Igor Sibaldi, Paolo Bianchi - Il mio principe azzurro

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Una ragazza adolescente parla con un uomo misterioso. Lui la spinge a raccontare e lei, innamorata, gli dice tutto. Gli rivela segreti inconfessati, una storia familiare sconvolgente. Il mio principe azzurro affronta un tema – la violenza sui minori – vissuto ancora oggi come uno scandaloso tabù, e quindi non del tutto svelato. Questo romanzo vuole essere lo specchio di una società arida e superficiale, in cui famiglia e scuola riescono soltanto a essere lo sfondo dell'assassinio di un'anima. Un ambiente fatto di sottocultura televisiva e nevrosi da potere o da guadagno facile, che cerca costantemente di soffocare il vero Senso della Vita. La vicenda di Imma – ispirata a una storia vera – è la rivendicazione di uno spazio non violabile d'innocenza e purezza interiori. ISBN 978-88-97864-53-0

SPAZIO INTERIORE

€ 16

9 788897 864530

Igor Sibaldi Paolo Bianchi

Si sta bene quando passa una tempesta. Quando fai qualcosa di forte e sopravvivi, poi diventi più forte. Questo c’entrava qualcosa con il Senso della Vita, ma non riuscivo a capire cosa.

IL MIO PRINCIPE AZZURRO

Nelle coincidenze è così. Io ci ho pensato un po’ diverse volte e credo sia per questo motivo: perché in certi momenti, quando il cuore è più intenso, quando la forza è più intensa, qualunque forza sia, in quei momenti il senso della vita si fa vedere nelle cose. Ti parla attraverso le cose.

Igor Sibaldi Paolo Bianchi

IL MIO PRINCIPE AZZURRO Romanzo


7 nonordinari



Igor Sibaldi Paolo Bianchi

IL MIO PRINCIPE AZZURRO

SPAZIO INTERIORE


Igor Sibaldi, Paolo Bianchi Il mio principe azzurro

© 2001 Igor Sibaldi, Paolo Bianchi © 2014 Spazio Interiore Tutti i diritti riservati Edizioni Spazio Interiore Via Vincenzo Coronelli 46 • 00176 Roma Tel. 06.90160288 www.spaziointeriore.com info@spaziointeriore.com in copertina Domenico Gatti, Purità I edizione: novembre 2014 ISBN 88-97864-53-0


INDICE

prefazione alla seconda edizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 capitolo primo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 IL SENSO DELLA VITA capitolo secondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 LE PRATERIE capitolo terzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 I REGALI capitolo quarto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 I TALENTI capitolo quinto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205 IL MIO PRINCIPE AZZURRO



PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Questo romanzo, apparso per la prima volta quattordici anni fa, ha preso forma innanzitutto da un profondo senso di amicizia, tuttora intatto, verso l’altro autore, Paolo Bianchi. Avviene ogni tanto (chi non lo sa?) che nel conversare, nel contemporaneo pensare di due persone, si evolvano all’improvviso energie speciali. Fu quello il caso. Avevamo discusso a lungo dell’utilità di scrivere un libro inconsueto, che dapprima doveva essere uno studio sociologico sulla terza generazione di industriali italiani. Poi d’un tratto arrivò nei nostri discorsi questa immaginaria ragazzina, e cominciammo a parlare di lei, in un seguito di «e se...» «e se...» «e se...» La stesura del romanzo cominciò anch’essa all’improvviso e fu sorprendentemente rapida: due settimane soltanto. Talmente rapida e anche irrefrenabile, che io, scrivendo, e pur avendo in mente la maggior parte della struttura della trama, mi meravigliavo spesso di atti, ragionamenti e sentimenti di Imma, come se invece di scriverne ne stessi ascoltando la narrazione. In due settimane il romanzo arrivò fino alla penultima pagina, e lì si fermò: ci vollero tre mesi per capire il finale – forse, rifletto ora, perché né a me né al Bianchi piaceva l’idea di separarci da quel qualcosa che ci raccontava. Quando poi fu terminato, lo proponemmo al mio editor di allora. Mi spiegò che non potevo, dopo aver pubblicato il primo volume della mia traduzione della Genesi e mentre stavo 7


ultimando la traduzione e il commento del Vangelo di Giovanni, non potevo, disse, pretendere di uscire con un romanzo che una buona percentuale di lettori avrebbero considerato immorale. «Non capirebbero» disse. «Perché immorale?» domandai. «Oh, insomma» rispose. Tuttora userei altri aggettivi ed epiteti, per Imma: disperata, tenace, viva, continuamente assassinata, e soprattutto (a questo tengo molto, e anche il Bianchi, a quanto ne so, ci tiene) esemplare. Personalmente, mi sono riconosciuto in lei; e vi ho riconosciuto la maggior parte delle persone sensibili che ho incontrato e che incontro. Abbiamo il suo stesso dolore, chi per un abuso chi per un altro; e la stessa purezza, in qualche parte dell’animo e della mente. «Immorale» mi sembra davvero troppo labile, per qualificare un simile contenuto – che noi due autori eravamo meravigliati di aver colto, tanto semplicemente (eccettuato il finale): come obbedendo a una dettatura. Ritrovo quella meraviglia nello sguardo di Paolo, quando ci capita di riparlarne. Come l’esatto contrario di un delitto, compiuto insieme, perché voleva accadere. Igor Sibaldi Un libro come questo, penso ancora oggi, non sarei mai riuscito a scriverlo da solo. Troppo duro, feroce, anche insopportabile. Bisognava dividersi il carico, e così è stato. Volevamo, Igor e io, raccontare una storia che fosse possibile, che potesse essere accaduta davvero. A me, in alcuni punti e durante la prima stesura, pareva che sfiorassimo l’inverosimiglianza. Che ci spingessimo troppo oltre. Eppure, basta pensare a recenti episodi di cronaca in Italia, con la conseguente girandola di inchieste giornalistiche, per rendersi conto che non avevamo inventato niente. O meglio, nel senso etimologico del verbo “inventare”, 8


cioè imbattersi in qualcosa, avevamo in effetti trovato qualcosa che già esisteva, e potremmo avere addirittura, col senno di poi, peccato per difetto. La storia di Imma, raccontata attraverso i suoi occhi, spaventò quasi tutti gli editori, già allora alquanto pavidi, per quanto così spesso spudorati e cinici sotto altre forme, a loro più comode. Non credo sia obbligatorio, in un romanzo, mostrarsi attuali. Anzi, l’attualità è spesso nemica dell’universalità. Si rischia di ammuffire subito. Ovviamente, non credo sia il caso di questo libro. E sono proprio contento che a distanza di tanti anni venga ripubblicato. Vuol dire che un senso ce l’ha. Dopo l’uscita, nel 2001, e dopo un anno intenso di incontri e presentazioni in ogni parte d’Italia, un anno bellissimo, Igor e io non ci siamo più parlati per dieci anni. Non che avessimo litigato, eravamo solo sfiniti, come prosciugati. Oggi ci frequentiamo di nuovo. Di Imma non parliamo più, ma sono certo che rimarrà sempre con noi e, mi auguro, con chi ci ha letto e ci leggerà. Paolo Bianchi

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capitolo primo IL SENSO DELLA VITA



1 Dovresti raccontarlo, dici tu. Ma perché? Lo vedi il mondo com’è, a chi importa ancora degli altri? Invece è così bello stare qui noi due da soli, a parlare di noi solamente. E poi non me ne ricordo niente, è lontano. Mi sembra di sapere soltanto com’è finito, ed è finito che siamo qui io e te, e io tra un po’ appoggerò la fronte sul tuo petto, amore mio. Invece no, dici tu. Se è successo a te – dici tu – in un certo modo è successo a tutti, e perciò bisogna raccontarlo anche a loro, perché se ne accorgano. Non la capisco io, questa cosa. A loro non hanno fatto le cose che hanno fatto a me. Ognuno ha la sua vita, i suoi papà e mamma. Loro hanno i loro casini, ognuno ha i suoi. E non i miei. No, dici tu, racconta. E come? Da dove comincio? 2 Da quello che ti viene in mente, dici tu. A me viene in mente la Vale. Di quel tempo insensato e senza gioia che era la mia vita di allora mi viene in mente prima lei, che entra in classe con il libretto delle giustificazioni. E col trucco azzurro sugli occhi: azzurro celeste fortissimo, come i vetri di una vetrata 13


delle cattedrali – ma con la luce che veniva da dietro di lei, a far splendere quell’azzurro da cielo d’estate. La Vale, un mattino di marzo. Va be’, cominciamo da lì. Marzo; e che lezione era, chiedi tu. Era matematica. Alla seconda ora, alle nove e mezza cioè. Quando la mattina si placa. Quando l’abisso del Sempre-Così ha già inghiottito la gente adulta, risucchiandola dalle strade dove fino a mezz’ora prima tutti si affrettano e si illudono che oggi chissà, oggi magari capiterà qualcosa di diverso, e invece no: oggi è sempre come sempre, e l’Abisso li sta digerendo senza che neanche se ne accorgano, neanche la luce della mattina ha più nessuno che la guardi, e si accovaccia malinconica come un gatto, mentre noi avevamo matematica con la Ievolo Martinez. Racconta, dici tu. Sì. Dunque la profe Ievolo Martinez era entrata in classe e si era appena seduta come sempre, con l’aria di chi siede a tavola. Perché appunto questo veniva a fare: si sedeva e cominciava a mangiare quel cibo prezioso e delicatissimo che solo noi le offrivamo, e che solo le anime giovani offrono in tanta abbondanza. Tutti gli insegnanti lo fanno, non lo sai? Forse non te lo ricordi, amore mio. Quel cibo è la vita, il senso della vita; i ragazzi ne hanno tantissimo e non lo sanno, loro no che non lo sanno, e nessuno glielo dice perché dopo quasi nessuno si ricorda più di averlo avuto, finite le scuole, che oscuramente se lo ricordano e perciò non possono vivere senza, e vengono lì a succhiarlo, come le radici delle piante succhiano l’acqua. E intanto parlano, fanno lezione, per la contentezza. I gerani mentre li annaffi mandano più odore, hai mai notato? Come se dicessero grazie. Allo stesso modo anche gli insegnanti succhiandoci ci insegnano le loro cose. Io lo sapevo, me n’ero accorta da un pezzo. Mh. Forse Dio non li punirà perché fanno questo, forse sì, tu che dici? Potranno sempre dire: noi non lo sapevamo, non credevamo di mangiargli il senso della vita, ai ragazzi. Pensavamo di 14


insegnare, di prepararli alla vita, era il nostro mestiere. Avrebbero dovuto avvertirci e nessuno ci ha avvertito, e noi siamo stupidi, non l’abbiamo capito da soli. Punisci chi non ci ha avvertito, Dio. E Dio cosa dirà? Ma esiste Dio? Prima esisteva, ma dopo di loro come può esistere più, se il senso della vita è tutto mangiato? 3 Se ci ha fatti incontrare vuol dire che esiste, dici tu. Va bene, se la vedrà lui con loro. Non è questo che importa adesso, giusto? La Ievolo Martinez si era appena seduta, dicevo, e compilando il registro protendeva già, cauta, la sua radice di geranio, il suo invisibile tentacolo sotto la cattedra, verso di noi – verso Marcinnò e la Giannutri, tanto per cominciare dalla prima fila – quando entrò in classe la Vale. E io sapevo perché la Vale era in ritardo. Con le sue tette grosse, tonde, senza reggiseno, e la maglietta bianca e il giaccone aperto, e il libretto delle giustificazioni con la firma finta che aveva fatto un minuto prima in corridoio, sul tavolo della bidella. E oltre al trucco pastoso il finto piercing d’argento, che il giorno prima era alla narice sinistra e oggi era sul labbro, sulle sue bellissime labbra stanche dopo una notte di baci. E anche gli occhi erano sfiniti, e trionfanti. Si fermò accanto alla cattedra, poggiò a terra la borsa, tra i piedi, e senza dire una parola mise il libretto sulla cattedra e indicò alla Ievolo Martinez il punto in cui doveva controfirmare. Come se la Ievolo non lo sapesse, capisci? Come se fosse ai suoi ordini. E la Ievolo obbedì: senza alzare lo sguardo firmò dove le indicava la Vale. E io sola guardavo e vedevo: come se la profe fosse ai suoi ordini, e come se tutto fosse ai suoi ordini, tutto e tutti al mondo. 15


Come un Angelo che è appena arrivato e sta per parlare e nessuno si è accorto che è lì e che è un angelo, e che è il Giorno del Giudizio. Sì. Bellissimo. C’entra con la mia storia? dici tu. Sì, sì. Io, mentre la Ievolo spiegava gli insiemi, palpavo e ripalpavo dentro di me il segreto della Vale, che era suo e mio anche se lei non poteva sapere che era anche mio: perché la sera prima, tornando dal supermercato avevo visto la Vale salire in una macchina e baciare la donna che sedeva al volante, ma baciare sul serio. Vale era entrata e le era come caduta addosso – e non erano neanche le sette, c’era ancora un sacco di gente per strada – e l’aveva baciata in bocca. In ginocchio sul sedile, la mano sinistra sul poggiatesta, pareva bevesse a una fontanella. E intanto la macchina era partita, mentre ancora si stavano baciando, e prima che la macchina svoltasse la Vale era ricaduta giù nel sedile. Come facevano? pensavo. In casa di quella donna, sul lettone di lei, come si toccavano, come si baciavano? Dove si baciavano? Sul collo, sulle due borracce della Vale, sulla pancia e poi lì, sulla sua Vanesia, e poi sulle gambe, e poi ancora lì, pensavo durante la lezione di matematica. E sicuramente il tentacolo della Ievolo stava succhiando anche da me, che ero anch’io tutta traboccante. Ma sì, mangia, mangia, divora, vampira. E come facevano quando arrivavano al massimo, al punto irresistibile? Quando si è su su su come sul picco della montagna russa e poi sai che sprofonderai giù: com’era per loro? Le labbra com’erano? Provavo a immaginarle e sbirciavo ogni tanto la Vale, che ascoltava attenta la Ievolo Martinez e verso di me non guardava mai. Vale era in banco con l’Aurora, vicino al muro. Guardavo l’Aurora e anche di lei pensai: come fa, quando arriva al punto irresistibile? L’Aurora era grossa, biancastra e metteva sempre la gonna. Non sapeva niente di niente e in banco la Vale sembrava un cartello di divieto di sosta vicino a una cabrio rossa. 16


Era sicura – lo si vedeva dallo sguardo – che un giorno qualcuno avrebbe punito la Vale Cavaion perché si vestiva così, perché aveva il piercing, perché fumava, perché non andava in chiesa. E l’Aurora non sapeva il resto. Ma di sicuro ne immaginava, di altre cose, dall’alto del suo cartello di sosta vietata. Altroché se le immaginava, per stuzzicarsi, per farsi salire il caldo alle guance, di notte, e per toccarsi di più. Che zoccola anche lei, con quella sua pelle spugnosa, biancastra. E che c’è di male, dici tu. Infatti, che c’è di male. Bisogna pur scoprire che cosa si ha lì in mezzo alle gambe: la Dolce Opinione – come la chiamo io – se l’ex Dio ce l’ha data e ci ha dato la voglia di scoprirla. Niente di male; solo che quelle come l’Aurora sono la maledizione del mondo e tutto il male del mondo viene da quelle come lei, che odiano e hanno paura, che condannano gli altri e si credono un gioiello del creato – neanche il mondo fosse come il negozio di suo papà, un negozietto di orologi e gioielli, e lei dentro come un gioiellone biancastro, una perlona in vetrina. Come le odio quelle così. Perché odiarle? dici tu. Be’ come sei ingenuo. Hai trentasette anni, potresti essere mio padre e ancora non ti sei accorto di una cosa così semplice. Che certi se non ci stai attento ti dominano, ti fanno fare quello che vogliono loro, e l’Aurora era di quelli, te lo garantisco io, da grande sarebbe stata tremenda. Di quelli che magari non se ne accorgono o magari non gliene importa neanche niente di te, ma se non impari a difenderti quello che sentono e fanno diventa quello che senti e fai tu. Perciò ci vuole durezza. Certi bisogna odiarli, per difendersi. Bisogna non badarci, dici tu. Sì, figurati. Non badarci!

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4 D’altronde, boh. No. Non è neanche vero che la odiavo, l’Aurora. Povera scarafaggiona biancastra. Vuoi vedere com’era la classe? Eccola, guarda, ho il diario: Amadori Saulo Arienta Paola Cassataro Francesca Cavaion Valentina, la Vale De Quirico Solange Delli Aurora Di Quonzo Chiara Faruffini Massimo Feola Samuele Formaggio Alessandra Giannutri Enza Gigliozzi Francesca Maggi Ernesta detta Eri Marcinnò Massimiliano Masnaghetti Maurizio Napoli Angelica Orsi Monica Pasolini Pierfranco Pasquale Michele Romano Immacolata, io Sannazzaro Heike Scarabelli Luigi Shallé Hussein Ibn Arabi Zaniboni Massimo. Tanto per sapere chi c’era e chi no, chi erano quelli che non hanno visto niente. C’entra, dici tu. Sì, tutto c’entra. Questo 18


c’entra. E io ero al terzo banco sulla fila di sinistra, tra due finestre, vicino a Zaniboni che puzzava di sudore. Comunque. La lezione finì e la Ievolo Martinez si alzava e se ne andava via sazia, col petto in avanti e il pancino gonfio, come se avesse un profilo d’ippopotamino sotto il golf, mentre la classe me inclusa tracimava in corridoio, a produrre con meravigliosa rapidità nuovo caldo e palpitante senso della vita. Perché noi davvero producevamo come niente al mondo, ci bastavano quei venti minuti di intervallo per ridiventare succosi e gonfi di senso – pronti per il profe successivo. La Vale era scattata su al suono dell’intervallo, ed era uscita dritta e decisa verso i gabinetti, e la Sannazzaro dietro. La Sannazzaro era un’altra strafiga della classe, o meglio l’unica veramente strafiga, dato che Vale non era bellissima, aveva un fascino micidiale, questo sì, ma con le bocce troppo grosse e a ben guardare con le gambe cortine, mentre la Sannazzaro era una cosa addirittura inspiegabile. Spalle cosce collo occhi mento orecchie fronte capelli (castani, quasi neri) caviglie labbra gomiti nocche tutto abbagliante, soprannaturale, una su cento milioni, fisicamente. Quindi: alle 10:21 la Vale e la Sannazzaro erano già nel bagno insieme; e alle 10.26 uscivano dal bagno e tornavano verso la nostra classe, mano nella mano e fumando una sigaretta in due, di quelle col filtro bianco della Sannazzaro. E dall’espressione dei loro occhi capii subito che adesso eravamo in tre a sapere il segreto, nella scuola, e che tra meno di un minuto saremmo state in cinque, perché le altre due strafighine della prima b, la De Quirico e la Di Quonzo, erano già in posizione vicino al calorifero, là dove di solito si riuniva l’élite della classe, mentre la marmaglia restante gironzolava casuale. Guardai la Vale e la Sannazzaro mentre mi passavano accanto; e loro due non guardarono me, perché io non ero neanche lontanamente dell’élite. Stavo mangiando una brioscina, 19


tenendola con tutte e due le mani. Di quelle con la marmellata dentro, all’albicocca. Passarono accanto all’Aurora. Passarono accanto ai tre maschi Amadori, Masnaghetti e Marcinnò, che parlavano di cretinate tipo figurine e aerei. Arrivarono dalla Di Quonzo e dalla De Quirico e lì lei lo disse anche a loro. 5 Aspetta un attimo perché la scena è importante, voglio che tu la veda bene. Io ero lì e mangiavo e nessuno parlava con me. In generale bisogna dire che era raro che qualcuno parlasse con me, perché ero bruttina e ostica. Cioè, non che fossi bruttina veramente. Se piaccio a te non posso essere bruttina perché tu sei bellissimo; giusto o no? Solo che sembravo bruttina, ero bruttina per come mi vestivo, con le scarpe di cuoio marrone con le stringhe, da nonna, i pantaloni di fustagno verde, il maglioncino del cavolo con le maniche slargate e non tirate su. E i capelli come va va. Sembravo bruttina. E poi bassa. E soprattutto ostica. Sapevano che non ero scema, ma parlavo poco e certe volte rispondevo male e non capivano perché. Quella ero io. L’Imma di allora: milioni di anni fa. L’Immosaura. O magari ero bruttina davvero, non lo so adesso. Comunque poi sono cambiata. Ma non è questo il punto, adesso. Io stavo lì e mi ero appena scossa le briciole dal petto e intanto la Vale ride di qualcosa che sta dicendo, ride di gioia, e si mette la mano sulla bocca e spalanca ancora di più gli occhi. Mentre le spalle della De Quirico e della Di Quonzo scendono, arrendendosi alla meraviglia, come due gelati al caldo d’estate. Lei stava parlando del suo amore per la donna dai capelli neri e loro rabbrividivano e ammiravano. 20


Continuavo a masticare piano l’ultimo boccone di brioche, sempre più lentamente. Il sole pallido di marzo illuminava i capelli della Vale. C’era una grande finestra dietro di loro. E lei, capisci, stava descrivendo le gioie infinite, i modi e le astuzie, le delicatezze e le profonde intelligenze delle mani, della bocca e delle ginocchia della sua grande maestra adulta di felicità. La campanella suonò e loro quattro rimasero tranquillamente fuori, incuranti del profe Auriemma che le supplicava di spegnere le sigarette e di venire a imparare da lui la storia dell’umanità. Auriemma che dalla soglia diceva «Su, dai» e si teneva all’anta della porta, come se ad avvicinarsi di più a loro quattro avesse avuto paura di precipitare. Inutile. Lui miserabile col suo tentacolo già pronto, con la sua storia dell’umanità: «Per favore, rientrate. Se arriva la direttrice, dai. E non fumate in corridoio». Puoi crepare, Auriemma, loro hanno le ali. Lei versava nelle loro menti quel liquido di sapienza, perché portassero anche loro felicità nel mondo in cui sempre sempre gli esseri visibili e invisibili si cercano l’un l’altro, per amarsi senza confini, perché a questo soltanto conduce il senso della vita e non c’è nessun’altra ragione per vivere, e tutte le altre ragioni sono soltanto grovigli di imbrogli e trappole cattive. Mentre l’Aurora in banco da sola fingeva di non soffrire e covava le sue maledizioni, il suo veleno perenne. Non era bello? Non era importante? 6 Sì lo so lo so lo so a cosa pensi, basta, ne abbiamo già parlato, secondo te non è vero che era lesbica e mi sono inventata tutto e va be’: pensa quello che vuoi. Io l’avevo solo vista salire in macchina e partire con una tizia, ed era buio, e di quello che 21


Una ragazza adolescente parla con un uomo misterioso. Lui la spinge a raccontare e lei, innamorata, gli dice tutto. Gli rivela segreti inconfessati, una storia familiare sconvolgente. Il mio principe azzurro affronta un tema – la violenza sui minori – vissuto ancora oggi come uno scandaloso tabù, e quindi non del tutto svelato. Questo romanzo vuole essere lo specchio di una società arida e superficiale, in cui famiglia e scuola riescono soltanto a essere lo sfondo dell'assassinio di un'anima. Un ambiente fatto di sottocultura televisiva e nevrosi da potere o da guadagno facile, che cerca costantemente di soffocare il vero Senso della Vita. La vicenda di Imma – ispirata a una storia vera – è la rivendicazione di uno spazio non violabile d'innocenza e purezza interiori. ISBN 978-88-97864-53-0

SPAZIO INTERIORE

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9 788897 864530

Igor Sibaldi Paolo Bianchi

Si sta bene quando passa una tempesta. Quando fai qualcosa di forte e sopravvivi, poi diventi più forte. Questo c’entrava qualcosa con il Senso della Vita, ma non riuscivo a capire cosa.

IL MIO PRINCIPE AZZURRO

Nelle coincidenze è così. Io ci ho pensato un po’ diverse volte e credo sia per questo motivo: perché in certi momenti, quando il cuore è più intenso, quando la forza è più intensa, qualunque forza sia, in quei momenti il senso della vita si fa vedere nelle cose. Ti parla attraverso le cose.

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