Malkam Ayyahou. È un collega, un bala ganda, termine che equivale a bala zar (un grande posseduto), che, come si usa, viene chiamato con il nome dello zar che lo possiede, Dam Tammâñ: «Subito dopo il suo ingresso nella capanna in cui si teneva l’assemblea, tutti erano disposti lungo i lati e al centro rimaneva uno spazio vuoto, Sayd fece il gurri, poi percorse l’assemblea distribuendo qua e là qualche colpo di frusta (leggero) mentre i partecipanti – uomini e donne, per lo più seduti – cantavano: Se dovete combattere, combattete bene. Dam Tammâñ e i suoi fanno così Gli aškâr di Sayfu18 sono piccolissimi, pungono come api. Poi, tra le risa, Sayd si esibì in una scenetta, una specie di commedia improvvisata a cui gli astanti parteciparono in modo almeno apparentemente spontaneo. Gli era stato dato, al suo ingresso, un boccale di birra d’orzo (tallâ) e lui lo fece girare più volte sopra la testa gridando “madânit madânit Medicamento medicamento!”. Poi bevve il contenuto del boccale con la testa rovesciata, fingendo di prendere una purga (kosso, un rimedio contro la tenia a base di Si tratta di Seyfou Tschenger, il più potente zar che possiede Malkam Ayyahou, richiamato a più riprese nel diario e nei lavori successivi. 18
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fiori di brayera anthelmintica). Poi, un po’ in disparte, fece finta di defecare, quindi cadde a terra, come un agonizzante. Venne portato al centro dell’assemblea e la vecchia Abbadač, una posseduta cieca, gli fece baciare una croce fatta con gli steli di čaffe [erba con la quale si cosparge il suolo durante i sacrifici], dopo il che egli rimase immobile, disteso per terra, fingendo d’essere morto mentre lo coprivano con un pezzo di stoffa bianca. A questo punto entrò in gioco Malkam Ayyahu che, in quanto incarnazione di Abbâ Qwasqwes, finse di resuscitarlo facendolo comunicare con un pezzetto di dâbbo, pane di frumento. Tornato alla vita, Sayd reclamò del raki [acquavite] chiamandolo sangue di Cristo, un appellativo forse derivato dal nome del suo zar, che significa “ho sete di sangue”» (PTI, pp. 38-39).
2. (11 ottobre, stessa casa). La protagonista è una vecchia del Wagarâ, che uscita della capanna delle cerimonie dopo avere fatto il gurri: «ritornò dopo qualche momento con il bastone del mio amico Abba Jérôme protetta da un ombrello e con la testa coperta da un velo. Rappresentava – ci dissero – una vecchia religiosa venuta consultare Abbâtê Čangare [nome con il quale era familiarmente chiamata Malkam Ayyahu, che significa “padre mio Tschangar” in riferimento al grande zar che la possedeva Seyfou Techenger]. Dopo aver benedetto la canna con l’incenso che bruciava in una ciotola, la vecchia fece davanti all’incenso un finto gurri e buttò via il suo matâb (cordone da collo) come fanno al momento della trance coloro che sono posseduti da uno zar islamico. Le fu fatto un finto interrogatorio per stabilire l’identità della zar che si manifestava, poi ella usci da dove era entrata […]. Ci dissero che la storia rappresentata era quella di una sua parente, una religiosa colpita da uno zar in punizione del suo disprezzo per gli spiriti. La vecchia tornò dopo qualche attimo di assenza, si avvicinò a una degli adepti, Leğ Mangestu, che faceva la parte di un prete a cui chiedeva l’assoluzione. Il finto prete l’allontanò grossolanamente, dicendole “Dio di f…” (egzêr yebdâš) invece di “Dio ti assolva (egzêr yeftâš)19. Allora la vecchia fece di nuovo il gurri, poi si tolse il velo e lo gettò e Malkam Ayyahu finse un nuovo interrogatorio. Un’adepta che impersonava un membro Storpiare delle parole facendole passando da un significato a un altro per lo più, come qui, blasfemo, è uno degli aspetti tipici delle cerimonie zar descritte nei lavori di Leiris (cfr. Budriesi 2017a) che qui nota come le confraternite zar somiglino ad altre società iniziatiche molto diffuse in Africa nelle quali vengono usate lingue speciali: Leiris 1958, p. 77, nota 19. Lui stesso studiò a lungo la lingua segreta dei Dogon (Leiris 1948). 19
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del seguito della religiosa predisse che il prete sarebbe stato colpito dagli zar perché aveva rifiutato alla sua penitente il permesso di offrire un sacrificio (maqwâdašâ). La religiosa chiese alle sue amiche cosa dovesse fare per guarire e le fu consigliato di recarsi da Čangarê e di fare il gurri. Allora la religiosa si fece benedire con l’incenso dalla figlia [di Malkam Ayyahu] (che rappresentava un’adepta) e si recò a consultare Čangarê (cioè Malkam Ayyahu, che però qui impersonava un qualsiasi guaritore non proprio il grande Čangarê), ma Čangarê rifiutò di guarire la religiosa, che gemendo si sdraiò accanto a Malkam Ayyahu, sulla panca contro il muro della capanna, annunciando che stava per morire, e chiese al prete (Leğ Mangestu) di confessarla. Il prete accettò, convinto dalla promessa di un bue. Quindi, la vecchia che faceva la parte della religiosa uscì. Tornò poco dopo senza gli accessori “da religiosa” e scambiò tutt’intorno baciamani con gli altri adepti, un gesto di saluto comune nel wadâğâ quando si manifesta un nuovo zar e l’adepto che lo incarna saluta gli astanti in quanto nuovo venuto (in questo caso il saluto potrebbe significare che la vecchia ora ha una nuova personalità, essendosi liberata dagli “accessori da religiosa”). Due adepti conclusero la rappresentazione raccontando come la religiosa fosse stata seppellita, perché disprezzò gli zar e perciò Čangarê non la soccorse. Verso mezzogiorno Malkam Ayyahu, cioè Čangarê, massaggiò la vecchia sulla nuca e suo petto, ma senza che niente indicasse un rapporto diretto tra questo intervento terapeutico e la farsa della mattina». (PTI, pp. 39-40)
3. (29 ottobre, stessa casa). La protagonista è Abiču, una delle principali adepte della bale zar, che agisce dopo il sacrificio che Leiris ha offerto allo zar Azzâj Deho (Azaj Douho): «verso le sette del mattino, dopo un’ora circa che le erbe di cui era stato sparso il pavimento per il sacrifico erano state buttate in una macchia insieme alle altre offerte, Abiču entrò camminando curva, con un bastone in mano e altri due bastoni in spalla: con una zucca in mano fingeva di mendicare, e chiedeva agli astanti di indicarle la casa di Čangarê. Rappresentava – dissero gli altri adepti al mio interprete Abba Jérôme – un vecchio prete che vuole sapere cosa bisogna fare per essere guariti da Čangarê […] secondo gli altri adepti il prete voleva far curare una figlia che aveva avuto a cinquant’anni. Al levarsi improvviso di Malkam Ayyahu Abiču, fingendo paura, si scostò in fretta lasciando cadere ai piedi della padrona di casa i suoi
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tre bastoni, ed essa, afferratone uno, la cacciò dalla capanna a colpi di bastone, però leggeri». (PTI, pp. 40-41)
Nella prima e nella seconda scena (la seconda presenta aspetti non del tutto chiari, sia al lettore contemporaneo, sia allo stesso Leiris), si assiste a un travestimento parodico delle scritture. Sayd impersona Lazzaro che muore dopo avere assunto una purga e avere defecato in pubblico e viene resuscitato grazie alla comunione impartitagli dalla bale zar che gli offre un pezzo di pane (dabbo). Appena si alza reclama del raki, dell’acquavite, in omaggio al suo zar, bevanda che sostituisce parodisticamente il vino dell’eucarestia. La vecchia del Wagarâ che impersona una suora – quindi un’esponente del clero ortodosso – si finge posseduta e compie gesti scomposti, per rammentare la punizione in cui incorre chi non crede allo zar. Non solo la religiosa è oggetto di scherno (è posseduta da uno zar islamico), ma lo è anche il prete, impersonato da un adepto, che prima rifiuta di confessarla, poi accondiscende, ma dietro la promessa di un compenso altissimo: un bue! Nella terza (che gli astanti non leggono alla stessa maniera) l’adepta Abiču interpreta il ruolo di un prete (è tipico nello zar il cambiamento di sesso) venuto in cerca di aiuto dalla bale zar, rivivendo, come negli altri casi, un episodio accaduto nella casa della “zarina” attraverso il quale la si vuole lodare perché, pare di capire, aveva scacciato un prete indegno – non se ne conosce il motivo – percuotendolo, come fa ora, leggermente, con Abiču usando la frusta di cui si serve per scacciare gli spiriti. Malkam Ayyahu, che era vicina alla Chiesa Ortodossa di Gondar20 – circostanza che non cozzava, allora, con la sua professione di “signora degli spiriti”, come accade ora nelle cerimonie alle quali ho assistito che vengono officiate da bale zar/ bale wukabi che professano le religione islamica e fanno precedere i riti di guarigione/divinazione, da preghiere rivolte ad Allah21 – attinge ai rituali cristiani per capovolgerli, pesca in un immaginario comune e lo declina sulla base della teologia dello zar. I suoi adepti conoscono le regole delle rappresentazioni post sacrifico (come quelle del sacrifico) e sanno stare perfettamente al gioco, vi partecipano comprendendone i significati sottesi, che in Suo fratello era prete e suo nipote (il figlio della figlia) era un debtera, un chierico colto che frequentava la vicina parrocchia di Baata di Gondar (cfr. AFI, passim). 21 Budriesi 2013, 2018. 20
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parte sfuggono a Leiris e al suo interprete che pure padroneggia la lingua. Non meraviglia se alcuni manifestano incertezze su taluni aspetti del gioco teatrale/rituale, in quanto il pubblico presente nella casa non è sempre lo stesso: al gruppo di adepti quasi fissi si aggiungono spesso ospiti di passaggio e, del resto, occorre sempre conoscere i limiti della loro/nostra comprensione22. Il problema della leggibilità di queste “scenette” grottesche “parodizzazione giocosa del sacro”23, è comune a ogni messaggio: emittente e destinatario devono appartenersi, devono, cioè, in qualche modo, cospirare “respirare insieme”, ovvero essere culturalmente in accordo. Dunque, se è un dato di fatto che Leiris provò una profonda consonanza con il mondo dello zar, non una religione trascendente da cui rifuggiva24 (gli zar erano in origine uomini, divenuti invisibili), va considerato che, per penetrare un universo così complesso, anche dal punto di vista linguistico, non furono forse sufficienti i mesi durante i quali frequentò la confraternita, per di più non conoscendo l’amharico. Un problema che si pone per ogni ricerca sul terreno. Ciò non toglie che abbia offerto uno spaccato di quei riti che ha fatto e fa scuola (e che lui stesso ha “sfruttato” nel corso di decenni), anche se quell’esperienza deve essere collocata in un preciso momento storico, Segre 1993: «i limiti della nostra comprensione non ci autorizzano ad affermare che non c’è nulla da comprendere», p. 303. 23 Cfr. Bachtin 1995, p. 94 e Attisani 2011: “Per comprendere il trait-d’union RabelaisBachtin bisogna pensare all’Europa del Novecento, ovvero alle vicissitudini cui sono andati incontro un corpo e un tempo che non hanno saputo fare i conti con la propria realtà. Attraverso l’analisi del testo rabelesiano, Bachtin non procede soltanto al rinnovamento filologico di un testo letterario, ma definisce un atteggiamento e un processo che ci consegnano un concetto di realtà non esteriore, più autentico ed essenziale di quello proposto dai realismi. L’autore oppone la ricerca della conoscenza e della saggezza secondo le coordinate di Rabelais alla rimozione del corpo memoria degli umanisti; i loro ideali di eleganza e di buone maniere sono lo specchio deformante di una condizione umana assai più complessa, fatta anche di cibo, sesso, deiezioni. Tutto ciò considerando l’uomo un microcosmo. Da ciò il suo programma – oggi lo si definirebbe “biopolitico” – secondo il quale nell’arte occorre procedere a una “analogizzazione fantastica grottesca” al fine di “corporeizzare il corpo, materializzandolo” (p. 7). 24 Si veda la sua personalissima declinazione di sacro (Leiris 1938b) che colloca nell’ambito di “certi fatti molti umili”, di “certi fatti molto esigui”, che appartengono o possono appartenere al vissuto più comune e meno “mitico” immette infatti gli “idoli” e i “templi” del “sacro” nella placida cerchia della sua famiglia medio-borghese della Parigi del primo Novecento, procedendo a una decisa secolarizzazione del fenomeno e a un non meno evidente “rimpicciolimento” delle circostanze della sua apparizione. 22
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in un altrettanto preciso contesto geografico e filtrata dalla dimensione letteraria attraverso la quale fu narrata. Le esperienze recenti condotte in Etiopia sui culti zar, evidenziano situazioni assai complesse, spesso sfuggenti e problematiche, soprattutto dopo la guerra civile (Derg 1974-1991) durante la quale sono stati perseguitati, torturati e anche uccisi molti bale zar in nome della modernizzazione del Paese25. Dopo la Dakar-Gibuti Leiris non tornò in Etiopia e quando scrisse il saggio di cui parliamo si servì delle schede che aveva elaborato nel corso della missione e che a Parigi teneva ordinate, metodicamente, in schedari. Il problema affrontato a proposito di queste “commedie”, che definisce “decisamente buffonesche”, nelle quali si mette in scena il carattere irriverente della confraternita nei confronti della religione ufficiale e insieme la volontà edificante nei confronti dello zar, è il seguente: sono scene di possessione o di puro teatro? I protagonisti sono o no in trance, ovvero hanno fatto il gurri? Dubbi che percorrono, del resto, quasi tutto il testo perché Leiris stesso è posseduto da un interrogativo che lo assilla da sempre (da quando ha incontrato i primi posseduti in Mali, nel 1931, durante la prima parte della Dakar-Gibuti)26 e che, nel 1948, aveva condiviso con Métraux ad Haiti quando aveva assistito ai riti vodu, rimanendone profondamente colpito e ritornando con la memoria ai “suoi” zar. Nel saggio La commedia rituale nella possessione del 1955 (= CRI), Métraux aveva notato che: «per l’ambiguità della sua natura, il fenomeno della possessione continua a sottrarsi a un’interpretazione soddisfacente. Esso appartiene a una di quelle zone marginali in cui credenze e riti si alleano nella maniera più stretta a meccanismi psicologici ancora oscuri». (CRI, p. 119)
e che «ogni possessione ha un lato “teatrale”. Quest’aspetto si manifesta già nella preoccupazione del mascheramento. Le camere del santuario fungono un po’ da retroscena in cui i posseduti trovano gli 25 26
Mi limito a richiamare l’esperienza di Dewel 2012. Cfr. Budriesi 2013.
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accessori necessari. A differenza dell’isterico, che rivela le sue angosce e i suoi desideri mediante un sintomo – modo d’espressione personale – il posseduto rituale deve conformarsi all’immagine classica di un personaggio mitico. Certo, gli isterici di una volta, che si credevano preda del demonio, attingevano ugualmente gli elementi della loro personalità diabolica dal folklore del loro ambiente, ma essi subivano una suggestione che non è interamente comparabile a quella dei posseduti di Haiti. Gli adepti del vodu fanno una distinzione molto netta fra la possessione da parte dei loa, che è ricercata e desiderata, e la possessione da parte degli spiriti malvagi, che è temibile e malata. Mai si producono nel vodu dialoghi paragonabili a quelli delle due personalità della possessione demoniaca. Presso i posseduti rituali, la coscienza è interamente annullata, in apparenza almeno, e l’individuo obbedisce al loa “sicut cadaver”. […] Alcuni riescono meglio di altri a rappresentare tale o tal altro dio agli occhi del pubblico. È per questo che si possono sentire in ambito vodu frasi di questo genere: «Dovresti vedere quando ha Erzulie in testa. Queste similitudini tra la possessione e il teatro non devono farci dimenticare che, agli occhi del pubblico, nessun posseduto è davvero un attore. Egli non interpreta, egli è quel personaggio per tutta la durata della trance». (CRI, p. 126)
Se l’autore individua nella mimesi27 che si stabilisce tra il comportamento dell’adepto e le caratteristiche dello spirito che lo possiede il processo attraverso il quale si manifesta e si ritualizza la possessione, i suoi dubbi si incentrano sul meccanismo psichico che produce la trance da possessione. Si pone, in sostanza, i seguenti interrogativi: si tratta di sdoppiamenti di personalità, paragonabili a quelli di cui soffrono certi isterici, o di stati simulati che fanno parte di un culto tradizionale in risposta a imperativi rituali? Quando qualcuno diventa ricettacolo di un dio, diventa quel dio, ha perduto il senso del reale? Métraux esamina anche la lettura in chiave freudiana elaborata da Bastide – che legge la possessione come liberazione della personalità repressa28 – ma non vi aderisce perché a suo parere il posseduto rituale Concetto che, in ambito teatrale, ha ricevuto una complessiva ridefinizione alla luce della rilettura della Poetica di Aristotele (introdotta e tradotta da Donini 2008, pp. VIICLXXXII), secondo quanto ha posto in evidenza Attisani 2012, 2013, 2015. 28 «La possessione [secondo Bastide] permetterebbe alla personalità repressa di tornare sotto una forma simbolica, “in un’atmosfera di gioia e di festa, senza il carattere sinistro di 27
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si sforza di impersonare un loa il cui carattere gli è, tutto sommato, estraneo. La maggior parte dei posseduti, apparentemente, non può trarre altro vantaggio dal proprio stato se non la soddisfazione che prova un attore che vive il proprio ruolo e che raccoglie applausi. Il posseduto è un attore che crede nell’esistenza dei loa e delle loro incarnazioni. La facilità con la quale entra nel personaggio, prova che è divenuto quel personaggio e che interpreta il ruolo in buona fede, attribuendolo alla volontà di uno spirito che, misteriosamente, si è insinuato in lui. Il semplice fatto di credersi posseduto sembra sufficiente a provocare in un soggetto il comportamento tipico dei posseduti, senza che vi sia intenzione di inganno. Lo stato di possessione, che c’è e che Métraux ha verificato in molte circostanze, si determina in funzione del clima intensamente religioso degli ambienti vodu e questo, lo afferma con una sorta di nostalgia «fino al giorno i cui la disgregazione delle credenze tradizionali romperà, presso un posseduto haitiano, le inibizioni che sono all’origine dell’oblio»29. Non potendo né volendo rispondere attraverso un percorso che segue canoni logici occidentali, né servendosi di dati clinici che ne descrivano la dinamica (che non possedeva o, forse, che non lo interessavano), Métraux risponde usando la lente dell’ etnologo anche se accenna a un tema molto importante: quello della suggestione che trova ampio spazio nelle argomentazioni conclusive, in cui segue Jean Filliozat 1944 che definisce la possessione una “suggestione di stato”, che si innesca attraverso «un momentaneo oblio sia delle intenzioni legate all’attività abituale, sia della sensazione reale dello stato nel quale ci si trova da cui discende che il soggetto agisce contro la sua normale volontà o si crede in uno stato altro dal vero»30. La domanda su verità o inganno nelle possessioni haitiane, conclude Métraux, può formularsi soltanto a condizione di porre correttamente i dati del cui parla Freud”. Si tratterebbe di “una confessione che non sarebbe parlata, che sarebbe giocata, una cura motoria nell’esaltazione muscolare della danza, invece di una cura orizzontale su un divano dissimulato nella penombra di una clinica”» (CRI, p. 131). 29 Aggiunge: «Se, nell’attesa di quest’avvenimento, io mi sono arrischiato, benché profano, su un terreno che gli psichiatri rivendicano, è perché io credo al primato del sociale nella trance quale almeno si manifesta nelle società dette primitive. Del resto non è accaduto lo stesso nei fenomeni di possessione alla Salpêtrière? Charcot e i suoi discepoli non hanno trasformarono le loro sale in houmfo (santuari vodu)? Vi è una gran parte di verità in questa battuta di un etnografo mio amico» (ivi, p. 137). 30 Ivi, p. 135.
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problema, occorre cioè conoscere le funzioni della possessione all’interno del sistema religioso e sociale che le ha riservato uno spazio così ampio31. Conclusione che possiamo considerare ineccepibile e valida in prospettiva emica. La buona o la mala fede dei posseduti, l’amnesia durante la trance, la somiglianza dello zar al posseduto, e viceversa, giudicati nella dimensione teatrale in cui si svolgono le cerimonie vodu, sono momenti chiave anche del saggio di Leiris, che si concentra quasi esclusivamente sullo zar. Probabilmente fu il confronto con Métraux, nel corso delle ingenue erranze compiute con lui a Port-au-Prince, a spingerlo a pubblicare le proprie idee sullo zar in forma problematica, specchio anche di un momento di crisi della propria identità di uomo e di letterato, avendo a che fare in quegli anni con il tema – destabilizzante – della vita come teatro e della malafede che gli suggerivano il confronto e la familiarità con Sartre, di cui peraltro non condivideva molte delle idee32. Entro queste prospettive (forse non troppo chiare neppure a lui stesso) si collocano i dubbi relativi alle scene riportate sopra, che si collegano con quelli di Métraux: sono veri posseduti o soltanto attori i loro protagonisti? Possiamo sciogliere l’interrogativo sia alla luce delle conclusioni a cui lo stesso Leiris approda nella parte finale del saggio, sia di riflessioni multidisciplinari recenti sulla trance (meglio dire sulle trance): non vi era bisogno di osservare con la lente quegli attori per stabilire (tanto più difficile dall’esterno) se nei momenti che Leiris definisce di teatro gli “attori” fossero o no in trance. Premesso che la trance presenta numerosi stadi – da quelli più marcati a quelli impercettibili che, dunque, sono difficilmente riscontrabili da un osservatore esterno per quanto fisicamente ed empaticamente vicino – possiamo riferirci a quanto scrisse Jean Pouillon su “Les Temps modernes” (1959) CRI, pp. 127-128. Métraux ricorda che Louis Mars (1906-2000), medico psichiatra e diplomatico haitiano, era stato testimone di una crisi di possessione da parte di un loa, che si era innescata in un individuo sottoposto a un intervento chirurgico, nel momento in cui il dolore era più acuto, e il caso di due individui che erano stati posseduti nel momento di un incidente di autobus. Lo stato di possessione, conferma, aiuta i seguaci del vodu che devono sottoporsi a sforzi eccezionali: è ricordato il caso di naufraghi che hanno guadagnato la costa grazie alla possessione del dio Agoué, e lui stesso dichiara di aver visto la mambo Desina, che zoppicava, camminare speditamente quando era posseduta da Legba (p. 129). 32 Cfr. Budriesi 2017b, pp. 227 ss. 31
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recensendo i saggi di Métraux e di Leiris usciti l’anno precedente. Mise in risalto gli aspetti comuni ai due culti (vodu e zar) e quanto al tema della buona/malafede dei posseduti sostenne con chiarezza che il dilemma che aveva attanagliato i due autori (forse lo avevano anche enfatizzato…) possessione autentica/possessione non autentica, coscienza/incoscienza, era un falso problema, perché in tutti gli uomini non si danno sentimenti definibili come “naturali”: quando un sentimento viene manifestato, contiene sempre una parte di “malafede”, in senso sartriano. Anche se gli stessi posseduti si accusano fra loro di simulazione, continuano a credere agli spiriti: la loro è una “credenza nonostante…”. Quando il posseduto dice di non ricordare più quanto è successo durante la trance “non è l’incoscienza a cui fa riferimento, ma l’irresponsabilità”33. «Noi siamo come i garçon del caffè che recitano la parte dei garçon del caffè» di cui parla Sartre ne L’Essere e il Nulla e se, per Leiris, i posseduti si situano «a mezza strada tra la vita e il teatro, tutti «siamo a mezza strada»34.
Pouillon interpreta le due opere per quello che sono e dicono, senza pretendere di inserirle più che tanto entro le coordinate dell’antropologia sartriana de L’Essere e il Nulla, che certamente influenzò Leiris, ma non determinò in lui una conversione, forse lo spinsero a fare chiarezza nel suo pensiero quando cercò di unificare, dopo lì’esperoenza lacerante della guerra, autobiografia ed etnografia. Del resto, la risposta ai propri dubbi si legge nell’ultimo capitolo del saggio Teatro recitato e teatro vissuto nel culto degli zar35, che segna l’approdo del percorso, accidentato, nel quale, con molto anticipo su altri autori – e anche andando oltre Métraux, di cui più tardi riconobbe l’influenza36 – mette in evidenza l’autonomizzazione della dimensione estetica dei Pouillon 1959, pp. 1497-1498. Ibidem. 35 Leiris 1948, trad. 1958, pp. 94-109. 36 Leiris 1992, pp. 33-34: su Métraux, Leiris risponde in una lunga intervista a Sally Price: «S.P.: – Lei ha descritto Métraux come un poeta, ma non perché abbia scritto dei poemi… M.L: – …sì, perché viveva la poesia… S.P.: – [Métraux] ha influenzato la sua visione della trance? M.L.: – No, non lo posso dire … Sì forse, sì forse c’è una cosa. Métraux mi ha preceduto della lettura teatrale della trance. Può darsi che nel suo libro Le Vaudou haïtien [in realtà M. aveva già usato questa espressione nella Commedia rituale del 1955] impieghi il termine “commedia rituale” che è un’eccellente espressione». 33 34
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culti zar che – afferma – non va disgiunta dal valore terapeutico del rituale, né dal suo significato sociale: «Infine, è probabile che, se il teatro in quanto tale contiene potenzialità di catarsi o una “purificazione” dalle passioni (meno pericolose nell’istante in cui vengono esteriorizzate in un’azione scenica), da questo punto di vista, un valore simile, ma ancora più grande, deve avere un teatro in cui la persona non è passiva, non esce fuori di sé per un semplice gioco, ma è messa in causa integralmente, e inoltre può inventare in certa misura essa stessa la scena in cui sarà protagonista». (PTI, pp. 71-72)
Possiamo quindi concludere che i posseduti, i cui corpi sono squassati dal gurri – attraverso movimenti che, dopo una lunga pratica, si sono fatti stilizzati –, sono direttamente coinvolti e sollecitati a essere protagonisti di un’azione che li trasforma in attori di un evento complesso e creativo, che in molti casi dura diversi giorni, durante i quali le trance si alternano e variano di intensità e si adeguano ai momenti nei quali il rito si scandisce, comprese la pause cosiddette “teatrali”, senza soluzione di continuità. Le personalità degli zar che possiedono un individuo si alternano, nei casi dei “grandi posseduti” e suggeriscono comportamenti volta a volta diversi come accadeva alla bale zar con la quale Leiris visse una certa intimità. «Osservando vivere Malkam Ayyahou per molti mesi e, negli ultimi tempi, vivendo anche presso di lei, sono giunto a considerare che i suoi zâr costituivano una sorta di guardaroba di personalità che ella poteva indossare a seconda delle necessità e dei diversi momenti della vita quotidiana, personalità che le suggerivano comportamenti e attitudini a mezza strada tra vita e teatro. Dal punto di vista psicologico, ci sarebbe certamente molto da scoprire attraverso lo studio approfondito di questi stati ambigui nei quali sembra impossibile misurare quanta convenzione e quanta sincerità entrino nel modo di essere dell’attore». (Leiris 1938a, trad. it. Budriesi 2017a, p. 146)
Alla “zarina” si sentì legato «forse perché era di famiglia, forse perché Malkam Ayyahou era un’illuminata d’eccezione come ce ne sono state poche nell’Etiopia contemporanea». (AFI, p. 910)
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L’espressione théâtre vécu, che Leiris in certi passi dell’opera vuole cercare di distinguere da théâtre joué (l’influenza del giudizio di Marcel Griaule non è da sottovalutare) attengono, in realtà, a differenti definizioni della trance da parte nostra e da parte loro. Distinzione che Métraux e – più esplicitamente Leiris – hanno alla fine “risolto” usando la lente dell’etnologia, ma dopo avere posto al lettore interrogativi che possiamo definire “da uomini occidentali”. L’osservatore occidentale, infatti, di fronte alla trance, si pone il problema di fare coincidere uno stato psichico che nel linguaggio medico-psicologico è sinonimo di incoscienza, di dissociazione, con un’esperienza nella quale questi aspetti – stando anche alle esperienze dei due etnologi – sono presenti solo in parte e non sono caratterizzati come sintomi, bensì come comportamenti appresi e controllati, messi in opera intenzionalmente e non simulati. Va detto che è molto difficile raccontare la trance, le trance, senza averle vissute. Volendo definire correttamente lo stato modificato di coscienza che è la trance – lo possiamo premettere – si tocca un tema che Grotowski affrontò, volendo mettere in guardia chi lo ascoltava da facili fraintendimenti. Nelle lezioni romane del 1982, parlando della sua pratica teatrale37 volle fare chiarezza rispetto a molti luoghi comuni che, anche in sede scientifica (tra gli etnologi) non di rado, si manifestavano riguardo al rito, alla trance e alla possessione:
«Gli occidentali guardano al rituale con le lenti degli etnologi, ma molti di loro sbagliano […] qualcuno, per esempio pensa che il rituale sia il tempo della spontaneità, invece nel rituale tutto è strutturato alla perfezione. L’impressione di spontaneità è il risultato della grande maestria con cui viene eseguito […]. Gli occidentali confondono la spontaneità con la struttura perfettamente dominata, perché in Occidente non si è compresa bene la base stessa dell’arDi sé nella prima lezione che tenne al Collège de France, dove gli fu affidata la cattedra di Antropologia teatrale, il 24 marzo 1997, due anni prima di morire aveva detto: «Non sono né uno studioso né uno scienziato. Sono un artista? Probabilmente sì. Sono un artigiano nel campo dei comportamenti umani in condizioni metaquotidiane», definendo l’incarico ottenuto nella prestigiosa istituzione «una possibilità che gli permetteva di riunire le ricerche sul teatro, sul rituale e sulle pratiche quotidiane, fino ad allora separate tra loro» (De Marinis 2007, p. 206). 37
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te performativa: la contraddizione vivente e necessaria tra il rigore della struttura e il flusso della vita». (Vacis 2002, pp. 92-93, cit. da De Marinis, 2007, p. 27)
La trance, dunque, non è scatenamento selvaggio, ma tecnica del corpo/mente attraverso la quale si apprende a perdere il controllo di sé, come osserva Beneduce, alla luce di esperienze di possessioni studiate, anche dal punto di vista dell’antropologia medica, in Africa e non soltanto: «il fatto che la trance sia, fra le altre cose, e per più aspetti prima di altre cose, una tecnica del corpo, una forma di apprendistato graduale e faticoso, deve indurci a considerare ancora una volta il senso profondo di quel paradosso ordinato che è appunto la possessione: tecnica, atto intenzionale attraverso il quale s’impara a perdere il controllo di sé, esperienza ripetuta e temporanea abdicazione della coscienza, la quale può essere messa tra parentesi proprio in virtù della disponibilità di copioni, personaggi, caratteri che orientano il comportamento e l’esperienza del posseduto in una direzione precisa, come in un alveo già definito». (Beneduce 2002, pp. 205-206)
Attraverso Ludwik Flaszen siamo ancora a riflettere sulla pratica teatrale di Grotowski e sulla trance, la trance vera, distinguendo l’autopenetrazione (itinerario personale e doloroso dell’attore all’interno di sé, che culmina con un atto estatico) dalla riviviscenza (in russo perejivànie) di Stanislavskij: «Il processo di autopenetrazione dell’attore deve assumere spesso il carattere dell’eccesso. E qui è la seconda, non meno essenziale, differenza che divide il metodo di Grotowski dalla “riviviscenza”. La “riviviscenza” riguarda principalmente i sentimenti comuni, i comportamenti quotidiani, accessibili – secondo le circostanze – a ogni uomo. Al contrario, il processo di autopenetrazione – di denudamento spirituale – culmina in un atto eccezionale, intensificato, al limite, solenne, estatico. La trance dell’attore che fa questo, nell’ipotesi che abbia eseguito in pieno il suo compito, è una trance vera; un darsi al pubblico, reale, con tutto il retroterra dell’intimità. E pertanto diventa l’atto del culmine psichico […]. È come se l’attore apertamente, davanti agli occhi del pubblico, si denudasse, vomitasse, si accoppiasse, uccidesse, violentasse. A questo si accompagna la sensazione di pio orrore, il tremore alla vista delle norme trasgre-
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dite. D’altronde esse devono rinascere su un piano superiore della coscienza attraverso l’esperienza catartica». (Flaszen 2007, p. 80)38
Itinerario dentro l’individuo perseguito nella pratica del teatro, strada che Grotowski scelse fortuitamente, come mette in risalto Attisani: era incerto se dedicarsi all’induismo, alla psichiatria, o al teatro, vie che penetrano nell’individuo, nella sua interiorità, attraverso metodi differenti, ma con un fine univoco che è bene sottolineare: «perché sono entrato nella scuola di teatro per diventare regista? Avevo tre possibilità a portata di mano: studiare psichiatria, dedicarmi all’orientalistica, e specialmente all’induismo, e la terza era la scuola di teatro. Le audizioni per essere ammessi alla scuola di teatro si tenevano prima delle altre, sono stato accettato e quindi non ho sostenuto le prove per le altre ammissioni. Possiamo considerare questi tre indirizzi di studio come fortemente affini? Per me almeno, i tre orientamenti sono assolutamente legati l’uno all’altro. Sapevo di dover lavorare sulla vita interiore dell’uomo e, per parlare francamente, di doverlo fare per essere in grado di scoprire la mia vita interiore. Non da un punto di vista psicologico ma piuttosto in senso spirituale. In secondo luogo, sentivo l’urgenza di lavorare con gli altri. Nel caso dell’induismo sarebbe stato possibile attraverso alcune forme di yoga. Infine, a causa delle particolari circostanze storiche, cercavo un luogo dove poter lavorare senza le interferenze della censura. E mi sono detto che la censura può controllare il regista appena prima di un debutto, però per diversi mesi sarei potuto essere solo con gli attori, ed è durante questo tempo che avremmo potuto provare a fare qualcosa. Vale a dire che per me le prove erano sempre legate a qualcosa di autentico». (Vasil’ev 2008, p. 95)
Lo stesso Flaszen sulla “riviviscenza”: «Anche la “riviviscenza” presuppone la messa in moto degli strati della psiche dell’attore, convergenti con la psiche del personaggio interpretato, mettendolo nelle circostanze del personaggio: cosa farebbe se fosse come lui e in quella situazione? Diversamente l’attore da Grotowski. Paradossalmente egli recita se stesso in quanto rappresentante del genere umano nelle condizioni contemporanee. Si scontra nella sua palpabilità spirituale e corporea con un certo modello umano elementare, con il modello di un personaggio e di una situazione, distillati dal dramma: è come si incarnasse nel mito. Non le analogie spirituali con il protagonista creato, non le somiglianze dei comportamenti, proprie di un uomo fittizio in circostanze fittizie. Sfrutta lo iato tra la verità generale del mito e la verità letterale del proprio organismo: spirituale e fisico» (2007, pp. 79-80). 38
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Ritornando agli autori da cui sono partita, se la lettura poetica della trance di Leiris e di Métraux come la definì Pouillon e come è stata definita anche in seguito è, nell’economia di queste brevi note, un punto di partenza per riflettere sugli stati modificati di coscienza e, infine, sul ruolo che la trance ha rivestito nella pratica teatrale di Jerzy Grotowski, va premesso che né Leiris né Métraux sperimentarono su di sé la trance, anche se entrambi erano consapevoli che chi ne avesse avuto esperienza diretta avrebbe potuto sciogliere alcuni dubbi sui meccanismi che la inducono (e che non seppero spiegare, se non empaticamente), e dunque, come dicevo, trovare risposte più chiare sulla sincerità/insincerità dei posseduti e sull’ amnesia che interviene dopo la trance e definire, con l’aiuto di altre discipline, la commedia rituale nel vodu e il teatro recitato/vissuto nei riti zar. In un intervento del 1985, presentato al convegno su Trance, chamanisme, possession, La Trance créatrice, Rouch notava: «Tutto quello che posso dire per il momento, è che ho assistito a rituali di possessione ovunque: con l’amico Rouget, nel sud del Benin, abbiamo realizzato insieme un film sul culto di Sakpata nei conventi della regione di Savalou. Ho visto la maggior parte dei film che sono stati realizzati sul Vodu haitiano e sul culto dello Zar in Etiopia, Egitto o Iran, per non parlare delle possessioni indiane o indonesiane. Effettivamente se in essi c’è un filo comune, la trance, il suo impiego è ovunque differente, vale a dire: nei paesi dove lavoro, la possessione è un fenomeno assolutamente normale che può colpire tutti, noi, che non possediamo la tecnica del corpo che ci permette di entrare in trance, non siamo normali». [L.B] (Rouch 1986, pp. 4-5)
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Georges Lapassade, sulla base di esperienze dirette di trance, indotte o no da sostanze psicotrope, di cui ha fornito definizioni e narrazioni efficaci. Lo stato modificato di coscienza, spiega, è un’esperienza affettiva e cognitiva diversa da quelle vissute nello stato ordinario di coscienza, assunto come “stato di base”, un nuovo e temporaneo sistema dotato di proprietà uniche, una ristrutturazione della coscienza che fa vivere questo stato come un “cambiamento”. La trance è da intendersi come uno stato modificato ritualizzato e istituzionalizzato (Camilla 2008, p. 12).
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Gli stati modificati di coscienza sono risorse vitali in grado di dare un senso alla vita e alla morte39, di permettere l’espressione della sofferenza, delle privazioni, dei desideri sia individuali, sia collettivi, al pari dell’elaborazione dei miti, che altro non sono che le fantasie collettive di un determinato popolo. La ricerca nel campo delle neuroscienze ha mostrato che alla base di ogni stato modificato di coscienza vi è un meccanismo comune che va individuato nella dissociazione, dispositivo biologico naturale e universale, che dà luogo a fenomeni estremamente diversificati che vanno da quelli abitualmente considerati “normali” quali l’estasi religiosa, la trance, gli stati mentali prodotti da sostanze psicoattive, a quelli che abitualmente si considerano patologici come le dissociazioni nevrotiche e psicotiche, i casi di “personalità multiple”. Non esiste – ribadisce – a livello neuropsicologico un unico “stato modificato di coscienza”. Sono fenomeni estremamente variegati e complessi di cui la trance è una categoria (Lapassade 1996). Prima di passare alle sue esperienze di trance, ritengo opportuno fornire la classificazione degli stati modificati di coscienza in ambito tradizionale, elaborata da A. L. Palmisano, sulla base di una vasta esperienza sul terreno in vari contesti, principalmente in Etiopia, premettendo, come l’autore, che si tratta di uno strumento utile ad orientarsi, anche dal punto di vista della terminologia, nel mare magnum di contributi dedicati al fenomeno, riferiti per lo più (a parte rare eccezioni) a singoli contesti geo-storici. Secondo lo studioso si possono distinguere tre tipologie di trance: visione, possessione, estasi, a ognuna delle quali corrispondono quattro modulazioni:
Grotowski dice: «Sapevo di dover lavorare sulla vita interiore dell’uomo e, per parlare francamente, di doverlo fare per essere in grado di scoprire la mia vita interiore. Non da un punto di vista psicologico ma piuttosto in senso spirituale. In secondo luogo, sentivo l’urgenza di lavorare con gli altri. Nel caso dell’induismo sarebbe stato possibile attraverso alcune forme di yoga. Infine, a causa delle particolari circostanze storiche cercavo un luogo dove poter lavorare senza le interferenze della censura. E mi sono detto che la censura può controllare il regista appena prima di un debutto, però per diversi mesi sarei potuto essere solo con gli attori, ed è durante questo tempo che avremmo potuto provare a fare qualcosa. Vale a dire che per me le prove erano sempre legate a qualcosa di autentico», A. Vasil’ev 2008, p. 94, cit. da Attisani 2015, p. 26: dunque una ricerca etica, attraverso il lavoro con gli altri, dell’io, in senso “spirituale”. Trovare un senso alla vita e alla morte, è stato anche il significato del lungo cammino di Georges Lapassade. 39
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iniziazione, terapia, liturgia, divinazione; a ciascuna tipologia/ modulazione può essere assegnato un “professionista”: sciamano, medium (kallicha, bale zar), maestro, santo (sheykh) (Palmisano 2013, p. 17)
Una volta presentato lo schema, occorre subito dire, come fa l’autore, che spesso in una stessa trance convivono varie modulazioni, di qui la difficoltà di classificare, anche se per potere smantellare qualsiasi definizione o classificazione occorre prima tentare di proporla. Tornando a Lapassade: in un’intervista resa all’amico Gianni de Martino (registrata a Milano il 15 aprile 1980) racconta esperienze di “uscita da sé” vissute in prima persona, dopo avere ricordato che il temine trance indica un’idea di passaggio: «Ricordo in quella casa del mellah [quartiere ebraico] di Essauira, verso la fine della notte, proprio mentre stava per albeggiare è risuonato il canto di un gallo. Avevano già aperto la raaba, ovvero lo spazio rituale dove si svolgono le trance dei posseduti […]. Proprio in quella fase di passaggio al culmine di uno straordinario momento d’intensità musicale, si è udito il canto di un gallo. Tamburi e crotali di ferro hanno avuto come un momento di sospensione, e in quel preciso istante, nell’improvviso silenzio che s’era fatto, il gallo ha cantato, quasi fosse d’accordo con la pausa fatta dai musicisti. È anche spuntato il primo raggio di sole, ed era un momento straordinario, divino, di passaggio tra la notte e il giorno. C’era qualcosa di magico e di cosmico in quel “richiamo” che risuonava in un intenso silenzio, c’era come una connivenza tra le cose; e quel canto che in altri momenti sarebbe magari sembrato banale, acquistò per me e per l’amico Georges Marbeck un valore sorprendente. Fu allora che mi risultò più chiara quell’osservazione di Roger Bastide contenuta nella prefazione a Dieux d’Afrique di Pierre Verger, là dove dice che attraverso la trance i corpi partecipano al fulmine che solca il cielo, alle onde marine che vanno e vengono sulla spiaggia, alla germinazione delle piante e al grido animale delle bestie nella foresta. Di fatto, ciò che si prova in tali stati è la percezione intensa di un’appartenenza al cosmo e a tutto ciò che accade…
Il resoconto prosegue. Con l’amico Marbeck uscì dalla casa di primo mattino e raggiunse la zona del mercato dove c’erano vari banchi di vendita, là ebbero la percezione di un colore blu fosforescente che aureolava ogni cosa e ci rivelava una scena di grande bellezza. Era solo una vetrina dove uno dei venditori con-
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servava il pane e le uova.[…] Sul vetro che conservava il pane dei poveri qualcuno aveva appiccicato una carta blu che per effetto dei funghi irradiava una luce di un blu fosforescente, di un blu royal davvero sconvolgente.
Provò lo stesso sconvolgimento di lì a poco, guardando povere cose (delle vetture, una pompa di benzina) che erano nel vicino spiazzo degli autobus non erano cose poetiche come la montagna o l’immensità del mare. Eppure mi hanno sorpreso come fossero cose estremamente profonde e preziose. Era come una meditazione delle cose, pareva che quelle povere cose stessero là assorte in meditazione nel chiarore del primo mattino. Parevano dormire e come sul punto di svegliarsi immerse in una profonda calma alla quale forse avrei potuto partecipare anch’io. Quella presenza era proprio l’essere-là-delle-cose». (Lapassade 2008, pp. 283-284)
Questa trance, effetto dei funghi allucinogeni che aveva assunto con l’amico, suggerisce qualche considerazione, ma soltanto en passant, sull’uscita da sé attraverso l’uso di droghe nelle nostre società che se – come osserva Francesca Gasparini (2008), facendo riferimento a Leonzio (1969), Jünger (2006), Michaux (1956) e Baudelaire (2000) – risponde per lo più a un’esigenza di morte, di cupio dissolvi, può dare a “consumatori eccellenti” come quelli qui ricordati (a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri), a chi riesca a passere dall’altra parte dello specchio (come fece durante la lunga vita Jünger), la curiosa volontà di fare rinascere il corpo. La trance, l’estasi che provoca l’uso di sostanze è legata all’idea di excedere di andare fuori che significa abbandono del tempo normale, attraverso uno shock improvviso (Jünger) che fa crollare un muro, o attraverso un’apertura, «che fosse un assembramento, che fosse un può capitare qualcosa, un possono capitare molte cose» (Michaux nel saggio sulla mescalina, miserabile miracolo); oppure attraverso una perdita della personalità «a volte capita che la personalità scompaia e che l’oggettività, che è propria dei poeti panteisti, si sviluppi in modo tale che la contemplazione degli oggetti esterni vi fa dimenticare la vostra propria esistenza, e ben presto vi confondete in loro» (Baudelaire)40. 40
Cfr. Gasparini 2008, pp. 134-135.
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Lapassade non spiega come raggiunse lo stato di trance sulla strada di Edirne, in Turchia: «Non è uno stato di trance dovuto ai funghi o all’erba. È difficile dire a cosa sia dovuto. Forse al sole, al viaggio, alla prima scoperta del mondo musulmano, alla scoperta di un altro mondo. Avevo appena attraversato la frontiera bulgara […] In Anatolia ho visto per la prima volta i nomadi. Le donne avevano il viso coperto di bianco, come passato completamente al gesso bianco, sembravano dei Pierrot lunari. Era notte e facevamo bagnare un cavallo sul mare, un cavallo bianco. Al mattino ho passeggiato a lungo nei suk, che vedevo per la prima volta, poi verso mezzogiorno abbiamo avuto un guasto alla macchina e abbiamo dovuto cercare un garage per farla riparare. Faceva caldo e mi sono seduto sul ciglio della strada. All’improvviso, come in una specie di soprassalto di consapevolezza, mi sono accorto per la prima volta della mia situazione, e ho provato un intenso sentimento di sorpresa e insieme di gioia, al pensiero di essere lì e di come fosse assurdo quel che facevo a Parigi […] Sarei potuto restare in Turchia, finire lì il resto dei miei giorni, non me ne sarebbe importato niente. Tutti i problemi che avevo a Parigi mi sembravano problemi risibili. Com’era possibile che nella via esistessero problemi. Intendo le difficoltà materiali o psicologiche, le angosce, le ossessioni, le ruminazioni mentali, il bisogno di scrivere libri. Tutto questo accumulo di tentativi e di erranze si era dissolto e sorgeva come una specie di gioia rara…Un caso di emergenza personale, certo una gioia per me solo, straordinariamente intensa. È molto difficile descrivere tali stati. Gli stati con i quali ho iniziato, nel contesto dello stambali [Tunisia] e della macumba [Brasile], sono effettivamente degli stati un po’ subìti: formicolii alle gambe, svenimenti, ma non questa giubilazione interiore e l’intensa presenza delle cose come a Essauira e a Edirne A Essauira era l’alba, a Edirne era mezzogiorno» (p. 285).
Ma, dal contesto, possiamo dedurre che visse uno stato di trance estatica che la psicologia dell’estasi conosce bene e definisce come forma particolare di esperienza il cui nucleo è costituito dall’impressione che la mente esca fuori di sé, abbandoni il corpo per entrare in altre dimensioni facendo provare sentimenti d’unione con l’universo, correnti d’energia accompagnate da gioia smisurata e beatitudine. Non si tratta di episodi eccezionali (o dovuti all’assunzione di sostanze), ma di stati che costellano la nostra quotidianità (estasi amorosa, sessuale, generata dalla danza o dalla meditazione). L’estasi, dunque, appartie-
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ne strutturalmente alla nostra esistenza. Occorre tuttavia tenere conto che il cammino estatico è sempre in bilico tra guadagno e perdita, rischio e meraviglia dell’inaspettato. Per raggiungere l’estasi bisogna avere il coraggio di farsi distrarre dall’Altro, non per fuggire, ma per realizzare se stessi41. J.M. Pradier (2016), a proposito del teatro che cura (illusione?), dopo aver ricordato le lila, cerimonie rituali di possessione e trance praticate dagli Gnawa marocchini a scopo terapeutico e purificatore, che durano tutta la notte (seguendo il ritmo accelerato di degli strumenti)42, nota come non sia lo spettacolo a essere la causa della produzione emotiva, ma che esso sia un pretesto, sottolineando come la psicologia abbia messo in evidenza che la specie umana è probabilmente la più emotiva di tutte le specie animali ponendosi sulla linea di Olgdin Hebb (1975) e di Norbert Elias (1988). Secondo Olgdin Hebb la regolazione degli affetti è alla base dell’organizzazione sociale. Elias definisce la storia della civilizzazione umana come storia del controllo delle emozioni, cercato attraverso una grande varietà di pratiche che assicurano: la produzione e il godimento; il controllo; l’integrazione delle emozioni. Pradier segnala inoltre l’importanza dell’esperienza condotta, in ambito teatrale, da Susan Bloch (1993), neurofisiologa che, definendo gli effector patterns of basic emotion, ha individuato come la combinazione volontaria di precise varianti quali: l’atteggiamento posturale, la tensione muscolare, il ritmo respiratorio e cardiaco, possano fare scaturire determinati vissuti emotivi. E, nell’ambito della neurofisiologia, non manca di fare riferimento alla nota teoria delle emozioni elaborata da Antonio Damasio (1994 e 1999 e Damasio et alii 2000, Tomasello 1999) in rapporto al ruolo che rivestono nella vita individuale e collettiva43. Va detto che, negli stessi anni, si sono stabilite significative sinergie tra etologia e teatro (Schechner 2001) e antropologia e teatro dalle Si veda Margnelli 1996. Sulle cerimonie a base di possessione di confraternite femminili in Marocco, cfr. StaitiBruni 2017. 43 Si vedano anche Pradier 1997, 2007. Relativamente all’emozione dell’attore, la ricomposizione volontaria di queste variabili può essere di aiuto per ricostruire il processo psicofisiologico sottostante l’emergere di un’emozione (Sofia 2016, p. 36). 41 42
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quali sono derivati interessi molto marcati rispetto alle neuroscienze: basti fare riferimento a Victor Turner, antropologo interessato allo spettacolo dal vivo che postulò la necessità di affiancare all’approccio culturale lo studio delle basi biologiche del comportamento (Turner 1986).Venne ripresa la teoria di Paul Mac Lean sul cervello trino (1990): in particolare riferendosi al cervello rettile (al quale fa riferimento Grotowski che lo immaginò in stretta connessione con il plesso solare, anticipando le acquisizioni di Gherson e della sua scuola), preposto alla gestione delle funzioni primarie, al cervello limbico e al neo cortex (neo corteccia) che caratterizza le attività proprie dell’essere umano, funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria, peculiarità dello sviluppo genetico avvenuto nel corso dell’evoluzione. Successivamente questa teoria è stata superata e ora ci si riferisce a un secondo cervello, quello enterico al quale ha dedicato importanti studi Michael D. Gherson (1999) del dipartimento di Anatomia e Biologia cellulare della Columbia University, uno dei padri della neurogastroenterologia44. Vanno segnalati inoltre i risultati raggiunti dall’ antropologia della coscienza, settore molto dinamico, soprattutto negli Stati Uniti, dove costituisce l’ambito di ricerca ufficiale della American Anthropological Association (AAA). In questo ambito, per quanto attiene al nostro Segnalo altri importanti filoni di indagine e realizzazioni: l’International School of Theatre Anthropology (ISTA), nata su iniziativa di Eugenio Barba (1979) Nel 1995 a Malta, John Schranz, ha avviato il progetto xHCA (Questioning Human Creativity as Acting), con Ingemar Lindt. Nello stesso anno Jean-Marie Pradier ha dato vita all’Etnoscenologia. Dagli anni Settanta, negli Stati Uniti, hanno preso l’avvio i Performance Studies (PS) ad opera principalmente di Richard Schechner e Victor Turner. Il loro campo di studio è costituito dagli aspetti performativi del comportamento sociale, culturale e artistico (spettacoli teatrali veri e propri, alle face-to-face interactions della vita quotidiana, dai rituali religiosi a quelli etologici, dai giochi agli sport). Ispiratori ne sono stati, fra gli altri, Gregory Bateson, Erving Goffman, Clifford Geertz e Victor Turner – con l’apporto filosofico di Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Michel Foucault e Jean Baudrillard. I PS si caratterizzano per una marcata interdisciplinarità: storia, estetica, etologia, scienze sociali, neuroscienze. Dai primi anni Ottanta, molti dipartimenti di teatro (a partire da quello New York University) si sono trasformati in Departments of Performance Studies. Allargando la prospettiva ai dialoghi degli ultimi decenni fra Arti, Estetica e Scienze, vanno richiamati: il “Biogenetic Structuralism” dei neuroscienziati Newberg e D’Aquili; gli studi di Neuroestetica (Semir Zeki e V.S. Ramachandran); le ricerche di William Beeman (Brown University di Providence –USA); gli studi di Antonio Damasio sulle emozioni e sul loro cruciale ruolo evolutivo; le ricerche del laboratorio di Neufisiologia dell’Università di Parma (Rizzolatti, Gallese ed équipe) che hanno portato alla scoperta dei neuroni specchio. 44
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tema, va ricordato il contributo di Michel Winkelman (2000), che ha studiato gli aspetti neurofenomenologici dello sciamanesimo, analizzando le modificazioni cerebrali che intervengono nelle trance sciamaniche. Anche se ne hanno evidenziato alcuni, inevitabili limiti, Stanley Krippner e Allan Combs (2002) ne hanno messo in luce i pregi: «The central thrust of the book is that virtually all shamanic practices involve shamanic states of consciousness, and usually lead to similar states in clients as well. Winkelman musters considerable evidence that a wide variety of thesealtered states, ranging from deep meditative states to the ’trance’ states associated with shamanism, share certain fundamental patterns of brain activity. He characterizes these patterns as integrative of the cognitive, emotional, social, and spiritual aspects of the person that experiences them. At first nod this seems somewhat over-stretched, but Winkelman does a valiant job of defending it. Drawing on a divergent literature, he demonstrates that virtually all these altered states seem to involve a shift toward increased slow wave activity across the frontal lobes, coupled with increased dominance of limbic system activity (especially in the hippocampus, septum, and amygdala), and a shift toward parasympathetic dominance in the autonomic nervous system. Other common aspects ofthese states are said to include the synchronization of left and right frontal lobe EEG activity, along with a general shift toward right brain dominance. As the state deepens, there is a gradual decrease in frontal lobe activity followed by a similar decrease in limbic involvement, both of which seem to be associated with transcendent states of consciousness. Other neurological changes involve increases in certain neurochemicals, such as endogenous opiates, as well as a blocking of the inhibitory effects of serotonin in the frontal lobes. The overall effect of this complex set of alterations is a broad integration of the various brain modules mentioned above. Winkelman cogently argues that this integrative organismic state is healthy for the client, and for widening circles of the community as well». (pp. 80-81)
Sempre in ambito sperimentale si è mossa Judit Becker, in Deep Listeners Emotion and Transing (2004), che ha studiato, a livello cerebrale, i collegamenti tra musica trance ed estasi, esaminando le risposte emotive alla musica di vari gruppi di ascoltatori (più o meno coinvolti), misurando le modificazioni che essa determina nella risposta
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galvanica della pelle45, nella frequenza cardiaca e in altri parametri. La Becker propone agli antropologi di integrare le recenti acquisizioni scientifiche sul cervello emozionale e di attribuire il giusto peso al fatto che l’emozione gioca un ruolo centrale nel concetto di “coscienza profonda” elaborato da Damasio. Le emozioni, come quelle generate dalla musica, organizzano un insieme di attività chimiche e nervose che interessano tutto il corpo, giocando un ruolo chiave nella percezione che l’individuo ha che un’altra persona sia nel suo corpo (stato modificato). In ambito francese, Bertrand Hell (2006 e 2008) – a cui si devono importanti ricerche su trance e possessione in Marocco (in particolare sulle confraternite degli Gnawa), in Madagascar, a Mayotte (sui culti degli spiriti patros e trumba), in Brasile, Mongolia, Haïti e presso i Navajo – grazie all’approccio sperimentale, ha potuto confutare non solo numerosi luoghi comuni nel dibattito tra psicoanalisi e neuroscienze, ma anche dimostrare che lo sviluppo recente delle indagini sui processi di formazione delle immagini cerebrali, non consente più di confondere stati definiti: “cosciente”, “desto”, “mentalmente recettivo”. Ha messo in risalto come la capacità di controllare il corpo ad adottare, a poco a poco, una gestualità rituale precisa, discenda della relazione intersoggettiva che si instaura tra il “posseduto” e il “maestro degli spiriti”, ovvero tra maestro e discepolo che si attua, da un lato, mediante un’ attenzione minuziosa alle relazioni corporee, ai messaggi di interazione e, dall’altro, allo sviluppo dell’ascolto (percezione musicale, ma anche comprensione dei segni, empatia), tappe per una incorporazione equilibrata e guidata, esaminate sia sul terreno, sia sperimentalmente sulla base – dato molto importante – del concetto di “perceptude” in ipnosi46. Ha dimostrato come l’iniziazione – momento necessario per La Risposta galvanica della pelle (GSR), definita anche Attività Elettrodermica (EDA) e Conduttanza Cutanea (SC), è la misura delle variazioni continue nelle caratteristiche elettriche della pelle, come ad es. la conduttanza, a seguito della variazione della sudorazione del corpo umano. Lo studio della Becker ha evidenziato e misurato la relazione tra il segnale GSR e alcuni stati mentali, in particolare il coinvolgimento nell’ascolto musicale. 46 Cfr. Roustang 2003, pp. 179-194. Roustang definisce la perceptude: «La perceptude est un mode de perception premier que l’hypnose met en lumière. L’état d’hypnose tel que je le comprends, ne serait rien d’autre que la perceptude. Elle est à la fois ce qui est toujours présent à nos vies et toujours supposé pour que nous puissions appréhender quelque chose du monde environnant. C’est ce que disent à leur manière les praticiens de l’hypnose: il existe une hypnose quotidienne qu’il n’est nul besoin de nommer hypnose, car le moindre geste, celui de la marche, de la lecture ou de l’écriture, pour être accompli avec aisance, 45
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raggiungere lo stato di trance – è un processo interattivo tra il terapeuta (o, se si vuole, il maestro) e l’iniziando, e che per decifrare le molle sotterranee della trance nelle società tradizionali, occorre un’osservazione etnografica, condotta a monte delle grandi cerimonie47. Di qui prende le mosse per proporre che la teoria dell’ancoraggio permette di collegare il processo iniziatico al lavoro psichico che si compie attraverso l’ipnoanalisi, una sorta di cartina di tornasole per spiegare alcuni comportamenti dei posseduti e definire correttamente lo stato di trance e le modalità attraverso le quali si raggiunge. Il terapeuta/maestro può fare leva sull’inconscio del paziente per aiutarlo a riconfigurarsi e a rinegoziare la sua relazione con gli altri. Questi dati sperimentali fanno luce su aspetti della possessione quali il principio della negoziazione con gli spiriti (vicino a quello della negoziazione dei sintomi utilizzato nelle cure ispirate da Erickson)48, e il meccanismo dell’azione intersoggettiva, che si attua con il capo del culto, paragonabile dell’accordage affettivo noto in ipnoterapia49. Gli sudi di Hell su vari terreni di indagine (Marocco, Madagascar, ecc.) e quelli sperimentali condotti in Francia, avvalendosi di équipe di medici esperti di ipnosi, suggeriscono di richiamare – per passare dalle trance rituali a trance vissute in altri contesti – il contributo di Giuseppe Vercelli del 2014 che facendo riferimento ai “classici” lavori sull’ipnosi e alle acquisizioni più recenti in ambito neuroscientifico, illustra la fenomenologia e la neurofisiologia della trance ipnotica: suppose l’absorption et l’oubli. Et d’autre part tout humain est hypnotisable, c’est à dire qu’il peut avoir accès au fondement, il peut se rendre d’où il vient. La perceptude est là en effet sous-jacente à toute perception, mais par ailleurs les hypnotiseurs prétendent la faire passer au premier plan et en proposent l’expérience. Donc la mettre à la lumière du jour, alors qu’elle agit dans la lumière de la nuit. En d’autres termes, l’état hypnotique est partout et il s’agirait de le faire apparaître quelque part. Etrange procédure parce qu’elle aboutirait alors à l’apparition d’un fond sans la figure ou d’un contexte qui aurait perdu son texte», intervista con Alain Gourhan, pubblicata in “Psychothérapie intégrativ”; cfr. anche Roustang 1994. 47 Rinvio alla lettera dell’etnomusicologo del Benin all’amico Asogba, riportata da Rouget 1980, pp. 331-342, in cui l’etnomusicologo si riferisce al cantante d’opera (dell’Opéra di Parigi dove aveva assistito a una rappresentazione) definendolo un posseduto, come lo sono coloro che, nel suo paese, celebrano il voudun, un posseduto che, cessata la performance, perde la memoria dello stato di trance, ma che è anche, nello stesso tempo, “maestro” della possessione. 48 Erickson 1976. 49 Hell 2008, p. 21.
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«Dal punto di vista neuroanatomico con il concetto di “trance ipnotica” si intende uno stato modificato di coscienza, raggiunto senza l’utilizzo di sostanze, che coinvolge sia la dimensione fisica, sia la dimensione psicologica dell’individuo; un particolare funzionamento dell’individuo che gli permette di influire sulle proprie condizioni fisiche, psichiche e comportamentali. M.H. Erickson definisce l’ipnosi come un tipo molto particolare di comportamento complesso e insolito, ma normale, che, in condizioni opportune, può essere sviluppato probabilmente da tutte le persone comuni e anche dalla gran parte di quelle che hanno problemi di salute. Si tratta di una condizione psicologica e neuro-fisiologica nella quale la persona funziona in modo speciale, un modo in cui può pensare, agire e comportarsi come nel normale stato di coscienza, grazie all’intensità della sua attenzione e alla forte riduzione delle distrazioni.
mettendo in evidenza che la trance ipnotica risulta utile in quanto strumento capace di creare un contesto favorevole all’attivazione di risorse individuali, che corrispondono spesso a una modificata percezione della realtà e a nuove possibilità di risoluzione dei problemi». (2014 p. 206)
Si tratta di una condizione spontanea e naturale, che accade quotidianamente. Se si pensa all’esperienza di leggere un libro in cui ci si identifica con il protagonista, o di vivere intensamente un’esperienza, ci si renderà conto di come sia comune a tutti la sensazione di sentirsi totalmente concentrati e assorti in ciò che si sta facendo, dimenticandosi di ciò che ci circonda. Queste esperienze possono essere definite stati alternativi di coscienza, o di aumentata consapevolezza, ovvero stati di trance ipnotica indotti in modo del tutto naturale (trance naturalistica)50. Vercelli richiama la celebre frase dell’ipnotista Milton Un altro concetto importante nello studio e nell’utilizzo della trance è quello di “monoideismo plastico” o ideoplasia, concetto spesso sintetizzato dalla parola “monoidea”. Il monoideismo può essere di tipo sensorio o motorio e corrisponde alla presenza, nella mente di un individuo, di un’unica idea dominante (generalmente sotto forma di immagine ben definita) che attiva la fenomenologia corrispondente, quindi per esempio l’immagine di un fuoco acceso attiverà sensazioni di calore, mentre l’immagine di un movimento genererà un principio di attivazione dei distretti muscolari coinvolti nel gesto pensato (Carpenter 1852, citato da Vercelli 2014). Sul tema della trance, in generale, rinvio al n. 1, 2014 di “Dada rivista di antropologia postglobale” dedicato a Visione, possessione estasi per un’antropologia della trance, in particolare al contributo di A.L. Palmisano Doppio legame e ipnosi. Verso una teoria della trance come processo costruttivista, pp. 127-168. 50
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H. Ericsson – «L’ipnosi non esiste, tutto è ipnosi» – che, in epoca moderna e alla luce delle recenti scoperte neuro scientifiche, potrebbe essere riformulata in: l’ipnosi non esiste… esistono soltanto prove di ipnosi. E queste prove sono tutto intorno a noi, quotidianamente, fin dall’alba della nostra esistenza (p. 212). Si è già sottolineato che la trance, stato modificato controllato di coscienza è memoria incorporata che si attiva grazie a un’iniziazione e che l’ipnosi attiva una consapevolezza profonda grazie all’utilizzo di segnali verbali e paraverbali. Si tratta – in tutti i casi di stati modificati di coscienza – di pratiche che possono avere più o meno successo, essere utili più o meno all’individuo, come lo può essere qualunque azione che interagisca con il corpo vivo, con il corpo-mente. Le strade per raggiungere la trance, per aprire le profondità dell’io, come s’è detto in estrema sintesi, sono molteplici, ma tutte legate – oggi è stato ampiamente dimostrato – alla dimensione emozionale del cervello, dipendenti, più o meno manifestamente, dal contesto nel quale sono agite, e non sempre facili da decifrare “dall’esterno” in quanto vanno a pescare nelle profondità della memoria, percorrendo a ritroso canali profondi. Scrive Pradier, generalizzando: «il saper vivere emotivo, ciò che possiamo trivialmente chiamare padronanza emotiva, o con un’espressine barbara «gestione delle emozioni», il loro controllo è una necessità tanto per la vita individuale che per quella collettiva. Dall’estrema diversità delle tecniche culturali che provano a perseguirla, riporterò solo tre grandi gruppi non gerarchizzati, insistendo sul fatto che gli universi simbolici, fisici, conoscitivi tecnici e spettacolari ai quali si riferiscono non possono in alcun modo essere fusi in una matrice unica. Questi tre insiemi corrispondono a messe in opera differenti sul sistema nervoso centrale che sono oggetto di apprendimenti diffusi o specifici: a) le tecniche di integrazione che tendono a ottenere un rilassamento psicosomatico controllato (data yoga, kayakalpa del Siddha, rilassamento, meditazione) b) le tecniche di attivazione, che agiscono sugli stati di coscienza attraverso il risveglio delle formazioni subcorticali e l’inibizione controllo corticale (trance, esperienze psichedeliche, alcalosi ventilatoria o rebirth)
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c) le tecniche di razionalizzazione, d’oggettivazione e d’elaborazione, che, al contrario delle precedenti, hanno come obiettivo quello di trasformare in oggetti intellegibili gli eventi emotivi (espressione verbale e scritta, pratiche artistiche “confessione” privata o pubblica, diario segreto, dialogo)». (2016, pp. 75-76)
Vengo all’ultimo punto, che è un tema “sfuggente” che Grotowski trattò con grande prudenza conoscendone le insidie. Del rito/rituale – osserva De Marinis (2007) – Grotowski si è occupato tutta la vita, in termini pratici; questa ricerca ha investito i tre i principali livelli della sua attività, riassumibili nella autodefinizione di teacher of Performer: «a) l’artista-artigiano del teatro (o meglio delle perfoming arts), b) lo scienziato/antropologo del teatro (o meglio delle perfoming arts), c) il maestro di vita» (pp. 205-206.) L’ultimo approdo della sua ricerca si è chiamato “Arti rituali” prima di assumere, grazie a Brook, il nome di “Arte come veicolo”, ossia lavoro sul corpo, il cuore e la testa degli attuanti: «Si può dire “arte come veicolo”, ma anche “oggettività del rituale” oppure “arti rituali”. Quando parlo del rituale non mi riferisco a una cerimonia, né a una festa; e tantomeno a una improvvisazione con la partecipazione di gente dall’esterno. Non parlo di una sintesi di diverse forme rituali provenienti da luoghi differenti. Quando mi riferisco al rituale, parlo della sua oggettività; vuol dire che gli elementi dell’Azione sono gli strumenti del lavoro sul corpo, il cuore e la testa degli attuanti». (Grotowski, Dalla compagnia teatrale, 2007, p. 211)
Lo stesso Brook, in Per un teatro povero, riferendosi a Grotowski sottolinea: «Egli ha dato al suo teatro il nome di laboratorio; e in effetti è quello che è; è un centro di ricerca». Ricerca che appunto viene perseguita in modo scientifico: un attento studio pratico sui fenomeni del corpo e sulle tecniche e metodologie volte alla «“maturazione” dell’attore che è espressa da una tensione verso l’assoluto» (1970). All’inizio degli anni Sessanta, quando avviava la sua avventura con il teatro delle 13 file di Opole, Grotowski aveva individuato, com’è noto, due piani nell’azione dell’attore e nella collaborazione tra attore e regista la “tecnica 1” e la “tecnica2”, delle quali discuteva privatamente con Barba.
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«La “tecnica 1” si riferiva alle possibilità vocali e fisiche e ai diversi metodi di psicotecnica tramandatici da Stanislavskij in poi. E questa tecnica 1, che poteva essere complessa e raffinata, si poteva conseguire attraverso il rzemiolso, l’artigianato teatrale. La “tecnica 2” tendeva a liberare l’energia “spirituale” in ognuno di noi. Era un cammino pratico che indirizzava il sé sul sé, dove si integravano tutte le forze psichiche individuali, e superando la soggettività, permetteva di accedere alle regioni sconosciute dagli sciamani, dagli yogi, dai mistici Credevamo profondamente che l’attore potesse accedere a questa “tecnica 2”. Ne supponevamo il cammino, ricercavamo i passi concreti per inoltrarci nella notte oscura dell’energia interiore». (Barba 1998, p. 63)
Qui non si parla espressamente di trance, anche se l’uscire da se è implicito nei riferimenti agli sciamani, agli yogi e ai mistici e al trapasso dell’attore in territori sconosciuti, nella notte oscura dell’energia, che può aprire varchi inattesi. Quanto si è detto relativamente alla trance (stato modificato di coscienza, non alterato, che risponde e dà voce a molteplici domande ed esigenze, di qui la difficoltà a definirla), sia a quella/e cosiddetta/e rituale/i, sia a quelle che si sperimentano fuori da contesti “tradizionali” con altre finalità, porta a parlarne come attitudine naturale della mente, prodotto del cervello emozionale, stato modificato che va conquistato, attraverso pratiche (esercizi) guidate da “maestri”. La trance dunque non è collocabile entro tradizioni culturali specifiche: quella rituale più diffusa in Africa, la trance da possessione (a cui ho fatto riferimento a proposito dei culti zar) è solo uno degli aspetti nei quali si declina questo stato modificato, ampiamente studiato (nei singoli contesti) come è stato studiato lo sciamanesimo, termine che oggi è esteso fuori dai suoi confini asiatici tradizionali51. Numerose ricerche, che risalgono agli ultimi decenni, hanno approfondito sperimentalmente i meccanismi attraverso i quali si genera la trance, permettendo di “liberare”, questo e altri stati modificati, Palmisano 2014 osserva: «l’antropologia culturale americana ha adoperato il termine “sciamano” per etichettare i professionisti della trance di visione in qualunque parte del mondo si trovassero, riferendosi a un ruolo […] indipendentemente dal contesto sociale e religioso nel quale viene a essere performato», p. 9. 51
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da pregiudizi, timori, superstizioni, ancora diffusi. Grotowski era, per questo, giustamente prudente nell’usare il termine trance, anche se non mancò di farvi rifermento, ma voleva fosse chiaro che – contrariamente a idee diffuse in Occidente – la trance non è scatenamento selvaggio e perdita di controllo, ma si basa su una struttura che, come ho detto sopra, a poco a poco si apprende. Nota De Marinis che nei rituali viventi c’è organicità, ma c’è anche, in misura non minore organizzazione, ed è la prima a dipendere dalla seconda, per quanto possa apparire paradossale a noi occidentali. Del resto, è bene precisarlo, Grotowski ha cercato equivalenti del rito e della trance (ben conoscendone le valenze e la “forza” in molte culture tradizionali), finalizzando tutte le fasi della sua esperienza all’efficacia e alla funzione intellettuale-spirituale del teatro come esplorazione di sé e dall’altro da sé, come viaggio verso e nell’alterità, come mezzo di accesso a stati non ordinari di coscienza, come esperienza psicofisica di espansione-intensificazione della percezione. Ricerca e, soprattutto pratica, personalissima. «E naturalmente parlare e occuparsi di efficacia [come fil-rouge che collega esperienze e sperimentazioni differenti] vuol dire parlare e occuparsi del rituale (e, in qualche modo, anche di magia): non a caso esiste tutto un versante delle proposte teatrali contemporanee che potrebbe essere caratterizzato come ricerca del rituale perduto. Comunque, almeno nei casi migliori, più rigorosi, non si è trattato di rifare il rituale (cosa del resto impossibile, come Grotowski ci ha spiegato bene) […] ma piuttosto di ricercare equivalenti del rito e della trance cioè di proporre esperienze grazie alle quali l’individuo contemporaneo possa riattingere – sia pure per brevi momenti – quella dimensione di pienezza, intensità e interezza originarie che nelle culture tradizionali era (e forse, talvolta, è ancora) possibile esperire col rito, con la trance (ma anche, a livello individuale) con la meditazione, il digiuno, la preghiera, la ricerca mistica, certe attività fisiche, certi giochi: si vedano, in proposito, le nozioni di “perdita dell’io” e di “flusso” valorizzate in relazione allo studio dei rituali, da Victor Turner [Dal rito al teatro 1982, Bologna Il Mulino 1986]». (De Marinis 2007, pp. 212-213)
Quali le sue fonti? Interrogativo che si sono posti molti studiosi che hanno ribadito che, a parte accenni abbastanza vaghi, Grotowski, profondamente laico, non fatto riferimento né a religioni né a contesti
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rituali precisi, né a testi, in nome, come dicevo, di una pratica teatrale che utilizza, volta a volta, esperienze lontane e diverse, per convogliarle in originali sintesi, di cui è l’autore insieme al performer o doing: «la sistematicità di Grotowski nell’ oscurare le proprie fonti non nasceva dalla scaltra intenzione di coltivare il mistero e di non riconoscere il copyright alla idee altrui, bensì dalla necessità di non dirottare i lettori verso le biblioteche da cui attingeva molti dei suoi concetti, e di concentrarla invece su di essi, con i quali produceva sintesi del tutto originali». (Attisani 2015, p. 251)52
E sulle fonti delle tecniche delle fonti: «Quello che stiamo cercando non è una sintesi delle tecniche delle fonti. Cerchiamo le tecniche alle fonti, quei punti che precedono le differenze. Diciamo che esistono tecniche delle fonti. Ma quello che cerchiamo in questo Progetto sono le fonti delle tecniche delle fonti, e queste fonti devono essere estremamente semplici. Tutto il resto si è sviluppato dopo e si è differenziato secondo i contesti sociali, culturali o religiosi. Ma la cosa primaria dovrebbe essere estremamente semplice e dovrebbe essere qualcosa che è dato all’essere umano. Dato da chi? La risposta dipende dalle vostre preferenze nell’area della semantica. Se le vostre preferenze sono religiose, potete dire che è il seme della luce ricevuto da Dio. Se invece le vostre preferenze sono laiche, potete dire che è impresso nel codice genetico di ciascuno». (Grotowski, Teatro delle Fonti, 2006, pp. 93-94, cit. da De Marinis 2007, p. 210)
Attisani ribadisce, a più riprese, la laicità del rituale: «Si conferma quanto era annunciato: il rituale non è una questione di contenuti religiosi, è un’esperienza che produce esperienza, è il luogo della precisione…». (Attisani 2006, p. 58)
I riferimenti di Grotowski ad altre culture e l’uso di altri sistemi – dunque – hanno valore esclusivamente strumentale: sono mezzi per Sulla stessa lunghezza d’onda De Marinis 2007, p. 209 che osserva che se conoscere le sue fonti può essere importante per conoscere l’individuo Grotowski, per penetrare la sua mind-structure…[…] molto meno per capire realmente modalità, funzionante e scopi del suo lavoro…ben presto egli conferisce alla propria attività un taglio pragmatico, concentrato sul fare, sull’agire sul performer o doing, e nettamente caratterizzato in senso transculturale e metastorico. 52
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avvicinarsi alla costanti essenziali: sia che egli attinga all’ hatha yoga, alle credenze degli Huichol della Sierra Madre, ai libri di Castaneda o alle sonorità del vodu haitiano, quello che gli preme è captare quanto in quelle diverse culture e anche nelle riflessioni di alcuni autori su di esse ci sia da prendere per giungere all’obiettivo della ricerca pratica: la comprensione di problemi universali quali la percezione e la coscienza53. Quanto alla trance dell’attore nella pratica teatrale – su cui mi soffermerò – vi si riferisce esplicitamente nell’Allenamento dell’attore (confluito in Per un teatro povero): «Il fulcro reale dell’abilità recitativa dell’attore è l’idoneità alla trance …concentrazione distante sia da un impeto confuso nei propri compiti di lavoro come anche da una generica eccitazione dovuta alla “trema” o anche ad una fredda tecnica calcolatrice.
E per indurla indica tre elementi uniti inscindibilmente: 1) attitudine introspettiva 2) Rilassamento fisico (relax) 3) Concentrazione di tutto l’organismo nella regione del cuore la stanza vuota.
Il cammino dell’attore si dipana, dunque, lungo le tre vie sopra indicate: la scoperta della verità calma e dolorosa di se stesso, attraverso l’introspezione; la tranquillità del pensiero, attraverso il rilassamento; il transfert dell’io cosciente dalla testa alla regione del cuore, attraverso la suggestione. La trance si raggiunge con una particolare forma di concentrazione: attraverso vie diverse si tende alla scoperta del “motivo psichico personale” e alla traslazione di questo verso un altro luogo corporeo, immaginativo; ad un tratto si avverte un formicolio un risveglio alla vita e il luogo oscuro del dentro di sé si sposta verso “la regione del cuore”».54
Quanto alle tecniche, Ruffini ha messo in risalto come nel lavoro per Il principe costante le “tecniche 1 e 2” siano risultate non del tutto conciliabili, perché animate da logiche e finalità antitetiche. Si rivelarono a Grotowski le possibilità amplissime, non soltanto sul piano 53 54
Guglielmi 2000, p. 76. Gasparini 2008, pp. 137 ss., che cita Barba 1965 e Ruffini 1998-99.
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artistico-espressivo, derivanti dall’attivazione, nel performer, di un processo inteso come corrente vivente di impulsi, come trance, liberato dal vincolo della rappresentazione che, conseguentemente, non solo risultava estraneo allo spettacolo, ma gli era addirittura “ostile”. Fu quella potenziale incompatibilità tra processo liberato e spettacolo a suggerirgli di occultare le tracce del primo (come arrivarvi e relative implicazioni pratiche), nei testi che rivide per la pubblicazione in volume, di qui l’immagine, molto fortunata, della stanza vuota, liberata al centro dell’edificio costituito da Per un teatro povero (De Marinis 2001, pp. 14-15). Sicché tra il processo e l’edificio che lo circonda si confrontano due modi di concepire il teatro: da un lato contesto per la costruzione di spettacoli, di contro il teatro come yoga, come veicolo per la realizzazione spirituale di chi lo pratica (Ruffini, 1988-99). Esercizi psichici, anatomia del subcosciente e psicoanalisi non privata sono le vie attraverso le quali l’attore può arrivare a disinnescare la dimensione della “premeditazione” per permettere lo sgorgare libero degli impulsi. In una lettera a Barba del 26 aprile1965 Grotowski si riferisce alla svolta che ha rappresentato il lavoro su Il principe costante: «Fin d’ora due cose sono evidenti. Primo: [Il principe costante] segna l’inizio di un periodo nuovo nell’estetica della nostra “ditta”. Secondo: questo spettacolo rappresenta il tentativo di applicare le ricerche di frontiera tra tantra e teatro di cui le parlai a suo tempo. Ciò esige una estrema precisione tecnica, spirituale dell’attore; tutto è sospeso ad un filo, e può facilmente sbandare […]». (Barba 1998, Lettera 15, Wroclaw, 26 aprile 1965, pp. 175-176)
La tappa conclusiva fu il lavoro con Thomas Richards sull’“Arte come veicolo” attraverso il quale si passa dal lavoro per liberare il “processo” a quello per utilizzare il “processo”, oltre lo spettacolo a disposizione solo di chi lo attua. I due libri di Richards (1993, 2000) andrebbero a riempire quella stanza vuota55. Così Ruffini sulla trance: «Cos’è in definitiva la transe? La si può definire come lo stato in cui l’azione è spontanea, e nello stesso tempo, precisa. La spontaneità senza precisione degenera nell’ “impeto confuso”; e reciprocamente 55
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la precisione senza spontaneità non può essere “passiva”. L’attore in stato di transe non pensa (per fare) ciò che fa; semplicemente e realmente lo fa». (1998-99, p. 465)
Nella versione ufficiale di Per un teatro povero, Grotowski – come sottolinea Gaparini – si sofferma sulla questione della trance dal punto di vista della prassi e della teoria del teatro: trance è autopenetrazione, è concentrazione su ciò che è occulto in noi, è eccesso, viaggio, denudamento che permette di giungere al dono completo di sé, all’offerta del proprio essere da parte dell’attore che, come s’è già detto, non ha nulla a che vedere con l’abbandono agli istinti, all’improvvisazione, che non contempla azioni scomposte anzi lavora nel contesto di un estremo controllo interiore: «più ci concentriamo in ciò che di occulto c’è in noi, nell’eccesso, nel denudamento, nell’auto-penetrazione, più rigida diventa la disciplina esteriore, cioè l’artificialità, l’ideogramma, il segno: su questo poggia tutto il principio dell’espressività». (Grotowski 1970, p. 48)
Attraverso le tecniche della trance (esercizi) Grotowski tendeva a far sì che l’attore riuscisse a eliminare le resistenze del corpo per permettere alle dimensioni del profondo di fluire invadendo l’involucro corporeo, divenendo guida non cosciente dell’azione, percorso mirante alla transluminazione, processo attraverso cui il corpo, diventando trasparente, non oppone resistenza al fluire degli stati più intimi del proprio essere. «Da noi tutto è concentrato sulla “maturazione” dell’attore che è espressa da una tensione verso l’assoluto, da una denudazione completa, dall’estrinsecazione degli strati più intimi del proprio essere e tutto questo senza la benché minima traccia di egotismo o di autocompiacimento. L’attore fa dono totale di sé. Questa è la tecnica della “transe” e dell’integrazione delle energie psichiche e fisiche dell’attore che, emergendo dagli strati più intimi del suo essere e del suo istinto, scaturiscono in una specie di “transluminazione”». (Grotowski 1970, pp. 46-47)
Gasparini pone in risalto come la transluminazione grotowskiana sia un processo di manipolazione percettiva che porta a “vedere oltre”, alla percezione che è, nello stesso tempo, allucinazione, che si-
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gnifica “vedere oltre il precetto”, attivare un second sight (sguardo secondo) che richiama la morte mistica dello sciamano descritta da Eliade: lo sguardo secondo si ottiene dopo un lungo percorso di ascesi mistica (variamente declinato secondo le tradizioni), che conduce a una ricomposizione/rinominazione degli organi, a rifondare il corpo da cui è stata sfilata l’anima, sono stati spezzettati gli organi. Lo svuotamento del corpo e l’estrazione dell’anima sono indispensabili passaggi affinché il corpo diventi corpo cavità dentro cui si nascondono mondi invisibili e si acquisisce la capacità di guarire56. L’attuante e il maestro sono coprotagonisti di questa tensione trasformativa, di questo “miracolo” vivente, messo in risalto da Taviani quando, nell’elogio funebre di Cieślak, ripercorrendo le tappe dell’esperienza dello straordinario attore «il primo uomo a mettere piede sull’Everest dei teatri», precisa che occorrerebbe, più correttamente, riferirsi al binomio Grotowski-Cieślak, ma, aggiunge, «badando ai puri fatti spogli di proiezioni illusorie dovremmo, infine, abolire i nomi (Taviani 1991, p. 184). La straordinaria efficacia di quell’esperimento teatrale e, al tempo stesso, la sua drammatica conclusione è stata ampiamente messa in risalto dalla critica analizzando Cieślak ne Il principe costante.
Gasparini 2008, p. 132. L’attivazione del secondo sguardo o del secondo fiato rimanda ai rituali di iniziazione degli sciamani descritti da M. Eliade (1951, pp. 56 ss): per esempio, lo yakuta [Siberia] Gavriil Alekseiev afferma che ogni sciamano ha un Uccello RapaceMadre che assomiglia ad un grosso volatile, con un becco di ferro, artigli adunchi e una lunga coda. Questo uccello mitico appare due sole volte: alla nascita spirituale dello sciamano e alla sua morte. Gli prende l’anima, la porta negli inferi e la fa maturare sul ramo di un abete. Quando l’anima ha conseguito la maturità, l’uccello ritorna sulla terra, taglia il corpo del candidato a pezzi, che egli distribuisce fra gli spiriti malvagi delle malattie e della morte. Ciascuno di questi spiriti divora il pezzo di corpo che gli spetta, il che ha per effetto l’acquisizione, da parte del futuro sciamano, della facoltà di guarire le corrispondenti malattie. Dopo aver divorato tutto il corpo, gli spiriti malvagi si allontanano. Allora l’Uccello-Madre rimette a posto le ossa e il candidato si sveglia, come da un sonno profondo. Secondo un altro insegnamento yakuta, gli spiriti malvagi portano l’anima del futuro sciamano agli inferi ove lo chiudono in una casa per tre anni (per un solo anno, se si tratta di coloro che diverranno sciamani d’un ordine inferiore). È là che lo sciamano riceve la sua iniziazione: gli spiriti gli tagliano la testa e gliela mettono vicino (perché il candidato deve assistere con i propri occhi al suo smembramento), poi lo riducono in pezzi minuti che sono distribuiti agli spiriti delle varie malattie. È solo per tale condizione che il futuro sciamano acquisterà il potere di operare delle guarigioni. Successivamente, le ossa sono ricoperte di carne fresca e in certi casi si immette in lui anche un nuovo sangue. 56
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Lorenzo Mango si sofferma sui movimenti di Cieślak mentre pronuncia il monologo al cospetto di don Enrico e del re: il suo corpo è come posseduto da un’entità indipendente. Dalla posizione eretta, lentamente si prostra in ginocchio e poi si mette supino, mentre comincia a denudarsi fino ad assumere una posizione a croce nella quale hanno inizio le convulsioni: «Dall’insieme di questa partitura fisica emerge una tensione trattenuta che dà la sensazione vivissima di uno stato di sofferenza interna, che culmina nel fremito che scuote il corpo a conclusione del monologo. Lo stato di sofferenza, però, non riguarda tanto una condizione fisica, quanto uno stato interiore. È l’esito di un processo penitenziale cui il corpo comincia ad essere sottoposto. È la sofferenza del mistico. […] Un sacrificio in atto, dunque, che rappresenta la prima soglia sensibile di un processo rituale, iniziato con il rifiuto della assimilazione sociale e la identificazione quale capro espiatorio». (Mango 2008, p. 100)
Dicevo sopra che ogni esperienza di scavo profondo nell’io attraverso varie strade contiene dei pericoli, apre delle voragini, può bruciare, è un fuoco come lo è per Artaud il “vero teatro”, la “vera poesia”, la “vera arte” che può riscaldare, rianimare, ridare la vita, ma può anche bruciare, distruggere57. La vicenda di Cieślak è, anche in tal senso, emblematica: grazie a Grotowski crebbe smisuratamente dal punto di vista umano e artistico, si pensi, per esempio, alla sua voce in Apokalipsis: «La voce di Cieślak è molto interessante, qui. Essa è completamente diversa da quella che avevamo conosciuto; qui ricorda il lamento cantillato di un infante, a volte di un animale. È una specie di polifonia primordiale ai limiti dell’afasia, una voce vicina o parente di quella a cui lavorava un performer come Demetrio Stratos negli stessi anni, proprio a partire dall’osservazione attenta degli infanti Grotowski tra povertà e sfondamento e degli animali. Qual è il significato di questa ricerca sulla voce? È innanzitutto la prima manifestazione di una figura che non si esprime attraverso la parola o l’enunciazione ideologica bensì attraverso il suono e ciò testimonia di una possibilità, di un potenziale, perché a partire da questa voce e dalla scoperta del corpo con il quale questa voce è connessa l’indivi57
Taviani 1994, De Marinis 1999, 2011.
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duo, ogni individuo, può ritrovare la propria complessità, la propria singolarità irriducibile». (Attisani 2015, pp. 240-241)
ma visse come un trauma la decisione di Grotowski di non fare più spettacoli dopo Apokalipsis cum figuris (1969) e non gli fu facile entrare nelle profondità dell’io, autopenetrarsi, poi uscirne senza provare un profondo smarrimento. Si può vedere il training nel film del 1972 Training al Teatro Laboratorium di Wroclaw in cui «si assiste al passaggio dall’esercizio fisico al flusso organico che ne è pensiero. Si vede come da una postura germogli un’immagine, e da questa un’idea, una linea di pensiero, una situazione, il frammento d’una storia possibile. Coloro che ancora usano la triste espressione “teatro del corpo” dovrebbero sedersi a lungo davanti a questo film, fino al momento in cui riusciranno a capire che si tratta proprio dell’opposto “teatro della mente”, processi mentali resi palpabili, visibili. A volte, come pesci in un fiume affiorano dei contenuti. Ma è sempre il ritmo del pensiero che vediamo. Quel che nella vita quotidiana è corpo protezione, nella vita extraquotidiana del training di Cieślak diventa pensiero cuore, coraggio “Quando lo spettacolo è finito – annota Richard Schechner – Cieślak entra nella fase di raffreddamento. Spesso beve vodka, chiacchiera, fuma una gran quantità di sigarette”. E commenta “uscire dalla parte a volte è più difficile che entrarvi”». (Taviani 1991, p. 193)
Da allora Cieślak divenne un attore in cerca di un teatro e di un regista. Si mosse in varie direzioni e in vari paesi e nel 1985 riemerse con il re cieco e disorientato nel Mahabhrata di Brook, dove «non è l’ombra di se stesso. Recita la sua ombra. Attore in cerca di autore». Cieślak fu un attore di coraggio e fece quello che i Personaggi pirandelliani non avevano potuto fare: portò la sua vita scenica a un autore e lasciò che questi la adattasse al suo dramma e lo fece alla lettera, fino a consumare le sue energie, a prosciugarsi (Taviani 1991, pp. 192 ss.). Ritornando a Grotowski osserviamo che nel 1985-86, negli ultimi anni del suo percorso, affermava, alla luce delle competenze scientifiche alle quali ho sopra fatto riferimento: «Abbiamo nel nostro corpo un corpo antico un corpo rettile, potremmo dire. […] Ho cominciato a chiedermi come tutto ciò fosse collegato a un’energia primaria, come – attraverso diverse tecniche
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elaborate nelle tradizioni – si sia cercato un accesso a questo antico corpo dell’uomo». (Grotowski, 2007 Tu es le fils de quelqu’un, pp. 70-71)
Interrogativo che, come osserva, Perrelli «è il presupposto del progetto sul Dramma oggettivo (The Objective Drama Project), la nuova fase di ricerca che il maestro polacco sviluppa fra il 1983 e il 1986 (con diramazioni prospettiche fin negli anni Novanta) nel corso del suo soggiorno americano, in particolare presso l’Università di Irvine, e nel tragico periodo della rivolta polacca e della chiusura del Teatro Laboratorio di Wroclaw». (agosto 1984) (2010, p. 1)
Anche se, come s’è detto sopra, non si parla più di cervello rettile, va rimarcata la sua attenzione agli aspetti della neurofisiologia alla quale connetteva l’idea (espressa anche da Schechner) che esistessero alcuni suoni, ritmi, gesti e movimenti i cui effetti erano oggettivi, fondati su sistemi fisiologici e/o archetipici. Faceva l’esempio dei battiti del cuore, delle forme del respiro, delle tonalità vocali di una certa altezza e di precise serie di suoni, di espressioni del volto, di posizioni del corpo e delle mani che, con i movimenti, costituiscono un sistema performativo interculturale e universale. Consapevole, fin dagli inizi, che questi elementi di dramma oggettivo si manifestano in alcune forme liturgiche, intese cogliere espressioni performative da culture differenti (danze sciamaniche e da quelle rituali coreane, balinesi, dervisce, dall’ hatha yoga, dal karate giapponese dal vodu haitiano), mostrando, senza fare riferimenti espliciti, come s’è detto, una formidabile conoscenza delle pratiche del corpo nei rituali e nei teatri alle varie latitudini e una capacità straordinaria nell’utilizzare i “messaggi” più consoni al suo progetto. Metteva queste espressioni in relazione, in termini di canto, con alcuni testi per svilupparle come performance al di fuori del contesto di origine. Riallacciandosi ad antecedenti fasi della sua ricerca, in particolare ad Adam Mickiewicz e al culto polacco degli avi (aveva allestito Gli Avi nel 1961), si concentrò sulla vera canzone tradizionale che è anonima, ma può costituire un canale che, percorso a ritroso, riconduce a qualche paternità o maternità58. Perrelli 2010, p. 1; cfr. Teatro e festa dei morti. Gli Avi di Mickiewicz e la tradizione teatrale in Polonia, n. XV di “Teatro e Storia” 2000. 58
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«Noi diciamo: è il popolo che ha cantato (riferendosi alla vera canzone tradizionale che è anonima). Ma tra questo popolo c’è qualcuno che ha cominciato. Hai la canzone devi chiederti da dove è nata […] Alla fine scoprirai di venire da qualche parte. Come si dice in un’espressione francese “Tu es le fils de quelqu’un”. Non sei un vagabondo, sei di qualche parte, di qualche paese, di qualche luogo, di qualche paesaggio. C’era gente reale attorno a te, vicino o lontano. Sei tu, trecento, quattrocento o mille anni fa, ma sei sempre tu. Perché colui che ha cantato le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo; allora, se ritrovi tutto ciò sei figlio di qualcuno, se non lo ritrovi, non sei figlio di qualcuno, sei separato sterile, infecondo». (Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, 2007, pp. 70-71)
Con il riferimento all’ultima fase della sua sperimentazione fuori del teatro possiamo toccare il tema che attiene al significato complessivo dello sforzo del grande maestro attingendo al problema della finalità ultima dello yoga dell’attore formulato da Taviani59 che si è interrogato su una questione cruciale comune a tutte le esperienze di “autopenetrazione dell’io” attraverso tecniche del corpo-mente: quale il fine ultimo?60 Interrogativo che spaventa, ma che, alla luce della formidabile e coerente esperienza di Grotowski, può ricevere una risposta (ovviamente una delle molte possibili) nell’imperativo richiamato da Attisani, “diventa ciò che sei”, che prima che essere il fine del lavoro di Grotowski, ha percorso il pensiero filosofico e religioso tra Occidente e Oriente, dall’antichità a oggi, da Pindaro alla Patristica da Nietzsche alla mistica indiana61:
«Esiste – scrive Attisani – un obiettivo, un punto di arrivo: il corpo dell’essenza, la singolarità assoluta. Il corpo dell’essenza non è altro che lo sviluppo di qualcosa che ognuno possiede alla stato embrionale e potenziale, l’equivalente che in altre mitologie si chiama “corDe Marinis 2007, p. 231. Taviani 1994 e De Marinis 1999. 61 Dal Γένοιο οἷος εἷ, Gènoio hòios éi di Pindaro a Nietzsche (2006), dall’insegnamento dell’insegnamento dei padri della chiesa (Ireneo), alla filosofia mistico indiano Ramana Maharshi (1987). 59 60
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po di gloria” o “corpo senza organi” comunque il corpo affrancato dalla materialità sociologica […] “Captare il processo” facendo qualcosa che sia in rapporto con noi stessi, non odiare ciò che si fa – come accade quando si risponde alle attese sociali e ci si orienta su ciò che si deve o è opportuno fare –, significa anche scoprire in noi ciò che ci rende “ricchi sani e felici” condizione preliminare e non punto d’arrivo per poter lottare e realizzarsi come performer […] Durante la giovinezza, nelle occasioni eccezionali che comunque la costellano, tutti quanti sperimentiamo l’essenza e dovremmo imparare a frequentarla, altrimenti il rischio è quello di dimenticarsene e di sopravvivere esclusivamente nella dimensione sociologica; bisogna imparare a diventare adulti, e poi vecchi, sviluppando e non atrofizzando l’unicità del proprio corpo-memoria, coltivando il proprio potenziale. In questo senso Grotowski identifica nel «performing» qualcosa che per il Performer si avvicina al processo e coincide con esso, perché il processo per lui non è una tecnica o una preparazione bensì un compimento, per quanto gradualmente e ritmicamente scandito. Così si chiude, almeno sul piano logico, il cerchio tra lavoro su di sé e creazione artistica». (Attisani 2015, pp. 261-262)
Ho toccato, in questa sintesi, percorsi letterari, etnografici, scientifici, teatrali, cercando di trovare un filo conduttore nella ricerca dell’io, attraverso percorsi complessi, spesso problematici. In questi itinerari nulla è scontato, tutto deve essere conquistato, giorno dopo giorno. Concludo collegandomi al canto anonimo richiamato sopra e, attraverso questo, ai canti, alle danze, alle musiche che, nei culti tradizionali – dai quali sono partita e ai quali ho assistito62 – danno vita al paradosso ordinato che è la trance, attraverso la quale s’impara a perdere il controllo di sé, per crescere, per guarire nel corpo e nello spirito, per ritrovarsi, soprattutto, parte integrante di una comunità, culti che sono «paradigma di forme diverse da quelle occidentali dell’organizzazione sociale, politica, religiosa e perfino economica del mondo: sono una teologia politica altra», che pochi sono in grado di penetrare (Palmisano 2002, p. 500). E anche alle mie esperienze di incontro con l’Altro in Africa (in Mali e in Etiopia), a contatto con i danzatori della Società della Maschere di Sanga, con i devoti dei santuari in Etiopia e con i gruppi di posseduti, arricchita, in tempi recenti, con quella teatrale multiculturale della comunità di CantieriMeticci (vedi qui il capitolo riferito a questo teatro). 62
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Creare una comunità di lavoro è stato uno degli obiettivi della ricerca di Grotowski, come lo è oggi dei suoi discepoli che ne seguono gli ideali63. Marco Biagini ha parlato di recente di nuove comunità, di centri segreti di creazione di pensiero attivo (rispondendo nel corso di una conferenza a una domanda sulla comunità rivoltagli da De Marinis64): «La questione della comunità è legata a un’altra questione, quella dei centri di creazione di pensiero attivo, creazione di cultura attiva, dove qualcosa si crea per il futuro. Ci sono stati nei secoli, nel mondo occidentale, in cui questi centri di cultura erano i monasteri e le università. Non è più così. Ma io sono convinto – come nella vecchia storia sciita che ci sono sempre nel mondo dodici individui segreti la cui esistenza rende possibile l’esistenza del mondo – sono convinto che da qualche parte esistano dei centri di cultura sotterranei, nascosti, estranei alle correnti principali soprattutto del mercato, che stanno creando il futuro. E sono convinto che questo è legato all’ arrivo in Occidente di persone da altri continenti. E che lì sta il futuro e che adesso lì da qualche parte, un pensiero attivo, cioè un’azione verso il futuro, sta avendo luogo. Sento che io faccio già parte del passato, e sento e so che l’Occidente ha nelle proprie tasche delle ricchezze che ha creato nei suoi primi anni di storia e che potrebbero essere messe al servizio». (2016, pp. 278-279)
Grotowski ha concluso la vita sapendo di avere in Thomas Richards un erede, considerato oggi un maestro, la guida di una comunità, depositario di un sapere vivente da trasmettere da persona a persona.
Cfr. Attisani 2006. De Marinis «…oggi non più la comunità come punto di partenza, ma semmai come meta o comunque risultato a cui si può tendere: la comunità provvisoria, si parla molto di questo. La capacità che il teatro può avere di aggregare provvisoriamente. Oggi non c’è più la comunità, quindi bisogna lavorare prescindendo da questo, ma con un risultato semmai provvisorio che si può raggiungere lavorando teatralmente» (Biagini 2016, p. 278). 63 64
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CantieriMeticci: dove migranti, rifugiati e italiani diventano «professionisti delle arti». Un viaggio verso l’Altro rileggendo La Tempesta di Shakespeare1 Laura Budriesi
Abstract CantieriMeticci: where migrants, refugees and and italians become ‘professionals of the arts’. A journey towards the Other, re-reading Shakespeare’s Tempest The article highlights the experience of ‘CantieriMeticci’, a theatre group which started a few years ago in Bologna, the initiative of Pietro Floridia. It is a heterogeneous ensemble where migrants refugees and asylum seekers join Italians and Europeans: And the ‘opportunity to become artistic professionals is given to people who we meet on the street.’ We present a reading in progress that the Company gave of Shakespeare’s ‘The Tempest’, focused on the figure of Caliban. The texts developed by the young actors of Ho presentato la Compagnia CantieriMeticci e lo spettacolo Calibano in tre brevi contributi pubblicati in “Culture Teatrali. Osservatorio della scena contemporanea” (2017). Qui sono stati uniti e rielaborati. L’esperienza importante di CantieriMeticci, che ha ricevuto un’accoglienza internazionale di rilievo, merita di essere seguita nel corso della sua evoluzione. Certamente si colloca all’interno della grande rivoluzione teatrale del XX secolo, di cui ha trattato De Marinis (in particolare 2000, 2013 e 2016). Lo studioso si è interrogato sull’attore, sul teatro dopo l’età dell’oro e sul teatro che cura, proponendo, nel 2016, una riflessione sul Teatro Carcere e definendone le coordinate. Il teatro Carcere, come CantieriMeticci, si inserisce nella dimensione della rivoluzione etica del teatro del Novecento e nel rilancio-riscoperta del teatro come incontro con l’altro, con l’alterità, a partire dalla propria, sulla linea dei grandi maestri del Novecento quali Artaud e Grotowski. Sugli atti del convegno Catarsi (a cura di R. Cuppone 2016), rinvio alla recensione di Attisani (2017) che, nello stesso convegno, ha trattato di mimesi e di catarsi sulla base dell’interpretazione “rivoluzionaria” della Poetica di Aristotele da parte di Donini (2008), che chiama in causa – fra l’altro – una riconsiderazione della portata filosofica del pensiero di Jerzy Grotowski nel campo delle performing arts. 1
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the groups start from key concepts like ghetto, colonialisation, and stigma and use what Floridia defines as ‘ a work of deconstruction-reconstruction of the text’ evoking the interpretation of the relationship between Prospero and Caliban in the light of the slave/boss, anticolonial model used by some of the most authoritative writers of Postcolonial Studies: from Frantz Fanon to Aimé Césaire who were inspired by Shakespeare’s text. Keywords: theatre, Pietro Floridia, CantieriMeticci, interculturality, dominators/dominated Shakespeare
Pietro Floridia2 è il regista di CantieriMeticci, un gruppo teatrale particolare, un ensemble eterogeneo, nato quattro anni fa, dove migranti, rifugiati, richiedenti asilo si uniscono a italiani e a europei: i rifugiati provengono da molti paesi, tra cui Afghanistan, Camerun, Cina, Nigeria, Pakistan, Russia, Eritrea. Gli attori sono, come sottolinea Floridia, che ho intervistato nel 2017: «ragazzi incontrati per strada a cui viene data la possibilità di divenire professionisti delle arti». Il progetto ha preso forma nel 2005 nell’ambito delle attività della Compagnia del Teatro dell’Argine. Originariamente si chiamava Compagnia dei Rifugiati, progetto laboratoriale all’interno del Teatro ITC di San Lazzaro di Savena (Bo) e del Centro Interculturale “M. Zonarelli” del comune di Bologna3: là, a poco a poco, le lezioni di itaPietro Floridia regista, drammaturgo, scenografo, attore, negli anni della formazione ha lavorato con B. Jerkovic, S. Cardone, V. Mikheenko, S. Farrell. Nel 1993 ha fondato il Teatro dell’Argine di Bologna. Dal 1998 al 2013 è stato direttore artistico dell’ITC Teatro Comunale di San Lazzaro. Con il Teatro dell’Argine, dal 2005, ha realizzato spettacoli e progetti legati al tema dell’intercultura: è nata così la Compagnia dei Rifugiati che ha organizzato il festival di arte e intercultura La Scena dell’Incontro, nell’ambito del quale sono stati realizzati eventi, incontri e la tendopoli teatrale Viaggio attraverso l’accampamento mondo e la biciclettata poetica Poetandem. Caratterizzano la sua esperienza i numerosi viaggi: dalla Palestina al Nicaragua, dalla Bolivia all’Africa. Il viaggio dall’Italia al Senegal, passando per Marocco e Mauritania, sulle tracce dei migranti che dal Nord Africa arrivano in Italia, ha dato vita a una pubblicazione (2013) e a uno spettacolo che lo vede in scena anche come attore. Nel 2014, la Compagnia dei Rifugiati ha preso il nome di CantieriMeticci, di cui Floridia è regista e direttore artistico. 3 Il Centro Interculturale “Massimo Zonarelli” di Bologna è nato alla metà degli anni ’90; dal 2012 fa parte dell’Istituzione per l’Inclusione sociale e Comunitaria “don Paolo Serra Zanetti” del Comune di Bologna (don Paolo, 1932-2004, è stato uno straordinario sacerdote “di strada”, che ha speso la vita nell’aiuto ai poveri e agli emarginati e nell’insegnamento all’Università di Bologna). Attraverso dinamiche di appartenenza e di incontro, nel Centro si intessono processi identitari, si offrono spazi di aggregazione, si realizzano iniziative per favorire la conoscenza e il dialogo. È un luogo di incontro storico tra italiani nativi e immigrati, di scambio e dialogo interculturale. 2
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liano si sono unite alla pratica teatrale. L’idea era quella di coinvolgere i rifugiati politici per riempiere un vuoto, dare senso a quel periodo indefinito che trascorrono in attesa di ottenere un riconoscimento dallo Stato italiano. Il desiderio era, ed è, quello di far recitare chi a fare l’attore non ha mai pensato; la volontà politica è quella di far corrispondere teatro e polis. Una polis che in questi anni ha cambiato notevolmente la sua composizione. Il gruppo, infatti, si è considerevolmente allargato e ora ne fanno parte una cinquantina di attori giovani e meno giovani, tra i quali, i più esperti, vengono responsabilizzati a preparare i nuovi arrivati. La Compagnia dei Rifugiati è diventata CantieriMeticci per la precisa volontà del gruppo di non ripetere la dinamica sociale in cui i rifugiati siano in qualche modo, anche involontariamente, ghettizzati. Quindi, per desiderio comune, il gruppo si è aperto a italiani ed europei per sfruttare le possibilità pedagogiche e artistiche di un contesto misto: «l’essenza e il metodo del “meticciato” ci corrisponde di più come visione poetica e politica – sottolinea Floridia – la parola “cantieri” ci piace perché rimanda ai lavori in corso, al tentativo di generare un processo che costruisca pratiche e forme». Floridia e alcuni membri più esperti del gruppo – le “guide” – presentano ancora, come alla nascita della compagnia, il progetto nei centri di prima accoglienza per coinvolgere i migranti nel percorso teatrale; ora il progetto si sta diramando anche in altre direzioni. Sono nati i “quartieri teatrali”, spazi laboratoriali seguiti dalle guide del gruppo, sotto la supervisione di Floridia, con sedi in spazi non teatrali della città di Bologna, come la biblioteca Casa di Khaoula, o in parrocchie come l’Annunziata di San Mamolo (dove risiede una comunità francescana); o ancora moschee e scuole, tra le quali il liceo “M. Minghetti” di Bologna. L’idea è quella che un bar o un parroco possano diventare o un improvvisato luogo teatrale, o un attore per un giorno, come è accaduto nel quartiere San Mamolo.
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«Soprattutto all’inizio ci si trova a lavorare con giovani appena arrivati in Italia, che hanno ovvie difficoltà linguistiche. Al gioco teatrale si lega quindi l’apprendimento della lingua», racconta Floridia. Ed è vero, perché chi assiste a un laboratorio di CantieriMeticci, durante le prove, può ascoltare simpaticamente più traduzioni dalla lingua d’origine: dal tigrino, dall’arabo e da decine d’altre, alla lingua coloniale (inglese e francese) e, infine, all’italiano. In queste occasioni i giovani italiani, principalmente studenti, possono essere d’aiuto ai ragazzi migranti. Il gruppo è da anni coinvolto anche in progetti europei come quello sui ghetti urbani delle città di oggi, The City Ghettos of Today (2013-2015), che ha coinvolto realtà artistiche, culturali e sociali, e si è sviluppato in una serie di workshop aperti alle comunità locali in diverse città europee (Varsavia, Parigi, Bologna, Milano, Helsinki e Berlino). Il percorso è partito da riflessioni e domande sui «quartieri chiusi delle realtà migratorie contemporanee», quali: in che modo si può parlare oggi di ghetto? quale è il ruolo del ghetto nella costruzione dell’identità europea?
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Al lavoro teatrale si lega la ricerca socio-antropologica. Di recente alcuni materiali di lavoro del gruppo sono fruibili grazie alla creazione di un archivio digitale di storie, l’archivio “PoPolifonico” fatto di schedari tecnologicamente modificati per ascoltare il tesoro di storie che i cittadini vorranno depositarvi e da cui la compagnia trarrà spunti per le drammaturgie dei propri spettacoli. Cantieri in divenire sono anche gli spettacoli, progetti aperti che si costruiscono nel tempo e nei luoghi che attraversano. Un esempio è il percorso di ricerca su La Tempesta di Shakespeare, di cui lo spettacolo Sulle tracce di Calibano (Bologna 2017) è soltanto una tappa. Una delle “fermate” precedenti era stata Pisa, nel corso di una residenza artistica della compagnia presso il Teatro Rossi (2015).
CantieriMeticci, laboratorio teatrale (foto CantieriMeticci)
Angela Sciavilla, giovane e appassionata tuttofare, organizzatrice del gruppo, parla di un teatro che deve avere il potere di “risvegliare”, che si costruisca in spazi non teatrali come i luoghi di quartiere ricordati sopra. Un teatro che deve saper incontrare il cittadino, come nel progetto realizzato nel dicembre 2016 con l’obiettivo di raccogliere storie, in una cooperativa sociale in Basilicata, “Funky Tomato”, libera dal caporalato. Un processo analogo è stato sperimentato anche a Lampedusa con Ascanio Celestini, insieme al quale il gruppo ha rac-
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colto storie di pescatori lampedusani. Altri progetti sono un percorso nella moschea/chiesa di Sant’Egidio di via Ranzani a Bologna e un laboratorio per sole donne, alcune vittime della “tratta”. Inaugurata il 2 e 3 febbraio 2017, la nuova sede della compagnia è all’interno del complesso artistico MET (Meticceria Extrartistica Trasversale di via Gorki, 6 a Bologna), una fucina creativa con nove atelier artistici, laboratori di sartoria e falegnameria, un ingresso o “TeAtrio”, un “RiStoryArte” dove vengono presentati degli “spettavoli”, ovvero spettacoli da tavolo, e il già citato archivio “PoPolifonico”: “spazi membrana”, permeabili, aperti a chiunque ne abbia curiosità. Il tutto è stato realizzato con materiali di riciclo, addirittura costruendo il primo palcoscenico con casse per cipolle. Un collage di materiali pop e tecnologie, parole nuove per un teatro di passaggio, «messo in scena – come ama dire Pietro Floridia – per le persone che passano, nel tentativo di contagiare chi a teatro non andrebbe mai». All’ingresso degli spazi espositivi si trova una “Collageria”, simbolo della compagnia, composta di molti pezzi provenienti da paesi diversi, all’insegna della trasversalità: età ed esperienze differenti da tenere unite nel modo che Pietro definisce «un’arte delle saldature, delle cuciture». In alto, sulla testa di chi entra, un ponte sospeso «per ascoltare, ricevere, trasformare».
CantieriMeticci, Collageria, “The City Ghettos of Today” (foto Laura Budriesi)
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«Chi lavora sull’identità si assume il rischio di affogare in uno specchio d’acqua, cercando di prendere la propria immagine riflessa come nel mito di Narciso – osserva Floridia – c’è però un modo meno traumatico di affrontare l’identità cioè passare attraverso la finzione, il travestimento, spossessarsi per essere posseduti questa è la via del teatro che ci permette di essere Lear e Chisciotte senza essere pazzi, digiunatori pur essendo sazi. Si fa presto a perdere il filo, a perdere e scambiare per strada pezzi di lingua e di identità. In questa babele linguistica succedono allora dei veri e propri furti di identità, dei travestimenti: Simone è un persiano veneto; Marta è francese, russa, araba, a seconda del tempo che fa; Sanam ormai non parla farsi né italiano, parla romanesco e a tutti scappa da ridere perché sembriamo proprio i personaggi del racconto amaramente ironico di Englander4, nel quale audaci ebrei polacchi aguzzano l’ingegno e, aiutati dalla fortuna, scampano alle deportazioni naziste sul carrozzone dei teatranti che si muove, come sempre, verso imprecisata meta. Anche noi come loro, travestiti da acrobati, camminiamo sul filo ad occhi bendati… verso il futuro». Guardando i giovani attori che arrivano dai luoghi più lontani, da vari paesi dell’Africa come dal Pakistan o dall’Iran, e ancora a seconda di dove li spinge la necessità, non si può pensare che siano soltanto attori, ma che in gioco ci sia ben di più, la loro stessa vita. In viaggio verso l’Altro: Il Calibano, di CantieriMeticci Il viaggio verso l’Altro comincia sempre con una nave. Che sia una delle caravelle di Cristoforo Colombo? Oppure un vascello corsaro pieno di tesori? O forse è la nave con cui inizia La Tempesta di Shakespeare che di qui a poco farà naufragio nei Caraibi, o a Lampedusa, visto che viene da Algeri, grazie alle magie di Prospero o forse, visti i tempi e le rotte, potrebbe anche avere la stiva carica di migranti (CantieriMeticci, Calibano).5 Englander 2015. Le tematiche affrontate in questo spettacolo sono state: l’analisi e la definizione dei nuovi ghetti di oggi; l’incontro/scontro tra culture; l’analisi approfondita delle relazioni fra i personaggi de La Tempesta e la rilettura dell’opera in chiave contemporanea. Il progetto europeo si è concluso ad Anversa (Belgio) nel febbraio 2015, ma non si è fermato il percorso di studio e di ricerca avviato nelle varie città europee. Infatti, con alcuni attori della Compagnia sta proseguendo il “viaggio” intrapreso attraverso l’opera di Shakespeare concentrandosi in particolar modo sulla figura di Calibano in relazione con Prospero, Miranda e Ariel; 4 5
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Una maschera da uomo-pesce, da uomo-animale. Uno degli oggetti di scena, una delle tecniche attoriali scelte per penetrare nel Calibano. Mi interessano le maschere, mi ispirano domande, mi ricordano l’Africa e la mia immersione nei suoi rituali, lo “spossessamento” che subiva il danzatore indossandola. Di “spossessamento”, di identità multipla, fragile o meticcia ci parlano anche le storie di vita reale dei giovani che danno vita al gruppo CantieriMeticci, storie spesso nate sulle strade percorse dall’Africa, dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Cina, verso l’Italia. Anche di queste storie si nutre la drammaturgia dello spettacolo Calibano, presentato a luglio dello scorso anno a Bologna. Il protagonista è interpretato da un giovane attore migrante che indossa la maschera del pesce-mostro. Forse perché egli viene realmente dal mare? Chi è per noi “chi arriva dal mare”? Ehi, oh! Che vedo qui? Un uomo? Un pesce? / Morto? Vivo?… Dev’esser proprio un pesce, / all’odore di rancido e stantio, / come di baccalà… Uno strano pesce! (W. Shakespeare, La Tempesta, Atto II, scena seconda).
CantieriMeticci, Calibano (foto CantieriMeticci)
attraverso incontri settimanali e la scrittura di un diario (tipo diario di viaggio), gli attori della Compagnia, sotto la guida di Pietro Floridia, “s’imbarcano sulle tracce di Calibano” nel tentativo di: scoprire chi è e dove si trova Calibano nelle nostre società contemporanee; definire meglio il lavoro teatrale con i migranti; ragionare su come la cultura e la scrittura condizionano la nostra concezione dell’Altro e rischiano, se non maneggiate con cautela e consapevolezza, di agire negativamente (assimilazione, schiacciamento dell’Altro) sul lavoro che la Compagnia sta cercando di svolgere insieme ai migranti.
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La favola-leggenda dell’uomo-pesce è diffusa in tutto il Mediterraneo a partire dal medioevo. Tra le altre, è celebre la storia di Cola che, per la sua particolare abilità di sprofondare negli abissi marini, viene soprannominato Cola-pesce. Col passare del tempo la sua pelle diviene sempre più squamosa, le mani e i piedi simili a delle pinne. In una delle varianti della storia diviene schiavo della sua disumanizzazione, fino a perdersi, senza più fare ritorno, negli abissi. Un mostro… dai confini, talora netti talora sfumati, un essere fra umano e bestiale. Mostro, dal greco τέρας tèras, indica un segno divino e mobilita un’atmosfera di terrore. Si tratta del “portento”, ovvero di un segno che pronostica il futuro. La mitologia classica pullula di mostri: il Minotauro, la Chimera, le Sirene, i Satiri. Omero, Esiodo, Erodoto e – nel mondo latino – Plinio il Vecchio, ne hanno raccontato accostandoli anche a presunte razze umane mostruose. Erodoto, per esempio, narra che gli abitanti della Libia erano convinti che una parte del loro paese fosse abitata da uomini sprovvisti di testa e dotati sul torace di occhi, bocca e naso. Animali fantastici e razze mostruose hanno grande spazio anche nell’idea di “meraviglioso” che accompagna i bestiari medievali e giunge fino al Rinascimento e alla classificazione di Ulisse Aldrovandi, la Monstruorum historia6.
Ulisse Aldrovandi, Monstruorum historia… Bononiae 1642
6
Aldrovandi 1642, p. 657.
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Gli appunti di lavoro della compagnia CantieriMeticci, composti da immagini storiche o letterarie, da testi realizzati dal gruppo e da suggestioni del regista Pietro Floridia, partono dalla riflessione sull’Altro come non familiare, esotico e, in definitiva, mostruoso, contro natura, facendo riferimento a un immaginario fantastico che, fin dalle origini della cultura occidentale, arricchisce di mostri il mondo non conosciuto: un Oriente espanso fino all’Africa, un Oriente mirabilis, lontano e seducente, ambiguo e talora accattivante, sul quale proiettare sogni e inquietudini. Nei modi in cui la Compagnia interroga le immagini che l’Occidente ha elaborato sull’“Oriente” come opposto alla ratio europea, irrazionale e arretrato, riecheggiano i toni di un “orientalismo” alla Said, secondo cui «l’Oriente presentato dall’orientalismo è […] un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che introdussero l’Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali»7. La Tempesta shakespeariana contiene una forte dose di intertestualità: la trama narrativa e poetica reca tracce di episodi della mitologia greca, dell’Eneide, nonché del saggio di Montaigne (1533-1592) I Cannibali8 contemporaneo dell’autore (1564-1616). Le cronache di viaggio furono un’altra fonte di ispirazione, in questo caso fu un naufragio a infiammare la fantasia di Shakespeare, quello del vascello di Thomas Gates, Sea Venture, che trasportava dei coloni in Virginia – la prima colonia inglese – che trovarono rifugio in un’isola delle Bermuda, prima di riuscire a proseguire il viaggio fino a destinazione. Risulta importante sottolineare le eco che ebbe questa vicenda, ambientata nel “Nuovo Mondo”, rispetto alla lettura che dell’opera ha dato CantieriMeticci, perché si riferisce a un periodo – gli anni Ottanta del Cinquecento – che si situa agli albori dell’impero coloniale britannico. La parola plantation nel significato di “colonia” compare per la prima volta nel lessico shakespeariano proprio ne La Tempesta in un periodo in cui «una vera febbre espansionistica assale i più intraprendenti tra i mercanti e i più audaci tra i navigatori, all’idea di creare colonie […] e con essa la vocazione ad andare a convertire “i selvaggi” d’America»9. Le devastanti implicazioni del progetto coSaid 1991, p. 201. De Montaigne 2005, p. 15. 9 Fusini 2016, pp. 12-14. 7 8
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loniale europeo erano in qualche modo presagite già nei resoconti di viaggio sul “Nuovo Mondo” di fine Cinquecento. Nel Calibano di CantieriMeticci, i testi elaborati dai giovani attori del gruppo partono da concetti chiave come ghetto, colonizzazione, stigma e utilizzano quello che Floridia definisce «un lavoro di decostruzione-ricostruzione del testo», richiamando l’interpretazione del rapporto tra Prospero e Calibano in chiave schiavo-padrone, anticoloniale, testimoniata dai più autorevoli scrittori dei Postcolonial Studies: da Frantz Fanon, in Peau noire, masques blancs, nel quale le due figure sono assunte come esempi della presunta interdipendenza tra colonizzatore e colonizzato, a Geoerge Lamming a Fernàndez Retamar, alla rabbiosa poesia di Aimé Césaire in Une tempête (Una tempesta) (1969), ambientata ai Caraibi, come lo sono le altre riscritture originali dell’opera, che richiamano l’assolutismo universalizzante del pensiero eurocentrico10. Césaire dipinge un Calibano in chiave politica, anticoloniale, uno schiavo che reagisce al potere e si solleva dalla terribile mostruosità che lo caratterizza nel testo shakespeariano. Del resto il nativo, il selvaggio deforme, la «zolla di terra», «lo schiavo libidinoso», figlio di una strega e del demonio, deriva il suo nome dalla fusione delle parole inglesi carib(be)an (caraibico) e cannibal (cannibale). La fama di antropofagi che circolava a metà del Cinquecento a proposito di quelle popolazioni è testimoniata appunto dal termine “cannibale”, derivato da Canibales, nome spagnolo dei Caraibi delle Piccole Antille. Calibano deve il suo nome a Colombo, ai conquistatori. Nel testo di Césaire, Calibano rinnega il proprio nome: «Chiamami X, andrà meglio. Come dire l’uomo senza nome. Più precisamente l’uomo a cui è stato rubato un nome. Tu parli di storia. Ebbene, questa è storia, e famosa anche! Ogni volta che mi chiamerai mi ricorderò della cosa più importante, che mi hai rubato tutto persino la mia identità! »11.
10 11
Lamming 1960, Fernández Retamar 1971. Césaire 1969, p. 33.
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Scuola coloniale, materiali di lavoro di CantieriMeticci (foto CantieriMeticci)
Nella drammaturgia che Floridia e gli attori hanno scritto sull’opera di civilizzazione del mostro, del selvaggio, si parla spesso della lingua, dell’indottrinamento culturale, del voler plasmare identità fittizie, definendo, catalogando, rinominando come strategia di dominio. Tema peraltro molto forte nel testo shakespeariano: «Prospero: Io, per pietà, m’ero presa la cura / d’insegnarti a parlare, ad ora ad ora, / ed altre cose, quando tu, selvaggio, / non sapevi nemmeno articolare / quello che avevi in animo di dire, / e ciangottavi suoni incomprensibili, / come un impasto di materia bruta; / e dotai di parole i tuoi pensieri». (W. Shakespeare, La Tempesta, Atto I, Scena seconda)
Césaire è più esplicito e, alla prima entrata di Calibano, definisce il suo linguaggio “primitivo” e Prospero lo apostrofa così: «Attenzione se ti lamenti ancora c’è il bastone! E se non ti muovi, o fai sciopero, o cerchi di sabotarmi, il bastone! Il bastone è l’unico linguaggio che capisci; ebbene, peggio per te, te lo parlerò forte e chiaro»12. Fanon, 12
Césaire 1969, p. 31.
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invece, scrive dell’uso feroce della lingua nel sistema di pensiero occidentale, ricordando che quando un bianco si rivolge a un nero usando il petit-nègre, una forma semplificata della lingua coloniale, si comporta come se parlasse a un bambino. Il brutale rapporto tra Prospero e Calibano, nelle varie versioni, è costruito sulla sproporzione di cultura, di sapere libresco, e sulla sua violenta instillazione dal colto all’incolto; l’opposto del rapporto che Floridia vuole costruire con i suoi attori. Il regista ha scelto di non presentare “dall’alto”, con autorità, i testi teatrali e culturali su cui lavorare. Piuttosto, il suo è un lavoro registico di mediazione che prevede, rispetto alla drammaturgia attoriale e al montaggio di azioni, di dare risalto alle vicende biografiche degli attori perché possano riappropriarsi delle proprie storie e dei propri strumenti in un momento in cui si parla di ri-territorializzazioni, di ritorni all’Africa.
CantieriMeticci, Younes El Bouzari (foto CantieriMeticci)
In un momento dello spettacolo prende la parola uno degli attori, Younes El Bouzari, che, uscendo dal personaggio, proclama:
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«Bravi, bravi, bella lezioncina, però adesso mi tolgo la maschera e parlo io, sì io so parlare e vi racconto il mio Calibano. Il mio Calibano è algerino, o forse francese, non lo sa neanche lui, vive nella periferia di Parigi, nella banlieue e ai vostri bei discorsi risponde che avreste dovuto educare i nostri genitori, invece che lasciarli biascicare un francese da cavernicoli! […] A voi faceva comodo così, a voi faceva più comodo che loro maneggiassero pietre piuttosto che parole, perché le parole potevano diventare frasi e le frasi discorsi e i discorsi diritti […] e così sono rimasti ignoranti e non ci hanno insegnato nulla e adesso arrivate voi e “Oh, mon Dieu non si integrano, non si sentono francesi, covano odio e allora facciamogli una bella lezioncina di quelle sulla cultura”. Troppo tardi! La vostra lezioncina noi non la vogliamo, sono sempre contro di noi i vostri libri e allora so io cosa fare dei vostri libri, i vostri libri io ve li brucio! Ve li bruciamo! Ve li bruciamo!
Tanto quanto il Calibano di Shakespeare desiderava per Prospero: «Senza quei libri, tienilo presente, / egli è un povero sciocco come me; / e non c’è un sol genietto o spiritello, / cui possa comandare, perché tutti / l’odiano a morte, come l’odio io». (W. Shakespeare, La Tempesta, Atto III, scena seconda)
Può essere utile, a questo proposito, la definizione di regia elaborata da Arnaldo Picchi, maestro scomparso nel 2006, titolare per molti anni della cattedra di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, nei termini di una «gestione dei significati latenti dei materiali drammaturgici, nello stesso tempo in cui è orientata dalla percezione politica dei fatti degli uomini a cui si rivolge […] il mito va calato nella realtà politica del pubblico»13. La riscrittura drammaturgica della compagnia parte da parole chiave come “territori” o anche “orizzonti dell’immaginario”. La prima immagine dello spettacolo è una nave: se per l’Europa rinascimentale navigare era necessario, ne La Tempesta di CantieriMeticci, dice Floridia «in modo ironico o paradossale sembra che per vivere sia necessario naufragare». Come Calibano e Miranda furono abbandonati tra le onde prima di approdare sull’isola della strega Sycorax, gli attori che interpretano alcune delle parti shakespeariane rivivono forse la propria esperienza 13
Picchi 2015, p. 56.
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di vita vissuta attraverso la zattera che vediamo apparire. Hanno una candela stretta tra i denti: è la speranza? o è la vita che va in fiamme? Tra gli appunti di lavoro del gruppo c’è il riferimento a una nave, non importa quale nave sia, può essere anche la nave di Cristoforo Colombo, la riflessione sulla scoperta e l’assoggettamento dell’altro riemerge in tutto lo spettacolo come memoria impressa nel corpo dei protagonisti.
CantieriMeticci, Calibano (foto CantieriMeticci)
Nella messinscena, gli attori sbarcano dalla zattera: gli esploratori/conquistatori proiettano sul corpo delle donne/attrici, con enormi cannocchiali che sono lunghi tubi dotati di un proiettore all’interno, immagini di mostri antichi, di donne selvagge come terre da conquistare, evocate così nella drammaturgia della compagnia: «La bocca è la bocca di un fucile, è il fucile di un conquistatore, un mondo di uomini, che penetra foreste e miniere del nuovo mondo. Il fuoco è quello dell’archibugio, il fuoco che scaldava, il fuoco che nutriva, il nostro fuoco ci ha tradito, ora nella foresta ci butta giù come uccelli. Così senza aiuto e senza guida, senza eroi noi ti incon-
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trammo: amante, guerriero, odiatore, tra le fila della foresta venivi, piede lieve su lieve terra di silenzio. Ti incontrammo nel sudicio tunnel di foglie. Caricasti di scatto i tuoi archibugi che mandavano lampi di fuoco nei corpi, caldi di fiamma, morsi da mosche, i nostri guerrieri cadevano morti».
Nello spettacolo, a differenza di quanto accade nei testi drammatici di Shakespeare e Césaire, in cui tutto è già avvenuto, assistiamo in diretta alla nascita di Calibano, e percepiamo successivamente la violenza della bocca che battezza l’Altro, sconosciuto, l’immersione nelle acque della tempesta equivale a un battesimo. L’Altro viene cancellato e riscritto. La bacchetta del potere è la verga del pastore con cui Prospero/Colombo convertirà il mondo dell’isola in un cosmo di parole. Nella scena del parto varie attrici cantano in un dialetto del Sud Italia una canzone, che tradotta in italiano suona così: «M’ha lasciata scalza, nuda e affamata, e la notte si sveglia e vuole il pane e io non l’ho: povera me, povera me. Sii maledetto. Sii maledetto, quanto bene ti ho fatto! Per il sangue di una gatta proprio strega m’ho a fare, povera me, povera me».
Floridia richiama il rapporto natura/cultura: «L’utero di Sycorax è una caverna che viene da lontano, viene dalla profondità degli abissi, dal tempo arcaico. Calibano è l’uomopesce perché la prima vita nacque in mare secondo Talete. Sycorax è il nocciolo primitivo che alberga in tutti noi, Calibano giunge da laggiù. Sycorax parla con gli animali, con le piante, quello è il suo testo, il suo mondo. È vicina alle Grandi Madri cretesi, a Medea, a Circe, alle maghe indomabili: Sycorax è l’elemento indigeribile per la nostra società. L’incontro tra Prospero e Sycorax è l’incontro tra i primi conquistatori e gli indigeni. Tra l’Occidente e l’“Altro”».
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CantieriMeticci, Calibano (foto CantieriMeticci)
Cruciale è la scena della scuola, dove gli archibugi/fucili divengono enormi matite e Calibano ha le orecchie da asino. Negli appunti di lavoro della Compagnia, Floridia nota che la scrittura «prescrive, ordina: la penna è come il palo a cui legare il legno storto perché cresca dritto». Presenta una serie di quesiti discussi con i giovani attori: quanta violenza contiene la scuola? Quanta coercizione è necessaria? Come si colonizza l’immaginario? Come si costruisce l’obbedienza? Come si costruisce il senso di inferiorità? A questo proposito Fanon, scriveva: «Ogni popolo colonizzato, ovvero ogni popolo all’interno del quale ha preso forma un complesso di inferiorità a seguito della soppressione dell’originalità della cultura locale, si pone di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, ovvero della cultura della metropoli. Sarà tanto più bianco, quanto avrà rigettato la sua nerezza, la sua giungla»14.
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Fanon 1952, p. 62.
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Dopo il presunto stupro di Miranda, Calibano diviene il mostro. Nel testo di Césaire, Prospero lo allontana dicendogli: «è la tua depravazione che mi ha costretto ad allontanarti». Fanon indica che uno dei modi di “inferiorizzare” i neri è il costante rimando al sesso: secondo un noto cliché, come si teme l’ebreo per il suo potenziale di appropriazione, si teme il nero per il suo presunto vigore sessuale; per l’ebreo si pensa al denaro, per il nero al sesso. Nello spettacolo di CantieriMeticci l’innocenza di Miranda è rappresentata da un’attrice bambina che gioca con Calibano. Lui canta: «ma tu sposa bambina, ma tu dolce Miranda, mai ti potrò fermare con me su questa sponda». Nel testo di Césaire la grotta di Calibano viene esplicitamente denominata “ghetto”, una delle parole usate come “territori” su cui la Compagnia ha riflettuto. Negli appunti di lavoro vengono associati: il ghetto, il Cie [Centro di identificazione e espulsione], la prigione, la banlieue, il campo di pomodori del Sud Italia, le isole della schiavitù ma anche l’antro della sibilla, la connessione con la terra, con le regioni dei morti e l’elemento primario, la bocca del pesce e della balena, la possibilità di trasformare il rifugio in casa, in tana. Queste potentissime immagini sono evocate, in scena, attraverso la ricerca di pathosformeln, forme che nascono e si trasformano in mille modi. Con straordinario dinamismo, cambiano spazialità e funzioni nel corso di tutto lo spettacolo: riorganizzano la scena, il suo significato, i suoi rapporti di forza. Sono talora tubi, sia di piccole che di grandi dimensioni, alcuni sono alti tre metri, e divengono di volta in volta la matita della cultura imposta che riscrive geografie impossibili, la struttura della zattera che di fatto viene ad essere un tutt’uno con la corporeità degli attori, il ventre del parto di Calibano, la grotta.
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CantieriMeticci, Calibano (foto CantieriMeticci)
Floridia, a proposito della drammaturgia dello spazio, definisce i tubi come «delle caverne». Gli attori ci entrano e possono provare la sensazione del guscio, della prigione, della claustrofobia o della libertà e giocarla fisicamente, sensorialmente, emotivamente, perché tutto il corpo reagisce. «È qualcosa come un ago con cui cerco di pungere gli attori per produrre associazioni, pensieri». I tubi, quindi, da una parte sono «orifizio, buco, caverna, vagina che inghiotte, terra che assorbe, l’orizzontalità che assorbe; dall’altra sono il fallo, il bastone, la penna che scrive, il cannocchiale che penetra, la verticalità paterna». A chiudere lo spettacolo è Antar Mohamed Marincola: le bocche degli attori sono spalancate – cucite invece erano quelle degli schiavi come quella di Venerdì nel Foe di Coetzee15 – con una forte drammaticità escono esse sole dalle fessure dei tubi. Prospero-Marincola dice a Miranda–bambina: «non ti sembrano gabbie queste bocche e i denti sono le sbarre? Nella tua immensa innocenza mi chiedi perché devono essere gabbie dentro le gabbie? Perché altrimenti ti divorano mia piccola Mi15
Coetzee 2007.
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randa! […] Sono milioni di bocche, spalancate perché hanno fame. Lasciano le isole-colonie di Prospero e lo vanno a cercare, padre che ha abbandonato, nelle città».
Antar Mohamed Marincola (Foto CantieriMeticci)
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Sitografia www.cantierimeticci.it www.cityghettos.com www.itc.teatro.it
Le Porte di Saba di Ariane Baghaï Laura Budriesi
Abstract Sheba’s doors by Ariane Baghaï The article looks at a singular theatrical experience which was inspired by the dramatic civil, political and religious situation of Ethiopia in the later 1990’s at the end of the civil war (Derg). The aftermath of the Derg gave the idea to Ariane Baghaï, the writer and anthropologist of Swizz-Iranian origins, to write and stage in Addis Abeba (1996) the dramatic text Sheba’s Doors. This was an ‘ethnodrama’ which aroused a lively debate in the audience (which is analyzed) it touched the most intimate and sensitive chords of the Amharic culture: the zar rites, the curative trance and the founding myth of Solomon’s Kingdom, the relationship between Sheba, Solomon and the theft by their child Menelik of the Ark of the Alliance. Many years later, in Puglia, the second life of the play took form. The author wanted to help young people get to know other cultures from the inside, creating theatre without adjectives, in a historic moment that was showing a slide towards intolerance but above all a terrible lack of aesthetic elaboration: and so began her contribution to the theatre workshop of the ‘Calamo’ secondary school of Ostuni, which won the young actors of Sheba’s Doors the Silver Delfino Prize of 2013. Keywords: theatre, trance, actor, zar cult, Ethiopia, Ariane Baghaï
La drammatica situazione civile, politica e religiosa dell’Etiopia degli ultimi anni Novanta, alla fine della guerra civile (Derg), i cui esiti si fanno ancora sentire nei pesanti conflitti etnici1, ha suggerito alla Il gruppo etnico maggioritario, gli Oromo, è ancora oggi il più marginalizzato: «la fine della guerra civile nel Corno d’Africa non ha significato immediatamente la soluzione della contrapposizione tra due generazioni, in Etiopia. Non ha neppure significato in sé la reinterpretazione di un passato nel quale tutti del resto sono ancora coinvolti», Palmisano 2005, p. 58. 1
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scrittrice e antropologa Ariane Baghaï la composizione e la messa in scena, ad Addis Abeba, del testo drammatico Sheba’s Doors (Le Porte di Saba), che definisce “etnodramma”2. Di origine svizzero-iraniana, la Baghaï ha vissuto e studiato in molti paesi. In Etiopia, dove ha soggiornato parecchi anni, ha aderito profondamente alla religione tradizionale (culti zar a base di possessione e trance) che costituisce un sostrato comune per cristiani ortodossi e musulmani. La Baghaï fa riferimento alla trance che cura (ai culti zar che durante il Derg il governo ha cercato di estirpare violentemente e che coinvolgono, più o meno segretamente, più o meno direttamente, molta parte della popolazione) e al mito amhara più radicato nel paese, quello di Salomone e della regina di Saba, o Saba, e del loro figlio Menelik. A esso si connette il furto dell’Arca dell’Alleanza da parte di Menelik che, secondo la tradizione, portò in Etiopia, da Gerusalemme, l’Arca, la reliquia più importante per il popolo Israele che, si dice, sia ancora conservata in una delle numerosissime chiese, forse ad Axum? Intorno a quel mito si è costituita, per molti secoli e fino a tempi recenti (l’ultimo imperatore Haile Sellesie è stato deposto nel 1974), l’ideologia della monarchia imperiale, strettamente legata alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia. La pièce presentata al Goethe Institut con lettura di brani da parte di attori del Teatro Nazionale di Addis Abeba nel 1996, ha suscitato, al termine della prima, un acceso dibattito tra il pubblico; l’autrice che, per il suo carattere schivo, non era presente, contava molto sul coinvolgimento degli spettatori, che vi è stato ed è stato manifestato apertamente. Non ci si aspettava da una donna non Etiope un lavoro di penetrazione così profondo nella cultura e negli assetti mitici e politici del paese, tanto più coinvolgente in quanto presentato in chiave poetica, utilizzando canti e musiche tradizionali e servendosi delle metafore complesse di quella cultura antica, orale e scritta, perfettamente recepite dagli interpreti e dallo stesso pubblico. Per una personale consonanza con le tematiche trattate desidero proporre in sintesi questa esperienza teatrale dando conto, anche se indirettamente, delle reazioni del pubblico che ad Addis Abeba, nel 1996, ha assistito alla prima rappresentazione, ma anche, e soprat2
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tutto, per mettere in risalto un’azione teatrale collettiva che ritengo significativa (molte persone sono state coinvolte nella sua realizzazione), e questo tanto più oggi in un momento in cui chi, nel teatro, è più attento, fa riferimento a «centri di cultura sotterranei, nascosti, estranei alle correnti principali soprattutto del mercato», luoghi che stanno creando il futuro che è «legato all’ arrivo in Occidente di persone da altri continenti»3. La transculturalità, la Baghaï la pratica da sempre, l’ha sentita sempre parte di sé, anche dolorosamente – dice di essersi sempre sentita “esule” – avvicinando con empatia i popoli e le culture che ha incontrato e con i quali ha interagito (dall’Iran all’Afghanistan, dall’Etiopia all’Egitto) grazie ai quali si è formata, guidata da un imperativo etico: la compassione nel senso etimologico del termine che unisce alla convinzione che, a salvarci, possano essere l’arte e l’impegno. Questo ha inteso trasmettere agli interpreti del suo lavoro e loro al pubblico. Ora vive in Puglia dove dice di sentirsi finalmente “a casa”. Qui ha preso corpo la “seconda anima” della pièce: fare conoscere ai giovani, dall’interno, culture altre, facendo teatro senza aggettivi4, in un momento storico che manifesta derive di intolleranza, ma, soprattutto, una forte carenza di elaborazione estetica: di qui il suo apporto al laboratorio teatrale del Liceo Classico “Calamo” di Ostuni, che è valso ai giovani interpreti de Le porte di Saba il Premio Delfino d’Argento 2013. Tre Porte: con le braccia di cui sono dotate, si coprono occhi, orecchi e bocca, richiamando un’icona tradizionale ampiamente diffusa nel paese che si riallaccia a un motivo orientale (di ascendenza giapponese) che, in Etiopia come in molte parti del mondo, non assume il significato dell’originale principio proverbiale del “non vedere il male,
Biagini 2016, p. 279. Il suo è un teatro laico, coraggioso, che scava nelle profondità dell’io, attingendo qui all’etnografia dell’Etiopia, in altri lavori a quella di altri contesti, quali, per esempio, l’Afghanistan, ma sempre e in quanto “pretesti”- senza nulla togliere alla qualità delle fonti – per arrivare all’uomo, alla sua essenza, percorrendo vie differenti, come suggerisce l’esperienza della trance, alla quale ho fatto riferimento, in questo volume, nell’articolo Trance e teatro, teatro e trance: divagazioni (2018). 3 4
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non sentire il male, non parlare del male”, ma rinvia a una situazione in cui si ignora deliberatamente qualcosa5. Le Tre Porte immettono alle soglie di una città (non nominata) dell’Etiopia, percossa da una pioggia battente (una sorta di diluvio), che sembra abitata solo da Bambini costantemente insidiati da iene sanguinarie. I Bambini, sulla scorta di una profezia, riconoscono in Saba – che ha raggiunto la città dopo un lungo viaggio – la madre salvatrice e le raccontano il dramma della loro terra. La popolazione è stata colpita da Tre Mali e divisa dietro Tre Porte che li rappresentano, ciascuna delle quali dà accesso a un mondo in cui vive la generazione dei Padri. Le Tre Porte corrispondono ai tre mali che hanno colpito i Padri i quali, annichiliti, non comunicano, hanno perduto i tratti dell’umanità essendo divenuti alcuni sordi, altri ciechi, altri muti a seconda di come hanno reagito al massacro dei propri figli uccisi dalle iene, la soldataglia di Mengistu6 (chiamata in Etiopia con questo nome). Le iene, nel dramma, sono il “coro”. La sola connessione tra le Tre Porte è stabilita dal sacrificio quotidiano dei Bambini che portano il cibo dietro le Porte e dedicano la vita all’impossibile relazione degli universi separati dei padri che vegetano tristemente, disinteressati a quanto avviene fuori, neppure alla vita della generazione dei figli. All’ arrivo nella città senza nome, dopo un lungo cammino che ripercorre in un monologo, Saba, il futuro dell’Etiopia, si dichiara loro “Tre” è un numero ricorrente nella cosmologia e nella mitologia dell’Etiopia dove significa – come in altri contesti culturali – la pienezza, la completezza, la perfezione di qualunque attività o realtà, nel male e nel bene. Tre sono i cerchi del potere (l’accampamento dell’imperatore durante le campagne militari era organizzato in tre cerchi concentrici: in quello centrale stava il sovrano, e i dignitari, a seconda del rango, erano disposti nei due cerchi esterni); sul tre si fonda il principio architettonico della Chiesa Ortodossa d’Etiopia: ogni chiesa è costituita da tre cerchie murarie (in quella più interna è situato il sancta sanctorum). Tre sono i cibi base della cucina tradizionale (il berberé, mistura di varie spezie con peperoncino, lo jnjera, crêpe di farina di t’ef, cereale diffuso sull’Altopiano dell’Etiopia, fermentata a lungo prima di essere cotta, e il tella, birra prodotta dalla fermentazione di grano, orzo e miglio). Tre le zone agroclimatiche (qolla, a clima tropicale tra i 1000 e i 1700 m. slm.; woina dega, zona subtropicale compresa tra i 1700 e 2400 m.; dega, zona a clima temperato compresa tra i 2400 e 3500 m.). Tre i colori della bandiera (verde, giallo, rosso); tre gli strumenti musicali tradizionali: il tamburo, il masenko, il krar. E si potrebbe continuare. 6 Il dittatore Mènghistu Hailè Mariàm, il Negus Rosso, ha governato l’Etiopia dal 1977 al 1991. 5
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madre legittima, rivendicando la propria maternità di fronte al mondo e riportando all’attualità il mito su cui si fonda l’identità del Paese. Il dialogo tra Saba e i Bambini7, costituisce la struttura portante dell’azione. Uno di loro, Ginbot, ingannato da una iena sarà ucciso. Saba, disperata, lo cerca e chiede l’aiuto di mama, una bale zar che è da tempo in attesa di una sua visita. Un mistero antico si nasconde dietro le Porte: per svelarlo, è necessaria la metamorfosi di Saba/Madre Etiopia, “progenitrice” della stirpe dei re “salomonici”. La metamorfosi avviene grazie all’intervento della bale zar (che significa “signora degli spiriti”) il cui nome, Immawayew, vuole dire “Madre mia come stai”, coprotagonista del dramma. Sono le due Madri a dominare la scena. Mama, ripercorre la lunga vicenda di dolore, di odi e rivalità che ha segnato l’Etiopia e, raggiunto lo stato di trance (autoindotta), invita i Bambini a mettersi alla ricerca del “Cavallo di Salomone”, un manichino sotto cui stanno i Padri che, con più gambe, ballano insieme e rappresentano, ingannevolmente, l’agognata unità del paese. Il cavallo viene intrappolato e portato al cospetto di mama che interroga i Padri i quali, invece di parlare, cantano un’insensata filastrocca, che evidenzia il valore simbolico del numero tre nella cultura tradizionale dell’Etiopia, nulla di più. A questo punto inizia il viaggio di Saba all’inferno. Con la mediazione della bale zar, attraverso un percorso in cui il tre, numero della perfezione, e diventato due (uno dei Tre Bambini è morto, a significare che una parte del popolo è stata annientata)8, compie un rito di passaggio, riceve un’iniziazione, grazie alla quale può andare oltre le Porte, nel regno fisicamente irraggiungibile di Salomone e dei suoi demoni9. I Bambini si chiamano: Ginbot (destinato a morire) nome di un mese del calendario etiope, all’incirca il nostro mese di maggio (mese sfortunato perché portatore di malattie); Tekemt, nome del mese che segna la fine della stagione delle piogge e il capodanno etiopico (nostro settembre-ottobre); Gursha che significa “bocconcino” o anche “mancia” quella che chiedono i piccoli mendicanti. 8 Il due riporta alla dualità di base delle opposizioni: carestia-povertà/speranza-sfida per il meglio; bambini/madre; re dominatore/regina sottomessa; Terre Bianche (il paese lontano, fuori dall’Africa, da cui Saba proviene)/Terre Rosse (la terra africana in cui ritorna). 9 Corano, sura 34, 14-16, La Tribù dei Sabâ: «14. E quando decretammo per lui la morte, la sua morte la seppe mostrare [ai jinn] solo un animale della terra che rose il bastone; quando allora cadde a terra apparve chiaro ai jinn che, se avessero conosciuto l’invisibile, non sarebbero rimasti in quella pena umiliante. 15 Invero i Sabei ebbero nella loro di7
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Articolato in cinque parti e un epilogo lo spettacolo ruota intorno al duplice viaggio di Saba (dalle Terre Bianche, l’Occidente, agli Altopiani d’Etiopia e, dalla città senza nome, all’inferno). La regina indossa una maschera di sofferenza che la fa sembrare vecchia su un corpo giovane, vecchia come lo è il paese per il peso di una storia trimillenaria e per i dolorosi eventi che segnano il presente, ma che, come il suo corpo fa intendere, è aperto alla speranza. Dalle Terre Bianche, dunque, è arrivata all’Altopiano guidata, almeno così crede, dalla voce di Salomone che la “cavalca”, come uno zar cavalca i posseduti, che nei culti zar sono detti i “cavalli” dello zar. Qui incontra le iene che promettono oscurità: Coro delle iene Dio farà piovere/Quella pioggia che dovrà cadere/Sulla terra/Perché sia soltanto oscurità.
Saba crede di essere posseduta dallo spirito del re che l’ha maledetta, in realtà è la bale zar a manifestarsi in questa veste, o meglio, in prospettiva emica, è uno degli spiriti che possiedono Mama a esserle entrato in testa facendole credere di essere Salomone. È questo spirito che le ha ordinato di partire: vuole che comunichi la sua maledizione contro l’Etiopia (la sua discendenza) per il furto dell’Arca dell’Alleanza compiuto da Menelik10 e l’avrebbe portata in Etiopia, dove il mito dell’Arca è ancora oggi vivissimo11. Per questo orrendo crimine, Salomone ha lanciato la sua maledizione:
mora un segno: due giardini, a destra e a sinistra. «Mangiate di ciò che vostro Signore vi elargisce e rendeteGli grazie.» Una buona terra e un Signore indulgente, 16 ma si allontanarono, sicché inviammo contro di loro il travolgente flusso della diga, e cambiammo loro i due giardini in due giardini di frutti amari, tamarisco e poche piante di loto» (2004, pp. 215, 875). La fonte dei versetti è il Testamento di Salomone (2013), uno pseudoapocrifo dell’Antico Testamento che risale al I-II sec. d.C. L’opera si è conservata nel greco della koinè, ma si ritiene sia stata scritta originariamente in aramaico o ebraico. È scritta in prima persona, attribuendo al re il racconto della vicenda che lo vede protagonista, che ha inizio con la richiesta di aiuto da parte di un servo vessato dai demoni. Salomone riceve da Dio un anello che gli permette di piegare i demoni alla sua volontà così da costringerli a lavorare alla costruzione del Tempio di Gerusalemme. 10 Secondo un’altra versione del mito, l’avrebbe ricevuta dal padre, cfr. Palmisano 2005. 11 Ivi.
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Saba La sua voce come tuono/ Nella mia testa/ Mi forzava ad andare/ Ed oltre, ed oltre./ E quando, talmente esausta,/ Cadevo nel sonno/ La sua voce tempestosa/ Mi strappava al risveglio/ Così dovevo alzarmi/E ancora camminare…/ Mi frustava e mi colpiva/ Sulla schiena la cui frusta è come serpente12. (Voce di Salomone) Tu sei il cavallo/ Di Salomone/ Tu obbedirai/ Ti arrenderai/ Al tuo signore…/ Fosti la mia regina/ Solo per una notte/ E mi lasciasti / Per partorire/ Il figlio nostro/ Nel tuo regno,/ Assai lontano./ E lo crescesti per essere ladro./ Tu piccola regina/ Di una terra maledetta/ Tu sei il mio cavallo adesso/ E ti schiaccerò/ E schiaccerò i tuoi figli. Saba Ed io sono qui/ Il mio corpo è giovane ed elastico/ E il mio volto è rovina/ Solcato dalle pene/ Indosso la maschera delle madri orfane,/ Qui a testimoniare La sua vendetta/ La distruzione del nostro seme/ Pioveva/ Diluviava/ Quando giunsi /In città questa notte./ Le parole della strega delle Terre Bianche/ Mi tornarono alla mente/ Mentre mi aggiravo in cerca di compagnia…/ La città è inondata,/ Torrenti scorrono/ Per le strade/ Innumeri case/ Si sono accasciate,/ briciole di torta/ In una tazza di tè.
Una Strega Bianca aveva fatto delle predizioni alla regina, leggendo nei tarocchi le carte del Carro, dell’Eremita, della Morte13 dicendole: «Fuori dal contesto del Cristianesimo Ortodosso e dell’Islam, nel Corno d’Africa si praticano culti legati alla credenza in un mondo di divinità minori e di spiriti che talvolta “discendono” sugli uomini. Questi spiriti, numerosissimi, hanno i più diversi attributi e sono ritenuti capaci di poter affliggere gli uomini con le loro volontà e i loro progetti. Spiriti che cavalcano, frustano, colpiscono o mordono gli umani sono metafore di questa relazione fra mondi posti su piani diversi della realtà e mostrano comunque la forte credenza nell’esistenza di ben altro della semplice materia dell’universo» (Baghaï 2008a, p. 37). 13 Il Carro nei tarocchi è la settima carta degli arcani maggiori e rappresenta di solito un re o un guerriero che guida un carro trainato da due cavalli, spesso di colori diversi, che vanno in direzioni differenti, che, secondo alcuni, rappresentano le due colonne del tempio di Gerusalemme (Boax e Jachin); i cavalli possono rappresentare la capacità di guidare il corso degli eventi e la scelta. Il Carro è anche collegato alla simbologia platonica dell’anima che, dopo la morte nell’Empireo, viene trascinata in due direzioni da un 12
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«Tu sei la madre dei poveri…», preannunciandole un viaggio difficile e invitandola a seguire l’upupa, l’uccello di Salomone14, che è anche l’uccello bianco di Abbo, il santo che nella tradizione cristiano-ortodossa dell’Etiopia e in quella dei culti zar ammansisce le fiere15. La maledizione di Salomone colpisce i figli di Saba: Ginbot nel cui nome, s’è detto, è contenuto il presagio della fine, è morto e non si vede via d’uscita. La bale zar parla a Saba in nome del popolo, stando ferma al crocevia delle fedi: Immawayew Io sono il bale zar/ Io sono il popolo/ [rivolta Saba]/ Ascoltami! Tu piccola regina/ Di una terra maledetta/ Perché io sono il legame/ Fra una leggenda/ E l’altra./ Resto in piedi, al crocevia/ Delle nostre fedi.
Rivela a Saba di essere stata lei stessa – sua discendente – non il fantasma di Salomone ad averle avvolto la testa, a farla partire dalle Terre Bianche. Inizia lo scavo nell’interiorità di Saba: la bala zar le fa capire che deve spogliarsi dei suoi fantasmi, deve andare all’essenza del suo io per comprendere, per cambiare, prima personalmente, poi per indurre cambiamenti nei suoi figli. Se la prima parte del suo cammino è stato viziato da “sogni e insane fantasie”, ora mama la guida a compire in trance un cammino
carro in cui gli unici due cavalli, bianco e nero, vanno l’uno verso il basso (l’Istinto) e uno verso l’alto (la Ragione). L’Eremita è il nono arcano maggiore e annuncia sia la fine sia il principio: dopo la perfezione dell’otto, l’unica evoluzione possibile è la crisi, il passaggio verso l’ignoto: il nove rappresenta la rottura, ma anche la grande saggezza. La Morte è il tredicesimo arcano maggiore ed è rappresentata come uno scheletro con la falce: è anch’essa simbolo di trasformazione e rinascita e rappresenta la fine di un ciclo e contiene il messaggio che tutto cambia e si evolve. 14 L’upupa, nella letteratura ebraica, araba e persiana è un uccello portatore di buone notizie, attributo della regalità e della nobiltà: alla fine della ricerca – aveva profetizzato la Strega Bianca – arriverà l’ora della verità. Nel mito tradizionale di Salomone e Saba – che riprende i versetti del Corano – l’invito alla regina da parte di Salomone arriva attraverso la sua upupa ammaestrata, che trova Saba a Marib, nel santuario, cfr. Palmisano 2005, p. 47. 15 Di Gebre Menfis Qeddus, detto Abbo, si narra che perfino le belve più feroci lo amassero e divenissero mansuete quando si avvicinavano a lui. Nel deserto, bevendo le sue lacrime generosamente offerte loro, gli uccelli si dissetavano.
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attraverso cui potrà essere la regina di se stessa. Non è stato Salomone a portarla alla città senza nome, ma lei stessa: Immawayew Per lo meno adesso sai/ Che non c’è voce/ Né spirito di Salomone. […]/ Ti ho richiamato indietro/ Dalle Terre Bianche/ È giunto il momento./ Chi ti ha chiamato/ Oltre a me?/ Che ne sai del mio potere?/ La tua testa era/ Così piena di non senso/ Che dovetti usare/ Le tue stesse immagini/ I tuoi sogni/ E le insane fantasie/ Per condurti qui/ Passo dopo passo…/ Ma tu soltanto sei/ La Regina di te stessa/ Ingannata passo a passo/ Dalla tua presunzione./ Soltanto un re,/ Tu credi,/ Ed il più saggio fra tutti/ Oserebbe chiamarti. / Per lo meno adesso sai/ Che non c’è voce/ Né spirito di Salomone.
Ci si immerge nell’atmosfera di una seduta di zar (hadra), durante la quale Saba, inizia un viaggio di conoscenza. Immawayew che, secondo la religione tradizionale d’Etiopia, è posseduta da molti spiriti – per questo è in grado di dominarli – ne chiama a raccolta quarantaquattro e parla per bocca di alcuni di loro, cambiando il timbro della voce, come avviene nelle sedute zar (e, in genere, nei culti a base di possessione) quando lo spirito parla per bocca del posseduto. Immawayew è una “grande posseduta” capace di dominare gli spiriti che attraverso di loro guida la seduta16. Al suo canto Saba esce da sé (una trance guidata e regolata che contempla i passaggi tradizionali del culto zar: il rituale del servizio del caffè e la masticazione del chat, pianta lievemente allucinogena che la induce a fare il gurri); la trance viene raggiunta grazie a movimenti indicati dalla bale zar che consiglia la regina di guardare l’ondeggiare della tenda, di abbandonarsi al moto delle onde: Saba Mi sento frastornata/ Come se la mia mente/ Lasciasse il corpo Immawayew Bevi il caffè/ Mastica le foglie/ Recita una preghiera/ Per il cammino. /Amin, Amin!/ Lancia noccioline/ Nella tua bocca./ La strada Sulle caratteristiche del culto zar classico, rinvio agli scritti di Michel Leiris introdotti e tradotti in Budriesi 2017. 16
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è curva/ Guarda la tenda/ Come ondeggia/ Segui i suoi movimenti /E ondeggia tu stessa,/ Sei ancora qui/ O sei partita?/ Muoviti lentamente/ Le onde trascineranno/ La tua mente/ La strada è tutta curve/ Le iene sono in agguato.
Raggiunto lo stato di trance (una trance di visione, un sogno carico di pathos), Saba, il cui corpo è rimasto in casa della madre Immawayew, bussa alla Seconda Porta, dietro la quale è scomparso Ginbot. Oltre la Porta, nel Secondo cerchio, dove si aspettava di trovare le iene, viene accolta dai demoni di Salomone che la tirano da tutte le parti, strappandole i vestiti. Entrata nel Terzo cerchio, oltre la Terza Porta, le appare un re vecchissimo, una mummia seduta su un trono che indossa abiti di corte, la testa, piegata in avanti, è appoggiata a un bastone. Davanti a lui, il corpo morto di Ginbot. I demoni le dicono che resterà lì per sempre a piangere il figlio morto e sbattono la porta dietro le sue spalle. In seguito a questo colpo, che fa tremare il pavimento, il re cade dal trono e si dissolve in una nuvola di polvere. Anche il bastone a cui si appoggia si sbriciola, roso dalle termiti (sura 34 del Corano)17, mentre Saba culla dolcemente il corpo del Bambino. Il viaggio è concluso. Nella capanna di Immawayew si consuma il dramma a finale aperto: non piove più, i raggi filtrano attraverso la paglia del tetto. Mama canta per Saba e, tenendola tra le braccia, la culla affinché esca dalla trance e rientri nel suo corpo. La regina si sveglia e racconta quello che ha visto: il re è ora soltanto polvere ciò che resta dei fantasmi è il piccolo cadavere di Ginbot e un interrogativo che richiama ciascuno alle proprie responsabilità. Ora può gettare la maschera che la rendeva vecchia – mama la schiaccia sotto i piedi – così il suo viso è omogeneo al corpo scattante. È la Madre Etiopia di oggi, un paese giovane, pronto alla sfida con il futuro, avendo vissuto una trasformazione interiore, attraverso un viaggio iniziatico lungo la sua storia e la storia del Paese. I miti salomonici, su cui si sono fondate, per secoli, la tradizione imperiale amhara e
Corano (sura 34: 14) [riferito alla morte di Salomone ripersa nella pièce] 14. Quando poi decidemmo che morisse, fu solo la “bestia della terra” [la termite] che li avvertì della sua morte, rosicchiando il suo bastone. Poi, quando cadde, ebbero la prova i dèmoni, che se avessero conosciuto l’invisibile, non sarebbero rimasti nel castigo avvilente (p. 215). 17
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cristiana e la società che li ha sostenuti, si sono dissolti, come si è polverizzata la mummia di Salomone. Saba Mama [si rivolge a Immawayew] Ho visto il re, morto/ Sul suo trono,/ Ha imperato/ Sulla sua terra/ Per tre millenni,/ I demoni/Lo hanno servito/ Finché il suo bastone/ Non si è sbriciolato,/ Hanno sacrificato/ Innocenti/ Sull’altare di una mummia. Immawayew Il popolo è libero/ Gli usurpatori sconfitti./ Che dice il tuo cuore?/ Tu dici/ Sei stata e hai visto,/ Ma sei davvero stata?/ Hai avuto un sogno./ Il tempo è giunto/ Di togliere la maschera/ Di madre orfana/ Di sofferente./ Svela il tuo volto/ E lascia che la schiacci/ Sotto il mio piede. Saba: E il figlio mio/ Giace morto/ All’ombra di un trono/ E non era un sogno. Immawayew: Quale prezzo/ Sei pronta a pagare/ Per redimere la tua terra?/ Non puoi sempre/ Salvarti con un agnello.
Il riferimento è al sacrificio di Isacco che viene risparmiato, nel momento in cui Abramo è pronto a immolarlo; al suo posto, Iahvè gli comanda di sacrificare un agnello (Genesi, 22, 1-19): «Non sempre Dio è così misericordioso» dice la saggia bale zar18. Immawayew attraverso Saba sfida gli spettatori: «quale prezzo siete disposti a pagare per la vostra terra?»19. Quando Immawayew proclama: «Un Tre diventa Due», alludendo alla morte di uno dei Tre Bambini, assume un atteggiamento realistico, tipico del ruolo, anche attuale, dei bale zar, che l’autrice ha conosciuto. Figure complesse, forti (pur sentendo tutto il peso di un ruolo, che alla fine “sfinisce”), saggi gestori dei problemi sociali, uomini e donne a cavallo tra passato, presente e futuro, interpreti dei cambiamenti della società, mediatori tra la gente che soffre e si affida a loro, e il mondo ostile. 19 «La fine della guerra civile nel Corno d’Africa non ha significato immediatamente la soluzione della contrapposizione tra due generazioni, in Etiopia. Non ha neppure signifi18
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Un accenno alle reazioni del pubblico che, ad Addis Abeba, ha assistito, oltre vent’anni or sono, alla prima rappresentazione, de Le Porte di Saba – in cui a predominare sono stati i canti e le danze tradizionali – secondo quanto ho potuto raccogliere da resoconti di alcuni partecipanti e vedere attraverso filmati, anche se non completi. L’evento ha sorpreso e disorientato gli spettatori e li ha indotti, anche se non era facile, come non lo sarebbe neppure ora, ad aprire un dibattito su temi di forte attualità. Alla fine dello spettacolo hanno preso la parola, tra gli altri, tre noti registi del paese che hanno sintetizzato posizioni serpeggianti tra il pubblico, sulla base di un testo, messo in scena da attori del Teatro Nazionale, scritto da donna non etiope, rappresentato da attori etiopi, che andava a toccare aree sensibilissime (quali la possessione e la trance), da molti volutamente tenute nascoste anche per il timore di subire persecuzioni politiche, allora come oggi, secondo la mia esperienza diretta. Scrive uno spettatore partecipante: «Dall’uno [dei tre registi] Ariane Baghaï era considerata una Etiope traditrice della cultura degli Amhara: avrebbe messo in piazza tematiche troppo “intime”, ovvero che toccavano corde sociali, politiche e religiose straordinariamente tese, relative a questioni etniche attuali. Per l’altro essa era una sorta di esiliata, fuoriuscita dal paese con tutta la famiglia ai tempi del Derg, comunque ora rientrata – pertanto davvero benvenuta – e pronta a partecipare attivamene alla rinnovata vita sociale e politica: una sorta di icona della donna d’Etiopia, politicamente e socialmente impegnata e determinata. Dall’ultimo, era vista, invece, come una donna che molto, anche troppo, si era addentrata nella mistica pagana e nei culti esoterici d’Etiopia: eterodossa rispetto all’Islam e rispetto alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia». (Palmisano 2008, p. 145)20. cato in sé la reinterpretazione di un passato nel quale tutti del resto sono ancora coinvolti», Palmisano 2004, p. 58. 20 A distanza di alcuni anni (2008) Ariane Baghaï riflette sulla pièce: «Il soggetto di questo etnodramma … si è imposto da solo. Era la vita nell’immediato dopoguerra; è quindi nato nel contesto, nella società, nella vita di tutti i giorni che abbiano condotto in Etiopia tra il 1992 e il 1996». Quindi nota che: «la seconda anima della pièce è quella di accompagnare, di introdurre una cultura altra in un contesto altro. Agli inizi del 2000 il regista Alessandro Fiorella [ballerino e coreografo e] docente al Liceo classico “Calamo” di Ostuni, chiede la traduzione della pièce e si ripropone di metterla in scena […] mi sono messa a disposizione per seguire l’adattamento del testo alle esigenze della sceneggiatura, la descrizione degli ambienti, i costumi, la pronuncia dei vocaboli specifici….Tutti i
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La carica simbolica contenuta nella messa in scena della “trance che modifica”, del viaggio iniziatico che può salvare l’io e l’Altro partendo dalla profonda conoscenza di sé, dall’autopenetrazione dell’Io/ Saba (a cui si connette la messa in discussione del mito fondante la storia del Paese, quello di Salomone e dell’Arca dell’Alleanza) è stata empaticamente recepita da chi ha partecipato all’evento potendola decifrare, ma non necessariamente identificandosi. Se al teatro si richiede l’imprevedibilità, a tutti i livelli, credo si possa affermare – sulla base delle testimonianze raccolte – che questa dimensione sia stata còlta, che la pièce sia penetrata negli spettatori21. Attraverso i gesti e le voci (variamente modulate secondo la tradizione dello zar) di una seduta di trance di possessione e di visione, la danza ritmata del gurri, il viaggio fuori di sé, il pubblico è stato chiamato a percorrere la via dello zar, la via della trance, che permette un cambiamento interiore dai risvolti e dalle risonanze ampi: alla fine di un itinerario dentro l’Io che ha liberato Saba/Etiopia dai suoi fantasmi, il mito di Salomone si polverizza come la sua mummia per lasciare spazio a un presente collettivo dove possono convivere etnie e culture differenti. Saba/Etiopia esce dal viaggio interiore modificata, ringiovanita. In scena, dunque, la potenza e la complessità di un universo, culturale e politico /religioso problematico, sul quale si è fondata l’etnograsimboli, i giochi di parole, le allusioni al culto degli spiriti ecc., come anche la struttura politica del paese hanno stimolato la curiosità dei ragazzi…. E così, giocando a fare gli etiopi, diventando ragazzi di strada, iene spietate, padri delle Tre Porte, regine di Saba (interpretata da 3 ragazze…) hanno conosciuto emotivamente un nuovo mondo e hanno presentato la loro interpretazione di questo mondo “altro” agli spettatori… ma anche ai componenti delle Commissione del festival del teatro Europeo a San Remo, arricchendosi culturalmente e gratificandosi con il conseguimento del premio “Delfino d’Argento” nel 2003 (Baghaï 2008b, pp. 7, 12). 21 Possiamo riferirci, a proposito del processo di costruzione e di messa in scena di questa pièce, a quanto scrive De Marinis sul rapporto tra antropologia e teatro: «Potremmo avanzare l’ipotesi che, all’origine tanto dell’antropologia quanto del teatro moderni, ci siano un Io e un Altro e la relazione degli sguardi che li lega. E, in entrambi i casi, la direzione primaria dello sguardo, e con essa quindi la direzione primaria fra osservante e osservato, è raddoppiata da una direzione opposta che inverte i ruoli, trasformando l’osservante in osservato, e viceversa. A teatro […] lo spettatore rappresenta l’osservante primario, pur essendo nello stesso tempo l’osservato: anche l’attore infatti guarda lo spettatore, e lo guarda con quello stesso miscuglio di curiosità, diffidenza e sorpresa che è intrinsecamente alla base di ogni relazione con l’altro e della fascinazione che la sostanzia.» (De Marinis, 2011, p. 11).
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fia dell’Etiopia, dove il mito Salomonico illustra il conflitto plurisecolare tra il gruppo Amhara e il gruppo Tigrino22 in un Paese costituito da un “mosaico di popoli”, almeno 77-78 gruppi etnici23 usciti da una sanguinosa guerra civile e, soprattutto la forza del lavoro sul corpo che permette di uscire da sé per ritrovarsi trasformati. Il messaggio lanciato al pubblico, legato profondamente alle tradizioni culturali e religiose del paese, possiede un’indubbia valenza universale che si giova anche delle recenti scoperte in ambito neuroscientifico: la mente ha la capacità di determinare modificazioni nell’individuo, di portarlo, dopo un lavoro su di sé, magari aiutato da una “guida”, a riconoscere il corpo dell’essenza, ovvero «lo sviluppo di qualcosa che ognuno possiede allo stato embrionale e potenziale, l’equivalente che in altre mitologie si chiama “corpo di gloria” o “corpo senza organi”, comunque il corpo affrancato dalla miseria della materialità “sociologica”» presuppone che «all’espansione della coscienza [attraverso esercizi mirati, nota mia] corrisponda anche un non meno importante lavoro a togliere, una progressiva liberazione dagli automatismi, dai condizionamenti e da ciò che si crede di credere»24. Bibliografia Attisani, Antonio L’arte e il sapere dell’attore, Torino, Accademia University, 2015. Baghaï, Ariane Sheba’s Doors, Addis Ababa, Goethe Institut and United Printers, 1996. Le Porte di Saba in Baghaï, Ariane, Etnodrammi. Tre incursioni nella drammaturgia etnografica, San Cesario di Lecce, Pensa, 2008a, pp. 23-111. Linguaggio giovanile: il teatro come linguaggio per la trasmissione e la comprensione dell’“altro”, in Bonvecchio C., Dabbeni G., Megna G., Tonchia T. (a cura di), Atti del Convegno, Fra Oriente e Occidente: Trieste e le nuove forGli Amhara hanno propugnato una teoria centralistica della società: uno stato in termini imperiali, sicché per l’Etiopia l’antropologia politica del Corno d’Africa parla di “colonialismo interno” di dimensioni largamente superiore a quelle rappresentate dal colonialismo europeo. Le società non Amhara sono state sottomesse militarmente nel corso dei secoli (Palmisano 2005, p. 54). 23 Conti Rossini 1929. 24 Attisani 2015, p. 261. 22
Le Porte di Saba di Ariane Baghaï
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me di comunicazione e linguaggio giovanile, Centro Studi Eliopolis, Trieste, 25 ottobre 2007, Udine, Edizioni Goliardiche, 2008b, pp. 7-12. Biagini, Mario Ai confini del teatro: il Workcenter of Jerzy Grotowski e Thomas Richard, in Cuppone (a cura di) 2016, pp. 271-280. Budriesi, Laura Michel Leiris sui palcoscenici della possessione, Etiopia e Haiti. Scritti 19301983, Bologna, Pàtron, 2017. Conti Rossini, Carlo L’Abissinia, Roma, Cremonese Editore, 1929. Corano (il) Traduzione e apparati critici di Gabriela Mandel, Introduzione di Khaled Fouad Allam, testo a fronte, Torino, Utet, 2004. Cosentino, Augusto (a cura di) Testamento di Salomone; Testi patristici, Roma, Città Nuova, 2013. De Marinis, Marco Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, Firenze, La Casa Usher, 2011. Palmisano, Antonio Luigi Salomone e Saba: il mito nei processi politici e giuridici, in Bonvecchio C., Dabbeni G., Tonchia. T. (a cura di), Atti del Convegno Miti Antichi e Miti Moderni, Centro Studi Heliopolis, Trieste, 2 dicembre 2004. Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2005, pp. 43-63. Il teatro e la trance: drammaturgia etnografica o etnografia drammatica?, in Baghaï, Ariane, Etnodrammi, 2008, pp. 11-20.
Khush Hal Nameh: un’esperienza etnodrammaturgica in ambito scolastico 1
Veronica Boldrin
Abstract Khush Hal Nameh: an ethno-dramaturgical experience in a school setting The understanding of the Other is today hindered by contemporary grands récits. Theatre workshops, a fundamental factor in what schools have to offer, play an important role of mediator in the relationship between the kids and the ‘School’ institution: it teaches them to take a position, both in the context of non-daily behavior on the stage and in the profession, in the group with which they are working, in the social context which they live in or in relation to what they accept and what they refuse. Thus the theatre workshop becomes the space where they can consider their social and political relations and, possibly, putting under discussion their own and others’ roles. The ethnographic emotion aroused by the ethnodrama Khush Hal Nameh, projects actors and spectators directly into afghan society revealing its intrinsic dynamic quality and the most intimate dreams and anxieties of its members, social actors who are incessantly involved in the construction of their social world. During the so-called rehearsal process, in fact, the student-actor contends with the processes of framing and of keying (that is the transformation of reality into material for the performance): putting an ethnodrama on stage does not simply mean playing the Other, but implies also becoming and so being the Other, at least for a certain interval of space-time. Indeed, to feel suffering and joy, to tremble and vibrate with the Other. This is what emerges basically from the accounts of the children involved. Keywords: theatre, ethnodrama, performance, Other, Ariane Baghaï Questo articolo è la versione riveduta e corretta di Boldrin, V. “Khush Hal Nameh: dal teatro all’emozione etnografica”, in DADA Rivista di Antropologia post-globale, www. dadarivista.com, n. 1 Giugno 2011, 2013:71-84. 1
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Scuola, teatro e etnografia La comprensione dell’Altro sembra oggi spesso ostacolata dai grands récits contemporanei. Il sapere speculativo col suo riduzionismo cognitivo ha spesso la meglio nella prospettiva di un insegnamento finalizzato alla “performatività”.2 La proposta di introdurre materie antropologiche presso gli istituti di istruzione scolastica superiore non va letta come mera risposta ad un semplice accrescimento di curiosità nei confronti della disciplina, bensì come un’esigenza dinnanzi a quelli che sono i nuovi interrogativi e le nuove urgenze in ambienti che presentano sempre più frequentemente una configurazione multiculturale. Nel vivo proprio di questo dibattito, è apparsa l’iniziativa avviata all’interno del laboratorio teatrale scolastico del liceo classico “Calamo” di Ostuni (BR): nel corso dell’estate 2011 la compagnia teatrale studentesca, sotto la guida del regista Alessandro Fiorella, ha presentato al pubblico Khush Hal Nameh, la pièce etnografica di Ariane Baghaï. L’evento ha destato l’attenzione del Laboratorio di Antropologia Visuale dell’Università degli Studi di Trieste, per conto del quale ho dunque intrapreso delle ricerche sulle connivenze tra antropologia e teatro.3 Assistendo ad alcune delle fasi di prova dello spettacolo, ho avuto modo di esaminare da vicino quelli che sono i processi di rappresentazione e di immedesimazione, ovvero processi di “costruzione di identità altre”, e particolari dinamiche di gruppo. Per l’istituto scolastico il laboratorio teatrale non è solo una pluriennale tradizione, ma, come ha sottolineato Annunziata Ferrara, dirigente dell’I.I.S.S. “Pepe-Calamo”, si tratta di “una priorità”, un tassello irrinunciabile dell’offerta formativa, da promuovere anche in un periodo in cui le difficoltà finanziarie di certo non mancano. Inoltre, l’iniziativa si inserisce entro un progetto volto a far affrontare agli Lyotard J-F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, 1985 (1979), p. 87 e ss. 3 Ho condotto ricerca presso il laboratorio teatrale dell’istituto scolastico d’istruzione superiore “Calamo” di Ostuni (BR) dal 14 al 18 marzo 2011. Durante queste giornate ho incontrato Annunziata Ferrara, preside dell’istituto, Mariella Cupertino, docente e coordinatrice del progetto, il regista Alessandro Fiorella, la drammaturga Ariane Baghaï e il gruppo degli studenti-attori. Nel raccogliere le loro testimonianze così come nell’osservare le prove della messinscena ho effettuato numerose riprese video: “appunti visuali” che si sono rivelati particolarmente utili nella stesura di questo paper. 2
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studenti temi inerenti i concetti di “identità” ed “alterità”. Mariella Cupertino, coordinatrice del progetto, non ha dubbi nell’affermare che “il dramma etnografico che diventa teatro” sia stato uno strumento particolarmente formativo nel percorso dei suoi studenti e ne ha caldeggiato l’impiego anche da parte anche di altri docenti, in quanto “momento molto forte di lettura”, che comporta “osservazione, selezione, struttura e comunicazione intenzionale”. Come ha tenuto ancora a mettere in rilievo la preside, indiscussa sostenitrice e promotrice del progetto, questo approccio alternativo rispetto alla didattica convenzionale favorisce l’acquisizione di ulteriori competenze oltre a quelle rigorosamente cognitive. È l’occasione di “servirsi di nuovi linguaggi e acquisire competenze non-cognitive, che pertanto sono molto importanti nella fase adolescenziale e contribuiscono ad una presa di coscienza del sé e quindi alla costruzione della propria identità.” In ultima istanza, il laboratorio teatrale ha giocato un importante ruolo di mediazione nel rapporto tra ragazzi e istituzione “Scuola”. Proprio come nota Eugenio Barba: «Il training [teatrale] insegna a prendere posizione, sia come comportamento extra-quotidiano sulla scena, sia nei confronti della professione, del gruppo con cui si lavora, del contesto sociale in cui si è immersi: nei confronti di ciò che si accetta e di ciò che si rifiuta».4
Quindi il laboratorio può essere inteso anche come luogo dove ragionare sulle relazioni sociali e politiche, ed eventualmente rimettere in discussione il proprio e gli altrui ruoli. Ma vediamo come poter lavorare su un testo come quello di Baghaï si sia rivelato per gli studenti un’opportunità di confrontarsi con una realtà altra, sviluppando tutta una serie di abilità trasversali. Khush Hal Nameh, ovvero “La vicenda di Khush Hal”, proietta attori e spettatori direttamente all’interno della società afghana rivelandone l’intrinseca dinamicità e svelando i sogni e le angosce più intimi dei suoi membri, attori sociali impegnati incessantemente nella costruzione del loro mondo sociale.5 Protagonisti dell’etnodramma sono i componenti di una famiglia Cfr. Barba E., La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, il Mulino, Bologna, 1993, p. 167. 5 Cfr. Palmisano A.L., “Afghanistan: dal great game al great play?” in Limes, n.3, maggio 2007, pp. 163-168. 4
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afghana di etnia Pashtun. La narrazione drammatica ha inizio con il monologo dell’anziano padre che ritrova due dei suoi figli, separati durante la guerra onde evitare di perderli insieme. Nelle sue orazioni, allo sconforto per lo stato in cui versa il suo paese l’anziano uomo contrappone la gratitudine e la gioia di rivedere i figli superstiti. L’incontro con i due giovani uomini non risulta tuttavia facile: essi hanno ricevuto educazioni molto differenti e hanno pertanto maturato concezioni della vita addirittura antitetiche. Il primogenito Khush Hal, formatosi nelle confraternite sufi, è diventato un mistico musulmano e guarda con rispetto alle istituzioni e tradizioni Pasthun che il padre metaforicamente incarna. Esaltazione e fanatismo emergono invece dai discorsi del figlio cadetto, Barham, invasato da idee talebane, islamiche estremiste e filo-arabe: contesta l’autorità paterna e decanta l’avvento di un “nuovo mondo” in cui “[…] l’umanità intera / Sarà prostrata e sottomessa/ Pronta a seguire con rigore / Tutti i pilastri della fede.”6 Avvertito il fervore del figlio come un potenziale rischio per l’ordine e la pace, il padre intima a Barham di allontanarsi. Frustrato per la sanzione, Barham escogita allora un inganno per estromettere il fratello maggiore e quindi assumere alla morte del padre il ruolo di “Signore del qala”.7 Khush Hal si vede così ingiustamente accusato di aver ucciso l’amico Omeyd, che, in realtà, è stato aiutato ad intraprendere di nascosto un lungo viaggio verso l’Occidente, dove forse riuscirà a guadagnare i soldi necessari per sposare Kharo, la sorella di Barham. Dinanzi al sospetto che grava su di lui, Khush Hal non ha alternativa: solo ritrovando l’amico emigrato potrà comprovare la propria innocenza. Per Khush Hal è “Tempo di migrare/ Tempo di esilio / E solitudine.”8 Nel secondo atto, alle scene dell’avventuroso ed estenuante viaggio di Khush Hal si alternano quelle della vita nel qala, dove le donne vi-
Cfr. Baghaï A., “Khush Hal Nameh” in Etnodrammi. Tre incursioni nella drammaturgia etnografica, Pensa editore, Lecce, 2008, p. 185. 7 Il qala è la realtà architettonica che rappresenta l’identità di un gruppo locale e di un gruppo di discendenza: ha pianta quadrata o rettangolare ed è caratterizzato da invalicabili mura con agli angoli delle torrette di guardia. Le sue dimensioni sono un indice del prestigio e del benessere del clan. Palmisano A.L., “On informal justice in Afghanistan” in Palmisano A.L. e Picco G. (a cura di), Afghanistan. How much of the past in the new future, Quaderni di I Futuribili, I.S.I.G, Gorizia, 2007, pp. 37-76. 8 Cfr. Baghaï A. 2008, p. 202. 6
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vono come prigioniere tormentate dalle frequenti manifestazioni d’ira di Barham. La trama “si svolge” su diversi piani della realtà. Infatti, alcune scene ci portano in dimensioni “altre”, quelle degli stati di coscienza modificati. Si tratta delle scene in cui, stanco e disperato nel suo viaggiare senza meta, Khush Hal mangia il “pane del corvo” (epiteto che indica un fungo allucinogeno usato dai mistici) ed entra in trance. Sullo sfondo delle vicende familiari si delinea un Afghanistan martoriato da ventitré anni di ininterrotta guerra civile, uno scenario dipinto di “polvere e dolore”9, in cui si odono i “lamenti sommessi di bimbi senza madri”10 e si intravvedono “colonne di sfollati”11, “carovane silenziose che lasciano la loro scia di morti senza preghiere e senza tombe”12. Un testo che non può essere letto e recitato in modo asettico, ma che prevede una presa di coscienza di quello che è il contesto politico, culturale e religioso. Come ha asserito Cupertino, il teatro etnografico prevede un esercizio di profonda analisi della realtà: “E se sul piano della narrativa recuperano la fiaba, il mito, la tragedia e l’epica, sul piano antropologico i ragazzi si confrontano con le dinamiche che da sempre animano la vita dell’uomo: la guerra fratricida, il mito di fondazione, l’amore in tutte le sue forme, la pietas contrapposta alla spietatezza, l’animismo dei cori che sono la coscienza, il tema del viaggio …” La dimensione emozionale dell’attività ha coadiuvato la comprensione degli aspetti cognitivi. L’approccio a una realtà “altra” attraverso la recitazione ha avuto funzione inoltre di stimolo alla riflessione e alla lettura critica di fatti troppo spesso soggetti a semplificazioni giornalistiche. Nei panni dell’Altro. Note dal laboratorio Durante il cosiddetto “processo di prova”13 lo studente-attore si misura con i processi di framing (inquadramento) e di keying (cioè di Ivi pp. 174-175. Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Schechner R., La teoria della performance 1970-1983, Bulzoni editore, Roma, 1984; Schechner R., Magnitudini della performance, Bulzoni editore, Roma, 1999. 9
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trasformazione della realtà in materiale da performance).14 La partecipazione di questi giovani studenti, di età compresa tra i 13 e i 19 anni, al laboratorio teatrale scolastico si è rivelata particolarmente significativa nel loro percorso formativo. Il laboratorio ha rappresentato poi uno spazio intersoggettivo in cui tessere e potenziare una rete di relazioni e legami. In questa indagine ci ha interessato cogliere quella che è stata la “struttura dell’esperienza” dei ragazzi coinvolti nell’attività e in particolare come il “mettersi nei panni di” abbia contribuito ad una “comprensione di”, tenendo bene a mente che tali strutture e processi presentano una inscindibile triplicità, essendo contemporaneamente conoscitivi, volitivi ed affettivi.15 Le considerazioni che seguono sono frutto di osservazioni effettuate durante alcune giornate di prova nel mese di marzo e dell’incontro “diretto” con alcuni dei protagonisti di questa esperienza (la coordinatrice del progetto, il regista, l’autrice ed alcuni “attori”). Gli studenti che hanno voluto cooperare in questa ricerca ripercorrendo la loro esperienza e rilasciando le loro impressioni sono stati: Roberta (l’Aquila), Ettore (l’Uccello), Silvia (la clandestina), Donatello (il Gufo), Adriano (Khush Hal), Martina (Kharo), Ilaria (La madre), Francesca (il Corvo I), Domenico (il Corvo II), Marco Antonio (Omeyd) e Antonio (Barham). Questi ragazzi sono stati “intervistati” a gruppi, in modo da smorzare eventuali timidezze o imbarazzi dovuti anche all’impiego di mezzi di registrazione multimediali. I colloqui hanno ben presto assunto un carattere informale e compartecipato. Ampio spazio è stato concesso alla narrazione di aneddoti e ricordi. Tutto ciò ha facilitato una certa genuinità ed elasticità nel ripercorrere le tappe dell’iniziativa. Non sono state sottoposte ai ragazzi domande precise, ma si è piuttosto chiesto loro di elaborare liberamente delle considerazioni a partire da alcuni suggerimenti, a cui si sono presto aggiunte riflessioni e valide argomentazioni sorte in modo del tutto spontaneo. I quesiti posti ai ragazzi riguardavano temi molteplici: cosa ha significato l’esperienza del teatro (e in particolare “questo tipo” di teatro)? Qual è stato il rapporto con il regista? Com’è stato relazionarsi agli altri all’interno e all’“esterno” del laboratorio teatrale? Ci sono state Goffman E., Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore, 2001, pp. 85-86. 15 Cfr. Turner V., Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 1986, passim. 14
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eventuali empatie o difficoltà nell’interpretare il personaggio? Come sono cambiate la lettura e la percezione dei fatti connessi all’Afghanistan in seguito a questo “confronto drammaturgico”? “L’esperienza del teatro è iniziata come un gioco”, ha esordito Silvia “e ora non ne posso più fare a meno”. Le motivazioni che hanno spinto i ragazzi a prendere parte al laboratorio sono state soprattutto la curiosità, nata dopo aver assistito ad altri spettacoli o animata da altri ragazzi (compagni di classe o “amici più grandi”) già membri del gruppo teatrale, e la voglia di “mettersi in gioco e socializzare con gli altri”. In alcuni casi si è trattata anche di una sfida alla timidezza. Sicuramente i successi riscossi dagli spettacoli degli anni passati sono stati motivo di attrazione per nuove adesioni al corso e di incoraggiamento ed emozione per coloro che già ne facevano parte. La partecipazione al laboratorio è stata descritta dai ragazzi come un’attività impegnativa e “non priva di ostacoli”. Hanno sottolineato come fossero richiesti “impegno e dedizione”: i “sacrifici” non sono mancati. Eppure, conversando con questo gruppo, appare immediatamente chiaro che il “fare parte”, o meglio l’“essere parte” del gruppo teatrale sia stato soprattutto motivo di grande orgoglio cosicché si registra nell’intera compagnia un generale entusiasmo. Questo sentimento di “appartenenza” risulta evidente nel momento in cui i ragazzi concordano nel sottolineare l’importanza dei momenti di collettività nella recitazione. Persino coloro che in questa occasione hanno rivestito ruoli da protagonista riconoscono come il “fare parte di un coro”, anche alla luce di loro precedenti esperienze teatrali, sia o sia stato molto formativo. Parimenti chi ha ricoperto ruoli marginali o corali ha comunque percepito la propria importanza nel complesso dello spettacolo. La pièce prevede dei momenti di coralità molto forti. Si pensi alla scena in cui i mercanti maltrattano e si fanno scherno di Khush Hal scambiato per un qalandar,16 oppure al gruppo tumultuoso dei clandestini che si dirige verso il porto, trascinando con sé gli esausti. Far parte di un coro comporta una massima attenzione nel recitato e una maggiore disciplina nei movimenti. Ne consegue un diverso approccio Il qalandar è un mistico dell’ordine della Qalandariyat che abbandona tutto e tutti e si mette a vagabondare. In termini spregiativi è sinonimo di “bevitore di vino”. Cfr. Baghaï A. 2008 p. 218. 16
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alle dimensioni spaziali e temporali, ma soprattutto è il coordinamento con i compagni di scena che deve essere impeccabile. Domenico ha riepilogato così tutte queste argomentazioni: “La bellezza del teatro che facciamo noi non sta nell’avere una parte importante, quanto nel realizzarsi con gli altri.” Sulla scena i componenti di un coro instaurano una action-set coalition,17 per cui si attivano processi di fiducia reciproca. La consapevolezza di perseguire l’obiettivo comune della riuscita dello spettacolo riesce addirittura a far scavalcare eventuali antipatie e dissonanze quotidiane. Si potrebbe affermare che tensione e soddisfazione sono i due estremi di un continuum entro cui si colloca l’esperienza di ognuno di questi ragazzi nel recitare e nel veder recitare i compagni. Una voce fuori dal coro risulta in questo senso Donatello che rivendica il proprio bisogno di visibilità: “Faccio teatro per passione. Per me l’importante è avere una parte che sia un nome: non essere nel gruppo.” Questo “spirito collettivo” ha pertanto effetti anche su quello che è lo stato emotivo dei giovani performer nel momento in cui calcano la scena. Martina parla infatti di una sensazione di energia, un coinvolgimento che raramente si riuscirebbe a rintracciare al di fuori del laboratorio: “Quell’energia la ritrovo solo quando recitiamo. Insieme.” Anche Adriano dà risalto a questo particolare slancio emotivo: “È difficile tradurre in parole le immagini di questa esperienza. Si tratta della cosa che più mi piace fare; nei miei momenti peggiori, mi riempie completamente. Quando recito non sono mai distratto.” Ma se il laboratorio è un momento di aggregazione e confronto che genera una forte coesione al suo interno e livella i contrasti, il rapporto con il mondo esterno non si è dimostrato privo di inconvenienti: “Non tutti apprezzano il teatro, alcuni lo trovano superfluo. Non colgono le emozioni forti dell’attività.” Alcuni ragazzi hanno accusato qualche incomprensione e poca sensibilità nei confronti dell’iniziativa teatrale da parte di qualche docente e di certi loro coetanei. La forte identificazione col gruppo la si può altrettanto desumere anche dal senso di responsabilizzazione di cui alcuni si sentono investiti. C’è chi ha sostenuto di sentirsi responsabile nel trasmettere l’importanza e il valore culturale di questa attività e chi ha affermato di aver il dovere Cfr. Boissevain J., Friends of Friends. Networks, Manipulators and Coalitions, Basil Blackwell, Oxford, England, 1974, p. 186 e ss. 17
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di essere d’esempio nei confronti dei più giovani che si avvicinano per la prima volta al corso di teatro. Entriamo ora nel vivo dell’esperienza e andiamo a scoprire com’è stato rapportarsi con una realtà tanto diversa e lontana e come infine questi ragazzi l’abbiano “interiorizzata”. In questi anni l’Afghanistan è entrato prepotentemente nelle nostre case attraverso la televisione o i giornali. Nella mente dell’occidentale si è affermato spesso come sinonimo di barbarie, anomia, regno dei talebani e della negazione dell’identità delle donne che come “torrette blu”18 s’aggirano per strade polverose, ingabbiate nel loro burq’a. Indossare le vesti, le maschere di questa realtà ha portato i ragazzi a non accontentarsi delle banalizzazioni e dei luoghi comuni mediatici. L’assegnazione delle parti ha seguito una procedura particolare. I ragazzi, presa visione del copione, hanno concordato tra di loro e con il regista la distribuzione dei ruoli. Ognuno ha indicato il personaggio o i personaggi che preferiva, dopodiché sono seguite delle improvvisazioni per confermare o meno la scelta. È stato chiesto ai ragazzi di cercare di spiegare il rapporto con il personaggio interpretato, dai motivi che li hanno condotti alla scelta alle difficoltà drammaturgiche e psicologiche sopraggiunte nell’interpretarlo. Da queste discussioni è emerso che alcuni hanno provato un’immediata simpatia col personaggio, per esempio Adriano, che durante l’intervista ha continuato ininterrottamente a sgranare il rosario di Khush Hal: “Ho letto il copione la prima volta e Khush Hal è stato subito il mio personaggio preferito. […] Alle improvvisazioni nessun altro l’aveva scelto.” “È perché sapevamo tutti che era il suo!”, lo interrompe Francesca, e da un angolo si sente sussurrare Ariane Baghaï: “Me lo immaginavo proprio così!” Anche Ilaria, che interpreta la Madre, ha affermato di sentire il personaggio calzante alla propria personalità: “Si tratta di una donna che ha dei momenti di fragilità, più che comprensibili date le circostanze in cui vive; ma d’altra parte emana un grande coraggio e forza di volontà.” Non tutti hanno però provato un’istintiva sintonia con la propria parte e il primo approccio è stato a volte problematico. Discrepanze 18
Cfr. Baghai A. “The language of the veil”, in Picco G. e Palmisano A.L. 2007, p. 204.
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caratteriali, ma soprattutto questioni di alterità socio-culturale sono state le cause principali del disagio di trovarsi “nei panni dell’Altro”. Martina, che sulla scena è Kharo, si è scontrata con i vincoli e le limitazioni che ogni giovane donna afghana vive. Interpretare questo personaggio è stato in principio faticoso: “Non sapevo come interpretare questa parte che è quella di una ragazza che potrebbe essere come me ma ha un mondo completamente differente di fronte a sé.” Difficoltà iniziali che si sono manifestate soprattutto sul piano emozionale. Martina ha riferito di aver lavorato molto sugli stati d’animo vissuti da una ragazza che deve sottostare a regole sociali rigide e al volere del padre o del fratello, dei quali può avere timore, e che non può esprimere apertamente la propria opinione. Eppure, per Martina, Kharo è un personaggio che conserva una innata vivacità. La rigidità delle norme sociali o l’immobilità delle gerarchie non hanno spento la sua volontà di essere attiva nel costruire la propria posizione e reinterpretare il proprio ruolo. Emozioni che la giovane interprete ha sentito come sue. Nel momento in cui Kharo infine taccia Barham di follia, Martina ha confidato di aver provato lei stessa un senso di liberazione, “come se potesse finalmente esprimere la sua opinione!” Un certo senso di inadeguatezza è stato talvolta accusato anche da Marco Antonio nell’interpretare la “tragedia” di Omeyd, giovane uomo afghano che intraprende un lungo viaggio della speranza. La partenza, il distacco, la fuga di nascosto, il carcere, la scoperta che Khush Hal ha abbandonato tutti per venire a cercarlo … scene molto forti in cui il sentimento che prevale è la disperazione. Parla di “un’esperienza forte” pure Antonio, l’interprete di Barham, nel descrivere il processo che l’ha portato ad immedesimarsi nel personaggio e viverne le emozioni. Barham sfida l’autorità paterna, perché in essa egli vede il simbolo del potere. Alla morte del padre ne assume la carica e crede di aver raggiunto il suo obiettivo, però a questo punto emerge tutta la sua debolezza e l’incapacità di reggere tale ruolo, cerca di mostrarsi sicuro e risoluto, aggredendo la madre e recludendo le donne del qala, ma alla fine impazzisce. Questo ruolo si è rivelato pertanto come l’occasione per riflettere su quelle che sono due costanti dell’animo umano, la cattiveria e il senso di frustrazione, ma anche per osservare dall’interno i rapporti di potere nella famiglia afghana. Dal quadro che è emerso in queste conversazioni, sembra che recitare l’Altro abbia permesso ai ragazzi di trascendere i propri modelli
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di riferimento per comprendere quelle che sono le dinamiche sociali della società afghana e pertanto di attenuarne la percezione di alterità. Comportarsi come l’Altro li ha portati a rimettere in discussione il proprio sé. Dopotutto come rileva Richard Schechner: “In termini soggettivi recuperare un comportamento significa che io mi comporto come se fossi un altro, ma questo altro può anche essere me in un’altra condizione esistenziale.”19 In altre parole, questa esperienza ha portato i ragazzi a ripensare la propria identità anche in relazione alle circostanze in cui quotidianamente agiscono, insomma a riscoprirsi essi stessi attori sociali. La narrazione, ovvero il concatenarsi dei vari frame che la pièce analizza, è condotta da un gruppo di uccelli. Si noti che il sottotitolo di Khush Hal Nameh è appunto “Fra le nostre ali”. Entriamo così nel colto repertorio simbolico afghano di cui l’autrice si è avvalsa. La dimensione spirituale e culturale nel dramma è particolarmente significativa e l’intero testo è preziosamente intarsiato di rimandi alla mistica (a Nuruddin Isfarayini, Faridoddin ’Attar, Jelal ed Din Rumi… giusto per citare qualche nome). Gli uccelli in questione sono gli stessi del Si-morgh menzionati dal mistico Faridoddin ’Attar nel suo Mantiq al-Tayr. Essi intervengono nelle vicende umane, fornendo consigli o invitando alla riflessione i personaggi e svelano al pubblico tutto un universo simbolico ed allegorico. I ragazzi che hanno indossato le maschere piumate degli uccelli si sono quindi accostati a quello che è l’universo di simboli e significati di una cultura diversa e hanno avuto modo di considerare la valenza che essi assumono nel dato contesto: “Gli uccelli in quei luoghi non sono solo animali, ma amici, compagni e guide.” Per esempio, inizialmente il corvo sembra una figura malefica: egli suggerisce l’inganno a Barham e annuncia l’esilio a Khush Hal. Però proprio durante il disperato vagare di Khush Hal, egli si rivela una guida spirituale, che lo sprona a continuare e ad “uscire dalla ragione” per affrontare il viaggio attraverso altri piani della coscienza. “Leggendo il copione un po’ mi sono spaventata: è pieno di sottigliezze, parole e collegamenti che tu riesci a trovare dopo molte letture o un’interpretazione tua.” Capelli corvini e occhi di ghiaccio, Francesca
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Cfr. Schechner R. 1984, p. 216.
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ha raccontato la complessità e la duplicità del personaggio del corvo che “condivide” con Domenico. Il regista Alessandro Fiorella ha esortato i ragazzi a pensare agli uccelli come guide, come elemento di contatto tra cielo e terra, tra dimensione spirituale e dimensione terrena. Nel lavoro di mediazione, Fiorella, che nella quotidianità riveste il ruolo del docente, ha disegnato una nuova identità nel suo relazionarsi ai ragazzi, che l’hanno descritto come un “maestro di vita”, alle volte amico e confidente. All’interno del laboratorio si è trovato a comunicare le chiavi di lettura di un testo non facile e nel frattempo è stato in grado di esigere disciplina ed impegno da parte dei ragazzi, così come di accendere in loro l’entusiasmo. L’emozione etnografica Il regista è stato sempre attento ad ascoltare consigli e suggerimenti, affinché lo spettacolo fosse il risultato di un lavoro di compartecipazione. Infatti ogni dettaglio della pièce è stato curato dai ragazzi, che si sono visti impegnati nella realizzazione di scenografie, costumi e altri materiale di scena, oltre che nella scelta e nell’esecuzione del repertorio musicale. Per quanto riguarda la musica si noterà che sono state “scartate” le musiche afghane o comunque del Centro Asia, preferendo alcuni canti territoriali o altri motivi che rimandassero all’Afghanistan per analogia. La musica in questo spettacolo gioca un ruolo di mediazione, come ha constatato Ariane Baghaï nel vedere il suo etnodramma prendere forma: “La musica ti apre il cuore, e poi ricevi il testo.” Sono molte le scene dalla forte carica emozionale che costellano questo spettacolo. Si pensi per esempio ai momenti in cui la natura stessa prende magicamente la parola in un ininterrotto gioco di metafore e allusioni. Così il mare diventa la danza di seducenti e minacciose onde che travolgono Khush Hal, che di lì a poco si ritroverà in un bosco di armoniosi cipressi: una visione onirica che tuttavia si dissolve in una nube dorata e il giovane afghano si scopre all’improvviso nel bel mezzo di una capitale occidentale con i suoi bagliori, i suoi busi-
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ness men, le sue prostitute e la gente immersa nel giornale che passa “sorda”, frettolosa ed indifferente. Ci viene raccontato così l’incontro violento di due realtà. La connotazione spirituale del testo è fortissima e raggiunge il suo apice nelle ultime battute di Khush Hal, recitate in carcere quando scopre che dopo aver cercato in lungo e in largo Omeyd, questi è proprio il suo compagno di cella: «È ora di pregare Per uscire vivo da questo mondo Ringrazia il cielo! Tutto il resto non importa Sono le nostre illusioni Come prigione e libertà Viviamo già in una gabbia Dal primo giorno su questa terra Il nostro cuore incatenato Alla muraglia del nostro corpo».20
Il messaggio che la pièce vuole infine comunicare è molto forte: Khush Hal, sbattuto in prigione, esorta Omeyd a riflettere circa l’illusorietà dell’esistenza e del tempo. La pièce stessa è quindi un invito a sfatare i grands récits e affrontare lo “sconosciuto”, ad incontrare l’alterità e l’Altro. Proprio come ha sottolineato Fiorella far recitare ai ragazzi questo testo ha significato offrir loro “le chiavi del successo”, non del “successo economico, ma quello della scoperta”, insegnar loro a costruire anche con “mattoni che non conoscono”. Il laboratorio teatrale, in quanto spazio ludico-liminale in cui si pratica l’elaborazione dell’esperienza, la decodifica dell’agire umano e sociale in una sua rappresentazione e dove la sperimentazione di nuove competenze espressive diventa un imperativo è infatti il luogo idoneo per studiare i processi di “edificazione” della realtà sociale. Mettere in scena un etnodramma non significa solo recitare l’Altro, ma implica “diventare” ed “essere” l’Altro almeno per un certo intervallo spazio- temporale. Insomma, sentire, soffrire e gioire, tremare e vibrare con l’Altro. Questo appare nitidamente dai resoconti dei ra20
Cfr. Baghaï A. 2008, p. 248.
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gazzi: Antonio si è sentito veramente costernato per i biasimi paterni, Ilaria ha conosciuto la rassegnazione di una madre afghana e Martina ha tremato per gli attacchi d’ira di Barham… Il loro “mettersi nei panni di” è stato forse qualcosa di più, da queste descrizioni sembra si sia trattato quasi di un “entrare nella pelle di”. La compiutezza del teatro etnografico sta appunto nel far vivere (o rivivere) un momento politico-esistenziale, ossia nel maturare una conoscenza esperienziale del contesto e provare “il vivido sentimento di cosa significhi muoversi ed agire come se si fosse l’altro”,21 oltre al fatto che mettendoci nei panni degli altri “impariamo qualcosa su noi stessi.”22 Per descrivere il trasporto in cui si viene inevitabilmente trascinati basterà riportare brevemente la scena conclusiva di una giornata di prove nella palestra dell’edificio scolastico. I ragazzi, tanto quelli che si apprestano ad entrare in scena che quelli che hanno già portato a termine la propria parte, si sono radunati tutti attorno al centro della sala dove si esegue l’azione. Adriano-Khush Hal ha pronunciato il suo invito a Marco-Omeyd a guardare al di là di quella che gli pare la realtà. File ordinate di ragazzi entrano allora in scena portando degli ombrelli neri con le estremità ribaltate, che al momento stabilito iniziano, tutti all’unisono, a far roteare. Dai “cappelli rovesciati” delle ombrelle scende, ricoprendo l’intera scena, una pioggia di coriandoli bianchi e rossi. Sullo sfondo si innalza la minuta Roberta sbattendo le sue ali d’Aquila. Le voci dolcissime di un coro pian piano scemano. Qualche secondo di silenzio, un quadro immobile con al centro Omeyd e Khush Hal nell’atto di tendersi una mano e poi lo scoppio di un applauso. Lo “spettacolo” è finito e ora gli attori possono “riassumere” la loro identità, i ragazzi rimasti sulla scena si abbracciano e scherzano tra di loro con ancora in cuore in gola. Come hanno detto essi stessi: «La tensione non abbandona mai lo spettacolo: è costante e continua». La gestualità è forte, i ritmi decisi e le coreografie coinvolgenti. Anche assistendo a solo delle prove è impossibile non venir rapiti dalla trama, dai colori e dalle musiche. Tutto il resto passa in secondo 21 22
Cfr. Schechner R. 1999, p. 48. Cfr. Turner V. 1986, p. 165.
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piano: le scarpe da ginnastica e i jeans che spuntano sotto costumi improvvisati scompaiono, l’immaginazione completa le scenografie montate parzialmente. Quella a cui si assiste è un’etnografia tutta di sensazioni, sfumature e giochi. Un’etnografia che è qualcosa di più che semplice teatro: è emozione etnografica. Khush Hal Nameh: framing Afghanistan La ribellione di Barham scatena il “dramma sociale”23 che fa emergere tutta una serie di problematiche relative alla configurazione sociale afghana. La pièce incornicia (frame) così alcune situazioni specifiche di questa società e le analizza considerando i linguaggi simbolici propri del contesto culturale centro-asiatico. Innanzitutto, la pièce segna una rottura con le semplificazioni mediatiche e gli stereotipi cui troppo spesso questa parte di mondo è associata. Attraverso il testo di Baghaï, la terra degli Afghani appare in tutta la sua complessità multietnica e multiconfessionale. Popolato da diverse etnie, come gli Hazara o i Pashtun, l’Afghanistan vede al suo interno la coesistenza di diversi Islam. Infatti, a fianco di quello ortodosso troviamo diverse forme di eterodossia. L’ordine sociale ha per fulcro il principio di sangue. Si tratta di una società tribale segmentaria. Il lignaggio (qworaneh) segue il principio di discendenza patrilineare. I tre pilastri su cui si basa la cultura pashtun sono la terra (zamin), le donne (zan) e l’oro (zar, in quanto measure of the debt). Difatti “la relazione fra lignaggi e terra è proprio il fulcro della struttura e dell’organizzazione sociale, e l’equilibrio sociale e politico è raggiunto per tale complessa alchimia: la relazione fra donne, terra e denaro.”24 Fragili equilibri vengono costantemente ottenuti grazie alla combinazione di questi tre elementi. Tutto questo viene messo in luce dalla vicenda di Omeyd. Come molti giovani afghani, Omeyd decide di emigrare nella speranza di otTurner V., Antropologia della performance, il Mulino, Bologna 1993, pp. 93-94 e pp. 148-149; Turner V. 1986, pp. 31-33 e pp. 131-137. 24 Cfr. Palmisano A.L., “Problematica della donna afghana nella struttura della famiglia tradizionale” in Heliopolis, n. 2, 2006, p. 41; Palmisano A.L., Gender and Tuberculosis in Afghanistan, Pensa editore, Lecce, 2005; Palmisano A.L. 2007. 23
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tenere i soldi necessari per poter combinare il matrimonio con Kharo e “mandare avanti la famiglia”; ma soprattutto per scongiurare l’estrema ratio della “vendita” della terra. L’acquisizione di terre (nel senso di possessio, dato che l’imperium resta prerogativa del lignaggio) avviene soprattutto mediante alleanze matrimoniali, che sono vere e proprie alleanze politiche. Vige la consuetudine del matrimonio fra cugini patrilineari paralleli e in ogni caso resta preferibile l’unione endogamica, che evita la frammentazione dei possedimenti e garantisce la pace fra i clan. Di conseguenza si assiste ad alleanze matrimoniali pianificate con grande anticipo rispetto alla data dell’evento. I costi di un matrimonio sono molto elevati: il clan (kheil) del ragazzo è tenuto a versare un indennizzo economico al clan della promessa sposa per compensare la privazione della ragazza. Inoltre, solo dopo che i bilanci del clan sono stati pareggiati, il figlio cadetto ottiene il permesso di potersi a sua volta sposare e quindi intraprendere una carriera politica e sociale. Perciò i giovani mariti subiscono diverse pressioni affinché reintegrino il prima possibile la cifra spesa. Motivo per cui alcuni si inseriscono nel traffico di oppio, altri diventano mercenari o, come Omeyd, emigrano in stati dove i salari sono più alti rispetto a quelli afghani. Ovviamente tutte queste dinamiche hanno delle conseguenze dirette sulla posizione della donna entro il gioco di ruoli della società afghana.25 I personaggi di Kharo e della madre, così come il coro delle donne, mettono a fuoco la condizione femminile e quelli che sono gli ambiti e i compiti della donna. Siglata l’unione matrimoniale, la giovane sposa si trasferisce presso il qala del marito: la patrivirilocalità è prescrittiva e lo spazio in cui la donna si può muovere quotidianamente si risolve totalmente nell’ambiente domestico. Un “mondo interno”. Dopotutto la donna affronta anche i rarissimi contatti con l’esterno “chiusa” nel chadri (quello che nel linguaggio internazionale è noto come burq’a).26 Pertanto la presenza della nuova arrivata nel qala è ancora occasione di tensioni e conflittualità. I rapporti con la suocera sono aspri e l’uomo di riferimento costituisce agli occhi della Un gioco che riprende in parte la terminologia del gioco degli scacchi: la donna promessa in sposa è detta palai (pedone), la neo-sposa suara (cavallo) e solo più tardi potrà dirsi mirokha (moglie). Cfr. Palmisano A.L. 2005; Palmisano A.L. 2006. 26 Sull’argomento si veda Baghaï A., “The language of the veil” in Picco G. e Palmisano A.L. 2007, pp. 203-220. 25
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donna l’unica fonte di affetto e protezione. Proprio come esprimono le parole della Madre, pronunciate con grande consapevolezza, di fronte ai violenti sfoghi di Barham nei confronti della sorella: «Siamo murate vive: Nella tomba prima del tempo Non è niente di nuovo Figlia mia. […] La nostra vita è sempre stata Senza vista Gli alti muri del qala Sono il nostro orizzonte … È il volto dell’uomo, Del marito o del figlio, Del fratello o del padre, La nostra unica finestra sul mondo».27
Tuttavia, la pièce rileva come sotto questa apparente impotenza arda invece una grande forza e capacità d’azione. Nient’affatto oggetti passivi, le donne afghane, ci fa intendere Ariane Baghaï, sono più che mai partecipi alla costruzione del loro mondo sociale. Le vicende legate al presunto omicidio compiuto da Khush Hal propongono delle considerazioni circa il rapporto tra giustizia formale e giustizia informale. Il personaggio del Padre, nelle sue dotte allocuzioni, allude spesso al ruolo della Jirga, cioè l’assemblea di saggi (moslihin risafedan, letteralmente “di barbe bianche”) a cui la comunità locale riconosce piena autorità e legittima la capacità di fornire risoluzioni, spesso realizzate con rapidità ed efficienza.28 Dall’etnografia teatralizzata al teatro etnografico Tutte queste vicende vengono analizzate criticamente nel momento in cui sono inscenate. Alcuni antropologi e registi teatrali29 hanno Cfr. Baghaï A. 2008, pp. 223-224. Picco G. e Palmisano A.L. 2007, p. 47 e ss. 29 Cfr. Turner V. 1986; Turner V. 1993; Schechner R. 1984; Schechner R. 1999; Barba E. 1993; Taviani F. (a cura di), Il libro dell’Odin: il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, Feltrinelli, Milano, 1978. 27 28
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visto nel ricorso alla messinscena teatrale un utile strumento per lo studio delle azioni umane e sociali. Nei suoi corsi di antropologia Victor Turner elaborò una didattica dinamica: i dati etnografici venivano riformulati in sceneggiature teatrali e quindi interpretati. Nell’impossibilità di attuare una vera e propria indagine sul terreno per familiarizzare gli studenti con la prospettiva dell’attore sociale non ci poteva essere migliore strategia che quella di fargli “performare” l’etnografia studiata. La performing ethnography turneriana costituisce un invito a comprendere l’attore sociale in quanto soggetto, in quanto “persona”,30 a dispetto di quello che accade in molte monografie, dove la vita sociale viene “disidratata” e ridotta a modelli meccanicistici di interazione. Dopotutto “non c’è che recitare la parte di un membro di un’altra cultura in una situazione di crisi caratteristica di quella cultura per rendersi conto dell’inautenticità dei resoconti fatti solitamente dagli occidentali e per sollevare problemi non affrontati o non risolti nella letteratura etnografica.”31 Questo approccio permette quindi di demitizzare stereotipi o anacronismi. Chiunque abbia condotto ricerca sul campo si trova d’altronde di fronte al problema del comunicare le informazioni acquisite sul terreno, ovvero al dilemma di come renderle comprensibili alla società d’appartenenza senza tuttavia incorrere in deformazioni rappresentative. Ariane Baghaï ha individuato nella pièce teatrale la formula per riportare le sue osservazioni. Senza processi intermedi, le etnografie di Baghaï sono direttamente “teatro” e intendono condurre tanto gli attori che gli spettatori a contatto con realtà diverse. Se scrivere un etnodramma ha significato entrare nella società in cui si svolgono le vicende, nel momento in cui viene messo in scena si consente questo “accesso” anche agli altri. Nel teatro etnografico i membri di società Altre che rivivono sulla scena riottengono un volto e un corpo, cosicché il pubblico li recepisce come persone “reali”, animate da sentimenti ed emozioni. Si veda Palmisano A.L., “La rappresentazione come forma narrativa del diritto nell’epoca post-globale”, in Identità delle comunità Indigene del Centro America, Messico e Caraibi: aspetti culturali e antropologici, Atti del Convegno, Quaderni IILA, 2008, pp. 195-205. 31 Cfr. Turner V. 1986, p. 177. 30
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Il sodalizio tra antropologia e teatro mira appunto a superare i modelli cognitivi che comportano inevitabilmente una liofilizzazione della vita sociale, per proporne una rappresentazione più “viva”, fruibile attraverso livelli più sofisticati della coscienza, ovvero oltrepassando i linguaggi speculativi senza pertanto perdere di vista l’obiettivo ultimo della rappresentazione: la comprensione dell’Altro. Bibliografia Baghaï A., “Khush Hal Nameh” in Etnodrammi. Tre incursioni nella drammaturgia etnografica, Lecce, Pensa editore, 2008. Baghaï A., “The language of the veil” in Palmisano A.L. e Picco G. (a cura di), Afghanistan. How much of the past in the new future, Quaderni di I Futuribili, Gorizia, I.S.I.G, 2007. Barba E., La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna, il Mulino, 1993. Boissevain J., Friends of Friends. Networks, Manipulators and Coalitions, Oxford, Basil Blackwell, 1974. Goffman E., Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Roma, Armando Editore, 2001. Lyotard J-F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milamo, Feltrinelli, 1985 (1979). Palmisano A.L., “Afghanistan: dal great game al great play?” in Limes, n.3, maggio 2007. Palmisano A.L., Gender and Tuberculosis in Afghanistan, Lecce, Pensa editore, 2005. Palmisano A.L., “La rappresentazione come forma narrativa del diritto nell’epoca post-globale”, in Identità delle comunità Indigene del Centro America, Messico e Caraibi: aspetti culturali e antropologici, Atti del Convegno, Quaderni IILA, 2008.
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Palmisano A.L., “On informal justice in Afghanistan” in Palmisano A.L. e Picco G. (a cura di), Afghanistan. How much of the past in the new future, Quaderni di I Futuribili, Gorizia, I.S.I.G, 2007. Palmisano A.L., “Problematiche della donna afghana nella struttura della famiglia tradizionale” in Heliopolis, n. 2, 2006. Schechner R., La teoria della performance 1970-1983, Roma, Bulzoni editore, 1984. Schechner R., Magnitudini della performance, Roma, Bulzoni editore, 1999. Taviani F. (a cura di), Il libro dell’Odin: il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, Milano, Feltrinelli, 1978. Turner V., Antropologia della performance, Bologna, il Mulino1993. Turner V., Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1986, passim.
PARTE III
Trance, ipnosi, terapia
Doppio legame e ipnosi: la trance come processo costruttivista 1
Antonio Luigi Palmisano
Abstract Double-bind and hypnosis: trance as a constructivist process The research done in the 50’s on schizophrenia leads first of all to the hypothesis and then to the theory of the double bind. The double bind appears after a thorough investigation of the notion of paradox and its effect in the pragmatic of human communication as a particularly complex form of communication with noteworthy therapeutic potentialities, if its shapes differ from the schizogenic double bind. This work takes the therapeutic double bind into consideration and defines it as such on the basis of its specific structure which is contextualized in states of trance, and not on the basis of its generic use in therapy, i.e. hypnosis is defined as its specific field of practice. The structure of the double bind shows its elasticity and efficiency both in the process of hypnotic trance induction and in the induction of ritual trance. It is also efficient in maintaining the state of trance through the facilitation of dissociation processes which allow the person to elaborate new constellations of relationships and can therefore finally exploit the modified state of consciousness. Keywords: double bind, trance, hypnotherapy, dissociation, schizophrenia
Questo articolo è la versione riveduta e corretta di Palmisano, A. L. “Doppio legame e ipnosi. Verso una teoria della trance come processo costruttivista”, in DADA Rivista di Antropologia post-globale, www.dadarivista.com, n. 1 Speciale “Visione, possessione, estasi: per una antropologia della trance”, 2014:127-168. ati, a volte addirittura brutalince”stglobale, www.dadarivista.com, ostruttivista”i fornitore di drammi – condivisibili una tra 1
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Il mio primo uso intenzionale del doppio legame che ricordi con esattezza risale agli inizi dell’adolescenza. Un giorno invernale, con temperatura sotto zero, mio padre fece uscire dalla stalla un vitello per portarlo all’abbeveratoio. Dopo averlo dissetato ripresero la via della stalla, ma quando giunsero alla porta l’animale puntò testardamente i piedi e non volle saperne di entrare nonostante gli sforzi disperati di mio padre che lo tirava per la cavezza. Io stavo giocando con la neve e, al vedere quella scena, scoppiai in una gran risata. Allora mio padre mi sfidò a fare entrare il vitello nella stalla. Visto che si trattava di una resistenza ostinata e irragionevole da parte dell’animale, decisi di dargli la più ampia occasione di continuarla secondo quello che era chiaramente il suo desiderio. Di conseguenza lo posi di fronte a un doppio legame: lo presi per la coda e lo tirai fuori dalla stalla, mentre mio padre continuava a tirarlo verso l’interno. Il vitello decise subito di opporre resistenza alla più debole delle due forze e mi trascinò nella stalla. Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 469-470
Introduzione Le difficoltà inerenti all’uso del doppio legame in “terapia”,2 rendono questo tema particolarmente affascinante. Specialmente alla luce dei successi che esso contribuisce a permettere nella pratica ipnotica, ovvero negli stati modificati di coscienza.3 Ma ogni terapia può far uso del doppio legame? E poi, vi è un solo tipo di doppio legame? Ovvero, è possibile interpretare il doppio legame esclusivamente come doppio legame schizogenico, adattato poi alla terapia? O vi è piuttosto una specificità strutturale del doppio legame terapeutico che lo porta a essere diverso dal doppio legame schizogenico? Per “terapia” intendo qui non la volgarizzazione e banalizzazione realizzata dalla medicina post-ottocentesca, ma – in una prospettiva costruttivista – quanto veicolato dal sostantivo therapeia, derivato dal verbo greco therapeuo: “servire, onorare (gli Dei, i genitori e gli altri esseri umani); dedicarsi a, avere cura di (Dei, genitori e altri esseri umani)”. L’azione descritta dal verbo è un’azione tesa a servire quello che nell’altro è ciò che consente all’altro di realizzare l’esser-ci. Si tratta dunque della pratica di una Anthropologie der Sorge – comprendendo Martin Heidegger – e quindi di una Anthropologie der Liebe – riconsiderando Ludwig Binswanger – in direzione di una epistemologicamente ricercata diminuzione della diversificazione fra soggetto e oggetto. 3 Ho avuto modo di osservare del resto che l’uso del doppio legame – soprattutto nell’accezione di Milton H. Erickson, come da me sopra riportato in citazione – è tanto frequente nelle induzioni di trance ipnotica come nelle induzioni di trance rituale. Mentre in questo articolo mi concentro sulla trance ipnotica, in un lavoro di imminente pubblicazione mi occupo della trance rituale e dello specifico uso di doppi legami. 2
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Il risultato di questo lavoro di ricerca conduce a interpretare il doppio legame terapeutico come ben diverso, e proprio nella sua struttura. Il potenziale di induzione alla dissociazione, specifico del doppio legame, ovvero del paradosso, e del doppio legame schizogenico in particolare, risulta evidente soprattutto nei processi di induzione della trance e degli stati ipnotici. È in effetti indiscutibile la sua capacità di depotenziamento dei modelli consci favorendo al contempo il potenziamento dei modelli inconsci; del tutto incontestabile risulta poi essere il suo ruolo nei processi di dissociazione persona/corpo e di dissociazione persona-corpo/corpo.4 Mentre tuttavia il doppio legame schizogenico stabilisce e rafforza i conflitti fra i due livelli logici, ovvero fra il livello primario (conscio) e il secondario (inconscio), il doppio legame terapeutico, invece, ovvero il doppio legame che definiamo come avente specifiche valenze terapeutiche – così come è stata prima definita la “terapia” –, si distingue per la sua efficacia nel momento di integrazione dei diversi livelli logici. Esso agisce a un livello logico differente (metalivello) facilitando la interazione creativa fra il livello primario (conscio-livello logico) e il secondario (inconscio-metalivello). Il doppio legame terapeutico rende dunque possibili le risposte, integrate, ai due livelli, permettendo il cambiamento – la soluzione dei conflitti precedentemente in corso, secondo certa terminologia –, ovvero configurando un nuovo ordine nella prospettiva della persona. In questo quadro analitico è possibile parlare di doppio legame terapeutico, quindi, proprio in virtù della sua specifica struttura, e nel contesto ipnoterapeutico e della trance rituale. È in questo contesto difatti che il “dialogo fra gli emisferi” e i livelli differenti di comunicazione viene a essere reso possibile, insieme con le potenzialità espresse dalla presenza del “terapeuta”, ovvero dell’induttore-conduttore della trance. Al di fuori del contesto ipnotico, il doppio legame pare dunque poter essere definito come terapeutico solo perché adoperato nella terapia – è allora uno “pseudo-legame terapeutico” –, ma non per la
Questo è quanto conferma la pratica e l’osservazione diretta e partecipante di migliaia di induzioni in trance ipnotica e in trance rituale da me condotte negli ultimi decenni. 4
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sua struttura e neppure per la sua relazione contestuale, e non contingente, allo stato di trance e costituente lo stato di trance. Ma è da una prima riflessione sul concetto di “paradosso” che si può partire per analizzare il concetto di “campo” e quindi la conditio sine qua non per l’instaurarsi del doppio legame terapeutico. Una prima definizione di paradosso, atta a distinguere fra veri e falsi paradossi, può essere così formulata: il paradosso è una contraddizione che deriva dalla deduzione corretta a partire da premesse coerenti.5 Il paradosso non si basa dunque su un errore interno al ragionamento, né su un inganno inscritto nella argomentazione dialettica all’interno di una discussione. Certamente, quelle che oggi appaiono come coerenze interne al ragionamento possono domani essere rilevate come errori logici. E questo è quanto difatti accaduto per alcuni dei paradossi più conosciuti nella storia della filosofia. Così, per esempio, i famosissimi paradossi di Zenone su “Achille dal piede veloce e la tartaruga” o su “la freccia che non raggiunge il bersaglio” sono stati riscoperti come falsi paradossi proprio quando Northrop ha dimostrato in matematica che le serie convergenti hanno un limite finito: la distanza che costantemente diminuisce fra Achille e la tartaruga ha un limite finito da rapportare a due misure diverse del tempo e dunque della velocità.6 Insomma, il paradosso viene a dissolversi quando, fatta una scoperta, si dimostra l’erroneità delle ipotesi alle quali fino a allora era stato dato credito. Le antinomie sono appunto dei paradossi, più precisamente sono quei paradossi che si presentano in sistemi altamente formalizzati come la logica e la matematica. Secondo Quine, infatti, una antinomia «produce una autocontraddizione, in base alle regole accettate dal ragionamento».7 Insomma l’antinomia è una asserzione che è sia contraddittoria che dimostrabile.8 Dunque, ogni antinomia è una contraddizione logica anche se non ogni contraddizione logica è un’antinomia. Vi sono però paradossi che non si fondano all’interno dei sistemi logici e matematici, ma derivano piuttosto da incoerenze nascoste nel5 6 7 8
Watzlawick, Beavin, Jackson 1971, pg. 185. Cfr. Northrop 1944. Quine 1962, pg. 85. Stegmüller 1957, pg. 24.
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la struttura di livello del pensiero e del linguaggio. Questo secondo gruppo di paradossi va sotto il nome di “antinomie semantiche” o “definizioni paradossali”. Vi è comunque un altro gruppo di paradossi di grande interesse per l’ipnosi e l’ipnoterapia, ma anche per la psicologia e la psichiatria. Sono i paradossi che si presentano nelle interazioni in corso determinando il comportamento. Si tratta dei paradossi pragmatici, ai quali vanno aggiunte le ingiunzioni paradossali e le predizioni paradossali. Riassumendo, possiamo parlare di tre gruppi di paradossi corrispondenti ai tre settori principali della teoria della comunicazione umana. Il primo gruppo corrisponde alla sintassi logica, il secondo gruppo alla semantica, il terzo gruppo alla pragmatica. Ed è proprio nell’ambito dei paradossi pragmatici che può svilupparsi il doppio legame terapeutico negli stati di trance, in particolare di trance ipnotica.
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I. LA TEORIA DEL DOPPIO LEGAME
I. 1. Gli studi sulla schizofrenia e la teoria del doppio legame Due oggetti sono definibili solo per la differenza dell’uno rispetto all’altro, e non in quanto tali. Per esempio, un gelato e un frigorifero sono uno opaco e l’altro lucente, uno bianco e l’altro grigio, uno piccolo e l’altro grande, uno morbido e l’altro duro ecc. Non è comunque né nel gelato né nel frigorifero che sono inscritte le diverse “proprietà”. Piuttosto è nelle interazioni fra il gelato e il frigorifero e il nostro apparato percettivo, come pure nelle interazioni fra il solo gelato e il solo frigorifero, che le proprietà si concretizzano: veniamo così a parlare di “caratteristiche”. Quando ripongo il gelato nel frigorifero, o quando cerco di ammaccare il frigorifero a colpi di gelato, riesco a farmi un’idea dell’insieme delle differenze fra il gelato e il frigorifero. L’azione umana istituisce la differenza, e con essa costituisce il Gegenstand, l’oggetto, ovvero gli oggetti. Questa idea si articola come informazioni sulla differenza fra A e B, ovvero fra il gelato e il frigorifero. Lo stesso vale per altri oggetti. Per esempio, la penna e l’inchiostro. Proprio per l’interazione che istituisco fra penna e inchiostro e fra questi due e i miei organi di senso, stabilisco una differenza fra C e D, ovvero fra la penna e l’inchiostro, e produco informazioni su quegli oggetti che ho costituito proprio costituendo informazioni. È la prassi della differenza a fondare una relazione, o meglio ancora una costellazione di relazioni, che costituisce gli oggetti. Il caso della cosiddetta schizofrenia interessa profondamente l’epistemologia come appena descritta e sfida l’epistemologia convenzionale: essa è in effetti incapacitata a intendere l’inesistenza delle “proprietà” dell’oggetto e dunque degli oggetti. Le “proprietà” sono difatti esclusivamente differenze che esistono solo nel loro essere in relazione le une alle altre, ovvero sussistono solo nel contesto. Il procedimento che la mente segue nel processo di costruzione degli oggetti è quello di astrarre dalla relazione e dall’esperienza d’interazione per poter dotare di “caratteristiche” e “proprietà” gli oggetti, dunque per fondare gli oggetti. Applicando queste riflessioni alle situazioni della famiglia cosiddet-
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ta schizofrenica, è impossibile non ammettere che lo stesso “carattere”, le stesse “proprietà” della persona sono reali, emotivamente e profondamente reali, nella relazione e esclusivamente in questa. Il “sé” viene alla vita attraverso il processo di Auslegung – ovvero interpretazione e rappresentazione – delle esperienze di astrazione e differenziazione, innanzitutto all’interno della famiglia, e prosegue come tale al di fuori della relazione intra-familiare. La questione della schizofrenia – con i potenti dubbi gnoseologici che suscita nel ricercatore – pertanto non può non essere considerata come una risposta de facto alla epistemologia tradizionale. Non potendo dissociare i due piani del paradosso, ovvero del doppio legame, e posta “l’integrazione dell’emisfero destro e sinistro”, nella situazione epistemologica schizogenica il soggetto dissocia se stesso. Questo è quanto mi sembra poter oggi affermare sulla scorta dell’osservazione diretta di situazioni schizogeniche; ed è per questa specificità di soluzione alternativa del paradosso che forme di confusione ingenerate attraverso paradossi e doppi legami e sostenute da doppie e triple negazioni facilitano l’induzione degli stati di trance, tanto nell’ipnosi come nei culti di trance di possessione, visione ed estasi.9 La teoria dei tipi logici applicata per riverso alle dinamiche intra-familiari conducono dunque l’antropologo Bateson e il suo gruppo di psicologi a una analisi e interpretazione rivoluzionaria della schizofrenia.10 Finanziato dalla Rockfeller Foundation nel 1952-1954 e nuovamente finanziato in fase successiva dalla Joseah Macy Jr. Foundation nel 1954, il gruppo giunge alla scoperta che i cosiddetti sintomi della cosiddetta schizofrenia indicano, soprattutto per Haley, un’impossibilità o un’incapacità di discriminare i tipi logici.11 In effetti, sulla base di studi effettuati già negli anni ’70, per esempio da Vaughn e Leff, come pure da Philips, poi ripresi da Koopmans e da altri negli anni ’90, si potrebbe forse addirittura parlare di una specifica impossibilità (con substrato bio-fisiologico) a discriminare in base a tipi logici nel caso della schizofrenia.12 La confusione che si ingenera nella persona durante il processo di discriminazione dei tipi logici conduce questa ultima, quando ripetutamente sottoposta e costretta a tentare la separazione fra i livelli logici, a Palmisano, A. L, 1996, 2000, 2001a, 2001b, 2002, 2003, 2006, 2007, 2008, 2013. Bateson, G., Jackson, D. D., Haley, J. & Weakland, J. 1956. 11 Haley 1959a, 1959b. 12 Philips 1970; Vaughn and Leff 1976; Koopmans 1997. 9 10
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persistere in una situazione di elevato stress e di angoscia. In tale situazione, la persona può sviluppare quei sintomi e quella eziologia descritta poi formalmente da Bateson secondo l’ipotesi del doppio legame. La classificazione dei segnali secondo i tipi logici e, prima ancora, lo stesso apprendimento dei segnali secondo i tipi logici si esplicano a livelli multipli. Apprendimento e classificazione sono due serie inseparabili di fenomeni. La capacità di servirsi di tipi multipli di segnali è infatti un’abilità appresa, ovvero una funzione dei livelli multipli di apprendimento. Il processo di discriminazione delle modalità comunicative all’interno di sé e fra sé e gli altri è funzione dell’Io. Il cosiddetto schizofrenico è debole in tre aree almeno di questa funzione.13 Ha infatti difficoltà o incapacità o impossibilità nell’assegnare la corretta modalità comunicativa: 1. ai messaggi che riceve dagli altri, 2. ai messaggi verbali e non verbali che egli stesso invia, 3. ai propri pensieri, alle proprie sensazioni, percezioni, emozioni. Le specificità dello schizofrenico sono: 1. l’uso di metafore non definite come tali e 2. l’interpretazione per contro letterale di messaggi che dagli altri vengono considerati metafore. Come si arriva, escludendo la base genetica e fisiologica, a formare lo schizofrenico a tali difficoltà, incapacità, impossibilità? La risposta è ritrovata da Bateson nella struttura familiare improntata alla comunicazione per doppio legame, ovvero nella strutturazione per doppio legame della personalità. I. 2. La struttura del doppio legame I. 2.1. Il doppio legame e la comunicazione paradossale L’osservazione che la comunicazione paradossale porti all’invalidazione cronica delle relazioni di base tra persone apre la strada alla teorizzazione di ciò che viene chiamata la “ipotesi del doppio legame”, sviluppata in seguito come “teoria del doppio legame”. La teoria del doppio legame è una teoria relativa alle relazioni umane in generale e, specificatamente, alla comunicazione: una comunicazione particolarmente efficace, in grado di determinare effetti Di fatto, lo schizofrenico non è schizofrenico ma è posto e tenuto in una situazione schizofrenica. 13
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profondi fra le persone. Esempi di comunicazione paradossale, quale “sii spontaneo” oppure “sii indipendente” oppure quale è il messaggio “non leggere questo segnale” veicolato dalla scritta posta su un cartello, sono di fatto doppi legami: comunicano qualcosa non solo paradossalmente, ma la comunicano in modo da trasformare in maniera del tutto significativa il comportamento del ricevitore di questi segnali, di questa comunicazione, tanto da agire nel profondo della sua psicologia. Il rigetto o l’accettazione camuffata di tali messaggi provoca di fatto danni all’interno dei confini psichici e dei processi di integrazione fra “l’emisfero destro e l’emisfero sinistro”; oppure, se non produce danni in termini neurofisiologici, provoca situazioni alle quali l’individuo o la persona non può non rispondere. E cercherà di formulare una risposta che possa esprimersi verso l’esterno o che abbia la sua efficacia all’interno della struttura psichica e emotiva. I. 2.2. La situazione di doppio legame Così come teorizzato da Bateson e dal suo gruppo di ricerca sulle famiglie a “comunicazione schizofrenica”, la situazione di doppio legame insorge quando si presentano alcune caratteristiche strutturali: 1. Una interazione fra due o più persone. In tale interazione è possibile riconoscere una persona che svolge strutturalmente un ruolo di supremazia rispetto all’altra, anche autoattribuendoselo. Questa seconda persona si trova in posizione di subordinazione, per una qualche ragione, nei confronti della prima. Perlopiù si tratta di relazioni strutturali di sovraordinazione e subordinazione. Alcuni esempi: la madre e il bambino; i fratelli e sorelle maggiori e i fratelli e sorelle minori; l’ufficiale e la recluta; il professore e lo studente; il medico e il paziente; il direttore d’orchestra e l’orchestrale; il maestro e l’allievo; l’allenatore e il giocatore; il capoufficio e l’impiegato ecc. Ma anche il figlio adulto e la madre in sedia a rotelle; i fratelli e sorelle minori da una parte e il fratello maggiore malato cronico dall’altra ecc. Analizziamo il caso della segretaria e del direttore di un dipartimento universitario o dei professori all’interno del dipartimento. La segretaria si trova in una cosiddetta posizione di one-down nei confronti del
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direttore o di due e più professori per i quali fotocopia documenti. Entrambi i professori, o più professori, hanno potere all’interno della struttura, un potere conferito loro dal ruolo, dal contesto di impiego e dalla prassi di lavoro. Sono tutti in una cosiddetta posizione di one-up nei confronti della segretaria che fa le fotocopie. Certamente uno dei due, o più professori, può essere considerato senior rispetto all’altro, agli altri; ma la segretaria è comunque in una posizione di one-down, mentre uno dei professori può essere in una posizione di one-down rispetto a un altro professore e di one-up rispetto a un altro ancora. Sorge una situazione particolare, che chiamiamo appunto di doppio legame, quando alla segretaria sono assegnati, per esempio, due compiti indipendenti ma in conflitto l’uno con l’altro: per chi dei due professori fare per primo le fotocopie? Se la gerarchia tra i due professori è chiara, e come tale da tutti riconosciuta, la conflittualità dei due compiti assegnati indipendentemente da ognuno dei due professori viene risolta in prospettiva della segretaria e degli altri attori sociali col semplice riferimento all’autorità di più alto livello, per esempio il direttore. Ma sicuramente insorge ambiguità se la segretaria ha un particolare impegno o una relazione particolarmente profonda nei confronti del professore che occupa una posizione di one-down rispetto all’altro professore. I suoi sentimenti la spingono a procedere all’espletamento innanzitutto del compito per primo affidatole dal professore per il quale ha questa particolare simpatia, e progetti connessi, anche se il senso comune le suggerirebbe di obbedire prioritariamente all’autorità più alta all’interno del dipartimento. Si ha quindi una conflittualità fra pulsioni emozionali e principio di autorità, ovvero principio di gerarchia. La questione può complicarsi ulteriormente quando per la segretaria entrambi i professori occupano posizioni equivalenti e quando entrambi sono conosciuti per essere soliti rispondere con un livello elevato di ostilità in tutte le occasioni nelle quali non vengono immediatamente soddisfatti i loro ordini. In questo ultimo caso, la nostra segretaria si ritroverebbe molto probabilmente impreparata a rispondere adeguatamente. Potrebbe mancarle la capacità comunicativa di sottrarsi al legame del tipo “sia tu perduta se lo fai, sia tu perduta se non lo fai”. 2. Una esperienza ripetuta. Il doppio legame ha da essere senza dubbio un tema ricorrente nell’esperienza della vittima. La singola esperienza traumatica non può essere considerata in grado di stabilire situazioni
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di doppio legame. L’esperienza traumatica più volte ripetuta fa sì che la struttura del doppio legame divenga una aspettativa abituale. Un collega universitario, nella posizione di professore ordinario e dunque amministrativamente inamovibile, è noto per la sua estrema capacità di innervosire quanti gli stanno intorno, sia studenti che colleghi, come anche personale amministrativo. È considerato una persona con competenze sulla propria materia, e per questo apprezzato; ma si aggira di continuo per i corridoi o nelle aule con un fare inquisitorio. Per tutti, colleghi, studenti e personale amministrativo, il contatto con questa persona è un’esperienza sgradevole. Questo docente è costantemente alla ricerca di imperfezioni, di pecche, di comportamenti altrui da denunciare o da sanzionare. Stabilisce di continuo una situazione di one-down/one-up con tutte le persone che incrocia. Ricorre anche all’offesa dell’altro, oppure alla costruzione di sensazioni o sentimenti di colpa in tutti quelli che vengono a interagire con lui. È sempre pronto a alzare la voce, a ridicolizzare quello che è il suo partner di dialogo, ridicolizzarlo in modo da limitarlo nella posizione di one-down a ogni occasione. Quando l’ipotetica vittima in posizione di one-down si ribella e reagisce, egli immediatamente invoca la posizione gerarchica: o come professore anziano nei confronti dei professori più giovani o come docente nei confronti dello studente o come membro anziano del personale docente nei confronti del personale amministrativo; al limite – extrema ratio – ricorre alla sua autoattribuita posizione di super partes o di detentore di moralità indiscutibile. Queste tre categorie di persone attive all’interno dell’università divengono individualmente nervose a ogni occasione d’incontro con il docente in questione. Prima di entrare nell’aula dove si tengono gli esami, lo studente entra in una situazione di panico o quantomeno di angoscia: pianti frequenti da parte di numerosi studenti, ma anche attacchi di vomito da parte di alcuni e perfino qualche svenimento. Lo stesso capita al personale amministrativo quando si reca nel suo ufficio per portare della documentazione. Nel caso di altri colleghi, accade che, nel momento di entrare nell’aula dove si tiene il Consiglio di Facoltà oppure il Consiglio di Dipartimento, divengano anch’essi nervosi, perché coscienti di un inevitabile tentativo da parte di quella persona di porsi in una posizione one-up: le tensioni all’interno del gruppo salgono, perché l’inevitabilità del conflitto è percepita come certa. La difficoltà d’interazione con persone di questo genere consiste
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nel comune errore di un timore lasciato insorgere sulla base di un rispetto generico: il rispetto nei confronti del principio di similarità o il rispetto nei confronti del collega preparato nella sua specifica materia o il rispetto nei confronti del maestro o ancora il rispetto nei confronti di chi si sa essere a perfetta conoscenza degli iter amministrativi; ma anche il rispetto verso chi è considerato come interessato da problemi di interesse psichiatrico. 3. Una ingiunzione negativa primaria. Si tratta di un’ingiunzione che può assumere una delle due forme seguenti: a) “non fare così o ti punirò”, oppure b) “se non fai così, io ti punirò”. Queste forme di ingiunzione negativa costituiscono un contesto di apprendimento basato sulla necessità di evitare la punizione, piuttosto che costituire un contesto di apprendimento orientato alla ricerca di una ricompensa. Non c’è una ragione formale per questa scelta, naturalmente. La punizione, in questa dinamica di apprendimento, assume svariate forme: principalmente, può consistere indifferentemente o a) nel ritiro di amore e nell’espressione di odio o di rabbia oppure b) in quel tipo di abbandono che deriva dalla manifestazione di estrema impotenza da parte della persona che si ritrova nella posizione di one-up. La ricerca ininterrotta e confusa dell’evitamento della punizione fa sì che il contesto di apprendimento divenga anche un contesto di generazione di ansia. Mentre il contesto di apprendimento basato sulla ricerca di un premio o di una ricompensa fonda una dinamica di apertura delle relazioni verso l’esterno, il contesto di apprendimento basato sull’evitamento del castigo o della punizione conduce a una chiusura delle relazioni verso l’esterno, soprattutto a una chiusura delle relazioni potenzialmente stabilite o da stabilire con l’autore del castigo, con l’autore della punizione. I due diversi contesti di apprendimento modificano dunque la struttura di relazione fra due persone. Il contesto di apprendimento per evitamento della punizione fissa la struttura delle relazioni in termini biunivoci tra i due attori, uno dei quali prima di essere attore è piuttosto un “agito”. Il contesto di apprendimento per ricerca di ricompensa, invece, costituisce una struttura di relazione fra i due at-
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tori aperta all’esterno e con un potenziale di arricchimento affettivo e cognitivo per tutti.14 4. Una ingiunzione secondaria in conflitto con la prima, a un livello più astratto, e rinforzata, come la prima ingiunzione, da punizioni e da segnali di minaccia della sopravvivenza. Questa ingiunzione secondaria viene solitamente comunicata con mezzi non verbali. Per questa ragione è più difficile da descrivere di quanto non lo sia l’ingiunzione primaria. Ma è anche più difficile da identificare nella sua contraddizione con l’ingiunzione primaria, proprio perché viene attuata a un piano diverso di comunicazione. Difatti, sono particolari atteggiamenti – alcuni gesti, per esempio, o il tono della voce o azioni significative e implicazioni nascoste nel commento verbale – a essere usati per trasmettere questo messaggio. Tale ingiunzione inoltre può interferire con un qualsiasi elemento dell’ingiunzione primaria. L’ingiunzione secondaria assume varie forme nella verbalizzazione: “non considerare questo come una punizione”, “non considerarmi come l’agente punitivo”, “non sottometterti alle mie proibizioni”, “non pensare a ciò che non devi fare”, “non dubitare del mio amore, perché la mia ingiunzione primaria è un esempio di esso”, e così via. Quindi, anche sul piano verbale, cioè anche quando questa ingiunzione viene espressa verbalmente anziché non verbalmente, l’ambiguità è tale da risultare sia di difficile descrizione per l’osservatore come di difficile individuazione e identificazione per quella che abbiamo chiamato la vittima del double bind, oppure, con un altro termine, il bound in contrapposizione al binder. Nel caso vi siano più persone a essere coinvolte nella situazione di doppio legame, e non solo due, osserviamo che la negazione primaria Ci troviamo qui a discutere dell’usuale visione della relazione fra l’Io e l’Altro intesa come relazione fra soggetto e oggetto, risolvibile in termini di evitamento e/o ricompensa. Vi sono comunque modi diversi di porsi nel mondo, ovvero in relazione con l’Altro. Mi riferisco per esempio alla Auslegung del proprio nell’Altro, a quanto Fritz Kramer ha definito die Auslegung des Eigenen im Anderen. Il confine fra l’Io e l’Altro, prestatore di identità e differenza, è così considerato nel contesto della mutua e cangiante reciproca percezione. L’antropologia delle passiones, che considera la relazione fra attori sociali anche come relazione fra agire e essere agito, riguarda l’approccio rituale e mimetico all’Altro, discutendo differenti processi di apprendimento e di fondazione epistemologica. (Cfr. Kramer, F. 1984) 14
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può essere operata da parte di uno dei due binders e la negazione secondaria può essere operata dall’altro dei due binders: la vittima è comunque in posizione di one-down e è bound senza ombra di dubbio. 5. Una ingiunzione negativa terziaria, che proibisce, impedisce alla vittima, ovvero al bound, di abbandonare il campo. Siccome il rinforzo agli altri due livelli implica già una minaccia alla sopravvivenza, forse non è necessario considerare separatamente questa ingiunzione. Se i doppi legami poi sono imposti già durante l’infanzia, è naturalmente impossibile l’uscita, la fuga dal campo, ovvero il sottrarsi alla scena. Talvolta, comunque, la fuga, ovvero l’uscita di scena, è resa invece impossibile dall’attivazione di espedienti che non sono necessariamente e puramente negativi, ma possono consistere per esempio in velleitarie, generiche, capricciose e indefinibili promesse di amore, riconoscimento, apprezzamento o cose simili. 6. L’apprendimento da parte della vittima a percepire l’universo sociale e esistenziale in termini di doppio legame rende la serie completa dei cinque punti precedenti non più necessaria. Può essere allora sufficiente una componente qualsiasi di una successione di doppio legame a scatenare situazioni di ansia, di panico o di rabbia. Il modello delle ingiunzioni in conflitto può così essere anche sostituito da semplici voci allucinatorie e “presenze” di vario genere percepite come esterne. Si è infine instaurata l’incapacità delle abilità dell’individuo a discriminare fra i tipi logici, quando appunto una situazione di doppio legame di questo genere si stabilizza. Del resto, la capacità di ogni individuo di discriminare tra i tipi logici viene danneggiata ogni qualvolta si costituisce e si instaura una situazione di doppio legame.15 In effetti, 1. l’intensa relazione nella quale l’individuo è coinvolto è una “relazione di vitale importanza”, perché per poter rispondere in modo appropriato è di vitale importanza che egli riesca a distinguere con precisione il tipo di messaggio comunicatogli; 2. in questa relazione, l’altro – il binder, il persecutore, il burattinaio ecc. – gli invia contemporaneamente messaggi di livello diverso mutualmente auto-escludentisi; 3. la relazione si caratterizza dunque per l’impossibilità dell’individuo – il bound, la vittima, il bu15
Cfr. Bateson, Jackson, Haley e Weakland 1962, in Sluzki e Ransom 1979, pg. 26.
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rattino ecc. – di metacomunicare, ovvero di commentare i messaggi correggendo così la sua discriminazione relativa al livello di messaggio al quale dovrebbe rispondere. In altri termini, l’individuo in situazione di doppio legame è addestrato a assumere un’incapacità di metacomunicazione, e questo poi caratterizzerà tale relazione strutturalmente e, più in generale, le interrelazioni tra persone all’interno delle quali si troverà a operare l’individuo bound.16 L’individuo così addestrato scambierà per letterale un’affermazione metaforica. Un esempio a questo proposito potrebbe essere il seguente. Un giorno mi capita di chiedere a un conoscente – un giovane che ha una relazione di particolare dipendenza con la madre e con il quale mi trovo in un’intensa relazione di vicinato – quanto generalmente si chiede quando ci si incontra fra conoscenti: «Come stai?». La risposta, apparentemente sorprendente, è stata: «Seduto!». Questa risposta letterale – in effetti lui si trovava in macchina al volante – mostra una difesa totale di fronte a un messaggio in cui veniva semplicemente chiesto come stessero andando le cose a casa. Probabilmente era accaduto qualche evento che da lui non poteva essere narrato sul momento. L’apparente e semplice domanda di saluto «Come stai?» era stata interpretata alla lettera e non in modo metaforico; forse anche perché l’eventualità che potesse essere una metafora, linguisticamente accettata nella routine della comunicazione, si scontrava con la necessità di quella persona di tacere su eventi appena accaduti in casa sua pur nel desiderio di comunicarli. La sua difficoltà di scherzare e di accettare “doppiosenso” era stata d’altra parte più volte rilevata. La confusione fra il letterale e il metaforico è del resto usualmente presente quando l’individuo vive in doppio legame. Allo stesso tempo, va riscontrata la capacità di costruire metafore o parlare per metafore della persona citata precedentemente; una capacità di elaborare e impiegare metafore che tuttavia non vengono considerate come tali, in contrasto inoltre con una pronta interpretazione letterale di messaggi che dagli altri sono considerati metafore e viceversa. Questo giovane, di circa 24 anni di età, si sentiva spesso preso in Nel doppio legame terapeutico noteremo invece come la persona si ritrovi a essere libera, ovvero in grado di metacomunicare fattualmente. 16
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doppio legame e, in queste situazioni per lui insostenibili, riscontrava la necessità di trasformarsi in un altro: se nella vita di tutti i giorni lavorava come contadino, quando si sentiva preso in doppio legame assumeva il ruolo del “giovane impiegato moderno”. In questo suo secondo ruolo, la risposta «Seduto!» poteva essere interpretata come una metafora: «Io sono a terra: mentre tu in piedi mi chiedi come sto, io sono in una posizione di inferiorità, che è la stessa posizione nella quale mi ritrovo in casa mia, impossibilitato a levarmi, anche se in una qualche maniera resto alla guida». L’aver trascorso la sua vita in una relazione di doppio legame con la madre lo metteva in condizione di rispettare continuamente il modello sistematico appreso. Un giorno, mi racconta di una sua esperienza di caccia al tordo. Mi racconta di un tordo più astuto, diciamo, degli altri; di un tordo che sfuggiva volando basso anziché, come usualmente fanno i tordi, volando alto; e, per accorciare un po’ la sua descrizione molto dettagliata su come il tordo volasse fra i rami di un albero e si posasse poi su un altro albero e ritornasse infine sull’albero precedente dove si trovava poco prima ecc., formulai questa domanda: «E poi l’hai preso?».17 La sua reazione fu di leggero stupore, manifestò incertezza e una sorta di preoccupazione eccessiva per quello che sarebbe potuto essere il vero, nascosto significato di ciò che io avrei detto, e rispose così: «No, gli ho sparato una botta e l’ho ammazzato. Stasera lo faccio cucinare da mia madre e lo mangiamo insieme agli altri che ho cacciato!». La difficoltà, se non l’incapacità, di giudicare adeguatamente che cosa l’altra persona vuole dire realmente, pone l’individuo che ha vissuto il modello sistematico del doppio legame in condizione di doversi difendere scegliendo sostanzialmente fra tre alternative d’interpretazione: a. pensare che in ogni informazione ci sia un senso recondito, in grado di danneggiarlo. In questo caso, che è il caso appena descritto, l’individuo si interessa in modo straordinariamente intenso ai significati reconditi delle parole, ai doppisensi, determinato a dimostrare che non può mai essere ingannato oggi come era invece stato Così posta, nel contesto linguistico e culturale locale la domanda si prestava a doppisensi a forte contenuto sessuale e in particolare omosessuale: “uccelli”, “prendere” ecc. sono sostantivi e verbi che vengono agevolmente disposti a configurare metafore e doppisensi di tal genere. 17
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ingannato per tutta la vita, o che non può essere ingannato qui in questo luogo da te, come invece è stato ingannato lì in quel luogo, puntualmente, da altri. Con la scelta di questa alternativa, l’individuo è continuamente alla ricerca di significati in ciò che l’interlocutore dice, e manifesta una diffidenza e una tendenza continua al sospetto: atteggiamenti paranoici; b. accettare in modo letterale tutto ciò che gli viene detto. Quando il contesto o il tono della conversazione gli sembrano contraddire ciò che gli viene detto, tenta di uscire dalla situazione di doppio legame, così come da lui percepito, di fronte a segnali metacomunicativi di questo genere, ridendo. Rinuncia di fatto a operare distinzioni fra i diversi livelli di messaggio, trattandoli tutti come trascurabili o come ridicoli: atteggiamenti ebefrenici; c. scegliere di ignorare i messaggi metacomunicativi, anziché trattarli con sospetto o ridendoci sopra. Questa scelta lo conduce a vedere e ascoltare sempre meno ciò che proviene dall’ambiente esterno, facendo il possibile per evitare risposte da parte dell’ambiente a quelle che sarebbero le sue valutazioni o le sue risposte; la persona spezza così la circolarità della comunicazione chiudendosi in se stessa, concentrandosi sui propri processi interni, operando una sorta di mutismo: atteggiamenti catatonici. Qualunque tipo di atteggiamento venga adottato – paranoico, ebefrenico, catatonico –, l’individuo che non sa riconoscere di che natura è il messaggio non è dunque in grado di scegliere correttamente l’alternativa che lo aiuterebbe a scoprire il significato dei messaggi che riceve: per far questo, infatti avrebbe la necessità di un aiuto consistente.18 Senza questo aiuto, ogni essere umano è simile a un sistema autocorrettivo senza regolatore: si dibatte a vuoto in distorsioni senza fine e sempre sistematiche, così come del resto ha appreso a fare nel lungo processo di formazione avvenuta attraverso la ripetizione di doppi legami e, soprattutto, di situazioni di doppio legame.
18
Cfr. Bateson, Jackson, Haley e Weakland 1962, in Sluzki e Ransom 1979, pp. 28-29.
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I. 3. Gli effetti del doppio legame I. 3. 1. Doppio legame come strumento o struttura della comunicazione La comunicazione può avere come strumento il doppio legame. Ma la comunicazione può anche avere una struttura di doppio legame. Non solo dunque operare per doppio legame, ma essere essa stessa doppio legame, strutturata come tale. Ancora, il doppio legame è una situazione che non solo è correlata alla comunicazione, ma che costituisce situazioni efficaci sotto l’aspetto dell’antropologia, della sociologia, della psicologia, della politica e dell’economia, ovvero situazioni esistenziali. La “realtà” delle norme, delle regole, è limitata – costruita, localizzata, istituita, collocata – e inscritta nelle percezioni degli attori nel contesto sociale delle interazioni: questo interactional context, così definito, è la situazione.19 E a proposito di situazioni e realtà delle situazioni, va da sé che «Se una situazione è definita come reale, questa sarà reale nelle sue conseguenze».20 Ognuna di queste situazioni esistenziali è in sé modello di apprendimento. E esse non sono mai riscontrabili in una forma semplice così come definita precedentemente, ovvero nella forma in cui è possibile identificare agevolmente i sei punti principali sopra descritti. Piuttosto, la situazione di doppio legame ha la tendenza a autoriprodursi e a autorafforzarsi. Una volta istituita, la situazione di doppio legame è quindi in grado di autorigenerarsi e amplificarsi. I. 3. 2. Situazioni potenziate di doppio legame In una situazione di doppio legame, la persona si trova di fronte a una comunicazione significativa per essa, una comunicazione che fornisce sostanzialmente due messaggi collegati l’un l’altro e incongruenA proposito di questa nuova prospettiva costruttivista sullo studio della trance e del doppio legame, come ha chiarito John Clyde Mitchell: “The importance of this idea was that it located the reality of norms and customs in the perceptions of the actors in a social situation.” (Mitchell, J. C. 1987:289) 20 Così infatti recita il geniale e troppo spesso dimenticato assioma di William Isaac Thomas: “If men define situations as real, they are real in their consequences”. (Thomas, W. I. & Thomas, D. S. 1928:572) 19
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ti tra loro, messaggi che sono di livello logico o di tipo logico differente. L’uscita dal campo è bloccata. Essendo impossibile l’uscita dal campo – ovvero la fuga –, l’instaurarsi altrove di una comunicazione soddisfacente, che rappresenterebbe il modo per rispondere naturalmente e adeguatamente ai messaggi incongruenti, è reso impossibile. La struttura sociale e esistenziale della relazione fra le persone nella situazione di doppio legame è determinante in questo senso: è la relazione di potere, ovvero la dipendenza di una o più persone da chi trasmette i messaggi contraddittori, a costituire il campo. È sufficiente considerare il cosiddetto “paradosso del barbiere”, attivato come situazione di doppio legame, per comprendere la forza strutturale del campo. Reichenbach dà un’interessante versione del “paradosso del barbiere”.21 Durante la guerra, il barbiere è un soldato. Il capitano gli ordina di radere tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli, ma nessun altro. È evidente, come suggerisce Reichenbach, che “non esiste un barbiere simile a quello della compagnia nel senso che abbiamo precisato”. Si tratta appunto di un paradosso pragmatico. Non c’è alcuna ragione per cui non si possa dare un simile ordine malgrado possa apparire privo di significato, assurdo, da un punto di vista logico. Ci si trova di fronte a un dilemma particolare così caratterizzato: 1. una forte relazione, dalla quale non si può uscire in nessuna maniera, fra l’ufficiale e il suo subordinato; 2. all’interno di questa struttura di relazione, l’ordine deve essere obbedito: non può essere disobbedito, ma perché lo si obbedisca deve essere disobbedito. Il soldato infatti è definito come “uno che si rade da solo”, se e soltanto se egli non rade se stesso, e viceversa; 3. il soldato-barbiere che è nella posizione di subordinato non è in grado di uscire dalla situazione, quindi non è in grado di dissolvere il paradosso commentandolo. Gli è negata la possibilità di comunicare sulla base appunto della sua situazione strutturale di subordinazione. Tale comunicazione ingiuntiva crea una situazione insostenibile, 21
Reichenbach 1947.
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e non solo per il subordinato. Ogni reazione a essa, all’interno dello schema stabilito dal messaggio, è paradossale, poiché il messaggio stesso è paradossale. Ovvero, ci si trova di fronte all’impossibilità di reagire in modo coerente e logico quando il contesto è incoerente e illogico. Il doppio legame, palese in questo caso, si identifica nelle due uniche alternative che si presentano al soldato: cercare di obbedire e naturalmente fallire, o disobbedire e comunque fallire. La situazione sarebbe completamente diversa se il soldato-barbiere non rimanesse entro lo schema stabilito dall’ordine, ma lo commentasse. Se comunicasse sulla comunicazione datagli dal capitano, reagirebbe di fatto al contenuto di tale ingiunzione: uscirebbe così dal contesto creatogli e non rimarrebbe intrappolato nel dilemma. La situazione strutturale della guerra, dell’ambiente militare e della relazione capitano-soldato non è tale comunque da permettere per definizione alcuna forma di metacomunicazione. Nessuna asserzione fatta entro un dato schema di riferimento può allo stesso tempo uscire dallo schema e negare se stessa allo stesso modo. È il dilemma di chi è preso dall’incubo mentre sogna: inutile qualunque cosa venga fatta poi nel sogno. Solo chi si sveglia può sfuggire all’incubo; ma svegliarsi significa uscire fuori dal sogno e quindi essere inattivi nel sogno, perché il risveglio non fa parte del sogno: è uno schema completamente diverso, è anzi la negazione stessa dello schema precedente. L’incubo potrebbe continuare per sempre, perché nulla entro lo schema ha il potere di negare lo schema. Oltre allo stato di subordinazione gerarchica in ambiente autoritario, anche lo stato di malattia o lo stato di infanzia o lo stato di inferiorità tecnica, conoscitiva e perfino economica e politica sono esempi di campo. E ancora: gli stessi messaggi che costruiscono o semplicemente scatenano forte emotività attraverso paradossi o doppi legami costituiscono un campo, cioè una relazione di dipendenza potenziale. Per la persona è dunque tanto necessario rispondere adeguatamente alla situazione comunicativa di doppio legame quanto impossibile realizzare ciò come opera di una sola persona: la duplicità e contraddittorietà del messaggio/dei messaggi implica una risposta duplice ma non contraddittoria. I due messaggi significativi, in contraddizione tra loro, prescrivono due ingiunzioni incongrue di comportamento, poiché ogni messaggio provoca in sé una risposta sul piano del comportamento: le
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due risposte congruenti si escluderebbero a vicenda, sarebbero in contraddizione entrambe, l’una rispetto all’altra. Interviene allora un processo di dissociazione: si generano così due persone proprio per rispondere “congruentemente” ai due messaggi.22 In effetti, la mancata risposta alla duplicità e all’incongruenza dei messaggi ricevuti, ovvero il mancato riconoscimento della differenza fra i due livelli di comunicazione, pone il ricevente del messaggio/dei messaggi in difficoltà di risposta comportamentale a diversi livelli: incapacità di discriminare l’ordine gerarchico dei messaggi ricevuti; instaurarsi della confusione soggettiva con la conseguente distorsione di idee e di emozioni e anche affetti; produzione di discorsi e di azioni – indicanti confusione e divisione –, o immediati o mediati da una reazione del tipo “tutto o niente” in relazione a un solo aspetto del messaggio del trasmettitore ecc. Evidentemente tali risposte inadeguate, o incomplete o confuse, danno occasione al trasmettitore di produrre un altro seguente messaggio di condanna della risposta. La sequenza, dunque, rafforza il primo doppio legame, assumendo la forma di un ampio, completo, potenziato doppio legame, ovvero istituisce una situazione potenziata di doppio legame: “perché ti arrabbi con me… io, che ti amo così tanto?”. La risposta adeguata è particolarmente difficile da formulare, se non impossibile. Parallelamente al doppio legame impiegato come strumento di comunicazione sono infatti attivati processi di dissimulazione, diniego e inibizione in aggiunta ai due messaggi fondamentali in contraddizione tra di loro o, nei casi più sofisticati, insiti negli stessi messaggi o inscritti nella stessa situazione di comunicazione.23 Ecco qui considerato il doppio legame sotto l’aspetto di struttura di relazione anziché sotto l’aspetto di mezzo di comunicazione. La dissimulazione è insita nella stessa natura del doppio legame. I messaggi non si confrontano direttamente l’uno con l’altro, poiché sono di livello o tipo logico differente: uno dei due messaggi verbali qualifica l’altro in modo incongruo, oppure un messaggio verbale è in contrasto con il tono di voce, oppure il messaggio verbale è in contrasto con i gesti, oppure il messaggio verbale è in contraddizione con la stessa posizione fisica o con la stessa situazione (per esempio: “Ti 22 23
Palmisano, A. L, 1996, 2000, 2001a, 2001b, 2002, 2003, 2006, 2007, 2008, 2013. Cfr. Weakland 1960, in Sluzki e Ransom 1979, pp. 46-47.
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considero da sempre un mio pari!”, esclamato mentre ci si alza in piedi, sovrastando l’altro che rimane seduto). Segnali quasi impercettibili possono essere facilmente ignorati o negati, ma possono drasticamente modificare o semplicemente invertire il significato del messaggio apparentemente più significante, ovvero più chiaro e enfatizzato. Nella situazione costruita all’interno del campo, cioè in una relazione di potere, chi emette il messaggio gode di un’autorità particolare; e il ricevente non riesce a concepire come il messaggio o il duplice messaggio possa essere incoerente: ricerca e assume a priori la coerenza del messaggio, fornendola a se stesso e all’altro – proprio secondo i noti processi esposti e puntualmente descritti nella teoria della dissonanza conoscitiva da Leon Festinger negli anni ’50 del secolo scorso,24 ma già raccontato da Fedro secoli fa in La volpe e l’uva. Siccome il ricevente non può né evitare né ignorare la persona che invia il messaggio ma non può neppure mettere in dubbio – né tanto meno in discussione – il messaggio o i messaggi, la posizione del ricevente è particolarmente critica. È il caso della maestra che dice al bambino in difficoltà: “Voglio aiutarti, e interrogarti per migliorare il tuo voto”, mentre lo guarda con occhi penetranti e carichi di sfida. Il diniego costituisce una possibilità di potenziare la situazione di doppio legame. È infatti sufficiente aggiungere ai due messaggi incongruenti fondamentali altri messaggi verbali o non verbali che negano apertamente l’esistenza di una contraddizione relativamente ai due fondamentali per avere effetti particolarmente dirompenti e duraturi. Il diniego viene poi a essere eventualmente rafforzato con altri messaggi di attribuzione di responsabilità al ricevente, insinuando l’incapacità del ricevente di comprendere, oppure sottolineando la coerenza del trasmettitore, oppure l’importanza gerarchica del trasmettitore rispetto al ricevente ecc. Allo scolaro che, con ardire, facesse rilevare alla maestra che il suo sguardo o il suo tono di voce ha qualcosa di minaccioso, la maestra potrebbe semplicemente rispondere: “Mi sorprendi con questa tua frase. Tu non sai quanto io sto cercando di aiutarti… ne hai proprio bisogno! E tu mi tratti così? E tu pensi questo di me?”.
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Cfr. Festinger, L. 1957.
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L’inibizione è in grado di potenziare straordinariamente la situazione di doppio legame. Questa consiste nell’ignorare e nel costringere a ignorare la reale complessità dell’ambivalenza dei messaggi nella comunicazione in corso e nell’ignorare e nel fare ignorare la possibilità di incoerenza, semplicemente dichiarando come questa ultima sia assolutamente fuori discussione. L’inibizione può anche consistere in un’esplicita proibizione di ogni commento ai messaggi comunicati, attraverso minacce o sanzioni di ogni genere: segnali di allontanamento da parte del genitore o del maestro, reazioni di nervosismo e insofferenza di fronte a ogni tentativo di commento, punizioni dirette ecc. La maestra che ha istituito la situazione di doppio legame sopraccitata, al rilievo dell’ipotetico coraggioso bambino, risponderebbe così: “Ma cosa stai dicendo, caro? lascia che ti aiuti!”. O, ancora, potrebbe così rispondere: “Non capisco come ti possa venire in mente una cosa del genere”; e poi, rivolgendosi alla classe, aggiungerebbe: “Non è incredibile?”; e, incominciando a ridere timidamente, condurrebbe tutta la classe a ridere del bambino, temerario in origine ma ora legato e rabbioso, se non del tutto confuso. Quando messaggi di dissimulazione, diniego o inibizione rinforzano l’originaria comunicazione di doppio legame, la combinazione produce una struttura di doppio legame ancora diversa, e su scala sempre più ampia. Messaggi incongrui o contraddittori in doppio legame seguiti da un messaggio di diniego, cioè da un messaggio che nega la presenza della contraddizione o la impedisce, è una combinazione che comprende dunque altri due messaggi incongrui di livello diverso. A questo punto, l’incongruenza è particolarmente difficile da scoprire e, soprattutto, da affrontare: la confusione generata nel ricevente è elevatissima. Processi del genere possono ripetersi, ampliandosi di continuo. La difficoltà di modificare i modelli di comunicazione di doppio legame e il loro potenziale nell’indurre sofferenza sembrano strettamente vincolati alla tendenza progressiva, cumulativa, autogenerantesi e produttrice di scale più ampie: è la situazione strutturale di doppio legame.25
25
Fra gli altri, cfr. Stanton and Schwarz 1954; Weakland 1960.
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II. IL DOPPIO LEGAME IN IPNOTERAPIA
II. 1. Il potenziale terapeutico del doppio legame Similia similibus curantur: questa affermazione non solo è alla base di una certa pratica magica ma, per le valenze terapeutiche che è in grado di mobilitare, è anche alla base di parte della medicina contemporanea, sempre dibattuta fra allopatia e omeopatia. Come il paradosso, il doppio legame può avere un potenziale terapeutico considerevole. Una applicazione, per esempio, è offerta dall’uso della dissociazione per doppio legame, non tanto al fine di costringere il “paziente” a compiere qualcosa di utile – e che non si sarebbe mai altrimenti ottenuto – ma soprattutto per permettere “l’integrazione dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro”, ovvero la soluzione separata dei/ai due problemi (messaggi) appartenenti ognuno a uno specifico livello (l’uno, al livello conscio; l’altro, al metalivello) ma presentati come appartenenti allo stesso livello: due soluzioni separate, dunque, che sono poi recuperate come la soluzione in fase post-ipnotica. Un esperimento condotto da Erickson aiuta a analizzare questo punto. Dopo aver preparato e istruito i partecipanti all’esperimento a proposito del comportamento da tenere, durante un seminario Erickson fece in modo di fare sedere accanto a sé un accanito fumatore: «Tutto era stato predisposto in modo che, ogni volta che Erickson si voltava a offrire una sigaretta al giovane, veniva sempre interrotto da qualcuno che gli rivolgeva una domanda e quindi si voltava, allontanando ’inavvertitamente’ le sigarette dalla portata del giovane. Più tardi, uno dei partecipanti chiese al giovane se avesse poi avuto la sigaretta dal dottor Erickson. Egli rispose: “Quale sigaretta?”, mostrando chiaramente di aver dimenticato l’intera successione. Rifiutò infine anche una sigaretta offertagli da un altro partecipante, dicendo che era troppo interessato alla discussione del seminario per fumare».26 26
Jackson 1957.
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Il giovane si era dunque trovato in una situazione sperimentale di doppio legame, certamente, ma di doppio legame terapeutico: una relazione importante (il pubblico…), messaggi contraddittori (dare/ togliere), l’impossibilità di commentare (il seminario in corso), la “involontarietà” aleggiante nella situazione. L’amnesia per la successione di doppio legame e il rovesciamento – da “lui non me la da” a “io non la voglio” – mostrano la soluzione unica che segue alle distinte soluzioni del problema / dei problemi che hanno interessato i due emisferi. Come giungere dunque alla formulazione di un doppio legame terapeutico? Cosa caratterizza questa forma di doppio legame? Quale è la sua struttura? Quale è poi, nella prospettiva dell’ipnoterapeuta e dell’induttore in trance rituale, il percorso da seguire per giungere a fondare la situazione di doppio legame terapeutico? II. 2. Suggestioni composte La dissociazione per doppio legame, attuata al fine di permettere “l’integrazione dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro”, ovvero al fine di integrare la soluzione separata ai messaggi appartenenti l’uno al livello conscio e l’altro al metalivello, attiva la ricerca inconscia e dunque l’identificazione di una soluzione nel processo inconscio, ovvero la risposta terapeutica: la soluzione in fase post-ipnotica. In ipnoterapia sono proprio le suggestioni composte, in particolare, a potere aprire la strada alla dissociazione per doppio legame. Una suggestione composta è costituita da due proposizioni unite da una congiunzione grammaticale o da una breve pausa che le pone in stretta associazione.27 Ecco alcune sottoclassi di suggestione composta:
Certamente, la logica, il linguaggio naturale e i processi mentali condividono alcuni interessanti aspetti; non vi è però tra loro un sistema di corrispondenza completa. Mentre un sistema logico o matematico può essere completamente definito, il linguaggio sociale naturale e i processi mentali sono infatti continuamente in uno stato di flusso creativo. Ciò significa che non esiste nessuna formula fissa, né un sistema logico, né un sistema linguistico che possano completamente determinare o controllare i processi mentali. 27
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a. suggestioni a campo affermativo – associazione di una nozione certa e evidentemente piacevole, (positiva) con la suggestione di una possibilità piacevole: per es. è una giornata così bella, andiamo a nuotare… b. suggestioni con rinforzo – la suggestione è seguita dal truismo (l’associazione positiva e motivante): per es. andiamo a nuotare, è una giornata così bella… c. suggestioni contingenti e reti associative – una suggestione è legata a un modello di comportamento costante o inevitabile: per es. a ogni sospiro che fai, puoi … per es. mentre continui a stare seduto, ti accorgerai … – le suggestioni contingenti possono essere unite in reti associative che creano un sistema di reciproco appoggio e impulso per stimolare e portare avanti un modello terapeutico di risposte. d. suggestioni per apposizione di opposti (o bilanciamento) – il bilanciamento tra sistemi opposti è un processo biologico basilare che si fonda sulla struttura del nostro sistema nervoso:28 per es. mentre la mano destra si alza, la sinistra si abbassa… – il bilanciamento è evidente anche a livello psicologico e sociale.29 e. suggestioni dopo shock, sorpresa, momenti creativi – lo shock offre la possibilità di un momento creativo nel quale l’in-
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Cfr. Kinsbourne and Smith 1974. Cfr. Erickson 1982, pg. 52.
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conscio del paziente è impegnato nella ricerca interiore di una risposta o di una idea che possa ristabilire l’equilibrio psichico. f. suggestioni per implicazione – l’implicazione è una forma psicologico-linguistica di base che fornisce un chiarissimo modello di suggestione indiretta;30 – il linguaggio gestuale e quello del corpo sono modalità non verbali di comunicazione che solitamente funzionano attraverso le implicazioni: per es. se ti siedi, allora puoi entrare in trance… per es. so che ora stai male… (sottolineando “ora”, si implica che “dopo” sarà diversamente) per es. alzerai solo il braccio sinistro… (sottolineando “solo”, si implica che non verrà alzato il braccio destro). Le implicazioni risultano essere maggiormente efficaci quando sono presentate come suggestioni anziché essere espresse direttamente. g. suggestioni per direttiva implicita – è una forma di suggestione indiretta che avvia una ricerca interna e dei processi inconsci, e che permette di sapere quando viene compiuta una risposta terapeutica; – si distingue in tre parti: 1) una introduzione a tempo obbligato per es. …appena … 2) una suggestione implicita che ha luogo nel paziente per es. …il tuo inconscio ha raggiunto l’origine di quel problema… 3) una risposta comportamentale che segnala il momento in cui la suggestione implicita è stata compiuta per es. …il tuo dito può sollevarsi… È proprio questa prima classe – con le sue sottoclassi – di suggestioni composte a aprire dunque la via alla strutturazione della situazione favorevole all’instaurarsi del doppio legame terapeutico. A titolo di esempio, ciò viene ottenuto attraverso l’uso di un termine, per es. “pane”, che implichi per associazione frequente e probabile un altro concetto, per es. “casa”. 30
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II. 3. Suggestioni per negazione, legame e doppio legame in ipnosi Una seconda classe di suggestioni composte conta al suo interno suggestioni che contribuiscono molto attivamente alla fondazione della situazione di doppio legame terapeutico. Si tratta in particolare delle suggestioni per negazione e delle suggestioni per legame. Ma ancor più, evidentemente, sono proprio le suggestioni per doppio legame, in senso stretto, a favorire la strutturazione della situazione di doppio legame terapeutico, ovvero a permettere la formulazione di quello che Erickson chiama tout court il “doppio legame terapeutico”. Ecco le principali sottoclassi di suggestioni composte in questione: a. suggestioni per negazione – il loro uso nasce dall’importanza di liberare la negatività o resistenza che si presenta ogni volta che un paziente sta seguendo una serie di suggestioni: in ogni paziente c’è infatti una chiara tendenza oppositiva o inibitoria. Il concetto di inibizione reattiva è molto sfruttato da Erickson: dopo la ripetizione di un compito (un compito difficile, naturalmente, come percorrere per esempio un labirinto o inerpicarsi per una erta salita ecc.), la persona mostra una volontà sempre minore di continuare, e più facilmente accetta percorsi alternativi o altri modelli di comportamento. La semplice espressione di una negazione da parte del terapeuta può allora innescare automaticamente la scarica di ogni inibizione e resistenza che si sia costruita nel paziente: per es. … e tu puoi, no? Va sottolineato, a questo proposito, quanto è più difficile capire una negazione che una affermazione. – L’uso della negazione può essere molto agevolmente introdotto nelle suggestioni contingenti, con l’uso della congiunzione “fino a che”: per es. non devi entrare in trance fino a che non sei realmente pronto…
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b. suggestioni per legame – offrono al paziente una scelta libera, cosciente, fra due o più alternative; – i legami vengono quasi sempre modellati su conflitti di evitamentoevitamento (scelta optata: il minore dei mali) e di avvicinamento-avvicinamento (scelta optata: il maggiore dei beni); – spesso possono essere molto efficaci anche legami generici: per es. vorresti entrare in trance ora o più tardi? per es. vorresti entrare in trance da seduto o da disteso? per es. vorresti entrare in una trance leggera, media o profonda? c. suggestioni per doppio legame – offrono possibilità di comportamento al di fuori dell’usuale raggio di scelta cosciente e di controllo volontario del paziente (nasce appunto dalla possibilità di metacomunicare). Erickson usa molto spesso il “doppio legame conscio-inconscio”. Mentre non possiamo controllare il nostro inconscio, possiamo consciamente ricevere un messaggio che può avviare processi inconsci: per es. se il tuo inconscio vuole che tu entri in trance, la tua mano destra si solleverà da sola; altrimenti si solleverà la mano sinistra… Il doppio legame conscio-inconscio depotenzia senza dubbio modelli consci a favore del potenziamento di modelli inconsci. Risulta pertanto di irrinunciabile utilità nell’induzione della trance e per la fondazione e strutturazione della situazione di doppio legame terapeutico, ovvero al “doppio legame terapeutico”, come lo chiama Erickson. d. suggestioni per doppia dissociazione doppio legame – tendono a confondere la mente conscia del paziente depotenziando schemi abituali, inclinazioni e limiti appresi: è spesso una mescolanza di tutte le forme di suggestione indiretta, implicando diverse sottoclassi di suggestioni composte; – con esse si ottiene una facilitazione delle dissociazioni, tendente a depotenziare gli atteggiamenti coscienti abituali del paziente, così che possono essere espressi livelli di risposta più involontari:
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per es. (dissociazione persona/corpo) tu puoi svegliarti come persona, ma non hai bisogno di svegliarti come corpo‌ per es. (dissociazione persona-corpo/corpo) tu puoi svegliarti quando il tuo corpo si sveglia, ma senza renderti conto del tuo corpo‌ Le classi di suggestioni composte sopraccitate, ovvero le loro sottoclassi, concorrono alla strutturazione del doppio legame terapeutico, fondando appunto la situazione particolare di doppio legame terapeutico: la situazione grazie alla quale, in fase post-ipnotica, la persona giunge a quella che è la soluzione, sua e solo sua, del problema. Come si sviluppa o, meglio, come sviluppare allora il processo per il quale la persona giunge a sfruttare il doppio legame in funzione terapeutica? Come configurare il doppio legame in modo che assuma la struttura di un doppio legame terapeutico?
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III. DOPPIO LEGAME COME COMUNICAZIONE NELLA TRANCE
III. 1. Doppio legame terapeutico Erickson nota come argomentazioni per doppio legame conducono a reazioni sfavorevoli quando i doppi legami sono stabiliti a favore dell’oratore contro il suo oppositore. Nella argomentazione dialettica, difatti, l’oppositore è proprio un avversario, e il doppio legame non può per definizione essere terapeutico. Erickson osserva allora che in questi dibattiti chi presenta un argomento per doppio legame a favore del suo oppositore e quindi lo smantella in una successiva fase, acquisisce di fronte al pubblico un significativo vantaggio nei confronti dell’oppositore. In questa presentazione dell’uso dialettico del doppio legame – decisamente non terapeutico –, Erickson mostra come impiegare a proprio vantaggio il doppio legame, attribuendo all’altro l’azione di binder, ovvero la responsabilità della formulazione di un doppio legame non terapeutico. Il doppio legame usato per presunti vantaggi personali, difatti, conduce puntualmente a pessimi risultati per tutti. Quando invece è configurato negli interessi dell’altra persona, “i benefici non tardano”. Per quanto riguarda l’ipnosi e l’uso terapeutico, è evidente che il doppio legame ha due funzioni: la prima è quella di sollecitare fenomeni ipnotici e la seconda è quella di facilitare risposte terapeutiche. Impiegato in questo senso, il doppio legame costituisce una libertà costruita, prima ancora che illusoria, di scelta fra due possibilità, nessuna delle quali realmente desiderata dal paziente ma entrambe necessarie per il suo benessere. Un esempio interessante di uso terapeutico dei legami è quello fornito da un legame semplice di questo genere: “Questa sera preferisci andare a dormire alle otto meno un quarto o alle otto?”. Questo è un tipo di legame che ha una sua efficacia nei confronti per esempio di un bambino recalcitrante nell’andare a letto alle otto di sera. La maggior parte dei bambini ma anche degli adulti posti in questa situazione di legame scelgono liberamente di andare a dormire alle otto; atteggiamento che non avrebbero avuto prima del legame semplice.
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Un tipo invece di doppio legame vero e proprio, usato a fini terapeutici, sempre adatto al caso di un bambino che abbia difficoltà di andare a dormire, può essere il seguente: “Vuoi farti il bagno prima di andare a letto o piuttosto preferisci metterti il pigiama in bagno?”. È evidente che non solo ci troviamo di fronte a un doppio legame, ma di fronte a un doppio legame con implicita una suggestione per confusione. Questo doppio legame è definito da Erickson doppio legame non sequitur. Qualunque scelta venga effettuata, essa conferma l’andare a letto, che è quanto poi l’esperienza ha già insegnato a ogni bambino: l’inevitabilità dell’evento assume la configurazione di una libera scelta. Bateson osserva che la maggior parte dei pazienti d’interesse psichiatrico sono particolarmente resistenti nel fornire al terapeuta informazioni vitali su se stessi e riescono a continuare a non fornirle a tempo indefinito. Così, Erickson stabilisce un’altra struttura particolare di doppio legame. Erickson ammonisce enfaticamente i pazienti, consigliando loro di guardarsi bene dal rivelare queste informazioni “vitali”. Ma li ammonisce dal rivelare le informazioni questa settimana. L’insistenza nell’importanza per loro di non rivelare tali informazioni fino all’ultima parte della settimana seguente è continua, e nell’intensità del loro desiderio soggettivo di resistere, falliscono nel valutare in maniera adeguata l’ammonizione di Erickson: non riconoscono in questa ingiunzione la direttiva implicita per negazione, ovvero il doppio legame che ordina loro di resistere all’ordine di preservare l’informazione e allo stesso tempo di mantenere l’informazione per sé. Se l’intensità della loro resistenza soggettiva è sufficiente, possono trarre vantaggio da questo doppio legame – davvero terapeutico, in virtù della sua specifica struttura – in modo da aprire alla conoscenza proprio le informazioni nascoste, senza più ritardare. In questo modo, il paziente ha contemporaneamente successo sia nell’intento di comunicare l’informazione come pure, soprattutto, nell’intento di resistere alla comunicazione di quella specifica informazione, per lui vitale in termini di preservazione dell’identità. Raramente i pazienti riconoscono la struttura del doppio legame, soprattutto quando è terapeutico, ma spesso confidano più tardi al terapeuta quanto sia stato facile per loro comunicare le informazioni utili di fatto a se stessi, senza tradirsi, e gestire al contempo i loro sentimenti di resistenza.
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Chi considera criticamente queste argomentazioni può avere una posizione di legittimo dubbio sull’efficacia di questo specifico doppio legame; ma deve comunque riconoscere che si trova a un livello secondario di conoscenza, rispetto a chi sta vivendo la situazione di doppio legame. Il paziente che si reca dal terapeuta, difatti, lo fa per molte e diverse motivazioni, tutte comunque originate da una situazione emotiva di disagio, e quindi si trova a un livello primario quando è esposto a un doppio legame. In effetti i pazienti non sono generalmente interessati a analizzare il doppio legame sotto l’aspetto puramente logico: il loro comportamento è strutturato da loro stessi, e il desiderio di superare il disagio sussiste. Il doppio legame può facilitare l’induzione della trance, e l’uso dell’ipnosi facilita a sua volta lo stabilirsi del doppio legame, moltiplicando la possibilità delle forme nelle quali può essere usato. Alcuni casi riportati da Erickson e Rossi mostrano la possibilità di strutturare vere e proprie situazioni di doppio legame terapeutico. III. 2. Strutturazione di situazioni di doppio legame terapeutico Caso 1: le unghie31 Seguendo l’ordine del padre, un giovane di 26 anni laureato in psicologia arriva nello studio di Erickson. Il suo problema era quello di mangiarsi le unghie, a volte fino a fare sanguinare le dita. Si trattava della sua soluzione per tentare di evitare le lezioni di pianoforte alle quali era costretto dalla famiglia. Ma la madre non si era mai commossa nel vedere i tasti sporchi di sangue, e le quattro ore giornaliere di pratica di piano continuavano dall’età di 4 anni. E lui aveva continuato a suonare il piano e a rosicchiarsi le unghie fino a quando questa attività non finì completamente fuori dal suo controllo. Ora si vergognava molto di essere stato mandato in terapia. Questo era il quadro quando l’uomo arriva da Erickson. Erickson assicura subito al giovane di trovare del tutto giustificato il Il virgolettato è tratto da Milton H. Erickson and Ernest L. Rossi 2005 (traduzione mia), in www.nlpweekly.com/Free-NLP/Milton-Erickson/archive-19387897/ e pagine web seguenti. 31
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suo risentimento, mostrando al contempo di essere incuriosito e anche divertito dal fatto che avesse acconsentito a partecipare al processo di auto-frustrazione per quasi 22 anni. Il giovane rivolge lo sguardo direttamente al terapeuta e fornisce una spiegazione. Erickson riassume allora al giovane la spiegazione di quanto avvenuto, ma in questi termini: «Per non suonare il pianoforte ti sei morsicato le unghie fino in fondo, fino a quando non è diventata una tua abitudine. E questo a dispetto del fatto che tu volessi delle unghie lunghe. In altre parole, per 22 anni ti sei privato del privilegio di morderti un bel pezzo di unghia lunga, uno di quei bei pezzi che tu ti saresti sentito bene fra i denti, con soddisfazione».
La risposta del giovane è la seguente: «Sto comprendendo perfettamente che cosa vuoi fare con me. Tu mi vuoi mettere nella posizione di farmi crescere le unghie così lunghe da permettermi una soddisfazione genuina, una vera e propria soddisfazione nel mordermele via, e rendere così ancora più meschino il mio rosicchiarle e ancora più frustrante».
Dopo una discussione abbastanza spiritosa, il giovane dichiara di non essere sicuro di voler davvero avere un’esperienza di ipnosi formale. Erickson accetta questa posizione, negando decisamente di volere compiere un qualunque sforzo formale per indurlo in ipnosi. Si tratta in effetti di un doppio legame reverse set, cioè per inversione: l’uomo stava chiedendo qualcosa che non era sicuro di volere veramente, e questo qualcosa gli veniva rifiutato. In questo modo non era legato a volerlo, perché ora lo poteva fare con tutta sicurezza: l’apparente slegare il giovane con il rifiuto formale di Erickson a legarlo, si trasforma di fatto in una suggestione per legame. Proseguendo la discussione, il terapeuta mantiene vivo l’interesse del giovane e quindi fissa la sua attenzione, mentre afferma con grande serietà e determinazione che questi potrebbe farsi crescere un’unghia lunga, e facendo questo trarrebbe grande gioia e orgoglio dal ritrovarsi con “un’unghia lunga abbastanza da permettersi una morsicatura soddisfacente”. In questa conversazione contrassegnata dall’attenzione del giovane sempre più fissata nei confronti del terapeuta, Erickson gli dice che è libero di frustrarsi con un continuo rodersi le unghie, ormai pressoché inesistenti, di tutte le altre nove dita. Non si tratta di una trance indotta formalmente, riconosce
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Erickson, ma il livello elevatissimo di attenzione del giovane indica che costui si trova in quella che definiamo una comunissima trance quotidiana, la trance nella quale si ritrova ogni individuo che è immerso in una conversazione di grande interesse. Le suggestioni composte operanti nella trance leggera sono dunque state rinforzate attraverso espedienti per stimolare il giovane con osservazioni apparentemente casuali e irrilevanti, e ripetendo nello stato di veglia le stesse istruzioni date durante la trance leggera. In effetti, quando si ripetono casualmente suggestioni nello stato di veglia subito dopo che il paziente le ha intese nello stato di trance, il paziente di fatto dice a se stesso: “Oh, certo, questo lo so già!”. In tal modo il paziente inizia a interiorizzare e a rinforzare la suggestione come fosse un aspetto già appartenente al proprio mondo interiore, e questa interiorizzazione delle suggestioni, in particolare delle suggestioni per negazione e per legame, è un agente effettivo di cambiamento comportamentale. Tornato da Erikson alcuni mesi dopo, e mostrando le sue splendide dieci unghie finalmente intere, l’uomo spiega nella sua prospettiva quanto è avvenuto: «Inizialmente ho pensato che tutto ciò fosse ridicolo, anche se la tua disposizione era molto seria. Dopodiché mi sono sentito spinto in due direzioni differenti. Volevo dieci lunghe unghie per le mie dita. Tu hai detto che io avrei potuto averne una, e che dovevo smettere di mordermi l’unghia e ottenere finalmente “una bocca piena di una vera e propria unghia”. Questo mi era dispiaciuto, ma mi sentivo obbligato a farlo, mi sentivo obbligato a continuare a mordermi le altre unghie delle dita. Questo mi aveva frustrato in maniera profonda. Quando quella unghia cominciò a crescere, mi sentii molto soddisfatto e felice. Ero più che mai tentato dal desiderio di mordermi quella unghia, ma sapevo che avevamo trovato un accordo su questo punto, che io ero d’accordo su questo punto. Mi accorsi che avrei potuto fare la stessa cosa con una seconda unghia; che comunque ne avrei avute otto da poter continuare a rosicchiare, facendo a meno di mordere questa seconda unghia che lasciavo crescere. Non ti voglio annoiare con tutti i dettagli. Il fatto è che tutto divenne sempre più confuso e frustrante. Tutto quello che feci è che continuai a farmi crescere sempre più unghie e a rosicchiarmi sempre meno le altre dita, fino a quando, semplicemente, smisi: “Basta con tutto ciò”. La compulsione dunque a crescere le unghie
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e insieme a rosicchiare le unghie, e sentirmi continuamente sempre più frustrato, era divenuta ormai insostenibile. Ma quali sono state le motivazioni che tu hai attivato in me, e come lavorano?».
Passati tanti anni, e divenuto poi amico di Erickson, quel giovane, ormai un buono psicologo, è oggi convinto che Erickson avesse con lui usato l’ipnosi in una qualche maniera, perché tutto ciò che ricordava della prima esperienza iniziale era “…una sensazione curiosa, come se non potessi muovermi, durante tutto il tempo in cui tu parlavi con me”. In effetti non si stava muovendo: non faceva altro che “… opporre resistenza alla più debole delle due forze…” Caso 2: l’enuresi32 Un padre, una madre e il figlio di dodici anni si presentano da Erickson. Il problema è l’enuresi del figlio: ha bagnato il letto da quando è nato. Loro hanno fatto di tutto: gli hanno strofinato il volto nelle lenzuola bagnate, lo hanno costretto a lavare le lenzuola, lo hanno picchiato, lo hanno privato di cibo e addirittura di acqua. Hanno provato tutti i tipi di punizione, e lui, imperterrito, ha continuato a bagnare il letto ogni notte. Erickson prende in mano la situazione, e fa questo discorso ai genitori: «Adesso lui è il mio paziente. Non voglio nessuna interferenza con la terapia che metterò in atto con vostro figlio. Ora lo lasciate stare in pace, e io e soltanto io troverò degli accordi con lui. Tenete la bocca chiusa e siate cortesi con il mio paziente».
I genitori sono così disperati che non fanno alcuna obiezione. Con dovizia di particolari, il terapeuta racconta poi al ragazzo di come ha trattato i suoi genitori. Il ragazzo sembra essere molto contento. Subito dopo avergli così parlato, però, Erickson continua: «Sai, Joe, tuo padre è molto alto e ha un fisico possente, è un grande Il virgolettato è tratto da Milton H. Erickson and Ernest L. Rossi 2005 (traduzione mia), in www.nlpweekly.com/Free-NLP/Milton-Erickson/archive-19387897/ e pagine web seguenti. 32
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uomo. Tu hai soltanto dodici anni, quanto pesa tuo padre? Molto più di te e non è neppure un po’ grasso. Quanto pesi tu? Meno di lui».
Il ragazzo non riesce a comprendere dove Erickson voglia arrivare con queste sue asserzioni. E il terapeuta continua: «Dimmi un po’, tu pensi che sia stata una cosa da nulla costruire quel potente fisico che tu hai, che ha un ragazzo di soli dodici anni? Pensi sia costato poche energie? Pensa soltanto a tutti i muscoli che hai costruito poco per volta. Pensa al peso che hai già raggiunto, pensa alla forza che sai già di poter esprimere. Devi averci messo molta energia per arrivare a questo in soli dodici anni di età! Cosa pensi che diventerai quando avrai l’età di tuo padre? Pensi che sarai alto soltanto quanto lui? e che peserai solo quello che pesa lui? Oppure pensi che potrai diventare ancora più grande e più pesante di tuo padre?».
A questo punto, Erickson incomincia a osservare la testa di Joe che gira in tutte le direzioni: Joe ha iniziato a creare una nuova immagine di se stesso, l’immagine di se stesso come uomo. Fissata così l’attenzione del ragazzo, e depotenziati i suoi schemi usuali di riferimento, Erickson continua: «Per quanto riguarda la questione del letto bagnato, so che tu hai avuto questa abitudine già per un lungo periodo, e oggi è lunedì. Pensi di poter smettere di bagnare il letto e avere un letto permanentemente asciutto a partire da domani notte? No, non ci credo proprio. E non credo che tu creda a questo; e neppure chiunque altro fra quanti hanno un minimo di cervello potrebbe pensare una cosa del genere. Pensi che riuscirai a avere un letto permanentemente asciutto a partire da venerdì? No, non lo penso; no, non lo pensi; nessuno lo pensa. In effetti, non mi aspetto da te di avere un letto asciutto durante questa settimana, per nessuna ragione! Perché dovrei? Tu hai avuto tutta una vita per crearti questa abitudine, e io semplicemente non mi aspetto da te un letto asciutto per questa settimana. Mi aspetto che sia bagnato ogni notte di questa settimana, e anche tu ti aspetti questo. Siamo d’accordo; ma io anche mi aspetto che sia bagnato il prossimo lunedì… Ma, sai, c’è una cosa che veramente mi incuriosisce e mi lascia ancora più incuriosito: avrai un letto asciutto per caso venerdì? o sarà giovedì? o dovrai aspettare fino a venerdì mattina per scoprirlo?».
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Joe fissa affascinato il volto di Erickson. Il ragazzo si trova ora nella comune trance quotidiana, non guarda da nessuna altra parte se non negli occhi del suo terapeuta. E così Erickson può continuare: Joe sta ascoltando tutte queste nuove idee, tutto ciò a cui non aveva mai pensato prima. Joe non è consapevole del doppio legame nel quale Erickson lo sta posizionando. La questione, così come posta da Erickson, infatti, fa parlare Joe a se stesso in questi termini: “Avrò un letto asciutto?”. La reale questione invece è stata così autoposizionata: “…ma in che notte accadrà?”. Il ragazzo si ritrova ormai in un contesto di riferimento all’interno del quale ciò che rimane da scoprire è soltanto in quale notte avrà il letto asciutto. Così Erickson continua: «Verrai il prossimo venerdì pomeriggio da me, e mi dirai se è stato venerdì o giovedì; perché io non lo so, tu non lo sai. La tua mente inconscia non lo sa. La parte più profonda della tua mente non lo sa, la parte frontale della tua mente non lo sa. Nessuno lo sa, dovremo aspettare fino a venerdì pomeriggio».
Entrambi non hanno ormai altro da fare che aspettare fino a venerdì pomeriggio. E Joe torna di pomeriggio da Erickson e racconta: «Dottore, ti sei sbagliato, non è stato né venerdì né giovedì, ma è stato sia venerdì che giovedì».
Erickson risponde allora: «Mah, due letti asciutti uno dietro l’altro non significano certo che tu avrai un letto permanentemente asciutto. Già la prossima settimana sarà passata la metà del mese di gennaio, e certamente nell’ultima metà non puoi imparare a avere un letto permanentemente asciutto, e febbraio è un mese molto corto».
La capziosità dell’argomento di Erickson è evidente: che importa che febbraio sia un mese corto? Ma Erickson prosegue: «Non so se il tuo letto permanentemente asciutto comincerà a esserlo il 17 di marzo, che è il giorno di San Patrizio, o all’inizio di aprile, il giorno degli scherzi. Non lo so io, non lo sai nemmeno tu. Ma c’è una cosa che io voglio che tu sappia; voglio che tu sappia che non mi interessa quando inizierà. Nemmeno per sbaglio, neanche un po’, neanche un pochettino questa cosa mi riguarda».
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Che la questione dell’inizio di “un letto permanentemente asciutto” non fosse un problema di Erickson è una suggestione post-ipnotica, una suggestione che avrebbe seguito Joe per il resto della sua vita. La serie di suggestioni per negazione, per legami e per doppi legami, precedute da suggestioni composte, con rinforzo, dopo sorpresa, per implicazione ecc. elaborate qui da Erickson ha strutturato una situazione di doppio legame terapeutico. Joe non ha nessuna idea di che cosa sia un doppio legame, ancor meno cosa sia un doppio legame terapeutico. Neppure potrebbe comprenderlo. L’uso del doppio legame e perfino del triplo legame, come lo definisce Erickson, è sempre parte della strategia ipnoterapeutica. Si tratta di presentare delle nuove idee e delle nuove forme di comprensione, relazionandole in maniera indiscutibile a un futuro remoto. Ed è decisamente efficace presentare idee terapeutiche e suggestioni postipnotiche in modo da renderle contingenti relativamente a qualcosa che accadrà nel futuro. Nello hic et nunc della seduta terapeutica, Joe sarebbe cresciuto più grande e più forte, sarebbe andato a scuola, poi al collegio; eppure Erickson non ha mai menzionato la scuola superiore a Joe: ha soltanto citato l’università, il più remoto futuro che si potesse immaginare in quel momento, e ventilato l’idea di una possibile carriera di giocatore di pallone per Joe. Erickson ha insomma fatto di tutto perché Joe non pensasse più a un letto bagnato. Il terapeuta si è posizionato in maniera che il giovane paziente pensasse quanto più possibile a un futuro remoto e a tutte quelle cose che avrebbe potuto fare invece di pensare a ciò che avrebbe potuto fare quella notte, cioè bagnare il letto. Ancora una volta era stata operata la scelta più semplice: “…opporre resistenza alla più debole delle due forze…” Caso 3: gli spinaci33 Un giorno, uno dei figli di Erickson guarda il piatto di spinaci sul tavolo imbandito per la cena, e dichiara: “Non mangerò niente di quella roba!”. Il virgolettato è tratto da Milton H. Erickson and Ernest L. Rossi 2005 (traduzione mia), in www.nlpweekly.com/Free-NLP/Milton-Erickson/archive-19387897/ e pagine web seguenti. 33
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Erickson approva in maniera incondizionata: “Certo, non sei abbastanza grande d’età, né abbastanza grosso e neppure abbastanza forte…” Si tratta evidentemente di un doppio legame, la cui seconda parte – implicita: “…per poter mangiare gli spinaci…” – rende la posizione del ragazzo meno solida, mentre rende più desiderabili gli spinaci. La madre, naturalmente, prende le parti del figlio, sostenendo: “Lui è grande, eccome, abbastanza; e anche grosso, abbastanza…” La questione diventa quindi un argomento dibattuto fra la madre e Erickson, un argomento per adulti, per grandi. In questa situazione, ovviamente, il ragazzo si schiera dalla parte della madre, e diviene in parte già grande… Alla fine, Erickson si mostra disposto a un compromesso, cioè a lasciar mangiare al ragazzino metà di un cucchiaino di spinaci. Madre e figlio trovano insoddisfacente questa proposta, e allora Erickson generosamente decide di permettere al ragazzino di avere metà piatto di spinaci. Il ragazzino mangia quanto più velocemente possibile il piatto di spinaci e immediatamente chiede una seconda porzione. Erickson continua a giocare la parte di chi è riluttante a concedere tutto ciò, ma la madre insiste, sostenendo il ragazzo. Il ragazzo mangia infine gli altri spinaci che gli sono stati concessi, e Erickson ammette con ostentata sofferenza: “Sei più grosso e più forte di quanto io pensassi”. Del resto, fra il desiderio di essere “grande, grosso e forte” e il desiderio di non mangiare spinaci, la scelta operativa, nello stato di trance comune e quotidiana, non poteva non essere che quella di “…opporre resistenza alla più debole delle due forze…” L’asserzione “sei più grosso e più forte di quanto io pensassi” dà un nuovo status al ragazzo, e lo offre proprio nella sua prospettiva. Erickson non ha chiesto al ragazzino di rivedere la sua auto-immagine, la sua auto-rappresentazione, ma per via indiretta lascia capitare che ciò avvenga: a) attraverso una “opportunità”, ovvero un framework, uno stage, un palcoscenico – costituito dalle due differenti posizioni relative all’argomento sostenute dalla madre e da Erickson – sul quale il ragazzino può rivedere e riconsiderare con attenzione il proprio comportamento, revisionandolo e riformulandolo; b) attraverso le implicazioni di questo cambiamento nel comportamento che il ragazzino trae dall’ammissione sofferta di Erickson relativamente alla sua grandezza.
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Gli aspetti fondamentali di questo approccio indiretto consistono nella ristrutturazione delle circostanze, ovvero nella ristrutturazione dei vari elementi che permettono al soggetto di compiere una scelta appropriata, e di compierla individualmente e liberamente. III. 3. Dallo “pseudo-legame terapeutico” alla struttura del doppio legame terapeutico Al gruppo di Bateson, Jackson, Haley e Weakland, i pionieri dello studio del doppio legame, poi più precisamente definito come doppio legame schizogenico, Frieda Fromm-Reichman aveva riferito, con una comunicazione personale (1956), della sua esperienza di applicazione terapeutica del paradosso in forma di doppio legame.34 Fromm-Reichman riporta il caso di una sua giovane paziente, “schizofrenica grave”, che aveva costruito una propria religione politeista, popolata di potentissime Divinità. Di fronte alla terapeuta, la giovane paziente dichiara che le è stato espressamente ordinato dal “dio R.” di non parlare con i terapeuti. Fromm-Reichman risponde con determinazione, affermando l’inesistenza del “dio R.” e dello stesso suo mondo, accettandone tuttavia l’esistenza di entrambi per la paziente: «Per te esiste, e lungi da me il pensare di poterti togliere questa convinzione, non ci penso nemmeno. Perciò ti parlerò in termini di quel mondo, però solo se tu riconosci che lo faccio per farti capire che per me non esiste. Ora vai dal dio R. e digli che tu e io dobbiamo parlare e che lui deve darti il permesso. Digli anche che io sono un medico e che tu hai vissuto con lui nel suo regno dai sette ai sedici anni, cioè per nove anni, e lui non ti ha aiutato. Perciò ora deve permettere a me di provare, per vedere se tu e io possiamo farcela. Digli che io sono un medico, e che questo è ciò che voglio cercare di fare».35
Il doppio legame in questione è così identificabile: se la paziente crede nel suo “dio R.”, (ottenendone il nulla osta) si coinvolge nella terapia, che implica la debolezza della Divinità; se la paziente dubita nella potenza del suo “dio R.”, può comunque coinvolgersi nella terapia. 34 35
Cfr. Bateson, Jackson, Haley e Weakland 1956, in Sluzki e Ransom 1979, pg. 41. Ibidem.
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Si tratta di un doppio legame che segue suggestioni per implicazione, per negazione e per legame semplice. Non viene però formulato, almeno per quanto permette di comprendere la descrizione che fornisce la terapeuta, in una situazione di trance indotta e neppure di trance giornaliera comune. Soprattutto appare essere un paradosso formulato nei termini dei consueti schemi di riferimento dello stesso paziente, e sembra comunicare messaggi di minaccia di sopravvivenza per il “dio R.” al metalivello. Il doppio legame non è formulato tanto per la paziente ai due livelli (conscio e inconscio, nei termini della teoria del doppio legame schizogenico), quanto piuttosto per la coppia paziente-“dio R.” al metalivello, ed è formulato nei termini logici del paradosso. Se di doppio legame davvero si tratta, allora è un doppio legame che di terapeutico ha solo il fatto che sia stato “tirato” durante la terapia, e non certo per la sua struttura. In effetti, sulla base della prassi ipnoterapeutica, la situazione di doppio legame terapeutico sembra essere costruita da una serie di suggestioni per legame e doppio legame ecc. che conduce a lasciare rilevare una struttura specifica [del doppio legame terapeutico]. L’insieme dei paradossi e delle suggestioni composte, per negazione, per implicazione, per dissociazione e doppia dissociazione ecc., costituisce difatti il terreno nel quale formulare il doppio legame opportuno ai fini terapeutici. Ma esso si qualifica come tale nella situazione e struttura di doppio legame terapeutico, ovvero manifestando una sua specifica struttura all’interno della quale paiono essere privilegiate le ingiunzioni primarie e secondarie positive e assolutamente evitate le ingiunzioni primarie e secondarie negative. Sulla scorta dei casi analizzati, e riconsiderando alla luce della specifica prassi ipnoterapeutica la teoria del doppio legame schizogenico e del doppio legame terapeutico, le due strutture del doppio legame, isomorfe per certi aspetti ma non coincidenti, possono essere descritte in modo paradigmatico come mostra la tabella seguente.
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Tavola sinottica della doppia struttura del doppio legame
Il doppio legame schizogeno (Bateson et al.)
Il doppio legame terapeutico (Erickson)
Due o più persone (in antagonismo)
Due o più persone (in interazione)
La vittima è “incalzata” dal persecutore Il paziente e il terapeuta condividono un obiettivo, a priori Il legato è avvolto dal legatore Il burattino è mosso dal burattinaio… e da altri Esperienza ripetuta
Esperienza ripetuta (o perfino singola)
Il doppio legame è ripetuto e non costituisce Il doppio legame è ripetuto ad libitum, un singolo evento, per quanto traumatico: è se è il caso, fino a ottenere il successo stabilita una situazione di doppio legame che terapeutico struttura la relazione Una ingiunzione primaria negativa
Una ingiunzione primaria positiva
“Se non fai così, io ti punirò”
“Accetto che continuerai a fare così”
Una ingiunzione secondaria negativa
Una ingiunzione secondaria positiva
Contraddice l’ingiunzione primaria a un livello logico differente (metalivello) e come la primaria è rafforzata da punizioni e/o minacce alla sopravvivenza: stabilisce e rafforza conflitti fra i due livelli logici, ovvero fra il livello primario (conscio) e il secondario (inconscio)
Agisce a un livello logico differente (metalivello) facilitando la interazione creativa fra il livello primario (conscio) e il secondario (inconscio): rende possibili le risposte, integrate, ai due livelli permettendo la soluzione dei conflitti precedentemente in corso
Una ingiunzione terziaria negativa
Una ingiunzione terziaria positiva condivisa
La vittima, il legato, il burattino, è incapace, ovvero impossibilitato a uscire dal campo Il campo si dissolve con il conseguimento dell’obiettivo terapeutico che lega il paziente: la scelta (sempre possibile) risolve la mutua intesa Percezione e interpretazione dello universo in Terapia conclusa per cambiamento del termini di doppio legame comportamento La vittima, il legato, il burattino, non necessi- Il cambiamento del comportamento lo ta più l’insieme delle condizioni: è strutturato libera dalla ingiunzione terziaria condiper doppio legame, autopotenziato visa e dai doppi legami
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La situazione di doppio legame strutturata nel caso riportato da Fromm-Reichman, dunque, rispetta apparentemente la formulazione della ingiunzione primaria positiva – “… ti parlerò in termini di quel mondo, però solo se tu riconosci che lo faccio per farti capire che per me non esiste…” –, e non realizza l’ingiunzione secondaria positiva – non rende possibile la risposta integrata ai due livelli – né l’ingiunzione terziaria positiva, intese come occasione di liberazione dallo schema di riferimento iniziale della paziente: il doppio legame resta schizogenico nella sua struttura anche se ha un effetto presumibilmente e verosimilmente terapeutico in questa vicenda. Usare il doppio legame schizogenico in terapia non significa infatti trasformare il doppio legame schizogenico in doppio legame terapeutico: il “buon uso”, al di là della fase iniziale induttiva, non ne modifica la struttura. Il doppio legame terapeutico è tale in quanto la sua struttura è specifica e differente, per quanto isomorfa, dalla struttura del doppio legame in sé, come dimostrano invece le situazioni di doppio legame terapeutico costituite dalla prassi di Erickson: strutturare la situazione terapeutica in modo tale da permettere al paziente in stato di trance di “…opporre resistenza alla più debole delle due forze…” L’analisi giustappositiva delle due strutture di doppio legame non conduce dunque alla preclusione dell’uso legittimo di ogni forma di legame, doppio legame e triplo legame in ogni momento del processo di induzione ipnotica e di gestione della trance, come pure ovviamente in ogni momento utile della prassi terapeutica, e specifica e definisce il doppio legame terapeutico, potenziandolo.
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Evidenze neuroscientifiche di trance ipnotica: evoluzione storica e applicazioni 1
Giuseppe Vercelli
Abstract Neuroscientific evidence of hypnotic trances: historical evolution and applications The study and interpretation of hypnosis and the phenomena which occur through modified states of consciousness has very ancient roots. This article takes the current knowledge about hypnosis into consideration with reference to the recent discoveries of neurosciences and offers a scientific interpretation of this discipline which has been mystified for too long. The magic-religious phase, the mesmeric magnetic phase, the psychological and physiological phase are reported while the recent therapeutic applications are described on the basis of phenomena which develop in subjects during an inducted hypnotic state through the amplification and recognition of the “mental representation of reality”. Keywords: hypnosis, neuroscience, modified states of consciousness, representation, reality
Breve storia della trance ipnotica Tutte le scienze hanno avuto un’origine comune nella magia e nella superstizione, ma nessuna è stata lenta come l’ipnosi nello scrollarsi di dosso le suggestioni sovrannaturali di tali origini. Ed è proprio per
Questo articolo è la versione riveduta e corretta di Vercelli, G. “Evidenze neuroscientifiche di trance ipnotica: evoluzione storica e applicazioni”, in DADA Rivista di Antropologia post-globale, www.dadarivista.com, n. 1 Speciale “Visione, possessione, estasi”, 2014:201-212. 1
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questi motivi che ancora oggi questo stato di coscienza genera, in chi ne sente parlare, sentimenti e atteggiamenti contrastanti. Per comprendere come l’ipnosi sia intrinsecamente connessa con l’evoluzione dell’uomo è opportuno conoscere come essa sia stata interpretata attraverso i tempi, esattamente come conoscere la propria storia completa aiuta una persona a darsi un senso, a comprendersi, a farsi comprendere. La storia dell’ipnosi può essere inquadrata in quattro grandi fasi, prendendo spunto dalla lettura storica fatta da F. Granone nel suo “Manuale”. La prima fase è quella “Magico-religiosa”. L’essere umano si è evoluto ma non al punto da funzionare in modo completamente diverso dall’epoca dei faraoni e ciò ci permetterebbe di affermare che, probabilmente, alcune cerimonie religiose del passato possono essere oggi rilette come pratiche ipnotiche, quali per esempio “Il sonno nel tempio” che era praticato come rito di guarigione per greci e romani, oggi assimilabile alle fenomenologie del sogno catartico o di attivazione del sistema di autoguarigione. Granone cita le pratiche di iniziazione degli indiani Chippewa in cui è previsto che lo “stregone” (o meglio lo sciamano) accompagni in un sonno magico i giovani da iniziare: durante questo “sonno” il soggetto acquisirebbe tutte le informazioni utili per la sua vita adulta. Questa interpretazione magico-religiosa è ancora presente ai giorni nostri in molte culture, dal Sud America all’Asia, all’Oceania, mentre in Europa questa interpretazione dell’ipnosi arriva fino al tardo Settecento. Interessante la figura del prete cattolico Johann Gassner (1727-1779) che curava i credenti-pazienti per mezzo di un rituale religioso esorcistico, che spesso sfociava in urla e convulsioni da parte dei malati. Il prete risolveva il “caso” orientando le convulsioni in diverse parti del corpo, ordinando l’espulsione del “male” attraverso mani e piedi. Di fatto l’analisi della procedura di intervento può essere ricondotta a quattro passi principali. Il primo passo consiste nell’appellarsi e utilizzare un sistema di convinzioni e credenze del soggetto; nel secondo si attua la prescrizione del sintomo, cioè si agisce con l’obiettivo di provocare la manifestazione evidente del sintomo, che così si rivela nelle sue modalità e intensità. Questa situazione corrisponde di fatto a una accettazione del “potere” del terapeuta, sul sintomo appunto. Nel terzo passaggio si concretizza lo spostamento del sintomo da un sistema di credenze limitante, proprio della vita personale dell’individuo, a un sistema di credenze terapeuti-
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co ed è proprio in questa fase che, grazie alla potenza del terapeuta o di qualche entità invocata, si attua l’eliminazione del sintomo. Infine, nel quarto e ultimo passo, si ottiene la correzione del comportamento deviante e delle credenze limitanti. Fino a quando le pratiche ipnotiche, e le guarigioni, venivano inquadrate in questa fase, ogni spiegazione della fenomenologia in atto era riferita a entità divine, infernali o comunque sovrannaturali. La seconda fase è definita “Magneto-fluidica” e appartiene a tutto il diciottesimo e diciannovesimo secolo. È con la figura di Franz Anton Mesmer (1734-1815) che l’ipnosi trova una nuova spiegazione fenomenologica. Secondo Mesmer la causa dell’esperienza ipnotica è da ricondurre all’esistenza di un fluido magnetico animale che ha valenza terapeutica in quanto capace di ripristinare gli equilibri e l’armonia dell’organismo. Con questi presupposti, e soprattutto con i grandi risultati ottenuti da Mesmer, in Europa si sviluppa un forte interesse alla pratica ipnotica e al “mesmerismo” tanto che, nel 1784, l’Accademia Reale di medicina inizia lo studio del fenomeno e con il Rapport des Commissaires de la Société Royale de Médecin nommés par le Roi Louis XVI pour faire l’examen du magnétisme animal dichiara, dopo varie fasi contradditorie, che il magnetismo animale avrebbe efficacia terapeutica, riconoscendo addirittura evidenze di chiaroveggenza. Con il proseguire delle esperienze pratiche nascono nuove teorie che fanno riferimento a “forze radianti” tra cui le teorie di stampo paranormale che si basano su spiegazioni fisiche, mentre altre teorie metapsichiche continuano a rifarsi a spiegazioni spirituali o extrafisiche. Ma rimane un fatto: comunque la si interpreti, questa disciplina chiamata ipnosi funziona e genera fenomenologie spesso inaspettate e extra-ordinarie. Nel 1882 un altro eminente studioso della trance, il medico francese Charcot, formula una nuova teoria, basata su una interpretazione energetica della trance, dando molto significato al potere e all’influsso dell’ipnotista sul soggetto ipnotizzato: l’ipnosi viene definita e interpretata come una nevrosi sperimentale assimilabile all’isteria. Questa interpretazione era in realtà molto viziata dal campo di intervento di Charcot, che al tempo si occupò molto della cura delle nevrosi isteriche. Sempre in questo periodo si collocano anche gli studi dell’Abate Faria e del medico inglese J. Braid, al quale dobbiamo il termine moderno di “ipnotismo” e di “monoideismo”, come vedremo in seguito. Braid sostiene, con i suoi esperimenti e le sue teorie, che gli effetti della trance potevano es-
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sere attribuiti a un’alterazione prodotta dal sistema nervoso attraverso la concentrazione dell’attenzione e la fissità dello sguardo. Nella terza fase, definita “Psicologica”, i medici francesi Bernheim e Liébault, appartenenti alla cosiddetta “Scuola di Nancy”, criticano la visione di Charcot evidenziando come la fenomenologia ipnotica sia individuo-dipendente, cioè ognuno ha la potenzialità di sviluppare manifestazioni ipnotiche con connotazioni che appartengono alla sua esperienza pregressa. In questa fase anche Sigmund Freud si approccia allo studio e all’utilizzo della trance ipnotica e nella “Recensione a L’Ipnotismo – di August Forel”, pubblicata in origine nel 1889 in Wiener medizinische Wochenschrift scrive: «Per spiegare i fenomeni ipnotici sono state proposte tre principali teorie. La prima, che ancora oggi prende il nome da Mesmer […] è così aliena dalla nostra impostazione scientifica che non se ne tiene più conto. La seconda teoria, quella somatica […] l’ipnosi è considerata come una condizione fisiologica alterata del sistema nervoso, che può essere provocata mediante stimoli esterni […] Questa teoria afferma che tali stimoli possono indurre l’ipnosi solo se c’è una determinata predisposizione del sistema nervoso, e che perciò solo i nevropatici, e soprattutto gli isterici, possono essere ipnotizzati: essa non tiene conto dell’influsso delle idee nell’ipnosi. Forel si dimostra senz’altro favorevole a una terza teoria, quella della suggestione, elaborata da Liébault et al. Questa teoria sostiene che tutti i fenomeni ipnotici sono effetti psichici, quindi lo stato ipnotico è generato dalla suggestione e non da stimoli esterni […]».
Un altro modo di intendere questa terza teoria sullo stato ipnotico è ben definito da Bernheim, per il quale la trance ipnotica sarebbe uno stato psichico del tutto particolare che può essere indotto artificialmente; tale stato attiverebbe, con diverse intensità, la propensione dell’essere umano a subire l’effetto di una idea e di attuarla. L’ipnosi è uno stato di suggestionabilità esaltata, realizzabile sia con gli occhi chiusi (sonno ipnotico) che aperti. Tra gli studiosi di spicco di questa fase psicologica ricordiamo il contributo, ancora oggi importante per comprendere la trance, di Emile Coué (1857-1926). Egli sostiene che la suggestione agisce sull’immaginazione e sarebbe quest’ultima a influire sulle funzioni del nostro corpo. Agire sull’immaginazione significa avere la possibilità di guarire organi ammalati attraverso la costante ripetizione dell’autosuggestione adatta all’individuo. Que-
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sto può avvenire perché non si possono pensare due cose contemporaneamente e ogni pensiero che occupa la mente in modo esclusivo diventa realtà e si trasforma in azione. Coué inoltre definisce l’autosuggestione affermando che ogni suggestione agisce e si concretizza soltanto se accolta e fatta propria dal soggetto stesso, trasformandosi così da idea ad azione. Un altro importante studioso di questa fase è Pierre Janet (1859-1947) che, studiando il fenomeno dell’amnesia post-ipnotica, ritiene che l’ipnosi sia conseguenza della strutturazione di una coscienza secondaria dissociata che temporaneamente sostituisce la coscienza del normale stato di veglia. Con questi presupposti egli si dedica molto all’utilizzo di tecniche di connessione mentecorpo con finalità terapeutiche e volte al benessere della persona. In questo vasto panorama interpretativo, nel pieno fiorire della psicoanalisi, Freud, che prima si era approcciato alla trance con finalità terapeutiche, attacca poi l’ipnosi nella sua interpretazione, sostenendo che suggestione e ipnosi coincidano: l’azione dell’ipnosi sarebbe puramente sintomatica poiché, al termine della suggestione fornita, sarebbero rimasti inalterati i conflitti coperti durante la trance ipnotica. Il confronto tra psicoanalisi e ipnosi raggiunge anche toni pesanti se pensiamo alle accuse degli psicoanalisti in merito alla dipendenza del soggetto dall’ipnotista (concezione errata). In epoca più moderna i conflitti si placano e molti psicoanalisti iniziano a utilizzare la trance ipnotica come strumento di lavoro. Roger Bernhardt, psicoanalista e ipnoterapeuta americano afferma: «Freud ha analizzato l’ipnosi e l’ha tralasciata: semplicemente non era riuscito a risolvere il problema che si era prefissato. Personalmente trovo questo fatto abbastanza ironico, poiché buona parte dei motivi per cui ho adottato l’ipnosi risiedono nel fatto che l’analisi si è rivelata impotente di fronte a certi problemi che l’ipnoterapia ha risolto abbastanza efficacemente». La quarta fase definita “Fisiologica” vede l’ipnosi approdare all’interpretazione scientifica moderna, passando attraverso i noti studi e gli esperimenti del russo Ivan Pavlov, per il quale la suggestione sarebbe un esempio di riflesso condizionato. In trance ipnotica si verifica una parziale inibizione corticale, mentre la presenza delle altre zone non inibite permetterebbe la realizzazione delle diverse fenomenologie ipnotiche, attivabili tramite la parola. Durante questa fase l’ipnosi inizia ad acquistare sempre maggiore credibilità scientifica grazie anche allo sviluppo di nuovi e moderni strumenti e supporti tecnologici,
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quali per esempio le tecniche di neuroimaging, in grado di rilevare e misurare il funzionamento anatomico e fisiologico di tale fenomeno. Durante tutta la sua lunga storia, ovvero dall’origine del genere umano, «l’ipnosi è stata utilizzata non solo come uno strumento medico e psicoterapeutico, ma anche come una pratica spirituale, una continua forma di intrattenimento, e anche come una piattaforma per andare in profondità nello studio della coscienza umana. Le varie teorie sull’ipnosi, così come le idee popolari sulla sua natura, sono state reiteratamente sostenute, rifiutate e fatte rinascere, continuamente contraddicendosi, influenzandosi e fondendosi l’una nell’altra» (Pintar e Lynn, 2008). Con questi presupposti risulta difficile definire in modo univoco il concetto di trance, da sempre strettamente collegata all’idea di mistero, in quanto esperienza non ordinaria di coscienza. «L’ipnosi è infatti un processo che coinvolge l’intero organismo, concepito come unità psicosomatica in intimo contatto, azione e reazione con l’ambiente che la circonda: è pertanto un insieme di fenomeni neurologici, biochimici, elettrici, psicologici, sociali, forse anche parapsicologici, troppo complesso perché si possa far luce su ogni suo aspetto con i mezzi di indagine attuali e forse anche futuri». (Guantieri, 1973, 85) Facendo riferimento alla pratica di uno dei più grandi ipnotisti clinici dello scorso secolo, Milton H. Erickson, la trance ipnotica è definita come “uno stato di accresciuta consapevolezza e responsività alle idee” (Erickson, 1958b). Il torinese Franco Granone definisce l’ipnotismo come “la possibilità di indurre in un soggetto un particolare stato psicofisico che permette di influire sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del soggetto stesso, per mezzo del rapporto creatosi fra questi e l’ipnotista” (Granone, 1962-1989, 3). Un altro concetto importante nello studio e nell’utilizzo della trance è quello di “monoideismo plastico” o ideoplasia, concetto spesso sintetizzato dalla parola “monoidea”. Il monoideismo può essere di tipo sensorio o motorio e corrisponde alla presenza, nella mente di un individuo, di un’unica idea dominante (generalmente sotto forma di immagine ben definita) che attiva la fenomenologia corrispondente, quindi per esempio l’immagine di un fuoco acceso attiverà sensazioni di calore, mentre l’immagine di un movimento genererà un principio
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di attivazione dei distretti muscolari coinvolti nel gesto pensato (Carpenter, 1852). Fenomenologia e neurofisiologia della trance: cosa accade a livello cerebrale Che cosa avviene quindi nello stato di trance in seguito all’attivazione della personale monoidea utile ad elicitare l’esperienza fenomenologica dell’individuo? In sintesi potremmo affermare che tutto ciò che l’individuo sa fare bene nello stato di normale veglia, lo può fare meglio nello stato di trance ipnotica. Il livello di intensità della fenomenologia sarebbe direttamente proporzionale alla capacità di commutare in stato di trance. Ecco di seguito quali sono le principali evidenze di una trance vissuta o in atto: 1. La rappresentazione interna (insight) prevale sugli stimoli provenienti dal mondo esterno; 2. Il cono percettivo è ristretto e focalizzato, diminuisce la consapevolezza periferica; 3. Si verifica la sensazione di non stare in alcun luogo specifico, o anche di trovarsi in una localizzazione spaziale indefinita, facilmente trasformabile. La percezione dello spazio, come quella del tempo, è sospesa o alterata; 4. È possibile esercitare un controllo sulla muscolatura liscia, che di solito è indipendente dalla coscienza, modificando, almeno in parte, le risposte dei visceri, dei vasi sanguigni, del cuore; 5. Potenziamento della capacità psichiche quali la memoria, l’intuizione, il problem solving, la creatività; 6. L’individuo accede alla possibilità di percepire più intensamente le proprie risorse interiori, utilizzandole in modo mirato verso l’obiettivo desiderato. Dal punto di vista neuroanatomico con il concetto di “trance ipnotica” si intende uno stato modificato di coscienza, raggiunto senza l’utilizzo di sostanze, che coinvolge sia la dimensione fisica sia la dimensione psicologica dell’individuo; un particolare funzionamento dell’individuo che gli permette di influire sulle proprie condizioni fi-
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siche, psichiche e comportamentali. M. H. Erickson definisce l’ipnosi come un tipo molto particolare di comportamento complesso e insolito, ma normale, che, in condizioni opportune, può essere sviluppato probabilmente da tutte le persone comuni e anche dalla gran parte di quelle che hanno problemi di salute. Si tratta di una particolare condizione psicologica e neuro-fisiologica nella quale la persona funziona in un modo speciale, un modo in cui può pensare, agire e comportarsi come nel normale stato di coscienza, grazie all’intensità della sua attenzione e alla forte riduzione delle distrazioni. Lo stato ipnotico permetterebbe di interagire con l’elaborazione del significato al di sotto della soglia della coscienza bypassando la naturale criticità della mente caratteristica dello stato di veglia: è necessario quindi chiarire che l’ipnosi non equivale ad un’accettazione a-critica dell’informazione: il cervello non è in stand-by. Vedremo qui di seguito come funziona il cervello durante l’ipnosi, quali sono i correlati neurofisiologici della trance e quali sono i generatori fisiologici dello stato ipnotico. Nelle pagine a seguire infatti verranno presi in esame questi aspetti al fine di esplicitare cosa concretamente avviene a livello cerebrale durante l’ipnosi in modo da fornire maggiore scientificità ad un tema spesso oggetto di pregiudizi e mistificazioni. Riprendendo il modello di Rainville et al., del 2006, (fig. 1) possiamo riassumere la fenomenologia della trance ipnotica in cinque punti: 1. Rilassamento e distensione mentale; 2. Raggiungimento della trance: focalizzazione dell’attenzione su uno o pochi stimoli target (absorption); 3. Abbassamento del monitoraggio di stimoli esterni, della censura e del giudizio critico; 4. Distorsione spazio-temporale e della percezione del sé; 5. Automaticità dei movimenti e delle risposte percepite solo come agite e non pensate (es. analgesia, levitazione della mano).
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Fig. 1 Modello fenomenologico dell’ipnosi (Rainville et al., 2006)
Lo stato ipnotico è uno stato di coscienza modificato, diverso dal sonno e dalla veglia, in cui il cervello non è in stand-by ma in stato di controllo. Dal confronto tra stato ipnotico e stato di veglia a riposo, infatti, sono state rilevate diverse divergenze nelle attivazioni di alcune strutture cerebrali: • delle strutture prefrontali (ACC dorsolaterale, orbitofrontale, anteriore); • delle strutture deputate alla regolazione degli stati attentivi (Lobo parietale sinistro e parietale inferiore, Regioni striatali e talamiche, Emisferi cerebellari e verme); • delle strutture deputate alla regolazione degli stati coscienza (ACC, talamo, nuclei del tronco encefalico). MODELLO ANATOMICO FUNZIONALE Secondo il modello anatomico funzionale di Rainville del 2003 (fig.2) si evince che il rilassamento e il raggiungimento della trance coinvolgono attivazioni corticali e processi neurali correlati, bilaterali, ma non simmetrici.
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Fig. 2 Modello anatomico funzionale (Rainville 2003)
Il rilassamento si è dimostrato essere associato a: • decrementi di rCBF (flusso sanguigno cerebrale) nel segmento tronco encefalico, nel talamo, in alcune regioni dell’ACC, nelle cortecce S1 e S2 e nell’insula; • abbassamento della vigilanza; • diminuita capacità di rispondere agli stimoli esterni; • distorsione spazio-temporale (cortex parietali); • alterata percezione del sé corporeo (cortex S1 e S2, insula). Il raggiungimento della trance invece si è dimostrato essere associato a: incrementi di rCBF nel tronco encefalico, nel talamo e nell’ACC. Il pattern di attivazioni asimmetriche e bilaterali di rilassamento ed induzione della trance potrebbe quindi rifarsi a processi neurali in competizione sulle stesse popolazioni di neuroni oppure a processi paralleli che interagiscono su popolazioni di neuroni diverse; tuttavia pare che alla base dell’induzione dello stato ipnotico vi sia l’interazione tra cortecce prefrontali destra e sinistra e il network tronco dell’encefalo – talamo – ACC.
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IPNOSI: FOCALIZZAZIONE DELL’ATTENZIONE
Fig. 3 Attenzione
L’attenzione svolge un ruolo fondamentale per il raggiungimento dello stato ipnotico. Sintetizziamo di seguito alcuni modelli presenti in letteratura sull’argomento. Gruzelier e Crawford, 1992 Questi autori propongono un modello neuropsicofisiologico dell’ipnosi in cui conferiscono un preciso correlato psicofisiologico alla suggestionabilità d’organo, individuando nelle differenti capacità attentive individuali la causa della diversa suscettibilità ipnotica (capacità a creare immagini suggerite). Gruzelier e Warren, 1993 Con questo modello si evidenziano le analogie tra lo stato ipnotico e la sindrome frontale: in soggetti altamente ipnotizzabili la suggestio-
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ne, caratterizzata dalla focalizzazione dell’attenzione su una consegna, produce un’attivazione dei lobi frontali ed una conseguente inibizione di alcune funzioni quali il senso di consapevolezza e il monitoraggio (tipicamente frontali). Gruzelier, 2005 – Coinvolgimento delle FUNZIONI COGNITIVE FRONTALI: ACC e LFC L’autore si propone di studiare la dissociazione, nell’ambito delle funzioni attentive frontali, tra l’allocazione delle risorse attentive volontarie e la risoluzione di un conflitto esterno alla suggestione. Nel suo disegno sperimentale pone come ipotesi che individui altamente ipnotizzabili non siano in grado di allocare volontariamente le loro capacità attentive sulla risoluzione di un conflitto cognitivo esterno alla suggestione benché questo venga percepito. Monitorando l’attività neurale dell’ACC, relativamente alla percezione di un conflitto cognitivo, e della LFC, relativamente alla capacità di risolvere il conflitto, è stato possibile arrivare alle seguenti conclusioni: • esiste una relazione tra processi attentivi e differenze di suscettibilità; • in soggetti altamente ipnotizzabili, i processi di allocazione delle risorse attentive risultano compromessi dalla suggestione ipnotica; • la capacità di percepire un conflitto cognitivo (funzione dell’ACC) e la capacità di concentrare l’attenzione sulla risoluzione dello stesso (funzione della LFC, ovvero la corteccia latero-frontale) sembrano essere oggetto di una dissociazione indotta dallo stato ipnotico. La suggestione ipnotica contempla dunque il coinvolgimento dei lobi frontali e delle funzioni cognitive a essi deputate. In particolare, sono di rilievo l’attivazione della Corteccia Cingolata Anteriore, ACC e della Corteccia Laterale Frontale. Il ruolo della suggestione è stato evidenziato attraverso la modulazione delle capacità attentive e di risoluzione di conflitti cognitivi percepiti.
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In sintesi È ora possibile sintetizzare una panoramica su quelli che sono stati i quesiti principali sull’ipnosi e le relative risposte che gli studi hanno potuto dare: 1. L’emisfero destro non è da considerarsi come organo unico produttore dello stato ipnotico. 2. Lo stato ipnotico non è prodotto da un’unica struttura cerebrale. 3. I suoi correlati neurofisiologici sono da ricercarsi in primo luogo nelle strutture cognitive coinvolte nella regolazione degli stati di coscienza e degli stati attentivi. 4. L’induzione dello stato ipnotico e la suggestione sembrano condurre ad una riconfigurazione funzionale dell’attività cerebrale. Questa può essere in primo luogo ricondotta al rilassamento (induzione classica) e alla focalizzazione dell’attenzione sulla monoidea dominante e oggetto della trance (stato di absorption). In seguito a quanto descritto si può quindi concludere che la configurazione assunta dal network corticale e sottocorticale durante la trance ipnotica è consegna-dipendente, cioè dipende dal tipo di monoideismo che viene sviluppato dal soggetto. Le cosiddette trance di visione, di possessione e di estasi corrispondono quindi a network e attivazioni neurofisiologiche diverse e variabili da individuo a individuo. Applicazioni della trance ipnotica: esperienze e performance In ipnosi una persona è in grado di modificare la percezione del mondo esterno: può percepire stimoli che in realtà non ci sono e non percepire invece quelli che sono presenti, oppure può distorcere percezioni di stimoli effettivamente esistenti creando illusioni. In ipnosi è possibile modificare il vissuto sensoriale, il vissuto dello schema corporeo e in particolare è possibile un controllo del dolore. Il soggetto in ipnosi può orientare con facilità la propria introspezione nei diversi settori del suo organismo, può ampliare o ridurre le sensazioni che provengono dall’interno del suo corpo e può alterare i parametri fi-
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siologici avvertibili, come il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, la temperatura cutanea. Con l’ipnosi è possibile entrare nella propria storia e variare i criteri di elaborazione dell’informazione in ingresso; è possibile modificare i significati che il soggetto ha dato in passato alle sue esperienze fruendo delle alternative di cui già possedeva. Lo stato ipnotico, nello specifico, contribuisce a: 5. amplificare oppure de-amplificare specifici elementi dell’esperienza; 6. generare nuove associazioni; 7. generare dissociazioni. Attualmente l’ipnosi viene impiegata in svariati ambiti con obiettivi differenti. Con finalità cliniche e terapeutiche in Medicina (chirurgia e analgesia, ostetricia, oncologia, obesità, allergologia, dermatologia, ematologia, ecc.) e in Psicologia clinica (sempre più utilizzata con buoni risultati nelle terapie di sostegno, nel controllo delle emozioni come disturbi d’ansia e attacchi di panico, delle dipendenze per esempio da alcol, fumo e droghe e nei disturbi alimentari). L’utilizzo dell’ipnosi avviene anche in ambito sportivo e in altri settori della Psicologia della prestazione: in quest’ultimo ambito l’utilizzo di tecniche ipnotiche non si pone un obiettivo terapeutico, ma al contrario va strettamente limitato all’ottimizzazione di risorse e potenzialità dell’individuo per permettere il raggiungimento di uno stato ottimale di forma fisica e mentale per affrontare al meglio la sfida in atto. La trance ipnotica risulta utile in quanto strumento capace di creare un contesto favorevole all’attivazione di risorse individuali, che corrispondono spesso a una modificata percezione della realtà e a nuove possibilità di risoluzione dei problemi. Si può affermare che la trance è una condizione spontanea e naturale, che accade quotidianamente: pensando anche solo all’esperienza di leggere un libro appassionante in cui ci si indentifica con il protagonista, o di vivere intensamente un’esperienza ci rendiamo conto di come sia comune a tutti la sensazione di sentirsi totalmente concentrati e assorti in ciò che si sta facendo, dimenticandosi di ciò che ci circonda. Queste esperienze possono essere definite come stati alternativi di coscienza, o di aumentata con-
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sapevolezza, ovvero stati di trance ipnotica indotti in modo del tutto naturale (trance naturalistica). Alla luce di quanto esposto si può quindi definire l’ipnosi come uno stato alternativo di coscienza, prodotto da una focalizzazione dell’attenzione (su una monoidea), definito da specifiche attivazioni corticali e sottocorticali in cui si manifesta la massima connessione e interazione fra mente e corpo, con un’amplificazione sensoriale e un’attivazione delle risorse latenti (G. Vercelli, G. Bounous, 2004). La celebre frase dell’ipnotista Milton H. Erickson – “L’ipnosi non esiste, tutto è ipnosi” – potrebbe, in epoca moderna e alla luce delle recenti scoperte neuroscientifiche, essere riformulata in: l’ipnosi non esiste… esistono soltanto prove di ipnosi. E queste prove sono tutto intorno a noi, quotidianamente, fin dall’alba della nostra esistenza. Bibliografia Bernhardt R., Martin D., Autoipnosi, Armenia Editore, Milano, 1998. Carpenter, W.B., On the influence of suggestion in modifying and directing muscolar movement, independently of volition, Royal Institution of Great Britain, 1852, pp. 147-153. Erickson, M.H., “Pediatric Hypnotherapy”, American Journal of Clinical Hypnosis, 1, 1958b, 25-29. Gatto, S., L’ipnosi, Milano, Xenia, 1995. Granone F., Trattato di ipnosi, Torino, Utet, 1962-1989. Guantieri, G., L’Ipnosi, Milano Rizzoli, 1973. Pintar, J., Lynn, S.J., Hypnosis: A brief history, New York, Wiley, 2008. Rainville, P., Price, D.D., “Hypnosis phenomenolgy and neurobiology of counsciousness”, International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 51 (2), 2003, 105-129. Vercelli G., Bounous G., Ghiande dello stesso ramo, Torino, Libreria Cortina, 2004.
La dimensione terapeutico-esistenziale della trance: un caso di studio Raffaella Sabra Palmisano
Abstract The therapeutic-existential dimension of trance: a case-study The article presents an analysis of a coaching path in the world of body art and body modifications. The use of hypnosis has been requested by the coachee, during the informal meetings before the beginning of the path, during various discussions related to the context of body suspensions and the use of trance. Much of the information, although useful to better understand the use of trance in the context of body modifications and body art, was omitted both in reporting events and hypnotic inductions as it was expressly requested by the coachee in order to better protect its privacy. The article provides a precise overview of what happens in a coaching process related to both physical performance and management of work and some aspects of everyday life. Hypnosis has been the leitmotif of the whole process, and has allowed a “domino effect” of strengthening the management and organizational performative skills of the coachee in the world of body modifications and body art. Keywords: hypnosis, SFERA Method, trance, coaching, body suspension.
Introduzione L’ambiente della body art e della modificazione corporea è certamente esclusivo. Si tratta infatti di pratiche molto delicate: scarificazioni, branding, solar branding, skin peeling/removal, piercing, sospensioni, impianti subcutanei, tongue splitting ecc. Alcune di queste (come per esempio le mutilazioni corporee) si trovano, dal punto di vista legale, in una situazione “limite”. Pur se esercitate da professionisti spesso qualificati, che hanno alle spalle una lunga formazione (dall’anatomia alla chirurgia, dai sistemi di sicurezza alla storia dei rituali), a causa dei pregiudizi a esse legati,
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l’accesso a queste pratiche e soprattutto al loro “mondo” è tendenzialmente riservato a pochi “selezionati”. Si tratta di performances che da ormai qualche decennio vengono praticate in Occidente ma che sono originariamente parte di rituali religiosi (nel contesto di culti di trance) non europei. La reinterpretazione in chiave culturale moderna delle antiche sospensioni rituali è stata introdotta nel mondo della body art negli anni’60; verso gli anni ’70 sono state reinterpretate in chiave artistica e dagli anni’90 sono passate dall’essere pratiche rituali all’essere, nella maggior parte dei casi, pratiche ludico-sperimentative. Le sospensioni sono impensabili senza un’adeguata preparazione nei sistemi di sicurezza e nel rigging tanto quanto senza una adeguata preparazione anatomico-chirurgica. Ogni sospensione è praticata tramite l’inserimento di ganci nell’epidermide: i ganci sono legati (rigging) a dei fili connessi a una struttura elevata, di altezza regolabile. Ciò permette a chi la pratica di essere completamente sospeso in aria (si può stare fermi o dondolare, essere sospesi singolarmente o sospesi ad un’altra persona già sospesa). Il momento dell’inserimento dei ganci nell’epidermide e il momento in cui si inizia a pesare sui ganci sono quelli di massimo dolore della performance: a questi consegue un’aumentata produzione di endorfine. Vi sono poi innumerevoli tipi di sospensione, che cambiano nome in base al posizionamento dei ganci nella pelle. Mi ha incuriosito in particolare il fatto che la sospensione venga oggi praticata spesso senza alcuna conoscenza della trance e dell’aspetto curativo (che intendo qui come possibilità di relazionamento altro al proprio corpo) ma mantenendo in alcuni casi l’aspetto più “spirituale”. Nel contesto delle mie ricerche su “corpo, sacro e cura” ho avuto modo di frequentare l’ambiente in questione. È capitato allora che si sia rivolto a me un noto performer, la cui produzione di endorfine era quasi “bloccata” dalla memoria corporea della performance traumatica. Mi sono chiesta dunque se il Metodo SFERA1 fosse applicabile ad Elaborato da Giuseppe Vercelli – psicologo, psicoterapeuta, autore di numerose pubblicazioni scientifiche, esperto di ipnosi e ipnoterapia, docente presso l’Università di Torino –, il Metodo SFERA ha dato notevoli risultati nel settore sportivo e aziendale, 1
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alcune pratiche di body art e modificazione corporea, in particolare alle performances di sospensione corporea. Ho deciso quindi di sperimentarlo sulle sospensioni corporee con l’apporto di tecniche ipnotiche, poggiando sulle conoscenze di body art e modificazione corporea che il mio aspirante coachee avrebbe potuto fornirmi. Data la componente di alta performance fisica, il Metodo SFERA avrebbe potuto in effetti trovare utile impiego. Il caso del performer In uno dei nostri primi incontri informali, il coachee mi ha rivelato di essersi completamente allontanato da quella pratica a causa di una performance traumatica. Il trauma era derivato non da un incidente tecnico ma da quella che lui ha definito come “schifosa e finta spiritualità importata, che odio e mi distrae” e alla “pessima forma fisica” in cui era durante quella performance. Aveva gestito lui tutta l’organizzazione della suscon durante la quale aveva vissuto l’esperienza traumatica e aveva passato tutte le tre giornate a sospendere gli altri partecipanti; era inoltre in un periodo “molto stressante”. Al momento di dolore dell’inserimento dei ganci e a quello dell’inizio di sospensione non era conseguito il classico aumento di endorfine: il dolore era fortissimo e la sospensione era stata breve. Gli ho pertanto parlato della possibilità di far corrispondere la performance potenziale a quella effettiva, grazie all’analisi e al potenziamento dei fattori che costituiscono una performance2. Ci siamo rivisti più volte e ho avuto occasione di conoscere i suoi colleghi e collaboratori. Irresistibilmente incuriosito dal Metodo SFERA, mi ha chiesto di incontrarci per una spiegazione approfondita, invitandomi a pranzo. rendendo possibile un’approfondita conoscenza dei principi della performance e dell’allenamento mentale. Si rimanda alla bibliografia per ulteriori approfondimenti. 2 Si tratta dei fattori del Metodo SFERA: Sincronia, Punti di Forza, Energia, Ritmo, Attivazione. Non vengono qui spiegate né riportate le analisi dei fattori delle performance del coachee se non dove strettamente necessario, poiché volendo qui mettere in rilievo l’importanza di un percorso personalizzato e attualizzato di volta in volta a seconda delle necessità e volendo tutelare la privacy del coachee si è preferito concentrare l’analisi su altre questioni. Si rimanda alla bibliografia per ulteriori approfondimenti.
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In quell’occasione abbiamo passato insieme circa tre ore. Anche se “informale”, è stato il nostro primo vero colloquio, nel quale abbiamo ripreso argomenti già affrontati negli incontri precedenti, abbiamo avuto occasione di parlare del perché non avesse mai fatto un tipo di percorso simile e chiarito le questioni relative al tipo di percorso e alla privacy. Gli ho introdotto modello e metodo e accennato ad alcune tecniche: mi aveva infatti chiesto se in questo percorso avremmo usato l’ipnosi, perché gli era capitato di sentire parlare di ipnosi da un suo amico: “l’ipnosi che ha fatto lui faceva schifo e non voglio delle cose pseudo spirituali o psicologiche!”. Ha sottolineato però, come ciononostante, fosse curioso di saperne di più e sperimentare. Mi sono informata sul tipo di ipnosi esperito dal suo amico; si trattava di ipnosi non-ericksoniana e in quel caso caratterizzata da tono paternalisticoautoritario. Il pregiudizio del coachee derivante dall’esperienza dell’amico mi è sembrato un ottimo punto di partenza per un approccio ipnotico costruttivista “dialogico”. Abbiamo quindi discusso dell’importanza dei rituali di trance in società non occidentali e dello stato di trance in generale, in modo da chiarire le incomprensioni dovute al pregiudizio tanto e ingiustamente diffuso nei confronti di questo stato di coscienza amplificato che permette il potenziamento delle capacità in diversi ambiti di applicazione. Durante questo incontro informale, il coachee mi ha raccontato molto di sé, e di quanto fosse in un periodo poco soddisfacente. Mi ha parlato ancora della sospensione traumatica e ha formulato da sé l’obiettivo da raggiungere in termini positivi, senza che io gli chiedessi nulla. La “restituzione” è stata emozionante. Mi ha detto di non credere “né in ciò che non è scienza né nelle cose spirituali. Questo Metodo SFERA sembra super tosto… e tu conosci bene il mio ambiente, con le sue pratiche e le sue problematiche”. Ha quindi deciso di fare questo percorso con me. E io con lui. Nella prima fase del percorso, sono venute alla luce molte questioni relative alla vita famigliare e privata del coachee che non volevo affrontare direttamente, e che si sono facilmente risolte nel momento in cui si è lavorato su altre questioni a queste apparentemente non legate in modo diretto.
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Nella seconda fase del percorso sono stati rivelati dal coachee problemi di salute derivanti da un incidente di qualche anno prima; forti mal di schiena che non gli permettevano di lavorare al meglio: dolori continui alla colonna vertebrale, sciatalgia, persistenti emicranie ecc. Sono stati risolti con una seduta di ipnosi. Ha poi avuto dei problemi (che per motivi di privacy non verranno qui riportati) che ha potuto superare senza intoppi: emotivamente “senza questo percorso non avrei retto”. Inoltre, il coachee ha cominciato una serie di cambiamenti molto forti nella sua vita e ascrivibili, secondo lui e secondo persone a lui legate, all’applicazione del Modello SFERA e al mutato rapporto con se stesso che ne è conseguito: ha infatti operato drastici cambiamenti lavorativi e nella propria vita privata. Ciò che è accaduto durante il percorso ha agito come un “domino”: tutto il lavoro fatto in direzione dell’obiettivo della sospensione ha avuto un impatto determinante sia nella vita privata che nella vita lavorativa del coachee. La maggior parte delle sedute si è svolta nel suo studio, inizialmente in modo irregolare a causa del suo problema di disorganizzazione nella gestione dei tempi e della gestione e attribuzione delle responsabilità, poi, in seguito alla prima induzione, con precisione. Gli incontri non si sono svolti a intervalli di tempo regolari, sia per le problematiche relative al periodo precedente la prima induzione, sia perché entrambi dovevamo viaggiare spesso per lavoro, quindi le date sono state decise di volta in volta in base agli impegni reciproci. Lo studio in cui si svolgevano le sedute era molto ampio, diviso in più stanze. La stanza che abbiamo usato è quella in cui lavorava lui, adiacente alla stanza in cui lavoravano due dei suoi colleghi e collaboratori. Non essendo separata da una porta, durante le sedute in cui colleghi e collaboratori erano presenti veniva installato un separé. Nella trascrizione dei dialoghi ho omesso le volgarità. Nelle induzioni ho usato le parole del coachee per descrivere sia gli stati indesiderati che quelli desiderati, dunque la trascrizione di alcune induzioni non è completa. Tutti i “compiti dati” sono stati discussi prima e dopo, chiedendoci perché e a cosa servissero, scambiandoci sempre un feedback. Alcuni
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dei compiti, il coachee se li è dati da solo. Durante ogni seduta c’è stato un feedback su quella precedente e sulla seduta stessa e sul tempo trascorso tra una seduta e l’altra. Il coachee non riusciva a “trovare il ritmo giusto” perché non era capace di “stare centrato”: la mancanza totale di concentrazione nei momenti della giornata che non riguardavano la pratica di modificazioni corporee influiva pesantemente sulle sue performance e sull’organizzazione e gestione della sua quotidianità. L’obiettivo Per quanto riguarda la definizione dell’obiettivo, anche se già espresso e motivato dal coachee in termini più che chiari e convincenti, sono stati applicati tutti i “test” di verifica (SMART, PURE, CLEAR). Rivedendo tutto il percorso svolto, posso confermare che l’obiettivo “reale” del coachee non fosse tanto quello di poter fare di nuovo una sospensione, quanto il valore stesso di quell’obiettivo, ovvero “dare il via a molte cose”. Di fatto, è come se l’obiettivo del poter fare di nuovo una sospensione fosse stato raggiunto molto presto, dando quindi il via a quelle “molte cose” che il coachee ha realizzato e continua a realizzare con successo. D’altra parte, “all of our experiences take place in our brain”3: durante le induzioni, il coachee ha avuto modo di praticare delle sospensioni, con tutte le caratteristiche che si auspicava. Il coachee Il coachee è un “operatore della body art e delle modificazioni corporee”. Il suo lavoro consiste quindi nel praticare modificazioni corporee: piercing; scarificazioni: cutting, peeling ecc.; scalpelling, ricostruzione lobi, punching lobi; implant; genital beading; tongue splitting; branding e così via. Durante i primi incontri, sia prima di parlare direttamente con lui 3
M. H. Erickson 1982.
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che dopo, ho potuto osservare il suo modo di lavorare e di relazionarsi a clienti, colleghi e amici: mi è sembrato distaccato e poco empatico, pur mantenendo un’inequivocabile professionalità coi clienti e con i colleghi. Essendo apparentemente poco empatico e volutamente distante e “razionale”, ho deciso che nella prima seduta formale sarei stata apparentemente poco “empatica” e molto “razionale” anche io, in modo da trovare una base comune di linguaggio da cui partire. Ma l’inconscio ha lavorato per me. A Seduta 1 Autovalutazione seduta Prima di questo incontro ho praticato una leggera autoinduzione: ero molto tesa e sentivo l’ansia da prestazione. Sono scesa dal bus prima della mia fermata e ho fatto una camminata “ipnotica” fino allo studio. Ciò mi ha permesso di essere molto concentrata, amplificando la mia capacità di ascolto durante la seduta. Dopo, non ho percepito stanchezza e neppure una esaltazione eccessiva. La seduta Arrivo allo studio e mi accolgono i suoi colleghi, già conosciuti nei precedenti incontri, tutti al corrente della decisione del loro “capo” di intraprendere questo percorso di coaching. Due di loro ridendo mi chiedono: “ma riesci a ipnotizzarlo anche se è fuori di testa? Ma usi il pendolino magico? Lo fai diventare gentile e tenero?”. In quel momento il coachee sta finendo un lavoro con un cliente. Esce dalla sua stanza e parliamo della sua giornata. Nel frattempo prende il paravento e una poltroncina e organizziamo la sua stanza per la seduta. Si dice curioso e felice. Dopo aver chiacchierato un po’ su quanto detto durante il nostro incontro informale precedente, siamo pronti ad iniziare e a chiarire alcune questioni relative al Metodo SFERA come principio ordinatore della prestazione. Introduco lo SFERA Mandala facendogli alcuni esempi, fatto-
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re per fattore, relativi ad azioni quotidiane contestuali al suo lavoro di bodypiercer che gli avevo visto svolgere, ed altri esempi relativi al modo di effettuare modificazioni corporee da parte di alcuni suoi colleghi di cui conosciamo entrambi bene il modo di performare. Gli chiedo di fare altrettanto. Gli parlo quindi della procedura di gestione iterativa per il miglioramento continuo; sottolineo come la verifica e il mantenimento (nel senso di continuo miglioramento) siano essenziali. Ritengo importante che comprenda il funzionamento della metodologia e degli strumenti di pensiero che verranno usati in modo da poter garantire una sua “indipendenza” una volta terminato il percorso insieme. Iniziamo l’analisi della prestazione traumatica, soffermandoci sulle sue sensazioni fisiche. Il suo respiro si altera, e il suo volto si contrae. Entrando in rapport, modifico dunque il ritmo del suo respiro che da estremamente accelerato durante il racconto si regolarizza. Parliamo del mondo delle sospensioni. Dalle sue parole, non si sospende da anni perché: «non mi piace l’ambiente che si è creato nel mondo delle bodymod in generale e tanto meno durante le suscon, odio quella pseudo spiritualità e quelli che si abbracciano mentre sono sospesi e fanno tutti i sensibili con gli incensi e le finte religioni. E poi quella sospensione…».
Ciò che più lo aveva infastidito durante la performance traumatica era “la gente con quella pseudo spiritualità” e gli incensi. Gli propongo un esercizio che gli permette di comprendere l’importanza dell’essere completamente presenti e concentrati su ciò che si sta facendo al momento della performance e di come questa migliori quando non si è distratti dall’ambiente circostante. Parlando, il discorso inizia a trasformarsi da parte sua in una analisi storico-filosofica delle religioni e delle pratiche di modificazioni corporee molto documentata; è una persona colta. Indirizzo il discorso in modo da conoscerlo meglio: parliamo con molta serenità del suo lavoro e lo invito, mentre me ne parla, a concentrarsi sulle sensazioni fisiche che prova mentre descrive alcune questioni che lo rendono nervoso. Gli chiedo poi di analizzare e riflettere sulle sue sensazioni fisiche e mentali quando pratica il tongue splitting (taglio col bisturi della parte
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centrale della lingua, in modo da creare una lingua biforcuta); ciò mi permette di iniziare a individuare le aree del suo corpo nelle quali “sente” le emozioni positive e quelle negative (dati che non riporto nella trascrizione). Mi dice: «quando con la lama inizio a tagliare, sono perfettamente concentrato, direi davvero presente, nessun altro pensiero mi distrae, sono molto ricettivo sulle reazioni e i micromovimenti del cliente, doso la forza che ci metto… mi viene automatico… ogni lingua è diversa […] Il mio è un movimento fluido, e tutto si svolge nei tempi giusti, non perdo tempo né vado troppo veloce: un errore nelle tempistiche potrebbe causare dei problemi al cliente… E quando metto i punti… Mi sento capace, rilassato, presente». La mia richiesta di individuazione ed analisi dei “luoghi” delle sensazioni in situazioni in cui la performance è disturbata e in situazioni in cui non lo è mi permette di raccogliere dati fondamentali per il lavoro successivo. Anche le parole usate per la descrizione e i punti del corpo individuati rendono possibile la costruzione di induzioni ad hoc. Usando un linguaggio troppo diverso da quello della persona con cui si costruisce un percorso ipnotico, infatti, si rischia di non raggiungere facilmente e velocemente un’intesa o di non raggiungerla affatto. Ritengo che l’induzione in sé non sia pensabile come un monologo della ragione sopra un qualcosa che riguarda l’Altro, ma trovi la sua essenza nel riconoscimento dell’Altro in quanto soggetto e dunque nella relazione e nel dialogo. Si tratta dunque di un processo dialettico, che permette una costruzione della realtà. “Una” costruzione, poiché sono infinite le possibilità di costruzione, e cambiano e si trasformano di volta in volta, con le situazioni emotive e le strade del pensiero. Al momento dei saluti, ascoltando i suoi discorsi coi colleghi, mi rendo conto che il suo stile di leadership è inefficace: in un primo momento delega e poi fa tutto lui. Ci diamo appuntamento per il lunedì seguente, l’accordo è di decidere sabato l’ora dell’incontro di lunedì, giorno di chiusura dello studio.
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Seduta 2, informale La seduta Non riporto i dati di questa seduta poiché contengono informazioni troppo dettagliate che renderebbero il mio coachee identificabile. Durante questa seduta informale (mi sono infatti recata dal coachee la settimana successiva al primo incontro poiché non avevo avuto sue notizie), è risultato che per motivi tecnici e famigliari non è risucito a contattarmi ecc. Ritenendo entrambi che in questa particolare situazione sia utile una migliore gestione della leadership, (avendo constatato anche la mancanza totale di delega), gli ho proposto un esercizio che permette di allenare la capacità di contrazione di alcuni muscoli e il rilassamento totale di altri associando quanto “tenere” e “lasciare” a “responsabilità propria” e “responsabilità altrui”. Gli propongo inoltre di stilare una lista di ciò che lavorativamente è sotto la sua responsabilità e ciò che è sotto la responsabilità altrui, e rifare nei giorni successivi l’esercizio in relazione alla lista in questione. Decidiamo un incontro per il mercoledì successivo. Seduta 3 Lo chiamo martedì pomeriggio per ricordargli che mercoledì ci saremmo incontrati. Mercoledì, giorno dell’incontro, pochi minuti prima dell’ora stabilita, mi chiede via messaggio se possiamo rimandare al giorno seguente. Mi rendo conto della necessità di dover dare la possibilità al coachee di pensare e attuare un diverso approccio alla gestione dei tempi e degli appuntamenti; soprattutto perché la sua gestione influisce negativamente sul suo lavoro (numerose sono infatti le lamentele di clienti e colleghi) oltre che sul nostro percorso.
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B Seduta 4 Autovalutazione seduta Alla fine della seduta ero molto stanca ma il coachee era davvero soddisfatto. Rileggendo le note di questa seduta e le mie sensazioni mi sembra di aver fatto “troppo” per una seduta di due ore e mezzo, ma d’altra parte mi rendo conto che tante cose dette e fatte durante questa seduta sono state funzionali e fondamentali per il poi. Durante questa seduta, più che fare ciò che mi ero proposta, ho seguito il flusso del momento, dando quindi la priorità all’ascolto delle necessità del coachee più che a un “protocollo”. La seduta L’appuntamento è alle 16.00. Ci vediamo a quell’ora ma iniziamo la seduta alle 16.30. Essendo in studio da lui, si presentano dei clienti che hanno urgente bisogno del suo aiuto. Andati via i clienti, i colleghi gli chiedono di rispondere ad alcune telefonate. Mentre tutto ciò accade, mi sembra che sia concentrato su ciò che fa solo ed esclusivamente mentre pratica modificazioni corporee (sono accanto a lui mentre pratica, con il permesso dei clienti). Sembra avere molto chiari e netti i confini delle reti di socialità (nonostante quanto abbia detto dei suoi collaboratori: “devo fargli da padre”); mi parla delle sue amicizie selettive e durature, fraterne. Ripete più volte di essere “preso bene dal percorso che stiamo facendo”. Rimango un po’ sbalordita: abbiamo fatto una sola seduta “ufficiale” ma si sente “già diverso, più presente”. Ci accomodiamo attorno al lettino dello studio come fosse un tavolo. Questa volta mi dà uno sgabello molto più alto del suo (mentre l’altra volta eravamo alla stessa altezza). Quel lettino è il suo spazio di lavoro, è grazie a questo spazio che – stando alle sue parole – una volta fatto accomodare il cliente, ha il suo ruolo, ancor più che in altre situazioni lavorative. Una volta fatto accomodare il cliente ritrova la passione, l’interesse. Nel resto del tempo, dice, non gli importa nulla di nessuna cosa. Il lettino è il
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luogo in cui mette in gioco se stesso in quanto operatore della body art, e ora diventa il tavolo su cui mettere in gioco se stesso. Mi sento a disagio per qualche istante nello stare in quella posizione sopraelevata rispetto a lui, anche se decisa da lui. Poi penso che, forse, mettermi in quella posizione, è un suo modo per comunicare la sua volontà di darmi fiducia, il suo volere che io lo accompagni in questo percorso e quindi l’altezza dello sgabello “compensa” la nostra differenza. Riepiloghiamo l’incontro precedente: l’obiettivo di cui mi aveva parlato era quello della performance di sospensione. Ne parliamo a lungo, mi spiega le sue motivazioni, gli chiedo delle sue sensazioni corporee (rivediamo la lista che ha fatto a casa dopo il primo incontro formale) e delle sue tecniche preferite. Quando mi parla del suo stato desiderato durante la performance e di quanto vorrebbe che non ci fosse quel tipo di ambiente “pseudo mistico” che odia durante le sospensioni, rilevo la questione della responsabilità e lo induco a descrivermi a grandi linee la sospensione che vorrebbe, formulandola in termini positivi, concreti, realizzabili, soffermandosi soprattutto sulle sue sensazioni corporee. Veniamo interrotti dai colleghi. Essendomi chiesta, nei giorni precedenti, quanto la sua leadership, poco funzionale al suo contesto, influisse sulle sue performance quotidiane, riprendo il discorso della seduta informale precedente. I colleghi sono al corrente della sua decisione e sono in studio durante la seduta. Mi dice di avere molta voglia di lavorare con l’ipnosi soprattutto relativamente al dolore. Avendo osservato la sua capacità immaginativa già dai primi incontri informali, mi era sembrato un buon soggetto ipnotico. Gli dico che è inutile fare un’induzione senza analizzare e senza sapere “cosa amplificare”4. Procediamo dunque alla compilazione di un piano d’azione, discutendo con attenzione ogni parte – dalla definizione dell’obiettivo e dei tipi diversi di obiettivi alle azioni concrete. Oltre a scriPoiché “Tutto ciò che possiamo fare in stato di veglia, lo possiamo fare meglio in stato di ipnosi” (G. Vercelli, in Dada Rivista di Antropologia post-globale, 2014), non mi sembrava in quel momento funzionale fare un qualche tipo di induzione ipnotica; non vi era infatti qualcosa da migliorare in quella situazione. Si è rivelata invece molto utile poco dopo, come si potrà constatare proseguendo nella lettura della stessa seduta e dai risultati ottenuti in seguito. 4
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vere nello schema del piano d’azione, il coachee scrive su un foglio a parte alcuni punti in maniera più estesa. Mentre lo compila, siamo in perfetta sincronanza. Riporto qui solo il minimo indispensabile di dati necessari a comprendere parte del percorso successivo, come riportati negli appunti del coachee: Piano d’azione: Obiettivo: Sospensione rilassata/quieta/poco dolore, Valore: Ridare il via a molte cose (…), Minacce/Ostacoli: persone extra, poco sonno, malessere, stress ecc. Indicatori di riuscita: morbido- rilassato- temperatura neutra- elastico, Indicatori secondari e concreti: Maggiore durata, meno ansia più esaltazione, rilassamento muscolare. Azioni concrete: Mangiare meglio: cenare almeno 2-3 volte alla settimana, Perdere peso, Regolarizzarsi negli orari di lavoro, Regolarizzarsi alcool, Regolarizzare il sonno: dormire dall’1.00/2.00 fino alle 9/9.30. Durante la compilazione delle azioni concrete del piano d’azione, gli faccio alcune domande. Dice che va a letto verso le 2.30-3.00, si addormenta ancora più tardi, svegliandosi tra le 10.00 e le 11.00 più o meno, a seconda degli appuntamenti. Gli chiedo a che ora gli piacerebbe dormire: “alle 23.00” (quindi circa due ore prima di quanto scritto nel piano d’azione). Durante tutta la seduta devo insistere sulle sensazioni fisiche: “rilassato”, parola molto usata, è diventata “come un sacco pieno di sabbia”, ecc. Mentre parliamo del suo problema di sincronia e del suo non riuscire a rilassarsi gli faccio praticare un esercizio di respirazione, invitandolo a ripeterlo ogni volta che ne avrà bisogno. Terminato l’eserci-
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zio sbadiglia tantissimo ed è molto felice e sorpreso. Lo userà per dormire (e quindi regolarizzare il sonno come scritto nel piano d’azione). Approfittando del suo essere sorpreso da questa sua capacità di respirare e essere rilassato, mi viene spontaneo ancorarmi al suo stare seduto “…e mentre sei seduto sul tuo sgabello… puoi percepire ecc. …” usando la tecnica di R. Bandler delle relazioni logiche e la tecnica della confusione, “e non voglio che non presti attenzione al rumore più di quanto sia necessario a lasciarti incuriosire dal tuo respiro… e mentre il rumore continua puoi renderti conto che il tuo respiro si fa più calmo e regolare ecc…”. Una leggerissima induzione indiretta quindi (rilassamento, sapore) per fargli associare quella tecnica di respirazione a una perfetta armonia mente-corpo-ambiente (da questo incontro in poi ogni volta che ci incontriamo il coachee sbadiglia immediatamente e poi ride dicendo “mi rilassi!”). Mi stupisce la simmetria del suo volto durante lo stato di trance; osservo con molta attenzione le sue reazioni e i suoi micromoventi mentre gli parlo in modo da capire se si tratta di un soggetto prevalentemente visivo, uditivo o cinestetico. Quando riapre gli occhi è molto intontito, cerco di osservare le sue pupille ma avendo il bulbo oculare tatuato non riesco a vedere bene. Elaboro un commento su un oggetto presente nello studio per favorire un’amnesia, in modo che quanto detto durante l’induzione in un linguaggio metaforico sul sonno e il nutrimento sia più efficace. Verso la fine della seduta, riepilogando il piano d’azione, dice che certe volte vuole rilassarsi ma i pensieri passano per la sua mente, e gli rispondo che “è molto importante lasciare che i pensieri passino per la testa, i pensieri sono come gli animali migratori, vanno dove sanno di dover andare” (ho dunque ripreso una metafora di “Ghiande dello stesso ramo”5). Mi preparo a lasciare lo studio. Dice allora, quasi con un tono di domanda, di aver troppe cose su cui lavorare: cambiando automaticamente il tono della mia voce (ovvero riprendendo lo stesso tono della mia voce durante l’induzione) gli dico, oscillando col mio corpo, che “tante volte una cosa è come un rettangolino del domino in fila con G. Vercelli- G. Bounous, Ghiande dello stesso ramo. Trentatré induzioni ipnotiche per l’attuazione delle risorse dell’inconscio, Edizioni Cortina, Torino 2004, pp. 48-50. 5
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altri rettangolini e basta spostarne uno per spostare tutti gli altri”. In effetti, spesso basta cambiare una piccola cosa per cambiare tutte le altre. Al prossimo incontro: “non ci saranno i ragazzi in studio, voglio lavorare sull’ipnosi. Quando mi ipnotizzi?” Gli dico che gli ho già fatto delle suggestioni ipnotiche per vedere e capire che tipo di induzione usare e che è molto abile, e questa sua abilità faciliterà tutto. Spalanca i suoi bulbi tatuati e mi ringrazia e saluta. Seduta 5 La mattina dell’appuntamento, fissato nel pomeriggio, gli mando un messaggio per ricordargli indirettamente del nostro incontro, chiedendogli di portare i compiti che gli avevo assegnato. L’idea di ricordarglielo direttamente mi sembra controproducente, potrebbe essere infatti interpretato come un giudicarlo come qualcuno che non ricorda gli impegni presi. Nel pomeriggio mi chiede di spostare l’incontro. Deve risolvere delle incomprensioni organizzative con i colleghi. Il suo stile di leadership prevalentemente autorevole e battistrada nella sua situazione non è del tutto efficace: i colleghi hanno davvero molta esperienza e talento, anche i più giovani – quelli che ha preso “sotto la sua ala”–; la critica che gli hanno rivolto tutti, rivolgendosi a me, è in effetti quella di non promuovere dei processi gestionali partecipativi e di essere poco credibile non in quanto professionista ma proprio in quanto leader (“non è mai puntuale”; “si dimentica le cose”; “ci dice di fare mille cose e poi fa tutto lui perché dice che non siamo capaci”; “se gli chiediamo qualcosa si arrabbia e la fa lui invece di spiegarci”; “pretende troppo”). Seduta 6 Pochi minuti prima dell’incontro mando un messaggio al coachee dicendogli che avrei tardato di dieci minuti al massimo. Risponde di essersi dimenticato e di essere andato ad aiutare un collega in un’altra città e chiede di rimandare all’indomani. Al mio chiedergli conferma dell’orario non risponde e non ho sue notizie per più di una settimana.
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Seduta 7, informale La “seduta” Non avendo ricevuto risposte e non essendo riuscita a rintracciarlo, sono andata da lui senza appuntamento. Non c’è molta gente nella sala d’attesa, non entro in studio. Ci incrociamo sulla soglia. È molto felice di vedermi: “menomale che sei venuta!”. Ha l’aria stressata ma sembra sollevato nel vedermi. Si dice molto dispiaciuto, sinceramente, per le sedute mancate. Inizia un suo “monologo terapeutico”: ha avuto una settimana con numerosi impegni e una pessima organizzazione, tra imprevisti, gravi questioni famigliari e litigi. Dopo la prima parte del “monologo”, gli pongo delle domande che lo riportano sui suoi obiettivi. Ci accomodiamo e analizziamo l’importanza della delega e di cosa, a chi, perché e come delegare. Gli chiedo di svolgere con me l’esercizio contrazione-rilassamento/ “responsabilità sua”-“responsabilità altrui”, e quando contrae gli dico che quella è tutta la tensione dei sovraccarichi di impegni che si dà, e quando rilassa sta delegando; quando contrae sono tutte le emozioni che trattiene, quando rilassa è libero. Aggiungo che trattenere-contrarre troppo fa male, come fa male trattenere troppo a lungo l’urina. Dopo qualche minuto il coachee va in bagno. Quando torna mi dice stupito: “non sapevo che la mia vescica trattenesse così tanto! Figurati, io che trattengo!” (Da questo incontro in poi il coachee mi ha detto di aver iniziato ad andare in bagno molto più del solito). Dopo aver discusso a lungo della delega e ripreso il feedback dei giorni passati, mi dice con orgoglio: “in compenso nonostante tutto sto dormendo! Ti rendi conto?! Sto dormendo! Menomale! Sto dormendo e sto anche mangiando a cena! Mi sento strano: tante sfortune, ma sto meglio del solito”. Gli chiedo a che ora va a dormire. Risponde: “vado a letto verso le 23.00 e mi addormento presto! Sono fiero di me!”. Dice di aver fatto i compiti e di star usando la respirazione. Durante la compilazione del piano d’azione aveva affermato di non riuscire a dormire né subito né bene; abbiamo parlato del dormire come qualcosa di utile a tutte le performances. Ora mi ripete: “sto dormendo tantissimo, dalle 23.00 più o meno fino alle 8.00”.
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La questione del sonno era molto importante per lui. Interessante constatare come l’orario in cui va a dormire non sia quello scritto nel piano d’azione ma quello che aveva affermato di preferire (nella compilazione del piano d’azione aveva intenzionalmente scritto l’altro orario per timore di non riuscire a rispettare l’orario delle 23.00). Affrontiamo le questioni riguardanti la “vita regolare”. È molto concentrato sulla madre. Dopo una lunga discussione su questioni famigliari, che qui non riporto, afferma: “odio cucinare… mi piace solo mangiare… infatti odio i percorsi, mi piace solo l’obiettivo”. Gli dico che anche alzare la forchetta e masticare è un percorso e che se uno non sa masticare non può godersi pienamente l’esperienza. Discutiamo brevemente di una performance (lavorativa ma non di body art) che dovrà tenere nei prossimi giorni. Teme di essere distratto dal pubblico. Lo invito a concentrarsi sul respiro, dandogli un altro esercizio di respirazione da praticare nel caso in cui dovesse sentirsi effettivamente disturbato dalla presenza di alcune persone durante la sua performance. Tra una seduta e l’altra Numerose telefonate. La performance è andata bene. Sottolinea subito di aver usato la respirazione quando si sentiva disturbato dal pubblico, e aggiunge: “sembra che non faccio niente, ma faccio”. Gli dico: “lo so, lo so bene che fai”, e lui: “sembra che non faccio le cose ma le faccio… ho solo bisogno di… ho bisogno di…”. Suggerisco: “di spazio”. Ho notato infatti che la parola spazio non gli dà le emozioni negative che associa alla parola tempo. Entusiasta e attivato, mi dice che ha bisogno di fiducia. La prossima volta introdurrò la questione dell’autoefficacia e approfondirò quella della leadership.
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C Seduta 8 La seduta Arrivata in orario all’incontro, il coachee si presenta dopo meno di dieci minuti dal mio arrivo convinto che il nostro appuntamento fosse un’ora dopo. Nell’attesa, mi si avvicinano i suoi colleghi. Mi chiedono cosa ho fatto con lui, visto che è cambiato. Chiedo loro spiegazioni e mi dicono che è diventato più gentile, gestisce meglio le cose ed è meno distratto. Vista la sua confusione sull’appuntamento credo che mi prendano in giro. All’arrivo del coachee in studio iniziare non è semplice: ci sono molte telefonate di lavoro e di gestione burocratica che i colleghi gli passano. Gli chiedo di finire tutto quello che sa di dover finire in modo da non interrompere la seduta. Iniziamo. Approfitto della situazione e gli faccio fare un esercizio che dimostra che il multitasking non funziona. Riprendo il discorso sull’importanza della delega che avevamo già affrontato e lo invito a creare un brevissimo schema di appunti per poter lavorare da solo sulla questione: “ma avevo preso appunti quando eri venuta l’altra volta!… dal tuo silenzio forse li ho presi male”. Iniziamo un esercizio con il pendolino, che permette, a chi lo effettua, di trovare una perfetta sincronia mente-corpo. Mentre si esercita a restare in apparenza completamente immobile, ascoltando la mia voce e muovendo il pendolino nelle direzioni che gli indico, inizio a dargli un ritmo prima regolare e poi completamente irregolare nel movimento. Mi dice: “anche il ritmo sbagliato influisce davvero sulla prestazione!”. A quel punto gli chiedo se ha voglia di creare il proprio pendolino con un gancio da sospensione in modo da ancorare quel tipo di concentrazione e sincronia al gancio. Lo fa subito con un bel gancio sterilizzato, perfettamente annodato a una delle sottili corde che si usano per le sospensioni. Rivediamo rapidamente il piano d’azione e le azioni concrete che aveva deciso. Valutiamo i risultati ottenuti. Si ritiene più soddisfatto di quanto si potesse immaginare. Passiamo all’induzione sulla questione del ritmo, in modo da favorire una regolarità nell’organizzazione dei suoi tempi nell’ambito la-
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vorativo e nell’ambito quotidiano. Le suggestioni contenute in questa induzione sono correlate profondamente ad alcuni aspetti importanti della vita del coachee e alle sue abitudini che non riporto: Induzione I “… e mentre sei seduto sulla tua sedia inspiri ed espiri e puoi avvertire il calore delle tue mani sulle gambe, perché è piacevole poter sentire il ritmo del proprio respiro (+ricalco piccoli movimenti per comodità ecc.) e ad ogni respiro che fai puoi diventare consapevole dei ritmi naturali del tuo corpo e delle sensazioni di benessere che si sviluppano… ecc. e sai che come spesso accade quando ci si rilassa si creano immagini potenti e positive sarà proprio come quando guardi un film immagini potenti come i muscoli di un animale che tu conosci bene perché puoi lasciarti incuriosire dal pelo morbido e liscio ecc. ecc. e più lo accarezzi più vai in profondità … (in questo momento un animale presente durante la seduta si è avvicinato al coachee)… e mentre lo sfiori con le tue dita puoi seguire il ritmo del respiro dell’animale e sai che quando riposa ha un ritmo e quando corre ha un altro ritmo perché il corpo sa esattamente quando far battere più velocemente il cuore e quando far respirare più rapidamente e sa anche quando rallentare questi ritmi il tuo inconscio sa quando e come far avvenire queste cose e il tuo inconscio è qui, e può ascoltare ciò di cui ha bisogno, e rispondere proprio nel modo giusto per il tuo ritmo come l’animale sa come correre quando deve correre e nessuno glielo ha insegnato così il tuo inconscio saprà quando sarà il momento… … detrance…”
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Inizialmente penso che il coachee non sia in trance perché non riconosco subito i minimal cues, diversi rispetto alla prima leggera induzione indiretta. Ma mi basta guardare il battito cardiaco dalla giugulare per verificare che in effetti è in una trance profonda. Passiamo poi all’elenco e analisi delle sensazioni fisiche della sospensione desiderata. Con queste sensazioni, creo una induzione di reframing per lavorare sulla sincronia Induzione II Creo un’induzione “cinematografica” nella quale lui guarda un film con tutte le persone e gli odori e gli atteggiamenti che odia durante le sospensioni (descrivendole nei minimi dettagli con le sue parole), includendo dei particolari della sospensione traumatica. Il suo volto mentre la mia voce lo accompagna in questa visualizzazione è turbato, muscoli contratti. L’inquadratura si sposta sull’uomo sospeso che ascolta il suo respiro e crea una bolla e in questa bolla creata dal respiro l’uomo sente tutte le sensazioni fisiche elencate e descritte della sospensione desiderata. Mi soffermo sui particolari usando le parole da lui usate. Quest’uomo è lui. Il volto del coachee è completamente cambiato: notevole simmetria facciale, battito cardiaco lento e regolare, riposizionamento fisico ecc. Al risveglio è molto contento ed emozionato e, nonostante siano di difficile interpretazione, i suoi occhi sono lucidissimi. È stata una trance più profonda. Parliamo di come si sente. Dopo i nostri incontri è “molto più rilassato e funziona tutto meglio”. Prima di andare via, gli spiego un metodo di organizzazione schematico che permette di suddividere le azioni con tempistiche e responsabilità. Progettazione seduta successiva: Induzione con le fasi della sospensione
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D Seduta 9 Autovalutazione Durante l’induzione II al coachee ero in leggera trance anche io. La seduta Puntuale. Il coachee è molto stanco, ha lavorato tutto il giorno in diversi posti. Mi avvisa che dopo un’ora avremmo dovuto fare uno stacco per questioni di lavoro. Questa sua dimostrazione di organizzazione e coscienza delle cose da fare sembra ben radicata. Rivediamo rapidamente il piano d’azione per valutare cosa ha fatto e cosa non ha fatto e a che punto è; cosa è migliorato e cosa no (a suo dire, ha lavorato meglio della settimana precedente). Feedback dei compiti molto positivo. Non ha ancora applicato il metodo di organizzazione schematica. Lavoriamo sulla descrizione dei micromovimenti e sulla sincronizzazione istantanea tramite il respiro. Elenchiamo le fasi della sospensione e affrontiamo poi la questione della fase di preparazione del materiale della sospensione (presenza materiale, sterilizzazione, rigging ecc). Gli dico che può divertirsi a creare un elenco degli imprevisti possibili o probabili ogni volta che gli sembrerà utile. Noto che si sposta molto sulla sedia (che non è la sua solita sedia ma è una sedia molto scomoda). Mi dice che vorrebbe sentirsi comodo come in trance e riposato come dopo una trance. Visto che è molto stanco e che l’intenzione è quella di lavorare sul suo senso di autoefficacia e la capacità di rilassarsi, procedo a un’induzione indiretta, chiedendogli semplicemente di raccontarmi nei minimi particolari come si sente comodo in trance e come è andato in trance l’altra volta. Induzione I Ricalco, parlo in modo da fargli realizzare cosa sta accadendo ecc. Autoefficacia nell’andare in trance ecc.: “…e sai comunque che quando andrai sul lettino potrai permettertene una molto più profonda”.
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Sul lettino avverrà la preparazione per la sospensione; creo quindi un ancoraggio lettino-rilassamento profondo; l’altra volta sul lettino era meno rilassato che sulla sedia, sembra quindi che nella “posizione da cliente” sia teso rispetto alla “posizione da lavoratore”, mentre quando è poggiato solo con una parte del corpo sul lettino usato come tavolo è perfettamente rilassato. Creo una suggestione profonda sul ritmo, il respiro e la temperatura corporea che può cambiare: nel piano d’azione ha posto come indicatore di riuscita della performance di sospensione una temperatura corporea “neutra”. Per esercitare la possibilità di modificare la temperatura corporea gli faccio fare, mentre è in trance, un “gioco” durante il quale può sentire l’aria calda che entra prima da una narice poi dall’altra sempre più calda, sempre più calda; lo tocco quindi con il suo permesso ed è bollente. La stanza in cui si tiene la seduta è molto fredda. Sottolineo che “in questo piacevole calore” (in studio non fa affatto caldo ma lui suda) può iniziare a fare dei sogni apparentemente senza senso; l’inconscio lavora per lui e impara ciò di cui ha bisogno ecc. Al risveglio facciamo una pausa per permettergli di sbrigare l’impegno lavorativo del quale mi aveva informato. Induzione II Per cambiare, faccio un’induzione rivolgendomi alla sua mano ecc.: apre una porta che gli è famigliare (sperando che associ il tutto alla porta del suo luogo di lavoro in modo da reincorniciarlo; ma resto vaga, quindi non descrivo neanche la porta) e scende gli scalini sempre più dentro di sé; entra in una stanza nella quale ci sono tutti i suoi strumenti, materiali e immateriali a sua disposizione; può guardarli toccarli annusarli spostarli ecc. Il suo inconscio sa cosa farne; il suo inconscio lavora per lui ecc. (Il volto del coachee è completamente cambiato, è in una trance profonda; mentre lo accompagno e lo osservo inizio a dondolare leggermente ad ogni parola e vado in trance io stessa). Suggestione post-ipnotica: si sorprenderà facendo cose che
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non si immagina coscientemente di saper fare, sono cose che il suo inconscio sa che lui ha bisogno di fare per trovare il benessere. Telefonata Qualche giorno dopo ci scambiamo una telefonata della durata di 40 minuti che ho difficoltà a chiudere perché non smette più di parlare: è molto felice. Ha usato e sta usando il metodo di organizzazione schematico, fa regolarmente gli esercizi di respirazione, contrazione-rilassamento muscoli/ associazione responsabilità, ecc. e sono in corso grandi cambiamenti. Mi dice stupito che sta riuscendo a risolvere molte incomprensioni in ambito famigliare (che qui non riporto ma di cui abbiamo spesso discusso). “Ti rendi conto! Ieri […] e abbiamo cucinato insieme, non sono male come cuoco! […] Poi sto gestendo bene gli appuntamenti e i viaggi di lavoro. Da me stanno smettendo di lagnarsi… che bello!” (Il lagnarsi dei colleghi è riferito al fatto che troppo spesso si dimenticava appuntamenti, spostamenti, suoi e degli altri). Si è pesato e sta dimagrendo come scritto nel piano d’azione. Ha cominciato a delegare varie attività di gestione lavorativa. Dice di aver voglia di fare la sospensione dalle ginocchia, sospeso a testa in giù ma ci deve pensare. E Seduta 10 Autovalutazione Non essendo in piena forma fisica, e capendo che mi sarei distratta durante la seduta, prima di andare, procedo a una autoinduzione. La seduta Puntuale. Non ha l’aria di essere in forma. Quando ci accomodiamo, gli chiedo un feedback sulla seduta precedente. Mi guarda con aria smarrita: non ricorda le trance avute, solo
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le cose fatte prima delle induzioni. Dice che sa solo che ci sono volute almeno due ore per “riprendersi” dopo il nostro appuntamento e che in quelle due ore stava benissimo, “come un sacco di sabbia” (immagine indicata nel piano d’azione come indicatore di riuscita della performance di sospensione), “ma oggi sto proprio male e ho di nuovo quel mal di testa che odio”. Presenta uno squilibrio di energia e sincronia. Continua a muoversi senza pace sulla sedia con aria dolorante. Mi dice che per due giorni non ha fatto nessun esercizio: “ho mandato le cose a quel paese negli ultimi giorni… ho bevuto… non sono andato a dormire presto… ho fatto casino!”. Gli chiedo di raccontarmi come si sono volte le sue giornate e risulta che il “casino” l’ha fatto solo per una notte in occasione della visita di amici che non vedeva da tempo. Mi metto a ridere e gli dico che ha fatto molto bene a seguire il ritmo giusto per lui, gli dico di come sia funzionale “affossare le valli per innalzare i picchi”. Oltre al mal di testa ha un forte dolore al fianco destro e alla schiena e dice “sto morendo di sonno, non sto in piedi… voglio riprendermi!”. Si alza dalla sedia e si accomoda sul lettino senza che io gli dica niente e dice: “se mi addormento non è colpa mia, sono molto stanco”. Gli rispondo “puoi anche dormire in trance, il sonno che si dorme in trance può essere particolarmente riposante”. Il suo respiro si fa calmo e regolare senza che io abbia detto niente e quindi ricalco: “va benissimo così, continua… ecc. potrai dormire in trance”. Dopo avergli fatto portare l’attenzione sui tre punti centrali frontelabbra-sterno, e suggerita la creazione di immagini potenti e positive, il coachee inizia a russare. Proseguo nell’induzione, sottolineando quanto bene ci si possa riposare in trance e quanto bene lavori l’inconscio; metafore su capacità di apprendimento e autoefficacia-bolla. Sono passati 15 minuti, la detrance non va, gli dico che fra 15 minuti si sveglierà perfettamente riposato come se avesse dormito a lungo; passati gli altri 15 minuti e constatando che la classica detrance verbale non sta funzionando gli dico che quando gli toccherò la mano si sveglierà. Per lui sono passati 10 minuti in tutto e non sa di aver russato. Mi sorride pieno di gioia e dice “mi sento come se avessi dormito un casino!”. Non ricorda nulla del dolore. Ad ogni induzione il coachee è capace di trance sempre più profonde.
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F Seduta 11 La seduta Puntuale. Feedback delle sue giornate e di come sente se stesso rispetto al percorso fatto fino a oggi. Mi dice che questa settimana è stato altamente performante e che si sta rendendo sempre più conto di quanto l’esercizio del gancio da sospensione e la respirazione gli siano utili anche in questioni che non immaginava. Alla mia richiesta di spiegazioni ulteriori mi comunica la sua volontà di operare drastici cambiamenti nell’ambito lavorativo. Non riporto tutte le parole del coachee poiché si tratta di informazioni che potrebbero rendere comprensibile di chi si tratta: “Da quando ho iniziato a delegare mi sono reso conto di tante cose… Con gli strumenti che mi hai dato sto riprendendo la mia vita… e sono un professionista! Non voglio più stare qua a fare le solite cose… ho ripreso dei contatti con altri professionisti e l’idea di lavorare […] ha molti vantaggi ecc. voglio stare in sincronia con me stesso”. Mentre parla si sposta in continuazione sulla sedia, continua a cercare una posizione comoda, ha il volto dolorante. Mi dice che ha un fortissimo e insopportabile mal di schiena, dovuto a degli incidenti: uno recente, uno di qualche anno addietro. Mi ricordo dell’incontro precedente e mi ricordo che in uno dei nostri primi incontri informali me ne aveva già parlato. Dopo gli incidenti era andato da un chiropratico ma non gli era piaciuto, perché troppo “pseudo-spirituale” e completamente inefficace. Era poi andato da un fisioterapista ma non era servito neppure quello. Negli anni si è un po’ abituato a questo dolore che però ogni tanto si ripresenta in forma acuta e non va via per mesi. Un medico gli aveva spiegato che il mal di schiena che gli viene non ha a che fare con gli incidenti ma “dipende dal portafoglio nella tasca posteriore”. Gli chiedo di togliere il portafoglio dalla tasca posteriore e le scarpe. Lavoriamo sulla gestione dell’energia fisica e ne discutiamo. Non si sente affatto bene. Mi dice di aver fatto tante respirazioni durante la giornata e gli esercizi di rilassamento, ma che ha lo stesso troppo dolore.
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Induzione Gli chiedo di stendersi sul lettino e di cercare la posizione meno scomoda per lui. Solitamente appena arrivato il momento dell’induzione si rilassa perfettamente, senza aver più bisogno di suggestioni. Vedendo che continua a muoversi con smorfie di dolore, dico: “non hai bisogno di fare attenzione a quanto dirò, continua pure a muoverti, hai male alla schiena e alla gamba… un fastidioso e forte dolore lungo tutto il tuo fianco destro… quindi io mi rivolgerò solo al tuo orecchio, perché il tuo inconscio può sentirmi molto bene da lì mentre tu continui a sentire il tuo dolore sul tuo fianco destro ecc.”. Passiamo a un rilassamento progressivo durante il quale continua a muoversi (ma un po’ di meno) e il suo volto si rilassa. Osservo la giugulare: è in trance. Impronto l’induzione sui punti di forza e le capacità dell’inconscio (regolare ciò che va regolato… l’inconscio conosce le risposte ecc.) usando come metafora le onde del mare (dosare l’energia) che possono cullare (visto che lui sembra quasi cullarsi). Su queste onde, una nave che gli permette di andare sempre più verso se stesso, una nave che salpa verso nuove avventure, verso porti-parti di se stesso da esplorare, conquistare, conoscere. E mentre tutto ciò accade, “non voglio che la schiena non faccia caso al dolore se non quando necessario”. Dopo una lunga detrance, dato che sua trance era molto profonda, parlo subito dello specchio presente in studio in modo da favorire un’amnesia post-ipnotica. Se si ricordasse la suggestione sul mal di schiena non sarebbe efficace a causa di un suo “blocco razionale”. Mi dice di sentirsi “tirare” molto meno e mi ringrazia; gli dico che non deve ringraziare me ma se stesso per essersi permesso di stare meglio grazie alle sue capacità, e lo saluto con un “continua così…”. Mi chiede se ci possiamo vedere in settimana, visti i grandi cambiamenti. Il giorno dopo gli mando un messaggio chiedendogli di fare alcuni esercizi per la performance che deve tenere nei giorni successivi, e aggiungo: “ti auguro di rilassarti come hai fatto ieri sera”.
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G Seduta 12 Ha continuato a lavorare con gli esericizi sulla gestione dell’energia per conto suo e a fare regolarmente tutti gli esercizi-compiti anche quando non gli è stato richiesto. La seduta Puntuale. Curiosa di sapere se l’ultima induzione è stata efficace gli chiedo: “Come stai? come sei stato questo weekend?”, e mi risponde: “Molto bene, grazie per il tuo messaggio! Mi è arrivato mentre stavo pensando alle questioni del cambiamento lavorativo. Sei stata telepatica!”. Insisto: “E di salute, tutto bene?”, e lui ribadisce: “Sì”. Ancora gli domando: “E il tuo corpo?”. E lui: “Si, benissimo, perché? Sono dimagrito come volevo e mi sento sempre comodo! Perché?”. Cambio discorso. Amnesia totale della questione del suo mal di schiena. Decido di capire più avanti se davvero l’induzione è stata così immediatamente efficace. In altri casi simili, infatti, (anche meno “gravi”) sono state necessarie più induzioni o comunque i risultati hanno richiesto tempi d’attesa più lunghi. Ritorniamo sulle questioni relative al cambiamento lavorativo. Dice di aver ulteriormente intensificato le deleghe (seguendo gli schemi, partendo dallo schema base che avevamo fatto): “i ragazzi sono molto soddisfatti, penso di stare facendo molto bene così, a loro non ho ancora detto del cambiamento, ma stanno diventando bravi a organizzarsi e a fare le cose, così […] potranno continuare a lavorare tranquillamente e io intanto ha avuto il tempo per informarmi su tutto ciò che riguarda il mio nuovo progetto… comunque … le cose vanno meglio, sono tranquillo, e sono anche preso bene per la performance. Ti dirò, sono preso bene, si! Onestamente di solito mi gaso solo quando faccio una cosa, sul momento… mai prima… invece mi sto godendo anche le idee del fare le cose…”. Feedback schematico sui cambiamenti fatti e sensazioni fisiche associate. Rivediamo il piano d’azione: mi dice che tutto ciò che si era proposto di fare l’ha fatto e che ciò gli ha permesso di fare altre cose ancora che non si sarebbe mai immaginato di voler o poter fare. Gli chiedo di scrivere una lista di queste cose (ambito privato e lavorativo)
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che sente di aver fatto o cambiato e sono per lui funzionali e di valutare poi quanto siano funzionali e come poter migliorarle. (Gli chiedo di continuare a fare ciò, da solo, a casa). Facciamo una pausa e, parlandomi di un film che ha visto, mi fa una battuta sugli animali totemici dei film statunitensi e l’ipnosi. Poi aggiunge: “questi del film non hanno avuto una coach!” e mi chiede come userei io un animale totemico in un’induzione. Scherziamo un po’. Mentre stiamo per sederci tenta di rimettere delle chiavi in tasca e gli dico: “ma lasciale fuori, non ti danno fastidio? E il portafoglio…” Coachee: “eh, sai una cosa assurda? Ho scoperto che avere il portafoglio nella tasca posteriore non fa bene alla schiena, me l’ha detto un medico… dice che è super diffuso! Sai quanto è brutto avere il mal di schiena?” Dico: “ah davvero?”, e lui: “si si… boh, poi non so se è vera sta cosa del portafoglio, comunque io per fortuna è da un po’ che non ho più mal di schiena… ma sono stato malissimo… mi pigliava tutto il lato destro, avevo la sciatalgia… non so se te l’ho detto che ho avuto degli incidenti in auto tempo fa”. Questo dimostra la sua amnesia riguardo a parte della seduta precedente. Dato che manca poco alla data fissata per la sospensione, gli chiedo di confermarmi il tipo di sospensione che vuole fare. Decide di farla “come l’ultima… ma stavolta sarà davvero diversa e me la potrò godere! Sai, forse è ancora più potente se la faccio con i ganci inseriti come nell’ultima!”. Rivediamo gli appunti relativi alla sospensione desiderata, presi nella seduta 9 e riepiloghiamo le fasi di preparazione della sospensione. Dopo di che, afferma di aver migliorato, grazie all’uso alcuni degli esercizi e metodi di organizzazione che stava applicando in altri ambiti, anche la gestione economica. Gli chiedo: “e come ti senti?” Risponde: “deciso…e bravo!” Commento: “ovvero?” Risponde: “ovvero slegato dal materialismo del momento immateriale”. Gli chiedo dei ganci e di indicarmi i punti nei quali verranno inseriti per fare un’induzione coi ganci. Passiamo all’induzione di potenziamento della bolla per l’armonia mente-corpo-ambiente ecc. usando l’immagine di uno specchio, le parole della lista dello stato desiderato e le diverse fasi della sospensione. Gli poso i ganci in corrispondenza dei punti nei quali andranno inseriti: “e sei nella tua bolla, sospeso, con i ganci nella tua epidermide, così piacevolmente sospeso… come se fossi un sacco di sabbia… slegato dal materialismo del momento
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immateriale…” Amnesia post-ipnotica indotta con suggestione dello specchio, riuscita. Compiti Elenco e valutazione cambiamenti e miglioramenti; elenco e valutazione possibili imprevisti nel cambiamento lavorativo. H Seduta 13 Autovalutazione Avrei voluto essere meno empatica, ma col senno di poi mi sono resa conto di essere stata efficace forse proprio grazie all’empatia. La seduta Puntuale. Mi accoglie sulla soglia con un’espressione che non riconosco. Sorride ma sembra impaurito. Mi guarda e dice: “non so se ce la faccio oggi”. Entriamo, e mi racconta ciò che gli è accaduto nella giornata e nella nottata precedente. Ha avuto dei problemi molto gravi che qui non riporto. Una volta terminata la nottata è dovuto andare al lavoro a sbrigare alcune faccende. Non ha dormito. Si sfoga a lungo e mi chiede di farlo rilassare perché ha troppa adrenalina (trema) ed è distrutto. Lo guido durante l’esercizio di rilassamento ma non ce la fa. Induzione Gli chiedo di respirare come sa già fare; intanto penso che è molto teso e soprattutto molto concentrato su quanto gli è accaduto, quindi devo distrarlo da quella monoidea. Cambiare la sua monoidea in questa situazione non è affatto semplice, ma penso di dover fare “come se” non fosse difficile trovare il modo giusto, e ho fiducia nella grande capacità del coachee di andare in trance. Mi viene in mente
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che Giuseppe Vercelli ha scritto: “Raffaella trova tutte le sue risposte nella trance”, e ho quindi un ricordo vago di un qualcosa di simile a quello che sto per fare: chiedo al coachee di elencarmi ad alta voce o a bassa voce con cinque frasi diverse quello che vede, con altre cinque i suoni che sente, con altre cinque le sensazioni fisiche, e poi di nuovo con quattro e così via. Il coachee è finalmente “qui ed ora”, e procedo con la monoidea sul corpo e la trance numero 1 di Ghiande dello stesso ramo6. Trance profonda. Quando riapre gli occhi, sono lucidissimi. Poi si alza, e dice “non tremo più. Grazie!”. Sono arrivati dei colleghi. Andiamo via. Seduta 14 Rimandata a causa dei problemi correlati a quanto avvenuto. Nel frattempo continua a fare gli esercizi e a usare gli strumenti SFERA. Seduta 15 Rimandata a causa dei problemi correlati a quanto avvenuto. I Seduta 16 Autovalutazione Questa seduta è stata per me molto emozionante. Mi sono sentita in perfetta sincronanza col coachee. La seduta Puntuale. Questa volta ci vediamo a casa del coachee; in studio stanno cambiando molte cose. Ha informato colleghi e collaboratori del suo cambiamento lavorativo: “all’inizio non l’hanno presa bene, ci 6
G. Vercelli, G. Bounous, op.cit., pp. 14-16.
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sono rimasti male ma poi gli ho spiegato le mie necessità e cosa voglio fare e adesso sono contenti per me, […] Comunque ci sarà ancora tanto lavoro da fare per organizzare tutto e dobbiamo prendere delle decisioni…”. Le questioni legate ai gravi problemi che non ho qui riportato sembra che si stiano chiarendo per il meglio. Ne parliamo, e gli chiedo di individuare i punti del corpo in cui “sente” le emozioni stressanti. Mi dice: “mi concentro sui punti in cui sono e respiro per scioglierle?! Vedi che sono bravo! Sai che in queste settimane ero super stressato ma ho fatto tanti esercizi che mi hai insegnato… penso che sarei impazzito se non avessi imparato a rilassarmi e a organizzarmi un po’! Non è che non sono stressato ma riesco a starci dentro…”. Gli domando: “Che esercizi hai fatto? Che strumenti hai usato?” Risponde: “Il gancio, le respirazioni, […]. Il resto lo uso in base a cosa mi sembra più utile in quel momento. E poi quando mi sentivo proprio fuori… mi sdraiavo qua sul divano e cercavo di farmi un’induzione ricordandomi la tua voce come se fosse registrata nel cervello! Però, o mi addormentavo o non andavo come quando ci sei tu… Come devo fare? Quando sono nella bolla dormo o mi rilasso ma non sono in trance come quando mi ci porti! Mi registri quella della bolla? È la mia preferita”. Proseguiamo con l’induzione della “bolla”, che è quella in cui ogni volta performa la sospensione desiderata, stando in una bolla che gli permette una perfetta armonia mente-corpo-ambiente. Prepariamo una lista di “mantenimento” per il mese durante il quale non avremo occasione di vederci. Parliamo dei suoi progetti futuri. Gli chiedo un riepilogo di obiettivi e degli strumenti Sfera da usare in quella direzione. Induzione II Questa induzione l’ho preparata rivedendo tutto il lavoro svolto con il coachee, rileggendo gli appunti e quanto scritto dal coachee durante il percorso. Essendo il coachee legato a un particolare contenuto nell’induzione “l’amara sigaretta”7, ho ripreso la struttura di quell’induzione, creandone una nuova in cui il coachee recita un nuovo ruolo ogni volta che è in presenza di uno dei suoi ganci… 7
G. Vercelli, G. Bounous, op. cit., p. 66.
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Telefonate mesi successivi Il coachee ha viaggiando molto. Avendo perso entrambi i contatti l’uno dell’altro ho ritrovato il suo numero grazie a dei suoi ex-colleghi (in quel momento non erano in buoni rapporti con lui ma mi hanno dato dei feedback “positivi stretti” sui suoi cambiamenti). Abbiamo poi avuto delle lunghe telefonate (e scambio di messaggi) di “mantenimento” e di “miglioramento” per due mesi, fino al completamento del suo cambiamento lavorativo. La sua nuova carriera non ha tardato nel dargli le soddisfazioni che cercava e ora, dopo più di un anno, riceve sempre più riconoscimenti. Ha ricevuto inoltre, nei mesi successivi, varie proposte di collaborazione. Sta lavorando “talmente tanto di più di prima che non te lo puoi immaginare! E non mi stanco!”. Mi ha chiesto: “anche se abbiamo “finito” il percorso possiamo continuare a lavorare insieme?”. Conclusioni Teoricamente, non avendo performato quella sospensione, il nostro percorso forse non è ancora “finito”. Ma quella sospensione l’ha performata, e l’ha performata nel modo più reale e costruttivo per lui: l’ha performata nelle trance. Tenendo ben presente l’affermazione di Erickson che “tutte le nostre esperienze avvengono nel nostro cervello”, si capisce come questa sospensione sia stata performata davvero. L’esperienza vissuta, la Erlebnis – nei termini diltheyani –, trova compimento nella sua espressione, Ausdruck. L’espressione dell’esperienza vissuta è intesa come atto creativo. E l’esperienza vissuta qui, in trance, ha trovato la sua Ausdruck, la sua espressione, in quell’“effetto domino” che ha portato il coachee ad operare con successo tutti quei cambiamenti di cui aveva bisogno, a “dare il via a molte cose…”: un atto creativo. L’ipnosi costruttivista è Erlebnis e Ausdruck, esperienza vissuta è atto creativo di espressione, espressione creativa e costruzione della realtà. Nella performance trova il suo compimento, la sua realizzazione. Essendo relazione dialogica, produce relazione, e costruisce la realtà.
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“Me aprendo en ti mas que en mi mismo”, J. Sabines (poeta, 19261999): questo percorso con il coachee ha segnato una svolta nel mio modo di relazionarmi all’Altro e a me stessa. Relazione, ascolto e complicità sono state le parole chiave di questa esperienza. Trovare la volontà di fiducia in me nell’Altro me ne ha data in me stessa e nell’Altro, senza il quale nessun gioco sarebbe possibile: mettersi in gioco, reinterpretare se stessi e la propria vita, trovare il giusto equilibrio saltando da una casella e l’altra della campana per arrivare ai sogni e continuare a giocare… sempre più “difficile”, ma sempre più stimolante. E così ho imparato a non vivere “la vida, como un comentario de otra cosa que no alcanzamos, y que està ahi al alcance del salto que no damos” (“la vita, come un commento di un’altra cosa che non raggiungiamo e che è lì alla portata del salto che non facciamo”, J. Cortazar, scrittore e poeta, 1914-1984). Ho imparato e continuo a imparare a fare il salto, come giocando a campana; saltare sapendo come saltare, dove e perché. Saltare con la coscienza di stare qui ed ora, saltando consapevoli di sapere che si è capaci di saltare, di saltare né troppo piano né troppo forte, né troppo veloce né troppo lentamente, con tutta la gioia e la curiosità del gioco. Con il coachee abbiamo saltato nelle caselle di questa campana (il gioco continua). E prendere coscienza dei progressi fatti, degli obiettivi conquistati, degli obiettivi “inaspettati” e fondamentali, dei feedback di entrambi, rivedere il percorso fatto, è stato come “raccogliere il sassolino” senza perdere l’equilibrio. Dopo aver attentamente riflettuto sul percorso, ho deciso che la programmazione non sarebbe stata una priorità, perché ho voluto prediligere l’ascolto e ciò che si rendeva più consono al momento rispetto ad un protocollo e a un ritmo che in quel momento non erano a misura della situazione e del coachee. Data la forte personalità del coachee e il suo linguaggio, ho reso la spiegazione e l’uso di alcuni strumenti e tecniche in modo che fossero più “nelle corde” del coachee, tenendolo sempre al corrente dell’“originale” e facendo scegliere a lui quale gli risultava più pratico. In effetti, il coach è il traduttore che guida il coachee nella ricerca delle parole nel vocabolario, per tradurre i suoi disordini in ordini, verso frasi di senso compiuto e sorprendente. Un vocabolario infinito, da cui lasciarsi incuriosire con la voglia di imparare sempre di più.
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