La ninfea del lago

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La ninfea del lago Leggende del luganese

Ugo Canonica

Copertina e disegni Mario Marioni

No. 405 2a edizione

EDIZIONI SVIZZERE PER LA GIOVENTÙ - ZURIGO


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(e) 1961 Edizioni Svizzere per la GioventĂš Zurigo


IL COLLE DI SAN ZENO Subito dopo Lugano il treno imbocca la valle del Vedeggio, una valle verde e rigogliosa sui cui versanti si estendono vaste selve castaniii, mentre sul fondo scorre lucido e azzurro II fiume che ha le sorgenti sul monte Camoghè. Il primo villaggio che incontriamo è Cadempino, con bian che casette raggruppate in crocchio; quindi Lamone che s'ada gia nella linda conca della porcellana dei prati, con gli abitati che sciamano e si restringono, come una nidiata ai piedi d'una docile collina alta 560 metri, è il San Zeno. Per raggiungere la cima del colle occorre poco più di mezz'ora. Il San Zeno è esposto al sole e sui suoi fianchi cre scono bene la vite, il granoturco, l'orzo, le patate. I ronchi, coi lunghi filari dei vigneti, sono piuttosto in basso, perché verso la sommità II pendio è scosceso e fi terreno è roccioso. Abeti, larlci, castagni e allori danno una tinta calda al colie ora chiazzato di ombre scure, ora più lievi e pallide. Dalla parte ovest il versante è ripido e pieno di frescura; in basso troviamo due grotti e il luogo si chiama Serta. Il versante nord, in un ondeggiare morbido della collina, si spinge verso Taverne. A est II San Zeno declina dolcemente fino a lambire il tranquillo specchio del laghetto di Origlio, che palpita e brilla come una perla turchina caduta dal cielo sulla serena distesa di campi e di prati ubertosi. In cima al colle sorge una chiesetta all'ombra amica delle piante che le cantano ormai da secoli con il loro stormire un'assorta ninna-nanna; e la chiesetta è I), quieta e bianca, te stimonio ineffabile della fede della nostra gente.

L'ORATORIO L'oratorio che sorge sul colle di San Zeno è stato eretto nel lontano 1490; prima esisteva soltanto una semplice cap pella. L'aria che traspira dai vecchissimi muri della chiesetta, dedicata all'ottavo vescovo di Verona, è calma e posata. Come mai sorse questo luogo di raccoglimento e di preghiera, alto


sul mondo e fuori dai crucci quotidiani degli uomini, nella so litudine più vicina al cielo? San Zeno, poverissimo, è di origine africana e precisamente della Numidia. Giunse a Verona nel IV secolo, allorché il Cri stianesimo trionfava sullo stato pagano col riconoscimento della Chiesa sotto l'Imperatore Costantino. L'attività del Santo fu mol teplice. Ma il merito principale è quello di aver saputo vincere l'idolatria in quel tempo assai diffusa a Verona. Dotato di rara intelligenza e di ottima cultura, San Zeno s'impose al popolo di Verona che consacrò a Lui ben otto chiese. Il Santo però è venerato in moltissime città d'Italia e del mondo intero e, a sua gloria, sorsero innumerevoli i santuari e gli oratori. Nel nostro Cantone due chiese sono dedicate a San Zeno: quella di Salorino, nel Mendrisiotto, e quella di Lamone. A Lamone-Cadempino la fede e la devozione per San Zeno sono fiorite al tempo dell'emigrazione ticinese in Italia. Infatti gli abitanti dei due paesi in primavera e in estate partivano e si recavano a lavorare pelle diverse province italiane come for naciai, muratori, stuccatori ecc. Durante la lunga permanenza in terra straniera non veniva mai meno in quegli operai l'amore verso il villaggio natale. In inverno essi facevano ritorno alle loro case, dove trovavano l'ambita quiete e il riposo dopo le lunghe fatiche del lavoro. La città di Verona fu tra quelle che più rimase nel cuore dei nostri emigranti. Sicché anche il pio Vescovo parlava alla loro mente e ai loro cuori. Per ricordarlo e per venerarlo essi vol lero portare il culto del Santo nella nostra terra. Da allora la chiesetta di San Zeno sta solitària sul poggio con (a sua minuscola campana che squilla in certe occasioni dell'anno. L'oratorio è pure piccolo, possiede un affresco del XIV secolo che rappresenta la Madonna col Bambino con ai fianchi le figure di San Zeno e di Sant'Agostino. Verso la fine di marzo vi si celebra la festa; in quel giorno la gioia conquista tutta la collina. Il sentiero che si alza tra i vigneti nereggia di gente che sale alia cima. Dalle parrocchie vicine giungono le processioni al canto dei


Salmi e si snodano gravi recando stendardi croci e lampioni dalle candele accese. La popolazione di tutta la plaga ascende la piccola mon tagna, si pigia tra i muri dell'Oratorio, si china sulle ginocchia. E nella preghiera rivolta al Santo trova il proprio conforto. Accanto alla chiesa c'è la casa-eremitaggio dove fino al 1832 vissero gli eremiti. Nell'interno una cucina, due stanze, la cantina e la stalla. Fuori di casa c'è l'orticello. Dietro l'Ora torio si trova un sasso detto pietra cupelliforme: essa serviva ai pagani per offrire sacrifici agli dei.

GLI SPIRITI E SAN ZENO Migliaia di anni fa il territorio di Lamone era tutto coperto di alberi. C'erano immensi boschi sui quali il sole splendeva, ma non riusciva a sciogliere l'ombra fitta che stava sospesa fra i rami e le foglie. Nella frescura della foresta e tra il ramaggio abitavano ogni sorta di animali e gli uccelli nidificavano sulla vetta degli alberi. Di notte si sentivano le urla dei lupi, il fischio delle marmotte, il verso delle scimmie e, di quando in quando, il grido dei gufi e delle civette che facevano zit tire la dolcissima nenia degli usignoli che gorgheggiavano eb bri nei cespugli dei versanti della valle, illuminati dal fioco chiarore della luna. Col tempo il bosco s'era a poco a poco diradato. Alcuni boscaioli, venuti da chissà dove, costruirono alcune capanne con tronchi e paglia. Essi vivevano felici, si difendevano come potevano dagli assalti degli animali feroci, si nutrivano di noci e di castagne; facevano, insomma, una vita selvaggia e pri mitiva. Un giorno d'agosto, in cui il sole era di fuoco e pareva vo lesse spaccare anche le pietre, il cielo a un tratto s'oscurò; la terra cominciò a tremare, tra le nubi color di pece lingueg giavano lampi e saette; al frastuono degli animali del bosco s'aggiunse il baccano torbido e pauroso dei tuoni. Pareva il finimondo. I boscaioli si chiusero nelle loro capanne invo cando la protezione degli dei. Scoppiò furioso il temporale, un temporale che mai s'era visto l'uguale; l'acqua batteva vio-


lenta e scorreva nera giù dai versanti, il vento si scatenò ter ribile sradicando piante, soffiando via il tetto alle capanne. Per una notte e un giorno durò l'uragano. Poi, finalmente, sul cielo del più limpido azzurro apparve l'arcobaleno. Iboscaioli allora costruirono sul colle un tempio per rin graziare gli dei che li avevano preservati dalla morte. Molto tempo dopo, quando i Romani con le loro conquiste diffusero il Cristianesimo anche da noi, gli uomini della re gione di Lamone dis^ussero il tempio ed edificarono al suo posto una bella e sobria cappellett^. Gli dei antichi offesi e adi rati fuggirono e andarono a rifugiarsi nelle grotte della Madrinella. Una notte questi dei pagani si riunirono a concilio per decidere come vendicarsi degli uomini cattivi che avevano distrutto il loro tempio. Uno disse: — Dobbiamo molestare gli uomini nei loro lavori. —No — esclamò un altro. — Dobbiamo tormentarli di notte, quando dormono e sono stanchi. —Si — affermò un terzo — se li disturbiamo di notte sa remo soddisfatti. Gli uomini non potranno dormire, né riposare. IIgiorno seguente, quando le ombre della sera s'addensa rono cupe contro gli abitati, gli dei pagani fecero uscire da innumerevoli buche sotterra spiriti maligni, streghe a cavallo di bastoni, nani sdentati con la barba che toccava i piedi, fol letti con la coda e le corna che vomitavano fuoco dalla bocca e dagli occhi. Tutti questi esseri orribili si recarono sulle piaz zette e sui vicoli del villaggio ballando, pestando i piedi, lan ciando sassi contro le finestre e le porte, facendo rumori in fernali. Se qualcuno poi fosse uscito in strada sarebbe stato tagliato a pezzi. Ogni notte queste scene e questi rumori si rinnovavano. Gli abitanti di Lamone erano spaventati, si disperavano, piange vano. Allora le donne e gli uomini si misero a pregare: il par roco celebrava messe in chiesa per vedere di placare gli dei e gli spiriti maligni. —Oggi faremo la processione sul Colle di San Zeno — disse una mattina il curato. — Forse ci verrà concessa nuova mente la pace.


Verso il tramonto con croci stendardi e baldacchini, mentre le campane suonavano, ed era il loro canto un lungo lamento, il popolo dei contadini si mosse sul sentiero che conduce alla vetta della collina.

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Ma ecco che a un tratto sul cielo comparvero nuvole can didissime: sembravano tanti bioccoli di ovatta finissima come i capelli d'angelo: poi, improvviso, sbocciò nel velo niveo del cielo una nuvola rossa come il sangue: nella nube apparve, con le mani alzate a benedire, San Zeno. Subito si senti un gran fruscio, un vociare confuso e poi grida disperate. Erano gli spiriti maligni e gli dei che venivano sprofondati nella terra. Ancora oggi si vedono i segni delle buche fatte da loro.

Più tardi gli abitanti di Lamone ai posto della cappelletta costruirono sulla collina, in ringraziamento, l'Oratorio dedicato a San Zeno.

I BUOI STREGATI Quando in Serta ancora c'erano gli spiriti, essi si trasforma vano di giorno in piante, in cespugli, in animali con due, tre o quattro teste. Ci si può quindi immaginare io spavento che provavano coloro che incontravano sul loro cammino queste bestie strane che facevano ribrezzo. A ogni ora della gior nata, ma specialmente verso il tramonto, quando la gente rin casava dal lavoro, gli spiriti facevano la loro apparizione, ter rorizzando grandi e piccoli. Si narra che una vecchia e un bam bino morirono per strada. Al suono delle campane, che sono — dicevano i contadini — la voce di Dio, gli spiriti scomparivano facendo dei versi as sordanti e si rifugiavano poi nelle loro tane, per lo più tra le fessure delle rocce o nelle caverne delle montagne; tanti, in vece, si nascondevano nelle buche dei campi e dei prati. Al lora tacevano tutte le voci della natura, dai grilli canterini in mezzo all'erba, agli uccelli che gorgheggiavano o zufolavano tra le fronde. Tutto taceva, pesava sulla vastità della terra un gran silen zio, turbato a quando a quando da lunghi frullii d'ali e da so spiri: erano gli spiriti che imprecavano contro le campane che li avevano costretti a scappare. La strada, in quegli anni, arrivava proprio ai piedi della

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Serta. Vi passava molta gente e specialmente i carradori coi carichi di legna o di fieno. Era un giorno di primavera. La cam pagna appariva verde e lucida, i fiori occhieggiavano nei prati, mentre le piante erano un tripudio di infiniti colori. Un leggero vento carezzava le erbe e le siepi lungo la via, il sole indo rava le case e luccicava sui vetri delle finestre. Sulla strada camminava, diretto a Taverne, un contadino. Conduceva i buoi che trascinavano lenti un pesante carro di tronchi di castagno. Quando il carro arrivò in Serta, le bestie si fermarono e non si mossero più. —Su, buono, Bianchino — incitava il carradore. —Forza, andiamo, Puci — insisteva rivolto ai buoi il con tadino. Le bestie non si muovevano. Erano sempre lì, immobili come due statue. —Chissà che cosa avranno? — si chiedeva il carradore. Non mi hanno mai disubbidito le mie bestie. E riprendeva a incitare i buoi: — Andiamo che vi darò il fieno... Su, Bianchino, su, Puci... Fate i bravi! — I buoi nemmeno questa volta si mossero. Allora il contadino perse la pazienza; prese un grosso ba stone e cominciò a menar botte da orbi. Anche questa fu fa tica sprecata. Le povere bestie non si lamentavano neppure, non scrollavano la testa, né muggivano. —Strano, strano — pensava il carradore. E s'arrabbiava sempre più. Alfine il carradore si mise a osservare attentamente il carro e il carico di legna. Ma tutto era in perfetto ordine. Quindi scrutò diligentemente la strada davanti ai buoi. Vide allora qualche cosa che prima non c'era: un immenso cespuglio di rovi e di spine che sbarrava la via. li carradore impugnò subito con violenza la falce e comin ciò a colpire furiosamente. Dal vasto cespuglio si levò un fortissimo rumore, un frastuono di cadeldiavolo e finalmente si sentì uno scalpiccio frettoloso come di gente che fuggisse impaurita.


Solo In quel momento I buoi, liberati dall'incantesimo, ri presero il viaggio. L'uomo tirò un lungo sospiro di sollievo ed esclamò: — Fi nalmente possiamo andare; se restavo qui ancora un minuto finivo per morire di spavento anch'Io.

LA MADONNA DEL BUON CONSIGLIO O DELLA PORTA Lungo la strada della Bruga, che porta fino in Serta, noi pos siamo vedere ancora oggi una vecchia cappella, dedicata alla Madonna del Buon Consiglio o della Porta. Nel 1420 scoppiò la peste, una terribile malattia che seminò la morte dappertutto e si era via via diffusa per lunghi anni, fin verso il 1500. Tra i villaggi che maggiormente ne furono colpiti si ricordano quelli di Bedano, di Torricella, di' Taverne e di Gravesano. La gente dopo lunghe sofferenze moriva fra atroci dolori. L'unico paese preservato dal grave contagio fu Lamone. Per questo gli abitanti degli altri villaggi ebbero invidia ed erano continuamente divorati dalla rabbia. —Non è giusto, non è giusto! — esclamavano gli uomini ammalati. — Anche la popolazione di Lamone deve essere col pita dal flagello. Tutti devono morire. Ma i lamonesi miracolo samente restavano immuni. La gente era sana e felice e la vorava con diligenza i prati e i campi. Allora un vecchio d'un paese vicino disse: — Bisogna diffondere la malattia anche a Lamone. Qualcuno deve portare là, in mezzo a quelle persone, il contagio. —Vado io — disse una donna cattiva che aveva gli occhi spiritati e pareva che avesse nel cuore il diavolo. —SI, si, vai tu — esclamò il vecchio. —Certo, fai bene — dissero insieme gli uomini e le donne che udirono. E tutti furono contenti di questa decisione. —Devi andare domani mattina presto, quando ancora i la monesi dormono pacifici a letto — esclamò ancora il vecchio. La donna cattiva all'alba, prima che il sole sorgesse, s'av viò verso Lamone.

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Ma quando arrivò all'altezza del ronco, sul quale sorge la cappella, la donna s'accorse di non poter più continuare il cammino. Fu abbagliata da una intensa luce e non scorgeva nemmeno più la strada sulla quale metter I piedi. Poi, a un tratto, vide in una nuvola rosa una Signora tutta bianca, coi capelli d'oro sciolti al vento e gli occhi azzurri come il cielo. La donna cattiva cadde a terra, in ginocchio, confusa e stordita. La bella Signora, che era la Madonna, le parlò: —Dove vai, donna? Che cos'hai intenzione di fare qui a Lamone? La donna rispose: — Mi reco a fare una passeggiata. Ma la Madonna severamente le disse: — Torna indietro su bito. Tu non potrai entrar nel villaggio di Lamone i cui abitanti sono buoni e caritatevoli e distribuiscono il pane caldo al po veri che lo chiedono. La donna cattiva si alzò e fu costretta a tornare al suo vil laggio, mentre la Signora dai capelli d'oro scomparve nella nuvola rosa. Il popolo di Lamone, in gratitudine alla Madonna per il suo generoso intervento, distribuisce tuttora, il giorno di San Gio vanni Evangelista, il pane caldo ai bisognosi del villaggio.

L'ORIGINE DEL LAGHETTO DI ORIGLIO Tanti anni fa il laghetto di Origlio non esisteva. Al suo po sto sorgeva il paese di Origlio. A Caglio, dove adesso ci sono le cascine, una modesta casetta spiccava tra il fogliame e i fiori. Era un giorno d'autunno. Dopo alcune settimane di bel tempo, col sole che splendeva caldo come se fosse primavera, il tempo improvvisamente cambiò. Cominciò allora a piovere insistentemente; le valli erano piene di acqua, e di pioggia grondavano gli alberi che lasciavano cadere a mazzi le foglie bagnate e marce. Anche il vento si mise a soffiare violento giù dai monti della Capriasca e della Val Colla. Faceva freddo e si era piombati ormai nel pieno dell'inverno. Con questo tempaccio un vecchio, che da mesi girava di villaggio in villaggio, arrivò anche a Origlio per chiedere un po' di pane, un po' di fuoco per scaldarsi e asciugarsi. Bussò

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a tutte le porte degli abitati, ma sempre gli venne chiuso l'uscio sulla faccia. Il poverello, sfiduciato e stanco morto, scrollava la testa e si lamentava, malediva gli uomini che avevano cuori più duri del sasso e lo volevano lasciar morire di fame. Mentre triste e lamentoso stava per lasciare il paese, il vec chio scorse tra le piante la modesta casetta. Si avvicinò e pic chiò alla porta. Una donna miseramente vestita venne ad aprire. L'uomo disse: — Per carità, avete qualche cosa da darmi da mangiare e un po' di fuoco per scaldarmi? La donna rispose: — Sono povera, ma entrate pure. Ve dete, ci sono qui i miei cinque bambini che piangono perché hanno fame e io non ho nulla. Ho fatto credere loro di aver messo le castagne sul fuoco. In verità, però, nella pentola non ci sono che sassi raccolti sulla strada. Il vecchio esclamò: — Avete provato a guardare nella pen tola? La donna disse: — Oh, sono sicura che ci sono pietre, è inutile che io tolga il coperchio. Il vecchio ripetè: — Guar date, buona donna, datemi ascolto.

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Ella allora ubbidì. Staccò la pentola dal fuoco e la rove sciò sulla tavola. Miracolo! Quale fu la sorpresa della donna quando vide che I sassi s'erano cambiati in gustose castagne cotte. Tutti ne mangiarono con avido appetito. I bambini si sfamarono e cominciarono ancora a giocare allegri nella cu cina. La donna non finiva di ringraziare e piangeva di conten tezza e di consolazione. — Ma questo è un dono del Signore, è un miracolo! — di ceva la buona donna. E correva ad abbracciare I suoi figlioli felici. Dopo qualche Istante il vecchio disse: — Buona donna, que sta notte sentirete rumori assordanti; ci saranno nel cielo lampi, saette e tuoni. Vi consiglio di non uscire di casa. Non abbiate timore, non interessatevi di ciò che succede. Domani mattina, invece, vi recherete nel vostro granaio. — Detto questo, il vec chio spari. Durante la notte, a una cert'ora, incominciò furioso l'ura gano. Pareva la fine del mondo. Si sentivano sassi e macigni che rotolavano giù dalla montagna e si spaccavano contro le case del villaggio. Il ciclo era pieno di fuoco e il tuono bron tolava interminabile, mentre la grandine cadeva grossa come un pugno sulla terra che si apriva e seppelliva ogni cosa: piante, orti, giardini, case e stalle. La mattina si schiuse serena e tranquilla come se niente fosse accaduto. La donna uscì di casa per vedere i disastri che erano successi durante la notte. Il villaggio non esisteva più, al suo posto s'era formato un bel lago azzurro e lillà. Gli abitanti di Origlio furono cosi castigati: erano scomparsi tutti, ingoiati dalla terra. La donna si recò poi a vedere nel granaio. Trovò sacchi di frumento, di patate, di orzo, di noci, di farina: insomma ogni ben di Dio. Nella stalla la povera vaccherella era stata sosti tuita con due belle mucche che allattavano i vitellini appena nati. Il vecchio mendicante, che era un Angelo del Signore, aveva così ricompensato la povera donna caritatevole.

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I SOLDATACCI SCORNATI Un caldo giorno del mese di agosto la Madonna col Bam bino era scesa sulle rive del laghetto d'Origlio. Intorno al lago era una meraviglia; gli uccelli si erano riuniti a cantare le loro melodie; I fiori dei prati avevano schiuso le loro delicate corolle e l'aria era tutta pervasa di profumi deliziosi. Il cielo rideva azzurro e calmo e si rifletteva nelle tranquillissime ac que che avevano qualche leggero brivido quando la brezza le carezzava. Ogni prato all'ingiro pareva un tappeto ricamato con grande diligenza; spiccavano nitidi tra li verde intenso le viole, le margherite, i narcisi, le genziane e le mimose. Gesù volle scendere dalle braccia della Madonna per se dersi sull'erba soffice e fresca. Mentre la Madonna e il Bambino Celeste erano tutti intenti ad ammirare le bellezze del creato e non si aspettavano di essere disturbati, udirono delle brutte voci e rumori di passi. A un tratto videro sbucare da una siepe due soldatacci, di quelli che avevano dato la caccia al Bambino per ucciderlo al tempo di Erode. Essi cominciarono a rincorrere la Madonna che cercava di fuggire disperatamente col Bambino stretto al collo. I soldati erano assai veloci e stavano quasi per raggiungere la Madonna. Ma ella riuscì all'ultimo momento a trovar rifugio nella larga fen ditura di un grosso albero di castagno. Appena fu dentro, una nuova corteccia chiuse l'incavatura. I soldatacci rimasero molto meravigliati nel trovare ia buca chiusa. Però uno del più mal vagi pigliata la spada la infilzò nella sottile corteccia. Quando estrasse la lancia, trovò sulla lucida punta una pic cola goccia di sangue profumato. Aveva ferito Gesù nel dito mignolo. Da quel giorno le castagne, per ricordare quella fe rita del Bambino, portano un segno color caffè chiaro sulla loro buccia.

IL SEGNO DEL SIGNORE Tanti e tanti anni fa, nella valle del Vedeggio crescevano folti boschi di castagni. Le castagne non erano racchiuse nei ricci, ma coperte da un mallo come quello delle noci. La gente

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era felice e buona; non bestemmiava mai. D'autunno, il mallo si apriva e cascavano sull'erba tre belle castagne. Le donne ne trovavano in gran quantità e non si pungevano le mani. Nemmeno avevano tanto da lavorare. Tutti erano felici e cor diali e quando qualcuno moriva volava diritto in Paradiso; al l'inferno non andava mai nessuno. Il diavolo era stizzito, perché nelle sue fiamme non poteva mai bruciare nessuno della Valle del Vedeggio. Perciò un giorno uscì dalla buca scavata su una collina. Vide la gente contenta e brava che stava raccogliendo le castagne. Allora, di notte, fece crescere sul mallo delle ca stagne infinite spine. La gente, la mattina, quando si recò a raccogliere le castagne, si punse le mani e si mise a bestem-

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miare. Cosi, a poco a poco, diventò cattiva. Il diavolo rise ed era soddisfatto. E per tanto tempo all'inferno andarono molti vallerani. Il Signore, però, si accorse che in Paradiso non ar rivava più nessuno della Valle del Vedeggio. Sali su una nu vola e guardò giù. Vide che gli uomini erano cattivi, malvagi e non ne capi il perché. Poi guardò le piante e scorse sulle castagne le spine; comprese che c'entrava il codino del dia volo e tracciò con la mano un grande segno di croce. Subito i ricci si aprirono proprio come il segno di croce. La gente riavendo le castagne ridiventò buona e ricominciò a volare In Paradiso. D'allora in poi le castagne sono chiuse nei ricci, che, a maturanza, si aprono secondo il segno di croce.

L'OFFERTA BENEFICA Secoli fa al posto del piano alluvionale del Vedeggio c'era il lago. I fianchi delle montagne erano popolati di castagni. I boscaioli che abitavano la regione vivevano di castagne, di frutti selvatici e di prodotti della caccia. Non sapevano ancora coltivare la terra. IRomani, un tempo potentissimi, cominciavano a diventare più deboli. Quando poi i popoli barbari arrivarono a Roma, i ricchi signori fuggirono. Alcuni arrivarono qui da noi. Tra questi si notava una principessa romana con il figlio e i servi. Pianta rono le tende: sotto la tenda principale dimorava la principessa con il figlio, sotto le altre i servi. IIfiglio della principessa, di nome Mariello, un giorno s'inol trò nelle selve piene d'uccelli coi suoi cani da caccia. La cac cia fu abbondantissima. Nel ritorno s'imbattè in parecchi bo scaioli del piano che ben presto riconobbero in lui un fore stiero. Essi gli andarono incontro furibondi per rubargli la sel vaggina che si era permesso di uccidere nei loro boschi e fini rono per scatenare una lite. Naturalmente i cani, vedendo che il loro padrone veniva bastonato, assalirono i boscaioli e ne uccisero uno. Gli altri si diedero a una disperata e precipi tosa fuga. Mariello, arrivato a casa, raccontò alla madre quello che era successo. La mattina sentirono suonare i corni dei boscaioli

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che chiamavano a raccolta. Gli uomini in gruppi s'avvicinarono alle tende brandendo scuri e falci affilatissime. Erano decisi a uccidere la principessa e il figlio. La principessa vide gii uo mini e s'affacciò sulla soglia della tenda. Alzò calma le brac cia ed esclamò: — Pax — che vuoi dire Pace. I boscaiolì, vedendo questa signora vestita cosi bene e serena in viso, in dietreggiarono per la vergogna. La principessa aggiunse: — So che cos'è accaduto; ma mio figlio non ha fatto apposta. Se voi accettate, verrà lui stesso a domandarvi perdono. Mio figlio e i miei servi, se li lascerete vivere qui, vi insegneranno a coltivare la terra, a fare le dighe per le acque, a bonificare il piano e a trasformarlo in un giardino meraviglioso. I boscaioli accettarono; con i Romani fecero la pace e strinsero una cor diale e proficua amicizia lavorando con gioia per il bene co mune.

LA LEGGENDA DI SAN LUCIO II San Lucio è un monte liscio e pulito che chiude la Val Colla e continua la gobba brulla e nuda del Gazzirola. Chi desidera accedervi per la via più corta deve percorrere la strada che fiancheggia il fiume Cassarate chiusa da due ripidi versanti. La valle è pittoresca e selvaggia, con rocce a picco qua e là sulla cammionabile, oppure con dirupi appena più diffusi e allargati. Su limitati pianori riposano calmi paesini sotto il cielo mite e vellutato, carezzati dal sole che sfolgora il mattino sul San Lucio e si spinge, col progredir del giorno, fin oltre i Denti della Vecchia. L'aria che spira dalla valle e dal fiume, che scaturisce dal Gazzirola, è fresca e profumata e ci mette ad dosso un senso di riposo e di sollievo. I vecchi della Valle narrano ancora oggi la vecchia leggenda di Lucio, pastorello, che diede poi il nome al monte sul quale si costruì in suo onore anche una chiesetta. Lucio era un ragazzo che vestiva assai poveramente: portava una tunica verde, la mantellina di rosso cupo, calze pure rosse a strisce bianche, calzoni fino al ginocchio color marrone. Il giovane aveva l'aspetto forte e sano e proveniva dalla Val

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Cavargna. Egli si era messo al servizio di un burbero e avaro alpigiano, padrone di vasti pascoli e di alcune cascine sulla montagna. Di carattere buono e mite, Lucio venne ben presto in con trasto col padrone. Il pastorello chiamava a sé I poveri dei villaggi, gli affamati che giungevano a gruppi, elemosinando una scodella di latte. I mendicanti se ne andavano sempre soddisfatti e sfamati, perché il giovane dava loro tutto quello che essi chiedevano. Per questa gente derelitta e bisognosa il fanciullo preparava col latte già scremato un formaggio che distribuiva ogni giorno in regalo. Il padrone, quando si ac corse che Lucio amava i poveri e a loro faceva tanta carità, un giorno lo minacciò perché pensava che egli lo derubasse. Era una sera buia e nuvolosa. Il temporale s'avvicinava alla montagna e fitti scoppiavano i tuoni e i lampi nei cielo. Pa reva ci fosse l'inferno nell'aria. Lucio allora fu licenziato dal cattivo padrone. Il pastorello supplicò l'alpigiano, cercando di indurlo a una decisione più umana. Ma ogni preghiera fu inutile. Il fanciullo vagò solo quasi tutta la notte sulla montagna in preda alla paura, al freddo e alla tristezza, sotto la pioggia che non ces sava un minuto di scrosciare violentissima. Finalmente, verso l'alba, trovò una balta. Entrò per ristorarsi e per asciugare i suoi abiti. Nella cascina, davanti al fuoco, trovò seduto un vec chio dalla lunga barba bianca che lo accolse con bonario sor riso e gli offerse latte e pane. A Lucio quel vecchio fu subito simpatico: anzi lo ringraziò di cuore quando seppe che l'alpi giano oltre all'ospitalità gli dava lavoro sul suo monte. Il gio vane s'ingegnò in ogni maniera per abbellire l'alpe: lavorava senza tregua, ma sempre fu caritatevole. I poveri accorrevano ogni giorno più numerosi. Il nuovo padrone si compiaceva del l'opera di Lucio, si congratulava con lui per la bontà dei for maggi che sapeva preparare. L'alpe fu rifatto, le bestie rad doppiarono di numero, i pascoli non patirono mai la siccità. L'altro alpigiano, intanto, si consumava di rabbia, moriva d'invidia e decise di uccidere il giovane che era diventato or mai suo rivale.

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Verso la metà del mese di luglio, Lucio venne aggredito col pugnale dal vecchio padrone che ne gettò il corpo nelle acque del laghetto che un tempo si vedeva a fianco della chiesa. L'acqua del lago diventò di color rosso fuoco. Più tardi il giovanetto martire venne sepolto nel luogo dove oggi sorge la chiesa che a lui è consacrata. Ogni anno, il 12 luglio, la gente della valle sale in proces sione all'oratorio di montagna per venerare la memoria del sacrificio del caro e infelice pastorello.

LA LEGGENDA DEL CONVENTO Non lontano da Tesserete, grosso villaggio al centro della Pieve Capriasca, sorge il monte Bigorio sul quale fu costruito nell'anno 1535 il convento dei cappuccini che domina l'intera vallata. Gli abitanti della Capriasca s'erano messi d'accordo da tempo per la costruzione d'un monastero, ma non si decide vano a scegliere il luogo adatto. Finalmente dopo molte discussioni i vallerani s'accordarono di erigere il convento nelle vicinanze del paesello di Lugaggia. I muratori, sotto l'esperta guida di due architetti, comin ciarono a scavare le fondamenta. Ma un giorno del mese di luglio uno stormo di rondinelle s'avvicinò ai lavori e col becco ogni uccello staccò un pezzetto di calce dai muri in costruzione. Quindi le rondini volarono via, sfrecciando nel cielo azzurro nella direzione del monte Bigorio. Le rondini continuarono quel lavoro per ben due giorni, sem pre sgretolando col loro beccuccio il muro del basamento e portando il prezioso materiale al solito posto. La gente presto s'accorse del viavai degli uccelli e volle, spinta dalla curiosità, accertarsi che cosa stava accadendo. Quando alcuni uomini giunsero sul monte videro con vivissimo stupore che le rondini avevano costruito con grande dili genza una minuscola loggia a piccole colonne, alta circa un metro. Il popolo credette subito di intravvedere in questo la-

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voro un segno del Signore. Ma nessuno sapeva spiegare con precisione che cosa quel segno volesse significare. Intanto i muratori continuavano l'opera che doveva sorgere vicino a Lugaggia. Ma un giorno, durante la sosta di mezzodì, un corvo si mise a volare tranquillo e insistente attorno ai muri in costruzione. Gli operai erano seduti a mensa, nelle loro case; alcuni pran zavano all'ombra dei platani vicino a Lugaggia. A un tratto il corvo scese a picco e si posò sull'impalcatura dell'edificio. L'uccello per un istante si guardò in giro; poi scorse un rotolo di carta che afferrò col becco e riprese quindi veloce il volo. Quando gli architetti ed i muratori si rimisero al lavoro non trovarono più i piani e i progetti del convento. Furono co stretti a interrompere l'opera iniziata. Due vecchie donne della valle si recarono una mattina a falciare erba sul monte Bigorio. Tra gli alberi della selva tro varono spiegato per terra il rotolo di carta che il corvo aveva rubato a Lugaggia. Essi lo presero e lo consegnarono al sin daco. I vallerani capirono allora che il convento doveva sor gere sul luogo che le rondini pochi giorni prima avevano scelto e dove II corvo aveva lasciato cadere il plico rubato. Cosi il convento venne costruito sul colle del Bigorio dove lo si ammira tuttora in mezzo alla pace della montagna, sotto l'ombra morbida della vasta selva castanile.

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IL SASSO DELLA MADONNA Sopra Bidogno, ameno paesello dell'Alta Val Capriasca, in una verde conca spicca un sasso di grandi proporzioni, bianco come il latte, chiamato dalla gente II Sasso della Madonna. Quell'anno tutti gli uomini dei villaggio erano occupati a erigere la bella chiesa parrocchiale che sorge su un poggio, in faccia alle Canne d'Organo. Si lavorava alacremente da oltre tre anni. La chiesa era finita e si trattava di inalzare il campa nile. Il popolo decise di farlo alto quasi quaranta metri, perché il suono delle sue campane si diffondesse lungamente nel monte e nel piano. Perché l'opera fosse compiuta il più presto possibile presero parte ai lavori anche le donne. Cosi il campanile in pochi mesi venne eretto alto nel cielo e subito le rondini si misero a far gli festa intrecciando i loro voli intorno alla torre, sulla cui cima sventolava la bandiera col bruno capriolo e la spiga do rata, stemma del Comune. I festeggiamenti per l'inaugurazione della chiesa e delle campane vennero fissati per l'ultima domenica di settembre. Già alcuni giorni prima le massaie cominciarono a pulire le case, le corti, i piazzali, a lustrare alla fontana i loro recipienti di rame. —Sarà la festa più grande! — dicevano gli uomini. —Verrà il Vescovo! — esclamavano contente le vecchie. intanto si costruivano palchi e porte trionfali ornate di mu schio e di fiori d'ogni specie. Tutto il paese era in festa. Una gioia immensa invadeva ogni cuore e si aspettava con impa zienza il giorno della straordinaria cerimonia. Quando il diavolo seppe che la buona popolazione di Bi dogno s'apprestava a inaugurare la chiesa non si diede più pace. Usciva dall'inferno e, di notte, correva furibondo sui monti sopra il villaggio digrignando i denti, strappandosi i ca pelli. Satana, a ogni costo, voleva distruggere l'opera che gli uomini avevano edificato a onore e a gloria di Dio. Pensò di vendicarsi, di demolire la chiesa.

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La domenica il paese non sembrava più quello d'ogni giorno. Da tutte le finestre sventolavano bandiere e para menti; candele e lampade votive brillavano ai piedi delle sta tue e delle immagini sacre. La popolazione accorse verso il poggio e i fedeli erano così numerosi che molti non trovarono posto nella chiesa. Donne e uomini, venuti dagli altri villaggi della valle, sostavano sul sa grato e cantavano inni e litanie, mentre le campane su in alto, sotto il sole che splendeva magnifico, non si stancavano di sgolarsi. Poi si snodò lenta ia processione per le vie, col Vescovo che benediceva la folla inginocchiata dentro i vani dei portoni e lungo il percorso. Il Vescovo celebrò la messa. Al canto dei cristiani si univa, a quando a quando, il suono grave dell'organo. Satana in quel momento batteva la montagna come nei giorni precedenti. Il diavolo sentiva la melodia dell'organo e delle campane e, accecato dall'ira, non sapeva più che cosa fare. Ma ecco che scorse vicino a due pini una grossa pietra. Satana pensò: — Farò rotolare in basso questo macigno. Esso si spaccherà contro la chiesa; rovinerà tutto e ucciderà i fedeli. Si mise a ridere di compiacenza e contento diceva tra sé: — Ora vedrete, gentaccia, che cosa sa fare Satana. Impare rete a erigere chiese ai Signore. Si gettò sulla pietra e con quanta forza aveva provò a smuoverla. Ma i suoi sforzi furono vani. Il macigno restava im mobile. Allora Satana fischiò acuto tra i denti. Subito comparve un altro diavolo. — Aiutami, da solo non ci riesco — disse Satana. Ambedue spinsero con energia le mani sul sasso che scric chiolò e si mosse. Ma in quell'istante i due diavoli caddero storditi sul terreno. Una luce abbagliante li investi e li accecò. Poi una figura di donna, bella e sorridente, apparve sopra il macigno. La Madonna posò delicatamente il piede sulla pietra e la rimise al suo posto. La Vergine esclamò: — Tu, Satana, non distruggerai quello

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che gli uomini oggi hanno fatto. Va, sprofonda nel tuo regno che è sotto terra. Quindi la Madonna scomparve. Sui sasso, oggi ancora, è ben visibile la forma del suo piccolo e grazioso piede.

LA NINFEA DEL LAGO Una povera famiglia viveva sulle rive del laghetto di Muzzano. Il padre faceva il boscaiolo e ogni giorno si recava sui monti a tagliare legna. La madre coltivava la terra e sorve gliava l'unica figliola, una graziosa bimbetta bionda di tre anni che la gente chiamava la Ninfea del lago. La famigliola viveva felice, pur con qualche stento. Quando il babbo tornava la sera dal lavoro la bambina gli correva incontro sulla strada a braccia tese, vociando allegra. Ma un giorno mentre con altri boscaioli stava abbattendo un grosso albero il padre rimase ucciso. Cominciò una dura vita per la mamma e la piccola Ninfea. La donna non si dava pace e spesso piangeva con la piccola seduta sulle ginocchia. — Povero papa... Non c'è più il tuo papa — diceva la mamma alla fanciulla. E la bambina capiva il dolore della donna, perché si metteva a singhiozzare da fare pietà. Un mattino la mamma andò nei campi. Lasciò a casa sola la figlioletta e le raccomandò di non allontanarsi dall'abitazione. La sera quando la madre tornò trovò la cucina deserta, i mobili a soqquadro. Chiamò la bambina. La cercò dappertutto, inutilmente. — Ninfea, Ninfea del lago — chiamava la mamma. Ma la figliola non rispondeva. Nel pomeriggio aveva sostato sulle rive del laghetto una famiglia di saltimbanchi, i quali rapirono la bambina; la cari carono sul loro traballante carro e la condussero lontano. Tutti i contadini di Muzzano ne ebbero un gran dispiacere; si reca rono spesso dalla mamma di Ninfea per consolarla. Passarono lunghissimi anni. La mamma di Ninfea diventò vecchia prima del tempo e il dolore aveva scavato sul suo volto delle profonde rughe. Intanto la bambina si era fatta una giovanetta molto bella e sempre seguiva i saltimbanchi che giravano di città in città

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a dare spettacoli coi loro giochi sui trapezio e coi loro esercizi acrobatici. Anche Ninfea sapeva ballare e fare i salti mortali. Una sera, dopo lo spettacolo, la vecchia madre del saltim banchi raccontò alla giovanetta la sua storia. Le disse che era stata rapita quando ancora era piccola e abitava sulla riva d'un lago azzurro come il fiordaliso, dove galleggiavano lievi fiori candidissimi. Ninfea ascoltò attentamente le parole della vecchia e una notte, quando tutti dormivano, decise di fuggire per andare in cerca della sua casa lontana a specchio delle tranquille onde del lago di Muzzano. Ninfea camminò notti e giorni interi. Finalmente scorse lontanissimo il lago tremolante come una piccola lacrima. — è quello il lago dove io sono nata — pensò la fanciulla. Camminò ancora per un pezzo; arrivò sulla riva umida con alte erbe e fiori strani. A un tratto una donna curva e scarna la vide; le corse incontro gridando: — Ecco la mia bambina, ec cola che giunge. Ninfea restò meravigliata e credette di so gnare; non le sembrava vero di avere ritrovata la mamma. Si sedettero sulla sponda. La mamma piangeva di gioia. Le lacrime della povera vecchia scivolarono dal volto nell'acqua del lago. E subito da quelle lacrime sbocciarono mille e mille fiori bianchissimi: erano le vaghe e graziose ninfee del lago e galleggiavano sullo specchio celeste e liscio. Allora un fiore si allungò fino a toccare ì piedi della fan ciulla. Un altro sbocciò e andò a carezzare la vecchia sul cuore. Era questo il segno sicuro, voluto dal Signore, che le due creature sedute sulla riva erano madre e figlia.

L'ALPE MALEDETTO Sui monti della Capriasca si estende uno spiazzo verde e soleggiato chiamato Davrosio. Tanti anni fa, in prossimità del monte, proprio ai piedi del Cavai Drossa, sorgeva un magnifico alpe con tre belle stalle e una comoda cascina. Duecento vac che pascolavano dall'alba al tramonto e facevano oscillare I loro campani diffondendo per tutta la regione dolci suoni. Cinque alpigiani trascorrevano lassù la primavera, l'estate e buona parte dell'autunno. A turno scendevano in città, due

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volte la settimana, a vendere al mercato II saporitissimo for maggio e il burro profumato. Gli alpigiani però avevano un cuore duro ed erano assai avari. Era il mese di agosto. Faceva un caldo terribile. Da qual che giorno anche i ruscelli erano secchi, e la gente invocava la pioggia. Le bestie si sdraiavano sonnolente all'ombra delle piante, gli uomini riposavano sui loro giacigli fatti di ginestre e di foglie secche. S'aggirava per quelle parti un uomo po veramente vestito, pieno di bisogni, che invano aveva bussato a parecchi usci per ottenere un po' di acqua e di pane. Quando scorse l'alpe e le mucche il povero pensò: — Salirò lassù. Il padrone non mi rifiuterà una scodella di latte e una fetta di polenta fredda. S'incamminò per II sentiero sassoso e ripido. L'uomo sudava e, ogni tanto, si asciugava il collo e la faccia. Il sole affocava le pietre che scottavano, le lucertole frusciavano via al rumore dei passi e si nascondevano tra i sassi e i cespugli. C'era su tutta la montagna un vasto silenzio, come se ogni cosa fosse morta... Non tirava un filo d'aria e agli uomini pareva di soffocare. Il poverello giunse alfine vicino alla cascina. Si sedette un momento a riposare per riprendere fiato. Quindi si levò, si fece sull'uscio e chiamò. Un alpigiano si alzò a sedere sul giaciglio e chiese: — Che cosa volete? Il povero rispose: — Ho fame e sete. E l'alpigiano: — Non abbiamo nulla, siamo poveri diavoli anche noi e dob biamo lavorare dalla mattina alla sera. —Ma una scodella di latte non vi getterà in miseria. —Non abbiamo niente — ripetè l'alpigiano seccato. —Datemi, vi prego, almeno un bicchiere d'acqua — insì stette il povero. Allora si alzarono anche gli altri alpigiani. Guardarono ma lamente il forestiero e gridarono: — Anche l'acqua è scarsa con questa siccità. Non piove più da parecchie settimane. Andatevene e non venite ad annoiare gli uomini che riposano. Allora l'alpigiano più piccolo saltò in piedi. Rideva tra i peli della barba e si vedeva la sua bocca sdentata, nera come una fessura. Si avvicinò al forestiero e gli disse:

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— Aspettate, io vi darò da bere e da mangiare. L'alpigiano usci, prese una ciotola di legno e la riempi di stereo di mucca. Tornò nella cascina e l'offerse al povero. Tutti gli uomini si misero a ridere divertiti e dicevano: — Su, mangia se hai fame. Il poverello disgustato si scostò dall'uscio e riprese il suo cammino sotto il sole che pareva ancora più caldo. Quando ebbe fatto un centinaio di passi si fermò a guar dare verso l'alpe. Vide le numerose mucche: molte sdraiate, al tre in piedi che brucavano di malavoglia. Allora il forestiero tracciò alcuni segni nell'aria coi braccio teso. A un tratto si senti il rumore tortissimo di una frana. L'alpe non esisteva più. Al suo posto erano spuntati invece innumerevoli sassi e macigni. Le stalle, la cascina, gli uomini e tutte le bestie si erano cambiati in un ammasso inuguale di pietre. Quel forestiero era il Signore. Aveva maledetto gli avari alpigiani con tutti i loro beni.

L'EREMITA DI GOLA DI LAGO Gola di Lago è una conca sassosa, assai arieggiata. La montagna si alza maestosa con pochissimi cespugli e qualche sparuto albero. Più lontano freme il bosco delle bianche be tulle esili e delicate, che si piegano dolcemente al soffio del venti. Il luogo è deserto; in basso gli uomini hanno costruito ora la strada carrozzabile che porta fino alle casette campestri, sorte un po' dappertutto. Quassù la gente si rifugia in estate, abbandonando cosi il caldo insopportabile della città. Tanti anni fa, sotto i dirupi, in una caverna profonda nei ventre cupo della montagna, abitava un vecchio di ottant'anni, curvo e scuro di pelle, coi capelli lunghi e ondulati che gli scendevano candidi e morbidi sulle spalle. La barba aveva an che tutta bianca e crespa. Il vecchio era solo: una capra gli teneva compagnia e gli dava il latte col quale si nutriva. I suoi amici erano i grilli e di notte godeva un mondo ad

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ammirare le stelle che splendevano come innumerevoli perle nell'oscurità. Passava i giorni seduto sulla pietra, davanti alla caverna, e leggeva continuamente in grandi e sgualciti libri. La gente diceva che era un dotto e lo guardava di lontano. Il vecchio non badava a chi passava ed era in lui un'aria di solenne mistero. Un giorno capitò nella caverna un ricco si gnore che veniva da un villaggio della valle. L'eremita lo accolse col volto illuminato dal sorriso e disse: — Che cosa desiderate? Vi posso essere utile? Il visitatore rispose: — Ho bisogno del vostro aiuto. Voi siete un sapiente e vi sarò grato per i vostri consigli. —Parlate — disse l'eremita. — Se mi è possibile vi aiuterò. L'uomo allora parlò: — Dovete sapere che io ho vasti po deri disseminati per tutta la valle. Ma i miei campi, i miei prati, i miei vigneti non mi rendono più come un tempo. Se vado avanti di questo passo mi ridurrò in miseria e sarò co stretto a vendere tutti i miei beni. Ditemi, buon vecchio, che cosa devo fare? — L'eremita ascoltò con grande attenzione le parole dell'uomo. Quindi si alzò e, senza parlare, aprì il cassetto del suo tavolino. Si avvicinò poi al forestiero e gli consegnò una minuscola sca tola di legno, dicendo: — Eccovi il rimedio. Questa scatoletta non dovrete mai aprirla, è sigillata. La dovete sempre avere in tasca e ogni giorno vi recherete a visitare i vostri campi, i vostri prati e i vostri vigneti. Il visitatore rimase esterrefatto. Non sapeva più che cosa dire. Le mani gli tremavano dall'emozione. —Vi raccomando di non togliere il coperchio alla scato letta — disse nuovamente l'eremita. — E visitate tutte le mattine i vostri poderi. L'uomo ringraziò il vecchio e parti. Durante la strada pensava all'eremita e non riusciva a cre dere al rimedio che gli aveva dato. —Chissà — diceva tra sé il ricco signore — sarà vero?

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Il giorno dopo, all'alba, II signore si mise la scatoletta In tasca e cominciò a fare un giro nei prati. Quale fu la sua sor presa quando s'accorse che i falciatori non lavoravano, ma dormivano pacifici all'ombra degli alberi! Sai) ai ronchi e trovò i vendemmiatori che cantavano seduti tra i filari. Si recò nel campi: nessuno dei suoi operai lavorava. Nella stalla le muc che avevano fame e non erano state munte; un vitello morto giaceva per terra. Il ricco signore capì allora perché ì suoi poderi andavano in malora. Cominciò da quel giorno a tener d'occhio ogni ope raio. I suoi contadini ricominciarono a lavorare con diligenza e con buona volontà. Quell'anno il raccolto fu abbondantissimo, li padrone non si lamentò più e ricavò dai suoi prodotti una bella somma di denaro.

Verso la fine dell'autunno il signore ritornò dal vecchio eremita per salutarlo e ringraziarlo. Fece caricare tre muli con sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate. Un quarto mulo recava due botti di squisito vino. L'eremita di Gola di Lago, come al solito, sedeva di fuori al sole e leggeva. Quando scorse i muli e il signore si levò. —Oh, come sono contento! — esclamò il signore, voi mi avete salvato dalla sicura rovina. Vi ringrazio di cuore e vi sono immensamente riconoscente. —Con me non dovete essere riconoscente — disse il vecchio. —Non so come ricompensarvi — riprese il signore. — Vi ho portato questi prodotti dei miei campi. L'eremita sorrise e guardò bonario il padrone e le bestie. Allora il contadino disse: — Buon vecchio, dovete dirmi che cosa racchiude questa scatoletta che mi avete dato. La mia curiosità è grande. —Si, ve lo dirò — disse l'eremita. — Aprite la scatoletta. —Oh, contiene un nastro di carta arrotolato.

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—S), rispose ancora l'eremita. — Ma sul nastro guardate cosa c'è scritto. —Leggete voi — disse il contadino che era impaziente e curioso. —Sulla carta sta scritto: — Senza l'occhio del padrone torna zero anche un milione. Il contadino restò stupito a osservare il vecchio. Poi com prese, e ripartì contento per la sua valle.

IL DIAVOLO E LA BUGIA Molto tempo fa un ricchissimo signore, discendente da una famiglia principesca che viveva in una bellissima villa, aveva comperato vasti prati e campi sopra Bidogno. Il signore, di nome Marcusse, dava I suoi poderi in affitto ai contadini della regione che ogni anno, a San Martino, gli dovevano pagare il tributo dei campi e dei prati che essi coltivavano. Marcusse era avidissimo di denaro, che spendeva senza necessità per feste, banchetti e ricevimenti. Un giorno d'inverno il signore si trovò senza soldi. Mandò a chiamare un contadino e gli disse: —Voi mi dovete pagare l'affitto del campi, dei prati e delle staile. —Ma signor Marcusse! — esclamò il contadino meravi gliato. — lo vi ho già versato la somma che vi dovevo. —Non voglio sentire storie — disse Marcusse. — Voi dovete pagare, altrimenti vi faccio portare davanti al giudice. —Ma vi sbagliate — insistette il contadino. — Vi ho portato io stesso il denaro il giorno di San Martino. —Con me non si discute. Voi non mi avete ancora pagato. Sono sicuro. Il povero contadino si ricordò allora che non aveva la rice vuta; egli, troppo buono, non se l'era fatta rilasciare dal suo padrone. Siccome Marcusse insisteva e lo minacciava, con le lacrime agli occhi il contadino si recò a casa. Tornò qualche minuto dopo e versò per la seconda volta la somma al signore.

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Marcusse, divenuto tranquillo e sorridente, disse: — Ve dete, buon uomo, io non voglio derubarvi, però voi non ave vate pagato. Anzi, badate, se io vi dico una bugia mi porti via il diavolo appena mi cambierò la camicia che ho indosso.

Passarono i giorni e le settimane: il ricco signore non si decideva mai a levarsi la camicia che, sudicia e unta, faceva schifo. I servi guardavano meravigliati il loro signore; non riu scivano a capire perché non fosse più pulito ed elegante come un tempo. Qualcuno gli suggerì persino di lavarsi e di mettersi gli abiti puliti. Ma tutto fu inutile. La camicia era piena di macchie, di polvere, di fango e il colletto aveva una spessa crosta di untume. Una mattina la brutta camicia si lacerò, si strappò in più parti e cadde dalle spalle dei signore. Intanto i domestici giù nella sala avevano preparato la co lazione per il padrone. Ma all'ora solita Marcusse non si fece vedere. I servi aspettarono ancora un po' e quindi si allar marono. —Chissà che cosa fa il padrone? — si chiedevano alcuni. —Dove sarà andato? Si sarà sentito male? — si chiede vano altri. Finalmente due uomini decisero di salire in camera. Ma quale fu il loro stupore quando trovarono il letto vuoto; in una parete scorsero poi una larga buca nera e paurosa. Il diavolo era venuto a rapire Marcusse e, issatolo sulle sue poderose spalle, l'aveva trasportato all'inferno. Cosi fu punito il bugiardo e ingordo signore. Anche la sua sontuosa villa fu segnata dalla mano del dia volo; infatti sotto la finestra della camera apparve una figu racela di demonio con la forca in mano. La buca, attraverso la quale il diavolo scappò con la sua preda, non fu mai possibile chiuderla. Si misero all'opera muratori gessatori e pittori de! villaggio e della valle, ma invano.

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No. Autore

Titolo

Serie

Età

105 142 165 168 213 214

Chiese F. Bertosse R. Musso A. Bertolini D. Viceri-de Righetti C. Ortelli P.

Letture amene Letture amene Per i piccoli Letture amene Divulgazione scientifica

da 12 a. da 12 a. da Sa. da 11 a. da 14 a.

Biografìe

241 264 265 288 312 313 314

Mondede G. Jermini M. Borioli A. Terebori A. U. Stager R. Gilerdoni V. Geggette S.

da 14 a. in poi da 10 a in poi da 10 a. in poi da 9 a. in poi da 10 a. in poi da 9 a. in poi da 12 a. in poi

321 340 341 342 343 364 365 403 404 423 424 425 426 472 473 476 503 504 519 532 533 559 562 604 605 606 635 636 637 639 672 673 674 675 676 717 718 719 720 721

Filippini F. Aebli/Terebori Bienconi G. Pedrezzini B. Forni R. Aebli/Terebori Steiger/Terebori Bienconi G. Fischer/Terebori Adelie A. Clemente-Lepori R. Deudet/Terebori Leurent/Nehm Aebli/Terebori Horet T. Vennini B. Mondade G. Voionterio A. Soutter/Tarabori Lugrin/Pezzoli Mosca A. Martini P. Bianconi P. Beuk/Martin Marazzi B. Marazzi C. Binda F. Borioli A. Case A. Zappa F. Candolfi B. Carpi P. Matthey/Payot Salati P. Zehnder B. Geiger/Perucchi Bernasconi R. Nodari E. Pioda'L. Vicari C.

Sei racconti dinanzi al focolare II passo dei lupi Quattro gatti II gran capo dei ribelli Le avventure di Goccia d'oro Un grande architetto ticinese a Roma Pescatori La casa rubata Leggende levehtinesi II Generale Sutter Berni nel regno delle formiche Arte popolare II Colonnello G. A. Rusconi del Palasio Pane del 1900 La mia giornata Mes e stagion Svizzeri nel mondo Le tre tribù II grande segreto Robinson Ornamenti Per la mia arca di Noè II libro di Tonino La capra del Signor Seguin 11 pozzo dei quattro venti II nostro pane quotidiano Meraviglie della Tecnica In casa della Signora Trota Gli amici di Pian Verde L'amico Fufl Storia d'una barchetta La famiglia Topolini Storia d'una cinciallegra Storia dì un camoscio Mestieri dell'uomo La bambinaia II sogno di Luca Piccolo uomo La fiaba di Codino Da birichino a uomo di cuore Fantasie nuove L'era atomica II sogno di Nuvola Rossa Due amici II grande viaggio di Pernella I cervi di padre David Lo zìo e due cani Geiger, pilota dei ghiacciai La storia di Fif) Nel magnifico regno dei Faraoni Nel paese dei castori Lumachino, colosso e Teli

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in poi in poi in poi in poi in poi

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L'ESG pubblica anche opuscoli in lingua tedesca, francese e romancia, di cui si manda, a richiesta, l'elenco più recente.



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