Valtorta autobiografia 240 pgs italiano

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MARIA VALTORTA AUTOBIOGRAFIA Quale titolo dare a questa storia vera? Quello di un fiore. Di quale fiore? Al tempo in cui io sono nata il biancospino spruzza di neve viva le siepi fino allora brulle, ed i suoi fioretti, candidi come piuma perduta da colomba in volo, carezzano le spine rosso-brune dei suoi rami. In certi paesi di Italia chiamano il biancospino selvatico «Spina Christi» e dicono che la corona spinosa del Redentore era fatta di questi suoi rami che, se torturanti per la carne del Salvatore, sono protettori dei nidi che nuovamente s'empiono di pispigli e d'amore. Ai piedi del biancospino, fiore quaresimale nella veste e cristiano nell'umiltà, odora mite la violetta... Un odore più che un fiore... un lieve e pur penetrante odore, un umile e pur tenace fiore che di tutto si accontenta per vivere e fiorire. Vorrei chiamare questa vita col nome di uno di questi due fiori e specie della violetta, che vive nell'ombra ma che sa che su lei splende il sole per darle vita e calore. Lo sa, anche se non lo vede; e odora, esalando tutta sé stessa in incenso d'amore, per dirgli «grazie». Io pure, anche se paio dimenticata dall'eterno Sole, so - e l'anima non dice il suo segreto regale - che Egli, il mio Sole, è su me, e con tutta me stessa esalo il mio cuore a Lui per dirgli: «Grazie di avermi amata!». PARTE PRIMA Non con la mia parola ma con quella di Gesù inizio la narrazione della mia vita. Questo per obbedire ad un desiderio espressomi da Lei, (è il Padre Rumualdo M. Migliorini 1884/1953 -, dell’Ordine dei Servi di Maria, direttore spirituale dell’inferma Valtorta dal 1942 al 1946) desiderio che non discuto anche se, a mio modo di vedere, non trovo molto utile e soprattutto molto piacevole, né per me né per Lei, questa narrazione. Lei è un maestro di spirito, dunque se trova giusto che io le faccia conoscere la mia vita è segno che è giusto. Avanti dunque con sincerità, con umiltà e con pazienza... Dipanando il filo della mia vita, e dipanandolo a ritroso, mi sarà un conforto e un dolore perché lungo il filo, come perle su un rosario, troverò gioie, dolori, colpe, perdoni, speranze, e le pietre nere del dolore saranno molto numerose rispetto a quelle d'oro della gioia, così come le pietre grigie delle mancanze saranno molto più numerose di quelle candide del bene. Pazienza, ripeto. Così, facendo l'inventano della mia esistenza, distruggerò completamente quel resto di orgoglio umano che è così duro a morire nei cuori - peggio di una gramigna è - e sempre tenta rimettere radici e steli. Creda però che l'inventano sarà sincero, spietato verso me stessa come lo è il coltello di un chirurgo sulle carni malate e... mi fido della sua bontà che non mi caccerà dal suo cospetto ma mi ripeterà le parole del Perdonatore divino notando che io pure ho molto amato, senza mai misurare quanto di sacrificio poteva impormi il mio amare e perciò, per la mia generosità che tutto calpestava per amore, anche sé stessa e il suo umano bene, Dio molto mi perdonerà. «Nella colpa sono nato e nel peccato mi ha concepito mia madre», dice il salmo. E’


questa la sorte di tutti i nati di donna, e la colpa, per quanto lavata dal battesimo, resta larvata in noi suscitando ritorni di male finché la vita è in noi. Come certi mali orrendi, vinti da fortunate cure, ma non mai cancellati del tutto e sempre pronti a rigerminare se non si tengono continuamente in freno con mille attenzioni. Io sono nata il 14 marzo 1897 a Caserta. Nascita molto contrastata fin dal suo inizio, e già mio padre si era rassegnato a piangere sul mio cadaverino condannato prima di vedere la luce. Povero papà mio! Non gli ho dato mai dispiaceri voluti e questo è il mio conforto, il conforto che mi fa alzare gli occhi in alto, cercando il mio caro papà nella pace di Dio. Ma gli sono costata lacrime nel mio apparire e nel suo disparire. Allora dovevo esser morta ed egli piangeva. Mentre, quando era egli prossimo a morire, io ero già tanto malata da angustiarlo fino ad accelerare la sua morte! Dovevo esser morta nel nascere a detta dei medici. Invece, per quanto non curata, come essere già estinto, ripresi da me lena e respiro e gettai il mio primo lamento. Non ebbi cure di mamma. No. La vita in comune fra me e mia madre finì dal momento in cui io nacqui. Non si perpetuò per altri mesi attraverso il dolce legame del cibo che è latte, che è sangue, che è vita trasfusa da madre a figlio. Una mercenaria fu mia nutrice. Dicono alcuni fisiologi che la creatura lattante, così come assorbe le malattie attraverso il latte della nutrice, così può prendere le tendenze morali. É una opinione che molti ammettono, altri negano, come viene negata e ammessa alternativamente l'opinione che la terra dove nasciamo imprima in noi un carattere indelebile. Io non mi addentro in questo pro e contro. Dico solo che, per mio conto, trovo che non indifferentemente io nacqui da genitori lombardi, in Terra di Lavoro, nella Campania assolata, festante, opima e ricca di virtù e di difetti come poche altre terre, e ancor meno indifferentemente succhiai, sebbene per pochi mesi, il latte di una donna di laggiù, e una donna, per giunta, che era il vero emblema di quelle terre per tutto quanto si riferisce a passionalità selvaggia e sfrenata. Piccina, un pulcino dagli occhietti appena aperti, dovevo poppare, digerire, dormire al suono, al ritmo e allo sconquassio delle più indiavolate tarantelle con accompagnamento di nacchere o di tamburello... e mia madre, nonostante la sua autoritarietà, doveva tacere e lasciar fare perché Teresa, la nutrice, diceva che se non cantava, suonava e ballava si immelanconiva e il latte ne soffriva. Credo che Teresa sia stata l'unica persona che abbia saputo imporsi a mia madre! E poco male sarebbe stato se tutto si fosse limitato a danze e suoni. Ormai io, povero pulcino, m'ero abituata a quella fiera perpetua. Ma c'erano le passeggiate... sempre per il latte, è naturale! E non erano passeggiate platoniche, purtroppo. Subito dopo il battesimo, avvenuto con grande pompa non so di preciso quanti giorni dopo la nascita, ma non certo troppo sollecitamente perché si attendeva che mia mamma stesse meglio, Teresa aveva intrapreso le sue passeggiate con la «piccerella», per la salute della «piccerella». Povera piccerella! Se avesse potuto parlare ne avrebbe dette di curiose! Teresa scendeva per via Giovan Battista Vico, in gran pompa, con me sulle braccia, passava davanti al Palazzo Reale, filava per lo stradone di S. Nicola e giù, verso la campagna. In cerca di aria e di sole? No, di cose ben più illecite. Sicura che mamma non l'avrebbe sorpresa perché non si curava di tanto, sicura che papa non l'avrebbe scovata perché occupato nel Reggimento, Teresa si abbandonava al suo istinto di Eva


campagnola. E qui, se fossi nata nel medioevo, potrebbe intessersi la leggenda. Io venivo deposta fra i solchi del grano frusciante, sulla terra già tutta una vampa, sotto al sole torrido di Terra di Lavoro, e restavo là una, due ore, con unici compagni i ramarri, le api, le farfalle e gli uccelli che, insieme al grano frusciante, mi cantavano la ninna nanna. Potevano venire vipere, cani randagi, altre bestie nuocermì, poteva il sole dardeggiante uccidermi, così tenerella come ero. Ma non accadde mai nulla. L'angelo di Dio che m'aveva in custodia mi faceva velo al troppo sole con le sue ali paradisiache e fugava col suo aspetto tutte le cose nocive. Restava solo una gran fame, perché il latte, con quella vita e le sue conseguenze, se ne era andato e io venivo ingozzata come un pollo con granturco bollito, con frutta schiacciate e simili delicatezze che farebbero inorridire un pediatra. Tornavo a casa strillando lo stesso, ma insomma... di fame non morivo. Così per quattro mesi, dall'aprile alla fine di luglio; poi, finalmente, mia mamma venne messa sull'avviso da un buon uomo di vetturino che aveva sentito i miei gridi disperati e m'aveva scovata in mezzo a un campo di pomidori. Furie materne, furie della nutrice e furie del medico che trovò la donna prossima ad esser madre di un nato illecito. E io affamata, urlante, venni affidata a due caprette, molto più materne con me di Teresa. Delle volte penso che le poche stille di latte succhiate da quella donna lussuriosa abbiano lasciato il loro segno di passionalità in me. E meno male che sono state poche stille!!! Certo che io, nata dal più placido degli uomini e dalla più frigida delle donne, ho una psiche ben diversa e, se la bontà di Dio e l'educazione religiosa avuta in ottimo collegio non avessero provveduto a modificare la mia natura, io avrei potuto essere una disgraziata senza freno. Ma è anche certo che questa passionalità, deposta in me da coincidenze fortuite quali sono la terra dove nacqui e la donna che mi allattò così malamente, o venuta a me da origini lontane per discendenza da qualche mio avo dotato del mio stesso carattere, furono e sono cagione di non poche lotte e non poche sofferenze per me. Le due nature, dirò così, che erano in me: quella ereditata dai genitori - natura compassata, placida, metodica, tutta lombarda - urtava contro quella succhiata dal sole, dall'aria, dal latte meridionale. L'una freddina e chiusa, l'altra ardente e espansiva, sempre in lotta fra loro perché la prima imperava sulla mente ed era prepotente, sempre più prepotente perché spalleggiata e di continuo aumentata dall'educazione familiare, e l'altra urgeva nel cuore ed era una vera fame, una vera sete, una vera nostalgia di affetti, di amore, un bisogno di amare e di essere amata con passione, con fedeltà, con dedizione. Potrei dire di me che ero come un vulcano dalle pendici coperte di neve perpetua che ne cela i fianchi ribollenti di fuoco sotto una spennellatura di ghiaccio. A volte, a intervalli, il fuoco del cuore, troppo compresso, esplodeva in improvvise, incontenibili eruzioni che sconvolgevano, arrossavano, liquefacevano la gelida neve esterna. Ma poi la mano ferrea dell'educazione familiare e una naturale ritrosia, una timidezza innata, un vergognarmi della mia tendenza mi ricopriva di compassatezza fino a farmi apparire fredda, indifferente, calma. Calma!... Ma torniamo all'infanzia. Si dice che i caratteri si delineino fin dai primi giorni di vita. Ebbene: io mostrai subito un lato, potrei dire il più essenziale, del mio carattere. Quello della fedeltà a quanto amo. Teresa mi aveva dato ben poco! Avare e venefiche stille di un


latte che non era più latte, pericolosi abbandoni su zolle campestri; m'aveva turbato organi, psiche, sonni, digestioni con la sua eccitata frenesia di impudica sempre agitata dalla sua sete di illeciti amori, dalla tema d'esser sorpresa dal marito o dai padroni; eppure io, con il mio cuoricino appena nato, le volevo bene, un bene rudimentale come è quello del cucciolo verso la femmina da cui trae alimento e calore, ma un bene sempre. E fui fedele a quel mio primo amore. Cacciata Teresa, io rifiutai ogni altro seno di donna e rasentai la morte per inedia perché respingevo con un'ira disperata ogni mammella che mi venisse offerta... Preferii arrendermi al belare affannoso delle due caprette... Sentivo forse di già che nella mia triste vita avrei avuto conforti da Dio solo e, dopo Dio, dagli animali e dalle cose create da Dio eterno? Chissà! Certo si è che, se fra me ed i miei simili ben pochi e buoni furono i contatti ed ebbi dal prossimo molto a soffrire e poco a trarre conforto, dalle umili creature minori, dai fiori, dall'erbe, dal sole, dagli astri, dal mare testimonianza di Dio, dalla natura suo poema io ho tratto sempre forza e pace. Rimasi a Caserta fino al mio diciottesimo mese; poi mio padre venne trasferito, col Reggimento al quale apparteneva, a Faenza. Dal sole del meridione al ghiaccio delle Romagne! Io che avevo, posso dire, tratto vita nei miei primi quattro mesi di vita dal sole che mi fasciava di splendori e mi teneva in vita, dal sole che era per me nutrice... Perdetti in uno quel sole e le mie due caprette, e dicono che la mia accorata ricerca di queste due cose fosse veramente commovente. Detti qui la seconda prova di fedeltà negli affetti. Non presi mai più latte. Il mio stomachino non volle più digerire latte che non fosse di capra e, dato che di capre a Faenza non ve n'era traccia, non più latte. Punizioni, lusinghe, tutto era inutile perché non era capriccio il mio. Era una necessità fisica che mi impediva di digerire il pesante latte di mucca. Intristii per il freddo... Ne ho sempre sofferto fino ad essere ostacolata nel mio crescere. Intristii per la perdita del mio alimento prediletto. E intristii per una troppo rigida educazione che già si accaniva su me in così tenera età. Mia nonna - la mamma di mia mamma, il mio angelo - ci aveva lasciati per tornare presso il marito accasciato per la perdita di un figlio diletto, ucciso in quarantott'ore da una meningite. Ed io ero rimasta con papà e mamma. Mio papà era il mio protettore, il mio innamorato, quello che mi capiva e mi rendeva felice. Ma mio papà fra le tattiche, le esercitazioni, i doveri di caserma, era via quasi tutto il giorno. Lo vedevo per brevi momenti a mezzodì, perché al mattino, quando lui andava in quartiere, io dormivo ancora; a sera, quando finalmente tornava a casa e l'avrei potuto godere, io dovevo essere a letto. Solo alla domenica papà era mio per tutto il pomeriggio... e le domeniche erano perciò per me sempre solari anche se l'acqua o la neve facevano di Faenza un paese nordico. Mia mamma invece era sempre in casa... Già sofferente di fegato, era come la grande maggioranza dei malati di fegato... Insegnante, prima delle nozze, era rimasta l'insegnante con tutto quanto questa professione ha di disciplina, di autoritarietà, di pedanteria. Donna perfetta per tutto quanto era dovere di moglie e di donna di casa, e anche di donna di società, non addolciva la sua perfezione nel dovere con quella dolcezza nell'amore che rende così piacevole il convivere. Era ed è: il dovere. Credo che tutti quanti hanno avuto da lei del bene, perché del bene ne ha certo fatto suo marito, io, sua madre, il fratello rimastole, i cognati, i dipendenti, gli amici -


avrebbero preferito ricevere da lei molto meno di tutto quanto essa ha dato loro per dovere, ma di averlo ricevuto con l'addizionale di un poco di amorosa indulgenza. Invece l'indulgenza e lei sono due termini inconciliabili, due nemici perpetui. Credo che ella creda di diminuirsi amando ed essendo indulgente, voglio dire amando apertamente senza tormentarsi e tormentare col mettere degli odiosi e respingenti bavagli alla sua carità di figlia, di madre, di sposa, di parente, di amica, di padrona. A un tal carattere aggiunga Lei l'irascibilità del male epatico, allora molto serio, e calcoli l'entità esatta di quel che fosse il sistema di mia madre con tutti. Ho conosciuto insegnanti che erano indulgenti, come ho conosciuto malati gravi di fegato che erano dolci... ma sono le eccezioni. La regola è ben diversa, e mamma era nella regola. A mala pena sapevo distinguere gli oggetti, a malapena trotterellavo sulle mie gambette infantili e a fatica spiccicavo le prime parole, ma tutto era già regolato con una disciplina rispetto alla quale quella del mio collegio mi… un carnevale. Eppure era un collegio severo. Dovevo distinguere il bene dal male... e non avevo neppure due anni! Mi pareva d'essere sempre in procinto di precipitare in un abisso e tremavo, tremavo, tremavo. Guai a sbagliare! Ma anche se non si sbagliava, il «guai» c'era sempre. Lasciavo cadere un giocattolo? Guai! Spostavo una seggiola facendo rumore? Guai! Gettavo uno strilletto per giuoco? Guai! Volevo scendere in giardino per sgranchirmi? Guai! Volevo andare in braccio a papà, all'attendente che mi voleva così bene, alla donna di servizio che era un angelo, tanto angelo che Dio la volle nel suo paradiso? Guai! Chiedevo a mamma un bacio? Guai! Avrei preferito andarle in grembo come tutti i bimbi con la mamma e non starle davanti come scolara in castigo, ripetendo a fatica parole francesi che dovevo imparare a masticare insieme alle italiane? Guai! Supplicavo che non mi venisse dato il latte che mi faceva star male? Guai! Sempre guai! Per il latte ci pensò il dottore e lo proibì. Che Dio gli dia pace per questa sua pietosa intercessione! Ma per tutto il resto, il «guai» restava. Per fortuna c'era papà. Egli, appena poteva, mi portava con sé, in caserma a vedere i bei cavalloni che mi piacevano tanto, per le strade di campagna, e apriva la mia mente al bello e alla lode di Dio che, mi diceva, aveva fatto tutto per gioia nostra. Oppure mi faceva giocare in giardino. Ero innamorata di papà mio. Gli dicevo tutto, gli chiedevo tutto e lui tutto ascoltava, e lui a tutti i miei «perché» rispondeva esaurientemente e pazientemente; e non era cosa da poco perché ero, fin da piccina, una fine osservatrice e una pensierosa meditatrice, e non mi mettevo quieta finché non sentivo che mi si era risposto con verità ed esattezza. Ho imparato tanto da mio papà che poi lo studio non mi fu mai fatica. Tutto: storia, geografia, botanica, zoologia, leggi che regolano il moto degli astri delle acque, arte che abbella le nostre città, le nostre chiese, le nostre gallerie, tutto entrò in me senza fatica, come una bella fola, attraverso le parole di mio padre. Egli non mi trattò mai da bimba rispetto all'intelligenza, ma fu però un maestro di una bontà suprema. Io mi sentivo sicura con lui, mi fidavo di lui, delle sue parole, del suo affetto, della sua comprensione. Ho cominciato a capire ben da piccina cosa vuole dire «Dio è Padre» solo guardando a mio padre. La misura della bontà, del sapere, dell'amore di Dio-Padre, io l'ho avuta paragonando il padre mio terreno al Padre mio celeste. E ho amato Dio perché ho capito cosa vuol dire essere il Padre.,Mio papà non mi trattò mai


da bimba rispetto all'intelligenza, e questo dava noia a mia mamma che aveva un altro concetto educativo. Ma viceversa, anche fatta io donna, e donna adulta, mi trattò sempre come una bimba rispetto alla purezza. Che rispetto di me! Che cure perché nulla potesse offuscare l'anima della sua Maria!!! Povero papà mio! Mio primo profondo amore! Avevo per lui un attaccamento superiore alla mia età così piccina. Gli dicevo sempre: «Io starò sempre con te!», e lui di rimando: «Ma tu ti sposerai e allora andrai con il tuo sposo» (fin da piccina per me le spose erano qualcosa di regale, di celeste!...). Ma io rispondevo: «No, io sposerò te e starò con te solo», e lui, alludendo alla sua precoce calvizie che già diradava i suoi bei capelli morati e ricciuti, mi diceva ridendo: «Ma io, quando tu sarai grande, da manto, sarò pelato e tu non mi vorrai più». Io rispondevo con una piroetta, un salto, un abbraccio più stretto: «Per regalo di sposa ti regalerò una parrucca (una "paucca", dicevo) e la pelata non si vedrà più». Avevo meno di tre anni allora, ma ragionavo così e me lo ricordo perché ho una memoria nata molto presto. Ho ricordato anche di recente a mamma abiti suoi di quel tempo, avvenimenti di quei giorni che lei, per la loro pochezza, aveva dimenticati. Ricordo benissimo Faenza così come era nel settembre 1901, quando la lasciammo per venire a Milano. Ma prima di parlare di Milano devo dire che nel dicembre 1899 mio nonno materno morì di peritonite fulminante. Era il 17 dicembre 1899. Una giornata di neve degna della Russia. Qualcosa come ottanta centimetri di neve per le vie. La cittadina silenziosa, morta sotto la bufera gelata. E noi a piedi verso la stazione. Io in braccio a papà, se no la neve m'avrebbe ingoiata; mia mamma in lacrime a braccio di sua zia, in lacrime essa pure. Un triste viaggio verso Mantova, sperando di trovare nonno vivo. Poi a Codogno l'improvviso cedere del cuore della prozia mia... Arrivammo con una moribonda nella casa dove già era un morto. Mia mamma fra i due dolori si ammalò di itterizia e fu in fine di vita. Io spaurita, spaesata fra bare e agonie, fra lacrime e funerali; papà che provvedeva a tutto, sempre paziente e amoroso. Poi il ritorno a Faenza con nonna, l'angelo che tornava per stare con noi fino alla sua morte. E allora ebbi due amori e due conforti, finché nel settembre del 1901 lasciai la mia puerizia a Faenza e andai a Milano. Il primo incontro. Giunti a Milano nel settembre, prima cura di mamma fu di cercare un istituto per me. Avevo quattro anni e mezzo, ero molto timida. Lo ero divenuta a furia d'aver paura di sbagliare e di incontrare il «guai» materno. Ero sana ma molto soffrivo del clima rigido e umido di Milano. Sarebbe stato bene tenermi ancora per casa, molto più che ero sola e perciò... davo poca noia. Ma mamma, che sognava di fare di me un Pico della Mirandola in gonnella, mi portò a scuola. All'asilo, naturalmente, e precisamente presso le Suore Orsoline di Via Lanzone. All'asilo ero... un'aquila rispetto alle altre più vecchie di me. Sfido io! Sapevo già leggere tutto l'abecedario e scrivere vocali e consonanti, senza contare che parevo una cocorita col mio ciangottare il francese pieno di erre che allora mi piacevano tanto!!... Le Suore erano molto buone e anche... molto belle. Non rida. Ora ammiro più l'interno che l'involucro e di una persona guardo solo il suo sguardo e la sua anima che, del resto, balena dallo sguardo, e mi basta siano belli l'anima e lo sguardo


che ne è specchio. Ma da piccina e anche fino ai miei vent'anni ero un po' tanto pagana e volevo bene solo alle cose belle, alle persone belle. Ero una grande originale, non le pare? Le Suore erano molto belle e perciò le amai subito. Suor Bianca, la Superiora, pareva un vaso di alabastro acceso da una interna luce d'amore. Suor Fulgenzia, la mia Suora, era fulgida come il suo nome. E buone, buone, buone! Andavo dunque all'asilo molto volentieri... meno il primo giorno però, perché nonostante i suoi paurosi «guai» io amavo intensamente ed amo mia mamma e sono sempre stata una mendica alla porta del suo cuore in attesa di carezze... Perciò il primo giorno, quando la dovetti lasciare, feci... il diavolo a quattro. Strilli, calci, pugni, morsi, sgraffi... distribuii di tutto in larga misura. Teresa, la nutrice pazza, risorgeva in me con le sue furie paurose. Ma a sera mi ero già affezionata alle buone Suore e le baciai con amore. Il giorno dopo tornai serena all'asilo. Era una festa per me andare là, trovare carezze, lodi, premi e tante bimbe con le quali poter giocare. Giocare! Con delle quasi sorelline! Che gioia! Bisogna esser stati figli unici e tenuti come lo fui io per capire cosa sia la maledizione d'esser «unici figli». Ma lasciamo questo argomento che non è importante nella mia narrazione. Le Suore erano dunque belle e buone. Ma l'Istituto era brutto, tetro, antico. Oppresso fra le case della vecchia Milano e la Basilica di S. Ambrogio, aveva poca luce, un piccolo giardino verdognolo fin nelle pietre, cortili da monastero, scuri corridoi e una cappella... da tempo di catacombe. Pure andavo volentieri all'Istituto. Fra l'altro mi accompagnava spesso mia nonna. Che festa camminare con lei, sola con lei che mi amava tanto e che ogni volta mi lasciava all'Istituto con tanti baci d'addio e con il contentino di un frutto, di un confettone, dati oltre alla refezione portata da casa e, quello che me li rendeva ancor più buoni, senza che mamma lo sapesse e lo proibisse. Povera nonna! Non l'ho mai tradita dicendo a mamma le sue... disubbidienze agli ordini di sua figlia! Lei, la nonna, non mi diceva nulla, ma io capivo istintivamente che se avessi parlato nonna avrebbe avuto dei rimproveri, e serbavo il segreto. Ho imparato molto presto a serbare i segreti, a riflettere su quel che è prudente tacere! Nell'Istituto trovai Dio. Papà e la nonna mi parlavano di Lui, mi facevano pregare, mi portavano in chiesa. Ma io incontrai il volto di Dio e il suo amore nell'Istituto. Il primo incontro vero e proprio e incancellabile. Le buone Suore, e specie la nostra Suor Fulgenzia, ci parlavano di Dio con parole atte alle nostre piccole menti. Ci narravano «di Dio l'opre stupende», ci descrivevano gli attributi della divinità e infondevano in noi il santo timore di Dio. «Dio ci vede sempre, Dio è sempre presente, nulla gli è nascosto, Egli è dapertutto». Quante volte ho udito queste parole! Avevamo, nella nostra scuoletta di lavoro - e il lavoro era imparare la maglia facendo certe... corde dure e sudicie che parevano aver servito ad accalappiare mille cani randagi - avevamo delle seggioline di paglia e colla spalliera di legno che terminava in due specie di pigne. Mi par di vederle ancora! Io, con la mia fede assoluta nelle parole della Suora, credevo fermamente che Dio... fosse dentro a quelle due pigne e gli chiedevo scusa di voltargli le spalle... Santa semplicità dell'infanzia, che fa scorrere un sorriso nei Cieli e davanti alla quale angeli e patriarchi s’inchinano riverenti. Almeno lo penso io. E l'Angelo custode? Nel giardino, così tetro e verdognolo, vi era una grotta con dentro l'Arcangelo S. Michele, credo, perché aveva la spada in mano. Un angelone


gigante per noi così piccine!... E la Suora ci portava là davanti e ci diceva che un angelo così, ma ancor più bello, era sempre al nostro fianco e bisognava esser buone se no lui si copriva il volto con le sue belle ali e piangeva... Ma poi, più di queste due prime conoscenze col soprannaturale, quello che più di tutto mi faceva palpitare il cuore davanti all'ineffabile mistero della bontà divina era il Cristo deposto della Cappella. Era sotto l'altare maggiore. Doveva essere un'opera d'arte molto antica e certo meritevole, perché aveva un verismo fin troppo impressionante. Così e non diversamente doveva essere il Cristo quando le mani pietose di Giuseppe e Nicodemo lo schiodarono dalla croce per deporlo nel grembo della Madre. Grande al naturale, aveva i tratti stanchi di chi morì fra mille spasimi e, nelle membra rilasciate nell'abbandono della morte, tutte le piaghe, le sferzate, le trafitture, le contusioni di uno seviziato come lo fu il Salvatore prima della crocifissione. Impressionante dico e ripeto, e molte mie compagne piangevano di paura quando ci portavano là a vederlo e a pregarlo. Io non piangevo di paura ma tremavo di compassione. Io che fin da allora non potevo veder soffrire nessuno, neppure un pollo, e che mi sentivo ripetere che quel povero corpo era quello di Gesù e che così l'avevano ridotto i nostri peccati. Non so se era in tutto giusto far fare certe meditazioni a creature non ancora cinquenni; quello che so di certo è che io, all'opposto delle altre che piangevano per paura di quel cadavere, e soprattutto per paura del castigo di Dio per i nostri peccati, tremavo di pena solo per Lui e sentivo che era l'amore, il suo amore per noi, più dei giudei crocifissori, che l'aveva ridotto così e avrei voluto consolarlo... Vincendo il ribrezzo naturale per quel corpo impiagato in una maniera paurosa, lo guardavo, lo guardavo e avrei voluto che l'urna fosse aperta perpotergli andare vicino, carezzargli la testa coronata di spine, baciarlo anche, far sì che sentisse che gli volevo bene. Quante volte avrei voluto mettere in quella mano trafitta il bel confettone tutto bergnoccoluto o quello dorato, o rosso o verdolino, che la nonna mi comperava nel condurmi a scuola e che mi piacevano tanto perché erano buoni e poi perché mi dicevano l'amore della nonna! Le parranno sciocchezze queste, Padre. Ma pensi alla mia età di allora... Più tardi, molto più tardi, nella mano trafitta di Gesù ho messo l'offerta della mia vita ma, se ci penso bene, sento che... mi sarebbe costato di più, allora, dargli il mio confetto che non ora la mia vita e il mio soffrire. Tornata a casa io, che già avevo raccontato tutto a nonna, ripetevo la mia... scienza a mamma, a papà, alla donna di servizio, al soldato, e poi andavo a nanna pensando a Gesù che era là solo e... malato, dicevo io. Ed era tanta la forza di questo pensiero che delle volte di notte mi svegliavo piangendo, e a nonna che dormiva con me o a mamma che accorreva sentendomi piangere dicevo che vedevo Gesù tutto malato che piangeva perché era solo. I miei si impressionarono di questo e pensarono di farmi cambiare Istituto per mandarmi in uno meno... medioevale, nella tema che io mi ammalassi di paura. No, mi ammalavo di amore. Il primo contatto era avvenuto e Gesù e Maria non si sarebbero più persi di vista anche se, a periodi, vi fu da mia parte una colpevole freddezza. Ma proprio staccata da Lui non mi staccai più e da Lui sofferente, da Lui Redentore, da Lui Re del dolore. Non ho mai compreso Cristo che sotto questa vesta imporporata del suo sangue ed ho sempre avuto ansia di consolarlo facendomi simile a Lui nel dolore volontariamente


patito per amore. Mentre i miei stavano decidendo sulla scelta del nuovo Istituto, io venni colpita dalla tosse canina in forma improvvisa e gravissima. Ero andata a scuola come al solito, pure sentendomi tutta indolenzita. Ma mi hanno abituata per tempo a non ascoltare tutti i malannucci e sono grata ai miei di ciò. Se non mi avessero temprata virilmente come avrei potuto sopportare la mia vita? Ero dunque andata a scuola. Ma verso il mezzogiorno cominciai a tossire in modo che non lasciava dubbi sul genere di quella tosse e mi venne subito un febbrone. Fui immediatamente separata dalle compagnette e stetti tutto il resto del tempo, ossia fino alle 17, nello studio della Superiora e in braccio a lei. In braccio! Oh! ci stavo ad aver tutto quel male nel petto pur di stare in braccio a quella Suora così bianca e buona. Fuor che la nonna e mio papà, nessuno mi pigliava in collo ed io avevo una così acuta smania di essere coccolata!! Non tornai più dalle Orsoline. La malattia durò dei mesi e si vinse solo nell'estate venendo in Toscana per la villeggiatura. Nell'ottobre 1904 venni iscritta all'Istituto delle Marcelline. La mia Pentecoste. Le Marcelline avevano allora una piccola succursale del grande Istituto di via Quadronno, se non erro, in via XX settembre. Una graziosa villetta allegra, circondata da un giardino pieno di sole e di fiori e con una chiesina gaia come un'alba di maggio. Tutto all'opposto dell'Istituto delle Orsoline. Anche le Suore erano diverse. Più festose, parevano grandi bimbe vogliose di giuoco. Una santa ilarità informava la regola del piccolo Istituto. C'era solo la Superiora che... era il babau. Malatissima di nervi - morì poi pazza - aveva cambiamenti di umore strani. Un giorno ci perdonava tutto, un altro era di una intransigenza spaventosa. Alta, magrissima, bruna, con due occhioni neri, piuttosto spiritati, ci metteva una gran paura. Meno male che spesso era a letto. In quei giorni le allieve, e credo non le sole allieve, erano felici: come liberate da un incubo. Io facevo la prima ed ero la prima della classe per l'intelligenza, dono di Dio, e perché a casa mamma coi suoi metodi magistrali e papà col suo amore mi istruivano sempre e perciò ero più erudita che l'età non comportasse. Tutti i sabati portavo a casa il mio biglietto di lode. Biglietto che mi attirava i baci e i premi di papà, gli elogi degli amici di casa e l'ammirazione della domestica e del soldato. E siccome, come tutti i figli di Adamo, avevo anche io la mia parte di orgoglio, non restavo indifferente agli elogi e alle ammirazioni come non restavo indifferente ai baci e ai premi. Solo avrei voluto anche quelli di mamma, ma lei mi diceva che «così facendo non facevo che il mio dovere e perciò...». Metodo suo, e col suo metodo è inutile discutere. Credo facesse forza a sé stessa per non dirmi «brava», ma fedele al suo metodo non lasciava la sua condotta severa. Amen! Se devo dire il vero, fui e non fui contenta del cambio di Istituto. Prima di tutto mi fu dolore staccarmi dalle Suore che ormai amavo. In secondo luogo non passavo più davanti a quei due mirabili negozi di frutta rare l'uno, di dolciere l'altro, che avevano per me tanta seduzione. Ero golosetta, sa? Oh! si accorgerà, leggendo questa mia vita, che tutti i vizi capitali erano in me. Ossia tutti no. Non ho mai conosciuto l'avarizia, la quale può essere di denaro ma può anche essere di tante altre cose più spirituali del denaro. Non fui mai avara di affetti perché molto ho amato Dio e prossimo mio, sebbene


da quest'ultimo abbia ricevuto più morsi che baci. Non fui mai avara della mia intelligenza ed ero ben lieta di aiutare le compagne più ottuse, anche a costo di rimanere poi io a corto di argomenti per i miei temi d'italiano o di essere sorpresa dalle insegnanti a fare il lavoro altrui e punita. Anche qui ebbi ingratitudine e non riconoscenza. Ingratitudine che giunse persino ad accusarmi di essere io che «rubavo i componimenti delle altre». Era invece tutto il contrario perché, se ero una vera bestia nelle matematiche e il mio voto massimo in dette materie, dalle elementari alle scuole superiori, non superò mai il 6-, e dato per pietà, fra lunghe tappe di 2, 3, 4 e anche qualche tondo zero, in italiano avevo una vena inesauribile di immaginativa e stile naturalmente buono, per cui fare anche otto volte lo stesso tema in otto svolgimenti diversi era per me un giuoco. Anche nelle altre materie ero veramente brava, e non poteva essere altrimenti se si pensa che po' po' di istitutrice avevo addosso, a casa, nell'ora delle lezioni. Se non sapevo alla perfezione le lezioni, se non facevo i miei compiti ultrabene, erano castighi e molto severi. Ma poi l'avrei fatto il mio dovere anche senza quelli, per una ragione... di superbia. Vede? Un altro vizio capitale che spunta. Io non volevo chiedere scusa. Mi pareva di ledere a morte la mia... dignità di scolara o di figlia. Più tardi, fatta donna, chiesi scusa anche di colpe non commesse... Ma allora era un'altra cosa. Lo facevo perché mi pareva che Gesù mi chiedesse l'obolo di quella mia umiliazione e glielo davo, anche sentendomi stritolare sotto la persuasione della altrui ingiustizia, riconoscendo che, dal punto di vista umano, ero una scema, ma che dal punto di vista soprannaturale quell'umiliarmi mi faceva salire di un gradino la scala che porta presso Dio. Dunque facevo il mio dovere per non avere da chiedere scusa e poi per dare gioia a papà mio, a mia nonna. Dunque anche l'amore era una delle due redini che mi guidavano. E se la superbia era riprovevole, l'amore era commendevole, di modo che penso che il buon Gesù «perché molto amavo» mi avrà scusata anche della superbia e avrà sceverato Lui, dalla mia matassa, i fili della superbia che arruffavano tutto e li avrà distrutti mettendo solo in serbo, per tessermi la veste di pace eterna, i dolci fili dell'amore. Non crede? Non ero neppure avara di balocchi e di dolci a quelli che erano più poveri di me. Perché dolci e balocchi ne avevo molti. Mia mamma, l'ho detto, era severa per sbagliato concetto di autorità. Ha fatto tanto male a quelli che più ha amato per questo errato concetto! Ma ripeto: Amen. Mentirei se dicessi che mi fece soffrire fame, freddo, se dicessi che malata non mi curava, se dicessi che mi negava quello che tanto piace ai bimbi: dolci e balocchi. Solo io non dovevo assolutamente chiedere mai nulla. Se chiedevo non avevo più niente, anche se un minuto avanti mamma pensava di darmi proprio quella cosa. Voglio narrarle un episodietto. Nella piazza di S. Ambrogio, a Milano, nei giorni che vanno dal 1°al 15 dicembre vi è una fiera di giocattoli, dolci e oggetti antichi. Ai banchi di questi ultimi vanno, naturalmente, gli adulti, gli amatori di antichità: lampade, forzieri, quadri, ferri battuti e simili cose. Ma i banchi dei giocattoli e dei dolci sono la calamita dei bimbi che affluiscono da tutta Milano coi papà, le mamme, i nonni, gli zii alla Fiera degli O bei, o bei (legga: che belli, che belli, sottintesi i dolci e i balocchi). Quanti sogni per tutto l'anno e quanti desideri davanti a quei banchi che anticipano di una ventina di giorni la festa «del Bambino», ossia il Natale, giorno in cui i bimbi di


Milano ricevono i regali. Io veramente li avevo per S. Lucia, perché nel Veneto e in molta parte della Lombardia è la Santa martire la dispensatrice di doni. Ma torniamo alla Fiera. Che sogni, che desideri, che preghiere perché il «Bambino» capisse che è quel giocattolo che si vorrebbe, perché il «Bambino» perdonasse tutti i capriccetti, tutte le marachelle commesse durante l'annata e delle quali ci si pente proprio e si promette proprio di non farli più... Non le pare che per tutta la vita siamo degli eterni bambini che si promette e ci si pente in ore speciali, salvo poi ricominciare come prima? I papà, le mamme, i nonni, gli zii scrutano, ascoltano, studiano i sospiri, le esclamazioni, le subite fermate davanti a quel dato balocco che ipnotizza il piccolo desideroso, e se ne servono, di questo studio, per far poi trovare ai piedi del «Bambino» o appeso all'albero di Natale il sognato tesoro. Lì per lì comprano qualche altra cosa salvo poi, due ore dopo, quando scende la sera, tornare a passi di lupo a comperare l'oggetto desiderato e portarlo a casa, e nasconderlo al riparo da quel sesto senso dei bimbi e che dà loro un fiuto, una vista, un udito... pericolosi pei grandi... Io ero andata dunque alla Fiera degli O bei, o bei! con mamma, nonna e cameriera. Era il dicembre 1902. Avevo dunque cinque anni e nove mesi. Girammo fra le decine e decine di banchi e io notai su uno delle culline di ottone per le bambole. Vere culline col loro piedestallo che sosteneva la zana in bilico, ondulante, per conciliare il sonno alla pupa, col loro sostegno per il velo messo perché la luce non svegliasse la pupa, col materassino, il capezzale, le lenzuoline... un amore di cuna che mi pareva d'oro perché era gialla e lucente. Misi le radiche davanti a quel banco. Era tanto che desideravo una cuna per la bambola prediletta, che a furia di... lavaggi avevo ridotta bianca come un giglio e la chiamavo «Rosina» col nome della cara creatura che era stata nostra cameriera a Faenza ed era morta tisica, angelo buono che la terra non meritava di avere. Io sento che se io fossi stata mia mamma e mia mamma fosse stata me, avrei capito subito cosa desiderava, perché sul banco non c'erano che cune e bambole, e di bambole io ne avevo così tante che non ne potevo desiderare altre, mentre di cune non ne avevo punte. Ma mia mamma non ha assolutamente spirito d'osservazione. Anzi ha un difetto in questo spirito per cui le sfugge sempre il fatto saliente o capisce tutto all'incontrano. Io non dovevo chiedere mai nulla perché i bimbi non devono chiedere mai e tanto meno quando sono cose di valore. Ora quella cuna per me era d'oro. Dunque non chiedevo e pregavo il mio angelo che lo dicesse lui a mamma che volevo quella cuna. Ma quel giorno il mio angelo doveva esser volato nell'Empireo a cantare il «Sanctus» all'Agnello. Una nostalgia di cielo; né lo so rimproverare di ciò. L'avrei fatto io pure infinite volte nella vita un volo in cielo per dimenticare la terra!!! Mamma stette ferma qualche minuto e poi mi prese per mano e mi tirò via. Girammo, girammo, girammo... e lei non capiva che tutte le volte che tornavamo davanti a quel banco io rimanevo impaniata fra il vischio del desiderio. Mi offérse altri giocattoli ma io, col cuore sempre più grosso e le lacrime nella strozza, risposi sempre: «No, grazie». Avrei potuto dirlo a nonna, alla domestica... Ma sapevo per esperienza che anche se mamma avesse aderito alla loro preghiera in mio favore le avrebbe poi rimproverate perché «mi viziavano», ed io avevo tutti i vizi capitali in me, ma non avevo durezza d'animo e preferivo soffrire che veder soffrire. Perciò non parlai. Mamma alla fine


decise di tornare a casa... Davanti al mio desiderio che si spezzava come palla di vetro caduta al suolo o dileguava come bolla di sapone nell'aria decembrina, mi posi a piangere. Mamma, già tutta rabbuiata davanti a quello che lei chiamava «capriccio», mi disse, e me lo disse in un modo tale da mozzare la parola in bocca anche a un eroe, figurarsi a me, povero coniglietto: «Deciditi, di' cosa vuoi. Se sarà cosa possibile bene, se no starai senza». Come, come dire che volevo la cuna d'oro, io che ero rintronata da mattina a sera di prediche materne sul bisogno dell'economia e sul dovere di non avere desideri illeciti? Piansi più forte e finii trascinata dentro un portone, presso a quella che ora è l'Università Cattolica e che allora era l'Ospedale Militare, e là dentro ebbi una buona dose di schiaffi. La cuna la aspetto ancora ora... Nella mia vita umana fu sempre così. Solo Dio ha risposto al mio desiderare. Gli altri, o perché non potevano o perché non volevano, infransero sempre il mio sogno e mi colpirono poi perché sulle rovine di questo piangevo. Ho fatto una lunga digressione. Ma non me ne pento perché in un quadro, oltre al soggetto, occorre lo sfondo, e queste digressioni sono lo sfondo e il contorno del quadro su cui campeggia la mia vita. Ora torno alla narrazione. Dicevo dunque che materialmente non mi mancava nulla del necessario e avevo anche del superfluo. Ma le confesso che avrei preferito molto meno ma dato con più amore palese. Esser madre non consiste solo nell'imporre la propria volontà ai figli e nel rappresentare il potere. Vuole soprattutto dire essere la prima confidente, la prima amica dei figli, colei che con rettezza, ma anche con pietà, studia le tenere creature, le guida, le consola e fa loro sentire il suo amore in modo che i cuori dei figli si aprono, al bacio di quell'amore, come fiori sotto il bacio del sole. Il mio cuore invece si è chiuso sotto il rigore materno come corolla che la brina intirizzisce, e tutte le volte, anche ora, che ho tentato e tento di volgermi al suo amore e di aprire questo mio povero cuore che ha tanto sofferto e che ha tanto amato, cozzo contro la parete intaccabile e gelida del suo rigore, della sua autoritarietà. Amen. Ne ho sofferto disperatamente... Ora ne soffro intensamente, ma so, perché Gesù me lo dice, che ciò non è senza scopo... Non ero avara, dicevo, e non lo sono come non fui e non sono mai stata accidiosa. L'ozio ed io siamo sempre stati nemici. L'ozio e la mollezza. Educata un poco alla garibaldina, alla militare, non mi pesò mai l'alzarmi presto, il mangiare quando si poteva, il bere se si poteva La necessità di lunghi viaggi, e in tempi in cui il viaggiare non era un esemplare di comodità, mi aveva abituata a sopportare senza piagnucolare il freddo, le alzatacce, i letti scomodi degli alberghi, il vitto diverso, il non trovare cibo o bevanda adatti alla mia costituzione e perciò a restare senza bere e senza nutrirmi, così come ero stata abituata a sopportare, senza fare smanie, il sassolino nella scarpetta, il cappellino che pesava sulla testa e altre noie piccole ma esasperanti come una ragnatela sul viso. Nelle vacanze papà mi suonava la sveglia all'alba per portarmi lungo le rive del mare o sulle pendici appenniniche per farmi ammirare il bello del creato, il miracolo della luce che torna ogni aurora a parlarci di Dio che la fece, per farmi pregare insieme all'onde che fremono d'ubbidienza sui liti terrestri nei limiti in cui l'Eterno le pose. Ma la gioia dell'uscire con papà e la gioia del bello che aspiravo con tutti i miei sensi umani e sovrumani erano così grandi da farmi guardare come una festa quelle sveglie mattutine, da farmele amare come un premio, da


rendermele così familiari da non pesarmi più. Ho dormito sempre poche ore, di notte. Ma quei sonni erano pieni, riposanti, vera sosta del corpo. Solo l'anima in essi era vigile. Ma di questo dirò poi. Ora torniamo al primo argomento. Mi spiaceva dunque cambiare istituto per un motivo tutto animale: la gola; per uno affettivo: l'abbandono delle Suore alle quali volevo bene. Ma poi mi era gran dolore non vedere più quel Gesù morto. Mi pareva di perderlo e di dargli dolore. Infatti un poco lo persi di vista. Dalle Marcelline c'era molta... come dire? Non trovo il termine esatto. Fatto sta che mi dissipai. Ma mi accorgo di aver omesso di parlare di nonna. Nel dicembre 1903 morì mia nonna. Nel luglio del 1902, a Montecatini, mentre insieme a me era presso uno zio - mi piaceva tanto quel posto pieno di chioccolio d'acque e di sospiri di canne, in quell'ora piena del meriggio dove solo le cicale mettono il loro frinire instancabile - venne ferita da un cattivo ragazzaccio. Un colpo di forcina le mise a nudo il malleolo. Io, che m'ero voltata al tonfo del primo sasso, vidi il monello scoccare il secondo, vidi nonna impallidire, poi scalzarsi e mettere il piede nell'acqua fresca che si arrossava del suo sangue, e sul mio piangere scesero i suoi baci. Povera nonna! Non stette più bene. Nel novembre volle tornare a Mantova, andare sulla tomba del marito e della sorella, morti a sette giorni di distanza nel 1899. Tornò più malata di prima. Mia mamma la rimproverò per la inutile imprudenza, diceva lei. No, non inutile. Un presagio le diceva che la sua vita era al termine ed aveva voluto vedere per l'ultima volta la tomba del consorte di cui fu sempre compagna perfetta. Il 10 dicembre - doveva essere di giovedì perché io non ero a scuola - venne colpita da apoplessia. Avevamo mangiato da poco e mamma, che non si fida di nessuno, era scesa in cantina per sorvegliare il soldato e la donna intenti a travasare del vino. Papà leggeva il giornale in attesa di tornare in caserma. Nonna, sempre buona, era andata in cucina per fare qualche cosa perché la donna, risalendo verso sera, non trovasse ancora tutto il disordine del pasto. Io ero andata con nonna e ciaramellavo intorno a lei. La vidi curvarsi per raccogliere un ciocco e metterlo nella cassa della legna da bruciare nel caminetto del salotto. La vidi illividire, travolgere i tratti, la udii farfugliare parole confuse. Mi impaurii e gridai. Babbo accorse. In tempo per impedire che piombasse al suolo. Non ho mai più potuto guardare uno dormire, o svegliare un dormiente, senza tremare, perché il volto nel sonno prende sovente tratti alterati come quelli di nonna mia e perché mi fa sempre l'effetto che uno debba esser morto nel sonno... Agonizzò due giorni e mezzo e spirò all'alba del 13 dicembre, esattamente sei anni dopo il figlio suo. Era il giorno di S. Lucia e fra i doni per me vi era un orologino d'oro appeso ad una spilla d'oro a forma di nodo... Povera nonna! L'ultimo ricordo! E me lo aveva preso, sfidando le prediche di mamma, per lasciarmi un ricordo duraturo. Non ho molto attaccamento alle cose, specie ai preziosi, e quando necessità di malattia hanno consigliato a mamma di realizzare del denaro dall'oro che avevamo non ho detto nulla. Ma vedere vendere i bottoni da polso e la catena di papà e l'orologio della nonna mi fu strazio. Avrei preferito fossero venduti altri oggetti. Pazienza! Ricordo esattamente tutto di quei tristi giorni e non lo descrivo perché ne soffrirei troppo, cosa che non posso fare se devo conservare lena per scrivere. Soffocai il mio dolore perché papà me lo raccomandava per non turbare di più mia mamma. Il cuore mi si spezzava per il pianto


che vi piombava dentro invece di colare dagli occhi... Fu la prima volta che macerai me stessa nel pianto interno, il più amaro e il più incompreso. E infatti non fu compreso. Mamma disse che non avevo sofferto e decretò che ero una superficiale... Dio la perdoni! Ho cominciato a morire in quel freddo pomeriggio del 10 dicembre 1903. Papà accompagnò la salma a Mantova. Otto giorni di assenza sua e di desolazione mia. Senza nonna, senza papà, sola con mamma che non ammetteva che il suo dolore... Quanto, quanto dolore!!! Poi mamma ammalata gravemente per mesi e mesi e più che mai intrattabile e nervosa. Che triste primavera! Il 18 marzo 1904 feci la prima confessione, nella cappella dove il mio Gesù dormiva il suo sonno di morte. Ho ancora l'immagine ricordo datami da Suor Bianca, la Superiora. San Giuseppe, alla vigilia della sua festa ed era una ben triste festa quell'anno perché nonna Giuseppina non c'era più - mi fece tuffare per la prima volta l'anima nel Sangue di Cristo, in quel Sangue preziosissimo che amo tanto e che vorrei aspirare da tutte le sue piaghe con tutta la mia forza, in quel Sangue al quale 27 anni dopo offersi me stessa, chiedendo di fondere me a Lui in un unico sacrificio onde il mio, tutto il mio sangue, fosse sparso insieme al suo per i fini che Egli sa. E ora che ho riparato alla mia omissione torniamo all'Istituto delle Marcelline. Nella primavera del 1905 io e alcune mie compagne fummo istruite per ricevere la S. Cresima. Stavamo all'Istituto non più dalle 9 alle 16 ma fino alle 18 per l'istruzione catechistica. Ma di questo periodo ricordo ben poco. Ero troppo triste e malazzata per morbillo, scarlattina e varicella, fatte l'una dopo l'altra senza quasi intervallo. Ricordo solo, con nessun piacere, l'ora della minestra. É sempre stata una brutta ora per me, anche in famiglia. Figurarsi poi quando dovevo anche solo sentire l'odore del famigerato riso e cavolo che mi ha perseguitata per tredici anni consecutivi!!! Io non mangiavo quel riso stracotto, ma solo l'odore me ne ripugnava. Se ci penso lo sento ancora. È stato il mio fioretto più grosso per ricevere lo Spirito Santo. Avrei preferito rimanere senza mangiare anziché scendere nel refettorio e sentire quell'odore... Ma era ordine così e lo dovetti subire per due mesi. Come Lei vede, ero in un periodo di intontimento spirituale assoluto. Facevo tutto con svogliatezza, con opacità. Intendo dire tutto quanto aveva riferimento con lo spirito. Per il resto ero sempre la stessa figlia e scolara di prima. Ossia no. Fui bugiarda, io che non ho mai saputo farmi strada in questa terra di menzogna per la mia fin troppo rude sincerità. Ho detto che ero stata molto ammalata. Avevo notato che quando ero malata mamma mi baciava, mi stava vicino, tutta diversa nei modi di come era quando ero sana. Era la Mamma allora, così come io la penso e come la vorrebbe il mio cuore. Allora pensai di... ammalarmi. Approfittando di una fortunata caduta che mi aveva contuso ed escoriato fortemente il gomito destro, tanto da dovere richiedere medicazioni e fasciature, anche dopo che era guarito, io, di notte e di giorno, grattavo, grattavo, irritando la ferita perché non guarisse mai e così mi durasse la gioia d'esser carezzata, vestita da mamma. Ma il giuoco un bel giorno fu scoperto da Suor Erminia, la Superiora semi-pazza. Mamma fu avvisata e io punita. Me lo meritavo perché avevo mentito, è vero. Ma due educatrici come la Superiora e specie mia madre, dopo la mia confessione ampia e dolente, non avrebbero dovuto capire il perché buono, pur dietro la quinta malvagia della bugia, della mia menzogna? Io non mi


scuso. Riconosco di avere allora mancato. Ma perché neppure allora si volle credermi, allora che dicevo aver sbagliato per sete di baci materni? Non fui creduta. Non fui compatita. La porta del mio cuore si abbassò un po' di più ancora fra me e il mondo. Quando sarà stata del tutto ribadita, ossia ora che sono al termine della mia vita, allora capirò che era la bontà di Dio a permettere questo per staccarmi da tutto e unirmi a Lui solo. Ma ho molto sofferto e - ecco Teresa la nutrice pazza che rispunta - e odiai profondamente la Superiora che mi aveva denunciata senza prima scrutare le cause della mia messa in scena. E l'odio rimase tenace per i primi tempi, tanto che nell'anno scolastico susseguente, quando seppi che una nuova Superiora aveva preso il posto di Suor Erminia, ricoverata in una Casa di cura per malattie nervosi e mentali, ne fui lieta. Vede che po' po' di arnese ero io? Il 30 maggio 1905 ricevetti la S. Cresima dalle mani di S. E. il Cardinale Arcivescovo Andrea Ferrari. Dicono che sia un santo. Io lo credo, perché il tocco delle sue mani mi infuse veramente lo Spirito d'amore, strinse il legame d'amore fra me e il Paraclito, di cui sento costante la presenza e l'assistenza e soavissimi i conforti. Quella mattina, alle sette, andammo nel grande Istituto delle Marcelline in Via Quadronno. Mentre già tutte vestite di bianco e velate ci avviavamo processionalmente alla Cappella, una irrequieta e disubbidiente mia compagna cambiò mano al cero acceso ponendolo, anziché all'esterno, nell'interno della fila. I veli leggeri, i nastri dei capelli presero fuoco. Uno spavento e un disastro. Io sola, pure essendo proprio al centro del cerchio di fiamme, non ebbi neppure un riverbero di vampa. Quel velo è ancora, illeso, in casa mia. Il fuoco m'ha sempre rispettata. Per tre volte fui fra le fiamme. La prima avevo sei anni. Prese fuoco un secchiello pieno di ragia messo imprudentemente presso il fuoco. La domestica restò ustionata. Io che ero presso a lei non risentii nulla. La seconda il dì della cresima. La terza, quando avevo diciotto anni, per l'esplosione di una stufa a spirito. Le fiamme andarono al soffitto. Io ero in mezzo, colle mani sul volto, ferma. Sentii diminuire piano l'ardore della vampa e quando tutto fu spento si notò che non un capello, non un filo era bruciato del mio capo e della mia veste. Si vede che il fuoco mi vuole bene. Amore non corrisposto perché io del fuoco ho molta paura e non posso pensare al Purgatorio senza tremare. Di fuoco mi piace solo quello dell'amore. Oh! questo sì, e che mi arda e liquefaccia tutta nei suoi ardori!!! Ricevetti dunque lo Spirito Santo. Egli scese in me e vi lasciò il suo seme di certo. Ma per allora non sentii. Fu anzi una giornata molto noiosa, iniziata male, trascinata peggio, finita malissimo in un teatro dove... vi era una gara di lotta greco-romana. Mi chiedo ancora perché la zia e madrina mi condusse là... Delle volte gli adulti hanno delle incongruenze più solenni dei piccini e non riflettono che certi ricordi restano per tutta la vita con sapore di cenere e con luce caliginosa. Mah! Insomma così avvenne la mia Confermazione in Cristo. Gli amici uomini. Figlia unica come ero, non avevo nessuno con cui giocare in famiglia e mamma non permise mai che andassi presso altre famiglie a giocare. Crebbi perciò senza amicizie della mia età. Le mie compagne restavano solo compagne di scuola. Passata la porta dell'Istituto io le perdevo fino al giorno di poi. Ma avevo degli amici «grandi», dicevo


io, per dire adulti. Ed erano gli amici di papà, quasi tutti scapoli, che frequentavano la nostra casa per trovare in essa un riflesso di famiglia intorno alla loro solitudine di celibi. Tutti militari, naturalmente. Erano molto buoni e mi volevano molto bene ed io a loro benché, quando ero a spasso con papà e li incontravo, mi dolessi in fondo al cuore per la passeggiata sciupata. Perché per me era sciupata, dato che dovevo camminare gravemente in mezzo a loro, facendo bene attenzione a non inciampare nelle lunghe sciabole di cavalleria o di non graffiarmi le gambette contro i loro speroni, e dovevo ascoltare i loro discorsi seri di armi, tattiche, decreti ministeriali, l'ultima seduta alla Camera, i preparativi per la visita al Sovrano di... mettiamo per caso: del Presidente della Repubblica di Andorra. Tutte cose per me noiose come la nebbia. Ma però volevo loro bene perché sentivo che me ne volevano e ne volevano tanto al mio babbo adorato. Ora io amavo più di me stessa quelli che volevano bene a papà. Poi vi erano i superiori di papà. I capitani, i maggiori, i colonnelli. Il Reggimento di babbo, il 19° Cavalleggeri Guide, era, come tutti i Reggimenti di cavalleria, pieno di titolati e di ricchi i quali, per esser ricchi o titolati o tutte e due le cose insieme, avevano bellissimi cavalli di razza, cani pure di razza, caprette, perfino una scimmia eritrea. Una vera arca di Noè nella quale io mi trovavo molto a mio agio perché fra me e le bestie, tutte le bestie meno i gatti che mi saltano agli occhi appena mi vedono, vi è sempre stata una grande comprensiva amicizia. Orbene, quando alla domenica mattina papà mi portava con sé alla Messa - dopo la morte di nonna ci pensava lui - e dopo in caserma per il rapporto, io ero felice e tutti quegli omoni gallonati erano dei papà per me. Chi mi faceva portare da un soldato l'ultima cucciolata da carezzare, chi mi conduceva a vedere il puledrino nato nella notte e che cercava, dando zuccate maldestre, con avidità il capezzolo materno, chi fischiava ai suoi magnifici veltri spagnoli che accorrevano a balzi e mi si sdraiavano ai piedi perché potessi carezzarne il pelo di seta, chi mi issava sul dorso del ciuchino minuscolo come un cane danese, chi mi metteva in mano lo zucchero per darlo al proprio cavallo preferito; e poi c’erano due caprette del Tibet tutte bianche, dal vello fino a terra, intelligentissime, che appena mi vedevano o sentivano correvano belando a mettermi il musetto roseo nella mano in cerca di sale. Erano la mia passione. Perfino quel campione di originalità del tenente colonnello - un piemontese tutto d'un pezzo, della più antica nobiltà cisalpina, il quale pretendeva imporre il piemontese, e che fosse capito a volo anche, pure ai napoletani, uno di quegli esseri messi al mondo per santificazione o per dannazione del loro prossimo, uno di quegli ufficiali ai quali è destinata la prima pallottola dei loro gregari non appena una guerra giustifichi la morte per arma da fuoco - mi voleva bene. Bellissimo uomo e ricchissimo, non si era sposato per legge di maggiorasco. E aveva, di tutti gli scapoli per forza, tutti i difetti. Pure con me era buono e di una riservatezza di modi da prefetto di un seminario. Per me subito pronti i wafer di Talmone: unico dolce da darsi ai bambini, diceva lui, e si doveva ubbidire e mangiare i sigari, le noci, le tartine di cioccolato squisito avvolte nel cialdone croccante. Per me subito pronto il suo grammofono, uno dei primi, allora, e coi dischi più belli. Anzi, quando ero malatina, me lo mandava a casa. Per me subito aperta la sua splendida scuderia coi tre cavalli frementi, un capitale vivo, e la vecchia Gma, un'araba


tutta di neve, la sua prediletta in gioventù, ormai cieca e che egli aveva pensionata e si tirava dietro per l'Italia col suo box imbottito perché non s'avesse a far male urtando contro il legno nudo. Sì, perché quest'uomo, che tormentava gli uomini suoi pari, era pietosissimo verso le bestie... Aveva anche una volpe zoppa, catturata da lui nell'Agro Romano, durante una caccia. Una bestiaccia selvaggia, mordace, che non amava altro che il suo padrone e un pochino me. Il colonnello, poi, era un santo. Pure egli piemontese e nobile, molto nobile, era l'opposto del tenente colonnello. Uno era la burrasca, l'altro il sereno. Uno il padre dei suoi soldati e l'altro il domatore. Ma con me erano buoni ugualmente tutti e due. Poi vi erano i soldati. Ecco: certuni, a sentire dire soldati, pensano che siano tutti dei mezzo delinquenti e dei viziosi senza altro. E non riflettono che l'esercito è fatto dei figli degli italiani. Io non discuto sulle virtù dei militari e specie su certe virtù. Ma devo, per la verità, dire che in tanti anni che ebbi contatto con essi non udii mai dalle loro labbra parole o discorsi sconci né vidi atti triviali. Molto più ho da rammaricarmi delle donne. Ma dirò di esse più qua. I soldati erano con me dei grandi e buoni ragazzoni, tutti felici di portarmi a vedere il loro cavallo, di mostrarmi la... orripilante cartolina illustrata, ricevuta al mattino dalla loro bella lontana, e chiedermi che io la leggessi e rispondessi. Capirà che confidenza e che onore per me! Io ero «il genio, l'aiuto»!... Come erano contenti quando potevano offrirmi un frutto venuto dal loro lontano paese! Come si studiavano per fabbricarmi giocattoli semplici, ingegnosi, statuine per il presepio, piccole seggioline e un tavolinetto, che è ora a fianco del mio letto e che mi è caro perché mi ricorda uno fra i miei prediletti soldatoni. Ogni tanto venivano col passerottò caduto dal nido. Sapevano che ci tenevo agli uccellini. Poi in dicembre mi portavano il fieno più bello, fino come capelli di donna e profumato, per l'asino di S. Lucia. Mi assicuravano che era il fieno del Colonnello... e sulla loro parola mi mettevo quieta pensando che il ciuchino di una santa poteva mangiare il fieno della scuderia del Colonnello, del nostro Colonnello, perché il nostro era per me un colonnello speciale, dato che comandava il Reggimento dai colori di Maria Ss.: bianco e celeste. Certo mi divertivo più fra i soldati che non nelle noiose visite di società in cui le signore parlano di nascite, di malanni, ecc. ecc., non pensando che i bimbi hanno sempre le orecchie ben aperte, anche se non sembra, e che sarebbe doveroso risparmiare all'innocenza certe precoci rivelazioni. Come sarebbe utile risparmiare al cuore e alla mente in formazione certe... scuole di mormorazioni e di vacuità che pure informano di sé le conversazioni dei salotti nelle ore delle «visite». Come le ho sempre odiate! Divenuta col crescere timidissima, era per me un supplizio esser portata qua e là e messa in mostra come una bambola, sotto gli occhi severi di mamma che si inquietava perché io parevo una scema e non capiva che il filtro magico di quella mia scemenza era nel suo sguardo che mi impauriva. Anche le corse per i negozi con mamma non mi andavano a genio. Mi annoiavo a morte a correre da una sartoria a un negozio di cappellini, con lunghe stazioni (non precisamente sacre) davanti a vetrine di stoffe ecc. ecc. Preferivo le passeggiate al Parco, al Giardino Pubblico, meglio ancora ad Affori (allora campagna assoluta). Ma mamma non ci veniva quasi mai. Aveva sempre qualche malanno... molto più che ella ai suoi «bibi» ci fa, ci ha fatto


sempre una immensa attenzione. E così uscivo io e papà. Ma che belle passeggiate! Nei giorni di sole all'aperto. Nei mesi d'inverno nei musei. Quante cose sapeva il mio babbo! E poi c'erano i viaggi premio: sui laghi, a Cremona, Mantova, Verona, Venezia durante le feste di primavera, e in Toscana nei mesi estivi. Allora veniva anche mamma. Ero felice fra loro due... Ma erano rare oasi... Dirò più avanti. Altri amici non ne avevo da piccina, fuorché una vecchietta abitante nello stesso palazzo. Si chiamava Pace e suo marito Romeo. La loro casa era una vera pace. Come si amavano! Al terreno avevano un negozio di cartoleria, ormai gestito dal nipote perché non avevano mai avuto figli: la loro unica croce. Le più belle decalcomanie erano per me, e così le più belle immagini e le più lucide copertine per i libri di scuola. Quando vi fu l'Esposizione a Milano la signora Pace, che non usciva mai perché diceva che il movimento le dava le vertigini «mi fa balorda», diceva - spinse il suo affetto per me a uscire per condurmi all'Esposizione, e là era quel minuscolo sapiente che ero io che erudiva la buona, semplice vecchietta. Cara anima che assomigliavi a quella di mia nonna, ti amo ancora. Ho detto: non avevo altri amici. Ma ho sbagliato. Avevo una povera vecchierella che abitava nelle soffitte e che fra un... interregno ancillare e l'altro veniva a fare un mezzo servizio. Mia madre la aiutava molto, la curò quando fu malata gravemente, perché mi è dolce dire che anche mia mamma ha dei lati buoni. Povera Santina! Il marito era un vecchio ubriacone... la figlia, unica rimastale e ormai sposata e con diversi figli, si consumava facendo la stiratrice nella casa di fronte. Voleva bene alla mamma ma era povera lei pure. Io andavo spesso nella misera ma pulitissima soffitta di Santa. Di giorno l'ubriacone non c'era mai. E là mi sentivo felice perché quella linda vecchierella mi pareva la mia nonna. Le andavo in braccio... Poi giocavo con la sua nipotina. Se avevo la superbia di non chiedere scusa ero, viceversa, molto portata verso gli umili. Non ho mai sprezzato il povero, il popolano, l'ignorante. Se mai mi hanno dato sempre noia i miei pari o i miei superiori per censo e condizione, se sono dei «muffoni e dei posatori». Volevo bene alla povera Santa e alla sua nipotina e ero contenta se le potevo portare delle buone cosine. Si giocava alla bambola coi miei giocattoli e Santina-nipote voleva sempre fare la cucina, certa che poi... i pasti luculliani a base di frutta fresche e secche, dolci, cioccolato, li mangiava lei. Io avrei preferito giocare alle mamme. Ho sempre avuto l'istinto della maternità e il desiderio dei figli... Oppure ai feriti. Ho anche sempre avuto la vocazione dell'infermiera. Il dottore di famiglia rideva ammirato davanti alle peffette fasciature di teste, gambe, occhi che io applicavo alle mie numerose pupe che erano «tutti feriti di guerra perché la guerra era venuta», dicevo. Triste e vero presagio del cuore! Ma cedevo al desiderio di Santa-bimba e facevo la cucina. Poi volevo bene alle donne di servizio. Col mio carattere affettuoso sempre mendicante carezze, più necessarie a me del cibo stesso e - devo dirlo perché Lei si è raccomandato che io dica di me il male ma anche il bene - e col mio temperamento quieto, senza capricci, umile, ero molto amata dal personale di servizio e lo amavo molto. Veramente mamma, che per sé stessa mi teneva abbassata come un filo d'erba sotto il piede di un uomo, avrebbe voluto che io, per quanto fossi un cosmo alto da terra ben pochi centimetri, mi dessi delle arie di padronanza e, naturalmente, di alterigia. Ma io non potevo fare questo, sia per natura


e sia perché, osservatrice come ero, avevo notato che mentre con la mamma i dipendenti filavano, è vero - e sfido a poter fare diverso - ma anche, appena potevano, se la svignavano alla prima occasione, con papà, sempre paziente, gioviale, senza boria, un vero padre degli umili, le cose andavano ben diverse, e il mio buon papà doveva destreggiarsi per liberarsi dai troppi soldati che volevano tutti essere alle sue dipendenze e che, finito il loro tempo militare, si riaffermavano per non perdere il loro superiore. Io notavo gli sguardi di affetto e gli atti di affetto spontanei che sgorgavano da quei cuori semplici che si sentivano amati e ubbidivano ai desideri, non ai comandi perché papà era così buono che non comandava mai, ma era anche così amato che il suo minimo desiderio era non solo subito tradotto in opera appena lo esprimeva ma anche indovinato con quella prescienza che dà l'amore. Io volevo essere come papà. Per spirito imitativo di figlia, per cui pare tutto bello quanto fa il prediletto fra i genitori, e perché mi era facile essere come papà, avendo il suo stesso cuore, mentre... non avrei assolutamente potuto divenire come mamma. Ero perciò buona e affettuosa con la domestica, coll'attendente, con tutti. Mi rifugiavo presso loro per avere carezze e giuochi... Spesso mamma andava fuori per le odiose visite di società alle quali spesso non mi portava, con mia immensa gioia, perché le ho già detto quale supplizio fossero per me. Io restavo a casa con la donna e col soldato. Che belle ore serene! Ho avuto delle care ragazze che, pur nella loro semplicità campagnola, hanno avuto per me tesori di affetto. Le belle storie delle fate, le leggende dei loro paesi, i giuochetti che rallegravano i loro fratellini al paese venivano tutti messi in moto per rallegrare anche me. I soldati poi erano i miei... chirurghi preziosi per tutti i balocchi rotti, erano i costruttori di nuovi balocchi, erano i raccoglitori di frasche e di borraccina per il presepio, erano gli allevatori delle mie bestioline. Ma, come bo detto sopra, se dei soldati non ho nulla a dire fuorché del bene, circa le domestiche devo dire che, nella lunga teoria che ne vidi sfilare, qualcuna lasciò a ridire e avrebbe potuto nuocermi molto se Gesù lo avesse permesso. Una mi insegnò a rubare. Proprio. Aspettava che mamma uscisse e poi mi diceva: «Prendi questo, prendi quello e dammelo. Ma non lo dire». Non era cosa di valore perché mamma teneva e tiene tutto sotto chiave: qualche matassina di filo, dei dolci, delle frutta secche, dei liquori. Cosa ne facesse non so. Il certo è che mi insegnava a rubare. Un'altra, per pura ignoranza, mi teneva discorsi di cose non adatte a me e che solo la mia assoluta innocenza mi impedì di capire a fondo. Li capii più tardi, fatta ormai donna e ricordando quei discorsi. Ho detto «assoluta innocenza». Sì, ero una innocente pur non essendo un'oca. Avevo uno spirito d'osservazione acutissimo fin da piccola, una memoria tenace. Perciò può ben pensare che notavo tutto, catalogavo tutto, mi rendevo conto di tutto. Molto avanti a scuola rispetto all'età - pensi che a tredici anni e pochi mesi finii le complementari e le tecniche insieme, le dirò poi il perché - non potevo fare a meno di avere familiarità col Dizionario... e le assicuro che non lo lasciai in pace e che questo e la «Divina Commedia» mi servirono di scuola sul vero animale della vita. Ma però, e Dio ne sia benedetto, non ne ebbi nessun turbamento. La natura della nostra animalità spiegò tutti i suoi lati davanti a me senza che io ne venissi scossa. Scoprire il perché di una legge fisica o di un organo mi lasciava nella stessa calma che veder sbocciare un


fiore. Ho letto di recente nella Vita di Maria Ss., che Lei mi ha dato da leggere, come l'Eterno compì sempre verso la Vergine il miracolo di velarle quanto avrebbe potuto urtare la sua verecondia verginale. Con me pure la bontà di Colui, che «per avermi amata di un amore eterno» veglia continuamente su me, ha operato il miracolo di stendere sulle parti oscure della nostra esistenza d'uomini un velo di splendore, che le rese pure anche se impure, gradevoli anche se sgradevoli, accettabili senza scosse anche se, per la loro rivelazione brutale, avrebbero potuto scuotere la mia casta ignoranza di bimba cresciuta senza fratellini, senza piccoli amici, sola in una famiglia dove l'innocenza mia era molto tutelata. Mi ricordo un episodio. Avvenuto quando ero in collegio e già dodicenne. Quell'anno, nel mio quieto collegio per poco avvenne una... mezza rivoluzione e causata proprio dal turbamento di una ormai di diciassette anni e sorella maggiore di una vera tribù di fratellini. Leggevamo i «Promessi Sposi» ed eravamo una ventina di allieve in quel corso. A nessuna accadde nulla. Ma a quella poverina, per me un po' tocca di cervello, il capitolo della monaca di Monza fu un fiammifero gettato in una polveriera. Pareva una spiritata! Chiedeva a tutte se poteva esser vero che i bimbi nascano da noi donne e come poteva avvenire. Delle mie compagne non so cosa risposero. Io, interrogata come l'oracolo della classe, risposi testualmente: «Ma certo! Non lo dice anche l'Ave Maria? Cosa c'è di speciale? Se Gesù è nato da Maria è segno che noi si nasce dalla mamma!…». E buona notte. Altro non pensavo. Consideri che ho dovuto aver passato di molto l'epoca degli studi per poter dire di aver conosciuto certi particolari e anzi solo mi divennero noti durante questa malattia. Merito mio? No. Grazia data gratis dal buon Dio e di cui non ho a vantarmi ma solo a ringraziarlo. Però, per tornare al capitolo delle domestiche, ho sempre pensato che io mamma mi sarei tenuta più vicino mia figlia, vicina con amore, per impedire che essa cercasse conversazioni e scuole presso povere creature che non sempre sono quali dovrebbero essere di prudenza, di moralità, per avvicinare una vita in formazione. Quanto tatto ci vuole coi piccoli! E come sarebbe bene ricordare sempre «che i loro angeli vedono Dio»! Invece ho notato negli adulti poco riguardo, specie fra le donne. Conversazioni, giornali e libri lasciati a portata di mano dei piccoli, mentre sarebbe bene non lo fossero; spettacoli, mode, poco riguardo nel vestirsi in presenza dei bimbi. I quali vedono, odono, riflettono meglio degli adulti! Lo torno a dire. Io, pensando a come ero attenta io, ho sempre avuto una scrupolosa cura della innocenza dei piccini che il caso ha messo vicino a me. Anche recentemente ebbi a impormi al medico che, in presenza del suo bimbo di tre anni, mi voleva visitare. «Ma tanto non capisce niente», disse il medico alludendo al suo piccolo che giocava con delle figurine. «Ma io non voglio lo stesso», ho risposto. No. Molte cose potrà rimproverarmi Iddio ma, scrutandomi bene, mi pare proprio che non potrà chiedermi conto del perché ho fatto questo o quello a danno di un innocente. E questa certezza di non avere leso nessun candore è pur dolce e riposante al mio cuore. No. Ora che credo d'esser prossima a giungere nel porto eterno o in cima alla vetta della mia vita, guardando il cammino compiuto mi pare proprio di poter dire: «Non sono stata causa di corruzione a nessuno». Se del male ne ho fatto, a me sola l'ho fatto, e in modo che di esso neppur l'ombra ne apparisse, e questo non per ansia di stima umana


ma per rispetto della altrui anima che, di adulto o di bimbo, di giusto o di peccatore, ho sempre rispettata come opera di Dio, pensando che come nessun mortale è completamente santo - la santità assoluta è sola di Dio - così nessun mortale è completamente peccatore. Perciò ho sempre curato di non portare altre briciole di malvagità nei cuori o di gettare in essi la prima briciola, se erano cuori innocenti. Io fui urtata, ferita, infangata dall'imprudenza altrui e dovetti rialzarmi, guarirmi, mondarmi da me sola. Sì, da me sola perché aiuto umano non ne ho avuto e, come vedrà da sé, l'opera di Dio in me fu opera di assecondamento più che di imposizione. Opera lentissima, penetrazione più impercettibile di quella del microbo in un corpo. E non progredì altro perché io risposi al primo appello. Penso alla valanga che non si forma se il primo fiocco di neve non inizia il moto vorticoso e se tutto il fianco montano non vi si presta. Io e Dio abbiamo formato la valanga. Egli il primo fiocco al quale io ho dato la prima spinta... e poi, sempre più grande e veloce, si formò la valanga, l'unione, la discesa che è ascesa nell'abisso della Divinità, attraverso l'annichilimento della creatura che si riforma, nascendo a Dio per la vita eterna con l'amore e col dolore. Le cose amiche. Si legge nella Genesi che Dio fece gli animali perché servissero l'uomo. E anche perché lo confortassero, dico io. Sì. Tanto più l'uomo possiede per volere di Dio un' anima che esce dalla mediocrità della massa - la quale pare composta per la maggior parte di esseri amorfi, addormentati, qualcosa che assomiglia all'animale sazio o all'insetto nel bozzolo, esseri che si appagano del loro tran-tran e chiedono e si studiano solo di viverlo senza scosse ma anche senza sforzo - e tanto più è destinato a soffrire dell'incomprensione del suo prossimo. E allora si rifugia nelle bestie per quanto riguarda quaggiù, in Dio per quanto riguarda lassù, e fra questi due apici tesse la sua tela che passa e ripassa continuamente fra tutto il resto... un resto più ispido, più martirizzante del cardo con cui i tessitori si aiutano nella loro opera paziente! Il prossimo... Che cardo irto di aculei che è sempre, e tanto più lo è quanto più l'essere nostro è di natura affettuoso, umile, sensibile. Ci irride, ci calpesta, con una spallata ci butta ai margini della vita che, umanamente parlando, è via maestra pei prepotenti, gli aridi di cuore, gli spensierati, i subdoli. Dal lato soprannaturale, no. Siamo noi - gli apparentemente vinti della vita, perché non sappiamo essere degli egocentrici come la vita richiede si sia per trionfare - i veri vincitori. Poiché conquistiamo, a prezzo di noi stessi, non la piccola vita limitata nel tempo, ma la Vita che è perpetua aurora, che è perpetuo meriggio, anzi meriggio pieno, beatifico, scorrente pei secoli dei secoli nell'orbita e nella luce del Sole eterno. Ma quanto dolore per arrivarvi! Ma quanto gelo! Ma quanta solitudine! Ma quanta amarezza! Ma quante lacrime! Ma quanto morire, ora a ora, in mille modi: uccisi da noi stessi per nostro ben e, uccisi dagli altri per loro impulso malvagio! Morire di una morte morale rispetto alla quale la morte di Dio, la morte fisica, punizione di Adamo, è molto, molto meno! E allora ci si guarda intorno col cuore stretto e il volto bagnato di pianto... e per gli sguardi assenti o ostili dei nostri simili si incontra lo sguardo fedele delle creature minori. E allora per il bacio che ci è negato o dato a tradimento dal prossimo si


incontra il sincero saluto dell'animale, e allora le nostre mani che inutilmente si sono stese per abbracciare e accarezzare e sono state respinte, si chinano a carezzare le bestie che non respingono mai chi le ama e lo ripagano con schiettezza d'affetto. Chi è felice non sa... Ma chi non fu felice sa cosa rappresenti di conforto un animale a chi è solo della peggiore solitudine: quella del cuore. ho molto amato le bestie come opera di Dio e come conforto ella mia vita che non fu felice mai, sempre umanamente parlando. Prigioniera di troppe cose, poiché si può essere prigionieri pur essendo fuori di un carcere materiale, ho avuto in comune con tutti i prigionieri l'amore per le bestie che sono state le compagne e le confortatrici in tante, in tutte le mie ore di prigionia. E non creda che esageri. Ho molto, molto sofferto e spero di potergliene dare una sebben concisa descrizione attraverso queste pagine che Lei ha chiesto le scrivessi. Ho molto sofferto. Parrebbe a tutta prima impossibile: figlia unica, abbastanza ricca, sana fino a vent'anni, coi genitori viventi e... apparentemente viventi in buona armonia, cosa, in apparenza, mi mancò? Nulla. Cosa mi mancò in realtà? Tutto. Quel tutto che ci voleva per me: ossia un grande, un grande, un grande amore di mamma. Che mi importavano balocchi, dolci, divertimenti, quando essi mi venivano dati con fanfara di anticipo e con galoppo finale di una severità glaciale, o peggio con accompagnamento di scene disgustose nell'interno della famiglia? Come ho invidiato i bimbi poveri che vedevo mangiare il loro tozzo di pane in braccio alla mamma, che vedevo giocare col pupazzo di cenci che l'amore di mamma aveva confezionato per loro, che vedevo crescere come pulcini allegri su un'aia piena di sole in una casa dove l'amore di tutti e due i coniugi brillava come sole riversandosi in fiotti di amore sui figli! «Niuna invidiò la sua reggia pur che avesse presso il foco spento un tremolio di cuna», dice il Pascoli, se non sbaglio nel ripetere il verso dopo tant'anni che l'ho studiato. Io di me posso dire: «Niuno invidierebbe la mia vita, apparentemente dotata di bene, se avendo l'amore nella sua povera casa avesse potuto vedere la realtà della mia casa». Perciò non deve far stupore se mi attaccai alle bestie con tanta passione. Uccellini, cani, tartarughe, polli, piccioni, conigli... i miei compagni di giuochi e di solitudine, compagni che mi dettero più gioia delle bambole perché erano «vivi», e più dolore perché... morivano. Ogni morte era una tragedia... Mia mamma, il «dominatore» della casa, il «dittatore», decretava ogni volta: «Guai se viene qualche altro cane, qualche altro uccello». Ma allora mi attaccavo alle gallinelle, ai colombi, ai coniglietti... Doppi pianti perciò perché... erano i predestinati allo spiedo o al tegame! ... E poi, sfidando le ire coniugali, c'era papà che mi riportava il canino: regalato proprio a me dall'Ufficiale Tal dei Tali, oppure l'uccellino che il Colonnello mi pregava di allevare. Povero papà che, amando tanto la sincerità - e mi ci ha così bene avvezzata - ma amando anche tanto la sua povera figlietta e la pace coniugale, trovava questa... via per conciliare la mia sete di amare, la sua gioia di farmi contenta, e il volere della moglie! Mia mamma faceva una scenata, il broncio durava per un tempo indeterminato, papà lo subiva con calma, io piangevo... ma piangevo sul capino di un cucciolo o sulle alucce di un passeròtto, e le lacrime erano meno amare perché la bestiolina asciugava le mie lacrime con la sua linguetta tenerella o beveva le gocce del pianto col suo becco ancora molle di nidiace. Bisogna aver provato queste


cose per poterle capire senza dirle: «Stupidaggini! Dopo le bestie, i fiori. Come mi sono sempre piaciuti! In vaso sulla mia finestrella o colti lungo le verdi strade di campagna, erano la mia gioia. Anche qui mio padre era stato il mio maestro. Da lui che non sapeva passare indifferente davanti ad una corolla e ammirava tanto l'umile pratolina come l'orchidea rara, ho appreso l'amore per i fiori, questi infiniti capolavori di Dio che seminano di colori e di fragranze il nostro fango terrestre così come le stelle seminano di gemme il firmamento: fiori dei giardini celesti gli astri, astri dei giardini terrestri i fiori. Quando andavamo per la campagna, quanti fiori non coglieva papà mio! Me ne incoronava, me ne empiva le braccia, me ne illustrava le bellezze sempre nuove, sia che fossero un boccio ancor chiuso, inviolato al tocco delle api e delle rugiade, sia che già s'aprissero pomposi a ricevere i baci delle farfalle, le carezze del sole, il lavacro delle piogge o il bagno di luce fosforica delle stelle. E in tutto questo bello che la mano di Dio ha sparso intorno all'uomo, sotto i piedi dell'uomo, della creatura sovrana che il Padre ha amato fino al punto di donargli suo Figlio, e che così pochi vedono sulla terra (per me vedere è amare), babbo mi faceva vedere l'opera del Creatore. Quante volte, ad appoggio delle sue parole e intuendo la mia natura spontaneamente d'artista, egli non citava brani di prosa, e specie di poesia, che più illustravano il bello del creato e che facevano notare in esso l'impronta dell'Essere divino che fece tutte le cose! Animali e piante, tramonti, aurore, notti lunari così verginali e caste, notti di stelle così piene di palpiti, e voi sonanti marine che parlottate con lo sciabordio dell'ondette leggere, che sospirate stanche nelle notti piene, che schiaffeggiate con urla e risate infernali le scogliere, e voi azzurri laghi d'Italia e colli, e pianure, e montagne, voi, voi tutte cose belle perché fatte dal mio Dio, voi che ho amato e che mi avete amata e che venite, nella mia decenne clausura, a trovarmi, poiché v'ho tanto amato, guardato, studiato, che vi vedo ancora coll'occhio della mente, siate benedette per la gioia che mi avete data, siate benedette per la fede che mi avete data, siate benedette per la speranza di un Bello eterno, più grande, di cui voi siete un riflesso limitato, che mi avete infusa, per l'amore che da voi mi venne, che a voi mi unì, per l'amore con cui mio padre vi amava, con cui mio padre fece che vi amassi, per l'amore con cui Dio vi fece e vi conserva; oh! siate, siate benedette! E benedetto sia Colui che a conforto dell'uomo vi fece e che a conforto di me, sua povera figlia, donò al mio io capacità di vedervi così come siete: perfezione e testimonianza di Dio, parola di Dio in tutte le ore, sprone all'ubbidienza, alla bellezza, all'utilità... Sono stanca e malata più del solito e il pensiero sfugge. Ma non tendo a fare opera letteraria. Ubbidisco solo a un suo desiderio, Padre. Perciò poco mi occupo dello stile. Dico, così come lo permette la mia attuale debolezza, il mio sentimento rispetto alle cose che hanno trovato rispondenza in me. E bellezza, opera del genio: chiese d'Italia dove la vita del Cristo e di Maria, dove la vita dei Santi di Dio palpita eterna in raffigurazioni di bellezza ultraterrena. E castelli e regge d'Italia, monumenti d'arte secolare il cui attuale pericolo o la già avvenuta distruzione è spasimo per il mio cuore. E musei fastosi di tele, di statue, di oggetti rari venuti fin dal lontano Oriente, cose amate fin che vi ho possedute in un con la salute, ora ancora amate nel ricordo e col ricordo, perché mi portate l'eco di giorni in cui ancora conoscevo della vita non il completo fiele che dovette divenire dolce solo


dopo aver stritolato in essa vita il mio io... Ecco gli amici nelle cose minori, gli amici che non mi tradirono e con opera non avvertibile fecero in me un lavoro di elevazione a Dio, certo predisposto da Dio che usava di tutte le cose umane per lavorarmi l'anima per l'eternità. PARTE SECONDA Oggi è il 10 marzo, mercoledì delle Ceneri. Si inizia perciò la Quaresima. Tempo sempre pieno per me di avvenimenti che lasciano un segno incancellabile. Se si guarda bene, molte delle cose principali della mia vita sono accadute in quel tempo che va dal mercoledì delle Ceneri alla Pasqua. La nascita per prima cosa. Sono, proprio come la violetta, un fiorellino quaresimale. Sbocciai alla vita e alla grazia in questo tempo di penitenza anticipatoria della Pasqua, e i miei occhietti, che piangevano per aver perduto il Cielo, videro per prima cosa il paramento di mestizia della Chiesa... In quaresima la prima confessione. In quaresima la mia entrata in collegio. In quaresima la mia uscita di collegio e ritorno in famiglia. In quaresima il mio primo risveglio all'amore umano. E in quaresima, infine, i miei abbracci più intimi con Dio quando l'amore umano, essendo morto come effimero fiore non fatto per l'anima mia, cedette il posto all'Amore unico, a Colui che già si era mostrato e fatto amare, dalla puerizia, col suo volto arrubinato di sangue e le membra trafitte. Nata in periodo di mestizia e penitenza, destinata ad amare il Gesù-doloroso, è ben giusto che io debba aver conosciuto per tempo il pianto, sempre più pianto. Sia benedetto esso pure, che fu la rugiada che dissetò la pianticella dell'amore e fece di essa un «grande albero sui cui rami gli uccelli dell'aria vengono a riposarsi». Il granellino di senapa, il più piccolo di tutti i semi e che è simbolo del regno dei cieli, per me è l'Amore. Perché solo l'Amore ci può dare, a noi così imperfetti, capacità di conquistarci il regno dei cieli. Ma l'amore che Dio aveva deposto, piccolo seme, nell'anima pargoletta, era sceso in essa in un con una stilla del pianto divino, e aveva bisogno di pianto, di dolore per mettere radici e fronde e innalzarsi fino al cielo... Ma per giungere al cielo ha dovuto, dopo aver dibattuto sé stesso sotto tutte le raffiche tentando liberarsi dal dolore, raccogliere i suoi rami in forma di croce e su questa inchiodare me stessa. Oh! allora l'albero alimentato di pianto, scaldato dall'amore, potato dal dolore, è divenuto gigante, e spero che la sua fronda, viva in eterno, fornisca al mio angelo la palma e il tralcio per la mia corona di vittoria e la mia insegna di martirio. Il dolore di Papà. Quando ero bimba, ma non più puerile, vidi piangere mio padre. Quelle lacrime mi sono tutte sul cuore. Egli, intelligentissimo, aveva fatto invenzioni e modifiche ad armi usate nel nostro Esercito. Questo per amor di Patria, poiché amava intensamente la Patria sua e m'ha trasfuso questo suo amore, e poi perché si studiava di sempre più aumentare la agiatezza familiare per amore mio e di mia madre. In casa sono ancora i brevetti, gli encomi, gli studi fatti da lui... studi notturni, pazienti, perfetti. Infine la riuscita, la soddisfazione, la gioia. E poi... e poi il tradimento. Come è costume nell'Esercito, ogni scoperta bellica deve essere sottoposta a studio di alti ufficiali di artiglieria. Fra questi


mio padre trovò il suo Giuda. Una piccola modifica e la corruzione mediante denaro del proprietario della fabbrica d'armi, presso cui papà aveva fatto costruire gli esemplari da sottoporre al Ministero, furono il trabocchetto. Mio padre, inferiore di grado e non volendo dimettersi dall’Esercito e vendere la sua scoperta al Belgio, alla Francia, all'Austria che gliela avevano chiesta offrendo fior di quattrini, si trovò in condizioni di inferiorità. Erano, occorre ricordarlo, tempi in cui protezioni oscure tutelavano gli affiliati a organizzazioni speciali. E mio padre non era e non volle mai aver nulla a che fare con dette congreghe. Perciò... perse. Il Ministero, i generali, la stampa parlarono di lui con parole d'elogio. Ma il brevetto andò all'altro, al traditore, e l'utile ugualmente. Ma, come sempre, questo denaro del tradimento dette frutto di maledizione. Il Glisenti, colui che per denaro testimoniò il falso, fu colpito da paralisi e vegetò per anni e anni come un bruto. Il traditore, ufficiale d'artiglieria, dopo aver goduto i milioni frutto del suo tradire per breve tempo, morì, sparandosi con la pistola usurpata un colpo in bocca; sua moglie e sua figlia conobbero la miseria assoluta al punto di dover servire... Ma che mi importa dell'altrui male? Quello che mi fa ancora soffrire è il dolore di papà mio... E questo sarebbe stato già di per sé grande, immeritato da quell'uomo retto, lavoratore, buono. Ma fosse stato dolore unico egli l'avrebbe sopportato meglio e non si sarebbe in esso logorato. Invece... Mi duole dovere sempre suonare due campane, l'una dal suono forte e buono e l'altra dalla nota stridula e penosa. Ma la vita è così e io devo dire la mia vita come fu in me e in chi era intornoame. Mia mamma, dopo la morte di sua madre, era divenuta addirittura intrattabile. Un poco il mal di fegato e, dopo anche la miglioria di questo, e molto la famosa malattia femminile - di quelle fra le donne pero che, per bontà altrui, se la possono coltivare - del nervoso, l'avevano resa un tormento, una calamità familiare. Se avesse avuto una diecina di figli, pochi mezzi finanziari, nessuna persona di servizio e necessità perciò di rimboccarsi le maniche da mane a sera e sgobbare per tenere in ordine la baracca, gli isterismi non li avrebbe avuti, glielo assicuro. Ci sono delle infelici realmente ammalate di nervi e sono da compiangere. Ma mia mamma non era di queste. E lo dimostra il suo essere arrivata felicemente alla più tarda età mentre tutti i parenti di allora sono morti da un pezzo. Aveva solo il suo io malato di egoismo, di superbia, di prepotenza. Mia nonna, durante i primi dieci anni di vita coniugale, aveva posto un freno agli estri di sua figlia e un balsamo sul cuore ferito del genero che l'amava come una madre amatissima. Erano due buoni e si amavano. Morta lei, era venuto l'inferno. Mia mamma non ha mai voluto e non vuole, da nessuno, osservazioni. Lei è la perfezione e l'infallibilità. La sua parola è legge, il suo desiderio è comandamento. Mio papà, per amor di pace, non ha mai reagito a simili autoincensazioni... Per amore di pace, per amore della moglie alla quale ha voluto un bene fedele, perfetto, che meritava ben altro compenso! E anche non reagiva per... incapacità. Non era prepotente mio padre, non era brutale. Per domare mia mamma ci voleva uno più prepotente di lei, uno che all'occorrenza sapesse scrollarla un pochino... Sarebbe bastata una volta sola. Invece è sempre così! Nell'unione coniugale uno dei due è il tiranno e l'altro è la vittima. In casa mia la vittima era papà. Avrebbe dovuto essere adorato quest'uomo senza vizi, lavoratore, paziente, sano, bello, buono, che aveva dato


ricchezza, vita comoda, superfluo a quel pezzettino di donna che era mia madre, levandola all'insegnamento dove avrebbe dovuto prosciugarsi per tutta la vita; e invece fu tormentato, fu abbeverato di sgarbi, di male parole, di ripulse... Cominciarono le scene per la parentela... Mio papà aveva due sorelle e un fratello. Il fratello e una sorella erano a Bergamo e perciò davano meno al naso di mamma, che però non mancava di parlare di loro con uno sprezzo che a papà era dolore. Quando zio Agostino veniva, uscivamo io, papà e lui per poter parlare in pace. Mamma restava a casa di puntiglio a rodersi di rabbia... Poi era la scena. Io, anche se avevo visto papà dare bigliettoni di banca, grossi, a zio, non parlavo. Avevo capito molto per tempo che vi sono cose da dire e cose da tacere... La prudenza mi deve essere stata infusa col Battesimo. L'altra sorella di papà, dopo esser stata in Argentina per degli anni, si era stabilita con il marito e una figlia maritata a Milano. Io non faccio il processo a nessuno né l'apologia di nessuno. Perciò dico che zia Angela avrà avuto i suoi difetti. Ma chi senza difetti fuorché Dio? Ah, no! sbaglio. Fuorché mia mamma? Questa zia, vedendo l'autoritarietà materna, osò intervenire in mio favore. Fu l'inizio delle ostilità. Una guerra continua che faceva soffrire babbo il quale, per la sua giustizia, non vedeva la sorella colpevole di tutte le colpe che mamma le appioppava, ed era sempre seccato da tutti i dispetti che a getto continuo partivano dalla moglie verso la sorella. Poi, non bastando questo, le cose degenerarono ancora. Che inferno! Mi chiedo ancora dove mamma trovasse forza, argomento, appiglio, veleno, in così ampia misura, per tormentare papà... Penso a Salomone dove dice che sono tre le cose che cacciano l'uòmo fuori di casa: il camino che fa fumo, il tetto che fa acqua e la donna litigiosa. Per il fumo e l'acqua ci pensò il progresso a eliminarlo, e papà non ebbe a soffrire di queste due noie casalinghe, meglio: edilizie. Ma riguardo alla moglie litigiosa.. Povero papà! Fu più bravo del saggio re Salomone, perché la sopportò senza fuggire, senza perdere la pazienza, ma anzi continuando ad amarla. Mentre ne soffrì moltissimo. Infatti niente ci ferisce più di quel che non ci ferisca il vederci misconosciuti dai nostri più prossimi, ai quali diamo tesori di affetto. Papà dava tesori di affetto a sua moglie... ma questi tesori furono usati come un'arma per ferirlo di più. Sicura del potere, dello strapotere che essa esercitava su lui, sicura che la bontà e la pazienza del marito erano perfette, sicura della perfezione d'amore con cui egli l'amava, invece di fare di queste sicurezze una unica arma di bene per sé, per lui e per me, se ne faceva uno strumento di devastazione morale. Durante la settimana, papà essendo via di casa dalle 6 antimeridiane alle 12, dalle 14 alle 19, e avendo dopo cena spesso amici in conversazione, non c'era male. Non era certo un vivere ideale, ma insomma era sopportabile. Ma alla domenica!… e sapere cosa fosse la nostra domenica, alla quale papà ci eneva tanto come al suo giorno di festa da passarsi fra noi due Vuol che adorava? Eccola servito. Dopo la morte di nonna io dormivo in stanza coi miei, così fino al mio decimo anno. La mattina di domenica papà rimaneva a letto un poco più del solito ed io scivolavo dal mio lettino e mi arrampicavo sul suo lettone a prendere la mia parte di carezze. Mamma, che si era già alzata ed era di là a tormentare la donna di servizio, ci scopriva così, felici, l'una nelle braccia dell'altro, e sentiva il bisogno di avvelenarci la felicità. Ogni più piccola cosa era di pretesto per


iniziare l'attacco. Frasi innocue come queste: «Questa notte hai dormito bene. Oggi, già che è una bella giornata, potresti uscire anche tu. Hai un bel colore oggi. La cameriera sta meglio con il suo raffreddore? Andiamo oggi a trovare Angelina (sorella di papà)?», bastavano a suscitare la scena. E su, e su, e su con un crescendo maligno, crudele, ingiusto, selvaggio. Rimproveri, accuse, minacce: di tutto. E niente poneva freno e termine a quella odiosa scena domenicale. Io, mi par di vedermi, ritta in piedi nel mio lungo camicione da notte, ritta sul letto matrimoniale a implorare piangendo pietà; mamma che, dopo aver vilipeso con le più false accuse quel sant'uomo di mio padre, minacciava di separarsi coniugalmente; mio padre esasperato che diceva: «Ma io mi sparo, così non ci resisto!». E poi lei che se ne andava altrove, per la casa, e io fra le braccia di papà che piangeva e diceva: «Oh! Maria! La mamma non mi vuole più bene, non ci vuole più bene...». Ho perdonato tanto, tanto, tanto a chi mi ha trafitto la vita. Ma ho perdonato il mio dolore causatomi per pura malvagità. Ma queste lacrime di mio padre... no, non le perdono. Mentirei se dicessi che posso perdonare a chi le fece scorrere. Perdono i miei spaventi di bimba... Sa che paura, che paura che papà si suicidasse? Quando tardava a rientrare in casa per qualche motivo io pensavo subito che si fosse ucciso... Il mio cuore ha cominciato allora ad ammalarsi... Perdono le mie feste sciupate dopo aver fatto tutto il mio dovere di scolara per sei giorni ripromettendomi la gioia domenicale. Perdono il crollo delle mie speranze, delle mie illusioni così tenaci a morire. Perdono di aver ucciso la mia serenità fin dalla fanciullezza, il mio sorriso, perdono d'avermi fatto intridere di pianto, di sconforto, di pessimismo il mio giorno fin dalle sue prime ore, tanto perdono, tutto perdono di quanto mi venne ingiustamente dato di male e egoisticamente levato di bene, del mio bene; ma quelle lacrime no. Le lacrime di mio padre, no. Mi appartengono come la più preziosa delle reliquie paterne e stanno chiuse nel mio cuore che fu rigato da esse come da stille di piombo rovente fin dall'infanzia, ma non mi appartengono al punto che io le possa perdonare. Esse anzi dal chiuso dove vivono, esse anzi dalla cicatrice che il loro cadere ha lasciato in me, gridano, gridano con voce di pianto, con voce d'amore, con voce di preghiera: «Ricòrdati e sii giusta». Ricordo e sono giusta. Ho continuato ad amare mia madre perché avevo il cuore di mio padre... Avessi avuto un altro cuore, non so se l'avrei potuta amare dopo aver visto come lei ha tormentato quell'uomo. L'ho continuata ad amare per naturale tendenza dunque e per dovere... Oh! triste cosa essere amati per dovere! Ma mio padre, il padre mio l'ho amato per me e per lei con amore, con quanto amore... Vedrà come ci amammo fino alla fine... Abbozzo su questo argomento perché è troppo doloroso per me. Sento - poiché ho la sensazione che i nostri morti siano in contatto con noi, roteanti intorno a noi, veglianti su noi - sento le braccia di mio papà ancora intorno al mio corpo scosso dai singulti e la sua voce dirmi: «Oh! Maria! La mamma non ci vuole bene!…». E una lama che mi si torce nel cuore... ... Così erano le mie, le nostre feste; eppure, da quei tenaci ottimisti che eravamo, durante tutta la settimana accumulavamo tesori di buona grazia, di gentilezze, nella speranza che la prossima omenica fosse migliore dell'ultima così infelice... Illusioni... Quando poi venivano le grandi feste, e io e papà ci tenevamo: Natale, Pasqua, S. Giuseppe, S. Anna (onomastico


di mamma), i1 compleanno mio, di papà, l'anniversario delle nozze, allora, di prammatica, la «luna» aveva inizio prima e tramontava a festa superata, rovinando tutto. Quando io leggo il Vangelo, fra i molti miracoli di Gesù, mi fermo ammirando alla guarigione dei lunatici. Altro che lebbrosi mondati, ciechi risanati, morti risuscitati! Questo è un miracolo!!! Perché, se tutte le sventure sono sventure, questa d'esser cattivi e di torturare chi vive seco noi è la più grande sventura. È lebbra che corrode l'anima, è cecità che accieca, è sordità che rende sordi alle voci del cuore, è morte al bene, è delitto verso sé stessi e verso il prossimo, è offesa a Dio. Colui che è cattivo è peggio di una calamità naturale, dalla quale non ci si può sottrarre perché voluta da leggi eterne, ma che appunto perché voluta da leggi eterne è molto distanziata, nelle sue crisi, nel tempo. Ci si rassegna perciò alle sventure che vengono a noi dalla natura e dal corso inesorabile degli eventi dei popoli. Forse questo dipende dal fatto che, essendo cose decretate in eterno dall'Eterno e facenti parte della nostra esistenza di viventi sul globo, sono rese sopportabili da una grazia speciale di Dio. Ho visto risorgere la vita sui paesi devastati dai terremoti, dalle eruzioni vulcaniche, ho visto sulle rovine e sulle lave sbocciare nuovamente i fiori, gli uccelli intessere il loro nido, le donne cantare ninnando una cuna, l'uomo tornare cantando dal lavoro, la speranza e l'amore risorgere come fenice dalle ceneri del disastro. Ma la disperazione che un essere umano porta ad altri esseri simili a lui, che per legami di sangue o d'affetto non si possono, non si vogliono ribellare, è tremenda. Frutto di un cuore preda del demone dell'egoismo, della prepotenza, dell'orgoglio, dà una amarezza che accompagna come tossico per tutta la vita. Una amarezza e una vista speciale, che ci potenzia la facoltà di vedere dietro le bugiarde quinte delle convenienze sociali. Sterilisce tutto in cuore la pena che ci viene da un essere che vive per tormentare, preda come è del proprio io malato per non dire colpevole. Sul suo percorso muoiono le speranze, crollano i sogni, si polverizzano tutti i lavori di bene. Rullo compressore dell'umanità che lo circonda, un cuore non buono stende e stritola tutto nella polvere e nel fango: intelligenza, salute, affetti, e lede persino la fede nei cuori, che vengono a dubitare di Dio stesso che non interviene a por fine a tanto male. Guai a scoprire, e in giovane età, la potenza della malvagità umana. L'amara disperazione che provoca in noi la conoscenza di quanto può un nostro simile di male verso i suoi simili è tale che senza un aiuto superno non lo potremmo sopportare e fatalmente saremmo portati al disgusto totale di tutto e di tutti. Fortunatamente Iddio interviene e allora l'anima, pur restando ferita, non muore. Ma muore la salute, qualche volta l'intelletto, sempre la gioia. In mio padre morirono tutte e tre le cose e questo non lo posso perdonare. Fui orfana dell'anima di mio padre, della sua intelligenza, a dodici anni; di lui mi sopravvisse un corpo tornato bambino, e questo lo devo dimenticare? No. Non posso. Se avesse avuto solo il dispiacere del vedersi tradito da un estraneo, mio padre non sarebbe morto nella sua psiche così presto. Sono state le ore familiari, corrodenti come un acido, limanti come uno smeriglio, che me lo hanno distrutto. No. Non lo posso dimenticare. Non sarebbe giusto neppure. Mia mamma è quasi otto anni che è vedova e ancora non sa darsi pace. Ma perché? Perché questo tormento che la pungola e la martoria? Non è ansia d'amore, Padre. É rimorso. Quando la morte ci leva


uno amato è ben diversa la reazione che provoca nei cuori. Dolore maestoso, placido pur nella sua veemenza, se il nostro dolore non è venato da rimorso alcuno. Dolore inquieto, dolore smanioso che fa rimprovero ad altri, a Dio per il primo, di quanto è accaduto (perché in realtà il rimprovero è in noi, contro di noi) quando abbiamo molto che rimorde verso l'estinto. Oh! dolce cosa poter guardare al cielo e dire a colui che è lassù, in Dio: «Io non ti ho mai fatto piangere!». Ho detto: «Non posso perdonare». Lei sa cosa intendo io per perdono. Ci siamo già intesi su ciò. Perdono vuol dire per me: dimenticare il male ricevuto. Ora io sono arrivata, per amore di Dio, a dimenticare il male che ho ricevuto io, perché quel male mi ha gettata, come palla violentemente scagliata al suolo, a rimbalzare in braccio a Gesù, e perciò quel male è divenuto per me bene. Ma non posso, non è mio diritto, dimenticare il male che ricevette mio padre. E quello, non dimenticandolo, non lo perdono. Tutto quello che posso fare è di non rimproverarlo a colei che lo fece e di far conto che non l'abbia compiuto, continuando a rispettarla come fosse stata una compagna perfetta per lo sposo che Dio le aveva concesso, e basta. Più di così, non posso. E non voglio per venerazione di mio padre. Dal 1904 al 1935 sono 31 anni. Un tempo pur lungo! E per tutto questo tempo mio papà ha sofferto per questo. Calpestato il suo cuore, trafitto il suo sentire, sprezzato il suo affetto, distrutta la sua salute, lesionata la sua intelligenza, mortificata fino all'ultima ora la sua dignità di uomo... Ah! che somma di dolore filiale ho a pesarmi sul cuore! Solo posandola sulle spalle di Gesù, mio divino Cireneo, riesco a trascinare questa montagna d'assenzio che ha sempre schiacciato la mia sensibilità di figlia e spremuto dalle mie fibre lacrime di sangue. In questa malattia così tormentosa, così lunga, così avvilente, Lei vede come sono serena... Ma quello che Lei non conosce, perché allora Ella non sapeva neppure che io esistessi, è il mio dolore straziante che per poco mi fa impazzire quando mio padre morì... Ma quello che Lei non vede, perché nessuno fuorché Dio e il mio angelo lo vede, è il mio anelito continuo a papà, la mia nostalgia di papà, il mio chiamare papà, il mio pensare a papà... Quando penso come, cosa soffrì, è come se l'aculeo non straziasse le mie carni ma penetrasse nel mio cuore. E quando vengo a mia volta calpestata, Lei sa come, due sono i nomi che invoco: «Gesù - Papà». I miei due amori, i miei due conforti, le mie due calamite per cui facile mi è il Bene e dolce la Morte che mi aprirà la via per unirmi a Loro... Voghera. Nel settembre 1907 andammo a Voghera. Il Reggimento era stato trasferito là. Persi le suore e le compagne di nuovo, e passai alle scuole comunali non essendovi in questa cittadina nessun Istituto femminile privato. Allora, almeno. Nella nuova scuola mi trovai però molto bene. Ero la prima assoluta perché unica figlia di persone agiate e soprattutto non del luogo. Perciò il solo fatto del mio spontaneo uso della lingua italiana mi metteva molto in alto sulle altre del paese. Poi leggevo molto perché mamma non mi lesinava libri e riviste. Accrescevo così sempre più il mio dono spontaneo di piccola iscrittrice. Avevo una ottima maestra, una vera «mamma», il cui ricordo è luminoso in me. Le compagne erano buone. C'era una, la prediletta, tutta sciancata, una dolce creatura dal


viso di madonna su un corpo da Rigoletto, con la quale andavo molto d'accordo. Era molto buona. Le ho voluto sempre bene e, anche messa in collegio, durante le vacanze l'andai sempre a trovare. La cittadina era brutta e meschina, allora. Aveva strade strette, pavimentate con certi sassi aguzzi che martirizzavano le piante. Ma in compenso aveva bellissimi viali di circonvallazione: una cintura verde, ombrosa, piena di trilli e di voli. E poi la campagna era subito li, a due passi, perché la cittadina era allora molto piccina. Bei paesi rurali pingui di messi e di vigneti la circondavano tutta, e un torrente: la Staffora, dava sensazione di grande fiume con le sue piene spumanti, o coi blocchi di ghiaccio che scoppiavano al disgelo e le sue boschine di acacie in fiore piene di nidi e canti. Che bello andare con papà lungo le prode, rasente alle siepi di biancospino che facevano da confine fra le proprietà e che erano tutte bianche in primavera per i milioni di petali che le coprivano e tutte arrubinate in autunno per i ciuffetti dei minuscoli pomini rossi che le decoravano, così dolci agli uccelli e ai bimbi! Che bello andare, quando la neve ancor resisteva nelle cune ombrose, in cerca di viole - ce n'eran tante nascoste sotto lo strato di foglie cadute in autunno, le dolci mammole così umili e caste!... Che bello andare lungo i campi che verzicavano per il nascente grano o avevano un moto d'onda quando le spighe già altre dicevano di si e di no ai venti, e i papaveri mettevano gocce di sangue fra il verde e i fiordalisi coriandoli di cielo… Che bello andare lungo il torrente chiacchierino sotto i corimbi candidi e profumati delle robinie in fiore, fra i canneti che frusciano sempre, le alberelle che tremolano inesauribilmente, lungo i filari dove a festoni la vite si lancia con le sue ghirlande verdi e i suoi grappoli che divengono di topazio o di rubino al sole!... Quanto bello! Quanto bello! Quanto bello, per chi ti sente, o Dio, tu hai messo ovunque intorno a noi! Senza l'infelicità familiare sarei stata ancor più felice perché al lusso, alle visite, alla vita di città non ci tenevo e preferivo vivere fra la natura di Dio. Ero a Voghera da pochi mesi quando, non so di preciso come, mia mamma venne a conoscere che dalla vicina Casteggio tutti i giovedì un esiguo gruppetto di suore francesi, «Le Adoratrici del SS. Sacramento», provenienti da Orléans e rifugiate lì dopo l'espulsione delle case religiose per la legge Combes, venivano a Voghera a dare lezioni di francese. Mia mamma decise di farmi andare a quelle lezioni. Non ne avevo alcun bisogno perché facevo la quarta maturità e perché ero già avanti. Ma insomma... Io penso sia stato Gesù che volle così. A Voghera papà aveva meno comodità di portarmi a Messa. Crescevo perciò come una paganella e avevo già dieci anni. Cominciava perciò un'età in cui più necessario che mai è l'ausilio della religione. Mia mamma non se ne curava. Le pareva che ne sapessi abbastanza in merito... Andai dunque tutti i giovedì dalle Suore Adoratrici per la lezione di francese. Ma se come studio rimasi dove ero perché, ripeto, ero già molto avanti e le mie altre compagne erano molto indietro, in compenso la mia anima venne rimessa in... comunicazione con Dio. Il filo giaceva, se non spezzato, coperto certo di incrostazioni, da quando avevo perduto il «mio Gesù morto» delle Orsoline. Le care Suore Adoratrici hanno rimesso in efficienza quel filo... cambiando, dirò così, stazione d'arrivo. Non Gesù Crocifisso, ma Gesù-Eucarestia. Il che in fondo è ancora Gesù-Sangue. Con molte insistenze ottennero da mia mamma di prepararmi loro alla Prima Comunione. Nel


settembre 1908, abbreviando di un mese la vacanza estiva a Viareggio, entrai nel loro piccolo Istituto di Casteggio per prepararmi a ricevere Gesù. Le suore erano cinque: la Superiora Suor Giovanna della Croce, una nobile francese molto buona; la vicesuperiora Suor Giovanna (semplicemente); la mia speciale, quella che mi istruiva per la Comunione come mi istruiva per il francese, si chiamava Suor Maria. Alta, bellissima, un viso d'angelo che pareva mandare balenii di cielo. Ed era anche un angelo. Quando or è circa un mese l'Unione Cattolica Malati mi ha mandato la pagella-preghiera di Suor Maria-Gabriella, la trappista santa, sono rimasta dolcemente commossa, perché quel volto assomiglia a quello della angelica Adoratrice che mi preparò a ricevere Gesù. Vissi un mese fra queste suore. Mi volevano molto bene. Pareva loro d'essere tornate nella loro dolce Francia, nel loro monastero dovuto abbandonare con tanto dolore, fra le loro care alunne... Quante cure, quanto affetto! Se non raggiunsi l'estasi dipese proprio solo da me che ero intirizzita da anni di letargo spirituale, e non da loro che più di quel che fecero non avrebbero potuto fare. Avrebbero anche desiderato che la cosa fosse fatta con pompa... Ma mamma decretò diversamente. Usai perciò lo stesso abito e lo stesso velo, candidi ambedue, della Cresima. Nessun ricordo ebbi in quel giorno da mia mamma. Non un libro, non una corona, non una medaglia. Nulla. E neppure permise a papà di venire. Giudicò che papà era «inutile». Solo Gesù sa come questo mi dette dolore…I giorni che precedettero all'avvenimento feci il «ritiro». Giravo, io e Suor Maria, per il piccolo e festoso convento pieno dei fiori d'autunno, guardata con amore e con santa invidia dalle cinque suore e dalle cinque converse... Io credo che mi guardassero con venerazione persino gli abitatori del pollaio... Avevo in testa una coroncina di rose bianche a simboleggiare che ero «la petite fiancée de Jésus»...La sera avanti alla cerimonia trovai il mio lettino pieno di bigliettini d'amore: «Io dormo ma il mio cuore veglia», «Piccola mia, sono Gesù e t'aspetto», «Come è lunga la notte in attesa di te, anima che amo!». Suor Maria mi parlò come può parlare un serafino... Poi al mattino in chiesa, una gentile chiesina bianca e oro come uno scrigno, la cerimonia. Era la prima domenica d'ottobre, festa della Madonna del Rosario. Ufficiava il Rev.do Parroco di Casteggio. Le Suore cantavano con voci di angeli accompagnandosi sull'armonium: «O saint autel qu'environnent les anges... o jour heureux, jour céleste et propice, à vous bénir je consacre mavoix...»; e nel momento in cui Cristo scendeva in me per la prima volta, fra un grande tremore di anima e un brillìo di lacrime che non son pianto ma son trasalimento di gioia, soavissimo il cantico: «Devant Jésus, ployant leurs blanches ailes les chérubins s'inclinent à genoux et Lui, le Roi des splendeurs éternelles se fait petit pour venir jusqu'à nous. Heureux enfants, allez manger le pain des anges. Tous les trésors d'en haut sont ouverts en ce jour. Unissons-nous aux célestes phalanges. Chantons la foi, l'espérance et l'amour. Au Golgotha, brisé par la fatigue, votre Sauveur marcha sans s'arréteì; de tout son San g, pour vous, il fut prodi gue. Si vous l'aimez, vous devez l'imiter. . . » Mamma si comunicò con me perché così le avevano chiesto le Suore. Dopo ci fu la festicciuola, dirò così, umana. I piccoli doni delle Suore, del Sacerdote, tanto cari a me, il pranzo e infine alla sera, prima che io partissi con mamma per tornare a casa, la consacrazione a Maria, ai piedi della quale depositai la mia corona


di rose: «O Marie, o ma vie! A ton cceur maternel j'abandonne ma couronne. Garde-la pour le ciel! ». La mia corona di rose! Maria, la piccola innamorata di Gesù crocifisso, non doveva mai più portare corona di rose. La sua corona sarà sempre di spine, sulla terra, e sulle spine il suo sangue, gemendo da mille ferite, formerà le rose corrusche del dolore che solo nell'eternità si muteranno in rose eterne. Egli, il mio Salvatore, per me aveva dato tutto il suo Sangue, come cantava l'inno eucaristico delle Adoratrici. Io, per amor suo, dovevo dare tutto il mio sangue. L'ho dato. Lo do. Ma non creda che fu da quel momento una fusione perfetta e senza più turbamento. Oh! no! La formazione di Maria-ostia di Gesù fu lunga e laboriosa. Non le ho detto nel principio di questa storia che Dio non si impose a me, ma attese che io andassi a Lui? Opera di seduzione la sua ma non di imposizione. Mi innamorò di Sé e attese. Penso che ogni anima sia come la Vergine avanti l'annunciazione. Ogni anima essendo chiamata a formare Cristo come una sposa novella a formare la sua creatura. Il concepimento di Cristo in noi avviene quando noi diciamo il nostro: «Ecce ancilla Domini». Prima vi è solo l'invito del Signore, portato dal suo angelo, dalla sua ispirazione. Ma il fatto non si compie che quando un'anima, in un trasalimento d'amore, risponde il suo «Sì, voglio». Allora lo Spirito scende ad adombrare l'anima generosa e innamorata, scende col suo fuoco, còn la sua luce, coi suoi doni, e il concepimento ha inizio. Cristo si incarna in noi, non già, lo so bene, come in Maria, ma si incarna e nasce spiritualmente, cresce, si informa e ci informa di Sé e tanto più cresce quanto più l'anima si annichila e si distrugge per far posto a Lui solo, finché, quando è giunta l'ora della massima perfezione concessa a quell'anima, essa dà alla luce sé stessa divenuta un'unica cosa col Cristo talmente cresciuto in lei da aver annullato tutto della creatura amante, restando solo Lui, Amatore. Non so se ho reso bene il concetto di quel che volevo dire. Io, nel giorno della Prima Comunione, ho ripreso il contatto con Gesù ed Egli riprese la sua opera di seduzione dell'anima mia, la quale per allora quasi non se ne avvedeva, così come la terra non 5 'avvede del lavorio nascosto del chicco di grano sprofondato nel solco, il quale pure germina e mette radici finché, un'alba, la terra stupita vede il miracolo d'un filo smeraldino erompere dalla zolla oscura. Ero tornata da pochi giorni a casa quando giunse dalla Francia, povero, malato e ateo, mio zio, fratello di mia mamma. Gli volli subito bene perché mi faceva pietà. Ma egli credo che bene a me non me ne volesse o per lo meno me ne volesse in maniera stranissima. Da quel cervello che è tuttora e che sempre fu: bislacco. Bisogna che faccia un poco di storia di questo disgraziato che fu rovina sua propria e cagione di tanto dolore. Testa dura per eccellenza, fin dai più teneri anni fu sempre il ribelle della famiglia e non si domò né sotto la severità paterna né sotto le cure materne. Mio nonno, che apparteneva alla Magistratura e che per la sua integerrima, severa, ma anche paterna condotta, era quasi sempre proposto a tutore di minori orfani ottenendo riuscite splendide dai suoi pupilli che sapeva guidare con fermezza ma anche con tanta bontà, mio nonno alle cui parole è legato il ravvedimento di molti colpevoli, perché non era solo colui che parla in nome della Legge punitrice ma anche in nome della Bontà che piange vedendosi vilipesa dagli uomini, non riuscì mai a raddrizzare l'animo del figlio, ultimo nato. Il quale fu sempre un ribelle.


Intelligentissimo ma svogliato. Capace di riuscire in qualunque cosa si applicasse ma incostante. Amante del lusso e del divertimento, e per riuscire a stare all'altezza dei ricchi amici, che sempre cercava, faceva debiti che poi toccava a mia nonna, a mia mamma, all'altro mio zio a pagare, con sacrifici, per non addolorare il nonno e far dire del nome di famiglia. Quante notti di copie di processi (allora tutti gli incartamenti processuali venivano copiati a mano) non è costato ai due fratelli questo scavezzacollo! Quante lezioni, date da mia mamma, lezioni private il cui ricavato poteva usarlo per sé stessa e che invece doveva usarlo per tacitare gli obblighi del fratello minore! L'altro mio zio, giunto al suo diciottesimo anno, andò volontario nell'esercito e fece carriera. Uscì così dalle peste. Ma mia mam* ma restò in famiglia e fino al suo 320 anno dovette lavorare per quel poco di buono. Sposata mia madre, egli si mise subito in relazione con una giovane... Nulla di male se la differenza sociale fosse stata l'unica cosa che metteva un interrogativo penoso a questa relazione. Il male è che quella giovane era un compendio di vizio... La volle sposare ugualmente... L'unione fu quale doveva essere: un inferno. Lei si ridette ai suoi facili amori con la stessa libertà di una bestiolina. Chissà mai se mia cugina è realmente figlia di mio zio?... Scene in famiglia perché lui non permetteva quella vita di adulterio, debiti fuori perché i festini coi diversi amanti, mentre il marito era al suo ufficio di gestore delle Ferrovie dello Stato, richiedevano bottiglie di vini e liquori e dolci e carni prelibate... Giunse persino a tentare di sopprimere lentamente, per mezzo del veleno, il marito... Scoperta e minacciata di denunzia, pur di liberarsi del legame coniugale divenuto per lei un ostacolo alla sua vita di lussuria, penetrò nello studio del marito e rubò diverse migliaia di lire. Lui avrebbe dovuto denunciarla, era l'unica 97). Iside Fioravanzi, madre di Maria valtorta, era nata a cremona l'il settembre 1861 da Eliodoro Fioravanzi e da Giuseppina Belfanti. cosa da fare... Invece, dato che - nonostante le corna più numerose di quelle di una mandra di cervi - dato che l'amava, preferì scappare lui all'estero facendo accumulare su di lui dei sospetti vergognosi e lasciando al papà suo la briga di far risultare l'innocenza del figlio, cosa che per puro miracolo si ottenne, e a mzo padre quella di rendere le migliaia di lire rubate da quella donnaccia... Mio padre pagò telegraficamente tutto per amore della moglie e per rispetto dei suoceri e poi continuò a sovvenire quel pazzo del cognato, che girò mezza Europa passando da un impiego all'altro, guadagnando denaro a palate e consumandolo a sacchi... Quando era nel benessere stava zitto, quando era alla fame chiedeva denaro... E mio padre si occupò della figlia (?!?) di mio zio. La mise in collegio levandola all'ambiente di vizio della casa materna, dove era una zia apertamente data al libero amore e sua mamma che continuava ad aver figli da Tizio e Caio, tutti messi sotto l'etichetta del casato di mio zio! !! La vita che questo conduceva all'estero non era certo tale da migliorare le condizioni sue, già scosse dal veleno che anni avanti la cara moglie gli aveva somministrato. Si ammalò dunque, consumando fino all'ultimo soldo e all'ultimo indumento, e una volta ridotto all'assoluta infermità e miseria... venne dal cognato. Il quale cognato lo accolse a braccia aperte, perché mio padre era un buono. Poco male sarebbe stato l'averlo con noi se fosse stato più sano e di corpo e specie di animo. Ma mio zio è ripugnante per il suo ateismo blasfemo. Le assicuro che devo fare


uno sforzo a parlare di lui, a scrivergli di tanto in tanto, a pregare per lui, tanto la sua anima è una sentina d'inferno. Non apre bocca che per insultare Dio, la religione, i sacerdoti e i credenti che egli definisce «bigotti, falsi, viziosi, scemi», e simili altri aggettivi qualificativi. E quest'uomo venne presso a me pochi giorni dopo la mia Prima Comunione! Poi, era malato. I medici, tanto per essere alla loro altezza di penetrazione (!), definirono che era tubercoloso all'ultimo stadio (Bum!!!). Dove l'aveva la tubercolosi? Nel polmone, nel rene, nell'intestino? No certo. Sono passati 35 anni ed è ancora vivo nonostante abbia ormai 75 anni. Nel cuore malvagio, nel cervello blasfemo ha il microbo. Ma non il microbo della tubercolosi, bensì quello della malvagità, dell'ateismo più volterriano che ci sia!!! É un infermo. Quello sì. La sua vitaccia e cure errate gli hanno atrofizzato il movimento nelle gambe. Cammina perciò lentissimamente con le gambe irrigidite, anchilosate dall'anca al piede. Non può dunque fare nulla di impiego pubblico, mentre amministrazioni private e specie presso Pii Istituti le tiene veramente bene, perché la testa è forte e la mano non trema. Possiede anzi il dono di una calligrafia perfetta come un saggio litografico. Ma insomma i dottori sempre illuminati (!), non mai abbastanza lodati per la loro illuminazione (!), decretarono che zio era malato e pericoloso per me, così tenera d'anni. O in casa lui, o in casa io. Insieme in casa, no. Pericolo di morte. Quell'anno ero passata alle complementari perché mamma sognava per me come apice di bellezza culturale di farmi divenire maestra... Maestra io che ho sempre odiato questa professione!! Io sarei stata una maestra zimbello dei miei scolari perché, per tema che avessero a soffrire quello che mia madre-maestra mi aveva fatto soffrire, avrei tutto concesso, tutto perdonato; perché, per tema di divenire acida, autoritaria, ripulsiva ai piccoli come era mia mamma, esemplare perfetto di insegnante (in tutte le virtù negative che fanno di un insegnante un «babau»), perché, per tema di questo, avrei ecceduto verso una eccessiva indulgenza, in una debolezza colpevole. Alle complementari avevo trovato una Direttrice uso mia madre. Impossibile. Era il compendio di tutte quelle qualità che mi avevano fatto soffrire sotto la sferza familiare. Ingiustizia, partigianeria, autoritarietà, severità spietata... era il terrore delle scolaresche!... e tutta la classe insegnatizia le andava dietro perché la Direttrice era potente per protezioni superiori. Io poi, che non portavo regali - mia mamma non cedeva a questa imposizione camorristica - ero fatta segno a tutti i soprusi. La stessa mamma, che non è certo mai stata indulgente, dovette intervenire in mia difesa davanti alle grandinate di rimproveri e di zeri che si abbattevano tutti i giorni e in tutte le materie su me che a scuola andavo preparata da mia mamma!!! Quanto piangere! Io che amavo lo studio come la vita e mi rifugiavo in esso, fonte per me di gioie che non trovavo altrove, nella mia triste casa, ero arrivata a non avere dello studio che il ribrezzo e la tema che abbiamo per cose che ci portano sempre dolore... Sfiduciata, avvilita, studiavo automaticamente senza più gioia, senza più scopo... Tanto ero sempre rimproverata lo stesso. Non bastando, si capisce, la Direttrice e le altre sue satelliti, a casa c'era lo zio: aspro, schernitore, ingiusto, che mi sbeffeggiava ad ogni minima parola, che mi metteva contro mia mamma e persino le mie Suore francesi!... Solo papà restava sempre buono! ... Ma non c'era quasi mai... Lo vedevo solo a cena perché dopo io dovevo andare


a letto per stare poco a contatto con lo zio. Ero divenuta di una ipersensibilità che mi strappava lacrime continue: ero tutta una piaga morale. La mia timidezza naturale, che già si era sempre accresciuta sotto la mano ferrea di mamma, aveva ora raggiunto un diapason che era realmente una malattia. Mi paralizzava. Se penso a me stessa, allora, mi pare di vedere uno di quei poveri cagnuoli senza padrone, randagi, tremanti di freddo, di paura, pieni di ferite, mendicanti un osso spolpato, una ora sola di riposo, una sola carezza, e che tutti prendono a pedate, che tutti cacciano, che tutti tormentano. Poveri paria che scontano quali colpe mai?... Io ero proprio così. Mi volgevo a destra: un rimprovero; a sinistra: uno scherno. Piangevo: ero punita. Studiavo: ero rimproverata. Giocavo. Ero rimproverata. Tacevo. Ero rimproverata. Parlavo. Ero rimproverata. In casa, fuori di casa. Sempre così. La mamma era inquieta con la Direttrice che, col suo colpirmi di brutti voti, indirettamente colpiva l'insegnante Iside Valtorta. Ma lo era per l'insulto fatto a Iside Valtorta. Per il male che faceva a me, no. Anzi ci si metteva anche lei ad aumentare quel male. Una vita d'inferno. Mio papà teneva sodo a non volermi allontanare di casa. Mia mamma, presa fra il rimorso di sacrificare sua figlia e la smania di proteggere il fratello, non sapeva che pesci prendere. Un pretesto ci voleva per persuadere che io divenivo una discola e bisognava mettermi in collegio per punizione e per mio bene. Unica scusa da attaccarcisi per giustificare presso sé stessa, presso papà, presso tutti, l'ingiustizia di sacrificarmi ad un fratello che oltre tutto non era un modello di parente. Il quale fratello, furbo matricolato come è, seppe sfruttare e lavorare molto bene la situazione. In collegio. Breve. Mio padre dovette finire a cedere. Venni sacrificata io. Il 4 marzo 1909, alle 9 di mattina, lasciai la mia casa per il Collegio. Non mi ero mai assentata da casa mia fuorché per quel mese preparatorio alla Prima Comunione. Ma allora la distanza da Voghera a Casteggio era talmente minima che non mi pareva di abbandonare la casa. E poi allora sapevo di andare là per un mese, quasi per vacanza, per ricevere Gesù. Ora mi si schiacciava sotto il verdetto che venivo messa in collegio, lontano tre ore di treno da casa, per degli anni e per castigo. Ecco: questa crudeltà mi rese odioso il fatto e chi lo fece. Ero troppo intelligente per non capire la verità vera delle cose, e avrei preferito che, con sincerità, si fosse detto quella per spiegarmi il perché del mio sacrificio. Il sacrificio mio era ingiusto perché non io ma lo zio doveva esser messo fuori di casa. Ma mi ci sarei rassegnata di più. Ma questo no. Perché dirmi che ero meritevole di punizione, meritevole di esser strappata alla mia casa, a mio padre, mentre non era vero? Perché mia mamma non rifletté su quanto male poteva provocare con questa menzogna e questa ingiustizia? Fino allora avevo di mia mamma paura ma anche stima. Dopo non l'ebbi più perché la vidi ingiusta e insincera. E, devo dire il vero, anche la stima in mio papà ne uscì scossa perché egli non aveva saputo imporsi e difendermi. Ero molto umana e le reazioni umane erano fortissime in me. Per orgoglio partii senza piangere. Ho fin da piccina pensato che il pianto, essendo la cosa più intima e profonda che abbiamo, più ancora dell'amore, va elargito e mostrato solo a chi merita di vederci nel nostro profondo più profondo. Tutti gli altri, che non ci amano di un amore perfetto, non hanno diritto di vedere le nostre lacrime. Perciò io ho pianto solo con mio papà, con Dio e con pochi altri che stimo come papà e venero come


Dio. Partii dunque senza piangere. Per orgoglio e per sprezzo. Sicuro: per sprezzo. Sentivo che non ero amata. Tanto è vero che mi si sacrificava a un poco di buono. Perciò il cuore mi si serrava di sprezzo. Non ho pianto. Dentro mi sentivo spezzare a vedermi respinta, io che ero la figlia, a vedermi posposta a un fratello indegno, ma ho indurito me stessa, ho conserto le braccia fino a farmele dolere per impedire di andarsi ad allacciare al collo di mia madre supplicandola di tenermi sul cuore... E naturalmente fui giudicata: insensibile! Alle 11 arrivammo a Monza, alla porta del grande Collegio delle Suore di Carità di Maria Ss. Bambina. Le suore della Beata Capitanio. Mi ricordo esattamente il mio soffrire di quell'ora... Ma non piansi. Detti solo un grande grido quando fui strappata a mia madre... E vedendo che il mio grido, che era realmente grido di cuore che si spezza, rimase senza eco... ho sentito spezzarsi un altro vincolo fra me e mia madre e abbassarsi ancora di più la porta aperta fra me e colei che mi ha generata e data alla vita senza avermi mai capita. Senza aver mai capito il cuore della sua creatura. Dopo quel grido, silenzio. Davanti al fatto compiuto io non ho mai avuto inutili querimonie. Mi indurisco e muoio in un silenzio più pernicioso, più uccidente di qualsiasi esplosione di dolore. Le Suore erano molte e molto buone. Il Collegio bello, vasto, luminoso, pieno di cortili pieni di sole e di fontanelle, di portici luminosi, e con un giardino vasto come la pineta fino al Marco Polo: bellissimo. Per distrarmi mi fecero girare tutta la casa. Intanto le mie compagne finivano il pasto di mezzogiorno e fui presentata a loro. Erano care e buone... ma io, timida come ero, soffrii moltissimo a vedermi osservata da tanta gente: 150 bimbe, 40 suore e 40 converse. Mi pareva d'essere S. Bartolomeo scorticato! Mi nascondevo dietro la mia Suora, rispondevo a monosillabi e spesso col capo come i ciuchini. Oh! le mie compagne furono molto buone a continuare ad accarezzarmi, così scontrosa come ero! Mi affidarono a tre alunne: Isabella Gilardi, una biondina ridente, figlia unica come me, la quale avrebbe dovuto occuparsi di me come una mammina, e lo fece con tanto amore, povera Isa morta così presto, così angosciata, uccisa dalle infedeltà del marito che le impose l'amante in casa, morta così presto e così disperata di lasciare i suoi teneri orfanelli! L'altra: Lina Cocini, un gran di pepe, nera, magra, tutta moto e tutta lingua, non taceva neanche a metterle un lucchetto sulla lingua, fu mia compagna di classe di studio. Povera Lina, morta lei pure a 23 anni, uccisa da una peritonite fulminante. Le fui sincera amica per virtù di contrasto: io quieta e lei un moto perpetuo, io silenziosa e lei chiacchierina come una passera, io riservata e lei esuberante nelle sue dimostrazioni. La terza tuttora vivente: Gina Ferrari, un angelo pio... e questa mi fu data per compagna di refettorio, di chiesa e di classe di lavoro. Cara Gina che non disubbidiva mai in nulla per fare «fioretti» a Gesù! Ma anche le altre 18 della classe erano buone: la prima superiore, divisa in prima tecnica e in prima interna, perché allora nel mio Collegio non vi erano le scuole magistrali ma solo le tecniche o quelle classi di educazione generale, detta interna, il cui programma era un misto di tecnica e di complementare, atte perciò a dare a signorine di buona società la cultura necessaria al loro stato ma senza licenze di sorta. Si era in tempo di esami trimestrali e il giorno dopo feci il mio esamino. Mi avevano fatto alzare alle nove, tre ore dopo le altre, perché quell'angelo della Superiora non amava spaurire nessuno con la


disciplina esagerata e ci portava al «Regolamento» senza strappi rudi. Io veramente alle sette al massimo nell'inverno, alle sei e prima ancora d'estate, ero sempre in piedi, a casa mia. Ma chi lo poteva pensare che una figlia unica fosse trattata così alla militare? La Suora mi aveva aiutata a vestirmi, lasciandomi i miei abiti di casa, perfino il fiocco rosso nei capelli mi lasciò... Poi scendemmo nella Cappella. Ricordo che incontrai la vicesuperiora degli studi. Una suorina piccina, piena di vita, armata di occhiali azzurri... Questo e il saperla superiora degli studi e professoressa di matematica, la mia materia paurosa, mi fecero tremare. Invece, povera suora!, fu tanto buona con me per quanto si rammaricasse sempre che proprio solo nella sua materia io non valessi nulla!... Mi fece una carezza e mi chiamò passerotto. Questo mi rincuorò un poco. Entrammo in cappella. Che bella! Azzurra e oro come mi figuravo allora il cielo. La Madonna del Sacro Cuore di Gesù sulla pala d'altare. Ai fianchi S. Modestino e S. Tarcisio, i due patroni, i martiri bambini: bellissimi. Poi il mio S. Giuseppe e il Sacro Cuore. E fiori, fiori, fiori e sole e il giardino che si vedeva dai finestroni aperti e canti di uccelli... Suor Francesca mi fece pregare e poi mi chiese se volevo vedere il corpo di S. Modestino martire deposto sotto l'altare. Memore del mio Gesù morto che m'era rimasto impresso col suo verismo di piaghe, ricusai. Avevo paura di vedere altre piaghe. Quelle di Gesù sta bene, ma altre no davvero. Ma Suor Francesca mi rassicurò. Infatti vidi un bel giovinetto di cera, modellato alla perfezione, steso su un materassino porpureo, vestito da giovane romano, i sandali ai piedi, la veste-lunga orlata di una greca ricamata, la testa bellissima posata su un guanciale con posa di dolce abbandono, nelle mani la spiga e il grappolo in una e la palma nell'altra. Pareva dormire assorto in un sogno beato. Del martirio subito, un piccolo segno nel collo di neve, là dove la spada aprì la vena, là dove uscì la vita ed entrò la gloria... Questo il mio incontro con Modestino, il giovinetto martire di Cristo. Portata in refettorio non mangiai nulla. Il latte non lo potevo bere per via del mio stomaco, e così per quella mattina rimasi senza nulla. Ma il solo fatto che nessuno mi rimproverava mi faceva contenta e sazia. Andammo nella classe. Condotta al mio banco feci come le altre il mio esame. Era francese scritto. Io ero già alla sintassi e le altre alle loro prime armi. Un trionfo dunque che mi rinfrancò e mi fece sorridere di gioia. Le compagne mi si serrarono intorno con ammirazione e la Suora di francese mi accarezzò per premio. Oh! fa pur bene un poco di gioia! Il giorno dopo era esame di italiano. Ricordo ancora il tema: «Bella è la neve che cade dal cielo, ma se si pensasse a chi soffre.. La Suora professoressa d'italiano era giovanissima. Ancora postulante. Di Venezia. Bella, con occhioni da spagnola, un trionfo di trecce sul capo senza cuffia, una magnifica dentatura, e buona, ridente, intelligentissima. Poi scoprii che era un serafino in terra. Si chiamava Angela, divenuta poi Suor Immacolata dopo la vestizione. Due nomi che erano di predestinazione, perché angela fu sempre, angela della terra che spiccava continuamente il suo volo ai piedi di Dio, e pura come il suo nome, di una purezza che traspariva da tutto il suo essere. Quando parlava di Dio questo serafino si accendeva tutta come una neve sotto un tramonto di porpora... Pareva che le fiamme interne trasparissero alla superficie... Morì giovanissima, senza malattia vera e propria, ma con solo un subitaneo languore che la distrusse, lei sana e forte, in pochi giorni, non


saputo definire dai medici, e morì proprio il giorno 8 settembre, festa dell'Ordine di Maria Bambina. L'amore la prese, l'amore la colse, l'amore la spense per portarla a fiorire in Cielo. Il mio tema fu giudicato un capolavoro. Sapevo di esser forte in italiano ma il voto massimo avuto, un 10, mi stupì molto. E più ancora mi stupì l'esser pubblicamente lodata. Non ero usa agli elogi. Vedevo per la prima volta che non è vero che «a chi fa il suo dovere non va fatto elogio», secondo il detto di mia madre. Qui avevo fatto il mio dovere e venivo premiata. Questo mi scaldava il cuore e mi dava di nuovo fiducia in me stessa. Descrivere era il mio forte; descrivere perciò la nevicata mi era stato facilissimo. Non ho mai amato la neve. É bianca ma è così gelida! Preferisco il sole. Bisogna ricordarsi che sono nata nei paesi del sole e dal sole ho tratto vita quando ero un povero cucciolo abbandonato nei solchi... Anche la parte di riflessione del tema, dove tutte le altre erano miseramente cadute, mi era stata facile. Osservatrice come ero, infinite volte avevo notato le sofferenze dei poveri, dei diseredati... Mesta per natura e divenuta ancor più mesta per tenore di vita familiare, comprendevo il dolore in tutte le sue manifestazioni. Quante volte, col nasetto schiacciato dietro i vetri della finestra, nei miei tristi pomeriggi di bimba sola, nelle mie domeniche sciupate dalle diatribe familiari, non avevo notato, fra il velo delle lacrime, altre miserie, diverse di forma ma uguali di pena, passare fra il turbinare dei fiocchi bianchi… Fui così senza fatica e con poco merito, perché il lavoro m'era sembrato facilissimo, proclamata la prima della classe nelle lingue italiana e francese e nelle materie orali. Nella matematica... fui fedele alla mia asineria. Nel fabbricarmi si devono essere dimenticati fuori dalla testa la cellula delle matematiche. É un vuoto assoluto che né per sforzi miei, né per sforzi altrui si è mai colmato. Sono completamente deficiente in fatto di calcolo. Ma non me ne dolgo molto. Penso che anche Gesù è come me. Lui pure non è un calcolatore. Se lo fosse stato e se lo fosse non sarebbe quello che è. Ma Egli è poeta: il suo Vangelo lo mostra; Egli è abile diplomatico, anche questo lo svela il Vangelo; Egli è Medico, è Maestro, è Amico, è Salvatore, è tutto ma non è un calcolatore. E come tutti i non calcolatori è generoso oltre misura, misericordioso oltre misura, paziente oltre misura, buono oltre misura. E questo mi dà tanta speranza... Con un idealista c'è sempre bene a sperare. Con un matematico mai. E se Dio fosse un matematico sempre intento ai calcoli esatti, chi potrebbe sperare di salvarsi? Ma Gesù non è matematico. Non fa parlare la scienza ma il cuore, non ragiona con la scienza ma col cuore, anzi ragiona unicamente con la scienza del cuore e chi sa prenderlo da quel lato tutto ottiene da Lui. Io pure ragiono con la scienza del cuore, io pure, nella vita pratica e in quella dello spirito, sono un'idealista, una generosa, una prodiga che non tira mai le somme del dare e dell'avere. Do, do, do e non mi curo d'altro. Mi fido del Salvatore, del Fratello, dell'Amico, del Maestro, del mio Re e vado avanti, così, guardando Lui solo... Ma torniamo al Collegio. Dopo dieci giorni vennero a trovarmi papà e mamma. Era il mio compleanno e papà era voluto venire a trovarmi. Quando venni chiamata nel salone delle visite sentii un grande batticuore... Perché infine la ferita ora si sarebbe riaperta... e cominciava appena a rimarginarsi. La Superiora, una ottima educatrice materna, di carattere dolce, uguale, che faceva ubbidire con amore anche le più riottose, era parente di un amico nostro, ufficiale medico. Uno


dei medici che avevano decretato la pericolosità del mio zio (?!). Un bell'asino, via! Ma in parte gli devo esser grata perché nel collegio fui felice. Non grata per avermi levata a papà nell'ultimo periodo della sua integrità mentale. Ma dirò in avanti!... Dunque la Superiora, che aveva già capito il mio acciaio, mi chiamò in disparte e mi chiese «la parola d'onore che non avrei pianto». La parola d'onore di una bimba! Certuni rideranno sentendo parlare di ciò. Ma la Superiora aveva capito chi ero io, di che tempra fosse fatto il mio io, e mi trattò come una persona adulta. Prima di dare la mia parola riflettei qualche minuto... e poi la detti semplicemente e fermamente e fui fedele ad essa. Nella vita ho sempre fatto così. Ho riflettuto prima di iniziare o di promettere una cosa. Ma quando la mia coscienza mi diceva: «Puoi promettere, puoi principiare», ho dato la mia parola, a me stessa o ad altri a seconda dei casi, e l'ho sempre rispettata fino a cosa compiuta. Con virilità, con onestà, con santità. Poiché è santità anche l'essere fedeli alle promesse che ci facciamo, o facciamo al prossimo, o facciamo a Dio. Andai dunque in sala, parlai coi miei e, per quanto dentro piangessi con tutte le mie lacrime di figlia, mi mostrai serena. Li accompagnai alla porta con un sorriso come la più veterana delle collegiali. Dopo... eh! dopo andai a piangere nell'unico posto dove noi collegiali si sia realmente sole, posto non poetico ma segreto come nessun altro. Ho sempre pianto là dentro io, perché neppure in chiesa mi sentivo così sola come in quell'angolino straumano... In chiesa c'era sempre qualche suora, qualche conversa, qualche compagna, e io ho sempre avuto un grande pudore del mio soffrire. Non mi è mai neppure piaciuto essere compianta perché soffrivo. Penso che il mendicare conforti, l'andare piagnucolando presso Tizio, presso Caio, sia senza dignità, sia prova di infantilismo morale ed è anche sempre prova di non eccessivo dolore. Perché il vero dolore, il dolore sovrano è dignitoso nelle sue manifestazioni. Esso sa benissimo che nessuna parola umana è atta a levarci la sua freccia dal cuore... Solo Dio, versando dal Cielo i suoi conforti sulla povera creatura che si torce sotto la pugnalata di un dolore vero, può mettere un calmante sovrumano nell'ardore della ferita. L'uomo no. La maggioranza degli uomini, anzi, ottiene proprio l'opposto del desiderato e del prefisso. Con le loro parole difficilmente suggerite da una vera luce interiore di comprensione e d'amore, con le stesse loro dimostrazioni d'affetto, spesso e volentieri intempestive ed esagerate, urtano ed eccitano invece di medicare e di placare. Qualcuno possiede, per grazia speciale data da Dio, il segreto di consolare. Ma la schiera di questi «qualcuno», che sono i veri consolatori dei fratelli, è così esigua, così esigua!... Si ritrova essa fra i veri santi in terra e fra coloro che hanno molto pianto e molto sofferto, senza divenire acidi sotto l'azione del dolore, cosa che talora, nei meno buoni, avviene. Sì, perché il dolore, maestro della vita, migliora i migliori che riconoscono il suo volto e comprendono quale crisma regale sia la sofferenza e quale sia la sorgente che stilla questo crisma, ma rende più aspri, più ribelli, più egoisti i meno buoni. Vi sono molti aforismi per definire l'uomo, ma io penso che uno dei più esatti è quello che dice: «Dimmi come soffri, come sai soffrire, mostrami che reazioni suscita in te il dolore, e ti dirò che uomo sei». Sì. Religione, amor di patria, amor di figlia, amor di sposa, amor di madre, virtù sociali, tutto si mostra nella sua vera natura sotto la reazione del dolore. Il vero credente bacia


piangendo la croce e se la stringe al cuore dicendo: «Grazie, Signore, di farmi soffrire e di rendermi così simile a Te». Il vero patriota soffre virilmente per amore di Patria, e tanto più questa Patria è cagione a lui di dolore, tanto più egli la ama e la serve con un amore perfetto. Il figlio, realmente degno di tal nome, più ama e soffre per coloro da cui trasse la vita e più per loro si sacrifica in olocausto umile e grande di obbedienza, di rispetto, di affetto, senza curarsi se i genitori siano degni di quell'affetto, senza tener conto delle colpe loro, che egli vede, ma che non giudica e soprattutto non punisce, perché nel suo vero amore trova il segreto di tutti i perdoni, ossia di tutte le indulgenze. La sposa, o il marito che è realmente il coniuge del compagno, la carne unica con essa, colui che Dio unì e che forza e evento umano non può, non deve sciogliere, sa trovare in questo suo amore fiorito in un'ora di fede reciproca, e ferito dall'offesa dell'altro, ma che da parte sua nòn conosce sfiorire, la forza di rispondere con bontà all'altrui malvagità, con fedeltà all'altrui disamore, con virtù all'altrui non virtù, con dedizione all'altrui egoismo, col perdono a tutte le offese del compagno che calpesta il vincolo sacro ed eterno del sacramento e dell'amore. La madre, il padre realmente degni di tal nome non amano più di tutti il figlio che spreme dal loro cuore lacrime di sangne perché è malato nel corpo o devastato nell'anima? Quali sacrifici, quali somme di amore per contendere un figlio alla morte fisica o strapparlo alla morte morale! Se è vero che un figlio sano, bello, buono, oggetto di orgoglio per i suoi dà un senso di calma, di fiducia, di riposo, come è pur vero che tutte le industrie, tutti i pensieri, tutti i sacrifici, tanto più meritori perché l'anima sente che sono inutili, vanno spesi e prodigati per colui, fra i figli, che è cagione di dolore. Ho fatto una lunga digressione. Ma sento che Lei mi capisce. È uno dei pochi che hanno quel dono intellettivo, ben più grande della normale intelligenza, di comprendere i cuori. Io nulla so della sua vita, Padre, ma ho l'impressione che Lei non abbia avuto un'infanzia, una fanciullezza, una giovinezza priva di lacrime. Sa troppo capire chi soffre per non avere sofferto Lei stesso. Altrimenti dovrei pensare che Dio è talmente in Lei con la sua capacità infinita di capire e di amare che la sua personalità di uomo, sempre limitato nelle capacità intellettive, viene abrogata, superata, e Dio agisce, capisce, opera e consola in Lei, al posto di Lei. Ma torniamo al mio Collegio. La mia Superiora, me lo disse poi molti anni dopo, trasse da quella mia fedeltà alla parola data i più belli auspici sulla mia riuscita morale e spirituale, e da quel momento mi amò più ancora. Aveva capito che il «Valtortino», se era piccolo, timido, con apparenza morale comune e di fragilità fisica, era invece in realtà di una stoffa buona, fatta di generosità, di fermezza, di fortezza, di fedeltà. Sì. Ho sempre posseduto queste virtù, come mazzo di fiori coltivati in me da Dio e che io ho colti e dispensati in tutte le ore della vita ai miei fratelli. Esse sono in me, tenute legate dal cordone d'oro dell'amore. Un grande amore per Dio e per il mio prossimo. Questo sempre visibile e in atto, quello di Dio alle volte agente a mia stessa insaputa, per lavorio interno dell'anima che, dal momento che concepì Cristo, per spirituale adesione al suo desiderio d'amore, non ha mai cessato di agire e operare nell'amore. E la mia vita di collegiale sempre più si organizzò e divenne da me sempre più amata. Sveglia alle 6 i giorni feriali, alle 7 alla domenica e ai giorni di festa. Alle 6,30 o alle 7,30 in chiesa per la S. Messa e preghiere. Alle 8 meno un quarto


colazione, breve ricreazione, studio delle lezioni compiuto passeggiando sotto i portici o nell'immenso salone del Teatro nei mesi freddi. Alle 9 meno un quarto inizio delle lezioni di un' ora ciascuna. A mezzodì pranzo. Dal tocco al tocco e 3/4 ricreazione. Poi ognuna alle proprie occupazioni di lavoro, di studio, di musica, di pittura ecc. ecc. fino alle 16. Alle 16 merenda, ricreazione, poi compiti e lezioni fino alle 18,30. Orazioni della sera in chiesa e benedizione eucaristica in tempi di novene o nei mesi di maggio e giugno. Cena alle 19. Ricreazione dalle 19,30 alle 20,30. Poi, dopo il canto del «Sub tuum praesidium» davanti all'Immacolata, le piccole a letto, le grandi alzate fino alle 21,30 e anche oltre in tempi d'esami. E poi a nanna. Al giovedì e alla domenica passeggiata per la città o al Parco a seconda della stagione. D'estate tutte le sere passeggiata in campagna fra i campi pieni di spighe d'oro. Durante il carnevale cinematografo e recite. Di tanto in tanto recite presso altri istituti che ci invitavano ai loro spettacoli, concerti al Conservatorio di Milano o in altre sale. A primavera gitepremio in Brianza e sui laghi. Dal 10 luglio al 10 ottobre vacanze a casa. Vitto ottimo e abbondante, assistenza medica assidua, riscaldamento generale con termosifone, allegria, bellezza, signorilità e bontà. Io ci stavo benone. Sono stata in Collegio dal 4 marzo 1909 al 23 febbraio 1913: cinque annate scolastiche e quattro anni solari. Solari non solo per durata di 365 giorni ma per la letizia veramente solare di quel tempo. Le mie compagne, tutte molto amate in famiglia, molte persino viziate, trovavano quella disciplina molto severa e se ne lamentavano. Io trovavo che non avevo mai sentito tanto poco la disciplina come là dentro. Lo studio mi piaceva e là era bello studiare perché la lode era stimolo continuo alle volonterose. Studiavo dunque con gioia e con merito ed ero sempre all'ordine del giorno. L'ordine, l'ubbidienza non mi pesavano, l'educazione neppure. Perciò ero sempre citata a modello. In 5 anni non ebbi mai una punizione. Le ho detto che fin da piccola io agivo bene per orgoglio, per non avere da chiedere scusa. In secondo luogo agivo bene per far contento papà e per evitare i castighi di mamma. Ma qui, nel mio Collegio, studiai bene, fui una collegiale perfetta - lo devo dire perché è verità e non temo smentite: le mie Suore sono ancora vive e possono confermare il mio asserto - unicamente per amore. Avevo notato che le Suore, queste madri-vergini, giubilavano realmente quando le allieve corrispondevano alle loro cure, mentre si rattristavano e soffrivano quando, nonostante tutti i loro amorevoli sforzi, una ragazza rimaneva svogliata, indisciplinata, ribelle. Io non volli mai rattristare le mie Suore, che mi amavano come mia madre non mi aveva amata e che io amavo con una riconoscenza che dopo trent'anni di separazione non ha conosciuto langnidezze. Suor Rosa, la vice superiora degli studi, soleva dire: «Si lamentano dei superiori quegli alunni di cui i superiori hanno molto a lamentarsi». E una grande verità. Io, che ho sempre fatto il mio dovere, non ho da lamentarmi dei miei superiori così come loro non hanno a lamentarsi di me, e me lo mostrano in tutti i modi. Anche le compagne mi hanno voluto e mi vogliono tuttora bene. Sono sempre andata d'accordo con tutte e se anche certe manie, certe superbiette, certi egoismi delle mie compagne non mi piacevano, le ho sempre compatite, cercando di farle ragionare con pazienza per modificare tendenze naturali in loro che erano bimbe ricche e felici... Io ero ricca ma non felice, sapevo il sapore del


pianto, e la vita aveva perciò per me luci diverse dalle loro. Quante confidenze, quanti piccoli segreti e quanti segreti aiuti ho dato alle mie sorelline d'anima!... Possedevo naturalmente la difficile qualità del silenzio. Sapevo ascoltare, consolare e tacere. Il collegio è un piccolo mondo. Vi è di tutto: tutte le classi sociali, tutti i caratteri, tutte le contingenze: dolori, gioie, speranze nostre e riflesse in noi dalla vita di fuori. Tutto è comune fra quella piccola società: la pena che colpisce una è divisa dalle altre; lutti familiari, sventure, disastri che colpiscono una fan piangere tutte; gioie, nascite, nozze che vengono a rallegrare una rallegrano le altre. E anche le Suore hanno i loro affetti e le loro croci. Intime, della comunità, e esterne della loro casa abbandonata per amore di Gesù. Chi sono quegli stolti che dicono che l'abito monacale estingue gli affetti? Ho visto soffrire acutamente le mie Suore in certe ore di strazio... Davanti a me, di cui erano sicure della comprensione e della prudenza, sono sgorgate molte lacrime delle mie Suore... Qualche volta si rifugiavano nella mia stanzina di studio - perché ebbi una stanzina tutta mia, per motivi che le dirò poi - e li lasciavano che il loro cuore traboccasse... Povere care Suore! Io le lasciavo piangere, ascoltavo quello che mi dicevano, intuivo quel che non mi dicevano, pregavo Gesù di consolarle e, per mio conto, davo loro il mio amore. Partivano di là rasserenate. Io pure mi confidavo in loro. Poco, perché ero molto chiusa, timida, pudica circa i miei sentimenti. Ma insomma ci si intendeva anche senza troppe parole. Lo sguardo, l'ardore del volto, il tremito della voce dicevano quello che io mi vergognavo di dire. Ero amata molto. Una naturale giustezza di giudizio faceva si che le mie riflessioni difficilmente fossero errate. La mia Superiora diceva sempre a mamma: «Eh! Maria è una donnina molto assennata. Non le sfugge nulla e occorre vigilarsi molto anche noi Suore perché, se sbagliamo, con bel garbo ce lo fa osservare e devo convenire che ha proprio ragione!». Le compagne poi mi adoravano ed erano orgogliose di me per la mia intelligenza. Molto più orgogliose di me stessa che sentivo che non potevo gloriarmi di questo dono di Dio, ma solo dovevo darne lode a Lui e usarlo in pro delle mie condiscepole. Tutte le lettere a prelati, ad autorità, tutti i saggi di letteratura da leggersi nelle accademie, tutti i temi di imitazione sono usciti da questa mia zucca... Mi pareva di essere un baco da seta che fila, fila, fila il suo secreto vischioso e intreccia, intreccia, intreccia il suo capolavoro... Senza merito e senza fatica. Ma questo è tutto lato umano. Mi spiace perdere tempo a parlarne, anche perché devo dire di me del bene. Ma Lei si è raccomandato che le dica il bene e il male. E io lo dico. Ma ora entro in un argomento che le piacerà di più e che mi piace di più. Prima, però, le dirò cosa studiai. Il primo e il secondo anno istruzione interna. Poi il terzo, dopo la malattia di mio papà, avvenuta nella primavera del 1910, mia mamma, che ormai era padrona assoluta di tutto, non essendoci più neppure l'ombra della volontà da parte di mio babbo, impose la sua volontà che non va discussa e dovetti fare le tecniche. Mamma voleva le complementari e poi le normali, fissa nel suo ideale della «figlia maestra». Ma le Suore fecero notare che avrei dovuto uscire di collegio e frequentare le scuole pubbliche come privatista e anche che, essendo assolutamente inetta al disegno, non potevo frequentare le normali. Mia mamma allora opinò per le tecniche. Peggio che mai! Pensi che la mia capacità matematica si era arenata davanti alle frazioni... Come un


mulo caparbio il mio cervello si era rifiutato di proseguire nel calcolo. Non capivo nulla: le lezioni di aritmetica, geometria, computisteria erano un supplizio sterile. Arrivavo a sentirmi male per lo sforzo di capire, ma non capivo nulla. Mi pareva parlassero giapponese, africano, esquimese!!! Pensi se era il caso di parlare di tecniche! In fondo non ne avevo bisogno di un impiego... Ma se proprio mi si voleva mettere in mano il pezzo di carta di una licenza, fosse almeno stata di studi classici dove riuscivo tanto bene. Pregai, supplicai in questo senso. Le Suore pregarono e supplicarono in questo senso. Niente. Mia madre, fedele al suo: «Ho detto e ho detto», fu inesorabile. Feci in un anno le tre tecniche... e fu una solenne bocciatura nella matematica, geometria e computisteria. Per tutto il resto voti massimi... Mi ero sciupata fino ad ammalarmi, mi ero distrutta di lacrime e di fatica senza scopo... Come sempre mia mamma si era posta di traverso sulla mia vita e mi aveva rovinata... E mi ha rovinata... E mi ha sciupato un pezzo della mia esistenza felice di collegiale... Mah! Tornata in Collegio, malatissima, per l'esame di ottobre le Suore ottennero di farmi are tutto il programma classico durante i restanti mesi di educazione. E lo ottennero. Ma che mi è valso? Che è servito quella povera licenza sciupata da voti bassi nelle tre materie esatte? E che mi è servito quello studio così massacrante per cui in meno di venti mesi ho esaurito tutto il programma di studi di ginnasio e liceo? Ho avuto delle soddisfazioni intime, ma un utile no. E allora? Mah! Mah! E sempre: Mah! Ecco perché durante i due ultimi anni scolastici io ebbi una stanza di studio per me sola, dove lavoravo, lavoravo, lavoravo per dodici ore al giorno. Del resto furono ore di gioia, perché le materie letterarie sono amatissime da me. E ora parliamo dello spirito, della vita dello spirito. Nel mio Collegio, come fiore in aiuola propizia, come pianta portata dall'ombra a sole, come arbusto inselvatichito che sente su sé la mano del giardiniere, sono sbocciata in altezza, in intelligenza, in sapere. Ma soprattutto sono sbocciata in Cristo. Come le ho detto in principio di questa narrazione, il primo incontro avvenne «pria che fuor di puerizia fossi» là nella Cappella delle Orsoline dove, con tutta l'innocente confidenza dell'infanzia, ho amato Gesù che per me era morto fra tanto dolore. Poi... avevo perduto di vista il mio Dio. Il contatto si era rotto, proprio come un filo che si spezza sotto un peso soverchio di cose inutili. Le Adoratrici del Ss. Sacramento avevano riallacciato il filo spezzato. Ma, certo per mia incapacità, la corrente non si era stabilita. Troppi anni di inerzia spirituale erano trascorsi e l'anima era caduta in un letargo dal quale stentava ad uscire. Gesù non mi sforzava. Avrebbe potuto scuotermi duramente, mediante qualche dolore, mediante qualche altra cosa voluta dalla sua volontà. Ma non lo fece. Attese. Mi amò solo, il mio caro Gesù... Ora è giusto che io lo ami anche senza sentire le sue carezze, perché io per tanto tempo sono stata così apatica, così intontita da non sentire le sue. Giunta in Collegio, fin dai primi giorni, ho sentito che la mia anima si volgeva di nuovo a Lui. Non diversamente deve sentire l'albero a primavera, uscendo dal suo letargico sonno invernale. Su dalle radici, sprofondate nel suolo, una linfa, che altro non èche molecola di sole scesa nelle zolle dianzi fredde ed ora tiepide di raggi d'oro, sale per il tronco brullo, mette un brivido nella scorza ruvida, un sangue nel legno compatto, una vita nel midollo semimorto, si spinge, per i rami, verso la cima, inturgidisce le


gemme appena abbozzate, le gonfia, le apre in un miracolo di nuova fronda, sparge bocci e corolle, avviva gli ovari e li rende fecondi, suscita i vegetali connubi fra fiore e fiore, dà moto al polline fecondatore, crea il trionfo del frutto novello, fa dell'albero, dianzi triste e scheletrito, un poema di vita utile e feconda. Io pure ho sentito qualcosa scendere in me, sciogliere il ghiaccio del cuore, darmi un moto, un palpito, una luce dove prima era morte e buio... S. Giuseppe, colui che tenendomi sulle paterne sue ginocchia m'aveva lavata per primo l'anima nel Sangue di Cristo, mi prendeva ora per mano e mi conduceva a Gesù. Ero appena in Collegio da sei giorni quando cominciò la cara novena di S. Giuseppe, e vi ero da quindici quando ebbe luogo la Messa solenne in onore del Santo che era anche il Santo della mia Superiora. Il sole di Cristo si alzava sulla mia notte... Mi sono sempre molto piaciute le funzioni liturgiche solenni. Quella pompa intorno al Santo dei Santi, quella musica sacra, soave e solenne, quell'aroma di incensi che si consumano davanti all'altare, in fragranza e in fuoco, quel lodare Dio e i suoi Santi in una cornice di fasto mi hanno sempre toccato il cuore. E mi hanno dato una misura infinitesimale di quel che è e sarà, nei secoli dei secoli, l'eterna funzione di osanna all'Agnello nei beati cieli di Dio. E, fin da allora, hanno messo in me una nostalgia delle teodie celesti, un'ansia di andare lassù per unire la mia voce a quella delle schiere beate la cui vita è adorare la Trinità santa e sperdersi nella gioia di tale adorazione. Nel mio Collegio la religione informava di sé tutta la giornata. Ma era una religione luminosa, aperta, fiduciosa. Non lunghe estenuanti preghiere ma il costante breve richiamo a Dio, non tremore del giudizio suo ma fiducia nella bontà del Padre ci veniva inculcato. Non imposta mai la religione; ma venivamo portate a desiderarla senza accorgercene neppure, tanto era soave la sua pratica, dolce il modo delle Maestre che vivevano di essa religione, tanto tutto era attrattiva nella vita pia che ci facevano vivere. La giornata si iniziava con la S. Messa, e questa era per tutte, ma se una non si sentiva di accostarsi alla mensa eucaristica era padronissima di non farlo. Nessuno le chiedeva o le diceva nulla in merito. I modi delle Suore non cambiavano davanti all'inerzia spirituale di qualche loro figliuola. Certo avranno raddoppiato le preghiere per questa anima assopita, ma non dicevano nulla direttamente a lei. Penso che questo sia il metodo migliore, l'unico anzi da tenersi in materia così delicata quale è la vita dell'anima. Preghiera e penitenza per ottenere luce ai cuori abbuiati ma non più di questo. La religiosità altro non è che vita di amore, e gli amori, per esser veri, devono essere spontanei. Se vengono imposti cessano automaticamente di essere amore e divengono onere pesante e antipatico. Bisogna saper portare i cuori ad amare senza che questa industria sia manifesta. Le mie Suore eccellevano in quest'arte sublime. Ci educavano alla vita di fede così dolcemente, con tocchi così leggeri e quasi insensibili, che noi ci trovavamo permeate di religiosità senza accorgerci neppure che un lavoro continuo in quel senso veniva fatto. Così come non forzavano alla pietà, ugualmente non spronavano all'esaltazione della pietà. Anche qui avevano una guida molto retta, la quale si limitava a sorvegliare le tendenze delle nostre anime giovanette senza fare nulla per svegliare in noi quelle effimere febbri mistiche, proprie dell'età pubere, le quali dopo aver portato i cuori a un delirio di sentimentalismo sacro li lasciano poi, cadendo come labile


fiammata di paglia, coperti di cenere e freddi, freddi per la vita avendo consumato in un ora, e non in un vero amore ma in una chimera d'amore, in un miraggio bugiardo, tutto quel poco di senso di pietà di cui erano capaci. Come certe piante sforzate dal giardiniere con arti contronatura e che si sviluppano precocemente e si coprono di un rigoglio innaturale di fronde e corolle venute anzitempo e poi... muoiono. Povere effimere vegetali che il capriccio dell'uomo conduce a fine anzitempo, mentre avrebbero potuto rallegrare di sé per tant'anni... Tutto questo nel mio Collegio non avveniva. La fede era dappertutto, sole datore della vera Vita, ma come appunto succede degli astri, che sempre sono nei cieli e l'uomo vive le sue giornate e prende i suoi riposi sotto il loro rotare senza pensare ad essi, così ugualmente noi vivevamo regolate dal sole della fede, ma senza pensare che quel Bene che sentivamo crescere in noi veniva da quel sole che ci penetrava piano piano e diveniva sangue della nostra anima, carne del nostro spirito. Ma appunto perché era così, opera lenta e costante, essa è rimasta durevolmente in noi. Quando le nubi si aprono e l'acqua scroscia da esse sulla terra, stesa come drappo smisurato a riceverla, diverse sono le reazioni che produce. Un acquazzone alluvionale percuote, ammacca, divelle, asporta fronde, frutti, steli e semi; una rovina giallastra e fangosa rimane a ricordo della furia meteorologica. Ma se una leIne acquerùgiola, quasi una rugiada d'aprile, scende piano dal cielo appena velato, mondando le fronde dalla polvere, gonfiando i bocci e gli ovari, scendendo sulle zolle come una carezza, filtrando fino ai semi nascosti per nutrirli dei gas rapiti all'atmosfera, l'uomo vede, con attonito occhio di gioia, la terra divenire più bella e feconda e pullulare la vita da tutti i suoi pori che trasudano steli, che s'incoronano di fiori, che, in un'atmosfera più limpida e pura, promettono la prossima speranza della messe. La religione nel mio Collegio era la mite acqua che penetra fin nel profondo, portando seco succhi salutari di vita. La reazione delle anime era diversa come diverse erano le anime stesse. Alcune di noi sono andate ben in alto nel soprannaturale, altre sono rimaste quelle che erano, altre ancora si sono miseramente perdute. Ma questo diverso rendimento è venuto da cause individuali e di famiglia perché, per conto delle Suore, l'opera educativa era uguale per tutte noi e su tutte noi. Io, probabilmente perché ero poco felice, fui, con più facilità, arrendevole alla grazia. Non dovrebbe essere così, vero? Si direbbe che dovrebbero essere i più felici quelli che la bontà di Dio preserva dal dolore, che lo amano e si attaccano a Lui con riconoscenza ed affetto. Nella realtà invece avviene solitamente il contrario. Sempre parlando di cuori non del tutto malvagi, perché in quel caso bene o male, gioia o dolore, lasciano la stessa indifferenza sacrilega verso il Datore di ogni cosa, quando non spingono addirittura a una ancor più sacrilega ribellione. Ma in animi non perfettamente malvagi il dolore è campana che ricorda all'anima Iddio; ma in cuori poveri di affetto è benefattore che dà il pane dell'amore in nome di Dio; ma in esseri soli, nella vita che non li ama, più che per creatura spersa in un deserto, è incontro con l'Unico che non tradisce, che non disillude, che non abbandona. «Coloro che piangono sono coloro che sanno» non solamente capire gli altri cuori, ma sanno anche trovare il Cuore dei cuori su cui posare la fronte che duole, il Cuore che sanguina su cui versare il pianto che ci ricolma ed accieca, su cui porre il nostro amore che nessuno vuole e che pur chiede di esser


donato per non divenire pesante tortura che accascia... Maria, la piccola Maria che aveva già tanto pianto, e pianto sola, che aveva già tanto amato, e amato sola, nella luminosa primavera del 1909, mentre si aggirava sperduta in un piccolo mondo nuovo ha udito una voce suonarle nel cuore e chiamarla «Maria!», e la piccola Maria alzando i suoi occhi giovanetti, già troppo seri per il molto dolore che avevano dovuto assorbire, incontrò un volto dolcissimo che la guardava con amore e pietà. Ma Maria non lo conobbe subito... solo si senti attirata da Lui che la guardava con tanto amore e le tendeva le mani con ansia di carezza, e gli sorrise... Allora la luce si fece e Maria conobbe, riconobbe Gesù, il Maestro, e gli si prostrò ai piedi con desiderio di amore. Ma il Maestro, che sapeva come Maria piccolina l'avrebbe dovuto amare in cognizione completa, dopo tante, tante traversie, le disse, come già alla Maria di Magdala in quella radiosa mattina d'aprile: «Non mi toccare. Prima molto devi compiere ancora. Non Io ma tu devi prima salire sulla croce e metterti ostia sull'altare del dolore, offrirti alla giustizia del Padre, bere fino alla feccia il mio calice, conoscere le diverse facce della tentazione, della passione, dell'amore, scegliere il migliore e rinunciare a ciò che è lusinga vana. Prima devi scomparire con la tua personalità di ora e rinascere con un'anima nuova. Prima devi dire il tuo "Fiat", dire il tuo "Ecce ancilla...", e con tutto il dolore, che è destino delle figlie d'Eva, concepirmi, generarmi, nutrirmi dite. Quando dite stessa avrai fatto un ciborio per accogliere la mia Umanità torturata per amor vostro, quando di te stessa avrai fatto una vittima, un'ostia minore, allora mi toccherai, allora Io sarò in te e tu in Me, in un legame di amore che ti farà beata fin dalla terra, fin dalla croce, perché Io sarò la tua forza, la tua gioia, il tuo tutto. Per ora io sarò semplicemente il Maestro, perché tu non avrai altro maestro fuor che Me, non potendo nessuno istruirti nella difficile via per la quale ti voglio condurre al mio regno: la via del dolore, perché sappi, anima che prediligo, che solo con parola e con volto di dolore Io verrò a te per portarti alla gioia». Così parlò, con la sua voce senza suono, il mio dolce Gesù alla mia anima che l'aveva trovato in quella dolce primavera e l'aveva riconosciuto. E l'anima mia, con maggior capacità di pensiero che non avesse avuto nella puerizia beata, si mise al seguito del Maestro dal quale avvertiva sarebbe venuto a lei ogni bene, nella sua vita umanamente orba d'ogni bene. Conobbi da allora quella gioia del cuore che è compagna di coloro che fanno Dio centro dei loro affetti e scopo della loro esistenza. Quella pace profonda che esiste e resiste anche se la superficie del nostro io è sconvolta da onde di bufera. Quella dolcezza che tempera l'amaro delle ore più nere e dà forza di proseguire, rasentando, è vero, la disperazione, ma sapendola superare, nella via della croce e perciò di Dio. Quanto ho amato Gesù nella mia prima giovinezza! E come Egli mi amò! Non so se l'intimo fuoco del cuore ebbe bagliori esterni che rendessero noto il suo esistere alle mie Suore. Ero così chiusa, sapevo vigilare con tanta attenzione sulla mia vita più vera e più segreta, che dubito di questo. Almeno per i primi tempi credo che il mio mistico fidanzamento con Cristo sia stato sconosciuto a tutti. Ma a me era ben noto! Non era un amore inavvertito, naturale come certi amori di cui ci si accorge solo se ci vengono a mancare. Ah! no! Io sapevo di amarlo e sapevo di volerlo sempre più amare. Questo amore era pieno di cognizione, ben delineato in tutti i particolari. Esso mi dava interno


canto e interno pianto d'amore, esso mi dava luci e consigli, mi dava attività e volonterosità e ansia, ansia, ansia di amarlo sempre più e sempre più perfettamente, profondamente, completamente. E Gesù mi istruiva con una dolcezza paterna. Gesù, si, proprio Gesù. Non sono divenuta la sua piccola Maria-ostia per parola umana, per quanto parole sante mi siano state dette dall'altare. Era Gesù che mi istruiva, chiamandomi dolcemente nelle ore in cui voleva che l'udito spirituale della sua piccola Maria fosse ben teso a parole di vita che Egli poi avrebbe illuminato di luce divina in me. Ricordo... Ricordo quale soave tempesta d'amore suscitarono in me certe speciali vite di sante. Era uso del Collegio di fare, durante speciali periodi quali l'avvento e la quaresima, la lettura in refettorio. Una delle «grandi», o una Suora stessa, salivano su una specie di pulpito situato al centro del lunghissimo salone da pranzo e per un quarto d'ora a mezzodì e un quarto d'ora alla sera leggevano pagine di vite di sante. La prima che udii fu la «Storia di un'anima». Allora Santa Teresa del Bambino Gesù, morta da soli undici anni, era semplicemente Suor Teresa del Bambino Gesù... Ma per me fu subito l'Amica... La sua dottrina di confidente abbandono, di generoso amore, la sua piccola grande via di santità, si sono imposte subito a me. Ho capito che per quella stessa via dovevo camminare per arrivare a Gesù... Vedrà, Padre, che non mi ero sbagliata e che tanti anni dopo fu la dolce Santina la mia «madrina» quando mi donai ostia a Gesù... Poi le martiri... Anche in scuola di lavoro una leggeva per tenere quiete e silenziose, soprattutto, le mie irrequiete e loquaci compagne. Molto spesso quell'una ero io, che leggevo bene e con bella pronuncia. Così «Fabiola», l'«Ultima vestale», «Ben Hur», «Sotto il segno di Roma» e non so quanti mai libri sui primi tempi del cristianesimo furono letti, o uditi leggere, da me. Quante amiche ebbi allora nella schiera di neve e di porpora delle vergini-martiri! Quanti amici nei tribuni santi, nei santi diaconi, negli umili schiavi e plebei della Roma catacombale! sia così, ci sembra che Dio non ci dia retta. Ma invece si fa solo attendere. La preghiera fatta con sincerità e per un sicuro bene nostro viene sempre esaudita da Dio. Io ho chiesto, ripetendo a migliaia di volte la preghiera di Agnese, che il mio corpo ed il mio cuore venissero conservati puri perché non fossero confusi al cospetto di Dio, ho chiesto le mille volte di concedermi di amarlo attraverso la confessione del martirio, perché io non potevo ormai più separarmi da questo Amatore al quale mi legava un nodo così dolce di carità. Non ho forse avuto quel che ho chiesto? Si, l'ho avuto e in forma completa. Se necessità di malattia hanno fatto chinare la corolla candida della intemeratezza verginale, non è questo in compenso una porpora di martirio che si stende, ancor più fulgida, su tutte le sofferenze della carne, perché è martirio del cuore che vede strapparsi l'inviolata freschezza del giglio delle vergini? Se nel bel Paradiso io non sarò più fra i centoquarantaquattromila che seguono l'Agnello, candida falange di coloro la cui carne non ha conosciuto profanazione di nessun genere, in compenso non sarò fra la schiera arrubinata di sangue di coloro che un ben alto e comprensivo amore ha spinto sulla via della immolazione, che è cruenta anche se in apparenza non è intrisa di sangue ma solo di stritolamento di tutte le più vere ricchezze dell'uomo, prima delle quali la salute, la vita? Se persone non molto convinte sui veri più veri della nostra religione sapessero che io, povera creatura femminea,


all'aurora della vita, quando ancora l'esperienza di detta vita non ci ha rese cognite di cosa sia l'immolazione, mi sono offerta, direbbero che ero una stolta, una pazza. No, Signore. Né stolta né pazza la tua piccola violetta innamorata, e neppure presuntuosa di sé. La piccola violetta nata in quaresima, la piccola violetta che si imperlò delle sue prime lacrime d'amore per Te, al cospetto del tuo volto ferito, la piccola violetta che cresciuta nell'ombra e nel buio, nel freddo e nella solitudine, anelava al tuo sole, al tuo amore per drizzare il capino così mesto e sorridere alla tua croce, sapeva che Th non avresti deluso il suo desiderio e l'avresti aiutata nel soffrire per Te. Tu hai avuto bisogno del Cireneo per portare la tua croce, ma per i tuoi piccoli cristi, che salgono il loro calvario portando la loro croce per amor tuo, per amore dei fratelli, per compire e continuare la tua Passione, sei Tu che divieni Cireneo, e quando la creatura vacilla e cade per la sua fragilità umana e, troppo sofferente, non ce la fa più a trascinare la croce, Tu le subentri e sottoponi le tue spalle divine al peso del legno, perché hai pietà delle piccole ostie, perché hai di esse un geloso amore, una santa ansia di innalzarle insieme a Te sulla vetta, fra la terra e il cielo, altari vivi e vivi turiboli sui quali l'occhio del Padre si china benigno e dai quali colano rivoli di grazie sul prossimo che passa e ignora... Io avevo dunque un mondo tutto mio nel quale mi rifugiavo per vivere la mia vita di desiderio. Santo desiderio di immedesimazione con Cristo, che sei conosciuto da pochi e che porti con te aromi di paradiso! É di quei tempi la mia nostalgia per i bei mesi di maggio e giugno, in cui le glorie di Maria cedevano il posto alle glorie del Cuore divino... Il profumo di quei mesi è rimasto in me come essenza in vaso sigillato, un profumo non di questa terra ma realmente di aiuola celeste, e tutte le rose, i gigli, gli iris, i garofani e i mille e mille fiori del maggio soave e del giugno solare, insieme riuniti, non potrebbero tentare di, non dico eguagliare, ma solo imitare quel profumo di cielo che mi portavano in cuore le falangi angeliche durante questi bei mesi di Maria e del Figlio suo. Quando finivano io restavo come uno che veda finire la sua gioia... É di questo tempo il mio divenire Figlia di Maria. Veramente avrei preferito divenire Figlia dell'Addolorata perché ero molto devota della Madonna dei dolori. Sua la chiesa dove qui, nelle vacanze, andavo come a mia parrocchia estiva, sua la prima medaglietta preziosa che portai, sua la effigie sul mio comodino. Pare che Maria Addolorata continui a volermi sua perché... anche ora, al termine della vita, ha messo l'anima mia fra le mani di un suo Servo e... giunge a mettere la sua... giurisdizione anche sui miei lavori che vuole per il suo altare. Del resto è giusto che sia così. La piccola innamorata di Gesù sofferente e crocifisso non può avere per Madre che Maria Addolorata. Avrei dunque voluto portare il nastro viola delle Figlie dell'Addolorata che vedevo al collo delle ragazze del 3° esternato, delle popolane dunque, che le Suore riunivano per insegnare loro il lavoro e per tenerle in salvo, la domenica, nel ricreatorio. Questo 3° esternato era in fondo, in fondo al vastissimo fabbricato del Collegio, fabbricato che teneva tutta una strada e che, opportunamente diviso in quattro parti che erano non a contatto fra loro, si componeva di Collegio signorile vero e proprio, di 1° esternato dove venivano le signorine di Monza in istruzione, in 2° esternato per la bassa borghesia dove le alunne imparavano un poco di istruzione e molto cucito, e di 3° esternato dove erano ragazze


povere, povere e raccolte per carità da mattina a sera, oltre che al pomeriggio festivo, le quali imparavano il cucito. Erano buone ragazze affezionate alle Suore. Ci invitavano alle loro recite e a noi pareva di andare in un altro mondo ad arrivare là in fondo, in fondo, dopo aver traversato tutto il fabbricato, una decina di cortili, il parco, l'ortaglia vastissima, le corti rustiche, piene di chicchirichì e di coccodè. E noi le invitavamo alle nostre recite e probabilmente anche a loro faceva l'effetto di andare in un altro mondo a venire nel nostro bellissimo Collegio fra ori, mosaici, pavimenti che erano specchi, arazzi, lampadari, ecc. ecc. Ma, per tornare al mio desiderio, le Suore non permisero che fossi Figlia dell'Addolorata. Sarei stata l'unica del Collegio e le singolarità erano sempre represse. Fui dunque Figlia di Maria. É di quel tempo il mio... dormire col Crocifisso. Avevamo un grande Crocifisso di ottone a capo del nostro lettino. Io avevo un vero trasporto per il mio Crocifisso. Lo tenevo lucido come l'oro a suon di energiche strofinate con la gomma da inchiostro e col mio grembiule di lana nera: unici... strumenti, atti a tenere lucido il metallo, che avessi a portata di mano. Il mio Gesù brillava come una gemma dalla spalliera del mio lettino. Sfido io! Con quelle strofinature così... profonde! Quelli delle mie compagne erano opachi, coperti di verderame, ma il mio... era bello come una croce da cardinale. Ma non mi bastava di lucidarlo. Trovavo sempre un fiorellino anche nei mesi più freddi, una fogliuzza d'edera magari, scavata sotto la neve che mi gelava le dita... Ah! ci voleva proprio un grande amore per Lui perché io mi spingessi fra la neve, che non potevo soffrire, e scavassi sotto la sua crosta per trovare un ramettino d'edera per la sua croce! Avevo trovato il modo di conservare freschi quei fioretti, quelle ramettine, tenendo legato alla sbarra del letto, sotto la croce, un astuccio da pennini con dentro una falda di ovatta bagnata d'acqua, e come stavo attenta che non si asciugasse! E poi c'era la notte... Non potevo vedere Gesù lassù, solo, mentre io stavo al caldo sotto le coperte e dormivo. Allora lo staccavo e me lo mettevo sul cuore con tanti baci e tante parolette innamorate e mi addormentavo così, felice di dormire con Gesù sul cuore, di scaldarlo sul mio cuore. Non so se le Suore se ne sono mai accorte. Loro non mi hanno mai detto nulla in proposito e io pure non dissi mai nulla... Erano i miei segreti convegni con Gesù! ... E così passavano i miei giorni di collegiale. Non pensi che l'amore, sempre crescente, per Gesù avesse spento in me la parte umana. No, per carità! La nostra umanità, con quanto essa ha di eredità da Adamo, io credo che muoia veramente tre giorni dopo noi stessi. É una gramigna che né fuoco, né zappa, né dente di pecorella estirpa mai completamente, e tagliata rinasce, strappata rigermina, arsa ripullula. Il più grande suo nemico è l'amore di Dio, ma nonostante questo essa non muore mai del tutto; qualche radica, qualche fittone restano sempre, restano sempre per tormentarci e per tenerci bassi, nella polvere, perché non ci si insuperbisca. Soffrivo ancora molto del modo di fare di mia mamma che continuava a non capire nulla di me. Soffrivo d'essere in condizioni di inferiorità presso le mie compagne che avevano un borsellino privato, tenuto è vero dalla Suora assistente ma dal quale potevano prelevare fondi per piccoli regali di belle immagini, di ricordi a suore e compagne, per beneficenza, per lotterie. Soffrivo a non avere quelle belle cartoline illustrate per la nostra posta, quelle belle cannucce e matite, e astucci di studio


e di lavoro che le altre avevano. Sono piccole cose, ma fanno tanto soffrire quando si è nei collegi! Soffrivo anche perché non ero in condizioni da imporre certe privazioni, ma erano dovute solo al volere materno che non pensava come esse fossero mortificanti per la sua creatura. Soffrivo perché nessuno veniva a trovarmi. Dei parenti che erano a Milano, causa gli attriti con mamma, nessuno. Dei parenti più lontani da Milano, nessuno. E nessun amico di famiglia perché mamma aveva detto che «non aveva piacere». Perciò vedevo le altre andare in parlatorio tutti i momenti ed io mai. Solo quando venivano i miei. Ogni quindici giorni fino alla malattia di babbo, e poi anche ogni due mesi... Soffrivo perché non avevo la bella biancheria delle altre, perché, perché, perché... tanti piccoli perché che erano come le spinuzze dei fichi d'India. Non si vedono neppure ma dànno tanto tormento! E poi... il grande dolore. Ah, no. Prima c'è un'altra pena. Avevo sofferto, indicibilmente, nel fare il confronto fra la mia povera giornata della Prima Comunione, sola con mamma, senza presenza di papà, e la Prima Comunione delle mie compagne in Collegio, così bella e commovente: le educande tutte bianche fra le altre in grigio, i papà, le mamme, i nonni, gli zii e tanti regali e tante tante cose... Come avevo sofferto a vedere, dietro la fila liliale delle comunicande, la fila dei papà che si comunicavano dopo le loro bambine... Bene. Lasciamolo li se no ci piango ancora. E una freccia troppo aspra che si rigira in cuore... E veniamo al grande dolore. Le ho detto come mio padre avesse sofferto per vedersi privato del suo brevetto di inventore. Le ho detto come soffrisse delle scene familiari che lo portavano a piangere come un bambino, il mio caro papà così buono e così virile nel dolore fisico e in tante altre cose, in tutte le cose meno che in questa. Ma finché la sua Maria era stata con lui, un balsamo medicava quel cuore così ingiustamente tormentato da colei che avrebbe dovuto avere per lui tanta riconoscenza. Anche io gli ero stata levata. E per amore della mia salute, non avendo la forza di allontanare il cognato addolorando la moglie, aveva ceduto. Però non ceduto al punto da rinunciare a me per le vacanze estive. E aveva sgomberato la casa dallo zio infermo, mandandolo nell'Ospedale di Bergamo dove poteva avere assistenza e contemporaneamente un impiego come bibliotecario e traduttore. Quante liti, quanti rimproveri e sgarbi e musonerie sarà costata a mio papà la sua fermezza nel liberare la casa dal cognato in modo che nel luglio 1909 io potessi tornare a casa mia? Solo Dio lo sa. Io ricordo di aver trovato papà smagrito, stanco, sciupato... Ma durante i tre mesi estivi si riprese. Io ero la sua vita e il suo conforto. Ebbe inizio l'anno scolastico 1909-1910. Natale, Pasqua... Papà era molto depresso. Si rianimava solo quando io ero con lui. Ma per quanto fossi poco più di una bimba, capivo che soffriva molto e sapevo anche dare il giusto nome a quel suo soffrire... Ero tornata da poco in Collegio, dopo la Pasqua, ed ero sofferente per una caduta nella palestra di ginnastica, dove ero precipitata dall'alto delle sbarre di sospensione troppo grosse per la mia piccola mano e dove avevo riportato la distorsione di una caviglia e, quel che è peggio, una contusione spinale, la prima della serie, quando papà mi scrisse che partiva per Pinerolo per il corso d'istruzione della mitragliatrice, immessa nell'uso del nostro Esercito proprio quell'anno. E mi prometteva una visita al suo ritorno da Pinerolo. Io attendevo tranquilla. Sapevo che il corso d'istruzione sarebbe durato una ventina di


giorni al massimo. Avevo perciò un termine quasi sicuro alla mia attesa. E stavo quieta. Mi stupivo soltanto che papà non mi scrivesse neppure una illustrata da Pinerolo. Mamma scriveva come al solito. Passò oltre un mese e non vidi venire nessuno. Né papà, né mamma. Scrissi lamentandomi di esser lasciata tanto tempo senza visite. Mi rispose mamma dandomi dei rimproveri per la mia insistenza. Papà nulla. E nulla sempre, mentre prima aggiungeva qualche parola alle lettere di mamma. Cominciai ad essere inquieta e triste. Qualcosa mi avvertiva, nel mio interno, che una sciagura mi era sopra... Piangevo spesso. Non giocavo più. Giocavo sempre poco, in verità. Quelle corse pazze, quei giuochi così frenetici nei quali le mie compagne espandevano la loro esuberante vivacità, non m'erano mai troppo piaciuti. Preferivo mettermi vicino alla Suora assistente e parlare, passeggiando, con lei. Ora poi non riuscivo più a giuocare per nulla. Le Suore erano ancor più buone con me e mi dicevano di pregare. Raccomandazione strana perché, come le ho detto, non sforzavano mai le anime. Passò tutto maggio e tutto giugno così. Venne il 10 luglio, giorno di uscita per le vacanze estive. All'accademia finale, che allora si teneva in quel giorno - dopo fu spostata in altro periodo - non venne mamma e non venne papà. Vennero mia zia Angela e sua figlia. Ebbi così, finalmente, la triste spiegazione di quel modo di fare che mi aveva tanto crucciata. Papà era stato per due mesi fra morte e vita, e solo un miracolo di Dio aveva impedito la sua morte prematura, perché aveva allora 47 anni. Ora cominciava a migliorare... La Superiora mi fece mille raccomandazioni di essere ancor più quieta del solito e buona, buona, buona per aiutare così papà a guarire. Seppi poi, molto tempo dopo, che la Superiora aveva chiesto a mamma se riteneva opportuno che una suora mi accompagnasse a casa, nei momenti più tremendi della malattia, quando, a detta dei medici, mio padre era alle soglie dell'eternità. Il male non essendo contagioso - una encefalite data da eccesso di lavoro mentale, dissero i medici, ma in realtà vi erano molti eccessi che lo avevano stroncato, quel troppo buono - io avrei potuto benissimo essere tenuta presso il malato. Mia mamma opinò, sola contro il parere di tutti, che io non tornassi in famiglia... Dio non lo ha permesso, ma mio papà avrebbe potuto morire ed essere sepolto senza che io, sua unica figlia, di ormai tredici anni, fossi presente, peggio: lo sapessi neppure. Mia mamma si caricò di tale responsabilità che non le avrei mai perdonata, senza riflettere che la morte di un padre è sacra ai figli suoi. Era destino che non vedessi mio padre nell'ora della morte... Ma è bene che non parli per ora di questo. Sarebbe troppo dolore, e quello di cui già parlo è tanto dolore che mi stringe il cuore in una morsa. In treno zia Angela e zia Emilia (era mia cugina, ma dato che era tanto più vecchia di me l'avevo sempre chiamata zia) mi raccontarono che il povero papà mio era stato tanto male e che l'avrei visto molto cambiato. Infatti... Avevo lasciato a Pasqua un uomo nel vigore della sua bella virilità, nel fascino della sua bella intelligenza, solo un poco stanco, preoccupato, triste per le pene intime che nella sua bontà non sapeva stroncare... Vidi un povero essere invecchiato, scarno, e soprattutto vidi, lo capii subito, una mente finita. Era un rudere mio papà ormai. Un povero grande bambino... Non che fosse ebete. No, questo no. Ma tornato come può essere un ragazzo... Facile ad essere dominato, facile a cedere su tutto, incapace di imporsi anche per quel minimo che anche


il più buono usa in famiglia. Un cervello anchilosato, tardo, abulico. Una rovina. Ecco cosa fece mia madre col mettermi in Collegio per fare posto al fratello, per non avermi fra i piedi. Mi ha derubata delle ultime carezze intelligenti di mio padre... Papà, da allora in poi, mi ha ancora amata, ma ora ero io che dovevo proteggere lui, io che lo dovevo aiutare nelle sue piccole marachelle che gli avrebbero attirato i più acerbi rimproveri di mamma, io che lo dovevo consolare quando piangeva, e piangeva tanto perché diceva: «Sono un uomo finito e mamma me lo fa capire». Ah! Padre, Padre! Sa cosa vuol dire questo per una figlia? Sa che calice amaro avere sempre davanti la visione della rovina del genitore amato e doversi dire: «Non hai più nessuno con cui confidarti, a cui chiedere aiuto. Diventi donna, ma papà non ti saprà consigliare nelle trepide ore del primo amore; avrai lotte da superare contro l'egoismo materno, ma papà non ti potrà più difendere»? É stata una amarezza che solo Dio ha conosciuta nel suo pieno valore. Vedere papà osservato dagli estranei per certe lacune intellettive che trasparivano dai suoi atti. Avrei voluto avere la potenza di un dio perché non si vedesse che era menomato. Andammo a passare le vacanze nell'alto Biellese, ad Andorno, vicino a Oropa. I posti erano belli; per quanto io preferisca il mare alla montagna, mi piacquero. Ma ormai su tutto era steso per me un velo di pianto e di avvilimento perché il vedere papà così era per me uno strazio senza tregua. Strazio che, naturalmente, mamma ha sempre negato che io abbia provato, ma Dio lo sa. E poi mi accorgevo anche che ormai ero in completa balia di mia mamma... e perciò... Ricordo ancora quel giorno che, scivolando sul primo scalino di una ripida scala di granito, arrivai fino in fondo rimbalzando le vertebre da gradino a gradino. Dopo la caduta fatta in Collegio ero rimasta con le gambe deboli; ero perciò facile a cadere. Forse da allora avrei dovuto essere curata nella colonna vertebrale. Ma chi ci pensò? Dunque ruzzolai tutta una scala e mi contusi profondamente tutte le vertebre seminude sotto il leggero abito estivo. Ma venni picchiata perché avevo rotto un oggetto che tenevo fra le mani quando caddi. Non mi sono più liberata dai dolori spinali, e quando mi curvavo per qualche motivo dovevo essere poi aiutata a raddrizzarmi. Ma mia mamma diceva che erano tutte storie e esagerazioni. Furono vacanze ben tristi. Tornai in Collegio accasciata. E fu anche l'anno in cui dovetti fare le Tecniche... In questo tempo inoltre cominciai a soffrire di quelle premonizioni di cui le ho detto a voce. Nel sonno interi avvenimenti futuri mi si svolgevano davanti alla mente con una acutezza di particolari che era uno spasimo. Ricordo un episodio. Era la fine del 1910. Dunque nessuna guerra era nel mondo, neppure la guerra italo-turca, inizio, se si osserva bene, di tutto il rosario di guerre future che da oltre un trentennio insanguinano la terra. Io continuavo a sognare la guerra. Vedevo le battaglie, il fumo degli scoppi, le lotte a corpo a corpo, il cadere degli uomini... Una notte vidi chiaramente una carica di ulani austriaci per le vie di una cittadina che sapevo (nel sogno) essere una città di secondo ordine del Veneto. Vedevo i nemici sciabolare dall'alto dei loro cavalli i nostri soldati che cercavano arginare l'avanzata, e un giovane ufficiale dei nostri abbattersi con la fronte spaccata da una palla... Mi svegliai con un urlo e alle suore accorse dissi: «La guerra, la guerra! Gli austriaci in Italia!». Combinazione volle che lo stesso giorno, alla lezione di italiano,


proprio io fossi chiamata a leggere un brano di G. C. Abba sulla battaglia di Novara. Quel racconto, identico a quanto avevo visto in sogno, mi scosse al punto che mi strozzò la parola in gola e mi fece prorompere in un grande pianto. Io sapevo ormai che la guerra sarebbe venuta e che l'Italia mia avrebbe conosciuto il tallone del nemico nelle sue contrade. E così per molte cose. Ho tanto pregato perché il buon Dio mi levasse questo dono che per me è un tormento. Ma non sono mai stata ascoltata e a tutte le mie croci si è unita anche questa. Pazienza! Passò così anche l'anno scolastico 1910-1911 terminato con quella solenne bocciatura che le ho già descritta. Io soffrivo molto per le reni che dòlevano sempre; io credevo fossero le reni, invece era la colonna vertebrale. E poi soffrivo moralmente. Tanto. Ma per il morale non c'era rimedio. Era il mio destino che soffrissi. Per le sofferenze fisiche si sarebbe potuto rimediare. E la mia buona Superiora, vedendomi tanto sciupata al mio ritorno per gli esami di riparazione, suggerì a mia madre di farmi fare una visita medica. Avevamo il medico del Collegio, molto bravo. Ma mamma volle che mi visitasse il cugino della Superiora, quello che aveva decretato che mio zio era tubercoloso (?!). Ma per mia mamma era un'aquila medica perché aveva curato lei durante il suo male di fegato e l'aveva guarita. La Superiora si arrese al desiderio di mamma e venne questo medico. Il quale, lo facesse per asineria o lo facesse per partito preso di dare ragione a mia mamma che diceva che io non avevo nulla se no sarei stata più pallida e più magra, dopo avermi visitata e girata in tutti i sensi, disse che ero malata solo di malavoglia e che era una vergogna che io addolorassi con dei mali immaginari mia mamma che, poverina, era già tanto crucciata per causa di papà! Benissimo! E così qualche suora credette che io mentissi o esagerassi. Purtroppo si vede ora se mentivo! Il colore è ancora sulle mie guance dopo dieci anni diletto e di continuo acerbo soffrire, senza contare tutti gli anni precedenti in cui mi trascinavo a fatica. Scarna non sono neppure ora, nonostante le febbri continue, il soffrire, il poco cibo, i miei cinque grossi mali e gli altri mali meno grossi. Se Dio mi vuole conservare così, che ci posso fare io? E un medico deve basarsi sull'apparenza, ingannevole sempre, e non sui dati di fatto che risultano da una visita, quando non si è un somarello? Ma insomma a me le cose andarono così. Per fortuna la Superiora era non solo intelligente ma anche ben pratica di malati e malattie, perché aveva diretto per molti anni l'Ospedale Ciceri di Milano ed era passata da noi solo quando si era ammalata di cuore nella fatica snervante di dirigere quel nosocomio. Perciò credette più a me che al cugino e mi difese presso mia madre. Non solo, ma fu piena di cure per me. Doveva essere quello il mio ultimo anno di Collegio perché facevo ormai il corso perfettivo. Ma le Suore ottennero allora di farmi fare tutto il programma di materie classiche. Avevo tanto pregato, con l'aiuto delle Suore, mamma in tal senso che dovette cedere. Come fui felice di vedere prolungato il mio soggiorno di un anno! Lo studio, checché ne dicesse quel medico, era la mia passione. Altro che malanni immaginari per non studiare! Se mai ne avrei inventati per continuare a studiare. Il brutto era che il dolore c'era proprio, e tormentoso. Quando nei lavatoi mi curvavo per lavarmi, dovevo chiedere a una compagna di aiutarmi a rimettermi diritta perché non ci riuscivo dal dolore che avevo a mezza schiena. Senza la spina di papà in cuore - tanto più spina perché era scoppiata il 5


ottobre la guerra italo-turca e temevo sempre che papa dovesse partire per l'Africa, cosa pericolosa nel suo stato - e senza quel dolore spinale sarei stata felice, perché le soddisfazioni che lo studio mi procurava erano continue e si sa... un poco di orgoglietto c'è sempre... Intanto finì anche l'anno scolastico 1911-1912 e venne avanti quello 19121913, che doveva essere e che purtroppo fu il mio ultimo anno di collegiale. Sento il bisogno di dedicare ad esso un capitolo speciale, perché in questo anno un altro anello della catena che mi univa a Gesù fu ribadito dal nostro mutuo amore. Lei, Padre, potrebbe essere tentato di credere che il cuore di questa sua figlia spirituale avesse per sempre trovato la sua via nell'amore di Dio, in una forma di amore tutta generosità, è vero, ma anche tutta... come dire? Non è tranquillità che va detto, come non è sicurezza che sarei stata una pura amante alla quale sempre sconosciuti dovevano essere i tentacoli di certi mostri... Non è così. Fino al novembre 1912 io pure credevo fermamente che io avrei amato sempre Dio con la stessa candida fiducia della mia amica santa: Suor Teresa del Bambino Gesù. Convinta che il tempo eroico delle catacombe era da secoli terminato e ben lungi dal pensare che dopo venti secoli di cristianesimo questa nostra Europa avrebbe rivisto le grandi persecuzioni che noi in realtà vediamo (Russia, Spagna, ecc. ecc.) pensavo con santa invidia alle dolci martiri dei primi secoli, ma mi dicevo che, per mio conto, avrei potuto amare Iddio solo attraverso la dottrina della dolce Carmelitana francese. Confidenza, abbandono, generosità nelle piccole cose di ogni ora, intrecciate ad una candidezza angelica: ecco quel che credevo avesse ad essere la mia vita in Cristo. Ma vennero, come tutti gli anni ai primi di novembre, i giorni dei santi Esercizi. Anche qui le reazioni fra noi educande erano ben diverse. In certune essi suscitavano solo una grande noia, un grande nervo sismo. Capirà: dovere tacere, sempre tacere per cinque giorni, e pregare, e ascoltare quattro prediche al dì... Le più svagate e birichine ne avevano nausea per non dire terrore. Altre, sentimentali ad oltranza, entravano in questo ritiro con... le stesse disposizioni di un fachiro o di un fanatico. Si mettevano «in trance» - mi perdoni il paragone - e si esaltavano in un misticismo di maniera che le spingeva a penitenze e a fervori degni degli antichi anacoreti o delle prime sepolte vive! . . Penitenze e fervori che, ad Esercizi finiti, si sgonfiavano come un palloncino bucato e risbucava fuori la vera natura della pseudo-fervorosa: ossia una natura indifferente a Dio e molto attaccata al mondo. Altre ancora vi entravano con semplicità, senza... estasi anticipate e senza nausee anticipate. Vi entravano per dovere e si rimettevano a Dio perché le aiutasse a capirlo... In queste anime semplici ed equilibrate Dio lavorava con piena libertà e la grazia del Signore metteva radici durature nel cuore che si protendeva a riceverla. Altre, anime elette per dono gratuito di Dio, veri fiori di mistica aiuola, al primo annuncio degli Esercizi prossimi si illuminavano di vera gioia spirituale e la loro anima si apriva tutta, come candido giglio, per accogliere in sé la parola di Dio ed esserne fecondata. Si distinguevano, queste creature di grazia, dal volto luminoso, bello per interna luce anche se il profilo non era tale da esser preso a modello da un artista, si distingnevano per una gentilezza tutta speciale di sguardi, di parole, di atti, per una pace costante e per una costante ubbidienza. Erano, naturalmente, le eccezioni. Io non ero certo fra esse. Come le ho detto, in cinque anni non fui mai punita, perché feci sempre il


mio dovere. Ma lo facevo per un fine di bene umano: per amore delle mie Suore, per fare contento papà ed evitare i rabbuffi di mamma. Queste creature eccezionali invece lo facevano unicamente per piacere a Gesù. Io a Gesù volevo molto bene e anelavo a volergliene sempre di più. Ma ero ancora molto lontana dall'agire unicamente per fine soprannaturale. Volevo bene a Gesù perché sentivo che Egli me ne voleva del bene. Lo amavo dunque in maniera ancora umana. Non avevo ancora fatto mio il detto del Padre mio serafico S. Francesco d'Assisi: «Veramente beato colui che ama e non desidera essere riamato». Quando si giunge ad amare per amare, senza calcolo di sorta, senza pretendere ricambio di gioia sensibile, quando, anzi, tanto più si ama quanto più, in apparenza, siamo trascurati, dimenticati, maltrattati dall'amato, allora si tocca il vertice dell'amore e, toccando il vertice, si raggiunge la beatitudine. Io avevo ancora da camminare tanto per raggiungere questo vertice! Io appartenevo alla penultima categoria. Forse ero sul confine fra l'ultima e la penultima, perché già mi facevo una gioia del pensiero di vivere cinque giorni occupandomi unicamente dell'anima mia. Ma occuparsi dell'anima propria, unicamente di questa, non è ancora amore perfetto. É egoismo, santo se si vuole, ma sempre egoismo. Il nostro Maestro divino ha con la sua parola confermato la Legge e ribadito il concetto e il comando che già da secoli erano i supremi fra i comandi di Dio. «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, la tua anima e la tua mente, e ama il prossimo tuo come te stesso». Dunque bisogna amare non solo e unicamente noi stessi e la nostra anima, perché amare ciò che è nostro è sempre egoismo anche se è un egoismo buono. Ma occorre amare il prossimo come noi stessi, ossia adoperarci per lui per aiutarlo nel bene, nei bisogni di tutta la sua vita: fisici, morali, spirituali; amarlo nel sacrificio e nella preghiera perché la sua anima cresca in Dio, o lo ritrovi se l'ha perduto, e perché Dio si curvi pietoso sui fratelli nostri che hanno bisogno di tante cose e non sanno forse pregare il Padre in modo da far sì che Egli, ai suoi figli che gli chiedono un dono buono, lo possa rifiutare. Questo è il secondo gradino della scala che porta a Dio. Ma il terzo è amare il Signore con tutti noi stessi. Amarlo disinteressatamente per dargli lode e gioia poiché la sua gioia è l'essere amato dai suoi figli. Io penso che alle piccole anime, solo grandi nella generosità e nell'amore - ma già l'amore è sempre generoso - le quali amano il loro prossimo perfettamente, ossia come, anzi più ancora di quanto non si amino loro stesse, e che amano Dio di un amore perfetto, per quanto può essere perfetto quanto è umano ancora, di un amore perciò che è libero da ogni calcolo, da ogni retropensiero, da ogni timore (nel senso di timore del castigo che verrebbe se non si amasse), di un amore che tutto accetta e tutto dona senza riserve, che resta amore anche quando dall'alto dei cieli paiono piovere, come folgori su folgori, le pene più svariate, che anzi, sotto il grandinare delle croci, sempre più si irrobustisce, fiorisce, fiammeggia, io penso che Dio, a queste piccole anime, conceda la indulgenza plenaria dell'amore, la più grande di tutte: quella che è il quarto dei battesimi, l'ultimo dei battesimi, dopo quello di acqua, di sangue, di desiderio; il quarto e perpetuo nei suoi effetti, perché rende la nostra stola nuovamente immacolata per essere stata imbevuta nella dottrina più alta del Maestro e purificata dalle fiamme della carità. Forse la mia teoria sarà poco ortodossa, ma io la penso così e per mio conto - dato che


non credo di poter avere altra sorgente di purificazione avendo molto peccato dopo il battesimo e non avendo altri mezzi per cancellare dopo la colpa con la confessione anche i reliquati della colpa passata - mi tuffo tutta nell'amore. Esso deve sostituire per me il Purgatorio che ho mille volte meritato. E creda pure che, se è dolcezza infinita, l'amore è anche martirio... Il Sangue di Cristo e la Carità: ecco le mie due sorgenti in cui lavo, nella prima, e ridò, con la seconda, candore alla povera anima mia. L'amore deve essere la mia ragione di esistere, il motore di ogni mia azione, la mia giustificazione davanti al Padre, la mia gloria per l'eternità. Ma dove sono andata a finire? Molto lontano... Dipende che, sotto le strette di molte ritorte, che mi serrano da ogni parte tormentosamente, sono in gioia. Sento l'Amico divino che mi abbraccia e sorregge, e la mia povera persona si posa su di Lui che la conforta a soffrire ancora un poco per godere poi in eterno, nel suo prossimo giorno di liberazione... E questo abbraccio è così inebriante che mi spinge a dar libertà di canto alla mia anima che l'amore gonfia di se... Torniamo però agli Esercizi del 1912. Io ero dunque a confine fra la categoria delle anime semplici e quella delle anime elette, e mi piacevano molto quei giorni di Esercizi spirituali nei quali sentivo più vicino Dio, Maestro mio. Tutti gli anni erano venuti dei veri maestri di pietà a tenerceli, fra i quali un sacerdote, Don Corradi, morto poi in concetto di santità. Due volte furono tenuti da S. E. Monsignor Cazzani, allora vescovo di Cesena, ora vescovo di Cremona. Pastore dalla religiosità profonda e nello stesso tempo semplice, di una semplicità veramente evangelica, egli sapeva parlare alle nostre anime con parole che restavano incise nel cuore anche per molto tempo dopo essere state udite. Quell'anno, il 1912, gli Esercizi furono tenuti da questo santo Vescovo. Io sapevo che sarebbero stati gli ultimi Esercizi, perché mamma era inesorabile circa la mia uscita in febbraio dal Collegio. Papà aveva chiesto improvvisamente di essere posto in pensione perché capiva di non poter resistere più al lavoro mentale dopo quella tremenda malattia. I primi tempi si era illuso, povero papà, di poter essere il Valtorta di prima, ma terminata la lunghissima licenza di convalescenza di quasi un anno si era accorto che era «finito». Aveva tenuto duro qualche mese e poi a settembre si era congedato. Si doveva perciò col marzo andare a Firenze dove mamma, d'accordo coi medici, aveva deciso di stabilirsi. Io sarei rimasta in Collegio fino agli ultimi di febbraio 1913 e poi sarei tornata in famiglia. Le Suore, veramente, dato che sapevano che a giugno i miei avrebbero dovuto tornare a Voghera per la liquidazione finale degli interessi di papà, avevano chiesto che io rimanessi fino a giugno... Mi vedevano così triste all'idea di lasciare il Collegio... e lo ero triste. Sentivo che andavo incontro alla lotta, al dolore e... non avrei mai voluto lasciare quel nido di pace; il mio povero cuore, presago del futuro che lo attendeva, così martoriante, tremava di paura e di dolore... Ma mamma aveva deciso e quando ella ha deciso, caschi il mondo in rovina, non si cambia decisione. Io dunque sapevo che erano quelli i miei ultimi Esercizi spirituali. Vi entrai con ancora maggior zelo, volendo da essi trarre un frutto duraturo per tutta la mia prossima vita nel mondo e un programma per quella mia prossima vita. Un programma al quale giuravo di esser fedele. Ero sempre quella della parola di onore!... Vi entrai pregando fervorosamente il buon Dio di incidere in me, per sempre, quei giorni di


unione con Lui. Ed Egli, il mio caro Gesù, lo fece. Scese in me col Padre e collo Spirito portando ognuno i loro doni alla piccola Maria che doveva ormai andare incontro a sempre più grandi prove e a sempre più grandi pene. Il Padre entrò dando all'anima giovinetta la visione della sua Maestà, della sua Potenza; il Figlio portò seco tutti i tesori della sua Misericordia e della sua Sapienza; lo Spirito Santo tutte le sue luci e le sue fiamme di Carità. E questo non perché io me lo meritassi. Oh! stia ben tranquillo che non insuperbisco credendomi degna di tanto. So benissimo quel che valgo, e so che è unicamente la immensa bontà di Dio che può produrre certe fusioni dell'anima mia con la Divinità, certe dimore della Divinità in me e mie in Lei. Se Dio misurasse quel che valgo non farebbe tali prodigi. Ma non le ho già detto che io sono convinta che Dio non è un matematico, un calcolatore, ma un idealista e un poeta? Guai a noi se tenesse dei registri di ragioneria... Chissà dove andremmo tutti a finire! Non insuperbisco. Celebro solo le bontà del Signore in me perché questo mi pare sia un dovuto omaggio di riconoscenza. Io avevo chiesto a Dio di incidere indelebilmente quei giorni in me perché mi fossero come rotaia per tutta la vita, rotaia sicura per non deragliare o andare fuori via su sentieri che si dipartivano dalla strada regale per perdersi in viottoli molto pericolosi, finenti in un groviglio di liane che avrebbero impedito il mio andare, o peggio in una palude dove sarei affogata. E il Signore, come dice S. Caterina da Siena, siccome è Colui che mette in cuore i santi desideri, così mai non tralascia di secondarli subito. Perciò secondò subito il desiderio che Lui stesso aveva messo in me. Sono vissuta in quei giorni veramente nella luce. Una luce che mi illuminò tutto: passato, presente, futuro; una luce che mi spiegò tutto; una luce che mi accese tutta; una luce che mi fece capire, nel senso più profondo della parola, quale doveva essere la mia vita in Dio, in rapporto a Dio, voluta da Dio perché io conquistassi il regno di Dio. Il mistico belga che io amo tanto, perché lo capisco tanto, dice: «Il Padre nostro che è nei cieli è il Padre delle luci; è Colui che vuole che si veda». Per vedere «occorre un'anima disciplinata e preparata all'esercizio pratico della verità e della giustizia, e questa pratica deve aiutare l'anima e non pesarle sopra. È atto a ciò chi non è schiavo di nulla, neppure delle sue virtù. Occorre aderire inoltre a Dio con l'attività dell'amore: l'ardore che brucia apre lo spirito. Occorre infine perdersi nella tenebra sacra dove il Gaudio libera l'uomo da sé stesso, e non più ritrovarsi al modo degli uomini. Nell'abisso della Tenebra, dove l'amore dà il fuoco mortale, io vedo germogliare la vita eterna e la manifestazione di Dio. Là nasce e brilla una certa luce incomprensibile, che illumina la vita eterna, e noi cominciamo a capire qualche cosa». Io possedevo, per dono gratuito di Dio - a Lui sia data tutta la lode - un'anima disciplinata e preparata all'esercizio della verità e della giustizia. Sì, devo riconoscere che ho sempre cercato di vivere nella verità e nella giustizia, di sempre più conoscere la vera essenza della verità e della giustizia e di conformare la mia vita a questo conoscimento. Il Maestro, il mio unico Maestro, mi istruiva in ciò perché, ripeto, tutto quanto è fiorito in me è sempre stato unicamente seminato da Lui, e le parole degli uomini di Dio rimanevano in me spente, come lampada senza olio, finché il mio Dottore divino non metteva Sé, olio di nutrimento sublime, ad alimentare la mia lampada. Solo allora io vedevo il senso vero di quelle


parole udite e non comprese. Egli mi aveva dunque già istruita sulla necessità di vivere molto nella «cella mentale», come dice la Santa senese, per conoscere ed amare «la ricchezza della luce» e «dissolvere la povertà delle tenebre». Così vivendo in un raccoglimento attento si riesce «a lavorare con la verità che abbiamo dentro di noi». Questo conoscimento della verità e della giustizia, che sempre più cresceva in me, non m'era peso sull'anima ma ala per sentire meno la gravezza della carne. Della quale carne, per allora, sentivo ben poco lo stimolo. Sapevo, unicamente per amore di Cristo, dimenticare me stessa, affrancarmi da me stessa, da tutto, anche dalle mie stesse virtù che capivo essere non mie ma di Dio, affrancarmi anche da «quella tenerezza di noi medesimi che», sempre secondo Caterina, «altro non è che amor sensitivo, il quale amor sensitivo ostacola la Verità e le impedisce di riempire il cuore portando in luogo della Verità l'amore disordinato che altro non è che amor proprio». Perciò non ero schiava neanche delle mie virtù. Molto più tardi ho, sempre secondo il consiglio della Mistica domenicana, «saputo armarmi della mia sensualità» per farmene uno strumento di vittoria, «poiché chi non ha battaglia non ha vittoria ed è nel tempo della battaglia che l'uomo ha modo di levarsi dall'inerzia e anche di conoscere la debolezza e la fragilità della passione sua sensitiva». Utile conoscimento questo per rimanere umili... Aderivo a Dio con l'attività dell'amore, oh! questo sì. Egli era il mio amore, il mio Amore anzi, ché nulla era più completo di questo sentimento per Lui nella forma che potevo dargli allora, giovane come ero. Il mio spirito poteva perciò aprirsi a comprendere sempre più la Verità e la Giustizia. E, per quanto lo potessi allora con la mia capacità di giovinetta, sapevo già perdermi in questo amore, abbandonarmici tutta, annullare me per far vivere Lui solo, sentendomi spaesata, straniera nel mondo che non l'ama e non vive di Lui: un controsenso dal punto di vista umano, come sono dei controsensi tutti coloro che fanno Dio unico scopo della loro esistenza. Perciò Dio, in questa mia vigilia di entrata nel mondo che mi spauriva tanto, presaga come ero di quanto soffrire avrei trovato in esso, manifestò chiaramente Sé stesso sprigionando la sua Luce, ed io cominciai a capire qualche cosa. Quel tanto che mi bastasse per allora a darmi la prima nota del canto che avrei dovuto cantare sulla mia croce, la prima parola del mio atto dì offerta, il primo colpo di pollice nella creta molle della mia anima per foggiarla secondo la forma che Dio aveva scelta per me: una forma di crocifissa ben alta fra terra e cielo e bene inchiodata! Dirle ora, dopo oltre trent'anni, tutto quanto Dio mi disse, sarebbe impossibile. Un'ampolla preziosa che ha conservato nel suo interno le essenze più fini di mille fiori, una volta che rimane vuota di esse non può più dire all'olfatto dell'uomo: «Qui era una molecola d'olio di rose e là una di olio di garofano; qua erano condensate le lacrime odorose di mille violette e più giù era l'anima candida di cento mughetti». No. Non si possono più dividere i diversi aromi. Ma l'olfatto nostro sente un'unica tenace soavissima fragranza in cui palpitano le parti spiritali di tutti i fiori dei giardini terrestri. Così io, curvandomi sull'anima mia, mistico vasello in cui in quei giorni scesero piogge di fiori celesti, non posso più sceverare i singoli effluvi, ora acuti ed eroici, ora miti e penitenti, ora esilaranti come un vino, ora pacificanti come un balsamo. No: sento solo una fragranza persistente che vento umano, per violento che fosse, non riuscì mai a


disperdere e che è la fragranza di Dio, del nostro Dio, del Signore nostro Gesù. Però una parola è rimasta nitida in me. Una parola, meglio una frase che compresi subito sarebbe stata quella che avevo chiesta con umiltà e fiducia. La frase-programma, la frase-guida, la frase-monito di tutta la mia vita futura. «Anima che mi ami», disse Gesù, «deponi il desiderio di amarmi come Agnese e Cecilia, come Agata e Lucia. Th non sarai l'amore innocente. Sarai l'amore penitente. Non le vergini incontaminate, passate nel mondo quasi non per merito dei loro piedi, ma portate dagli angeli in volo, onde il fango della vita neppur sfiorasse la loro stola, saranno le tue guide, ma le creature che conobbero il morso del male, che mordettero la polvere in ora di crollo morale, che spasimarono per la creatura perdendo di vista il Creatore e che poi seppero risorgere e rinascere con un 'anima nuova formata di pentimento e di amore, elevandosi tant'alto nella vita dello spirito da riacquistare una fulgidezza non minore a quella dei puri per grazia di Dio e certo più meritoria perché dolòrosa, faticosa oltre ogni modo a conquistarsi». Sì. Se è bella la palma dei martiri che seppero confessare Cristo davanti ai nemici di Cristo, non meno bella è quella fronda che infiora le braccia di coloro che confessarono Cristo non solo davanti ai nemici - e in un attimo solo di martirio, fra le contingenze che aiutano a questa eroica professione di fede, non dissimili a quelle che fra scoppi di cannoni, squilli di trombe e gridi di vittoria spingono il combattente a portare più oltre la sua bandiera per confessare il suo amore per la Patria - ma davanti a sé stessi, al loro io passionale, bestiale, sempre risorgente ad ogni ora, guatante gli attimi di distrazione, di stanchezza, di debolezza per sopraffare la creatura che ha saputo metterlo sotto i suoi piedi. Che lotta segreta, oscura, non confortata da nessun coefficiente è mai questa di creature che avendo conosciuto il senso umano devono ripudiarlo, vogliono ripudiarlo perché ormai assorbite, con la parte migliore - quella dello spirito - in un ideale di redenzione e di amore! Solo gli angeli di Dio la vedono. Solo loro guardano con compassione e con ammirazione la creatura che suda sangue nella sua rude battaglia contro sé stessa. Solo loro noverano i suoi lamenti, le sue lacrime, i suoi singhiozzi; solo loro vedono lo sforzo sovrumano che tende le midolle dei nervi fino a spezzarle, che stritola le fibre, spezza il cuore come può fare un torchio, una macina, una mola di frantoio. Solo loro vedono l'incenerimento, meglio lo scioglimento di tutta una personalità che sotto il fuoco del pentimento e dell'amore si strugge e ribolle come metallo nel forno fusorio, depurandosi di tutte le scorie e tornando alla luce come blocco incorruttibile che nessuna vena scadente contamina e nessuna ruggine può più intaccare. Solo gli angeli vedono questo... No. Anche Dio lo vede. Lo vede anzi con una perfezione quale la vista angelica non può avere. E scende allora Dio; presso questa sua creatura che l'amore ha riplasmata e il pentimento ha spronata ad altezze sublimi di immolazione, Egli prende la sua dimora, anzi fa di Sé dimora dell'anima pentita e amante, raccoglie tutte le lacrime di lei mettendole nel calice del suo stesso Cuore, scrive tutti i suoi olocausti nel gran Libro della vita, infonde continua vitalità per perpetuare quell'esistenzà che l'immolazione distruggerebbe in breve ora, e quando tanto di lei si innamora, poiché la sua umiltà dolorosa e la sua generosità riparatrice lo affascinano, da guardarla come la sua perla più cara, allora la issa sulla sua stessa Croce, su quel trono grondante del suo Sangue, e la fa


corredentrice seco Lui dell'umanità sprofondata nel senso e nel peccato. Di tutte quelle prediche udite in quei giorni e capite, per grazia di Dio, come mai avevo capito fino allora, una fu quella che come a Saulo sulla via di Damasco fu folgorazione dell'anima mia. E fu quella su Maria Maddalena. Lei dirà: «Ma che idea quel vescovo! Parlare di quella creatura a delle giovinette!». Lo spirito del Signore soffia dove e come vuole. Le Suore, le compagne, io stessa, sul primo, rimanemmo tutte un poco stupite quando Sua Eccellenza, dal piccolo pulpito elevato presso l'altare, pregò le Suore di fare uscire tutte le educande fuor che le grandi, perché voleva parlare solo a loro. E ancora più stupite rimanemmo quando udimmo che egli ci voleva parlare della Maddalena. Non conoscevamo, allora, tutta l'estensione della vita di questa donna avanti la sua conversione. Ma quel poco che ne sapevamo era assai per farci sbarrare gli occhi e drizzare gli orecchi per lo stupore e per meglio udire... Non so che effetto fece alle altre quella predica, sublime, perché Monsignor Cazzani,. che era ed è un grande oratore sacro, toccò quel giorno le vette dell'eloquenza. Per mio conto penso che Dio volle che io udissi quelle parole e che le fece dire perché io le udissi. Padre Didon dice, parlando di Maria Maddalena: «Niente è più potente su un'anima accasciata dal peso dei suoi falli che la mansuetudine che compatisce e la voce che perdona... Che cosa passò nel cuore della Maddalena? Noi lo ignoriamo. Un giorno i suoi occhi si aprirono ed ella riconobbe in Gesù il Salvatore che perdona. Quel giorno ella non esitò. Simili nature non si arrestano mai a mezza via; la loro grandezza è di andare sempre, nel bene o nel male, all'estremo di loro stesse. Colui che ama non ragiona: egli ubbidisce come schiavo al sentimento che lo soggioga.... Rimettere i peccati non appartiene che a Dio. La fede in Dio solamente salva le anime perdute e non è potere dell'uomo di dare il perdono e la pace. Gesù dice queste cose e le compie. Quelli che le hanno sentite e esperimentate, come la Maddalena, nel segreto della loro coscienza le comprendono... D'ora in poi il peccatore può avere della fiducia; la sua miseria non è più senza speranza. Il male ha trovato un maestro; per vincerlo basta che l'uomo creda e si penta, pianga ed ami. Per in basso che sia caduto gli restano ancora la fede e le lacrime. Che egli imiti la peccatrice e venga a piangere ai piedi di Cristo. Delle legioni d anime si sono alzate dall'ignominia seguendo la peccatrice di Magdala. Ella apre la via e conduce il corteo dei convertiti e dei riabilitati; ella personifica l'umanità perduta nel vizio che ha trovato ai piedi di Gesù il Dio che essa doveva amare e il cui amore la trasfignra donandogli la misericordia e la pace». Io non sono scesa dove è scesa la Maddalena, per grazia di Dio. Ma mi sono smarrita dietro tanta chimera umana. Glielo farò vedere. Il Cristo, al quale avevo giurato amore, era stato trascurato da me e, se non ero giunta a rinnegarlo come Pietro in un'ora di paura, avevo certo fatto come gli invitati al festino di nozze, che non vi andarono, distratti come erano dietro ai loro affari... Ho peccato, si, mio Dio, ho peccato. Se non materialmente, col desiderio e tanto, e Tu, Maestro mio, mi hai detto: «Il male non basta non farlo. Bisogna non desiderare di farlo». Io ho desiderato di fare il male e così ho conficcato altre spine nel tuo capo e spremuto altre lacrime ai tuoi occhi... Poi ti ho incontrato di nuovo e Tu mi hai guardata... e non mi hai condannata. Non hai avuto una parola di rimprovero per le mie colpe... Solo mi hai guardata... e più di ogni parola è


stato per me richiamo che salva il tuo sguardo. Allora sono venuta a Te per sempre, mettendomi sulla scia delle anime pentite che hanno ritrovato nella penitenza e nell'amore la veste delle nozze, purificata nel sangue tuo e nel nostro pianto, il cui primo piovere sui tuoi santi piedi è venuto dagli occhi della Maddalena, colei che è la nostra maestra nella via della redenzione, nella scuola dell'amore e del pentimento, colei che è per noi fonte di speranza perché a lei, che molto amò, furono rimessi tutti i peccati, e se noi ameremo molto ci saranno rimessi i nostri peccati. Le caste e ardenti lacrime della peccatrice convertita, le sue adorazioni senza parole che le fanno dimenticare il tempo che scorre e le necessità della vita umana - e Tu, Maestro, devi intervenire a difenderla contro il mondo che la guarda scuotendo il capo con commiserazione perché «Maria ha scelto la parte migliore, quella che non le verrà mai tolta», così come la difenderai davanti al Fariseo sprezzante, così come la difenderai quando tutti la rimprovereranno di aver sciupato trecento denari di unguento di nardo schietto, così come la difenderai sempre perché avrai capito la generosità di quest'anima ardente - quelle caste e amorose lacrime mi hanno insegnato l'arte di prenderti, di fare di Te il mio Amatore, lo Sposo, Colui che è ragione di vita, di gioia, di gloria, mi hanno insegnato il metodo per cancellare il male che ha avvilito la mia anima, creata per Te, e sostituirvi il bene, trasformando in tal modo la povera anima mia - che l'amore per la creatura, l'amore disordinato per la creatura aveva avvilita, fino a farne una spelonca abitata dallo spirito della ribellione e della sensualità - in camera nuziale, tutta bella e pura, dove consumare le nozze fra me e Te... Ecco che sono da capo andata fuori strada... Torniamo al punto giusto. Dio volle che io udissi quelle parole per darmi una guida nel futuro. Esse caddero come pietre nel lago del cuore e vi sprofondarono. L'acqua tranquilla della mia giovinezza pura le ricoprì di un velo equoreo e stettero là, nel fondo, senza più dar segno di loro. Ma quando la tempesta della vita scosse, morse, corse sul lago del cuore e lo sconvolse tutto portando in alto fango e avvincenti alghe a intorbidare le acque e a rendere difficile il muoversi in esse, tornarono a galla anche quelle parole e, bagnate come erano delle acque profonde, scintillarono sotto al sole divino e divennero fari di salvezza, di guida per me. Però fin da quel giorno in cui le udii ho capito che le avrei ritrovate nell'ora voluta da Dio e che sul loro insegnamento dovevo intanto meditare, con tutte le mie limitate forze, per essere capace poi di comprenderle completamente quando fosse venuta l'ora della lotta e della cognizione. Ho capito, questo poi chiaramente, che io ero chiamata da Dio a una vita di dolore, che il pianto sarebbe stato il mio compagno e la croce la mia insegna e che dovevo fin da quel momento, rinunciando ai dolci sogni di martirio quale fu quello dei primi cristiani, prepararmi all'oscuro martirio del cuore, ignorato da tutti fuorché da Dio, continuo, esercitato per tutta la vita e in tutte le contingenze della vita. Lo capii così chiaramente, come se l'Angelo del Signore, tenendo aperto davanti ai miei occhi il gran Libro dei destini umani, mi permettesse di leggervi il mio futuro... Il giorno dopo vi fu la chiusura dei santi Esercizi. Credo sia stato questo il momento che le Suore penetrarono nel mio segreto. Ero così commossa, per quanto sapessi dominare molto bene, come sempre, le mie emozioni, che esse, le care Suore, ne ebbero sentore. Troppo la voce di Dio aveva


risuonato in me, e vi risuonava, perché non trasparissero dal mio volto le impressioni che avevo nel cuore. Troppo mi ero attaccata, nella rivelazione, a Dio per averne conforto e troppo soffrivo nello staccarmene. Una sensazione non solo metaforica ma vera di lacerazione di ibre, perché il dolore di questa lacerazione che si produceva in me, ora che necessariamente dovevo tornare alla vita abituale, uscendo da quel ritiro dove ero stata con Dio, era veramente tormentosa. Le Suore non potevano non avvedersene. Mi pareva di non poter vivere... Ho provato poi molte separazioni e molto dolorose e posso dire con esperienza che questa era ancor più mordente di esse. Se le separazioni umane mi hanno serrato il cuore fino ad ammalarmelo, questa mi soffocava come se tutta l'aria mi venisse tolta. Ero desolata come mi fosse stata levata libertà, luce, ricchezza, salute, amicizia, parentela, tutto insieme. Ma a che tanto spiegare con povera parola umana quella mia ora di ansia spirituale? Quando rileggo il Cantico dei cantici trovo una eco, molto minore, di quell'accorato cercare per valli e monti Colui che è il Bene della creatura amante. Ma le infuocate espressioni del poema di Salomone sono ancora poca cosa rispetto a quello che io provavo. Ho letto di poi le ardenti pagine di S. Giovanni della Croce e di S. Teresa d'Avila e vi ho trovato un'eco più perfetta, ma sempre minore al sentimento mio. Ho capito perciò che la parola umana è incapace di esprimere quel che è sovrumano. Forse solo un Serafino potrebbe scrivere le ansie dell'amore divino... Ma i Serafini adorano e tacciono... Le mie Suore con molta delicatezza si affacciarono appena sulla soglia dell'anima mia piena di ansia di cielo, venerarono in essa l'opera di Dio e non penetrarono oltre. Rispettarono... Unica cosa da fare in quei casi, perché qualunque intrusione, anche la più pura nel suo modo di agire, è una profanazione. I divini contatti dell'anima con Dio vanno sempre rispettati come cosa sacra. Nel libretto distribuito a tutte per ricordo dei santi Esercizi, sulla pagina, anzi sulle pagine dedicate alle nostre riflessioni e ai nostri propositi e dove le mie compagne scrivevano, scrivevano certi sproloqui pieni di sospirii colombini e di sentimentalismi sterili, io scrissi una frase sola: il mio programma per la vita futura, la mia norma di condotta verso la mia famiglia, verso me stessa, verso il prossimo, verso Dio. Una unica frase ma che è vasta come gli oceani e profonda come essi e che può empire di sé la più lunga vita: «Sacrificio e Dovere in ogni ora, in ogni contingenza». Sono stata fedele a questo proposito. E se qualche volta la mia umanità pareva trionfare sul mio spirito, sono però sempre presto tornata a praticare in pieno il sacrificio e il dovere, e posso dire che completamente in disparte non li ho mai posti, anche se le tentazioni furono tali e le mie gioie nel dovere così nulle da suggerire di abbandonare quel proposito e abbandonarmi alla corrente. In seguito a quanto era trapelato dal mio viso, chissà che... Non posso saperlo perché specchi non ce n'erano e io avevo ben altro per il capo quella mattina perché mi venisse in mente di guardarmi nello specchietto tascabile che ci concedevano di tenere. Non posso perciò sapere cosa trapelasse dal mio viso né come esso apparisse mutato. Ma insomma in seguito a quanto era trapelato dal mio viso la Superiora incaricò la Suora, che più sapeva parlarmi, di chiedermi se avevo intenzione di farmi suora io pure. La disillusi subito. Oh! sarebbe stato dolce prendere quella via, mettersi per sempre all'ombra di Maria, sotto il suo manto e scorrere la vita così... Ma


non era la mia via e la vita in cui Dio mi voleva. Questo lo sapevo chiaramente. Il mondo doveva essere la mia arena di combattimento. Non sapevo quale sarebbe stato il combattimento, ma sapevo che doveva avvenire nel mondo e non nel chiostro. Povere Suore che avevano già fatto le più rosee ipotesi su di me e mi vedevano già con la cuffietta in capo! Lo sa Iddio se avrei preferito avere quella vocazione!... Ma non l'avevo. Sapevo che andavo incontro al dolore, ma dovevo andare incontro al dolore. Con pianto e con strazio vedevo abbreviarsi il tempo che ancora mi separava dal dolore ma non lo potevo impedire. Ero nelle condizioni di un condannato che vede sempre più avvicinarsi il momento della esecuzione della condanna. Più le Suore e le compagne moltiplicavano le loro tenerezze per me, prossima a lasciarle, e per andare così lontano che difficilmente avrei potuto rivederle mai più, e più in me cresceva, in uno con la gratitudine per il loro affetto, il mio affanno. Potrebbe parere strano a taluni ma è la verità. Ho sofferto molto più ad uscire dal Collegio di quello che non avevo sofferto ad entrarvi. Forse sarà dipeso dal fatto che in quattro anni ero divenuta più adulta, naturalmente, e perciò sempre più si affinava in me quella sensibilità che è una delle mie qualità principali, forse la principale, mia dote e mio tormento. Perché se èuna dote avere l'animo gentile, sensibile a tutte le più piccole sfumature degli avvenimenti, è questo anche un grande tormento, le gioie essendo molto poche nella vita mentre le cose penose sono sempre numerose e sempre presenti. Questa sensibilità, che io tenevo per quanto possibile nascosta perché ho sempre odiato sciorinare i miei sentimenti sotto gli occhi di tutti, quasi sempre indifferenti quando non sono addirittura beffardi, cresciuta con gli anni col crescere della mente, mi rendeva sempre più paurosa del futuro. Sentivo, sentivo che per me finiva quel poco bene di cui avevo fino allora goduto e, come una sensitiva che sente avvicinarsi la mano, rabbrividivo in tutte le mie fibre e mi serravo su me stessa. Oh! fu una ben melanconica creatura quella che, col cuore che si lacerava nello strappo da quella dimora dove avevo conosciuto solo ore serene e sereni affetti, varcava la soglia del Collegio per uscire incontro alla vita! Era il pomeriggio del 23 febbraio 1913. Le Suore, che negli ultimi tempi avevano moltiplicato all'infinito tutte le più affettuose premure per me, per farmi sentire quanto mi amavano, per supernutrirmi di amore pensando al prossimo digiuno che mi attendeva e che mi avrebbe sterilito il cuore e saturata di tanta cocente nostalgia, mi avevano raccomandato, con le lacrime agli occhi, di essere buona con la mamma per cercare di renderla buona con me. Oh! non a me occorreva raccomandare questo. Io stavo sempre alla porta del suo cuore, eterna mendica, a chiedere il suo obolo di comprensione e d'affetto. Ma quella porta restava serrata, arcigna, irta di lance ferrate contro le quali neppur potevo appoggiarmi... So che parlarono in quel senso anche a mamma... Ma le loro parole restarono lettera morta, anzi riuscirono a creare il contrario del prefisso. Mamma cominciò subito a rimproverarmi di averla dipinta presso le Suore come arida e intransigente. Ma, mio Dio!, non c'era bisogno che la dipingessi io così. Tutto in lei stessa la mostrava quale era: più matrigna che mamma. I suoi modi, i suoi scritti, le sue indifferenze per la mia salute, la sua grettezza per le mie piccole necessità di collegiale, tante cose insomma, avevano istruito e molto bene le Suore, rese esperte dai continui contatti con centinaia di mamme e di


papà, su quel che era mia mamma verso di me. Non c'era bisogno che io parlassi, cosa che non feci mai perché di certe miserie ci si vergogna come di un'onta o di una malattia vergognosa. Se qualche volta durante gli anni che vennero poi parlai in proposito, fu sempre perché altri si erano già accorti del vero circa i rapporti fra mia madre e me e, poco delicati, mi avevano fatto domande, a me penose come un acido su una ferita. Pensi che diverse persone mi hanno chiesto se «era proprio la mia mamma vera o se era una seconda madre»... Questo le dica tutto, Padre. Spontaneamente io ho parlato difficilissimamente e solo con persone che hanno attirato tutta la mia confidenza, che concedo così raramente, e in più queste persone devono essere tali, per l'abito che portano e il buon senso di cui sono pieni, tali da darmi affidamento che il mio penoso segreto sia confidato a chi non ne fa oggetto di scherno e pettegolezzo. Uno dei pochissimi ai quali ho spontaneamente detto le cose come stanno è Lei, Padre, e per i motivi sopra accennati e perché, dovendo Lei dirigere l'anima mia, in questa ora estrema del mio vivere, è doveroso che sappia il vero su cose che tanta sofferenza e turbamento portano all'animo mio. PARTE TERZA Firenze. Le preghiere liturgiche di oggi, 18 marzo, portano le seguenti parole all'introito della S. Messa: «E’ bello dar lode al Signore e cantare inni al tuo nome, Altissimo». Si può dar lode al Signore in molti modi perché, come in cielo molte sono le magioni del Padre e diversi, in esse, i gradi di gloria dei beati, altrettanto in terra diverse sono le maniere di servire e lodare Iddio, per quanto uguale ne sia il fine e uguale il premio di vita eterna. È bello dar lode al Signore con la purezza e l'ubbidienza di una vita intemerata che non ha mai conosciuto soste nel suo andare verso Dio. Ma è anche bello dargli lode con la riparazione di una vita che, convinta del suo fallo, si umilia fin sotto alla polvere di cui è men degna perché, essendo dotata di ragione, ha più mancato verso Dio che non manchi la materia bruta se disubbidisce, per un attimo, all'ordine voluto dal Divino Fattore. É bello perché si testimonia così, per tutto il resto della vita, che noi siamo nulla, e lo prova il nostro cadere miseramente non appena Dio ci lascia a noi soli, e che riconosciamo che nella nostra risurrezione è la voce di Dio che opera, comandando a noi, poveri Lazzari morti alla grazia, sepolti nel buio, fetidi di peccato, corrotti nello sfacelo di morte, il suo imperativo di potenza e di compassione: «Lazzaro, vieni fuori». Allora noi, poveri Lazzari, si esce dalla prigione della tomba morale e, ancora con le braccia, le gambe, il corpo involto e impedito dai lacci mortali, sozzi dei trasudati delle malattie morali e ancora col volto coperto dal sudario e la lingua intorpidita dalla paralisi di morte, moviamo i primi incerti passi, balbettiamo le prime parole di lode finché Gesù, ancora «fremente in cuor suo» per la constatazione della morte di questa creatura, ricomprata dal suo Sangue e da Lui strappata, col suo Pianto, alla stretta mortale, comandi una seconda volta: «Slegatelo e lasciatelo andare». Allora, liberi totalmente da tutto l'apparato funebre, noi, risorti, cantiamo, insieme a Gesù, Figlio di Dio, il nostro inno al Padre che è nei Cieli: «Padre, io ti ringrazio!». Per mio conto sento che se deve


esser grato a Dio colui che la bontà di Dio ha sempre preservato dal male, ancor più gli è grato colui che si vede da Dio salvato. Dissento in questo da S. Teresa del Bambino Gesù. In un punto della sua «Storia di un'anima» ella dice che il massimo della gratitudine la deve sentire l'anima a cui Dio, come un padre amorosissimo, ha sempre scartato tutti i pericoli. Io dico che non è così. Infine Dio ci ha o non ci ha dato l'intelligenza, la capacità quindi di guidarci? Infine Dio ci ha o non ci ha dato un cuore capace di amare? Or dunque, posto che Dio ci ha creati capaci di guidarci moralmente e ci ha dato una Legge perché sì sapesse come guidarci, il dovere nostro è di vivere moralmente retti, secondo la sua Legge e secondo anche l'invito dell'amore. L'uomo sa che Dio lo ama. E come potrebbe dubitarne se ci ha tanto amati da mandare il Figlio suo a morire per noi? L'uomo sa che le sue ribellioni, le sue cadute, il suo persistere nel male dànno a Dio dolore. Badi che non tengo conto dell'offesa. Mi occupo solo dell'amore. L'offesa presuppone un futuro castigo. È giusto. Ma con questo castigo la partita fra il Giudice e il colpevole, fra la Legge e il trasgressore della legge, è bella e liquidata. Invece non si liquida, in nessun modo, la pena che noi rechiamo al Cuore del nostro Dio col nostro disamore. Cento inferni non basterebbero a distruggere questa pena, nulla la può riparare, nulla che sia castigo. Solo il nostro ritorno all'amore, all'ubbidienza amorosa, solo il nostro amoroso pentimento che si duole, non del castigo meritato, ma dell'avere addolorato Iddio, può riportare il sorriso negli occhi di Chi ci ha creati, amandoci al punto di immolarsi per noi. Perciò, quando un'anima si accorge che la longanimità di Dio è stata tanto grande, la sua pazienza tanto somma, la sua paternità tanto amorosa da darle tutto il tempo, tutti i mezzi, per tornare a vivere nella legge, non solo, ma non appena la creatura dal suo fango, nel quale ha bestemmiato Iddio, ha vilipeso sé stessa, creata a immagine e somiglianza di Dio, leva lo sguardo al cielo in un anelito di redenzione, vede scendere Dio a rialzarla, a stringersela al cuore, a confortarla a sperare nella sua guarigione, ad assicurarla che, per suo conto, essa è già perdonata e amata doppiamente, appunto perché è una povera anima ammalata, indebolita dall'infezione subita, come può detta creatura non sentire una gratitudine ancora maggiore di quella di colei che non avendo mai demeritato è giusto che sia amata? Si dirà: «Ma quest'ultima deve esser grata a Dio appunto perché Egli l'ha preservata». Ma quanto mai, rispondo io, non gli sarà arcigrata colei che si vede amata di un doppio amore che non solo ama, ma ama al punto di perdonare l'offesa ricevuta? Il Maestro l'ha detto: «Quegli a cui meno si perdona meno ama». Ora, coloro che hanno lievemente, solo lievemente disgustato Dio, più con imperfezioni che con vere colpe, ricevono naturalmente un perdono minore, ma coloro che hanno peccato gravemente, ostinatamente, devono per forza fruire di un perdono molto, ma molto più grande. E perciò hanno un obbligo, soavissimo obbligo di gratitudine sconfinata verso il Perdonatore divino. «La tua fede ti ha salvata, vattene in pace», dice il Salvatore all'anima macchiata dal peccato e che si volge a Lui, il solo che la può mondare. Grande la fede in Lui di quest'anima che ha capito dove sta la medicina per la sua lebbra! Grande di conseguenza la pietà del Medico divino che si curva a sanare le sue piaghe. È un flusso e riflusso di generosità fra l'anima e Dio. L'anima si dona incondizionatamente,


generosamente, sotto il pungolo del pentimento e della riconoscenza. Dio, il Perfetto in tutte le cose, non può esser da meno della creatura umana, e perciò dona la sua generosità perfetta nel perdono che è la più alta forma dell'amore. Ma brava Maria! Guarda dove sei andata a finire! Su un pulpito, tu che non sei neppur degna di stare sotto a un pulpito! Mi perdoni, Padre. L'amore riconoscente è come un vento che trasporta ben lontano e bene in alto... Quando lo Spirito Santo - io penso che sia il Paraclito che genera queste forze nei cuori - infonde in noi il suo fiato divino, esso ci investe e ci trascina in un gorgo soprannaturale verso le altezze dove vive Dio e da dove provengono gli splendori che illuminano la povera anima oppressa dall'involucro mortale. Bisogna che l'anima canti, in certi momenti, per non esplodere sotto la pressione e l'incandescenza dell'amore. E se la povera parola umana è sempre insufficiente ad esprimere il divino, è pur sempre sfogo al superardore che ci accende più di una febbre... E infatti una febbre spirituale, non meno struggente di una febbre fisica. Finché non raggiungeremo l'età perfetta, nel bel Paradiso, siamo dei piccoli bimbi, intenti a farfugliare le prime parole. E fossimo almeno dei pargoli anche per la vita di fede!... Ma noi sappiamo restare all'infanzia solo nel bene. Nel male invece diventiamo subito adulti, purtroppo, direi perfetti, laureati nel male. E così ci rendiamo indegni di entrare nel regno dei cieli dove entrano solo coloro che sono senza malizia come bimbi innocenti. Ma veniamo alla mia storia. Arrivammo a Firenze la mattina del 1° marzo 1913. Il 4 marzo prendemmo possesso del nuovo appartamento. La casa, molto bella e ariosa, guardava colla facciata sul Parterre di S. Gallo, allora non deturpato da quel brutto palazzo costruitovi molti anni dopo per le Esposizioni dell'Artigianato. Nell'interno guardava su un bel numero di giardini che andavano fino al viale Regina Vittoria. Dico i nomi di allora perché ora, con la fobia per tutto ciò che è inglese, hanno messo altri nomi che non so. Fra questi giardini vi era quello del convento dei Gesuiti con annessa chiesa. Vedevamo i Padri passeggiare là dentro o giocare coi ragazzi del Ricreatorio festivo. Dalla parte della via, prossimi come eravamo all'angolo di via Pancani con via Madonna della Tosse, eravamo vicinissimi alla antica chiesa della Madonna della Tosse. Dalle finestre si poteva guardare dentro in chiesa. Ricordo che nel mese di maggio e di giugno io mi mettevo alla finestra e assistevo alla Benedizione eucaristica. Vedevo l'ostensorio alzarsi benedicente, con la sua Ostia santissima, candido sole fra l'oro della raggiera, sulla folla devota, e l'odore dell'incenso e le parole dei cantici venivano fino a me... Anche dalla chiesa dei Gesuiti, dedicata pure a Maria Madre del Buon Consiglio, se non erro, venivano cantici e effluvi di incenso. Io ero su questa linea mistica fra due chiese dedicate a Maria. Dalle finestre - abitavamo un terzo piano - vedevo tutte le colline di Fiesole, Vincigliata, il monte Morello da una parte e dall'altra il Casentino sfumava all'orizzonte con le sue curve molli, i suoi dorsi selvosi che cambiavano di colore sotto le diverse fasi della luce solare. Mi dissero che in una certa quale direzione era la Verna. Io, già innamorata del Serafico e della sua dottrina, guardavo sempre là e me ne veniva una grande pace. Firenze, a me, spirito artistico e sensibile, piacque subito moltissimo. Le sue chiese, i suoi palazzi, i suoi musei, i suoi giardini, i Colli così - mi si permetta usare questo aggettivo - così spirituali che si


snodavano da S. Miniato, bianco nero come un saio domenicano, parlando di Dio e ricordando, con le prossime Porte Sante, che noi siamo polvere, che noi siamo crisalide da cui «l'angelica farfalla» che dovrebbe «volare alla Giustizia senza schermi» deve nascere se noi non l'uccidiamo col peccato, si snodano, giù, giù, fino a Porta Romana, fra i francescani ulivi dai fruscianti colloqui delle chiome verdargento coi venti che portano aroma di selve appenniniche o umide fragranze di boschine lungo il fiume, sempre più largo nel suo corso verso il mare. I Colli che hanno per colonne miliari i pennacchi bronzei dei cipressi, la pianta toscana per eccellenza, la pianta che pare pregare e ascendere, in anelito di preghiera, con la freccia pontuta della chioma raccolta intorno al tronco diritto. I bei Colli dai giardini riboccanti di corolle, dalle pendici piene di zirli, di pispolii, di gorgheggi, dalle belle ville sprofondate fra il verde ed i fiori, e le Cascine che cantano con le loro mille piante secolari ed il fiume dalla voce ora piena, per afflusso d'acque, ed ora appena gorgogliante come rio fra i sassi del greto nei mesi di magra. E Boboli e il Parco dell'allora Museo Stibbert... tante oasi verdi dove amavo andare con papà mio. Gli abitanti mi piacevano meno: troppo diversi dai lombardi fra i quali ero vissuta, mi disorientavano col loro modo di fare. Ma con loro avevo tanto poco contatto che era una cosa molto relativa. Uscivo molto con mio papà. Erano i bei mesi di primavera, così festosa a Firenze, e ne approfittavamo per andare insieme nei luoghi che più ci piacevano. Io avevo molto bisogno di svagarmi per sentire meno la nostalgia, veramente acuta, del mio Collegio. Papà sentiva il bisogno di svagarsi per sentire meno la pena di essere un pensionato... E così, unendo le nostre due pene, cercavamo di aiutarci a vicenda nell'acclimatazione alla nuova vita. Per il resto io continuavo a vivere su per giù come in Collegio. Mi alzavo presto, pregavo, la domenica andavo in chiesa e facevo anche la S. Comunione. Avrei voluta farla più spesso, ma mamma aveva subito iniziato un vero corso teorico-pratico, tutto teso a dimostrare come qualmente non vi è nessuna necessità di confessarsi e di comunicarsi spesso e che chi più di sovente ricorre a queste cose non è altro che un ipocrita, peggio degli altri che non ci vanno, ecc. ecc. ecc. ecc. Quante volte, durante i vent'anni che andarono dal 1913, data del mio ritorno in famiglia, al 1933, data della mia clausura per la presente infermità, non mi sono sentita rintronare nella testa queste gratuite lezioni di indifferenza religiosa!!! Se è vero che è segno di amore di Dio il non avere rispetto umano, devo dire che io, allora, fui sempre, anche nei momenti più brutti e nei periodi più desolati, una grande amante di Dio, perché non ho mai ceduto al rispetto umano. Schernita, contesa, offesa perché ero fedele alle mie pratiche di pietà, ho continuato in esse, senza tener conto dei sorrisetti, delle ironie, dei rimproveri che la mia fedeltà mi attiravano. Più tardi, con atto di santa libertà, ho saputo anche andare in chiesa per tutto il mese di maggio, di giugno, per le novene più belle, e comunicarmi tutte le mattine durante questi periodi. Ma in principio ubbidivo, con dolore, e mi comunicavo solo la domenica e il primo venerdì del mese, oltre alle feste principali. Il 1° venerdì del mese! Lei vedrà come io ebbi momenti di ribellione e di offuscamento morale. Ma però, neppure nell'acme più acuto di detti periodi, ho tralasciato di onorare il 1° venerdì del mese. Dal 1909, quando entrai in collegio e seppi di questa pia pratica, io non l'ho più interrotta altro che per malattia. Ma


doveva essere una malattia ben grave, che mi impedisse proprio di andare fuori di casa... E per impedirlo a me, che giravo imperterrita anche con delle febbri a 39 e 40 e mi occupavo della casa, dell'Ospedale, dell'Associazione di A. C., lo stesso come stessi benone, nonostante le alte febbri, bisognava proprio che fosse un male gravissimo... Penso che, se nonostante tutto io ho salvato l'anima mia, è stato per questa fedeltà al l° venerdì del mese. Non lo ha forse detto Gesù a S. Maria Margherita che i peccatori troveranno nel suo Cuore l'oceano della misericordia e che il suo amore accorderà la penitenza finale a coloro che saranno stati fedeli a questa pratica riparatrice? Io fui fedele ad essa anche nei periodi di infedeltà su tante cose, e l'infinita misericordia di Gesù mi ha guarita dalle malattie spirituali: mi ha ridato la vista dell'anima per vedere la sua Via, l'udito dell'anima per udire la sua Parola, il moto dell'anima per andare a Lui, mi ha guarita e mondata dalle lebbre, dalle febbri, dalle avvilenti infermità dello spirito, ha comandato al Maligno di lasciarmi in pace. Ho avuto la Vita per mezzo del suo Cuore, e non dovrei ora dargli la mia vita per dire «grazie» al suo Cuore? Ma torniamo alla mia giornata... Dunque m'alzavo presto, pregavo, riordinavo la mia camera e il salotto da ricevere - era la mia parte di lavoro domestico - aiutavo in cucina, lavoravo, non tanto per allora, studiavo parecchio, suonavo il piano, leggevo molto, andavo a spasso con papà, qualche volta al cinema con lui e anche con mamma, raramente a teatro nei mesi freddi, spesso nell'estate, e mi concavo piuttosto presto nelle sere che eravamo senza conversazione, perché sovente o noi andavamo o altri venivano a passare la serata in amichevoli conversari. A Firenze avevamo trovato amici vecchi e nuovi. Una famiglia, il cui capo era come papà un capo-tecnico dell'Esercito, era composta di marito: un santo nel più vero senso della parola; della moglie: una sventata, una sciagurata che solo quel santo poteva sopportare e perdonare; e di una figlia undicenne. Dopo nacque un bimbo... Io, per quanto innocente come un bebé, mi ero accorta che quella donna era un'indegna che sotto gli occhi del marito, della figlia e di noi stessi, non esitava, con la complicità dei camerieri, a scambiare bigliettini amorosi con i suoi... adoratori, mentre eravamo in qualche ritrovo. Ne avvertii mamma dicendo che non me la sentivo di fare da... paravento a certi retroscena. Fui rimproverata acerbamente perché mamma, la quale, come le ho detto già, vede tutto al contrario di quello che è in realtà, giudicava e vedeva la sua amica come un capolavoro di onestà femminile (!!!). La figlia di... questa signora (!) era... una degna allieva della madre sua. Si preparava alla prima comunione con quella scuola e quelle tendenze... Pensi che un giorno la mia cameriera, per quanto ragazza di campagna e perciò senza troppi scrupoli, senti il bisogno di imporle il silenzio con queste parole: «Taccia e si vergogni. Non permetto che alla mia signorina lei insegni certe cose e tenga certi discorsi!». Io avevo 16 anni e quella... poverina solo 11. Mi sentivo menomare, profanare quando ero con quelle due disgraziate. Ma mamma non ammetteva nulla e dovevo andare. Dopo, nel 1915 e anni a venire, quando lo scandalo divenne così palese da esser pubblico, allora mamma dovette ammettere che io avevo ragione... Già! Ma sa Lei, Padre, come mi ha turbata quel contatto? Il male che ci sfiora non ci lascia mai completamente immuni dal suo virus. Qualcosa penetra e se non arriva a impossessarsi di noi completamente, e questo per grazia di Dio prima di tutto e poi per


natura nostra, ci disturba sempre, specie quando si è ancora creature giovanette. Un'altra famiglia era composta di un tenente colonnello, diviso dalla moglie per incompatibilità di carattere. Col padre colonnello era suo figlio, giovane come me; con la madre tornata a Roma, presso sua madre, era la figlia, più giovane del maschio. D'estate la figlia veniva dal padre e il figlio andava dalla madre. Disgraziata famiglia e disgraziatissimi figli! Questo colonnello abitava al primo piano della nostra stessa casa e aveva un vasto giardino tutto suo, mentre un altro giardino più piccolo era degli inquilini del terreno: due vecchi coniugi di cui uno, il marito, era cieco; buoni e sempre afflitti per i molti nipoti discoli o poveri che venivano a rifugiarsi da loro. Al secondo piano stavano un marito e moglie soli e affittavano metà del loro quartiere a ufficiali o a signori che venivano a svernare a Firenze. Le ho fatto questa descrizione perché è necessaria alla mia storia. Io scendevo spesso in casa del colonnello per andare nel suo bel giardino e anche perché il colonnello trovava che io ero l'unica che sapesse far studiare suo figlio, intelligente sì, ma svagato come la grande maggioranza dei maschi. Povera creatura al quale era mancatà l'assistenza materna! Povero ragazzo sempre in balia delle donne di servizio le quali, a seconda dei loro nervi femminili, lo viziavano o lo aspreggiavano e anche lo facevano punire dal padre per dei nonnulla! Mario, il ragazzo, si era subito molto affezionato a noi, e quando poteva salire al nostro piano e farsi coccolare da mamma era tutto felice. Anche se noi scendevamo da lui era felice. Allora studiava ed era buono. Aveva bisogno di amore, povero Mario che scontava su sé stesso l'egoismo dei suoi! Eh! quanto ci sarebbe da dire in proposito! I figli hanno i loro doveri verso i genitori, sta bene. Ma anche i signori genitori hanno i loro doveri verso i figli... Se si pensasse alle conseguenze di certe «incompatibilità» che altro non sono che egoismo, alle conseguenze le cui vittime sono i figli innocenti, alle separazioni non ci si arriverebbe mai. Ma questo non ha a che fare con la mia storia. Ora che le ho presentato i personaggi principali di quel tempo, vado avanti a parlarle del personaggio che più influi su me allora. Le ho detto che al secondo piano i due coniugi che vi abitavano affittavano metà appartamento. In quell'anno lo avevano affittato ad un giovane. Era di Bari. Era bello, ricco, colto: un laureato in lettere che però non esercitava perché non ne aveva bisogno e che era venuto a Firenze per ricerche, nelle biblioteche fiorentine, di appunti per una sua opera sui primi scrittori italiani. Era anche molto buono, serio, quieto. Uno dei primi giorni che ero in quella casa ci incontrammo sulle scale. Lui tutto bruno nei capelli, nel volto, nell'abito, io tutta rosea e bionda, resa ancor più bimba dal grembiulone che mi copriva tutta. Ci guardammo e simpatizzammo subito. Seppi poi che egli si era subito informato su chi ero io. Però la mia timidezza e il mio credermi un orco - perché una delle specialità di mia mamma era quella di suggestionarmi che io ero brutta, poco intelligente, antipatica, con una tale forza che io mi credevo realmente deforme, semicretina e ripugnante - però tutto questo, dicevo, e la mia educazione, tanto familiare come del Collegio, mi impedirono, naturalmente, di far risultare la mia simpatia. Nel 1913 le donne, se appena appena erano con un poco di cervello nella testa, sapevano stare al loro posto con quel ritegno che è una delle più belle doti muliebri e che ora... è ridotto allo stato di... ricordo. Lui, a sua volta, col rispetto dei meridionali per la


donna, rispetto che per certuni di altre regioni pare un resto di barbarismo lasciato dalle dominazioni arabe, ma che è pur tanto bello a rilevarsi, e con la sua eletta educazione, seppe a sua volta ricoprire la sua palese simpatia sotto una vernice di semplice correttezza. Dico «palese simpatia» perché se non furono scambiate parole all'infuori di laconici saluti e frasi di buon vicinato, perché se non vi furono che gli sguardi a sottolineare le più banali parole ed a farle assurgere ad un più alto significato, mentirei se dicessi che non avevo capito. Una donna certe cose le capisce sempre. Anche se è un'oca. Si finge di non capirle perché così ci consigliano l'educazione e il pudore, ma si capiscono. Quelle che dicono: «Oh! io non mi sono mai accorta di nulla. Non ho capito che il Tale avesse per me una simpatia», mentono spudoratamente. Un sesto senso proprio di chi si innamora, e tanto più acuto nella donna come essere più sensibile, avverte sempre quando due anime o due corpi sono attirati l'uno verso l'altro. Dico: due anime o due corpi, perché negli affetti vi è chi ama unicamente col suo io carnale e chi sa amare anche con la parte spirituale o unicamente con la parte spirituale. E dovrebbero essere questi i più duraturi affetti, perché sentiti e sprigionati dalla parte migliore ed eterna. Nella pratica, invece, avviene tutto il contrario. Essendo difficile trovare l'anima ugualmente elevata che sappia predominare sul senso ed amare essa sola, si finisce che con la nostra affezione, pura da sensualità, si viene a noia e ci si trova abbandonate come creature frigide e incapaci di amare nel modo che i più intendono l'amore. L'ideale sarebbe amare con uguale misura di spirito e di materia. Si amerebbe allora in maniera perfetta. Ma quando mai, noi creature, si è perfette? Insomma noi due ci volemmo bene. Un bene muto, paziente, rispettoso. Egli mi vedeva tanto giovane - parevo una bimba che seppe comprimere il suo sentimento per non turbare la mia giovinezza, riservandosi a miglior tempo di parlare. Io, che avevo capito perfettamente, aspettavo paziente innalzando un altare al mio casto amore. Passarono così dei mesi, venne l'estate. Noi si doveva venire a Viareggio per le bagnature che duravano sempre tre mesi. Mi piaceva la mia casetta di Via Umberto I° col suo giardino dall'arancio verde, il pesco carico di frutta, il cedro, la pergola... Pochi giorni prima che si partisse noi, partì lui per tornare a Bari dalla sua mamma... Era figlio unico, adorato dalla madre rimasta vedova prestissimo. Non l'ho mai sentito parlare tanto, e tanto ad alta voce, come in quei giorni. La sua bella e cara voce saliva dalla sua finestra aperta alla mia finestra aperta e in tal modo io sapevo che andava per tornare, tanto che riconfermava, fin da allora, l'appartamento per il prossimo autunno. E partì. Soffrii molto perché gli volevo bene, realmente bene... «un bene da bambino come a me si conviene», avrei potuto dire con la piccola Ciò-Ciò-san. Perché infatti il mio bene aveva la purezza e la calma di un affetto di bimba. Ma era però tenace e profondo nella sua purezza... Piansi molto, nella mia cameretta, quando lo vidi partire. Mi pareva che tutto si fosse scolorato e che un grande silenzio si fosse fatto sul mondo. Non sentivo più la sua bella voce tonata e virile, la sua perfetta pronuncia, perché, se era di Bari, era però stato educato in collegi della media Italia e perciò parlava un italiano perfetto nella forma e nella pronuncia. Forse Lei si stupirà che io mi sia così attaccata ad uno che per me non aveva avuto che saluti rispettosi e sguardi di affetto. Ma pensi cosa era la mia vita. Col papà in quello stato, con


mamma così dura, senza fratelli, senza sorelle, con un cuore come il mio, ansioso di affetto... Come potevo non affezionarmi ad uno che mostrava di volermi bene con rispetto e serietà? Nulla in lui poteva disgustare una donna. Non l'origine, non la prestanza fisica, non il censo, non l'educazione, non la coltura. Aveva tutti i requisiti per essere amato. Passarono le vacanze. Io, pur fra le distrazioni dei bagni, pensavo a lui. Lui, i fatti me lo confermarono poi, pensava a me. Tornammo a Firenze a metà ottobre quell'anno. La signora del secondo piano, che doveva avere intuito qualcosa, mi disse, così senza parere, che egli sarebbe tornato verso la fine di novembre. Aveva rimandato la sua venuta perché la madre di lui era stata molto ammalata di cuore. Egli amava moltissimo sua madre. Io continuavo a volergli bene. Nessuno, in casa, aveva però compreso il mio sentimento che io custodivo in fondo al cuore. E nessuno nel palazzo, fuorché la padrona dell'appartamento dove egli abitava. Ma era una donna seria e non fece mai pettegolezzi. Passò non solo novembre ma anche dicembre. Io però stavo tranquilla perché sapevo che l'appartamento era sempre tenuto da lui. Venne il 5 gennaio 1914. Quel giorno mamma era uscita per delle visite. Io, fortemente raffreddata, ero rimasta a casa, ben felice di restarvi perché la mia antipatia per le «visite» era andata sempre più aumentando con il passare degli anni. Per sentire meno la melanconia della nebbiosa e grigia giornata invernale mi ero messa a suonare il piano. Ero sola perché anche la domestica era uscita per fare delle piccole spese alimentari. Suonò il campanello. Andai ad aprire mettendo però la catena, perché da quando a Milano ebbimo la visita di certi teppisti non si apriva più immediatamente la porta, specie se si era sole. Egli era lì. Tanto per giustificare la sua suonata al mio uscio chiese se sapevo dove era andata la sua padrona di casa, perché egli non poteva entrare dato che non c'era nessuno. Una piccola bugia perché la signora del secondo piano era in casa: la sentivo muoversi di sotto... Ma che poteva dire di diverso per non dirmi a bruciapelo: «Sono venuto subito alla tua porta perché ti amo troppo per attendere un minuto di più»? Disse perciò una piccola bugia, ma il suo viso, i suoi occhi dicevano la verità. Risposi che non sapevo dove era la sua padrona di casa ma che mi pareva di sentirla muovere. Allora egli mi chiese come stavo e come stavano i miei. Io chiesi a lui come stava sua mamma, perché lui vedevo che stava benone. E fu tutto. Mi salutò, sempre ultrarispettoso, e se ne andò. Io rinchiusi la porta e corsi in camera mia a ringraziare Iddio per la gioia che mi dava. Tornò la domestica, che era una brava ragazza affezionata e fedele, ormai da noi da anni, e glielo dissi. Tornò papà e glielo dissi. Tornò mamma e lo dissi a mamma. Noti bene questo mio dire a tutti, ingenuamente, sinceramente, che egli era tornato. La domestica non fece commenti e papà neppure. Si limitarono a un: «Ah! si? Si capisce che la mamma sta meglio». Ma mia madre, che stava svestendosi, aiutata da me, divenne una furia. La stanza da letto di mamma era esattamente sopra la stanza da letto di lui, che era nella medesima, intento a disfare i suoi bagagli. Maleauguratamente un tubo di stufa, collocata nella stanza di lui, saliva nell'angolo della stanza di mia mamma facendo da portavoce... Mia madre, oh! come mi pesa dover riflettere ancora una volta a come mi fu poco mamma in quell'ora, a come mi mostrò di non conoscere la sua creatura... Mi pesa e nello stesso tempo mi dà la misura di come sono cresciuta in Dio. Perché mentre


per degli anni, ogni volta che toccavo questo argomento, sentivo sollevarmisi il cuore e un sentimento di rancore unirsi al dolore, rancore verso mia mamma che mi ha così offesa e ferita quel giorno, ora mi accorgo che il rancore è caduto e resta solo il dolore. Chi ha operato il miracolo di levarmi dal cuore quel lievito di rancore verso mia madre? Il mio Dio, il mio Padre che è nei cieli, il mio Gesù che mi dice: «Perdona e sarai simile a me», il divino Spirito che mi dà il suo dono di luce e mi fa vedere che tutti i dolori della mia vita, che tutti i crolli delle mie speranze, che tutte le delusioni sui miei affetti, che tutta la solitudine che si è andata facendo sempre più vasta e completa intorno a me, sono stati voluti da un amore speciale del mio Dio che ha, dirò così, potato tutte le mie fronde, segato tutti i miei rami per farmi crescere in altezza, vigorosamente, nel suo giardino. È stata voluta da un amore esclusivo del mio Dio che mi aveva predestinata per Sé e che mi ha levato tutto perché io non avessi più che a cercare conforto in Lui solo. Le mie ali che si aprivano ansiose di volo verso le felicità della vita umana sono state tarpate totalitariamente perché non fuggissi qua e là, ma mi abituassi a vivere nell'uccelliera di Dio. Non si fa così anche con gli uccellini, coi colombi catturati adulti, per obbligarli a stare in nostra prigionia, finché il tempo li smemora del dolce nido natìo, dei boschi verdi, dei liberi voli, dei liberi amori fra le fronde pronube e sotto il bel sole di Dio o il palpitare delle stelle? Sì. Si fa così. Ma come fa male la mutilazione subita! Ma quanto ci vuole perché rimargini e dolga meno! Ma quanto piangere sul bene perduto! Ma quanto, quanto dibattersi prima di rassegnarsi alle sbarre della uccelliera! Ma quanto, quanto, quanto, quanto scorrer di giorni e riflettere e pregare, dopo aver avuto grida di ribellione e impeti di disperazione, prima di capire quale dono Dio ci ha fatto col levarci tutto e prima di giungere ad amare la nostra povertà umana che è ricchezza soprannaturale, la nostra vedovanza umana che è sponsale col Cristo, la nostra tortura che è futura beatitudine! Ora capisco e dico: «Grazie, mio Dio, di avermi voluta per Te!». Ma per i primi anni!... Per quasi un quinquennio ho conosciuto l'inferno delle disperazioni... Basta! Non parliamone più. Mia madre divenne una furia. Tutte le accuse, tutte le insolenze partirono a getto continuo verso di lui, verso la domestica nostra, e verso di me. Ah! su di me poi! Lui era un mascalzone, un profittatore, un indegno che coglieva il momento propizio per rovinare la riputazione di una famiglia onesta (?!). La nostra domestica era una... (le risparmio il termine usato) che faceva da paraninfo ai colpevoli amori (?!). Io ero una... (altro epiteto che le risparmio, ce li metterà Lei) che in assenza dei genitori accoglieva (?!) in casa i suoi innamorati. Dicessi, dicessi, confessassi, confessassi, posto che mi ero tradita, fino a che punto ero arrivata (?), cosa avevo fatto nel maggio dell'anno avanti mentre lei e papà erano tornati a Voghera per 15 giorni. Dicessi, dicessi fino a che conseguenze si era arrivati col mio accogliere, in segreti convegni, chi mi piaceva, perché era impossibile che io non fossi andata all'estremo dell'onestà e del pudore ecc. ecc. (?) Più io giuravo e spergiuravo che nessuna parola, fuorché il saluto che non si nega a nessuno, era stato scambiato fra noi, più io giuravo e spergiuravo che in sua assenza non lui, ma neppure Mario, che era un ragazzo, era salito da me e che io, durante l'assenza dei miei, come d'accordo con lei stessa, ero, si può dire, vissuta nel giardino del colonnello - tutti lo potevano


testimoniare - e più lei si incaponiva in una furia offensiva e ingiusta. La domestica, accorsa alle sue grida, sentito di cosa mia madre la accusava, si licenziò sui due piedi. Fece bene. Non si sta dove non si è stimati quando si può andare altrove. Io, per forza, rimasi. Ero figlia e minorenne. Dove dovevo andare? Avessi potuto, sarei uscita subito da quella casa dove ingiustamente mi si accusava di colpe non vere. Non vere. Non vere. Non mi piace giurare perché penso che l'uomo deve essere creduto sulla sua parola e poi perché lo dice Gesù. Ma sono pronta a giurare, a Lei, Padre, che io dico la verità e che i fatti andarono come li dico. Mia madre, in uno con l'accusa che mi schiaffeggiò l'anima a sangue e che chiuse completamente il mio cuore alla confidenza in mia madre, mi strappò brutalmente il velo della mia casta innocenza di donna vergine e pura. Seppi così che si può fare del male fra uomo e donna. Fino a quella sera del 5 gennaio non lo sapevo. E questo avermi denudato le vergogne della vita, senza pietà per i miei sedici anni ignari, è stata la cosa che più mi ha colpita e separata per sempre, definitivamente, da colei che mi ha generata. Io penso che ci si separa fra madre e figlia quando la figlia non può più pensare di trovare comprensione in sua madre. Resta l'amore, perché quello resta. Ma è un amore istintivo, non dissimile, e forse inferiore, a quello che unisce il cane, il cavallo, il colombo al padrone che lo ospita e cura. La fusione è finita. Si è due individui viventi vicini, ma indipendenti l'uno dall'altro. Qualcosa come quando l'agricoltore, avendo fatto una margotta d'uva, taglia il tralcio, che ormai può vivere a sé, dal tronco principale. Restano vicini, erano una cosa, ma ora sono due cose indipendenti l'una dall'altra. Ed è già molto se la pianta più giovane non si vendica sopraffacendo la pianta più vecchia. Io non ho sopraffatto mia madre. L'ho continuata a servire per dovere, perché le volevo bene, nonostante tutto. Ma il mio cuore si è chiuso come una valva d'ostrica... Mia madre mi respingeva maledicendomi per una colpa che non avevo commessa. Io mi ritiravo straziata. Ma mi ritiravo per sempre. E mio papà? Povero uomo! Mi consolò piangendo... Di più non sapeva fare. E lui? Lui, che aveva sentito tutta la scena, in grazia del tubo della stufa e del tono sopracuto di voce di mia madre, comprendendo che nulla, che nessuna ragione avrebbe piegato mia madre alla ragionevolezza, tanto per persuaderla che nulla c'era di vero nel suo modo di giudicare l'avvenuto, così onesto, così lecito, e che lei trovava addirittura essere una macchinazione demoniaca, non trovò altro di partire subito, la stessa sera. Seppi poi dalla sua ex padrona di casa che egli si riprometteva di tornare molti mesi dopo per trovarmi ormai diciottenne e sperando che nel frattempo mia madre si persuadesse... Povero giovane! Come si illudeva! Mia mamma e la persuasione sono due poli contrari. Pensi lei, Padre, che giornate passai. Scacciata continuamente da mia mamma, nonostante che due giorni dopo l'odiosa scena si fosse fratturato un braccio per via, e perciò avesse ancor più bisogno di aiuto. Aiuto mio perché la domestica era partita immediatamente e perciò eravamo senza donna di servizio. Scacciata e insolentita continuamente, avvilita perché, non contenta di quanto aveva fatto in famiglia, mamma aveva aperto un'inchiesta, diciamo pur così; veramente sarebbe più giusto dire che aveva aperto un pettegolezzo, dal quale menomata usciva sua figlia... È vero che tutti nel casamento asserivano, e il colonnello più di tutti, che io, durante l'assenza dei miei, o ero


stata chiusa in casa o andavo nel giardino del colonnello. Ma era lecito pensare che se mia mamma mi credeva capace di scendere tanto in basso nella scala della serietà femminile, era segno che aveva gli estremi per farlo. Infine io ero li da pochi mesi. Chissà altrove cosa avevo fatto! Tutti potevano pensare che in altri luoghi io avessi fatto dire di me. Mia mamma, accecata dal suo egoismo - in seguito compresi che era egoismo perché, per non perdere la mia assistenza che nessuna cameriera le poteva dare nella misura di affezione e di pazienza che le davo io, mi allontanò sempre tutti i pretendenti - mia mamma, accecata dal suo egoismo, non vedeva neppure che il suo modo di agire intaccava la mia reputazione... Io scacciata, insolentita, avvilita, addolorata per la convinzione che il mio sogno era per sempre dissolto nel nulla. Lui lontano e certo mortificato per avermi procurato un tanto dolore in luogo della gioia che si era prefisso di portarmi. Non facevo che piangere e meditare, inoltre, su quanto mamma mi aveva brutalmente rivelato facendomi conoscere pagine oscure della vita, che io neppur lontanamente pensavo potessero esistere. Non capivo neppure del tutto quanto fossero sudicie e brutte... Vi fu, naturalmente, chi si prese la briga di farlo, e fu precisamente la governante della casa del colonnello la quale, al corrente di tutto per via dell'inchiesta indelicata di mamma mia, dotata come era di un cuore maligno, godette a soffiare nel fuoco e a erudirmi su quanto avrei potuto fare di male. Eppure, mi creda, la bontà di Dio non permise che comprendessi tutta la trivialità di certe cose. Molta parte di esse, quasi per una deficienza mentale, non le capii. Il buon Gesù non volle che la povera anima mia conoscesse tutto il male della carnalità così presto, e non solo il male, ma quelle leggi animali che pure non essendo un male, perché necessarie alla continuazione della razza umana, sono così turbevoli quando ci vengono rese note bruscamente. Dio mi occultò molto del male che mia madre e la governante di Mario mi squinternavano sotto al naso, la prima per imprudenza, la seconda per cattiveria. Dio le perdoni, Lui che lo può, derogando per una volta tanto alla sua parola che chiaramente annuncia il castigo per coloro che scandalizzano uno dei suoi piccoli che credono in Lui. Perché quel poco che capii fu abbastanza per scandalizzarmi e turbarmi. Era come se una mano brutale mi avesse tenuta curva su una mofeta, su una voragine da cui salissero miasmi di febbre. Anche a non voler respirare, qualcosa penetra lo stesso portando nocumento al fisico. E nocumento mi portarono. Non c'è nulla di peggio per una giovane creatura del conoscere a mezzo le cose ed essere portata, dalla mente sempre curiosa, a riflettere, ad arzigogolare su quello che le hanno fatto balenare davanti a metà e per di più nella metà inferiore, in quella che, presentata con malizia, può tanto agitare un giovane cuore. Né qui si fermò il male provocato da mia mamma con la sua intransigenza e col suo egoismo. Ma da questò sono partiti tutti gli altri affanni che hanno distrutto la mia vita, e per poco non distruggevano anche la mia anima. Ora capisco, ripeto, che quel che per un sette anni mi parve ingiusto accanirsi del destino su me, quel che mi parve per sette anni circa immeritato abbandono, da parte di Dio, era invece compiersi su me del desiderio di Dio, anche contro la mia stessa volontà, era non abbandono ma amore geloso di Dio che voleva essere il mio Tutto, il mio Solo, e che perciò doveva agire come agiva per incanalare il mio sentimento, che tendeva ad


espandersi sulle creature, unicamente nel canale che sfociava in Lui. E se dopo avermi fatto tanto male, se dopo avermi spezzato la via che conduceva alle nozze, mamma fosse stata almeno dolce... Avrei finito a non rimpiangere molto il bene perduto. Mi sarei attaccata a lei e mi sarei rassegnata. Ma col suo modo di fare sempre più intransigente e stravagante, col suo continuo rinfacciarmi quel che non avevo commesso, col suo mostrarmi una disistima che non meritavo, e dimostrarmela in mille modi che andavano dal pedinarmi per la via, fin nella chiesa dove andavo per pregare, all'aprirmi tutta la posta, anche quella, ben munita di dicitura sulla busta, che veniva dal mio Collegio e che era guida delle mie buone Suore alla povera Maria lontana e infelice, mi rendeva sempre più triste. Qualche volta riuscivo a scrivere alle Suore di nascosto e a imbucare la lettera con un gran batticuore di essere sorpresa, ma dovevo raccomandarmi di non rispondere a tono perché mamma mi apriva tutte le lettere. Altro che censura di guerra! E così le buone Suore si dovevano accontentare di stare sul vago. Mi davano consigli buoni, ma di ordine generale e non quelli che più mi erano necessari nelle mie contingenze speciali. La mia salute cominciò ad alterarsi. All'ormai cronico dolore vertebrale cominciò ad unirsi una pesantezza delle membra, un turgore alle carotidi, una fatica nel salire le scale. Ma, secondo al solito, quando cominciai ad accennare a queste noie mi sentii rispondere che erano ubbie, sentimentalismi, troppo buon tempo, ecc. ecc. Tacqui perciò e non ne parlai più. Del resto, l'idea della morte mi sorrideva. Pensavo che era l'unico modo per uscire da una situazione così infelice e che capivo non sarebbe mai cambiata. Perciò mi ascoltavo peggiorare senza averne paura, ma anzi avendone gioia. Come vede, Padre, la morte ha avuto per me un volto familiare fin dall'aurora della vita. E se desideravo tanto di finire per trovare pace, una pace umana in fondo, volendo evadere dalla guerra che mi faceva mia madre, vuole che più tardi, quando ho capito che l'immolazione per un fine santo ci apre il Regno della vera pace, io abbia esitato a desiderare l'olocausto completo? E se per amore delle creature che mi erano state levate ho desiderato morire, vuole che non abbia desiderato morire per andare dal mio Gesù che mi ama come Lui solo può amare e che mi ha concesso la grazia di amarlo al disopra di ogni cosa? D'ora in poi vedrà che questa idea della morte è il motivo-base della mia sinfonia. Sinfonia che ha pagine di un' umanità molto, completamente anzi, umana e poi conosce un lungo innalzarsi di armonie, sempre più in alto, nel regno del soprannaturale. Si, la povera Maria tutta umana, che fui dai miei 17 ai miei 24 anni, si è pian piano metamorfosata in una creatura nuova che ha sostituito Dio all'uomo, primo suo amore, che alla sua sete di gioia umana ha sostituito la sua sete di immolazione sovrumana, che del Dolore ha fatto la sua Gioia perché «colui che ama desidera essere simile all'amato», e l'Amato di Maria era Gesù il Re del Dolore. Durante questo tremendo periodo l'unico molto buono con me, anzi gli unici oltre mio padre che era buono ma incapace di difendermi, erano il colonnello e suo figlio. L'uno mi amava come un padre, l'altro come un fratello. Mi volevano spesso con loro, nelle passeggiate, agli spettacoli. Mamma non condivideva le loro idee... ma mordeva il freno perché il colonnello la sapeva mettere sull'attenti. È stato forse il secondo, dopo la mia nutrice, che ha saputo tener testa a mia mamma. Mario poi era pieno di premure per la sua «cara sorellina», diceva lui, la quale


lo sapeva far essere buono e studioso e così gli evitava i castighi di suo padre e sapeva anche dire la verità quando la governante lo accusava a torto, per malanimo. Il Colonnello aveva in me tutta la stima che non aveva di me mia mamma, e credeva a quel che io gli dicevo e mi dava retta. Io ero così la buona fata di Mario, e come lui da questo traeva conforto ugualmente io traevo conforto dalla sua fraterna amicizia così scevra di secondi fini. Eravamo proprio come due fratelli. Ma col settembre 1914 Mario entrò nell'Accademia navale. Persi perciò la sua fraterna compagnia. Ci scrivevamo però per volere del colonnello, che aveva capito quanta benefica influenza io esercitassi su suo figlio. Poi, col maggio 1915, scoppiò la nostra guerra e partì anche il colonnello. Restò solo la governante la quale, quando poteva nuocere, era felice e lo faceva con un'arte talmente sopraffina che sapeva ferire in modo da non attirare rimproveri. Quasi quasi bisognava esserle grati del modo come ci trattava!... Io divenivo sempre più triste e sofferente, e mamma sempre più prepotente. Uniche oasi di serenità, le vacanze di Mario che veniva allora a casa e perciò tornava ad occuparsi della «sua cara sorellina». A mamma Mario non dava ombra. Era tanto giovane: 18 anni, e così ragazzone poi! Anzi le faceva comodo per il suo giuoco che si scoprì più tardi in tutta la sua finezza machiavellica. Mamma me lo teneva vicino come fa il cacciatore con lo specchietto per le allodole. Mi stordiva così, mi distraeva dal vedere altri giovani. Aveva capito, unica cosa che ha capito di me, che quando sono tutta assorbita in una missione non guardo che a questa missione che porto a termine ad ogni costo. E io mi ero prefissa di dare un poco di gioia a Mario, il ragazzo senza mamma che il padre amava, ma di un amore da uomo, e da uomo un po' tanto nervoso, ossia con delle bruscherie, con dei cambiamenti d'umore penosi. Io inoltre volevo far sì che Mario divenisse un bravo ragazzo, un bravo ufficiale. Avevo sempre avuto la vocazione di essere una «luce», una «guida», una piccola «Beatrice» per coloro che amavo. Mi rendevo sempre più buona, più seria, più studiosa per trascinare altri a divenire buoni, seri, studiosi. In «Vita nuova» Dante dice, ed è il più bell'omaggio che uomo, e uomo amante, possa dare alla sua donna: Tosto che ella si mostrava, una fiamma subitanea di carità s'accendeva in me e mi faceva perdonare i torti ricevuti ed amare i nemici miei», e nella «Commedia» Dante fa assurgere questa creatura, che col suo solo apparire gli comunicava il dono dei doni quello della carità sì altamente esercitata da esser capace di perdonare ed amare i nemici - al ruolo di corredentrice, perché conduce lui ad «amar lo Bene». Io, fin da quando avevo studiato e medit'ato queste parole, m'ero prefissa d'esser per il mio prossimo una «Beatrice». Questo mio proposito mi obbligava a conservarmi buona, a migliorare me stessa per migliorare gli altri, perché ho sempre capito istintivamente che nella scuola della virtù l'unico maestro è l'esempio. Non le ho detto in una lettera che Dio si è servito di tutto, con me, per istruirmi al Bene? Anche «Vita Nuova» e la «Commedia» dantesca hanno servito allo scopo. Perché non è cosa da poco prefiggersi, con onestà d'intenti, di portare altri al Bene divenendo per prima cosa noi discepole del Bene. È un fine umano, ma che predispone all'ascesi nel sovrumano. Si comincia ad esser buoni per legge di morale umana e si finisce coll'essere buoni secondo i dettami della legge di morale cristiana. Se in me non ci fosse stata questa vocazione, certo messami in cuore da Dio,


con tutto quello che passai mi sarei certo smarrita «in una selva oscura» ancor più di quella che avviluppava il Poeta prima che la sua Beatrice intervenisse in suo favore. Invece, nello stesso modo con cui una veste di amianto protegge contro l'azione del fuoco e lo scafandro del palombaro dall'acqua e dai morsi dei pesci, la tendenza ad essere buoni per condurre altri ad esserlo è la più valida trincea contro gli assalti del Male. E solo Dio lo sa se ne avevo bisogno di una trincea! Man mano che mi trovavo sola, isolata, col mio ricordo d'amore e col mio ricordo di rancore, sempre pungolata da mamma che man mano che rimaneva senza testimoni in mio favore aumentava il suo rigorismo illogico, io arretravo, arretravo, mi allontanavo da quel codice di bontà e d'amore che era stato la mia norma di vita per degli anni. Lei mi dirà: «Ma non mi ha detto che restò sempre fedele ai suoi doveri di cristiana?». Si, ancora credente, ancora osservante. L'amore verso Dio, che era stato il mio motore per tanto tempo, continuava ad agire a mia stessa insaputa e faceva sì che io non sapessi tagliare tutti i ponti che mi univano a Dio. Continuavo ad andare in chiesa, continuavo a fare le mie comunioni del primo venerdì del mese. Certo! E dove avrei pianto se non fossi andata in chiesa? E dove avrei sentito sul mio spasimare scendere un balsamo, come un calmante in una carie, se non mi fossi rifugiata presso il Tabernacolo e se nel mio povero cuore in tempesta non avessi accolto Iddio? Ma erano povere preghiere e povere comunioni. Non erano più le confidenti orazioni in cui, sì, si chiede aiuto dal Cielo ma anche contemporaneamente si dice: «Però, Signore, fa' Tu quello che ti pare più giusto di fare». Non erano più le amorose comunioni, fusioni dell'anima col suo Signore, durante le quali si bacia il suo Volto divino, le sue Mani santissime, anche se quel Volto ha appena pronunciato un verdetto di dolore per noi e se quelle Mani hanno infitto una spina, una delle sue spine, nel nostro cuore. Erano interrogatori, erano inquisizioni, erano, non dico dispute perché Gesù non disputa mai, ma atti di accusa miei contro di Lui. Non si fa di solito così col buon Dio? Quando, per un motivo che sapremo solo nell'altra vita, il Signore permette che il dolore ci ghermisca, cominciamo degli interminabili discorsi a base di «perché». E finché ci si limita a chiedere «perché» di un dolore, si va ancora passabilmente diritti. Il male è che dopo i «perché» vengono delle vere e proprie requisitorie nelle quali noi mettiamo sul banco degli accusati il buon Dio e ci poniamo noi, in veste di Pubblico Ministero, sul banco dell'accusa dal quale tuoniamo i nostri rimproveri e pronunciamo le nostre arringhe contro Gesù; il quale, come già davanti a Pilato, non risponde ma si limita a guardarci con infinita compassione. Sono scivolata così piano piano verso la disperazione. Come un toro nell'arena - il paragone è poco in carattere parlando di una giovane ma rende tanto bene l'idea - come un toro nell'arena, inseguito, sferzato, aizzato, irriso, ferito da mille parti, io scalpitavo, scuotendo la raggera delle «banderillas» che mi si configgevano nella carne, e non riuscivo altro che ad accrescere il tormento. Tormento che dal di fuori veniva a me, tormento che dal mio interno veniva alla superficie. Ero in un mare di torture. Quelle esterne, del mio caro prossimo, alla cui testa era mia madre che valeva da sola per dieci, mi portavano alla disperazione in un senso. Quelle interne, che rampollavano dal mio cuore, mi ci portavano per un altro senso. Le prime mi davano tentazioni di suicidio per evadere da


quella rete di tormenti giornalieri. Le seconde mi davano tentazioni della carne perché erano originate da quel che le imprudenti parole di mamma avevano, quella sera, seminato, e le maligne spiegazioni della governante della casa del Colonnello avevano poi coltivato. La disperazione! Quanto avrei da dire in proposito! Quanto su coloro che portano i loro simili alla disperazione, e sono i più cinici degli omicidi perché, senza materialmente colpire e macchiarsi di sangue, uccidono in realtà, in maniera raffinata, sia per il metodo che ottiene lo scopo senza incappare nei rigori della giustizia umana, che per la crudeltà con cui compiono la loro opera! Uccidono, e non solo il corpo ma uccidono l'anima, spingendola al suicidio che è ribellione al comando di Dio. E quanto avrei da dire sui disperati! I miseri più miseri fra gli uomini! Che è mai la povertà, che le più orrende mutilazioni, che le più strazianti malattie, che i lutti più desolanti, se la speranza continua a confortare il cuore dell'uomo? Finché questa virtù celeste rimane come luce superna ad illuminare un cuore e a mostrargli il Volto di Dio e il suo prossimo ed eterno bene, povertà, mutilazioni, malattie, lutti, sono dolori che si possono portare. Ma quando la speranza muore e non si spera più, quando la disperazione, questa piovra potente, ci abbranca l'anima suggendoci tutte le energie di bene e paralizzandoci tutti i moti di bene, quando questo mostro ci attira nel gorgo profondo, nel buio spaventoso del non credere più a nulla, allora i dolori non si possono più portare: ci schiacciano e noi ci sentiamo crollare sotto il loro peso e cadiamo maledicendo la vita, e non la vita soltanto... Oh! io ho potuto ben capire le sofferenze di mio padre, sofferenze che lo hanno minato fino a fare di lui un povero bambino, confrontandole alle mie!... La disperazione uccide anche se noi non ci uccidiamo. Uccide solo per lo sforzo che le dobbiamo opporre perché non vinca lei, portandoci al suicidio... Come bisogna pregare e amare i disperati, questi infelici portati alla pazzia morale qualche volta da eventi che non possiamo stornare, spesso, troppo spesso, dall'opera voluta compiere con piena coscienza dal nostro prossimo a nostro danno! Se i mobili della mia stanza potessero parlare, le potrebbero dire certe mie ore di lotta tremenda contro la tentazione della disperazione che mi spingeva al suicidio. Potrebbero anche dirle che irata con me stessa, che non sapevo morire di dolore e non sapevo darmi la morte (perché avevo paura di non darmela bene e di far ridere di me il mondo), mi colpivo ferocemente coi pugni tramutati in mazza fino a cadere stordita al suolo. Come vede, non mi uso pietà nel descrivermi quale ero... Ma in queste narrazioni bisogna essere sinceri. Sempre. Nel dire il bene come nel dire il male, se no è inutile scriverle. Non le pare? Ero una violenta e una passionale. Non dimentichi da chi avevo succhiato il latte e la teoria di certi scienziati sull'influenza del latte nei futuri caratteri dei poppanti. In quegli anni, sotto il pungolo di forze esterne ed interne, la psiche della mia pazza nutrice saltava fuori. Le forze esterne gliele ho già descritte. Le interne le ho accennato quali fossero. Il Maestro dice: «Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le parole oltraggiose. Queste son le cose che contaminano l'uomo». A me, dal fondo del cuore dove con poco rispetto per la mia innocenza era stato gettato un conoscimento, che mi si poteva risparmiare, su certe animalità della nostra natura, sorgevano tentazioni di desiderio. Chi non le ha provate non le può capire e


perciò non può giudicare. Comodo è tuonare contro chi cade, ma bisognerebbe però che colui che tuona e giudica fosse a sua volta morso dalla tentazione. Allora capirebbe. Ah! Gesù, che parola la tua quando dice: «Non giudicate!». Coloro che la bontà eterna ha preservato da certe lotte dovrebbero limitarsi a lodare e benedire Iddio, fare unicamente questo, invece di consumare lingua e respiro nel condannare i fratelli tentati... Ho sofferto moltissimo. Fu qui che ebbi un sogno che sento con sicurezza essere stato mandato da Dio per mio bene. Ieri sera mi sono fermata a questo punto perché ero troppo sofferente per proseguire, e nelle lunghe e penose ore notturne mi è venuto in mente che omettevo un particolare, atto a spiegarle il mio doloroso stato d'animo sopra descritto. Riparo ora all'omissione, dovuta alle continue interruzioni che devo subire da parte dei familiari, dei visitatori e del mio soffrire, interruzioni che mettono a dura prova la mia pazienza. Era da un sei mesi scoppiata la guerra italo-austriaca quando mi dissero che Roberto, il mio così rispettoso amatore, era morto in combattimento... La morte poneva fine, e una fine senza scampo, al mio sogno d'amore che la speranza e la costanza avevano continuamente alimentato. Soffrii inenarrabilmente e credetti che non si potesse soffrire di più! Anni dopo compresi che si può soffrire più ancora, perché vi sono delle tragiche risoluzioni nel nulla di affetti umani ancor più dolorose a subirsi di quelle provocate dalla morte. Ma allora non le conoscevo e perciò soffersi profondamente e mi dissi: «Più di così non è possibile soffrire». Sentii la mia vita spezzarsi, e in verità si spezzò per sempre. Dopo - poiché ero tanto giovane: 18 anni, quando fui così colpita - dopo, negli anni seguenti, tentai di rivivere... ma erano conati vani. Le ali spezzate non potevano più sorreggermi nel cielo della gioia e dell'amore umano. Solo quando avessi rivolto il mio sguardo e il mio desiderio di volo verso le regioni del soprannaturale, le mie povere ali spezzate avrebbero potuto ritrovare la forza di muoversi, sia perché erano aiutate da quelle dell'anima, sia perché l'atmosfera in cui si muovevano era piu pura e leggera e già di per sé stessa aiutava al volo, sia, soprattutto, perché la mano del Medico eterno le aveva risarcite carezzandole. Tutto mi si scolorò nel mondo prendendo un colore funebre e grigiastro. Non dovevo mai più conoscere l'amore, nel suo significato di letizia. Conobbi poi un'affezione forse, anzi senza forse, più profonda del mio primo amore, un'affezione che dura tuttora dopo tant'anni e che durerà in me fino all'ora estrema. Ma era un'affezione più amichevole che amorosa, più fraterna che amorosa, più materna che amorosa. L'effervescenza dell'amore, il godimento dell'amore, nel senso umano, era per sempre finito per me. Dopo fui un'anima che amava un uomo, e questo probabilmente contribuì ad allontanarmelo, perché l'uomo vuole una donna, una carne più che un'anima... Ma io con la carne non potevo più amare. La mia giovane carne morì, insieme a Roberto, quando avevo 18 anni. Lei si stupirà forse che su quel minimo che era stato il mio contatto con lui - sguardi, saluti e poche, poche parole - io avessi potuto far crescere un così vigoroso amore. Nelle terre solitarie, là dove un poco di humus si è accumulato nei secoli fra pietre e dirupi di coste sassose o lungo le scogliere strapiombanti a mare, nasce talora l'agave, dal fiore a sette braccia come il candelabro sacro del tempio di Salomone. E tanto più cresce vigoroso quanto più è solitario e il suo crescere è contrastato da povertà di suolo a sua


disposizione e da inclemenze atmosferiche. Il ciuffo robusto, direi metallico, delle sue foglie aperte a cespo intorno alla colonna del fiore, drizza le sue lance carnose e spinose di un verde-grigio, il candelabro del fiore si eleva pomposo verso il cielo con le sue sette braccia che all'apice, al posto della fiamma guizzante, hanno le corolle giallo-rosse del bel fiore odoroso, e né per arsione di sole, né per flagellar di venti, né per schiaffi d'onde, né per mitragliare di grandine, esso piega e muore. Neppur l'uomo, coi suoi strumenti di morte, lo può svellere dalla zolla dove esso è fatto il nido per crescere e fiorire. Solo il fulmine può incenerirlo e distruggere la sua vitalità tenace. Il mio amore era l'agave solitaria. Nato per mettere la gioia di una fioritura dove non c'erano che lacrime e solitudine, si era abbarbicato, con tutte le sue radici, a me, ed era divenuto la mia ragione di esistere. I contrasti che lo avevano avversato altro non avevano fatto che obbligarlo a mettere radiche sempre più profonde e a spingere sempre più alto il suo stelo protetto, nel suo fiorire, dal baluardo delle foglie robuste. Tutto era stato pronubo al suo nascere. Le mie condizioni familiari così tristi fra un padre menomato e una madre dispotica, senza fratelli, senza parenti, privata di quegli affetti santi del mio Collegio, di cui sentivo così acuta nostalgia. Il mio temperamento desideroso di amore più che di pane, di vesti, di divertimenti, il mio riflettere che per uscire dall'ambiente ostile e oppressore della casa (quale era la mia casa), il mio guardare verso il futuro meditando che alla morte dei miei sarei rimasta sola nel mondo, mi spinsero ad amare l'Amore più che l'uomo in se. Roberto aveva tutto per essere amato: bontà, bellezza, censo, coltura; ma io penso che se anche bellezza e censo non vi fossero stati e solo egli avesse posseduto bontà e coltura io lo avrei ugualmente amato. Amare era per me condizione inderogabile per poter vivere. Se fin da allora avessi conosciuto «quel che avrebbe giovato alla mia pace», avrei diretto altrove il mio bisogno di amare e non sarei stata delusa. Ma il buon Dio voleva che io lo amassi con esperienza, dirò così. Lo amassi non per grazia data da Lui gratuitamente, ma per convinzione mia, per mia spontanea volontà. Dovevo andare a Lui dopo aver visto quanto caduche sono le affezioni umane, dopo aver gustato quale amarezza si cela sotto la fittizia dolcezza delle gioie umane, dovevo cercare riposo in Lui dopo essermi persuasa che in qualunque altro luogo avessi raccolto il mio volo avrei trovato pungenti spine sotto bugiarde rose, dopo aver constatato che in luogo della cercata compagnia ovunque era vuoto desolante e che solo Lui, Lui solo poteva darmi fedeltà, dolcezza, riposo, calore, compagnia, conforto. A rigore di logica umana questa parrebbe una crudeltà. Invece, ora che sono vivente in piani soprannaturali, io la giudico una prova di stima che Dio mi ha concessa e una predilezione tutta speciale. Alla scuola dell'esperienza mi ha istruita nella conoscenza del Bene e del Male; mi ha mostrato, facendomela toccare con mano, la differenza fra le gioie labili della vita e le gioie eterne dello spirito. Non ricordo in questo momento chi fu colui al quale un serafino mondo, col fuoco preso nel Cielo, il labbro da tutti i sapori umani perché potesse capire perfettamente il cibo della parola di Dio e celebrarne gli splendori. Ma trovo che a me pure Iddio, sostituendosi al serafino, purificò col fuoco del dolore e cuore e labbra per renderli atti a gustare le cose non terrene. Ed io ti benedico, o Padre santo, per l'ardore della bruciatura, per la potenza della tua cauterizzazione, per il


tuo operare verso di me in veste di Medico che distrugge, per dar vita, le parti invase da mali distruttori. Ti benedico per il tuo Amore che mi ha salvata contro la mia stessa volontà, per la tua Pazienza che mi ha attesa, per la tua indistruttibile Compassione che nessun nostro ripudio e colpa spezza e che ebbe così immensa pietà di me. Ti benedico per avermi evangelizzata nuovamente, per avermi trasfigurata in Te non appena io ti dissi: «Voglio esser tua»! La vita in ginocchio, con le braccia alzate in gesto di amore e di benedizione, tutta la mia vita non basta a ringraziarti di quanto mi hai dato; e tutto il mio dolore, che ti ho chiesto e che ti dono, perché nella mia debolezza e miseria non posso darti altro che il mio soffrire, è un obolo, un tributo ben insignificante, una ancor più insignificante restituzione rispetto a tutto quanto Tu hai dato a me. Ma, o Signore, ma, o Maestro buono, ma, Compassione che non conosci stanchezza, per questo mio niente che ti do, e che è tutto quel che posseggo di veramente mio, e che non è il superfluo, perché non sono le cose che superano che ti do, ma le cose essenziali per vivere sulla terra, quelle che tutti cercano conservare come il più grande tesoro, perché è la mia salute, la mia vita, il mio sacrificio, il mio patire, ma per tutto questo, Trirntà santa, ma per tutto questo, Gesù mio, concediad attri, a infiniti altri colpevoli come io un tempo, quanto hai dato a me stessa, per portarli, attraverso al ravvedimento e all'amore, con Te in cielo. Torniamo ora alla mia storia. Dicevo dunque che fu proprio allora, mentre mi dibattevo nel buio più cieco e mi sentivo circondata da mille tentazioni sibilanti come vipere inferocite, che Dio mi mandò un sogno. So benissimo che non si deve credere ai sogni come ci credono le donnette superstiziose. Ma so anche che non sempre credere ai sogni è cosa sconsigliabile. Tutto sta nel come ci si crede. Altro è darsi in braccio allo sgomento perché, tanto per dirne una, si è sognato un gatto: tradimento certo, uva bianca: lacrime sicure, e così via secondo la... docenza della cabala e della superstizione, e altro è accettare il sogno per quello che è, come avviso soprannaturale. Nel sonno, che addormenta la materia nostra, l'anima, eternamente insonne, è libera e non distratta, tutta tesa a ricevere le voci che scendono da altri mondi a noi ignoti. La Storia Sacra è piena, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, di sogni che furono voci dell'Eterno ai suoi figli peregrinanti sulla terra. L'agiografia cristiana è ugualmente piena di questi sogni, dirò così: guida, per condurre i predestinati lungo la via che era quella scelta dal Creatore, per quella data creatura. Molti dicono: «Ah! io di simili storie non ne ho mai avute». Può darsi. Ma è più facile che sia la loro pesantezza psichica, la loro leggerezza di riflessione che li ottunde al punto di non afferrare i moniti che ci vengono dai regni del mistero. Io invece ne ho avuti, e diversi di simili sògni, che sono premonizioni o norme di vita. Non dico che fossero li, pronti a scendere nel mio sonno con la stessa facilità con cui si rovescia una minestra nella zuppiera. No, per carità. Sognavo molto; ma fra i mille sogni che erano semplici divagazioni della mente e che mi riportavano bei paesaggi, marine, ore trascorse ecc. ecc., vi erano i Sogni, colla lettera maiuscola. Quando mi svegliavo, un qualche cosa di inesprimibile mi avvertiva di far attenzione a quel sogno. Era come se una mano leggera mi toccasse e una voce mi mormorasse all'orecchio: «Attenta! Rifletti e ricorda!». Quella volta fu così. Era nella primavera avanzata del 1916, dopo tanti anni, ricordo bene la data - era precisamente la


notte fra il 17 e il 18 di giugno. Io ero in un periodo tremendo di disperazione e di desiderio... Credo che di tutte le pratiche pie sopravvivesse unicamente la comunione del primo venerdì del mese. Avevo l'anima attossicata e ribelle. Pensi Lei se potevo avere in mente Dio. No. Non c'è stato certo, da parte mia, il preparamento a quel sogno. Ero anzi sulla sponda opposta e più lontana da Dio. Nel sogno mi vidi in una bella campagna. Prati verdi sui quali un vento tepido e leggero ravviava gli steli verdi dell'erba minuta e faceva baciare fra di loro i fioretti multicolori. Qua e là qualche ciuffo d'alberi parevano giganti a colloquio fra loro. Un fiume azzurrino, dalle sponde basse e dalle acque placide, tagliava in due quella bella campagna. Lontano sfumavano dei colli... Sono sicura tuttora, come lo ero allora, che nei miei molti viaggi, su e giù per l'Italia, io non avevo mai visto quel luogo. Io camminavo fra l'erba smeraldina e mi chinavo a cogliere dei fiori. Tutto a un tratto mi vidi di fianco un giovane. Bellissimo. Alto, bruno, coi capelli ricciuti, occhi nerissimi, brillanti come stelle, bocca tumida e sorridente. Era vestito di una tunica lunga fino a terra. Mi pareva un orientale, qualcosa fra il beduino e l'antico romano. Mi si accostò sempre più, interessandosi con gentilezza di quel che facevo, e si mise lui pure a cogliermi fiori: i più belli che avessi mai visto perché, non appena lui toccava qualcosa, essa diveniva bellissima. Mi piaceva parlare con lui e averlo vicino. Era così bello e gentile!... Mi seduceva proprio e mi congratulavo di averlo incontrato. Ma... ma in fondo, quasi all'orizzonte, al di là del fiume, spuntarono tre personaggi. Erano vestiti essi pure di una lunga veste sciolta e di un manto. Venivano camminando lestamente, e pure con molta maestà, verso di noi. Io li guardavo come affascinata perché qualcosa di arcano si sprigionava da loro e sempre più cresceva, mano mano che essi si avvicinavano. Il bel giovane che era presso a me mi disse: «Non guardare, vieni via!», e mi pose una mano sulla spalla per impormi vieppiù la sua volontà. Alzai il capo per guardarlo e rispondergli, perché era molto più alto di me, e restai stupita per l'alterazione dei suoi lineamenti. Un'espressione mista fra la paura e la collera si era distesa sul suo volto e lo imbruttiva. Ne ebbi quasi spavento e risposi, tentando di liberarmi dalla sua stretta: «Lasciami vedere, poi verrò via». Ma il giovane, sempre più inquieto, continuava a ripetere: «Vieni via, vieni via. Quei tre ti sono nemici e ti vogliono fare del male». Ed io: «Non è possibile! Hanno volti troppo buoni». Ormai infatti distinguevo i tratti dei tre visi. Uno era un uomo anziano, dal volto rude, piuttosto popolano, una barba più grigia che nera gli ricopriva le guance e il mento, lasciando solo scoperti i pomelli delle gnance rubizze che solo qualche lieve ruga solcava; aveva i capelli tagliati piuttosto corti ma non come ora li portano gli uomini, qualcosa a metà fra la zazzera e la tosatura attuale. Gli occhi molto vivi e severi si portavano continuamente da me al suo compagno di mezzo, al quale parlava con animazione. L'altro era un giovane di un venti anni circa, al massimo di venticinque. Mentre il primo aveva una veste bigia e un manto color tabacco scuro, questo vestiva di rosso con un manto di un rosso più scuro. Era piuttosto alto, snello ma non troppo, con un bellissimo volto privo di baffi e di barba, dall'epidermide fresca e rosata, occhi dolcissimi e pietosi di un azzurro chiaro, capelli d'un biondo pallido, lunghi fin sul collo, lievemente ondulati. Parlava anche lui a quello di mezzo ma con molta pacatezza e mi guardava con tanta


compassione. Quello che stava al centro, e che mi attirava più di tutti, era molto alto, di modo che sopravanzava con tutto il collo e il capo sugli altri due. Era vestito di un manto bianco e sotto aveva una veste d'un rosso tenue, quasi un rosato. Una grande maestà si sprigionava da lui, dal suo incedere, dal suo gestire, dal suo modo di rivolgersi ai due compagni, dai suoi sguardi che erano di una dolcezza sovrumana. Aveva un viso molto pallido senza essere terreo, occhi azzurro cupo, una bellissima fronte alta e liscia, ovale lungo e affilato che la barba, biondo-rossa, che gli ombrava solo il mento, rendeva anche più lungo. Portava i capelli lunghi fino alle spalle e questi ricadevano dal sommo del capo, ripartiti dalla riga a destra e a sinistra, in molli ciocche, più rosse che bionde, quel che i pittori chiamano biondo Tiziano, le quali ciocche terminavano in cannoli leggeri. Aveva mani lunghe, bianche, bellissime. Il suo corpo era snello, tendente al magro. Il suo sguardo era un poema di bontà, un poco triste sebbene venato di sorriso, uno sguardo che pregava: «Amami». Io guardavo sempre più affascinata e mi sentivo attirata verso di Lui. Il mio compagno mi prese con ambe le mani per trascinarmi via. Era furente, brutto ormai, con un volto feroce, bieco, stravolto. Lo vedevo imbruttire sempre più di minuto in minuto. Tremava e digrignava i denti. Ma io gli resistevo. Combattevo ormai contro di lui graffiandolo, mordendolo. Mentre lottavo così, mi accorsi che i tre avevano valicato il fiume, senza ponte, non so in che maniera ed erano ormai vicinissimi. Compresi chi fossero: Gesù, San Pietro e San Giovanni apostolo. Con un ultimo sforzo mi divincolai dal mio compagno che ora mi appariva mio nemico e corsi a gettarmi ai piedi di Cristo. «Signore, salvami!», gridai afferrando l'orlo della sua veste. Il nemico - potrei scrivere il Nemico perché ormai capivo chiaramente chi era, il suo volto essendo divenuto un vero volto di demonio - mi corse vicino di nuovo, talmente inferocito da superare anche il ribrezzo che gli suscitava la vista di Gesù, e mi afferrò brutalmente una spalla. Sentivo la sua mano, divenuta artiglio, conficcarsi nella mia carne. Ripetei piangendo: «Signore, salvami!». Gesù taceva. Mi guardava e taceva. Una grande pietà era nel suo sguardo, ma il suo labbro era chiuso e le sue mani pendevano inerti lungo la veste bianca. San Pietro... eh! san Pietro era tutt'altro che benigno e diceva a Gesù che non meritavo pietà. San Giovanni, invece, con voce accorata e sguardo mesto, perorava la mia causa. «Maestro, abbi pietà di questa povera creatura. Liberala, Tu che puoi! In fondo ti ha sempre rispettato, un tempo ti amò, ora è travolta da un inganno... Aiutala, Maestro!». Il Nemico urlava: «No, è mia. Non la lascio. Me la sono presa e me la tengo!». E Gesù taceva. Allora io levai la testa e le braccia e gli afferrai le mani coprendole di baci e dissi: «O Signore, Signore! Come puoi non aiutarmi? Infine io ti ho voluto bene! Non te lo ricordi più? Il male vero e proprio non l'ho compiuto. Perché allora non mi liberi da costui che mi vuole trascinare con sé?». Allora Gesù parlò... E chi potrà più dimenticare quella Voce? E chi potrà più rifarmi udire quel tono, quella cadenza che ancora vibra in me, esattamente, e credo risuonerà fino al beato momento in cui la riudrò in cielo? Allora Gesù parlò e disse: «Maria, sappi che il male non basta non farlo; bisogna anche non desiderare di farlo». Mentre quasi Pietro mi respingeva staccandomi da Gesù, mentre Giovanni mi carezzava supplicando in mio favore, mentre, il Nemico con bestemmie e sghignazzate orrende


stringeva più forte la mia spalla destra nel suo artiglio, udii per altre due volte Gesù ripetere quelle parole, e poi la sua mano si posò sulla mia testa con gesto di assoluzione e di benedizione. Sento ancora il tocco delicato di quelle lunghe dita fra i miei capelli... Compresi d'esser perdonata e redenta, e con un impeto di riconoscenza mi gettai contro il suo petto piangendo lacrime di riconoscenza, di pentimento, di gioia: un lavacro che mi purificava tutta, mentre il Nemico fuggiva con un urlo disperato ed io venivo abbracciata da Gesù. Mi svegliai con l'anima illuminata da qualcosa di non terreno. Sono passati ventisei anni e nove mesi da quella notte, ma quel sogno è ancora in me, vivo come al momento che mi svegliai. Lo vedo esattamente in tutti i più lievi particolari, e se fossi pittrice potrei dipingere quei volti e quelle fasi del sogno. Non ho alterato una parola, non ho messo frange e arzigogoli. Le ho narrato fedelmente ciò che sognai. Ho cercato in tutti i negozi d'arte e d'oggetti sacri un volto di Gesù come quello visto da me. Ma non l'ho mai trovato. In uno vi era l'ovale e non lo sguardo. In un altro lo sguardo ma non la bocca. In altro ancora la bocca ma non le guance. Mi sono persuasa che mano umana non può rifare quel Volto... Ho sognato molte volte Gesù, dopo quel sogno, e sempre aveva quel Volto, quella statura, quelle Mani. Da qualche tempo ho qualcosa più di un sogno... e vedo Gesù sempre con quel Volto, quella statura, quelle Mani. Quando Lei, Padre, mi ha dato quel libro sulla S. Sindone, io ne ho ricevuto una scossa perché ho visto, per quanto alterato dalle sofferenze subite, quel Volto, quella statura, quelle Mani... Il più brutto della mia tentazione era passato. Non dico che non provai più ore nere di ribellione. No. Ne ebbi ancora molte. Ma quando il demone della ribellione, del senso e della disperazione mi assaliva per darmi pensieri funesti, le parole di Gesù facevano sì che io sapessi respingere il desiderio di fare il male. Stamane 23 marzo Lei mi ha portato la S. Comunione che è, fra tutte le cose della terra e del cielo, quella che desidero di più. E insieme mi ha portato una sua lettera. Apro una parentesi nella mia storia per rispondere a detta lettera. Nella mia assoluta indigenza di forze fisiche devo calcolare anche gli spiccioli, i centesimi che mi restano e amministrarli con molta economia. Perciò le rispondo qui addirittura per non avere a scrivere qui e in una lettera la mia risposta. Credo di averle già detto a voce e per scritto cosa reputo io essere il vero perdono, le condizioni per me essenziali perché il perdono sia realmente il Perdono e non una imitazione mal riuscita del medesimo, macchiata da un poco di ipocrisia, e della peggiore ipocrisia perché vuole ingannare noi stessi, non dico Dio perché Dio non si inganna, dico noi stessi, presentandoci al nostro io come creature di misericordia, di religione... Misere arti che seducono solo il nostro umano orgoglio e che la voce della coscienza accusa come arti bugiarde! Per me uno perdona proprio quando sente che quel dato fatto, che un giorno gli suonò offesa, non duole più. Quando un organo della nostra macchina umana non duole o cessa di dolere noi ci dimentichiamo di esso. Uno che è sano non si accorge neppure di avere i polmoni, il cuore, le reni, il fegato, il cervello ecc. ecc. Ma se uno di questi benedetti organi, che ci fanno così perfetti e così complicati, si ammala e incomincia perciò a dolere, oh! come ci si accorge di esso e della sua esatta ubicazione! Lo stesso è di un'offesa ricevuta, o di qualche altro nocumento che il nostro prossimo ci arreca. Possiamo dire di averla proprio perdonata quando non duole più


come una bruciatura o una coltellata. Subentra allora l'indifferenza la quale, come è la fine dell'amore, è anche la fine del rancore... e allora, anche senza pensarci più, si perdona completamente. Ma è un perdono... di un merito relativo. Ora io posso aver raggiunto per me stessa l'indifferenza, l'insensibilità su un dato dolore che fu offesa per me... Forse questo dipende dal fatto che altri dolori più grandi sono succeduti a quel dolore e hanno distratto da esso, forse dipende dal fatto che un più grande, eletto amore mi ha compensata di tutte le meschinità umane con doni sovrumani. Non so. So che io ho, per me stessa, raggiunto l'insensibilità su antiche ferite. Ma non posso, non voglio, non riesco a raggiungere l'insensibilità per i dolori che soffrì mio padre. Non giudico nessuno. Ricordo e medito e basta. Ricordo e racconto, perché è necessario anche questo mucchio di tessere nere per comporre il mosaico della mia vita. E basta. Non giudico. O, se giudico, giudico con pietà. Perché è doloroso vedere che un essere preferisce far soffrire in luogo di dare conforto e amore, vedere che un essere non è buono quando potrebbe e dovrebbe esser buono. Ricchi, belli, intelligenti non si può diventare col nostro solo volere. La ricchezza è dipendente da molte altre concomitanze che si uniscono al nostro lavoro per darci guadagno. La bellezza poi e l'intelligenza, eh! non c'è bene! Se si nasce deformi o scemi niente ci può rendere degli Apolli e delle aquile di intelligenza. Ma buoni si può diventare, se si vuole. Un poco per giorno, un briciolo per ora, si riesce a migliorare le nostre tendenze morali. Non giudico o se giudico, ripeto, lo faccio con pietà. Non sono cieca e non sono ebete. Vedo perciò e valuto le azioni altrui. Ma sia che ormai sia tanto filosofa, o meglio tanto cristiana, da non essere più messa in subbuglio per certi fatti, li vedo e mi dico: «Sono frutti del nostro albero umano corrotto alle radici dal peccato dei progenitori». E, col mio Divino Maestro, ripeto, su chi fa soffrire e agisce male, la preghiera di misericordia che mosse, nelle ore estreme, le labbra santissime e riarse di Gesù mio: «Padre, perdona perché non sa quello che si fa!». Si. Perché sono convinta che chi agisce male, dando dolore ai suoi simili e, peggio di tutto, addolorando Iddio, sia uno che non sa quello che fa. Una specie di deficiente nel bene. Ora, anche la legge umana non condanna i deficienti, gli irresponsabili, i pazzi. Al massimo li rinchiude in appositi istituti. Se uno fosse in perfetto equilibrio mentale, non si avvilirebbe in certe cattiverie inutili, che non gli dànno gioia e che lo abbassano davanti alla stima di tanti e di sé stesso. Non la pensa come me, Padre? Sì. Lei non me lo dirà, ma pensa anche Lei che certe tendenze di sadismo morale sono frutto di alterazione psichica. Perciò non le condanno. Ma le ricordo. E se è inevitabile che i buoni soffrano per causa dei meno buoni, come soffrì mio padre, guai però a chi fa soffrire senza motivo! Fin da questa terra ha il suo castigo che, se non si esplica in altra forma ancora più pesante, è rappresentato dal malcontento interno che non dà pace... Io, per mio conto, Padre, se ne rassicuri per bene, non odio nessuno e tanto meno colei che fu ragione di pianto per me e papà. La mia vita è tutta una testimonianza di questo che le dico. Io pure, con Gesù, posso esclamare: «E chi di voi mi può convincere di peccato?». Fedele al mio proposito, sempre fedele anche nei momenti più agitati della mia esistenza, ho sempre praticato verso mia madre, mio padre, i miei parenti, amici, conoscenti e estranei, il Sacrificio e il Dovere in ogni ora e in ogni circostanza della mia


vita. Sapevo che, per conto di mia mamma, ciò non modificava nulla. Ma, idealista come tutti i poeti, ho sempre sperato di vincerla col mio amore, direi quasi che ho sempre sperato di infonderle l'amore sprigionando onde di amore intorno a lei. Offesa non offendevo, sacrificata non sacrificavo, trascurata non trascuravo. L'ho servita più di quel che non faccia uno schiavo fedele. Tanto che l'ho viziata al punto che nessuno più la accontenta. Sfido io! E dove può trovare una pazienza pari alla mia, una assistenza pari alla mia, una rinuncia pari alla mia? Lo devo riconoscere e proclamare per non mancare di verità e di carità verso la stessa anima mia, che ha rispettato il quarto comandamento come ben poche anime di altri figli facciano. Non posso dirle tutto, Padre. Ma le dico che fino la mia libertà delle ore notturne, nel segreto della mia camera nella quale potevo pregare senza attirare schemi, meditare senza esser disturbata, piangere e soffrire, le ho sacrificato per assisterla di più, io malata realmente, nei suoi malannucci molto all'acqua di rose. Dal 1924 io ho dormito con lei e l'ho fatto fino al 1° agosto 1934: dieci anni. Dopo, ridotta come sono attualmente, mi vidi lasciare da mia mamma, che preferì passare in altra camera a dormire lasciandomi in consegna ad altri. Crede che ciò non sia stata per me sofferenza? In una mia poesia scritta la notte del 19 marzo 1935, una notte di spasimo, io dico, parlando della mia notte di malata: Veglia con me tremula una fiamma meco ragiona, ha guizzi di parole... Penso nostalgica ai baci della mamma... Perché non m e vicina come suole trepida come una fiamma consolante qual sole? Vien timida l'alba a bussare ai vetri: una luce bianca tutta purezza. Si dileguan al suo venire i sogni tetri. Mi porta di mia madre la carezza l'alba che bussa ai vetri ornata di freschezza. E continuo così. Non sarà un capolavoro di poesia ma è un grido d'anima, scritto per me sola, e perciò sincero come una confessione. Non si scrivono certe cose se non si sentono. Con tutto l'amore che avevo ed ho per mio padre, non ho trovato una rima per lui. Ma la fame dell'amore di mia mamma, la mia insaziata fame, ha scosso il mio animo facendo sgorgare da esso la poesia per la quale esplode il massimo del sentimento che la più bella prosa non può esprimere con la pienezza che si vorrebbe. Malata come ero, e solo Dio e i medici possono aver valutato cosa fossero per me le salite e le discese dalle scale, io facevo decine di volte al giorno la scala per servire la mamma, che era sana, ed evitarle di dover fare le scale per certe necessità umane... Questo per la parte materiale. Moralmente, poi, non mi sono accorata e non mi accoro di vederla così incontentabile, così autoritaria al punto di essere sfuggita da tutti? E perché mi accoro? Perché penso che alla mia morte ella rimarrà sola. Vecchia e sola. Ora io faccio da cemento coesivo e tengo unite a lei tante persone. Ma scomparsa io, tutti si ritireranno. Crede Lei che questo non sia per me un tormento? Ma è l'unica cosa che mi fa guardare, non dico con paura, ma con ansia, la fine. Per lei, non per me. Per la parte spirituale sappia, Padre, che io ho sempre pregato per mio padre e per mia madre perché Dio li aiutasse in tutte le necessità loro, in tutte: materiali, finanziarie, morali, spirituali. Nel mio atto di offerta di vittima a Dio, fra le diverse intenzioni per cui chiedo di essere consumata, vi è questa: che dal mio sacrifizio tutto il bene possibile, in questa terra e oltre, venisse ai miei genitori. E siccome il mio buon senso mi diceva che dei due quella che aveva maggior bisogno di superno aiuto era mia madre, naturalmente pregavo più


per lei che per quel giusto di mio padre. Lei mi dice che talora i mali trattamenti ricevuti fanno sì che in chi ne è vittima nasce un' avversiòne invincibile verso colui che è il nostro oppressore, così come è per la pecora che ha avversione invincibile per il lupo che, per istinto, è portato a sbranare le pecore. Vero. Ma in parte. Per mio conto, sarà che sono più imbecille di molti altri, ho tremato e tremo ancora davanti a mia madre e vivo sempre col terrore che ella mi procuri altro male. Ma non ho mai sentito avversione per lei, tanto è vero che, pur avendo avuto molte occasioni di lasciare la mia casa, pregata insistentemente da molti, parenti e non parenti, di andare a vivere con loro per dare loro la mia attività e intelligenza non comuni, ho sempre rifiutato, pur sentendo che mi danneggiavo nella tranquillità e nell'interesse, per non lasciare lei sola con papà che ormai non valeva più nulla. Credo che tutto questo dimostri che io, pur ricordando tutto il soffrire che ingiustamente mi ha procurato mia mamma, non ho per lei dell'odio, dell'astio, dell'avversione e neppure dell'indifferenza. Ma ho un grande amore, perché solo un grande, un perfetto amore è capace di continuare ad amare senza avere ricambio d'amore. Lei, Padre, dice molto bene dicendo: «I segni parlano e chi ascolta comprende». É proprio così, se però chi ascolta non ha per cuore un pezzo di selce e per cervello un pezzo di pomice. Chi è dotato di buon cuore, di buon senso e di ragionevolezza, come Lei dice, comprende molto dei dolori dei suoi simili. Mi accorgo perciò che è stata proprio la bontà del Signore che mi ha fatta mettere in comunicazione con Lei, e gliene do lode. La sua lettera, sul fondo, mi ha rallegrato con la descrizione della sua attività di allevatore. Io pure sono una brava allevatrice di bipedi domestici e io pure, dando ad essi cure e affetto, non mi rammollivo però al punto da cadere in quello stupido sentimentalismo da damine isteriche che impedisce loro di sopprimere e mangiare un pollo o un colombo allevato da loro. Non li uccidevo, perché non sono capace. Ma li facevo uccidere, se erano inutili, e li mangiavo senza scrupoli. É la loro sorte, del resto, e se si pensa che ugualmente avviene, meno la mangiatura, di tanti uomini in questi tempi di guerre feroci... Mi spiace sopprimere una vita, anche quella di un fiore mi è sacra perché fatta da Dio, ma quando necessità e buon senso lo vogliono non esito a provvedere come si conviene, eliminando, senza svenimenti e senza gemiti nevrotici, quella vita che non èutile ma anzi che è elemento di disordine per altre vite. Quando ero bimba no. Allora mi mettevo a piangere se un amico pollo veniva mandato a morte. Ma si sa... E la parentesi è finita. Ora riprendo al punto interrotto. Dicevo dunque che dopo quel sogno, se anche mi assalivano desideri di suicidio e di sensualità, io li sapevo respingere. É già molto questo. É il primo passo sulla via della redenzione. Anzi non è neppure un passo. É semplicemente il raddrizzarsi, dopo esser caduti e giaciuti nella mota, il raddrizzarsi in piedi lavorando per levarsi di dosso il moticcio che impegola. Avevo ancora ore nere in cui ero fortemente tentata ma, soprattutto per quanto erano tentazioni del senso, io non desideravo più di fare il male. Il demonio mi cantava la sua canzone stregata, evocatrice di delizie sconosciute e che avrebbero potuto esser mie se avessi voluto. Ma ormai io sapevo respingere anche il desiderio di conoscerle. Alle sue macchinazioni suscitatrici di larve di sogno l'anima non consentiva,la volontà non consentiva. Quando la mia povera anima, ancora stanca e debole per la grande


malattia morale subita, si sentiva portata ad abbandonarsi, le parole di Gesù, che mi suonavano in cuore, mi fortificavano come un cordiale. Più forti a vincersi erano le tentazioni di suicidio, perché continuamente vi ero portata dallo stillicidio corrosivo di tutti i momenti del giorno... Come desideravo morire! Come vedevo con gioia aumentare in me l'affanno e la palpitazione! Credevo che presto il male che sentivo affermarsi in me mi avrebbe portata alla tomba. Povero giudizio umano, come sei facile a prendere dei granchi! Il male di cuore è venuto, sì, sempre più forte; ad esso si sono aggiunte altre malattie, ma io, dopo un quarto di secolo di sofferenze, sono ancora qua. Ora direi che la mèta è vicina. Odo un murmure di cantico farsi sempre più distinto ed è un invito dolcissimo. Lo stesso che Lei ieri mi accennava... Surge, propera, amica mea, columba mea, formosa mea, et veni. Jam enim hiems transiit... vox turturis audita est in terra nostra... Surge, amica mea, speciosa mea, et veni… Ma quando verrà l'ora della liberazione? Quando il dolce Gesù, che oggi vedo così bene... Non gliel'ho detto stamane, perché se gliel'avessi detto mi sarei messa a piangere di gioia e non volevo, per non dare ombra alla mia ombrosissima madre, ma è da stamane che ho la vista di Gesù. É in piedi e mi tende le mani sorridendomi. Mi rincuora a soffrire col suo sorriso... Ma quando farà un passo ancora e mi prenderà l'anima, con un bacio, per portarla con Sé? Ma questo forse è egoismo, è ansia di scendere dalla croce. No, Maria. Così non devi fare. Vi è ancora tanto da pregare per chi non prega, per chi è negli affanni, vi è ancora tanto da soffrire prima che la coppa sia colma... Gesù ha sete e bisogna dargli da bere... Le anime hanno sete e bisogna dar loro da bere. E l'unico liquido, atto a levare la sete a Cristo, è l'amore; e l'unico liquido atto a levare la sete alle anime, la sete dei loro bisogni, è il dolore. Ama e soffri, anima mia, per empire il calice e levare al Cristo la sua divina sete e alle anime la loro umana sete e dare loro la forza di salire, verso l'alto, verso Dio, il che è ancor più necessario delle grazie atte ai bisogni di ogni giorno per cui tutti si arrabattano... Del resto, del mio lottare interno nessuno ne aveva il minimo sentore. E con chi avrei parlato? Con papà era inutile. Con mamma era pericoloso oltre che inutile. Con le amiche di Collegio e le Suore anche inutile. Per lettera certe cose si dicono male e poi... c'era la censura per le risposte. Amiche a Firenze non ne avevo. Persone anziane e buone che potessero capire e guidare neppure, e poi... non avrei parlato. Sono gelosissima dei miei sentimenti, anche se buoni; figurarsi poi di quelli non buoni. Mario era lontano, e poi con lui, ormai giovanotto di quasi vent'anni, non potevo certo parlare di simili cose. Egli aveva capito che ero molto triste e che inclinavo alla morte, e cercava di rallegrarmi col suo sincero affetto. Ma era lontano e non sapeva a che punto soffriva la sua buona e fraterna amica, la quale, con lui, cercava sempre di mostrarsi pia, calma, ubbidiente ecc. ecc., per essergli di esempio. Un sacerdote come mi occorreva nel mio caso non l'avevo trovato... Ho dovuto arrivare quasi alla morte per trovarlo! Perciò lottavo, soffrivo, tutta sola, stringendo i denti, faticando il doppio, con un povero sorriso crocifisso sul volto che avrebbe voluto solo piangere. Ma per piangere avevo la notte... La cugina e lo zio.


Nell'estate 1916 venne da noi, per rimettersi da una pericolosa adenite e mastoidite, mia cugina Giuseppina, la... figlia (almeno speriamolo) di quello zio del quale le parlai a suo tempo, il fratello di mamma, quello che con la sua venuta mi aveva ficcata in collegio. Io non l'avevo mai vista perché era sempre stata in collegio per sottrarla dalla venefica vicinanza della madre e della zia. Aveva allora vent'anni, io diciannove. Le volli bene anche prima di averla con me. Mamma mi aveva detto che quell'estate non mi avrebbe fatto nessuna veste nuova e nessun cappello perché doveva pensare a Peppina. Non eravamo in condizioni da essere scomodati dal dover fare il rinnovo di due guardaroba estivi. Ma io, a cui mia mamma, per farmi inghiottire quello che lei reputava dovesse essere per me un rospo, ossia la venuta della cugina, parlava con una inusitata dolcezza, avrei accettato di andare nuda, pur di sentirla parlarmi sempre così... Figurarsi se non aderii a tutte le proposte. Fra l'altro, staccata come ormai ero da tutto e incline alla morte, ero ancor più di prima contraria a tutte le civetterie. E poi!... L'idea di avere con me una cugina della mia età, ex collegiale come me, educata presso suore dello stesso Ordine delle mie... oh! quante cose che mi entusiasmavano! Mi proposi di volerle bene come a una sorella. E gliene volli. Venne col padre qui a Viareggio. Lo zio si trattenne per qualche giorno, poi tornò a Bergamo, all'Ospedale dove era bibliotecario oltre che ricoverato a vita. Peppina rimase. Ci affezionammo molto l'una all'altra. Devo dire, a suo onore, che pure essendo nata da una poco di buono ed essendo stata in quell'ambiente fino a otto anni, non mi dette mai modo di scandalizzarmi. Era un po' leggerina. Ma a vent'anni su per giù lo siamo tutti. Facevamo belle passeggiate col mio papà, i bagni, ecc. ecc. Erano con noi altri due cuginetti, maschi questi, l'uno di 14 e l'altro di 8 anni, provenienti dal Veneto e venuti per i bagni costi, dato che l'Adriatico non era allora molto tranquillo. Non ero mai stata così sollevata, da molto tempo a questa parte, come in quella estate. Fra l'altro, essendo mia cugina, per il momento, molto pia, andava spesso in chiesa, alla chiesa di S. Andrea, nostra parrocchia estiva, e io andavo con lei. Mamma non osava opporsi alla nipote, della quale voleva attirarsi l'affetto. Qui le devo narrare una cosa che non so se sia proprio attinente alla mia storia. Ma credo non sia del tutto estranea. o amavo molto la nostra casetta di Via Umberto I° dove ero entrata la prima volta di soli sette anni. E mi ci ero sempre trovata molto bene. Quell'estate mi ci sentivo a disagio. Perché? Mah! Non glielo saprei neppure dire quel che provavo esattamente. Non mi sentivo mai sola. Mi spiego. Anche se ero in casa sola, cosa che talvolta avveniva, io mi sentivo come se intorno a me ci fosse qualcuno invisibile ma presente. E, paurosa come sono di ciò che ignoro, avevo paura. Mamma, secondo al solito, quando glielo dissi, mi derise e rimproverò. Ma né il suo scherno né il suo rimprovero valsero a farmi più coraggiosa né a impedire che io sentissi sempre quella presenza misteriosa. Una notte, il 17 agosto 1916, mentre dopo aver riso ben bene coi cuginetti ci eravamo addormentate nei nostri due lettini come due grandi bebé, fummo svegliate da un traballio di una pesante predella messa nel vano della finestra. Il mio cane, che dormiva con noi due ragazze, ringhiò. Accesi la luce, paurosa che fosse terremoto. Ma il filo della luce era immoto. Spensi e, col facile sonno della gioventù, riprendemmo a dormire. Dopo circa mezz'ora tre colpi fortissimi, come di una mano


aperta che percuotesse un uscio, si udirono contro la porta della nostra stanza. Prima ancora di accendere la luce, mentre un sudore ghiaccio mi bagnava tutta, chiesi: «Nonna, sei tu?». Non so perché dopo tredici anni dalla sua morte io pensassi, ancor fra sonno e veglia, a lei. Tutta la casa fu a rumore. Papà accorse, i cugini accorsero, mamma accorse. Papà e i cugini non dissero niente fuorché la naturale domanda di cosa fosse stato quel baccano. Eh! L’avessimo almeno saputo! Ma mamma fece una bella brontolata e credo che tuttora sia convinta che si sia state noi ragazze a fare quello scherzo... E pensare che noi avevamo una tremarella tale che finimmo la notte in un unico letto per farci a vicenda coraggio. Con la metà settembre partirono i cuginetti e rimanemmo noi due coi miei. Mentre ci occupavamo di fare i bagagli per tornare a Firenze, giunse un telegramma annunciante che mio zio era moribondo. Era il 30 settembre. Mia mamma parti con mia cugina per Bergamo. Io rimasi con papà. In quei giorni che fui sola col papà sentii più che mai la invisibile presenza di esseri incorporei. Avevo una paura nera... ma stavo zitta per non essere scherzata, per quanto bonariamente, da papà. Una notte mi rifugiai da lui perché mi pareva che lungo la parete - noti che la casa a due piani era sopraelevàta sulle due che la fiancheggiavano e perciò la mia parete non si appoggiava a nessun'altra casa - mi pareva che detta parete fosse come strofinata da mani: un rumore uso quello che fa un muratore quando scialba un muro. Finalmente mamma e Peppina tornarono. Lo zio aveva superato felicemente la polmonite. Partimmo per Firenze e andammo ad abitare un nuovo appartamento perché l'altro era stato lesionato da un terremoto. La nuova casa era triste, in via Pippo Spano, chiusa fra case tanto sulla facciata che sull'interno. Però anche da li vedevo la Madonnina sulla porta del convento dei Gesuiti ed ero vicina a questa chiesa. Passò l'inverno così. Io con mia cugina andavo d'accordo. Ma fra mia mamma e lei cominciavano delle scaramucce. Mia mamma, che trovava me colpevole di mille leggerezze, si era accorta che la nipote lo era più della figlia e volle usare con la stessa la severità che usava con me. Ma Peppina non era Maria... Perciò ottenne l'effetto opposto. Peppina trovò modo di stare fuori di casa il più possibile. Andò insegnante di lavoro, perché era nel lavoro femminile bravissima, presso l'Istituto S. Caterina e alla domenica presso le Scuole festive. Guadagnava così qualcosa che si metteva da parte e stava lontana da mamma. Così io persi la sua compagnia per molte ore del giorno. Intanto la guerra continuava e le restrizioni cominciavano a farsi sentire. Papà, mamma e Peppina si aiutavano a uova e latte condensato, a pastine in brodo e frittelle cotte nello strutto. Io, che ho uno stomaco forte a modo suo, ossia capace di digerire tuttora un piatto di verdura cruda ma non una tazza di latte, non dei fritti, non delle uova - se le bevo oggi, dopo devo per almeno dieci giorni non toccarle più - cominciai a soffrire la fame. Fino al 1919 io non bevvi mai caffè nero e perciò non avevo neppure quello col suo zucchero relativo a sostenermi. I miei dolori morali e la fame insieme mi indebolirono sempre più. Nel giugno 1917 arrivò, inaspettato, lo zio, papà di Peppina. Si era licenziato dall'Ospedale, e in simili momenti penosi veniva da noi. Mamma andò su tutte le furie. Ma ormai era fatta. Io, per quanto ricordassi gli estri di questo zio, gli feci buon viso. Pur di avere qualcuno da amare avrei amato... anche il diavolo. Sul principio tutto andò bene. In luglio venimmo a


Viareggio. Ma io capii che non potevo più fare i bagni. Mi sentivo morire ad entrare nell'acqua fredda, io che solo l'anno avanti avevo fatto oltre cento bagni!... Il cuore cedeva sempre più. Mamma mi rimproverò perché non facevo i bagni. Le dissi che mi facevano male. Rispose, al solito, che avevo delle ubbie. Amen! Io poi sentivo, più ancora che l'anno avanti, quelle strane, invisibili presenze nella casa. Ma per fortuna quell'estate le avvertivano anche gli altri. Presi coraggio allora e dissi che io in quella casa non ci volevo più stare. Mamma, impaurita, per quanto non lo volesse dire, considerando anche tante altre cose, si decise ad affittarla. Mentre si attendeva il bagnante che doveva entrarvi a passare agosto e settembre, seppimo dai vicini che per due inverni consecutivi la famiglia alla quale, per non lasciarla chiusa, affittavamo la casa - un professore di botanica con la moglie e due figlie già ventenni - vi avevano fatto dello spiritismo. Io non traggo nessuna deduzione. Dico solo che questa fu la prima volta che fra me e lo spiritismo vi fu quella solenne incompatibilità e quella mia sensibilità a certi fenomeni. Che paura, mio Dio! Tornammo a Firenze il 10 agosto. Peppina, spalleggiata dal padre, era ora più prepotente. Ora Lei sa bene che i caratteri simili non vanno mai d'accordo. Bisogna che un prepotente abbia di fronte un remissivo, un superbo un umile e così via per potere andare avanti senza romperla. Ma mia mamma, suo fratello e la figlia di suo fratello avevano lo stesso carattere. Perciò guerra continua. Un inferno… Entrare negli ospedali era sempre stato il mio sogno. Avrei potuto essere utile, stare lontano da casa e - oh! speranza! - contrarre una malattia che mi portasse all'altro mondo. Perché, se non ero più tormentata dalle battaglie del desiderio sensuale, lo ero sempre dal grande desiderio di morire, né i modi materni erano tali da levarmi da questo desiderio. Anzi io ero il capro espiatorio dei nervi causati in lei dalle dispute col fratello e la nipote; e anche il caro zio, sempre ateo e originale, non stava indietro nel tormentarmi. Così ne avevo addosso due!... Peppina no. Era con me sempre uguale. Mamma, in grazia della eloquenza di Carlo Del Croix, che aveva ancora le cicatrici fresche sul volto accecato, e anche per non fare brutta figura presso altre persone presenti, permise che io pure mi iscrivessi fra le Infermiere Samaritane. E così, col 15 novembre, entrai per la prima volta in un Ospedale. Il primo giorno, anzi la prima mattina, perché era mattina, vedendomi osservata da tanti occhi, così timida come ero, mi impappinai e feci un massacro... Inciampai in un tavolino da notte e buttai tutto a terra: tazze, bicchieri, bottiglie, ecc. ecc. Per fortuna il ferito aveva appena preso orologio e termometro... Fu il mio battesimo: un po' rumoroso se si vuole e un po' costoso, ma insomma bagnai così la mia croce di infermiera. Presto però divenni pratica e brava. Come mi volevano bene i miei poveri ragazzi! Erano soldati di truppa, perché avevo chiesto all'Ispettrice di non mandarmi in un Ospedale per ufficiali. Andavo per servire i sofferenti e non per civettare o trovare marito. Avevo ben altro per il capo, io!... Perciò volli andare fra gli umili soldati, grandi solo nel loro eroismo e nella loro pazienza. Anche le Suore, le Figlie di S. Vincenzo, le caratteristiche «Cappellone», mi volevano molto bene, e così le consorelle infermiere e i medici. In 18 mesi di Ospedale non ebbi mai un rimprovero né uno sgarbo. Facevo il mio dovere e perciò ero amata e rispettata. Le ore più belle della mia giornata le passavo fra le corsie; vi andavo tutti i


giorni, anche la domenica, all'Ospedale, e vi stavo dalle 13 fino alle 20 e anche più se vi erano dei gravi e dei morenti. Dopo due mesi passai all'Isolamento fra tisici e condannati per mali diversi. Avevo così il Il reparto e l'Isolamento. Qualcosa come un duecento letti circa. L'ospedale essendo in Piazza S. Marco, nel palazzo degli Studi superiori, passavo sempre davanti alla Chiesa e al Museo di S. Marco e mi fortificavo il cuore, per tutte le miserie che avrei dovuto assistere, ai piedi del Nazareno nell'andare, e spesso alla sera entravo un momento nel Museo, prima che lo chiudessero, e nei giorni di ingresso libero, per tuffarmi nel cielo, dopo esser stata tante ore nel purgatorio ospitaliero, davanti alle tavole angeliche del beato Giovanni da Fiesole. Il vivere fra tante miserie mi faceva bene. Mi ammorbidiva sempre più il cuore indurito dall'eccesso del dolore. Era come se delle scaglie, simili a quelle che ricoprono le tartarughe, cadessero lasciando libera la mia anima al fluire della bontà. Il dovere fra l'altro portare a Dio tanti poverini a me affidati mi obbligava dolcemente ad accostarmi sempre più a Dio. Avevamo un molto pio Cappellano militare, un Passionista che con la sua pazienza, dolcezza, tatto squisiti, operava vere conversioni. I miei ragazzoni lo ascoltavano molto ed erano fedeli alle loro pratiche di pietà. Ogni pomeriggio, verso le tre, in Cappella - una cappellina quasi sul tetto, piccola ma bellina - vi era la benedizione eucaristica. I feriti che potevano muoversi andavano. Una teoria di grucce che toccheggiavano per i corridoi, di bastoni, di braccia ai collo, di teste fasciate... Salivano la scaletta e i primi arrivati entravano finché la chiesina era stipata. Gli altri si pigiavano fuori, sul pianerottolo, giù per la scala... e cantavano. Che bei cori di voci maschie!... Faceva commozione a sentirli cantare così con fede, con slancio, quei redivivi che avevano combattuto e ucciso nelle mischie feroci e che ora, tornati come dei grandi bambini indeboliti dal male, sapevano ridiventare buoni, semplici, fidenti come quando fanciulli andavano in chiesa con la loro mamma. Mi pare ancora di sentirli quei canti... «Noi vogliam Dio», «Deh, l'audace lingua frena», «Andrò a vederla un di» e tanti altri... Gesù si è servito anche dei miei feriti per parlare al mio cuore. Ho pianto udendo quei canti... Ma era già un pianto diverso. Era un pianto-invocazione, un pianto-lavacro, un pianto che era scala, il primo scalino della scala per salire a Dio. Alla vigilia delle feste e al sabato si confessavano e il giorno dopo mi dicevano di aver fatto la comunione e mi chiedevano se la facevo io pure. Poveri ragazzi! Quanto bene mi è venuto da loro! Mi vedevano spesso melanconica e facevano di tutto per rallegrarmi. Ma anche io detti a loro tutti i tesori del mio cuore di donna. Fui mamma e sorella con loro. Superai ripugnanze, impazienze, stanchezze, perché li amavo e ne ero amata. E con soddisfazione mi dico: «Ho fatto anche là il mio dovere. Nulla mi rimprovera la coscienza e ne sono sicura perché le lettere di quei miei figliolini, più vecchi di me, lo attestano ancora». Avrei molto da dire sui miei ragazzi, ma ciò mi porterebbe lontano, lontano... Mi basta invece solo di averle detto che ho agito rettamente, in tutti i modi, anche là dentro. Oh! è un gran bel conforto poter dire che si è agito bene! Penso talora che i miei cari ragazzi defunti preghino nel cielo per la loro giovane sorellina di ospedale e che mi attendano lassù. Penso anzi che mi saranno vicini nell'ora della morte per aiutarmi, come io fui vicino a loro in quella loro ora estrema. Ma torniamo a mio zio e a mia cugina. La mattina del 23 dicembre io


mi alzai molto presto per andare al Mercato Centrale. Era tempo di «code» anche allora e le code toccavano a me e a mamma. Quella mattina ero andata io perché mamma era costipata. Quando tornai trovai una tragedia. Mamma piangente, mia cugina fuggita, mio zio prossimo ad andarsene a sua volta. Come sempre è accaduto quando mamma soffre realmente, si attaccò a me narrandomi che c'era stata una grande lite fra lei, Peppina e mio zio. A sentire mia mamma, il torto era loro. A sentire mio zio, il torto era di mamma. Io dico che avevano torto e ragione tutte e due le parti. Mamma aveva ragione di consigliare una maggiore serietà alla nipote che ormai era proprio un po' tanto civettina, ma avrebbe dovuto farlo con più dolcezza. Invece lei usò lo stesso metodo che usava con me, e loro due non lo sopportarono. Però mancarono a loro volta di gratitudine e di correttezza. Infine questa sorella e zia aveva sempre aiutato il fratello e mantenuto la nipote in collegio. Veramente era papà mio che pagava, ma insomma... Ormai da mesi e mesi ospitava nipote e poi fratello e nipote, aveva speso per curarli, vestirli, nutrirli. Mi pare avesse diritto a un poco di rispetto. Infine avrebbero dovuto rispettare mio padre che era sempre stato un buono anche con loro. Invece niente. Io cercai di mettere pace perché vedevo la mamma veramente accasciata. Ma mio zio mi dichiarò che lui «non poteva far torturare sua figlia da un'aguzzina dai metodi di croato». Testuali parole. A mezzogiorno, mentre noi tre, molto tristamente, sorbivamo un brodo, mio zio se la svignò, insalutato ospite, lasciando la porta aperta e sul tavolo della sua stanza un biglietto per me dove mi «ordinava di portargli le loro cose all'indirizzo che mi avrebbe in seguito significato». Fu un ben triste Natale quello del 1917! Mamma a letto con la febbre e una colica di fegato, frutto della bella scena, papà mortificato, io addolorata. Mah! Mamma dovrebbe sempre ricordare che né io né mio papà mai le procurammo dei dispiaceri atti a metterla a letto ammalata... Per fortuna, in quei giorni Mario venne a Firenze per un 15 giorni di vacanza e fu lui che provvide a molte cose. Mi accompagnò dallo zio per la consegna delle cose dei due..., in Comune per le pratiche per la separazione delle tessere, cambiò tutta la disposizione della casa perché mamma diceva che vederla uguale a quando c'erano quei due le faceva troppa pena, e infine si fece infermiere e consolatore di mamma che egli chiamava «la sua cara mammy! ». Anche con me si dava da fare, e intanto esigeva che tutte le mattine lo accompagnassi in chiesa e facessi la comunione con lui. Non so se quando era in Accademia era ugualmente pio. Ma direi di sì, perché le sue lettere erano piene di fede. Il discepolo aveva, nel nostro caso, superato la sua maestra. Certo con l'intuito dell'affetto aveva capito che io avevo bisogno di Dio per soffrire, se non meno, con meno asprezza, e mi riportò a Dio. Posso dire che come, con la sua forza di giovane robusto, rotto a tutti gli esercizi fisici, sollevava senza fatica pesi inerti come i mobili, così ugualmente mi prese di peso e mi sollevò ponendomi su un altare, presso un tabernacolo. Non mi faceva delle prediche, che non avrei sopportate, perché in certe ore le prediche dànno noia, ma agiva addirittura. Aveva capito che ero infelicissima... Lui pure aveva avuto una vita poco felice e capiva. Aveva capito che io volevo morire perché stanca di soffrire e ricorse alla Medicina delle medicine: mi gettò fra le braccia di Dio. Sì, se sono tornata a Dio lo devo alla bontà del Signore, ma anche molto al mio Mario. Il quale fra l'altro doveva aver


parlato molto chiaro anche a mamma dicendole che io morivo di malinconia e occorreva darmi un poco di felicità. Mia mamma, allora, gli dava ancora ascolto e gli voleva bene. Aveva sempre avuto un debole per i maschi. Dice tuttora che non sa rassegnarsi d'aver perduto il figlio maschio, morto dopo poche ore di vita. E poi Mario era un grande salvagente per lei!... Almeno credeva che lo fosse. Vedeva che io degli uomini non mi occupavo di nessuno fuorché di lui, e me lo teneva vicino per tenere lontano dal mio cuore tutti gli altri pretendenti, che non mi sono mancati, lo devo dire. Ma Mario cresceva. Non era più un ragazzo. Aveva ormai passato i vent'anni ed era prossimo ad uscire dall'Accademia Navale col grado di Guardiamarina. E guardava a me con occhi diversi ormai. Né lo teneva nascosto questo suo pensiero. Lo diceva apertamente, schiettamente, e suo papà, sua nonna, i suoi zii lo secondavano. Quante volte abbracciando mamma non le disse: «Vero, Mammy? Quando sono ufficiale la signorina è per me e lei sarà la mia mamma e il signor Giuseppe il mio papà. Avrò due papà allora, e la mia Mammy, e avrò la mia cara signorina per la quale ho studiato e sono divenuto quel che sono!… E lo faceva ormai capire anche a me che la sua amicizia sororale si era ormai mutata in qualcosa di molto più profondo di un amore fraterno. Ma io non ne volevo sapere. E per due motivi. Il primo era che mi sentivo ormai incapace di amare un uomo con l'anima e col corpo. Lei mi chiederà: «Come? Ha passato tutte quelle lotte contro il senso risvegliato e ora, che poteva onestamente appagare i bisogni della natura, non ne voleva sapere?». Sembra un controsenso, vero? Ma non lo è. L'avermi levata crudelmente la mia libertà di amare e avermela levata con la frangia di certe... spiegazioni che avevano intorbidito la limpidezza del mio cuore di vergine, assolutamente ignara di certe leggi fisiologiche e istintive, nella stessa maniera che una pietra gettata in un limpido stagno sommuove il fondale e ne solleva il fango depositato sul fondo, mi aveva molto turbata. Ma non era nella mia natura di essere una unicamente dominata dal senso. Passionale sì, lo ero e lo sono. Mi attaccavo e mi attacco a qualcosa per amare, essendo questo un vero bisogno del mio io, sempre più acuito dal non amore che mi circondava. Da giovane amai intensamente la creatura. Dai venticinque anni in poi amai intensissimamente, sempre più intensissimamente, il Creatore. Ma senza un grande amore, scopo della mia vita, non potei mai stare. Ero dunque una passionale, forse è meglio detto: una appassionata. Ma non una sensuale. Vi è una grande differenza, benché sul primo non appaia, fra le creature naturalmente viziose e quelle che sono portate a subire tempeste del senso per un complesso di circostanze volute dagli uomini che ci stanno intorno e dal Nemico che continuamente ci guata. Quando in un cielo estivo si formano nubi temporalesche, gravide di fulmini e di grandine, è inevitabile che il temporale scoppi. Ma non sempre però esso diviene temporale distruttore. Quando un microbo assale una persona non sempre fa lo stesso scempio. Se quella persona è tendente a quel dato male, il microbo prospera e conduce a morte. Ma se quella persona è, di nascita, refrattaria a quel microbo, esso non riesce ad attecchire e viene sterilizzato dal sangue generoso del colpito. Nel mio cielo si erano levate nubi temporalesche accumulate da venti d'inferno e nel mio sangue erano stati inoculati bacilli nefasti. Ma se la grandine era scesa, devastando per sempre la mia fioritura di


speranze giovanili, non aveva però incenerito col fulmine la mia linfa vitale, e il mio albero poteva ancora dare, se non gioia di corolle, utilità di fronde. Ma il mio sangue, non di nascita lussurioso, aveva potuto superare, con fatica e sofferenza, è vero, ma con vittoria, i germi della carnalità inoculati in esso. Passata quella febbre, e passata dopo che il mio Dio mi aveva dato quella risposta che mi fu forza e norma, io ero tornata la Maria di un tempo, ossia la creatura superiore alle seduzioni della natura. E lo ero divenuta ancor più di prima perché, staccata come ormai ero dalla vita, spenta per sempre alla capacità di amare come donna, solo incline alla morte, non avevo neppur più in me quella santa tendenza a perpetuare la specie attraverso ad un matrimonio fecondo, che Dio non condanna perché Lui stesso lo mise per primo nel cuore dei progenitori. Perciò non mi sentivo più capace di amare come donna un uomo. Sentivo questa mia incapacità e me ne spiaceva solo perché avevo un cuore naturalmente materno... L'idea che mai avrei avuto dei bimbi miei mi dava pena... E tuttora la mia nostalgia più grande, dopo quella del Cielo, questa... Pensavo alla mia solitaria vecchiezza, se fossi campata... Ma non me la sentivo di essere «una carne sola» con l'uomo che fosse divenuto mio marito. Perciò significai a Mario di lasciarmi in pace e gli significai anche che io non mi sentivo più sana come prima e perciò non volevo legare un uomo giovane e sano ad una malazzata. Mi lasciasse perciò tranquilla e continuasse a mantenermi la sua buona amicizia che mi era di tanto conforto. Gli feci anche capire che, se mamma avesse capito che egli faceva sul serio la parte del pretendente, avrebbe fatto subire a lui pure la sorte degli altri che si erano fatti avanti con proposte di matrimonio. Sarebbe stato messo alla porta e per sempre. Ma Mario, ma suo padre, ma sua nonna, ma i suoi zii non potevano ammettere che mia mamma, dopo averlo lusingato tanto, lo potesse trattare così. Che diamine! Era sano, ricco, passabilmente bello, con una magnifica carriera davanti a sé. Che ostacoli potevano esser messi in opera da mamma? Che diamine! Non volevo certo insinuare che una mamma fosse così egoista da sacrificare sua figlia per avere sempre seco una serva senza salario?... Non lo potevano credere... Infatti, chi l'avrebbe creduto? Molte delle mie angosce familiari non sono credibili altro che dai testimoni oculari, Padre. Lei pure, non so se creda ciecamente a quanto le narro... E così contrario al concetto che si ha dell'amore materno... che si stenta a crederlo. Ma è la verità. Tutto è verità in questa mia storia. Posso morire ad ogni momento, oppressa come sono per il versamento pericardico e pleurico. Ma sono tranquilla di non avere a rispondere a Dio di nessuna bugia su quanto le narro, anche se avessi a morire senza confessione. Con tutte le mie forze cercai perciò di fare ragionare Mario. Ma l'uomo innamorato non ragiona, specie se è spalleggiato da tutta una parentela. Tutto quello che ottenni fu che aspettasse a parlare per un altro anno, ossia fino al momento in cui avesse avuto le spalline da ufficiale. Con mamma non dissi nulla, se no il povero Mario sarebbe stato subito condannato. Parlai con papà mio e con papà suo, scrissi ai parenti di Mario a Roma. E tutti mi esortarono ad accettare Mario e a non sacrificarmi oltre ad egoismi materni. E la vita continuò. Ci si scriveva come al solito, da buoni e fraterni amici, e Mario, che aveva intuito che se l'aiuto dei sacramenti fosse stato più frequente io sarei migliorata non solo nel morale ma anche nel fisico, che sempre risente in sé le ripercussioni morali, trovava


sempre il modo di farmi fare delle comunioni. Ora era per un suo esame, ora per un compagno malato, ora per sua nonna, ora per suo zio... Povero ragazzo! Mi ha proprio riabituata lui al desiderio del Pane celeste! Cominciai allora, nella primavera 1918, ad andare, ribellandomi in questo agli «ukase» materni, in chiesa quasi tutte le mattine. Fra l'altro Mario si era accorto che io, da buona italiana come sono sempre stata, subito dopo Caporetto avevo fatto un voto a Dio per la vittoria e a ricordo del medesimo portavo intorno alla vita la mia grossa corona del rosario del Collegio. Mi martirizzava le carni. Un giorno la corona si ruppe e cadde proprio ai piedi di Mario. Mi seccò immensamente perché quando faccio peni tenza «mi ungo il capo e mi lavo la faccia affinché gli uomini non se ne avvedano ma solo il Padre che è nel segreto». Anche ora nessuno s'accorge che io porto notte e giorno un cingolo che è un cilicio vero e proprio, e né febbri né sofferenze me lo fanno levare. Me lo tolgo solo nell'ora che viene il medico perché, visitandomi, non me lo trovi. Vero è che resta il segno nella carne e su quel segno misterioso il dottore è rimasto più volte perplesso, ma dato che lì, alla vita, l'enfiagione del tumore è tale che dà un ripiegamento della pelle, il medico è sempre rimasto incerto se sia un segno naturale o procùrato da una corda. Insomma quel giorno cadde la coronà. Mario la raccolse e me la rese senza commenti. Del resto la mia stessa confusione lo aveva illuminato. Come vede, nonostante le mie ruzzolate per terra, non ero proprio una... senza fede. Dunque Mario si era accorto che io dovevo aver fatto qualche promessa al Signore perché salvasse la Patria. E specie servendosi di questo mi spinse verso Dio con continue comunioni. L'ultima arma che il demonio usava con me, allora, era questa: non potendomi più turbare in altri modi, né col senso in maniera completa, né colla suggestione del suicidio, con la stessa intensità di prima, pauroso che io mi volgessi del tutto a Dio, mi inoculava una vergogna di rivolgermi a Dio dopo averlo offeso. Sono le sue solite, antichissime armi, usate la prima volta nel Paradiso terrestre. Ma il mio Mario le vinse. Tornai dunque sempre più vicina a Dio. Soffrivo ancora molto per i modi materni. Ma di quelli ne soffrirò finché una di noi due non sarà morta. Però soffrivo con più rassegnazione. Fu allora che io... detronizzai la Madonna dal mio tavolino da notte e vi misi sopra quel Cuore di Gesù che vi è tuttora e che non mi ha più lasciata, venendo con me in Calabria, a Cremona, ovunque andassi per poco o per molto tempo. Mario e i miei feriti mi hanno riunita a Dio. La contemplazione del dolore e della morte sono sempre una grande medicina spirituale! E la vicinanza di un cuore cristianamente buono, l'amicizia onesta e cristiana è sempre fomite di Bene. Nell'estate 1918 io e mamma ebbimo la «spagnola». Io vivevo fra gli spagnolosi e perciò la presi violentissima. Da allora mi rimase la febbre giornaliera. Il cuore cedette ancora di più. Ma ci curammo da noi, senza aiuto di medici, tutti malati, e quei pochi non malati straoccupati e imprendibili. Ci curammo come io vedevo curare i miei ragazzi all'ospedale e, senza aiuto di medici per guarire o per morire, superammo il male. Mamma tornò più vegeta di prima. Io, sia per la mia imperfezione cardiaca preesistente, sia forse perché in ospedale potevo essermi contagiata fra tante infezioni di diverse specie, non tornai più come prima. Ma ero felice di andarmene. Se morivo risolvevo tutto senza scene, anche la faccenda di Mario. Il 4 novembre la guerra ebbe termine.


Quando la notizia giunse mi precipitai fuori dall'Ospedale e corsi ai piedi del Nazareno nella chiesa di S. Marco per ringraziarlo... Gli offrii allora me stessa chiedendogli che mi prendesse la vita ma che non facesse più venire altre guerre. Quel giorno non sapevo ancora bene quel che offrivo, e il mio offrire era inquinato dal desiderio, molto umano, di non vivere più per non soffrire più. Ma da allora io ho sempre ripetuto la mia offerta, per questo e per altri motivi che le dirò a suo tempo, sapendo molto bene quel che facevo. Ma se per tante cose Gesù mi ha ascoltata, per questa no. Dal 1918 ad oggi molte altre guerre hanno ucciso i figli d'Italia... e forse io morirò mentre la più tremenda delle guerre è in atto. Il 1919 Pochi giorni dopo la fine della guerra l'Ospedale S. Marco si chiuse ed io passai ad un altro ospedale insieme ai miei feriti che non volevo abbandonare. Era questo nel palazzo del Ginnasio Liceo G. Giusti in Via Carducci (o viceversa). So che passavo davanti alla Basilica della Ss. Annunziata, passavo sotto l'arco che unisce l'Ospedale degli Innocenti alle altre case e camminavo un bel pezzo per quella via, passando davanti al Museo etrusco-egizio ecc. ecc. L'Ospedale per una metà era bello, nel nuovo palazzo, ma per metà era brutto e triste: un antico convento di clausura. Finestrelle alte e strette quasi carcerarie, chiostri e cortili tetri, moniti scolpiti sulle arcate delle porte, clessidre, civette, teschi da morto... e scale, scalette, gradini, continui dislivelli che mettevano a dura prova il mio cuore sfiatato. Ai primi di gennaio, dopo una seconda «spagnola», non ne potevo più. Mi feci visitare prima da un medico e poi dal Primario del mio Ospedale. Col primo inventai una bella bugia. Dissi che ero orfana e che volevo sapere il mio stato con sincerità per potere dare una risposta a un giovane che mi voleva sposare. Mi occorreva sapere l'esatta verità. E me la disse. Col secondo non potevo dire questa bugia perché sapeva che avevo papà e mamma. Ma quell'ottimo uomo, padre lui pure, e non felice in famiglia, aveva intuito molte cose e fu meco molto paterno. Dopo avermi attentamente visitata, mi disse quel che pensava e che corrispondeva a quanto mi aveva detto l'altro. Si era verificato il «miracolo» di due medici che all'insaputa l'uno dell'altro dicevano la stessa cosa!!! Il professore volle parlare poi con mia mamma. Tenga nota che alle visite ero andata da sola, perché non potevo più andare avanti così e mamma non vedeva il mio stato e non lo ammetteva se io glielo dicevo. Cosa le disse il professore non lo so. Quello che so è che tornò a casa mogia mogia, e per qualche tempo fu abbastanza tenera. Ma la cura non mi migliorava. Il cuore diveniva sempre piu stanco. Anche l'insonnia mi tormentava. Forse proveniva dal grande e continuo palpitare violento del cuore, che nella notte, stando coricata, aumentava. Ma non avevo terrore della morte. Anzi... Solo avrei voluto rivedere le mie Suore, le mie compagne. Sentivo che se avessi potuto andare in Collegio per qualche tempo, come potevano fare le mie compagne, le ultime agitazioni si sarebbero spente in una pace soprannaturale. Lo avevo sempre capito questo, anche nei momenti più turbati, e avevo sempre desiderato di rifugiarmi in quel nido di pace per ritrovare la pace. Ma non m'ero neppure mai provata di dirlo a mamma, la quale contrastava già il mio epistolario con le Suore. Ora che mi


sentivo morire lo desideravo più ancora. Fra l'altro mi dicevo che una volta là, se mi avessero tenuta come insegnante, avrei anche potuto finire col monacarmi. Ormai guardavo di nuovo molto a Dio e avrei desiderato mettermi per sempre al riparo di tutto in un convento e sotto una veste monacale. Non vedevo ancora chiara la volontà di Dio. Percepivo già che Egli mi attirava, mi attirava, mi aspirava a Sé. Ma sbagliavo credendo che mi volesse in un convento. Questo era una aggiunta di desiderio mio. Il convento, come la morte, mi avrebbe liberata da tutte le lotte familiari. Esausta di tutto il sofferto, non desideravo che questo. Uscire dal mondo, in un modo o nell'altro, per non soffrire più. Ma invece dovevo restare nel mondo e soffrire smisuratamente di più. Dovetti abbandonare il mio servizio ospitaliero perché proprio non ce la facevo più. Mi staccai dai miei ragazzi, tutti condannati a infermità mortali, con tanta pena. Nel niaggio venne a Firenze mia cugina Clotilde, col figlio di 8 anni. Venivano da Reggio Calabria. Aveva da poco perduto tragicamente un figlio giovinetto e l'altro, che ormai era unico, era colpito da una mastoidite, almeno pareva così. Li avevano indirizzati a Firenze per sentire il parere dei professori pediatri dell'Ospedale pediatrico Mayer. Io conoscevo molto bene il Primario e mi detti da fare. Per fortuna la pretesa mastoidite non era altro che una glandola sottolinguale infiammata. Un tagliettino di tre centimetri, venti giorni di degenza, nessuna cicatrice e tutto fu finito. Ma io quei venti giorni li passai al Mayer insieme al piccolo operato e alla sua mamma, che mi voleva molto bene e mi capiva meglio ancora perché, essendo parente, sapeva il carattere di mia mamma e perciò... se anche io non parlavo capiva lo stesso tante cose. Volle parlare anche col professore che mi aveva in cura e, avendole questo detto che la cosa migliore per aiutare le cure era «levarmi dall'ambiente familiare, causa prima dei miei malanni e sorgente continua di turbamenti atti ad aggravare il mio stato», provvide in merito. Mia cugina Clotilde ne parlò coraggiosamente a mamma. Non ha peli sulla lingua mia cugina Clotilde e non ha paura di nessuno. E una piemontese tutta di un pezzo. Certuni la dicono non buona. Sarà. Ha molto sofferto e ciò le ha alterato il sistema nervoso, ma con me fu sempre buona e materna. E sì che vissi con lei per due anni! Dunque mia cugina disse a mamma di affidarmi a lei. Saremmo andate prima a Torino, sua città natia, e dopo mi avrebbe condotta a Monza dalle mie Suore. Mamma cedette. Certo a malincuore e mandando a quel paese la cugina. Ma cedette. Scrisse alla Superiora e avuta risposta che ero attesa partimmo per Torino. Furono dei bellissimi giorni. Clotilde mi portò, oltre che per la città, a Racconigi, Stupinigi, Moncalieri, Superga, ecc. ecc. Lo stare con lei e col suo bimbo, fra tante cure, mi fece migliorare subito. Miglioramento più morale che fisico ma che contribuiva a darmi un aspetto meno sciupato. Dopo qualche tempo partimmo per Monza. A Torino mi era giunta una lettera affettuosissima della mia Superiora, scritta a fatica, perché era molto ammalata di cuore, ma riboccante d'affetto. Mi diceva che lei e le Suore mi attendevano con ansia... Ero felice! Felice dopo tanti anni! Avrei rivisto il mio Collegio, le mie Suore, avrei rivissuto per un mese o due, forse per sempre, quella vita calma, ordinata, pia; avrei rivisto le mie compagne, in parte già sposate e con figli, in parte nubili come me! Le avevo tutte avvertite... Ma potevo mai essere felice? Non per nulla mi chiamo: «Maria». Nome di predestinazione ma nome di dolore. Io pure


dovevo, secondo l'etimologia del mio nome, essere: «Mirra del mare e mare amaro». Dovunque dovevo trovare il dolore, anche dove, per essere la cosa o il posto più che lecito e santo, era presumibile avessi a trovare un poco di gioia... Arrivata a Monza la sera del 10 giugno, andai subito al Collegio. Che palpito di gioia e di emozione quando suonai a quell'ampio portone! Che onda di ricordi quando valicai la soglia e mi trovai nel cortile d'onore e penetrai nel salone da ricevimento! Che commozione quando sentii avvicinarsi il passo, ritmato dal tintinnio leggero della lunga corona del rosario, di una suora! Anche ora, quando c'è la finestra aperta e passano delle suore o viene Lei, io percepisco subito il rumore della corona pendente dalla cintura e penso alle mie Suore... Per prima venne la vice-superiora. Mi salutò, un po' freddina in verità. Ma non era mai espansiva e non ci feci caso. Poi venne la mia povera Superiora, ansante e gonfia dal male di cuore. Fu affettuosissima come sempre. La vice-superiora mi avverti che nel Collegio non c'erano letti e che avrei dovuto andare a dormire presso delle altre suore adibite al servizio della Cattedrale. Monza ha un Arciprete mitrato e un Capitolo come fosse luogo di Curia. Veramente, come fece notare mia cugina, sarebbe stato meglio fossi rimasta in Collegio, dove ero conosciuta. Si era scritto apposta molti giorni avanti per sentire se era possibile ospitarmi, naturalmente pagando la mia retta. Ma io, pur di stare presso le Suore, accettai tutte le condizioni. Salutai Clotilde e Memmino e restai in Collegio. Non vidi nessun'altra suora. Dopo una mezz 'ora circa una mandataria mi condusse al conventino dove avrei dormito. Le suore di esso mi accolsero con molta bontà scusandosi di dovermi dare una camera non moderna. E che me ne importava? Venni condotta infatti in una vasta stanza il cui mobilio doveva ricordarsi di Radetzky e delle 5 Giornate del 1848... C'era un letto talmente alto che per coricarmi dovetti prendere una sedia e farmene una specie di scala per arrampicarmi lassù, pregando il mio angelo di non farmi cadere nel sonno... Ma insomma ero a Monza, presso le Suore. Thtto il resto era un nulla rispetto a questa gioia. Non cenai perché fin da allora mangiavo pochissimo. Sorbii solo una tazza di caffè, ordinatami dal medico per sostenere il cuore. E mi coricai e dormii anche, finché le campane del Duomo, vicinissime, non mi destarono all'Ave Maria. Scesi dal mio... catafalco, mi vestii svelta svelta e andai ad ascoltare la Messa. Non feci la Comunione perché non trovai un confessore. Ma mi ripromisi di farla la mattina dopo in Collegio. Nella giornata avrei organizzato meglio la mia vita... Sorbii un altro caffè per colazione e filai al mio Collegio. Di Monza ero molto pratica, non avevo perciò bisogno di essere accompagnata. Suonai, entrai, venni condotta in sala. Aspetta, aspetta, aspetta... Non veniva mai nessuno. Le nove, le nove e mezzo... Finalmente ecco la vice-superiora. Seria, direi quasi arcigna, mi chiese se avevo dormito bene e se avevo fatto colazidne. Poi principiò subito un lungo discorso a base di: «Sai bene, il regolamento, i precedenti non vanno creati, ecc. ecc.», la cui conclusione era: «Qui non ti vogliamo». Feci notare che si era scritto avanti, che il regolamento accoglieva appunto ex-educande desiderose di passare come pensionanti qualche tempo nel Collegio pagando la retta, che perciò io non creavo un precedente ma seguivo le abitudini vecchie di oltre mezzo secolo, che non ero malata contagiosa (avevo con me le diagnosi e le prescrizioni mediche), che non


avevo fatto dire di me e perciò non ero causa di scandalo, che, infine, ormai ero lì, sola, essendo mia cugina partita per Bologna, e che bisognava tenermi finché fosse tornata lei. Almeno fino allora. Niente. La suora era inesorabile. Mi rispose che non ero una bimba, avevo 22 anni e potevo viaggiare sola. La supplicai di lasciarmi lì almeno, finché avessi potuto salutare le mie compagne che dovevano venire in settimana. Niente. Supplicai di nuovo che mi si lasciasse telefonare almeno a quelle che erano di Monza e che mi avrebbero ospitato con gioia per qualche giorno. Mi avevano invitata tante volte! Niente. Dovevo partire. Davanti a tanta inspiegabile inesorabilità, a tanta durezza che mi respingeva, chinai il capo. Piansi. Un altro sogno, accarezzato per tanti anni, che si dileguava quando credevo fosse divenutorealtà... La vice-superiora mi chiese se volevo andare in chiesa... Che domanda! Direi: che domanda sciocca, se non rispettassi ancora chi me la fece. Mi condusse nella nostra bella cappella. Il Sacro Cuore dall'altare maggiore mi tese le braccia. Non c'erano che Lui e la suora organista, al suo organo in cantoria, che ripassava una Messa cantata... Mi rifugiai presso l'altare e piansi, piansi, piansi... finché tornò la vice-superiora a dirmi che mia cugina era tornata. Clotilde, donna esperta nel conoscere i visi umani - ha un grande albergo e negli alberghi si diventa veri maestri nell'arte di conoscere i caratteri - non si era fidata delle parole melate della vice la sera avanti, ed era rimasta a Monza per un'altra giornata. Appena mi vide disse energicamente, come è suo uso: «Mia cara devi rassegnarti. Le Suore non ti vogliono. Mi spiace per te, ma che ci vuoi fare?». «Ma le pare, signora? Noi la vorremmo, ma lei capisce bene...». «Capisco che non la vogliono. Però sarebbe stato più corretto scriverlo subito o quanto meno dirlo apertamente ieri sera. Se io fossi partita, lusingandomi che tutto era a posto, loro mettevano in treno Maria sola, in tempi di scioperi, e sofferente di cuore». E a me: «Sù, andiamo. Non si resta dove non si è amati». La vice capì di aver agito male e insisté che rimanessi, somma grazia, fino a sera per farmi vedere le Suore. Noti che non le avevo ancora viste. Intanto, disse, avrebbe provveduto ad avvertire le mie compagne di Monza. Disse così ma non lo fece per paura che esse mi trattenessero. Clotilde cedette. Rimasi dunque fino alle 17. Ma io credo che un delinquente pericoloso o un appestato non sarebbe tenuto diversamente da come fui tenuta io. In fondo al giardino tutto il giorno, meno che nell'ora del pasto che mi fu servito in una saletta remota... Mangiare, non mangiai. Non potevo. Il dispiacere mi faceva nodo. Presi un panino per ricordo, e l'ho tenuto fino a pochi anni fa. Poi si era tarlato e l'ho buttato via. Padre Cristoforo, nei «Promessi Sposi», tiene nella sua sporta fratesca il pane del perdono. Io ho portato meco, oltre venti anni, il pane della ripulsa. Le mie Suore non mangiarono quel giorno per farmi compagnia. Non approvavano loro il modo di fare della vice-superiora, della ultrapotente vice, che faceva e sfaceva a suo piacere da quando la Superiora era quasi inebetita dalla sua malattia. Ma non potevano far nulla. La Superiora venne, soffiando come un mantice, a scusarsi. Pianse... Povera donna! Ormai era finita!... Con lei non ebbi mai rancore, ma mentirei se dicessi che per la vice-superiora non sentii «sapor di forte agrume». Ora è morta e la morte pone fine a tutto. Spero che Dio le abbia perdonato anche questa durezza a mio riguardo, ma certo non si può dire che usò meco della carità. Ne converrà anche Lei. Come mi sarebbe stata


agevolata la via del mio andare a Dio se avessi potuto fermarmi là! Ma non importa. Posso dire con gioia che quello che sono divenuta lo devo a me sola, senza coefficiente di ambiente e di vita in comune con le spose di Cristo. Gesù ha lavorato Lui, Lui solo l'anima mia, ed io ho risposto e sollecitato il suo lavorare in me. Benedico Mario e i miei feriti per avermi dato la spinta iniziale, ma poi tutte le lodi le devo dare a Dio solo e un poco di plauso all'anima mia che, una volta iniziato il suo andare, andò sempre accelerando la corsa. Tornai a casa così triste e sfiduciata che finii di ammalarmi. Potevo proprio dire: «Il passero si trova una casa e la tortorella un nido, ma io non trovo nessuna dimora per soffrire in pace il mio tormento». E allora, sfiduciata di tutto e di tutti, dopo aver detto: «…nel mio smarrimento: ogni uomo è menzognero», ho rivolto il mio volo ferito verso Dio. Devo riconoscere che più che un volo era uno starnazzare, un andare a sbalzelloni, ma insomma era già un andare verso Gesù. Se due. anni avanti m'ero alzata dal fango tenace, se un anno avanti m'ero lasciata trascinare davanti all'altare perché da me mi vergognavo andarvi con frequenza... - non vi è peggior momento di quello in cui la coscienza si ridesta! Sia il demonio, sia quello che sia, siamo portati ad esagerare la colpa, a giudicarla imperdonabile, ad allontanarci da Dio per vergogna, in luogo di gettarci ai suoi piedi e dire umilmente: «Signore, salvami perché ho peccato! Signore, mondami ché son lebbroso! Signore, ricordati di me nel tuo Regno!» - se prima avevo fatto solo così, così poco e così male, ora, sotto il nuovo colpo doloroso, trovavo la forza di muovermi da me, come un cavallo stanco sotto la sferza che lo frusta. «L'empio abbandoni la sua via e l'iniquo i suoi pensieri, e ritorni al Signore che ne avrà misericordia, al nostro Dio che largheggia nel perdono»; «Io andrò in cerca delle pecorelle smarrite, ricondurrò le cacciate, legherò le fratturate, ristorerò le deboli, terrò d'occhio quelle grasse e robuste e le pascerò con giustizia». Ma non sembrano scritte per me e per tutte le povere anime, ammalate come lo era la mia, queste parole? Io, zoppiconi zoppiconi, mi trascinai verso il Signore ed Egli, largheggiando con la sua misericordia, legò le mie membra fratturate, ristorò la mia debolezza, mi prese in grembo per farmi dormire al morbido, al caldo, perché ero tutta una ferita, perché non c'era che Lui ad amarmi, perché dovevo guarire per servirlo, per seguirlo, per imitarlo, per amarlo nella grande luce piena, completa, libera, forte di un amore assoluto e senza più dissipazioni, freddezze, ritorni all'umano. Ormai mamma e chiunque altro potevano mettermi anche sotto i piedi. Avrei sofferto ancora. Ciò è naturale. Ma ogni sofferenza, invece di allontanarmi da Dio quasi facendolo colpevole di quel dolore, mi avrebbe sempre più stretta a Dio, perché ormai sapevo che Lui solo mi amava, che Lui solo voleva il mio bene, che da Lui non mi veniva che del bene e che il male era solo dato dalle creature. Ogni dolore è stato colpo di martello che ha sempre più conficcato i chiodi che mi uniscono alla croce di Cristo. E se è croce non accetterei per questo nessun letto regale in luogo di essa. Perché essa è letto nuziale dell' anima col Cristo così come la sofferenza, come dice Ruysbroeck, è la veste nuziale di Cristo. Come Lei avrà notato, molti dei ponti che mi univano alle creature erano stati spezzati e molti dei miei rami che si tendevano in abbracci verso altri alberi erano stati tagliati. Dio lavorava a isolarmi per avermi tutta per Lui. Rimaneva solo il ponte, l'amicizia per Mario. Molto


cara al cuor mio. Il giovane insisteva sempre sui suoi propositi e io sui miei. Ma più io insistevo nel dirgli che io non ero più capace di amare nel senso che ha questa parola per i più, e più lui si ostinava rispondendomi che non gli importava che io lo amassi come marito ma che gli bastava che io mi lasciassi amare da lui. Poi piano piano sarebbe venuto il mio amore. Ricordavo Roberto? Benissimo! Anche lui lo ricordava. Al primo bimbo avremmo messo il suo nome. Ero triste? Niente di male. Avrebbe pensatò lui a farmi così felice che io sarei divenuta lieta per forza. Ero sofferente? Cosa senza importanza. Il suo amore mi avrebbe guarita a furia di tenerezza, perché infine io ero malata perché troppo derelitta. E qui aveva ragione. In ottobre dovetti subire un vero assedio. Io rimanevo sulla negativa, per quanto tanto affetto mi cominciasse a scuotere e penetrare. Il colonnello si unì al figlio per farmi capitolare. Un giorno mi disse che Mario aveva bisogno di partire tranquillizzato per sostenere in pace gli ultimi esami ormai prossimi e che era ora di finirla con i «veti» assurdi di mia mamma. Non era giusto che io mi sacrificassi a delle ubbie. Mi rimproverò anche, benché con molta dolcezza, dicendo che io esageravo circa l'intransigenza materna. Ne avevo ombra come un cavallo. Io continuai a dire: «Aspettate! Più qua». Avevo paura. Ricordavo la scena del 5 gennaio 1914 e non volevo si ripetesse. Ma Mario non mi dette retta. Con la fretta degli innamorati una mattina, e precisamente il 3 novembre 1919, approfittando di esser solo con mamma, parlò. Una domanda vera e propria. Apriti, o cielo! Il povero Mario non fu sbranato perché... era molto più grosso di mamma, ma poco ci mancò. Fu, come prevedevo, invitato a non rimettere più piede in casa nostra. Nel pomeriggio il colonnello mi raggiunse per strada mentre facevo passeggiare il mio cane. Ero molto triste perché avevo dovuto subire rimproveri su rimproveri e perché pensavo che anche questa amicizia era spezzata. Era molto disgustato il colonnello e disse il suo pensiero chiaramente. Mi spiacque vederlo così inquieto. Ma così si persuase se io esageravo o meno. Mi disse che ad ogni modo egli mi considerava fidanzata di suo figlio. A meno che io rifiutassi assolutamente. Allora avrebbe dovuto dire che io pure ero una falsa come mia mamma, perché avevo sempre fatto credere a Mario che col tempo avrei finito con l'essere sua, mentre invece volevo farmi beffe di lui come se ne faceva mia mamma, rovinandolo così sul più bello degli studi. Questo non era vero. Io avevo sempre spiegato il mio pensiero a Mario e a suo padre. Ma il dispiacere delle volte fa dire delle cose non vere. E il colonnello era molto addolorato. Mi pregò di non insistere nel mio no, mi disse che un giorno lo avrei ringraziato di tanta insistenza sua perché con Mario sarei stata felice. Mi disse che la mia amicizia così fedele era il miglior preparamento ad un fedele amore che, se non avrebbe avuto le vertigini dell'amore-passione, avrebbe però di certo avuto il grande dono di una costante durata, sempre uguale per intensità e tenerezza. «Gli amori amichevoli sono quelli destinati a durare di più, cara. La consuetudine non li sciupa, la vecchiaia non li spegne. Sono amori che resistono a tutte le prove, a tutti gli eventi. Né l'età, né lo sfiorire delle grazie fisiche e il nascere in sua vece dei difetti morali, propri dell'età matura e oltre, lo tangono. L'amicizia, quando è vera, non è suscettibile di nessuna menomazione, e quella di Mario era vera perché non solo durava da anni ed anni ma si era sempre più affermata e aveva dato le prove più belle di essere


una fonte di bene». Se suo figlio era divenuto così bravo era perché a meta di ogni suo lavoro, studio, sforzo per migliorarsi, aveva messo me. E che altra prova volevo maggiore di questa? Dove avrei mai più trovato uno che sapesse amarmi così per la mia anima che si era legata alla sua dalla prima giovinezza in un legame così puro e costante come quello di una amicizia fedele? Ed io pure, povera ochetta che credevo di non amarlo, Mario, lo amavo dell'amore più vero, tanto che il pensiero di perderlo mi angustiava così fortemente. Ero solo una inceppata, accecata dalla paura di mamma, da cento scrupoli che andavano dall'idea di offendere la memoria del morto Roberto a quella di esser malata troppo per fare un uomo felice. Per Roberto mi mettessi in pace. Ci mancherebbe altro che tutte quelle che perdono il loro innamorato si condannassero a perpetuo sacrificio! Circa la salute egli, prima di dare tutti i consensi a suo figlio, aveva interrogato il professore che mi curava ed aveva avuto l'assicurazione più ampia che il mio male era più che altro dato da esaurimento nervoso, conseguenza di tutto quello che avevo sofferto e soffrivo. Una volta felice in casa mia, presso un marito che mi volesse realmente bene, sarei guarita completamente. Fu eloquente il colonnello, lui che parlava sempre così poco! In ultimo mi disse di consigliarmi anche con altre persone di mia fiducia prima di dare un rifiuto assoluto. Lo feci. In fondo sentivo io pure che l'amicizia di un tempo s'era mutata in una affezione più profonda. Il sole riesce anche a scaldare i ghiacciai quando è continuo... e Mario, da anni ormai, scaldava il mio cuore intirizzito con tutte le più delicate industrie di un vero amore. Ma prima di cedere mi rivolsi a tre persone: un sacerdote gesuita che conosceva molto bene me e Mario; una nostra comune amica, donna di una religiosità profonda, vera, perfetta, al corrente di tutte le idee di mia mamma e delle conseguenze di queste idee a mio danno; e un senatore, giurista emerito, primo Presidente alla Suprema Corte di Cassazione, marito, padre, nonno, cittadino esemplare: una coscienza retta, una mente equilibrata, un cuore aperto all'amore come di simili non ne incontrai altri. Mi voleva molto bene e spesso preferiva uscire con me anziché con le nipoti, troppo moderne, diceva lui, ossia troppo leggerine. Questo senatore conosceva anche Mario per averlo trovato presso di noi. Ebbene: il sacerdote, la signora anziana e pia, il senatore giurista e buono mi esortarono tutti e tre ad accettare questo amore senza impaurirmi delle «scomuniche» materne. E mi portarono tutti e tre degli argomenti sulla cui giustezza non c'era da eccepire. Stetti ancora incerta qualche giorno, pregando molto e meditando molto sul da farsi, e poi mi decisi. Accettai. Il colonnello mi chiamò «figlia» e mi promise che avrebbe pensato lui a mettere a posto mamma con le sue idee egoiste. «Ho vinto tante battaglie nella mia lunga carriera di soldato che ha partecipato a tre guerre. Vedrai che vinco anche questa. Voi vogliatevi sempre più bene. Scrivetevi da fidanzati ormai. La posta verrà qui da me o presso la signora Paola, se preferisci, dato che siete vicine di casa. A primavera Mario è ufficiale e allora daremo la battaglia campale e vinceremo». Mario era felice. Io avevo un poco di tremarella, ma direi una bugia se dicessi che non ero contenta. Pensavo che presto avrei avuto una casa mia dove avrei potuto vivere e rifiorire in pace, senza essere sempre oppressa dal dispotismo materno. E poi avrei avuto dei bambini!... Oh! i bambini! La leva che mi ha mossa, la più forte di tutte, sono stati i bimbi. L'idea di avere


delle creature mie alle quali dare tutto quell'affetto che io non avevo avuto per farli felici, felici, felici! Settimanalmente ci scrivevamo. Le lettere di Mario erano riboccanti di amore. Le mie erano più freddine. L'abitudine di trattarlo da amico sopravviveva in me. Ma sentivo che il mio cuore assiderato si andava scaldando di giorno in giorno. Mamma, convinta di aver messo a cuccia quel ragazzo, non aveva perdurato nel suo divieto acciò egli scrivesse e io rispondessi. Ma questa corrispondenza compassata, ufficiale, l'unica che apparisse, altro non era che un accompagnamento di note basse all'inno di amore squillante che Mario cantava nelle sue lettere, dirò così, officiose, private, che ormai alimentavano il mio animo con un balsamo di vita. Pregavo molto che tutto andasse bene fino in fondo, che il buon Dio toccasse il cuore a mia madre... Si, pregavo molto. Pregavo come pregano quasi tutti i mortali chiedendo a Dio di fare la nostra volontà, dandoci ciò che chiedevamo. Non chiedevamo, in verità, cose disoneste. Ma talora il buon Dio giudica bene non darci neppure le cose oneste. Felici coloro che in questo caso sanno dire: «Sia fatta la tua volontà!». Felicissimi poi coloro che, prima ancora di chiedere a Dio una cosa, dicono sempre: «Signore, fa' Tu. Io non chiedo nulla. Solo la tua volontà regni e operi!». Non ero ancora arrivata a tanto. Bisognava che mi fossi ancora intrisa nel pianto, in molto pianto, prima di giungere ad annullare in Dio la mia personalità umana, al punto di non chiedere altro che il suo amore e che Egli usasse di me come meglio gli pareva. Quando fossi arrivata a tanto avrei trovato la tranquillità perfetta perché, come dice S. Caterina da Siena: «Chi si conforma alla volontà di Dio trova la pace». Passò l'inverno così. Io miglioravo un poco perché ora mettevo il mio impegno nel migliorare per fare felice Mario che mi voleva così bene. Al 24 gennaio 1920 Mario venne in licenza. Fece solo poche visite, contegnose oltre misura, per non scatenare altre ire materne. Ma trovò il modo, su terreno neutro - veda in casa di quella nostra comune amica - di parlarmi non da amico ma da promesso sposo. Un solo colloquio e un solo bacio. Onesto e caro colloquio e casto, castissimo bacio. Furono il nostro viatico per le ormai prossime battaglie. Mario tornò ai suoi studi, potrei dire ai suoi esami finali, ormai. Io... andai inconsapevole incontro a una disgrazia che fu origine di altre disgrazie. Cominciavo a stare proprio benino. Avevo ancora molto cardiopalmo, ma ero ingrassata e mi era tornata dell'energia. Il professore era contento. Il 17 marzo uscii con mamma per andare a ringraziare una nostra amica molto vecchia, una nonnina che mi voleva bene e che mi aveva fatto un regalo per il mio ventitreesimo compleanno, avvenuto il 14 marzo. Al ritorno, nei pressi di casa mia, mentre camminavo dando braccio a mamma che per la sua vista molto alterata inciampa in tutte le più piccole sporgenze e cade, fui colpita alle reni da un piccolo delinquente, figlio di un comunista e della nostra modista. Con una sbarra di ferro, levata ad un letto, mi venne di dietro e a tutta forza, gridando: «Abbasso i signori e i militari», mi dette una mazzata. Il rumore fu tale che mamma credette avesse tirato una pietra e che questa avesse rimbalzato, suonando, sul marciapiede. Invece era il rumore del ferro sulle mie vertebre. Noti che per il male di cuore non portavo nessun busto e perciò mi mancò anche quel riparo. Sentii un così forte dolore che mi inginocchiai per terra. Le gambe non mi reggevano. A fatica potei poi rialzarmi e trascinarmi fino a casa. Spogliata che fui, si vide che avevo


una forte contusione alla regione renale. Dalla colonna vertebrale venendo verso il fegato avevo un segno rosso, quasi escoriato. Mi fecero degli impacchi che calmarono il dolore. Forse, anzi di certo, feci male a non volere subito un medico. Ma non credevo di esser stata così pericolosamente colpita. Non sono mai stata una «fifona» per il male. Come mio papà sono invece stata sempre fin troppo stoica nel male fisico. Passò il venerdì e il sabato. Io, oltre alla sofferenza della colpitura, che mi doleva se la toccavo o se mi appoggiavo sul dorso stando a letto, avevo anche delle sofferenze strane. Capogiri, scintillii davanti agli occhi, nausee intense e una grande, grande chezza. Però mi alzavo lo stesso dalle 9 alla sera. Alla domenica mattina andai in chiesa e feci la Comunione. Molto a fatica perché lo stare in ginocchio mi era dolorosissimo. Mamma provò a prendermi dei cibi che più mi piacevano perché non riuscivo a nutrirmi. Tutto mi ripugnava. A mezzogiorno mangiai un quarto di piccione arrosto e nient'altro. Al pomeriggio si sarebbe dovute andare fuori con quella signora amica che mi aveva consigliato per Mario, un'altra signora, io e mamma, per recarci ad una Esposizione. Io tentai di restare a casa e mamma, in verità, non mi forzò ad uscire. Anzi voleva restare a casa con me. Ma le altre due insistettero: erano pochi passi e mi avrebbero fatto bene... Uscimmo dunque. Io mi trascinavo a fatica e a tutti i sedili che incontravo mi fermavo. A cena non presi nulla. Mi coricai subito più stanca che mai. E dormii. Alle tre di notte fui svegliata da un dolore così atroce che non l'ho più riprovato uguale. E sì che di dolori tremendi ne ho tanti e da tanto! Ebbi la sensazione che un rene, o qualche altra cosa, si strappasse dai suoi legamenti e ruzzolasse verso l'inguine. Ma un dolore, un dolore! Divenni un gomitolo. Tutta bagnata di sudore freddo, rattratta, con conati di vomito. Non potevo parlare, muovermi, gridare. Morivo. Il mio canino, che dormiva nella sua cuccia in un angolo della camera, se ne accorse e si dette a ululare. Mi salvò perché mamma accorse, accorse papà, chiamarono la signora amica, un dottore. Era il proprietario di casa e stava al terreno. Con opportuni soccorsi uscii dall'agonia. Ma venne un febbrone. Io credo che si fosse prodotto un ascesso al rene e questo, nel rompersi, avesse inquinato il sangue, perché avevo attacchi di setticemia. In ospedale avevo avuto modo di conoscere le fasi della febbre settica che passa da un minimo di temperatura, fra brividi incoercibili, ad un massimo più volte al dì. Dico: credo, perché nessuno dei medici e dei consulenti ci capì nulla. Chi diceva una cosa e chi l'altra. Visite interne e esterne non approdarono al risultato sperato di una diagnosi. Tre mesi diletto, di febbri che raggiungevano i 40 gradi, sofferenze fortissime, tre volte quasi uccisa per cure sbagliate che mi colpivano il cuore ancora debole facendomi sfiorare la paralisi cardiaca. Ma nessuno capì niente. Nessuno ebbe il sospetto che fosse lo speco vertebrale il grande malato. Se ne accorsero quattordici anni dopo... E Mario? Mario, avvertito da suo padre, era tutto in agitazione. Io, con immensa fatica, nelle mie eterne notti, gli scrivevo per dirgli che non stavo poi molto male... Vedere il mio scritto era la cosa che più lo persuadeva che io non fossi grave. Gli scrivevo perciò e davo la lettera al colonnello perché la imbucasse o alla nostra amica. Di notte ero sola perché non volli mai essere vegliata, e perciò potevo scrivere i miei rassicuranti bigliettini. Ma invece stavo così male che, io più di tutti, e poi tutti gli altri, medici compresi, credevamo


proprio che avessi a morire. Me ne dispiaceva? No, affatto. Sarà stata la grande debolezza, sarà stata l'idea che la morte risolveva tutto, anche l'ormai prossima lotta per ottenere la libertà di amare, sarà stata una grazia speciale di Dio, sarà stata la volontà di Dio, sarà stato quello che sarà stato, il certo è che io ero rassegnata. Più ancora che rassegnata, contenta di sentirmi finire. Mi pareva di galleggiare su un placido fiume che mi portasse dolcemente con sé. Alla foce vi era l'eternità. Non posso dire che pensassi come penso ora, con una intensità che è quasi visione: «Là c'è Dio che mi attende». No. Ma pensavo che quell'eterno giorno che si avvicinava mi avrebbe dato la pace, perché ero già arrivata al punto di sperare fortemente nella misericordia di Dio. Quando un' anima spera fortemente nel Signore è già un bel pezzo avanti nella via della salute. L'idea della misericordia di Dio porta con sé fiducia, riconoscenza, tranquillità, amore e umiltà. Si riconosce di avere mancato e ciò ci tiene nella santa umiltà, virtù necessaria perché Dio operi in un anima. Si è tranquilli perché, se è vero che ricordiamo le nostre mancanze, ci conforta però l'idea che Iddio è Colui che vuole misericordia e non sacrificio e che nel suo amore misericordioso ci perdona e assolve se noi gridiamo a Lui la nostra speranza di assoluzione. Si è riconoscenti perché, come non potremmo esserlo con un così benigno Padre che è disposto a perdonarci fin da prima che noi si pensi a chiedergli perdono? Proprio come un buon papà che si accora delle colpe di un figlio, ma nel suo amore le scusa e anticipa col pensiero la gioia di quell'ora in cui il figlio gli dirà: «Padre, io non son degno d'esser chiamato tuo figlio!», perché allora il padre buono potrà dargli il bacio di pace che arde di esser dato. Si è fiduciosi perché quando sappiamo di doverci presentare a un Buono si ha sempre fiducia, e qui sappiamo che ci presentiamo al Buono per eccellenza. Thtte queste cose generano amore perché l'amore attira e genera l'amore, e quale amore potremmo trovare più grande di quello di Dio? L'amore infine predispone in noi l'anima a sempre maggiore umiltà, tranquillità, riconoscenza e fiducia. Sono virtù che si completano l'una coll'altra e mettono moto di ascesa nell'anima nostra come i diversi ingranaggi di un orologio dànno moto alle sfere. Anche ora, dopo 23 anni, ricordo quel tempo come un grande periodo di grande rassegnazione. Ora è molto più grande il mio cosciente amore per la Croce e per il Dio della Croce. Ma appunto perché il mio amore ormai ha raggiunto la vetta oltre la quale non si può salire, a meno di non restare fulminati dall'incendio della carità, la vetta sulla quale si gusta il Dolore come la più grande gioia, sulla quale si vede la Verità in tutta la sua pienezza, sulla quale «ostia con l'Ostia e ostia per l'Ostia» ci poniamo volontariamente sulla croce - gridando con Jacopone da Todi: «O croce io m'appicco e a te m'aficco, ch'io gusti morendo la vita! Per te voglio pasmare, Amor che io teco sia, Amor, per cortesia, fanme morir d'amore!» - appunto per tutto questo non ho più bisogno di rassegnazione. Essa è stata assorbita dall'amore. Onde io non mi rassegno a soffrire e a morire, ma devo chiedere a Dio la grazia di rassegnarmi a vivere e a non soffrire perché per me la morte è vita, il dolore è gioia e d'altro non temo che d'esser schiodata dalla mia croce. L'ho chiesta, l'ho avuta. Su essa voglio restare, su essa morire, con essa, come mia arma nobiliare, voglio entrare in Cielo. Maria Valtorta è morta da anni. Ora c'è Maria della Croce. E il mio feudo, la mia corona nobiliare, la


mia ricchezza, e tutte le regge della terra, tutti i feudi, le ricchezze, le corone mi sono nulla, un nulla tanto nulla che non lo guardo neppure, rispetto a questo legno santo, a questa ricchezza di ferite, a questa porpora di sangue, a questo feudo composto di un patibolo, a questa corona fatta di spine, a questa agonia fatta di canto e di riparazione, a questo Tutto, tanto Tutto che su di esso, con cura gelosa, tengo sempre fisso lo sguardo e che, con ancor più geloso affanno, tengo stretto contro me stessa perché non mi venga tolto il mio tesoro. Gesù mi dice, mentre insieme soffriamo sul legno: «Non ti spaventare di ciò che ancora hai da patire. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona di vita. Conserva ciò che hai affinché nessuno prenda la tua corona». E io, guardandolo negli occhi amorosi, baciandolo sulle labbra divine, bevendo le sue lacrime, nutrendomi del suo sangue, ritmando i miei palpiti coi suoi, cuore contro Cuore rispondo: «Sì, Signore, mio Dio, mio Redentore, mio Re e Maestro, si, mio Amore! Con la tua grazia sarò fedele fino alla morte. Grazie della gioia di soffrire». Stavo così male che il colonnello pensò essere giusto dare al figlio l'estrema gioia di vedermi ancora una volta. Quel bravo uomo deve aver pensato: «Se Maria muore, mio figlio avrà avuto l'ultima soddisfazione di poterla salutare. Se campa, questo è il momento di strappare a sua madre il consenso. E così accasciata che non reagirà!». Poveretto! Si illudeva, e molto! Il buon uomo parlò a mamma nel salotto da ricevere, poi venne da me glorioso e trionfante, sicuro di aver risolto tutto. Mi accarezzò con vero affetto paterno e mi sussurrò: «Sii felice, guarisci. Tutto è a posto!». Eh! infatti!... Partito lui, venne mamma. Non mi assalì di rimproveri e fu già molto col suo carattere. Ma spezzò tutto. A me disse che lei non era contraria in tutto, ma che dopo una malattia come questa voleva vedere se io guarivo bene prima di dare il consenso. Ero persuasa che agiva bene? Risposi di sì. Esaurita come ero, mi bastava che lei non mi torturasse con una delle sue solite scene. E infine la sua proposta era giusta. Dunque risposi di sì. Allora mi disse che a Mario avrebbe scritto lei e così pure avrebbe combinato tutto lei col colonnello, ecc. ecc. Andava bene? Sì, andava bene. Ero commossa da tanta inaspettata dolcezza e, con quelle poche forze che avevo, ne ringraziavo, nell'intimo, il Signore. Le lacrime mi rigavano il volto. Lacrime di debolezza, di gioia, di riconoscenza. Mamma mi disse: «Ora però devi dirmi con schiettezza a che punto siete, come avete fatto a scrivervi, quando vi siete combinati, chi vi ha esortati a continuare. Io non rimprovero nessuno ma voglio sincerità». Era troppo giusto, non le pare? Anche io, col salmista, dico: «Ho avuto fede e per questo ho parlato, ma sono stata oltremodo umiliata» perché, più ancora che per la mia vice-superiora che aveva avuto dure parole, dovetti poi dire che con me tutti erano menzogneri. Mi aprii con mamma, e con che frutto? Lei, al colonnello venuto il giorno dopo, non so di preciso che cosa disse. Ma da quello che in seguito ho potuto racimolare usò il mio nome per dire che io intendevo essere lasciata in pace e l'autorizzavo a fare le mie veci per rendere la parola a Mario, giudicando che era bene fare così, ora più che mai, dato il mio stato che avrebbe potuto lasciare conseguenze. E Mario fu liquidato. Il colonnello voleva parlare con me, ma mamma lo impedì nel più fiero dei modi. Lei vede che tuttora io ho sempre... l'onore della sorveglianza materna quando qualcuno è con me. Mi pare di essere un carcerato nel parlatorio sotto la


vigilanza dei secondini... Ma ora sono al terreno e qualche volta mi riesce parlare a quattr'occhi con la gente. Allora ero ad un secondo piano, in un appartamento dalla porta sempre chiusa a chiave e catenaccio. Mamma non mi lasciava mai sola e non usciva mai di casa. Perciò non potei più vedere il colonnello. Liquidato lui pure. Terza nella liquidazione: la signora amica con la quale io e Mario ci eravamo confidati. Una scena feroce e tutto fu finito col mettere per sempre alla porta quella signora. Quarta fu l'amica di quella signora per tema che servisse da tramite. E così via. Fuor che il medico, non vidi più nessuno, perché mamma significò a tutti che non riceveva più nessuno. Ciò fece nascere molte dicerie nel vicinato, non ultima quella che io stavo per avere un bambino... Quando dopo tre mesi mi alzai - perché volli alzarmi, ma avevo ancora forti febbri e dolori - dopo soli otto giorni mamma mi portò a Montecatini. La casa di Viareggio l'avevamo venduta nel 1918, e poi Viareggio era troppo frequentata da amici comuni di Mario e nostri... A Montecatini dunque, con la scusa di farmi cambiare aria e di fare lei la cura delle acque. Ma la realtà era che nell'appartamento non mi poteva certo tenere murata per sempre, e col luglio Mario, ormai ufficiale, veniva a Firenze in licenza... A Montecatini voleva anche farmi fare non so che stregoneria per levarmi Mario dal cuore. Mamma a certe cose ci crede... Ma io mi ribellai. Ho una paura nera di simili arti... Restammo a Montecatini 50 giorni. Il tempo necessario per essere sicuri che Mario era ormai imbarcato e suo padre ai fanghi di Salsomaggiore o di altra stazione termale. Dovetti rimanere sempre chiusa in casa per i rimanenti giorni fino al 20 settembre, giorno in cui partimmo per Reggio Calabria. Più lontani di così!... Mamma non aveva mai accettato l'invito dei parenti per andare là. Ma ora le tornava comodo e ci fece partire. Firenze non era propizia al suo giuoco. Papà poteva incontrare Mario o il colonnello, e mio papà ubbidiva alla moglie finché era lei presente, poi, anche senza volere, dimenticava le raccomandazioni di lei e diceva quello che lei gli aveva imposto di non dire. Io non potevo rimanere sempre reclusa. Dunque... via tutti. Cosa questa che sempre più accreditò il chiacchiericcio che io dovessi avere un figlio. Umanamente parlando le dico che sarebbe stato meglio. Avrei avuto la mia creatura e poi mamma, davanti a tale realtà, avrebbe per sempre deposto il suo despotismo. Non le sarebbe parso vero allora di sposarmi a Mario… Partimmo dunque senza lasciare indirizzi a nessuno. Solo il padrone di casa - il medico - lo ebbe per via delle tasse. Ma mamma opinò che di questo vecchio ci si poteva fidare. Così io, dal 17 marzo in poi, avevo messo il naso fuor di casa solo per partire all'alba per Montecatini, per partire alle 23 per Reggio Calabria. Quando tornammo da Montecatini erano le 22. Perciò posso dire che dal 17 marzo io non vidi più le vie e le persone di Firenze. In Calabria Giungemmo a Reggio Calabria il 10 ottobre 1920. Ci eravamo fermati a Roma, a Napoli, a Caserta per qualche giorno. A Reggio, nei vasti alberghi dei miei cugini, trovai tante cose atte a distrarmi dal dolore cocente che avevo in cuore. Abitavamo all'albergovilla. Un vastissimo baraccamento (la città cominciava appena a risorgere dal terremoto del 1908) sparso in una tenuta vastissima. Vi era agrumeto, mandorleto, frutteto, campi


di fave, carciofi, finocchi, piselli, ecc. ecc., e giardini, giardini, giardini. Poi, più bella di tutti, una passeggiata che lungo l'aranceto conduceva ad un chiosco, messo sullo sperone di una collina che scoscendeva a valle, fra un accavallarsi di fichi d'India. Era un posto stupendo. Si dominava tutto lo Stretto e i monti di Calabria. La città si stendeva ai nostri piedi. Era il mio posto prediletto. Andavo là col mio cane e un libro, fingendo di leggere. Ma non facevo che guardare il mare, sul quale passavano sovente navi da guerra, oltre ai piroscafi mercantili, e pensavo a Mario. Forse era su quelle navi e non sapeva che da quell'altura la sua amata lo invocava con tutto il suo cuore. Quando mi era stato strappato, cosa aveva fatto? Cosa aveva pensato? Si era immaginato che era tutta una macchinazione di mamma e che io ero stata messa nell'impossibilità di parlare, di agire come fossi imbavagliata e legata da dei malandrini, oppure mi giudicava una pazza, una malvagia, una senza parola? Questi «perché» mi trivellavano cuore e mente, giorno e notte, come tanti tarli trivellano un legno fino a farlo cadere in briciole. Lei forse si chiederà: «Ma costei non poteva neppure ora scrivere? In un albergo si possono fare tante cose con maggior libertà che in una casa». Sì, avrei potuto scrivere. Tante cose avrei potuto fare! Anche ribellarmi dicendo: «Sono maggiorenne e faccio quel che mi pare e che è lecito fare perché è cosa onesta». Ma - e da questo consideri se sono stata figlia ubbidiente e rispettosa o se non lo sono stata - ma non ho avuto la capacità di disubbidire e offendere mia madre. Ho fatto il mio dovere anche allora. Ho compiuto il mio sacrificio anche allora. Ero così spezzata, fra l'altro, che vegetavo senza nessuna energia. Vivevo solo, intensamente, la vita intima. Nell'interno c'era tutto un lavorio di ricordi, di pensieri, di rimpianti. Molto diversi però da quelli che erano scoppiati dopo il nefasto 5 gennaio 1914, origine di tutte le spine venute dopo. Perché, se mia mamma non avesse conculcato allora il nostro legittimo desiderio, io sarei stata da tempo sposata; Roberto, che non era tenuto al servizio militare (figlio unico di madre vedova) non sarebbe andato volontario, non sarebbe morto; io sarei stata a Bari con lui; Mario non si sarebbe innamorato di me; io non avrei avuto tutti quei dolori morali, non il male di cuore, non la lesione spinale... Ora soffrivo molto, ma era un dolore puro da ogni febbre di senso, un dolore santo, privo di ogni impeto di ribellione. Il primo dolore mi aveva staccata da Dio e dalla Legge di Dio gettandomi nella polvere. Il secondo grande, ancor più grande dolore che riapriva tutte le ferite che il tempo aveva rimarginate - e le riapriva per opera della stessa mano materna che, sempre uguale a distanza di anni, mi distruggeva la gioia per la sua comodità - mi riportava completamente a Dio e mi univa a Lui. Nessun altro affetto mi restava nel mondo, capace di saziare l'anima mia.Papà... era sempre più un bimbo dominato da mamma. Mamma mi era una nemica. Mario non l'avevo più. Le Suore mi avevano respinta. Altri buoni amici erano stati cacciati di casa. Più nulla, più nessuno. Solo Dio mi restava per farmi da padre, da madre, da sposo, da amico, da maestro. Piangevo ai suoi piedi, parlavo con Lui, mi facevo consolare da Lui, gli chiedevo umilmente di prendermi per mano e condurmi sulla via che più gli piaceva, perché ero smarrita e capivo che da me sola non sapevo mai trovare la via destinata a me dalla sua Volontà. In poco tempo mia mamma, con la sua maniera autoritaria, si era attirate le antipatie di tutti: personale di servizio, clienti, e parenti stessi. I suoi cugini -


perché sono cugini di primo grado con mia mamma - più volte le avevano cantato, a chiare note, che quelli non erano modi di fare né col marito, né colla figlia, né coi dipendenti. Figurarsi! Mia mamma non ha mai voluto osservazioni da nessuno. Chi gliele fa diviene per lei un nemico acerrimo. Perciò vi erano già state delle baruffe e non erano neppure due mesi che eravamo là... Alla fine di novembre ce ne fu una più... pepata del solito, e in seguito a questa l'altro cugino mio mi volle con sé all'altro albergo. Bisogna sapere che molte delle dispute erano originate dal fatto che i miei cugini: Giuseppe, Amelide, Emma, Normanna, non condividevano il modo di pensare e di agire di mamma a mio riguardo. Allora gli altri cugini: Battista e Clotilde, mi avevano voluta con loro. Meno ore ero con mamma e meno occasioni questa aveva di esercitare la sua sovranità assoluta. Perciò vi era speranza che vi fossero meno dispute in merito. Io perciò scendevo alla mattina verso le 8 all'altro albergo verso il mare, e risalivo all'albergo-villa alla sera alle 20 e oltre. Così, fuorché nelle ore notturne, stavo lontana. Mi spiaceva per mio papà. Ma lui aveva trovato molti svaghi a Reggio ed era lui pure più contento. Mi spiaceva anche non avere più modo di passeggiare per la tenuta e andare al mio caro chiosco, da cui vedevo tanto cielo e tanto mare e mi trovavo isolata fra piante in fiore e canti di uccelli. Mi spiaceva infine perché non avevo più intorno gli irrequieti e cari cuginetti dai sei ai tre anni, tre frugoli che mi si erano molto affezionati. Ma tutto insieme non si può avere. Con Clotilde, quella che m'aveva accompagnata a Monza, io mi ci trovavo benissimo. Veramente io mi ci trovavo con tutti, perché so molto adattarmi alle altrui idee. Abituata a vivere con mamma, trovavo facile il convivere in ogni altro luogo. Furono venti mesi di serenità. Mi occupavo di Memmo un caro ragazzo decenne, unico figlio rimasto - lo aiutavo a studiare... Mi pareva d'essere tornata al 1913 quando mi occupavo degli studi di Mario. Uscivo con Memmo per belle passeggiate in carrozza o a piedi. Facevo compagnia a Clotilde, lavoravo con lei che era bravissima nei ricami e merletti, leggevo. Clotilde aveva una bellissima raccolta di libri. É una donna molto colta e sa scegliere perciò anche nei libri i migliori per stile e per trama. Le ho detto che il buon Dio si è servito con me di tutti i mezzi per istruirmi nella sua legge e nel portarmi a Lui. Come per un dono speciale mi ha da bimba preservata da certe curiosità che i discorsi dei grandi potevano acuire in me gliel'ho detto a suo tempo -; come più tardi, nell'Ospedale, mi aveva dato un equilibrio così perfetto per cui nei miei feriti io non ho mai visto l'uomo ma sempre dei poveri bimbi malati; come per mezzo di creature e di avvenimenti mi aveva riportata alla bella fede della mia prima giovinezza, dopo la fiera tempesta passata dai 16 ai 20 anni; così ora, servendosi di libri e specie di un libro, finiva di attirarmi a Sé. Le ho detto che, purtroppo, non avevo mai potuto trovare un sacerdote che io giudicassi un direttore d'anima. Confessori sì, ma direttori no. Perciò, uscita di collegio, ero rimasta sola a guidarmi. Non più esercizi spirituali, non più prediche, più nulla. Ma Gesù, anche se pareva assente, era presente e mi presentava le occasioni per migliorare il mio animo. In quell'ora di tristezza di quell'inverno 1920-21, mentre, sentendo spezzati tutti i legami più cari, mi accostavo sempre più al mio Dio, ancora un po' timidamente perché non sapevo fino a che punto si può osare nella via dell'amore e della confidenza, il mio


Maestro mi dette una spinta potente con un libro. Non si scanda Mia cugina aveva il permesso arcivescovile di leggere di tutto. Io allora non lo avevo. Ora, da anni, ce l'ho. Ma ne uso ben poco. Allora non l'avevo e non avrei dovuto leggere perciò quel libro che sapevo all'Indice. Ma nella mia ancor debole religiosità non ebbi tanti scrupoli e lo lessi insieme a tutti gli altri della collana. Gli altri mi piacquero più o meno. Ma mi piacquero come romanzi veri e propri, ossia belle fole che si leggono per passare il tempo e che, una volta letti, lasciano il tempo che trovano. «Il Santo», invece, incise un segno indelebile nel mio cuore. E un segno buono. Non entro in merito sul perché della sua condanna all'Indice. Sono cose che non mi riguardano. Le supreme autorità che lo hanno condannato avranno avuto il loro giusto perché. Io, anche ora, mi chiedo quale sia questo perché e l'ho chiesto anche a molti sacerdoti, rimanendo però senza una spiegazione che mi accontentasse. Ma per mio conto, e ho sentito dire la stessa cosa da altre persone, questo libro mi fece un gran bene. Mi gettò a piene vele sul grande fiume, sull'oceano, anzi, della misericordia divina, e mi confortò a sperare nei valori soprannaturali dell'espiazione del pentimento che, come novello battesimo, ci rende nuovamente candidi e accetti a Dio. Il vedere il progresso, le vittorie spirituali, l'elevazione di Franco nel regno dello spirito, mi dette ala e lena per divenire audace nell'amore. Fino allora, al ricordo delle mie cadute, ero stata sempre un poco paralizzata. Come una bimba che sa di averla fatta grossa e, pur sapendosi perdonata, è ancora intimidita al ricordo della sua marachella. Da oltre un anno speravo fortemente nel Signore e nella sua misericordia. Ma ancora non osavo dirgli: «Io ti amo. Io mi consacro a Te. Io mi metto tutta al tuo servizio». Lo avevo cosi addolorato il mio Dio... Fogazzaro mi convinse che nessuna colpa è tanto grande da non essere passibile di redenzione, che nessun ricordo di passata colpa deve esserci ostacolo nell'avanzare nel Bene e che non bisogna fare al buon Dio l'offesa di crederlo così poco Padre da esser più Giudice che Salvatore. ritenuto colpevole di diffondere con le sue opere le idee del modernismo, che la Gerarchia ecclesiastica non tollerava e che il papa Pio X condannò nel 1907 con l'enciclica "Pascendi". In seguito Fogazzaro fece atto di sottomissione alla Chiesa. Di poi ho trovato questa santa dottrina negli scritti del Beato Claudio de la Colombière e soprattutto in quelli di Suor Benigna Consolata Ferrero, che altro non sono che dettati di Gesù. Ma per oltre due anni, chi mi lanciò nel gran mare della Misericordia divina fu il Fogazzaro col suo «Santo». Penso talora che per il bene che quel libro ha fatto alla mia e ad altre anime ferite come la mia, timorose come la mia, Iddio avrà dato a quello scrittore la sua pace. In aprile del 1921 mamma dovette pensare a tornare a Firenze. Era stata emanata una legge che proibiva di tenere appartamenti senza abitarli. Perciò o tornare a Firenze o trasportare mobili e domicilio a Reggio. Io non avevo nulla in contrario a stabilirmi in Calabria. Anzi avrei voluto farlo. Capivo che con Mario era proprio finita e solo l'idea di tornare a Firenze, dove tutto mi ricordava e Roberto e Mario e tutti i miei dolori passati, mi faceva terrore. A Reggio mi era più facile cercare di superare la rete dei ricordi. Così triste è quella rete che si vorrebbe rimbecillire per non ricordare più. E poi a Reggio ero amata dai parenti e difesa. A Firenze sarei ricaduta nella mia solitudine e nella mia miseria di affetti. Mamma, a sua volta, avrebbe voluto


rimanere a Reggio essa pure. Unica volta nella vita che io e mamma desiderammo la stessa cosa, per quanto per motivi diversi. Per mamma tornare a Firenze voleva dire risicare incontri col colonnello e con suo figlio. Incontri deprecabili se li facevo io: non si sa mai! Avrei potuto mettermi d'accordo coi due e allora... E in casa prigioniera non poteva certo tenermi di continuo. Incontri odiosi se avvenivano fra lei e gli altri, perché non c’è come l'avere agito male, con una certa persona, per farci cercare di evitare di incontrarci con lei, tanto il vederla, anche il solo vederla, ci desta la voce della coscienza che rimprovera. Ma mio papà, che aveva a Firenze tanti amici, militari come lui, non volle assolutamente cedere. Anche qui, per la prima volta, si verificò il fatto strabiliante di papà che comandava il suo volere. Con un capriccio di vero bimbo cocciuto disse che se noi non andavamo partiva da solo, ma lui a Reggio non ci stava per sempre. Perché? Mah! A Reggio stava benone, si divertiva, non spendeva nulla e avrebbe continuato a non spendere, perché negli alberghi le persone non bastano mai per sorvegliare le cameriere e i camerieri, cuochi, ecc. ecc., e i nostri cugini ci pregavano di rimanere per aiutarli nella sorveglianza. Dunque ne aveva anche un utile finanziario. Ma non cedette. Supplicai papà che per amor mio non tornasse a Firenze: io non ci potevo tornare, avrei sofferto troppo. Terzo fatto unico e inusitato: papà, che mi accontentava sempre, che mi voleva sempre con lui, mi rispose: «Tu resta pure. Io e mamma si va via». Nulla gli fece cambiare idea. Mamma era sulle spine... Poi si decise. Posto che Clotilde le diceva che mi avrebbe tenuta con sé tanto volentieri, io sarei rimasta laggiù e loro due sarebbero andati a Firenze. Pur di evitare che io potessi incontrare Mario, si decise a tenermi lontana... A tanto può spingere un'idea fissa. Dopo avermi sepolta sotto una valanga di «guai»: guai se tu scrivi al colonnello, guai se tu scrivi alla nonna di Mario, tre volte guai se scrivi a lui, guai se ti metti in relazione con chicchessia fra i clienti dell'albergo, gùai, guai, guai... partì. Non sarebbe certo partita se avesse saputo che io il 14 marzo avevo ricevuto una illustrata di Mario, indirizzata a Firenze e respinta a me dal padrone di casa, dove Mario aveva scritto queste sole parole: «Finché io viva ed oltre...». Era stato il più bel regalo per il mio 24° compleanno. Mi aveva fatto piangere tutto il giorno, ma di commozione, perché capivo che Mario mi amava ancora. Clotilde mi aveva detto: «Ma rispondigli, sciocca. Fatti la tua vita». Ma io non avevo più coraggio di tentare per la terza volta, con la convinzione di fare un terzo disastro. Insomma il 21 maggio papà e mamma partirono. Io rimasi con Battista, Clotilde e Memmo. La mia salute, nonostante le delicate cure che i cugini avevano per me da ormai otto mesi, non migliorava punto. Il dispiacere mi distruggeva piano piano come lo può fare un tumore maligno. Deperivo, impallidivo e mi sentivo sempre più indebolire. Col venire del caldo intenso, in giugno, declinai del tutto. Non vivevo più che di tazze di caffè freddo e frutta. Non potevo mangiare altro. Dormire mi era impossibile. Alla mattina ero un povero straccetto dagli occhi arrossati dall'insonnia, con un grande bisogno di sonno che mi pesava sul cuore, ma che non diveniva mai sonno per davvero. Mi alzavo prestissimo e andavo in giardino a respirare l'aria fresca e profumata dell'alba estiva. Poi in carrozza si andava, io e Memmino, al mare. I miei cugini avevano una vasta cabina, quasi uno chalet, molto comoda e bene arredata. Una bella veranda la ornava, e questa era già sopra le onde di


zaffiro del bel mare di Calabria, di quell'azzurro intenso, quasi irreale, che è proprio dei mari del meridione. Mentre Memmino faceva i suoi bagni coi cuginetti e altri amici della sua età, io stavo sulla veranda, semisdraiata su una poltrona. Non leggevo, non lavoravo; stavo là ad occhi quasi sempre chiusi perché mi pesava fino a guardarmi intorno, staccata da tutti e da tutto, unita solo a Mario lontano. Delle volte ero così sfinita che pregavo Memmo di buttare a terra, sulla stuoia che copriva la cabina, accappatoi e cuscini, e mi buttavo là, nell'ombra, come un povero cane ammalato, ritmando i miei tristi pensieri sullo sciabordio dell'onde contro la riva e contro i pali che sorreggevano la cabina. La febbre, che del tutto non era mai scomparsa, ma che si era ridotta nei mesi invernali a poche linee, ora tornava più forte: 37,8 - 38. Si era riacutizzato il dolore spinale e nel lato destro dell'addome, il cuore faceva il matto più che mai e mi era venuto anche un mal di gola inguaribile e tosse. Clotilde era impressionata. Mi chiese se avevo avvertito i miei. No. Non avevo scritto nulla. A che pro? Mi chiese se doveva avvertirli lei. Le risposi di no. Se morivo tanto meglio. Le chiedevo scusa di darle quella noia, ma per l'amore che mi voleva, un vero amore di mamma, mi lasciasse morire in pace, vicino a lei che mi voleva bene. Clotilde mi accontentò. Nel mio decadimento fisico, però, si faceva più intensa, viva, vivida la vita psichica. Più tutto quanto era materia si sfasciava in una rovina sempre più intensa, e tanto più una sensibilità, una lucidezza delle forze psichiche si accentuava. Le ho narrato a suo tempo che fin dal 1910 io ero soggetta a strane premonizioni che erano per me un vero tormento. Nel sonno, brani di futuro o avvisi e consigli per le contingenze della vita venivano a me dai regni del mistero. Anche quel sogno del 1916 faceva parte di queste manifestazioni. Ma era sempre nel sonno. Ero un temperamento molto sensibile, vibratile, direi, ai più lievi tocchi di correnti provenienti da altre, dirò così, stazioni trasmittenti. Per cui avvertivo con esattezza se un dato essere era o non era «buono». Le mie cosiddette «antipatie o simpatie» erano e sono sempre convalidate dai fatti che vengono poi. É ultra difficile che io sbagli. La prima impressione che ricevo è di solito esatta. Solo un due volte nella vita sono caduta in errore. Dicono i competenti che questo dipende da un complesso di cose che ci rendono come antenne riceventi. Sarà benissimo. Non ci discuto e passo oltre, solo aggiungendo che di essere così perspicace e sensibile, così antenna ricevente, ne avrei fatto volentieri a meno!... Ora, in quell'inizio d'estate 1921, non occorreva che io dormissi per avvertire fatti strani. Avevo la sensazione che dalle mie dita partissero come lunghi, lunghissimi fili lanciati nello spazio, e che questi fili si fossero agganciati ad altri consimili, partenti da Mario mio. Non solo, ma oltre a sentire che i nostri spiriti si erano fusi in una comunione che nessun ostacolo o malvagità umana poteva impedire, io sentivo che la distanza si raccorciava sempre più e che, come se io avessi alato un cavo a bordo di una nave, i fili si raccoglievano in me dopo esserne partiti alla ricerca di lui, trascinandosi dietro il mio Mario. Ho portato dei paragoni umani per spiegare una sensazione dello spirito. Ma avevo proprio quell'impressione di fili partenti da me e tornanti a me, dopo averlo trovato, portandomi lui. Erano forse le potenze dell'anima che si sprigionavano in raggi, per l'etere, a cercare l'anima di lui, a dirgli che morivo desiderandolo? Mah! Chissà!


Sono misteri che finché viviamo non conosceremo mai esattamente. Noti che io non avevo risposto alla illustrata di Mario. Verso la fine di luglio - potrei dirle la data ma mi pesa aprire quel cofano dove sono tutte le lettere di Mario, dei parenti suoi e di mia mamma in riferimento a Mario stesso, lettere che ho sempre conservate e che sono la prova irrefutabile che le cose sono andate come le descrivo io - ricevetti una lettera della zia di Mario che stava per entrare in un convento di clausura. Questa zia scriveva salutandomi e dicendomi tante cose affettuose e gentili anche a nome di sua mamma, la vecchia nonna che mi aveva già considerata come una nipote. Mi diceva anche: «Prega e vedrai che Gesù ti farà contenta e conoscerai la gioia». La buona Gabriella alludeva a una cosa, ma io, che non sapevo il resto che si preparava, credetti che ella parlasse di un'altra, tutta spirituale. Lei mi chiederà: «Come faceva questa zia a sapere dove era lei?». Semplicissimo. A Pasqua Mario era stato a Firenze in licenza e aveva... grattato la pancina al padrone di casa il quale, come una cicala solleticata nell'addome, aveva cantato, dicendo dove eravamo, non solo, ma dicendo che presto mamma e papà sarebbero tornati a Firenze ed io sarei rimasta là. Tutto quello che mamma temeva fosse detto e si era raccomandata di non dire, il proprietario lo disse. Se lo fece per imprudenza, per smemorataggine data dall'età, o volutamente, giudicando non essere giusto l'operato di mamma, non lo so. Non ho mai chiesto nulla in merito. Il certo è che Mario fu reso edotto di dove ero e che sarei presto rimasta là sola. Risposi alla zia Gabriella ringraziandola del suo buon ricordo e pregandola di salutare la nonna e pregare, dal suo convento, per me. E basta. E credevo fosse tutto finito. Il cinque agosto, mentre si era a tavola per il pranzo - erano le due pomeridiane perché negli alberghi i proprietari usano mangiare o prima o poi dei clienti e i miei cugini pranzavano sempre dopo gli altri - il cinque agosto venne il cameriere ad avvertire mio cugino che un ufficiale di marina desiderava parlargli. Nulla di strano, vero?, che in città di mare prossima a basi navali potessero arrivare degli ufficiali di marina. Ne arrivavano sempre all'albergo! Pure io sentii che era lui. Balzai in piedi, lasciando in asso il caffè che aveva costituito il mio cibo, e scappai. Sì, Padre: scappai. Glielo scrivo ben chiaramente perché legga bene. Corsi a rifugiarmi in camera mia, mi chiusi dentro a chiave. Perché? Perché la gioia mi soffocava, perché avevo paura di non sapermi contenere al cospetto degli altri, perché nella gioia e nel dolore ho sempre avuto un grande pudore e non ho mai voluto sciorinare i miei più intimi sentimenti sotto occhi di altri. Piangevo e ridevo insieme, pregavo, benedicevo Iddio, mi sentivo morire e rinascere ad ogni palpito del mio cuore che balzava come uno spiritato nel mio petto. Ero certa, certa, certa che Mario era venuto, che quell'ufficiale non poteva essere che lui; ero felice, felice, felice perché era venuto, perché mi aveva amata al punto di non credere alle bugiarde parole che gli erano state dette. Oh! perché non si può fermare la vita e certe ore? Non avrei neppure voluto passare ad un'ora ancor più piena di gioia. No, avrei voluto fermarmi a questa, a questa sola... Salì mio cugino a dirmi, attraverso la porta chiusa, che era proprio Mario e che scendessi. Col fiato mozzo risposi che lo avrei fatto non appena avessi capito di reggere a quella gioia. Il dolore è una mazzata che ci spezza quando si abbatte improvviso su noi; ma anche la gioia non lo è di meno. Capisco benissimo che si


possa morire in un'ora di gioia, fulminati da essa. Scesi finalmente con le gambe tremanti. Egli era in un salottino ai piedi della scala... Non so ancora se gridai, se tacqui, se corsi verso lui o lui verso me. Non so nulla. Quando cominciai a capire mi trovai fra le sue braccia. Più tardi, giorni dopo, Memmo mi disse: «Abbiamo creduto che tu morissi!». Mario era venuto per chiarire le cose. Si era presentato lealmente ai cugini, aveva chiesto loro se a loro risultava che io avessi ancora dell'affetto per lui. Se questo affetto esisteva egli si sarebbe fatto annunciare a me. Se invece, come mamma mia aveva detto, io non pensavo a lui e non volevo saperne di lui, egli sarebbe ripartito senza neppure tentare di salutarmi. Disse che non poteva capacitarsi che io avessi agito di mia iniziativa come mamma aveva detto e che voleva, da persone rette e coscienti e che mi volevano realmente bene, sapere la vera verità. Saputala, aveva detto di chiamarmi. Rimase poche ore... Ore di sogno la cui luce solare è rimasta chiusa in me, la cui dolcezza non è superata altro che dalla dolcezza delle gioie soprannaturali. Mi consegnò la lettera che aveva scritto il 14 marzo e che poi non aveva spedita per tema cadesse nelle mani materne. Ce l'ho ancora quella lettera. Le ho tutte. Mi assicurò del suo costante affetto, dell'affetto di tutti i suoi per me. Mi disse che ora egli partiva per Costantinopoli come addetto alla Squadra Internazionale che presidiava allora gli Stretti turchi. Ma che partiva felice. Io intanto scrivessi a mamma. Con 990 chilometri fra di noi mamma non poteva sbranarmi. I cugini fra l'altro mi avrebbero aiutata. Avremmo vinto noi. A Natale, a Capodanno al massimo egli sarebbe venuto per il fidanzamento ufficiale e in capo a un anno - doveva stare un anno a Istambul - ci saremmo sposati. Se mamma voleva, bene; se no, non occorreva. Ormai avevo 25 anni ed egli era già in carriera e col non indifferente capitale di 300.000 lire, più una villa a Roma e una a Moncalvo Monferrato. Perciò non c'era da preoccuparsi di nulla. Se mamma pensava lei al corredo, bene; se no ci pensava sua nonna, la quale era più che contenta di aprirmi il cuore, le braccia, la borsa. Restammo insieme sempre durante quelle ore. Parte del tempo, e finché folgorava il sole, in albergo; dopo in carrozza sotto la... protezione del fido cocchiere dei cugini; poi da capo in albergo fino alle 24, ora in cui andammo io, Clotilde e Memmo ad accompagnarlo alla Stazione... A me rimase l'incarico di scrivere a mamma. E lì ho sbagliato. Clotilde mi disse: «Scrivi, a bruciapelo, che ti sei fidanzata e che entro un anno ti sposi. E basta. Tua madre è un tipo irragionevole, perciò inutile tentare di persuaderla con le buone. Occorre metterla davanti al fatto compiuto. Io poi, e Battista con me, scriveremo dicendo il resto». Dovevo darle retta. Ma ero una figlia troppo rispettosa. All'alterigia, unica arma da usarsi coi prepotenti per mettermi a terra, preferii usare la buona grazia. Risultato? Anatemi, scomuniche, maledizioni, geremiadi a non finire. Quelle lettere le ho tutte e se vuole gliele faccio leggere. Poi, non bastando questo, senza sentire il mio grido di supplica perché comprendesse che avevo diritto all'amore come lo aveva avuto lei, si recò dal colonnello, trascinandosi dietro quel povero uomo di mio padre, il cui compito era solo quello di dire di sì e di no come una marionetta alla quale mamma tirasse un dato filo. Vi deve essere stata di certo una disputa tanto violenta che il colonnello ad un certo punto trovò opportuno troncare mettendo alla porta mia mamma e il suo troppo debole marito. Altri anatemi e


scomuniche e geremiadi a me che «avevo causato quell'affronto, ecc. ecc. ecc.». Ma io, da lontano e con l'appoggio dei cugini, avevo un coraggio da leone e resistevo. Intanto rifiorivo miracolosamente. Lo avevo promesso a Mario. Come pianta langnente per l'arsura e che una pioggia beneica irrora, io riacquistavo vigore giorno per giorno. La speranza mi rianimava, la gioia mi nutriva. Potevo da capo nutrirmi; se anche non dormivo, non erano però più quelle notti tormentose di affanno. L'amore mi ritemprava tutta, il nostro amore così fedele e puro... Per tutto agosto, settembre, ottobre durò il carteggio con mamma. A tutti i suoi ostacoli io contrapponevo i miei controostacoli. La dote non me la voleva dare? Non occorreva. Non mi voleva fare il corredo? Non occorreva. Era una pazzia e m'avrebbe dato la morte? Sarei morta in un'ora di gioia: per intanto guarivo. Mario non era uomo serio? A me aveva dato la più bella prova di serietà. Mario era stato un subdolo e si era presentato a me per sorprendermi e sedurmi? Niente vero. Prima che con me aveva parlato coi cugini. E così via. Mario aveva scritto a sua volta, ma mamma non aveva risposto. Anzi nella collera aveva strappato la lettera e l'indirizzo. Vedendo che nulla vinceva né me né lui, mamma tornò al suo metodo prediletto. Ho letto una volta nel libro di un giurista che i delinquenti tornano sempre a compiere i loro delitti con lo stesso sistema. Ognuno ha il suo metodo e la polizia si basa sui particolari, sempre uguali, per riconoscere un dato delinquente. Senza essere dei delinquenti di fatto che uccidono, rubano, tradiscono materialmente, ecc. ecc., lo si può essere anche moralmente, perché chi uccide un cuore, chi ruba una gioia, una pace, una riputazione, chi tradisce una fiducia non è da meno di chi uccide una vita, di chi ruba una somma, di chi tradisce la patria. Delitti impuniti che solo Dio vede, ma non per questo meno delitti! Chi li compie segue sempre un metodo suo proprio. Mamma usò il suo ed io, oca perfetta, ci cascai, e Mario... mi fece compagnia. Alla fine di ottobre, dopo aver ricevuto una lettera ben chiara di Clotilde, mamma finse di arrendersi e di rassegnarsi e mi chiese l'indirizzo di Mario. Clotilde mi disse: «Non glielo mandare». Ma potevo io non mandarglielo? Non era bello e giusto che quei due, da me diversamente ma con la stessa intensità amati, si intendessero? Continuare la guerra voleva dire non avere benedizione materna sulle mie nozze. Potevo volere ciò? Mandai perciò l'indirizzo. Da Firenze a Istambul la posta ci teneva circa una settimana, come ce ne teneva altrettanto da Istambul a Reggio. Orbene, confrontando le date si vede, con evidenza innegabile, che mamma scrisse a Mario, lui rispose e contemporaneamente scrisse a me una lettera che è tutta una protesta di affetto e termina così: «Mario tuo, sempre tuo, completamente tuo, eternamente tuo». Mamma tornò a scrivere... e Mario non scrisse mai più. Cosa gli disse? Solo lei, lui e Dio lo sanno. Una volta, or sono otto anni, mentre io ero ancora mezzo intontita da una crisi con delirio, udii mamma dire a una signora presente: «Ah! signora Ida! Cosa ho mai fatto con lo scrivere quella lettera!». Non creda che ho capito male io. La signora Ida, interrogata da me il giorno dopo, mi ha confermato quella frase di mamma. Mario non mi scrisse più, mai più, mai più. Io avvertii quello stesso fenomeno che mi aveva notificato il suo arrivo, ma in senso contrario. Verso la fine di ottobre sentii allontanarsi sempre più quei fili misteriosi e poi spezzarsi. Lo dissi a Clotilde ma lei mi dette un po' su colla voce. Mario scriveva ancora


ed era così affettuoso. Perché credere a certe bubbole? Ma quando dopo la sua lettera del 6 novembre, ricevuta da me il 13 novembre, egli non scrisse più, Clotilde rimase perplessa. Mamma si denunciò da sé fin da allora perché non mi parlò più di Mario... Io, per consiglio di Clotilde, continuai a scrivere a lui come niente fosse. Ma le mie povere lettere non ebbero più risposta. Giunsi così fino alla mattina del 24 dicembre. A sera doveva esserci un grande pranzo. Io e Clotilde eravamo intente a preparare i fiori, le coppe, ecc. ecc. Arrivò un ufficiale di marina. Era di passaggio. Doveva andare a Roma per sposarsi. Chiese se nonostante l'ora (erano le 10 e mezzo) avrebbe potuto avere una minestrina e un uovo, magari solo quello, perché proveniva da Taranto e lungo la desolata linea del Metaponto non aveva potuto mangiare nulla. Mentre egli attendeva che la minestrina cuocesse, mia cugina, che era ansiosa di avere notizie di Mario, il cui silenzio impressionava e le mie asserzioni che «tutto era finito per colpa di mamma» scuotevano, chiese a questo ufficiale da dove venisse. Lo chiedeva a tutti gli ufficiali di marina. Egli rispose che veniva dalla Thrchia, dal mar Nero precisamente, perché allora il mar Nero era tutto sotto controllo della Squadra Interalleata. «Ah, sì? E a Costantinopoli non c e mai stato?». «Sì, anche di recente, perché le nostre torpediniere vanno avanti e indietro e spesso attraccano a Istambul». «E conosce il tenente di vascello Mario Ottavi?». «Chi? Ottavino? Ma sicuro! E di poco più grande di me e ci conosciamo fin dagli anni dell'Accademia». «Che fa ora? Sta bene? É lui pure a Istambul?». «Sì. Lui è anzi, sempre a Istambul essendo sulla nave ammiraglia. Lo conosce, signora?». «Sì. É stato qui nostro ospite». Non disse altro Clotilde, altro fuorché ospite, per dar modo all'altro di parlare liberamente. Io ero in una saletta attigua. Sentivo ma non ero vista dall'ufficiale, il quale credeva esser solo col cameriere e con la proprietaria. Clotilde insistette: «Ora come sta? Prima ci scriveva, ma ora e tanto che sta zitto...». L'ufficiale sorrise e dette bonariamente le spiegazioni richieste. «Ma che le devo dire, signora? Mario era tanto serio, assennato. Non so... credo fosse in relazione con una signorina e con serie intenzioni... Cosa sia successo non so perché, come le ho detto, io vado e vengo da Istambul. Ma altri colleghi mi hanno detto - sa, le nostre chiacchiere - che da due mesi Mario è totalmente cambiato. Prima ha avuto giorni neri in cui era intrattabile con tutti, lui così bonaccione... Poi... poi si sta rovinando con una donna, una russa, un regalo che ci ha fatto la rivoluzione comunista. Lei si dice titolata e fuggita per scampare alla morte. Ma io credo che sia una avventuriera. É bellissima, ma anche corrottissima. S'immagini, ecc. ecc. ecc.». Le risparmio, Padre, i particolari non adatti per me a scriversi e per Lei a leggersi... L'ufficiale concluse: «Povero Mario! O è diventato pazzo, oppure lo hanno fatto diventare pazzo con qualche cosa che noi non sappiamo. E creda che me ne spiace, perché era un bravo ragazzo!...». Padre, non ha mai provato lo spasimo che si prpva quando su una vasta bruciatura scoli dell'acido? Io si, una volta. È un dolore che fa drizzare nervi e capelli. Io quella mattina ho provato quel dolore... ma era l'anima bruciata su cui si rovesciava dell'acido... Ecco l'opera di mia mamma. Io sacrificata e lui rovinato. A sera mi venne un febbrone. Tutti gli ospiti mi complimentavano per il «magnifico colore che avevo quella sera». Sfido io! Mi facevano dei ditirambi sugli «occhi splendenti con cui li guardavo». Altro che


splendenti! La febbre li rendeva fosforescenti. E mi chiedevano se ciò proveniva dalla notizia dell'imminente arrivo del promesso sposo... Senza volere, delle volte si è crudeli coi nostri simili. Quelle degne persone coi loro complimenti e le loro domande e allusioni erano crudeli. Ma non sapevano niente e perciò non sono colpevoli. Erano come bimbi che parlano senza sapere... Io volevo scrivere subito a Mario e a sua nonna. Ma Clotilde e suo marito mi dissero: «Aspetta. Sarà un attimo di smarrimento. Aspetta». Aspettai. Però a lui non scrissi più. Piansi, pregai, perdonai. Perdonai a lui di cui capivo il dramma che viveva. E perdonai a mamma che capivo essere autrice di quel dramma. Ho sempre perdonato, per me stessa, il male ricevuto. Se ne persuada. In gennaio ripresi la spagnola. Era quell'ultima terribile epidemia di spagnola nella quale perse la vita Benedetto XV. Morì anche mia cugina Normanna, quella dell'albergo-villa, lasciando quattro orfanelli di cui il più piccolo di sette mesi. Quei bimbi mi impedirono di sentire troppo acerbamente la mia nuova, duplice pugnalata. Dovetti occuparmi di loro per qualche tempo e ciò mi teneva su. Quando ho una missione mi tuffo in quella con tanta foga che ogni altra cosa diviene meno importante al mio cuore. E poi speravo... speravo... Non potevo rassegnarmi che Mario, che si era mostrato così fiducioso in me e così fedele, avesse potuto d'un tratto divenire infedele e non fiducioso. Lo scusavo perché pensavo che chissà mai che gli aveva detto mia mamma per staccarlo da me. Ma non potevo capacitarmi che egli avesse potuto credere alla menzogna che certo gli era stata detta. E speravo che dopo il primo tempo d'ira si sarebbe reso capace di capire il tranello. Ho aspettato fino al maggio. Sei mesi sono sufficienti per ragionare e giungere alla luce, e vedere le cose nella loro realtà. E sono anche sufficienti per esaurire un capriccio. Certi amori di vizio hanno corta durata. Nell'ultima lettera che gli avevo scritta e che egli doveva aver ricevuto per Natale io, oltre agli auguri, gli avevo raccomandato di non farmi pentire di aver avuto fede in lui e di avergli affidato, donato il mio cuore. Ricordo che, quasi dettate da uno spirito onniveggente, io gli scrivevo queste frasi: «Tu sai quanto sforzo ho dovuto compiere per ottenere che questo nostro amore avesse vita. Non lo dimenticare mai. Non ti dico di vivere come devo vivere io che sono una donna, la tua donna. Ho tanto buon senso da sapere che ciò sarebbe impossibile. E siccome non voglio obbligarti a dirmi delle cose non vere, così non ti chiedo di darmi la tua parola d'onore di vivere come debbono vivere dei consacrati in un chiostro. No. Mai tu devi essere insincero con me come mai io sarò insincera con te. Tutto io ti potrei perdonare, tutto, ricordalo, ma non la mancanza di sincerità in me. Essa mi direbbe che tu non mi conosci ancora e non mi ami completamente. Perché se mi amassi a fondo e mi conoscessi a fondo sapresti anche che il mio amore per te è così completo e perfetto che assomma in sé i caratteri di un amore di madre, di sorella, di amica oltre che di sposa. E tu lo sai che una vera mamma perdona tutto, una vera sorella indulge a tutto, una vera amica comprende tutto. Non mi recare mai l'offesa di essere meco insincero e senza confidenza. Io amo il tuo cuore più ancora che il tuo corpo, lo sai. E il tuo cuore non deve avere segreti per me. Cerca di vivere in modo che il confidarti con la tua Maria non ti abbia ad esser faticoso. Vivi in una città dove tutti i pericoli più insidiosi sono radunati e condensati per tendere lacci ad un uomo, specie se


giovane. Ma tu sappi liberarti sempre da tutti i tentacoli di un piacere che sappia renderti talmente schiavo di sé da trascinarti al fondo, nel fango... Te ne vergogneresti troppo, dopo, non per me stessa ma per te, per la tua dignità di uomo. Sii sempre un uomo, Mario, e non solo un maschio. Sappi rimanere libero e forte, in piedi, anche in mezzo a tutte le canzoni delle sirene che tentano in mille maniere l'anima maschile. Lo farai, vero? Per te, per la tua carriera, e per me di cui tu sei il Bene, la Speranza e la Vita. Ma se, per un deprecato caso, tu fossi già soggiaciuto... oh! allora vieni, vieni più di prima a me. Piangeremo insieme ed io ti guarirò e ti renderò alla vita, di nuovo libero e forte, perché un cuore di donna, veramente amante, ha in sé tutte le medicine per guarirvi dalle malattie della carne e tutte le indulgenze per assolvervi dalle debolezze dello spirito». Lei dirà: «Come fa a ricordarsi dopo tanti anni di quanto gli scrisse allora?». Oh! ricordo, ricordo! Nello sfacelo generale del mio corpo rimane forte, unicamente forte, la memoria. Ricordo tutto, anche le cose più insignificanti. Potrei non ricordare queste che ho ripetute in me, col pensiero, migliaia di volte? Potrei ridirle tutte le lettere che gli scrissi. Esse sono incise nella mia mente come su un disco fonografico, così come le lettere di lui sono incise nel mio cuore. Le ho vicine al mio letto, ma non le guardo neppure. Non ne ho bisogno. Esse sono tutte scritte nel cuore e non ho che guardare nel mio interno per leggerle. In capo a sei mesi di silenzio suo, scrissi a sua nonna dicendole quanto era accaduto e finivo così: «Per la mia dignità ora trovo che è bene porre fine a questo disgraziato amore. Non giudico e non condanno Mario. Mi spiace solo che la sua bella giovinezza si avvilisca così in un legame indegno. Ma è così. Finché Mario fu un ragazzo fu perfetto; fatto uomo ha seguito la regola. Triste regola che è causa di tanti errori. Dio lo perdoni come io gli perdono. Gli faccia sapere che gli rendo la sua parola, che egli del resto si è così miseramente ripresa, e che se lui non seppe essere fedele io lo sarò per lui e per me, e se non potrò occuparmi di lui come creatura di carne mi occuperò di lui come anima pregando per il suo bene, perché nonostante tutto, pur rendendogli tutta la sua libertà, per mio conto io continuerò a considerarmi la sua sposa fedele». Padre, le ho detto che quando mi fu tolto Roberto credevo non si potesse soffrire di più. Ma nel 1921 soffrii molto di più. Da quella mattina del 23 dicembre 1921 fino a... fino a quando? Fino a sempre finché io vivo, io porto questa pena confitta nel cuore. Ed è tanto pena che resiste e sussiste pur fra la gioia della mia dedizione a Dio. Come capisco il dolore di Cristo per il tradimento dell'apostolo infedele! No, non c'è nulla che superi il dolore che ci dà un tradimento, il tradimento di uno che amammo e stimammo. La morte che ci leva uno da noi amato non è nulla in paragone di questa mala azione che avvilisce in noi la stima fino allora avuta di un essere caro e che scaglia al suolo, a infrangersi nel fango, il dono stesso del nostro cuore che viene vilipeso e tradito. E un dolore che spreme sangue dalle fibre e ci macina come puo farlo una mola. Ci annichilisce. Colui che muore lo possiamo seguire, col pensiero, nei regni dell'al di là; colui che muore non ci abbandona: da altri regni ci veglia, ci segue, ci protegge, e il suo spirito, libero dalle costrizioni della carne, può ancora venirci vicino come un angelo tutelare. Ma colui che ci tradisce è perduto per noi. Egli stesso si ritira portando seco il suo cuore che seppe divenire per noi coppa di fiele, egli se ne va con un insulto,


calpestando nell'andare il nostro cuore che invano sotto ai suoi piedi tenta un ultimo appello di pietà. Perduto, perduto per sempre è colui che alla nostra fiducia, alla nostra stima, al nostro amore infligge la tortura e l'offesa schiaffeggiante di un tradimento e di un abbandono immeritato. Colui che muore non cessa di amarci ma anzi ci ama con maggior perfezione dall'altra vita: il nostro amore continua con un caro estinto. Ma colui che tradisce non ci ama più. Se ne va con tutto il suo io e noi restiamo soli ad amarlo... Perché - pare impossibile ma è così - perché non si ama mai nulla tanto perfettamente, intensamente, come amiamo, di un amore fatto di compassione, colui che ci ha tradito. Egli rimane fisso nel cuore nostro. Vediamo su lui la colpa del suo tradimento che ci ferisce così profondamente, ma non ci addoloriamo della ferita nostra, ma della ferita che egli ha inflitto a sé stesso, menomandosi nella sua onestà di uomo. Ci si accora per i suoi rimorsi futuri che è inevitabile che sorgano quando l'anima, snebbiata dal capriccio che l'ha sedotta, in ore di meditazione che anche il più superficiale conobbe, si trova di fronte a sé stessa e al suo passato. Come dico, Mario ha, a sua grande attenuante, quello che gli avrà scritto mia madre. Ma se ciò attenua la colpa non la annulla, perché il tradimento rimane e rimane l'offesa che egli mi ha recata col preferire a me, che ero la sua donna fedele e onesta, la creatura di vizio trovata per caso sui marciapiedi di una città cosmopolita. Fosse tornato a me dopo un breve capriccio l'avrei compatito. Ma così... E un'amarezza che permane viva e permarrà fino alla tomba. Eppure non ha spento il mio amore per lui. Né credo che ciò sia diminuzione della mia dedizione a Dio. Come nei monasteri possono entrare le vedove e onorare Iddio con tutte le pratiche di una vita monastica e con un amore che, formatosi per la creatura, diviene perfetto donandosi al Creatore, così ugualmente io, povera vedova prima che sposa, posso amare il mio Dio che è rimasto solo a regnare su me e in me, e nel contempo conservare un amore soprannaturale per l'anima di colui che mi ha lasciata e che è caduta così in basso dopo tanto bene che io avevo seminato in essa!... Non le pare che posso fare così? Il mio nuovo dolore non mi staccò da Dio. Anzi fu un accrescimento di amore per Lui. Non ho conosciuto nessuna di quelle ore tremende di ribellione che avevo conosciute nel 1914 e seguenti. Soffrivo come di più non si può soffrire. Oh, sì! Ora lo posso ben dire, ora che ho provato tutti i dolori fuorché quello della morte di un figlio! Soffrivo, ma non una delle mie lacrime cadeva sola, per terra, dopo avermi bruciato il cuore. Io le versavo tutte nel cuore di Cristo. Verso Pasqua, nella chiesa della Purificazione che era la parrocchia dell'albergo ove ero io, il Parroco esortò i fedeli ad ascriversi al Terz'Ordine Francescano. Io e S. Francesco eravamo vecchi conoscenti. Nel mio Collegio, nella primavera 1912, la mia Superiora, conoscendo il mio trasporto per questo Santo che allora era molto poco celebrato, mi aveva dato da leggere un libro sul medesimo: «Amor che spira», se ben ricordo quel titolo. Nessuno voleva leggerlo per la prima, neanche le Suore. La Superiora lo portò a me dicendo: «Tieni, Valtortino, tu che sei una piccola francescana leggi e sappimi dire se può piacere alle altre per farlo leggere in refettorio». Era un libro nuovo, con ancora le pagine da tagliare. Mi tuffai in quella lettura e, se prima amavo il Serafico d'istinto, dopo lo amai tre volte di più col conoscimento. Avevo trovato il mio Santo. E anche nei periodi neri della mia giovinezza il mio affetto per lui


non s'era illanguidito. Era più che naturale che ora, tornata a Dio con tutta la pienezza della volontà, più che mai mi sentissi portata verso il suo Araldo, verso lo Stigmatizzato della Verna, verso colui che dopo esser stato carne seppe, per amore del Cristo, divenire spirito. Fui li li per ascrivermi subito al Terz'Ordine Francescano. Ma me ne astenni. Perché? Perché un resto di vergogna era ancora in me. Mi fidavo ormai e mi affidavo alla Misericordia di Dio e in Dio trovavo sempre più quel conforto che avevo inutilmente cercato di trovare in tutti gli umani. Ma non ero ancora giunta al punto di credere, come credo ora, che la Misericordia di Dio ècosì infinita che nulla le è di ostacolo per amare le sue creature. Mi dicevo: «Sì, Dio ti ha perdonata e ti vuole bene come prima. Ma tu, anima mia, non ti devi dimenticare quello che hai fatto di contrario alla Legge divina. Perciò prima di entrare in una milizia quale è un Terz'Ordine devi fare il tuo purgatorio. Un purgatorio di penitenza, un purgatorio di studio per purificarti e per crescere nella conoscenza dei tuoi doveri di cristiana. Sei stata infetta per tanti anni, ora sta' in quarantena». Finché io mi dicessi che dovevo ricordare i miei falli era bene. Li ricordo anche ora, sempre, e per sempre più spronarmi a sentire riconoscenza verso Dio che fu meco tanto misericordioso, e per sentire sempre più il bisogno di cancellare il mio debito verso la Giustizia divina mediante una continua offerta di olocausti. Dove sbagliavo era nell'attendere ad entrare, trattenuta da un resto di vergogna non santa. Giudicavo Dio secondo una vista umana e mi comportavo con Lui come mi sarei comportata con un mio simile che avessi offeso. Non avevo ancora una vista giusta. Il buon Gesù mi aveva già presa per mano come il cieco di Betsaida e mi aveva condotta fuori dalla folla... Mi aveva successivamente messo la saliva sugli occhi e imposte le mani... ed io cominciavo a vedere, ma per un ultimo inganno del Maligno vedevo paurosamente ingrandito tutto il mio passato e, come al cieco del Vangelo gli uomini parevano grossi alberi, altrettanto a me le mie colpe, che innegabilmente erano colpe, apparivano talmente mostruose da farmi temere di entrare nel seguito di Cristo, sotto il sigillo di un Terz'Ordine. Mancava ancora la seconda imposizione delle mani divine perché io potessi vedere chiaramente ogni cosa. Dissi perciò a me stessa: «Fa' conto d'essere una probanda. Studiati se sei atta a seguire il Maestro sotto una regola speciale o se ti devi accontentare di essere un semplice fedele». Nelle cose divine o umane ho sempre considerato attentamente se le potevo portare fino in fondo. Non partivo e non parto mai di galoppo, come fanno tanti sotto la speronata di un subito entusiasmo, che, anche se dato da una santa ispirazione, non dura se non è corroborato da tante altre cose. Ho sempre preferito all'impennata e al galoppo, che presto si esauriscono, il trotto costante che porta lontano. Alla corsa rapidissima di un campione olimpionico ho sempre preferito il passo misurato dei nostri montanari, per esempio, che sembra vadano tanto lentamente ma coprono metodicamente distanze che nessun campione potrebbe coprire, e superano tutti gli ostacoli con una calma direi quasi solenne. Ci vuole metodo e ordine in tutte le cose e ci vuole riflessione: per assomigliare di più a Dio che, pur nella sua smisurata potenza, fu metodico e ordinato nel creare e che non infrange il suo ordine che difficilmente, o per punirci scatenando le forze cosmiche, o per persuaderci della sua esistenza operando il miracolo. E ci vuole riflessione prima


di intraprendere un'opera, per non avere poi da far ridere la gente con la nostra presunzione che si affloscia come una vescica bucata alla prima contrarietà che incontra. Ho perciò imposto a me stessa un periodo di attesa. E intanto ho cercato di bonificare il suolo dell'anima mia per prepararlo alla divina semente. Via i sassi, ossia via quel sentimento di risentimento verso coloro che più mi avevano nuociuto. Dio non può regnare dove regna anche un minuscolo odio, perché carità e odio non possono albergare sotto lo stesso tetto. Perciò prima di tutto ho levato dal cuore questo, perdonando ai due colpevoli: mia madre colpevole di menzogna e d'egoismo, Mario colpevole di irriflessione e tradimento. Poi gli uccelli dell'aria, ossia i pensieri diversi che fanno sfarfallare la nostra mente qua e là, sparpagliando il seme fuori dal solco, quando non lo distruggono addirittura ingoiando le ispirazioni divine nel loro ventriglio avido di basso nutrimento umano. Poi eliminai i passanti che potevano calpestare il mio seme, ossia le affezioni che non fossero contenute nel mezzo della via e non sulle zolle seminate, amando tutti con un intenso affetto spirituale, per la loro anima e senza attaccamento umano rivolto a ciò che è caduco e fomentato da simpatie umane. Quarte a levarsi furono le spine, ossia le preoccupazioni umane di quello che ancora avrebbe potuto accadermi, del futuro che si presentava così triste, ecc. ecc. Non le dico che fu lavoro breve... Ma anche a bonificare una terra ci vogliono anni ed anni. Però dopo essa rende il cento per uno perché, ricca di umori vergini e monda di tutte le imperfezioni, dà messi opime. Quando la mia anima, mondata dal mio assiduo lavoro di tutti i sassi, le spine, le acque stagnanti, resa irrigua dall'amore ma non soggetta a straripamenti di passioni, fertilizzata dal dolore e dalla carità, arata dal vomere della contrizione, resa soffice dalla confidenza, fu pronta, il divino Seminatore venne e tutto fiorì in Cristo. Fioritura che non è più cessata ma anzi è andata sempre più intensificando il suo fiorire aumentandosi di sempre nuovi steli, perché dalle prime semine delle virtù comandate siamo passati a quelle dei consigli evangelici e da queste alle sante audacie dell'amore, alla sete di sofferenza, alla richiesta di olocausto. Dico «siamo» perché nei divini sponsali col Cristo la mia anima non fu più sola a chiedere, non fu più solo Cristo a seminare, ma fummo due: due volontà, due amori, due cuori che vollero sempre nuovi fiori, che lavorarono intorno a sempre più elette fioriture, e se uno dei due sostava un attimo l'altro lo sollecitava a proseguire... Ho detto che si giunse fino a seminare la richiesta d'olocausto come supremo fiore. No. Dopo questo fiorì anche il fior dei fiori nel mio cuore. Il fiore il cui seme, per crescere e sbocciare eterno, ha bisogno d'esser fertilizzato col sacrificio completo. È nato Cristo in me. Dalla lontana - come lontana nel tempo - annunciazione del Cristo al mio cuore, dopo l'oscuro periodo del travaglio carico di tutto il peso dell'umanità, il Cristo era nato nuovamente e copriva col suo rigoglio la zolla natìa, la mia povera anima che non è nulla ma che solo ha ragione di esistere per essere piedestallo al suo Signore. Maria è scomparsa. Vive Lui Solo. Maria muore. Egli aspira da lei la vita per fiorire in lei sempre più bello. Maria fra poco non sarà più che un ricordo fra gli uomini. Ma Egli porterà l'anima mia nel suo bel giardino celeste ed io continuerò in eterno a fiorire sotto i raggi divini della Trinità santa, accarezzata dalla mano di Maria...


Ritorno a Firenze Goethe in una sua tragedia ha questa frase: «Operoso il dover sia dove l'amore è inerte». Era per me venuto il tempo che agissi secondo quel consiglio goethiano. Mamma, quando fu persuasa che Mario era debellato per sempre - lo sa Iddio con che armi! cominciò a richiamarmi con insistenza a casa. Capirà che facevo comodo! Lavoravo come la più attiva delle domestiche e, fuorché il vitto, non costavo nulla. Fuorché il vitto perché ero sempre stata indifferente alle mode e alle civetterie di ogni specie, che costano non poco alle mie sorelle di sesso, ed ora poi, disgustata come ero di tutto, ero divenuta indifferentissima. Portavo quello che mi davano da portare e purché fosse pulito ogni abito mi andava sempre a genio. Mode antiquate di anni, stoffe di pochi soldi (allora esistevano ancora) tutto mi andava bene. Perciò, riguardo a spese, ero un ideale. Papà non si convinceva a trasportare il domicilio a Reggio Calabria. Tornai quindi io a Firenze. Direi una grande bugia se le dicessi che vi andavo volentieri. Uscivo da un'oasi di pace per tornare fra la guerriglia, se pur non tornavo fra la guerra. E lo sapevo. A Reggio avevo avuto dei dispiaceri, anzi il dispiacere dei dispiaceri. Ma ero talmente circondata da amore che questo mi aiutò a sopportare il nuovo fulmine. Nulla stanca di più, nulla più demoralizza, nulla più consuma quanto le piccole quotidiane punture che dobbiamo sopportare quando si vive presso certi caratteri. Queste punture non sono ferite vere e proprie, ma spossano più di una vera, profonda ferita. Sono come il morso di sciami di zanzare che, sempre rinnovellandosi, si abbattono sulle nostre carni e pizzicano, e mordono, e succhiano, e irritano e inoculano stille infinitesimali di veleno, incapaci di uccidere se prese separatamente, ma capaci di iniettare germi di febbre la quale può uccidere. Quei morsi non strappano visibilmente le carni ma le rendono una maschera tumefatta e irritata, esasperano, levano la gioia del sonno, disturbano la siesta, ostacolano la lettura. Un flagello, piccolo nei suoi strumenti, ma grande nei suoi effetti. Io andavo incontro a questo flagello lasciando la pace in cui ero vissuta, lasciando la comprensione che mi aveva capita, lasciando l'affetto che mi aveva medicata. Nonostante quel che avevo sofferto per l'abbandono di Mario, ero tornata florida. Dall'agosto ero rifiorita. Sotto la scossa benefica della gioia la mia giovinezza si era ritemprata ed era avvenuta come una resurrezione fisica. Tanto può la felicità e l'amore in un essere prima di allora derelitto di amore e di felicità. Sopraggiunta la nuova pena, sia perché ormai Dio aveva raccolto la povera anima mia alla quale stava per essere assestato l'ultimo colpo di dolore, sia perché ormai si erano rimesse in moto tutte quelle armoniche leggi fisiche che costituiscono la quotidiana difesa dell'organismo umano e che prima languivano in un abbattimento soporoso, sia quel che si sia, io avevo superato fisicamente bene la prova dolorosissima. I miei cugini, affezionatissimi e orgogliosi di quel mio benessere che, con piena ragione, attribuivano alle mille premure che essi avevano avuto per me, non volevano lasciarmi partire. Ma non potevo certo continuare a stare lontano da casa mia. Mi pungeva il desiderio di tornare presso i miei prima di tutto per papà di cui immaginavo, senza troppo dover faticare, la vita grama, e poi anche perché, nonostante tutto, io a mamma ho voluto e voglio sempre bene. Un bene che sa di


non poter trovare il contraccambio ma che non per questo diviene meno bene. So benissimo che mia mamma, affetta come è da una paranoia di persecuzione, è convinta che io non l'abbia amata. Ma so anche doppiamente benissimo quanto l'ho amata di un amore che neppure le sue durezze hanno stancato o diminuito. Un giorno, quando anche mamma sarà salita nella luce di Dio, cosa che a costo del mio olocausto ho chiesto e chiedo per lei - e credo che ciò sia un amore molto più fattivo di quello basato su smorfie e bacetti - un giorno, quando da quella luce mamma capirà la verità delle cose, allora, finalmente, comprenderà di quale amore la amasse la sua incompresa figlia... Bene, non importa se il mio affetto di figlia è misconosciuto. Così sono priva del godimento che da esso mi potrebbe venire e il mio affetto ha doppio merito. Tornai dunque a Firenze. Era il 2 agosto 1922. La Madonna degli Angeli, la Madonna del Perdono d'Assisi, mi fu patrona in questo mio ritorno che era un grande perdono. E gli angeli mi devono aver aiutata a superare il primo incontro con colei che mi aveva levato tutto... Penso che il più assiduo fra di essi fosse l'angelo che nel Cenacolo confortò la Madre di Cristo mentre Egli veniva tradito col bacio, rinnegato da Pietro, offeso dai beneficati, torturato, deriso... L'angelo della Desolata fra le desolate, l'angelo del Getsemani e del Calvario, l'angelo che fece spola fra la Madre e il Figlio, l'angelo che raccolse le stille del sangue divino e le lacrime della Mamma di Gesù mi cantava l'inno del perdono per coloro che ci hanno crocifissi, accennandomi alla corona spinosa, ai chiodi torturanti, ai flagelli, alla croce, alla lancia e alla spugna che dovevano, come lo furono del Salvatore, dell'Agnello, essere le armi di sacrificio e di gloria della povera Maria. Trovai papà molto sciupato di salute: magro, terreo, lui che era sempre così bianco e rosso. Anche mamma era molto sciupata nonostante avesse sempre avuto l'aiuto della donna che, naturalmente, scomparve con la mia venuta. Mia cugina Clotilde e Memmo, che mi avevano accompagnata a Firenze, fecero un ultimo tentativo per persuadere papà a partire in capo a un mese con loro per la Calabria. Ma papà, con la cocciutaggine che certe malattie lasciano, rifiutò assolutamente. I cugini partirono dunque... ed io restai. Il caldo soffocante di Firenze, veramente insopportabile per me abituata all'aria leggera e ventilata dello Stretto di Messina, l'angustia dell'appartamento infuocato, penosa per me abituata alla grande aria del vasto albergo, i ricordi che si affollavano tutti a pungermi l'anima e le... chiamiamole pur benigne domande dei fornitori, dei vicini, ecc. ecc., i quali, più o meno apertamente, mi chiedevano che avessi fatto (legga: fatto del figlio) - taluni me lo chiesero apertamente - mi dettero subito non poco a soffrire. E il cuore ricominciò a ballare la sua indiavolata tarantella che si era assopita da qualche mese. Smagrii subito. Ma pazienza, questo. I primi giorni, finché ci fu pericolo che Clotilde tornasse, anche mamma fu dolce. Poi, a pericolo superato, tirò fuori le unghiette piuttosto... artigliate. Volle fare domande e insinuazioni. Ma le imposi silenzio con tale energia - la mia unica energia -che non osò più toccare l'argomento per anni e anni. Deve aver creduto che io sapevo con esattezza quello che aveva fatto lei. Se no non avrebbe ceduto con tanta sveltezza. Secondo atto di forza. Sempre fissa nell'idea che fare l'istitutrice o l'insegnante sia la quintessenza del bello, volle fare di me una istitutrice, e mi mandò alla Berlitz, la scuola di lingue. Vi andai perché lo studio mi è


sempre piaciuto e rinfrescare le mie lezioni di francese mi piaceva. Ma: corse ai mercati, pulizie di casa, studio e corse alla scuola, spaventi per le sommosse popolari che allora infierivano, tuffi al cuore per incontri col colonnello ecc. ecc., mi fecero talmente male che dovetti sospendere. Addio sogno materno di fare di me una istitutrice! Allora altro capriccio. Mi mandò alla scuola di taglio e modisteria, sperando di fare di me una insegnante di taglio o una sarta. Vi andai pensando che mi poteva essere utile per tagliarmi quelle «tonache» che portavo... Erano vere tonache senza grazia. Ma non ci tenevo ad essere graziosa. Ecco: io vorrei sapere lo scopo vero di mamma nel voler persuadere la gente che io avevo tanto bisogno di guadagnarmi il pane che dovevo divenire o istitutrice o sarta. Non l'ho mai saputo di preciso. Ma uno scopo recondito c'è stato. Necessità non ne avevo. Lei può capire che se dopo un decennio di malattia non sono ancora come Giobbe è segno che le nostre finanze non erano poi troppo meschine. Ora stiamo finendo tutto, è vero, ma sono dieci anni che ci si pascola dentro. Prima la nostra rendita era più che sufficiente a trattarci molto bene e anche ne sopravanzava. Ma mamma voleva persuadere qualcuno che io ero una povera ragazza senza mezzi. Chi era questo qualcuno? Ho sempre pensato che fossero Mario e i parenti suoi. Chissà cosa aveva detto in quella sciagurata lettera!... Ora doveva convalidare il suo dire. Penso che abbia detto che io dovevo mantenere loro nella vecchiaia... Ne penso tante! Penso che abbia detto che mi ero fidanzata con un altro ricco sfondato... Penso che abbia detto che io avevo perduto la testa e l'onestà... Penso che abbia detto che avevo una malattia vergognosa... Ne penso tante, tante, tante! Conosco mia madre e so. che pur di spuntare il suo capriccio è capace di inventare qualsiasi cosa. Non importa se il buon nome di un altro va per aria, non importa se la gente critica e arzigogola su tutta la famiglia. Nulla importa. Basta che vinca lei. Insomma frequentai il corso di taglio e modisteria, detti gli esami e, nonostante odii il taglio come tutti quelli che non sono ambiziosi, ebbi ottimi voti. Ma poi mi fermai lì perché la salute sempre più si alterava. Né poteva essere diversamente. Mi accadeva talvolta di incontrare il papà di Mario, e vedere che mi aveva levato il saluto mi trafiggeva il cuore... Ogni volta che ciò accadeva io stavo poi male per più giorni. E poi c'era papà che, dimentico della parte che mia mamma, tenendolo sotto la sua suggestione, gli aveva fatto fare, ossia la parte di essere lui che non voleva le mie nozze con Mario, mi chiedeva quasi ogni giorno: «Ma tu perché poi non ti sei sposata con Mario?»... Una delizia, creda... La sera dell'ultimo dell'anno 1923 ero uscita per comperare del pungitopo e dell'agrifoglio. Era una sera nebbiosa e fredda. Io m'ero imbacuccata in uno scialle: parevo una turca. Avevo con me il mio canino. Andai in piazza Cavour, ora Ciano. Mentre comperavo i rami dalle rosse palline sentii come un tocco: quasi uno m'avesse toccata sulla spalla. Mi volsi... e vidi Mario che si avvicinava traversando la piazza. Era in divisa, avvolto nel mantello. Rimasi affascinata. Devo aver fatto un gran brutto viso, perché il venditore di agrifoglio mi offrì il suo sgabellotto perché sedessi. Ma io rimasi ritta, stringendo convulsamente la sponda del carrettino. Non sentivo più neppure le punture dei rami spinosi… Mario sul primo non mi doveva aver riconosciuta, così avvolta come ero nello scialle. Forse si accorse che ero io dal mio canino che egli conosceva tanto bene. Non poteva impallidire più di quanto lo era già,


ma curvò il capo come un colpevole e passò barcollando... Che rovina, Padre, che rovina!... Cosa ne avevano fatto del mio Mario così robusto, forte, sano, giovane, onesto, quelle due donne? Cosa, cosa ne aveva fatto mia madre portandolo al disgusto, alla disistima di me, alla disperazione, spingendolo, in un ora di accasciamento, fra le braccia di un vampiro? E cosa ne aveva fatto, questo vampiro in veste di donna, di quella bella giovinezza? Una rovina... Curvo, magro, terreo, lo sguardo spento, le linee del volto precocemente invecchiate, il passo incerto... Un rudere d'uomo, un rudere d'uomo il mio Mario di non ancora 27 anni! Un malato, un finito, lui dianzi così pieno di salute e di speranze! Vede, stamane le ho detto: «Mi accorgo che sono molto mutata perché non sento sconvolgersi tutto in me, come prima, se tocco certi argomenti». Ma ora, mentre scrivo di quell'incontro e rivedo il mio Mario invecchiato, avvilito, sciupato, passarmi vicino a testa bassa come un colpevole, sento che mi si strappano dentro le fibre più vive... Mi sono più volte rimproverata di non aver trovato la forza di chiamarlo e chiedergli il perché del suo modo di agire. Avrei avuto la chiave del mistero che mi assilla... Ma ero rimasta paralizzata. Orgoglio di donna offesa, amore che mi si affollava tumultuando nel cuore, pietà, infinita pietà davanti alla sua rovina, tutto ha contribuito a quella paralisi... Ed era tanto bene che io lo interrogassi per levarmi dal cuore il mordente del suo modo di agire che, a vista umana, ha tutta forma di un tradimento. Ma sento che non lo è. Mario fu portato ad agire come agi da un complesso di cose che diminuiscono la sua colpa da tradimento a debolezza. Egli era allora nel fiore della giovinezza e, come egli mi aveva assicurato, per ottenermi da Dio aveva respinto tutte le lusinghe di facili amori. La posta della sua castità ero io. Io, devo convenirne, ero più anima che donna. Lo amavo con tutta me stessa ma senza quegli ardori e quegli abbandoni che avvincono l'uomo. Aggiunga l'opera materna che ha forse convalidato qualche mia imperfezione inventata e che la mia riservatezza eccessiva poteva far pensare esistesse. Metta per ultimo lo sdegno, il disappunto di perdermi dopo tanta attesa e l'incontro fortuito, proprio in quell'ora di sconvolgimento, con quella russa d'inferno, e veda se per forza egli non si trovò preso in un vortice nel quale dovette soccombere. Io non lo scuso, ma lo compatisco. Tornai a casa a fatica. Non dissi nulla. Non dicevo mai più nulla da anni. La porta della confidenza in mia madre era chiusa e ribadita da tempo. Ma ora avevo Dio per conforto. Non mi ero arrestata al punto dove ero a Reggio. Avevo sempre camminato verso Iddio. Arrivando a casa avevo messo ben chiaro il mio intendimento di andare in chiesa anche tutte le mattine, e vi andavo infatti quasi tutte le mattine e specie in maggio, giugno, settembre, ottobre, dicembre, in carnevale e in quaresima. Mamma friggeva ma... la lasciavo friggere. Poi avevo trovato un Vangelo di S. Luca. Lo aveva portato papà a casa. Vi doveva essere stata, durante la quaresima 1922, qualche giornata dedicata alla diffusione dei santi Vangeli. Era un libretto umile nella veste e girava da un mobile all'altro. Io del Vangelo sapevo solo quei brani che si spiegavano nelle messe domenicali. Sempre quelli, spiegati di sovente senza mettervi tutta l'anima e ascoltati ancor più di sovente con meno anima che mai. E poi io ero... un elefante solitario. Dovevo e devo ruminare un concetto da me per sentirlo realmente. Presi dunque quel povero libretto, che da mesi mamma faceva ballare da un


mobile all'altro e che papà rileggeva di tanto in tanto, e me lo portai in stanza e cominciai a leggerlo. Fu «la lucerna posta sul candeliere perché illuminasse». Più lo leggevo e più sentivo farsi in me un nuovo cuore. Ho molto pianto su quel libretto... Lacrime soavi che mi rendevano l'anima fresca come ai giorni della mia infanzia innamorata del Cristo deposto dalla Croce. Che speranza, che abbandono, che ansia di amare come si deve amare il divino Evangelizzatore! Non ho mai più saputo separarmi dal Vangelo. Esso è il pane quotidiano del mio spirito. Non ho neppur più bisogno di leggerlo perché lo so a memoria, ma pure me lo rileggo perché ci trovo sempre un nuovo incanto. Quando mi sento tanto male, quando ho molta paura di qualche cosa, mi metto il volumetto dei 4 Vangeli, comperato agli inizi del 1925, sul cuore e non ho più paura di nulla. Mi sembra che Gesù, da quelle pagine, mi dica: «Non temere», e alle cose: «Non fate del male a questa donna». Io non so meditare sui libroni o sui librini di ascetica. Finisce che li leggo come un bel libro e basta. Ma il Vangelo! Se ho un dubbio, una malinconia, prego lo Spirito Santo, di cui sono devotissima, e poi apro a caso il Vangelo. Trovo sempre la parola che mi conforta, o mi illumina, o mi risponde al perché che mi assilla. Il piccolo librino col Vangelo di S. Luca mi ha scaldato il cuore piano piano come una fiamma di un confortevole focolare. Il suo calore si è sparso per tutte le vene, per tutte le fibre, ha pervaso tutto, ha fatto sempre più crescere in me il Cristo. Dice Ruysbroeck - uno dei pochi che io capisco insieme a S. Paolo, a S. Caterina da Siena, a S. Francesco d'Assisi fra gli antichi, e a S. Teresa del Bambino Gesù e Suor Benigna fra i contemporanei - dice Ruysbroeck: «Quando Dio viene in voi, gli è che già voi eravate in Lui, perché Egli non esce mai di Sé stesso... La nostra attitudine a ricevere la sua grazia dipende dall'intensità interiore con la quale noi ci muoviamo verso Lui. Al momento stesso del nostro muovere, il Cristo viene a noi con o senza intermediari, cioè coi suoi doni o al di sopra di essi. Anche noi ci precipitiamo in Lui o verso di Lui con o senza intermediari, cioè colle nostre forze o al disopra di esse. Ora Egli portandoci i suoi doni e concedendosi ci imprime la sua somiglianza, ci assolve e ci libera. Al momento della liberazione lo spirito si tuffa nel godimento dell'amore». Capisco molto bene queste parole. Io in quel tempo ero proprio a questo punto. Dio veniva a me, ossia la mia anima avvertiva che Egli veniva in me, ma ciò era perché io ero penetrata piano piano in Lui, attirata dalla dolcissima calamita del suo amore. Prima aveva fatto il vuoto intorno al mio cuore e poi mi aveva attirata, mi aveva affascinata, né più né meno di come fa uno che voglia attirare il nostro affetto, con in più la perfezione sua divina che supera in maniera non concepibile tutte le seduzioni umane. Poi aveva atteso che io rispondessi al suo invito. Avendogli detto, con sincerità di cuore e con fermezza di intenzione: «Voglio esser tua», Egli si era mosso verso di me ed io verso di Lui. Non gli chiedevo più nulla fuorché di regnare in me, non lo pregavo più di darmi questo o quello ma solo dicevo: «Signore, fa' Tu quello che ti par giusto di fare. Io non vedo mai giusto. Fa' Tu. Mi fido di Te!». E Gesù era entrato da Amico, Maestro e Re, portandomi tutte le sue grazie soprannaturali mentre io mi precipitavo in Lui con tutte le mie forze, con molto più delle mie forze, ancora deboli, pensando che dove non arrivavo io avrebbe provveduto ad arrivare Lui. Ma anche se Gesù fosse venuto a me spoglio di tutti i suoi doni, ormai


l'avrei amato lo stesso: avrei amato Lui per Lui solo come lo amo infatti da anni. Egli nella sua bontà infinita mi ha voluta beneficare agli inizi della mia unione con Lui di tutte le tenerezze di un amore sensibile. Posso dire con S. Margherita Maria: «Il mio divino Maestro mi fece allora comprendere che quello era il tempo del nostro fidanzamento e che, allo stesso modo degli innamorati più appassionati, Egli mi farebbe gustare in quel tempo quanto c'era di più dolce nelle carezze del suo amore». Dolci parole sussurrate dalla sua voce senza suono materiale ma così percepibile dalle potenze dello spirito, carezze misteriose sul cuore proteso come un fiore al suo Sole e sogni, sogni, sogni... Da quel sogno del giugno 1916 io non l'avevo più sognato. Ora tornava a me con una frequenza che mi faceva desiderare il sonno come una mia seconda vita meravigliosa. Ho seguito Gesù per le contrade di Galilea, l'ho sentito predicare alle turbe, sono passata al suo fianco fra i campi di messi e sono stata ai suoi piedi, col capo nel suo grembo, mentre Egli parlava seduto sulla sommità d'una scala, l'ho visto languire e morire nell'Orto degli Ulivi e sul Golgota, e... ho ricevuto la Comunione dalle sue mani nel bel Paradiso. Sempre con quel Volto, quello Sguardo, quella Voce, quelle Mani e quella infinita amorosa dolcezza e quella sublime maestà. Quante dolci visioni... Il fuoco della sua Carità mi penetrava sempre più addentro e mi incendiava. Ardevo di amarlo infinitamente e di farlo amare. Avrei voluto dire a tutti: «Amate, amate Dio se volete essere felici! Amate e lasciate che Egli vi ami come lo desidera! Non opponete ostacoli al suo entrare!». Liberata e assolta dal suo amore, io, come dice Ruysbroeck, mi tuffavo nel godimento dell'amore. Di questo amore celeste la cui soavità, la cui dolcezza, la cui pienezza è tale che nulla può portarne il paragone. Spezzati tutti i legami che mi avevano tenuta avvinta alle creature, l'anima mi si slanciava libera e gioiosa nel regno del soprannaturale e sempre più vi penetravo. E non vi sono più uscita. PARTE QUARTA Santa Teresa di Avila ha scritto nel suo "Cammino di Perfezione": «Quale differenza deve trovare fra l'amore umano e l'amore divino colui che ha provato l'uno e l'altro!». É vero. L'alba di una nebbiosa giornata invernale paragonata all'alba tersa e pura di una radiosa mattinata estiva, il piccolo stagno dalle sponde limitate rispetto all'aperto mare che ha per confine l'orizzonte sconfinato, il focherello di pochi sterpi rispetto alla fornace di un forno fusorio, il tremolante guizzo di una povera lucerna rispetto al folgorante sole, sono meno distanti fra loro in somiglianza se si confronta la differenza che c'è fra l'amore umano, anche il più vertiginoso, coll'amore divino. Io avevo amato due volte. Una con l'ardore dei miei anni giovanili, e in questo avevo conosciuto anche le febbri della carne; l'altra avevo amato più con l'anima che con la carne e, appunto perché amore della parte più eletta, aveva dato a me estasi e elevazioni ben più nobili e durature del primo. L'amore puramente umano è destinato a breve vita, anche se fu ardentissimo nella suaora fugace, mentre l'amore misto di anima e corpo, di attrazione di spiriti e di materia, l'amore-amicizia, è più tenace e neppure il disinganno lo uccide. In questo aveva avuto molto ragione il colonnello a profetizzarmi che avrei amato Mario come neppur lontanamente avevo amato Roberto. Ma ora, ora che amavo Gesù in una


maniera più intensa di quella che non sia la comune alla grande massa dei credenti in Lui, ora capivo tutta la differenza di questo amore sovrannaturale dal mio, dai miei, anzi, amori umani. Io ormai vivevo tutta proiettata in questo amore. Le cose di fuori esistevano ancora e mi davano pensieri, gioie e pene. Soprattutto pene. Ma ormai queste cose io le vedevo già da altre plaghe, come attraverso un vetro, una lente che me le cambiava alquanto, rendendomi sopportabili i pensieri crucciosi, non indispensabili le gioie e amabili le pene. Vedevo ormai tutto attraverso a Dio. Egli era la lente che mi faceva vedere le cose sotto una luce diversa da quella che avrebbero avuto per me e per tutti, se questi tutti e se io le avessimo guardate con occhio e giudizio umani. Credevo ormai che tutto avvenisse per una legge di amore, amore geloso magari e prepotente, ma che colla sua gelosia e prepotenza mi confessava di essere un grande amore. Oh, sì! Gesù sa essere geloso e prepotente! Di una divina gelosia e di una divina prepotenza ma alla quale, se si è detto di sì una volta, con piena coscienza, non si sfugge più. Gesù mi aveva chiesto quel sì in Collegio e ora, dopo avermi persuasa che sulla terra tutto è tristezza, faceva valere i suoi diritti. Quanto dico potrebbe parere una contraddizione con quanto ho detto in principio di questa mia storia. Ma non lo è. Ho detto allora che Dio non si impone ma per agire vuole che l'anima sia disposta ad essere mossa. Solo allora la valanga si forma. E così e non vi è contraddizione alcuna. Nella adolescenza avevo detto: «Signore, io sono a tua disposizione». E la prima falda di neve si era formata ingrandendosi poi piano piano con i continui atti di desiderio che l'anima formava allora. Poi vi era stata una sosta. Qualcosa aveva trattenuto il formarsi e il precipitare più forte della valanga. Ed era stato il mio periodo umano, il periodo delle distrazioni, meglio delle deviazioni. E Gesù aveva atteso. Solo nel momento più tremendo di esse, per salvarmi dalla rovina, aveva fatto un gesto per richiamarmi. Era venuto col sogno a dirmi il suo dolce rimprovero, a farmi riflettere, a farmi fermare nella mia corsa verso il male. E poi aveva di nuovo atteso. Paziente, buono, mi aveva dato tutto il tempo di guarire moralmente e intanto, pur non parendo, lavorava a isolarmi. Oh! in questo fu molto attivo! Mi voleva... e mi levò tutto perché non mi restasse altro che Lui. Quando poi io ho gridato: «Voglio esser tua», allora Egli si èimpossessato di me in maniera assoluta, ed io non ebbi più un palpito, un respiro, uno sguardo, una parola, un pensiero che non passasse attraverso il filtro divino del suo amore, come nulla dal di fuori veniva in me se non passando attraverso il medesimo filtro divino. Così dura da vent'anni ormai e l'immedesimazione è andata facendosi sempre più stretta e il filtro sempre più perfetto, di modo che il male che può venirmi dagli altri si attutisce contro quel divino riparo e il bene che io posso fare si espande sul prossimo sempre più puro, perché l'amore lo monda da tutte le imperfezioni umane. Soffro ancora molto perché è mio destino che io soffra, ma il dolore che mi viene dagli uomini è attutito dalla gioia che mi viene dal Cristo. Per cui mi dico, e sono persuasa di questo che dico, che sono giunta a capire che gli unici veri dolori di un cuore sono quelli che vengono da Dio per nostra prova o per nostra punizione. I dolori che vengono dagli uomini ci fanno piangere, è naturale. Ha pianto anche Gesù. Ma anche noi come Lui nel pianto sentiamo fondersi una dolcezza pensando che anche quel dolore che ci viene dal prossimo serve a redimere, ad espiare,


ad ottenere per il prossimo. Quando invece Dio ci colpisce ritirandoci la sua invisibile presenza e lasciandoci apparentemente soli, allora si soffre molto, come non si può descrivere. Credo sia una figura ridotta di quello che devono soffrire i purganti nel Purgatorio, e non voglio neppure pensare ai dannati dell'Inferno. O mio dolore che mi vieni da Dio e che hai mille volti, che tu sia benedetto! Benedetto tu quale sei ora: dolore di malattia, dolore di povertà che avanza, dolore di incomprensione dei miei simili intorno al mio letto d'inferma, dolore dato da infinite cose attuali! E benedetto tu, quale fosti negli anni passati: dolore di esser derisa come malata immàginana, dolore di non vedere mio padre nell'ora estrema, dolore di non essere capita nel mio fuoco d'apostolato, dolore di disamore materno sempre, sempre, sempre uguale! E benedetto tu, dolore, per quando, non comprendendoti nella tua veste regale, non t'amai: dolore dei miei vent'anni e del mio amore spezzato! Benedetto, benedetto, o Dolore, che mi hai levata al mondo e mi hai data a Dio! Benedetto per la scienza che da te m e venuta! Benedetto per la carità che mi hai infusa! Benedetto per l'ala che hai resa al mio io onde ho potuto raccogliermi in cielo con tutti i miei desideri più santi! Benedetto, o Dolore, che mi hai unita a Gesù sulla medesima croce e in un' unica missione, che da venti secoli si perpetua, per portare le anime al Regno di Dio e il Regno di Dio nelle anime! Mai finirò di benedirti, o Dolore, o mia gioia, perché in te ho trovato la pace! Fu nella primavera del 1923 che io scrissi la mia prima offerta a Dio. Quella preghiera, che ho ripetuta per otto anni, deve essere ancora in qualche mio libro di devozione. In essa mi umiliavo al cospetto di Dio per le mancanze passate e gli chiedevo di essere perdonata in nome della sua divina misericordia. Ma siccome cominciavo a vedere sempre più chiaro la volontà di Dio quale era a mio riguardo, sentivo anche che chiedere perdono non bastava come non bastava l'amarlo. Il mio amore doveva essere un amore penitente... come quello della Maddalena la cui vita mi aveva così colpita durante quella predica degli Esercizi 1912. Tutto si ritrova di quanto si è chiesto a Dio, ho detto sul principio di questa storia, ma tutto si ritrova anche di quello che Dio ha seminato, purché l'anima si curvi su sé stessa cercando il seme divino. Io ricordavo ora che in quel lontano giorno del novembre 1912 Gesù mi aveva detto: «Tu non sarai simile ad Agnese, la pura, l'innocente che non vide altro che Me. Tu sarai una che viene a Me per altre vie, dopo tante esperienze, e che mi ama attraverso il pentimento e il sacrificio continuo, lungo, nascosto». Perciò in quella mia prima offerta dicevo a Gesù di concedermi «la grazia di aver tempo di espiare il male commesso e, per riparare a tutte le mie ore di disperazione, di farmi vivere nel dolore tanti anni quanti ne avevo passati nell'errore e nella impazienza non santa di uscire dalla vita». Come vede, pregavo ancora egoisticamente. Per l'anima mia, è vero, per riparazione verso di Lui, è vero. Ma non è ancora preghiera perfetta. Più tardi ho pregato meglio... Ero in principio, allora, e quando si è... alle aste non si può pretendere di scrivere già una lettera. Le pare? Chiedevo anche in quell'offerta che Dio mi concedesse la gioia di portargli delle anime e specialmente quelle dei miei genitori e di Mario. Ma anche qui, se la richiesta era buona in sé, io sbagliavo nel mezzo. Non sapevo ancora che la preghiera è molto ma il sacrificio è tutto. La parola fa, ma il silenzio che copre un'immolazione fa mille volte tanto. Io allora,


nel mio zelo di convertita, parlavo molto. Ma ero ancora contraria al soffrire molto. Mi pareva di fare già tanto a non lamentarmi del dolore che mi colpiva, subendolo con rassegnazione e ringraziandone Iddio. Più tardi andai molto più avanti... Eppure, come è buono Gesù! Alla sua Maria che aveva uno zelo ancora molto zoppicante, ancora molto intriso di umanità, Dio concesse la sua prima conquista. Fu una vecchietta di 72 anni. Per un complesso di cose penose si era staccata da un trent'anni da Dio, facendo colpa a Lui di tutte le sventure che le erano accadute. Era nelle mie medesime condizioni di un tempo, ma con la differenza a suo danno di esservi da tanto tempo e di non uscirne neppure quando l'età faceva presumere prossima la morte. Io non potevo vantarmi di essere stata più brava di lei. La bontà di Dio aveva accelerato con mille maniere la mia resurrezione, ma appunto per questo volli essere io un agente di bene per la mia vecchia amica, direi quasi il filo conduttore. Mi spiaceva che quella vecchina rimanesse con quel rancore, con quell'amaro tremendo della non fede fino alla fine. Alla sua vecchiezza volli dare il conforto di una giovinezza del cuore. Una seconda giovinezza ma più dolce e utile della prima. Vi riuscii. La mia cara vecchina si riaccostò a Dio ed è con Lui tuttora, poiché vive ancora, nonostante i suoi 92 anni... Ne fui orgogliosa di un santo orgoglio. Già due anime avevo portato a Gesù: la mia e quella della vecchina. Veramente la mia... se non era Lui a prendersela, si stava freschi!... Ma insomma, dopo il suo primo soccorso, io andavo avanti con buona volontà. Dopo questa mia prima conquista andai sempre meglio. Il mio desiderio di essere uno strumento di Dio aumentava e mi si delineava alla mente tutto un programma di vita penitente, resa ancora più difficile dal tenore di vita familiare. Perché mamma non condivide certe idee. Se le paiono soverchie anche le frequenti visite alla chiesa e le comunioni, si immagini che effetto le fanno le teorie di mortificazione!... Io ho sempre l'impressione di avere un bavaglio sulle labbra... Cerco di parlare il meno possibile, o meglio cercavo di parlare il meno possibile di cose spirituali anche quando la forza dell'amore era tale da darmi una vera ansia di parlarne. Ora ne parlo senza ritegno pensando che qualcosa penetrerà in quel cuore così chiuso al soprannaturale. Ma ho l'impressione di parlare turco o indiano... ei non capisce, e buona grazia se sta zitta e se non mi applica un'etichetta di «pazza». Non importa. Io vado avanti lo stesso. Esser ritenuta pazza per amore di Cristo è cosa che mi colma di gioia. Tutti i veri innamorati di Gesù sono dei pazzi, dei divini pazzi: martiri, penitenti, claustrati, tutti coloro che rinunciano alla libertà, alla vita, alla riputazione umana, alla ricchezza, alla salute per amore di Dio, che altro non sono se non dei folli? Dei folli la cui follia è quella stessa che portò Gesù sulla croce, la «follia della Croce» di cui parla Paolo, l'Apostolo dalla parola ardente e dall'audace cuore. Non mi bastava più la prima offerta che sentivo incompleta e inquinata da vene ancor troppo umane. Lo sguardo di Gesù era sempre più vivo in me e mi attirava sempre più in alto. Passò così tutto il 1923 e buona parte del 1924. In famiglia i soliti fatti di intransigenza e di dispotismo. Ma mi rifugiavo in Dio... Nel settembre 1924 dovemmo venire a Viareggio. A Firenze il proprietario di casa esigeva l'appartamento con il bugiardo pretesto di allogarvi il figlio che si sposava e colla vera intenzione di affittarlo a nuovi inquilini decuplicandone l'affitto. Storia vecchia e sempre nuova. Mio papà allora si decise a scrivere ai parenti di


Calabria per vedere se ci trovavano là una casetta. Ma quello che sarebbe stato facile nel 1921 era ora difficile. La gente riaffluiva a Reggio che risorgeva dalle sue rovine con nuove case e belle vie, e casette vuote non ce n'erano mai. Anche all'albergo, dove prima ci avrebbero tenuti tanto volentieri, ormai si erano accomodati con altri parenti che li aiutavano nella sorveglianza del personale. Aggiunga anche un poco di risentimento per l'ostinatezza di papà, durata quattro anni, e comprenda che tutto si risolse in un: «Non potete venire». Allora venimmo a Viareggio... Qui avevamo conoscenze che ci facilitarono l'acquisto della nostra casetta. Io ero ben contenta di venire al mare che amo tanto e di lasciare Firenze, satura per me di ricordi amari... Il 21 settembre la casa fu comperata e il 23 ottobre ne prendemmo possesso. Si iniziava così un nuovo e diverso periodo di vita in cui sempre più crebbi in Dio. Ho incominciato questa quarta parte della mia storia con una frase del Piccolo Fiore. Infatti, offrirsi all'Amore come vittima è chiedere a Gesù di innalzarci sulla sua Croce e soffrire tutti i dolori che prima e dopo la crocifissione Egli subì. Gesù nel dialogo che avviene fra l'anima e Lui chiede: «Ma potrai bere al mio calice?». E l'anima risponde: «Si, lo potrò perché voglio essere come il mio Maestro, perché ho compreso che se il grano di frumento non muore non dà frutto, perché ho compreso che solo quando si è innalzati sulla croce si attirano le anime a Dio, perché ho soprattutto compreso la tua sete, la tua sete che nessuna bevanda ristora, ma solo il nostro amore». Offrirsi all'Amore vuol dunque dire offrirsi al Dolore. Ma è dolore il patire insieme a Cristo e il patire per il Cristo? No, esso è gioia, profondissima, inesausta gioia. Lo posso ben dire io che da tanti anni sono saturata di tutti i dolori! Le confesso, Padre, che mentre non ho troppo penato a vincere la riluttanza nel parlare del mio passato, ora che entro nella parte migliore devo fare uno sforzo sensibile. Temo di dire male quello che sento tanto bene. In secondo luogo vi sono pagine di luce nella vita delle anime che si vorrebbero lette solo da Dio che le ha scritte in loro. Va bene. Penserò che Lei è un ministro di Dio e che chi parla in nome di Dio è come fosse Dio. Perciò ubbidisco e vado avanti, mettendo sotto i piedi la mia tentazione di terminare qui la mia storia con una frase riassuntiva come questa: «Mi sono offerta a Dio e Dio mi ha accettata». Sono molto contenta di sapere che Lei è uno molto devoto della dolce santina di Lisieux. Così mi capirà meglio. Giunta a Viareggio, continuai la mia vita con la stessa regola di Firenze. In più qualche corsa al mare e in pineta alla mattina presto o sul mezzodì: nelle ore che mare e pineta hanno meno persone che li contemplano. Sono sempre stata una solitaria e la folla mi ha dato sempre noia. Il bello mi si sciupa se del chiacchiericcio vano è intorno a me. Perciò cerco, ossia cercavo di andare ad ammirare il bello del mare e della pineta quando erano senza frequentatori. Viareggio poi mi ha procurato un altro regalo: quello di uscire io tutti i giorni per la spesa quotidiana. A Firenze era mamma che usciva di solito. Qui ero io. E questo mi aiutava per fare delle visitine a Gesù Sacramentato senza attirare i fulmini materni. Nel dicembre 1924 sentii l'ispirazione vivissima di avere il volume completo dei 4 Vangeli e la Vita di Santa Teresa del Bambino Gesù. Devo riconoscere che dal momento che ero tornata a Dio ero sempre fedele alle ispirazioni che mi venivano. Una fedeltà pronta e ilare, anche se l'ispirazione mi spronava a cose difficili. Fra l'altro in quel tempo ero in


un abisso di gratitudine per il buon Dio per una grazia che mi aveva fatta. Grazia materiale, ma che gli avevo chiesta con tanta fiducia. Quando mamma era venuta a cercare la casa io avevo pregato intensamente che Gesù le facesse trovare una casetta piccina, come a noi tre conveniva, sana, senza difetti, e con molto spazio sulle due facciate. Ora la nostra casa ha sul dietro dei vasti giardini e sul davanti aveva, allora, la Villa Rigutti col suo parco vastissimo. Si vedevano le Apuane e tutti i paeselli sparsi sulle colline più vicine. Mi sarebbe piaciuto vedere anche il mare, ma tutto non si può avere e perciò chiedevo solo una casa con molto spazio intorno per la mia vita sempre molto chiusa in casa. Fuorché per le spese e per andare in chiesa e le corse fugaci al mare, io non uscivo mai. La Passeggiata non mi vedeva andare su e giù come un pendolo... Se Lei nota, anche ora la mia casa è l'unica che ha di fronte uno sfondo verde. Tutte le altre case, sorte sul terreno della ex-Rigutti, sono a livello di strada. Piccola cosa, vero? Ma sempre più mi persuadevo che Gesù mi voleva còsì bene da concedermi anche queste piccolezze per fare contenta la sua Maria. Figurarsi cosa non dava all'anima mia!... Attingendo al mio sempre magro borsellino (mamma mi dava sì e no 5 lire al mese e dovevano bastarmi per tutti i miei particolari bisogni di elemosine, di compere di libri e di musiche ecc. ecc.) mi rivolsi ad una mia amica, che è quasi una suora tanto è pia e che vive sempre fra sacerdoti e monache, e l'incaricai di comperarmi e spedirmi «La storia di un'anima» e i 4 Vangeli. Il 28 gennaio 1925 mi arrivò un grosso pacco coi libri richiesti e con un volume, aggiunto dalla mia cara ex-compagna di collegio, il quale era un libro di commenti evangelici ad uso delle giovani. Mi pare fosse di un sacerdote: Don Baudernom, se ricordo bene. Dico così perché quel libro piaceva tanto ad una creatura angelica - che divenne Mantellata e che morì dopo pochi anni di monacato - che glielo donai quando andò in noviziato. Lessi subito la «Storia di un'anima». Mi pareva di tornare in Collegio. Ma in Collegio le Suore si erano fermate, nella lettura, alla vita vera e propria e ai ricordi e consigli. Io, avendo l'opera completa, andai avanti. L'anima mi si liquefaceva di amore. Avevo trovato l'arpista capace di dare suono alle corde del mio spirito. Io le volevo far cantare a Dio ma non ci riuscivo ancora. . Teresina, con la sua piccola mano, mi prese la mia e me la condusse sulle corde insegnandomi il cantico dell'amore e della donazione. Quando lessi l'atto d'offerta all'Amore misericordioso piansi di gioia... Avevo trovato quello che cercavo. Se per entrare nel Terz'Ordine Francescano avevo imposto un periodo di prova a me stessa, ora non attesi un attimo. Erano due anni che cercavo una maestra di spirito che mi facesse da madrina nel mio rito di sacrificio a Dio. L'avevo trovata, finalmente! Decisi di fare una buonissima confessione, una fervorosa comunione, ancora migliori delle solite, e poi di pronunciare il mio atto d'offerta. Sono un impulsiva in certi casi. Lo sono quando, da tempo cercando una cosa, la trovo finalmente. Allora non rifletto oltre, perché ho già riflettuto prima. Non bisogna dimenticare che io mi ero prefissa di imitare la Maddalena. Così mi aveva ispirato Gesù. E Maria di Magdala quando incontrò Gesù non stette tanto a pensare... si mise a seguirlo. Chissà da quanto tempo, nauseata della sua vita di vizio, non cercava chi le desse la forza di uscirne. Trovato il Maestro, la sua anima di passionale aveva sentito che Egli era il cercato e con l'impulsività di certi caratteri,


estremi sia nel bene come nel male, lo aveva eletto a suo Re. Una vocetta maligna, che forse era di un diavoletto, mi insinuava: «Bada a quello che fai! Pensaci! E se poi muori?». Ma io la cacciai con una scrollata di spalle. Alla sera, nella stanza dove sono ora, con un grande batticuore d'amore, inginocchiata per terra, lessi il mio atto di offerta. E da allora lo rinnovo ogni giorno. I dolori sono venuti come una pioggia su me da quel giorno, ma se fosse concesso all'uomo di annullare il tempo trascorso e io tornassi al 28 gennaio 1925, nel quale giorno ricevetti quei libri, io rifarei quello che ho fatto e con ancora maggior gioia, perché in questi diciotto anni, fra il mare di pene in cui sono immersa, ho sempre gustato, con la mia parte migliore, una gioia spirituale che credo sia un anticipo di quella che godremo nella celeste Gerusalemme, «là ove il gioir s'insempra». Posso anche io ripetere col Piccolo Fiore: «Da quella sera è cominciato il nuovo periodo della mia vita, il più bello di tutti, il più ricolmo di grazie celesti. La Carità entrò nel mio cuore con un bisogno di dimenticarmi per darmi, e da allora fui felice». Oh! tante cose, dette dalla dolce Santina, le posso ripetere io pure! Anche io ho sofferto e soffro pensando al Sangue di Cristo che goccia per tanti inutilmente. Il grido di Gesù: «Ho sete!» echeggia sempre nell'anima mia, che vede la sete del suo Dio e la vuole ristorare. E vedo anche, con infinita pietà, le povere anime, alla loro volta assetate, che non sanno trovare la fonte d'acqua viva che sazia tutte le seti… E vivo morendo ogni minuto per portare anime a Dio e Dio alle anime. Quando, qualche volta, nei primi tempi dell'offerta, io titubavo a compiere un sacrificio, mi pareva vedere lo sguardo implorante di Gesù... Come resistere a quello sguardo che mi pregava, pregava me, povera creatura, di aver pietà del suo desiderio? Allora superavo ogni titubanza e, spezzando me stessa in tutto quanto è umano, compivo un nuovo sacrificio per far sorridere il mio Gesù. Il sorriso di Gesù mi ripagava di tutti i miei sacrifici, ma nel contempo aumentava sempre più la mia sete di sacrificio per desiderio del suo sorriso. Essere consumata dall'amore! Esser consumata per amore! Ma vi può essere una gioia più dolce e potente di questa? Non può la parola umana descriverla, perché essa è sempre impotente a descrivere l'infinito, e la gioia dell'esser vittime è gioia infinita! Procedevo dunque così, amando, essendo amata, avendo per unico scopo l'amore e per unica guida l'amore. «Non avevo ne guida né luce fuorché quella che brillava nel mio cuore», dice S. Giovanni della Croce. Io pure non avevo altra guida né altra luce che questa data dai divini occhi di Gesù che viveva ormai in me. Gli occhi di Gesù! Non mi dica che sono pazza. Mi comprenda. Io avevo ormai la sensazione di quello sguardo aperto nel mio cuore e vedente per me. Io sentivo che guardavo le cose e le persone con gli occhi di Cristo, perché la mia personalità era assorbita nella sua ed io vedevo, parlavo, agivo attraverso di Lui. Quante volte ho sentito che le parole mie, di povera creatura, si mutavano sulla soglia delle labbra in altre parole che per la carità che le informava non potevo più dire mie, ma sue: di Gesù! Quante volte i miei sguardi, che qualche contrarietà sentivo li stava facendo divenire piuttosto... da falchetto, smorzavano la loro istintiva aggressività in una luce d'amore che non era mia, ma sua: di Gesù! Quante volte un mio atto, non precisamente conforme alla legge della carità, non si trasformava misteriosamente in un atto di benignità la cui origine non si trovava certo in me, povera anima così meschina,


ma in Lui: in Gesù che era in me! E il mezzo di provare questa vita di Gesù in me non mi mancava... In casa dovevo ad ogni minuto pregare il mio Re: «Agisci Tu. Frangimi come si frange un vetro per annullare la mia personalità, che si risente di tante ingiustizie, e riformami in Te, secondo come agiresti Tu in questo momento!». Il Piccolo Fiore mi aveva insegnato che Dio si ama con i petali di rose: coi piccoli sacrifici compiuti per amore. Io, per amore, pregavo Gesù di darmi la forza di compierli sempre per amarlo così... E Lui, vedendo che io come io non valevo un centesimo, si sostituiva a me. Oh! non mi posso gloriare del bene che ho fatto! É stato Gesù che lo ha fatto: io non vi ho messo di mio che la sommissione assoluta ad ogni sua operazione. Gesù mi diceva: «Fa' così», e facevo così. «Di' questo», e dicevo questo. «Compi quest'altro», e compivo quest'altro. Oh! se le anime capissero come è loro utile abbandonarsi alle operazioni divine! In quel tempo avrei voluto entrare nella Compagnia di S. Paolo. Unicamente per poter dire alle folle che Gesù va amato con assoluta dedizione, per trovare la felicità celeste fin da questa terra. Poter parlare dei benefici di Dio, poter cantare il canto della riconoscenza e dell'amore per questo Dio pietoso che fa sua gioia il poterci condurre al cielo! Ma molti ostacoli si frapponevano a questo mio desiderio. Egoismo materno in prima linea, pietà di papà mio e salute mia sempre scossa. Il cardiopalmo non cedeva col passare degli anni. Era sempre uguale e penoso. I dolori spinali pure. Ma con tutto questo lavoravo fin troppo, come dissero poi i medici. Pur di fare contenta la mamma e nella speranza (vana) di conquistare la sua benevolenza, lavoravo, lavoravo come una macchina. Faccende di casa, spese, cucina, imbiancature di muri, allevamento di colombi, materassi da rifare, persone da servire perché nell'estate si avevano ospiti (paganti) ai quali fare pensione... tutto era sulle mie spalle. E poi lavori di casa, abiti, maglie, biancherie... facevo persino le giacche estive di papà... Ma era troppo. Il professore di Firenze aveva raccomandato a me e a mamma che io non mi mettessi nell'ozio assoluto, ma però evitassi assolutamente di raggiungere la stanchezza fisica, pena lo sfiancamento cardiaco. Ma chi ci pensava? Io, non paurosa di natura, superavo ridendo le sofferenze del cuore e delle vertebre lesionate. Dello strofanto e dei cerotti Bertelli erano i miei aiuti e tiravo avanti. E poi ora mi sorrideva l'idea dell'olocausto per amore. S. Teresina aveva ben lavorato, pur essendo all'estremo delle forze… Mia mamma che mi vedeva colorita, anche grassottella, e sempre in moto, non pensava neppure per incidenza che ciò potesse nuocermi. E esigeva, esigeva, esigeva con lena crescente. Se qualche volta dicevo di avere un dolore al cuore o alla spina dorsale più intenso, lei tirava fuori un vero repertorio di malanni suoi (immaginari) ed io ero servita. Pensi che mi ha tormentata per tre anni col dirmi di avere delle emorragie per un tumore interno. Voleva sempre dei grandi impiastri di ortiche sul basso ventre, perché non so chi o non so dove aveva letto che erano il tocca e sana per i neoplasmi! Magari lo fossero! Ci sarebbe da fare un poema alle ortiche! Andavo perciò ogni giorno a pungermi le mani e le braccia per cogliere ortiche e poi le preparavo - altre spinate come sopra - e alla sera, quando lei si decideva ad andare a letto, facevo quel poco profumato impiastro e glielo portavo di sopra. Morale: a mezzanotte ero ancora in piedi, stanca morta, e alle 6 di inverno, alle 5 d'estate, mi alzavo. Risultò poi che il preteso tumore


altro non era che un noioso ma non pericoloso disturbo di cui almeno 3/4 dell'umanità soffre. E lei ne guarì veramente bene quando, lasciata da parte la cura (?) delle ortiche, si decise ad applicare una pomata atta a quei varici!... Ma quante lacrime per paura di perdere la mamma! E quante faticose corse per pinete e campi in cerca di ortiche! E questo è un male. Ma a sentire lei li aveva tutti addosso, meno la lebbra e la tubercolosi. Come vede, nonostante tutti i suoi mali, ella vive ancora coi suoi 82 anni. Cammina male o mai ma camminassi io come lei! Mi parrebbe d'essere una regina. Perciò può ben pensare che non ero certo risparmiata allora. Altro che non arrivare mai alla stanchezza! Raggiungevo e sorpassavo la superfatica! Di modo che verso sera camminavo persino curva e piegata verso destra. Spezzata!... Ma nessuno se ne preoccupava. Niente Compagnia di San Paolo, perciò. Altro sacrificio offerto a Gesù. Ma mi davo da fare lo stesso. Gli ospiti, gli amici, tutti coloro che per un puro caso mi si avvicinavano potevano supplire alle masse che non potevo istruire come «Paolina». Purché si voglia, si può sempre essere apostoli. E se non si ha la pompa di un apostolato grandioso, riconosciuto, che può però sempre trascinare con sé guarnizione di orgoglio e dissipazione umana, si può sempre avere la gloria di un apostolato umile, nascosto, solo noto a Dio, corroborato più dal nostro soffrire che dal nostro operare. Si, riconosco che il buon Dio mi ha concesso di prendere molte anime nella rete che gettavo nascostamente, attendendo paziente che i pesciolini si accostassero alle mie briciole di apostolato e li potessi catturare. Briciole di apostolato, ho detto. Infatti dovevo sbriciolarlo in modo da non attirare l'attenzione materna, che avrebbe messo il suo «veto». É faticoso, sa, lavorare così!... Ma, se erano briciole di apostolato, erano in cambio vere grosse pagnotte di amore quelle che giornalmente distribuivo... Impedirmi di amare nessuno me lo poteva fare. Non le pare? Ed io davo, davo con mano prodiga il mio amore al prossimo per far cortesia a Gesù. Mi dicevo sempre: «Gli uomini, che sono sempre pronti a usare cortesia ai più potenti nella speranza di averne degli utili, non si curano di esser cortesi col buon Gesù. Lo sarò io per loro. Fare cortesia a Gesù deve essere il mio lavoro». E cortesia a Gesù si fa in mille modi, che vanno da una parola rattenuta ad un paziente incassare offese senza reagire, che vanno dalla preghiera al perdono, e dal prestarsi in aiuto al prossimo in ogni suo bisogno corporale e spirituale fino all'olocausto segreto in cui offriamo la stessa vita per amore. E io facevo tutto questo semplicemente, per amore. Avendo veduto naufragare il mio desiderio di essere una «Paolina», pensai all'Azione Cattolica. Quando si è colmi di amore fino all'orlo, e sempre nuovo amore scende in noi dal cielo e rampolla in noi dal cuore, si deve straripare per forza. Ogni diga si rompe quando la forza delle acque ha raggiunto il massimo. E la forza dell'amore cresciuto a dismisura è qualcosa di incontenibile. O trovare ad esso uno sfogo o morirne soffocati. Io mi arrabbattavo ad alleggerire la massa che urgeva contro le pareti del cuore, dandomi un vero martirio d'amore, ma non mi bastava quel poco che potevo fare. Ha ben ragione Ruysbroeck quando dice: «L'anima che è stata dinanzi al Cristo sente la dolcezza, e da tal dolcezza nasce un casto godere che è l'abbraccio dell'amore divino. Pigliate tutte le voluttà della terra e fatene una sola voluttà e precipitatela intera sopra un solo uomo: tutto ciò sarà nulla in confronto al godimento di cui parlo, poiché qui è Gesù


che si versa in fondo a noi con tutta la sua purità, e la nostra anima non ne è solo piena ma traboccante. Tal godimento rende l'uomo non più padrone della sua gioia. Tal gioia produce l'ebbrezza spirituale. Io dico ebbrezza spirituale quando il godimento va oltre le possibilità che aveva intravisto il desiderio. Talvolta la sovrabbondanza della gioia sforza a cantare, talvolta a piangere. Talvolta per alleviare lo spasimo l'uomo chiede soccòrso al moto, talvolta alle grida, talvolta al profondo silenzio delle delizie ardenti e mute». Ma nelle delizie ardenti e mute ci si resiste poco con la nostra umanità. L'ardore cresce nel silenzio e ci folgora. Lo so. Pensai allora all'Azione Cattolica. Nella mia Parrocchia non vi erano le Giovani Cattoliche. Chiesi di fondarle io. E fui respinta. Si diceva che, essendovi già il Gruppo Uomini e Donne cattoliche, non era necessario mettere altro. Insistetti inutilmente. Offersi la mia stessa casa per le prime adunanze. Niente. Pazienza. Mi doleva tenere inerti i doni di intelligenza e di coltura avuti da Dio. Mi era sofferenza non poter condurre a Dio tante giovanette che vedevo sviarsi dietro un paganesimo appena larvato di cattolicesimo. Offersi anche questo sacrificio a Dio. E ad ogni sacrificio compiuto sentivo crescere l'amore. Mi dicevo sempre: «Ho raggiunto il culmine. Più su non si può andare». Oh! come mi illudevo! Salire verso la Perfezione è un salire perpetuo. Io credo che se ci fosse lecito vivere mille anni, ascendendo sempre nella via dell'Amore infinito, troveremmo che alla fine non abbiamo fatto che poca via... Essa sale, sale, sale, e più si procede e più si vede che essa sale sempre più. Ma il buon Dio, alle anime generose che si sono affaticate nel salire, ogni tanto concede le ali per percorrere in breve tempo un lungo cammino ed abbreviare la distanza che le separa da Lui e poi, all'ora della morte, viene e prende l'anima generosa nel punto ove morte la fermò e la rapisce in alto, con Lui... Dolce l'ultimo volo così, sul cuore del Maestro che dice: «Vieni, benedetta, nel Regno mio!». Ali sono i sacrifici più grandi compiuti per amore. Nella primavera del 1927 Dio mi dette un paio d'ali ben grandi. Dovevano essere ali d'arcangelo! Quanto spazio coprii in un'ora quella mattina della Domenica delle Palme 1927! Nel gennaio, e precisamente il 5 gennaio, era venuto in licenza presso il padre, Generale di Divisione, e la madre un giovane ufficiale di marina. Nella notte fu colto da un male inspiegabile sul primo, rivelatosi poi per una setticemia all'ultimo stadio. Il Generale, nostro amico, corse da noi il 6 gennaio pregandomi di andare là perché loro avevano già perduto la testa. Erano a Viareggio da soli tre mesi. Vi andai e vi stetti fino al 9 aprile 1927. Ho sfidato il pericolo dell'infezione che tutti fuggivano. Molti andavano dai miei a dire: «Ritirino la signorina. Quel giovane è tisico!». Ma come potevano i miei negare a degli amici desolati quel favore? E perché io, che avevo curato tanti, dovevo rifiutare assistenza a quell'infermo? Perciò per tre mesi lo contesi alla morte, senza stanchezze e senza ripugnanze. Al suo fianco dalla mattina alle sette fino alla sera alle 22 e oltre e, nelle notti in cui era fra morte e vita, anche alla notte. Venivo a casa stanca e pure lavoravo ancora per non affaticare la mamma. Finalmente il giovane migliorò. I diversi medici dissero che oltre metà del merito era mio, che avevo non solo assistito a dovere ma dosato con criterio le medicine. Veramente di questo me ne ero fatto poi uno scrupolo. Ma non gliene posso parlare perché il suo confratello, Padre Antonino Silvestri, mi ha detto di non parlarne mai più. Ubbidisco alla sua volontà


anche ora che egli è andato a Dio. Non può credere che gioia provai quel giorno che potei alzare per la prima volta il' mio malato! I genitori giubilavano e dicevano: «Come faremo a dirle grazie?». Ma il mio grazie io lo avevo già avuto da Dio perché avevo assistito quella vita con l'intento di farla morire cristianamente, se doveva morire, o di farla riconoscente a Dio se Dio lo faceva guarire. E mi pareva d'esser-vi riuscita... Per premio non volevo nulla: facevo solo la corte a una corona del Rosario comperata dal giovane nel Convento dell'Orto degli Ulivi a Gerusalemme. Disgraziatamente il medico curante, la sera dell'8 aprile, uscì con questa ragione: «Ora faranno un bel regalo a questa signorina! Oltre al come ha curato, ha fatto loro risparmiare un bel gruzzolo di denaro. Con delle infermiere pagate non sarebbero bastate 3000 lire». Il medico poteva anche fare a meno di dire questo, ma se lui lo ha detto io non ne ho colpa. Le pare? Basta. Io risposi: «Oh! per carità! Ho avuto la soddisfazione di salvare una vita. Mi basta. Al massimo il tenente mi procurerà una corona come quella della signora Adalgisa. Quella l'accetto volentieri». La mattina dopo mi recai come al solito alla casa del Generale per aiutare il mio malatino, ancora debolissimo, ad alzarsi. Ora andavo dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19. Avevo comperato l'ulivo benedetto e lo portavo anche a loro che,, dopo avere tanto ricevuto da Dio, non erano riconoscenti a Dio. Speravo, con quel ramo santo, di ricordare loro la Pasqua vicina... Entrai. Vidi la signora per prima. La salutai offrendole il mio ramo d'ulivo. Mi voltò le spalle senza rendermi il saluto. Siccome la sapevo molto stramba non ci feci gran che caso. Pensai avesse litigato col marito, cosa che avveniva molto di frequente. Entrai in camera del malato. Si era già alzato e stava seduto in una poltrona fra il padre e il fratello. Erano tutti e tre molto imbarazzati... «Già alzato? Bravo», dissi. Un sorrisetto fu tutta la risposta che ne ebbi. Andai verso la cucina per sentire se la signora aveva bisogno di qualche cosa. Avevo sempre in mano il mio ramo d'ulivo. Fui investita da una raffica di rimproveri. Il mio povero ulivo fu lanciato nella spazzatura e per poco io non andai a fargli compagnia. Venivo accusata di volermi imporre e di volermi insediare in una casa, di aver fatto fare insinuazioni dal medico per avanzare pretese che, se fossero state dette schiettamente in principio, sarebbero state respinte. Infine mi venne dichiarato che ero vecchia rispetto al giovanotto per poter pensare a conquistarlo (?). Nulla di vero. Ero andata perché insistentemente richiesta, non pretendevo nulla e tanto meno conquistarè quel ragazzo. Ormai ero di Dio, e per sempre. Mi venne una grande voglia di rispondere per le rime a quella ingrata e maleducata. Ma mi parve che Gesù mi chiedesse il sacrificio del mio amor proprio in quel giorno nel quale aveva inizio la sua Passione... Uscii dalla cucina senza parlare. Se avessi aperto bocca avrei detto troppo. Allora preferii tacere... Non è vigliaccheria tacere in certi casi, ma anzi è eroismo. Tornai nella camera del malato e come nulla fosse rifeci il letto e misi tutto a posto. Intanto i miei sentimenti si calmavano. Allora dissi al Generale che giudicavo esser bene astenermi ormai dal venire in casa loro. Egli balbettò - è la giusta definizione - qualche magra scusa che mi confermò nel mio giudizio in merito all 'increscioso incidente, la cui causa vera era la paura di dovermi compensare in qualche modo. Come mi conoscevano male e come conoscevano male mio padre e mia madre! Tornò la signora che era uscita per la spesa.


La salutai e, domando il mio io che si ribellava a tanto, chiesi scusa di quello che non avevo fatto. Le confesso che sudavo... Io che avevo sempre agito bene, fin da bimba, per non avere a chiedere scusa, ora mi umiliavo così, senza avere nulla commesso di male, ma anzi aver fatto del bene! Ma era la Domenica delle Palme... Quale migliore preparamento potevo fare alla Pasqua ormai incombente? Per Gesù che andava a morire, nella mistica commemorazione del suo sacrificio per liberare l'uomo dal peccato e specie dal peccato di superbia che aveva rovinato i progenitori e i discendenti di essi, non dovevo trovare questo atto di amore? Tornai a casa senza dire altro che ormai, essendo il malato in condizione di fare da sé, io non andavo più da lui. Non dissi altro per non scatenare le furie materne, che non avrebbero portato rispetto né al Generale né alla moglie di lui. Pensavo che se quei due si fossero pentiti del loro gretto modo di agire potevano ancora riparare, e perciò era meglio stare zitta. Solo dieci giorni dopo parlai, perché i miei si stupivano che quei signori non venissero a dire «grazie», inferiori in questo al cane che sa scodinzolare quando è stato beneficato. E la cosa finì così. Esteriormente finì così. Ma internamente no. Il mio Salvatore mi compensò divinamente per avere saputo essere mite ed umile a sua somiglianza e per amore suo. Io avevo offerto la mia umiliazione a Lui come un sudano per il suo Volto prossimo ai sudori mortali. Egli di quel sudano me ne fece vela per portarmi ben in là, nell'ampio mare della sua misericordia, incontro al Sole della sua divina Essenza. Fu un vero bagno di amore nel quale quel resto di umano che poteva ancora essere in me scomparve definitivamente. Da allora io sono vissuta tutta protesa nel soprannaturale avendo appoggiato sulla terra solo la punta del piede, come certe alate Vittorie che sono già tutte slanciate nel volo. Dopo questo sacrificio venni presa da una vera sete di immolazioni. Immolazioni di amor proprio, di sentimenti cari, di penitenze corporali, di piccoli e grandi sacrifici materiali. Thtto quanto era mezzo per immolarmi io lo cercavo e lo praticavo. E un vero fiume di pace mi sommergeva. Come era dolce esser portata da questo fiume! Ho detto: mi sommergeva. No. Mi portava sui suoi flutti di confidenza, di pace, d'amore. Ed io come una festuca sull'acqua mi abbandonavo alla Volontà che mi portava, suggerendomi d'ora in ora quanto dovevo fare. Era come se il Divino Maestro mi tenesse il suo calice contro le labbra pregandomi di berlo per amor suo. Ed io bevevo, nonostante il sapore fosse spesso ben amaro, sempre più amaro alle mie labbra, ma di un amaro che si mutava in dolcissimo miele nel cuore. Passò così il 1927 e buona parte del 1928. Nell'autunno 1928 giudicai che potevo chiedere di entrare nel Terz'Ordine Francescano. Ormai vedevo che tutto quanto mi aveva turbata in passato era vinto per sempre e che io ero un'altra, trasformata come ero dall'amore. Allora mi recai dai Francescani ed esposi il mio caso. Bisognava accettarmi così come potevo: ossia niente adunanze e niente inviti, per ora, per non urtare le suscettibilità materne. Mi risposero che si poteva fare, solo che questo avrebbe ritardato la mia vestizione. Pazienza! Mi sarei sempre più preparata a quella cerimonia che volevo realmente fosse un sigillo indelebile. Nella primavera del 1929 mi recai a Cremona per portare in un collegio un ragazzo, affidato a una madre senza testa che ne faceva un discolo. La mia cara excompagna di collegio, quella che mi aveva procurato i libri, mi aveva aiutata nel trovare


un ricovero per questo disgraziato fanciullo. Rimasi per 15 giorni ospite di questa mia amica, in una famiglia che pare una copia della famiglia Martin nella quale crebbe la mia Santina prediletta. La mia compagna, che era anche Presidente Diocesana di A. C. Giovanile, mi disse: «Ma perché non entri anche tu nell'A.C.?». Già! Presto detto! Le spiegai le opposizioni trovate e come i miei sacerdoti non volessero le Giovani cattoliche in parrocchia. «Ma ci sono». «Non ci sono». «Come non ci sono? Hanno mandato anche l'obolo per l'Università Cattolica! Guarda qui: Circolo Nostra Signora di Lourdes. Parrocchia S. Paolino - Viareggio». Rimasi di sasso. Mi ero tanto raccomandata perché si fondasse il Circolo, e venivo a sapere che esisteva mentre ero lontana tanti chilometri... Non mi avevano voluto. Ecco tutto. Decisi che al ritorno avrei chiesto di entrarvi. Mentre compivo quell'opera di misericordia - perché era tale - in favore di quel povero ragazzo, ebbi i primi sintomi della miocardite. Nell'estate 1928 avevo avuto una grave angina che avevo superato in piedi, con febbri a 40 e oltre, perché avevamo ospiti. Un mese di sofferenze che mi avevano molto sciupata. Nel rigidissimo inverno 1928-29 ebbi una brutta influenza con tosse e febbri alte e, appena guarita, la frattura di una costa, spezzata dalla folla che mi premeva contro una sbarra di ferro all'Esattoria. Avevo fino dovuto sputare sangue. Forse la costa ledeva la pleura. Ma come al solito nessuno se ne era preoccupato. Io però sentivo che il cuore era più pesante, grosso, malato più seriamente. Nel viaggio di andata, quando fui al passo della Cisa, tra Pontremoli e Borgotaro, ebbi un lieve malore. Breve più che lieve perché furono attimi, ma credetti morire. Si risolse in una emorragia di naso. A Cremona, la stessa sera in cui avevo portato in collegio il ragazzo, mi sentii male. Feci uno sforzo perché la mia amica non se ne accorgesse. Ma credetti anche allora di morire. Al ritorno, nel treno, sempre tra Borgotaro e Pontremoli, ecco da capo quel breve ma penoso malore. Si capisce che il cuore cedeva, e sia l’aria eccessivamente fina di quel punto come l'emozione del distacco dal bimbo, che si era attaccato al mio collo chiamando la mamma, mi avevano fatto male. La mia amica anzi, vedendomi molto sciupata e sofferente, mi voleva trattenere ancora, molto più che una notte ero stata malissimo per il mio dolore vertebrale che mi dava persino vomiti e crampi addominali. Ma un perentorio telegramma di mia madre mi obbligò a partire anche così sofferente. La volpe perde il pelo ma il vizio mai, e mia mamma fa lo stesso. Rimane sempre uguale e nessuna cosa la muta. Avrebbe dovuto esser contenta che io mi riposassi un poco, presso care persone. Ma nossignori! Dovevo stare a catena, sempre. Quell'estate faticai moltissimo a occuparmi dei bagnanti. In autunno camminavo persino tutta piegata a destra. Il Parroco mi aveva respinta ancora dalle Giovani Cattoliche. Un altro sacerdote mi aveva detto: «Ma non si occupi di A.C.! Non merita!». E un terzo mi aveva messa nelle Donne Cattoliche, nelle quali ero una spostata. La mia missione era istruire le giovani. Ma mi veniva negata. Anni prima mi sarei inquietata. Ora pregavo e basta. La mia volontà era fare la Volontà di Dio e non mi alteravo se le cose andavano di traverso. D'altronde, essendo stata così poco bene, speravo che Dio avesse accettato la mia offerta di vittima e si apprestasse a consumarla. Come questo mi sorrideva e come mi consolava di tutto! Se i poveri uomini, che si arrovellano tanto delle cose del momento, potessero


capire e gustare quanto è soave e pacificatore il distacco dalla vita e da tutte le sue attrazioni, come resterebbero meravigliati! Essi pensano che il sacrificio e il dolore, qualunque sia la forma da essi presa, siano penosi a compiersi per l'anima generosa come per le loro anime timorose di tutto, per non dire meschine. Ma sbagliano molto. Il sacrificio non è più sforzo e il dolore non è più tormento per l'anima generosa, la quale vive in un'atmosfera e in una luce speciale, che rivestono sacrificio e dolore di una veste diversa da quella che appare agli occhi dei pusilli. Tutto perde in valore umano per l'anima-vittima e tutto acquista in valore sopraumano. La salute o la malattia, la riuscita o la sconfitta di un dato lavoro, la gioia o la pena gli sono indifferenti dal punto di vista umano e solo gradite se da esse può ottenere un bene soprannaturale. Di una cosa sola, anzi, l'anima generosa si preoccupa, ed è della tema di non soffrire. In ciò sta il capovolgimento dei valori. Per l'uomo comune la tema di soffrire, anche la sola tema è fonte di terrore. Per l'anima generosa la tema di non soffrire abbastanza è causa di timore e di raddoppiamento di suppliche perché Dio le conceda la gioia di soffrire. Tutto il suo lavoro quaggiù si compendia nel desiderio di far cosa grata non a sé ma a Dio, e se per raggiungere questo è necessario soffrire sia benedetto il dolore! Donde l'incapacità dell'anima generosa di soffrire nel modo acerbo con cui soffrono i non generosi. Il dolore resta, perché èinevitabile, ma non come nemico: come amico che ci aiuta a salire sempre più in alto. Il solo pensiero che questo dolore, aborrito da tanti, ci rende simili al Cristo e continuatori dell'opera di Lui ci dà sete insaziabile di sempre nuove e più profonde sofferenze. E il riflettere che a noi, povere creature umane labili portate alla colpa, l'infinita Misericordia concede l'onore di divenire simili a Lui nell'opera redentrice, concede di mescolare nel calice il nostro sangue al suo Sangue divino, ci porta ad altezze vertiginose di amore e di riconoscenza. L'unica nostra paura è non già che il calice del dolore sia portato alle nostre labbra dalla mano di Dio, ma sia levato alle nostre labbra che non vogliono più conoscere altro sapore che non sia questo, gustato per la prima volta dal Redentore. L'anima generosa ha talmente annullato la sua volontà che da sé sola non si occupa di cercare né sofferenza né gioia. Si è donata, mani e piedi legati, in mano del dolce suo Immolatore e solo lo supplica di non risparmiarla. Ogni nuova ferita è ai suoi occhi una gemma senza pari, e se le lacrime scendono, perché il dolore stritola le nostre fibre e la carne geme, a quelle lacrime umane si uniscono altre stille di pianto. Di un pianto di gioia per la grazia di soffrire che Dio ci concede. Il primo supplizio dell'Immolatore è quello dell'Amore. Un amore così esclusivo, così possente che da sé solo basta a consumare la vita. Il secondo è il Dolore: un dolore così proteiforme che senza l'aiuto di Dio ucciderebbe qualunque creatura umana. Il terzo, supplizio dei supplizi, è di vederci levato il dolore, perché questo ci fa temere che Dio non ci trovi più degni di soffrire con Lui, per Lui e per le anime. Sono anni che io vivo così, avendo trovato in questa vita la mia pace. Essere anime vittime vuol dire essere anime penitenti come la Maddalena, pure come Agnese - perché la sofferenza purifica fiduciose come Teresina; essere anime vittime vuol dire essere nelle mani di Gesù come uno strumento che non si lamenta di essere usato; essere anime vittime vuol dire aver capito dove è la via sicura per la vita eterna. Questa certezza mi addolciva ogni cosa.


Anche quella di vedermi sempre respinta da tutti. Respinta in casa, respinta fuor di casa, respinta dai sacerdoti come dalle persone laiche. Pareva si fossero tutti dati la parola in questo senso. Ma mi restava Gesù, e perciò... Alla fine del dicembre 1929 vi furono i S. Esercizi per gli ascritti all'A. C. della mia Parrocchia. Erano tenuti da Monsignor Sanguinetti. Li frequentai con piacere dopo tanti anni che ne ero priva. Alla fine, in una lunga confessione, mi aprii col Monsignore. Ebbi la grazia d'essere capita da, questo sacerdote. Rara grazia perché fino a quel momento mi era sempre stata negata e Gesù solo era stato il mio Direttore. Mons. Sanguinetti mi fece parlare a lungo e poi... mi impose come delegata di coltura delle Giovani Cattoliche. Allora dovettero bene accogliermi! Seppi farmi amare dalle circoline. Le dirigenti mi amarono meno per paura che io le avessi a soppiantare in quelle benedette cariche, così desiderate dal loro piccolo cuore che vedeva le cose da un punto di vista umano. Ma le circoline mi amarono molto e subito. Mi vedevano giusta. Esigevo ordine, studio, puntualità e ubbidienza al regolamento. Ma la prima ad osservare tale ordine, studio, puntualità e ubbidienza allo statuto, ero io, e perciò mi seguivano. Guai se gli inferiori ci vedono colpevoli delle colpe che rimproveriamo a loro! É finita! Quell'anno la gara era sul Sillabario del Cristianesimo. Fu un piccolo trionfo. Quelli della A. C. Diocesana, che l'anno avanti avevano esaminato delle creature impreparate affatto, strabiliarono. Io fui contenta per le ragazze. Non c'è come il successo che sproni, specie quando si è ancora delle piccole anime come erano le mie figlioline. Le premiai con dei libri, ossia premiai le meglio, quelle che avevano riportato buoni voti, sicura che l'anno dopo avrebbero fatto meglio ancora. Gli inferiori vanno tenuti con salda mano, ma che sia coperta di velluto. Devono credere di avere a che fare con una dolcezza, senza accorgersi che sotto quella dolcezza c'è una forza che in caso di bisogno si fa sentire. Ma già, quando veramente si ama coloro che ci sono affidati da Dio, si ottiene da loro quello che si vuole senza ricorrere alla forza, specie quando i nostri pupilli sono anime giovani e prive dell'invidia che è il serpe velenoso della società umana. Dove noi non arriviamo arriva Iddio, e maestri e allievi crescono in sapienza e grazia al suo cospetto. Estate 1930. Nell'estate 1930 esperimentai la potenza della croce. Ma prima le devo narrare il mio Venerdì Santo. Il periodo che va dalla Domenica di Passione alla festa della Ss. Trinità è sempre stato per me un periodo amatissimo e desideratissimo. Neppure il Natale ha per l'anima mia quella potenza che ha il sunnominato periodo. Sono sempre stata una piccola innamorata del Crocifisso, bisogna ricordarselo, e perciò il periodo commemorativo della Passione ha per me una attrazione che nulla riesce a superare. Dopo questo periodo, che per me si conclude col di dell'Ascensione, viene la Pentecoste. Altra festa a me dilettissima. Lo Spirito Santo! L'Amore! La Luce! Il Fuoco! Oh! come amo questa terza persona della Trinità Santissima! Mi parrebbe che il mio giorno fosse orbo di luce se non lo iniziassi col «Veni Sancte Spiritus»! E anche durante la giornata, se qualcosa mi assilla, mi turba, o mi è oscura, mi volgo al Paraclito con la fiducia di un bimbo verso il Sapiente che tutto sa. La novena dello Spirito Santo è per me sempre


piena di una soprannaturale delizia e letizia che culminano toccando una luce vivissima nella mattina di Pentecoste. La maggioranza dei cattolici commette un grande errore dimenticando troppo di frequente la prima e la terza Persona della Ss. Trinità. Anche segnandosi della croce molti dicono: «Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo». Ma in realtà pensano solo al Figlio. L'ottusità della natura nostra è tanto viva che ben pochi sanno concepire ciò che è solo spirito, e perciò si appuntano al Figlio, l'unico dotato di corpo. Le persone pie accumulano comunioni sacramentali con comunioni spirituali. Ma non pensano neppure, e sentendolo dire quasi inorridiscono come di una bestemmia, che si possa, anzi, che sia atto di amore doveroso, abbracciare il Padre che è nei cieli con continui atti di rispettoso affetto, e fare delle cresime spirituali che ci rinnovano l'infusione dei sette doni divini dei quali abbiamo sempre tanto bisogno. Per mio conto ho sempre cercato di rimediare a questa lacuna della maggioranza. Da quando sono entrata nella luce di Cristo ho sempre cercato di riparare a questa mancanza di devozione verso la prima e la terza Persona della Triade santa. Non sempre ci è concesso di dire il «Pater» con quella tranquillità e riflessione che una tale sublime preghiera richiede per esser proprio «preghiera». La stessa abitudine di dirla fa si che tante volte si ripete macchinalmente. E quando l'anima è assente, a che è valida la preghiera? A nulla. Resta un borbottio meccanico di labbra distratte. Ma quando dal fondo del nostro spirito scoccano come frecce le brevi invocazioni, le ardenti, se pur laconiche, confessioni di amore, come ne deve giubilare l'Altissimo e rispondere con benedizioni di potenza infinita! «Oh, Padre mio!», «Padre t'amo!», «Padre guarda la tua creatura», «Padre m'affido a Te!». Oh, brevi e infuocate preghiere che dite al Creatore come noi, creature sue, ci ricordiamo di Lui, quale merito ci acquistate e quante grazie ci ottenete! Quando nel pianto o nella gioia, nel fervore o nell'aridità, nella sicurezza o nel turbamento, e nelle ore in cui un evento ci tiene in forse sulla via da seguirsi, quando a sole che illumini il nostro giorno noi eleviamo un sospiro d'amore e di desiderio allo Spirito settiforme, oh! come Egli risponde, scendendo con i suoi tesori di luce, di carità, di sapienza, di fortezza! Avevo abituato anche le mie figliuole del Circolo a questa tanto benedetta elevazione della mente al Padre e allo Spirito Santo. Ma dubito molto che esse le siano rimaste fedeli. Per tornare in argomento le dirò dunque come il periodo che va dalla Domenica di Passione alla Ss. Trinità fosse un grande periodo per me. Lo è. La Settimana Santa poi mi ha sempre commosso il cuore, anche nei periodi più burrascosi. Che un Dio morisse per noi e in quel modo era per me qualcosa di così sublime che sentivo sciogliersi l'anima mia da ògni gelo nei periodi tristi della giovinezza e, nei seguenti, sentivo la più profonda commozione invadermi l'anima con un oceano di fiamme. Per le idee materne non ho mai potuto assistere in pace alle funzioni della Settimana Santa. Mamma in prossimità delle feste è sempre divenuta più intrattabile del solito e per evitare scene in contrasto con la solennità bisogna usare una diplomazia sopraffina... Non giova gran che, ma qualcosa fa... Dovevo perciò accontentarmi della comunione quotidiana e di fugaci visite in chiesa, rubando i minuti, a suon di corse che mi portavano il cuore in gola, durante le uscite per le spese. É comodo esser praticanti quando nessuno ci ostacola nella devozione. Ma che merito sarà serbato a coloro che


devono sfidare le ire altrui e ricorrere a mille sante astuzie per potere andare nella casa di Dio? Nella Settimana Santa del 1930 io ero ancor più del solito infiammata di spirito d'amore e di riparazione. Avendo occasione, in grazia del Circolo, di uscire più di frequente, sguizzavo in chiesa come un pesciolino sfuggito dalla rete. Il grande Crocifisso dell'altare mi pareva mi guardasse con occhi più imploranti che mai. Quel Crocifisso! Io non lo vedrò mai più. Ma ritroverò in cielo, cambiate in gemme, tutte le lacrime che ho pianto sul suo petto e sulle sue mani trafitte quando potevo trovarlo deposto nella cappella dell'Arcivescovo nei periodi che sull'altare maggiore veniva messa una statua. Lo accarezzavo, col mio fazzoletto levavo la polvere che insudiciava il suo viso, le sue mani, i suoi piedi, e lo baciavo e lo bagnavo di pianto. Non mi pareva vero di poterlo toccare così! Non mi pareva più un legno inanimato, ma un corpo vivo e palpitante, e come a corpo vivo gli facevo nel pianto mille domande pietose: «Povero Gesù! Ti fan tanto male questi chiodi, queste spine, queste lividure? Oh! come te le vorrei levare a qualunque costo!». Sono le divine sciocchezze dell'amore! A taluno parranno sentimentalismi. Non lo sono. Quando si ama uno in maniera assoluta si dicono sempre e con vera convinzione. La madre sulla cuna del suo bimbo che piange non si strugge nell'ansia di levargli la «bua» a costo di prenderla lei e non dice le dolci frasi che non sono mai ridicole, anche se bamboleggianti? La moglie amorosa non si curva, resa tutta pietà, sul consorte infermo crucciandosi di non poterlo sollevare nel suo soffrire e non ha per lui tenerezze di mamma, oltre che di sposa, e parole simili a quelle usate su una cuna? E perché non si dovrebbe amare Gesù con la stessa struggente tenerezza di come si ama un marito e un figlio? Almeno con la stessa tenerezza. Ma in realtà si deve amarlo con molta, molta, molta più tenerezza. Perché credere e giudicare sentimentalismo le carezze date a un Crocifisso o a un Sacro Cuore? La Santina di Lisieux non fa certo ridere quando sfoglia le sue rose e di ogni petalo se ne fa uno strumento per carezzare il suo Signore! Quelle rose sfogliate su di Lui erano l'emblema della sua vita che si sfogliava nell'olocausto d'amore. Non sentimentalismo, ma amorosa follia corroborata dalla realtà dell'olocausto. Anche le mie carezze sul Cristo crocifisso, anche le mie lacrime e le mie parole non erano emozioni ridicole di donnetta sentimentale e isterica. Erano bisogni veri e virili del cuore che già si immolava per essere simile al suo Dio. Oh! comprendo molto bene i grandi pianti della Maddalena, le sue, dirò così, crisi parossistiche di amore e di dolore. Non era isterismo, no. Era incandescenza d'amore. Io ero e sono della schiera ardente e penitente delle Maddalene e per levare Gesù dalla croce accetterei, non solo metaforicamente ma nella realtà, d'essere inchiodata al suo posto. Crede Lei che il mio soffrire mi basti? No. É tanto! Così tanto che senza una speciale grazia di Dio il mio essere non potrebbe sopportarlo e il cuore si spezzerebbe nello spasimo. Ma non mi basta. A me, Maria della Croce, anima di Cristo, non mi basta. E se anche Dio lo aumenterà non mi basterà mai, mai, mai. Mai, perché i dolori del mio Salvatore sono stati infiniti e vorrei infiniti i miei... Non so se nessuno dei sacerdoti si sia mai accorto di quei miei abbracci al Crocifisso. Non credo perché... facevo una barricata di seggiole contro le due porte e stavo sempre con il mio acutissimo orecchio teso. Non volevo essere scoperta. «Quando pregate chiudetevi nel segreto e il


Padre che vede nel segreto ve ne darà la ricompensa». Ma il brutto era quando Gesù era sull'altare... Allora il pianto mi cadeva lungo le guance. Per fortuna erano sempre ore in cui la chiesa era deserta... Perciò solo il mio vecchio Parroco mi scoprì qualche volta. Ma di lui non avevo molta vergogna. Sapeva già abbastanza di me. E veniamo al Venerdì Santo. L’unica volta che andai alla funzione delle «tre ore di agoniaia»... e per poco non ci rimasi morta. Eravamo andati io, papà e mamma. Caso inaudito negli annali di famiglia, mamma aveva acconsentito a questo mio desiderio. Era con noi anche una buona signorina. Alle 11 avevo tanto pianto ai piedi dell'altare guardando il mio Gesù e la divina Madre dal cuore trafitto. Ma non mi sentivo male. Non mangiai quasi nulla perché quando piango non posso più mangiare. Andammo dunque in chiesa. Eravamo seduti quasi sotto al pulpito. Alla seconda parola cominciai a sentirmi molto male. Una sofferenza mai provata fino a quel momento, ma una sofferenza terribile. Il primo attacco di angina-pectoris lo ebbi proprio il Venerdì Santo e nelle ore dell'agonia di Gesù. Se si pensa che un medico dell'antichità, riuscito a individuare questo male e le sofferenze e i pericoli che porta, ma non a trovare le cure, ebbe a definirlo: «Pausa della vita in cui si soffre la morte», si può capire cosa esso sia di terribile. Solo chi ha provato quell'angoscia straziante di spasimo, di crampi, di soffocazione, di collasso può sapere cosa essa sia in realtà. Ed io l'ho provata per la prima volta il Venerdì Santo. In agonia Gesù, in agonia Maria di Gesù. Ho creduto morire proprio. Uscire non si poteva per la folla, e poi non si può camminare in quei momenti... Mi dovetti quasi svestire in chiesa perché tutto quanto allaccia aumenta il soffrire. Ma non ebbi paura. Sentivo che Gesù mi issava sulla croce... Lo avevo tanto chiesto in quei cinque anni di accettarmi per vittima... era venuta l'ora beata del consenso divino. E venuta in un giorno e in un ora così colmi di significati. Lei potrà dire: «Ma si era sentita male anche l'anno avanti». Oh! era tutto diverso! Quello era parso quasi un inizio di colpo apoplettico dovuto a mala circolazione. Un grande afflusso di sangue al collo e al capo, una vertigine intensa e basta. Questo era spasmodico dolore, era sudore ghiaccio, era agonia vera e propria. Fu il regalo di Gesù morente alla piccola vittima. Dopo, passata la crisi, tornai come prima. Solo ero molto stanca. Ma dopo un buon sonno non sentii neppure più la stanchezza. Venne l'estate. Quell'anno non tornò da noi la solita famiglia che veniva ogni estate e con la quale eravamo in una relazione di amicizia. Eravamo in trattative con un altro conoscente nostro, ma all'ultimo momento non poté venire. Eravamo perciò senza nessuno. Alla fine di giugno una signora, nostra conoscente, ci chiese se avremmo ospitato un signore solo, un dottore, il quale voleva una casa molto quieta, di persone non popolane, dove si potesse mangiare e dormire bene e in pace. Durata dell'affitto: due o anche tre mesi. Però questo dottore voleva avere il permesso di portarsi seco un giovane suo protetto, il quale spesso sarebbe stato suo ospite e che avrebbe dato consultazioni in una stanza durante qualche ora del giorno. Consultazioni: una parola che vuole dire molte cose. Si danno consultazioni mediche e legali, si danno consultazioni anche sull'arte di coltivare... le cipolle. Basta essere dottori in agraria. Accettammo perché era molto conveniente e poco faticoso. Una persona sola da servire, perché il... consulente alloggiava altrove, era quello che ci voleva per me. Il 1° luglio


cominciò ad arrivare il... consulente. Un discreto giovane, come aspetto, e un buon ragazzone come morale. Si insediò nella stanza dove ora sto io, allora salotto, e non volle che io levassi un quadretto del Crocifisso davanti al quale pregavo. Mi disse che egli era molto credente e che desiderava avere nella sua stanza di consultazioni quel quadro sacro. Benissimo. Non dava nessuna noia. Entrava, usciva, calmo, rispettoso e silenzioso. Il 4 luglio arrivò il dottore. Persona distintissima. Comprendemmo poi che era anche coltissima e molto ricca. Gli piacque tutto e fissò subito di restare per tre mesi. Per il primo giorno disse che avrebbe mangiato fuori di casa per dare tempo a noi di trovare le uova, di cui faceva largo uso, e fissare il pesce, perché uno dei pasti doveva essere a base di pesce per causa della sua uricemia. Vide il pianoforte e mi chiese se gli permettevo di usarlo. Suonava e cantava benissimo. Gli risposi che facesse pure. Il giorno dopo si iniziò la pensione vera e propria. Dopo il pasto del mezzogiorno il dottore era salito nella sua camera, anzi nel salottino del piano, per riposare. Io ero andata in cucina a rigovernare. Mamma era con me e papà dormiva nella sua stanza. Tutto taceva in quell'ora caldissima. Io d'un tratto mi sentii stranamente male. Non un male fisico. No. Era un male non fisico perché non c'era dolore alcuno, ma mi turbava anche il fisico. Non so spiegare. Uscii in cortile per respirare parendomi che l'aria della casa si fosse fatta d'un tratto mefitica. Ecco, forse questa è la sensazione più giusta: un' aria corrotta. Ma anche in cortile era lo stesso. Anzi mi pareva che mani invisibili mi opprimessero il petto, mi tappassero le nari. Mamma non sentiva nulla. Con fatica rientrai in casa. Con fatica perché qualcosa mi respingeva dalla casa. Volli salire al primo piano per prendere il cardiotonico che usavo quando ero sofferente. Salii la scala. Fino al primo breve pianerottolo tutto andò bene. Ma quando iniziai la salita della seconda rampa avvertii una forza che mi spingeva indietro come per impedirmi di salire. Avevo proprio la sensazione di due mani, molto grandi e forti, che mi si appoggiassero al petto respingendomi con grande vigore. Lottando e tenendomi bene stretta alla ringhiera, riuscii a salire. Quando giunsi al primo piano, di fronte alla porta chiusa del salottino, la sensazione divenne paurosa. Che avvenne allora in me? Non lo so. Mentre penetravo nella nostra camera da letto compresi, come lo vedessi coi miei occhi, che in quel salottino, dal quale nessun rumore usciva, si faceva dello spiritismo. Credo di appartenere alle persone coraggiose. Fuorché il terremoto e le rivolte popolari non mi fa paura nulla. Non le malattie contagiose, non le sofferenze, non gli animali. Sto a rispettosa distanza dai gatti, non perché non mi piacciano ma perché mi saltano agli occhi. Cosa vedono nei miei occhi non lo so. Constato che quando può il gatto mi si avventa contro e perciò sto alla larga da questo felino. Sfuggo le serpi perché mi fanno ribrezzo. Tutte le altre creature le amo, topi compresi, per i quali le mie compagne di sesso fanno tanti strilli. Non ho paura dei fulmini né dei venti. Ma dello spiritismo ho una paura nera, come ho paura di tutto quello che è misterioso. In collegio le Suore dicevano di sovente: «Pensate che bellezza se ora apparisse un angelo, la Vergine, Gesù!». E io pronta: «No, per carità! Salterei fuori dalla finestra!». Perché? Per paura di Dio? No. Per paura che lo Spirito del Male si vestisse di quelle parvenze per trarre in inganno. Mi dicessero: «Tu guarisci se ti lasci curare da un magnetista o da qualcuno di


coloro che praticano magie e scienze occulte», io ricuserei, come ho ricusato, la guarigione per tema che un pezzettino di demonio mi restasse addosso. Quando nel 1921 ero in lotta con mamma per via di Mario, mia madre andò da un occultista. Non so cosa combinarono... Mi mandò un talismano che mi guardai bene dal portare addosso. Ma solo a riceverlo, solo l'andare da quel mezzo diavolo (per me certa gente è molto parente del diavolo), mi portò quel che mi portò. Ma mia mamma ci crede a certe cose e del diavolo, al quale crede sì e no, non ha paura... Insomma, per tornare al fatto, io compresi che si faceva dello spiritismo. Perché lo compresi? Mah! Lo compresi e basta. Tornata al terreno lo dissi a mamma e con rara audacia dissi che o la finiva quel signore o me ne andavo io. Stavo discutendo quando scese... il consulente. Pareva piuttosto seccato. Salutò e se ne andò. «Allora era lui di sopra insieme al dottore», dissi. «Ma benone!». Al mattino dopo trovai fissata sulla porta di casa una bella mano con sotto scritto: «Mustafà - Chiromante - Occultista ecc. ecc.». Misericordia! Era consulente in quelle scienze? Divenni furibonda. Tanto furibonda che comunicai il mio furore a mamma, la quale significò al dottore che se credeva di stare come bagnante rimanesse pure ma che sgomberasse ipso-facto se voleva dedicarsi a certe cose. Casa nostra non era atta a questo. Ci fu un bel battibecco. Poi il dottore aderì dicendo che avrebbe detto al suo protetto di andare altrove. Lui, il dottore, sarebbe rimasto. Passarono altri due o tre giorni. Il chiromante veniva ancora, in cerca di denaro, dal suo protettore, ma non si rinchiudevano più a quattr'occhi e aveva sgomberato il suo... gabinetto. Al quarto giorno rieccoti quella sensazione. Ma questa volta la combattei a dovere. Smisi di fare non so che, mi armai del Crocifisso e dissi: «Ora, Signore, è il momento di mostrarmi la potenza di questo segno. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ti chiedo di impedire al demonio di agire in casa mia», e terminai con la preghiera di S. Edmondo: «Gesù Cristo Re dei Giudei». Io non sentii più quella privazione di aria e dopo qualche tempo vidi scendere il medium (chiamiamolo col suo giusto nome). Era turbatissimo. Venne in stanza da pranzo e fece tutto un racconto per persuaderci che egli era un bravo giovane, religioso, credente ecc. ecc. e che lo spiritismo non è contrario a Dio perché anzi chi lo pratica crede nell'al di là e dà modo alle anime disincarnate di venire a portarci le voci supreme ecc. ecc. Io zitta. Allora il medium mi disse, proprio a me: «Sa, io non sono un indemoniato. La si figuri (era fiorentino) che porto con me il lumen Christi (che fosse per lui non so) e lei la fa male a non volermi. Io ero venuto qui tanto volentieri perché le volevo far del bene (?). Ma lei la mi caccia...». «Io non caccio nessuno», risposi. «Se è vero che lei è amico di Gesù non si deve sentire in disagio presso di me». «Sì, invece, che mi ci sento. Lei la va sempre in chiesa!». «Ma anzi proprio per questo dovreste stare bene qui. Chi è con Cristo non teme Cristo!». «E invece le dico che la mi disturba». «Non venga più e buonanotte». Il discorso finì lì. Dopo poco ecco il dottore. Accigliato, torvo. Mi si piantò davanti e mi squadrò bene bene. Io lo guardai interrogativamente. A sera, era di domenica, mentre cenava il dottore disse: «Devo andare via perché la signorina non ci vuole. Non sa che oggi per poco non mi fa morire Mustafà?». «Io? E come facevo se non sapevo neanche che ci fosse?». «Sì, lei, proprio lei. Era in trance e di colpo mi restò in catalessi. Quando rinvenne disse che


lo spirito Gabriel (?)nel fuggire impaurito lo aveva lasciato privo di vita. Solo dopo una mezz 'ora era tornato e Mustafà è tornato in sé». Benissimo, pensai. Se anche voi non la volete smettere ve la faccio smettere io. E giù preghiere con la mia croce fra le mani. Morale: due giorni dopo Mustafà andava a Rimini coi suoi spiriti più o meno Gabrielli. Il dottore restava, perché diceva che doveva restare. E fino alla notte del 17 agosto tutto andò bene. Ma quella notte, fra il tocco e le due, mentre io dormivo come un bebé, fui svegliata di colpo da quella famosa sensazione di mani che mi opprimessero il petto per scacciarmi e di aria corrotta. Soffrii moltissimo e dissi a mamma (dormivo con lei): «Il dottore fa qualche cosa». Soffrii tanto e lottai tanto che al mattino, mentre ero fuori per le spese, fui per morire di un attacco di cuore. Tornata a casa avevo un viso così sbattuto che il dottore, che a parte il suo spiritismo era un bravo uomo, ebbe pietà. Ma io ricusai la sua pietà e gli dissi: «Che ha fatto lei questa notte?». Egli chinò il capo e confessò: aveva evocato il famoso Gabriel. Ne tragga Lei, Padre, le conclusioni. Io le dico solo che sono convinta che la potenza del nome di Gesù e della Croce impedì l'opera demoniaca; le dico che sono convinta che lo spiritismo è demoniaco (mi faceva troppo soffrire. Se fosse venuto da Dio, come dicevano quei due, non mi avrebbe torturata); le dico che il demonio non voleva che io fossi in casa e tentava respingermi non per me ma per Colui che era in me; le dico che sono convinta che in questo fatto c'è certamente nascosto un perché noto a Dio solo; le dico che non fu senza frutto perché in capo a tre mesi il dottore si era ricreduto su molte cose al punto di desiderare di riunirsi a Dio rinunciando a tutto il resto; le dico infine che sono arciconvinta che molto di quello che soffrii dopo fu opera di vendetta del demonio, che col nome di Gesù avevo atterrato. Il mio male era, fino ad allora, chiaro nei suoi sintomi e, se pur grave, non portava con sé quegli spasimi di tutto il corpo venuti dopo e che sono simili a quelli che deve provare uno i cui fasci nervosi siano ritorti da una mano spietata. Da quel momento i sintomi si alterarono, si mescolarono, si arruffarono con quelli di nuovi mali misteriosi che mai nessuno poté capire. E a questi si aggiunse uno scatenarsi di tentazioni che mi hanno anche piegata... Mai avevo provato tanto, mai ero arrivata a tanto! Le ore più nere della mia giovinezza furono rosee rispetto a quelle subite in questi nove anni di male. Sono oggi nove anni che sono a letto. Solo da un mese a questa parte mi sento libera dall'assedio demoniaco, che non dicevo a nessuno perché al giorno d'oggi al demonio non ci credono, ma che mi ha fatto tanto soffrire! Io ho vinto il demonio nell'estate 1930, ma esso si è vendicato in maniera esorbitante... Ma ne parlerò a suo tempo. Ed ora che dire? Dirò solo quello che si dice il Venerdì Santo adorando la Croce: «Albero leggiadro e splendido, ornato della porpora del Re... O te beata... O Croce unica speranza, salve!...». «La fame ardentissima che ho di salvare le anime mi spinge a cercarmi delle vittime che associo alla mia opera d'amore», aveva detto Gesù a Suor Benigna Consolata Ferrero. Io allora non conoscevo ancora questa Suora. Ma il bisogno di offrirmi anche alla Giustizia, come m'ero offerta all'Amore, mi urgeva nel cuore. Per puro caso venni a conoscenza di questa piccola Segretaria di Gesù. Era un po' di tempo che diverse persone, consacrate o meno, mi dicevano se avevo preso i miei pensieri negli scritti di lei, perché i pensieri erano uguali. Non sapevo neppure che fosse vissuta Suor Benigna!


Mi venne desiderio di conoscerla. E Gesù, sempre cortese, mi fece trovare la via. Mi venne fra le mani una pagellina di lei. Avevo il filo conduttore. Scrissi alla Visitazione di Como per avere tutte le opere della Serva di Dio. Ieri sera mi sono fermata perché troppo sofferente per poter proseguire. Ed è stato bene, perché nella notte mi è venuto in mente di aver omesso dei fatti. Il primo si è che avevo da tempo pronunciato i voti di verginità - povertà - ubbidienza. Avevo allora passato il mio anello dalla mano destra, dove stava dal 1915 e dove voleva essere ricordo del povero Roberto, alla mano sinistra, dove voleva essere simbolo delle mistiche nozze con Gesù. Avevo dovuto per questi fatti subire molti predicozzi. Dal sacerdote, prima di tutto, che non approvava la mia intenzione. Avrei molto da dire in merito e lo dico subito per non pensarci più. Forse la mia sincerità le spiacerà alquanto, ma pazienza. Nella mia vita ho incontrato sacerdoti santi, senza dubbio, dei veri Sacerdoti dalla carità piena, dallo zelo indiscusso, dall'apostolato fecondo. Creature che vivono convinte della loro missione e che si consumano anima e corpo nella cura delle anime, tutti preoccupati di portare queste anime a Dio, tutti occupati di infiammarle e sospingerle verso la carità e la generosità. Non ho trovato fra essi un vero Direttore. Confessori emeriti sì, ma Direttori no. Ma questo dipende da me e non da loro. Lei si èaccorto come io sia restia ad aprirmi... e se lo sono ora con persona che giudico essere come io me la sognavo quale direttrice dell'anima mia, pensi come ero chiusa quando non vedevo nel sacerdote che avvicinavo quel certo che, che mi diceva: «Confida a questo sacerdote i segreti del tuo cuore». Ma fra i sacerdoti santi ne ho trovati molti non santi. E spiego il mio concetto. Quando io vedo un sacerdote poco zelante nell'assistere le anime, più preoccupato di interessi umani: case, rendite, lezioni da dare, visite da ricevere, ecc. ecc., impaziente verso le povere anime che saranno anche noiose, lo ammetto, con i loro scrupoli e piccinerie, ma che appunto per questo andrebbero con molto amore virilizzate nella fede; sacerdote che in luogo di aiutare gli slanci veri dei cuori li trattiene non per prudenza - questa sarebbe giusta - ma per tiepidezza di cuore, parendogli che è sempre troppo quello che si fa per il Signore e che non bisogna esagerare, allora io dico che quel sacerdote non è santo. Noti che trascuro altre colpe umane che mi fanno piangere e mi spingono ad espiare con penitenze speciali, ma sulle quali sorvolo per pietà della debolezza umana, sempre esistente anche sotto una veste talare... Ebbene, io di questi sacerdoti tiepidi ne vedo tanti! I santi sono sparsi come rari fiori in un vasto prato erboso, troppo rari per l'immenso bisogno delle folle di essere nuovamente evangelizzate. Ammiro l'opera dei Missionari che vanno in terre pagane a portare Cristo agli idolatri... Ma i negri d'Europa, i neo-pagani del Vecchio Mondo, che dopo aver avuto per i primi la luce di Cristo l'hanno nuovamente perduta sotto un ammasso di piacere, di vizio, di corsa alla ricchezza e al potere, chi li convertirà di nuovo? Chi li salverà portandoli con fuoco d'apostolo a Dio? Questi poveri negri d'Europa, il cui battesimo è ormai solo una formula che resta vana, per i quali sono lettera morta le parole della Fede, inutili cerimonie le funzioni ecclesiastiche, vergognose piccinerie di donnette i Sacramenti, questi poveri negri di Europa che si ricordano di Dio per bestemmiarlo, che vivono da bestie solo tese a saziare il ventre, il desiderio e il portafoglio, che muoiono ancor più da


bestie, precipitando nell'al di là senza un estremo ritorno a Dio, chi li evangelizzerà? Chi, spendendo la sua vita in una predicazione di tutta la vita, intesa non come anni ma come opere, li riporterà alla Sorgente di Tutto, facendoli persuasi di una vita dello spirito - ben più alta della vita della materia che è la divinità dell'era moderna - vita dello spirito datrice della «vita durabile» cantata da Caterina? Oh! pietà, pietà di queste povere turbe europee, greggi rimaste con troppo rari veri pastori, mal guidate dagli altri, che più che del gregge si occupano di infinite futilità materiali! Riparlate, voi Missionari, a questi negri d'Europa, ben più infelici degli zulù africani i quali hanno una fede, quale che sia: nel serpe, nel sole, nel sasso, ma una fede, mentre i poveri idolatri di Europa non l'hanno. Non sono neppure idolatri poiché l'idolatria presuppone una fede in un idolo. Questi non credono più a nulla, neppure nel piacere che li disgusta senza saziarli... Tornate, tornate, Missionari, a ricristianizzare questa povera Europa che muore nel marasma del suo ateismo, fate brillare agli occhi degli avviliti e imbestiati europei la parola del Verbo «per cui tutte le cose sono state fatte», la potenza del Creatore, la luce di una Fede che ci assicura della nostra origine celeste e della nostra mèta celeste. Fermate con la Croce la discesa precipitosa verso l'abisso infernale di questa umanità che dispera, che uccide, che maledice. Rialzate il Cristo crocifisso contro le opere della superbia umana, che usa del genio che Dio le ha dato per creare un progresso micidiale sotto ogni punto di vista. Il mondo va salvato, questo nostro mondo cosiddetto «civile», col saio, la corda, la croce e il sacrificio. Solo in questi è la salvezza. Tutte le altre cose non saranno che fomite a più vaste rovine. Ma dove sono andata a finire? Un po' lontano... Mi scusi. Torno al punto di partenza. Dunque dicevo che il sacerdote mi predicava di non fare nulla, di non esagerare... Ma che esagerare! Sono stati degli esagerati tutti coloro che per amore di Dio hanno messo al loro collo, e alla loro anima, il giogo santo dei tre voti? Ma allora bisogna riformare tutta la storia di 20 secoli di cristianesimo, cancellare molte pagine evangeliche e aumentare di molto le statistiche dei manicomi nella categoria delle «manie religiose»! Cambiai sacerdote andando dal mio vecchio Parroco ora defunto. Avrei preferito un confessore di un ordine monastico, perché ho osservato che tutti gli ordini frateschi dànno sacerdoti zelanti. Ma S. Andrea e S. Antonio erano troppo scomodi per me che dovevo fare confessioni e comunioni di contrabbando... Il vecchio Parroco mi capì, ne sia benedetto, e mi concesse di pronunciare i miei voti e mai, finché fu a S. Paolino, ostacolò il mio andare verso la perfezione. Altri predicozzi vennero da mamma. Eliminati coloro che, giovani e forti, mi avrebbero potuto fare felice ma mi avrebbero levata al suo servizio, mamma si mise in caccia di un vecchiotto molto ricco e disposto a lasciarmi vicino ai miei: «Una casa a due piani», diceva, «in uno te e in uno noi». Eh! infatti sarebbe stata per lei una cuccagna! Ma non per me. Non mi vendo Padre, e non mi avvilisco in legami che ai miei occhi paiono poco dissimili da quelli del vizio. Capisco la santità del matrimonio, quando esso è compiuto per perpetuare la specie, come Dio volle. Ma un matrimonio che per vecchiaia dei coniugi o di uno dei coniugi non può dare speranza di prole mi pare un mercato di carne umana, un vizio velato da una etichetta di virtù. Perciò respinsi il vecchiotto, più anziano di me di 42 anni. Dico: quarantadue. All ora, peggio che mai,


ecco, con l'aiuto di una conoscente, pescare un giovane e ricco avvocato. Era anche bello e buono ma... ma era infelice. Aveva con sé la tara di una di quelle imperfezioni fisiche che sono valide a far sciogliere dalla Chiesa un matrimonio, contratto con inganno di una delle parti. Io di nozze, dopo Mario, non ne volevo sentire parlare assolutamente. Avevo rinunciato a tutto per ottenere la redenzione di Mario per prima cosa, per essere fedele, seconda cosa, per delusione nei riguardi della costanza maschile, terza cosa, e infine, quarta cosa, perché avevo un cuore di donna e non un cuore di vitello che si dà a pezzettini ai merli e agli usignoli... Poi mi ero consacrata a Dio. Ma anche se avessi pensato ancora alle nozze potevo mai unirmi ad un disgraziato che non avrebbe mai potuto avere figli? Ero stata avvertita, da persona credibile, di questa infelicità del giovane avvocato, infelicità confermata in seguito da nozze infelici e sterili. Mi ribellai perciò a questo progettato matrimoio. Le ho già detto che più che all'uomo io pensavo ai figli che da un uomo mi potevano venire: unica cosa che mi rendeva desiderabili le nozze, dopo la perdita di Roberto. Si figuri se potevo aderire al volere materno di un'unione contraria alle leggi della Chiesa, al mio modo di vedere e al buon senso, oltre che alla morale. Quando perciò passai la fede da destra a sinistra, mamma credette che ciò fosse per vergogna d'essere nubile oltre i trent'anni e mi subissò di: «Se mi davi retta e sposavi Tizio, se mi ascoltavi e sposavi Caio!…». La lasciai dire e tenni duro. Le altre prediche vennero dalla gente in genere. Ma io non mi sono mai curata di quello che la gente dice di me. Un po' di bruciore al primo momento, se è insinuazione grave, e poi buona notte! Altra cosa che ho omesso di dirle è l'abitudine che avevo preso di fare la meditazione scritta. Ne ho avuto molto giovamento spirituale. Lo scrivere obbliga la mente a concentrarsi più ancora nel soggetto meditato, dà inoltre il vantaggio di potere rileggere lo scritto nostro in momenti di aridità in cui siamo incapaci di elevazioni spirituali. Se la meditazione è sempre utile, la meditazione scritta è, secondo me, doppiamente utile. Affina dieci volte tanto le capacità meditative e aumenta le luci interne. Anche questo mi attirò rimproveri materni. E che bisogno c'era di nnchiudermi a pregare consumando la luce? Non bastava quella che consumavo per il Circolo, ecc. ecc.? Cosa erano queste esaltazioni? Mi credevo forse un Tommaso d'Aquino?, ecc. ecc. Lasciai dire e continuai nel mio sistema. Scrivevo le mie meditazioni e le lezioni per la gara delle ragazze, perché tutto il lavoro intellettuale era sulle mie spalle. Facevo anche la parte dell'Assistente ecclesiastico, mancante. Monsignor Lazzareschi, allora Assistente ecclesiastico diocesano, mi ci aveva autorizzata. Il pensiero religioso lo facevo sempre su un brano di Vangelo. Per mia propria esperienza sapevo quale forza spirituale viene dalla conoscenza del Vangelo: come un pane e un vino di vita, esso nutre e corrobora l'anima nostra dandole capacità di progredire velocemente nel Bene. Vorrei farne tutti persuasi... Invece la maggioranza dei cattolici osservanti si scervella su libri di ascetica che non capisce e trascura l'altissimo e il semplicissimo Vangelo, comprensibile anche ai più indotti. E leggono, leggono, si imbottiscono la testa di paroloni, si esaltano credendosi dei dottori della Chiesa, trovano il brivido emotivo che li solletica deliziosamente alla superficie e accende un... bengala iridescente ma molto effimero, alla cui luce essi si ammirano con compiacenza e si autodiplomano «anime mistiche,


serafiche, sante...». E poi, chiuso il libro... tutto finisce. Non resta che la superbia di credersi degli eletti già aureolati di gloria celeste... Ma il Vangelo! Il Vangelo così limpido, così profondo, così vasto e così sublime, il Vangelo che è parola rivolta a tutti i figli di Dio, parola del Figlio di Dio ai suoi minori fratelli e che è capito a seconda non della scienza umana che uno possiede ma della scienza soprannaturale, che può essere perfetta in un analfabeta e appena formata in un dotto; ma il Vangelo che è aiuto per il credente che vuole restare in Dio e andare sempre più vicino a Dio! Anche qui lotte e ostacoli. Da parte dei sacerdoti, no. Anzi mi incoraggiavano a continuare. Ma le dirigenti diocesane e le dirigenti parrocchiali mi facevano guerra. Loro erano «le grandi mistiche» alle quali occorrevano i libroni giganti dei giganti della teologia! Buon per loro! Il male è che si dimenticavano delle parole di un librino che diceva: «L'uomo non vive di solo pane ma della parola di Dio»; che diceva: «Guai a voi, dottori della Legge che avete usurpato la chiave della scienza; non siete entrati voi e avete messo impedimento a quelli che entravano»; che diceva: «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio, perché Dio gli dà lo spirito senza misura»; che diceva: «Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato ha la vita eterna»; che diceva: «Chi parla di sua autorità cerca la propria gloria: solo chi cerca la gloria di Chi l'ha mandato è degno di fede e in lui non v e ingiustizia». Si dimenticavano di queste parole, scritte nel librino che loro non volevano leggere, immerse come erano negli enormi libro. Ma se le avessero avute presenti, quelle parole del Verbo, non avrebbero impedito a me di dare questo pane di vita vera alle mie figlioline, né alle mie figlioline di cibarsene. Il pane è l'alimento più semplice, più antico, più necessario all'uomo, e la parola di Dio, detta dalla stessa Parola del Padre, è l'alimento-base per nutrire le anime affamate di cibo spirituale. Perché volere impedire che le mie figlioline udissero la Parola che è vita e che, se è corroborata dalla fede, è fonte di vita eterna? Per ostacolarmi si avanzava il pretesto che io, non essendo sacerdote, non potevo intendere e spiegare il Vangelo. Ma non tenevano presente, costoro, che lo Spirito di Dio soffia dove vuole e che la Volontà di Dio può mandare chi gli pare a sostituire il «sale divenuto insipido», perché le creature non restino senza la sua Parola. Io ero l'ultima di tutti, io Maria Valtorta creatura umana; ma io, parlante per volere di Dio ai più ignoranti di me, ero qualcosa perché Dio mi concedeva lo Spirito senza misura vedendo la mia retta intenzione, che era quella di far conoscere la sua Parola e portare a Lui dei cuori giovinetti. Non parlavo, no, per mia gloria umana ne per conquista di un potere più alto. Parlavo solo per dare gloria a Dio, aumentando il suo gregge e aumentando nel suo gregge la conoscenza del Pastore. Non davo scalata a cariche, che solo seducono coloro che vivono per la gloriuzza umana. Come Giovanni nel deserto, ero solo una Voce, una Voce che gridava in nome di Dio perché le anime si svegliassero alla vera Vita. E mi bastava di essere una Voce, ossia una cosa tutta spirituale che si forma, si alza e consuma senza ambizioni né retropensieri umani, che sale come fumo di incenso da un turibolo ardente per consumarsi beata divenendo profumo di lode all'Eterno. Ma «i dottori» della Diocesi e dell'Associazione, quelle cioè che vivevano enfiate dall'orgoglio della carica - ah! come dolce al loro cuore! - avevano paura che io, col mio apostolato, mirassi a privarle della loro autorità


che era il loro tesoro, il tesoro dove era a guardia il loro cuore... Il mio cuore era a guardia del piccolo gregge che Dio mi aveva dato e che ho portato, finché fu meco, ai pascoli sani senza che neppur una di esse perisse, e che ora, mentre il pastore è malato, ancora non si perde, perché per le mie pecore ho offerto la vita e nessuna di coloro che Dio mi ha affidata è perita fuorché la figlia di perdizione, poiché ogni maestro deve conoscere l'amarezza del Maestro che vide perire un discepolo... Ma anche questa spero salvarla ancora, perché ancora tanto ho da patire, ancora tanto ho da morire prima di rinascere eterna in Dio. Certo, questi «dottori» che volevano mettere un bavaglio alla Voce che parlava di Dio, per una paura tutta umana, se avessero capito e ricordato le parole del Verbo non avrebbero messo impedimento al mio dire... Ma, come non mi mettevano più bavaglio né catena le brontolate di mamma, così non mi mettevano paura i «veti» delle «dirigenti». Mi bastava l'approvazione della coscienza e quella dei sacerdoti. Del resto non mi curavo, nonostante questo «resto» mi fosse propinato sotto forma di una guerriglia vergognosa a base di calunnie, di sgarbi, di piccinerie di ogni sorta... Ma ne ringrazio Iddio. Questo ha fatto si che nessuna dolcezza umana si mescolasse alla dolcezza sovrannaturale dell'apostolato fatto unicamente per amore di Dio, dolcezza dello spirito che, mentre viene vilipeso, tormentato l'apostolo, esulta perché riconosce in quella persecuzione il segno che lo consacra... La lotta e la persecuzione sono il sigillo che contraddistingue sempre colui che è sulla retta via, perché il mondo odia, più di ogni cosa, colui che agisce bene. Infatti per i meno buoni quell'agire nel bene è rimprovero muto ma potente... e chi rimprovera è sempre odiato. Ed ora che ho riparato alle lacune vado avanti in questo povero capitolo che fin dalla sorgente si è smarrito in mille rigagnoli... Dunque scrissi alla Visitazione di Como per avere gli scritti di Suor Benigna. Mi giunsero in Quaresima, mi pare. Certo era primavera. Leggendo quegli scritti ho riconosciuto che realmente io avevo avuto uguali pensieri e, sapendo che quelle frasi erano state dettate da Gesù, me ne commossi fino al pianto. Dunque io, povera creatura, avevo potuto nel mio amore trovare espressioni e pensieri simili a quelli del mio Salvatore? Egli era tanto in me, operante in me, da farmi dire le stesse cose che Egli aveva dette alla sua Benigna per dare alle anime un nuovo mezzo di santificazione e una nuova prova del suo amore? Anche ora, quando senza accorgermi scrivo una lettera o parlo dicendo il mio pensiero e poi ritrovo quel pensiero quasi uguale in una frase del Vademecum della Visitandina, io tremo di gioia. Delle volte mi astengo per dei mesi da leggere quegli scritti per non essere suggestionata senza volerlo... ma poi mi arrendo perché, anche a distanza di mesi e mesi, io ho sempre una somiglianza viva con questi pensieri. E da questo ne traggo una conclusione. Se tre anime vissute in paesi e in modi diversi come siamo Teresina, Benigna ed io, abbiamo le stesse espressioni, è segno che quando Dio occupa di sé totalmente un cuore dà ad esso gli stessi sentimenti. Scintille della sua Carità provenienti da un'unica fonte ma sgorganti da tre canali diversi di merito - e fra questi il mio è il più rudimentale e difettoso - esse hanno la stessa luce. Note dello stesso poema d'amore, esse hanno lo stesso suono sebbene uno dei tre strumenti, il mio, sia suonato da una creatura ancora così lontana dalla perfezione. Prima avevo una amica nel Piccolo Fiore. Ora ne avevo due poiché


anche Benigna è divenuta una celeste amica per me. Fra mezzo a loro, grandi vittime, io procedo sicura nel mio cammino che è un Calvario. Esse mi incuorano e mi sorridono e mi indicano una Luce sempre più vicina... In essa si nasconde il mio Gesù. Quando, a sacrificio consumato, Egli mostrerà chiaramente il suo Volto, che ora mi appare appena fra le cortine di fulgori che lo velano, alla sua piccola ostia, allora io morirò in un soprassalto di gioia... Seguendo il mio metodo, mi affidai al Signore perché mi dicesse Lui quando era il momento propizio per questa più severa offerta. Non le nego che la cosa mi dava pensieri contrastanti. L'animo era portato a compierla perché sentivo per santa ispirazione, e lo sentivo da tempo, che anche la Giustizia ha bisogno di vittime per essere disarmata. Questo disgraziato mondo accumula sempre più le colpe alle colpe, le offese alle offese. Coloro che riflettono si stupiscono che un castigo totale non venga a punire questa razza umana sempre più iniqua e stolta. Donde la necessità di sacrifici per placare Iddio. Questo lo capivo da anni e sempre più lo capisco. Ma se la mia parte migliore anelava ad immolarsi alla Giustizia del Padre per pietà dei suoi disgraziati fratelli, così protervi e blasfemi, la mia umanità titubava. Avevo presente quello che dice S. Teresa del B. G.: «…Se vi offriste alla Divina Giustizia, dovreste aver paura...». Infatti, fino a quel momento l'Amore misericordioso mi aveva usato misericordia e mi aveva trattata con dolcezza, considerando la mia debolezza. Non mi aveva risparmiato il dolore ma me lo aveva dato, durante questi cinque ùltimi anni - ché da tanto durava la mia offerta all'Amore - sempre accompagnato da soprannaturali aiuti che mi erano preziosi per sopportarlo. Vero è che l'amore stesso, quando raggiunge certi culmini, è di per sé una sofferenza. Non lo dice per nulla l'atto d'offerta: «... ti supplico di consumarmi continuamente lasciando traboccare nell'anima mia le onde di tenerezza infinita che sono racchiuse in Te, e così io divenga martire del tuo amore, o mio Dio!». Ed io questo dolce martirio lo subivo da anni... con momenti ditale incandescenza che credo di non errare dicendo essere stati una delle cause prime della dilatazione cardiaca e della lesione interna. Come un vaso troppo sigillato e portato all'ebollizione aumenta per la legge fisica della dilatazione dei corpi il suo volume e, non bastando questo ad alleggerire la pressione, esplode, altrettanto in me il cuore, dopo essersi dilatato sotto i palpiti accesi dell'amore - oh! ben più atti a sfiancare le pareti cardiache di qualsiasi naturale miocardite - era esploso nel suo interno dove, a detta dei medici, i fasci nervosi sono tutti spezzati. I signori medici non hanno mai potuto capire come ciò sia avvenuto in una creatura dalla vita regolata e sana come la mia... ma se avessero guardato in alto, verso regioni soprannaturali, avrebbero compreso il perché di questo mio male speciale, diverso da tutte le altre forme cardiache, definito da loro con mille nomi, perché ha i caratteri di tutti i mali e insieme manca di alcuni caratteri essenziali delle cardiopatie vere e proprie e tutte naturali... Se sapesse cosa mi costa parlare di queste cose così intime, vere tenerezze nuziali avvenute fra l'anima e il Cristo nel segreto del talamo più sacro… Ma andiamo pure avanti! Le ho detto tutto il male fatto dalla povera Maria, ora le devo dire tutto il bene fatto da Gesù in Maria. Messa di fronte al pensiero di questa seconda offerta, io titubavo con la mia parte inferiore. Sentivo che su me si sarebbe abbattuto il rigore di Dio, perché avevo già constatato che il buon Dio faceva tutto il suo


comodo con me, senza risparmiarmi, se aveva bisogno di qualcosa per le anime. Uh! cosa ho detto! Se certuni leggessero direbbero che ho bestemmiato... «Dio avere bisogno di una creatura! Ma costei è pazza!», direbbero così, al minimo. Ma è così. Dio che può tutto è tanto Padre, è tanto Bontà, è tanto Condiscendenza che vuole chinarsi a chiedere ai suoi piccoli figli il piacere di aiutarlo... Anche i papà della terra fanno così, pur avendone più impiccio che aiuto... ma dicono ai loro bimbi: aiutami a portare questo, a tenere quello... Che orgoglio, allora, nel piccino che ha aiutato il papà che senza il suo aiuto non avrebbe potuto fare nulla!... Il buon Dio fa ugualmente. Ci chiama e ci dice: «Senti, bimba mia, ho bisogno di te per quel peccatore, aiutami a far fruttificare la predica di questo mio ministro, unisciti a me per dare speranza a questo disperato, vieni, vieni, che insieme strappiamo questo agonizzante al demonio». Oh! che soddisfazione soave, che santo orgoglio scende allora in noi pensando che abbiamo aiutato il divino Padre, che ci dice: «grazie» dai Cieli... Sono arrivata al punto di stare bene solo quando sento che Dio attinge continuamente in me per delle povere anime che conoscerò solo in Paradiso. E il mio pozzo si riempie solo in grazia di sempre maggior dolore. Più soffro e più mi sento colma e più il buon Dio può attingere, attingere per irrigare le anime languenti. La mia vita si esaurisce così, perché questa sorgente d'acqua soprannaturale al servizio di Dio e del prossimo si alimenta della mia vita terrena e la aspira goccia a goccia... Ma cosa può desiderare di più bello una stilla di rugiada che non sia di brillare un'ora dei folgoranti raggi solari, dissetando un fiore sitibondo, e poi ascendere al Sole stesso, aspirata dal suo ardore? Io, povera umile rugiada, mi lascio spargere sulle anime sitibonde da Colui che regola le piogge, le maree, i venti e gli astri, brillo sotto al suo Raggio, brillo per merito di quel Raggio, e poi muoio... Ossia no: poi ascendo a Lui, al mio Sole che dal profondo abisso dei Cieli aspira la sua povera gocciolina spersa nell'abisso della Terra, innamorata di Lui, desiosa di superare in un volo supremo la distanza che divide i due abissi lanciando, ultimo lavoro della sua vita, un mistico ponte fra terra e cielo e chiedendo al suo Sole che su questo ponte, frutto del supremo olocausto, salgano infinite schiere di anime per popolare il bel Paradiso... Mi rimisi dunque a Dio pregando: «Tu che comandasti ai venti e alle onde, comanda a me stessa quando sarà l'ora...». Intanto io mi preparavo con una vita sempre più pura e mortificata. Le penitenze avevano già una grande attrazione per me. A quelle che dovevo patire per conto di altri - e può credere che non mi mancavano: bastavano mia madre e le dirigenti per mantenermi sempre sulla mia mensa il pane della penitenza... - compivo delle penitenze spontanee. So che certi direttori non le approvano. Dicono che è più meritorio accettare, con letizia, o sommissione se non siamo tanto superiori da soffrire con letizia, quel che ci viene di penoso ora per ora. E vero. Ciò è grande a sufficienza. Ma quando Dio vuole di più bisogna dargli di più, perché Dio è un divino prepotente, l'ho già detto. Da me voleva il di più. E glielo davo. Nel settembre vi furono le elezioni all'Associazione. Ero stata avvisata che, per volere ecclesiastico, io dovevo divenire la Presidente. Non ne ero per niente entusiasta. Preferivo rimanere semplicemente la «Voce» che parlava di Dio, il canoro uccellino che canta le laudi del suo Creatore. Ma mi rassegnavo pensando che l'essèr Presidente avrebbe potuto giovare di più alle mie


figlioline, molto male condotte da dirigenti che di perfetto avevano solo l'orgoglio. Ma... nulla di nuovo sotto la faccia del sole! Le elezioni, in miniatura, dell'Associazione furono simili alle elezioni in grande formato delle Nazioni... Avvennero corrompendo le anime semplici, imponendo prepotentemente un nome in luogo di rispettare la libertà di voto, ecc. ecc. Seppi poi tutto questo retroscena, non onorevole per chi l'aveva commesso ma per me molto bene accetto perché, lo ripeto, l'esser Presidente non mi seduceva per niente. L'allora Presidente Diocesana, una delle più accanite contro l'umile «Voce» che chiedeva solo di ripetere le parole del Verbo, una delle più invidiose, perché stoltamente pensava che io aspirassi a divenire dirigente diocesana, si era alleata una, anzi due dirigenti di Associazione, quelle due più smaniose di divenire «Presidenti». Capirà: Presidenti di un'Associazione!!! Dice nulla Lei? Siamo sulla via del... «capopopolo»! Morale: la presidenza a una delle due accolite, la vice-presidenza all'altra; a me, solo perché fui voluta in quella missione dai sacerdoti, la... grazia di continuare ad essere «Voce». Dopo, le circoline mi narrarono tutte le arti usate per riuscire con frode all'intento di, potendolo, defenestrarmi e disgustarmi. Addolorarmi sì, perché vedere la bassezza umana mi ha sempre addolorata. Ma per disgustarmi al punto di allontanarmi ci voleva ben altro! Io non lavoravo per me, ma lavoravo per amore di Colui che in quel piccolo gregge mi aveva mandata. E quando uno sa per Chi lavora ha già, in questo conoscimento, il suo premio, il suo premio di quaggiù. Il premio perfetto lo attende poi nel bel Regno dei Cieli, perché se Gesù ha promesso il Regno a coloro che sfamano gli affamati e dissetano coloro che hanno sete, vestono gli ignudi e visitano gli infermi e vanno a visitare i prigioni in suo nome, che non darà il Re celeste a coloro che hanno spezzato il pane della sua Parola a quelli che avevano l'anima affamata, che liberarono i prigioni - non solo li visitarono, ma li liberarono - mettendo nelle loro mani la chiave che apre tutti i serramenti del peccato, che rivestirono gli spiriti ignudi della luce del conoscimento di Dio e li curarono, se malati nel cuore, con la medicina sublime della Legge, e infine diedero sé stessi per bevanda, offrendosi olocausto per i fratelli miserelli? Oh! come allora risuonerà dolce, per coloro che si sono affaticati per Lui, la sua frase di benvenuto: «Venite, o benedetti, possedete il regno!». Di udire questa parola come sono desiosa! Ma come tremerei pensando alla morte se, avendo agito ipocritamente, pensassi ormai prossimo ad esser scoperto il vero su me e temessi che la voce tonante di Cristo potesse ripetere il tremendo: «Guai a voi, ipocriti, simili a sepolcri imbiancati che al di fuori, agli occhi della gente, apparite giusti, ma dentro siete pieni di iniquità!». Mia mamma, semi-paganella come è, e non lei sola, mi disse: «Ma pianta lì tutto. Non ti meritano!». Ma io non lavoravo per averne un merito terreno né per averne umane affezioni. Il mio scopo era in cielo e lavoravo per il cielo. Continuai perciò la mia opera di coltura, la aumentai anzi, perché persuasi il Parroco a lasciarmi tenere conferenze per chiunque volesse venire. Conferenze senza biglietto d'ingresso, naturalmente, perché se le persone si vanno a toccare nella borsa, ahi, ahi! che dolore! Specie se sono denari richiesti per opere buone. Fosse una stoffa, un rossetto, un pasticcino, uno spettacolo... eh! duole meno! Ma spendere per l'anima? Ohibò! Io pensavo così: «In chiesa, alle prediche, vanno sempre e solo coloro che, più o meno


bene, sono già nel sentiero di Dio. Ma coloro che vivono fuori di questo sentiero, e che perciò hanno più di tutti bisogno di esserci condotti, in chiesa non vanno mai. Perché non rivolgersi a questi e sotto la veste di un trattenimento, che ha il raro pregio d'esser concesso gratis, non far loro balenare alla vista una scintilla della luce divina?». L'antica vocazione d'esser «Paolina» era sempre viva nel mio cuore. Cominciai dunque. Pensi che ero e sono timidissima, benché non sembri. In collegio scrivevo i temi accademici ma li leggeva un'altra. In ospedale non parlavo altro che coi feriti che mi parevano bimbi. Se venivano visitatori più o meno illustri correvo a nascondermi nel reparto «Isolamento»: là non ci veniva nessuno. In albergo stavo sempre con Memmo, schivando il più possibile le conversazioni. La timidezza è stata una penosa malattia per me, una vera sofferenza. Ma per Gesù divenni anche spigliata al punto di parlare in pubblico. Dal mio tavolo parlavo guardando il mio Crocifisso, quello che ora è a capo del letto, o un Sacro Cuore che avevo di fronte. Parlavo a Lui, non vedevo che Lui... la gente per me era scomparsa... La prima volta il tema era: «A. C., suoi scopi, suoi frutti». Parlai a cinque persone. Meno di così... Circoline e dirigenti, meno due, tutte assenti. La seconda volta il tema era: «Natale nordico e Natale cristiano». Dodici persone e una diecina di associate più un sacerdote. La terza volta il tema era: «Fra rose e gigli nella Roma imperiale». Ventitré persone e trentatré associate più un sacerdote, il quale scoperse un giochetto della Presidente la quale, sull'uscio del locale, respingeva le persone che volevano entrare... Passò un brutto quarto d'ora l'incorreggibile Presidente! La quarta: «Figure muliebri nella luce della Chiesa: Caterina da Siena, Stefana Quinzani, Bartolomea Capitanio». Quaranta persone, due sacerdoti, un professore di Pisa, l'associazione quasi al completo e molte di altre associazioni cittadine. La quinta: «Nel centenario del Concilio d'Efeso». Sala al completo fin nella tribuna. Non le dico questo per gloria umana. Lo dico solo per mostrarle che il bisogno di sentire parlare di Dio è vivo anche fra i non praticanti. Perché il mio pubblico era quasi tutto di questi e, con riconoscenza a Dio, le dico che molti li ho visti poi tornare alla chiesa, da anni abbandonata. Ma che guerriglia dovevo sostenere! E che lavoro! Dovevo scrivere gli inviti, dovevo applicare i manifesti alle porte della chiesa, dovevo preparare la sala. Thtto io. Poi, naturalmente, dovevo preparare la conferenza. Ma per Gesù si fa questo e altro. L'anno sociale 1930-1931 la gara era sulla morale cristiana. Bellissima gara! Quanto c'era da dire! Quanto era bene che si sapesse cosa è la morale e specie la morale cristiana! Me ne occupai intensamente. Gli esami furono un vero successo. Quelli di A. C. Diocesani non sapevano chi scegliere per l'esame di diocesi perché i 10 erano numerosi in tutte le sezioni. Dovettero estrarre a sorte le destinate all'esame diocesano. Io premiai i voti massimi con un viaggio a Pisa per le visite ai monumenti. Avevo, durante un anno, a costo di mille sacrifici, messo da parte la somma per questa gita per le mie figliette. Fu una magnifica giornata di cui ancora esse si ricordano, e tanto più magnifica perché mai ne avevo parlato e perciò la sorpresa fu infinita. Le creature devono fare il dovere per il dovere e poi, a chi di dovere, il premiarle. Non le pare? Intanto che lavoravo così, una smania strana mi andava crescendo in cuore. Con gli inizi del 1931 sentivo un che, come se qualcosa mi avvertisse che un pericolo sovrastava.


Quale pericolo? Su che precisamente? Mah! Non mio particolare, non di famiglia. Un pericolo generale, ne ero persuasa. E con questa persuasione un desiderio di operare per arrestarlo. Ma come si può arrestare un pericolo che viene da cose molto più grandi di noi? Solo con l'aiuto di Dio. E dato che sentivo essere un grande, grandissimo pericolo quello che si avvicinava, sentivo anche che bisognava offrire a Dio una grande, grandissima messe di opere. La preghiera non bastava. Occorreva il sacrificio. Ho sempre notato, nel movimento di A. C., una grande tendenza alle cosiddette «crociate». Crociata di purezza, crociata di carità, crociata di umiltà... tutte bellissime cose, per quanto, perché diano buon frutto, non basti bandirle per pochi mesi. «Non si diviene sommi d'improvviso» dice S. Bernardo. Non si acquista una virtù in quattro e quattro otto, dico io. Bisogna insistere molto tempo su essa prima di passare ad un'altra. Se no si fa un arruffio simile a quello di un improvvisato agricoltore che semina a casaccio un po' di tutto, mescolando piante precoci a piante lente a crescere, piante fronzute a pianticelle esili, col risultato di vedere morire soffocate queste o di estirpare quelle, sbarbando dal suolo le già complete. L'ordine ci vuole anche nel bene perché ogni fretta, ogni disordine è già di suo un male. Però fra le infinite crociate ho sempre notato che ne veniva omessa una: quella di sacrificio. Perché non parlare mai alle anime del potere, oltre che della bellezza, del sacrificio? Noi cristiani abbiamo per Iddio uno che sacrificò Sé stesso e che disse: «Nessun discepolo è da più del Maestro. Se voi farete ciò che Io ho fatto prima di voi, allora sarete miei amici». E allora perché questa paura nera del dolore fra noi cristiani? Perché esigiamo che sia solo Gesù il sacrificato e noi si sia esenti dal sacrificio? Osservi bene, Padre, il 90 per 100 dei cattolici. E parlo dei cattolici praticanti. Seguono la religione fino alla frequenza dei sacramenti, delle Messe, dei rosari, all'osservanza delle astinenze e dei digiuni (questo già molto meno) e poi... basta. La preghiera delle preghiere, tramutata in azione, non c'è. Ci si ferma al: «Venga il Regno tuo», poi si riprende al: «Dacci il nostro pane quotidiano (col sotto pensiero, che non è detto ma è sentito più di quello che diciamo: ma mettici insieme molto companatico), rimetti i nostri debiti e non ci indurre in tentazione». La Volontà del Padre non la si nomina che a denti levati. Non si sa mai! Fare certe richieste! E poi se il Padre si sovviene di qualche volontà penosa per noi? E i debiti del prossimo? No, no, se li paghi! Ci vuole altro! E così pure la faccenda del benessere: macché pane solo! Molto, molto companatico, molto, molto benessere: salute ottima, affari prosperi, portafoglio colmo, oh! così va bene. E o non è così? É così, purtroppo. Il cristiano, redento da un Dio morto sulla croce, recalcitra al dolore, qualunque esso sia. Non vede la bellezza del dolore, la potenza del dolore, la deificazione che ci dà il dolore. Io per mio conto ho notato che se prego un mese come una macchina, spossandomi testa e stomaco, molto di frequente non ottengo nulla. Questi pensieri mi assillavano al punto che compresi esser l'ora di compiere l'offerta severa alla Giustizia divina. Ma siccome capivo la mia nullezza volevo aver l'aiuto di molti, molti altri. Occorreva un vero tesoro di sacrifici per impedire quello che già si formava alle soglie del futuro. Scrissi allora alla mia amica di A. C. cremonese per dirle quanto sentivo e terminavo così: «Tu che sei tanto influente e in contatto con delle vere potenze cattoliche, fatti portatrice di questo mio desiderio che


mi viene da Dio. La nostra stampa, trascurando altre cose meno importanti, parli della bellezza del sacrificio e dei frutti che esso può dare. Confido che la nostra giovinezza, sempre pronta agli slanci verso il bene, si entusiasmi per questa arma potente che Gesù usò per il primo dandoci l'esempio, e una fioritura di segreti olocausti lavi il mondo corrotto da germi perniciosi come il sangue dei martiri lavò l'onta del paganesimo dal suolo di Roma, facendo dell'Urbe di Cesare l'Urbe di Dio». Mi rispose con una bella lettera. Bella per stile e per diplomazia. Oh! sì! molto diplomatico quello scritto! Un capolavoro! Ma sotto il velluto della diplomazia scappava fuori una patente di... pazzia. Per me, s'intende! «Ammiro il tuo modo di pensare, ma ti faccio osservare che la prudenza è la virtù dei santi e la tua proposta esula dalla prudenza. Perciò mi guardo bene dal presentarla al Consiglio Centrale. Tu fa' come vuoi, se ti pare di potere osare tanto, ma io trovo che tu esageri perché ecc. ecc. ecc. ecc.». Modo di vedere? Modo di agire, doveva dire. Perché io non proponevo: facevo. Risposi: «Se la prudenza è la virtù dei santi, la santa audacia è la virtù dei martiri, i quali hanno doppia corona perché santi e perché martiri. Se ai primi secoli la Chiesa non fosse stata ricolma di questi santi, imprudenti ma audaci, sarebbe tuttora nelle catacombe. Non vedo d'altronde dove sia l'imprudenza nel parlare del sacrificio. Si parla pure della crocifissione di Cristo! E non dovremmo incitare la milizia laica della Chiesa ad imitare Cristo? Perché allora permettere la lettura di certi libri di ascetica e di certe agiografie che montano, con effimeri entusiasmi, le testoline delle nostre socie? Non ti pare che sia peggio concedere loro di meditare su libri talmente alti da essere astrusi ai non teologi col frutto di mettere idee storte nei cervelli, se anche non vere paranoie mistiche? Attenta, Gma, che dici non esservi nulla che giustifichi un intensificarsi di immolazioni perché tutto è quieto e mai come ora la Chiesa trionfa (era il 1931: 2 anni dopo il Patto Lateranense). Attenta, che presto tu non ti debba amaramente ricredere!». Scrivevo questo ai primi di maggio 1931. Al 31 maggio vi fu la soppressione dei circoli giovanili di A. C. Primo atto della tragedia attuale, perché, se Lei osserva, cominciò con questo l'offuscamento della vera luce nella mente di chi è a capo di noi, poveri infelici... Il giorno avanti, domenica, io avevo parlato della Vergine, celebrando il 15° centenario del Concilio d'Efeso, e avevo terminato invocando la protezione di Maria sulle folle in balia degli egoismi e degli strapoteri dei capi... Oh! ma ora le racconto delle belle scenette. Scenette che mi fanno toccare con mano che nell'ora del pericolo i discepoli sono sempre uguali a quelli di 20 secoli fa. Ero in casa quella mattina e lucidavo vigorosamente i mobili, nonostante andassi sempre peggio col mio male di cuore. Sento suonare. Vado ad aprire. Mi si precipitano in casa tutte le dirigenti. Parevano un branco di galline spaventate e schiamazzanti. «Ci arrestano!», «La persecuzione!», «Le guardie!», «Ci uccidono!», «Ohimé! », «Misericordia!», «Io scappo!», «Io vado a letto!». Non ci capivo nulla. Dissi: «Silenzio! Parli una sola ché non capisco niente!». Mi narrarono allora che erano venute a chiamare la Presidente (la quale era li livida come un coleroso) perché al Circolo c'erano gli agenti di Pubblica Sicurezza. Dal mattino erano sciolti i circoli e si doveva consegnare tutto. Andassi io, facessi io. Ah! Ah! In quel momento ero io che dovevo fare tutto! La «Presidente», quella che aveva fatto la parte di Giuda per essere la


«Presidente», quella che in tutti i modi mi aveva ostacolata durante tutto l'anno e mi aveva sbeffeggiata, denigrata, schiacciata come si schiaccia un verme, ora si affannava a dire: «Già io li dentro non ero nulla. Era lei che parlava, lei che dirigeva. Se c'è una che deve rispondere agli agenti (veda: se c’è una che deve andare in galera) è lei. Io ora vado a letto. Ho la colica». «Va bene», risposi. «Lei vada anche nella luna. Al Circolo vado io. Non ho paura». E siccome un po' dilatino in certi casi fa bene, la inchiodai al muro con un poco di quel «latinorum» che dava tanto ai nervi a Renzo Tramaglino. Di tutto il gruppo delle dirigenti, 13 persone più io, restammo io e altre tre. Come nell'Orto degli Ulivi! Al Circolo gli agenti furono cortesissimi. Mi dissero che loro non ritiravano nulla, ma entro sera io avrei portato in questura verbali e bandiera. Le mie conferenze non occorrevano. Erano state sentite da persone che le avevano giudicate immuni da ogni tara. Ahi! povera Presidente che voleva fare di me il capro espiatorio e invece era presa di mira lei!!! Alla sera, insieme a due dei discepoli fedeli, andai alla Questura. Una portava lo scatolone della bandiera, l'altra i verbali. Io niente. Il... generale porta solo il suo cervello! Un agente ci venne incontro mentre tanti altri, agenti e non agenti, ci guardavano come bestie rare. Voleva gli consegnassi tutto. «Prego», dissi, «consegnerò tutto solo al delegato e previa consegna di regolare ricevuta». In certi casi, e quando le teste bollono, ci vuole molta regolarità... Non si sa mai! «Ma il delegato è occupato». «Aspetterò». «Salga». Salimmo. L'agente davanti, io dietro, ultime le mie... due scudiere. Una lunga attesa. Infine l'agente, stanco di aspettare, vedendo che io non mollavo, bussò alla porta del Questore. «Chi è?». «C'è la Signora di Lourdes che vuole consegnare una bandiera, ma vuole la ricevuta». nell'Orto degli Ulivi, dove Gesù rimase con Pietro, Giovanni e Giacomo di Zebedeo (Matteo 26, 36-37; Marco 14, 32-33). Signora di Lourdes, poiché il Circolo si intitolava a "Nostra Signora di Lourdes", come si legge a p. 242. La Signora di Lourdes! Mi inchinai a me stessa! Le mie... scudiere mi guardarono con occhi più tondi di un bicchiere. «Passi». Passai. «Lei è la Signora di Lourdes?». «Precisamente». M'era venuta voglia di dire come Ferravilla: «Sono me!». «Dia qua tutto». Le... mie scudiere deposero tutto sulla scrivania. Il delegato aveva cominciato a scrivere: «Dichiaro ricevere una bandiera e sei fascicoli di verbali da... mi dica il nome». E io impertùrbabile: «Maria». verbali da Maria di Lourdes. Firmato ecc. ecc.». Uscii gloriosa e trionfante. Capirà: ero entrata là, povera donnetta a nome Maria Valtorta, e ne uscivo Maria di Lourdes... Le mie compagne ridevano. Ma non ridevo io, in fondo. A parte il titolo più che onorifico che era quasi una carezza di Maria alla serva del Figlio suo, per quanto mi fosse stato applicato da un ignorante in materia, ero molto addolorata. Meno superficiale di tanti, vedevo il volto vero della improvvisa levata di scudi contro la «mansueta greggia di Cristo» e ne tremavo. Non per me ma per tutti. Guai quando si comincia a fare un passo falso! E quel giorno, molto in alto, si faceva il primo... Stabilii di accorciare le distanze. Avevo prefisso di fare la mia offerta alla Giustizia divina l'8 di settembre per avere a Patrona in quel voto di sofferenza la Vergine Santa. Ma ora non era più cosa da rimandare. Il segno era venuto. Chiesi a Dio di ispirarmi Lui stesso la formola. Dopo pochi giorni era il 1° venerdì del mese di giugno. Alla messa, in mezzo alle circoline, ebbi una vera ora di agonia di sangue... Ho visto


intellettualmente tutto quello che doveva venire in futuro: guerre, fame, morti, stragi... e disperazioni a non finire. Che soffrire! Io, che non piango mai in pubblico, piangevo così ampiamente che ero come accecata. Finita la messa, dovettero aiutarmi ad uscire perché non vedevo nulla, tanto era copioso il pianto... Le compagne, le più buone, mi chiesero che avevo... Dissi loro quello che avevo, pur velandolo, sotto un pudico riserbo, di certi particolari. Dopo pochi giorni sentii sbocciarmi in cuore l'atto d'offerta così come l'ho scritto e pronunciato il 1° luglio: festa del Preziosissimo Sangue. Quale giorno più bello potevo scegliere per unirmi alla Vittima il cui Sangue divino sgorgò tutto per placare la giustizia del Padre? E quale nome più bello potevo scegliere per me, da quel momento, più bello di «Maria della Croce»? Colei che un ignorante aveva chiamato Maria di Lourdes poteva anche dirsi Maria della Croce. La Croce era il mio amore e la volevo per mio altare. La croce era la compagna della mia vita fin dall'infanzia e ora, spronata da un pungolo soprannaturale, chiedevo la grande Croce per esservi immolata. A me dunque il nome che mi si conveniva e che sarà il mio nome davanti agli occhi di Dio finché io viva ed oltre... Subito dopo essermi offerta al martirio dell'amore si unì un martirio di sofferenza, acuita nella carne e accresciuta nello spirito da un rigore che mi pareva pesare su me. Mi spiego o tento spiegarmi. Non che mi sentissi abbandonata da Dio. No. Il suo amore era sempre su me. Ma se Gesù mi carezzava, il Padre mi appesantiva la sua mano sul cuore. É incominciato allora un periodo di serrata penitenza. Tutto quanto costituiva il sensibile nell'amore soprannaturale scomparve. Intendo alludere ai dolci sogni che da anni erano la mia gioia, intendo dire quella sicurezza che la pietà di Dio ci avrebbe risparmiato quanto stiamo passando ora. Era venuta subito, e piena e oscura, l'ora del Getsemani... ed è durata, potrei dire, dieci lunghi anni, perché solo dal 1941 la sua rigorosità si è addolcita. Non creda che abbia provato aridità di cuore. No. Mai. Come mai sono rimasta senza il conforto dell'amore di Cristo. Ma ho sofferto intensamente e nel morale per la percezione esatta di quanto stava per accadere nel mondo... Ho pianto tutte le mie lacrime per questo. Ho tanto pianto, scongiurando l'Eterno ad allontanare questo tremendo flagello, mortificando con aspre penitenze me stessa per placare, placare, placare la Giustizia divina, che quando il flagello è venuto, e tutti hanno più o meno perduto la testa, io non ho avuto più una lacrima. Mi ero già torturata in anticipo vedendo tutto lo svolgersi della tremenda tragedia... Ho sofferto nel fisico con uno scatenarsi di mali uno più tremendo dell'altro, e non è ancora finita la serie... Tutti i dolori ho provato nel mio corpo divenuto un compendio di infermità! E, quel che è peggio, questi mali non hanno lasciato immune la parte spirituale, ma l'hanno turbata con uno scatenarsi di sensazioni che per sé sole sono un martirio... Ma dirò a suo tempo. Certo che la Giustizia non mi ha risparmiata in nessuna maniera. E lo vedrà anche Lei. Intanto le crisi cardiache spesseggiavano. Ad esse si aggiungeva uno squilibrio nel camminare e nel reggermi ritta, per cui l'andare sola era una vera fatica. Se ero prossima ai muri ancora andavo con una discreta sicurezza, perché ogni tanto mi appoggiavo ai muri stessi, mi aggrappavo alle grondaie ecc. ecc. Ma nei posti vasti vacillavo e dovevo arrestarmi ad occhi chiusi per riprendere l'equilibrio. Un equilibrio per modo di dire, però, perché piegavo verso destra. Ero già in cura da un anno. In


principio si curò l'esaurimento nervoso. Quale esaurimento se io dormivo placida le mie notti intere, se avevo una memoria di ferro e una resistenza mentale a tutta prova, senza avvertire il menomo disturbo di stanchezza intellettuale? Mah! Dopo avermi imbottita di glicerofosfati, vedendo che andavo peggio, via i glicerofosfati. Troppo sangue e troppo grosso. Perciò ioduri e iodati per assottigliare il sangue. Peggio che mai. Allora via tutto e giù con calmanti cardiaci. Via il vino, via il caffè, via la carne. Peggio che andare di notte! Le crisi erano all'ordine, se non del giorno, almeno della settimana, ed erano sempre più forti. Ma, meno io che le provavo, e sapevo che erano una morte ogni volta, nessuno se ne preoccupava. In casa e fuori di casa tutti volevano essere aiutati e serviti da me. E mi fossero stati grati! Ma in casa era il solito trattamento egoista e dispotico. Fuori erano le invidie, così comuni e così deplorevoli in certi ambienti cosiddetti religiosi. Non può credere quante me ne fecero per invidia del mio riuscire! Non la sola Presidente che, dopo la paura durata un'estate, durante la quale era rimasta come una tartaruga intanata nel suo buco e col capo sotto la lorica, ora, a cose rimesse a posto col 4 settembre, era saltata fuori e aveva ripreso baldanza e prepotenza... Ma anche amiche mie del Gruppo Donne. Amiche che mi avevano vista bambina, che mi avevano voluto bene, che mi avevano spronata a fare qualcosa e, ora che facevo, e facevo più di loro, mi buttavano addosso tutta la bava del loro invido livore. Ne ebbi dolore perché ogni amicizia che si spezza mi dà dolore, e dolore mi dà constatare che uno che mi pareva buono si svela cattivo. Ma continuai lo stesso il mio lavoro. Nonostante tutto, ripresi le conferenze oltre il lavoro di circolo. La prima su S. Elisabetta di Ungheria. Vi andai tutta piegata dal tremendo dolore spinale. La seconda sul mio serafico padre S. Francesco d'Assisi. E quel giorno ho visto il mio angelo custode. Il mio gran soffrire di ieri sera mi ha fatto sospendere il mio dire. Stamane, prima di ricominciare, ho riletto quanto ho scritto in questo capitolo e ho visto che mi sono spiegata molto male, in maniera da indurla in errore. Ho scritto: «Non sono mai rimasta senza il conforto dell'amore di Cristo». Ciò potrebbe far pensare che ho continuato a godere delle sue carezze. Cosa in contrasto con quello detto poche righe avanti: «Tutto ciò che costituiva il sensibile dell'amore soprannaturale scomparve». La cosa è così. E speriamo che riesca a spiegarla bene. Niente più sogni, niente più carezze, niente più parole senza suono ma così percepibili all'anima. Niente più. Come se Gesù se ne fosse andato molto, molto lontano col suo amore. Ma io sentivo che mai come ora era in me. Solo era muto. Mi voleva bene come e più di prima, ma non si faceva più sentire in nessun modo. Era venuta per me l'ora delle tenebre, l'avevo voluta io, nessuno mi ci aveva forzato a subirla; io, solo io me l'ero imposta chiedendola al Padre. Adesso dovevo patirla con quanto di più doloroso ad essa fosse unito. Gesù, quando giunse la sua ora, rimase solo, staccato dal Padre. Era l'Uomo, unicamente l'Uomo che scontava la sua pena. Il Padre s'era ritirato nel profondo dei Cieli nel suo corruccio e la Vittima doveva soffrire da sola. Credo che più ancora di tutto il male che Egli, l'Innocente, sentiva rifluire in Sé con tutte le colpe - da Adamo primo ad Adamo ultimo - credo che più che la imminenza dei tormenti, che più che la persuasione dell'inutilità per tanti del suo sacrificio, che più che l'angoscia di vedersi tradito e rinnegato dai più amati e beneficati, quello che fece trasudare sangue dalle sue


vene, superpressate da un peso di dolore immane, fu questo dover soffrire solo. É cosa tremenda. In tutti i dolori. Il dolore, quando è condiviso da un cuore di pietoso Cireneo, perde il suo peso schiacciante. Ma quando siamo noi soli a portarlo ci comprime fino a soffocarci... Se questo avviene per il dolore umano, molto più avviene quando questo dolore sale a sfere più elette delle umane. E Gesù soffriva per un dolore, per dei dolori di causa elettissima. Era l'Eroe che si sacrificava per una causa sublime, era il Santo che effondeva la sua carità per tutti, era il Martire che pagava per tutti. E gli mancava il conforto del Padre. Se guardiamo bene, durante quelle tremende ore che vanno dalla Cena - perché il suo martirio cominciò li, nel dover subire la vicinanza del traditore, nel dovere, pur sapendo l'inutilità del suo ultimo richiamo, cercare di fermarlo nell'esecuzione del suo delitto: «Chi mangia il mio pane ha levato il suo calcagno contro di Me... In verità vi dico: uno di voi mi tradirà», e soprattutto nel dover dare Sé stesso, nel mistico Pane, a colui che già l'aveva venduto - se guardiamo bene, Gesù non perse mai la sua augusta maestà nel soffrire. «Dimmi come sai soffrire e ti dirò che uomo sei», dice un antico detto. Gesù soffrì in maniera talmente composta da mostrare quale fosse la sua vera natura. Mai un lamento, mai un tentativo di difesa. Il silenzio più alto sempre. Solo per glorificare il Padre, per testimoniare la verità, per confessare la sua missione, dice poche parole davanti al Sinedrio, a Erode e a Pilato. Ma dopo quel discorso dell'Ultima Cena, che io non posso mai leggere o ripetere a memoria senza piangere, dopo quella preghiera che segue al discorso, e che per me è la pagina più bella scritta dal momento dell'Annunciazione ad oggi, e che rimarrà sempre tale perché nulla la può superare, a meno che Cristo non torni a dirne un'altra ancor più sublime, discorso e preghiera di una calma divina, udiamo i gridi sconvolti del Torturato del Getsemani: «L'anima mia è triste fino alla morte... Padre mio, se è possibile passi da me questo calice!». E il Padre non risponde... Udiamo il grido straziante del Morente del Calvario: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato?». Tanto si sente abbandonato dal Padre, l'Innocente che muore, che neppur più lo chiama Padre!... In questa differenza che pochi notano, differenza resa ancor più grande dal momento in cui viene pronunciata, poiché chi muore chiama sempre il papà e la mamma ad aiuto nella convulsione finale - e Gesù era in tal convulsione - io comprendo tutta l'estensione di questo soffrire desolato del Cristo... E neppure in tal momento il Padre risponde... La morte in tutta la sua angoscia fisica, morale, spirituale, doveva essere gustata dall'Incolpevole per noi colpevoli. Gesù con me faceva uguale. Mi ero offerta vittima d'espiazione. E da vittima di espiazione dovevo vivere. Non voleva, non poteva parlare. Non voleva, non poteva farmi sentire che era lì e che mi aiutava solo con l'essere lì. Ma questa sua apparente inerzia, questo suo dormire, nell'ora in cui la tempesta scuoteva in mille modi la mia navicella, non diminuiva il mio amore per Gesù. E in questo era il mio conforto. Lo amavo sola, con la massima delle fiducie. Gli dicevo: «Tu non parli, Tu non ti muovi in me, ma so che sei lì ugualmente, che mi senti, che mi vedi. Amerò io doppiamente, per me e per Te, parlerò io per empire le pause del tuo mutismo, agirò io mentre Tu stai immoto. Non t'ho mai amato tanto come ora che non ricevo nulla da Te, nulla per i miei sensi umani, nulla per i miei sensi sovrumani. So che quello che Tu non


mi dai, ora per ora, io lo troverò tutto in Cielo, versato da Te nella divina banca dei Cieli e aumentato del cento per uno poiché Tu, Amore mio, sei un banchiere di una prodigalità senza pari». Gli dicevo: «Povero Gesù! Forse sei stanco. Bussi alla porta di tanti cuori per entrare e riposare la tua divina stanchezza di Pellegrino che non ha dove posare il capo, poiché tua delizia è non stare nei Cieli ma stare fra gli uomini che hai ricomprati col tuo dolore. E nessuno ti vuole accogliere. Hanno già la casa del cuore piena delle sollecitudini terrene... Tu sei lo sconosciuto e, all'apparenza, si capisce subito che non porti ricchezze umane, onori terreni. Perciò ti chiudono la porta in faccia, se pure non ti escono contro coi mastini e coi randelli per cacciarti di più. E Tu sei stanco... Hai trovato un ricovero in un povero cuore che è tutto aperto a riceverti e ti sei addormentato con la tua afflizione nel cuore. Dormi, Gesù. Il sonno ci smemora da ciò che dà dolore. Dormi e riposa. Rimani Tu, come Padrone di casa, della mia povera casa del cuore, mentre io vado in giro per Te, a cercarti dei cuori, a dire Chi sei... Fa' il tuo comodo, Amore mio. Io farò il meno rumore possibile per non svegliarti, non avrò neppure un gemito se qualche cosa mi ferirà... Mi accontento di poterti servire lavorando per Te, di poterti amare senza che Tu me lo impedisca, di poterti contemplare, o divina Bellezza, mentre dormi nel mio cuore». Non ho mai amato così sovrumanamente Gesù come mentre Egli non ricambiava il mio amore sensibilmente... Intanto il Padre appesantiva la sua mano. Il dormire di Gesù, il suo sguardo velato nel sonno permetteva al demonio, che avevo vinto un anno avanti, di accostarsi subito per torturarmi in mille maniere. Come le ho detto, scatenando infermità che nessuno dei 29, dico ventinove... Esculapii, venuti durante questi dodici anni a tambussare, pigiare, bucare, frugare, ascoltare, è mai riuscito a capire. Scatenando più fiere invidie e più mordenti calunnie. Suscitando più acuti egoismi e freddezze e durezze e incuranze familiari. Persuadendo il prossimo che io non ero ammalata, ma fissata. Già, la mia era una fissazione paranoica, una mania... e mi fu detto su tutti i toni... In altri invece infuse la convinzione che il mio lavoro per il buon Dio, che continuavo a compiere nonostante accusassi di esser molto ammalata, era la più bella prova che altro non ero che una pseudo mistica, un'isterica, legga volgarmente: una matta. Anche questo mi fu detto. E ci fu uno - un sacerdote che, per avermi molto avvicinata e visto il mio equilibrio, avrebbe dovuto essere almeno quello che più mi difendeva - che me lo disse con queste testuali parole: «Ma la sua, più che una malattia, deve essere una turba isterica. Sa! le donne!... Siete sempre dominate dall'isteria. In voi tutto si compie solo per gli impulsi di certi organi. É lì che devono cercare i medici». «No, sa», risposi. «Anche i medici hanno dovuto convenire che li non c'è nulla, proprio nulla». «Allora (e qui un sorrisetto più pungente di un cespuglio di fichi d'India) allora saranno turbe mistiche...». Le confesso che il sangue mi salì al capo e dovetti fare uno sforzo potente per limitarmi a rispondere: «Non sono abbastanza femmina per essere dominata da certi organi, né tanto abbastanza santa da esser degna di turbe mistiche. Sono semplicemente una povera donna ammalata». Come sono crudeli gli uomini! Crudeli e profanatori! Perché voler alzare i veli più sacri dello spirito? E perché irridere un'anima che Dio lavora? Infine il demonio si vendicò cercando di turbare il mio spirito portandolo verso la disperazione col mostrargli tutto il male che


stava per venire nel mondo, le guerre e le stragi, la fame, i bombardamenti dei civili... Ma non vi riuscì. Ultima delle sue vendette, scatenare un male che ha ripercussioni su tutto l'essere... Gliene ho già parlato e gliene riparlerò. Ma nulla ha scalfito la mia confidenza, la mia fede, la mia volontà. Nulla, glielo assicuro. E torniamo al 4 gennaio 1932, giorno in cui vidi il mio angelo. Era domenica. Avevo iniziato la giornata con la S. Messa e Comunione. Poi, dopo avere riordinato la casa, via alla sede dell'Associazione per l'adunanza. Pensiero religioso e gara. Alle 12 a casa. Entro e sento un'aria irrespirabile. Mamma che, buon per lei, ha un cuore di ferro al quale l'acido carbonico non dà noia, aveva fatto 4 scaldini, tenuto un gran fuoco nei fornelli e serrato le finestre per non sentire il freddo. L'aria in casa era persino azzurrognola. «Ma qui si asfissia», gridai io che col mio cuore malato non sopporto l'acido carbonico neppure in minime dosi. E feci per aprire la finestra. «Lascia chiuso», urlò mamma. «Tutti i malanni li hai in casa. Fuori stai sempre bene!». Solenne bugia! Mi ero sentita male nei negozi, in pineta, per le vie, in chiesa, in mercato, dalle Mantellate, all'Esattoria, in casa di persone amiche... Ma quando mai mamma fu «mamma» con me? Non replicai più nulla e respirai quell'aria mefitica sentendomi il cuore sempre più pesante e palpitante. Mentre prendevamo il caffé venne una povera creatura a trovarci. Povera perché moriva a trent'anni di etisia. Due chiacchiere mentre io rigovernavo tutto. Appena uscita questa malata, mamma si senti male e, naturalmente, perché la testa girava a lei, ci fu uno spettacolo di «ah!» e di «oh!». Chiamai la vicina di casa perché mamma non voleva stare sola mentre io andavo a scaldare del caffè e poi a prendere i sali aromatici. Corri a destra, corri a sinistra, sali e scendi le scale... Finii di sentirmi male. Mi sedetti in un camerino e... ebbi una sincope. Nessuno sentì il tonfo del mio corpo che cadeva, nessuno si occupò che io non tornassi, nessuno sentì neppure il baccano di vetri che io rompevo nel cadere. Mamma, alla quale il lieve capogiro era già passato solo col respirare aria pura, cicalava beatamente con la vicina... Mi rinvenni dopo quasi mezz ora e mi trovai a terra con la bocca piena di sangue, perché nel cadere avevo coi denti fatto sette tagli nella lingua, con il dorso delle mani tutto scorticato dal colpo e dai vetri sui quali ero caduta, con le ginocchia sbucciate e con un cuore poi!... Mi alzai a fatica e piano piano scesi le scale... «Oh! sei qui finalmente? Dai una tazza di caffè a Elia (la vicina) che, poverina, non l'ha ancora preso, e poi muoviti ché è tardi e sono già venute a chiamarti per la conferenza». Allora mostrai le mie ferite e dissi il resto. Meno che nel cadere vidi al mio fianco il mio angelo. Come era bello! Che fulgore nel volto e nella veste che pareva fatta di petali di giglio cosparsi di polvere d'argento e di diamanti! Che sorriso! Ci starei tutti i giorni a soffrire come quel giorno per rivederlo! Deve essere stato lui a guidarmi nel cadere perché non andassi a conficcarmi sopra dei fiaschi che mi avrebbero reciso la gola. E così il capriccio di mia mamma mi procurò la vista dell'angelo mio. E mi procurò anche uno sfiancamento cardiaco. Il giorno dopo seppimo che anche quella povera malata, appena uscita da casa nostra, era caduta al suolo. Solo allora mamma si arrese all'evidenza che l'aria era satura di gas. E se ne arrese soprattutto perché si sentì male lei. Però nonostante l'avvenuto andai lo stesso al Circolo. Dio mi aiutò. Non ho mai parlato così bene come quel giorno. Quando alla fine fui complimentata e richiesta


perché io, che avevo sempre una puntualità da re, avessi tardato tanto, mostrai le mani, che non avevo denudato dai guanti, e la mia lingua tutta tagliuzzata e dissi l'avvenuto. Furono tutti stupiti e mi mossero anche dei dolci rimproveri per la mia imprudenza. Ma che importa essere prudenti se la prudenza ci deve nascondere i volti di Dio e dei suoi angeli? PARTE QUINTA Sempre più sofferente, andai avanti. Credevo che presto tutto sarebbe stato consumato. Impazienza umana, come sei stolta rispetto alla calma divina dell'Eterno! La terza conferenza fu, come l'anno avanti, sulla «Lotta antitubercolare». Cioè no: la terza fu su Suor Benigna Consolata Ferrero e la quarta sulla giornata antitubercolare abbinata alla giornata dell'Università cattolica, le cui giornate si seguirono a poca distanza. Poi gli esami di gara, riusciti ottimamente. Le socie mi amavano moltissimo. Ero una «mamma» per loro più che una maestra. Non avevano nessun segreto con me. Già anche se l'avessero avuto non sarebbe servito. Un dono di Dio mi rendeva conscia di ogni novità e perciò chiamavo a me la figlietta e le dicevo: «Che hai che ti turba?». Vedendosi scoperta e credendo che io sapessi tutto per forza soprannaturale, essa parlava. Ma io non sapevo tutto. Capivo solo, sulle generali, se costei era addolorata, o inquieta, oppure tentata. E basta. La loro confidenza però mi dava modo di curare le loro anime, di guidarle e confortarle. Benedico Iddio di aver permesso che il prossimo mi abbeverasse con tutti i dolori. Così posso capire i dolori degli altri, compatirli, confortarli. Capire i cuori. Che arte difficile! Non si impara a nessuna scuola umana. Solo la luce che viene da sorgenti non umane, e che è aiutata nel dar frutto da molto spirito meditativo e da bontà di cuore, può insegnare questa scienza che è di tanto conforto. Esser capiti in un ora penosa vuole spesso dire essere salvati. Salvati da brutte sorprese, salvati da pericolose cadute, salvati infine da disperazioni che stroncano l'anima se pur non l’uccidono. In tutte le età occorre esser capiti, ma specialmente in quell'età delicata che va dall'adolescenza alle soglie della maturità. É allora che i cuori sono più facili alle seduzioni, alle chimere, alle tempeste. Come teneri alberelli, che si avviano al primo fiorire, sono facili ad esser divelti da una mano brutale, spezzati da un colpo troppo forte, bruciati da un calore troppo ardente, marciti da uno stagnare di troppe acque morte, spogliati da un vento troppo turbinoso che li torce nel suo gorgo di bufera. Vanno virilizzati i cuori nel loro primo fiorire, vanno istruiti in ciò che li può ledere, vanno sorretti se troppo deboli onde non pieghino, vanno potati se, troppo esuberanti di fronde (e di affetti), si espandono troppo in una prodigalità che li esaurisce prima del frutto, vanno fertilizzati se troppo aridi, mondati se già invasi da parassiti, e soprattutto amati, amati, amati. Un cuore che si sente amato parla. E parlando dà modo, a chi lo ama ed è più esperto di lui, di guidarlo. Occorrerebbe sempre avere un cuore di padre o di madre per coloro che sono più giovani di noi, e certe volte occorre averlo anche per coloro che sono più vecchi, perché gli animi non hanno età. Sono eterni come Dio, e c'è sempre bisogno di tenerezza, di consiglio, di conforto a tutte le età della vita. Nella realtà ben pochi sono i cuori che sanno amare e, amando, capire. Rarissimi poi quelli che, essendo


ormai anziani, sanno ricordarsi che furono giovani anche loro. «Ai nostri tempi questo non si faceva, ai nostri tempi nessuno faceva quest'altro», ecco la frase sprezzante che è sempre sulla bocca degli adulti verso i più giovani. Bugie! Non entro nelle grandi colpe, ché ci sono anche esse sempre state: prova ne siano gli Ospedali degli Innocenti e le Ruote ecc. ecc. in uso fin dal Medioevo, come ne fanno fede l'episodio di Francesca da Rimini, di tutte le favorite dei re, di tutte le... ninfe Egerie dei poeti e dei capi di Stato, tanto per citare cose conosciute anche dai polli. Ma entro nelle cose meno gravi: amori fatti di nascosto da papà e mammà, amicizie e letture che turbano, fatte pure di contrabbando, leggerezze di tinture, ricciolini ecc. ecc. Per carità! Io credo che da Eva in poi, in tutti i continenti e su tutti i meridiani e i paralleli del globo, si trovano. E allora perché tuonare come tanti Savonarola contro le generazioni d'oggi, quando anche ieri le care mammine e l'altro ieri le più care nonnine conobbero e corrisposero col caro babbino e col caro nonnino, allora baldi giovincelli, mediante... un telefono e un telegrafo senza fili a base di occhiate e di fiammiferi accesi e spenti secondo un linguaggio convenzionale, o invio di bigliettini mediante la compiacenza di un filo sottile chè, nelle vie poco illuminate di solo 40 anni fa, faceva da postino galeotto? E allora perché fare i quaresimalisti per la permanente, per il rossetto se, ai loro tempi, si tenevano sulla testa tutta una architettura di posticci e si infarinavano di cipria come pesciolini pronti per la frittura? Allora andava di moda il pallore delle eroine del romanticismo; ora piace apparire come mulatte o pellirosse. Beh! E cambiata la tinta, ma il trucco c e ora come c'era allora. Invece di tuonare e di predicare dicendo solenni bugie e ottenendo lo scopo che le figlie fanno doppi sotterfugi e invece del bigliettino di contrabbando ricevano addirittura il giovane di contrabbando, con serio pericolo di conseguenze, o vanno a dipingersi fuori di casa, chissà dove, cerchiamo di farle riflettere queste figlioline. Facciamoci amiche delle nostre creature prima che madri rivestite dell'autorità materna, facciamoci prima sorelle che maestre delle nostre socie più giovani e apriamo il cuore nostro perché esse aprano il cuore loro. Così bello questo sapere che la mamma e che la maestra capisce! Così dolce vedere che le nostre figlioline di carne o di spirito hanno fiducia in noi e non ci celano nulla, e nei loro sogni cercano il nostro cuore per deporre il sogno che le fa palpitare, e nei loro dolori il nostro cuore per piangervi sopra! Quanto si ottiene di più così, con questa compassione che sa dirigere senza ferire! Thttora, e sono undici anni che sono reclusa, tuttora esse, le mie figliette, vengono a me, nella felicità o nel dolore, per dirmi i loro palpiti di innamorate, le loro estasi di spose, la loro beatitudine di madri. I loro fiori di carne me li portano tutti, alle prime uscite che fanno, e vogliono che io baci i loro tesori, insegnano loro il mio nome come fosse quello di una nonnina che li ama. Tuttora vengono o scrivono, se una malattia le colpisce, se una sventura le afferra, se un lutto le orba di un essere caro. È dolce piangere con me che le capisco sempre!... Dopo vanno via più quiete, più serene, o, se lontane, si sentono più serene e fiduciose... Io resto col loro dolore nel cuore e con la mia stanchezza i malata... Ma l'anima canta perché sa che vi è un cuore meno desolato di prima! Qualche volta le confesso che manderei tutte a farsi benedire. Sono materialmente così stanca, sfinita, dolorante!... Ma penso che Gesù era stanco tante


volte, eppure non rimandava mai nessuno. Sulla croce, nell'agonia, seppe ancora confortare il ladrone alla speranza, sua Madre, l'Apostolo e le donne fedeli... Le dirigenti anche, meno la Presidente, erano tutte con me. La Presidente aveva tentato, sempre aiutata dalla Presidente Diocesana, di passarmi alle Donne Cattoliche, perché avevo passato i 30 anni. Ma ci fu una levata di scudi delle socie: «O dentro io o fuori anche la Presidente che aveva anche lei 33 anni». E restai io. Ci voleva dell'eroismo a restare! Ero sempre più malata. E perciò più sensibile alle ingiustizie che mi venivano fatte. Quando ancora fruivo delle spirituali parole di Gesù, ad una mia preghiera in cui lo supplicavo di spezzarmi col suo Amore per aprirmi la via dei Cieli, Egli mi aveva risposto che io dovevo spezzare il mio io, frantumando ogni mio amor proprio, ogni mio diletto umano chiuso nel mio cuore col maglio di un amore perfetto, perché non appoggiato da alcun conforto soprannaturale. Allora sarei stata pronta per il Cielo. Ora potevo dire di avere toccato quel punto. Il mio amor proprio era calpestato da tutti, da me più di tutti che per amore di Dio e del prossimo m'ero fatta simile ad uva nel tino che il vendemmiatore pigia e spreme sotto i piedi. Nessun conforto veniva dal Cielo e nessuno dalle creature. Solo beffe, satire, rimproveri, tradimenti, e fatiche neppure notate o notate per trarne motivo di nuove beffe. Pregassi o non pregassi, parlassi o tacessi, fossi immobile o in moto, ero sempre in fallo, secondo la maggioranza. Solo le anime che avevo portate a Dio mi restavano grate e fedeli, il che mi fa pensare a quanto si legge nel Vangelo circa la fede e la riconoscenza nel Cristo di coloro che erano Gentili... Venne l'estate. Ormai era proprio faticoso camminare sola... Mi ricorderò sempre il 2 agosto 1932. Che pena andare a S. Antonio per il Perdono d'Assisi! Tornai a casa a braccio della mamma devono averci prese per due ebbre. Appena a casa mi sentii male. Ma ormai mi sentivo male quasi ogni giorno. Si riaperse l'Associazione. Ripresi il mio ufficio di «Voce». Solo l'amore di Dio mi poteva dare forza di continuare. La mamma di Marta mi dette la «Vita» della Galgani, sua concittadina, la grande «Vita» scritta dal passioriista Padre Germano di S. Stanislao. Voleva parlassi di Gemma in una conferenza. Glielo promisi. Confesso che non avevo per la Galgani nessuna attrattiva. Mi pareva, per quel poco che ne sapevo, una esaltata, una nata in epoca non sua, in arretrato di qualche secolo dal momento buono per nascere. Dicevo sempre: «Ora la santità è diversa! Queste sono cose da medioevo». Ma letta quella vita mi ricredetti. Maria della Croce poteva capire la Gemma di Gesù, e la piccola violetta di Gesù, la violetta che moriva di nostalgia del Sole eterno, poteva unire il suo lieve profumo e la sua testolina velata di penitenza al profumo mistico e alla stellare corolla, che gli emblemi della Passione decorano, della Passiflora di Cristo. Ma prima dovevo parlare di S. Giovanna d'Arco. Patrona di Gioventù femminile, era giusto ne parlassi. Fra l'altro era desiderato dalle mie compagne. Perciò la misi in testa all'elenco delle conferenze da tenere. Quell'anno avevo pensato di parlare di Gemma, della Pulzella d'Orléans, delle Beate e Venerabili di Casa Savoia, e di alternare queste conferenze ad altre sulla buona stampa, nelle quali mi prefiggevo di illustrare un dato autore del quale poi avrei sorteggiato fra i presenti tre libri. Comperati naturalmente da me, a prezzo di fabbrica, mediante i buoni uffici di una cara signorina, ex atea e convertita dalle mie parole. Ho


detto atea; no: anticattolica. É più giusto. Ma parlare di Giovanna d'Arco mi faceva paura. Perché? Perché sentivo che quando avessi parlato di lei mi sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile. Perciò era tre anni che rimandavo la conferenza Perché questa idea? Mah! Uno dei tanti avvertimenti che la mia psiche riceveva da altri mondi. Volli sfidare quell'avvertimento e mi misi a preparare la conferenza. Dopo avrei parlato di Gemma. Il 21 novembre, in tre ore, morì la mamma di Marta. Non fece a tempo a sentirmi parlare di Gemma... e andò in cielo, poiché era veramente una donna giusta, a sentire'le lodi del Serafino di Lucca cantate dagli angeli belli. Ne ebbi un grande dolore. La mamma di Marta mi voleva un bene di vera amica: materno, fraterno, santo. Amo tanto Marta perché è figlia di tal madre... L'amo ancor più per questo che per le sue doti proprie, perché continuo ad amare in lei l'anima di una santa tornata a Dio ma non dimentica di me. Ne sono certa. Apro una parentesi per rispondere alla sua lettera che... mi ha fatto restare sbalordita per più motivi. Glielo dirò domani a voce, ma fin da ora le chiedo: «Perché? Perché quella sorpresa? Ah! non mi vizi, Padre, ché dopo mi spiace troppo a morire!…». Ma senza scherzi. Grazie e poi grazie ancora. La mia mano dice grazie e la mia bocca dice lo stesso. L'anima le dirà il miglior grazie con la preghiera. E questo per il dono. Poi un altro «grazie» per capirmi così bene nel morale e nello spirituale. E mentre Lei è ancora intento nella sua pietosa missione di consolare noi infermi, io, per dimostrarle quanto le sono grata del suo studio paziente e buono dell'anima mia, tenterò rispondere alle sue domande. I predicatori ci vogliono e che siano in piena efficienza fisica, altrimenti addio predicazione del Vangelo! Ma i predicatori vanno sorretti dai penitenti. Una radio non ha voce se l'elettricità non l'accende. I penitenti, le anime olocauste sono... la spina che innesta la corrente di Dio nell'anima del suo banditore e di chi lo ascolta. Brutto paragone, ma vero. In particolare poi penso che, quando un ministro di Dio consuma sé stesso, ora per ora, nell'esercizio del suo ministero, senza impazienze, senza stanchezze, senza ripugnanze, senza paure, senza troppa cura del suo corpo, ma con fedeltà a tutte le esigenze del suo lavoro sacerdotale, ma con ilare volontà di fare, ma con carità accesa che sa stringere al cuore il grande peccatore come sa stringere l'anima pura, poiché in tutte egli vede Iddio, egli è già un'anima-ostia. Dio si incarica Lui stesso di propinargli, ora per ora, il sacrificio, e perciò basta così. Noi poi, noi, le... fannullone che non siamo altro che capaci di soffrire e pregare, mettiamo tutto il resto per compiere giornalmente quella tale misura di sacrificio che deve essere versata nella banca dei cieli e che si muta, con largo interesse, in aiuto ai lavoratori della vigna di Cristo. Noi siamo le Marie e voi, anime sacerdotali, siete le Marte di Gesù. Il quale, è vero, ha detto che la parte migliore era quella scelta dall'adorante Maria, ma era anche ben grato a Marta, l'operosa e pratica donna di casa che provvedeva ai bisogni della sua Umanità. Il sacerdote, poi, salendo ogni mattina i gradini dell'altare per celebrare il Sacrificio, è Marta e Maria insieme, poiché adora e poiché opera. Riguardo alle letture da me fatte e che, qualunque esse fossero, hanno sempre portato luci di bene in me, io reputo che più ancora che il mio buono spirito, che si proietta su tutto, rendendo buono il meno buono, sia lo stesso Gesù che impedisce che qualcosa di male entri in me. In che maniera? Oh! semplicissimo! Riempie tutto di Sé


fino all'orlo e basta. Se Lei, Padre, empie un bicchiere fino all'orlo e poi tenta aggiungere pianino pianino dell'altro, il superfluo trabocca. Non è forse vero? Gesù ha empito fino all'orlo la coppa del mio cuore. Ogni altra cosa non può entrare, si posa sopra un istante e scivola via. Scivola via spesso purificata dal contatto avuto col mio Gesù. Nessun merito da parte mia. Io sono talmente affascinata da Gesù che vedo scritto «Gesù» anche ove è scritto «demonio», che sento parlare Gesù anche dove parla Lucifero, che vedo Gesù su tutte, tutte, tutte le cose. L'amore di Mario, che d'altronde credo defunto da anni - le dirò poi perché lo credo - è spoglio di ogni desiderio e rimpianto umano. Amo l'anima sua, che credo avere ricomprata col mio dolore. E più bel dpno non potevo fare a questa creatura che ho amato. Non le pare? Ed ora alla spiegazione della frase che l'ha colpita: «Sono giunta a capire che gli unici, veri dolori di un cuore, sono quelli che vengono da Dio per nostra prova o per nostra punizione». Rispondo ad ogni sua domanda. «Come fa a capire che un dolore viene direttamente da Dio?». Risposta: Per quello che ne prova l'anima, perché quando un dolore viene direttamente da Dio si contraddistingue sempre dai dolori che vengono da qualsiasi altra fonte. Prima di tutto, il dolore che viene da Dio, per quanto possa esser aspro e mordente, non è mai scompagnato dalla pace. Questo è il segno che non manca mai. Anche se talora pare che non ci sia, c'è. Non appena l'anima si guarda nel profondo, e questo avviene sempre, magari per un attimo, ma che è sufficiente, vede che nel suo soffrire c'è una grande pace. Pace non vuol dire rassegnazione. No. Vuol dire molto di più. Vuol dire beatitudine. E il dolore che viene da Dio è sempre accompagnato da beatitudine superspirituale. Ecco una delle parole che vengono a formarsi spontanee sulle nostre incerte labbra per parlare dell'indescrivibile. Superspirituale per me, che questa parola creo, vuol dire: una beatitudine nella parte spirituale dello spirito. Non è un giuoco di parole. È una realtà. Porto un paragone. La chiesa è un fabbricato eretto per il culto di Dio. Nella chiesa vi sono poi le cappelle, nelle cappelle gli altari, negli altari il tabernacolo, nel tabernacolo la pisside con Gesù-Eucaristia. Se io entro in chiesa non tocco Gesù-Eucaristia, ma se io salgo un altare, apro un tabernacolo, scopro un ciborio, posso dire di toccare Gesù. Nel corpo c'è l'anima, nell'anima lo spirito. Vi è la pace dell'anima e questa può esserci in ogni dolore sopportato con rassegnazione, e vi è la pace che regna sullo spirito: ossia la superpace. E questa vi è sempre quando il dolore viene da Dio per elevare a un grado più alto il nostro spirito, purificandolo dalle ombre o fortificandolo dalle debolezze che ancora lo avviliscono. «In che consiste il doloreprova?». Risposta: Da un crescere di amore solo da parte nostra mentre Dio pare ritirare il suo lasciandoci sole. Noi si chiama e Lui non risponde. Noi si chiede ed Egli non mostra di udire la richiesta, anzi spesso ci umilia levandoci proprio quello che più ci è caro di avere e che credevamo di avere già ottenuto. A dirlo sembra niente, ma a subirlo è molto doloroso. Le ho già descritto, nel quaderno che le ho dato oggi, cosa voglia dire soffrire da soli, senza Dio che ci sorride e risponde ai nostri gemiti... Il dolore-punizione, poi, lo si capisce subito perché la coscienza ci avverte di averlo meritato. Oh! io lo sento subito! Anche prima che arrivi, la coscienza mi dice: «Hai sbagliato. Ora, se Dio ti punisce, sii pronta a chinare il capo sotto la sferza che ti colpisce e digli grazie, perché te


lo sei meritato e perché, scontandolo subito, non hai da scontarlo nell'al di là». Ma ripeto: sia che sia una prova o una punizione, la pace resta. Lei non sentirà mai dire che un santo, per prove tremende che possa aver subite - parlo di prove spirituali - perse la speranza. Ove è speranza è pace, ove è pace è Dio. «Come fa a capire che un dolore ha natura di castigo?». Risposta: Per la voce della coscienza che, come le ho detto, ci ha già avvertito di non avere agito bene, e poi perché, man mano che lo subiamo, sentiamo farsi l'anima più lucida e leggera, per cui si capisce che quella stretta che ci ha fatto soffrire, ci è stata espiazione e lavacro. «Lei mi parla dell'abbandono di Dio che costituisce la pena più grande. Ciò è vero; ma quest'assenza di Dio può anche essere prodotta da un'inerzia colpevole per parte della creatura. Trova lei in sé luce sufficiente per dire che talvolta il vuoto si è prodotto per parte di Dio soltanto, sia pure per i suoi fini misericordiosi?». Risposta: Quando un'anima è nell'inerzia colpevole non si accorge per niente se Dio c'è o non c'è. È un'anima inebetita, abulica, che vegeta senza riflettere e percepire. Il peccato, o anche solo la tiepidezza, la ottundono al punto che in lei è spenta la facoltà di percepire, il bisogno di vedere, il desiderio di nutrire sé stessa con il cibo soprannaturale. Dio allora punisce perché è giusto che punisca ed è pietoso che punisca, perché talora l'anima, sotto il colpo, si scuote e rientra in sé. Ma di queste anime non mi occupo ora. Parlo di quelle più o meno sveglie le quali cercano di operare, secondo la loro capacità, per il buon Dio. Magari potrebbero fare di più, se ci mettessero proprio tutto il loro impegno, ma proprio inerti non sono. Perciò sono anime in cui non v’è assenza di Dio per causa loro ma per volontà di Dio, il quale, come ho detto sopra, ricorre a quest'arma potente, o per richiamare l'anima ad una più esatta esecuzione del suo dovere filiale, o per migliorarla, attraverso la prova penosa, e allenarla a sempre più alti voli. E l'anima, che sente la giustizia di questo dolore che Dio le infligge, ha nel dolore la sua gioia e la sua pace. Il dolore invece che viene dagli umani, o peggio dagli inferi, èsempre ingiusto e, più o meno, ci turba. Ma però è un dolore che non tocca il vertice della potenza dolorifica, ossia non trafigge lo spirito nel suo culmine più alto e nella parte più viva. Ci farà gridare, piangere, imprecare anche, ci farà impazzire delle volte e delle volte morire. Ma moriremo per malattie della carne, ma impazziremo per sconvolgimento mentale, ma imprecheremo per convulsione morale, ma urleremo e singhiozzeremo per debolezza generale. Mentre il dolore che viene da Dio e ci trapassa lo spirito non ci fa uscire in nessuna escandescenza: ci sublima in una pace, in una serietà, in una carità più alta. Soffriamo intensamente, intensissimamente. È una fame insaziabile che cresce d'ora in ora e che nulla può saziare. Tutti i cibi possiamo allora dare al nostro spirito per tentare di calmare il suo languore che lo svuota, ma né opere di misericordia, né sacramenti, né preghiere, né letture spirituali sono atti a colmare il suo desiderio. E Dio, Dio che si vuole, Lui solo. E Lui si tiene sempre nascosto, si ritira sempre più in alto mentre noi, con le braccia alzate del desiderio, agonizziamo di amore invocando Lui... Quante parole occorre scrivere per dire quello che proviamo ad ogni battito di cuore! «Quale è la sua condotta durante queste ore di tenebre in riguardo a Dio e in riguardo al prossimo?». Risposta: Più Dio si ritira e più io lo amo con tutta me stessa, in spirito di umiltà, di pazienza e di sommissione, riconoscendo che me lo merito,


facendo atti continui di fede perché so, anche se non lo sento, che Lui è lo stesso vicino a me e glielo dico; atti di speranza, perché spero che per sua bontà abbrevi la prova e per questa prova io meriti un bene più alto; di carità, perché per sollecitarlo a tornare gli dico che lo amo a qualunque costo e lo amerei anche se Egli non si curasse più di me; di contrizione, perché riconosco di avere peccato e meritato il suo castigo. Verso il prossimo poi uso di questa mia prova offrendo a Dio il mio dolore perché altre anime, che non lo cercano o lo cercano male, siano portate alla ricerca fervente di Dio. Così la mia ora ditenebre diviene ora di luce. «Si sente lei inquieta e spinta a manifestare all'esterno la sua inquietudine?». Risposta: No. Io mi inquieto, perché sono un essere di carne oltre che di anima, per le cose che possono urtare la carne. Ma per queste mai. Ho detto e ripeto che il dolore che viene da Dio è acutissimo, è l'unico che realmente sia Dolore puro, semplice, perfetto come Dio, ma è sempre unito alla Pace. Dove è pace non è inquietudine. Non forzo mai Dio a mostrarsi con le mie bizze. Lo supplico di concedermi da capo di vedere il suo Volto che è la gioia del nostro spirito. Ma poi attendo paziente quel momento beato. Vede: oggi, per esempio, io sono priva della unione sensibile con Dio. I giorni passati era un continuo scoccare di scintille fra i due poli di Dio e dell'anima. Qualcosa di ineffabile. Oggi solo la mia anima getta scintille verso il suo Signore. E perciò sono desolata. Ma mi capisca: desolata come una madre o una figlia che vide partire il suo figlio o il suo babbo. Si rimane con una gran voglia di piangere e si vorrebbe che il tempo volasse per abbreviare la separazione perché si sa che il figlio, si sa che il babbo non se ne è andato per sempre, ma per un tempo relativo e per nostro bene, per tutelare i nostri interessi. Si è melanconici ma più amorosi ancora di prima, perché la sua lontananza sappiamo che è una prova novella di affetto per noi. Oggi amo sola... e che perciò? Sono desolata, ma non inquieta. Una santa certezza mi dice che, quando meno me l'aspetterò, Dio tornerà; tornerà tanto più presto quanto più io sarò stata amorosa e paziente. E che torrente di gioia allora si riverserà nel mio spirito!!! «In riguardo a Dio continua lei in tutto come se Egli fosse presente?». Risposta: Ma certo! Anzi filo ancora più dritta, perché la sua scomparsa mi serve di redine e mi rimette sul mezzo della via, se mi ero deviata a fiutare dei fiori lungo le prode, o al trotto, se mi ero impuntata a considerare qualche quisquilia lungo il cammino. Sono sicura che se filo dritta e veloce, guardando solo la meta che ora per ora devo raggiungere, il buon Dio torna più presto a farsi presente. «Ha tentazioni sulla fede in questi momenti?». Risposta: Ci mancherebbe altro! Una brava figlia, una amorosa sposa deve saper rispettare il padre e il marito sempre e non seccarli con querimonie e domande sciocche quando ad esse sembra che padre e marito non le amino più come prima. Non bisogna mai essere diffidenti ed egoisti nell'amore, perché diffidenza e egoismo uccidono l'amore. E perché io, col mio Padre e Sposo, dovrei essere inferiore ad una buona figlia e ad una buona sposa? Perché perdere la sicurezza, perché accarezzare dubbi sulla fede, solo perché il Signore giudica bene di ritirarsi? Ma se Egli è stanco di parlare con me e di abitare con me e preferisce andare da altre anime più elette della mia, io lo devo lasciare libero di fare, senza mettere su bronci e capricci da bambino caparbio e da moglie nevrotica. Il mio Signore deve poter dire: «Torno da


Maria che è così poco seccante. Là ci sto bene perché faccio quello che mi pare». «Questi periodi di abbandono sono frequenti, di corta o di lunga durata?». Risposta: Frequenti non mi pare. Ma con matematica esattezza non glielo saprei dire, perché la gioia del ritorno è tale che mi annulla ogni ricordo di abbandono. Per cui ogni volta mi pare di esser lasciata per la prima volta tanto è mordente il dolore, e ogni volta mi pare di non averlo mai provato tanto è letificante l'estasi del ritorno di Dio in me. Se poi siano lunghi o corti è male dire. Ogni minuto pare un secolo di separazione... Però credo di averne avuti di durata diversa. Delle volte durano poche ore, delle volte più giorni. Ma poi di colpo cessano e dalla desolazione passo a una gioia sempre maggiore a quella provata prima e a un' unione sempre più stretta, a una visione sempre più netta, sin quasi a divenire reali, sensibili, e non solo intellettuali. «Le sembrano intesi a un fine speciale come, per esempio, ottenere una grazia richiesta?». Risposta: Credo siano sempre intesi a un fine speciale. Fine voluto da Dio per la sua piccola ostia, alla quale nega il suo Volto per darle in Cielo un più lungo bacio quando tutto per me sarà quaggiù finito ed io mi inabisserò nella luce della Trinità Ss., che ho sempre amata e lodata in terra. Fine voluto da me per qualche grazia richiesta. Se io non soffro non ottengo. La preghiera non basta. E quale sofferenza maggiore a questa? Che sono le torture di tutto un corpo malato rispetto a un'ora sola di separazione, di abbandono di Dio? Sono io stessa che dico a Dio: «Fammi soffrire ma concedimi questo o quello». Non per me, s'intende. Io ho fatto la rinuncia completa a ogni mio desiderio. Solo chiedo la Vita eterna. Per il resto faccia il Signore. Ma per gli altri sono una questuante insistente e mai contenta. E specie quando chiedo per la luce di un'anima abbuiata, allora le tenebre vengono su me. Ma ne sono così contenta d'esser da esse martirizzata! «Sono essi (periodi di abbandono) seguiti da un maggior lume sulle cose divine?». Risposta: Sempre. Come uno, stato al buio, trova la luce ancor fulgida di un altro rimasto sempre nella luce, così io, dopo la privazione del mio Sole, quando Egli torna a brillare sul mio spirito mi trovo avvolta in un oceano diluce... così sfolgorante che mi dà una celeste vertigine. È come se nella mia carcere venisse aperto l'uscio da una mano pietosa e dallo spiraglio io potessi vedere penetrare un fascio di raggi. Dico spiraglio perché se tutta la luce di Dio precipitasse su me io ne resterei morta... Alla luce di quel raggio io vedo molte cose che prima mi erano oscure e procedo sicura come se il Maestro mi tenesse per mano istruendomi dolcemente. Ecco risposto all'interrogatorio. Molto male, perché per farle capire bene dovrei poterla chiudere nel mio cuore per un'ora. Allora vedrebbe come questo povero mio cuore non viva e non muoia altro che per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo. E così sempre, in eterno, sia. Ora andiamo avanti mentre Gesù riposa. Così stanco, così avvilito il Salvatore vedendo la cecità umana che non vuole esser guarita, il marasma spirituale che sempre più si accentua! Lei stamane me ne accennava... Deve essere una grande pena per i sacerdoti assistere a questo intisichire degli spiriti distrutti dai microbi dell'indifferenza, dello scetticismo, del godimento illecito, della rivolta... Ma se è pena per tutti coloro che ancora sono con Dio, che sarà mai per Gesù? Ah! che veramente stiamo facendo subire una nuova Passione al nostro Salvatore con questo calpestare il suo amore, con questo trascurare anche il suo ricordo!... Il volto di Gesù è


tristissimo... E’ veramente il volto di uno triste fino alla morte davanti al crollo delle sue più vive speranze. Certe penose constatazioni danno sempre tanta stanchezza, più di un lavoro faticoso che sia coronato di successo. E Gesù dorme col volto divino e mesto curvato sul braccio piegato. Non ha avuto una parola per me stamane. Ma io non gliel'ho neppure chiesta. Ho messo la mia povertà della sua parola ai suoi piedi come primo fiore per consolarlo un pochino, e offro e soffro per Lui e per le anime, così appesantite da tanta materialità... Stamane Lei mi ha chiesto se non ho avuto nessuna rivelazione in merito alla situazione attuale. Mi pare di averle detto, ma non ne sono sicura, che quella premonizione di cui soffro ha diverse fasi. La prima, e più confusa, è un sogno in cui vedo le cose sotto speciali figure, diremo così, simboliche. Ad esempio: se vedo cadere uno nell'acqua e l'acqua seppellirlo fino a farlo morire, può essere certo che quell'uno in breve tempo muore. Le ho dato un esempio a caso fra i molti che le potrei dare. Secondo: mi sogno le cose come in realtà avvengono. Ma non risento nello svegliarmi quell'avvertimento speciale che mi dice: «Fai attenzione. È un avviso», e perciò dimentico anche il sogno, salvo ricordarmene quando la cosa avviene tale e quale fu sognata. Terzo: sogno un lucidissimo sogno e allo svegliarmi ricevo ben netto quell'avviso: «Ricordati di questo». Quarto: senza nessun sogno, da sveglia sento, non so dirle come, che sta per succedere qualcosa di penoso o di brutto. Per esempio: avverto se qualcuno mi tradisce o cerca nuocermi o nuocere ad altri. Ora, nel caso attuale, io ho avuto, dal 1931 in poi, vivissimo il quarto caso, per cui sapevo che presto delle cose terribili si sarebbero avventate nuocendo sulla povera umanità; pure vivissimo il terzo caso in frangenti speciali, e molto vivo il primo caso. Ricordo in questo l'aver visto, sotto forma figurativa, l'occupazione del Belgio, Olanda, Norvegia, e l'entrata della Russia in guerra. Questo per simbolo sotto forma di stormi di aerei neri, tutti neri e dalle forme mostruose, che si dipartivano da un punto: Berlino o Mosca, come stecche di un ventaglio raggiungendo colla punta delle stecche il luogo prefisso. Così: Scusi lo scarabocchio, ma sono un asino in disegno e la figura, per quanto mal fatta, mi aiuta a esprimere il concetto. Poi, nel novembre 1941, l'avviso che entro un mese i nemici sarebbero stati a Bengasi. Tre giorni dopo ebbe inizio l'offensiva inglese e entro il mese furono a Bengasi. Nel marzo del 1942 sempre la stessa voce (in sogno) mi disse: «La linea difensiva non è più a Palermo ma più su perché la Libia è perduta». E purtroppo! … Circa il nostro futuro per noi, abitanti metropolitani, ho avuto già due o tre avvisi ma non molto netti. Però potrei dire che mi danno già pensiero perché, se non ho visto esattamente il punto, credo proprio che un punto ci sarà. Questo per ora. Prima però che cominciassero i grandi bombardamenti sui civili (di autunno) io li vidi in sogno e lo dissi a Marta. Quando non c'era ancora la guerra d'Etiopia, e precisamente la notte del 23-24 maggio 1935, io vidi con una chiarezza meravigliosa l'entrata delle nostre truppe, e propriamente dei carabinieri e zaptiè montati su autocarri, in Addis Abeba, i cui tucul ardevano. Lo dissi in famiglia (prendendomi la solita patente di pazza) e a due amici venuti a trovarmi nel pomeriggio del 24 maggio. Sono tuttora vivi costoro e se lo ricordano. Un anno dopo, il 9 maggio 1936, le nostre truppe, e precisamente carabinieri e zaptiè, entravano vittoriosi su autocarri in Addis Abeba conquistata, che ardeva. Per


quel sogno, così evidente e corredato da quel tale segno, io, durante i nove mesi della guerra etiopica, non diffidai mai sull'esito della stessa. Sapevo che si sarebbe vinto e presto. Così per la guerra di Spagna, di cui vidi tutte le nefandezze e gli eroismi. Su questa... preferisco parlare a voce. Le ho detto questo tanto per farle capire di che si tratta. Il primo modo di premonizione era il terrore delle socie e dirigenti colpevoli... Devono avermi avuta in odio anche per questo. Capirà! Entravo in argomento così: «Ragazze, agite bene, avete capito? Agite bene a mio riguardo poiché sappiate che non sono a me ignoti i vostri sotterfugi per nuocermi. Anche in questi giorni state tramandoli. Ma non riuscirete a nulla, fuorché a macchiare la vostra anima...». Ripeto però che di questo dono, se può chiamarsi così, ne farei molto volentieri a meno. E ora continuo con il mio racconto. Fissai la conferenza su S. Giovanna d'Arco per il 18 dicembre 1932. Al mattino in chiesa mi sentii un poco male. Ma poi, con opportune medicine, mi sentii meglio. Anzi ero contenta perché di solito, dopo un attacco di angiospasmo, fruivo di qualche ora di tregua. Come un cielo estivo dopo un temporale si sgombra dalle nubi, così io dopo il mio... temporale stavo col cuore più sgombro di palpiti e di crampi. Alle 10 andai alla sede dell'Associazione, dove trovai tutte sossopra perché era arrivata la notizia che il vecchio Parroco era stato creato Monsignore del Duomo di Lucca e perciò avrebbe lasciato la parrocchia. Notizia che non mi dette un dolore speciale perché era attesa e perché voleva dire giusto premio a un lungo lavoro parrocchiale dell'ottimo sacerdote. Tornata a casa a mezzogiorno, pranzai come al solito: pochino ma di gusto. Alle 15 andai all'Istituto S. Dorotea dove dovevo tenere la conferenza. Alle 15,30 cominciai a parlare. Avevo detto poche parole quando si scatenò un così repentino e grave attacco di cuore che fui per morire. Alla prima stretta mi fermai sorridendo come per attendere che alcune signore, in ritardo, che arrivavano allora, potessero prendere posto. Speravo che il cuore si limitasse a quello strizzone che già mi aveva coperta di sudore ghiaccio. Sorridevo... ma il mio viso si alterò subito in maniera tale che la Superiora mi venne vicino chiedendo se mi sentivo male. «Cosa da nulla», risposi. «Ora passa». Attesi qualche minuto. In piedi, eroicamente in piedi sentendomi ventilare la morte sul capo. Come Giovanna d'Orléans dicevo: «Sire Iddio primo servito!». Ma Sire Iddio volle essere servito con l'agonia della sua povera serva. L'attacco crebbe, crebbe, crebbe e dovetti cedere e mettermi seduta. Ero un cadavere che respirava. Durò due ore... Sa cosa vuol dire due ore di un simile soffrire?... Fui soccorsa, portata all'aria... guardavo la Madonna la cui statua pareva animarsi, vista come la vedevo fra gli sbalzi convulsivi... e guardavo e baciavo il mio Crocifisso... Non volli nessun dottore. Mi avrebbe fatto portare all'ospedale... In un simile stato non c'è che l'ospedale, e là non volevo andare pensando a papà e a mamma. Mi raccomandavo a Dio di non farmi morire così, per loro, per lo spavento loro. Ma per me... Oh! come sarei partita con gioia! Mi ero comunicata anche quella mattina, era la novena di Natale... Che bello andare a fare il Natale in cielo! Che enorme egoismo sarebbe stato!... dico ora. Altro che bellezza: egoismo. Andare in cielo col Natale senza fare la mia Passione! Prima ci voleva la Croce, una lunga, lunga agonia sulla croce!... e poi sarebbe venuto il Gloria del Paradiso. Finalmente alle 17,45 cominciai a stare in modo da potere tornare a casa. E vi


tornai, sorretta da due pietose. «Ma quanto hai tardato! Fai sempre più tardi. Sono quasi le sei e noi non abbiamo ancora preso nulla». Questo fu il saluto materno. Mamma era in conversazione con una signora molto anziana che veniva quasi ogni giorno a passare il pomeriggio con noi. Era di prammatica alle 17 offrire il the o il caffè o il cioccolato. E, naturalmente, dovevo prepararlo io. Perciò il rimprovero, perché avevo tardato. Può pensare con quale fatica stetti al fornello, frullai il cioccolato, lo misi nelle tazze e portai il vassoio. Ero all'estremo delle forze. Mi sedetti senza parlare. Non potevo. La signora chiese: «Molta gente?». «Tanta». Infatti la sala era piena stipata. «È piaciuta la conferenza? Me la legge?». «È piaciuta. Ma ora sono molto stanca. Domani la leggerò a lei». «Ma che hai che pari una mummia? Hai i nervi?», chiese mamma. «Ho che mi sono sentita male, molto male. Guardami che lo vedrai». «Infatti», disse la vecchia amica, «ho visto subito che è stravolta, ma non dicevo nulla per non impressionare...». Era tanto buona, povera nonnina!... Cosa avrebbe fatto Lei se fosse stato mia mamma? Sono certa mi avrebbe curata, servita, quella sera, amata. Nossignori. Mi finì di stordire coi rimproveri sul mio sotterfugio (il mio tacere con l'intento di dire le cose poco a poco per non spaventarla era per lei sotterfugio) mi tormentò accusando il Circolo di ogni mio male e dandomi della stupida a piene mani perché vi andavo ecc. ecc. Però si guardò bene dal risparmiarmi di lavorare in casa. Fatta la loro cena - io di sera non mangiavo mai, neppure allora - rigovernato tutto, andai finalmente a letto. Febbrone notturno, soffocazioni, crampi e una infinita malinconia... Sentivo «che le mie voci non mi avevano ingannata», come dice la Pulzella d'Orléans, e che se «la mia missione era da Dio», Giovanna d'Arco, della quale avevo rimandato per due anni la conferenza perché la mia interna voce mi diceva che in quel giorno mi sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile, aveva proprio mantenuto l'impegno di essere l'annunciatrice della mia prigionia, del mio supplizio. Non più battaglie e vittorie ma solo prigione e dolore. Non più stendardo di Cristo agitato sulle folle ma solo la croce su cui salire. Non più fiamme d'apostolato pubblico ma fiamma di un rogo di sofferenza che da undici anni mi consuma e non m'incenerisce mai. Ora ero completamente Maria della Croce. La santa guerriera, che ha incoronato il pavido Delfino a Reims, incoronava me della corona di spine. Quando ci viene levato il nostro amato lavoro nella vigna del Signore si soffre acutamente. La avevo difesa ad ogni costo questa mia libertà di lavoro per il mio Signore. E ora mi veniva da Lui stesso levata... Dopo si capisce quale onore sia questo, quale fiducia, quale amore di Dio per noi. Ma sul primo si soffre molto. E una di quelle ore di Getsemani che sono le prime a viversi nella nostra Passione! Quanto ci costa dire fra il pianto: «Sia fatta la tua volontà!». Nella notte di spasimo fisico, morale, spirituale, a fianco di mamma che dormiva beatamente, non avendo neppure la libertà di piangere apertamente, mi rifugiai in Cristo, ed Egli, come già a Caterina senese, mi disse: «Tu domandavi di sostenere e di punire i difetti altrui sopra di te e non ti avvedevi che domandavi amore, lume e conoscimento della verità, perché già ti dissi che quanto era maggiore l'amore tanto cresceva il dolore e la pena, onde a chi cresce l'amore cresce il dolore». E quale maggior crescita d'amore di questa di un Dio che mi dava il suo stesso letto, il suo stesso trono, il suo stesso altare: la croce? Questo pensiero, dopo le prime


ore di angoscia, mi scese come un balsamo sull'anima e la fece volonterosa di compiere il sacrificio. «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore" entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio», e con una lieve modifica potevano esser dette a me anche le parole dette all'apostolo Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorrai». Io, ammaestrata e corroborata dal Maestro mio, tendevo le mani a prendere la croce che il Padre mi imponeva e, subitamente invecchiata dall'infermità, divenivo incapace di tante cose e soggetta. a tutti per le mie necessità fisiche, morali e spintuali. Oh! se si riflettesse come la malattia ci mette disarmati nelle mani di tutti, noi poveri infermi che dobbiamo dipendere sempre dalla buonagrazia altrui... Bisogni fisici con tutto quanto di avvilente portano seco. Bisogni morali con tutto quanto li correda di solitudine e di malinconia che ben pochi sanno riparare. Bisogni spirituali con tutto quanto hanno di nostalgico per le funzioni che non vedremo mai più, per i Sacramenti che ci vengono dati con tanta avarizia, per la guida che ci viene a mancare, per tante, tante cose, mentre le prove si accumulano e la malattia crea nuove tentazioni e nuove debolezze... Quante cose vi sarebbe da dire sulla infermità! Ma salteranno fuori un po' per volta. Non voglio accelerare i tempi. Al mattino provai ad alzarmi alla solita ora. Impossibile! Rimasi a letto fino alle 9 e vi sarei stata ancora, ma mamma mi chiamò perentoriamente perché andassi a comperare il latte che la lattaia non aveva portato. Mi alzai con somma fatica. Il cuore era in condizioni spaventose. La testa mi girava, le gambe mi tremavano, ero tutta rotta come m'avessero flagellata. Scesi al terreno con il respiro grosso e un battere precipitoso in tutte le vene. Ad ogni scalino che facevo mi pareva che il cuore pesantissimo si abbassasse come per staccarsi. Uscii di casa tenendomi appoggiata ai muri. Per fortuna la latteria era quattro case più là e non c'era da attraversare la strada. Ero talmente cerea e con le labbra livide che la lattaia mi chiese se stavo male e mi aiutò a tornare a casa. Nel ritorno ci fu subito un'anima... buona che mi disse: «Ora la smetterà, eh? Non si impiccerà più di nulla, vero? Non vede che è finita?». Eh! ne ero più che persuasa! Ora starei zitta, ma allora non stetti zitta e risposi: «Farò quel che mi parrà di fare», e lo dissi tutt'altro che angelicamente. Tornata a casa con l'aiuto della buona lattaia mi riposai un poco... ma c'era da uscire ancora. Mamma non mi dava pace. Presi con me il mio cane pensando che almeno, se cadevo per via, mi avrebbe fatto la guardia. Feci pochi passi da casa mia all'angolo di Via Leonardo da Vinci. Non mi reggevo. Entrai un momento nel negozio di cartoleria che era là, allora. «Si sente male? Come è mutata!». Sempre la stessa domanda! Thtti vedevano che avevo un volto d'agonia, fuorché mia madre. Dopo pochi minuti mi parve stare meglio; uscii dal negozio e mi misi a camminare per via Leonardo. Avrei dovuto andare in Piazza Piave. Barcollavo. Dopo pochi passi ecco da capo il male tremendo del giorno avanti. Un signore e una donna fecero appena a tempo a prendermi prima che mi accasciassi al suolo. Mi riportarono a casa. Crede Lei che mamma capisse, almeno allora, la mia gravità? Neanche per sogno! Io dissi, quando potei parlare: «Voglio il medico. Mi sento morire». Il medico curante - allora era Armellini - stava di fronte a casa mia. Ero sempre andata io al suo ambulatorio. Ma quel giorno avrei voluto che


fosse venuto lui da me. Ma mamma disse: «Vai pure. Sono pochi passi e li puoi fare senza spendere il doppio a farlo venire». Maledetto denaro! Ha proprio ragione Papini a definirlo «sterco del demonio»! Per 5 lire, cinque lire di differenza, dovetti andare fuori di nuovo e, in mezzo alla via, sentirmi male. Una donna mi accompagnò dal dottore e dopo la visita il dottore stesso provvide a farmi riaccompagnare dalla domestica. Ero gravissima. E il medico lo disse apertamente non a me sola, ma a mamma, la quale non era venuta dal medico ad accompagnarmi, ma fu il medico che venne da lei a riferire. Forse egli sperava che dopo sarei stata risparmiata. Neanche per idea! Continuai a muovermi per casa, soffiando come un mantice, cadendo ogni tanto, soffrendo l'agonia di continuo. Uscire, no. Era impossibile. Ma per casa era come prima. Ora, se si parla di questo, mia madre dice tutto il contrario, ma ci sono molti testimoni che dicono che io dico il vero e lei non lo dice. Di madri Maria di Gonzaga, come era la Priora di S. Teresina, ce ne sono tante, ma tante! Ma almeno quella non era la mamma! La mia invece è la madre e non è la mamma... Il mio papà, pover'uomo, era crucciatissimo di vedermi così... Credo abbia cominciato a morire allora, perché ogni volta che mi vedeva stare male, ed ormai almeno una volta al giorno lp cuore cedeva, egli perdeva completamente la testa. Povero papà, quante lacrime sulla sua Maria spezzata così a 35 anni! Era l'unico che mi amasse. Gesù in cielo e papà in terra. Allora in casa venivano poche persone perché pochi volevano avere a che fare con mamma, e io ero sola e triste. C'era quella vecchia signora, ma era timida molto e perciò, per non urtare la supersuscettibilità di mamma, non mi difendeva per nulla. La sera della vigilia volli andare in chiesa, alla Messa di mezzanotte. Non mi potevo rassegnare a non andare più in chiesa, a non assistere più a una Messa, a non ricevere più il mio Gesù ora, specie ora che più che mai avevo bisogno di Lui! Andammo, nella notte nebbiosissima, dalle Dorotee. Eravamo un gruppetto di sei donne. Io avevo in tasca la digitale e il cognac. Mi sedetti in fondo alla chiesina. Soffrivo enormemente perché i pochi passi per la via, nel freddo, mi avevano riacutizzato il dolore cardiaco. Alla Comunione mi alzai e barcollando, tenendomi aggrappata ai banchi, andai all'altare. Al ritorno verso il mio posto cominciò un più forte batticuore. Bevvi la digitale e il cognac per non svenire. Appena sentii una tregua volli tornare a casa. Ah! non feci altro preparamento e altro ringraziamento che quello di una infinita sofferenza! Alla greppia, dove Gesù neonato vagiva, io deposi tutta la mirra di cui mi abbeveravo... E fu l'ultima Messa alla quale assistetti. L'ultima! Ne ho sofferto acutamente. Poi ho compreso che ora non dovevo più assistere alla Messa, ma dirla io, continuamente, coi miei dolori, col mio sacrificio. Il mio sangue doveva per sempre mescolarsi a quello dell'Uomo-Dio nel calice e dovevo io stessa alzare quel calice per offrirlo all'Eterno, dovevo io stessa consumare me stessa, piccola ostia, insieme alla Grande Ostia. E quando ho capito questo non mi sono più rammaricata d'esser claustrata dal male, d'èssere come una di quelle sepolte vive che usavano nel medioevo e che vissero decine d anni murate in una cella per soffrire e pregare per coloro che godono e non pregano. È rimasta pungente la fame di nutrirmi di Gesù... e quella, c e voluto Lei per avere pietà di questa fame del mio animo, Lei e padre Giosuè. Prima mi toccava stare anche dei 100, dico cento giorni senza che mai venisse


portata a me l'Eucarestia. Ho sofferto questo con spirito di povertà... ma è stato così doloroso! Pensi: tutto quanto il male o il demonio hanno suscitato in me per turbare il mio spirito, l'ho dovuto subire sola, senza l'aiuto di una frequente Comunione, che è potente a corroborare un cuore più di ogni altra cosa. Senza Comunione, io che avrei voluto poterla fare più volte al dì! Senza più poter vedere la santa Particola ove è il mio Dio, il mio Re, il mio Sposo, io che avevo trovato il modo, quando lo ricevevo, di sfiorarlo con un bacio, avanti di aprire la bocca. Quale reliquia può esser simile a quella dell'Ostia consacrata? Qui non v'è un pezzetto d'osso o di veste, un capello, un dente, una goccia di sangue: qui c'è Gesù vivo, vero, completo come era nel seno di Maria, come era nella casa di Nazaret, come era per le contrade di Palestina, come era sulla Croce, come è in Cielo. Quando io penso a questo vorrei essere il ciborio o l'ostensorio che lo contiene nella specie del Pane per poterlo toccare, tenere in me, fargli una cuna preziosa, rutilante d'oro e di pietre preziose. Ma poi penso che Egli, il Gesù mio dolce, preferisce il nostro cuore per suo ciborio, specie se questo cuore è reso bello dalla purezza, o reso puro dall'amore e prezioso dal sacrificio. Allora cerco di rendere tale il mio cuore e vivo per quell'ora di gioia in cui Gesù viene in casa mia per unirsi a me con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità. E nell'attesa lo adoro in tutti i cibori dove Egli si trova, in tutti i calici dove il suo Sangue innocente è levato verso il cielo, in tutti i tabernacoli dove sta in attesa dei suoi figli... Oh! mistiche attese, oh! segrete adorazioni, oh! sante immolazioni per preparare la dimora del mio Re, chi vi può descrivere con quella esattezza che si dovrebbe? Chi ridire i frutti di gioia, di pace, di benessere che porta la sua venuta? Benessere non solo spirituale, ma anche fisico. Molte volte io, quando sono stata morente ed ho voluto subito l'Eucarestia, sono risorta a nuova vita non appena l'unione di Gesù con me stessa era avvenuta. E posso dire che dopo una Comunione io sto sempre meglio che non stessi prima. Anche stamane, quando Lei è venuto, mi sentivo malissimo. Dopo stetti meglio. Perciò, quando venerdì Lei mi disse che dopo aver detto la Messa era stato meglio, io non me ne stupii per nulla. È il frutto naturale dell'unione con Gesù, il Medico dei medici, il Risanatore per eccellenza. Ma torniamo al mio racconto. Il giorno dopo era Natale. Da buona francescana, io usavo tutti gli anni portare molto becchime agli uccellini della pineta, perché anche loro laudassero il Creatore nel giorno santo della nascita di Cristo. Vi volli andare anche quell'anno. Fra me e tutto il creato c'è sempre stato un grande buon accordo. Non riesco a capire quei credenti nel Dio Uno e Trino che non amano le cose da Lui create. E tanto meno capisco certi santi. Vi sono fra questi degli atleti di un rigorismo, dirò così, ascetico, che li fa ciechi per tutto quanto intorno a noi fiorendo, cantando, vivendo, splendendo, celebra notte e dì la Potenza che li fece. Davanti agli occhi di Dio avrà certo merito anche questa rinuncia spinta all'estremo. Ma non saprei proprio imitarla. Mi parrebbe d'esser sconoscente verso il mio Creatore, che mi ha concesso di vedere le notti serene in cui il cielo pare un immenso velano di cupo velluto tutto trapuntato di stelle che scrivono nel firmamento misteriose parole del poema creativo. Sconoscente per la verginea luna che veste di candore fin l'umile ciottolo d'una silvestre via. Sconoscente per il miracolo sempre nuovo della luce che torna, ad ogni


alba, a consolare l'uomo dopo la notte oscura, per le aurore che spargono sui cirri delle nubi leggere delicate tinte di pastello e tramutano i boschi e i campi in un immenso forziere di gemme brillanti, sospese a fronde, a corolle, a steli baciati dal sole. Sconoscente per tutta la seta profusa sui mille e mille fiori del creato la cui veste è più bella di quella di Salomone, per tutti i frutti della terra, dalle ondanti biade ai succosi grappoli, alle vellutate pesche e alle dipinte mele, per tutte l'acque che cantano con voci risarelle nei ruscelli, che borbottano nei torrenti, sospirano nei fiumi e suonano su piagge e scogliere un potente e insonne osanna a Dio. Sconoscente per i venti dalle mille voci e dai mille profumi rapiti nel corso veloce, sconoscente per le gaie tribù dei pennuti che cirlano, fischiano, pispolano, cantano, amano empiendo di vita il regno delle fronde, e per tutti gli animali che offrono la loro fatica o il loro amore all'uomo per suo conforto e anche per quelli che, selvaggi in vergini foreste, testimoniano pure quanto è stata grande la Forza che li fece. Quanto ho meditato, adorando, davanti anche all'umile. pratolina dal cuore d'oro fra la raggiera candida, davanti al crescer dello stelo che si muta in spiga e in futuro pane, davanti al nido pieno di ovetti fra le piume e le lane rapite alle aie per farne letto alla dolce prole, agli ovetti che ora sembran sassolini e in cui già c'è una vita e domani saranno un mucchiettino tepido di carni, un desiderio palpitante di cibo, una prossima letizia di voli e di canti... Quanto ho meditato davanti agli sconfinati orizzonti marini e guardando gli ancor più sconfinati orizzonti dei cieli, i due altari più belli che hanno per ministri gli angeli, per organi le acque e i venti, per ceri gli astri... Oh! parole vive del nostro «Credo» nell'esistenza di Dio, parole che nessun inganno del demonio e nessun orgoglio dell'uomo può cancellare, parole eterne che avete visto il primo risveglio di Adamo e assisterete al sonno dell'ultimo uomo, parole fedeli, parole osannanti, come siete sempre state per me luce, come mi avete sempre parlato del mio Re «per cui tutto è stato fatto»! Ora non vi vedo più coi miei occhi mortali. Mai più vi rivedrò, o cose belle fatte dal mio Dio. Per riparare al suo dolore d'esser bendato e schernito dalle soldataglie sacrileghe, ho accettato di non vedervi mai più. E peggio di una cieca, che almeno vede ancora attraverso l'olfatto e il tatto, io non posso più, mai più sentirvi, odori di bosco e di fieni, stormir di boschi e di biade, muoversi d'acque e carezze d'astri. Mai più. Mai più alberi che fiorite a primavera, boschi che vi vestite di porpora in autunno, aie che vi decorate di pannocchie d'oro sotto lo svolazzio delle colombe e quiete greggi che parete un mare di lana ondoso e spumoso come cresta d'onda. Mai più, chiocciate d'oro che una madre croccolante aduna sotto le ali trepide. Mai più. Alle volte mi prende un così vivo desiderio di rivederti, o spazio infinito del cielo, o spazio infinito del mare, che un pianto mi sale agli occhi. Oh! nostalgia dell'infinito creato da Dio, che non si placherà più altro che quando io mi unirò all'Infinito stesso! Ma vi ho tanto guardato, cose di Dio, che vi vedo ancora... e ti ho tanto amato, o Dio che hai fatto le cose, e ti amo tanto, che accetto volentieri questo che è pure un martirio nei miei svariati martirii. Andai in pineta sorretta da papà. Ma dovetti spargere il mio regalo per gli uccellini di Dio proprio li, al principio. Non potevo camminare. Fino al 4 gennaio non uscii più. Ma quel giorno mamma voleva fare delle visite e perciò, viziata come era, pretese il mio aiuto di... dama di compagnia. Solo a


vestirmi era una fatica... Due passi e una fermata, altri due e altra fermata... La gente mi guardava... Poi... anche mia madre dovette arrendersi all'evidenza che il povero asinello non poteva camminare più... E dal 4 gennaio 1933 non sono mai più uscita. Veramente avrei dovuto stare in assoluto riposo anche in casa... Ma in riposo non ci stavo. Mi alzavo alle sette e lavoravo tutta la mattina. Poi, dopo mangiato, o visto mangiare gli altri - è più esatto - mi concavo fin verso le 17, ora in cui mi alzavo per preparare la cena agli altri. Al lunedì venivano le ragazze della gara e davo loro lezione. E così finii di ammazzarmi. Ogni tanto andavo in fin di vita per attacchi cardiaci, poi tornavo a riprendermi. Ma ero sempre più malata. Non vidi più un sacerdote fino a Pasqua, nella quale ricorrenza la Presidente, forse morsa da un rimorso per avermi tanto tormentata e per avere impedito che venissero da me la Barelli e altre del Consiglio Centrale, nonostante lo avessero chiesto, mi portò il quaresimalista di S. Paolino. Non so il nome. So solo che era parroco a Montelupo. Fu molto buono con me e mi consigliò di pregare molto l'angelo consolatore di Gesù agonizzante. Era quello che ci voleva, perché quando avevo le mie agonie le confesso che avevo paura. Si, la morte, che ho già sentito molto vicina, è venuta verso me con tutta la sua asprezza. E ho avuto ribrezzo di lei con la mia parte inferiore. Ciò non deve stupire. Ho chiesto d'esser vittima non per l'Amore solo, il quale mi avrebbe fatta morire in un soavissimo languore d'amore. Ma ho chiesto alla Giustizia di immolarmi; e come Gesù, Vittima prima della Giustizia eterna, avrò una morte penosa. Come sempre ebbi penose le mie infinite agonie. Pregai d'allora sempre l'angelo di Gesù agonizzante e, quando poi seppi che si crede sia l'arcangelo Gabriele, lo pregai con ancora maggiore devozione. Sono stata battezzata il giorno di S. Gabriele Arcangelo e penso sia un poco il mio padrino nella mia nascita alla Chiesa; lo sarà anche nella mia nascita al Cielo. In maggio le mie figliette andarono a Montenero per premio dei loro esami. E là pregarono secondo la mia intenzione: ossia per la mia immolazione. Non ho mai chiesto altro per me: esser consumata e ottenere la vita eterna. Non ho chiesto e non ho mai fatto chiedere altro. Sarebbe stata una incongruenza. Non si richiede indietro quel che si è donato, se si è persone serie. Sarebbe un'offesa. Col buon Dio si deve fare lo stesso. Offrirsi e poi ritirarsi impauriti alla prima richiesta di Lui mi pare fare come quelli «che messa la mano all'aratro si volgono indietro e così si rendono inadatti al Regno di Dio». Ed io voglio essere adatta a questo Regno. Ho rinunciato a tutto della vita: a salute, a gioia, a ricchezza, a permesse letizie di amicizia, di passeggiate, di visioni di natura, ma vi ho rinunciato per avere tutto nell'altra vita. Né è stolta presunzione la mia, poiché il mio Maestro (che sta svegliandosi dopo due giorni e mezzo di sonno...) mi dice le parole vecchie di 20 secoli e sempre nuove: «In verità ti dico: nessuno ha abbandonato casa, padre, madre, fratelli e campi per amor mio e per il Vangelo, che non riceva il centuplo in questo tempo... unitamente alle persecuzioni e, nel tempo avvenire, la vita eterna». Io ho tutto abbandonato; ho dato il tesoro più grande dell'uomo: la salute e la vita, perché sono presso alla morte; ho abbandonato padre e madre poiché mio padre mi fu negato dalla malattia di assisterlo nella sua morte, e mia madre più non la posso servire e sempre più sento come sono a lei di peso... onde sono abbandonata da lei; ho rinunciato alle mie figliette d'anima sul cui fiorire m ero curvata


con tanto amore; ho rinunciato perfino alla mia casa, poiché non vivo che fra le mura di una camera simile a cella murata dalla quale niente mi può far uscire in vita; non possiedo più neppure le cose mie, come i miei cari libri, il mio pianoforte... tutto ho abbandonato per amore di Dio e ho ricevuto il centuplo dal suo amore che ora è voce, è carezza, è presenza. Ho avuto le persecuzioni perché il mondo perseguita sempre, quando ci si mette, anche se il male fa di noi dei sepolti; e nel mondo sono i nostri stessi parenti, ai quali siamo di peso e ce lo dicono, sono gli amici che ci deridono come pazze, sono i medici che ci tormentano in mille modi, sono gli estranei che, non sapendo nulla, vogliono blaterare con non misericordiose critiche... Sono quindi sicura di avere un giorno la vita eterna. Poiché Dio non mentisce, poiché Cristo non può aver sbagliato nel dire le cose, poiché la Ss. Trinità non può mancare alla sua parola. Quando mi sovvengo del dialogo dello scriba col Maestro: «Quale è il primo dei comandamenti?», «Ama il tuo Dio con tutto il tuo cuore, la tua anima, la tua mente, le tue forze, e ama il tuo prossimo come te stesso», «Maestro hai detto bene... e l'amare Iddio così e amare il prossimo così vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici», io sento scendere in me una sconfinata fiducia. Sì: ho amato Dio con tutte le mie forze, con più ancora delle mie forze perché l'ho amato fino a morirne. Ho amato il prossimo più di me stessa perché prego e soffro per esso, abbandonando la cura del mio futuro eterno alla bontà di Dio, senza accumulare per me tesori egoisti. Perciò sento la divina, cara Voce dirmi: «Tu non sei lontana dal Regno di Dio». Vieni, vieni o Regno di pace dopo tanto soffrire, e rendimi, oh! allora sì, rendimi tutto quello che ho donato... Rendimi stelle e fiori, rendimi canti d'uccelli e d'acque e fulgori di sole, rendimi tutto poiché tutto è in Dio e, quando io sarò una col Tutto, tutto avrò di nuovo, e in eterno. Vieni, vieni, divina Bellezza, alla quale mi affisso per soffrire sempre meglio. Si cancellino i veli che ancora mi celano la tua Perfezione, o dolce Amore, e dopo la croce venga la gioia d'esser con Te. Forse Lei dirà: «Ma costei dice sempre le stesse cose!». Può anche darsi. «Frate Masseo, domandato da frate Jacopo da Fallerone perché nel suo giubilo non mutava verso, rispose con grande letizia che quando in una cosa si trova ogni bene non bisogna mutar verso», si legge nei fioretti di S. Francesco. Io non muto verso nel mio canto d'amore. E così passavano i mesi... Credevo che sarebbero stati mesi... Sono degli anni. Accadde allora una cosa impensata. Avevo girato per le vie fino al dicembre e mai nessuno mi aveva cercata. Non attiravo perché vestivo male e da vecchia, parlavo poco, ero una nullità grigia che si confonde senza spiccare. Neppure il mio parlare in pubblico mi aveva attirato amicizie. Solo delle anime erano andate a Dio. A me, povera voce che parlava di Dio, non era venuto nulla. E del resto non lo avevo desiderato poiché io lavoravo per Lui solo. Chiusa in casa, cominciò la serie degli sconosciuti che mi vennero a cercare. Non è ancora finita, anzi sempre più si intensifica, imponendomi rude fatica di pazienza e di parola... Poco fa mi sono quasi messa a piangere per questo. Ho tanto bisogno di silenzio e di tranquillità. E sono sempre disturbata. Arrivo quasi a svenirmi nella fatica di sentire tante voci e dover rispondere a tante parole... Ma... pazienza!... Una giovane signorina, una vecchia dama dell'aristocrazia, altri ancora... Chi li mandava? Mah! Dei conoscenti nessuno. Mie uditrici non erano. Vennero perché dissero


che volevano conoscermi. E si è iniziato così questo apostolato spicciolo che dura ancora e che mi costa tanto di parole e di scritti. A metà luglio arrivò il nuovo Parroco. Dal Parroco partente avevo fatto fare l'intronizzazione del Sacro Cuore. Avevo ben bisogno di vivere come in una chiesa, posto che in chiesa non potevo andare più. Feci avvisare subito il nuovo Parroco, che venne e mi portò la Comunione il 28 luglio. Da Pasqua ero rimasta sempre senza. Il giorno di S. Lorenzo stetti malissimo. Una cura sbagliata aveva aumentato il mio male. Da quel giorno peggiorai rapidamente. Nonostante tutta la buona voglia di fare, mi trascinavo ormai, esaurendo così le estreme riserve. Ma ebbi ancora modo di bere al calice della cattiveria umana con l'atto indegno della sempre nemica Presidente... Meno male che ero francescana convinta! Il mio serafico Padre mi cantò l'inno del perdono per amore di Dio. «Beati quelli che perdonano per tuo amore e soffrono pene e tribolazioni». Avevo chiesto il dolore. E il Dolore veniva da tutte le parti. Mi pareva di essere una cisterna in cui si adunassero le acque di molti canali. Vi era il canale della malattia, quello della calunnia, quello dell'indifferenza, quello della esigenza, quello dell'invidia. Tutti, tutti. «Scrivi, frate Leone pecorella di Dio: più di tutte le opere e i doni con cui lo Spirito Santo decora l'anima nostra, è grande il patire pene e tribolazioni per amore di Cristo. In questo è la perfetta letizia». Io ero, e sono, con lo spirito, nella perfetta letizia, perché Gesù, trattandomi da amica sua, mi dà la gioia di soffrire volentieri, per suo amore, pene, croci e ogni dolore. Nel dicembre, per un'altra cura ancor più sballata delle altre, a base di bromuri a dosi da cavallo e di sieri, mi ero ridotta tremante come per paralisia. Non sapevo neppur più scrivere e io, di mente sempre così forte, avevo amnesie paurose. All'analisi risultò che perdevo fosfati nella dose del 70%... Allora ai ripari con altre cure sempre più... ostrogote. Giù cardiazolo ad alte dosi, come per i matti. Intanto si era addottorato un nostro giovane amico che al 10 agosto mi aveva soccorsa durante la paurosa crisi. Volle visitarmi anche lui e sospese tutte le cure come micidiali. Ma lui partiva e io restavo, e il curante insisteva. Allora andiamo avanti. Le crisi erano anche doppie nel dì. Una continua agonia. Ormai stavo molto a letto, alzandomi solo per fare le faccende di casa, che non mi furono mai risparmiate finché mi ressi ritta. Cosa che avvenne il 1° aprile 1934. Un bel pesce d’aprile, vero? Ma le devo dire, a Lei che è il mio padre spirituale, quello che non dissi a nessuno. Le cure erano... asinesche e avrebbero peggiorato chicchessia. Ma io avevo un'altra cosa che mi faceva morire e vivere ad onta dei medici... Ed era l'Amore. Sfogliando, per trovare le date con maggiore esattezza, un diario che tenevo allora, trovo frasi infuocate che mi riportano il riflesso dell'ardore di quei giorni. Ho avuto un periodo di così intenso trasporto d'amore che mi pareva di vivere fuori di me, del mio povero essere così difettoso. Un serafino si era impossessato di me e mi avvampava delle sue vampe d'amore. Mi sentivo soffocare, tanto il cuore si dilatava nell'incandescenza. Cantavo, con parole create da me su ritmi spontanei, per dare uno sfogo al mio tormento. Avevo dato una musica anche al Canto di Frate Sole, a molte poesie di S. Teresina, ripetevo canzoni sacre. Avevo bisogno di uno sfogo per non esplodere... La sera del 10 febbraio scrissi il mio Canto dell'Amore. «O mio Diletto, come ha sete di Te l'anima mia, come ti va cercando per ogni dove con


amorosa ansia! Oh! dove sei Tu? Oh! chi mi può sollevare nell' ansiosa ricerca del mio Bene? Vorrei parlare dell'amore che mi agita e mi opprime, vorrei trovare altri cuori in cui versare la piena della dolcezza che mi gonfia il cuore. Ma, ahimé! il mondo è sordo e inerte alla grande voce dell'amore! É una delle croci più grandi degli amanti questa: avere cuore, mente e parola piene del Diletto e sentire l'indifferenza e l'ottusità che li circonda e imbavaglia. Sole col Solo, sempre ansiose di Te, Amore, vivono queste anime in mezzo agli uomini, e sono in un deserto perché gli uomini non le possono capire. E allora a Te si volgono, a Te lontano e a Te presente nell'anima che adora, a Te che solo le puoi comprendere e saziare nella loro grande fame. Oh! sazia Tu questa insaziabile fame, Tu che solo lo puoi, espanditi, trabocca in esse che sono volte verso di Te come avide bocche, come coppe che attendono d'essere colmate. Sommergile nell'onda del tuo amore, ardile nell'ardore della tua fiamma, annientale nel fulgore della tua potenza. Esse chiedono solo di essere da Te immolate, su un rogo spirituale che nel martirio le sublima. Vieni, Diletto, vieni, non più tardare, l'anima mia ha sete di Te! L'anima mia ti chiede l'amore, un sempre più rinnovato incendio d'amore; soffre per Te quest'anima mia, sente crescere la sua pena col crescere del suo amore. Eppure, mentre ad istanti ti chiede pietà perché troppo ardente è la fiamma che trapassa il cuore, mentre ti chiede una tregua perché troppo violentemente l'investe l'amore, essa ti grida: vieni, vieni a chi ti adora! E che sarà mai l'amore nei cieli se sulla terra esso è tanto dolce? E che sarà mai l'incontro con Te se a tanta distanza l'anima si liquefà al tuo fuggevole passaggio? E che sarà la conoscenza di Te, Amore Eterno, che sarà l'Amore perfetto, l'eterno abbracciamento con Te, se è tanto grande, potente, soave, profondo il mio povero amore di creatura? A me il mio Diletto ed io a Lui! Oh! non cercate, creature, di strapparmi da Lui, non cercate frapporvi fra me e l'Amato. Quando anche Egli mi abbandonasse ed a me nascondesse il suo Volto, io non cesserò per questo d'attenderlo e d'amarlo. A Lui rivolta come fiore al sole io starò aspettando in pace la fine della prova, e più dolce sarà l'istante del ritorno in cui nuovamente Egli volgerà verso la sua schiava il suo divino riso. Nulla sulla terra può sviarmi da Lui perché Egli è dolcezza, Egli è bontà, Egli è luce, Egli è calore, Egli è vita, Egli è conforto, Egli è beatitudine, il dolce Cristo che mi ha rapito il cuore. Per Lui e in Lui diviene dolce ogni tormento, in Lui si calma ogni angoscia, da Lui ogni debolezza trae vigore. Egli è l'Amato! Egli è il mio Amore!». Come vede, a distanza di nove anni io ripeto le stesse cose. Sono quelle e non possono variare. Dovrei impazzire o divenire preda del demonio per cambiare. Ma spero che Gesù non lo permetterà mai. Mi affido a Lui. L'ardore cresceva sempre. Sfogliando il mio diario dopo tanti anni trovo l'inno di gioia nel dolore farsi sempre più alto. Venne la Quaresima, la Settimana di Passione, la Settimana Santa. A Maria, che non poteva mai più andare da Gesù crocifisso, venne Gesù crocifisso. Uno scultore portò una grande croce di marmo nero con un magnifico Cristo in marmo di Carrara. Era una vera opera d'arte di una espressività potente. Voleva venderlo perché aveva bisogno di denaro per una cura oftalmica. Stava accecando. Si era rivolto a noi perché lo mostrassimo a persone amiche, fra cui la contessa Melzi d'Eril, nella speranza di trovare il compratore. Feci adagiare il Cristo sul divano, ora letto di Marta. Allora la stanza era ancora salotto.


Vi rimase per tutta la Quaresima e fino al giorno dopo Pasqua, se non erro. Io andavo da Lui tutti i momenti, con la scusa di ritirarmi nella stanza silenziosa dove non arrivava odore di carbone. In realtà andavo per amarlo. Quanti baci su quel marmo freddo che rappresentava il mio Dio! Mi inginocchiavo a fianco del divano e gli parlavo per ore intere ascoltando la Voce che mi rispondeva, venendo dal profondo dei Cieli a suonarmi in cuore. Fossi stata molto ricca avrei comperato io quel lavoro. Era così naturale quel Volto solcato dal dolore e scavato dalla morte, quell'abbandono delle membra e quel torace dilatato dall'ultimo anelito dopo l'estremo grido! Aveva la mano sinistra serrata sul chiodo, come se il crampo finale l'avesse rattrappita così, e la destra invece col pollice, l'indice, il medio ben stesi, quasi per benedire ancora. L'amore cresceva nel contemplare il mio Dio morente... cresceva tanto da darmi un tormento fisico che culminò il Venerdì Santo. Oh! ho creduto morire col petto squarciato, tanto fu forte l'amore! Ho sentito lacerarmi dentro qualcosa come se una lancia mi frugasse nel petto. Deve però essersi realmente lacerato qualcosa, perché anche i sapienti Esculapi arzigogolavano sopra una lesione che si intuiva essere nel mediastino o fra questo e il cuore e di cui non sapevano dare spiegazione. Credo che solo la mano di Chi mi aveva ferita medicò la ferita stessa in maniera che rimanesse senza uccidere. Lo credo perché quel dolore, superiore a quanto possa esser e sopportato da creatura umana, lo risento, specie nelle ore di più alta fusione con il mio Signore. Lo credo perché nessun rimedio umano è atto a calmarlo. Lo credo perché non manca mai quando raggiungo una forza così assoluta nella preghiera da strappare una grazia al cielo. Lo credo perché di colpo scompare a grazia ottenuta, salvo tornare nelle ore di più intenso amore e di più intensa preghiera, sempre più vasto... Fosse un dolore umano, sarebbe cosa da impazzire! Pochi giorni avanti di provare quello spasimo soavissimo e crudelissimo avevo composto una preghiera che dicevo dopo quella di S. Francesco: «Signor mio Gesù Cristo, due cose ti prego Th mi faccia prima che io muoia: la prima, di sentire nell'anima e nel corpo mio, quant'è possibile, quel dolore che Tu, dolce Gesù, sostenesti nell'ora della tua acerbissima Passione; la seconda, di sentire nel cuor mio, quant'è possibile, quello straordinario amore del quale Tu, Figliuol di Dio, eri acceso tanto da sostenere volentieri una così grande Passione per noi peccatori». La mia, al serafico Padre, era così composta: «O Padre mio S. Francesco, per quell'amore con cui Cristo ti amò e tu amasti Lui, dàmmi, ti prego, la sofferenza e l'amore che impetrasti per te stesso. Non ti chiedo la gloria visibile delle stimmate, delle quali non sono degna, ma la compartecipazione intima alle pene e all'amore di Gesù e tuo, acciocché io, a imitazione vostra, muoia d'amore per Iddio e per le anime». Il buon Dio mi dava quanto avevo chiesto. La ferita interna che era pena e amore, la ferita che m'avrebbe condotta alla morte dopo un mare di dolore valicato con tanta volonterosità per il Signore e le anime. Oh! posso ben dirlo! Il mio Signore non mi ha mai negato quanto gli ho chiesto. Avendo pietà della mia piccolezza, avendo compassione della mia vita senza nessun sollievo di gentilezze dai parenti, avendo condiscendenza per il mio buon volere che era tutto quanto potevo dargli, mi ha sempre colmata di tenerezze, di doni, di pensieri delicati quali solo un padre amoroso e uno sposo amorosissimo possono dare. M'ha dato molto di più di


quanto io stessa gli chiedessi. S'è sempre curvato attento ad ascoltare non solo le mie domande ma anche i desideri inespressi e li ha resi realtà. Amavo i fiori e non potevo comperarli. Ebbene, il mio cortiletto era un vero canestro colmo di fiori trovati per via: bulbi di ireos, violette, gerani le cui talee gettate da chissà chi attecchivano subito dando fiori su fiori. Avevo trovato un rimettiticcio di passiflora, uno dei miei fiori preferiti, ed era divenuto pianta rigogliosa: rose, mughetti, fresie, violette, gerani di tutte le qualità, pelargoni, iris bianchi e violacei, garofani... avevo di tutto e in tutti i mesi dell'anno. Chi veniva strabiliava. I miei quaranta e più vasi erano tutti in fiore. Le piante mi si empivano sempre di corolle come per un'eterna primavera. Ora, da quando io sono a letto, sono tutti morti... Amavo le colombe e avevo potuto averne delle razze bellissime che mi amavano con una tenerezza umana, meglio che umana. Ora sono morte quasi tutte e inselvatichite. Desideravo gli uccellini e Gesù me li fornì sempre e li fornì in modo che mamma non poté imporre il suo «no». M'era morto il cane e ne soffrivo perché, inferma come sono, ho desiderio di una compagnia fedele nelle lunghe notti e nelle ore in cui sono sola durante il giorno: ed ebbi chi mi diede il cane. E su, su, su. Nelle piccole gioie materiali e nelle grandi cose spirituali sempre il buon Gesù mette nella mano della sua piccola schiava d'amore i suoi doni. Grazie per tanti che mi dicono di pregare e grazie spirituali per me. E conforti a non finire. Forse fa così perché solo Lui sa cosa soffro, Lui e io lo sappiamo con esattezza. Thtti gli altri sono ben lontani dalla realtà del mio soffrire. Dandomi sempre tutto quanto io gli chiedevo, mi dette anche la ferita interna che non si vede ma che duole come una lancia uncinata, infuocata, che strappi e bruci le carni più vive. Se il Venerdì Santo del 1930 io ebbi la mia prima ora di agonia insieme al Cristo, nel 1934, il Venerdì Santo, io fui trapassata dall'amore nel contemplare il mio Gesù sulla croce. Quando potei alzarmi scrissi questa pagina, che dico spesso e specie nelle ore di maggior soffrire o nel tempo quaresimale: «Egli è l'Uomo dei dolori, il Diletto del cuore mio. Per somigliare a Dio devo soffrire io pure. A me dunque, a me venite, o care spine, o dolci chiodi; me colpite ché la sposa vuole ornarsi dei gioielli del suo Re. Vedi come languido è il suo sguardo, come arsa è la sua bocca mentre prega sulla croce per la ria umanità. Odi tu, cuor mio, la voce mormorare fra i singulti le parole dell'amore? Egli muore per noi e perdona e promette il paradiso e chinando il dolce viso: "Sitio!" dice e attende da noi pietà. "Alle labbra benedette, al tuo cuore sofferente, quali cure posso darti per calmare l'estremo affanno? Con quale balsamo al tuo petto dare sollievo, o Redentore?" "Con il tuo fedele affetto e il generoso tuo soffrire Oh! a me, a me venite, dolci spine e cari chiodi! Me cingete, me colpite, me inchiodate al duro legno. Sul mio petto e sul mio cuore posi il capo del mio Re. Col mio affetto e col mio amore voglio tergere il suo pianto, dissetare la sua febbre, confortarne l'agonia. Benedetto sia il dolore che mi rende uguale a Te! Benedetta sia la croce che mi innalza sino al cielo! Benedetto sia l'amore che dà ali al mio soffrire! Benedetto sia quel giorno che il tuo sguardo m'ha ammaliata! Più beato sia il momento che a Te m'ha consacrata! Ma serafico è il tormento che mi unisce, o Redentore, alla croce, al dolore, per la gloria, o Dio, di Te! Oh! a me, a me venite, dolci spine, cari chiodi, me ornate, in me scolpite la sembianza del mio Re. Vieni, vieni, duro legno della croce, insanguinato;


tu solo, a mio sostegno, io voglio cercare quaggiù. Su nel cielo, fra gli splendori, non più languido e gemente, ma eterno e risplendente, m'attende il Redentòre. A Lui, ornata della croce, cinta il capo di sue spine, consumata dal suo amore, volerò un di. E fra gli angeli osannanti e serafici fulgori, i tormenti ed i dolori in tante gemme Egli muterà. Benedetto sia il dolore, benedetta sia la croce, benedetto sia l'amore che in cielo si compirà! ». Scrivere così, solamente scrivere non sarebbe nulla di meritevole. Anzi un vano esercizio di parole. Ma io quelle parole le convalidavo, e le convalido, col mio dolore che amo molto più di me stessa. E ciò dà valore a quel grido scritto in un momento di unione profonda al mio Re crocifisso. I mali sono andati aumentando in numero ed in profondità, ma io non ho mutato il mio canto e sempre dico: «Benedetto il dolore, la croce, l'amore». E sempre invoco: «A me le spine, i chiodi, i flagelli, poiché ciò che il mondo sfugge costituisce il mio riposo, perché più cresce la stretta del soffrire e più aumenta la pace e la beatitudine, e per ogni fibra che si spezza, e per ogni forza che si annulla, io sento che si aggiunge una cellula al mio nuovo io che vivrà in cielo, poiché il cielo è di coloro che seppero morire alla carne prima che la carne morisse a noi». Soffro col Cristo e con Lui sarò glorificata. La sua vita e la sua passione si manifestino in me, che non chiedo che di rimanere confitta sulla croce, su quella croce che è follia per i figli della perdizione ma è una forza divina per quelli che sono entrati nella via della salute, come dice l'Apostolo dalla parola incisiva e il cuore ardente. Due giorni dopo quel momento di estasi e dopo quel grido di desiderio che mi squarciò il petto, io fui confitta in Croce. Cristo ne scendeva, nella gloria della sua Risurrezione, io vi salivo per amore dei miei più cari amici: Gesù e le anime. Avevo sforzato me stessa per non mettere malinconia a papà con lo stare a letto proprio quel giorno. Ma non mi reggevo ritta. Udii, da una radio vicina, la benedizione papale impartita dopo la canonizzazione di Don Bosco. Con questo viatico andai a letto. Ormai avevamo adattato a stanza da letto il salotto e io vi presi possesso... e vi sono ancora. Una novena di anni. Quanti ancora ne avrò da passare? Mi pare d'esser prossima a finire. Ma chi si abbandona a simile speranza che fu delusa tante volte, ormai? Bene: sia fatta una volta di più la tua volontà! PARTE SESTA Quando uno diviene completamente infermo subisce reazioni strane. Le prime, io le subii nell'aprile 1934; le seconde, più fiere, nell'agosto dello stesso anno. Passare dal moto, per quanto ormai ridotto e molto relativo, all'inerzia, è sempre penoso per chi era attivo. Ed io ero molto attiva. Dover dipendere dagli altri e farsi servire, mentre prima si era sempre fatto da sé e si era servito gli altri, è avvilente. Non sempre coloro che ci servono si ricordano di come li servimmo finché lo potemmo fare. E tanto meno se ne ricordano quanto più erano esigenti nel farsi servire finché lo potemmo fare. I primi giorni è una grande pena. Ma anche qui le reazioni sono diverse e la durata di esse pure diversa a seconda di come è l'allenamento spirituale. In coloro completamente lontani da Dio, immersi solo nel culto del senso e del denaro, l'infermità cronica è ribellione dalla manifestazione più violenta che può sfociare anche in un suicidio. Qualche volta, poiché Dio può tutto anche contro il nostro stesso volere, queste creature vengono salvate dal


loro stesso dolore e riportate a Dio. Generalmente queste risurrezioni spirituali avvengono in anime non del tutto avulse da Dio ma solo sedotte dalla religione «del più comodo e del più piacevole». Sono anime più sviate che anime morte. Sotto il colpo del dolore si accorgono del loro aver fondato sul nulla il benessere e alzano gli occhi cercando un aiuto... Basta questo a Dio per farsi avanti e dire: «Povera creatura che soffri, eccomi, son qui. L'aiuto sono Io». Queste anime, in cui il dolore diviene voce di richiamo, sono spesso le salvate da un'altra anima che soffre per loro. Le due persone talora neppure si conoscono; delle volte non si conoscono neppure le anime... solo in Cielo avverrà l'incontro... Come saremo stupiti allora di vedere il nostro agente di salvezza nel più impensato essere che noi abbiamo sfiorato sbadatamente, o del quale neppure sapevamo l'esistenza! E come sarà bello per l'umile redentrice trovarsi intorno a farle festa coloro che ella ha redento col suo pregare e col suo soffrire! Uno dei dogmi che più mi affascinano della nostra Religione è quello della Comunione dei santi. Quando io penso che la gioia di cui fruisco viene a me dai fiumi celesti di cui ogni flutto è formato dai meriti del Santo fra i figli degli uomini, dal mio Gesù, dalle grazie della Tutta-Grazia e dalla somma di opere e di carità di tutto lo sconfinato esercito dei martiri, dei vergini, dei penitenti, dei confessori, io mi sento rapita in un trasporto di riconoscente gioia e sento che finché meriterò questa infusione vitale non potrò perire. Io sono un povero essere ma, simile a una armatura che sorregga la mia debolezza, i tesori dei Santi operano intorno ed entro a me, dandomi capacità di vivere la vita della fede. Quando io penso che alla mia nullità, che non sa altro che soffrire con gioia per imitare il Maestro e tutti i suoi eletti, èconcesso di divenire a sua volta goccia nell'immenso fiume di questi meriti e andare a portare la mia freschezza alle anime arse da vampe umane, il mio lavacro alle anime infangate dalle colpe, il mio olio di carità ai feriti della vita, il mio nutrimento ai derelitti della sorte, il mio canto ai tristi, il mio pianto ai defunti, allora mi inabisso in un profondo di umiltà che adora e benedice! Essere, sol perché in me circola il sangue spirituale della Chiesa, essere io, io nulla, io miseria, io debolezza, io puerilità, una forza, una luce, un mezzo per dare Dio alle anime e col Dio ogni grazia, e le anime a Dio e con le anime dargli di che sollevare la sua sete! Nei tiepidi l'infermità dà nervosismo e piagnucolamento. Sono quei malati che, anche se hanno un male solo e non molto doloroso, non fanno che lamentarsi e proclamarsi i più infelici di tutti. Brontolano contro Dio che ha levato loro la salute. Anche avessero 80 anni e oltre, dicono sempre: «Però non è giusto che ora che sono presso a morire io soffra. Poteva risparmiarmi ancora un po'». Secondo loro è giusto che, invece, degli altri soffrano fin dai più teneri anni, tanto, dicono, chi ha sempre sofferto ci è abituato... Brontolano contro il prossimo che non ha mai sufficiente cura di loro. Una porta rimasta socchiusa è un attentato alla loro preziosa salute, un ritardo nel porgere loro un bicchier d'acqua è una prova sicura di malammo, un lieve urto dato alla loro... fragilissima persona è un delitto, una parola detta per tentare di incoraggiarli è imperdonabile prova che noi non crediamo al loro soffrire, se si sorride è uno scherno, se si piange non si ha pietà della loro malinconia, se si parla li si fa aggravare, se si tace li si offende con l'indifferenza. Brontolano coi familiari, cogli infermieri, coi medici, arcibrontolano coi


sacerdoti che dicono loro di avere pazienza, brontolano con le bestie di casa, brontolano per il caldo, per il freddo, per le mosche, per il fazzoletto che casca, per il caffè che è poco o troppo caldo, per il giornale che non si piega a dovere... Brontolano, brontolano come macchinette montate a elettricità. Vivono brontolando, macidite dal loro livore verso tutti, più che dal male stesso. E queste sono quelle in cui c'è meno da sperare. Meno ancora che in uno ateo prima del dolore... Nei fervorosi l'infermità è rassegnazione. Non l'hanno desiderata, non l'avrebbero mai voluta se fosse stata loro facoltà il volerla o meno, ma posto che Dio l'ha mandata... col viso lavato dal pianto dicono: «Ebbene... Signore... pazienza! Se mi risparmiavi questa croce era meglio, ma posto che me l'hai data la terrò». E la tengono. La tengono. Però non l'abbracciano e non la portano. Stanno lì col peso addosso... e basta. Deve essere Gesù che ogni tanto leva loro il peso per farli camminare... Negli amanti di Dio l'infermità è gioia. La reazione di sgomento cessa dopo brevi momenti e non torna più. La carne soffre. Ma soffre essa sola. Tutto il resto è gioia. Questi hanno chiesto, con le più ardenti suppliche, quali neppure le fanno i sani per restare sani, di avere il dolore. Visto da lontano Dio che s'avanza portando la croce, vanno incontro a Lui esultando, baciano le sue mani sante che gliela offrono e baciano la croce come la cosa più cara. Non la tengono inerte ma, dopo averla stretta al cuore, se la mettono sulle spalle e vanno cantando... Dio davanti a loro e loro dietro mettendo i piedi nelle orme del Maestro, senza curarsi se il sentiero diviene ripido, spinoso, sassoso, senza preoccuparsi se i rovi lacerano le carni, se i ciottoli scorticano i piedi, se il sole martella esacerbando le piaghe, se l'acqua immolla le vesti, se il vento le agghiaccia, se la notte rende ancor più penoso l'andare... Sanno che alla 'fine spunterà il Sole! Sanno che alla fine il ripido sentiero si muterà nel liscio mare di vetro e di fuoco che adduce nella città dell'Agnello, sul quale mare di fulgori essi canteranno in eterno il cantico di Mosè e dell'Agnello. Sanno tutto questo e non cedono la croce al pietoso Cireneo che li vorrebbe sollevare. Dicono: «No, Gesù, Amore santo. Tu l'hai portata per me una volta. Ora a me il portarla per i fratelli. Se la tua croce m'ha aperto una piaga dove si appoggia e il sangue goccia dall'òmero ferito, guarda, Gesù, il prodigio del mio povero sangue sul duro legno: lo fa fiorire in fiore di bene!». Si, la croce fiorisce se la si ama. Sì, la croce diventa ala per chi la porta con generosità, ala veloce come ala d'angelo... Io rimasi sbalordita per poco. Mi rassegnai subito al mio destino. Dire: rassegnare, è mal detto. Devo dire: dopo lo sbalordimento del primo momento, già provato quando il male mi segregò in casa e che si ripeteva ora quando il male mi inchiodava in letto, io baciai cantando la mia croce, e devo riconoscere che non l'ho deposta un momento ma sempre l'ho portata cantando. Quando il dolore allenta la sua stretta, quando so che per me si prega per la mia guarigione, io tremo e sto in ansia che mi venga levato il mio tesoro. Sarebbe l'unica cosa che mi farebbe vacillare nella infinita fiducia, nella infinita confidenza che ho in Dio. Sarei tentata a pensare che Dio mi trova così indegna da non associarmi più all'opera redentrice del Figlio suo... Ed io che riconosco il mio non-valore, ma che conosco l'infinita misericordia del mio Dio che ci eleva al grado di redentori, noi povere miserie umane, cadrei nell'avvilimento e piangerei tanto. Ma io mi fido del mio Dio! Vede, Padre, oggi il demonio sghignazza


intorno a me. Lunedì le dissi, non so se se lo ricorda: «Sento una malinconia inspiegabile oggi. Apparentemente non ho motivo di pianto. Ma certo qualcosa di penoso, che saprò presto, sta accadendo». Una delle mie solite premonizioni. Ieù sera il mio dottore è stato chiamato che di lui scriverà un accorato ricordo dopo la sua morte in guerra, avvenuta in Corsica il 26 ottobre 1943. A Roma per una visita di controllo. Se idoneo, è la partenza per chissà dove. Lei sa quanti bisogni ho io e quali mali ho che richiedono certe cure alle quali ci si assoggetta male e non si può, per pudore, pensare di passare sotto altre mani. Lei sa anche i motivi morali per cui in casa mia è bene che venga uno che conosce bene le cose per non far fare commenti odiosi sul modo come vive mia mamma... e uno dei miei chiodi questo. Lei sa anche i motivi finanziari per cui sarebbe un disastro dover ricorrere ad altri medici. Tanti sono i motivi per cui è necessario che mi resti il curante. Per me, come creatura, non chiedo che questo. Nel mio lavoro, in un con la pace e la salvezza dei combattenti ecc. ecc., avevo messo anche questa intenzione per me; in un angolino, ma c'era. E il diavolo sghignazza: «Lo vedi il tuo Gesù come ti ascolta? Ti ha levato tutto e ora ti leva anche il medico. E te lo leva proprio ora che tu, povera stolta, ti illudevi di esser più sicura, proprio ora che il tuo straccio, sul quale hai consumato la tua forza, sta per esser messo sull'altare. Va' là che sei servita! La guerra va a rotoli, la pace è un mito, l'isolamento ti cresce intorno, il medico lo stai perdendo... Povera imbecille che ti sei illusa!...». Ma io lo lascio dire e mi attacco alla Croce gridando: «Signore, accresci la mia fede! Rendila tale da smuovere tutti gli ostacoli. Gesù, mi fido di Te! Sii a me Gesù». Se Gesù continuerà ad essere per la sua povera schiava: Gesù, ossia Salvatore, nulla potrà nuocermi mai. Io per conto mio nulla posso. Sono un' esile violetta che ha solo la buona volontà di consumarsi in profumo ai piedi della croce. E per questa convinzione della mia nullità che non ho voluto chiamarmi né figlia, né serva nel mio atto di offerta. Ma strumento e schiava. S. Teresina si dice «il piccolo bimbo della Chiesa, colui che ritto nella sua fidente innocenza presso il suo trono getta i fiori e canta il canto dell'amore». Io sarò meno ancora: sarò il fiore, il timido fiore dal capino penitente e dal cuore d'oro, la violetta che nasce fra l'umida zolla, sotto ai giganti del bosco, e ha per sua coltre le foglie cadute; la violetta che è più profumo che fiore e che solo cercandola si trova, tanto è modesta e schiva di apparire. Sarò la violetta che, colta dalla mano del «piccolo bimbo della Chiesa», viene gettata da esso, in un col suo canto, a morire sui gradini del trono di Dio. Non me l'ha insegnato la stessa Santina il canto della rosa che muore? «Quello che io sogno è di sfogliarmi... Si cammina senza rimpianto su delle foglie di rose e questi nonnulla sono un ornamento che una mano dispone... Gesù, per tuo amore ho prodigato la vita agli sguardi di tutti, rosa per sempre ferita devo morire. Per Te devo morire. Come lo bramo! Voglio, sfogliandomi, dirti che t'amo con tutto il cuore. Sotto i tuoi passi di bimbo vivere io voglio e per addolcire i tuoi passi estremi al Calvario ecco, mi sfoglio». La traduzione libera non sarà perfetta, ma l'ho fatta lì per lì come m'è sgorgata. Ma Maria, la violetta di Cristo, non morirà sui gradini del trono. Scenderà il Re, l'Agnello di Dio, a cogliere l'umile fiore che ha chiesto d'esser divelto dalla vita per morire profumando davanti a Lui, e il tocco delle dita sante darà una vita eterna alla


piccola corolla, che nella sua esilità fu così resistente a tutte le bufere e nella sua modestia tanto ardita. Oh! che non si fida mai abbastanza nel Signore! Egli è sempre pronto a darci, con un sorriso, il «decuplo» di quanto noi chiediamo per suo amore... Sono lo strumento nelle mani di Dio. Nessuno strumento di lavoro si lamenta se l'operaio o l'artista lo usa fino a consumarlo o a spezzarne l'anima canora, come non si lamenta se, stanco di usarlo, lo butta in un angolo e lo lascia inerte a impolverarsi... Io pure devo essere così. Pialla, martello, sega e cacciavite nelle mani del Figlio del Fabbro intento a costruire le anime secondo il suo lavoro di artefice divino. Arpa o liuto, cembalo o tromba, io devo esser pronta ad aver voce o a tacere a seconda del desiderio del divino Artista che trae poemi di sinfonie dal suo Amore misericordioso. E se un peana troppo forte spezzerà l'anima mia canora non importa... Un'altra anima, più canora della mia, sarà usata dal Maestro per domare le creature furenti e renderle agnelle della greggia di Cristo. Uno dei primi avvenimenti della mia definitiva crocifissione in letto fu il cambiamento di dottore curante. Quello che così... pedestremente m'aveva curato per quattro anni era a Roma con la famiglia per la chiusura dell'Anno giubilare della Morte del Redentore. Sì, perché Gesù mi claustrò, dopo tre anni di vita pubblica, con gli inizi del 1933, e mi issò sulla croce proprio quando terminava l'Anno Santo per il suo XX centenario di Passione. Venne perciò un altro medico perché non si poteva stare senza... e questo fatto provoco un infinità di pettegolezzi di ogni genere, fra i quali la piccineria del medico detronizzato che insinuò malattie contagiose che forse ora ci saranno, ma che allora non c'erano per niente, come lo dimostrano le svariate analisi. E con queste malattie contagiose altre mentali... E costume dei medici nascondere la loro incapacità di definire e guarire un male sotto l'etichetta di «mania» da parte della malata. Sicché fui a dovere lacerata dal buon prossimo. Io credo non errare pensando che tutto quanto avvenne dal 1° aprile in poi fu causato dalla mia speciale condizione di vittima offerta alla Giustizia divina. Vi era, dal 1931, un continuo aumento di persecuzione da parte demoniaca e da parte del mio prossimo, che si rendeva strumento del demonio per compiere quello che rientrava nei piani di Dio: ossia la mia purificazione. Al giorno d'oggi non ci si crede a questa potenza demoniaca che agisce e turba i suoi nemici o si impossessa di coloro che, poco guardinghi, possono esser presi da Lucifero come suoi agenti. Io ci credo. Non si potrebbero spiegare diversamente certi stati speciali di tentazioni in creature il cui unico lavoro è operare nella luce di Dio, come non si potrebbero spiegare certe cattiverie senza motivo che sono delle vere e proprie torture inflitte ai migliori. Sì. Vi sono anime che per la loro naturale tendenza o per insipienza divengono strumenti del demonio, che se ne serve per tormentare quelli che a lui più spiacciono. Come vi sono anime che per la loro particolare missione hanno il potere di inquietare Lucifero attirandosi le sue vendette. Costui, che non cura molto coloro che «non sono né freddi né caldi», come fa Iddio che rigetta i tiepidi da Sé, ha un livore speciale per quelli che ardono della carità, veri portatori di Dio perché «dove è carità là è Dio». E su questi si avventa con tutte le sue armi. Fra me, poi, e il demonio c'era una vecchia ruggine. Io non perdonavo a lui quanto mi aveva fatto soffrire dal 1914 al 1918 (particolarmente) e lui non mi perdonava di averlo messo in fuga nel 1930. Perciò guerra


a morte. Finché Dio era stato su me, proteggendomi colle ali del suo Amore, poco aveva potuto farmi il demonio. Ma da quando io non ero più che un'ostia deposta sull'altare del Dio Giudice, e perciò abbandonata a me stessa, Lucifero si era messo all'opera. Ho detto abbandonata. Ma non si creda che fosse un abbandono, come dire?, un abbandono di corruccio. No. Era l'ora di prova di cui ho parlato in principio a questo quaderno. L'ora in cui il Padre si ritira perché è il nostro Getsemani e nel Getsemani i Cristi devono esser soli... Se ci fosse il Padre l'agonia non sarebbe agonia. Il ritiro del Padre aveva dato via libera al demonio, il quale mi ha torturata per nove anni. Oh! se non mi fossi offerta per salvare i disperati, per redimere coloro che sono sulla via della dannazione, per portare il Regno di Dio nei cuori e i cuori al Regno di Dio, se non avessi chiesto questa missione espiatrice, dovrei dire che quanto avvenne fu cosa crudele. Ma io so quanto ho dato, perché l'ho dato, e perciò trovo che questo, che potrebbe apparire ingiusto rigore del Padre, disamore del Padre, è invece la più bella prova d'amore. Chissà quanto è doluto all'Eterno di dovermi lasciare in balia del Malvagio! Ma ciò rientrava nel mio desiderio e nell'opera di Dio, che aveva bisogno anche di questo per tante povere creature più infelici di me, perché morte alla grazia. Non so se rendo bene il mio pensiero. Ho sofferto. Quando sarò morta si dica pure che le sofferenze fisiche sono nulle rispetto a quelle morali che subii. Dico morali perché lo spirito non fu leso. Urtato si, schiaffeggiato si. Ma non menomato. «Perché la rivelazione non m'esaltasse, Dio permise ad un angelo di Satana di schiaffeggiarmi, onde io pregai che Egli me ne liberasse. Ma Dio rispose: "La mia grazia ti è sufficiente"». Lo spirito è proprietà dell'Eterno. É la casa dove il Padrone e il Re abita, dove la Triade santa si aduna perché ove è il Figlio là è il Padre che per Amore mandò il Figlio. E questa casa sara Loro finché noi, di nostra malvagia volontà, non gliela leviamo col peccato. Il mio spirito era ed è proprietà del Dio Uno e Trino e, se nella mia miseria dico ad ogni palpito: «Signore, io non sono degna di riceverti e di ospitarti», non per questo però chiudo a Dio la porta del cuore, ma la apro tutta, fidando nella pietà misericordiosa del Signore... Essendo lo spirito di proprietà del mio Signore, contro di esso il demonio nulla poté fare fuorché girarvi intorno come leone furente e vendicarsi mordendo, dirò così, l'intonaco di esso spirito, ossia il morale. Quanto mi ha fatto soffrire! Ma ad ogni lotta il mio Gesù diceva: «Coraggio! Per il tuo dolore un'anima ha fatto un nuovo passo verso di Me. Ed io ti sono grato!». Ma che ne dice, Padre? Non bastava questa parola a far di me un leone indomito che non s'arrende, che tien fronte a tutti gli agguati, e che mentre atterra il male offre al suo Signore le prede che strappa al Nemico? Bastava. E sempre più mi faceva ansiosa di lottare. Nel maggio cominciò quella che io chiamo la Torre di Babele. Il nuovo medico, che curava così bene e mi aveva dato un miglioramento sensibile, fu circuito da una persona, uno degli strumenti del demonio, la quale lo persuase che io non ero malata di cuore ma di forme tubercolari. Il medico detronizzato, che villanamente s'era licenziato da sé non appena saputo che nella sua assenza ne avevamo chiamato un altro (io credo che ha colto la palla al balzo perché credeva fossi per morire e non voleva toccasse a lui...), aveva sparso questa voce e, riportata ampliata al nuovo curante, aveva preso credito. Veramente un medico dovrebbe credere solo a sé stesso. Ma insomma... Questo


dottore non era di Viareggio. Andava e veniva da Firenze. Il 5 maggio, dopo una visita accurata, la solita visita di ogni settimana - veniva ogni settimana - mi cambiò la cura... Ne avevo già cambiate una dozzina. Via la trinitrina, via il viretone e via il cardiotonico. Voleva farmi iniezioni di calcio perché c'era la tubercolosi polmonare... La tubercolosi? Da quando in qua? A nessuna analisi era risultata e in me non c'era nulla che la facesse supporre. Ripeto: forse ora ci sarà. Ma nove anni fa no davvero. Basta. Mi rifiutai alle iniezioni di calcio. Non volevo iniezioni... E ora ne ho fatte oltre 13.000, dico tredicimila... Allora giù calcio, olio di merluzzo, colesterina per bocca e fosfati e vitamine... il mio stomaco divenne un acquaio... Erano tante le cose da prendere, e tutte a distanza di almeno un'ora l'una dall'altra e a distanza dai pasti, che io chiesi al dottore, con mossa da Fra Ginepro: «Mi dice allora a che ora posso mangiare?». Perché si raccomandava di supernutrirmi e di stare in riposo. Solo per mezz 'ora al giorno dovevo stare al sole. Risultato: stomaco rovinato, impedimento al nutrimento, non sovrabbondante ma minore anzi del solito perché sempre indigesta per tutti quegli intrugli che ingozzavo, crisi di cuore più violente che mai, aumento di febbre, e infine una bella congestione dovuta al sole e alla calcificazione delle arterie, fino ad avere una sclerosi giovanile con formazione di aneurisma. Ma prima di dire il resto faccio un commento. Se un'altra persona avesse dovuto delibarsi quella diagnosi si sarebbe spaurita. Io la presi con letizia. Esser tubercolosa, e al punto in cui ero secondo quel medico, voleva dire morire presto. E che volevo se non consumare il mio sacrificio? Oh! stoltezza umana! Quella mia fretta era viltà ed egoismo. Perché non era altro. Viltà: soffrire molto ma per poco. Egoismo: cessare presto di soffrire. Non basta il desiderio del cielo a giustificare questa fretta, specie quando ci si è offerte come vittime. Il Redentore non ha affrettato di un attimo la soluzione finale del suo martirio. Sarebbe stato più comodo anche per Lui un solo colpo di spada, subito dopo il bacio infame. Avrebbe evitato tanti tormenti e levato subito il ricordo di quel bacio cancellandolo col sangue, quel bacio che dovette dare un ribrezzo al Cristo come lo strisciare freddo e sinuoso del serpe sulle carni vive. Ma Gesù non accelera nulla. Vive tutte quelle ore di tortura, suddivise in minuti di spasimo così intenso che ogni minuto vale un'ora. Le subisce tutte: una dopo l'altra col loro rosario di contumelie, di pugni, di randellate, di sputi, di corse fra la turba ubriaca di odio che lo stiracchia qua e là, sadicamente incosciente, con l'avvilimento d'esser denudato, vestito come un folle e un re da burla, con lo strazio della flagellazione spietata, della coronazione crudele, con la fatica sovrumana del cammino in salita, sotto il peso della croce e in quelle condizioni, fino alla vetta del Golgota, con la crocifissione atroce, con l'agonia tremenda... Una piccola vittima, le cui pene sono un nulla rispetto a quelle del Maestro, non deve avere più fretta di Lui. Ogni attimo di quelle ore torturanti era pegno di salvazione per infinite schiere d'anime, e per questo Gesù, se lo avesse potuto, avrebbe prolungato i suoi tormenti perché neppure uno, neppure uno dei suoi poveri fratelli erranti perisse dopo la sua morte. Una piccola vittima deve esser lieta di vedere prolungare la sua agonia offrendone ogni nuova ora a un nuovo scopo che ha un unico denominatore: salvare una nuova anima. Il mio buon Maestro mi istrui in tal senso, perché se il Padre s'era ritirato


nell'ora del mio Getsemani io avevo sulla mia agonia non l'angelo di Gesù, ma Gesù stesso. Ce l'ho. Il mio buon Maestro mi istrui che dovevo benedire ogni giorno di più che fossi vissuta sulla croce, perché ogni giorno passato su essa poteva giovare a un' anima. Mi disse, con la sua Voce senza suono ma così sensibile allo spirito: «Sappi far fruttare ogni tua sofferenza. Ricordati che sei qui non per te ma per le anime. E le anime non si salvano che con la sofferenza. Dàmmi delle anime, Maria». Allora io gli risposi: «Dàmmi delle agonie, Gesù!». E il patto fu stretto. Un'anima per ogni nuova agonia. E che si salvasse proprio. Un'anima consolata per ogni giornata di dolore senza agonia. Da allora ho desiderato le agonie e le giornate di spasimo. Le ho desiderate con un desiderio senza misura, studiandomi di accrescere le mie sofferenze in mille modi. C'è tuttora una mia figlietta che ancora ricorda come si inquietava vedendomi sorridere quando mi sentivo venire addosso la crisi tremenda che mi portava alle soglie dell'eternità. Sorridevo pensando che un'altra anima si salvava. resunzione la mia? No. Fiducia in Dio. Se è vero che anche un atto insignificante, compiuto per amore, acquista un grande valore agli occhi di Dio, quale valore non avrà il soffrire la morte per amore? Gesù lo dice, con la sua divina parola, quale amore perfetto sia questo: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici».Io davo la vita per i miei amici, abbracciando sotto tale nome una turba infinita di anime in cui erano, e sono, parenti, amici, conoscenti, sconosciuti, nemici, idolatri, defunti... e a capo di tutto questo esercito di amici che, ricomprandoli alla grazia, divenivano miei figli, io mettevo il mio Amico divino: Gesù, il Fratello, il Maestro, lo Sposo, il Re. Non si può avere un amore più grande per Te, mia ineffabile Gioia, di quello di dare per Te la vita, perché Tu trionfi nei cuori e il tuo Regno venga! No, non si può avere un amore più grande! E se nel mio amore vi sono debolezze umane che lo inquinano e ne diminuiscono il valore, Tu, indistruttibile Compassione, abbi ugualmente pietà di me. Non guardare, o Misericordioso, la mia povera realtà. Guarda solo il mio ideale desiderio d'esser perfetta agli occhi tuoi, non pér averne un premio, ma per ricondurre un sorriso sul tuo volto amareggiato dai delitti di quest'ora. Qualcuno, vedendo la mia ilarità nel soffrire, fece meco la parte di Pietro presso il Maestro. Ma io ebbi la stessa risposta del Maestro verso lo zelante apostolo: «Va' indietro, Satana, ché tu mi sei scandalo». Non usai quella formula tale e quale perché sarebbe stata poco caritativa. Ma pure stemperandola in molte altre parole feci capire che se ero dipendente, peggio di una bimba, in tutte le cose, tenuta come ero dalla mano materna di ferro che neppure la malattia rendeva meco più dolce, intendevo conservare tutta la mia indipendenza nelle cose dello spirito. In queste solo Dio aveva diritto di imperare. E nessun altro. Vi era in questo una grande giustizia, in fondo. L'unico che m'avesse amata, per tutta la vita, era il mio Dio. Gli altri o non avevano potuto o non avevano voluto. Solo Lui mi aveva teso le braccia e accolta sul cuore, senza tener conto dei miei sgarbi, dei miei bronci, delle mie freddezze; solo Lui mi aveva consolata, asciugato le lacrime, medicato il cuore; solo Lui mi aveva fatto da padre, da madre, da fratello, da sposo, da amico. Ora, dopo avermi tanto dato, mi chiedeva una cosa sola, l'unica che gli potessi dare perché nella mia schiavitù familiare non possedevo nulla e non disponevo di nulla fuorché della mia vita, di quella vita che


da Lui mi veniva e che Egli mi aveva tutelata fin lì. E io gli davo il mio unico picciolo. Gettavo il mio unico avere nel gazofilacio che Egli mi tendeva... Vi sono tante anime da comperare... Una volta di più mi persuasi come dopo 20 secoli di cristianesimo si sia ancora lontani dall'avere capito l'essenza del cristianesimo, che è religione di generosità, di ardimento, di carità... I più invece l'avviliscono ad una comoda agenzia dove devono esser vidimati, mediante un leggero pagamento, tutti i passaporti per il Paradiso, o a un enorme magazzino dove il proprietario, il buon Dio, sia sempre disposto a dare ai clienti quello che loro più piace. Una specie di paese della Cuccagna!... E che brontolii se non si trova subito quello che si chiede! Venne così l'estate. E, con l'estate e la cura sbagliata, la congestione. Era il 1° agosto. Alle 15 andai proprio in estremis. Anche qui il demonio ci si mise a dovere per farmi disperare. Mio padre corse subito ad avvertire chi di dovere perché venisse il medico, allora a Viareggio per le bagnature. Ma l'incaricata, la stessa che aveva persuaso il medico circa la mia pretesa tubercolosi, preferì non fare raffreddare una pentola d'acqua anziché avere pietà di me e correre a chiamare il medico. Morale: egli giunse dopo due ore di crisi e quando già il sangue si coagulava nelle vene. Fu la mia prima iniezione, di 5 fiale diverse messe tutte insieme, quella. Si parlava già di farmi l'ipodermoclisi, ma si poté poi evitare. Per poco andai a fare il Perdono d'Assisi in cielo! In 24 ore ebbi cinque attacchi angiospastici! Alla mattina del 2 agosto, alle 4, il mio Parroco, convintissimo che io morissi, mi portò il Viatico. E rimase per molte ore, assistendo anche a un consulto in cui, preziosa scoperta, mi si trovò non più mal di cuore, di polmoni, di circolo, ma male di fegato (?). Fegato? E chi mai si accorse d'avere un fegato? Mah! Dovevo avere il male di fegato. Lo aspetto ancora dopo nove anni! Cura di acque termali ecc. ecc. Partiti i due... scopritori del fegato volli un'altra visita. Ma la volli senza presenza del curante. Venne il Professore Bianchi, tisiologo. Escluse il fegato, e escluse qualsiasi forma tubercolare e specie polmonare. Trovò solo che con tutto quel calcio somministrato mi avevano calcificato le arterie. Perciò cura decalcificante per la sclerosi precoce e da capo trinitrina e spasmosedina per il cuore lesionato al sommo. Silenzio, riposo, camera tenuta scura ecc. ecc. Passai l'estate col vetro aperto e le persiane sempre chiuse. M'è rimasto impresso il raggio di sole che batteva sul muro delle scale... Se penso a quel raggio rivedo quei giorni. Fui per 17 giorni più nella morte che nella vita. Poi l'embolo si sciolse e migliorai un poco. Ora dovevo essere vegliata. Mia mamma mi abbandonò subito ad altre mani. Io, se avessi avuto una figlia in quello stato, con un cuore che poteva cedere di minuto in minuto, non l'avrei lasciata un attimo. Lei mi lasciò fin dalla prima notte, nella quale fui vegliata da una suora. Povera donna! Faceva del suo meglio ma, forse abituata con la maggior parte dei malati che beve e mangia tutti i momenti, mi disturbava continuamente col chiedermi se volevo bere qualcosa... Le notti dopo vennero a turno delle signore e signorine amiche. Ma io le facevo coricare sull'altro letto. Mi bastava averle in stanza... Loro dormivano... io passavo le ore parlando con Dio e scandendo il tempo sul battere furioso del cuore. Di giorno veniva una suora per assistenza. Era molto buona. Il medico, ostinato, sosteneva che vi era della tubercolosi o dell'isteria. Analisi su analisi... e la tubercolosi non si decideva a saltar fuori per fare piacere a lui. Prove su prove per


stabilire l'isteria. Ma anche questa non voleva mostrarsi per farlo felice. E io soffrivo terribilmente. Altro consulto con un chirurgo. «É un'appendicite! Va operata subito!». Buum! Anche nel 1920 era stato detto così, e dopo 14 anni l'appendicite non s'era ancora mostrata. L'aspetto tuttora. E vivo di insalata cruda, piselli e simili delizie per un intestino, secondo il chirurgo, quasi perforato!... Altro consulto: «É una insufficienza genitale». Tre volte: Buum! Non avevo mai sofferto in tal senso. Altro che insufficienza! Se mai era tendenza alla supersufficienza! Ma doveva esser quello il focolaio. Non c'era bene. Gran comodità per i medici curare delle donne! Quel che non sanno classificare con un giusto nome lo battezzano: isterismo, e noi siamo servite! Cura di ormoni ovarici. Frutto: il cuore sempre uguale. Una infiammazione ovarica sfociata poi nel tumore che mi dà tanto dolore e noie non solo fisiche. Allora, visto che non si è fatto centro nel bersaglio, signori si cambia. Torna da capo il tisiologo il quale - oh! incoerenza umana! lavorato a dovere dal curante, si rimangia tutta la diagnosi di poco tempo avanti e, mentre prima m aveva messa a acqua fresca e succhi di frutta per la pressione, ora mi ordina supernutrizione; mentre prima aveva ordinato immobilità assoluta, pena la morte, ora mi ordina di alzarmi e andare in pineta; mentre prima mi aveva decalcificato le arterie con tutti i nitriti possibili, ora riordina calcio a tutto spiano, perché c'è una tubercolosi bilaterale (bum!) che se non si arresta con supernutrizione, aria, moto e calcio, entro tre mesi (bum, bum!) m'avrebbe portata al cimitero fra tremende emottisi (bum, bum, bum!). Era il 4 settembre 1934. Oggi è l'8 aprile 1943. Io ho mangiato sempre meno, non ho preso aria fuorché quella che entra dalla finestra, non ho fatto moto, non ho preso calcio e sono qui... in attesa... Dovevo far moto, ma però nessuno dei tre medici consulenti si prese l'impegno di portarmi, con la autolettiga, a fare la radiografia... Sapevano che a muovermi risicavo la morte, se pur non ci precipitavo. Insomma uno mi dava alcool in tutti i modi, l'altro mi vietava anche il vino bianco innacquato; uno mi somministrava caffeina a alte dosi e l'altro mi vietava il caffè; uno mi supernutriva provocando crisi su crisi e l'altro mi metteva a acqua e succo di frutta... Roba da ammattire!!! Venne finalmente un professore, amico nostro. «Ma chi ha dato tutta questa roba?», esclamò vedendo la farmacia che avevo sul comodino. «Ma sono pazzi! Farei volare tutto in mezzo alla strada». Visita e esclusione assoluta di tubercolosi. Una grave miocardite, quella sì, e ormai una infiammazione ovarica. Letto, riposo assoluto, vitto sostanzioso ma ridottissimo, iniezioni di cardiotonici e basta. «E poi ora ci penso io a trovarle il medico che fa per lei». E lo trovò. É il medico attuale, che da otto anni e mezzo mi cura e che, se non è un'aquila che sana tutti i mali, è almeno un buon psicologo che capisce le cagioni dei mali. E questo è già tanto per un malato, e specie per certi malati! Riguardo a risanarmi... Egli dice spesso e da anni: «Noi non possiamo nulla in questo caso. Ci troviamo di fronte a forze più forti della medicina, le quali impediscono il minimo sollievo nelle condizioni della malata come impediscono la morte della stessa, che umanamente avrebbe dovuto essere morta già da anni e per la violenza dei mali che la rodono e per le cure stolte fatte in principio. Io non sono un credente convinto, ma mi arrendo all'evidenza del miracolo. E qui, nel durare di questa vita, vi èdel miracolo: un miracolo ancor più grande di quello di una guarigione. Io non


faccio nulla, seguo solo il male come posso perché sento che, anche facessi l'impossibile, cozzerei contro un Volere che annullerebbe ogni mio sforzo». Meno male che l'ha capita! Però anche gli altri, dirò così: di passaggio, quali i consulenti, hanno concluso tutti così. «Se lei è credente vada a Lourdes o a Loreto. Qui vi è la mano di Dio e Lui solo può operare la guarigione». Molte volte mi è stato proposto di andare a Lourdes o a Loreto. Anche il mio Parroco nei primi tempi mi propose di accompagnarmici lui gratuitamente. Ma, pur essendone grata, ho rifiutato. Prima di tutto sarebbe, come già ho scritto, una grave incongruenza. Non si richiede quello che si è donato. In secondo luogo io rinuncio alla grazia di salute, che potrebbe essere data a me, in favore di un'altra creatura ammalata e che non si rassegna all'infermità. Thtte le volte che c'è un pellegrinaggio di malati o una novena solenne quale quella alla Madonna di Lourdes, di S. Giuseppe, di S. Antonio ecc. ecc., io dico al Signore: «Se io andassi, se io ti pregassi, Tu, Bontà infinita, mi risaneresti anche. Ma io invece, te ne prego, ti supplico di dare a un altro la salute o almeno il sollievo dagli spasimi che daresti a me. Che ne fruisca un altro e te ne dia lode. Vi sono tanti padri di famiglia, tante madri di famiglia ammalati e necessari ai loro figlioli! Guarisci uno di questi! Vi sono tanti ammalati che si disperano d'esserlo: guarisci uno di loro! Basta che vi sia una creatura di più che ti ama e benedice ed io sono contenta, molto di più che se guarissi io o se mi diminuisse questo spasimare». Pensi come sarà bello per me il Paradiso in cui incontrerò coloro che furono guariti per la mia rinuncia! Guariti dal male fisico e guariti dalla sfiducia o dalla disperazione! Ora non so chi siano. Ma in Cielo lo saprò. Sarà lo stesso mio Signore a indicarmeli mentre, tenendomi stretta sul cuore, mi dirà: «Vieni, benedetta, poiché fui malato e tu mi risanasti». Vi sarà certo anche questa beatitudine per quelli che rinunciarono a guarire per guarire un altro! Neppure un bicchier d'acqua dato in suo Nome è vano e resta senza premio... Quale premio avrà allora l'aver dato in suo Nome la grazia della sanità ad un fratello ammalato? Oh! sono così felice quando soffro tanto, tanto, tanto!... La mia missione è soffrire. Tutte le volte che la pietà dei medici escogita un rimedio, e tutte le volte che la pietà dei credenti innalza preghiere per il mio migliorare, si nota un peggioramento più grave e un soffrire più acuto. Nell'economia che regge l'Universo tutto ha la sua ragione d'essere e la sua missione da esplicare. Gli astri rotando ci danno luce e sprigionano forze astrali che influiscono sul fruttificare delle cose minori e sulle leggi delle maree. Le acque ubbidiscono al codice eterno che impone loro di scendere in pioggia e in neve dalle nubi che le adunano per innaffiare la terra e per formare i ghiacciai che alimentano i fiumi i quali, sfociando nei laghi e nei mari, li nutrono del loro elemento e ne fanno come degli enormi serbatoi dai quali il sole pompa gli evaporanti vapori per formarne novelle nubi datrici di pioggia. I pesci, gli stupidissimi pesci, servono alla pulizia delle acque oltre che per cibo umano. Gli uccelli servono allo sterminio degli insetti e alla semina spontanea dei semuzzi dei fiori. Gli alberi, riverenti alle leggi vegetali, si vestono di fronde a primavera per fare dimora ai nidi e ombria all'uomo, oppure si coprono di frutti per sfamare l'uomo e gli uccelli del buon Dio. I semi accettano d'esser sepolti nella terra nera, dove non strisciano altro che vermiciattoli, per spuntare, a loro tempo, in pianticelle che dan pane o cibo di ogni


genere. Le pecore si coprono di più folta lana durante l'autunno per dare a primavera bioccoli agli uccelli fabbricanti i nidi e tepore di vesti ai figli dell'uomo. Le api e le farfalle servono a propagare il polline senza il quale inutile sarebbe il fiorire delle piante. I venti hanno la loro ragione d'essere perché regolano il calore, spazzano il cielo, mondano i mari e fanno da paraninfi nei vegetali connubi di fiore con fiore. Persino i rovi hanno la loro missione. Sono difesa ai penduli nidi, pieni di carni tenerelle, contro l'insidia dell'uomo e delle serpi, e servono di uncino ai bioccoli di lana cercati dagli uccellini e donati dalle greggi. Tutto, tutto ha il suo «perché» nel creato e tutto ha la sua missione datagli dal Creatore. Io ho la mia: quella di soffrire, di espiare, di amare. Soffrire per chi non sa soffrire, espiare per chi non sa espiare, amare per chi non sa amare. A me non ci penso. Dico al buon Dio: «Mi affido a Te!», ed è tutto quanto gli dico. Non penso menomamente di tenere registri e inventano, come fossi un commerciante, su cui segnare tutto quanto posso fare di bene per presentare i miei conti all'Eterno nell'ora del giudizio. Ma neanche per idea! I conti li odio!... Quando andrò lassù e mi verrà chiesto: «E tu che hai fatto di bene pensando a quest'ora?», io risponderò: «Ma... lo saprai Tu, Signore. Io so solo 'che ho amato Te e ho amato il prossimo per Te». Davanti ad una così assoluta assenza di... contabilità umana, il buon Signore non avrà altro che mettere... sulla contropartita un bell'annullato e farmi passare oltre... Lo dice anche Teresina: «Per i piccoli non ci sarà il giudizio». Io sono ancor meno che piccola: sono una deficiente che sa fare solo una cosa: amare. Non chiedo né morte né vita. Morire ora o di qui ad altri dieci anni mi lascia indifferente. Neppure il pensiero che la morte mi schiuderà la Vita è valido a farmi chiedere a Dio di affrettarsi a immolarmi del tutto. Una sola cosa voglio: «Fare la sua Volontà»... e d'altro non calme... Se diverrò povera, il buon Signore che sfama gli uccelletti del cielo sfamerà me pure. Se diverrò abbandonata, Egli, il buon Samaritano, mi procurerà l'assistenza. Se non avrò più casa, più vesti, più nulla, Egli, che sa cosa vuol dire non avere un sasso ove poggiare il capo, troverà per me una casa di Betania dove una pietosa mi darà quanto è necessario alla nostra umanità. Divenissi cieca, sorda, muta, coperta di piaghe, Egli, che mandò il cane a medicare la piaga di Rocco, il corvo a sfamare la fame di Benedetto, mi procurerà l'animale, migliore dell'uomo, che non avrà schifo delle mie piaghe e mi porterà il tozzo di pane. Se anche questo mi mancasse, mi basta che resti in me la facoltà di amarlo ancora, amarlo fino all'ultimo respiro il mio Dio, e non chiedo altro. Bisogna esser stati trattati dal prossimo come lo fui io per capire che sulla terra tutto è vanità e menzogna e che solo Dio non mente e non delude. Quando si è convinti di questo, si arriva, per forza, a quello, ossia ad amare l'Unico che non ci ha mai nuociuto: Iddio. Quando si ama Iddio, il calore si riversa dal centro al di fuori, e così si ama il prossimo, non per quello che vale ma per quello che è: opera di Dio, redento da Cristo, abitacolo dello Spirito Santo. Lo si ama per forza perché, avendo in noi Dio - chi ha la carità ha Dio - abbiamo la sua Misericordia, la quale copre le brutture altrui e riveste i corpi, anche se repellenti di tabi morali, di una veste soprannaturale. Perciò, se Gesù vuole ancora per molto tempo prolungare gli sponsali della mia anima con Lui, nel bel Paradiso, che dirò io? Dirò solo: «Ecco la tua schiava, o mio Signore, fa' con lei il tuo piacimento». Sono stata interrotta a


questo punto per il pranzo. Mentre preparavo le bricioline di pane per i miei colombi ho, per la seconda volta durante la mattinata, sentito una voce che mi sussurrava: «Bada che quanto scrivi è materiale che resta e nel quale si frugherà per ricostruire la tua vita. Vedi perciò di riflettere a ciò che dici per non diminuirti o per non aumentarti». Anche stamane, nelle prime ore del giorno, mentre ero intenta alla mia toletta, la stessa idea prese voce in me. Mi accade spesso che le ispirazioni, i consigli, le voci mi suonino in cuore proprio quando sono occupata in cose molto lontane dal regno dello spirito. Quando prego è difficile che le oda, mentre quando scrivo, leggo, lavoro, mangio, scherzo con le mie bestioline, parlo con Tizio e Caio, ecco folgorare nell'anima una parola... Forse dipende che qualunque cosa io faccia il mio io profondo è sempre fisso in un posto e nulla può separarlo dalla sua vita che è Iddio. Non so. Penso sia così. La prima volta non ho dato retta a quella idea. La seconda vi ho riflettuto sopra e ho concluso così: «Chiunque sia che parla sappia che, esaminando me stessa, sento di non avere fatto altro che scrivere il pensiero più vivo e vero che ho in me e che ho narrato il male e il bene, il bene e il male, così come sono accaduti. Ugualmente farò fino alla fine. Se nella narrazione avessi a diminuirmi non me ne importa. Se invece avessi ad accrescermi nel concetto altrui, ciò non sarebbe nulla per me. Solo sarebbe una maggior gloria di Dio, che sa dal nulla trarre un prodigio di grazia. Riguardo poi al pensiero che nel mio scritto potrebbero domani i posteri frugare per ricostruire la mia figura ideale, ti dico che ciò non mi disturba. Quando ciò avvenisse, io non sarò più umana creatura, ma spirito. Come spirito, e spero spirito del regno di Dio, non ci sarà pericolo che l'orgoglio si susciti. Nei cieli questa piantaccia non alligna. Perciò non mi esalta e non mi deprime questa prospettiva. Se tu che parli sei il mio Dio, tu lo vedi che dico la verità su tutto e anche su questo ultimo pensiero. Se sei il Nemico, allora risparmiati pure il fiato: nessun tuo fumo di lode mi salirà al capo. Siine certo. Ho troppo presenti le mie passate miserie e la mia nullità di ora». E mi sono messa a mangiare tranquillamente. Ho voluto dirle anche questo perché mi pareva giusto di doverglielo dire. E ora vado avanti. Nel novembre, il 19 novembre, sognai che mio papà moriva... Allora stava molto bene. Ma io sognai che moriva... Mi svegliai con un grande batticuore. Lo dissi a mamma e alla signorina che aveva dormito in stanza mia quella notte. Quest'ultima mi consolò come poté. Mamma mi schernì, come suo solito. Passava per un periodo impossibile. Aveva creduto che il mio male durasse poco e poi mi alzassi come prima. Ma questa volta era proprio l'infermità cronica che era venuta. Lo avevo detto tante volte, negli anni precedenti: «Non ne posso più! Tiro, tiro la carretta, ma sono esausta. Se mi fermo, se casco, il povero ciuchino non si alzerà mai più». Anche allora non ero stata creduta... La privativa dei malanni era di mia madre... io e babbo non avevamo diritto di ammalarci. Così pensava lei. Ma Dio le mostrò il contrario. Quella quercia di babbo scrosciò al suolo in tre giorni ed io... sono inchiodata a vita. L'unica sana è lei. Insomma il vedere che io non guarivo e che, dopo essere stata fino eccessivamente servita da me, ora mi doveva servire, l'aveva resa idrofoba. Povero babbo! Quanti sgarbi, quante trascuratezze! Dovette vivere gli ultimi suoi mesi di vita condannato al lesso, agli affettati e al caffè e latte, lui abituato ai mangiarini e soprattutto ai dolci che sempre gli


facevo e di cui era goloso come un grosso bambino. Povero babbo! Quanti rimbrotti perché, quando mi prendevano le crisi, mi stava intorno adorandomi come fossi stata ancora la Mariolina treenne che gli diceva: «Non sposerò nessuno fuorché te e ti regalerò la parrucca»! Mia madre avrebbe voluto che lui mi rimproverasse come lo faceva lei perché disturbavo tutti con le mie crisi nelle ore più impensate. Ma papà non mi rimproverava: mi baciava, si affannava a darmi aiuto, mi chiamava: «Bellezza, coccola sua», come quando ero piccina e non avevo che lui ad amarmi... e piangeva su me... Quando ero bimba e mi ammalavo, la mamma era con me un poco più «mamma». Ma ora, da quando sono ammalata, questo miracolo non si è più avverato. Sono solo un peso! Povero babbo! E povera me! Quanta indifferenza! Quanti sgarbi, quante brontolate, quante assenze! Mio papà ci si inquietava vedendola occuparsi e preoccuparsi magari di innaffiare i fiori o piegare il bucato in luogo di venire al mio letto quando la crisi mi metteva fra morte e vita. Alla sera se ne andava al primo piano a dormire, spesso senza neppure darmi un bacio e buona notte!... Avrei potuto morire nella notte... Lei non ci sarebbe stata. Nel dicembre, al 18 dicembre, per avere voluto testardamente restare vestita d'estate, mamma prese una bronco-polmonite. Apriti, o cielo! Tre amiche, due suore, il medico, una donna a mezzo-servizio non bastavano per lei... Io rimanevo a giornate intere sola perché lei teneva tutti occupati. La sera del 25 papà, che giorni avanti aveva avuto una lieve emorragia vescicale, ebbe un piccolo ictus apoplettico. Stava entrando in stanza mia con un catino d'acqua... lo vidi traballare, farsi cianotico e storto nella bocca. Sfidando la paralisi cardiaca lo afferrai e lo guidai a sedere presso a me. Si riprese poi e quando il medico venne, e venne chi mi faceva assistenza notturna (dormendo), poté salire da solo nella sua stanza. Ma pensi quello che soffrii ad essere lì, impotente, sola - perché dalle 17 alle 22 eravamo sempre soli - e con papà sofferente. Il medico lo curò, gli fece applicare le mignatte... Mamma colse l'occasione di inveire contro me, con un biglietto rovente, e contro lui, con un fiume di parole, accusandoci di avere fatto baldoria nella sua malattia. Baldoria! Eravamo vissuti di brodo e di coniglio lesso... Il giorno di Natale sul fornellino mio avevo fatto un poco di cervello al burro. Ecco la baldoria nostra!... Non era, no, la baldoria che uccideva papà! Erano le collere sempre represse, erano le offese che doveva ingoiare... Nel 1910 si era ammalato per queste... ora moriva per queste. Io lo vedevo che delle volte gli venivano le vene giugulari grosse come bastoni dallo sforzo di dominarsi... Mah! Fra l'ansia e il mangiare male - il 26 rimasi senza mangiare fino alle 18... - mi aggravai di nuovo. Il 28 mamma volle alzarsi, contro l'ordine del medico, per presiedere alla mignattazione. C'erano due suore infermiere ma non si fidava... Scese al terreno, mezza spogliata, per fare una rivista a tutta la casa, trovando da ridire su tutto e tutti. Da me entrò per rimproverarmi, non vedendo neppure che uscivo allora da un attacco angiospastico. Poi tornò a letto ed ebbe una ricaduta. Sfido io! Aveva girato in camicia per tre ore al 28 dicembre! Babbo si rialzò ai primi di gennaio. Perché mangiasse come doveva, e l'altra di sopra non facesse altre stupidaggini, commisi per più giorni l'imprudenza di alzarmi dalle 17 alle 20, ora in cui ero sicura che non mi sorprendeva nessuno. Riordinavo tutto, preparavo il cibo per l'indomani e poi... andavo a letto


cadaverica. Il 26 gennaio mamma riprese le redini. Era tempo... Il 2 febbraio 1935, dopo un pesante sopore e una terribile crisi di cuore, si presentò la paresi. Fu allora che il medico curante vide accettata dai consulenti la sua teoria che non solo il cuore era leso ma era lesa la colonna vertebrale, meglio il midollo spinale. Se sia un tumore o una formazione di liquido, conseguente alla bastonata avuta nel 1920, non si sa. Ma la lesione c'è. Dopo il consulto io scrivevo così (copio dal diario): «Ho l'anima piena di canto. Incomprensibile canto, incomprensibile letizia per chi non sa l'anelito più ardente del mio cuore!... Tu, mio Bene, sai perché sono felice!... Dunque io non ho un male, ma tre mali addosso! Bacio questa mia trinità di dolore in cui vedo rispecchiata la volontà della Trinità eterna e adoro Dio che mi adorna di tre simili doni e con S. Francesco grido: "Signore, non sono degno di così grande tesoro!". Mi stringo al cuore questi tre chiodi, i tuoi tre chiodi, o mio Re, o mio Cristo, o mio Tutto, e poiché l'amore cresce più si vede compreso e, compensato, con l'audacia degli amanti ti chiedo: "Perché tre sole ferite? Perché non cinque come le tue?". E aspetto fidente perché sento che Tu mi ornerai di tutti, di tutti i tuoi gioielli di dolore...». I tre mali erano: la miocardite, il tumore ovarico, ormai formato, e la lesione spinale. Ma vedevo che il medico nascondeva qualche cosa. E lo stuzzicavo a parlare. Il mattino del 3 vidi un segno cabalistico del dottore a mamma. Andarono nell'ingresso e si chiusero dentro. «Benone», dissi, «ora vengo anche io». A piedi scalzi, aggrappandomi ai mobili, andai fino alla vetrata e sorreggendomi alla macchina da cucire vidi attraverso ai vetri e udii il discorso. «Il professore le fa sapere che è una forma di paralisi progressiva. Molto lenta ma pericolosissima e inesorabile nel suo procedere. Per uno spavento, un'emozione o altro, può accelerarsi, colpire il diaframma e i centri bulbari e provocare la morte istantanea. Se non vi sono cause acceleranti può durare degli anni spegnendo lentamente la vita negli organi...». Tornai a letto perché... il cuore ballava e le gambe si flettevano. Non per paura, per fatica. Ma ormai ne sapevo abbastanza. Ho sempre voluto sapere la verità. E dirla. La paresi iniziatasi nell'addome basso ha conquistato piano piano molti altri organi e ogni tanto dà accenni di paralizzarne altri. Quando ascende è il capo che è preso, quando scende è il torace. É penosissima perché, a seconda del centro bulbare colpito, dà cecità o sordità, o disturbi di parola, di deglutizione, di respiro, di digestione, di filtrazione renale, di scrittura... Un emporio di guai. Fu allora che feci solenne patto con Gesù di riscattare un'anima per ogni crisi. Prima l'avevo fatto alla buona. E come ero felice se avevo molte crisi al giorno! Allora come dolori avevo solo quelli cardiaci e spinali e uno stiracchiamento con un calore come dentro avessi del fuoco dove il tumore si formava. A Pasqua, per una terribile crisi causata dalla incorreggibile mamma, stetti con le braccia e la gola paralizzate per molti giorni. Soffrii, moralmente, come di più non si può. E non ero amata!... Solo il mio papà mi amava. Mamma mi imboccava con tanta mala grazia che preferivo lasciarmi morire di fame. Ero stesa su una tavola perché le vertebre erano molto infiammate. Avevo una forma curiosa di un sopore delirante... Dovevo subire cure per me odiose... E il diavolo ci soffiava dentro... Sentivo che la guerra veniva... Sapevo che papà moriva... In quel tempo Gesù, per sovvenire ai bisogni della sua piccola crocifissa, fece vincere un grosso premio ai miei. Mamma neppure lo


disse a papà, che si angustiava pensando che io avevo bisogno di molte cure per chissà quanto tempo, e mi fece giurare che a papà non avrei detto nulla. E il mio povero babbo è morto senza averlo saputo. Se fosse stato a posto di mente, come era giusto glielo avrei potuto dire raccomandandogli di non dire nulla. Ma era inutile raccomandare certe cose a babbo! Dopo poche ore non si ricordava le nostre raccomandazioni e la frittata era fatta... Per evitare a lui e a me mille sgarbi, tacqui. Ce ne erano già tanti! E tante geremiadi con essi!... Subito dopo Pasqua volli divenire zelatrice di sofferenza nell'Apostolato della Preghiera. Il Parroco aderì al mio desiderio e disse che tutto era fatto. La sofferenza certo è fatta. Ma io, in otto anni, non ho ricevuto una pagellina, un segno qualsiasi di appartenere a questa categoria e a questa Associazione. Intanto il dolore addominale cresceva, e perciò altre visite le quali sempre più confermarono l'esistenza del tumore. Ma non conclusero nulla perché al momento di fare qualcosa tutti i professori si ritiravano per lo stato del cuore. In quel tempo cominciai a capire il perché di certe deviazioni di tante povere mie compagne di sesso. Fino a quel momento mi avevano fatto la stessa pietà che suscita la vista di un delinquente. Pietà per la loro miseria. Le giudicavo proprio come delle delinquenti perché uccidevano sé stesse nel vizio. Anni prima un medico mi aveva detto, parlando di certe disgraziate che io definivo amorali: «Sono delle malate. E come tali vanno compatite e aiutate a guarire. Nessuna donna, fisicamente sana, scende a certe profanazioni. Sono delle malate». Non m'aveva detto altro e io, oca come ero, non avevo capito bene a che alludesse. Ero così immune da certe cose! Anche nel momento tremendo dei miei giovani anni avevo desiderato di compiere il male per una rivolta della carne mutilata del suo diritto di amare. Ma cosa fosse di preciso il male che desideravo compiere, cosa fosse di sicuro questo bisogno animale che si agitava in me, non lo sapevo. C'è voluto questo tumore a farmi capire certe cose. E a farmi pregare per le sventurate che vivono nel vizio. Mi ero fatto un calendario di sofferenza. Thtti i giorni offrivo le mie pene per una data classe di persone e per riparare a cose speciali. Al lunedì riparavo per le violazioni alla legge di Dio e della Chiesa, per la giustizia e per ottenere una morte santa agli agonizzanti. Al martedì per gli abusi e i disprezzi della parola di Dio, per la resistenza alla grazia e per le anime purganti. E così via. Al sabato, in cui offrivo e soffrivo per le confessioni sacrileghe e i peccati del senso, unii l'intenzione di espiare per redimere le donne perdute. Ora capivo come sia facile divenire donne perdute. Quante pagine evangeliche mi ha illuminate il mio tumore sulla misericordia, non solo degna di un Dio ma di uno scienziato sublime, del Cristo per le donne peccatrici che il Vangelo nomina! Ho riconosciuto fra le lacrime di riconoscenza e di umiltà che solo la bontà di Dio mi aveva salvata dal divenire come tante altre, creature in cui il peccato d'origine ha morso più profondamente, colpite inoltre da mali orrendi che fanno impazzire e non sorrette da una vera conoscenza della religione nostra... Ho riconosciuto che io, lasciata a me stessa, non sarei stata più forte di loro a respingere il senso che la malattia acuisce fino a farci rasentare la pazzia. Forse in me lavorava anche molto la suggestione demoniaca. Oh! mi ha tormentata in tutti i modi! Solo io lo so quanto mi ha tormentata! E per degli anni! Era una cosa strana. L'anima rimaneva sempre quella: unita a Dio, nella pace, nella sete


del sacrificio. La preghiera era la mia gioia, desideravo i sacramenti più che dell'aria stessa. La carne era impazzita. Mi fa l'effetto che per un volere che non so a chi attribuire, se all'Altissimo o al Bassissimo, io fossi sdoppiata. Sullo spirito regnava Dio, nella materia mordeva Lucifero, aizzava, sconvolgeva... e qualche volta piegava nel fango. Poi la carne e lo spirito si riunivano e allora era l'angoscia di esser stata debole... Ho sofferto l'inferno. Mi sono inquietata contro me stessa che ero debole, contro i dottori che non mi levavano quel malanno che mi turbava lo spirito. Mi avesse dato solo dolore fisico, non mi avrebbe pesato. Mi sono inquietata contro i sacerdoti che erano così placidi davanti al mio tormento che non nascondevo loro. Non mi sono inquietata col buon Dio perché capivo che Lui non ci aveva alcuna colpa in quanto avveniva. Era l'ora terribile della tentazione. Una vittima della Giustizia divina deve passare anche questa per salvare le anime di tanti peccatori... Dopo aver subito le strette del demonio mi attaccavo al mio Dio, baciavo il mio Gesù e mi raccomandavo a Lui. Ho sofferto, lo torno a dire, in una maniera inumana. Delle volte mi chiedo ancora come poteva avvenire questo in un'anima tutta donata a Dio. Penso che, con questo, Dio ha voluto tenermi bassa, perché non m'esaltassi e mi credessi perfetta. Oh! non c'è più pericolo che mi creda tale! Basta che io pensi a quegli anni di tormento per riconoscere, con San Paolo, che se il mio io interiore si dilettava nella legge di Dio, un'altra legge pesava nelle mie membra in opposizione alla legge della mente e mi faceva schiava del peccato. L'angelo di Satana mi schiaffeggiò à dovere, non dubiti... Quanto, quanto ho sofferto! Vede: ora, fisicamente, io sono veramente una torturata. Ma tutto questo spasimo, per cui anche un respiro è uno strazio, non è nulla rispetto a quel soffrire che sono convinta essere stata la vendetta demoniaca. E non se ne parli più, per carità! Pregai dunque da allora per le donne perdute! Il che, naturalmente, acui sempre di più la rabbia infernale. Nell'aprile 1935 ebbi un sogno che potrei quasi dire un'apparizione. Mentre ero assopita vidi la mamma di Marta. Noti che erano le prime ore del pomeriggio, dunque difficilmente avrò dormito al punto di sognare. Era vestita come al solito, col suo velo in testa. Pareva pronta per uscire. Un volto che a dirlo bianco non si dice nulla. Era un volto che tramandava luce. Pareva che nell'interno di esso vi fosse una lampada che trasparisse. Non un fulgore, no: una luce calma che dava pace. Mi pareva ritta ai piedi del mio letto. «Oh! signora Isolina ! », esclamai. «E venuta a trovarmi?». «Eh! sì. Ti ho sempre ricordata, sai?». «É felice?». Sapevo di parlare con lei già morta e vedendo il suo viso luminoso capivo che ella era in Paradiso. «Sono felice perché dove sono io si è felici. Ma però non è finito il mio purgatorio; neanche in grembo a Dio finisce...». «E perché? Come può essere questo?». «Dio mi ha dato il premio della mia vita che tu sai come fu sacrificata e retta... Ma io, anche nella gioia del Cielo, ho una spina nel cuore. La mia Marta... sola nel mondo... e in un ambiente, io vedo, non cattivo, secondo il mondo, ma non meritevole rispetto a Dio. Quello che io ho seminato di fede sta morendo. Per ora quello solo. Ma caduta la fede... Il mio purgatorio è questo, è sempre stato questo, e dura ancora, anche in cielo. Vorrei che Marta fosse con te. Allora non ci sarebbe più purgatorio per me perché sarei sicura per la mia creatura e per la sua anima... Ti ho voluto bene, Maria, vogliamene tu. Ti affido Marta». Man mano che parlava


diveniva sempre più luminosa e si dissolse, in fondo, in luce... Ecco perché Marta è qui invece di essere negli uffici come prima. Mamma, che aveva bisogno di aiuto, aderì al mio desiderio. Solo che io ho avuto un movente soprannaturale nell'accogliere Marta e mia madre un movente tutto umano e egoistico al sommo. Io ho compiuto la missione che la mamma di Marta mi ha dato per la sua creatura. Non ho nessun rimprovero da farmi. L'ho accolta, questa povera orfanella, con cuore di mamma e di sorella, dalle mani di sua madre, e le ho dato e le do un affetto sincero che non si limita solo a sdolcinature sciocche, ma che è aiuto per lei, è previdenza, è consolazione in mille piccole cose. Non potrei fare di più per lei se fosse del mio sangue. E soprattutto ho curato e amato l'anima sua. Quando venne da me aveva una pietà molto affievolita. Senza prediche, che quando vengono fatte a un cuore irritato ottengono solo un maggiore irritamento, ma solo amandola molto e lasciandola penetrare a poco a poco, di suo, nel mio io tutto donato a Dio, solo pregando e facendomi vedere a pregare - da lei, sì, mi sono fatta vedere per ricondurle alla mente l'immagine di sua madre che pregava tanto, per dirle senza parole che i buoni pregano sempre e nella preghiera trovano conforto in tutti i loro dolori e in tutte le loro solitudini - ho ottenuto di riportarla, a sua stessa insaputa, a una viva fede, e spero che non la perderà mai più, anche quando io non sarò più di questa terra. Sua mamma sarà felice del tutto, ora, nel bel Paradiso, dove certo mi attende per vegliare con lei sulla nostra Marta. Mi spiace solo di avere messo Marta nell'ingranaggio stritolante di mia mamma. Ma speravo proprio che fosse esosa ma non cattiva al punto come è cattiva, ingrata, astiosa, per questa povera Marta. Le assicuro che, se Marta aveva da scontare qualche mancanza verso il quarto comandamento, l'ha già bell'e scontata!... Ma forse anche questo non è senza uno scopo superiore che sapremo un giorno. Per intanto serve a testimoniare che cosa èla mia vita nelle mani di mia madre... Ne può dire tante di cose Marta, e da queste risulta netto il modo d'agire mio e materno, e non sono io quella che ne esco menomata. Lo devo dire per essere fedele alla verità senza false modestie spregevoli... Questa notte, 10-11 aprile, pensavo a quanto ho scritto nel quaderno ultimo finito. E mi accorgo d'essermi espressa malamente in un certo punto. Ho detto che mi inquietavo con me stessa, coi medici, per i fenomeni che mi procurava il male ovarico. Inquietarsi vuol dire perdere la calma, la fiducia, la pace, vuol dire ribellarsi. No. Niente di tutto questo. Io rimproveravo. Ecco quel che facevo. Rimproveravo e punivo acerbamente me stessa per non esser capace di respingere certe sensazioni, e rimproveravo con molto sale i medici che rimanevano inerti davanti a tutte le mie suppliche perché mi venisse levata quella neoformazione che mi dava fenomeni così complessi che turbavano tutta me stessa. E così è durato per degli anni. Poi finalmente ho capito che anche questo era una prova e aveva uno scopo... e non mi sono più agitata. E il più bello si è che le tentazioni sono andate rallentando subito. Si capisce che il diavolo, scornato di esser stato scoperto, se ne è andato all'inferno. Non è possibile spedirlo altrove, le pare? Ora, da quando ho narrato a Lei per esteso il mio stato, con quella lettera del febbraio, non ha più osato metter fuori neanche la punta del cornetto o del codino. Forse se lo sta rodendo di rabbia... Buon pro! E ora dovrò parlare di una cosa dolorosissima. Ma è la domenica di Passione... Posso quindi parlare di una


delle mie più acerbe ore di passione. Gesù appassionato e Maria Addolorata mi aiuteranno e asciugheranno certo le lacrime che già ho nella strozza e pronte a cadere. Le confesso che non vorrei ad avere a parlare di questo perché è troppo, troppo straziante. Ma se non ne parlo la mia corona di spine viene a mancare di molti aculei e precisamente degli aculei più strazianti, perché è stato uno strazio della carne, della mente, del cuore. Strazio che, secondo il solito, non fu capito, non fu compatito, non fu creduto. Strazio ancora vivissimo dopo otto anni, per quanto ora non raggiunga il parossismo che ebbe nelle prime ore, durate mesi, e sia ora solo una nostalgia che mi gonfia il cuore e ne spreme pianto, una nostalgia accorata ma così viva che quando la sento più forte mi riduco come un povero uccellino caduto di nido e languente al suolo. PARTE SETTIMA La morte di mio Padre. Marta venne da noi il 24 maggio 1935. Subito dopo mio papà cominciò a sentirsi sempre poco bene. Non diceva nulla, povero papà, perché era stoico nel soffrire il dolore. Non diceva nulla per non addolorare me, per non avere brontolate da sua moglie, perché mia mamma ha questa specialità: quando uno si sente male, invece d'essere più dolce è più aspra che mai... E non diceva nulla anche perché credo che era così stanco di vivere in balia di una pazza bisogna dire così per non dire: di una malvagia; è sempre meglio pazza a malvagia, perché la pazzia è una malattia e la malvagità è una cattiveria - era così stanco, 'dicevo, che guardava la morte come una grande liberazione. Aveva vissuto da giusto. Nulla gli turbava l'anima pensando al trapasso. Aveva vissuto beneficando molti, sua moglie per la prima, poi i parenti, gli amici, gli estranei. Aveva educato, con bontà, i giovani a lui affidati. Aveva fatto sempre il suo dovere di figlio, di marito, di padre, di soldato, di cittadino, di uomo fra gli uomini. Lo aveva fatto con pazienza, con dolcezza, con carità sempre, perdonando le offese, rendendo il bene per il male, superando i disgusti per chi lo misconosceva e lo feriva ad ogni minuto... Quanto amore leale, costante, longanime aveva dato a mia madre! E come era stato non ricompensato da lei! Ah! bisogna che non ci pensi, che non ci pensi, o mio Dio! Smemorami di certe cose, se no ribolle tutto il mio sangue! Lascia che io ti veda sulla tua croce dove sai perdonare ai tuoi torturatori, lascia che veda tua Madre che, ai piedi della stessa croce, perdona due volte: per Te e per Lei, un perdono assoluto, perché nulla ci costa tanto come perdonare a chi abbeverò di dolore quelli che più amiamo... Accarezzami, Gesù, per medicare questa ferita che appena sfiorata duole in maniera sovrumana. Oh! babbo mio, povero babbo che non avevi che me ad amarti, e che non m' avesti vicina nei tuoi ultimi giorni e nel momento estremo! Mamma non vedeva nulla del decadere rapidissimo di mio babbo, decadere che vedevano tutti, non solo io col mio trepido cuore di figlia... Ora la mamma dice: «Fu un colpo di fulmine! In tre giorni se ne è andato e stava così bene». No. Non è stato un colpo di fulmine. É stata la piena che aumenta piano piano, e ci tiene dei mesi a gonfiare il livello degli argini prima di traboccare. Se anche non aveva voluto credere al mio sogno del 19 novembre, avrebbe dovuto credere ai primi sintomi, avuti pochi giorni dopo, con l'emorragia vescicale e col trovare dei


calcoli vescicali... Era corsa da me, allora, perché quando c'è una cosa che agita, cruccia o impaura, allora lei, che non sta con me altro che per montare la sentinella ai visitatori, sa correre subito. E io, con la mia esperienza ospitaliera, le avevo detto: «É cosa seria. Generalmente la calcolosi vescicale, specie in un uomo e particolarmente quando è già così progredita da dare emorragie, è presto seguita dalla morte, entro l'anno. Bisogna avere molta cura di babbo, in tutti i modi, ed evitargli collere, strapazzi, cibi non atti al suo stato, e poi farlo curare dal medico». Parole gettate al vento.. Dopo vi fu la lieve embolia data da qualche grumo di sangue entrato in circolo... Neppure questo le servì di remora. Secondo lei tutto era finito... Infatti papà in gennaio, febbraio, marzo e aprile pareva stare meglio. Ma io insistevo nel mio dire e continuavo a portare via una presa di «matta». Non cominciò a credere neppure quando, col venire del maggio, papà cominciò a prendere un aspetto cadente, un passo strascicante, un colore giallastro con labbra e pomelli cianotici, e non lo sorvegliò per niente. Fu un'estranea che si accorse che papà perdeva sangue... e lo disse a Marta, e Marta a me e io a mamma. Questo accadeva agli ultimi di maggio. Proprio in quei giorni io avevo intercettato una lettera, indirizzata a mio padre, che lo avrebbe moltissimo addolorato e che se fosse stata letta da mia madre avrebbe fatto di mio papà un completo martire. Sono ben felice di averlo fatto e di avere provveduto a mettere tutto a posto io. Quella lettera la conservo ancora... e se mamma la vedesse non mi direbbe: «Hai fatto bene a risparmiare a papa questo affanno», ma mi coprirebbe di insulti e di accuse. Non me ne importa. Ho risparmiato a mio papà l'ultimo dolore. Venne giugno. Io ebbi allora i primi attacchi di peritonite cronica con principio di volvulo. Fra l'altro ero così eccitata per tante visite interne, dovute subire senza costrutto, che ero fuori di me. Mi ricorderò sempre che un giorno respinsi anche papà che mi voleva calmare... Vedo ancora il suo sguardo dolorosamente sorpreso... e non avrei voluto meritarlo quello sguardo... Pazienza! Anche questo mi serve a darmi un paragone di come deve guardarci Gesù quando lo respingiamo e lo accusiamo di non volerci bene... É uno sguardo di infinita pena... vi e sconforto, stupore, rassegnazione e pena, pena, pena... E mi dà anche la misura di come ci ama il Padre dei cieli che non ci tiene il broncio per i nostri scatti, dovuti a momenti di sconvolgimento mentale... ma anzi ci compatisce e ci ama come prima... noi, sue povere creature turbate da tante cose! Mio papà non mi serbò rancore e appena passata la mia furia fu meco buono come prima. Ero la sua Maria, non senza difetti, ma che lo amava con tutte le sue forze, che non amava che lui. Non è uguale la mia posizione col buon Dio? Sono la sua Maria, non senza difetti, ma che lo ama con tutte le sue forze e non ama che Lui. Oh! questo pensiero e questo ricordo del papà mio della terra mi conforta a sperare tanto sul come mi giudicherà il Papà mio del Cielo. Il Padre nostro non può essere inferiore in magnanimità al suo servo Giuseppe, che seppe capire le cause dello scatto di sua figlia, e seppe perdonare con un duplice amore: di padre e di giusto... Ora papà è nel Cielo e vede che la sua Maria non ha cessato di amarlo e tende a lui con tutto il suo affetto... Tanto mi seppe capire papà che venne a me, a dire a me, verso la metà di giugno: «Maria, questa volta sono finito!». Che strazio! Mi sentii rovesciare il cuore come se una mano brutale lo capovolgesse, come un guanto strappato con mal modo dalla mano che


ne è vestita. Ho pregato con una tale fede, con una così pressante insistenza che credevo proprio che Dio mi avrebbe ascoltata... Delle volte, fra le lacrime che non possono non cadere quando rievoco certe cose, mi dico ancora: «Ma perché Dio non mi ha lasciato mio papà? Se un genitore doveva essermi tolto, perché non prese mia mamma? Almeno il povero babbo avrebbe vissuto in pace i suoi ultimi anni perché fra me e lui non c'erano mai attriti. Io, a costo di mille sacrifici, gli rifornivo il troppo smunto portafoglio... io gli pagavo le multe senza che mamma se ne accorgesse, gli riparavo quanto strappava, o macchiava, per impedire che fosse rimproverato aspramente, lo accontentavo nella sua golosità di bambinone... Povero babbo che non aveva neppure più la gioia di uscire con me, per quelle belle passeggiate che erano le nostre delizie un tempo, perché mamma mi teneva a catena e poi perché mi ammalai sempre di più...». Questo mi dico nelle ore di più acuta nostalgia di carezze... e lo chiamo, lo chiamo... Io credo che il mio grido penetra nei cieli... Ora però, da quando tutto in Italia va a rotoli, mi dico: «E bene che papà sia morto. Così non ha questo dolore, lui così soldato e patriota!». Lo dico fra le lacrime, ma lo dico, e dico: «Grazie, o Dio, di averlo risparmiato, quel tuo servo fedele, da questa amarezza!». E i giorni passarono... Il 15, il 16 e via via... lui, sempre più sofferente, si trascinava ancora... andava fino in S. Paolino... andava fino in pineta e tornava... Doveva soffrire terribilmente. Io lo so cosa è soffrire per una calcolosi, una cistite, e delle emorragie vescicali... E come esser pieni d'acido solforico. Io soffrivo di vederlo soffrire e del mio soffrire sempre più spasmodico. Da mesi mi davano la morfina. Ma col solo beneficio di stendermi i nervi rattratti da contrazioni tetaniche. Il dolore non si attutiva per nulla e viceversa si acuiva la sensibilità sensoriale. Non so se mi spiego bene. Voglio dire che il senso, assopito sempre in me, aveva risvegli, prodotti dalla droga. Vedevo solo dei mostri, avevo solo una grande nausea, dei deliri proprio da intossicato da stupefacenti e una sensibilità morbosa del senso. Chi sono quelli che dicono che l'oppio, la morfina e simili dànno dolci visioni, calmano le frenesie, attutiscono la ipereccitabilità del senso? Che bugiardi! Devono essere dei viziosi ai quali piace quel paradiso di mostri e di visi cinesi... Io non ho mai sentito che delle cose penose per la morfina, tanto che, dài oggi e dài domani, dopo due anni di lotta fra me che non la volevo e il medico che me la voleva dare, ho vinto io e non l'ho più voluta. E qui sono stata più brava del suddiacono Girard! Dopo due anni di continue punture, anche doppie, di morfina, me le sono proibite da me e non ne ho sentito nessuna fame. Tanto, ripeto, i dolori restavano uguali, il cuore diveniva più debole e la mente si alterava con perniciose sensualità. Anche qui, chi è che dice che non ci si può più levare la morfina quando ci si è abituati? Quante bugie! Basta volere levarsela. Se non se ne trovasse più nelle farmacie si camperebbe pure, non le pare? Tutto sta nel volere. Il 26 giugno a sera papà dovette cedere. Io ero mezzo rimbecillita dal sopore e non seppi uscirne neppure per salutarlo. Oh, come credo che il diavolo abbia influito per aumentare la mia croce futura! Non lo vidi più mio papà. Si mise a letto la sera del mercoledì e fino al venerdì all'alba stette stazionario. Alle nove cominciò a non ragionare più bene. Si alzò e scese le scale. Voleva venire in camera mia e coricarsi nell'altro letto... Scompigliato nel ragionare, ma il subcosciente lo guidava


ancora dalla sua Maria, l'unica che lo amasse. Dal mio letto, per suo bene, gli imposi di tornare subito nel suo letto... Era meglio lo avessi lasciato venire! Sarebbe morto con me vicino ed io avrei avuto il conforto di averlo assistito. Tornò di sopra senza che ci vedessimo neppure in volto... Per me papà è sempre a mezza scala che sta per venire... Si muoverà di là per venirmi incontro quando io spirerò. Peggiorò subito dopo essersi alzato. Il medico fece il prestigiatore per sottrarmi fiale di digalin, di sparteina, ecc. ecc. Ma io vidi e compresi. Ero tutta tesa nello sforzo di capire. Chiesi al dottore la verità, ma mi fu negata. Chiesi d'essere portata in braccio su da babbo e mi fu negato. Pregavo fino a sentirmi male per strappare al cielo la grazia che papà mi restasse e mi fu negata. Venne il sabato. Nella notte papà aveva delirato. Povero papà! La setticemia da calcolosi vescicale si era dichiarata verso la sera del venerdì. Nella notte si era alzato ed era andato verso il balcone. Aveva caldo e non sapeva quello che faceva. Mamma lo fece tornare a letto col suo solito sistema: rimproverandolo. Fino in ultimo!... Lo disse lei stessa al mattino: «Gliene ho dette tante e tante che non ha più osato muoversi e ho potuto dormire». Che gliene abbia dette tante lo credo senza fatica. Era 41 anni che gliele diceva, povero babbo! Il dottore venne alle 8 e non nascose neppure a me che era gravissimo. «Morente», dissi io, «lo dica pure con sincerità e lo dica a mamma che non capisce niente». E lui, il medico, lo disse a mamma. E allora ecco le solite scene di nervi che sono immancabili in certi momenti in mia madre. Io non persi la testa. Glielo avevo già detto io a mamma perché, dopo la grande agitazione, quella calma di babbo che non sentivo più agitarsi nella stanza sopra alla mia mi diceva che sopraggiungeva il coma. Non per niente sono stata infermiera. Ma a me non si era creduto. Tornai a insistere per essere portata di sopra. Ma il medico non volle darmi questa consolazione e darla a papà. Saremmo stati così felici! Allora mandai al telegrafo per avvisare gente amica e i parenti e mandai anche per il sacerdote. Ma il Parroco era ammalato e non venne. Venne in sua vece, nel pomeriggio, un sacerdote che si disse cappellano militare. Non mi piacque molto, però. Io a mezzogiorno avevo tentato di alzarmi e, trascinandomi, ero giunta ai piedi della scala... ma poi non potei più... Una cara suorina delle Barbantini fece da figlia a mio padre. Era molto buona e affettuosa. Finché io camperò e oltre la terrò sempre in cuore. Questa buona creatura mi ha assicurato che papà accolse bene il sacerdote e si confessò. Non ebbe altro però. Non Viatico e non Estrema Unzione. Non so perché. La catastrofe si avvicinava. Siccome la suora di notte non ci stava, una conoscente ci condusse un giovane che faceva nottate ai malati. Mamma andò a dormire. Andò a dormire, capisce? A dormire. Con mio babbo in agonia restò un estraneo. E lui capiva tutto. Non ha mai perso la lucidità mentale. Io pregavo, pregavo, pregavo. Ma dunque qualche volta anche la più ardente preghiera non perfora la volta del firmamento per salire fino a Dio? Pare di no. La mia non salì, e sì che era il mio cuore stesso che la portava lassù... Con noi erano anche due signorine che venivano a turno a dormire da noi da quando ero ammalata. Quella sera erano venute tutte e due perché sapevano che papà moriva. Alle 2 del 30 giugno un grande grido: «Mamma!», gettato da papà, fece sobbalzare tutti. E fu la fine. La sentì venire e chiamò la moglie; la chiamava sempre «mamma». E lei non c'era. Ah! mio Dio! Mio Dio che oggi mi hai dato una vera giornata


di passione, dovresti ascoltarmi nel mio desiderio, nei miei bisogni solo per quello che mi costa perdonare, in tuo nome, a mia madre d'aver fatto morire così solo mio papà! Io venni presa da una crisi di cuore che mi portò proprio alle soglie dell'al di là. Perché non sono morta insieme a babbo? Perché? Il medico, accorso, mi fece vivere a furia di punture. Non gliene sono grata, come non gli sono grata di non avermi fatto vedere papà né vivo né morto, con la scusa che avrei potuto morire. Gli rimprovero sempre d'avermi mancato di parola, poiché mi aveva promesso di farlo. Gli ho creduto fino al momento in cui, due giorni dopo, fu sigillata la cassa. Stetti fra morte e vita tutto il 30 giugno. Però presi tutte le disposizioni dei funerali. Mamma non sapeva che fare stupide scene di amore tardivo. Ma cosa avvenne in me non so. Certo rasentai la pazzia e in quello stato rimasi per dei mesi. Il mio Parroco lo dice sempre. Ero sola, ormai, sola. Capisce? Sola. Sulla terra più nessuno. In cielo Dio e papà. Ma il cielo mi pareva così sordo e così lontano! La mia fede, che aveva levato così fiducioso volo chiedendo la vita di papà, era ricaduta al suolo con le ali spezzate. Se le era spezzate cozzando contro una bronzea muraglia che la mia preghiera non perforò. Vissi giorni tremendi. A momenti ero io, lucida e equilibrata, capace di prendere disposizioni, dettare epigrafi, ecc. ecc. A momenti ero una pazza. Pareva che io avessi due corpi, due menti in un corpo unico. E non so quale era più mio. Il mio papà! Forse se l'avessi visto mi sarei resa meglio conto della cosa. Ma così... Guai se sentivo muovere in stanza di babbo! Vissi senza mangiare. Due o tre susine e una fiala di siero fisiologico erano il mio pasto quotidiano. E servirono, purtroppo, a tenermi in vita. Mi dissero che papà, dopo la morte, aveva riacquistato tutta la sua virile bellezza di un tempo, perché papà mio era bello. Mi dissero che era, anche dopo 48 ore, immune da ogni segno cadaverico. Lo credo. Era un giusto. E chi vive da giusto acquista nella morte una bellezza e una immunità speciale e maestosa. Ma io non l'ho veduto! É una spada che mi lacera il cuore. Ho assistito mille moribondi e li ho composti nella morte, e mio padre no. Nella stessa casa tutti e due, e non l'ho salutato né vivo né morto. Basta! Basta! Se vado avanti ancora impazzisco di nuovo. Tutto mi hai levato, o Dio! Hai voluto regnare da sovrano assoluto e ti sei fatto un trono sul mio cuore trafitto. Lo hai steso, questo mio povero cuore ornato di tante, di troppe ferite, ai tuoi piedi... Povero cuore che non trova mai pace sulla terra... Quanto mi costi di sacrifici, o mio amore per il mio Dio! Ma nessuno equivale questo di aver dovuto perdere mio babbo cosi... Sono passati quasi otto anni ma il mio dolore è uguale... e non posso sentire chiamare: «papà», e non posso vedere un bimbo in braccio al padre suo senza sentirmi stritolare il cuore sotto il peso della nostalgia paterna... Come capisco bene Teresina quando parla del suo babbo! Anche per me il babbo era tutto: era il «re». Un re giusto e amoroso che sapeva tutto, che consolava tutto... Ed io per lui ero la reginetta, anzi una imperatrice e alquanto dispotica, poiché con lui mi rifacevo di tutto quello che non potevo avere altrove. Egli rappresentava per me tutte le perfezioni di bellezza, di bontà, d'intelligenza, d'amore... Anche quando la malattia del 1910 lo ebbe menomato nell'intelligenza, per me era sempre tutto. Unica pena che da lui mi veniva era che egli fosse compatito da molti, deriso dai meno buoni, per essere tornato un poco bambino, facile al pianto, facile alle amnesie. Quando morì avrei dovuto


pensare che ormai non sarebbe più stato torturato e deriso. Ma non ci si pensa a certe cose quando il cuore è tutto una piaga! Mia mamma non ammise e non ammette che io abbia amato papà in maniera da soffrirne per la morte. Mi ha persino accusata, anche pochi giorni fa, di averlo peggiorato io coll'avergli fatto dare dell'olio... Unica cosa atta a calmare l'infiammazione degli ureteri e a favorire l'espulsione del calcolo, aiutando la decongestione data dall'urotropina. Mah! Morto papà, mia madre, ormai padrona assoluta, divenne completamente dispotica. Papà faceva poco. La sua autorità era esautorata da anni. Ma quando non ne poteva più, un tuonante: «Basta! Vai a quel paese!» faceva tacere mamma. Oppure era un ancor più efficace: «Sei una nevrotica», che la staffilava più di uno scudiscio. Erano le uniche armi di papà quando era esasperato da periodi feroci di paranoia materna. E un pochino di freno lo avevano. Ora il freno non c'era più e mamma si avventò sfrenata su me, su Marta, su tutti... Una vera pazza! Ha fatto più crudeltà e sciocchezze in questi otto anni da lei sola che non un intero frenocomio. Anche la buona suora, che assistette mio padre e me, dovette intervenire perché mia madre mi schiaffeggiava continuamente con l'insulto che io non avessi sentito la morte di papà!!!... Ed ero quasi impazzita dal dolore! Le assicuro che io e Marta siamo state ben tormentate. Il medico le dovette persino dare dei bromuri perché non si resisteva. Esser padrona assoluta! Le aveva sconvolto il cervello. Scrisse subito al fratello, col quale dal 1917 era in rotta, facendogli credere che era stato papà ad impedirlo... Invece era sempre stata lei a non volere fare pace. Anche da morto lo offendeva facendolo passare per un malvagio! Dopo 18 anni ecco, appena morto babbo, le grandi tenerezze per il fratello sconoscente; e durano ancora con spese mensili non indifferenti... Privò me di maglie di lana che erano di babbo ma che, nuove come erano perché le avevo fatte io nel mio letto per il prossimo inverno, potevano essere rifatte per me, e le mandò al caro fratello il quale non le disse neppure «grazie» e da anni non le ha più, e così di seguito... Ma aiutarlo è nulla. Non lo merita, ma insomma... Quel che non posso superare è il disgusto per aver fatto credere che era stato papà a volere restare con un astio per tanti anni... Altra sciocchezza crudele: Mario che ricompare sull'orizzonte. O meglio, lo spettro di Mario. E giudichi Lei se io ero nella ragione o nel torto. Le due signorine che venivano a dormire da noi erano molto curiose di sapere particolari sulla vicenda di Mario e mia. Una stupida curiosità e anche molto indelicata, perché voleva penetrare in cose così personali che sono quasi sacre. Ma insomma avevano questa curiosità. Teste non cattive, ma molto romantiche, avevano bisogno di empire i loro ozii con romanzi veri e cercavano di conoscere il mio per avere un nuovo romanzo nella loro serie. Per loro era un romanzo, per me è una tragedia. E non la vorrei mai sfiorare. Da domenica non ho più scritto. Ho sofferto tanto a parlare di mio babbo che sono stata male tutte queste 60 ore. Comincio solo questa sera, ed è mercoledì sera, a riprendere un poco di forza, e ripiglio il racconto. Speriamo di non sentirmi male da capo. Anche parlare di Mario è acuta sofferenza. Dunque queste due signorine, che avevano innegabilmente usato anche della bontà verso di me, mi spiacevano un poco per certe indelicatezze, per certe leggerezze troppo diverse dal mio modo di pensare, di agire. Scherzavano troppo su quanto era per me sofferenza morale acutissima: ossia su certe


visite mediche che mi ripugnavano al sommo. Scherzavano troppo circa i miei rapporti di malata col medico, attribuendo a me i sentimenti che avevano loro per lo stesso medico, sentimenti esaltati che uscivano dal lecito di una semplice amicizia per entrare nell'illecito di una troppo viva, e apertamente dimostrata, simpatia. Avevo dovuto richiamare all'ordine una delle due perché capivo che il medico era seccato da una corte troppo esplicita. E questo era stato capito sotto altra maniera di quello che fosse. E cioè fu creduta gelosia mia. Povera me! Io non ne ho mai patito di gelosia neppure per chi era per me qualcosa. Figurarsi per uno al quale sono affezionata unicamente come malata verso chi la cura e basta! Credo di avere agito da persona seria richiamando al dovere una giovanetta che si montava la testa, e lo dimostrava apertamente, per uno già legato da promessa solenne con altra donna. Scherzavano infine troppo nel triste momento della morte di papà mio. Io ero, a momenti, fuori di me; ma nei momenti che ero a posto capivo con un'acutezza che era spasmodica. Credo anzi che, coi sensi acutizzati a quel modo, io capissi anche quando pareva che non capissi e ciò servisse a ricondurre la mia mente, vagante nel dolore, ad una esatta valutazione di quanto mi accadeva intorno. Come una fiamma sotto una raffica ondeggia e splende più alta consumandosi tanto più rapidamente, quanto più il vento della tempesta la agita, così io mi consumavo nelle mie forze tutte, ma ero più che mai agile a capire tutto. Ho come l'impressione che mi si svolgesse davanti agli occhi una visione in cui un sesto senso leggesse chiaramente quello che nella mia bufera gli altri comuni sentimenti non comprendevano più come prima. Non so spiegare... Insomma capivo che quelle due, del mio vero dolore e delle dimostrazioni più o meno strane di mamma, se ne facevano un carnevale. E col mio culto per tutto quanto era attinente a babbo mio ne soffrivo molto. Le avevo anche richiamate all'ordine lo stesso 30 giugno, non potendo tollerare che mentre papà era su, steso nella morte, loro cercassero di rendere ebbra Marta per riderne poi. Avevo anche detto a mamma di richiamarle all'ordine... Ma quando io prego mamma di una cosa sono certa di ottenere tutto il contrario!... Anche questa volta fui rimproverata da mamma come visionaria e pessimista. Venne l'agosto e con l'agosto venne a Viareggio la Squadra navale. Le due signorine, nonostante il medico e Marta avessero detto di non dirmi nulla in merito per non sconvolgere più ancora la mia mente che pareva fosse proprio dietro a dare di volta, si affrettarono a rendermi noto che tutta la Squadra dell'Alto Tirreno era a Viareggio e mi rintronarono il capo di: «Chissà che non sia qui il suo fidanzato! Se passasse e lo vedesse!», ecc. ecc. Mi chiesero anche il suo nome e cognome per farne ricerca. Risposi che, come non ne avevo mai fatto ricerca io, per motivi ovvi di dignità, così desideravo che nessuno cercasse un bel nulla. Io muoio d'amore, ma non perdo mai la testa al punto di non rispettarmi. E mi pare che questo fosse un non rispettarmi. Supplico Dio solo, io; le creature le amo ma so stare al mio posto. Sempre e con tutte; anche con Mario dunque. Anzi con lui più di tutti. Per l'anima sua do il mio soffrire, ma non prego la sua carne di amarmi. Per carità! D'altronde sono convinta dal 1932 che egli è morto. Perché? Perché è venuto lui stesso a dirmelo in sogno, chiedendomi scusa del suo modo di agire e dicendomi che se lui uomo aveva errato la sua anima m'era rimasta fedele ed era venuto a prendermi, ora che era morto, per essermi sposo nell'al di là. In


quel sogno io lo pregavo di lasciarmi vivere... ed egli molto mesto rispondeva: «Allora non vuoi venire? Non mi ami più? Non mi perdoni? Devo restare solo?». Ed io: «Ancora un poco, Mario, un poco di vita e poi verrò con te». Ed egli: «Un anno? Ti basta? Verrò ogni anno a chiamarti». E ogni anno viene, in novembre, a chiamarmi. Mi ha detto tante cose... Per degli anni pareva avesse bisogno di me come per uscire da una pena e cercava mostrarmi il perché aveva agito male... Che accuse per mia mamma! Quando lei stessa disse a quell'amica: «Ah! quanto mai ho scritto quella lettera!», io ho subito pensato alle parole di Mario e a quanto mi faceva leggere lui... Ora, da qualche anno, mi pare di nuovo libero e forte... e lui che mi protegge e dice: «Non avere paura. Io ti sono sempre vicino e con me non devi avere paura. Ti difendo da tutto». Sono convinta che è morto e ha finito di espiare la sua pena. Il suo nome, d'altronde, da oltre dieci anni non è più apparso nel Foglio d'ordini di Marina che io leggo sempre. Ma anche con questa convinzione non volevo che nessuno facesse ricerche presso altri ufficiali, ricerche che potevano essere interpretate poco benevolmente. Che mi combinano quelle due sciocche? Si mettono a fermare tutti gli ufficiali della Squadra e a chiedere loro se conoscevano il Tal dei Tali. Avevano osato aprire lo scrigno dove tengo le lettere, approfittando di un mio sopore, e così avevano appreso il nome di Mario e il casato. Marta, che per caso le scopre in simile non autorizzata occupazione, le richiama all'ordine. Inutilmente però. Allora Marta me ne avverte. Io, molto urtata da simile poco onorevole intromissione in materia tanto delicata, avverto mamma. Che potevo fare io malata? Non potevo nulla. Mamma sola poteva porre fine a un giuoco simile. Ma una volta di più mamma mi ferì senza capirmi. Si scagliò su di me dicendo che ero io che avevo incaricato quelle due di cercare Mario. Se lo avessi fatto, non avrei detto a lei di imporsi perché quelle smettessero. Non le pare? Ma mamma è così. Come un cavallo ombroso, si adombra di ogni chimera e trascura i veri ostacoli... Una delle sue solite scene selvagge si scatenò allora su me. Né Marta, né la suora infermiera valsero a difendermi e a farla ragionare. Ce ne fu per tutte e tre!... I più crudeli insulti, i più barbari rimproveri mi vennero fatti, ed ero innocente di ogni più piccola colpa. Non ci fu pietà per il mio stato generale e mentale. Nessuna pietà. Dopo avermi flagellata ben bene col suo modo d'agire inumano, finì di sfogarsi su quelle due sciocchine... Furono infine messe alla porta e per sempre. E così finì una relazione che aveva dato delle prove buone, soverchiate poi da così meschine controprove di pettegolezzo, di curiosità e di leggerezza. Ma le due cacciate si vendicarono ampiamente. E su chi? Su me. É naturale! Qùando mai non sono io quella che pago per tutti? Come si vendicarono? Mettendo in giro calunnie odiose su di me, facendomi passare come una viziosa dei vizi peggiori e più degradanti... Il medico, uno dei tanti messi al corrente di ciò, mi fece sorvegliare dalla suora. Ma questa, in coscienza, disse al dottore che «neppure nel delirio io commettevo atti poco onesti». E il medico, già convinto di suo che non ero un'anormale e un'amorale, ci credette subito. Allora le due cacciate andarono dalla Superiora delle Barbantini e dissero... quello che dissero. Morale: mi venne levata subito l'assistenza delle suore come se io fossi un elemento di corruzione per loro... Senta, Padre. Marta vive con me da otto anni e dorme in stanza mia. Mi vede nel sonno, nel sopore, da


sveglia, ecc. ecc. Marta può dire se io ho certi vizi segreti... Ma ho dovuto bere anche questo calice di calunnia e di dolore. Forse Lei ora dirà: «Ma cosa mi racconta costei? Che mi interessano questi pettegolezzi?». A Lei forse non interesseranno, ma a me sì. Reputo che ci vogliano anche essi nella storia. Odiosi per me a scriverli come lo furono a viversi, ma necessari a conoscersi per vedere quante tinte furono usate per comporre la mia figura. Tinte luminose da parte di Dio; tinte molto nere, opache, tristi da parte del mio prossimo. E, considerando la differenza dei colori, una volta di più dico al mio Signore: «Tu solo mi hai amata e non m'hai dato dolore avvilente. M'hai dato il tuo Dolore regale, ma esso non è macigno che opprime al suolo. É calamita ed ala che porta al cielo, a Te. Grazie, mio Dio!». Scomparse le due signorine rimanemmo sole. Gli altri conoscenti s'erano tutti squagliati dopo la morte di papà. Urtati dal modo di fare di mia mamma, ora che non regnava che lei sola, se ne erano andati. Anche certuni, beneficati ampiamente da noi, si erano ritirati. Dice giusto quel proverbio cinese: «Se benefichi un cane, costui te ne sarà grato e agiterà la sua coda; se beneficherai un uomo, costui ti odierà e agiterà la sua bocca per morderti e denigrarti». Solo la signora Soldarelli era ed è rimasta fedele: una cara creatura che non ha forza per imporsi, ma che, col suo affetto, tanto più vivo quanto più è rivolto a uno che soffre, cerca di medicare le ferite morali. Ma la Soldarelli è una creatura speciale. Se il mondo fosse fatto tutto di creature come lei non sarebbe «mondo» ma «paradiso». Si figuri mia madre senza più testimoni al suo paranoico senso di autorità... Non è ammattita dalla febbre di autoincensazione per vero miracolo e in grazia di una cura intensiva di bromuri che il medico le fece fare sotto altra etichetta... Quando poi si accorse che erano bromuri, il povero medico risicò di fare la fine del mitico Orfeo sbranato dalle Furie... E per poco non ammattimmo noi: io e Marta, seviziate, è la parola giusta, da continui rimproveri, accuse, lune, sgarbi... Non c'erano più ore per i pasti, per il sonno; nulla. Un caos. Tutto dipendeva dal capriccio e dall'umore di mamma. Un giorno si mangiava alle 10 e uno alle 15; una mattina ci si alzava alle 4 e una alle 8. Un giorno si mangiava tre volte e un altro una volta sola e poco, senza minestra magari, solo pane e un po' di formaggio... Un vero manicomio! E fossero state solo stramberie del genere, pazienza! Ma c'era di peggio. Ogni tanto, senza motivo, vi erano i grandi silenzi, come li chiamava mio papà; ossia le lune grandiose in cui, avesse preso fuoco la casa, ella non parlava. Inizio e fine degli stessi «grandi silenzi» una scena ingiusta e violenta... Pensi Lei che vita era la nostra... Mamma ha sempre sofferto di una mania di persecuzione: «Quello mi è nemico», «Costei mi vuol fare morire», «Già, mi si cerca di farmi cadere, ammalare, avvelenare, ecc. ecc. per farmi morire» e così via. Ora, poi, questa mania aveva raggiunto il diapason ed io ero la Nemica per eccellenza (secondo lei). Vivendo per il denaro, e solo per quello, tremava che io volessi far valere il testamento di mio padre, il quale fa di me la sua erede lasciando alla moglie la legittima e basta. Lo ricordo benissimo. Termina così: «A mia figlia, di cui conosco il cuore, raccomando la mamma. Io la benedirò se continuerà ad essere quella figlia amorosa e rispettosa che fu fino ad ora». Mia mamma, per paura che io volessi entrare in possesso del mio, ha distrutto o ha nascosto il testamento. Io non l'ho visto altro che quando papà lo scrisse, ossia un 20 anni fa. Cosa vuole che me ne


importi a me di avere o non avere dei denari? Non ho mai avuto capricci e sempre ho saputo reprimere i desideri, perciò... Ora poi che sono in queste condizioni, che vuole mai che desideri? Al massimo un libro, un fiore... Mi basta che, come è suo stretto dovere, la mamma mi dia il puro necessario per vivere; altro non le chiedo. Neppure medicine che sarebbero atte a farmi meno soffrire, neppure visite atte a vedere un po' chiaro nel mio sfacelo. Lo vede che ora, se riuscirò ad averne una da uno specialista, si è perché mio cugino ha provveduto. É vero che mamma mi rimprovera continuamente quello che costo. Ma che ci posso fare? Se Dio mi tiene in vita non posso certo sopprimermi io per non consumare denaro a lei. Del resto dovrebbe pensare che proprio io ho vinto quel premio, e che perciò consumo quello che non avevamo prima e che la bontà di Dio mi ha concesso per essere sopportata meglio da mia madre. Ho meno cure di quelle che ha una suora dalla sua superiora, lo creda. E sì che ho diminuito ad un minimo tale i miei anche più urgenti bisogni di nutrizione per cui posso dire che vivo in perpetua e stretta, strettissima penitenza. Ciò che aggrava me e non fa lieta lei, perché la coscienza rimprovera a mamma il suo modo di agire. Rimprovero che si evolve non in bene ma in un aumento di asprezze verso di me. Ma tanto... quando mai io non sono aspreggiata? Finché avrò vita lo sarò. Poi, una volta morta, allora avrò l'apoteosi materna, i fiori, i lumini, ecc. ecc. É suo metodo. Ma torniamo al testamento. Mio padre morendo il 30 giugno, avrebbe dovuto esser data alla vedova la differenza di pensione fra il 13 e il 30: un duecento lire circa. Ma per averle occorreva produrre il testamento. Io feci notare a mamma, era il 2 dicembre: «Per conto mio ti consiglierei a non farne nulla. Il Fisco ha dieci mani per prendere e neanche una per dare. Dato che quel premio l'ho vinto io, e perciò non figura nel capitale di babbo, è meglio non attirare l'attenzione della Finanza su noi. Altrimenti finisce che viene fuori un vespaio». Mi pare che ciò fosse anche un interesse suo. Non le sembra? Ebbene: mia madre mi assalì con tale violenza che mi portò alla congestione e al delirio per otto giorni dicendomi che era pronta a ripudiarmi e a fare gli atti contro di me come figlia indegna che voleva spogliare sua madre ecc. ecc., e che del resto mio babbo, sapendo che iena ero io, aveva intestato tutto a lei, moglie, diseredando me. Tutto era di mamma, insomma, ed io vivevo della sua elemosina. Poi, dopo avermi maledetta, se ne andò e, nonostante il medico e il sacerdote l'avvisassero che ero fra morte e vita, per otto giorni non entrò da me. Al 10 dicembre fui presa da un tale delirio che in quattro non riuscivano a tenermi... e allora... la mise giù. Ma la camicia di forza andava messa a lei, glielo assicuro. Quel giorno il sangue, da troppi giorni compresso nel cuore, traboccò nei polmoni con tale violenza che si formò un sacco sanguigno al polmone destro. Ci vollero mesi per riassorbirlo. E questa è stata mia madre dopo la morte di babbo. Questa. Sa quante volte l'ho sentita dire: «Ah! se fossi libera! Ah! se la finisse questa storia! Via Marta, via tutti! Io sola a fare il mio comodo!». Sì, le sono di peso. E ci vuole il mio amore per Gesù per farmela amare, nonostante che lei mi dichiari senza ambagi come le sono di peso. Sono pervertimenti morali che solo chi li constata con mano li crede. Ecco perché tremo pensando di perdere anche il dottore, che ormai è persuaso di come si vive in casa mia... Questa è una miseria che nessuna altra la supera, Padre mio. Dove ci si ama ogni altra


cosa è sopportabile, e un malato amato non è mai infelice. Ma io sono disamata, respinta e dichiarata «un peso» da mia mamma... «Vedete se vi è un dolore simile al mio...». In quel tempo mi ero messa a scrivere, per, consiglio di competenti, un libro che avrebbe potuto darmi dell'utile finanziario oltre che delle soddisfazioni morali. Ma lo crede? Tutte le critiche più acerbe e tutti i più machiavellici ostacoli mi furono messi da mamma perché non riuscissi. Ora l'opera è quasi finita e ora la mamma vorrebbe la finissi per il denaro... Ma doveva lasciarmi in pace quando potevo. Ora è tardi. Me ne spiace perché era un'opera onesta. E di libri onesti ce ne è bisogno. Poteva fare del bene il mio libro, portare a Dio attraverso sentieri che uno avrebbe percorso senza accorgersene. Era il mio scopo. Mi è stato impedito anche questo. Così morirò senza lasciare nulla di me. Non i figli, che avrei tanto amati, non il libro, la mia creatura di pensiero amata come una creatura di carne viva... Ah! nessuna soddisfazione ho avuto sulla terra. Nessuna. Mai. Tutte le gioie le ho avute dal cielo e le troverò in cielo. In quel tempo mamma si era messa a propinarmi, di nascosto dal dottore, non so quale intruglio. Io allora mangiavo per conto mio. Perciò, quando Marta usciva per la spesa, io sentivo tutte le mattine mamma pestare col martello qualcosa e poi mi portava la minestra. E io stavo poi tanto male. Mi ghiacciavo tutta, avendo sudori profusi, coma, vomito, rasentavo la paralisi. Il medico ci impazziva sopra senza trovare l'arcano. Un giorno io non volli la minestra e la mangiò Marta. Stette malissimo. Ripetei il tentativo facendola mangiare al cane. Fu per morire. Allora misi Marta di vedetta. Passò qualche tempo e poi mi portò un frammento, come di pasticca bianca, trovato sul fornello. Aveva un sapore salato e amaro. Cosa fosse non so. Ne parlai al dottore e al mio Parroco. Il primo mi disse: «Faccia mangiare a mamma quanto ha preparato per lei». Il secondo: «Mangi un pasto uguale a quello delle altre e alla stessa ora. Non mangi mai più, assolutamente mai più, quello che viene preparato per lei sola». Feci così. E subito. Fingendo un capriccio di malata volli la minestra di mamma e le detti il mio riso. Poi feci lo stesso per il contorno. Fu un disastro. Mamma nel pomeriggio stette così male, sempre con gli stessi sintomi di freddo, coma, vomito, ecc. ecc., che fu per morire. Dovette correre il medico. Da quel giorno volli mangiare del pasto comune. Non udii più pestare quelle famose pasticche e non sentii più quei sintomi. Cosa mi propinasse solo Dio lo sa. Ho pensato che, credente come è nelle stregonerie, si fosse procurata, col mezzo di chissà chi, qualche medicamento da uno di questi istrioni... e non voglio pensare altro. Le ho detto anche questo perché mi pare rientri nel quadro... Marta ci si scervella ancora pensando cosa mai poteva essere quella sostanza e chi gliela poteva aver data. Io cerco di dimenticare... Quando io medito questo consiglio evangelico penso che nella mia vita ho sempre dato senza averne dell'utile terreno. Ho dato ai miei, e specie a mamma, e fin dalla prima età ho capito che del mio dare non dovevo sperare di avere il ricambio. Sempre più è aumentato il mio dare in opere e in affetto e sempre meno ho ricevuto. Mentre le scrivo sto... digerendo non il cibo, ridottissimo e che certo non pesa, ma una scenetta, una delle infinite scenette familiari che sono il rosario della mia giornata: un chicco seguito dall'altro... una scenetta in cui io sono stata messa al disotto del mio cane... ma passiamoci sopra... Devo ripetere fino a sbalordirmi la parola di Gesù:


«Padre, perdonale perché non sa quello che fa». Guai se lo sapesse! É meglio sia una incosciente. Così non sarà giudicata. Certo è una grande pena per me. Per me come per me, che fino all'ultimo devo essere martellata, limata, traforata da un carattere così strano, e quel che è più doloroso dal carattere di colei che per la grande maggioranza degli umani è la personificazione terrena della bontà e dell'amore: «la mamma». Se mio papà non m'avesse parlato molte volte della mia nascita, se amici di famiglia non me l'avessero confermato, io penserei che non sono sua figlia, ma una creatura adottata in un momento di entusiasmo. Sarebbe ugualmente brutto il suo disamore, ma mai come nel mio caso che è di figlia, figlia vera, nata da lei. Ho dato senza speranza di utile ai conoscenti, ai parenti, ai poveri, ai ricchi. Molti hanno risposto al mio dare con offese o con indifferenze. Ma non importa. Beneficare era ed è una virtù innata del mio cuore, un vero bisogno dell'animo mio. Anche quando non ero così presa nel vortice divino, io cercavo sempre di dare, quel che potevo, per naturale tendenza del cuore che espandeva il suo calore di affetto per non rimanerne soffocato. E nessuna durezza altrui è valsa a farmi cambiare. Nella tristezza della mia vita, perché è stata una vita ben mesta la mia, ho trovato un contrappeso, per non divenire cattiva sotto il mordere continuo che mi dilaniava, nel fare del bene; ho trovato un sorriso, nel mio pianto, nel portare un sorriso sul volto di chi soffriva. Fare del bene! Non è necessario essere ricchi per farlo e poveri per riceverlo. Si può, essendo poveri, beneficare chi è ricco, come si può, essendo ricchi, non saper beneficare nessuno. L'uomo non vive di solo pane e la fame non è l'unico bisogno che ci torturi, la fame di pane. Si ha fame di tante cose! Di una carezza, di un consiglio, di una parola buona, di un silenzio che ascolta e capisce. Sì, anche del silenzio si ha fame: di certi silenzi in cui le labbra stanno mute ma l'animo parla all'altra anima che piange e narra... Vi sono silenzi eloquenti e fattivi più di tutti i discorsi! Si ha fame di affetto, di preghiere, di aiuti materiali, morali, spirituali... Oh! gli umani sono degli eterni affamati, e ben pochi sono quelli che sapendo dimenticare la loro fame sanno sfamare i loro simili! Ben pochi, perché ben pochi sono i compassionevoli. Il mio Ruysbroeck nel suo capitolo sui doni dello Spirito Santo dice, parlando del dono di pietà: «La pietà produce la compassione che si applica a Gesù e agli uomini. La compassione ènata dallo sguardo della pietà. Essa visita gli infelici, gli esiliati, i malati; essa dà il pane, il vino e l'ospitalità. Essa consola i vivi e seppellisce i morti... La pietà può essere paragonata ai fiumi del paradiso terrestre poiché conduce il desiderio in quattro direzioni. Il primo fiume va al cielo. É la compassione che va verso Gesù e i Santi che hanno sofferto in nome suo. É un torrente ilare e gaudioso... poiché i dolori che celebra sono dolori passati sostituiti da gioie eterne. Il secondo fiume scorre verso il purgatorio. É la compassione dell'uomo per le anime sofferenti che pagano il loro tributo alla Giustizia. Il terzo fiume scorre sulla terra e si spande sulle necessità di tutta la cristianità. Quest'atto interiore, pieno di un immenso amore e immensamente intenso, dà e fa più che tutte le opere esteriori raccolte in una. Il quarto fiume, che è la carità propriamente detta, si versa su tutti gli indigenti. Qui l'uomo dà i suoi beni e paga di persona. Fa l'elemosina, consigliando e aiutando a sopportare». Esaminandomi con imparzialità e giustizia posso dire di aver posseduto il dono di pietà e di avere sparso il


suo frutto nelle quattro direzioni descritte dal mistico belga. Ho compassionato i dolori dei Santi, da Cristo all'ultimo entrato ora nel bel Paradiso. Ho suffragato i purganti del Purgatorio. Ho pregato per i bisogni della cristianità offrendo le mie segrete immolazioni per essa. Ho infine avuto carità per tutte le indigenze del mio prossimo. Nessuna miseria mi ha lasciata fredda davanti alla sua vista. Questo lo devo riconoscere per amore del vero. E in questo prodigarmi ho trovato la migliore medicina per non inaridirmi e inacidirmi sotto alla grandine continua di malevolenza, di disinganni, di abbandoni che ho dovuto subire. Quando uno non mi ama, non mi è riconoscente, il mio cuore soffre, ma non soffre per egoismo, per la delusione di non essere contraccambiato. Soffre perché vede un suo simile avvilirsi in una inutile cattiveria. Perché soffro tanto vedendo mamma così cattiva? Non per me che fra poco sarò al riparo da ogni sua malevolenza. Ma per il disutile che gliene viene a lei. Quando penso a come rimarrà sola quando io non ci sarò più, soffro terribilmente... Non posso imporre a nessuno di stare con mia madre. D'altronde nessuno ci starebbe poiché nessuno di chi la conosce l’ama e si sente di vivere con lei. Ma per me questo è un coltello nel cuore... Come soffrivo vedendo la gente osservare papà menomato nell'intelligenza, ancor più profondamente soffro sentendo come gli altri giudicano mia madre. Darei non so cosa per impedire che si accorgessero che è così inutilmente, continuamente cattiva. E, anche a costo di morire dopo aver sorbito l'ultimo calice di dolore, vorrei morire dopo di lei per essere sicura che fino all'ultimo fu curata e fino all'ultimo fu amata dall'unica che la sappia amare: da me. Sì, a causa di mia madre soffro per me e per lei. E lei non lo crede. Di quelli che ho beneficati è certo la più ingrata di tutti. Ma ciò non lede il mio amore. Se anche il cuore trasuda sangue, oppresso come è dal suo modo di agire, io so fare di questo trasudare un balsamo per amare di più lei e servirla nei suoi mille bisogni. Dio me ne compenserà in cielo. Altri beneficati furono pure degli ingrati. Ma ciò duole meno perché erano degli estranei. Altri non mi dissero neppure «grazie». Ma non sono colpevoli perché non hanno saputo che li avevo beneficati. Io me la rido quando penso: «Costui non immagina che io, povera donnetta, gli ho dato tanto!». Nel gennaio del 1939 ho dato a un padre disperato la fede e la figlia. Era un giovane papà di una tenerissima figliettina di 14 mesi. Unica figliettina perché da quell'unione poco felice non ne potevano nascere altri. Nata da genitori poco sani, era delicatissima. Un fiorellino dallo stelo esilissimo e dalla linfa mancante. Eppure era il cemento di quell'unione non felice e resa ancor meno felice dall'astio di tutto un parentado. Questa piccolina si ammalò gravemente ai primi del 1939. Il male, una forma polmonare infettiva, degenerò in cancrena polmonare. La creaturina era morente. Un mese di malattia aveva consumato le sue tenere forze. Una sera, condannata ormai dai medici e dai professori, il povero angioletto era veramente in extremis. Nella notte doveva morire. Il papà, disperato, venne da noi a prendere cotone idrofilo e non so che altro. Era domenica sera e le farmacie erano chiuse meno quella di via Regia. Quel povero papà non voleva allontanarsi troppo dalla sua creaturina morente. Era veramente disperato. Aveva pregato, fatto illuminare altari, spedito offerte a non so quanti santuari. Ora, davanti all'inutilità delle sue preghiere, davanti alla sua piccina in agonia, sentiva morire la fede nel suo cuore. É tremendo il momento in cui ci


si dice: «É inutile pregare!». Bisogna averlo provato per poterlo capire. Io l'ho provato. So cosa voglia dire non sperare più. É un tale orrore che per impedire che le anime lo provino do volentieri la mia vita. Quella sera, partito quel papà al quale avevo detto parole di conforto, che nulla convalidava perché la creaturina era a un punto da cui non si torna indietro, volli salvare un' anima dalla morte spirituale. La disperazione non è forse la morte dell'anima? E che morte!!! Ho dunque offerto a Dio di prendere il male della piccolina ma che lei guarisse e che quel papà non dubitasse di Dio, poiché anche solo il dubitare di Dio è una tortura senza nome. E la bimba è guarita. «Un miracolo, un miracolo», dissero tutti. Il miracolo era la sostituzione di una povera creatura che non volle far morire nella disperazione l'anima di quel papà. Non solo è guarita la piccola Anna-Maria, ma non ebbe mai più nulla ai polmoni, ridotti come un crivello da tanto e lungo male. E io da allora, da quella notte, ho la pleurite. Anche giorni fa quella piccina, ora di 5 anni, è venuta a trovarmi ed io baèiandola pensavo: «Sei più mia che di tua madre, perché io ti ho dato una vita più robusta». Molti direbbero: «Che sciocca! Non ne aveva abbastanza del male addosso?». Oh! ne avevo più che abbastanza! Ma come fare per impedire una disperazione? Non avevo che di offrirmi io per ottenere la guarigione. E l'ho fatto. E sono felicissima d'averlo fatto. Vi sono creature eroiche che si offrono per salvare dal purgatorio anime in espiazione. Ho letto di altre, ancor più eroiche, che dicono, in uno slancio di amore: «Signore, purché nell'inferno ci sia uno che ti ami, accetterei di andarvi io, purché il tuo amore mi restasse fra quei tormenti». Sono i giganti dell'eroismo spirituale. Io invece sono un povero fiore e non posso fare tanto. E allora lavoro, mentre sono sulla terra, a salvare le anime dei fratelli. A costo del mio dolore le compro alla Vita vera. Ed è dolce pensare che per il mio olocausto altre creature sono salvate... Segreto sacrificio donato senza speranza di averne utile, come mi sei caro! Quando saranno note le opere dei giusti, quale stupore nei miei beneficati che sono ben lontani da sapere che fui io la fonte della loro presente gioia! Io muoio. Muoio anche di questo. Ma che importa? Io sono piena di difetti. Ma che importa? In un tempo, fui ancor peggiore. Ma che importa? La carità copre la moltitudine dei peccati. E quale carità più alta, verso il mio prossimo, di dare per esso la vita, non solo per ottenergli l'unione con Dio, ma anche per sanarlo dai suoi dolori morali e dalle infermità fisiche? Sto quindi fiduciosa in questa indulgenza plenaria che copre la moltitudine dei peccati e coprirà anche i miei. La carità del tempo presente, che io uso, picciolo a picciolo, senza pensare a nulla che sia calcolo egoista ma solo guardando il mio Dio, non sarà nulla rispetto alla carità che mi sommergerà nella beatitudine della contemplazione nel Paradiso santo. Allora io possiederò la Carità stessa. E chi sarà più ricca e felice di me? Maria poverella, Maria affamata d'amore, Maria la mendica di affetto, diverrà padrona delle stesse ricchezze del suo Re, si sazierà di Te, mia divina Bellezza, e il tuo affetto divino la compenserà di tutta la sua miseria terrestre. Attraverso giornate desolate. Sono proprio nella settimana di Passione. Dio mi vuole fare bere la sua tristezza di quei giorni precedenti al suo soffrire. E soffro tanto che sono spezzata nel morale e nel fisico. Solo l'anima batte le ali elevandosi su tutte le tristezze e le brutture umane e si fonde a Dio. Anche se Dio non si fa sensibilmente sentire - è una di quelle ore di dolore che viene


dall'assenza della presenza sensibile di Dio di cui le ho parlato - io riunisco le mie forze e le lancio, sola, verso di Lui. Sembro uno di quei convolvoli che nascono presso i rii chiacchierini e che, quasi portati dal vento, vanno ad abbracciare il fusto sottile di una canna palustre o quello spinoso di una giovane robinia, e di sforzo in sforzo, sempre più gettando alto lo stelo sottile come filo di seta, riescono a raggiungere la cima e di là odorano, coi calici lievi carezzando il fusto che li sorregge e che essi abbracciano con tutta la loro forza. Io pure, facendo dei continui atti di fede e d'amore altrettante piste di lancio, dirò così, salgo tutta sola ad avviticchiarmi al mio Dio. Non importa se Egli è muto, se pare rigido come un sasso? Nulla mi importa. Parlo io e gli dico tutto quanto Egli dice a me nelle ore di gioia; gli dico: «Io t'amo». Metto la mia bocca sul suo Cuore e lo bacio. Metto le mie braccia intorno al suo Corpo e lo stringo. Oh! lo so bene perché soffro così in questi giorni. Gliel'ho chiesto io, or sono otto giorni! Lo so perché soffro. So perché Egli sta così muto e freddo. É necessario questo per farmi soffrire come non si può di più. Se no, tutto il resto, non sarebbe sofferenza vera, assoluta sofferenza come è necessaria in quest'ora tremenda per noi italiani. Da quando ho capito che la guerra presente si avvicinava, ossia da molti anni, ho lavorato per ottenere da Dio che nelle sue spasmodiche strette d'orrore la guerra non portasse a morte molte anime. I corpi purtroppo nella guerra muoiono. È inevitabile. Ma per tutti i combattenti destinati a morire soli sui campi insanguinati e invano invocanti soccorso, ma per tutti i rinchiusi nel sottomarino che non può più affiorare, ma per tutti i naufraghi attaccati a un relitto alla deriva, ma per tutti gli arsi nel precipitare di un velivolo, ma per tutti i languenti negli ospedali a cui la carne muore poco a poco fra cancrene orrende e mutilazioni tremende, ma per tutti gli orbati delle mani e degli occhi - le due più terribili menomazioni, specie la prima che fa dell'uomo un oggetto in balia di altri - ma per tutti i prigionieri nella nostalgia avvilente di un campo di concentramento, ma per tutte le madri che non sanno come morì il figlio, ma per tutte le mogli che si trovano senza più il compagno, ma per tutti gli orfani senza più babbo, ma per tutti i civili sotto la tempesta aerea che distrugge case e averi, ma per tutti gli innocenti che fin dall'infanzia vedono l'inferno di quest'ora, per tutte, tutte le disperazioni che la guerra suscita e mantiene, io ho continuato a lavorare, a soffrire e a offrire - è il mio lavoro - perché la disperazione non abbrancasse i cuori e li uccidesse col suo veleno. No. Non fosse stato che per questo solo, non potevo, non posso migliorare o guarire. Sono fra i tormenti per questo scopo e più che mai ci devo stare. Specie ora, specie in quest'ora. Le ho detto oggi come, del resto, nella mia buia carcere - poiché quando sono in questi periodi sono proprio dentro a una muda oscura - il buon Gesù lasci sempre filtrare qualche filo di sole. Domenica sulla mia tempesta era sceso, a placare e a dar pace, il coro dei marinai: «Stella del mar...». Non può credere quanta fiducia ha portato quel canto. Mi ha squarciato il buio orizzonte che affissavo piangendo e mi ha mostrato il cielo e in cielo Maria, la Stella del Mattino, la Stella del Mare, Colei che col suo sorriso può rendere bella ogni più dura cosa e col suo desiderio ottenere tutto da Dio. Cantavano quei nostri soldati di mare con tanta composta fede. A me parve che gli angioli stessi si unissero al coro per celebrare Maria e per infondere speranza e pace a me. Basta un nulla a ridare lena ad un cuore che


flette sotto una valanga di ricordi e che trema davanti alla prospettiva di nuovi dolori morali... L'importante è non volere respingere l'obolo che ci viene dalle cose tutte e che Dio permette che le cose ci diano. Sono grazie minuscole, ma sono sempre «grazie». E non si deve respingere nessuna grazia, anche minima, che Dio ci elargisce. Sarebbe una superbia, e la superbia è causa che Dio si allontani. Io ricevo sempre tutto con gioia. Umilmente riconosco che sono un povero trampolo bisognoso di mille aiuti per stare ritto, e ad ogni anche microscopico aiuto dico: «Grazie, Signore». Del resto, nella mia qualità di violetta non ho bisogno di torrenti di acqua per mantenermi in vita. Mi bastano le stille impercettibili della rugiada. Purché io sappia raccoglierle nella mia corolla, tesa come una coppa verso il cielo. Se volessi solo le grandi grazie mi ridurrei incapace di avere neppure le piccole. Devo chiedere umilmente tutto riconoscendo il mio nulla e allora, nutrita dalle grazie minime, date minuto per minuto, fornite da mille canali tutti sgorganti dalla Volontà amorosa di Dio, divengo capace di ottenere anche le grandi grazie per me e per i miei fratelli. Amore, umiltà e sacrificio. Ecco le mie armi preferite. L'amore che dà ogni ardimento. L'umiltà che impedisce i fumi della superbia che offuscano. Il sacrificio che purifica e piega. Da buona violetta amo crescere sotto le spine e fra le spine. Non crescono e fioriscono proprio lì, sotto le siepi di pungente biancospino, le più belle e profumate mammole? Si nutrono anzi del succo delle foglie cadute dal pungente roveto e marcite al suolo, e le spine che fanno sopra di loro un groviglio di aculei le proteggono anche dalle grandinate estive e dalle gelide brinate invernali. Io amo molto le spine. Non so se Lei ha notato il ramo di spine che si intreccia all'olivo, a capo del mio letto. Mi dice tante cose quel ramo spoglio, dai lunghi, rigidi aculei! Mi parla della fronte di Gesù lacerata da spine ugnali. Mi parla della necessità del dolore che come spina ci punge l'anima... Tante cose mi dice piega può leggersi anche prega quel ramo spinoso! Se fossi padrona di me vorrei essere composta così nella tomba, in attesa della risurrezione: una lunga veste bianca o cenerina, una corda alla vita, piedi scalzi, nudi, una corona di spine in capo, un crocifisso fra le mani. Sono stata una penitente, una francescana e una innamorata del Salvatore crocifisso. Quale toletta migliore di questa per dormire l'ultimo sonno? Ma non potrò vedere questo mio desiderio divenire realtà. Ebbene: pazienza. Come nel dolore ho avuto ed ho tutti i sacramenti - perché il dolore è battesimo continuo, è continua penitenza, è comunione col mio Re, è confermazione nella sua dottrina, è matrimonio con il Cristo, è sacerdozio a pro dei fratelli, è unzione che purifica i sensi - così nel dolore avrò le spine che gli altri mi negheranno per ultima corona. E in cielo quelle spine fioriranno in rose. Molte cose vi sarebbero da dire ancora su questo periodo che va dal 1935, morte di papà, al 1940. Ma allora non la finisco più. E allora le accenno succintamente. Da parte mia un patire continuo per sempre crescere di mali e per sempre crescere di tentazioni alle quali non sempre resistevo. La carne è un peso che inchioda in basso e l'anima come farfalla trafitta da una mano crudele e confitta al suolo batte, batte le ali, in certe ore, senza potere elevarsi a volo. Ma quando lo spirito non consente, anzi sente ripugnanza alla colpa e questa sopraffà ugualmente, perché la sensualità dei progenitori, nonostante tutti i battesimi, si agita sempre in noi come serpe mozza, vi è vera colpa? Quanti


imponderabili sono da calcolarsi nella caduta di un'anima! Ecco perché è difficile giudicare ed è bene astenersene se appena lo si può fare. Quanto ho pianto sulla mia debolezza che non sempre mi permetteva di resistere ai richiami dei sensi! Mi sono punita, mi sono rimproverata, ho fatto mille promesse, ho supplicato Dio e gli uomini di avere pietà di me... Ma l'ora tremenda delle tentazioni l'ho dovuta vivere in tutta la sua lunghezza e con assalti tali che, quando ne uscivo vittoriosa, rimanevo come uno straccio. Da parte dei medici, nulla per aiutarmi ad attutire lo sconvolgimento dato da un male. Da parte dei sacerdoti, la quasi assoluta assenza di aiuti spirituali. Con la placida scusa che «io non ne avevo bisogno» mi si lasciava senza comunioni. Avevo un bel dire io il mio stato! Era come lo dicessi al mio passerotto. Un sorrisetto, un «non ci pensi» ed ero servita. E io mi dibattevo fra le strette di una lotta che se si fosse vista avrebbe fatto paura... Da parte di Dio ero ascoltata su tutto fuorché su questo... Oh! ho sofferto in una maniera tale che, ora che sono molto più avanti nel mio cammino, se volgo lo sguardo a quelle svolte piene di burroni e di serpi fischianti, ne rabbrividisco ancora. È tremendo, sa? Sentirsi fusa col mio Redentore e non volere mai dargli un dolore perché Egli è il Thtto mio, e nello stesso tempo sentire la carnaccia così ribelle ad ogni legge e desiderio dell'alto! C'è da impazzire! Però, ora che è passato, almeno lo spero, ora capisco che quel periodo tremendo non fu senza utilità. Per prima cosa mi impedì e mi impedisce di insuperbire. Se il sempre rinascente orgoglio dei figli d'Adamo tenta di sussurrarmi che io sono «qualcosa» agli occhi di Dio per il bene che ho fatto, il ricordo sempre vivo delle mie debolezze mi tiene ben bassa nel concetto di me stessa e mi dà modo di riconoscere che io non sono «qualcosa» ma sono «miseria». Una miseria spregevole che solo la bontà di Gesù, venuto a salvare i peccatori, può amare. Ecco perché sono presente agli occhi di Dio: perché Egli deve compiere un prodigio di misericordia per amarmi e farmi degna del suo Paradiso. In secondò luogo le mie debolezze mi hanno servito ad esercitare la carità verso tante altre creature colpevoli, deboli, che non posso condannare perché io sono come loro: debole e colpevole. Siamo tanto portati a crederci perfetti, noi poveri umani, che spesso spesso ci si incensa e loda a dritto e a torto, simili in tutto al Fariseo che ritto in piedi, presso l'altare del Tempio, si applicava da sé una patente di Perfezione. Oh! meglio, molto meglio riconoscere quello che siamo, esagerare magari nel sottovalutarci e dal fondo del tempio, sprofondati nella polvere della quale siamo noi pure formati, gridare a Dio il nostro pentimento, il riconoscimento delle nostre colpe. Se anche noi non osiamo alzare gli occhi, annichiliti come siamo dal constatare la nostra animalità, sarà il Signore che scenderà dal suo trono per rialzarci, stringerci al cuore, asciugare il nostro pianto, lavarci dalle nostre brutture e, tenendoci stretti a Sé, introdurci nella sua dimora. «Chi si umilia sarà esaltato». Terza cosa utile prodotta dal mio mancare si è che mi ha dato un'arma di vittoria. Santa Caterina dice: «Bisogna armarsi della nostra sensualità». Parola profonda e che va molto meditata. La sensualità è nell'uomo sempre viva anche se latente. Allora di questo pondo, che non possiamo levare da noi, facciamocene uno strumento di gloria anziché di sconfitta. Occorre avere pazienza anche con noi stessi, anzi soprattutto con noi stessi e guidare, con lo spirito fatto di luce, la materia fatta di tenebre, innalzare con lo spirito, atto al volo, la materia


che tende ad accasciarsi al suolo. Occorre farlo senza stancarsi mai. Sopportarsi senza sgomentarsi. Guardare il Maestro che ci sopporta e non si stanca di medicarci ogni volta che ci feriamo. Sopportarsi non vuole dire acconsentirsi. Thtt'altro! Vuol dire: sorvegliarsi attentamente, guidarsi instancabilmente tenendo per stella polare la luce di Dio. Se qualche volta le nuvole ci coprono quella luce e noi si va fuori strada, non appena torna il sereno guardare da capo in alto e rimettersi sulla rotta giusta senza sconforti e senza impazienze. Lo fanno pure i naviganti e gli aereonauti per portare in salvo la nave o l'aereo a loro affidati, e la propria vita con esso. E non dovremmo farlo noi per cosa di tanto più pregio, che non sia del legno, dei meccanismi e una carne caduca, quale è l'anima nostra? Abbiamo messo sotto i piedi la sensualità e ci sentiamo sicuri e lieti di averla vinta... ci distraiamo un attimo ed eccola lì daccapo, come quei diavoletti automatici che sbucano dalle scatole a sorpresa. Allora da capo al lavoro. Afferriamo questo mostro dalle sette teste e giù! È un lavoro titanico per lo sforzo che richiede, e minuto come lavoro d'orafo nello stesso tempo. Ma quanto merito ci procurerà. «Chi non ha battaglia non ha vittoria», dice ancora la mistica senese, nella quale pare riecheggiare con grazia femminea la voce virile di Paolo di Tarso: «Combatti la buona battaglia... L'atleta che combatte nell'arena...». Se la sensualità fosse morta in noi, quanto meno motivo di essere vincitori avremmo! Allora diciamo pur fra le strette di questo mostro indomabile: «Grazie, Signore, di questa prova. Però aiutami ché io non perisca!». Non a tutti è stato concesso d'esser crocifissi come il Redentore. Ma a tutti è concesso di crocifiggere «la propria carne coi suoi vizi e colle sue concupiscenze» per essere di Cristo che ha vinto le concupiscenze e redento la carne. Non tutti possono esser martiri dei tiranni. Ma quale tiranno più tiranno della nostra carne bramosa? Onde io sono certa che non solo agli immolati dai persecutori spetta la palma del martirio, ma anche a coloro che sé stessi martirizzano per distruggere in sé stessi la sensualità e confessare la loro obbedienza amorosa alla legge del Signore. Perciò io mi dico, e dico ai tentati che si confidano a me per esser guidati: «Non dobbiamo scoraggiarci mai se vediamo che torniamo sempre al punto di partenza. Un naufrago non lotta forse fino all'estremo per conquistare la riva salvatrice? Noi siamo dei naufraghi in balia dei venti e dei marosi. La nostra umanità ci scaglia in mezzo a un vero oceano infuriato. Noi lottando contro le ondate, i gorghi, i frangenti, tenendo duro contro le correnti d'aria e d'acqua, dobbiamo procedere verso il porto... Non ci sono risparmiati urti contro nascoste scogliere, non ci sono risparmiati inabissamenti fra onda e onda, di modo che il naufragio par certo e certa la morte. Vincerà colui che non perderà la fede». Per mio conto, poi, debole per natura e ancor più indebolita dalle malattie, più che mai voglio essere l'umile fiore che odora morendo sui gradini del trono divino. Un fiore non si accascia se un vento malvagio lo piega nella polvere, se un violento acquazzone lo spruzza di fanghiglia, se un viscido lumacone lo imbava. Attende fiducioso che la rugiada lo purifichi, il sole lo asciughi, lo zeffiro lo sollevi e lo faccia ondeggiare come un incensiere colmo d'aromi. E anche se una imprudente curiosità lo spinge a curvare lo stelo, che dovrebbe solo tendere al sole, verso il suolo, dopo si solleva più dritto di prima, smagato per sempre dal desiderio stolto di baciare la terra, lui che è fatto per i


baci del sole e delle pure rugiade. Solo i fiori di serra possono pretendere di non conoscere certe realtà della vita. Ma i piccoli fiori dei boschi e delle prode non possono aspirare a tanto. I grandi fiori delle serre, i fiori preziosi, tenuti al riparo da ogni pericolo terreno, sono per me quei predestinati ai quali il buon Dio concede gratuitamente tutti i doni per rimanere casti, innocenti, santi. Thtta la loro vita, per un complesso di avvenimenti predisposti da Dio, scorre per loro come fra le pareti inviolate e inviolabili di una mistica torre contro la quale inutilmente il mondo lancia le sue orde assalitrici, contro la quale inutilmente vengono a morire il canto delle sirene e i miraggi delle seduzioni. Creature di una tempra speciale, la cui capostipite eccelsa e perfetta è Maria, esse sono e non sono di questa terra sulla quale vivono per modo di dire, sostenute come sono da coorti d'angeli che le tengono ben alte sul nostro fango. Ci vogliono anche loro per persuadere gli uomini dell'esistenza degli angeli e della nostra origine celeste. Ma i piccoli fiori sono le anime coraggiose che ora per ora devono lottare contro tutte le insidie della vita, della società, della carne. Sono le anime solitarie che nessuno cura e che devono farsi da sé. Molto conosceranno questi piccoli fiori, molto di quello che ignorano i preziosi fiori delle serre. Molto conosceranno e soffriranno del vento, del gelo, della canicola, delle brine, delle pedate che li calpestano, delle mandre che li brucano... Ma si consolino i piccoli fiori coraggiosi dei campi e delle pendici. Essi sono proprio i «figli di Dio». Lui solo li semina, Lui li innaffia, Lui li scalda, Lui li ammira, Lui li coglie per la sua gioia. Gli uomini neppure se ne accorgono di camminare sulla loro seta profumata. Gli uomini sono così sordi ai prodigi di Dio! Ma Dio li vede questi umili fiori che Egli ha seminato per le vie del mondo e che sono fioriti e durano a fiorire per amore di Lui, per fare piacere a Lui solo, senza curarsi d'altro. E per essi ha un posto speciale in cielo. Sarà l'aiuola degli umili. Ma chi è il capo degli umili? Il Cristo, che disse di esser miti ed umili come Lui. Si consolino i piccoli fiori. Sotto i piedi di Gesù peregrinante per la Palestina e fino ai piedi della croce furono essi, gli umili fiori, quelli che odorarono amando il Signore. Dalla cuna alla tomba su essi si posò lo sguardo di Gesù. Essi ricevettero le carezze delle sue manine infantili, l'elogio della sua divina parola, il pianto del suo cuore agonizzante fra gli ulivi, il sangue gocciante dalle sue membra sospese alla croce. Perciò basta che sappiano volere rimanere umili fiori e saranno sempre i prediletti di Dio. Basta che sappiano volere stare presso la cuna di Gesù infante, lungo la sua via, basta vogliano fare da guanciale al suo capo dolorante e raccogliere le lacrime dei suoi occhi, basta vogliano soprattutto rimanere ai piedi della croce e raccogliere quel Sangue che tutto redime, per essere certi di non perire. Vivranno quaggiù profumando per Lui. Vivranno lassù, più belli, sempre profumando per Lui. Lei stamane mi ha vista piangere. Quelle lacrime erano spremute da molte cose. Prima fra tutte la assoluta assenza della presenza di Dio. Quando mi sento sola tutto prende un colore così triste e pauroso che mi fa piangere. Sono le ore del Getsemani... e non è a stupirsi se sono molto frequenti. Vi sono così pochi cristiani che vogliono stare col Cristo nel Getsemani per pregare ed espiare per i peccatori! Sono le più meritorie e le più crocifiggenti. Molto, molto più di tutte le altre. Non si trovano neppure parole per descriverle. Si soffre al punto di essere inebetite. Non si sa più fare altro fuorché soffrire


e amare e dire al Signore: «Io ti amo!». Solo, dopo la comunione, ho sentito una vena di pace aumentare in me. Una vena, perché le altre erano sempre vive e attive. Le inquietudini di questi giorni hanno corrugato la superficie ma non alterato il mio profondo dove è la pace di Dio. Ma ora un nuovo canale di pace è venuto ad addolcire le mie acque amare. Più che ad addolcire, a quietarle. Non si tratta che stare qui, sulla croce e al buio... Uufficio delle vittime è questo. Questo stare al buio non è senza scopo. Porta la luce a chi è privo del raggio divino. Pregare per chi non prega. Quale missione più di questa ci può fare simili a Gesù e a Maria la cui vita fu una sola preghiera? Pregare nel fervore, pregare quando il fervore sensibile cade, pregare con una parola sola quando siamo incapaci per malattia o altro motivo di pregare a lungo. Pregare con un semplice sospiro, con uno sguardo levato al cielo, pregare col pianto che ci casca dalle ciglia, pregare coi nostri spasimi... Guardo il mio Gesù che ha raggiunto l'apice della preghiera quando fu issato sul patibolo. E in queste mie ore di Getsemani, in cui sono così sola e schiacciata da questa solitudine, imito il silenzio orante del Redentore... Il silenzio orante che è più pressante di tutte le meccaniche e prolisse preghiere dette con l'anima altrove. Guardo Gesù sulla croce. È di fronte a me. Alto, bianco, snello, illividito dalle percosse e dall'agonia. Si sente guardato e alza il capo reclinato sul petto sotto la sua corona insanguinata. Mi guarda. Lo guardo. I nostri sguardi si incontrano attraverso un velo di pianto. Egli mi insegna a pregare in queste ore di passione, di espiazione. E tutto imparo guardando Lui. Seguo il suo sguardo che si volge in giro, sul mondo. Uno sguardo di compassione infinita per tutte le miserie degli umani. Seguo il suo sguardo che, dopo aver raccolto come un fascio lo spettacolo di tutte le miserie umane, si alza al cielo e le offre, con quel suo solo sguardo d'amore, all'amore del Padre perché le soccorra... Le anime ostie devono vivere così. Spargere l'amore, raccogliere il dolore, offrire amore e dolore per ottenere pietà. E il muto colloquio degli sguardi continua. «Ho sete di anime». «Ho sete di Te!». «Passata quest'ora verrò. Adesso bisogna che tu resti sola. Accontentati che io ti guardi e ti sia Maestro». «Gesù, sono sola». «Io pure sono solo. Le anime non mi amano». «Gesù, lo smarrimento tenta sommergermi». «Non temere. Esso non prevarrà». «Mi pare d'essere divelta da Voi». «No. Se il Padre nostro è ritirato nel profondo dei cieli, Io ti sono presso e l'Amore, il Paraclito, stende le sue ali su te. Pensa, creatura, che il Padre nostro, dico nostro perché ti sono Fratello, si fa violenza per non stringerti al cuore. Un giorno saprai cosa valse questo tuo soffrire... Guarda in basso: vedi la turba dei miseri che ha bisogno di olocausti per essere salvata. Guarda al cielo e vedi i castighi che un atto di amore trattiene. E sorridi, sorella mia, mia povera sorella. Quel che tu puoi fare neppure agli angeli è concesso. Tu, che t'immoli, adori e espii. Gli angeli adorano solo». «Ho paura di non sapere far bene il mio compito...». «Il mio merito infinito ripara alle tue imperfezioni. Non chiedo da te, piccola ostia, d'esser perfetta. Chiedo solo che tu cerchi di esserlo il più possibile». «Sei contento, Gesù?». «Son contento, Maria. Il tuo sforzo asciuga il mio pianto». E allora? E allora che dire? «Padre, liberami da quest'ora»? Ma io sono venuta appunto per quest'ora». Non mi re sta perciò che da viverla in tutta la sua austerità. Stamane, dopo aver pregato, a modo mio, ho sentito come una voce dirmi: «Sta' sicura. I tuoi desideri


non rimarranno senza realizzazione». Ho pensato alla Madonna Ss. di cui oggi sono celebrati i dolori. Anche essa vide realizzati i suoi desideri, ma prima dovette soffrire... Mi fido di Lei che mi è Madre e Regina, e voglio pensare che quel sussurro mattinale mi sia venuto da Lei, la Mamma di Gesù, la Mamma nostra. 1940-1942. Il 1940, nato in un mondo già insanguinato, si iniziò per me molto tristemente. Per quanto avessi preveduto esattamente quanto ormai accadeva, pure il vedere che accadeva realmente mi era cagione di molto dolore. Fra l'altro, senza essere un'aquila, né un diplomatico, né uno stratega, capivo a cosa si andava incontro noi italiani e quali conseguenze ne sarebbero venute per questa povera Italia nostra. Avevo pregato tanto, per degli anni, per ottenere la pace. Non posso certo rimproverarmi di non aver fatto tutto il possibile, unendo il mio nulla ai meriti di altre anime elette più della mia, perché fosse risparmiato all'Europa, e specie a noi italiani, il flagello di una nuova guerra. Avevo pregato, pianto, m'ero proprio saturata d'affanno. In cambio fui trattata, secondo il solito, da pazza. Quando pareva che tutto fosse ormai deciso per la guerra, ecco una tregua... ed io raddoppiavo le preghiere perché fosse duratura. Così fino all'inizio dell'agosto 1939. Al 12 agosto – ricordo esattamente che era la festa di S. Chiara - una premonizione mi avverti che era venuta l'ora feroce. Avevo allora in Polonia una delle mie figliette dell'A. C., andata fin là per guadagnarsi il pane per lei e sua madre. Io l'amavo e l'amo tuttora molto, benché da lei mi sia venuto or è un anno un grande dolore. Conoscevo quel cuore esuberante e quella mente esaltabile più della sua stessa mamma. La capivo facile preda di chiunque la sapesse circuire e la lusingasse di essere capace di darle quello che la sua famiglia non le dava: ossia un affetto giusto e intelligente. Anche malata e reclusa dal male, avevo sempre vegliato su lei ed ero riuscita a saivarla una volta... Oh! per lei ho saputo mettere sull'attenti anche dei sacerdoti che... dormivano mentre era il caso di stare molto attenti alla pecorella che si smarriva... Dopo era andata in Polonia. Ma io non la perdevo di vista. Il 12 agosto fu così pressante la «voce» che mi diceva: «Dille di tornare subito». Scrissi una lettera. Fu l'ultima che valicò la frontiera, come il treno con cui tornò quella mia figlietta fu l'ultimo uscito dalla disgraziata Polonia. Allora, quando la bufera per la quale m'ero tanto angustiata ebbe realmente inizio, non piansi più. Mi succede sempre così. Mi dispero avanti. Al momento in cui davanti alla realtà si disperano i più ciechi ottimisti, non dispero più. Ho già passato quel momento in anticipo. Entro perciò nella realtà del fatto con molta fortezza. Sento tutta la tristezza dei tempi. Ma questi non mi turbano più perché li ho già visti con una antiveggenza che è il mio tormento. Anche le mie profonde tristezze di questi giorni, di questa settimana, è perché vedo ben tristi eventi futuri. Il 1940 si era perciò iniziato così. Già asperso di sangue e chiamante sempre nuovo sangue, e italiano per giunta... Molti si illudevan6 sulla nostra «non belligeranza». Non io. Raddoppiavo preghiere e sacrifici, ma ormai lo facevo già per ottenere pietà per noi nelle terribili contingenze della guerra che sentivo inevitabile e già decisa... In gennaio morì anche il marito della Soldarelli. Mi faceva pena quell'anima che andava a Dio così: senza riconciliazione dopo tanti errori. E


mi detti da fare perché fosse possibile un incontro del morente con un sacerdote. La moglie, accecata dall'affetto, non capiva che il marito era condannato. Ma io lo sapevo. Chiamai perciò un sacerdote. Non posso pensare che un'anima si perda per colpa nostra. Questo sacerdote mi promise di andare... ma non andò. Ho passato pregando tutta l'ultima notte di vita di quel disgraziato... sarà valso. a qualcosa? Solo Dio lo sa. Però è doloroso constatare certe lentezze nell'assistere le povere anime. È inutile predicare se i primi ad esser tiepidi sono coloro che predicano. Quanto occorre pregare per i Sacerdoti!... Tante volte si criticano le anime perché non sono pronte a fare i loro doveri di cristiani. Ma, diciamolo pure e diciamolo con dolore, molte volte la colpa è dei ministri preposti all'assistenza di queste povere anime, che saranno lebbrose quanto si vuole, ma appunto per questo vanno curate. Insomma quell'uomo è morto così. E speriamo che la sua anima all'ultimo momento si sia rivolta a Dio, da sé. Le confesso però che rimasi così disgustata che, per quanto sia contraria a rivolgermi ad altre parrocchie, cominciai allora a riflettere che era bene cercassi altrove un sacerdote per non andare avanti così zoppiconi nell'esercizio dei sacramenti. E lo dissi anche apertamente, perché penso che nulla ci deve far tacere la verità. Sono molto cateriniana in questo. Penso che avrei coraggio di dire: «Ciò non va fatto» anche al Sommo Pontefice. Penso che tutti si può sbagliare e che perciò dovrebbe essere a tutti caro di essere avvertiti del nostro errore. Delle volte un bimbo, un ignorante, un inferiore può vedere giusto dove noi vediamo sbagliato e, con la sua parola schietta, ricondurci sulla retta via. Ma il mio dire non giovò a nulla. Io rimasi sempre con una assistenza quasi nulla e che ricevevo a distanza di anche cento giorni dopo infinite chiamate. Amen! A consigliarmi anche di più nella ricerca di un sacerdote attivo fu la malattia di mamma avvenuta nella primavera del 1940. Una forma tossica intestinale dovuta alle sue bizze nel nutrirsi e nel curarsi con metodi suoi propri. Ma fu un susseguirsi di miglioramenti e di ricadute dovute a nuovi capricci nel nutrirsi della ostinata mammina. E così ebbi spaventi, pensieri, crucci, brontolate, oh! di queste poi!!! Io e Marta abbiamo passato un vero inferno. Ho la coscienza tranquilla perché so di avere curato mia madre come meglio non poteva esserlo. Non mi sono fatta rincrescere nulla né di medicine né di vitto. Come al solito, non me ne fu grata. Anzi, a sentire lei, noi due la trascurammo. Meno male che ci sono diversi testimoni che sanno come si agiva. Il medico, vedendomi spesso in lacrime per la tema di perderla, mi diceva: «Ma ne ringrazi Iddio! Scommetto che lei migliora se sua madre muore. Pensi a lei!». Ma era mia madre. É mia madre. Non ha fatto nulla per essere amata. Anzi ha fatto tutto per uccidere il più resistente amore. Ma io l'amo ancora, l'amo sempre. Non l'amo altro che io. Prima eravamo io e papà. Ora sono io sola. Non avere più neppure quel minimo di quiete che avevo prima, nutrirmi ancora meno e peggio del solito per rientrare in quel tanto di spese che mamma mi dava e mantenere viceversa a lei carni scelte e vini generosi, frutta rare e bibite rinfrescanti, dovere stare sempre a orecchio teso per sentire se di notte si muoveva, l'essere ancor più del solito rimproverata e l'udire sempre rimproverare Marta, l'affanno di vederla stare male, furono altrettante mazzate sul mio organismo già lesionato. Sono peggiorata da allora come non ero peggiorata in quasi dieci anni. Alle malattie già esistenti se ne


aggiunsero altre: nevriti di un dolorare spasmodico, talmente forte che supplicavo il medico di farmi morire. Giunsi a pennellarmi tutto il volto con della tintura di iodio molto forte per intontire il trigemino che mi dava dolori da ammattire. Dolori che non potevo calmare con nessun analgesico per lo stato del cuore. Alle nevriti si unì una pachimeningite che mi rese intirizzita come fossi mummificata. Al minimo movimento dovevo urlare. Le reni si guastarono e la cistite cronica si complicò con una pielocistite culminata in emorragie renali e vescicali. La peritonite aumentò dando fenomeni di occlusione intestinale. La pleurite aumentò al lato destro dove si formarono aderenze dolorose. Nel dicembre freddissimo del 1940, durante un'assenza di qualche giorno di Marta, essendo rimasta priva di bottiglie calde e senza nessun riscaldamento, mi venne una congestione polmonare andata sempre più aumentando nelle infinite ricadute avute da allora. Che bella enumerazione! Ma è il mio... stato di servizio... Nella primavera del 1940, quando mamma era più malata, avevo scritto ai diversi parenti per avvertirli della gravità di lei. Mi risposero tutti con buone e incoraggianti parole. E fra l'altro mi scrisse un cugino, al quale io non avevo scritto direttamente perché avevo preferito scrivere alle cugine. Fra donne ci si intende meglio. É un uomo molto provato. Rimasto orfano di madre a sette anni, vedovo a quaranta e con quattro figli di cui uno morto nel 1935 a 21 anni. Quando io ero a Reggio Calabria avevo avuto modo di conoscere bene questo uomo dal cuore buono ed esuberante e mi dolevo che la sua bontà fosse tutta umana. Senza nessuna ombra di fede. Ma lo scusavo pensando che era già assai se, cresciuto in mezzo a uomini, senza una madre che gli insegnasse a pregare, senza nessuno che gli parlasse di Dio, nell'ambiente non certo propizio alle elevazioni spirituali quale è l'albergo, era rimasto umanamente buono. Mi stupì dunque molto la sua lettera tutta pervasa di fede. Noti che... essendosi azzuffato con mamma, allora, quando eravamo sue ospiti, egli non aveva più scritto. Solo alla morte di mio padre aveva scritto a mamma. Non so cosa. So che lei si stupì molto della religiosità di Giuseppe e rispose così poco in tono che lui non le riscrisse mai più. Con la sua bella schiettezza egli mi ha anche di recente dichiarato che dovette scrivere contro sua voglia a me «spinto da una forza sconosciuta», dice lui, perché di suo non lo avrebbe mai fatto credendomi divenuta col tempo «simile a mia mamma e perciò di cuore arido ed egoista», scrive sempre lui. Io risposi ringraziando. E si capisce che seppi rispondere non deludendolo, perché mi rispose ancora. E così per tre volte dall'aprile al giugno. Poi silenzio fino all'aprile del 1941. Epoca in cui mi arrivò una sua lunga lettera in cui, sempre dicendosi spinto a scrivermi da una forza sovrumana, mi si confessava per spiritualista convinto e professante. Le assicuro che feci un balzo sul letto. Spiritismo, spiritualismo, ecc. ecc. sono per me altrettanti «babao». Io credo che neppure le bombe mi muoveranno. Ma se dovessi sentire o vedere qualcosa di spiritico faccio uno schizzo da cavalletta e vado a finire in mezzo alla strada così come sono. Al momento, dopo averne fatto un carnevale con Marta, decisi di non rispondergli neppure. Poi riflettei che ciò non era carità. La sua lettera, infine, era pervasa da un rispetto a Dio, da una sommissione alla sua Volontà che difficilmente si trovano nei cattolici osservanti. Fra l'altro mi diceva - rispondendo per sua sorella alla quale io avevo scritto di Padre Pio per un nipote combattente nell'Africa


Orientale - mi diceva tanto bene di questo frate e con un così profondo rispetto della Chiesa che non mi sentii di condannarlo. Per me tutto è preferibile a non avere una fede. Fra l'idolatra e l'ateo preferisco sempre l'idolatra. Dell'ateo ho paura. Penso che chi cerca Dio per sincera ricerca della Verità e della Luce, con purezza di intenzione, per un vero anelito verso questo Dio che sente esistere ma non sa dove sia, come sia, penso che quando una creatura cerca tutto ciò umilmente e senza secondi fini, essa sia già sulla via di Dio. Sarà una via parallela, forse anche una via tortuosa, ma sempre prossima alla via regale che porta a Dio. E perciò questa creatura non va trascurata ma aiutata nella sua ricerca da uno più avanti di essa nella conoscenza della Verità. Perciò, con un po' di tremarella, gli risposi. Confutando però certe sue idee. E credo che fos-si un po' tanto recisa nella mia confutazione. Non se ne offese. Anzi da allora continua a scrivere. Qualche volta ci siamo anche ferocemente insultati... ma poi abbiamo sempre fatto la pace, riconoscendo che ci battevamo in due camPi opposti ma guardando un punto solo: Dio. Gliene ho già parlato a voce e non mi dilungo oltre. Solo le dico che anche questo non fu senza utilità. Credo che nella lunga e paziente corrispondenza io abbia seminato dei semi buoni fra i molti e arruffati steli che crescevano in quel cuore cercante Iddio quando già la vita è nella parabola discendente. Qualche volta, con la mia paura per certe cose, fui lì li per troncare tutto, specie quando qualche sua troppo ardita enunciazione, molto lontana dal mio modo di pensare e di credere, mi urtava e sconcertava. Ma sentivo che non lo dovevo fare. Il buon Gesù non lo voleva. Avevo anche paura che ciò potesse in qualche modo dare agio al demonio di accostarsi di più. Ma anche qui una luce e una voce dall'alto mi dette risposta e chiarezza. Era sempre la parola del Verbo che rispondeva alle mie perplessità: «Io vi ho dato il potere di calcare serpenti e scorpioni e di superare tutta la potenza del Nemico, e nulla potrà farvi di male». E la voce di Gesù, nel fondo del mio cuore, mi ripeteva: «Non temere. Nulla potrà accaderti di male. Non trascurare questa creatura. Anche essa è mia, crede in Me, è ricomprata dal mio Sangue e dalla sua fede. Non la giudicare e solo sule portatrice della mia Parola». Anche la benedizione di Padre Pio mi dava coraggio a continuare... e infine me ne dava l'essere mio cugino a quasi mille chilometri da me! Coraggiosa, vero? Nel giugno 1941 Giuseppe mi mandò un messaggio, come li chiama lui, tutto per me. Molto lusinghiero in Verità per l'umile sottoscritta. Ma mi fece montare la mosca al naso. E gli risposi con una vera requisitoria contro lo spiritualismo e gli spiritualisti. Ho ancora la brutta copia. Ma poi me ne pentii. Avevo contemporaneamente ricevuto diverse lettere da persone che bene mi conoscono o che credo fermamente illuminate da Dio, le quali, quasi con parole uguali, dicevano le stesse cose del «messaggio» inviato da mio cugino. Per spirito di giustizia mi dissi allora: «Se tu accogli queste come risposte e incoraggiamenti che il buon Dio ti manda attraverso queste persone che tu stimi, perché non vuoi accogliere questa? Come ti puoi arrogare il diritto di giudicare costoro come indemoniati o per lo meno pazzi? Lo spirito di Dio può soffiare dove e come vuole, e se Egli giudica di farti avere attraverso a persone sconosciute da te una parola che ti rincuori, in questo momento in cui sei così sommersa in un mare di accasciamento e titubi di essere sulla via giusta e ti chiedi se sei o non sei a posto di mente o se invece sei


una pazza, perché vuoi spregiare qùesta parola? Non è il primo caso, in venti secoli di cristianesimo, che furono giudicate eretiche delle creature la cui fronte è ora ornata dell'aureola dei santi. Anche quelle subirono le beffe, i rigori della legge, il supplizio perché dicevano d'avere delle "voci" che le istruivano. Dunque... Non giudicare. Resta umile nella lode e prudente nell'agire. Di' al Signore di illuminarti sul da fare». Ho molto pregato in quei giorni e fatto pregare attendendo un segno. E il segno l'ho avuto nella sconfinata pace che è venuta in me. Ho capito allora che Dio non trovava pericoloso il mio carteggio col cugino. E l'ho continuato. Non discuto e non arzigogolo se chi parla è Tizio o è Caio. Ho solo ascoltato la ripercussione che quelle parole potevano dare al mio io. Se avessi sentito un turbamento qualsiasi, avrei troncato tutto. Invece non avvertii né un pullulare di superbia, né un turbamento alla fede, né un tremore di inspiegabile origine. Circa l'elogio ricevuto rimasi come prima, anzi mi sprofondai più che mai nell'umiltà e nella riconoscenza dicendo: «Se queste parole sono permesse da Te, ragione di più per me di agire con il massimo di perfezione che posso io per meritare di rimanere sempre fra le tue braccia, ragione di più per esserti riconoscente e per amarti di più per contraccambiare il tuo amore». E le assicuro che da quel momento fui ancora più attenta a non mancare mai verso il Signore. Lei una volta mi ha detto che io prendo tutte le cose e le vedo, le cose, sempre sotto uno speciale punto di vista, diverso da quello per cui un'altra persona le scrisse o le fece. E mi ricordo di averle risposto che è proprio così, come se la luce, che si parte dall'anima mia, illuminata dal suo Sole: da Gesù, proiettandosi su tutto, dia a tutto una luce soprannaturale e buona. Ma del resto ciò rientra nelle promesse di Dio. Non dice forse Egli che coloro che agiscono in suo Nome sono resi immuni dalle insidie dei serpenti, delle fiere e dei demoni? Io credo che un' anima, veramente unita al Cristo, possa passare attraverso l'inferno senza risentirne danno. Non per suo merito, ma per il potere di Colui che l'abita. Perciò anche questo fatto della mia vita, che avrebbe potuto mettere scrupoli o agitazioni in altri cuori, mi lasciò indifferente. Cioè si ritorse, dato che sia arte diabolica, in strumento di bene, perché mi spronò a un sempre maggior bene. Dio m'ha sempre e talmente amata che di tutto quanto mi si agitò d'intorno, durante la mia vita, trasse un insegnamento di perfezionamento, così come tutto quanto per qualsiasi causa venisse a contatto con il mio spirito si mondò dal male, che poteva avere in sé, e a me non dette che incitamento al bene. «Anzi t'ho amata d'un amore eterno e per questo ho avuto continua benignità verso dite». Queste parole me le dice ad ogni minuto il Padre mio, ed io ne sento tutta la verità. Vissuta in modo che avrei potuto crescere senza fede e con poca morale, Egli, l'Eterno, mi istrui e mi sorresse per tutta la vita. Quando io penso a quelle parole: «Come una madre carezza i suoi piccini così Io ti consolerò, ti porterò sul mio seno, ti cullerò sulle mie ginocchia», dico sempre: «Si, Signore. Tu con me facesti proprio sempre così. Mi fosti e mi sei padre, madre, sposo, fratello, amico, maestro e sacerdote. Tutto mi sei, o Signore, e non ho avuto altri che Te per formare la mia persona a tua immagine e somiglianza. Tu hai preso la mia mota, nata informe e viziata dal seno di mia madre, così come il fango esce dall'acquitrino che lo copre, e mi hai plasmata secondo il tuo pensiero. Io, povera mota, volevo delle volte modellarmi a modo mio, io, oscura


polvere, avevo desiderio talvolta di essere guidata... e Tu, Tu solo mi hai guidata, come Tu solo hai perseverato a modellarmi nonostante le mie deviazioni». Dio, di tutto quanto conobbi e vidi e soffrii, si è servito per farmi procedere nella sua via. Dei lutti e dei dolori per farmi cercare il suo Cuore, dell'istruzione per farmelo adorare, della natura per farmelo lodare, delle mie miserie per farmelo benedire per la sua misericordia, della conoscenza delle miserie altrui per farmi sentire riconoscenza per la sua bontà, delle altre religioni o teorie per aumentare il mio amore, la mia fede, la mia dedizione a Lui. Si, anche le altre religioni hanno servito ad accrescere la mia immedesimazione con Dio e il mio miglioramento spirituale. Ho sempre pensato, da quando ho conosciuto le dottrine di altre religioni, che in tutte vi è un frammento della vera, della nostra. Si direbbe quasi, per portare un paragone umano, che dell'unica vera religione: quella data da Dio a Mosè e confermata poi dal Verbo di Dio, si siano staccati frammenti che portano seco un briciolo di verità. Come un immenso specchio, alto nel cielo perché tutti i nati dell'uomo lo vedessero, stava la Religione dell'Eterno. Lucifero e la sua coorte, con folle ira, scagliarono le loro frombole infernali contro quello specchio mirabile e ne colpirono i bordi. Non il centro, dove brilla il fulgore di Dio, ma i bordi, là dove ancora potevano guardare, sia pure a fatica, le torme dei demoni. E le schegge caddero sulla terra formando il seme di altre religioni che, fra i loro errori, conservano pur sempre un frammento più o meno grande di Vero. Quando io, studiando le religioni e i loro codici morali, noto questo riflesso di luce divina brillare fra le sovrapposizioni contorte dell'errore, mi sento sempre più spronata a seguire esattamente i dettami della mia. Così il bramanesimo, che ha in grande culto la continenza, la purità, mi spinge ad esser più che mai pura; cosi la maomettana, con la sua lode a Dio che vede balenare a oriente e a occidente negli astri e nelle erbe, ovunque la sua potenza sia testimoniata dalle cose create, mi spinge a lodare e benedire il Creatore nostro; così la scintò, la quale proclama la presenza di Dio ovunque sia un che viva: «Dove stride una zanzara Io sono», mi porta a vivere come se al mio fianco fosse visibilmente Iddio; così la buddista, con la sua dottrina di benevolenza nella quale riecheggia così vivo il nostro Vangelo là dove predica di amare il prossimo, di avere nel cuore pensieri onesti se si vogliono compiere opere che diano una vita eterna ecc. ecc., mi porta a sempre più essere benevolente verso il mio prossimo tutto: dai genitori all'ultimo abitante del globo. Mi dico: se i credenti di religioni non vere vivono da puri, da santi, solo perché il loro profeta, il loro mandato da Dio ha detto di vivere così, cosa non dobbiamo fare noi che possediamo la vera religione e che abbiamo avuto per Mandato da Dio lo stesso Figlio di Dio? Se delle creature ancora dominate da una legge d'errore sanno elevarsi tant'alto verso il Bene, cosa non devi fare tu, anima mia, che possiedi lo stesso Bene? Ho sempre avuto rispetto per le immagini, tanto per dirgliene una; ma da quando ho saputo che in Giappone la fotografia del loro Imperatore, discendente degli dèi, non viene mai pubblicata sui giornali solo perché un giornale, una volta letto, può essere usato a usi... poco nobili e perciò può essere insudiciata e offesa leffigie del re, mi è venuta una viva accortezza a non usare mai carte dove sia scritto il nome di Gesù, di Maria e dei santi. Io credo che quando un anima è veramente satura di Dio, come una stoffa può essere imbibita di un liquido,


nulla più la può turbare o sedurre. L'importante è che un'anima si la sci penetrare da Dio, il quale non chiede altro che di informare di Sé le sue creature. Ieri mattina Lei mi diceva che non crede che io abbia commesso colpa grave circa la purezza. Può benissimo essere come dice Lei. Ma io sono giunta ad una sensibilità data dall'amore, non dal timore, che mi avverte anche di una sfumatura impercettibile di imperfezione. Non sono scrupoli. No. Lo scrupolo è diverso. Lo scrupolo si fa ragione di peccato anche dove peccato non è. Io capisco se una data cosa è o non è peccato, ma però se una cosa che non è buona mi avviene anche solo di iniziarla, magari col pensiero, la coscienza mi dice subito: «Attenta! Ciò addolora Gesù». E anche di aver avuto quel neo di colpa, anche solo d'aver desiderato quel neo, ne soffro fino al pianto. Non per me. Per Gesù. Io lo amo, Padre, ma di un amore che è più intenso di quello di molti. Di un amore di carne e sangue oltre che di anima. Dio non è per me un'idea astratta, lontana, irraggiungibile come lo è per la grande maggioranza dei cattolici. Egli è per me una realtà. E non solo una realtà ideale. Egli è qui, vivo, vero. Io lo sento, gli parlo, lo porto in me. Come figlia io non ho mai voluto dare un dolore ai miei genitori perché li amavo come di più non si può. Come moglie non avrei mai dato un dolore a mio marito perché lo avrei amato con tutta me stessa. E dovrei agire diversamente col mio Dio che è il mio supremo amore? Che è colui che non mi ha mai nuociuto? Oh! non è il timore del castigo che mi fa piangere pensando alle mie manchevolezze! É il pensiero d'avere addolorato Lui! Io addolorato Lui, che a costo di mille tormenti vorrei far sorridere?! Le lacrime di Cristo io le vorrei asciugare tutte. E perché allora farne salire altre a quelle pupille amorose? Ma ha capito, Lei, di quale amore assoluto, ardente, consumante, io amo il mio Dio? Vi sarà chi lo ama più di me, non ne dubito. Ma io lo amo col massimo che posso raggiungere. Non potrei di più, neppure morendo nello sforzo, col cuore spezzato e le vene aperte dal rigurgito dell'amore. Maddalena ha sparso lacrime e nardo sui piedi del Redentore. Io spargo me stessa. M'effondo tutta fuor dal vasello della carne che spezzo per amore... Stamane è venuto l'Amore... e io ardo... Che mistero di Bontà eterna è questo! Anche nell'anima più immolata dal Padre, e perciò privata di quella beatitudine che rifluisce in altre per i sorrisi dell'Eterno, viene sempre coi suoi conforti immensi ed infiniti Gesù, Signor nostro. Egli sa bene che sotto al rigore della Giustizia noi, povere vittime, morremmo desolate. Egli lo sa perché l'ha provato. E allora viene a rianimare le nostre forze esauste, viene coi suoi tesori d'amore, viene con le fiamme e le luci dell'Amore stesso, e i nostri occhi allora si aprono con una potenza d'aquila che neppure il pianto vale ad offuscare e vedono il Padre, la cui vista ci era stata tolta per accrescere la prova. Anche se è un attimo, esso è bastevole a letificare tutta la giornata e oltre. Ed è bene che sia concesso solo per attimi. Altrimenti non lo sopporteremmo, deboli come siamo. La beatitudine ci distruggerebbe. Invece, data così, per attimi, accresce la nostra essenza, ci dà una nuova infusione di pace, perché nell'attimo in cui il nostro spirito si congiunge con Dio la pace rifluisce tutta dai laghi eterni in noi, ci illumina degli splendori di Dio e ci rende capaci di vedere, ci apre la mente e ci fa capaci di capire, ci dilata il cuore e ci fa capaci di amare, ci dà la forza e ci fa capaci di resistere, ci dà Sé stesso, insomma. Ed ora torniamo... sulle rotaie dopo aver sconfinato


dietro alle voci dell'amore. Ho dunque continuato a corrispondere con mio cugino mettendo anche questa fatica insieme a molte altre, nel reparto: apostolato. La malattia mi ha segregata in casa, è vero. Ma non ha messo impedimento al mio piccolo apostolato. Finché si vuole, si può compiere un lavoro apostolico per amore di Dio. La pazienza nella malattia è già un apostolato. Vedere uno che soffre e sorride, uno che è senza un attimo di benessere e non si inquieta, uno che sa compiere una volontà di Dio che, vista con sguardo umano, è molto dura, fa riflettere e meditare gli increduli o anche semplicemente i tiepidi su eterni Veri, da tropPi negati o tenuti in poco conto. Come negare l'esistenza di Dio e dell'anima davanti a certi prodigi di pazienza che durano lunghi anni e che, senza mai perdere nulla della. loro severa intensità di dolore, sanno conservarsi ilari e fidenti? Il solo guardare noi cronici, e cronici non soltanto rassegnati al dolore ma gioiosi di vivere nel dolore, è una lezione per i gaudenti della terra, per gli egoisti, per i malcontenti, per i ribelli... Poi vi è l'apostolato della parola. Curiosi che vengono solo per curiosare e che noi possiamo, così alla buona, lavorare in nome del Signore. Amici che hanno crocettine minuscole come pistilli di pratoline e che vengono a piangere da noi... e che noi, i grandi crocifissi, consoliamo facendo loro vedere che la croce è dono e non castigo. Ammalati come noi, ma meno abbandonati a Dio di noi, e che perciò soffrono moralmente più di noi, e ai quali possiamo dare tanto aiuto parlando o scrivendo. Un' anima vittima deve essere il Cireneo di tutti: del buon Gesù nostro, continuando a portare la croce che Egli portò per primo; del nostro prossimo portando le croci che, anche se piccine, ad esso paiono tanto grosse... Sono le nostre spalle di anime vittime quelle che devono piagarsi sotto il caro peso della croce. In noi vi è la conoscenza esatta dell'amore, e questo è l'alimento e il motore che ci permette di portare quel peso senza flessioni e senza stanchezze. Ben venga, dunque! Le croci dei fratelli ci trovino sempre pronti a rialzarle, se troppo esse avviliscono coloro a cui sono mandate. Preghiera e sacrificio per i più deboli, umile richiesta a Dio di soffrire per chi non sa soffrire, dobbiamo fare noi che nella nostra logorata esistenza di malati cronici siamo degli atleti dello spirito, noi che abbiamo capito il «perché» del Dolore, gustato il suo sapore divino e penetrato la sua celeste bellezza. «Saliamo sull'albero della Ss. Croce», scrive S. Caterina. «Ivi vedremo e toccheremo Iddio, ivi troveremo il fuoco della sua inestimabile carità il quale lo ha fatto correre agli obbrobri di croce, levato in alto, affamato e assetato di sete dell'onore del Padre e della salute nostra. Bene si può, se noi vorremo, adempire in noi quella parola siccome disse la dolce bocca della verità: "Se io sarò innalzato trarrò tutto a me". E se mi diceste: "io non posso salire perché è molto alto", io vi dico che Egli ha fatto scalini del corpo suo. Levate l'affetto ai piedi del Figlio di Dio, e salite al cuore che è aperto e consumato per noi, e giungerete alla pace della sua bocca e diventerete gustatori e mangiatori delle anime». Ecco il segreto per giungere all'immedesimazione col Cristo e con la sua opera. La Croce. Essa ci dà Dio e ci dà le anime. Davanti a certe domande di sofferenza io titubo un istante... è la parte umana di me che trema... Ma mi pare che Gesù, in veste di mendicante, mi tenda la mano... E allora non so più negargli nulla e gli dico: «Anche questa sofferenza, o Signore, purché un'anima di più ti ami!». Oh! per l'anima unita a Dio strettamente non vi sono confini e


limitazioni di nessuna maniera. Essa, essendo spersa nel suo Signore come una goccia nell'oceano e una stella nel firmamento, ha davanti a sé lo spazio illimitato e libero nel quale Dio si muove. Cielo e terra, viventi e trapassati, tutti essa può contenere e aiutare. L'unione a Dio, quando è completa fino alla morte di croce, per essere simile al Dio Uomo, ci dà veramente l'immagine e la somiglianza di Dio di cui un lato del prisma è l'universalità e l'infinito. Non vi sono più limiti all'anima che si è data a Dio come una festuca si dà all'onda che la porta. É Dio stesso che ci porta ad agire e a pregare, a seconda del suo volere, e noi non siamo nulla fuorché una volontà assorbita dalla sua Volontà. Dolce schiavitù d'amore che annulli la nostra personalità umana e ci sublimi nella stessa personalità del Cristo che ci assorbe, chi potrà descriverti in tutti i tuoi fulgori, in tutte le tue elevazioni, in tutte le tue beatitudini? Comprendo il gesto dei Serafini che si raccolgono adorando Iddio nelle grandi ali colle quali velano anche la fulgida faccia. Anche l'anima mia, davanti al mistero di Dio che si curva sulla sua povera schiava in tutta la magnificenza dei suoi tesori, si raccoglie, adorando, rinserrando in sé le vampe e gli splendori emananti da Dio, e tace adorando. Davanti al poema di un Dio che ci ama non v’è che un silenzio d'adorazione che sia degno di stare... Potrà parere brutto il dirmi «schiava» poiché Dio ci ha fatti suoi figli e liberi. Ma io penso che non v'è cosa più bella di questa di rinunciare, per amore, a quella umana libertà di cui i figli d'Adamo sono così gelosi, e dire al Creatore: «Tu che m'hai fatto sii, oltre che Padre e Creatore, Padrone e Re, poiché io sono un nulla che non sa reggersi solo». Se l'uomo può di suo arbitrio farsi schiavo del demonio, perché non deve potersi proclamare volontariamente schiavo di Dio? Io che conosco la mia debolezza troppo debolezza, che mi nega di reggermi senza paura di nessuna soggezione, mi affido al più forte: a Dio Signor nostro. E in tal modo metto me stessa al riparo dall'altro, dal nemico eterno. Oh! non mi pento di essermi donata! Non me ne pentirei neppure se il Signore non mi avesse dato tutto quanto mi ha dato di grazie per me e pèr tutti coloro che io gli raccomando. A me grazie infinite di luci, di protezioni, di progressi spirituali. Agli altri grazie contingenti ai momenti e ai bisogni dei singoli. Ma tutte atte a far elevare un pensiero di riconoscenza a Colui che ce le dona. Molto ancora avrei da dire su quest'ultimo periodo della mia vita. Ma mi parrebbe di sollevare i veli di un sacrario o di autoincensarmi. E allora mi taccio. E concludo. Scrivendo a Lei, Sacerdote, potrei anche omettere quanto voglio dire, più adatto ad esser detto a piccole anime che ancora non sanno cosa sia di buono, di paziente, di amoroso il Signore. Ma le dico lo stesso, per l'unica, piccola anima che mi sono tenuta vicina durante questo mio lavoro voluto da Lei, Padre, e che ho elevata al grado di uditrice perché mi richiamasse all'ordine se in qualche cosa alteravo, senza volere, i fatti. Sono così poco persuasa di essere' «qualcosa» che temo sempre di dare di me un ritratto molto migliore dell'originale... Penso inòltre che a questa anima, che Dio mi ha messa al fianco certo per qualche scopo di bene noto a Lui solo, possano far del bene queste ultime parole. Dico, dunque. Nulla deve tenerci lontane da Dio col pensiero che siamo troppo meschini per avvicinarci a Lui, come nulla deve farci trattenere da rendere realtà una ispirazione con la tema di non essere capaci di lavorare nella via del Bene. Sono pieghi demoniaci, atti a paralizzare i nostri buoni


impulsi e a tenerci divisi dalla Fonte di ogni perfezione. Io non mi sono mai fermata a considerare quei «ma» e quei «se» tarpanti ali e mettenti in fuga le anime già volte a Dio. So benissimo che sono un ammasso di difetti. Ma so anche che Dio lo sa più di me. So che Dio, nella sua giustizia, non pretende più di quello che noi possiamo dargli. So che l'unica cosa che offende Iddio è il nostro volere fare il male deliberatamente e nonostante tutti i richiami e gli aiuti che Egli ci dà per fare il bene. So che anche le imperfezioni sono una dolorosa necessità che ci tiene umili e convinti che noi non siamo che vizio, se lasciati a noi stessi e viventi solo nella carne, della quale sono così superbi gli uomini. So che le imperfezioni sono una soave prova di cosa sia in ampiezza e profondità il cuore di Dio che le comprende e perdona... Sono contenta quando agisco bene perché ciò piace al Padre mio. Ma non mi avvilisco se ricado in nuove imperfezioni. Queste aumentano la mia umiltà e la mia riconoscenza, vedendo quanto è misericordioso Gesù con chi si fida di Lui. Egli è «Salvatore» ed io presento a Lui le mie mancanze, man mano che le compio, perché Egli le annulli e continui con me la sua opera di Salvatore. Nulla mi farebbe andare lontano da Dio, neppure le colpe più gravi e che non oserei confessare alla giustizia umana. Da quando ho compreso esattamente quale sia l'infinita bontà del Signore, io non ho più tremato di nulla, arrivando persino a pensare che Egli mi ama tanto appunto perché io sono così imperfetta, nonostante il mio desiderio d'essere perfetta. E quanto più m'accorgo d'esserlo stata, imperfetta, tanto più vado a Lui gridando: «Gesù, pietà di me!». Se le anime sapessero di quale amore Cristo le ama, non una anima si perderebbe, perché ad ogni loro errore correrebbero a ripararsi nel suo Cuore misericordioso. Lo sbaglio è che invece si ha non confidenza ma paura di Dio e del suo castigo. Un amore viziato nella forma e nella sostanza fa si che le anime guardino a Dio come guarderebbero a un sovrano terreno e di un dispotismo autocrate e intransigente, oppure non lo guardano neanche: si nascondono, lo fuggono. E così si perdono. Vi è ancora troppo giansenismo fra i cattolici. Perché stare lontani da Gesù per un eccesso di rispetto? Buona cosa il rispetto, ma è sempre lesivo dell'amore quando è spinto a troppo alto grado. Molto meglio l'amoroso abbandono di figli verso il Padre che non di sudditi verso il monarca intangibile sul suo trono. No, andiamo a Gesù. Andiamoci sempre. Se ci sentiamo puri da ombre di peccato, andiamoci poiché Egli si circonda di puri. Andiamoci se peccatori perché Egli ha lasciato i Cieli appunto per redimere i peccatori. Andiamo a Lui per avere un freno alle nostre debolezze e un aiuto nelle nostre migliorie. Il pensiero: «Domani riceverò Gesù» è il più bel morso messo alle nostre passioni, sempre pronte a impennarsi come cavalli indomiti. E l'idea: «Oggi ho fatto piacere a Gesù» è il più bel viatico della nostra giornata, il balsamo d'ogni pena, il nepente per un riposo veramente vegliato dagli angeli. Dolci sonni d'una creatura che si abbandona al riposo con l'anima in pace con sé stessa e con Dio, dolci sonni che ristorano la carne e dànno ali all'anima per elevarsi, anche nel sonno, sino a Dio! La vita nostra non deve essere tessuta di ipocrisia che pecca e poi si confessa per ripeccare poi. Ma di amore che spinge al bene e che frena nel male per esser degne del bacio di Cristo. Se fummo buoni andiamo a Gesù col nostro sorriso; se fummo cattivi andiamoci col nostro pianto di pentimento. Egli lo vuole asciugare. Sollevato da Lui, il nostro


avvilimento diverrà forza; sopportato da noi soltanto, diverrà debolezza che ci tarperà le ali. La confidenza in Dio sopperisce a tutte le nostre manchevolezze umane. Non solo manchevolezze nel senso di peccato. Ma anche manchevolezze nelle doti mentali e spirituali, che in noi sono sempre imperfette. Appoggiandoci a Dio, tutto in noi migliora. Da anni mi accorgo che è Dio che agisce in me. Da anni, ossia da quando ho cancellato il mio io umano e mi sono fatta riformare da Dio, dimenticando me stessa e avendo solo di mira Lui. Anche le mie percezioni così vive di ciò che si agita in un altro cuore non hanno nulla di mio. Io sarei più sorda di una talpa a tutte le onde di suoni che le anime mie sorelle emanano. Ma una forza, molto al di sopra della mia, mi rende capace di intuire i bisogni delle creature. Delle volte rimango a bocca aperta scoprendo che, parlando così, quasi dietro suggerimento di un terzo, metto proprio il dito sul punto che duole. E convengo tra me: «É proprio Dio che agisce per noi quando noi ci siamo abbandonati a Lui totalmente». Ugualmente dico, alle piccole anime mie sorelle il cui torto maggiore è quello di misurare Iddio alla stregua umana, che se bisogna confidare infinitamente in Lui non bisogna però pretendere che sia Lui quello che fa tutto. Ciò sarebbe stoltezza. Siamo noi che dobbiamo aiutare l'opera di Dio mettendo tutta la nostra buona volontà, e una buona volontà tenace, a rispondere alle ispirazioni e al lavoro di Dio. Se noi facciamo resistenza, se vogliamo fare unicamente da noi, o non fare nulla di nulla, non si riesce a nulla di buono. Noi dobbiamo aiutare col nostro buon volere Iddio; Iddio a sua volta ci aiuta e da questo scambio di aiuti sgorga il perfezionamento spirituale. Voler fare da noi sarebbe superbia, e la superbia distrugge. Perciò il nostro lavoro non lascerebbe nessun frutto ma un vuoto desolante, se non un albero dai frutti avvelenati. Non bisogna accasciarsi se facciamo capitomboli. Anche questo accasciamento sarebbe ugualmente superbia. Siamo degli eterni bambini nella scuola dello spirito, e i bimbi cascano spesso. Ma non si fanno troppo male. Male se lo fanno gli adulti che hanno le ossa dure e che sono poco pieghevoli. E del resto se anche, per disgrazia, ci siamo fatti molto male, ragione di più per rifugiarci nel seno di Dio che ci guarirà di tutte le nostre «bue». Se ce le chiudiamo in noi per orgoglio e per sciocca e inutile vergogna, finisce che da una iniziale sbucciatura facciamo venire fuori un tetano o una cancrena. Vorrei dire a tutte le piccole anime: «Confidate in Dio, fratelli, perché Egli è l'unico che non ha schifo di nessuno. L'uomo si ritrae criticando e spregiando i colpevoli. Dio se li serra al cuore. I cristiani non procedono nella perfezione perché non sanno ancora chi è Dio, quali sono le sue doti e i suoi gusti. Giudicano Dio alla stregna loro: piccolo, gretto, vendicativo, intransigente, tenace nelle sue sostenutezze. Ma Dio è Amore! Ma Dio ci vuole ad ogni costo, ma Dio è morto per salvare noi, di cui vide i peccati fin da prima che noi fossimo! Le più dolci parole del Verbo furono dette per l'adultera, la peccatrice, la samaritana, per il ladrone e per il pubblicano. Gesù, che bollò a sangue la ipocrita bontà dei farisei, seppe trovare accenti di una misericordia sconfinata per i colpevoli che si riconoscevano tali, e come mondò i lebbrosi dalla malattia ripugnante così rese candore alle anime insozzate che a Lui venivano per essere mondate». Occorrerebbe sempre riflettere a queste verità evangeliche, sottotaciute da troppi e dimenticate da molti, verità dalle quali si sprigiona tutta la dottrina di


misericordia e di confidenza che Gesù è venuto a bandire per portarci al cielo,. «Io voglio misericordia e non sacrificio» dice Iddio. Questo bisognerebbe ricordarcelo sempre per confidare in Lui e per essere misericordiosi coi fratelli nostri. E qui ritorna quanto ho detto altrove. Se invece di imbottirsi la testa con tanti librini e con tanti libroni i cristiani facessero del Vangelo il pane quotidiano del loro spirito, non faticherebbero nel procedere nella via regale dell'amore e dell'abbandono in Dio. Se fossero realmente nutriti della parola del Verbo, della Parola delle parole, non vi sarebbero più gli egoismi che torturano, le durezze che inaridiscono, le diffidenze che assiderano. Ma solo si camminerebbe nella Luce, si vivrebbe nella Carità, si riposerebbe nella Pace, si nobiliterebbe la nostra persona col sacrificio che non pesa quando lo si ama... Quanto santo ardire per la vita di ogni giorno e per le ore eccezionali della nostra esistenza si avrebbe se fossimo compenetrati dello spirito del Vangelo! Come tutto prenderebbe una voce, una luce, un aspetto diverso! Come, come può diffidare, disperare uno che in ogni momento sente risuonare in sé la parola di Cristo? Come, come può avere a ribrezzo il dolore uno che sa come il dolore fu sopportato dal Figlio di Dio, per amor nostro? Come, come può avere paura di Dio uno che sa che Dio ci amò tanto da darci il suo stesso Figlio per redenzione nostra e a questo Figlio, che ci ha amati fino a morire sulla croce, ha rimesso ogni potere di giudizio? Come, come ancora titubare quando, con l'anima che si liquefà di tenerezza, leggiamo le parole della estrema preghiera di Gesù dopo la Cena? Padre, ho finito. Uno scrittore francese dice che ogni vita che si stacca dal trantran della massa «è un sogno di giovinezza realizzato nell'età matura». Io posso dire che infatti nella mia età matura ho realizzato il sogno mistico della mia prima giovinezza. Questo realizzamento fu lungo, doloroso, subì rallentamenti e eclissi. Ma le piante che più crescono prosperose in altezza e in età sono quelle che, prima di espandersi trionfalmente verso il cielo, fanno un profondo lavoro negli strati della terra. Solo quando le radici sono lentamente e profondamente radicate per metri e metri nel suolo, solo allora l'opulenza della pianta diviene manifesta. Ugualmente è del lavoro delle anime. É tanto più duraturo e fecondo quanto più il lavorio interno fu cosa non di superficie ma di profondità. Io posso dire che durante le stasi esterne del mio fiorire in Dio fui veramente trapassata dal lavorio interno. Per cui questa realtà della mia età matura è radicata nel sasso e non teme d'esser sradicata dal minimo vento. Chi leggesse quanto ho scritto potrebbe fare diversi giudizi più o meno benigni. Ma non me ne curo dei giudizi umani. Né per lo stile, né per quello che io possa apparire, né per nessun altro motivo. In questo racconto sono io con tutta me stessa: vi èla mia carne con le sue passioni umane, la mia anima con le sue speranze spirituali, il mio spirito col suo amore adorante. Non ho inteso fare opera letteraria. Ho buttato giù i pensieri così come mi venivano, dipanandoli dal mio stesso cuore, senza occuparmi di limarli e renderli letterariamente perfetti. Questa è parola del cuore mio e non del mio cervello. Se un critico profano vi ficcasse sopra il naso, potrebbe notare che fui più veemente in principio che sul fondo e arguire che io mi sia stancata di tenere alta la nota... Cadrebbe in grave errore. Quello che sembra stanchezza è invece una più alta elevazione dello spirito in Dio. Superate tutte le rimembranze umane e penetrata nell'ampio mare dove


vivono in due soli - l'anima e Dio - una pace sovrumana e una maestà ultraterrena mi hanno invaso il cuore e dato nuovo tono al mio canto. L'usignolo ha tre canti nella sua gola canora. Il primo, armonioso ma impaziente, quando è in cerca della compagna e la va cercando nel folto; il secondo, più amoroso e spiegato, quando trovatala le parla d'amore; il terzo, che è il perfetto, di una melodia solenne, pacata, direi quasi chiesastica, quando, ritto presso il nido dove la compagna è intenta alla prole, egli veglia sui suoi sogni divenuti realtà e benedice la vita che glieli ha concessi. L'anima mia fa come l'usignolo. Dopo aver cantato gli affanni dei primi tempi e gli ardori dei secondi, si innalza solenne e piena di una celeste pace, dando a Dio ogni lode e ogni benedizione. E caduto ogni riflesso umano, e parola e pensiero spaziano nel divino. E il divino non conosce mai esaltazioni, nervosismi, agitazioni. Esso è Pace. Una pace che nulla riesce a turbare. E la mia anima vi è immersa. Sono arrivata a questa sponda dopo tanto dolore. Ma se fu il dolore il remo e la vela per farmi giungere prima a Te, o Dio che sei Pace, Misericordia, Amore, benedetto sia il Dolore una volta di più. Ma se per il dolore io, «nulla», divenni «qualcosa» agli occhi tuoi, o Dio, che Tu sia benedetto una volta di più per il Dolore che m'hai dato come tuo dono più bello. L'anima mia ti loda, o Signore, ed esulta in Te che hai voluto guardare benigno a questo mio «niente» e farne uno strumento di bene per altri niente come me. Che tu sia benedetto, Signore, Salvatore mio, che mi hai liberata da tutti i miei nemici e mi hai ricoperta con la tua misericordia, mi hai nutrita del tuo amore, mi hai sorretta, perdonata, istruita, consolata, ti sei fatto mio Amico e mio Parente, mio Maestro e mio Medico. Tu mi hai concesso di conoscerti per quello che realmente sei, solo vero Dio, e di conoscere quello che Tu hai mandato, Gesù Cristo; e di questa grazia vorrei dirti «grazie» con ogni palpito del mio cuore e per tutta l'eternità, e non basterebbe ancora, perché conoscerti e amarti, o Dio, è tal bene che nulla lo può ripagare. Tu mi hai permesso di parlare di Te a tante creature che Th mi hai affidato, e anche di questo: grazie, mio Dio. Per queste creature, per tutti quelli che ho amato, conosciuto, guidato e che hanno con me legami di sangue o solo di fratellanza umana, io ho pregato e sofferto, o Dio, perché tutti fossero dove, sperando nella tua misericordia, io ho fede di entrare: nel tuo Regno eterno. Anche ora, mentre muoio, prego per loro e una volta di più ti offro la mia vita. Preservali Tu, Padre, dal pericolo di perdere Te che sei l'unico vero Bene. Ti prego per loro, Signore, e per tutte le povere anime che non sanno più dove sia la Via sicura, la Vita vera, la Luce che non muore. Oh! Signore, vorrei avere mille e mille vite per offrirtele tutte, Padre santo, come un fascio di olocausti per il bene del mondo. Tu lo vedi, o Padre, che questo è il grido che sale dal fondo del mio spirito, e sale come un incenso e una freccia sino ai piedi del tuo Trono, o mio Dio. Non guardare, o Signore, la bassezza della tua serva, ma guarda alla sua ansia di amarti, guarda alla sua generosità di soffrire per essere seme di bene nei cuori steriliti. Moltiplica i palpiti del mio cuore e ad ogni palpito aggiungi un dolore e col dolore la forza di soffrire. La chiedo a Te, Padre santo, che solo la puoi dare a noi misere creature. E per il mio segreto sacrificio di ogni minuto, o Padre, dàmmi schiere di anime da offrire a Te. Fa' camminare me e loro nella luce, nella tua luce, e quando per noi i tempi saranno compiuti, aprici, o Dio, le porte del tuo Regno e le porte del tuo Cuore, perché in eterno


ci si bèi di Te, sommo, eterno, trino Iddio. Alla presenza di Dio, che vede il mio cuore e conosce tutto di me, dichiaro che nel mio Collegio Bianconi, diretto dalle Suore di Carità della Beata Bartolomea Capitanio, io ho fatto i seguenti studi: I e Il anno, ossia dal 4 marzo 1909, giorno di entrata in Collegio, al 10 luglio 1910, scuole interne di cultura generica signorile. III anno, dal 10 ottobre a tutto marzo 1911, un tentativo di studi Complementari per poi passare alle Normali, come voleva mia madre. Tentativo fallito per la mia incapacità assoluta nel disegno e altre materie. Allora in 3 mesi i tre corsi tecnici con finale di una magnifica bocciatura in Matematica, Geometria, Computisteria, Disegno e Calligrafia. A ottobre riparo e strappo una licenza tecnica. Torno in Collegio il 10 novembre 1911 per frequentare il Corso Perfettivo Signorile, che consisteva in studio delle Letterature italiana, francese, latina, greca, inglese, spagnola, e nello studio della Storia inglese, francese, spagnola, oltre Storia dell'Arte. Come studi attinenti alla Religione, oltre il Catechismo dì Pio X, spiegato per lo più da una suora e qualche volta da Don Francesco Longoni, un principio della Storia della Chiesa e uno della Storia delle Religioni, che però falli dopo poche lezioni, non so perché. Così studiai dal 10 novembre 1911 al 23 febbraio 1913, giorno della mia uscita dal Collegio per tornare in famiglia e stabilirsi a Firenze. Avevo strappato a gran fatica la concessione di rimanere in Collegio sino a quel giorno, perché la mamma mi voleva fuori dal luglio 1912. Mia madre aveva ceduto a questo anche per le pressioni del mio professore di italiano Don Cattaneo, il quale, accortosi della mia facilità nel comporre, mi voleva far fare gli studi classici per mandarmi poi alla Facoltà di Lettere. Egli si sentiva di portarmi in tre anni alla licenza liceale. Mamma si oppose concedendo soltanto che io seguissi gli studi letterari per conto mio preparandomi alla «tesina», che allora si poteva ottenere frequentando come uditrice a Facoltà. Tesina che non era valida per l'insegnamento ma che testimoniava della maturità classica dello studente. Perciò ho studiato accanitamente per 15 mesi ascoltando quante più lezioni di italiano e latino potevo, e anche seguendo programmi che mi aveva indicato il Professore e soprattutto scrivendo, scrivendo, scrivendo. Temi per me, temi per le compagne, temi da darsi per imitazione alle alunne di classi inferiori, temi di accademia, temi di augurio, lettere per tutti i prelati, ecc. ecc. Uscita, con dolore, dal Collegio, nel 1913-14-15 frequentai saltuariamente la Lettura dantesca nel Palagio della Lana e ancor più raramente andai a conferenze al Liceum. Università, niente. Mamma reputò inutile questa cosa. Venuta la guerra del 15, cessai ogni frequenza, e nel 1917 andai nelle Infermiere volontarie Samaritane, cessando ogni studio, anche del pianoforte. Questo riguardo agli studi. Circa poi la frequenza a fun~ioni religiose devo dire, e anche qui Dio vede che non mento, che tolta la 5. Messa domenicale mi erano proibite da mamma altre visite alle chiese. La prima Messa alla domenica alle 5 d'estate, alle 6 d'inverno, al massimo alle 7. Mai una Messa cantata, mai un Vespro! Da quando lasciai il Collegio ho sentito le S. Messe solenni nella breve visita che feci nel 1929 alla mia compagna Ferrari di Cremona. Prediche? Mai. Quaresimali? Mai. Esercizi? Dal 1912, ultimi 5. Esercizi fatti in Collegio, al 1929 qui a Viareggio, perché l'avevo spuntata eccezionalmente, non ne feci mai. Riuscita ad entrare in Azione Cattolica Giovanile, mai partecipai a un congresso diocesano o altro. Sempre in casa.


Casa. Casa. Casa. Per me non c'era che questo, e se stavo un quarto d'ora di più al Circolo erano rimproveri durissimi. Ho dovuto preparare le lezioni sui piccoli libri di A. C. e sul Sillabario del Cristianesimo e della Morale Cristiana di M.r Olgiati. Non ho avuto altri aiuti umani. Però tutto mi tornava facile perché Gesù mi aiutava soprattutto ad amarlo. E amarlo è capirlo ed è capire le anime. Perciò portavo avanti le cose e le ragazze. Dato che ho sempre amato l'Eucarestia e avrei voluto riceverla ogni giorno, app~ofittavo della spesa giornaliera per correre in chiesa nei giorni feriali, e preparazione e ringraziamento me li facevo per la strada perché mamma non si accorgesse dal ritardo che andavo in chiesa. Ma ripeto: prediche mai, di nessun genere. Scuole di religione mai, di nessun genere. Scuole di A. C., un corso, frequentato saltuariamente, di Scuola Dirigenti tenuto da P Cresi nel 1931 presso le Mantellate di Viareggio. Ma parlava così difficile che io non capivo nulla e glielo dissi anche sinceramente, perché nessuna capiva e nessuna lo voleva confessare. Lo dissi io che sono stata sempre amica della sincerità. Libri di religione non ne ho, tolto i due Sillabari dell'Olgiati e il Catechismo. Quelli della Storia delle Chiese e delle Religioni mi sono stati rubati non so da chi. Ho «L'anima dell'Apostolato» di P Chautard, che ci hanno fatto prendere le Dirigenti Diocesane e che non sono mai stata capace di leggere perche... mi ci addormento sopra. Libri religiosi: i Vangeli e l'Imitazione di Cristo. I primi letti da decine di anni, la seconda... tenuta per ricordo della mia Superiora. Commento ai Vangeli: le poche pagine di Giulio Salvadori e basta. Rivelazioni, nessuna. Meditazioni, nessuna. Prima che Gesù facesse di me il suo strumento mi facevo da me le mie meditazioni, così come il mio cuore me le suggeriva. Senza testi né canovacci, sui Vangeli o sulla vita di S. Teresina e Suor B. Consolata Ferrero, per lo più, o su qualcosa che mi aveva colpito, magari anche un fiore o una stella, o un fulmine, o una parola sentita... Sono visibili ancora le mie povere meditazioni d'allora! Qualche vita di santo: Bernardetta, S. G. Bosco, S. Teresa del B. G., S. Francesco d'Assisi; qualche biografia di persone buone: la Mattei, l'Agostini, Moscati, S.S. Pio X, ecc. Da quando servo Gesù come strumento non leggo più niente. L'elenco dei libri che ho, o che ho avuti, lo ha Padre Migliorini dal 20 marzo 1946. Riepilogando: con una madre esigente e contraria alle pratiche religiose e con gli studi fatti, posso asserire che non ho avuto fonti umane per potere sapere ciò che scrivo, e ciò che anche scrivendo non comprendo molte volte.


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