Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche 8 febbraio | 5 marzo 2016 Loggia della Mercanzia Piazza Banchi, Genova
Altre forme di identità culturali e pubbliche
Un progetto a cura e di Francesco Arena ©2016 “Other Identity”. Altre forme di identità culturali e pubbliche | prima edizione Genova, Loggia della Mercanzia (piazza Banchi), 8 febbraio - 5 marzo 2016 Opening 6 febbraio ore 17 Con il patrocinio della Regione Liguria in collaborazione con: Comune di Genova, Settore Musei e Biblioteche; Goethe-Institut Genua; Galleria Guidi&Schoen Sponsor tecnici e partner: Kodak; Radio Babboleo; Xenia Creative ltd; Comunicare; Locanda di Palazzo Cicala; Banano Tsunami Coordinamento immagine grafica: Davide Ape Coordinamento contenuti web: Benedetta Spagnuolo Multimedia e video a cura di Francesco Arena e Dagmar Thomann Traduzioni: Elena Gallo; Kristina Kostova Fotografie ufficiali dell’evento: Francesco Arena; Mihail Ivanov
Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche 8 febbraio | 5 marzo 2016 Loggia della Mercanzia Piazza Banchi, Genova
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PRESENTAZIONE Il Progetto | Premesse: Other Identity si occuperà di decifrare un fenomeno ormai comune ma che ha cambiato radicalmente il modo di “vivere” ed “interpretare” la nostra immagine che è diventata continuamente esibita e pubblicizzata: il nostro modo di autoritrarci e di presentarci al mondo. Il nostro privato è pubblico sui social network e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire; si creano così delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce, costruiamo il nostro profilo emotivo attraverso una personalità che ci rappresenta o quanto meno vorremmo ci rappresentasse, e spesso questa nostra costruzione ci fa effettivamente credere di essere così, come se avessimo bisogno di inventare un’immagine pubblica che ci sostituisce per avere un ruolo e un peso nel mondo. Una mostra quindi sulle nuove forme di identità e sulle sue continue trasformazioni che vede artisti italiani e tedeschi confrontarsi su questi temi: identità e autorappresentazione di se stessi. ...Emozione è la parola magica Specialmente in quell’universo parallelo che è il web e il social net, un luogo di identità alternative, di personaggi esagerati, un teatrino emozionale apparentemente effimero e superficie dove si consuma però la maggior parte del nostro tempo e si è sviluppata una comunicazione e una immagine del se che ormai influenza pesantemente anche la nostra vita reale. L’88% dei messaggi che includono foto attirano l’attenzione ed hanno un tasso di memorizzazione più alto, quelli con i video ottengono il 2,35 d’interazione in più. I post senza contenuti visual creano solo il 1,71 di coinvolgimento. L’importanza dell’apparenza sociale e pubblica L’importanza dell’immagine anche grazie all’evolversi di quegli “elettrodomestici” che ormai ci sono indispensabili come smartphone e tablet è ormai un dato di fatto,il nostro album di famiglia è stato sostituito dagli album condivisi in rete dalle varie piattaforme; il nostro privato viene costantemente messo in evidenza esaltandone anche i più piccoli e insignificanti momenti come il risveglio, la colazione o la pausa in compagnia di un buon libro, il nostro shopping ecc. ogni nostra azione acquista una risonanza pubblica come se acquistasse valore soltanto nel momento della sua condivisione con un numero sempre più alto di “amici” che spesso neppure conosciamo e con i quali magari non ci siamo scambiati nessuna parola… Questo disperato bisogno di “sottolineare” la nostra presenza solo in funzione della sua pubblicizzazione ha fatto si che anche la nostra immagine ne subisse una trasformazione. Autorappresentazione del sé Sempre di più siamo attenti ad orchestrare ciò che vogliamo mostrare di noi stessi, esaltarne certe caratteristiche nasconderne altre, siamo impegnati a costruire la nostra immagine pubblica, come fossimo tutti dei personaggi dello spettacolo o dello star system, plagiamo, pieghiamo, modifichiamo così la nostra “autorappresentazione” come fossimo quasi più attenti ad orchestrarne la messa in scena che non a viverla, come fossi + importante far emergere la scenografia della nostra esistenza piuttosto che la sua sostanza.
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Identità di genere Si manifestano e si creano così delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare del suo “personaggio”, un carattere grintoso, modaiolo, euforico, avventuroso o riflessivo, dolce, intimistico, solare o dark… così forniamo tracce, costruiamo il nostro profilo emotivo attraverso un personaggio che ci rappresenta o quanto meno vorremmo ci rappresentasse, e spesso questa nostra costruzione ci fa effettivamente credere di essere così, come se avessimo bisogno di inventare un’immagine pubblica che ci sostituisce per avere un ruolo e un peso nel mondo. Selfie: il narcisismo sui social network Così la pratica dell’autoritrarsi, del dover testimoniare attraverso la nostra immagine la nostra condizione sociale, sfocia nel “Selfie”. L’Oxford Dictionaries Online, ha nominato il neologismo inglese selfie parola dell’anno 2013 inserendola come nuovo termine all’interno del vocabolario. Sto parlando delle foto auto-scattate che ritraggono se stessi postate sul web che piacciono tanto a tutti (o quasi) gli utenti del web e che stanno riempiendo i social più utilizzati come Instagram e Facebook. Si tratta come ormai sappiamo bene, di una specie moderna ed evoluta del classico autoscatto alla quale si aggiungono due dimensioni importanti: la dimensione della rappresentazione e della condivisione dell’immagine. Infatti mentre il vecchio autoscatto rimaneva essenzialmente un ritratto privato, il selfie invece è pubblico. Nata negli anni 2000 con la diffusione dei primi social network come per esempio My Space, con il quale si iniziava a pubblicare le proprie informazioni personali in rete, l’avvento di Facebook, con la sua immagine del profilo ma anche degli smartphone dotati di fotocamera frontale sono stati decisivi per l’affermazione dell’attività di scattare selfie che oggi conta solo su Instagram 73,925,900 post. All’interno del web si condividono gli autoscatti migliori di sé per la ricerca di gratificazione personale e un narcisismo che sfiora quasi la patologia a cui si aggiunge anche quella dell’approvazione altrui espressa attraverso il numero dei “mi piace” ottenuti per ogni autoscatto. La tendenza quindi è quella di sentirsi approvati in primis dagli altri e poi da noi stessi, quantifichiamo nei like il grado e la qualità del nostro potere seduttivo, della nostra personalità e del nostro “personaggio”. Perché tutto è pubblico, nulla celato o omesso se non forse la nostra vera natura il nostro essere profondo. Identificazione del sé Da sempre l’artista è sensibile ad argomenti quali l’identità e la comunicazione legate alla propria immagine; ora più che mai, facendo parte anch’esso di questa inevitabile quotidianità, è diventato, per certi versi, catalizzatore di energie e modi che gli ruotano intorno e lo inducono a confrontarsi sempre + spesso con se stesso e a mettere in discussione sia la sua immagine che la sua rappresentazione. Tuttavia a noi interessa mettere a fuoco quelle emotività siano esse volontarie o no; tornando indietro nel tempo,alle ricerche degli anni 80 di Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954), un’artista, fotografa e regista statunitense, conosciuta per i suoi autoritratti concettuali (self-portrait) che forse per prima ha massicciamente sottolineato questo aspetto di spersonalizzazione della propria immagine assumendo nelle sue opere ruoli di personaggi di volta in volta differenti; per poi passare a Nan Goldin (Washington DC, 1953) trasferita a New York dal 1978, dove si afferma come una delle maggiori esponenti di un’arte a favore di un’identificazione completa tra arte e vita usando dall’età di diciotto anni la fotografia come un “diario in pubblico” documentando la sua vita, dopo il suicidio della sorella diciottenne Barbara Holly il 12 aprile 1965, infatti, proprio fotografando la propria famiglia che inizia il suo lavoro. In seguito rimane molto vicina all’album di famiglia sia per la tecnica sia per i soggetti scelti; senza dimenticare anche le influenze di Francesca Woodman (Denver, 3 aprile 1958 – New York, 19 gennaio 1981) che è stata una fotografa statunitense; nonostante una vita breve, fu un’artista influente e importante per
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gli ultimi decenni del XX secolo; appariva in molte delle proprie fotografie e il suo lavoro si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava, riuscendo spesso a fonderli insieme; la Woodman usava in gran parte esposizioni lunghe o la doppia esposizione, in modo da poter partecipare attivamente al processo di scatto della pellicola; anche nelle sue foto compaiono persone care della sua vita come l’amica fotografa Sloan Rankin Keck e il compagno Benjamin Moore. Si potrebbero citare tantissimi altri artisti ma mi sento di evidenziare questi come i punti di riferimento più forti di tante ricerche che si sono sviluppate poi nel corso degli anni fino ad arrivare alle recenti curiose citazioni dell’attore ed artista James Franco che nella sua prima opera fotografica (James Franco’s New Film Stills) cita rifacendo e reinterpretando la prima storica serie di Cindy Sherman, i Film Stills appunto, oppure le recenti opere del fotografo Sandro Miller che ha selezionato alcuni dei ritratti tra i più famosi di sempre, ricreandoli con John Malkovich (attore, regista, produttore cinematografico e teatrale, nonché stilista, statunitense.), come protagonista. «Malkovich, Malkovich, Malkovic» è il titolo del progetto che vuole essere un omaggio ai grandi maestri della fotografia. Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, presente e contemporaneo è messa quindi costantemente in discussione come in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sè, di un nuovo valore di rappresentazione che viene puntualizzato, sottolineato, raccolto, selezionato come a voler fermare delle schegge impazzite che travolgono tutto, il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o meglio la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Il progetto Other Identity Other Identity desidera decifrare un fenomeno ormai diffuso che ha cambiato radicalmente il modo di “vivere” e “interpretare” la nostra immagine, costantemente esibita e pubblicizzata: il nostro modo di autoritrarci e di presentarci al mondo, la spettacolarizzazione di un privato che si trasforma in pubblico attraverso i social media, creando nuove forme di identità in continua trasformazione. Other Identity vuole così essere, quest’anno, la prima tappa di un progetto espositivo con cadenza annuale, che funga da cartina al tornasole capace di misurare di volta in volta lo stato di una nuova grammatica narrativa, di nuove forme di interpretazione della nostra immagine. Gli artisti che partecipano a questo progetto vi sono stati calamitati da quell’istinto animale che ci fa riconoscere i nostri simili anche in cattività, uniti da una comune piattaforma emotiva e tematica, dalla quale poi sfociano ricerche personali ben distinte, e dal comune linguaggio fotografico. La fotografia è qui il medium privilegiato in ogni sua forma, sia essa analogica o digitale, utilizzato attraverso reflex professionali o smartphone. Essa è il mezzo vòlto al risultato finale, sempre utilizzato con consapevolezza e coerenza dall’artista che lo piega alla propria ricerca personale, senza esaltarne le caratteristiche squillanti e superficiali e senza abusare di quelle postproduzioni spesso impiegate per mascherare una inesistente qualità dell’immagine. Il comune denominatore è qui una “onestà intellettuale” nel senso di un consapevole, intelligente, lucido, semplice uso del mezzo espressivo, a tratti brutale nella sua desolante rappresentazione del reale, spesso filtrato da emotività malinconiche e sognanti, crudo iper-realismo, graffiante autobiografia, esibizionismo pubblicitario e complesse dinamiche di intimità familiari. Francesco Arena
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Other Identity, si compone, oltre alla mostra, anche di: un contest fotografico, “The Wall of Identities”, in partnership con Kodak alaris, con una grande installazione composta dalle immagini di chiunque voglia aderire al contest ispirate al al tema dell’autorappresentazione, che occuperanno uno dei pannelli espositivi della Loggia della Mercanzia per una superficie di circa 7 metri lineari. “The Wall of Identities” sarà un vero e proprio muro delle nuove identità, un grande mural composto dalle vostre fotografie stampate in formato 15x15, che saranno posizionate come tessere di un mosaico che comporranno l’opera finale.Tutti i partecipanti saranno citati come parte attiva nella mostra e compariranno in ogni testo e documentazione prodotti. Anche il catalogo ufficiale on line riprodurrà ogni immagine presentata; un “Kodak Kiosk” presente per la prima volta in esclusiva in una manifestazione artistica, costituito da una postazione mobile di stampa digitale fotografica ad alta risoluzione, che permetterà a chiunque di stampare immediatamente il proprio contributo al concorso, o distampare le proprie immagini da qualunque supporto e apparecchio mobile, rendendo così reali le proprie “autorappresentazioni”, i propri selfie; cinque performance che si alterneranno durante il periodo di apertura della mostra e occuperanno l’“Identity Live Space”, uno spazio all’interno delle sale, che ospiterà azioni dal vivo appositamente strutturate per l’evento, offrendo al pubblico l’opportunità di un contatto diretto e un’interazione con artisti; il Catalogo Web, che uscirà in concomitanza dell’inaugurazione e che conterrà tutti i materiali realizzati per la mostra, le schede tecniche sugli artisti, gli approfondimenti critici del curatore Francesco Arena e le opinioni che personaggi nel mondo dell’arte, della moda e della cultura hanno espresso sul tema del progetto. Il catalogo è immediatamente scaricabile su qualunque piattaforma mobile o fissa attraverso codice QR o indirizzo url. il Video-Catalogo, che conterrà tutte le riprese delle azioni e dei lavori esposti, nonché documenti inediti sugli artisti, brevi video-interviste, e backstage sull’evento, Tutti i materiali saranno di volta in volta disponibili presso il Sito Ufficiale della manifestazione, con materiale scaricabile e immediatamente dispo- nibile aggiornato quotidianamente.
Other Identity (La location) La Loggia della Mercanzia a Genova: le origini di questo edificio risalgono al Medioevo, quando nella zona adiacente al porto si effettuavano contrattazioni di merci e valute. La costruzione dell’edificio fu voluta dai Padri del Comune, amministratori della città, nel contesto della sistemazione urbanistica della piazza Banchi (così chiamata per la presenza dei banchi dei cambiavalute). L’originaria costruzione, seriamente danneggiata da un incendio nel 1455 e successivamente restaurata, verso la fine del XVI secolo fu sostituita dall’attuale, costruita tra il 1589 e il 1595, nel corso degli anni è stata oggetto di vari interventi decorativi. Dal 1855 ospitò la Borsa valori e la Borsa merci, nel 1950 dopo i restauri e la ricostruzione della copertura con armatura metallica la loggia fu riaperta e destinata ad attività culturali, attualmente ospita mostre ed eventi pubblici con un ampio bacino di utenza, si calcolano ingressi pari a circa 500 persone al giorno e quindi costituisce una strategica vetrina per la promozione culturale.
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PRESENTATION The Project | Preconditions: Other Identity wishes to focus on a popular topic which has completely transformed our way to “ live” and “ interpret” our own image, our way to present ourselves to the world - constantly showed off and exhibited: the way we present ourselves has become some sort of show where private becomes public through social media, creating new forms of identity that are constantly evolving. Other Identity aims to be an event taking place every two years and capable of actually giving a full view on all these new form of expressions and new ways used to interpret our own image. Discussing and debating the topic will be several italian and international artists, all coming together under a common theme which is then developed by each of them in their own personal way. It is therefore not completely correct to talk about “artists selection” for the event as they have been approached following the curator’s gut instinct and personal ability to recognize what he feels close to his view - therefore approaching artists that all have a common ground but are able to express themselves in their own personal way. Photography is the chosen medium ( both analogical and digital), with final products coming both from professional tools or pictures taken by using a smartphone camera. All of it is always used with full consciousness by the artist as a tool to be worked following his/hers personal needs, without post-production abuse, which can be often used as a way to cover poor image quality or such. The common ground for all works is absolute intellectual honesty, a simple yet conscious and effective use of the machine, that can sometimes be brutal in its way to represent reality as it is, or often filtered by a sense of melancholy, a dreaming atmosphere, an exaggerated adv feeling, a pure autobiographic style, exhibitionism and more. Both our private and public spheres of life are constantly evolving creating true and independent identities which we chose based on how we feel and what we want to represent, we basically leave traces of our own being that contribute to build our emotional profile or better, what we would like it to be at the eyes of the world that is watching us. This is therefore an exhibition on new identities forms and their constant transformation, that out together italian and german artists in an artistic dialogue about identity and self-representation. ...Emotion is the magic word: especially when considering that parallel universe that is the web and the social media world, a place for alternative identities, a place for exaggeration, some sort of theatrical and apparently superficial landscape where we still spend most of our time and that has contributed to create an image of ourselves that somehow also translates into the real world. 88% of the total messages including pictures manage to get immediate attention compared to videos with pics, that still get a + 2,35 on interactions. Posts without any graphic content get only a 1,7% of attention. The importance of social and public appearence: It is factual thing that all images involving those devices we use on a daily bais, such as smartphone, tablets, etc, have replaced the classic “family photos album” concept - our private life is constantly highlighted by those new tools, capturing moments such as waking up, breakfast, free time reading a book, shopping time and such. Every single
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action we take gets an echo through social media, even we share them with so-called “friends” that are actually people we may never have even met in real life. This desperate need to highlight our presence has contributed to the changes of imaging itself. Self representation: We are increasingly careful about the way we chose to show ourselves to the world, increasingly paying attention to our public image, just as those star system characters: we modify, filter, post produce our own image as if we were caring more about the way we portrait ourselves than who we actually are. Gender identity We therefore can see the creation of new gender identities that are increasingly in line with those specific aspects we wish to underline when portraiting ourselves - let’s say for example if we wish to show ourselves as being exhibitionists, shy, sweet, fashionable, dark people...we leave traces of who we are or, even better, of who we wish we could be or be seen as - all of this to get a role into the world ad being perceived as we wish we could be. The selfie” phenomenon: becoming a narcissist on social media The practice of constantly having to portrait and show ourselves to the outer world takes place on social media - the so called “selfie” phenomenon. The word selfie itself has been included in 2013 in the Oxford Dictionaries Online, and described as the self-taken picture of oneself then shared within social such as Facebook and Instagram and aiming to attract consent and “likes” from others. As we know, this is simply the modern version of the old dear self portrait picture, with two added dimensions: the dimension of the picture itself and the ever so important “sharing” element - when the old self-portrait was taken fpr personal purposes, the selfie is instead destined to go public. All of this new trends has become popular during years 2000, with the advent of MySpace first, followed by Facebook and the ever so important profile picture, taken with increasingly technological smartphone cameras, and then Instagram which counts 73, 925, 900 selfie posts itself only. Only the best selfies are actually shared within the social media world, both for personal gratification and a narcissism that is getting closer and closer to some sort of psychological issue - where the affirmation to self comes from the number of “likes” one picture can get. This clearly shows the tendency of looking first from other people’s approval than to be happy with ourselves - and hat is how we now qualify and quantify both our seductive power towards others and ultimately the strength of our own personality. Self - identification Every artist has always been interested in topics such as identity and communication related to his/her image, but what was once a personal interest has now become a necessity. There is a long history regarding this topic: starting from the very first researches around it conducted by Cindy Sherman (Glen Ridge 1954), american author, photographer and director, mostly known for her conceptual self portraits - she was the first to work around it by highlighting in such a powerful way the concept of de-personification while assuming different characters within each of her pictures; when then think about Nan Goldin (Washington DC, 1953), an artist that affirmed herself through a powerful and complete merging of art and life, using photography as some sort of “public diary” documenting her life, starting from her sister’s suicide in 1965. We then move to Francesca Woodman (Denver 1958 - NY, 1981), that, despite of her short life, had a huge influence on the end of XX century art, focusing her work especially on her own body and her surroundings, and often mana-
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ging to create a real fusion between the two. There are many more artists that could be mentioned, but these are just some of the most important for all different sort of personal artistic research taking place during that period, up to some curios mentions made by artist and director James Franco in his very first photographic work (James Franco’s New Film Stills) who clearly refers to the legendary Cindy Sherman’s Film Stills - also worth mentioning is the work of Sandro Miller, who chose amongst some og the most popular portraits ever, recreating them together with John Malkovich ( on of the most famous ans acclaimed US artist - actor, producer, and fashion designer as well) as a protagonist and giving them the title “ Malkovich, Malkovich, Malkovich” to a series that aims to be an homage to the great photography gurus. Recalling, copying, re-editing and recreating the iconography of past and present identities are therefore some of the main themes that are constantly discussed and reviewed when looking for new forms of self-identification, of a new set of values that artists try to catch in that ever spinning and chaotic daily life that determines our intimacy, our feelings and emotions, or even better the image of all that we are and what we aim to be and appear to be to the world that’s watching us. The project Other Identity Other Identity wants to decipher a now widespread phenomenon that has radically changed the way of “living” and “interpreting” our worldview, constantly exhibited and publicized: our way of self-representation and to introduce ourselves to the world, the spectacularization of private life that turns into public through social media, creating new forms of identity in continuous transformation. Other Identity wants to bethe first stage of an exposition project on an annual basis, to serve as a litmus test that can measure each time the status of a new narrative grammar, of new forms of interpretation, of our worldview. The artists participating in this project have been involved by this animal instinct that makes us recognize our fellows in captivity, united by a common emotional and thematic platform, which results into distinct personal research and common photography language. In this exhibition photography is a privileged medium in all its forms, whether analog or digital or used by professional cameras or smartphones. It is just one part of the end result, always handled with awareness and consistency by the artist, who uses it to conduct his personal research, without enhancing superficial and vivid characteristics and without abusing post-production techniques often adopted to mask nonexistent quality in the image. The common denominator here is an “intellectual honesty” in the sense of a conscious, intelligent, lucid, simple use of medium, sometimes brutal in its desolating representation of the real, often filtered by dreamy, melancholic emotions, raw hyper-realism, scratched autobiography,advertising exhibitionism and complex dynamics of family intimacy. Francesco Arena
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Exhibition contents: Many different elements were chosen and associated to the first edition of the exhibit: “The Wall of Identities”, a photography contest in partnership with Kodak Alaris, presenting a huge installation composed by images made by whoever wished to take part to it, and inspired by the concept of self-representation. This installation covered a whole wall of the Loggia della Mercanzia, with a surface measuring about 7 meters in total. “The Wall of Identities” became in fact a wall for new identities, a wall covered by selected pictures measuring 15x15, all positioned like many pieces of a comprehensive mosaic patchwork. All those taking part to it have been mentioned as active protagonists of the event, also appearing on the official catalogue both off and on line. We also hosted an exclusive Kodak Kiosk, for the first time making an appearance to such an exhibition - giving people the possibility to print in high digital resolution their own pictures as an active contribution to the overall exhibition and making it real. During the exhibition, they occupied a specifically dedicated space, our “Identity Live Space”, hosting several actions live on site and specifically prepared for the event, to give the public the opportunity to engage with a wider public and have a direct contact with the artists involved, giving a special echo to the media live of their work. All selected artists had a different language code and that was the perfect chance to present extremely different way to interpret the concept of identity itself by plying with all different possibilities given by their own bodies, not only exposed to the public but often also used a tool of interaction. A Web Catalogue also looking after the overall event image, and being published together with the offline material, will cover all aspects related to different materials used for the exhibition, artists technical profiling sheets and critical material by the exhibition overall curator Francesco Arena, plus the many contributes given by fashion, art and photography bloggers willing to take part to it., and easily downloadable on any digital platform thanks to a QR code or url address, giving the chance to everybody to immediately get all information regarding the exhibition in real time. This was specially thought to cancel all those time/ space barriers between off and on line catalogue. A video catalogue, which is not only a video translation of the actual exhibition but also offers many backstage extras, special info on the documents exhibited at the event, short interviews and much more. All of these extra materials were made immediately available on the official exhibition website
Other Identity (La location) Loggia della Mercanzia is one of Genova most ancient building - its origins going back to Medieval times when all commercial dealings were sealed in the area close to the harbour. This building was wanted by the city administrators, called “Padri del Comune”, while renovating the whole scenario of Piazza Banchi (“Banchi” specifically meaning the desks used to host money exchange operations). The original building was almost destroyed by a fire in 1455 and then progressively rebuilt between 1589 and 1595, with several decorative interventions taking place throughout the years. The building was hosting the official commercial operations of “ Borsa Valori” and “ Borsa Merci” since 1955, then in 1950 following further interventions it was reopened to host cultural activities, coming to these days when it hosts exhibitions, public events attracting a huge number of people (some 500 people a day visiting it) and therefore being an absolutely strategic place for culture and its promotion.
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GLI ARTISTI | THE ARTISTS
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Artisti partecipanti: Alessandro Amaducci | Francesco Arena | Carlo Buzzi | Mandra Stella Cerrone | Roberta Demeglio | Boris Eldagsen | Anna Fabroni | Pamela Fantinato | Massimo Festi | Teye Gerbracht | Barbara Ghiringhelli | Anna Guillot | Teresa Imbriani | Sebastian Klug | Natasa Ruzica Korosec | Eleonora Manca | Lorena Matic | Ralph Meiling | Beatrice Morabito | Giulia Pesarin | Annalisa Pisoni Cimelli | Giacomo Rebecchi | Chiara Scarfò | Giovanna Eliantonio Voig | Violeta Vollmer. Performance: sabato 6 febbraio ore 17 (opening) Dub Machine Live - Valerio Visconti venerdì 12 febbraio ore 16:30 - Angelo Pretolani sabato 20 febbraio ore 15:30 - Valter Luca Signorile sabato 27 febbraio ore 14:00 - Olivia Giovannini / Modus venerdì 4 marzo ore 16:00 - Elena Marini
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ALESSANDRO AMADUCCI The Web, video
Realizzazione video e suono/camera, editing, compositing, sound: Alessandro Amaducci computer grafica/computer graphics: Dimitri Milano presenza/presence: Paola Chiama
I corpi di Internet incontrano un fantasma con un corpo. La Rete imprigiona il suo ospite ma viene sfondata, svelando il suo interno.
The Web’s bodies meet a ghost of a body. The Web captures its host but it is destroyed, revealing its inner structure. Exhibitionism and voyeurism are quite ancient attitudes, but the new technologies are conforming a new way to represent ourselves, changing our social behaviours. Fiction and reality are definitely confused. We live in a world of representation. Maybe a revolution, maybe a de-evolution.
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Alessandro Amaducci, The Web, 2007, 07’18’’ min.
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FRANCESCO ARENA Behind me
Indaga sul ruolo delle immagini nella società contemporanea e sulla possibilità di ribaltare le nostre abitudini interpretative; gran parte del suo lavoro consiste in una riflessione sull’atto stesso del vedere, sulla costruzione della rappresentazione, dell’auto rappresentazione del sé e su come noi stessi guardiamo le immagini, proiettando su di esse significati che sono loro estranei e che provengono dalla nostra stessa esperienza autobiografica, culturale e sensoriale; l’atto dell’inquadratura non è soltanto un dispositivo formale ma è anche, e soprattutto, un dispositivo interpretativo a disposizione dello spettatore è per questo motivo che le sue immagini/installazioni non sono accompagnate da un titolo preciso né la loro origine è in alcun modo chiarita. Ultimamente sceglie la tela vinilica come supporto privilegiato delle sue immagini eliminando tutti gli elementi classici della presentazione fotografica quali cornici, passepartout o pannellature concentrandosi così sull’impatto visivo dei suoi lavori e sull’assenza dell’immagine ora stesa come un telo reso tridimensionale da supporti invisibili oppure usata come una seconda pelle che ricopre e riveste non solo il corpo ma anche gli oggetti quotidiani creando dei corto circuiti sensoriali.
It investigates on the role of images within contemporary society and on the possibility of destabilizing our interpretative codes - most of the work consists of reflecting on the action of seeing itself, on the building process related to representation, on self representation and on how we look at those images, often projecting on them our own personal meaning which is made by our own experience both cultural and emotional: the shot is therefore not only a formal act of photography but also, and especially, an interpretative tool to the viewer. This is the reason why pictures and installations are not accompanied by a specific title but grouped following thematic areas and work circles, their origin not actually labeled nor defined. The vinyl canvas is ultimately the privileged tool, without all other classic elements such as frames, panels, passepartout - and focusing therefore only on the main impact f the pictures themselves, as they are, now presented as a 3D canvas on invisible supports, now used as a second skin that covers not only bodies but also some daily life objects surrounding us - and thus creating sensory short-circuits.
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Francesco Arena,“Behind Me”, 2016, stampa fotografica su tela vinilica, dittico 480 x 378 cm.
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CARLO BUZZI
Pubblica affissione
Carlo Buzzi si serve degli strumenti propri della comunicazione pubblicitaria. Opera interventi che coinvolgono il contesto urbano. Normalmente utilizza il comune poster tipografico. Un significativo numero di manifesti viene esposto in pubblica affissione. L’operazione è documentata fotograficamente. Il lavoro sarà in seguito formalizzato grazie alla produzione di un numero limitato di “quadri” (riproduzioni fotografiche, manifesti “strappati”). Costruzione formale (la simulazione di “finto evento”) e prassi (esposizione con tasse regolarmente pagate, mai abusiva) indicano l’intenzione di introdursi nel sistema della comunicazione pubblica in “punta di piedi”, contrapponendosi ad esperienze artistiche espresse nel medesimo contesto – contemporanee o appartenenti ad un recente passato – connotate da impronte ideologiche. Dalla riproposizione del tema Picasso/scovolino/mostra d’arte artefatta, ad altri “provocatori” e improbabili incontri (Van Gogh con una grattugia), Buzzi esplora il dualismo arte/pubblicità in reali, e nello stesso tempo fittizie, campagne pubblicitarie. Nel 1994 realizza un manifesto che lo riproduce semplicemente ritratto di schiena, il primo privo di alcun altro indizio.
He uses the tools of advertising. Normally he works on interventions involving the urban context, using the common typographic poster. A significant number of posters is exposed in public posting. The procedure is then documented photographically. The work is then formalized through the production of a limited number of “pictures”. In 1991, the same subject was published in the streets of Milan on a poster, with a regular posting. Formal construction (simulation of “fake event”) and praxis (exposure with regularly paid taxes, never abusive) indicate the desire of the artist to break into the public arena in “tiptoe”, as opposed to the ideological connotations that characterize some contemporary or slightly previous works, made in the same sphere by others artists. Later on, due to a gradual “appropriation” of the media used by the artist, a more radical form of communication has been developed. In 1994, a poster with the presence of a single simple image reproducing his back to a halflength with no writing on it appeared. The artist never decides to expose only a few copies of the posters, since his aim is to show his work to the whole city (or to some limited areas, when operating in very big urban centers). Between content (in reference to what he shows in the posters) and praxis (aim for artistic action – or part of it – outside of the traditional “withe cube”), it is much more important for him – and crucial – the second.
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Sopra: Pubblica affissione, Bergamo, 100 manifesti formato 100x70 cm, esposti dal 20.12.2013 per 15 giorni Sotto: Pubblica affissione, Magenta, 50 manifesti formato 100x70 cm, esposti dal 29.2.2014 per 15 giorni; pubblica affissione, Corbetta, 20 manifesti formato 100x70 cm, esposti dal 3.3.2014 per 15 giorni
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MANDRA STELLA CERRONE
Sine nomine, private performance: video, self portrait
“Lo sai, il nome che si porta significa molto. Sai anche che ai malati spesso si dà un nuovo nome per guarirli, perché col nuovo nome essi ricevono anche una nuova essenza. Il tuo nome è la tua essenza” (C.G.Jung – Libro Rosso, p.282) Il nome è un progetto, un suono capace di modellare la realtà. Stringhe di nomi trasmettono progetti da una generazione all’altra. La nostra storia inizia prima che nasciamo e il nostro nome ci unisce a essa. Nella ripetizione il nome diventa un mantra. Un suono che può avere effetti benefici o dannosi. “Un nome sbagliato è più deleterio di un veleno ed è un veleno che agisce nel nostro cervello per sempre.” Il mio nome è un anagramma, il centro di uno scontro, di due polarità interconnesse tra loro e con me. Il loro sguardo si sovrappone al mio nel distillato di lettere, chi è che guarda quando guardo il mondo?
“You know, your name means a lot. You know that they often give to patients a new name to cure them, because with the new name they receive a new essence. Your name is your essence.” (C.G.Jung – Red Book, p.282) The name is a project, a sound able to shape the reality. Strings of names convey projects from generation to generation. Our personal history began before birth and our name connect us to it Repeating a name becomes a mantra. A sound that could be healthy or harmful. “A wrong name is more dangerous than a venom and it is a venom that works on our brain forever.”. My name is an anagram, the clash of two polarities linked with me. Their gaze overlies mine in the distillate of letters. Who is looking through me when I’m looking at the world?
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Mandra Stella Cerrone, Sine Nomine, 2015, video, 1’10’’ min.
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
ROBERTA DEMEGLIO Metamorfosi
“Allora decisi di abbandonare al suo destino la mia identità, desideravo restituire all’universo il mio nome, il volto, la storia di una vita senza autore. Affonda il corpo pesante mentre l’anima si nutre del liquido che mi avvolge. La memoria non può mentire, ricordo, ricordo un tempo molto vicino quando questa era la mia casa. Silenziosa, nutriente, vitale. Ecco chi sono, sono questo luogo, sono lo spazio bianco. Non ho nostalgia della finzione che ho fatto morire, l’ho vista spegnersi, ho seguito con gli occhi la sua agonia, il piacere di un brivido mi ha solleticato lo spirito. Non esiste più. E mentre il travaglio suscita ancora le sue bolle di superficie, pezzo per pezzo torno a galla. Vi invito qui ad attraversare il medesimo rituale metamorfico”
“Then I decided to abandon my identity to its destiny, I wanted to return the Universe my name, my face, the story of a Life with no author. The heavy body sinks while the soul is feeding from the liquid that wraps around me. The Memory can’t lie, I remember, I remember of a very close time when this was my home. Silent, nourishing, vital. Here is what I am, I am this place, I am the white space. I feel no yearning for the disguise I have let die, I saw it expire, I have followed with my eyes its agony, the pleasure of a shiver tickled my spirit. It doesn’t exist anymore. And while the ordeal still arouses its bubbles on the surface, piece by piece I’m back afloat. I here invite you to pass through the same metamorphic
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Roberta Demeglio, Metamorfosi, 2011, fotografia, 70x100 cm
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
BORIS ELDAGSEN
How to disappear completely / The Poems (2008-ongoing)
Boris Eldagsen fotografa di notte esplorando i limiti della raffigurazione. Piuttosto che percorrere le storie, i luoghi e le persone, i suoi dirottamenti di lavoro trasformano la realtà esterna, per dipingere così una realtà oltre il tempo e lo spazio: quella dell’inconscio. Allo stesso modo di Faust di Goethe, Eldagsen persegue “whatever holds the world together in its inmost folds “ per creare immagini che sono inaccessibili alla mente razionale, costringendo lo spettatore a ruotare nei propri ricordi e sentimenti. Così Boris chiama le sue fotografie POESIE. Lavorando in questo modo paradossale, Eldagsen difficilmente può essere attribuito ad una scuola di fotografia. Senza materiali eccessivi o effetti digitali, combina le tecniche della strada e mette in scena fotografie per creare immagini che stanno tra pittura, cinema e teatro. Così l’artista trasferisce queste qualità per la presentazione del suo lavoro, creando istallazioni site-specific che racchiudono in sé una varietà di formati di carta da parati e video per creare un’esperienza in cui la realtà diventa fluida ed i visitatori possono camminare attraverso le immagini in uno spazio interiore.
Boris Eldagsen’s night photography explores the limits of depiction. Rather than exploring stories, a place or a person, his work hijacks and transforms the external reality, to paint a reality beyond time and space: that of the unconscious. Not unlike Goethe’s Faust, Eldagsen pursues “whatever holds the world together in its inmost folds” to create pictures that are inaccessible to the rational mind, compelling the viewer to turn to their own memories and feelings. Thus he calls his photographs POEMS. Working in this paradoxical way, Eldagsen can hardly be attributed to a school of photography. Without excessive materials or digital effects, he combines the techniques of street and staged photography to create images that sit between painting, film and theatre. Transferring this quality to the presentation of his work, he creates site-specific installations using a variety of formats from wallpaper to video to create an experience in which reality becomes fluid and visitors can walk through images into an inner space. is what I am, I am this place, I am the white space. I feel no yearning for the disguise I have let die, I saw it expire, I have followed with my eyes its agony, the pleasure of a shiver tickled my spirit. It doesn’t exist anymore. And while the ordeal still arouses its bubbles on the surface, piece by piece I’m back afloat. I here invite you to pass through the same metamorphic
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Boris Eldagsen, How to disappear completely/THE POEMS (2008 - ongoing) carta da parati, 3,78x3 m, costituita dalle seguenti immagini: carta da parati / OLD VENUS POEM #120, #121, #91, #90, #76, #66, #55, #54, #41, #11 Boris Eldagsen, How to disappear completely/THE POEMS (2008-ongoing) video portfolio, 5:21 min
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ANNA FABRONI Nero
Le polaroid spiegano bene il senso del ricordo e dell’estemporaneità di una foto. Sono tasselli che compongono un viaggio, appunti visivi di pensieri che sperano di diventare altro. questo lavoro racchiude anni di ricerca, su cosa faccia davvero la bellezza degli esseri umani. Io sono piena di fraintendimenti, ho dovuto lavorare moto sulla mia autostima per concedermi il lusso di riconoscere la brutalità del mondo oltre che della mia. Ma sulla mia posso lavorare e lo faccio con la fotografia, lo faccio scrivendo. lo faccio ammettendo che i pensieri buoni sono sempre nascosti sotto chili di merda. È sempre difficile arrivare alla parte vera di me stessa. eppure in quest’ammissione c’è tutta la mia forza. Mettersi a nudo e a volte inorridire. Il mio lavoro è un omaggio alle donne, sempre. A quelle che come me si sono sentite amputate di arti e organi e che nonostante tutto sono ancora in piedi sinceramente. È uno schiaffo in facci alle persone che sono venute qui ed hanno rubato i miei fogli sparsi, hanno rubato la fatica del mio viaggio. Che hanno abusato dell’incanto con cui spesso ho guardato la vita. Ho imparato a stare nel mio nero. ad occhi aperti. E il disincanto tace, come se tutto quello che ancora può accadere, fosse un fiume dirompente, in cui si può annegare ancora, ma che ancora non fa paura.
Polaroid explain clearly the meaning of remembrance and della’estemporaneità a photo. Are pieces that make a trip, visual notes of thoughts that they hope to become something else. This work contains years of research, what really makes a beauty of human beings. I am full of misunderstandings, I had to work on my self-confidence motion to have the luxury to recognize the brutality of the world as well as mine. But I can on my work and I do photography, I do writing. I do so recognizing that good thoughts are always hidden under pounds of shit. It ‘s always difficult to arrive at the true to myself. yet in this admission there all my strength. Get naked and sometimes horrified. My work is a tribute to women, always. To those who like me have felt amputated limbs and organs and which nevertheless are still standing sincerely. It ‘a slap in let us to people who came here and stole my papers scattered, they stole the fatigue of my journey. Who abused the enchantment with which I often looked at life. I learned to stay in my black. with open eyes. And disenchantment is silent, as if all that still can happen, was a forceful river, where you can still drown, but that still does not frighten.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Anna Fabroni, Nero (diario visivo), 2012 work in progress, digitale, 100x100 cm
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ISABELLA FALBO Critica performativa
La “Critica Performativa” rappresenta per me il privilegio della condivisione reale, e non solo teorica, della creazione artistica. La Critica Performativa è scrittura che si trasforma in immagine, occhio critico divenuto corpo critico sulla scena, ibridazione tra pensiero interpretativo, performance e moda: oltre alla testimonianza oggettiva che rivolgo all’opera degli artisti di volta in volta coinvolti attraverso testi critici tradizionali, con la Critica Performativa aggiungo un’interpretazione che mi chiama in causa in prima persona e, presentando col mio corpo le poetiche altrui, alla fine, inevitabilmente, rivelo anche me stessa, soggetto critico dotato di un’identità e di uno stile che non può essere ignorato o rimosso. L’idea di Critica Performativa è nata nel 2008, obbedendo a ciò che sentivo di dover fare: accedere concretamente all’opera per poterla davvero capire e concettualizzare. Dal 2008 al 2011 ho condotto le mie sperimentazioni di Critica Performativa a porte chiuse. Entrando nello spazio espositivo di mostre personali da me curate, esploravo le sensazioni legate all’opera d’arte col mio corpo. In una logica di osservazione partecipante empatica, incontravo l’opera e il suo autore. In questi anni La documentazione fotografica che grazie alla collaborazione di Roberto Roda (Centro Etnografico-Osservatorio Nazionale sulla Fotografia di Ferrara) ho tratto da queste performance, ha dato origine al primo corpusdi “Opere critiche performanti”. Nel 2012 è maturata la consapevolezza di ciò che stavo realizzando: una modalità di indagine capace di tradurre la critica scritta in critica visiva attraverso azioni performative dove, in una logica di contaminazione fra critica-arteperformance e moda, non utilizzo soltanto il mio “occhio critico”, ma tutto il mio corpo, completo dei vestimenti che indosso. Ho ufficializzato la modalità della Critica Perfomativanel 2012 con la mostra Critica Performativa. Per una differente metodologia della critica d’arte. Villa Abbondanzi, Faenza.
“Critica performativa” enables me to truly share the artist’s creation, not just theoretically. “Some things cannot be invented, we see them born in ourselves. This birth has deep roots”. The idea of “Critica Performativa” was born in 2008, responding to what I felt I had to do in order to fully examine the art work; enabling me to fully understand and conceptualize it. From 2008 to 2011, I carried out the “critica performativa” experimental reflection behind “closed doors”: Inside the space of the exhibition I curated, I explored and then interpreted the feelings related to the works of the art presented, in the logic of an active observation that invested and used the body. I linked myself to the artworks and to its author in a relationship of empathy and research of emotional states. The “active observation” was documented by photographs, that gave rise to the first body of “critica performativa” art works. In this first step I had the support and the collaboration of Roberto Roda, chief of the Ethnographic Centre and Photography National Observatory of Ferrara City Council Later, in 2012, I developed my awareness of what I was doing: a mode of inquiry capable of translating the written critique to visual critique through performing actions, where - in a logic of contamination between art criticism, performance and fashion – I do not use only my “critical eye” but my whole body, including the clothes that I wear. I formalized the “critica performativa” in 2012 with the exhibition “Critica Performativa. Per una differente metodologia della critica d’arte (Critica Performativa. For a different methodology of making art criticism)” 2012, Villa Abbondanzi, Faenza.
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
In occasione della collettiva “Other Identity” Isabella Falbo presenterà il progetto di una nuova critica performativa impostata sul lavoro artistico e curatoriale di Francesco Arena, Genova 2016
Isabella Falbo, opera critico-performativa nel lavoro di Dania ZanottoSaektongJogori, 2011. Foto Fabio Lombrici
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PAMELA FANTINATO Metamorfosi
Ho iniziato a fotografare per necessità, era la mia anima a chiederlo. Sentivo il bisogno di mettermi a nudo. Mi sentivo persa nel labirinto della vita e con le foto riuscivo a ritrovarmi. Da quelle immagini che sembravano slegate tra loro è nato “quarantacinque” il mio primo handmade book. 45 immagini, 45 anni, 45 emozioni. “Il labirinto della solitudine” parte sempre dall’inquietudine interiore, ma l’occhio che prima si posava sul mio corpo ora è attratto da particolari che possono sembrare insignificanti ma che riescono a raccontare la solitudine interiore che non è più solo mia, ma che appartiene in un modo o in un altro a tutte le anime sensibili. La macchina fotografica è solo il mezzo, non mi sento assolutamente una fotografa, scatto senza regole né tecnicismi. Forse per questo amo le polaroid, perché sono come me, indefinite, eteree, e se non le catturi dopo un po’ scompaiono
I started taking pictures for necessity, my soul ask me to do it. I need to put myself naked. I felt lost in the labyrinth of life and with the photos I could find myself. My first handmade book “fourtyfive” was born from those images that seemed unconnected. 45 images, 45 years, 45 emotions. My work “ The Labyrinth of Solitude” still comes from inner restlessness, but the eye, that at the beginning was fixed on my body, is now drawn to details that may seem insignificant but who can tell the interior solitude, which is not only mine, but that It belongs, in one way or another, to all sensitive souls. The camera is only the instrument, I’m not a photographer, I shoot without rules or technicalities. That’s why I love Polaroids, because like me they are vague, ethereal, and if you don’t capture, after a while they disappear.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Pamela Fantinato, metamorfosi, 2011, fotografia digitale, 30x30
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MASSIMO FESTI Circus of love
Icone universali tra alienazione e rovina, banalità ed estetica, sesso e violenza, controcultura e puritanesimo, decentramento e congiunzione di uomini e donne con l’amore. Nella continua utopica ricerca di sintesi delle problematiche identitarie, attraverso le maschere del Circo dell’amore è ancora possibile essere, diventare, amare.
Universal icons between alienation and ruin, banality and beauty, sex and violence, counterculture and puritanism, decentralization and the conjunction of men and women with love. In the continuous search of utopian synthesis of issues of identity, through the masks of the Circus of love it is still possible to be, become, love.
Massimo Festi, CIRCUS OF LOVE, 2012, lambda print, 100x70 cm. Massimo Festi, CIRCUS OF LOVE, 2012, lambda print, 100x70 cm. Massimo Festi, CIRCUS OF LOVE, 2013, lambda print, 100x70 cm. Massimo Festi, CIRCUS OF LOVE, 2014, lambda print, 100x70 cm.
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TEYE GERBRACHT
Beneath the seven mountains
Il mio lavoro è destinato ad essere misterioso, inquietante e cupo. Mi aggiro alla ricerca di posti che corrispondono a questi sentimenti.
My work is meant to be mysterious, haunting and gloomy. I wander around looking for places that match these feelings.
Teye Gerbracht, Hauch, Video, HD, Color, Durata: 6:66 Teye Gerbracht, Beneath the seven mountains II, Photograph, aprox. 25x32,5 cm. pigment print, mounted, framed Teye Gerbracht, Beneath the seven mountains III, Photograph, aprix. 25x32,5 cm. pigment print, mounted, framed
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
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BARBARA GHIRINGHELLI Perhaps I don’t exist
Mi considero una raconteuse. Per raccontare le mie storie uso l’autoritratto nella fotografia digitale sia in bianco e nero sia a colori. Assieme alla fotografia nel mio lavoro utilizzo anche la scrittura, sia in inglese sia in italiano, per i titoli delle opere, che ne sono parte integrante, e per i testi delle mie storie. Uso l’autoritratto per elaborare una rappresentazione emotiva che mi permette di raccontare storie colte senza un vero inizio e una fine, in sospensione o in divenire, come fossero messaggi portati all’orecchio per un istante. Per questo, spesso, scatto delle sequenze fotografiche che creano piccoli frammenti quasi filmici, storie per immagini a cui magari aggiunto fogli con disegni o ricami con filo rosso, quasi fossero piccole incursioni che aprono altre parentesi, potenziali per sentieri secondari, altre storie che si mescolano a quella principale. Perhaps I don’t exist (Forse non esisto). La sequenza si compone di dieci fotografie e due disegni. Le foto sono combinate in una nuova struttura narrativa rispetto alle sequenze originali da cui sono tratte, in aggiunta a due disegni che fanno da trait d’union. In esse esploro il tema dell’identità attraverso l’uso della maschera e della metamorfosi resa con l’immagine degli uccelli. Con la maschera, non solo si creano nuove possibilità interpretative che generano altre storie, ma si instaura anche una barriera data dalla rappresentazione corporea nello spazio con il viso umano celato, mentre quello disegnato rimane immobile e imperscrutabile, un po’ alieno ma anche essenziale e ieratico, quasi fosse un’icona pseudo religiosa. Con gli uccelli, cerco di creare degli innesti con il corpo umano in termini di metamorfosi. Gli uccelli sono da intendere anche come messaggeri e, in quanto tali, portatori di storie e creatori di altre identità.
I consider myself a storyteller. I use self-portraiture to tell my stories with digital photography both black & white and colour. I complement my photography with writing that I use for the titles of my works, which constitute an integral part to the images, and for the texts of my stories both in English and in Italian. My self-portraits are used to process an emotional representation that allows me to tell stories caught without a real beginning and an end, as if suspended or in the making, some kind of messages delivered to the ears just for a brief moment. Because of this, I often shoot photographic sequences that create almost small film fragments, stories in images to which I may add drawings on sheets of paper or embroidery with red thread, as if they were small incursions that open other parenthesis, potentials for secondary paths, other stories that mingle with the main one. The title of my piece for the exhibition is Perhaps I don’t exist. The sequence consists of ten photographs and two drawings. The photographs are combined in a new narrative structure other than the original sequences from which they derive, while the two additional drawings serve as a liaison. In them, I explore the theme of identity through the use of masks and metamorphosis, that is created with the image of birds. With the mask, not only I can create new interpretative possibilities that generate more stories, but it also forms a barrier with the representation of the body in the space as the human face is concealed, while the drawn face remains motionless and inscrutable, a bit alien but also essential and hieratic, almost like a pseudo religious icon. With the birds, I try to create grafts with the human body in terms of metamorphosis. The birds are to be perceived also as messengers and, as such, bearers of stories and creators of other identities.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Barbara Ghiringhelli, Perhaps I don’t exist, 2015, fotografia digitale su stampa fine art e disegno a tecnica mista, 30x22.5 cm, 25x25 cm, 40x33 cm
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OLIVIA GIOVANNINI / MODUS Signature (to) sign nature
SIGNATURE (to) sign nature corpo: Olivia Giovannini elaborazione sonora live: MODUS Signature, in italiano: firma. Osservando la parola inglese SIGNATURE notiamo che contiene il verbo TO SIGN (segnare) e il sostantivo NATURE (natura) e riflettiamo sul fatto che con la firma ognuno di noi segna la propria natura nel mondo esterno. Chiediamo, quindi, di firmare un corpo che danzerà un nome per come è stato scritto e la pelle lo ha percepito. L’ambiente sonoro segue la reazione fisica alla scrittura: il nome è il “suono” che più ci appartiene. Corpo, contatto e suono come strumenti che trasformano una firma in spazio - tempo - energia, rovesciando un’identità intima (Il nome ci identifica sopratutto negli ambienti a noi intimi) in un gioco pubblico senza alcun significato psicologico. Come dice Roland Barthes, tentiamo non già un’analisi, ma un’enunciazione. Quello che viene proposto è, se si vuole, un ritratto; ma questo ritratto non è psicologico. La parola non va intesa nel senso retorico, ma piuttosto nel senso ginnico o coreografico.
SIGNATURE (to) sign nature body: Olivia Giovannini live sound elaboration: MODUS Observing the English word SIGNATURE, we notice that it contains the verb TO SIGN and the noun NATURE, reflecting on the fact that by signing, each of us marks his own nature in the outside world. Therefore we ask from a body to sign, by dancing, a name for how it was written and for how it was perceived by the skin. The sound environment follows the physical writing reaction: the name is the “sound” that belong to us the most. Body, contact and sound are used like tools to transform a signature into space - time - energy, turning a private identity (The name identifies us especially in private environments) in a public game without any psychological significance. As Roland Barthes says, this is not an analysis but a staged utterance. What is proposed is, if you will, a portrait, but this portrait is not psychological. The word should not be understood in a rhetorical sense, but rather in gymnastic or choreographic sense.
Starring Olivia Giovannini Sound elaboration live: MODUS
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Olivia Giovannini/ Motus, Signature (to) sign nature performance Loggia della Mercanzia, Genova, sabato 27 febbraio 2016 foto Francesco Arena
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
ANNA GUILLOT Sounding myself
I miei attuali interventi sono spesso costituiti da un sistema mobile di singole immagini fotografiche interagenti con corpi in forma di libro anch’essi fotografici. Manipolabili e spostabili nello spazio, emergendo dalla rielaborazione autoprodotta della personale sfera psico-somatica, dell’immagine del mio volto e corpo, come del nome “Anna”, essi sono incentrati su una sorta di apparente autoreferenzialità mirata a propagare per contagio a chi guarda e si rende partecipe – parallelamente a quanto praticato su me stessa – lo scandaglio e l’esame tanto del corpo quanto del sé nelle loro variabili spazio-temporali. Un numero imprecisato di fotografie e di libri, in ordine sparso e/o in assetto ordinato per un gioco di pieni e di vuoti, sono posti su un tavolo (125 x 250 cm); l’installazione è di dimensioni variabili. Si tratta quasi sempre di autoscatti riferiti al mio volto e corpo e dei relativi dettagli o a particolari momenti della mia vita, ma anche di variazioni grafiche sul tema del mio nome; questo vale tanto per le fotografie singole disposte sul piano quanto per i libri autobiografici – le cui copertine e i cui spessori entrano in gioco con le foto – sovrapposti o alternati in modo sequenziale a volte ritmico. Il tutto è liberamente manipolabile da parte dello spettatore.
My current work often consists of a mobile system of individual photographic images in interaction with bodies in the form of books that are also photographic. These can be manipulated and moved in space, emerging from the self–produced re–elaboration of the personal psychosomatic sphere, of the image of my face and body, as with the name “Anna”. They centre on a sort of apparent self-reference that aims at propagating by contagion for whoever observes and participates – in parallel with that which I have practiced on myself – the sounding and the examination of the body and the self in their spatial–temporal variables. An unspecified number of photographs and books, in random order and/or ordered in a play of fullness and emptiness, on a table (125 x 250 cm); the installation is of variable dimensions. These are almost always self–portraits referring to my face and my body and the related details, but also to graphic variations on the theme of my name; this is true for the individual photographs arranged on the table as it is for the autobiographical books – the covers of which and their thickness enter into relation with the photographs – superimposed or alternated in a sequential, sometimes rhythmical way. All this can be manipulated by the observer.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Anna Guillot Face-Book, 2015/16 Installazione, libri cartacei, elementi in legno, fotografia su carta metal, 40x40x40 cm
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
TERESA IMBRIANI Autoscatti
“Quale senso può produrre l’offerta allo sguardo di un corpo “puro”, privato cioè di ogni connotazione psicologica ed esistenziale tranne quelle che il tempo e il vissuto lasciano su di esso come geroglifici da decifrare? Il corpo è limite, misura, guaina, fodero, corazza che dispone di uno spazio corto, ridotto, limitato da un numero sufficientemente inadeguato di arti. Esso semplicemente si dà come esistente “per sé”, come esistono indistintamente tutte le cose della natura, ma tende a ritornare continuamente “in sé” […].” Carlo Garzia, “senzadistanza”, Marzo 2015.
“What sense can produce the offer at the look of a “pure” body, without any psychological and existencial connotation, except those that the time and the experience leave upon it as hieroglyphics to decipher? The body is limit, measure, sheath, armour that has a small space, limited by a inadequate number of arts. It simply gives existence ‘in itself’, as all the things in nature exist indiscriminately, and tends to return continuously ‘in itself’ [...].” Carlo Garzia, “sensadistanza”, March 2015.
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Teresa Imbriani, Autoritratto, (formato da autoritratti scattati nel corso degli ultimi due anni), 16 foto 11x11cm, stampa su carta Rag e cartoncino nero formato 20x20 cm
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SEBASTIAN KLUG Out of the blue
Sebastian Klug fotografa principalmente in condizioni di bassa luminosità ricercando, in migliaia di scatti rubati, attimi evocatori e segni astratti. La bassa definizione viene consapevolmente esaltata come generatrice di risultati estetici inaspettati. I soggetti e i dettagli delle “visioni sonnambule” della notte berlinese, si trasformano in atmosfere alienate: l’artista è spettatore e partecipe di un mondo non convenzionale, estraneo e mai ripetitivo. Klug punta l’obiettivo della fotocamera di un telefono cellulare sulla notte e sui suoi inconsapevoli protagonisti. Stills a bassa definizione, sgranati e potenti, fissano in maniera spietata e lucida attimi rubati, irripetibili”. (Gabriele de Pascal). Fototessuti o „pixograms“ è una serie di opere basate su fotografie low resolution, trasformate e rielaborate con un successivo intervento creativo. Due riproduzioni identiche di una fotografia sono tagliate a strisce in direzioni contrapposte e ricomposte attraverso un processo di tessitura. Klug altera contenuto e forma del’immagine che viene dissolta, frantumata e trasformata in un oggetto tridimensionale con le sue proprie caratteristiche ottiche e tattili. La scelta di combinare un gesto di antico artigianato con una tecnologia digitale (nel suo aspetto più obsoleto). Klug crea affascinanti oggetti ibridi che ritornano all’origine della creazione figurativa, unendo gesti simbolici e parametri fondamentali, il filo colorato e il pixel digitale.
After spending one year abroad at Venice’s IUAV university he developes a strong interest in drawing and photography, Sebastian Klug moves to Berlin where he finishes his studies and starts working on a personal documentary project. He explores the city at night, using his mobile phone as a camera. This low-fi device renders atmospheric images full of noise and grain, transforming reality into a somnambulistic, dreamlike version of itself, thus coming close to the perception of both the photographer and his protagonists. Recently Klug is working on a series of woven photographs named “pixograms”, in which he technically cuts two prints of one of his pictures into paper stripes and reassembles the image by interwaeving them. Applying this ancient techique on photographs, he alienates the picture’s content, pixelizing it on an analog level and turns them into three dimensional objects. Oscillating between image and sculpture, he creates a hybrid of both genres, combining their expressiveness and leaving it’s final classification to the perception of the viewer.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Sebastian Klug, Out of the blue, 4 woven pictures based on alienated b/w portraits from the 1950s., photo paper, to be hang on the wall with adhesive tape, 70x100 cm.
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NATAŠA KOROŠEC Scarafaggi
Esplorando ed elaborando i concetti legati al mondo dei sogni, degli incubi, dei terrori e catastrofi della vita quotidiana ed ispirandoci ad essi, Nataša Korošec ha concepito una serie di lavori che sono una riflessione sulla precarietà della vita contemporanea, sulla società e sull’uomo postmoderno. Il lavoro è fatto di lunghe riflessioni sulle catastrofi, sugli uomini che si annientano, sui cambiamenti sociali, sulla natura che viene distrutta, sulla natura che si ribella all’onnipotente uomo, sugli animali che avvertono i cambiamenti catastrofici per primi, sugli animali/insetti che si estinguono e sugli insetti che ci sopravvivranno, come scarafaggi. Nella figura di scarafaggio, di un insetto sgradevole, ripugnante, si trova anche quella poetica della metamorfosi, della attesa di un cambiamento, nel bene o nel male.
Nataša Korošec, analyzing and elaborating concepts bound to the world of dreams, of nightmares, of terrors and catastrophes of everyday life and taking inspiration from them, has created a series of works, which are a reflection on the precariousness of contemporary life, on society and on the postmodern man. The work “The 100 -200 Cockroaches” that Nataša Korošec submits for this exhibition is a piece of a long reflection on catastrophes, on men who abase themselves, on social changes, on Nature which is being destroyed, on Nature which rebels against the powerful man, on animals which at first realize catastrophic changes and on animals/insects which will survive us, as the cockroaches. In the image of the cockroach, an unpleasant and revolting insect, you find Kafka’s poetics of the metamorphosis, of the expectation of a change in a bad or a good way.
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Nataöa Koroöec, Scarafaggi, Febbraio 2016, Installazione Loggia della Mercanzia, dimensioni variabili Sculture in plexiglass
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
ELEONORA MANCA Uncalled for anatomy
Il corpo (scevro da ogni segno autoreferenziale) diviene cifra di tutti i corpi, esplorandosi si archetipizza dimenticando la propria soggettività; rivendica l’umiliazione estrema di essere segregati in un corpo unico e sessuato e al contempo la nostra natura di essere fragili tanto nella carne quanto nello spirito. Il corpo in ogni sua metamorfosi, nell’accettazione del dolore che ogni muta esige, richiede; prendendo coscienza del tempo e dello spazio necessari a “cambiar pelle”, a dare avvio agli inevitabili mutamenti dovuti alla benedizione d’ogni cicatrice. Il pensiero comunica con il corpo e scrive su di esso le proprie emozioni recuperando incessantemente i contenuti della memoria. Ogni corpo è memoria ed essa si stratifica a tal punto che ogni nostro atto è inevitabilmente legato ai ricordi che il pensiero cosciente tende ad annullare, ma che sostano inattaccabili nel corpo. Laddove la mente opera secondo azioni di conoscenza e di rimozione, il corpo non dimentica nulla e mantiene nelle proprie cellule ogni avvenimento, ogni pensiero, ogni sguardo, ogni parola. L’idioma del corpo è dunque l’inesplicabile linguaggio della memoria. Prendere coscienza del tempo e dello spazio dovuti al cambiar pelle osservando, nella costante metamorfosi, il solo possibile esito finale. Al crocevia di un essere che - pur non essendo ancora diverso da sé - sta per diventarlo.
The body (devoid of any self-referential sign) makes itself cipher of all bodies, in its self-exploration it becomes archetype by forgetting its own subjectivity; it claims the extreme humiliation of being secluded within an unique and sexed body and, at the same time, our own nature of fragility in both flesh and spirit. The body in all its metamorphoses, in its acceptance of the pain eagerly demanded by every sloughing; becoming aware of the space and time needed to “change skin”, to start the inevitable mutations due to every scar’s blessing. Thought communicates with the body and writes its own emotions on it, by incessantly retrieving contents from the memory. Every body is memory, and this memory becomes so stratified that each act of ours is inevitably bound to memories which stay within the body, unassailable, although our conscious though tries to annihilate them. While the mind acts by cognition and removal, the body does not forget anything and keeps in its cells every event, every thought, every look, every word. Therefore, the idiom of the body is the inexplicable language of memory. To acquire awareness of time and space as results of having changed one’s skin by watching, during that constant metamorphosis, the only possible final outcome. At the crossing towards a new being that - though not yet different from itself - is about to become so.
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Eleonora Manca, Uncalled for Anatomy, 2015, video HD, 1’15’’
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
ELENA MARINI Spot
ACTION DIRECTE SPOT n° 1 è una performance di body art, concepita per essere eseguita dal vivo, assicurando solo l’accesso ad un pubblico maggiorenne ed informato. Premetto, per chiarezza e assumendomene tutte le responsabilità, che se riscontrassi problemi a togliermi il sangue al primo tentativo, l’azione non si fermerà e ci saranno tanti tentativi quanti necessari, indispensabili al proseguimento e alla realizzazione della mia performance. (simbolo della stella di colore azzurro) ACTION DIRECTE SPOT n° 1 è tecnicamente molto difficile da realizzare e richiede una totale concentrazione, è richiesta quindi presenza di un pubblico discreto, che sia tenuto a debita distanza dall’azione.
ACTION DIRECTE SPOT n° 1 is a performance of body art, designed to be performed live, ensuring access only for mature and informed. It states, for clarity and assumes all responsibility that if you encounter problems to take my blood at the first attempt, the action will not stop and there will be many attempts as is necessary, essential for the continuation and implementation of my performance. (simbolo della stella di colore azzurro) ACTION DIRECTE SPOT n° 1 is technically very difficult to achieve and requires total concentration, is required so there is a decent public, which is kept at a safe distance from the action.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Elena Marini, SPOT, 2015, collage su carta con sangue, 23x23 cm (33 cm cornice inclusa)
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LORENA MATIC
Sensazioni immobiliari
La realizzazione del cortometraggio ideato da Lorena Matic ha richiesto una lunga preparazione, che ha spinto l’artista a vivere personalmente l’esperienza dell’agente immobiliare per mettere in scena un altro mestiere, in linea con il ciclo fotografico I Mestieri al quale Matic lavora da anni. Sempre entro una poetica dedita alle relazioni sociali e alle più diverse collaborazioni, quest’opera riconferma la vena ironica vissuta calandosi di volta in volta in ruoli e travestimenti diversi. Attingendo all’esperienza lavorativa praticata per l’occasione, dalla quale recupera modalità di relazione finalizzate alla vendita, sviscerando paure, dubbi e problematiche affettive, economiche e logistiche percepite in chi è in cerca di casa, Matic trasforma una visita guidata a un appartamento in vendita in un sinistro e assurdo viaggio tra il mondo del lavoro e la psicologia del quotidiano. Testo di Sabrina Zannier tratto dal catalogo di Maravee Fabrica
The realization of the short film created by Lorena Matic has required a long preparation, which has driven the artist to experience personally the life of a real estate agent and to highlight another profession, in line with the photographic cycle “Crafts” for which Matic works for years. Always within a poetry dedicated to social relations and different collaborations, this artwork confirms her irony, from time to time, in various roles and disguises. From her work experience, from which she seeks ways to relate to sales, examinating fears, doubts and emotional issues, economic and logistical problems perceived by home seekers, Matic transforms a guided tour, in an apartment, a sale into a sinister and absurd journey through the world of work and psychology of everyday life. Text by Sabrina Zannier from the catalog of Maravee Fabrica
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Lorena Matic, Sensazioni immobiliari, 2011, durata 9’50’’ written and directed by Lorena Matic screenplay Lorena Matic, Hari Bertoja, Davide Salucci cast in order of appearance Lorena Matic, Andrea Tich, Gessica De Marin, Gualtiero Giorgini, Roger Vandeburg, Alessandro Vaccaro, Stefano Matelich, Marco Vaccaro editing and music Hari Bertoja, Davide Salucci camera and visual effect Davide Salucci
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RALPH MEILING Scarafaggi C/CC
Meiling sviluppa uno stile che oscilla costantemente tra video e fotografia. Le sue fotografie sono state scattate da una tecnica di registrazione non convenzionale. I modelli trascorrono ore con l’espressione immobile del viso, seduti su una sedia e sono stati illuminati dall’artista da un’unica fonte di luce. Nei lavori video concentra con grande forza dirompente sovrapposizioni iconiche di personaggi famosi nei canali mass mediali intrecciandone le immagini pubbliche di rappresentazione e fondendole in un’ibridicità elettronica.
Meiling developed a style that constantly oscillates between video and photography. His photographs have been created with an unconventional technique. The models spend hours posing with an immobile facial expression, sitting on a chair and illuminated by a single light source. In his video works he focuses on overlapped iconic characters in mass media channels by intersecting the public images of representation and merging them into electronic hybridity.
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Ralph Meiling, Bill Gates and Bruce Lee, 2013, time: 9”, video Hd Ralph Meiling, Hitler Einstein and Vintage Porn Actor, 2013, time: 9”, video Sd
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
BEATRICE MORABITO Segret story
Chiedendosi quando la bambola diventa una donna e la donna una bambola.
wondering when the doll becomes a woman and the woman becomes a doll.
Beatrice Morabito, Segret Story 1/21, 2009, 21 foto digitali, stampa su carta fotografica, edizione massima 7 foto, 20x30 cm
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GIULIA PESARIN Ophelia
Il lavoro di Giulia Pesarin rivela un forte interesse per il corpo in movimento, che rappresenta in luoghi insoliti e lasciati spesso abbandonati, creando un effetto di contrasto tra il tempo presente di un corpo vivo e in movimento, e il tempo trascorso in un luogo dimenticato e immutabile. È quindi l’intero concetto di bellezza che viene messo in discussione. Giulia Pesarin, invece di associare la bellezza all’idea di perfezione immobile e congelata nel tempo, la lega strettamente al concetto di cambiamento. Un lavoro di ricerca, svelamento, auto-rappresentazione del sé attraverso trasformazione identitaria ottenuta mediante il procedimento dell’autoscatto. È messa in scena una Ofelia contemporanea che, a differenza dell’icona shakespeariana, si fa corpo vivo cercando un riscatto, alla pena d’amore subita, attraverso l’autocompiacimento. L’immagine affiora dall’acqua per essere contemplata come Narciso e tramite la sua molteplice riproduzione mima una serialità tipica del linguaggio commerciale e mediatico dell’epoca odierna. Il gesto intimo e quotidiano del bagno da privato si fa pubblico. Il viso è celato, il corpo solo si manifesta permettendo anche allo spettatore di identificarsi in esso.
The work of Giulia Pesarin it’s focused on the moving body. Her representations are set against unusual, often abandoned, places. In this way she aims to create a contrast between the dynamic time of a moving body and the immutable time of a forgotten place. In other words, and more broadly, she puts under question the entire concept of beauty. Instead of associating the beauty to an ideal perfection that is static and frozen in time, Giulia’s work aims to represent beauty’s mutability nature. This is a research work, a self-timer that represents an attempt of unveiling, self-representation and identity transformation. It portrays a contemporary Ophelia that, unlike the Shakespearean icon, becomes a living body looking for redemption from pains of love through self-satisfaction. The image comes up from the water to be contemplated as a “Narcissus”, and gestures lead back to the language of the media in our modern society. The private act of bathing becomes public. The face is hidden.
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Giulia Pesarin, Ophelia, 2016, self-portrait, fotografia digitale su forex, 9 pannelli 40x60 cm
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ANNALISA PISONI CIMELLI Nerti
Pelle che cambia, che muta, sgranata e ferita, che ci protegge e ci espone. Mi guardo da vicino. Che cosa so’ di me? Che cosa ricordiamo di noi? Perché la memoria è nel corpo. La memoria è il corpo. Osservo, analizzo e recupero il mistero e il ricordo del primo contatto. Guardo la mia pelle, quella degli altri, fino a distinguerne la trama. Ci guardo attraverso, forse, fino a che le pieghe di una mano o quelle di un pugno chiuso, diventano, rinascono; un paesaggio, una mappa che si può abitare o esplorare. Una sorta di altra esistenza che ritorna alle origini. Per esprimere questa indagine artistica non prediligo un media in particolare ma quelli che possono servire a tradurre al meglio la mia ricerca. La pittura, la fotografia e spesso le due tecniche mescolate insieme danno vita ai miei lavori. Le immagini in movimento, il video, esprimono con forma differente un racconto, un’intuizione, legame sottile, una storia, una trama. Visioni quasi in macro dove il corpo e la pelle sono tramite ad un momento in cui si abbandona la parola e si raggiunge la memoria del silenzio primordiale Il video realizzato durante la residenza artistica in Lituania, raccontocome il mio corpo è entrato fortemente in relazione con l’ambiente naturale della Lituania,e in particolare con l’acqua dei fiumi Nemunas e Neris che confluiscono nella città di Kaunas. In questo luogo per me significativo e simbolico, di metidazione e riflessione ho potuto ascoltare maggiormente me stessa per esprimere al meglio le mi sensazioni.
Skin that changes, that changes, grainy and injury, protecting us and expose us. I look closely. What do I know ‘to me? What do you’re member us? Because the memory is in the body. Memory is the body. I observe, analyze and recover the mystery and the memory of the first contact. I look at my skin, that of others, to make out the plot. I look through, perhaps, until the folds of a hand or that of a closed fist, become reborn; a landscape, a map that you can live or explore. A kind of other existence that returns to the origins. To express this artistic investigation does not favor a particular media but ones that can be used to translate the most of my research. photography and often mix the two techniques together give life to my work.Moving images, video, expressing a story with different form, an intuition, subtle connection, a story, a plot. Visions almost macro where the body and the skin are through to a time when you leave the word and reach the memory of the primordial silence. The video made during my artist residency in Lithuania, tell how my body entered strongly in connection with Lithuania’s natural environment, and, in particular, with the water of Nemunas and Neris rivers that meet with each other in the city of Kaunas. In this place, meaningful, symbolic and meditative, I could pay more attention to my inner self to best express my feelings.
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Annalisa Pisoni Cimelli, Nerti, 2015, video digitale hd 16:9, 3’02’’ min.
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ANGELO PRETOLANI
Coincidentia oppositorum
“Sono un produttore di senso, non di significati.” Angelo sul far della sera apparirà alla Loggia della Mercanzia, a Genova; loricato in volto entrerà in un bianco cerchio di sale, debordando verso situazioni di confine umano-subumano atte a produrre vertigine – una performance di magia senza magia, una cerimonia di identità.
“A producer of sense and not of meanings.” Angelo will appear at nightfall at Loggia of the Merchants in Genoa, his face shielded he will enter a white salt circle overstepping scenarios between human and subhuman aimed at creating bewilderment - a magic performance without magic, a celebration of the identity (Translation: Elena Montini).
Angelo Pretolani, Coincidentia Oppositorum, performance Loggia della Mercanzia, Genova, venerdì 12 febbraio 2016, 10’ ca. foto Francesco Arena
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GIACOMO REBECCHI Bodyeyes
Cerco di inserire...una mia idea all’interno di tutti i miei lavori, anche i servizi commissionati... una visione personale del momento, di quello che vivo all’istante o che mi porto dentro da sempre. Trovo sia un ottimo modo per sfogare i propri pensieri, le proprie paure e le proprie emozioni. L’identità è la concezione che un individuo ha di se stesso nella sfera personale e sociale. Il primo senso coinvolto è proprio la vista, attraverso gli occhi vediamo noi stessi e solo dopo entra in gioco l’enorme parte psicologica. Eliminiamo la vista, cerchiamo la nostra identità usando il corpo come se fossero i nostri occhi, facendo un viaggio interiore e scoprendone i lati nascosti. Mettiamoci a nudo.
In all commission-based jobs I always try to insert a “concept” of mine, my personal vision of what I experience at that very moment or even something I have been bringing within me since forever. I see photography as a good way to express one’s own thoughts, fears and emotions. Identity is the conception of oneself in personal and social sphere. The first sense to be involved is actually the sight since through our eyes we see ourselves. Only after the huge psychological part comes into play. Let’s get rid of sight, let’s look for identity by using our body as if it were our own eyes, to experience an internal journey and found out its dark sides. Let’s get naked.
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Giacomo Rebecchi, BODYEYES, 2015, fotografia digitale, 70x50 cm
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CHIARA SCARFO’ Tilt
Estratto da Un posto chiamato casa di Augusto Petruzzi “I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà e niente somiglierà più a quel che era.” Cerca un posto chiamato casa, l’origine, è la sua casa. Ci sono persone che non hanno bisogno di assaporare la polpa del frutto per conoscere il pudore e la forza del seme che attende di crescere, hanno la mia ammirazione. Lei invece ha preferito talvolta riempirsi la bocca di veleno ed aderire ad un presente di vetro per scoprire davvero chi fosse e chi potesse diventare. Per questo motivo ha dovuto dividere se stessa, e in quello spazio in quel solco tracciato con una caparbietà ingenua, dolorosa ma inesauribile, alla fine ha trovato qualcosa. È come aver spodestato l’acqua dal letto di un fiume, era lei a scorrere e una volta in piedi, dopo aver guardato sotto di se, ha trovato le sue impronte scorgendo immagini di una vita passata un tempo appartenutale. Adesso quelle immagini possiamo vederle anche noi… “Un giorno io lo so, ci sarà un posto chiamato casa”. nota: Le citazioni sono tratte da “Specie di Spazi” di Georges Perec tranne l’ultima, dalla canzone “A Place called home” di Pj Harvey TILT
TILT è il suono di un gioco, quando l’altalena raggiunge gli estremi oltre il quale non puoi andare. TILT è il conflitto tra gli elementi di aria e terra. La ricerca dello spirito e il bisogno dell’istinto. Volare o ritornare in acqua. Stare in terra, sentire, bruciare, vivere. Correre, saltare. Non ci credere.
Selection from A Place Called Home. By Augusto Petruzzi “My spaces are fragile: time will consume, it will destroy and nothing will resemble to what it was.” Looking for a place called home, home’s where the origin is. There are people who do not need to taste the fruit pulp to learn modesty and the force of the seed waiting to grow up, they have my admiration. This time she chose to fill her mouth with poison and join a transparent reality to find out really who she was and who she could become. For this reason she had to divide herself, and in that space in a trailed scar with a naive, painful, inexhaustible stubbornness, finally she found something. It’s like ousting the water from a river bed, she was pouring and once standing, after looking under her, she found her fingerprints seeing pictures of a past life. Now we can see ourselves in those images... “One day I know, there will be a place called home”. Note: The quotes are from “Species of Spaces” by Georges Perec except the last, from the song “A Place Called Home” by PJ Harvey
TILT TILT is the sound of a game, when the swing reaches extremes levels beyond which you can not go. TILT is the conflict between the elements of air and earth. The search of the spirit and the instinct’s needs. Fly or go back in water. Stay on earth, feel, burn, live. Run, jump. Do not believe it.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Chiara Scarfò, Tilt, 2007, Self Shots, digital print lambda 100x70 cm
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VALTER LUCA SIGNORILE Lekh lekhà (una performance)
1 corpo, 50 fasci di capelli, 2 redini equestri, 1 coperta da scuderia, 3 ore (circa) In ogni anno del suo isolamento “egli” ha raccolto, legato e conservato i propri capelli, anno dopo anno. E ora li cucirà in nodi. In un solo giorno. Indosserà il suo mantello e della memoria ne farà splendore. Due redini equestri incrocerà sul petto e l’oggetto del sacrificio, diverrà suo ornamento. Passando attraverso il solitario contatto con sé stesso, è riuscito a penetrarsi così profondamente sino a recuperare la memoria dell’origine. Lo splendore dell’isolamento si è tramutato in viaggio verso la centralità, sguardo cosciente sulla collocazione cosmica. Udendo ancora una volta l’ordine di partire [lekhlekhà] che fu di Abramo ancora una volta la sua scelta diventa patria, l’esperienza del sacrificio partecipazione mistica. Ha forse ancor oggi bisogno l’uomo bisogno di ritornare al mito? La carne ormai troppo esposta, mercificata, idolatrata, sfiorata, accennata ha colmato il vaso di un irrisolta conoscenza del se, riducendosi anche in contenuti di innumerevoli analisi sul divenire oggetto dell’arte. Ma l’isolamento del corpo, il primo ingresso, l’anticamera retro illuminata, il soffio leggero sulle spalle, l’intuizione affamata, il vorticoso intorno e dentro il corpo, allora proprio in questo si svolge la rivelazione, proprio in questo sta l’apertura nella sintesi con l’altra materia. Quale isola è ormai oltremodo splendida se non quella racchiusa nel corpo ed ansima transitando in cerchi concentrici tra carne e spirito? Ultima riscoperta fenice, insolente cella della ricerca eroica. [scrissi un giorno, non lontano, “E se forse la verità sta nell’abisso, nel buio assoluto che ci ha consegnato alla vita e dalla luce ci riconsegnerà al buio?” (da Breath11_2007)]
1 body, 50 hairbundles, 2 ridingreins, 1stableblanket, 3 hours (about) For everyyear of hisisolation, “he” collected, bound and put awayhishair, yearafteryear. And now he willsewthemintoknots. During the period of oneday. He willwearhiscloak and the buriedmemorieswillshinethrough. With tworidingreinsplacedacrosshischest, the object of sacrificewillbecomeornamentation. As a result of a lonelyjourneythroughhisown self he manages to penetrate his soul so deeplythat he reaches the memory of hisorigin. The splendor of hisisolationhastakenhim down the road of innerconciosness – and he findshimselfat the same time connected with the cosmos – in cosmiccollocation with the universe. HearingagainAbraham’scommand to leave [Lekhlekhà] once againhischoice of destinationbecomeshishomeland - the experience of sacrificebringshimcloser to the mystical. Does man stillneed to go back to the myth? The fleshnowtooexposed, toocommodified, tooidolized, over deflowered and gossipedabout – resulting in an empty vessel filled with an incomplete knowledge of himself and reducinghimself to endlessanalysislike an art object. But the isolation of the body; the first entry; the backlit ante chamber; the light breath on the shoulders; the hungryintuition; the swirlingaround and inside the body - so in thisthereis the revelation - thisisprecisely the aperture in whichsynthesis with othermaterialoccurs. Whichislandcouldnow be more extreme in it’s beauty thanthatcontained in the body and breathwhichpasses in concentriccirclesbetweenflesh and spirit? Last rediscoveryphoenix, insolentcell of heroicresearch. [I wroteoneday, not far away, “And ifperhaps the truthliessomewhere in the abyss, the darknessthatgaveus life and light wewillhand in the dark?” (from Breath11_2007)]
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
06-Lekh lekh‥ (a performance) Loggia della Mercanzia, Genova, sabato 20 febbraio 2016 foto Francesco Arena
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VALERIO VISCONTI Only machines live
Synth analogici, noise, kick drums. Un progetto solista che guarda al futuro, e sempre alla ricerca di nuove fonti sonore. Compositore per pianoforte sin da bambino, Valerio Visconti da quasi 10 anni crea e compone anche musica elettronica. In questo periodo ha attraversato diversi generi, mantenendo sempre una sua propria identità sonora, caratterizzata da suoni profondi, ruvidi, meccanici, ispirati prima dall’industrial e dal noise, poi dall’IDM e dall’ambient-drone. È un grande appassionato di sintetizzatori, che colleziona ed utilizza in ogni suo pezzo, insieme ad altri strumenti meno convenzionali ed a parti di piano. La sua attività live comprende 4 performance differenti che propone a seconda dell’evento, dall’esecuzione delle sue composizioni, all’improvvisazione, al concerto di piano, al djset con parti di synth.
Analog synths, noise, kick drums. A solo project that looks straight to the future, always looking for new sounds sources. Piano composer since he was a child, Valerio Visconti creates and compones electronic music from almost 10 years. In this period he went through different genres, always maintaining his own sound identity, characterized by deep, rough, mechanical sounds, inspired first from industrial and noise, then fromIDM and ambient-drone. He’s a big fan of synthesizers, which collects and uses in every piece, along with other less conventional instruments and piano parts. His live activity includes 4 different performances depending from the event: execution of his own composition, electronic improvisation, solo piano concert, djset with synth parts.
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Valerio Visconti, Only Machines Live, 2016
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GIOVANNA ELIANTONIO VOIG Camouflage e altre menzogne
Amo ciò che non vedo.
I love what I do not see.
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Giovanna Eliantonio Voig, Camouflage e altre menzogne, 2016, pellicola, digitale, dimensioni variabili
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VIOLETA VOLLMER Running wild
La vita è un dramma ognuno partecipa sia come spettatore sia come un attore. Essere un attore! Essere un performer! Spinta dagli effetti della globalizzazione, vivendo e lavorando in diversi stati su tre continenti ed essere un immigrato, Io investigo i miei trasformazioni e la varietà di materiali e tecniche (fotografia, pittura, video arte) per poter esprimermi. “Running wild”. Questa serie fotografica è stata scattata nel deserto del Namib come una parte dei miei sforzi di decostruire le mutevoli realtà intorno a me, afferrando icone globali, per poter creare la mia propria narrativa basata su segmenti del subconscio collettivo mondiale - trasformando così i ricordi del mio passato in un mito personale in un altra identità immaginaria.
Life is a drama everybody participates in either as a spectator or an actor. Be an actor! Be a performer! Driven by the effects of globalization, living and working in various states on three continents and being a migrant herself, I investigate myself, my transformations and a variety of materials and techniques (photography, painting, video art) to express myself. “Running wild“. This photoseries was taken in the Namib desert as a part of my efforts to deconstruct the changing realities around me by grapping global icons to create my on narrative based on segments of the collective global subconscious - thus transforming memories of my past into a very personal myth of an other fictional identity.
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Altre forme di identitĂ culturali e pubbliche
Violeta Vollmeir, Running Wild, 2016, stampa fotografia digitale su tela vinilica, 378x720 cm
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NOTE BIOGRAFICHE | BIOGRAPHICAL NOTES
Altre forme di identità culturali e pubbliche
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NOTE BIOGRAFICHE | BIOGRAPHICAL NOTES Alessandro Amaducci http://www.alessandroamaducci.net Nasce a Torino e si laurea con una tesi sulla videoarte. Ha collaborato con il Centro Arti Visive Archimede di Torino, realizzando corsi di video. Ha svolto l’attività di docente di video per alcuni corsi di formazione finanziati dalla CEE, per l’Istituto Europeo di Design di Milano e attualmente insegna presso il DAMS di Torino. Ha alternato la sua attività artistica fra fumetti, fotografia, teatro e musica. Ha collaborato con l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, realizzando documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, sulla Resistenza e sulle lotte operaie. Ha collaborato al Teatro Juvarra di Torino per la realizzazione di alcuni spettacoli multimediali. Attualmente realizza video di videoarte, videoinstallazioni, documentari, videoclip, spettacoli multimediali e vjing, curando in parte anche gli aspetti musicali. Realizza anche fotografie digitali. Born in Torino (Italy) in 1967. He worked with the Archimedes Centre of Visual Arts (a cultural centre of a District in Torino), were he held workshops on video, with the National Film Archives of Resistence (Torino), where he realized documentaries about the Second World War, the Resistance, about workers struggle and other subjects relevant to the activity of the Archive, and with Theater Juvarra in Torino in the realization of multimedia shows and videoperformances. He is also professor of video language and practice in DAMS, University of Torino. He wrote several books about videoart; video technics and aesthetics of electronic arts. Since 1989 he realizes experimental videos, music videos, videoinstallations, multimedia shows, videoscenographies for dance performances and digital photographies.
Francesco Arena http://www.francescoarena.it/ Nasce a Genova dove vive e lavora; dopo il liceo artistico e durante la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti, si avvicina alla fotografia e nel 1985 decide che quello sarà il mezzo privilegiato nel suo lavoro per l’estrema aderenza alla realtà, (almeno in apparenza) e il suo potenziale espressivo immediato. Opera da anni nel campo dell’arte realizzando progetti anche site specific; oltre a serie fotografiche e polaroid, struttura installazioni che interagiscono con l’utilizzo di oggetti quotidiani, fotografie e video proiezioni. Tra il 1990 e 92 è tra i fondatori di “Arte Come Evocazione”, gruppo di lavoro creato intorno all’artista fluxus Claudio Costa e a cura di Miriam Cristaldi dove realizza istallazioni in spazi decontestualizzati e fortemente emotivi decifrandone tracce evocative; dal 1992 al 1995 nasce “ACE”, sua naturale evoluzione, un’attività artistica di gruppo parallela a quella individuale, che ha per scopo l’estensione territoriale del sistema dell’arte sviluppando progetti in collaborazione con artisti, professionisti e istituzioni. Nel febbraio del 2004 realizza insieme con il compositore newyorchese William Basinski il progetto “ANATOMY OF MELANCHOLY”, un concerto e un’installazione video/fotografica in anteprima nazionale presentata al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova a cura dello stesso Francesco Arena; produce un video “Circular Bodies” e fa seguire all’evento sei personali in altrettante gallerie genovesi con testi in catalogo di Elisabetta Rota e Federica Pinna. Costituisce nel 2005 il
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progetto multimediale intitolato “AMC” (ARENA M-EATS CORPICRUDI); una serie di produzioni video / fotografiche / installative / performative in relazione all’indagine comportamentale del corpo e delle sue azioni; presentato in gallerie e fiere di arte contemporanea in Italia e all’estero. Nel 2007/08 struttura “RESPIRI-BREATH”, un concept nato dall’omonima produzione video avviata nel 2004; Il progetto presenta una line-up di musicisti internazionali realizzando dal 2004 al 2008 una serie di 23 video con altrettanti protagonisti e colonne sonore inedite. RESPIRI/ BREATHS sarà presentato come lavoro site specific in diverse location e contesti, dalle gallerie d’arte ai teatri, dai festival ai concerti, per sottolineare il suo aspetto trasversale e multimediale; per ogni uscita è stato presentato un testo critico inedito. Dal 2013 avvia un progetto work in progres, diretta conseguenza delle ricerche precedenti: “EXTRA ORDINARY POPLE” composto da una rassegna di opere dove lavora concentrandosi sui concetto dell’identità; verosimiglianza dei soggetti rappresentati, (sia fisici che oggettuali) sull’autorappresentazione del se. He was born in Genova where he still lives and work - after his high school arts diploma and attending Belle Arti Academy, he starts focusing on photography and extreme adhesion to realism ( at least apparently) as his favourite way of expressing himself. He has been working for years within the arts world, both realizing site specific projects than polaroid photography series, also curating installations that interacts with day to day life objects and video projections. He is one of the founders of “ Arte Come Evocazione” between 1990 and 1992, together with Claudio Costa and Miriam Cristaldi - a focus work group about fluxus art where he contributes to realize installations in decontexualized spaces that highlight the highly emotional nature of his work. In between 1992 and 1995 he contributes to fund ACE, the natural extension of the previous work, that aims to extend it within the territory by developing several projects in collaboration with artists and institutions. In February 2004 he launches the project “ ANATOMY OF MELANCOLY” together with the the New York composer William Basinski - the project consists of a video/photographic installation presented as exclusive national preview at the Contemporary Art Museum in Villa Croce, Genoa, and curated by Francesco himself; he produces the video “Circular Bodies” which is then followed by a series of six personal exhibits in six different art galleries in Genova, accompanied by catalogues by Elisabetta Rota and Federica Pinna. He is also the fou der of “AMC (ARENA M-EATS CORPICRUDI) multimedia project: a series of dedicated video/photographic/installation productions exhibited at several art galleries and contemporary art fairs. This body of work focuses on a behavioral investigation around the human body and its actions, again presented at many national and international art galleries and fairs. In 2007/8 he works on RESPIRI-BREATH; a concept born out of the same production first started in 2004. This project presents a line-up of international musicians that come together and realize, in between 2004 and 2008, a series composed by 23 videos with 23 different protagonists and original soundtracks RESPIRI/ BREATHS will also be exhibited as a site-specific project within several locations and context, going from art galleries to theaters, to concerts, to highlight the cross and multimedia nature of the project itself - also a critical text accompanies every video presented. Starting from 2013 he starts another work in progress project, which is a direct consequence of his previous experiences: EXTRA ORDINARY PEOPLE” is a work review focused on the concept of “identity”, likelihood of represented subjects and self -representation. In 2015 he is invited by Luciano Benetton to take part to Imago Mundi project, within the Italian section curated by Luca Beatrice, followed by the publication of Praestigium Itala II - contemporary artists from Italy, Fabrica editions As a curator, he has been working on OTHER IDENTITY since 2016, a collective exhibition taking place every 2 years in Genova, sponsored by Regione Liguria and in collaboration with Comune di Genova - Museums and Libraries section - Genova Goethe Institute and Guidi&Schoen art gallery. This latest projects aims to represent all changes taking part within the photographic language code when focusing on new narrative forms of self expression.
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Carlo Buzzi http://www.carlobuzzi.it/ Carlo Buzzi è un artista italiano, conosciuto per i suoi interventi di public art nel contesto urbano. Carlo Buzzi si serve degli strumenti propri della comunicazione pubblicitaria. Opera interventi che coinvolgono il contesto urbano. Normalmente utilizza il comune poster tipografico. Un significativo numero di manifesti viene esposto in pubblica affissione. L’operazione è documentata fotograficamente. Il lavoro sarà in seguito formalizzato grazie alla produzione di un numero limitato di “quadri” (riproduzioni fotografiche, manifesti “strappati”). Carlo Buzzi ha realizzato la prima opera-operazione “pubblica” nel 1990 in collaborazione con il gallerista Luciano Inga-Pin di Milano. Si trattava di una pagina di pubblicità acquistata sulla rivista Flash Art. L’inserzione riproduceva centralmente un comune scopino da bagno, nella parte superiore la scritta “PICASSO”, nella parte inferiore la didascalia “orario 20-22”. Nel 1991 un soggetto simile fu esposto a Milano su manifesto tramite pubblica affissione, canale espressivo in seguito privilegiato dall’artista. Costruzione formale (la simulazione di “finto evento”) e prassi (esposizione con tasse regolarmente pagate, mai abusiva) indicano l’intenzione di introdursi nel sistema della comunicazione pubblica in “punta di piedi”, contrapponendosi ad esperienze artistiche espresse nel medesimo contesto – contemporanee o appartenenti ad un recente passato – connotate da impronte ideologiche. Dalla riproposizione del tema Picasso/scovolino/mostra d’arte artefatta, ad altri “provocatori” e improbabili incontri (Van Gogh con una grattugia), Buzzi esplora il dualismo arte/pubblicità in reali, e nello stesso tempo fittizie, campagne pubblicitarie. Nel 1994 realizza un manifesto che lo riproduce semplicemente ritratto di schiena, il primo privo di alcun altro indizio. Carlo Buzzi is an Italian artist, known for his work in the urban context. He uses the tools of advertising. Normally he works on interventions involving the urban context, using the common typographic poster. A significant number of posters is exposed in public posting. The procedure is then documented photographically. The work is then formalized through the production of a limited number of “pictures”. Carlo Buzzi made the first “public” operation in 1990, in collaboration with gallery owner Luciano Inga-Pin in Milan. It involved the purchase of a page on the magazine Flash Art. This page showed the image of an ordinary toilet brush, with the word “PICASSO” on the top and the writing “20-22 hours” at the bottom of it. In 1991, the same subject was published in the streets of Milan on a poster, with a regular posting. Formal construction (simulation of “fake event”) and praxis (exposure with regularly paid taxes, never abusive) indicate the desire of the artist to break into the public arena in “tiptoe”, as opposed to the ideological connotations that characterize some contemporary or slightly previous works, made in the same sphere by others artists. Later on, due to a gradual “appropriation” of the media used by the artist, a more radical form of communication has been developed. In 1994, a poster with the presence of a single simple image reproducing his back to a halflength with no writing on it appeared. The artist never decides to expose only a few copies of the posters, since his aim is to show his work to the whole city (or to some limited areas, when operating in very big urban centers). Between content (in reference to what he shows in the posters) and praxis (aim for artistic action – or part of it – outside of the traditional “withe cube”), it is much more important for him – and crucial
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Mandra Stella Cerrone www.mandracerrone.com Fare luce è il mio mestiere, e di questo sorrido. Nelle mie performance di arte relazionale e terapeutica, propongo azioni poetiche per superare la percezione parziale che abbiamo di noi stessi. E così che con altre sei donne abbiamo lavato 15.000 euro in contanti in un lavatoio pubblico. Ho messo in scena, analizzato e sofferto le mie relazioni familiari. Ho dato questa stessa possibilità alle persone del pubblico che da oltre 10 anni, con performance e workshop, rmettono in scena i loro legami familiari con dei tableaux vivant. Suggerisco di assimilare un’assenzamancanza mangiandone l’immagine stampata su un’ostia. Raccolgo lettere di raccomandazione presso Amore, e poi la vita, la morte, il battito del cuore, la religione, il bianco, il nero, l’oro, questi i miei elementi ricorrenti. Gli strumenti che uso quotidianamente, in performance pubbliche o private, sono quelli che ho appreso e sperimentato su di me negli anni, la metagenealogia, la psicomagia, il biodramma, la mirror therapy, la fotografia terapeutica, la terapia verbale, le costellazioni familiari. La sintesi di ciò che ho appreso è tutta nel mio lavoro. La mia vita è il nutrimento della mia arte. La mia arte vuole modellare l’invisibile lavorando su quello che di visibile siamo. My intent is to clarify even if I smile about it. In my performances of relational and therapeutic art I propose poetic actions to go beyond the partial perception we have of ourselves. So, with the help of six women, I washed 15000 euros in a wash house. I staged and analized my family relationships. For ten years the persons present at these exhibitions have created tableaux vivent of their family relationships in self-knowledge workshops. I suggest to assimilate an absence eating its image printed on host of pastry. I ask recommendation letters sent to Love. Life, death, heartbeat, religion, white, black and gold are my recurrent themes. The tools, I use daily, are those learned and experimented on myself in years: psychogenealogy, psychomagic, biodramma, mirror therapy, phototherapy, verbal therapy, family constellations. My art is a synthesis of all this. My life feeds my art. My art tries to shape the invisible, working on the visible part of us..
Roberta Demeglio http://www.robertademeglio.com/ Fotografa professionista attiva sul territorio italiano ed estero; affianca al suo lavoro ad una ricerca artistica che porta avanti da anni lavorando prevalentemente in bianco e nero; immagini spesso evocative e potenti, ritratti scaturiti dalle proprie paure e fobie; elementi come il buio, la notte, l’acqua, le plastiche, trovano spesso una collocazione nelle sue potenti immagini; bianco e nero ma di una sostanza densa, come se la superficie fotografica si facesse anch’essa corpo, con la sua grana, fondendosi coi corpi trattati. Professional photographer active in Italy and abroad; she flanks to her work an artistic research she carries on through the years shooting mostly in black and white; pictures often powerful and evocative, portraits spewed from her own fears and phobies; elements like darkness, night, water, plastics, often find a setting in her powerful images; black and white but made of a dense substance, as the photographic surface would itself become body, with its grain fusing with the bodies handled.
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Boris Eldagsen http://www.eldagsen.com Boris Eldagsen - Artista tedesco con sede a Berlino, ha studiato fotografia, arte concettuale e arte intermedia presso l’Accademia di Belle Arti a Mainz (Germania), Praga (Repubblica Ceca) e Hyderabad (India). Inoltre ha studiato filosofia presso l’Università di Colonia e Magonza. Nell 2013 ha partecipato a un “Roger Ballen Masterclass”. Il suo lavoro di foto - media è stato esibito a livello internazionale nelle istituzioni e festival tra cui Deichtorhallen di Amburgo, PCC Melbourne, Sydney ACP, EMAF Osnabrück, Videonale Bonn, Edinburgh Art Festival, Encontros da Imagem di Braga, Noorderlicht Fotofestival Groningen, Photolux Biennale Lucca, Atene Video Art Festival, media Forum di Mosca, WRO media Art Biennale di Wroclaw, Biennale di Le Havre e la Biennale di Electronic Arts Perth. Boris ha tenuto conferenze presso la AkademiefürBildendeKünstein Mainz, Hochschule Furtwangen, Victorian College of Arts / Università di Melbourne, Fotografia Studi Università di Melbourne, RMIT University di Melbourne e Monash University di Melbourne. Dal 2014 Boris è un membro della Deutsche Akademie Fotografische. Berlin-based German artist Boris Eldagsen studied photography, conceptual and intermediate arts at the Art Academies of Mainz (Germany), Prague (Czech Republic)and Hyderabad (India). In addition, he studied philosophy at the Universities of Cologne and Mainz. 2013, he participated in a Roger BallenMasterclass. His photomedia work has been shown internationally in institutions and festivals including Deichtorhallen Hamburg, CCP Melbourne, ACP Sydney, EMAF Osnabrück, Videonale Bonn, Edinburgh Art Festival, Encontros da Imagem Braga, NoorderlichtPhotofestivalGroningen, PhotoluxBiennale Lucca, Athens Video Art Festival, Media Forum Moscow, WRO Media Art Biennale Wroclaw, Biennale Le Havre and Biennale of Electronic Arts Perth. Boris has lectured at the AkademiefürBildendeKünste Mainz, HochschuleFurtwangen,Victorian College of the Arts / University Melbourne, Photography Studies College Melbourne, RMIT University Melbourne and Monash University Melbourne. Since 2014, Boris is a member of Deutsche FotografischeAkademi
Anna Fabroni https:// annafabroni.com http://annafabroni.tumblr.com Nata a Sora si è trasferito in Molise nel 1980, dove vive. A diciotto anni si trasferisce a Roma, dove frequenta, senza mai finire, l’università di lettere e lavora come modella. Durante un servizio fotografico conosce il fotografo che le regalerà la prima macchina fotografica (un f2 nikon), e con la quale quale inizia il suo primo racconto : Costole, una raccolta di autoritratti sull’anoressia. Costole vince un premio all’interno del portafoglio in piazza di Savignano, e con la collaborazione del Denis Curti, diventare un libro edito da Wea. Anna Fabroni espone le sue foto in mostre personali e collettive, seguita da Fabrizio Boggiano. Ha scritto su diverse riviste e libri di psicologia sulla visione del suo corpo soggetto alla sfera emotiva. tiene workshop sull’autoritratto terapeutico quando fotografia e scrittura. Born in Sora he moved to Molise about 1980 where she lives. At eighteen she moved to Rome, where he attended the Literature university never finished and works as model. Right on a photo shoot knows the photographer who will give her the first camera( a nikon f2) and with which starts Her first story: Ribs, about anorexia A collection of selfportraits. Ribs wins a prize within the Savignano portfolio, and with the Denis Curti’s collaboration, her work,
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become a book published by Wea, Anna Fabroni exhibited her photos in solo and group exhibitions, followed by Fabrizio Boggiano. she wrote in psychology magazine and books about the vision of his body subject to the emotional sphere. she does workshop about selfportrait therapy, using photography and writing
Isabella Falbo http://www.isabellafalbo.it/ Nata a Fidenza (Parma). Vive attualmente a Bologna. Dal 2001 Isabella Falbo opera nel settore dell’arte contemporanea come critico e curatore di mostre, eventi performativi e pubblicazioni. Si occupa prevalentemente della valorizzazione di artisti sperimentali e di ricerca, il suo approccio curatoriale è orientato alle esperienze artistiche ed estetiche che prevedono dialoghi tra le diverse discipline, con particolare riguardo ai rapporti tra Arte, Moda e Profumeria artistica.In questi ultimi anni ha privilegiato collaborazioni istituzionali realizzando mostre e progetti di Critica Performativa per musei, gallerie ed enti culturali fra cui il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna; EXPO, Milano; Galleria d’Arte Moderna A. Bonzagni di Cento, Ferrara;Palazzo Ducale and Galleria degli Antichi, Sabbioneta, Mantova. Conduce attività pubblica di conferenziere e collabora con riviste di arte contemporanea fra cui “Espoarte” e “Titolo”.Nel 2011 insegna al Polimoda International Fashion Design & Marketing di Firenze, dove tiene i corsi Contemporary fashion, Contemporary art e Fashion history. Nello stesso anno è visiting curator a Copenhagen, dove nell’ambito del The Danish Arts Council’s Research Programme porta avanti attività di ricerca sulla scena artistica contemporanea danese.Nell’anno accademico 2011-2012 presta opera intellettuale all’Accademia di Belle Arti di Bologna come docente esterna di Tecniche performative per le arti visive. Since 2001 Isabella Falbo works within the field of contemporary art as critic and curator of exhibitions, performing events and publications. Her main interest is concerned with enhancing emerging and experimental artists. Her studies and her curatorial approach are mainly focused on the relationship between arts, fashion and artistic perfumery. Currently Isabella Falbo conducts public lecturer and collaborates with the scientific and cultural magazines of contemporary art “Titolo”, “Espoarte”. In recent years she has favoured institutional collaborationsaccomplishing major curatorial projects for museums and cultural institutions among which Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna; EXPO, Milan;the Public Gallery of Modern Art A. Bonzagni of Cento (Ferrara); Palazzo Ducale and Galleria degli Antichi, Sabbioneta (Mantua). In 2011 Isabella Falbo was teacher at Polimoda International Institute of Fashion Design & Marketing, Florence, where she taught for master courses of Contemporary Fashion, Fashion History and Contemporary Art History.As part of The Danish Arts Council’s Research Programme, in November 2011 she was visiting curator in Copenhagen to pursue research on Danish contemporary art scene.In 2012 Isabella Falbo worked at the Academy of Fine Arts in Bologna as a teacher of Performance Techniques for visual arts.
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Pamela Fantinato http://pamelafantinato.tumblr.com/ Sono nata a Venezia. Ho una laurea in Lettere ad indirizzo Arti dello Spettacolo sepolta dentro qualche cassetto polveroso. Vivo e lavoro a Venezia. Ho studiato fotografia con autori come Joakim Eskildsen, Machiel Botman, Todd Hido, Mads Greve. Fotografo il mio corpo, il mio io, metto a nudo la mia anima lasciandomi andare alle emozioni. Le mie immagini sono come me... indefinite, etere... le guardi e se non le catturi dopo un po’ scompaiono. I was born in Venice. I have a degree in Letters that was buried in some dusty drawer. I live and work in Venice. I studied photography with authors such as Joakim Eskildsen, Machiel Botman, Todd Hido, Mads Greve. I take pictures of my body, myself, I bare my soul and I let me go to the emotions. My pictures are like me... indefinite, ethereal...you look at them and if you do not capture after a while they disappear.
Massimo Festi http://www.massimofesti.com/ Massimo Festi vive a Ferrara. Diplomato nel 1998 all’Accademia di Belle Arti di Bologna con il teorico di mutazioni legate ai linguaggi visivi Francesca Alfano Miglietti (FAM). Hanno scritto del suo lavoro: Gianluca Marziani, Luca Beatrice, Lorenzo Canova, Isabella Falbo, Francesca Baboni, Micol Di Veroli, Roberta Vanali, Federica Mariani, Valerio Dehò, Sabrina Raffaghello. Massimo Festi lives in Ferrara.He graduated in 1998 at the Academy of Fine Arts in Bologna with Francesca Alfano Miglietti (FAM). Massimo Festi’s exhibitions have been curated by Gianluca Marziani, Luca Beatrice, Lorenzo Canova, Isabella Falbo, Francesca Baboni, Micol Di Veroli, Roberta Vanali, Federica Mariani, Valerio Dehò, Sabrina Raffaghello.
Teye Gerbracht http://teyegerbracht.de/ Teye Gerbracht, è nato a Remscheid, vicino a Düsseldorf è; è un artista tedesco che ha concentrato il proprio lavoro sull’utilizzo del mezzo fotografico. Recentemente ha studiato Belle Arti presso la Kunstakademie di Düsseldorf con il Prof Martin Gostner. Brachts. Il suo lavoro è stato esposto in ETC Colonia, Kunstsammlung NRW e presenti in diverse riviste e pubblicazioni on-line. Teye Gerbracht, born in Remscheid near Düsseldorf is a german Artist whos work concentrate on photography. He recently studies fine arts at the Kunstakademie Düsseldorf with Prof Martin Gostner. Ger- brachts work was exhibited at ETC Cologne, Kunstsammlung NRW and featured in various magazines and online publications.
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Teye Gerbracht, born in Remscheid near Düsseldorf is a german Artist whos work concentrate on photography. He recently studies fine arts at the Kunstakademie Düsseldorf with Prof Martin Gostner. Ger- brachts work was exhibited at ETC Cologne, Kunstsammlung NRW and featured in various magazines and online publications. Teye Gerbracht, è nato 1988 a Remscheid, vicino a Düsseldorf è; è un artista tedesco che ha concentrato il proprio lavoro sull’utilizzo del mezzo fotografico. Recentemente ha studiato Belle Arti presso la Kunstakademie di Düsseldorf con il Prof Martin Gostner. Brachts. Il suo lavoro è stato esposto in ETC Colonia, Kunstsammlung NRW e presenti in diverse riviste e pubblicazioni on-line.
Barbara Ghiringhelli www.flickr.com/photos/28389487@N03/ Barbara Ghiringhelli è nata a Udine. Arriva a Milano nel 1979. Studia storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano dove si laurea nel 1998 con una tesi comparata in Storia dell’Arte Moderna e Letteratura Inglese sull’iconografia della donna nell’arte vittoriana dei Pre-Raffaelliti. Dopo la laurea parte per fare un dottorato sul pittore americano John Singer Sargent alla University of Reading in Inghilterra. Rimane a Reading per tredici anni, lavorando come libraia e traduttrice, partecipando al collettivo locale di artisti Jelly. Nel 2012 ritorna a Milano ed inizia a occuparsi di fotografia, scrittura ed arti applicate, che compongono anche il corpo della mostra personale dal titolo “Ricama sette sogni e un incubo” tenutasi alla Libreria Gogol di Milano in Ottobre 2013. Lavora principalmente con l’autoritratto per creare narrazioni a più livelli, combinando fotografia, scrittura, disegno e arti applicate. Barbara Ghiringhelli was born in Udine. She moved to Milan in 1979. She studied art history at the University of Milan where she graduated in 1998 with a comparative thesis on Modern Art History and English Literature on the iconography of women in Victorian art and the Pre-raphaelites. She went on to study for a PhD on the American painter John Singer Sargent at the University of Reading in England. She remained in Reading for thirteen years, working as a librarian and a translator, participating in the local collective of artists, Jelly. In 2012, she returned to Milan and began to work with photography, writing and applied arts, which also made up the body of her solo exhibition called “Embroider seven dreams and one nightmare” that was held at Libreria Gogol bookshop in Milan in October 2013. She works primarily with self-portraiture to create multi-level narratives, combining photography, writing, drawing and applied arts.
Olivia Giovannini / Modus Olivia Giovannini www.oliviagiovannini.net Attraverso l’interesse per un’indagine compositiva che mette la danza a stretto contatto con il luogo e il tempo d’intervento performativo, Olivia Giovannini sperimenta, fin dal 2001, collaborazioni con artisti provenienti dall’ambito della musica e dell’arte contemporanea. Grazie a questa rete di incontri, che unisce differenti specificità umane ed artistiche utili per spostare i principi creativi della ricerca corporea su più linee d’azione e muovere lo sguardo verso un territorio organizzato per maglie larghe e permeabili, O. Giovannini crea spettacoli in ambito teatrale, performance urbane e installazioni site-specific ed è presente in diversi festival ed eventi di arti performative del territorio nazionale.
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O Giovannini fa parte della ReteDanzaContempoLigure - www.danzacontempoligure.org O. Giovannini è stata ospite di: Festival Teatri di Vetro, Festival AttraversamentiMultipli, Rialto Sant’Ambrogio (Roma), Festival Interplay (Torino), Festival Ammutinamenti, Festival Lavori in pelle (Ravenna), Festival Santarcangelo dei Teatri-Immensa (Santarcangelo di Romagna), Teatro Kismet Opera (Bari), Teatro TaTA’ (Taranto), Gender Bender Festival (Bologna), Fucina Off (Spoleto), Teatro della Tosse, Teatro dell’Archivolto, La Claque in Agorà, Corpi Urbani-Urban Bodies, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Contemporart Ospitale d’Arte Villa Piaggio, Galata Museo del Mare, La Commenda di Prè (Genova). Principali produzioni: supersolo - 2006, progetto # - 2006/2012, Funk’n FUCK - 2009, P.P-P.4.2 - 2007/2015, AH23 - 2009/2013, AVIDVOID proj. - 2011, FunnyGames - 2011/2013, SOUNDTRACK - 2013, on HER own 2013/2015, Love/Unlove - 2014/2015, BodyCaking [BELLADONNA] - 2015 P.P-P. 4.2 e AH23 sono progetti selezionati per il circuito Anticorpi eXpLo 2009/2010 – primo network indipendente italiano dedicato alla giovane danza d’autore e per il Festival delle arti sceniche contemporanee TDV 2008 e 2010 (Roma). Principali collaborazioni artistiche: arte contemporanea: Francesco Arena©, Cristiano Baricelli, Opiemme, RedCarpetCakeDesign® nuovi media, video: Alpha Version, Pasquale Direse-medialize.it, Luca Serra musica: Modus, Massimiliano Rolff, Emilio Pozzolini danza/teatro: Marina Giardina, Davide Francesca Through the interest to put dance and bodies in close contact with the place and time of the performative intervention, Olivia Giovannini experiences, since 2001, collaborations with artists from dance, corporal research, video art, electronic music, photography, graphics as well as costume and light design. This network of meetings leads to gather expertise and experiences of people with different artistic and professional backgrounds and to move creative principles on multiple lines of action. O. Giovannini works on dance performances and installations, taking part in the main national performing arts festivals and events. O. Giovannini is a member of the Danzacontempoligure Network - www.danzacontempoligure.org O. Giovannini was a guest of: Festival Teatri di Vetro, Festival AttraversamentiMultipli, Rialto Sant’Ambrogio (Roma), Festival Interplay (Torino), Festival Ammutinamenti, Festival Lavori in pelle (Ravenna), Festival Santarcangelo dei Teatri-Immensa (Santarcangelo di Romagna), Teatro Kismet Opera (Bari), Teatro TaTA’ (Taranto), Gender Bender Festival (Bologna), Fucina Off (Spoleto), Teatro della Tosse, Teatro dell’Archivolto, La Claque in Agorà, Corpi UrbaniUrban Bodies, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Contemporart Ospitale d’Arte Villa Piaggio, Galata Museo del Mare, La Commenda di Prè (Genova). Main productions: supersolo - 2006, progetto # - 2006/2012, Funk’n FUCK - 2009, P.P-P.4.2 - 2007/2014, AH23 - 2009/2013, AVIDVOID proj. - 2011, FunnyGames - 2011/2013, SOUNDTRACK - 2013, on HER own - 2013/2015, Love/Unlove - 2014/2015, BodyCaking [BELLADONNA] - 2015 P.P-P. 4.2 and AH23 are selected projects for Anticorpi eXpLo 2009/2010 – the first Italian independent network dedicated to young authorial dance. Main artistic collaborations: contemporary art: Francesco Arena©, Cristiano Baricelli, Opiemme, RedCarpetCakeDesign® new media, video: Alpha Version, Pasquale Direse-medialize.it, Luca Serra music: Modus, Massimiliano Rolff, Emilio Pozzolini contemporary dance/theatre: Marina Giardina, Davide Francesca
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Modus www.soundcloud.com/modusperiod www.facebook.com/modus.electronic Fra techno e natura, casualita e sequencer, ritmi decisi e voci parlate! Questo è sostanzialmente MODUS (Massimo Pegoraro) classe 1981 da sempre dedito alla ricerca ed allo studio in ambito musicologico. Gia membro del collettivo genovese Wo Land capitanato dall’amico Mass Prod, la sua musica si muove tra differenti forme e stili, incentrati in una sorte di elettronica sacrale ed estremamente narrativa. L’amore per gli strumenti elettronici e la curiosita nello scoprire nuovi mondi compositivi sono le fondamenta del suo percorso sonoro che vuole riprodurre in ogni performance. Techno and nature, randomness and sequencers, straight rhythms and spoken words! This is MODUS (Massimo Pegoraro) b.1981, he has always been dedicated to the search, study and experimentation about musicology. Leading member of genoa based collective Wo Land, headed by his friend Mass Prod, the music moves over different forms and styles, focused around a kind of sacral-highly-narrative electronic. Love and curiosity about synthesizers and composition are two essential features of the sound path Modus wants to propose in every performance.
Anna Guillot www.annaguillot.eu Anna Guillot nasce a Pisa, vive in Sicilia alternando soggiorni a Berlino. È professore presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Impegnata in ambiti linguistici intermediali e sinestetici, negli anni ‘80/00, ha collaborato con protagonisti della Poesia concreta, visiva, fonetica e con gruppi italiani della neoavanguardia verbo-visiva. Più recentemente l’interesse al crossover linguistico e multimediale nel campo del libro confluisce nel suo KoobookArchive/Lab_KA, l’archivio-laboratorio del libro d’artista ideato nel 2007. È stata redattore di riviste specializzate ed è collaboratore di “Arte e Critica”. Tematica costante della ricerca foto-grafica di Anna Guillot è l’identità, a iniziare dall’entità singola del proprio nome, passando al Selbsted estesa ai luoghi, ovvero attraversata da connotazioni psicologico-ludiche ma anche prossemico-antropologiche. Selezione mostre recenti: 2015: Mémoires [en hommage à Georges Perec, Chiesa Madonna del Pozzo, Spoleto, testo Luciana Rogozinski; Anatomies, Palazzo Manganelli, Catania. 2014: The London Art Book Fair, Whitechapel Gallery, London; The Way Things Go. Etc., Oratorio San Mercurio, Palermo; In Series, Palazzo della Cultura, Catania / Biblioteca comunale, Spoleto / RARE Office, Berlin, testo Roberto Lambarelli. 2013: EGO, Fotogalerie Friedrichshain, Berlin, cura Oliver S. Scholten; Intro. Dialogo tra luoghi, Oratorio San Lorenzo, Palermo. 2012: Ma nessuno mai! Verso nuove forme di contaminazione mediale, Palazzo Natta, Como, cura Gabriele Perretta; Vingt-quatre voyageurs en quête d’île, Librairie A Balzac A Rodin, Paris, cura Sarah Klingemann; Künstlerbücher aus Koobookarchive, RARE Office, Berlin, testo Gisela Weimann. Anna Guillot born in Pisa (I), lives and works in Catania and Berlin. She teaches at the Academy of Fine Arts of Catania. Active in linguistic, intermedial and synesthetic contexts, in the 1980s and 2000s she worked with leading figures of concrete, visual and phonetic poetry and of the neo-avantgarde and with spoken-visual word research groups. More recently, her interests in technological research applied to the artist’s book/object have merged together in the project KoobookArchive/Lab_KA, an archive-experimental workshop on the artist’s book created in 2007. She has edited specialist journals and collaborated with “Arte e Critica”.
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A constant theme in the photo-graphic research of Anna Guillot is identity, beginning with the single entity of her own name, moving then into the Selbst and extending to places, namely those imbibed with psychological–ludic and also proxemics–anthropological connotations. Selected recent exhibitions: 2015: Mémoires [en hommage à Georges Perec, Chiesa Madonna del Pozzo, Spoleto, text Luciana Rogozinski; Anatomies, Palazzo Manganelli, Catania. 2014: The London Art Book Fair, Whitechapel Gallery, London; The Way Things Go. Etc., Oratorio San Mercurio, Palermo; In Series, Palazzo della Cultura, Catania / Biblioteca comunale, Spoleto / RARE Office, Berlin, text Roberto Lambarelli. 2013: EGO, Fotogalerie Friedrichshain, Berlin, curator Oliver S. Scholten; Intro. Dialogo tra luoghi, Oratorio San Lorenzo, Palermo. 2012: Ma nessuno mai! Verso nuove forme di contaminazione mediale, Palazzo Natta, Como, curator Gabriele Perretta; Vingt-quatre voyageurs en quête d’île, Librairie A Balzac A Rodin, Paris, curator Sarah Klingemann; Künstlerbücher aus Koobookarchive, RARE Office, Berlin, text Gisela Weimann.
Teresa Imbriani http://teresaimbriani.wix.com/teresaimbriani Teresa Imbriani è nata nel Salento, vive e lavora a Bari. Autodidatta, dopo essersi interessata alla pittura in età giovanile, da alcuni anni si dedica alla fotografia, prima con un cellulare e ora con una macchina fotografica. Esperienza molto forte e intensa, diretta all’inizio soprattutto verso l’esterno, verso la strada, la gente, il mondo, per avvicinarsi poi a un’altra ricerca più intima, mediante l’autoscatto. Teresa Imbriani, born in Salento, lives and works in Bari. Self-taught, she become interested in painting in young age and in the last few years she has devoted her self to photography. She started taking photographs with a cell phone and lately with a photo camera. A strong and intense experience, in the beginning focused on the exterior, towards the street, the people, the world, and then for a more intimate approach with the use of the self-timer.
Sebastian Klug www.sebastianklug.com Sebastian Klug è un fotografo tedesco con sede a Berlino. Ha iniziato utilizzando la fotografia durante gli studi di architettura e dal 2008 ha esposto ampiamente. Il suo lavoro è stato esposto come Highlight al Mese Europeo della Fotografia Festival di Berlino nel 2010 e attraverso sedi in diverse città, tra cui Udine, Cottbus, Venezia, Amsterdam, Londra, Helsinki, Copenhagen, e Oklahoma. Utilizzando un telefono cellulare Nokia 6300 a bassi livelli di luce, Klug crea un diario visivo atmosferico che mescola la grana/pixel, il rumore e strani colori delle immagini del suo telefono, con quella dei suoi incontri notturni. La gente che fotografa fluttuano come fantasmi, lasciando piccole tracce della loro esistenza nel loro cammino attraverso la notte.
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Sebastian Klug is a German photographer based in Berlin. He started using photography whilst studying architecture and since 2008 has exhibited widely. His work has been shown as a Highlight at the European Month of Photography Festival in Berlin during 2010 and across venues in various cities including Udine, Cottbus,Venice, Amsterdam, London, Helsinki, Copenhagen, and Oklahoma. Using a Nokia 6300 mobile phone at low light levels, Klug creates an atmospheric visual diary that mixes the grain, noise and strange colours of his phone’s pictures, with that of his nocturnal encounters. The people he photographs float like ghosts, leaving small traces of their existence as they journey through the night.
Nataša Ruzica Korošec www.natasakorosec.it Nata in Croazia. Vive e lavora a Brescia. Artista, educatrice alla creatività ed esperta in marketing. Diplomata in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia Santa Giulia consegue il Master in Marketing per le imprese di arte e spettacolo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. L’intero percorso creativo di Nataša si caratterizza per due aspetti fondamentali: l’utilizzo di tutti i linguaggi creativi, quali scultura, fotografia, le installazioni, la pittura, la performance, in nome di una attività che sa spaziare a 360 ° e che si muove liberamente attraverso le diverse tecniche; il lavoro sui concetti della libertà e dell’identità, espresso attraverso forme e linguaggi differenti. Born in Croatia. Lives and works in Italy. Bachelor of Arts, educator to creativity and marketing expert. She graduated with Visual Arts from the Art Academy SantaGiulia in Brescia. Graduated as a Master of Marketing and Management in Culture and Art in Cattolica del Sacro Cuore in Brescia. She works as a visual artist, exploring concepts of identity and freedom. Her work is expressed through a variety of artistic media: sculpture, photography, installations, painting, performance.... She has participated in numerous exhibitions abroad.
Eleonora Manca http://eleonoramanca.wix.com/eleonoramanca Laureatasi con una tesi sulle Avanguardie russe, Eleonora Manca è un’artista visiva, fotografa, videoartista e videoperformer. Utilizza vari media (principalmente fotografia e video) al fine di creare percorsi comunicativi mediante installazioni e micro-narrazioni, spesso attraverso la compenetrazione di immagine e parola. Il suo lavoro ruota attorno i temi della metamorfosi e della memoria del corpo. Ha esposto in numerose collettive e personale in Italia e all’estero. Vive e lavora a Torino. Eleonora Manca. Video artist, videoperformer, photographer. Each of her work is related to the themes of metamorphosis and of memory of the body. She has exhibited in numerous festivals, solo and group in Italy and abroad. Lives and works in Turin (Italy).
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Elena Marini https://www.facebook.com/profile.php?id=100008188634147&sk=about Nata a Pistoia, Elena Marini ha posato per molti anni come modella all’Accademia di Belle Arti di Firenze, all’Accademia di Belle Arti di Parigi e con moltissime scuole. Note sono le sue collaborazioni come modella, fotografa, performance artist e body artist, con i seguenti artisti nazionali ed internazionali: Eugenio Miccini, Vanessa Beecroft, Tom Sachs, Sarenco, Luc Fierens, Jean-Fraçois Bauret, Aldo Rostagno, Daniel Druet, Jean-François Duffau, Daniel Nguyen, Mauro Dal Fior, Uwe Ommer, Peter Suschitzky, H. Craig Hanna. Come body artist, compie opere e performance molto spesso utilizzando il proprio sangue, ricorrendo ad autoprelievi. Artista concettuale, eclettica ed iconoclasta, è collagista, provocatrice visiva ed è attiva in una rete di interrelazioni con artisti, in particolar modo con Luc Fierens, nell’ambito della Poesia Visiva e dell’Arte Postale. Artista interessata alla filosofia, all’antropologia, alla sociologia e ai messaggi subliminali, è costantemente impegnata in una forma di guerriglia creativa e resistenza poetica, critica e spesso apocalittica, contro l’omologazione ed i messaggi dei mass-media. I suoi SPOT sovversivi non sono altro che delle diapositive, una radiografia della società che l’artista ritiene pornografica e assolutamente autodistruttiva, che ha qualcosa da nascondere, in un processo continuo di svelamento per mostrare l’assurdo e l’osceno. Quello che non si può dire, quello che non si vuole vedere. Born in Pistoia, Elena Marini posed for many years as a model at the Academy of Fine Arts in Florence, in Paris and at many schools. Notable are her collaborations as a model, photographer, performance artist and body artist, with the following national and international artists: Eugenio Miccini, Vanessa Beecroft, Tom Sachs, Sarenco, Luc Fierens, Jean-Fraçois Bauret, Aldo Rostagno, Daniel Druet, Jean -François Duffau, Daniel Nguyen, Mauro Dal Fior, Uwe Ommer, Peter Suschitzky, H. Craig Hanna. As a body artist, she performs works and performances often using her own blood, resorting to venous blood collection. Conceptual artist, eclectic and iconoclastic. She’s a collagist and visual provocateur and operates in a network of connections with artists, especially with Luc Fierens, as part of Poesia Visiva and Mail Art circles. Artist interested in philosophy, anthropology, sociology and subliminal messages, is constantly engaged in a form of creative guerrilla and poetic resistance, critical and often apocalyptic, against the approval and the messages of the mass media. Her subversive SPOTs are nothing but slides, an X-ray of the society that the artist considers pornographic and absolutely self-destructive, that has something to hide, in a continuous process of disclosure to show the absurd and obscene. What you can not say, what they do not want to see.
Lorena Matic www.lorenamatic.it Nata a Trieste dove vive e lavora. Artista che opera con diversi media - dalla fotografia al video alla performance, dalla pittura all’installazione – incentrando la sua poetica creativa sulla ricerca identitaria e sulla relazione, per mettere in scena il dialogo e lo scambio con l’altro da sé quale perno centrale di un’opera in cui la dedizione all’individuo e al sociale è a tratti venata da sottile ironia. Ha esposto in diverse collettive e personali in Italia e all’estero, in gallerie private e presso istituzioni come la Galleria d’Arte Moderna di Udine, Ca’ Rezzonico - Civici Musei Veneziani e la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, Villa Manin di Passariano (UD), la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Guarene Alba (TO), il Ludwig Museum di Budapest, la Jakopiceva Galerija di Lubiana, la Galleria Loggia di Capodistria e il Museo Revoltella di
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Trieste, dove Matic è l’unica artista donna vivente ad avere una propria opera in Collezione. Nel 2004 ha vinto il “Premio Fondazione Città di Trieste” - Sesto concorso Internazionale di Design “Eatable Glass ”, organizzato da Trieste Contemporanea. Dal 2005 lavora con la Galleria Romberg Arte Contemporanea di Latina ed è ideatrice e direttore artistico del progetto Questa Volta metti in scena..., che sul fronte della didattica e dell’etica sociale si rivolge alle nuove generazioni sia italiane che straniere con un concorso, mostre e stage con visiting professor internazionali. Born, living and working in Trieste. She is an artist who works in different media – from photography to videos, from performance art and painting to preparation of settings – and focuses her creative poetic on identity research and relations, with the aim of putting on stage the dialogue and interchange with others as keystone of her work, marked by dedication to man and society with a dash of irony. She was featured in many collective and personal exhibitions in Italy and abroad, in private galleries and institutions such as the Modern Art Gallery of Udine, Ca’ Rezzonico – Civici Musei Veneziani, and Venice Fondazione Bevilacqua La Masa, Villa Manin in Passariano (Udine), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in Guarene Alba (Turin), Ludwig Museum in Budapest, Jakopiceva Galerija in Ljubljana, Galleria Loggia in Koper, and Museo Revoltella in Trieste, where she is the only living woman who has a work on permanent collection. In 2004 she won the “Premio Fondazione Città di Trieste”, 6th international contest of ‘Eatable Glass’, organized by Trieste Contemporanea. Since 2005 she has worked with Galleria Romberg Arte Contemporanea of Latina, as well as being the creator and artistic director of This Time Put... on Stage, a project addressed from a didactic and socially ethic perspective to both Italian and foreign younger generation by means of a contest, exhibitions and workshops with international visiting professors.
Ralph Meiling http://ralphmeiling.tumblr.com/ https://vimeo.com/suitcaseproduction Ha studiato arte, fotografia e design all’Accademia di Belle Arti di Media Arts a Colonia in Germania. Negli anni 1995-1997 ha lavorato come modello, fotografo e regista per stilisti del calibro di Jean-Paul Gaultier, Matsuda, Comme des Garçons e Yohji Yamamoto. Durante questo periodo sviluppa uno stile che oscilla costantemente tra video e fotografia. Le sue fotografie sono state scattate da una tecnica di registrazione non convenzionale. I modelli hanno dovuto trascorrere ore con l’espressione immobile del viso, seduti su una sedia e sono stati illuminati da Meiling da un’unica fonte di luce. Registrato con una videocamera, poi alcuni parti del film sono state fotografate e stampate in grande formato. Nel 2001, Ralph Meiling produce il film a Berlino “suitcaseproduction”. Collabora con la coreografa Stefanie Schröder e il musicista e cantante Berit Emma Ott (Sender razzo Free). Il suo lavoro cinematografico è di alto impatto visivo e sperimentale. Ralph Meiling studied art, photography and composition at the “Kunsthochschule für Medien” (Media Academy) in Cologne. From 1995 to 1997 he worked as a model, photographer and director for prestigious designers such as Jean-Paul Gaultier, Matsuda, Comme des Garcons and Yohji Yamamoto. During this period he developed his own
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style working with large formats and rigorous techniques that require models, siting in a chair for hours with a still expression, illuminated by Meiling himself with a flashlight as the only source of light. He is working with footages from a video camera, some specific images are then photographed through a monitor and reproduced in large format prints. In 2001 Ralph Meiling founded the production house “suitcaseproduction” in Berlin. His regular partners are the choreographer Stefanie Schröder and the musician and singer Emma Berit Ott (Sender Freie Rakete). His works are focused on experimental photographic-film productions. Since 1995 Ralph Meiling works as a cameraman for an independent international public and private television stations such as Arte, ZDF, ARD, Deutsche Welle, BBC, MTV, VIVA. In 2005 Ralph Meiling released on the DWTv channel a documentary (nine episodes) entitled “Bergers Business” focusing on the figure of the entrepreneur and political consultant Roland Berger from Munchen, Bavaria.
Beatrice Morabito www.dollsdiary.cf Vivente, amante e desiderante a Genova, usa oggetti inanimati come le bambole per rappresentare le sue proiezioni Freudiane come in un gioco preconscio; come Anne Sexton e Sylvia Plath ama non essere considerata una fotografa ma a “confessionale” narratore di storie dove le immagini sono usate al posto delle parole (immagini di desideri, paure, emozioni o di reali momenti della sua stessa vita). Ha esposto in diversi paesi e i suoi lavori sono stati pubblicati in svariati magazines e copertine di libri. Living, loving and desiring in Genoa, she uses inanimated objects as dolls are to represent her on Freudian projections as in a preconscious game; as Anne Sexton and Sylvia Plath she likes to be considered not a photographer but a “confessional” storyteller where images are used instead of words ( images of desires, fears, emotions or real moments of her own life) She exhibited in many countries worldwide and her works featured in many magazines and book covers.
Giulia Pesarin http://giuliapesarin.tumblr.com/ Nata in provincia di Verona, in Italia. Laureata in Scienze dei Beni Culturali - Dipartimento di Lettere e Filosofia specializzazione in Arte Contemporanea presso l’Università di Verona. Attratta dal ruolo dell’immagine nell’arte contemporanea come mezzo espressivo, da alcuni anni lavora con la fotografia, utilizzando il processo sia analogico che digitale. Lavora spesso a contatto con artisti provenienti dalla danza e dalle arti performative. Nella sua fotografia cerca sempre un profondo legame con la sua esperienza e le sue origini. Born in Verona, in Italy. Degree in Cultural Heritage Science - Department of Arts and Philosophy - specialisation in Contemporary Arts at Verona University. Attracted to the role and image in contemporary art as an expressive medium, from some years I work in photography, through the analogical and digital photo. I often work in contact with artists coming from dance and performance art. In my photography I always try a deep connection with my experience and to my origins.
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Annalisa Pisoni Cimelli http://www.annalisapisoni.com/ Annalisa Pisoni Cimelli è una pittrica, fotografa e videoartista nata a Genova (Italia). Si è laureata nel 2010 presso l’Accademia Ligustica di Belle Arti (Genova) in Visual Arts/pittura nel 2010. Dal 2002, ha partecipato a più di 15 mostre sia in Italia (Genova, Trieste, Bologna, Alessandria) che all’estero (Dubai, Berlino, Kaunas). Le sue mostre personali si sono tenute a Trieste (“Le zone di Impatto”, 2013; “Closer 2.0”, 2015) e Genova (“Closer”, 2014). Ha partecipato a laboratori d’arte contemporanea e ed è stata pubblicata su “Juliet Art Magazine” nel 2015 e “Diafora” nel 2014. Annalisa Pisoni Cimelli is a painter, photographer and video artist born in Genoa (Italy). She graduated in 2010 at the Ligurian Academy of Fine Arts (Genoa) in Visual Arts / Painting in 2010. Since 2002, he has participated in more than 15 exhibitions in Italy (Genoa, Trieste, Bologna, Alexandria) and abroad (Dubai, Berlin, Kaunas). His solo exhibitions were held in Trieste (“The areas of impact,” 2013; “Closer 2.0”, 2015) and Genoa (“Closer”, 2014). He has participated in workshops and contemporary art and has been published in “Juliet Art Magazine” in 2015 and “Diafora” in 2014.
Angelo Pretolani https://www.facebook.com/angelo.pretolani Angelo Pretolani è nato a Genova. Artista di estrazione concettuale, è attivo sul versante della performance fin dai primi anni Settanta. Dopo le prime azioni (1973), alcune delle quali vengono esposte a Roma (X Quadriennale, 1975), l’artista attraversa con eventi performativi (le apparizioni) “l’identità di un io imprendibile e metaforizzato: L’Angelo… figura teatrale e insieme alchemica” (G. Beringheli). Nel corso del tempo ha attraversato diversi linguaggi, dalla pittura alla fotografia al video, affrontando temi diversi ma sempre riconducibili al concetto di identità e di luogo, privilegiando sempre nelle sue opere l’aspetto processuale e onirico. Ha esposto in Italia e all’estero ottenendo riconoscimenti di notevole interesse – Fundaciò J. Mirò, Barcellona, 1977; II Festival Internazionale della Performance, Cavriago, 1978; Remont Gallery, Varsavia, 1979; XVI Bienal de Såo Paulo, 1981; Galleria d’Arte Moderna, Bologna, 1981; Just Doing di Allan Kaprow (Genova, Museo di Villa Croce, 1988); ); XIX Festival di Santarcangelo di Romagna, 1989; The Beginning, opere sul linguaggio del corpo dal 1962 al 1976, prima ancora che nascesse la Body-art (Milano, Galleria Inga-Pin, 1999); “Il corpo rinato”, Galleria C. Gualco (Genova, 2000); “Attraversare Genova. Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo”, Museo di Villa Croce (Genova, 2004-2005); Kunst Meran/o Arte, Merano, 2005; Museum of New Art, Detroit, 2005; Festival Off, Avignone, 2006; Mutazioni profane, Body Performance Art Festival, Roma, 2009; 54ma Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2011. Angelo Pretolani was born in Genova. An artist of conceptual extraction, he has been active in Performance Art since the early seventies. After the early performances (1973) – with some pieces exhibited in Roma (X Quadriennale, 1975) – the artist takes his performing events through (apparitions) “the identity of an impregnable and metaphorized ego: The Angel… a theatrical and at the same time alchemic figure” (G. Beringheli). Through the course of time he has come through various languages, painting, photography, video, facing different themes but always leading back to the concept of identity and place, always favouring in his works the process and dream-like aspect. His exhibitions in Italy and aboard have gained recognition of notable interest: Fundaciò J. Mirò,
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Barcellona, 1977; II Festival Internazionale della Performance, Cavriago, 1978; Remont Gallery, Warsaw, 1979; XVI Bienal de Såo Paulo, 1981; Galleria d’Arte Moderna, Bologna, 1981; Allan Kaprow’s Just Doing (Genova, Museo di Villa Croce, 1988); XIX Festival di Santarcangelo di Romagna, 1989; The Beginning, works on body language from 1962 to 1976, well before the birth of Body-art (Milan, Galleria Inga-Pin, January 1999); “Il corpo rinato”, Galleria C. Gualco (Genova, 2000); “Attraversare Genova. Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo”, Museo di Villa Croce (Genova, 2004-2005); Kunst Meran/o Arte, Merano, 2005; Museum of New Art, Detroit, 2005; Festival Off, Avignone, 2006; Mutazioni profane, Body Performance Art Festival, Roma, 2009; 54ma Biennale di Venezia, Padiglione Italia, 2011.
Giacomo Rebecchi http://www.giacomorebecchi.com/ Giacomo Rebecchi nasce a Mantova. Per 15 anni lavora nel settore grafica cartacea/web ma decide poi di intraprendere la professione di fotografo dopo diversi anni di studi personali e workshop, specializzandosi nel settore moda e con un occhio attento al panorama underground fotografico/artistico. Da questo mondo cerca ispirazione per ottenere un risultato che possa differenziarsi. Odia scrivere la propria biografia. Giacomo Rebecchi was born in Mantua. He had worked as a graphics designer (both paper and web graphics) for 15 years when he decided to start a new carrier path as photographer after several years of personal studies and workshops. He has specialized in fashion with a particular focus on underground photography and arts scene. He is seeking inspiration in that world trying to get different results. He hates writing his own biography.
Chiara Scarfò http://www.chiarascarfo.com/ Chiara Scarfò realizza performance destinate a risolversi nell’immagine video, dove l’artista è sia oggetto che soggetto della rappresentazione. La sua ricerca, iniziata nel 2003 negli spazi abbandonati dell’ex manicomio di Quarto, si è incentrata sui luoghi della memoria privata e collettiva e sul corpo inteso come limite immaginario fra interno ed esterno, io e mondo, per evolvere in direzione di un’intimità ermetica, dove gli opposti si compenetrano e il principio di non contraddizione supera se stesso nella sintesi superiore che conserva l’opposizione salvandola: per cui non “A o non-A”, bensì “A e non-A”. Ed è qui, che il corpo si presenta come involucro sfrontato e inaccessibile, nascondiglio e rifugio del pensiero. Tra le principali mostre si ricordano: The Solitary Body, MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona, Switzerland, 2013 Il soggetto sconosciuto, BT’F Gallery, Bologna, 2011 Il Cimitero della Memoria, Tenuta Dello Scompiglio, Lucca, 2010 Visual Band, L.u.C.C.A. Lucca, 2010 Table, Ingresso Pericoloso, Roma, 2009 Paradiso Perduto, home-gallery Germana Olivieri, Olbia, 2007 Self Shots, La Bertesca Masnata, Genova,2005
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Chiara Scarfò makes video-performances, where the artist herself is object and subject of the representation. Her research began in 2003, in the abandoned spaces of an old mental hospital in Quarto and was centered on places of private and collective memories; on the body, meant as an imaginary limit between the inside and the outside, ego and world. Then evolved into a hermetic intimacy, where opposites interpenetrate each other and the principal of non-contradiction overcomes itself into a higher synthesis that keeps and preserves the opposition. So it comes to “A and non-A” instead of “A or non-A”. And here the body becomes a bold and inaccessible cocoon, a hiding-place and a refuge for our minds. Among the principal exhibitions: The Solitary Body, MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino, Bellinzona, Switzerland, 2013 Il soggetto sconosciuto, BT’F Gallery, Bologna, 2011 / The Unknown Subject, BT’F Gallery, Bologna, 2011 Il Cimitero della memoria, Tenuta dello Scompiglio, Lucca, 2010 / Memory’s Cementery, Tenuta dello Scompiglio, Lucca, 2010 Visual Band, L.u.C.C.A. Lucca 2010 Table, Ingresso pericoloso, Roma, 2009 /Table, Dangerous Entrance, Rome, 2009 Paradiso Perduto, home-Gallery, Germana Olivieri, 2007 / Lost Paradise, home-Gallery, Germana Olivieri, 2007 Self Shots, La Bartesca Masnata, Genova, 2005 / Self Shots, La Bartesca Masnata, Genoa, 2005
Valter Luca Signorile http://www.valterlucasignorile.com/ Valter Luca Signorile nasce in Italia, dove tutt’ora vive e lavora. Artista dal tratto multidisciplinare e transmediale (differenti materie di applicazione, video, fotografia, performance, installazione, scultura e disegno), Signorile non scende tuttavia a compromessi con la tradizione pura della rappresentazione di matrice pittorica, affrontando i grandi temi attorno all’uomo, al mistero della vita e della morte, al rapporto imprescindibile con il corpo. KEIN KÖRPER era infatti la sua personale al MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino, Svizzera, nel 2014, per la quale era stata edita la pubblicazione monografica bilingue ECODROME a cura di Mario Casanova, così com’è di prossima uscita JE SUIS PRÊT, con testo critico bilingue di Giuseppe Carrubba. Oltre al già citato Museo e Centro d’Arte Contemporanea in Svizzera, l’opera di Signorile è stata esposta entro variegati contesti tematici a Palazzo Ducale Genova nell’ambito di Segrete –Tracce di memoria - Artisti alleati in memoria della Shoah, Palazzo Medici Riccardi Firenze, Museo Borgogna Vercelli per progetti a cura di StudioDieci City Gallery. Tra i recenti lavori di Signorile è da segnalare la sua collaborazione con l’artista Pier Giorgio De Pinto, all’interno del progetto FRAUGHT presentato per la prima volta nel 2015/2016 presso il centro MACT/CACT,Svizzera. Mario Casanova Direttore MACT/ (Svizzera) Valter Luca Signorile was born in Italy where he currently lives and works. As a multidisciplinary and multimedia artist (the artist uses different languages like video, photography, performance, installation, sculpture and drawing), Signorile never accepted compromises with the pure tradition of the representation within the framework of painting. He continuously focuses on the great topics of the mystery of life and death, deepening the strong with the human body. KEIN KÖRPER was in fact his solo exhibition at MACT/CACT Contemporary Art in Canton Ticino, Switzerland, in 2014. To mark this event the monographic bilingual publication entitled ECODROME curated by Mario Casanova has been published, shortly followed (2016) by a new publication entitled JE SUIS PRÊT including a critical text written by Giuseppe Carrubba.
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Beside the already mentioned Museum and Centre of Contemporary Art in Switzerland artworksbySignorilehave been already shownwithin different thematic contexts,as Palazzo Ducale in Genoa (Segrete – Traces of the Memory – Allied artists in the memory of the Shoah), Palazzo Medici Riccardi in Florence, MuseoBorgogna Vercelli with an exhibition project curated by StudioDieci City Gallery. Among Signorile’s recent works is his collaboration with the artist Pier Giorgio De Pinto, in the framework of the project named FRAUGHT first premiered in 2015/2016 at MACT/CACT, Switzerland. Mario Casanova Director MACT/CACT (Switzerland)
Valerio Visconti https://valeriovisconti.com/ http://soundcloud.com/valeriovisconti Electro performer, pianista, tastierista, dj, artista moderno. Valerio Visconti è da sempre alla ricerca dell’innovazione nel campo della musica, spinto da una creatività che lo ha portato a molti risultati in diversi settori musicali. Dopo anni di concerti come pianista e un cd di sue composizioni, scopre i sintetizzatori e da lì non si staccherà più, arrivando a realizzare video di ricerca per l’Istituto Italiano di Tecnologia, partecipare alla creazione di nuovi dispositivi musicali, comporre colonne sonore per applicazioni e rivisitare quelle di lungometraggi storici. Il tutto in mezzo ad un’intensa attività di live e djset, in Italia e in Inghilterra, dove a breve uscirà il suo nuovo EP, “Blauer Regen”. Electro performer, pianist, keyboardist, dj, modern artist. Valerio Visconti is always looking for innovation in all the fields of music, driven by a creativity that has led him to many achievements in different musical areas. After years of concerts as a solo pianist and a CD of his own compositions, he discovered synthesizers and from there he would never leave, coming to realize a research video for the Italian Institute of Technology, participate in the creation of new music devices, compose soundtracks for applications and create new ones for historical films. All in the midst of an intense live and DJ sets, in Italy and in England, where soon he will release his new EP, “ Blauer Regen“.
Giovanna Eliantonio Voig my42andpointless.tumblr.com Nasco e vivo a Pescara, dove ho un marito, un micio bianco e nero, un negozio di moda vintage, e faccio parte di un collettivo handmade chiamato The Babbionz, con cui giro spesso per workshop e mercatini. Ho studiato architettura allo IUAV di Venezia, città in cui in qualche modo vivrò sempre. Ho iniziato a fotografare a 16 anni quando mi hanno regalato un ingranditore Durst, ma solo pochi anni fa una tabula rasa totale ha fatto nascere il mio progetto 42andpointless: un sito, un blog, qualche frase e molti autoscatti. E allora fotografare è diventato inevitabile, per raccontare cose che le parole non dicono. Nella mia borsa dei giochi gigante, non mancano mai uncinetto e macchina fotografica. Le mie mostre precedenti: Pescara e Padova, e una mia foto è stata esposta alla Triennale di Milano, mentre on line sono anche su FFFFOUND, FrizziFrizzi, Ne te promène donc pas toute nue!, Everything you love to hate e The World through green eyes. Per sapere chi sono o chi non sono, interviste di poche parole su FrizziFrizzi, John Calavera e altri magazine on line. Progetti: scomparire in un autoscatto.
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I was born and I live in Pescara, where I have a husband, a black and white cat, a vintage fashion store, and I am part of a handmade collective called The Babbionz, which often turn for workshops and markets. I studied architecture at the IUAV in Venice, a city that somehow I will live forever. I started taking pictures 16 years old when I was given a Durst enlarger, but only a few years ago a total tabula rasa gave birth to my project 42andpointless: a website, a blog, a few phrases and many self-portraits. And then photograph has become inevitable, to tell things that words can not say. In my giant bag of games, never fail camera and crochet. My previous exhibitions: Pescara and Padova, and one of my pictures was exhibited at the Milan Triennale, while online I am also on FFFFOUND, FrizziFrizzi, Ne te promène donc pas toute nue!, Everything you love to hate and The World through green eyes. To know who I am or who I’m not, interviews of few words on Frizzifrizzi, John Calavera and other on-line magazine. Projects: disappear in a self-shot.
Violeta Vollmer http://www.vivoart-design.com/ Violeta Dundulyte è nata in Lithunia. Laureata nel 1990 con lode in Belle Arti, Università di Tallin, Estonia. Nell 1994 si è sposata e trasferita in Germania, dove ha vissuto e lavorato come artista freelance fino al 1996, seguono 8 anni creativi in Buenos Aires, Argentina (1997-2004) seguiti da una pausa in Germania (2005-2007) e un altro periodo produttivo a Windhoek, Namibia (2008-2010). Da allora vive e lavora in Germania, dove finalmente si stabilisce, a Königs Wusterhusen dalla parte meridionale di Berlino. Come un artista freelance non si è mai limitata a l’utilizzo di un unico supporto, invece esplora se stessa e esprime il suo messaggio legato alla migrazione e la identità (“Non c’è certezza. Ognuno di noi potrebbe essere un altro. Io sono più di uno.”) attraverso la fotografia, il video, l’intervento sul paesaggio e la performance, disegno e scultura. Il suo lavoro è stato esposto in numerose mostre, personali e collettive a partire dal 1993 con “Io e me stesso”, Galleria Benario, Berlino seguito da: “Al aqua”, Galleria Espacio Giesso Reich, Buenos Aires, 1998; “Transito” presso l’Alliance Francaise di Buenos Aires, 1998; “Il tunnel”, Elbart, Amburgo, 2006 e nel 2007 la nominazione per il premio Altonale, Amburgo; “Con un morso” Galleria Eagl, Berlino e “Cry moral”, “Sostenibilità”, 2.Bienale Norimberga, sia 2012 e recentemente la performance al Documenta13 per la Critical Arts Ensemble al padiglione 42 il 27.07.2012 in Germania. Violeta Dundulyte was born in Lithunia. She graduated in 1990 cum laude in fine Arts, University of Tallin,Estonia. 1994 she married and moved to Germany, where she lived and worked as a free artist till 1996,followed by 8 creative years in Buenos Aires,Argentina (1997-2004) and with a break in Germany (2005-2007) and another productive period in Windhoek,Namibia (2008-2010). Ever since she lives and works in Germany,where she finally settled down in Königs Wusterhusen on the southern fringe of Berlin. As a free artist she never confined herself to the use of a single media,instead exploring herself and expressing her message regarding migration and identity (“There is no certainty. Each of us could well be another. I am more than one.”) via photography, video,landscape intervention and performance, drawing and sculpture. Her work has been shown in numerous solo- and group exhibitions starting in 1993 with “Me and myself”, Gallery Benario,Berlin followed by: “Al aqua”, Gallery Espacio Giesso Reich, Buenos Aires,1998; “Transit” at the Alliance Francaise in Buenos Aires,1998; “The tunnel”, Elbart, Hamburg ,2006 and in 2007 the nomination for the price Altonale,Hamburg; “With a bite” Gallery Eagl,Berlin and “Cry moral”, “Sustainability”, 2.Bienale Nuremberg, both 2012 and recently the performance at the Documenta13 for the Critical Arts Ensemble at pavilion 42 on the 27.07.2012 in Germany.
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TESTI CRITICI
Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d’Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Caterina Gualco | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.
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TESTI CRITICI Sei quello che posti, non importa che tu lo faccia di più o di meno, o che addirittura non ci sia, l’immagine che proiettiamo sui social media non è che l’estensione di come ci comportiamo entrando in una stanza. Ovviamente il campione da considerare deve essere sufficientemente sostanzioso, non ci si può fermare al selfie fatto durante una festa o davanti a un quadro, come peraltro non si può giudicare una persona alla prima impressione. Plus ça change, plus rien change... E in ogni caso, vizi privati e pubbliche virtù. Giampaolo Abbondio
Soggetti e volti on-line Sempre più persone sono oggi interconnesse grazie alla Rete, e un effetto non minore di questa interconnessione è un possibile mutamento del discorso filosofico sul soggetto. La progressiva diffusione di internet e il suo impatto sugli individui e la società hanno suggerito a sociologi e filosofi di analizzare attentamente il fenomeno, reinterpretando e adattando alla nuova realtà categorie elaborate per un mondo in cui le interazioni erano reali e non virtuali, nonostante l’eccezione clamorosa della telecomunicazione epistolare. (Ma anche ciò che chiamiamo virtuale ha una sua realtà, non essendo un puro nulla). Si è diffusa presso i teorici dei nuovi media l’idea che la comunicazione via internet coinvolga a tal punto gli individui da mutarne la natura stessa di soggetti: si potrebbero ora chiamare soggetti on-line, intendendo con questa etichetta gli individui che in Rete esplicano una parte importante della loro esistenza cognitiva, affettiva, sociale, politica, ecc. Sherry Turkle è una delle prime teoriche di un cyberspazio emancipativo per il soggetto. Secondo Turkle la Rete offre “all’individuo una sorta di controllo totale sulla messa in scena della propria identità”. Le teorie postmoderne come quello di Turkle, tendono ovviamente a negare – forse con troppo ottimismo postmodernista - che l’identità sia (ancora) qualcosa di rigido e immutabile (C. Formenti, Se questa è democrazia, Manni, 2009). Un modello sociologico spesso utilizzato per pensare le interazioni sui social network è quello del sociologo canadese Erving Goffman che ben prima dell’avvento della Rete ha proposto un “modello drammaturgico” delle interazioni sociali reali: in questo modello il confine tra pubblico e privato è figurato come palcoscenico e retroscena. L’individuo-attore “mette in scena il possesso di caratteristiche sociali che dovrebbero garantirgli di essere valutato e trattato in un determinato modo dagli altri” (Formenti, ivi, p.78). Spesso però gli altri attori oppongono resistenza alle pretese dell’attore: si è sempre pronti a sfruttare le incrinature della sua “armatura simbolica” per abbassarne l’autorità, sbeffeggiarlo, rovesciarlo nella polvere. Per affermare il suo ruolo sociale, sempre secondo Goffman, l’individuo-attore ha bisogno della cooperazione di un’equipe che confermi le pretese sociali dell’attore. Per esempio, per non perdere credibilità, un importante uomo politico che faccia pubblicamente il buffone necessita di un’equipe che lo giustifichi, che sminuisca il ridicolo di cui altrimenti si coprirebbe. Il re non è nudo finché nessuno lo dice in pubblico. Nel retroscena, l’equipe può ammettere che il politico si è comportato come un buffone, purché i segreti del retroscena non siano rappresentati sulla ribalta. Il gioco sociale off-line permette anche di indossare diverse maschere, purché di fronte a persone diverse. Teorici come Sherry Turkle ritengono invece che le relazioni sociali mediate dal computer e
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dalla Rete offrano l’assoluta libertà di inventarsi molteplici identità: il palcoscenico goffmaniano diventa così più uno specchio solipsista che un’interfaccia delle relazioni io-altri. Questa situazione avrebbe addirittura (secondo Turkle) un valore terapeutico, perché i social network sarebbero luoghi nei quali si può “mimare la vita” al riparo quasi completo dalla sua violenza (un’opinione chiaramente precedente l’epoca del cyber-bullismo). I social network rendono obsoleto il ruolo delle equipe goffmaniane, alterando il modo di attribuire fiducia agli attori. Nella modernità on-line, infatti, assistiamo a una diminuzione della fiducia nei “sistemi esperti”, negli attori istituzionalmente autorevoli: a prescindere da meriti effettivi, e per mero carisma conquistato sul campo, sono gli utenti che costruiscono collettivamente fiducia, come si vede nel fenomeno degli scrittori self-published che possono diventare celebri anche al di fuori del mercato editoriale ufficiale. Un corollario negativo: in questa comunità virtuale di soggetti on-line, com’è noto, non si è quasi mai soli. Se manca la connessione può scattare un moderno succedaneo dell’angoscia kierkegaardiana-heideggeriana (angoscia per il nulla). Quella che Blanchot chiamava la “solitudine essenziale”, riferendola allo scrittore, è vissuta come condizione negativa dal soggetto on-line, privato della possibilità di connettersi con il suo mondo virtuale ma reale. Maurizio Ferraris parla di una “chiamata” che non lascia in pace nessun soggetto contemporaneo, immerso in un ambiente iper-connesso. Ed è una minacciosa chiamata alle ARMI, ossia Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità (M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, 2015). Il social network che ha prodotto più soggetti on-line è senza dubbio Facebook. Qui il primo contatto con l’altro è un’immagine, un “avatar”. Stando al nome stesso del social network, quest’immagine primaria è tipicamente un’icona del volto, anche se questa tipicità viene regolarmente violata: molti utenti non pubblicano un’immagine del loro volto bensì dell’intero corpo, parti del corpo diverse dal volto, parti del volto che ne adombrano ma al contempo impediscono una visione globale. Altri pubblicano un’icona che li rappresenta simbolicamente: una bandiera, uno slogan, la fotografia di un paesaggio o di un oggetto. E ci sono anche i soggetti on-line che si presentano con un volto fittizio: un quadro, la maschera di un supereroe, l’immagine di un attore famoso, di una rock-star recentemente defunta, oppure il volto reale della persona reso irriconoscibile dai capelli, dagli occhiali scuri, da sciarpe e cappelli. Sono immagini che velano il volto, quasi promettendo uno svelamento successivo. Di fatto non ci sono limiti; di diritto però, tutte le immagini alternative “stanno per” il volto autentico, lo significano, lo sostituiscono, fungono da icone (con un rinvio naturale) o simboli (con un rinvio allegorico) del volto del soggetto. Questo è il lato visivo dell’implementazione di identità alternative teorizzato da Turckle. Ma c’è dell’Altro. Il volto in filosofia è stato infatti considerato come ciò che più ci convoca a un’apertura verso l’Altro (Lévinas), inteso innanzitutto come altro essere umano aperto su un’infinita trascendenza divina e antropomorfa. Si potrebbe dire che il volto fotografato e formattato per non è certo il vero volto; ma è forse preferibile osservare come l’esperienza dei social network sembri piuttosto corroborare l’idea di Deleuze e Guattari secondo cui il volto, anziché semplice icona dell’identità umana, è un regime del significato. Visagéité, ossia un dispositivo astratto muro bianco/buco nero che introduce nell’essere del senso inorganico, inumano. Scorrendo le pagine di Facebook, il soggetto on-line naviga in effetti attraverso paesaggi di senso, che trovano nelle fotografie dei volti decostruiti dei temporanei centri di attrazione gravitazionale. Face-world. Memore del fatto che indossare maschere costituisce parte fondamentale di certe terapie di ispirazione psicoanalitica, io (che entro in scena soltanto ora) ricorro sistematicamente agli avatar e alla pratica della visagéité come a un piccolo teatro quotidiano senza grandi conseguenze. Eppure questo teatro mi ha cambiato la vita. Acotto Edoardo
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«La Foto Rritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente : quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per dar mostra della sua arte». (Barthes) Black magic mirror. Chi non ne possiede uno? Chi non ha mai ceduto alla vanità di interrogarlo su quanti like si riceveranno? Che utilità ha uno specchio che non “riflette” nulla. Nella storia l’auto rappresentazione è passata dagli stilemi pittorici a quelli fotografici, sempre legata alla concezione di specchio, strumento utile alla riflessione della propria immagine e alla riflessione del sé. Il concetto di auto rappresentazione è lo sguardo interiore e psicologico, l’occhio benevolo che mostra la parte migliore del nostro essere e ne descrive i valori, l’unico strumento atto ad immortalare i momenti salienti della vita e della morte come auto affermazione dell’esistenza. In realtà forse non è cambiato molto dalla passata concezione di auto rappresentazione se non l’estetica e la mancanza dei dettami artistici tradizionali In uno specchio nero dove la riflessione è negata la questione dell’auto rappresentazione si basa solo sul dato contingente e sull’istante. “Io esisto perché ho vissuto questo momento. Guardami, sono proprio io!” Non è più necessario trasmettere altro, ma è fondamentale che qualcuno di conosciuto o sconosciuto riceva il nostro messaggio. La questione sostanziale dell’auto rappresentarsi negli anni 2000 non si esaurisce solo nel cambiamento delle modalità pratiche e concettuali dell’autoscatto digitale, apre in realtà altre scenari legati alla sovraesposizione mediale. Se uno schermo/specchio nero non ci da la possibilità di “auto rifletterci” questo strumento ha altresì la facoltà di affermare la nostra esistenza in un flusso continuo e superficiale di immagini nella rete sociale. La superficie apparentemente scura dei nostri devices tascabili in realtà è uno schermo sempre acceso sulla proiezione della nostra esistenza. È allo stesso tempo un registratore e un player attento a diffondere i nostri attimi e a mostrarci le vite altrui. La democratizzazione tecnologica ha aperto un nuovo mondo in cui auto affermarsi o proiettare l’immagine “migliore” della nostra esistenza. Una dimensione in cui viene data la possibilità di riscattare l’immagine reale di noi stessi per diventare altro. Anche se la velocità di diffusione non permette la messa in scena ottimale del nostro alter ego digitale, questo non è da considerarsi un fattore disturbante, perché l’assimilazione dell’immagine postata è stata già soppiantata dalla successiva, in un continuo flusso di suggestioni, a volte superficiali come la stessa condizione di “non riflessione”. L’auto rappresentazione e l’auto affermazione della propria esistenza nei social networks può essere considerata come una infinita performance quotidiana, dove l’azione stessa di auto rappresentarsi è il vero significante a dispetto dell’aspetto formale, dove l’impossibilità di riflettersi crea il simulacro stesso della nostra identità. Come nella favola di Biancaneve passiamo il tempo ad interrogare lo specchio nero, in una estenuante performance mediale che afferma solo la nostra esistenza. Alessandra Arno’
Photographia sé/xualis: un secolo di selfie Se Baudelaire curava l’isolamento esistenziale fabbricando ponti magici fra l’antichità e il suo presente, dialogando preferibilmente con i morti, personalità del passato che disseppelliva, sradicandoli dalle tenebre e convocandoli accanto a sé, nella pratica della citazione. Lo specchio di Dorian Gray, gli autoritratti fotografici di Edvard Munch,
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la scena dandy dei glam, dei punk, degli emo e dei poseur di oggi, sono cure all’isolamento poiché coltivano l’estetica della fuga: si scompare nei luoghi mondani per consumarsi ostentando il sé nell’hic et nunc dei selfie e dei profili senza proiezioni future. Ma non si tratta solo della scomparsa dai luoghi societali della cultura, non è per frivolo narcisismo fine a se stesso, quanto piuttosto per una vitale fuga dall’identità ufficiale, dal genere sessuale biologicamente precostituito, dalle forme date, che solo la fotografia riesce a scardinare con il suo principio ontologico dello sviluppo, del ritocco, e, oggi sempre più del filtro. Il filtro fotografico, l’autoritratto digitale, in definitiva è il suicidio del sé monolitico per dare vita all’apparire della nuova carne. L’unità del sé sarà viene ricercata e ritrovata nell’esperienza performativa e artistica della vita in rete. Una “sacra prostituzione” direbbe Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo (2004). Il corpo e le sue maschere, i travestimenti, le parti maledette e gli effimeri piani d’intensità dialogano all’interno dello spettacolo quotidiano e fuori di esso creano strati, emozioni, corpi in sussulto, sono gli strumenti che costruiscono una mistica del paganesimo contemporanea, il cui linguaggio è la fotografia. Essa non genera identità, essa produce alterità, alterazioni e personificazioni. Tutto sembrava pronto alla fine del secolo scorso, sotto il segno di un’autentica spiritualità della carne, per vegliare sino all’alba del nuovo Millennio, nel quale questi sprezzanti e teneri alieni, così sensibili all’estetica del loro tempo, avrebbero lasciato per sempre la terra verso un’altra vita. (all’alieno, Starman David Bowie, lux perpetua luceat ei, requiescat in pace). Claudia Attimonelli
Un debuttante nell’assoluto 2013 Biennale di Venezia, per la mia partecipazione presento un lavoro composto da sei oli su tela (cm60x60 cadauno), dal titolo “Un debuttante nell’assoluto”. La debuttante sono io in una sorta di invito al ballo, le debuttanti sono le ragazze da me ritratte in un fermo immagine che le immortala in espressioni buffe, ridicole, forzate, cercate. Un selfie che altro non è che il ritratto contemporaneo di un eterno se stesso riprodotto, moltiplicato, imposto. Postato decine e decine di volte. Un selfie al giorno sembra essere il motto dell’uomo moderno, che certifica in questa sua cristallizzazione costruita di un se attore e a sua volta spettatore di simili come lui, la certezza di un esistenza in vita. Non ci si accontenta di essere qui e ora, di fare la propria vita, bisogna narrarla. Gli artisti da sempre hanno usato la propria immagine per un progetto di arte, di denuncia, di presa d’atto, dal più classico autoritratto, Tiziano, Rembrant, o Van Gogh fino ai nostri giorni, con Cindy Sherman che assume mille forme e vive mille vite, con Orlan che taglia e cuce il suo volto come se non le appartenesse, ma fosse uno dei tanti medium di cui può servirsi un artista. Un artista ha sempre giocato con la sua immagine, di più, ne ha preso atto, facendone strumento di denuncia o di lotta, di azione o reazione, di uso o abuso, un corpo unico dove il pensiero e la ricerca si fondono con il contenitore, così l’artista non scinde l’immagine pubblica da quella privata - in alcuni casi – facendo di se stesso un’opera d’arte totale. Altro dicasi per la gente comune, il vicino, ora amico, in un mare di amici, tutti sempre connessi. E allora si passa da un like all’altro, si condividono post, si invita a mettere un “mi piace”, si viene uniti a gruppi, si fanno petizioni, si lanciano anatemi, si fanno proclami, si prende posizione, tutto rigorosamente, virtuale. Tanti satelliti chiusi nel proprio universo di certezze, che comunicano con altri satelliti, galassie in un buio eterno. Altre identità - OTHER IDENTITY - è il titolo del progetto- mostra di Francesco Arena, altre identità è il tema su cui invita a confrontarsi/ci, tutti. Rinnovo il mio stupore e forse il mio non essere perfettamente allineata verso un esterno che si evolve e non aspetta nessuno, come in bilico fra curiosità e stupidità. Altre identità appartiene
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a questa nuova generazione una volta liquida, che vive, respira, cresce, attraverso uno schermo, mi ricordano i viaggi dell’arcadia (Capitan Harlock) dietro ad un vetro l’infinito,con l’equipaggio (loro) sempre dentro a guardare fuori, verso una meta sconosciuta o forse semplicemente senza meta. Navicelle perse nel proprio spazio, dove tutto si risolve all’interno di una stanza, dentro una casa, chiusi in uno stabile, avvolti da altro cemento e così all’infinito. Altre identità è una possibilità a patto che di identità se ne possieda almeno una, una base, un piedistallo, una colonna, poi si parte. Altre identità senza nessuna certezza di sé, diventa un infinita possibilità di essere nulla. Vuoto. Lidia Bachis
Scorrendo la parole con cui Francesco Arena mi ha spiegato il Suo progetto, Other Identity, una mostra che ha per oggetto il sé e la sua mutevolezza a fronte dell’implementazione dei modi di rappresentarlo, non ho potuto fare a meno di riandare con la memoria ai miei studi universitari. Era la fine degli anni Novanta, per la precisione il 1999, quando incappai in quella branca della Filosofia che ora conoscono tutti, ma che all’epoca era ancora una verginella: la Filosofia della Mente, una “corrente”, diciamo, di quell’area filosofica di tradizione analitica del mondo culturale anglo/americano che un’Italia ammorbata dai vari Gianni Vattimo e dai suoi cuginetti d’Oltralpe (Jacques Derrida, Gilles Deleuze e compagnia brutta) non sapeva che cosa fosse. In effetti si trattava di un approccio inedito ai problemi filosofici, caratterizzato da un argomentare che non concedesse nulla alle sirene della metafisica e ai baloccamenti col linguaggio. Insomma, roba tosta, da approntare armati di Logica e cazzo duro. Comunque, per non stare qui a ciurlar col manico, vi basti sapere che uno dei suddetti problemi filosofici in cui m’imbattei, all’epoca imberbe studentello, era rappresentato dai concetti di sé e di identità personale: in parole povere, che cosa significa essere una persona? E soprattutto: che cosa si prova ad essere un pipistrello? Come ben sapete (ma veh!), la storia della filosofia è (anche) la storia delle soluzioni al problema mente/corpo (do you remember Cartesio?: “Devo stare attento a non scambiare me per qualcos’altro!”) e alle connesse questioni dell’identità personale e, nel corso dei secoli, nonostante tutto questo gran parlare, non si è naturalmente giunti ad alcuna conclusione universalmente accettata (e non potrebbe essere altrimenti). Di certo è che il mondo là fuori è fatto di due cose, noi (i soggetti d’esperienza) e le cose. Ma di cosa (perdonate il gioco di parole) sian fatti i nostri ricordi, le nostre menti, i nostri desideri e quali siano (se ci sono) i loro rapporti con il nostro corpo, è ancora questione aperta. Di sicuro, tu non hai la più pallida idea di cosa sia il mio mal di denti e confesso che non riesco proprio a trovare le parole adatte per descriverti il mio mal di denti. Ogni medico lo sa, quando chiede al paziente di spiegargli che cosa senta esattamente (“ma senti più un dolore o un’oppressione? Ti brucia o è più una sensazione di pesantezza?”). Ad ohni modo, provate a chiedervi “Ma io chi sono esattamente?”. Non ci riuscite, vero? Inutile far leva sui vostri ricordi, o sul vostro corpo (le cosiddette “esperienze propriocettiche”), o sulle vostre percezioni (i cosiddetti “qualia”, detti anche “esperienze pure”), o sull’osservazione delle vostre fotografie: comunque la prendiate, l’identità personale vi sfugge (“è fluida”, direbbero i conformisti della cultura un tanto al chilo). E questi tempi folli, che ahimè non son più tempi di streghe, non fanno che aggravare il problema: non bastavano Gina Pane e Franko B (che ammiro smisuratamente), ci voleva la moda dei fantomatici selfie a mettere un segno + al problema dell’identità personale. Ma io sono un reazionario e allora dico che forse aveva ragione Rimbaud: “Io è un altro”. Emanuele Beluffi
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Ci affacciamo alle finestre social per salutare il nostro vicino che ora non ci è più estraneo. La realtà che mostriamo è quella dei nostri pensieri. Nella verità digitale delle immagini c’è spazio per l’Arte. L’Arte ridisegna i contorni delle persone assecondando la personalità. L’iconografia del web è fatta di volti luminosi ma a noi non dispiace. Chiara Boni
La riflessione, quella data da uno specchio, immagine perfetta per alcuni e contraria per altri, produce sicuramente un duplice effetto utilizzando l’udito e la vista. La comunicazione riflessa diventa interpretabile, filtrata e intangibile, portando i rapporti tra individui ad evocare l’antico mito, quello di Eco e Narcisio. Tali mancanze regrediscono socializzazione e condivisione, portando gli individui a nascondere i propri pensieri, a soffocare i propri sentimenti e a snaturare i propri rifiuti e accettazioni, consolidando le proprie certezze in base all’opinione dei tanti perché; a ogni risveglio si sceglie la realtà più conveniente, reale o virtuale. L’immagine di un vecchio mercato a peso, dove bilance, antiquatamente analogiche, pesano linguaggi e sguardi delle persone che lo animano, diventa molto comunicativa a tal proposito: così distanti dalla vita odierna perché integri di realtà da diventare altamente affascinanti, attrazione turistica in alcuni casi. Marco Bruschi
Essere per apparire e sembrare reale, oppure solo naturale. Ognuno può diventare personaggio per caso e costruire una immensa rete di contatti immediati. Un gioco a cui è difficile sfuggire, dove esiste solo il presente, nessuno spazio per il passato e il futuro, tutti insieme contemporaneamente in una struttura orizzontale senza prima e dopo, per piacersi e mostrarsi, come vorremmo esser visti. Così l’autoritratto istantaneo è diventato il simbolo privilegiato dell’era dell’immagine dove conta soprattutto autocelebrarsi. La nuova identità di ognuno non è più l’abito, un insieme materiale di codici stabiliti, ma l’immagine, eterea, immediata, o meglio infinita, senza limiti perché il reale è diventato un mondo lontano, adesso quasi sconosciuto. Bettina Bush
Tutto ciò che è rivoluzione, porta ad una evoluzione. E questo cambiamento nel modo di comunicare noi stessi è un’evoluzione. Non esiste più il contatto diretto e materiale del corpo a corpo, e del giudizio della pelle nel guardare. Leggere, digitare, selfie, scrivere frasi ad effetto prese da poeti popolari, questo diventa il biglietto da visita odierno. Bugie, accrescimenti, foto ritoccate, avvenimenti importanti finti che creano nell’insieme una maschera. La stessa maschera che si crea con la conoscenza diretta. Entrambi i modi di comunicare possono essere filtrati. Per questo la vedo come un’evoluzione nella sua accezione positiva. Anita Cala’
Le maschere elettroniche. Che le nostre identità siano multiple, che il mondo stesso sia un grande teatro e che noi indossiamo diverse maschere a seconda delle circostanze e delle persone che incontriamo è noto da millenni, non a caso il termine persona anticamente si riferiva proprio alla maschera teatrale. Oggi i social network e le nuove tecnologie non
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hanno fatto che esaltare questo tratto archetipico dell’essere umano, in una (auto) rappresentazione continua che ci mette in scena destinandoci a un pubblico molto ampio e con immagini dalla durata rapida ma dalle nuove possibilità di diffusione potenzialmente globali. Questa celebrazione del sé trova del resto antenati illustri in figure chiave delle avanguardie del Novecento come, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti o Salvador Dalì, abilissimi costruttori della propria immagine pubblica e del proprio costante mascheramento diffuso a livello planetario. L’innesto su alcuni filoni della performance e della body art rendono poi questa rinnovata teatralità mediatica un interessante campo espressivo che, al di là delle banalizzazioni, può portare a nuovi risultati, in un’ibridazione che in passato era soltanto immaginabile, ma che oggi trova spazi e strumenti di comunicazione le cui possibilità meritano senza dubbio di essere approfondite e percorse, come avviene in questa mostra. Dunque auguriamoci che la bacchetta di Prospero, il mago shakespeariano, possa dunque essere l’ideale guida di questo viaggio ulteriore, sospeso tra la rappresentazione e la vita, tra la materia del mondo e quella dei sogni, tra la realtà e l’illusione. Lorenzo Canova
La (ri)definizione d’identità è e rimane – in generale – uno dei temi caldi, che riapre un dibattito infinito di tipo sociale ma anche, per certi versi, antropologico attorno all’essere in relazione all’altro, dentro un mondo che cambia, e che ancora nasconde in sé molte banalità sensibili e troppe mistificazioni taciute sulla costruzione di un concetto accettabile di progresso e di modernità. Non solo perché lo studio sulle identità trova la sua genesi e si giustifica nella comprensione delle individualità e delle diversità, ma perché esso studia fortemente le particolarità delle minoranze altre in rapporto a dominanti sociali, politiche e religiose. Francesco Arena, artista e curatore di OTHER IDENTITY, mi ha chiesto di scrivere due righe non obbligatoriamente legate alla sua mostra, e di esprimere delle mie considerazioni pertinenti a questo tema: in generale. Esso è vastissimo, non più semplicemente correlato – come detto – allo specifico della sua mostra o alle identità pertinenti al corpo. Infatti, del tutto ordinario e “dépassé” sembra oggi parlare di identità in ambito di espressione delle proprie sessualità; poiché non ci si dovrebbe ormai più esprimere in termini di una sessualità, quanto piuttosto su di uno spettro che rifrange molte sessualità, come se l’aspetto trans odierno, rinvigorito da un processo di virtualizzazione tecnologica e telematica, fosse l’unico vero strumento catartico per un passaggio da un periodo storico a un altro, entro un’epoca di guerre tra culture che tentano di reimporre goffamente e con tanta recrudescenza ognuna la propria idea di identità; una definizione che per secoli e, ahimè, ancora oggi sembra rimanere un dogma noioso, un assioma indiscutibile; cioè essere come la società ti impone di apparire. Una società spaccata nel suo eterno dualismo tra divinazione e incarnazione, e in equilibrio tra bene e (in)consapevolezza del male e della sua cattiveria dominatrice. Ecco, quindi, che lo slogan illuminista e molto “radical” Liberté, Egalité, Fraternité solo rimane uno tra le tante ipotesi impolverate per un miglioramento della società anche solo da un punto di vista classista; possibilismo, cui nemmeno più gli stessi illuministi forse credono di fronte alla forza dell’uomo e delle sue antropologie bestiali ed egoiche. L’arte ha sempre rappresentato idealmente quel luogo dove si fondono, fuori dal tempo e da qualsiasi istituzione, proprio libertà, uguaglianza e fraternità. In un mondo dove la sessualità, la donna, i bambini e gli animali, ma soprattutto qualsiasi valore degno di attenzione, vengono sistematicamente sfruttati e calpestati pur di vendere anche solo un tostapane, paradossalmente – in arte – il tema delle identità dà fastidio, nella misura in cui esse rappresentano quel simbolo-traghetto nel verso della liberazione dal dogma, dell’evasione dalla prigione sociale e dalle divisioni razziali: un sogno, una visione, una utopia. Perfino il mondo stesso dell’arte è divenuto spesso luogo di istigazione all’antipatia, alla divisione e alla frammentazione, laddove competenza e competitività sono
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state sostituite da ruoli e competizione, e dall’aggressività: così come qualsiasi altra forma di radicalizzazione religiosa o politica. In cosa consiste allora il corpo della cultura? Come si incarna l’identità? Con quali modalità e sembianze? Ecco che in tempi di fusione culturale e integrazione sociale, per le quali abbiamo ceduto gran parte delle nostre libertà e conquiste individuali e culturali, e laddove i valori vengono sempre meno, riaffiorano simili quesiti; che sono anche questioni di opportunità e opportunismi. Il secondo Novecento è stato determinante, direi illuminante, per farci capire quanto le ideologie, i dogmi e le avanguardie abbiano mal alimentato e plagiato le nostre fantasie e le nostre vite, millantando un concetto di progresso e di evoluzionismo fondamentalmente inesistenti se non per quanto attiene all’idea di nicchia. Il processo di democratizzazione ha fatto il resto. In questo senso parlare e argomentare oggi di identità, lo si potrebbe fare solo passando da uno stato identitario come marchio e imposizione sociale a un approccio quasi trans-sociale, eterotopico, cioè al di là dell’uso stesso della definizione di identità: processi di democratizzazione e di statalizzazione assolutamente involutivi per l’identità individuale e l’autodeterminazione dell’uomo, nella cui contravvenzione qualcuno vedrebbe, invece, un possibile sviluppo. Nell’ambito della cultura visiva e non solo, dalla caduta delle avanguardie prontamente plagiate e sostituite dal mercato, l’arte è alla ricerca di una sorta di trans-identità, dove l’ibridazione, il metamorfismo, la fusione tra arte pura e applicazione dell’arte si muovono e dialogano nella ricerca di nuove forme identitarie e linguaggi estetici; una ricerca più libertaria e libertina. Ed è proprio in quell’eterno difficile rapporto tra divinazione e incarnazione che si gioca il ruolo dell’individuo; nel dialogo monologico tra corpo e spirito, tra fede e dogma. È rilevante lo sviluppo delle tecnologie applicate ai social network; essi incarnano da un lato il neo-surreale, il sogno di una vita parallela o forse un’isola che non c’è, dall’altro la liberazione dal confronto sociale diretto e la definizione di una estetica meno corporale e schietta, mediata e interfacciata. Se l’arte va nuovamente verso il corpo dopo decenni di concettualismi assurdi, ci si deve pur porre alcune domande basilari, sia per la vita che per la sua ridefinizione attraverso lo stilema della cultura e delle arti. Mario Casanova
Personaggi in cerca di “like” “Non sarà mai felice chi si lascerà tormentare dalla maggiore felicità altrui”, Seneca, L’Ira, III, 30, 3 Una volta i personaggi erano solo sei ed in cerca di autore, pirandellianamente, egoisticamente, a ventre basso ma con puntiglio cervellotico, oggi siamo un po’ tutti personaggi, di vocazione edonistica, ma in cerca di “like”, di rassicurazioni, non importa se solo virtuali. È questo forse uno dei motivi che ha fatto esplodere l’uso dei social network negli ultimi dieci anni, con implicazioni non solo superficiali, ma psicologiche ed intimistiche, andando cioè a cambiare non solo la rappresentazione del sé, ma anche la coscienza dell’io. Cristallizzare in un istante l’eternità di un sorriso, di una piega ben riuscita, di un vezzo, di una giornata importante come di un momento banale vuol dire rendere questo attimo ed in definitiva noi stessi unici, forti, desiderabili, incredibilmente vivi. Significa nascondere le “lune calanti”, godere di un quarto d’ora di celebrità, gareggiare con gli altri a suon di preferenze, cercare di superare gli “amici” connessi con un’immagine che lasci trasparire più felicità, più ricchezza, più bellezza, più prestigio dell’altro. Sembra una perenne corsa al rush finale, marcando più forte la nostra identità, un’identità che è sempre meno privata e sempre più pubblica. All’inizio era il fotoritratto, la perfezione dell’inquadratura, la trasparenza dell’incarnato, le tavolozze cromatiche specifiche. Oggi è il selfie e nella maggioranza dei casi il selfie-ritocco. Siamo sempre più cammuffati, perennemente con lo smartphone o il tablet in mano. Social è anche il lavoro, non solo per i comunicatori di professione a cui spesso è richiesta la specializzazione
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in “social media strategy” e la “bella presenza”, ma per qualsiasi professione che abbia contatto col pubblico. È qui che nasce la competizione serrata e lo stress, il tenersi sotto controllo in nome dell’efficienza e delle aspettative altrui, dando luogo ad un’esistenza invero separata tra reale e iperbolico, tra normalità ed eccezione, tra umanità e perfezione. Non che sia tutto negativo e che col catino sporco si debba gettare anche il bambino: i social sono positivi quando sono un modo di lasciarsi andare, di dare libero sfogo ai propri sentimenti immergendosi nella preziosità del momento senza l’ansia di precipitare le cose. Ciò che conta nelle nostre giornate frenetiche è il fermarsi un secondo a pronunciare un’affermazione positiva per stimolare l’ottimismo ed indirizzarci su un canale tranquillizzante; cambiare l’angolo visuale ci serve a vedere le cose in modo diverso. Ma serve anche raccontarsi come siamo davvero per non trasformarci in una ridicola iperbole: come scrisse Schopenhauer la felicità e l’infelicità coabitano in noi e “nello stesso ambiente ciascuno vive in un altro mondo”. Non appiattiamoci allora agli stereotipi della rete, al genoma del consumatore tipo, al fruitore passivo, alla moda, alla finta popolarità, ad una rappresentazione di noi artificiosamente studiata: non siamo fenomeni, non siamo tutti artisti, non siamo tutti popolari o primi della classe e soprattutto non siamo attori. A forza di costruirci finte identità non siamo più noi stessi: siamo tappezzeria in rete. Una terapia soft antirigetto? Quella di provare a tracciare, incominciando almeno dai profili strettamente privati, una mappatura reale dei nostri stati d’animo, passando dalla nostra follia artificiale a quella naturale, dall’osservare e dal copiare al partecipare. Liberi di scegliere. Ma tra rappresentazione privata e immagine pubblica c’è solo un asse che riconduce i due poli estremi, da nord a sud, da ansia da prestazione a pura felicità: l’asse terrestre, il ritorno al reale, al qui e ora, alla coscienza dell’io. Giulia Cassini
Diritto alla noia. Della molteplicità, della diversità, della relazione e della noia Da tempo siamo stati definiti società dell’immagine, la nostra identità è stata a sua volta ridefinita come multipla, fluida, rizomatica, come Pirandello aveva già intuito in “Uno, nessuno e centomila”, ma tutto ciò era nulla a confronto con quello che sta accadendo attraverso i social network. I quindici minuti di celebrità proclamati di diritto da Andy Wahrol, sono diventati ore e ore e oramai diventa davvero difficile creare icone durature in qualsiasi ambito. Assistiamo ad una sorta di normalizzazione della star, ad un detournamentdi massa che sta facendo di creatività, trasformismo, creatività, stranezza, straniamento, quotidianità e norma. È vero che una fetta consistente di coloro che partecipano attivamente alla social-virtual-life, tendono ad usare il loro profilo in modo piuttosto banale, ma molti diventano dei veri e propri professionisti del “pensiero divergente”, definizione che serbavo solo per artisti o comunque addetti ai lavori del mondo dell’arte. Datempo, infatti, considero la pratica artistica, prima di tutto una modalità di articolazione del pensiero non lineare, che si esplica attraverso una non definibile varietà formale, fatta di entimemi e non di sillogismi, di grandi balzi, di piroette semantiche, salti mortali connotativi che obbligano la mente ad esercizi di stretching immaginativo e possono trasformare ad ampio raggio punti di vista e posizioni, attraverso un’omeopatia della diversità di pensiero e di azione. Oggi in virtù, probabilmente, di una sorta di alfabetizzazione lampo data dalla fruizione, spesso in verticale, di una enormità di contenuti, si concretizza quella che nell’agiografia veniva vista come miracolosa “scienza infusa”. Cos’è la “scienza infusa”? Beh, di fatto un fenomeno paranormale, un miracolo che permetterebbe, a coloro che ne beneficiano, di possedere l’intera conoscenza da un momento all’altro, il dono delle lingue e dei codici disciplinari di ogni materia conosciuta. Bene, la rete permette un’infarinatura, o se non altro, una simulazione di sapere e di conoscenze che creano mitologie non più “del quotidiano”, soglia toccata dai reality, ma “mitologie nel quotidiano”. Si tratta allora di vedere se questa inversione di tendenza realizzi un miracoloso recupero sulla
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banalità raggiunta negli ultimi stadi dei media passivi, caratterizzati da dinamiche persuasive dell’interruzione (pubblicità all’interno dei programmi), creando attraverso i social network un nuovo pubblico che non è più spettatore, ma attore attivo, che crea modi e regole di fidelizzazione e soprattutto criteri di partecipazione. Queste sottocomunità di follower, tuttavia, accanto ad alfabetizzazioni lampo,creano altresì la percezione della partecipazione, mettendo seriamente in discussione il criterio di presenza, del “qui e ora”. Lo si riscontra negli eventi dove il criterio di partecipazione oramai è dato dal semplice “cliccare” partecipo, mentre il “forse” stabilisce una sorta di solidarietà,supporto e dichiarazione di stima agli organizzatori, pur implicando una sicura non partecipazione attiva. Questa simulazione della partecipazione, accanto all’ostentazione delle relazioni, porta a nuove modalità e percorsi di legittimazione che non presuppongono più la “pubblica relazione” ma si inverano anche attraverso il semplice contatto e crescono e maturano attraverso il consenso. Si creano veri e propri processi di fidelizzazione, gruppi di reciproco supporto che compensano sempre più il precedente “bisogno di visibilita” che spingeva ad una vera e propria “mania televisiva”. La visibilità social soddisfa maggiormente il bisogno di attenzione e di stima del singolo che modula la propria identità a poco a poco, misurando e prendendo gusto nel costruire, un post dopo l’altro la propria personalità unica ed irripetibile. Tuttavia in un cyberspazio in cui la regola sta diventando infrangere la norma, rendersi originali, speciali non prevedibili e propositivi, cosa resta all’artista? Forse la ricostruzione della banalità, il recupero del valore di un tempo ozioso, ma nonpassivo, la riscoperta della noia come un necessario stand by per creare lo scarto necessario all’effetto meraviglia. L’artista potrebbe altresì prendersi carico della ricostruzione di “comunità” e non communities, dove misurare la familiarità e non il consenso, dove praticare il confronto e non l’automatica condivisione, dove la stessa ammissione del conflitto e del fastidio ribadisce il nostro “essere umani”. Ma soprattutto potrebbe essere una grossa scommessa arrivare all’ammissione condivisa di un vuoto da rifondare su corpi reali, su sensibilità presenti e sulla necessità di una credibilità ermeneutica volta ad un tentativo di progressione cognitiva ed emotiva. Annalisa Cattani
L’identità non può essere rivelata. Solo l’incertezza può destabilizzare lo sguardo e proporci una narrazione nuova, anche irritante. Offuscare l’immagine ufficiale e mettere in scena un’immagine altra, immersa nel mondo irreale, postata, condivisa, è pratica comune. La possibilità di un’altra vita è ipotesi ammaliante. Piera Cavalieri
Intorno al progetto “other identity” Il progetto messo in campo dal fervore creativo e organizzativo di Francesco Arena sembra a prima vista una delle consuete istallazioni permutative basate sulla reciprocità dei mezzi oggi considerati più d’attualità: immagine fotografica, video arte, sperimentazione musicale, produzione di flussi multimediali, sperimentazioni transdisciplinari, mescolanze interattive che hanno a che fare con facebook, twitter e altri canali comunicativi: tutti mezzi mirati a restituire la dimensione sinestetica del volto corporeo dei linguaggi. Il tema intorno a cui convergono le diverse anime del progetto non sembra discostarsi dal complesso ambito (costantemente esplorato dagli artisti degli ultimi decenni) che riguarda le riflessioni intorno agli slittamenti dell’identità, processi strutturati per mettere in crisi i modi di auto-rappresentazione. Il fatto è che Arena – grazie alla versatilità del suo temperamento intellettuale- è in grado di filtrare i condizionamenti del “già sperimentato” riuscendo a documentare “altre forme di identità culturali”, un ampio panorama di ricerca che restituisce in modo problematico i mutamenti del presente in atto.
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Attraverso la fluida aggregazione di opere-operazioni caratterizzate da differente tensione fisica e psichica emergono molteplici alterità, automatismi, reazioni, ossessioni, abnormità, narcisismi, pose e miraggi autoreferenziali. Si tratta di movenze che producono stati di eccitazione della propria immagine attraverso il volersi situare al di là dei significati imposti dal sistema culturale, affermazioni di vitalità che si dilatano nella grande scena polisensoriale in cui ogni artista si espone al cosiddetto sociale andando oltre la riconoscibilità del ruolo che il mondo chiede all’individuo. Other identity è allora uno stato di espansività interattiva dei linguaggi creativi che acquistano significato attraverso la connessione simultanea delle differenti soggettività, mai perdendo di vista il fatto che questa spinta sarà tanto più forte quanto più profondamente emergerà la coscienza del proprio essere in relazione con gli altri, sintomo di un contesto in continuo divenire. Pur non conoscendo nel dettaglio il tenore degli interventi sollecitati e selezionati dall’artista-curatore Arena, sembra che la questione dominante non sia solo legata all’identità policentrica dei mezzi e delle strategie spaziodinamiche, ma all’energia immaginativa che la dimensione “altra” è in grado di suggerire come adesione permutante allo spirito problematico del progetto. Per fissare i sensi controversi di questa differente e agognata identità, il progetto espositivo desidera soprattutto verificare le patologie e le enfasi comunicative che lo sostengono, non la celebrazione tecnocratica delle sue metamorfosi, in fondo già abbastanza scontata, piuttosto lo spazio delle ambivalenze e delle ambiguità che gli artisti esplorano come sospensione della soglia tra il soggetto e il mondo, limite indefinibile tra l’io e l’altro da sé. Claudio Cerritelli
Il discorso, che posso, che sento di formulare è certamente sotteso al mio agire artistico, da quando sin da ragazzo incontrai l’esperienza speculare di Urs Luthi, adottando il travestimento come modalità operativa delle mie performance. L’assetto identitario come una sorta di fiume carsico ha attraversato e attraversa tutto il mio lavoro. Ma vorrei fare alcune considerazioni oltre il mio agire, ma al tempo stesso strettamente connesse ad esso. Non penso l’identità come a una struttura solidamente definita da un assetto egotico, anzi credo che l’io sia una forma fuorviante, una sorta di vuoto riempito e costituito dalle macerie delle innumerevoli identificazioni immaginarie succedutesi nel corso del proprio tempo. Intanto il profondo paradosso è l’osservarsi, allo specchio o in una foto, credendo di essere ciò che l’immagine altra ci rimanda, procedendo così in una sorta di assuefazione immaginaria che ci spinge a credere di vederci. Naturalmente questo vedere genera una ambiguità sostanziale: noi crediamo che gli altri vedano ciò che di noi vediamo, ma essi non vedono ciò che noi crediamo di vedere, così se si dovesse usare una metafora fotografica direi che veniamo sempre un po’ mossi. Ciò che mi colpisce è che attualmente proprio questo meccanismo è enfatizzato da una moda definita selfie. Ad ogni occasione possiamo fotografare la nostra immagine nel contesto esperienziale che stimo vivendo, confermando-ci la nostra presenza ad essere in quel luogo, per poi inviare in tempo reale l’immagine agli altri, così da attuare una duplice strategia identitaria: mi fotografo= sono in quel luogo; invio la mia immagine = creo la testimonianza dell’altro al mio esserci. Dunque la proliferazione dell’immagine di sé diviene la compulsiva attestazione del mio esistere e la domanda che tale mia esistenza sia riconosciuta dall’altro. Oltre tutto mi sembra significativo che, specie nei social network, l’immagine di sé sia sempre più contestualizzata in un ambito ordinario, banale, rassicurante, come se la quotidianità più insignificante possa in qualche modo contenere e non disperdere quell’assetto immaginario nel quale fingo (non certo coscientemente) di riconoscermi. Maurizio Cesarini
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Siamo sulla soglia, dopo quasi un millennio dato dalla centralità del D’IO stiamo approdando ad uno spazio che definirei Re-Public, per cui Other è la perfetta sintesi; restiamo ancorati all’IO oppure sperimentiamo il diverso, spostandoci dal nostro punto di vista centrale? Rossana Ciocca
Se l’identità (intesa come visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano) é in parte plasmata dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o spesso da un disconoscimento da parte di altre persone. Il riconoscimento che va conquistato attraverso lo scambio è una tipica preoccupazione dell’era che viviamo e fb in questo senso dimostra di riflettere in modo semplificato ed esplicito. Si crea una “self-validation “ riconoscimento ed approvazione che come concetti sono tutt’uno con l’autostima. L’età anagrafica è un parametro che bisogna definire perché si rapporta al processo di definizione della propria identità, dal latino IDEM….Io stesso. Esistono all’interno dei social dei condizionamenti reciproci e bisogna saper guardare attraverso chiavi di lettura ad hoc. Le identità dei social sono evidentemente reali nel senso che hanno reali conseguenze per le vite degli individui che le hanno costruite. Rale e virtuale sono quindi due facce della stessa medaglia che si sovrappongono e completano in una soluzione di continuità. In questo senso per le singole persone può divenire importante che il racconto di sé che propongno sui socia sia poi coerente con le vite che realmente vivono. I comportamenti online in un contesto non anonimo possono avere per la loro natura conseguenze sulla vita offline. Attraverso fb le persone fanno quindi -una dichiarazione d’identità-, quella che Walker chiama “ pubblica dichiarazione d’identità”. Questa impostazione lascia ad ognuno la possibilità di scegliere una narrazione corrispondente al vero oppure, al contrario, contenente elementi inesatti o finti. Da questo punto di vista facebook si presenta come luogo in cui la fragilità dell’individuo può trovare rifugio. identità_fragilità_aspettative = destino individuale. Tutto ruota sulla dialettica del riconoscimento. Anna d’Ambrosio
Unonessunocentomila. “Ho scritto t’amo sulla sabbia e il vento a poco a poco se l’è portato via con sé”. Questo celebre verso dei poeti Franco IV e Franco I ha segnato il 1968 più o meno come “C’est ne qu’undebut, continuons le combat” che nello stesso anno evidentemente veicolava dei contenuti diversi. L’Io dilagava sospinto dall’Esistenzialismo e dal boom economico imperante in Europa anche se lo Strutturalismo stava cercando di portare un po’ di oggettività nelle scienze umane. Claude Lévi -Strauss, Louis Althusser, Jacques Lacan o Michel Foucault ci hanno provato a far scomparire le insopportabili identità soggettive dalla mappa della cultura. L’Écoleduregard di RobbeGrillet, Marguerite Duras e Michel Butor aveva portato la letteratura sulla soglia dell’occhio fotografico: si descrive senza aggiungere aggettivi, si cerca l’oggettività dello sguardo per confrontarci con la realtà. Basta commenti e considerazioni personali. Un po’ come il Gruppo 0 in Germania o i nostri Gruppo N e Gruppo T avevano tentato di spingere l’arte verso la scienza, per venir fuori dai pastrocchi dell’Informale. Eliminare o limitare la soggettività è stato l’impegno di generazioni di intellettuali e artisti, scrittori e palafrenieri delle avanguardie logico-matematiche.
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Tutto vano. Negli anni Ottanta l’Edonismo reaganiano e il Pensiero debole hanno distrutto tutto. Gli artisti si sono messi a dipingere nella loro soffitta, i poeti hanno ripreso a interrogarsi sul proprio ombelico, le avanguardie si sono dissolte come nebbie mattutine, svelando un’enorme Montagna di zucchero in cui ognuno poteva trovare gratuitamente la propria identità con la propria faccina e il proprio pensierino della giornata. Tutti devono volersi bene ed essere amici e tutti possono esprimere pareri su tutto più volte al giorno, anche la notte e quando si è in bagno. Un universo di unicità si moltiplica più volte al giorno, l’Esserci o Dasein trova la sua iperbole nel selfie, passato e presente coincidono in un’eternità provvisoria, si lavora sempre non si sa per chi e sempre si sta in vacanza, tutti sono al centro dell’attenzione di tutti senza inutili pudori, gli specchi non riflettono più nulla perché ci pensano i devices, la realtà è un immagine in 3D. Spegnate la luce quando uscite. Valerio Deho
Il senso di Sé Radici senza memoria gelano nel mobile caos; immagini, profili, aggiornamenti di stato, siamo incantati e intricati in una rete di apparenti miracoli. È necessario vedere, riflettere, agire. Mirare l’occhio e il cuore all’essenziale. Avere senso, dove è il senso, cosa significa agire con-senso e, soprattutto, siamo davvero convinti di conoscere il nostro senso, il senso di Sé? Possiamo essere qui e altrove eppure non siamo in nessun luogo, viviamo ma non sentiamo e senza sentire ci disperdiamo convinti che il virtuale sia reale, ma la realtà di senso ci sfugge. I sedicenti “ruoli” si moltiplicano senza sapere, volere, valore, si finge a se stessi con-piacimento; un like, due like e via… una vita di like che però non piace. Ci si convince che un profilo sia un’identità, si vive in un ‘non senso’, ci si modifica nell’immagine, nello stato, nella continua presenza di un’assenza, si cerca nel vuoto pensando che sia pieno eppure, se soltanto volessimo incontrare noi stessi e gli altri da noi, basterebbe quel senso di Sé, quel sentire dentro ciò che realmente è fuori. È necessario osservare attentamente e praticare se stessi, nell’azione consapevole si allena la memoria e nella memoria ritroviamo la nostra identità, il senso delle cose, di ciò che siamo, riscopriamo il senso della vita stessa. Non è nella contemplazione che possiamo conoscerci bensì nell’agire. Essere consapevoli delle azioni ma, ancor più, consapevoli di essere e sentire profondamente che spetta soltanto a noi, e a nessun altro, dare un senso alla nostra vita. In tale percorso l’Arte è un punto d’inizio per parlare dell’enigma del senso, della ricerca del senso nell’esistenza umana; l’Arte ci offre la possibilità di “decodificare” quel senso di Sé del quale abbiamo semplicemente dimenticato la Sacra Origine. Amalia Di Lanno
Le nozze del sé Progetto di Critica Performativa di Isabella Falbo sul lavoro di Francesco Arena “Other Identity”. Altre forme di identità culturali e pubbliche, 2015/16. L’intervento di Critica Performativa Le nozze del sé risponde visivamente al lavoro di Francesco Arena e al suo progetto curatoriale Other Identity, che indaga il tema della auto-rappresentazione del sé al tempo dei social networks, attraverso i lavori fotografici e performativi di 29 artisti internazionali. Il progetto espositivo di Arena nella sua totalità è visto dal critico Isabella Falbo come amplificazione del lavoro dell’artista; l’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” si sviluppa dunque sull’intera mostra e non sul singolo artista. La Critica Performativa è scrittura che si trasforma in immagine, occhio critico che diviene corpo critico sulla
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scena, ibridazione tra pensiero interpretativo, performance e moda. L’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” risponde visivamente al progetto espositivo “Other Identity” di Francesco Arena evidenziandone specificità e concetti attraverso una fashion performance che pone la riflessione sulla costruzione identitaria e sulla spettacolarizzazione della propria immagine nella ricerca del vero sé. Se non sei nel web, non sei nessuno: oggi la costruzione e la comunicazione dell’identità personale e professionale parte dallo spazio elettronico e digitale di Internet. La profezia “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes” (In futuro ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità) che Andy Warhol, icona della Pop Art americana, lanciò nel 1968, è stata negli ultimi dieci anni completamente metabolizzata da tutti, metamorfizzando, attraverso l’uso indispensabile dei social, il processo di identificazione e comunicazione del sé. Se tradizionalmente il viaggio nella costruzione della propria identità è affidato alle esperienze personali e la sua comunicazione consegnata ai segni vestimentiari creati dalla moda ufficiale, amplificata dalle controculture o dall’estro personale, oggi è indissolubilmente legata ai social e, il riflesso che decidiamo di dare di noi stessi al mondo attraverso la nostra immagine, riverbera di quello che ci creiamo attraverso i post su Facebook, Twitter, Instagram, ecc. A volte le due identità - reale e virtuale se ancora così si possono differenziare - coincidono con imprudente fedeltà, altre volte sono indipendenti, l’uno avatar dell’altro. La pratica del selfie è il compromesso più attuale tra chi realmente siamo e chi vorremmo essere; la facilità di creazione e di condivisione ha facilitato la conquista del “diritto all’immagine di sé”; L’uso dilagante di questa pratica di autorappresentazione appare come una verifica al diritto di esistenza che risuona come un urlo muto ai meccanismi del consenso. Per gli artisti, il percorso verso l’indagine del sé è privilegiato poiché, coincidendo con un processo creativo, è terapeutico. Gli artisti di “Other identity” utilizzano tutti la macchina fotografica come mezzo d’espressione, image makers le cui pratiche artistiche partono dalla realtà dell’immagine e portano a visioni dell’immaginario che da collettivo diviene privato (Francesco Arena; Carlo Buzzi; Mandra Stella Cerrone; Massimo Festi; Anna Guillot; Sebastian Klug; Beatrice Morabito; Giulia Pesarin; Giacomo Rebecchi; VioletaVollmer); pratiche artistiche che attraverso l’indagine del proprio corpo portano all’osservazione della propria psiche (Roberta Demeglio; Boris Eldagsen; Anna Fabroni; Teye Gerbracht; Barbara Ghiringhelli; Teresa Imbriani; Natasa Ruzica korosec; Lorena Matic; Chiara Scarfò) ed a una messa a nudo dell’anima (Pamela Fantinato; Giovanna Eliantonio Voig). Tuttavia, anche la verità dell’immagine più naturale è un gioco di maschere. Il titolo “Le nozze del sé” dell’azione di Critica Performativa di Isabella Falbo, riferisce all’unione mistica tra Anima e Animus da cui nasce l’interezza del nostro Sé, arrivando così a comprendere chi e cosa in realtà noi siamo. Solo da un percorso di crescita personale di questo tipo potremo costruirci la nostra vera identità. L’azione di Critica Performativa Le nozze del sé si sviluppa su tre livelli: Primo livello: Vuole mettere in evidenza la specificità del progetto espositivo basato su pratiche artistiche fondate sull’utilizzo del mezzo fotografico. - In scena una macchina fotografica posta su un treppiede scatta automaticamente scandendo un tempo veloce e scolpendo un ambiente sonoro. Le immagini fotografiche sono visibili in diretta in un maxi schermo posto nella stessa sala. - Francesco Arena entra in scena nella sua veste di artista ed incarna il suo ruolo. Appropriandosi della macchina fotografica resta in scena per realizzare quello che diventerà un nuovo progetto (opere di critica performativa). Secondo livello: Vuole mettere in evidenza il concetto della costruzione identitaria attraverso l’apparenza e ap-
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partenenza sociale e pubblica, poi comunicata attraverso i social. Inoltre,questo livello dell’azione risponde al progetto espositivo “Other Identity”evidenziandone diversi elementi convergenti con aspetti specifici della Critica Performativa: L’identità di genere, intesa non strettamente nel senso di maschile/femminile ma in senso lato e contestualizzata come artista/critico. L’identificazione del sé: come critico performante Isabella Falbo si pone come nuovo soggetto ibrido che si posiziona nel mondo dell’arte (nuova forma di identità); la Critica Performativa è occhio critico che diviene corpo critico, transitum, in cui l’identità del critico è chiamata di volta in volta in causa attraverso un corpo sempre vestito che si carica di significati attraverso l’elemento vestimentario. (nuova forma d’identità in continua trasformazione). - Il critico Isabella Falbo entra in scena (apparentemente) nuda (con un andamento da passerella), metafora dell’identità di genere: quella sessuale. Porta con sé segni vestimentari. - Si ferma davanti alla macchina fotografica. - Indossa gli indumenti e gli accessori. (Questa presenza vestita sulla scena diviene simbolo dell’identità prodotta dalla cultura umana frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale, ri-creata quotidianamente. Introduce la “Fashion performance”, poiché è attraverso l’uso dei segni vestimentari creati dalla moda che può avvenire la prima costruzione e comunicazione identitaria basata sull’apparenza, e il concetto di identificazione del sé, come percorso per ri-trovare noi stessi, chi e cosa in realtà noi siamo, individuato come leitmotiv che lega le poetiche di tutti gli artisti coinvolti.) - Entra in scena una modella vestita (con un andamento da passerella). - Si ferma davanti alla macchina fotografica. -Si spoglia e lascia cadere i segni vestimentari che indossa rimanendo(apparentemente) nuda ma il corpo è vestito perché coperto di tatuaggi. (Questa presenza sulla scena diviene simbolo della messa in gioco dell’identità prodotta dalla cultura umana frutto del persistente rinforzo sociale e culturale, che può essere sostituita con il vero modo di essere, la parte autentica che c’è in ognuno: la propria idea del vero sé.) - Francesco Arena fotografa ogni stadio di queste trasformazioni in cui emerge l’archetipo dell’identità che si acquista e si perde a ripetizione. - Il critico e la modella escono dalla scena In questo secondo livello la Critica performativa rappresenta visivamente come attraverso il vestirsi/travestirsi si cominciad indossare un’identità, ci si crei un’apparenza/appartenenza sociale e pubblica. È un gioco di maschere: ogni persona per vivere socialmente attua consapevolmente una serie di mascheramenti sorretti dal modo di vestirsi di atteggiarsi, di consumare. L’identità è un uroboro, un serpente che si mangia la coda. Pone riflessioni sulla questione dell’utilizzo dei segni vestimentari, mezzi creazione ma anche di omologazione identitaria; il corpo tatuato come espressione e amplificazione della propria personalità. Terzo livello: Attraverso un altro aspetto specifico della Critica Performativa che è quello di coinvolgere il pubblico (per suscitare in esso una interpretazione attiva dell’opera d’arte), in questo terzo livello Le nozze del sé traspone visivamente i concetti indagati da Other Identity del privato che diviene pubblico sui social network e la spettacolarizzazione della nostra immagine attraverso il pubblico/fruitore che, sotto il nome di “amici” e “followers”, diviene elemento essenziale. - Il critico entra in scena. Dietro procede la modella, di seguito gli artisti (in fila come nelle sfilate) - Ciascuno si ferma un attimo davanti ad Arena per un autoritratto, cercando di indossare la propria maschera migliore, diventando autore di sé stesso. - Questi autoritratti appaiono nel maxischermo
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- Nel frattempo il critico andrà verso il pubblico, invitando anch’esso ad entrare sulla scena al fine di posare per un autoritratto che documenti il tentativo di “assomigliare quanto più possibile all’idea astratta che hanno di loro stessi”. Isabella Falbo
“La cultura fa riferimento alla capacita” degli uomini di trasmettere il senso della propria esistenza “ e le Identità diventano culturali quando le varie esistenze che le compongono si aggregano, diventano pubbliche, Other Identity, conservando ciascuna la propria peculiarità artistica ed umana soprattutto. L’Arte del Comportamento è parte integrante di queste Identità culturali con i suoi vari linguaggi, Angelo Pretolani afferma in un suo scritto “ ogni video vive di vita propria, concepito non come semplice documentazione di una performance ma come prodotto autonomo capace di viaggiare in parallelo all’esperienza performativa.” Accanto all’Artista viaggia anche il profano spettatore, quasi all’unisono. Anna Fiordiponti
Un tempo erano i pittori e gli scultori, poi i fotografi, a definire le identità dei personaggi ritratti. Bernd e Hilla Becher dichiararono a proposito della celebre serie fotografica di August Sander Uomini del XX secolo: “Sander era un magnifico ritrattista che rispettava sempre il soggetto e ne riconosceva il ruolo. […] Accettava il soggetto proprio nel ruolo che aveva scelto di interpretare”. Ora sono i social media che ci restituiscono quotidianamente, in maniera spesso pervasiva, i volti (e le identità) della nostra epoca. Il ritratto fotografico generalmente non dovrebbe documentare solo quanto incluso nell’inquadratura, ma anche l’occhio, l’indole, la curiosità, la cultura del fotografo. Nella travolgente marea di immagini che ci sommerge, il cortocircuito tra soggetto fotografato e fotografante si salda invece sovente nella reificante riproposizione di stereotipi fisici e caratteriali del nostro tempo. Ma in realtà anche questa valutazione suona semplicistica e stereotipata. Il tutto e il contrario di tutto possono forse essere elaborati solo ricorrendo ad alcune keywords: ritratto; autoritratto; distacco; empatia; candidcamera; album di famiglia; travestimento; mutazioni; presenza; assenza… Matteo Fochessati
Accendere il pc, collegarsi ad un social network e iniziare a veder scorrere sulla pagina davanti a se nuovi selfies …Ma il Tizio qui davanti non si era già fotografato ieri davanti allo specchio mentre mostrava orgoglioso la sua nuova T-shirt? Oggi, perché si mostra sdraiato sul letto? Ma chi è costui in realtà? Uscirà mai di casa? Ah si! Giorni fa si è fotografato all’interno dell’ascensore mentre faceva una linguaccia, simpatico! Ma lui non è il solo. Chiunque abbia uno smartphone ed un profilo social, si è scattato almeno una volta un selfie. Un selfie è il risultato di uno scatto fotografico facile da realizzare, poco importa se la foto non è messa a fuoco in modo ottimale o scattata con una luce equilibrata.. si può anche sbagliare ma si è comunque protagonisti. Il selfie è alla base della comunicazione sociale, il vero scopo di un autoritratto è la condivisione immediata di un’esperienza momentanea; una voglia improvvisa di comunicare agli altri cosa si sta facendo, provando, pensando, indossando, tramite uno scatto in grado di influenzare il modo in cui gli altri ci vedono. Questa meccanizzazione del gesto creativo attraverso il mezzo fotografico dà la possibilità a tutti di apparire migliori, di avere un’immagine ricercata e di mettersi alla pari con chi utilizza con maestria l’arte della fotografia per esprimersi. Visto però che una fotocamera in mano, come detto, ormai ce l’abbiamo tutti, bisognerebbe lavorare su noi
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stessi per imparare a fornire agli altri un’immagine il più sincera possibile di chi siamo. Ma non solo! Sarebbe esteticamente più interessante “impegnarsi” e condividere dei ritratti più decorosi, meno kitsch ed ammiccanti al limite dell’improbabile. Sfruttiamo al meglio la nostra nobiltà low cost. Patrizia Gaboardi
Alcuni giorni fa su un social network girava un’immagine di Narciso che si specchia in un telefono cellulare. Il quadro originario era quasi sicuramente di Caravaggio, sottoposto ad un’operazione di “ready-made”, che da “L.H.O.O.Q”, la Gioconda di Marcel Duchamp, alla Pop Art, alle più recenti invenzioni della pubblicità ha decontestualizzato e modificato opere celebri ed oggetti d’uso. Interventi di questo genere non scandalizzano più nessuno, ma nella sua semplicità l’immagine di Narciso che si specchia nel telefonino codifica una situazione che è sempre più evidente. Il diffondersi della macchina fotografica incorporata in altri strumenti ha reso la fotografia una pratica quotidiana, che consente di documentare azioni e persone in passato non sempre protagoniste. Fuori dal circuito dei fatti memorabili dell’esistenza della persona media, nascite, matrimoni, compleanni il dispositivo fotografico pare essere entrato in un circolo vizioso, destinato a cogliere momenti di assoluta normalità che diventano prove da set cinematografico. Non è soltanto il Narciso liberato ad alimentare i molteplici quindici minuti di celebrità di warholiana memoria, ma un intero apparato mentale, nel quale viene costruita quotidianamente un’altra identità. L’uso continuo e generalizzato della fotografia, manifestazione di quella che Guy Debord ha definito la società dello spettacolo, genera una sovrapproduzione di immagini spesso banali o addirittura agghiaccianti, per il loro corrispondere ad iconografie predefinite dell’immaginario medio, o per il mettere in scena momenti che appartengono semmai ad una sfera privata. In questo trionfo della normalità e del conformismo mediatico, la fotografia come linguaggio artistico rivisita a volte immagini passate, spezza la quotidianità comune, incrocia la pittura rivitalizzando con un processo inverso il riferimento delle origini, ripropone tecniche e dispositivi più antichi, dal foro stenopeico all’analogico, guarda il mondo e la società con un occhio attento, critico, ma anche malinconico. Medium usato, a volte abusato, la fotografia si rivela sempre più il mezzo per la ricerca di un’identità che può percorrere molte strade, nella speranza che nei molteplici incroci con la tecnologia trovi in fondo allo specchio la conoscenza. Alessandra Gagliano Candela
Sul concetto di autorappresentazione ai tempi dei social media Il persistente martellamento compulsivo di testi e immagini, al e dal quale pochi umani contemporanei riescono ormai a sottrarsi, se non al prezzo di un’alienante quanto tormentosa e in fondo miserevole astinenza dal consumo di social media, sembra ineluttabilmente destinato a moltiplicarsi a dismisura. Il fattore che progressivamente incalza a siglare una differenza rispetto al passato – quando autori e lettori rimanevano perlopiù distinti lungo i fianchi di un confine piuttosto netto – è invero quello della commistione: chi scrive e chi fotografa sono le stesse persone che poi leggono e osservano. In effetti, felicemente inaugurata dall’ascesa della tecnologia, una sorta di democrazia del fare aveva concesso a ciascuno tutti gli strumenti e le competenze basilari per inventare, elaborare, comporre, costruire; salvo poi degenerare – specialmente con l’avvento dell’era digitale – in un’anarchia espressiva caotica e beffarda, neutrale fino all’indifferenza. Insopportabile, troppo umiliante, in un siffatto mondo di autori, rimanere eclissati tra la folla crescente per poi
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sprofondare in un inappellabile anonimato; quasi nessuno sa difendersi dalla tentazione di alzare la mano, e a farsi strada è un’anomalia del gusto per cui non sparire è preferibile anche al prezzo di un apparire banale o mediocre. La contagiosa moda di dire comunque la propria – sia abbozzando parole per dar vita a liberi pensieri, sia raffigurando se stessi in divertite pose – ha per esito il generico sovrapporsi, sull’effettiva esigenza di informazioni, di un egotismo tendenzialmente futile e artificioso, e il frequente sconfinare di un sano e produttivo orgoglio narcisistico in forme embrionali di vanità schizofrenica. Un atteggiamento altamente selettivo è dunque irrinunciabile: non potendolo ottenere da chi scrive e da chi scatta – prima, durante o dopo aver letto e osservato – è legittimo aspettarselo dagli operatori dell’informazione e dell’arte, in occasione di raccolte o di mostre che intendano proporre, con verosimile utilità sociale, quei segmenti di eccellenza comunicativa senz’altro esistenti: da scovare con prudente cura, soltanto, nel torbido guazzabuglio dei post e dei selfie pioventi a dirotto. Carlo Gallerati
Con la tecnologia sempre più avanzata che abbiamo, tutto cambia a velocità una volta inimmaginabile ed ora divenuta realtà. Di vantaggi ce ne sono tanti basti citare l’Internet che ci dà la possibilità di comunicare in tempo reale in qualsiasi parte del mondo. La fotografia ha subito dei cambiamenti radicali. Chiunque oggigiorno può fotografare e fare una bella foto. Quello però che contraddistingue un’artista è che l’artista dà un’impronta riconoscibile in tutto il suo lavoro in maniera consistente. Personalmente il mio modo di pensare cosa costituisce un fotografo è cambiato con l’avvento del digitale. Per me la camera oscura era sacra, parte integrante e necessaria per creare un’immagine. Se uno non fosse stato in grado di stampare per me non era un fotografo. La quasi morte di tutto quello relazionato a creare una fotografia: camera oscura, carte fotografiche, viraggi è stato rimpiazzato da un mondo digitale dove c’è anche la possibilità di avvalersi di stampatrici o macchine fotografiche facili da usare, basti solo pensare ai telefonini. È stata una rivoluzione di apportarci alla fotografia che da un lato la considero una grande perdita perché il digitale non riesce a creare quello che la fotografia analogica riesce a darci. Uno dei grandi vantaggi di quando la fotografia fu creata era la capacità di dimostrare I fatti di quanto fosse avvenuto, poco a poco con alcune tecniche di cui solo alcuni se ne avvallavano si era create la possibilità di alterare un’immagine e il digitale ha reso possibile e accessibile un totale cambiamento. Basti pensare alle donne virtuali costruite in Photoshop, alla facilità di eliminare rughe, difetti di pelle, rendere una persona magra, grassa. C’e una capacità e facilità di alterare un’immagine e proiettare quello che si desidera. Ci sono vantaggi positive e negativi. A ognuno sta trarre le somme. Francesca Galliani
I Selfie antropomorfi del Sé L’arte contiene le varie stratificazioni dell’essere nelle varianti possibili dell’archeologie dell’esistenza. Ma che cosa è l’essere riprodotto da un artista nell’immagine stessa che si riproduce ? I media hanno variato decisamente i modi di concepire e di assimilare la vita. Questa mostra dal titolo esaustivo: “Other Identity” pone in evidenza come i mezzi di comunicazione hanno reso la vita diversa dove la distinzione nella logica stessa relazione di creare pensiero e anche il metalinguaggio espressivo. La fotografia agli albori del novecento impose all’arte nuovi modi e frontiere concettuali. Duchamp cambiò l’aspetto oggettuale dell’opera nella concezione. Ma oggi si pensa forse di più in maniera veloce al giocatore francese Duchamp. In tal modo si comprende il rapporto anche memorico del virtuale. Velocità, comprensione, pulsione, evasione, negazione, volere, ambire, comprendere e talvolta mancanza di pensiero di valutare
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di distinguere. Autorappresentazione possibile, desiderio di essere ancora, di amare, di autorappresentare. Oggi si avverte il bisogno reiterato di essere nel virtuale possibile, in ogni attimo dell’essere, in nuove forme sempre riprodotte di iconografie speculari del se. L’essere umano trova la sostanza di se stesso in nuovo io monade brechtiano in nuove dinamiche psicoanalitiche. Warhol comprese questa esigenza riformulando l’istante interpretato dal virtuale. L’istante diviene arte. La fotografia rappresenta oggi il modo per comprendere i vari fenomeni di trasformazioni culturali in nuovi terminologie e linguaggi. Una mostra che confronta temi e stili diversi per comprendere la realtà possibile in cui viviamo, l’epoca cosi veloce, le orbite lente, le distanze, le carrucole, le nostre identità invecchiano ed è bello rimanere nello spazio dell’istante. Roberto Garbarino
Non parlerei di come è cambiata l’immagine di noi stessi, ma della facilità del modo di presentarci, autorappresentarci con la nostra immagine, enfatizzata dalla tecnologia e dai social network, trasponendo ciò che era il dramma dell’uomo moderno, considerando l’uomo moderno mi riferisco alla nascita dello Stato borghese, epoca in cui nascono peraltro i primi studi di psicoanalisi ovvero Sigmund Freud e la scuola di Vienna. Ciò richiama il concetto di maschera, coscienza, individualità e soggettività. Quell’antico dilemma che accompagna l’uomo, l’uomo borghese in senso sociologico e non socio-economico, il conflitto tra il proprio Io e la maschera ovvero il vestimentum che indossa nelle esplicazioni della sua individualità all’interno della società, enfatizzato da ruoli privati o professionali, divise invisibili o reali. Il buon uomo, la buona donna, il politico, il giudice e così via, forme di un essenza inesistente, un universo, un abisso. Questo resta, è atavico all’umanità, come resta e si è consolidata la psicoanalisi, divenendo una scienza più sofisticata per chiarire, riordinare, classificare e curare vari tipi di umanità. Quanto a chi scrive ho sempre ritenuto che la filosofia e soprattutto l’etica fosse un ricco thesaurus per assolvere alla medesima finalità e codesta è strettamente connessa all’estetica, all’analisi critica e sistematica del bello o meglio dell’idea del bello. Perché parlo di tutto ciò? Ciò deriva dal duplice profilo con cui si osserva l’altro, l’altra identità, tema raccontato da questa rassegna fotografica e soprattutto dagli altri. Finora mi sono concentrata sull’altro, sulla sua maschera che può esser o meno enfatizzata dal singolo individuo. Come? Semplicemente con le sue auto-rappresentazioni, i famigerati “selfie” (parola inglese che equivale all’autoscatto fatto con uno smartphone, che sovente è immediatamente trasferito sui social network). Sorrido pensando che questa parola, la quale diventa un gesto - di cui anche io non sono immune, anzi spesso me ne avvalgo, unendo ironia, provocazione e condivisione, uno dei valori fondanti della mia individualità e del modo in cui considero la vita - ne richiama un’altra, “selfish” che in inglese vuol dire “egoista” e fa pensare ad altro. A cosa? A un ego che cresce a dismisura, una percezione di sé che si eleva e dà vita al fenomeno contemporaneo del narcisismo di massa. Un gesto, l’autoscatto, il cui lontano, vetusto parente, é l’autoritratto dell’artista, che - diversamente da quest’ultimo - si esaurisce nello stesso, portando anche l’illusione o peggio la presunzione di essere creativi. L’arte è elevazione di pensiero e la fotografia o meglio ciò che rende la fotografia un’arte non è il suo essere un mero contenitore di memoria, di ricordi, ma è consapevolezza, capacità di guardare e di guardarsi. Nella “selfie attitude” della stragrande maggioranza degli individui, codesta manca oppure lo sguardo di coloro che si ritraggono è lontano e privo di quell’introspezione con cui l’artista osserva sé stesso, gli altri e il mondo che lo circonda. La capacità di “insight” ovvero di guardarsi dentro vedere e riconoscere ciò che si è, iter foriero di un pensiero autonomo e di una autentica consapevolezza di sé è l’antitesi del narcisimo di massa, il quale nasce da una distorsione della percezione di sé, priva di alcuna consapevolezza, fuorché quella esteriore, seppure esasperata.
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Tutto resta in superficie e la superficie diventa non più contenitore, ma presupposto, fondamento di un contenuto che non c’è, corollario di un vuoto che dilaga, un nichilismo sterile e improduttivo, privo di critica e di dinamismo intellettuale, quello contemporaneo. Nunzia Garoffolo
Narcissus-pseudonarcissus Alle origini della possibilità di una duplicazione fisico-chimicadel corpo umanoe delle “cose stesse” la fotografia fu definita come “uno specchio dotato di memoria”. La memoria, il ricordo erano ancora concepiti solo come memoria volontaria, accumulo sufficientemente ben organizzato di eventi vissuti lungo un asse temporale e orientati da una intenzionalità. Si era quindi ancora lontani dalle intuizioni di Proustsulla memoria involontaria, dal flusso di coscienza teorizzato da William James e applicato da James Joyce soprattutto nel Finnegan Wake, de “La Lettera rubata” di E. A. Poe (che sarà decostruita in un famoso seminario di Lacan), dall’esperienza dello shock di Benjamin. In realtà di questa famosa citazione bisognerebbe mettere a fuoco meglio più che la memoria l’immagine dello specchio, evocato probabilmente dalla superficie translucida dei primi dagherrotipi. Quella lastrina di rame argentato, spesso inserita in un prezioso contenitore, implicavala fascinazione del doppio, del Doppelgänger, dell’ombra, nel soggetto fotografato e eidetizzato dalla lunga posa. Al di là della velocità e rapidità performanti, il dagherrotipo e in generale le prime forme tecniche di immagine fotografica sono quanto di più simile si possa rintracciare nella lunga storia della produzione di immagini del sé, cioè della propria identità. Nel piccolo, baluginante e fosforico display di un cellulare o nelle immagini dilatate e sempre più perfette dei videogames e di tutti gli altri strumenti di comunicazione interpersonale si produce una memoria effimera ed istantanea si un soggetto che si autodistrugge in quanto tale in pochi secondi. Il soggetto immette nella rete in tempo reale le informazioni più varie e/o irrilevanti credendo di contribuire ad allargare sempre più le maglie di un modello social, una complicità solidale e condivisa, una sorta di mathesis universalee di illusione utopica e amichevole. Tutto questo per quanto orgasticamente e compulsivamente il dito digiti non corrisponde allo statuto reale dei media per due semplici motivi, il primo perché, come ci hanno insegnato, il media è il messaggio stesso e il secondo, più brutalmente, perché semplicemente il Soggetto non esiste. Certamente esiste nel senso comune come corpo più o meno ingombrante ma il suo paradigma è plausibile solo all’interno di un sistema dualistico, in un sistema cioè che separa l’ordine della natura da quello del simbolico, modello che parte da Platone e arriva fino alla rivoluzione fenomenologica di Husserl. In una società sempre più omologata che fornisce identità possibili quasi a comando e che paradossalmente cerca di recuperare la perdita del Mito attraverso produzioni cinematografiche e televisive, una società “liquida”, secondo una definizione troppo abusata ma efficace, il soggetto banale, l’everyone non può essere che un bricolage di brandelli di vita insignificanti, schegge di esperienza non pienamente compiuta, prodotto dell’autocombustione dell’Es e della sua organizzazione, può ricostituirsi parzialmente solo ponendosi come monade se pur un po’ ammaccata. Il rapporto stabilito da Lacan tra inconscio e linguaggio per cui “l’inconscio funziona come un linguaggio” e l’altra tesi che sia il linguaggio a parlarci e non noi a usarlo come un qualunque strumento più o meno neutrale trova il suo fondamento in quello che lo stesso Lacan chiama “la fase dello specchio” cioè il periodo della primissima infanzia in cui si costituisce il primo nucleo, quasi un’archeologia, di quella che poi definiremo come identità
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personale. Il discorso è molto complesso e non è facile orientarsi nel linguaggio del famoso analista i cui scritti tra l’altro sono ricavati direttamente dai seminari che teneva ogni mercoledì alla Sorbona. Al di qua quindi della relazione che egli stabiliva tra il Moi e il Je, quella identità per cui io arrivo a pronunciare orgogliosamente il pronome personale “Io” funziona in realtà come un sistema di differenze e di opposizioni esattamente come nel linguaggio si identifica il fonema come l’unica unità fonica minima dotata di valore autonomo e distintivo. Come già sosteneva Saussure il linguaggio, tutto il linguaggio, non è altro che un sistema di differenze. Abbiamo sottolineato semplicemente la funzione costitutiva del linguaggio in relazione all’inconscio e al desiderio, torniamo ora all’assunto principale di questo intervento. Nell’uso complessivo e sostitutivo del vissuto reale che si fa dei nuovi media, il “Je est un autre” di Rimbaud acquista una nuova verità e diventa il “ Je est lesautres”. L’identità tradizionale, quella nata con la cultura borghese dell’Io padrone del proprio destino implode totalmente. Il paesaggio esterno coerentemente diventa quello di Metropolis di Lang o meglio di BladeRunner di Spielberg o di “Total recall” di Whiseman, film che hanno in comune l’utopia negativa di un mondo popolato da esseri-macchina, ubbidienti ed eterei, cui solo la memoria e la fotografia permettono il raggiungimento di uno stato di coscienza e quindi di rivolta. Si consuma definitivamente quella separazione dualistica di cui avevamo parlato e si avvia quella del macchinismo immaginato dall’illuminismo più radicale da Lamettriesino a Sade, solo che questa volta l’uomo-macchina è in versione immateriale, un replicante che esegue ciecamente o almeno acriticamente. Attraverso l’uso intensivo e la dipendenza accelerata del mezzo la cui funzione costitutiva di un doppio ideale assomiglia sempre più, almeno metaforicamente, allo specchio di Lacan. La complessità dell’ego si sfalda e si riversa nelle sue performances e nel suo behavioure si viene analizzati solo in funzione dei propri comportamenti esterni, prescindendo completamente dall’articolazione di una forma interiore che per comodità chiameremo ancora personalità o sentimenti. Regredendo quasi ad uno stadio infantile e mitico l’utilizzatore terminale dei nuovi media non percepisce l’icona o il fantasma come separati da lui, si confonde con il suo involucro esterno e nello stesso tempo si adegua all’immagine speculare che lo fronteggia come doppio idealizzato, come Super io. Come diceva Derrida la vita diventa “l’origine non rappresentabile della rappresentazione” di un mondo non più dualistico ma monistico,la sua unica filosofia possibile e gli umani, in maniera apparentemente delicata, si rinchiudono in quelle bolle trasparenti che troviamo nel mondo visionario di Jeronymus Bosch. Il quadro che ho cercato di tracciare non è certo quello che viviamo oggi ma è pensato sui tempi più dell’antropologia che della storia, un accumulo progressivo ed entropico in cui l’organico e il meccanico diventeranno inscindibili, una realtà futuribile ma non impensabile e di cui cominciamo a scorgere i primi elementi di una futura “archeologia” come direbbe Foucault. Se è vero che è la vita ad imitare l’arte, il suo immaginario però è già oggi ampiamente rintracciabile nel cinema, nella letteratura, nella musica e nel continuo mescolarsi dei vari linguaggi artistici e comunicativi. Concluderei con questa affermazione di Claude Lévi-Strauss tratta da un seminario dedicato all’identità e pubblicato già nel 1977 “ le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve rinunciare a considerarsi come essenziale per vedersi ridotta a funzione instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento egualmente effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della storia, supremamente indifferenti al nostro autismo…..” L’antropologia appunto….. Carlo Garzia
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Sì, guardarsi con insistenza allo specchio significa anche apporre modifiche al proprio aspetto – significa aspettarsi di più anche da sé stessi. Può essere faticoso. E irrealistico. La costruzione di un Sé pubblico non è solo marketing personale, né solo strategia di comunicazione, ma pure decostruzione di un Sé precedente, più ordinario, e produzione di un Altro da Sé, più fantasioso. In tale percorso si insinua un verme solitario, un germe di schizofrenia. Ogni Dottor Frankenstein diviene – lentamente o velocemente – una Creatura di Frankenstein. Può essere persino divertente. E addirittura realistico. Come un horror movie con buoni effetti speciali, che ora spaventa e ora diverte. Ferruccio Giromini
Mi guardo attorno e vedo maschere e la cosa peggiore è che sono praticamente tutte uguali, spesso stereotipi insignificanti - e questo nel quotidiano. Nell’arte, l’uso del corpo oggi è molto spesso soltanto teatro di infima categoria. Caterina Gualco
Assolutamente interessante...indagare il gioco dei ruoli concede una parte ludica al lavoro che riflette un sentimento di “legittima difesa”, meno divertente, ma totalmente affine. Arte sa affrontare analogia e differenza in unica immagine...potere di un colpo d occhio muto. Romina Guidelli
Lo specchio social continua a riflettere/ci, senza Cocteau, ~ogni lato del nostro prisma che modifichiamo, ~ nel pendolo meteoropatico dell’evento. Monumentalizziamo arcaicamente i font, ma gli evidenziatori gialli, non hanno il tasto Blue like. Il memo e il meme, si mescolano nei NOfilter digitali. Hastgghiamo senza il Perec quotidiano e, non cataloghiamo più i nostri libri trascorsi. Emogiglifici descriviamo stati gourmand e, come gli egizi veneriamo i gatti. Ogni Still è un life & un live, nell’edit del profilo. Tutittimo, rituittiamo, citiamo il tuit del villaggio e, cosi notifichiamo il nostro account. Tutto emerge, tutto ci appare, ma non ventimila leghe sotto il web dove restiamo ancorati nell’umano sottomarino, del nostro profumato esistere. Chiara Guidi
Leggo in rete: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità, tali da portare poi il soggetto a compensare l’immagine di sé attraverso la presenza artefatta e accurata sui social network”. E... ebbene sì, sono alla fermata dell’autobus, “scrollando” le pagine del mio strumento di contatto con “il resto del mondo”, il mio vecchio e fedele iPhone, dopo essermi fatta un selfie in una posa da “faccia memorabile delle 6.30 di un lunedì mattina”. Un ragazzo e una ragazza, di fianco a me, ridono accoratamente, lui indicando a lei lo schermo del suo smartphone, dicendo: “Hai visto che figata il selfie che ho postato stamattina?”.
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La mia colonna vertebrale è scossa da un tremito...: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità... “. Uhm... non c’è da occuparsene, mi dico, si tratta solo dell’incessante trasferimento di InFormAzioni... le mie, le tue, le nostre, le vostre e... le loro. E tu? Che cosa hai postato oggi? Parole, immagini, suoni... idee, impressioni, stati d’animo?... “A cosa stai pensando?”. Flavia Lanza
In principio fu la televisione. L’oggetto del desiderio per eccellenza. L’oggetto come specchio del soggetto. Il cilindro da cui estrarre i desideri, le storie, le buone abitudini che ci volevano famiglie felici in un paese felice. Un universo proiettivo, immaginario, simbolico. Una scena da guardare, da imitare. Una scena che è un filo diretto con l’esterno, con il mondo con cui instaurare un rapporto di conoscenza attraverso la “ visione”. Ma lo schermo cambia, la tecnologia aiuta, in questo. Lo schermo diviene scena attiva… c’è la rete, una sorta di fibra secante che abbatte le barriere spazio-temporali, le distanze e và, al di là di ciò che è materialmente possibile. Le nostre vite sono totalmente controllate da un flusso smisurato di informazioni che ci riguardano, dal conto online, alle relazioni social, all’e-commerce. Noi siamo in Rete, noi siamo la Rete. Il che vuol dire che siamo ben oltre i “quindici minuti di notorietà” profetizzati da Andy Warhol. Esistiamo in balia di ciò che il filosofo francese J. Baudrillard definisce ”estasi della comunicazione”.Viviamo attraverso i social, nelle fitte maglie della comunicazione contemporanea, come animatori della gabbia di controllo che ci rende protagonisti e prigionieri allo stesso tempo. È come se fossimo in una cabina di regia in cui decidere cosa rendere noto di noi, cosa pubblicare, cosa modificare. Il rapporto con la nostra immagine, inevitabilmente, è regolato dall’apparire in un certo modo, virato, modificato, tagliato. È come vivere in un set televisivo, fotografico. Rispetto al telespettatore passivo, finalmente siamo registi della nostra vita vissuta in immagini pubbliche. Di quelle immagini che vogliamo ci rappresentino all’esterno. Anche se spesso, l’io reale, sfugge al lavoro di allestimento di scena. Ma la cabina di regia, non è forse una scatola, un guscio in cui l’altro da noi vede il sé, rimanendo, inevitabilmente imprigionato da una serie di filtri posti tra noi e la realtà? Primo tra tutti il medium utilizzato. Allora siamo soli o social? Siamo l’idea di noi o altro? Ed allora se in principio era la televisione, la fine sarà l’illusione? La realtà dissolta nel più reale del reale, i simulacri? E se questa abnorme comunicazione ci avesse sprofondato in una saturazione di senso dove la verità è in opposizione all’illusione, e quest’ultima fosse percepita come più reale, del vero….? E allora chi salverà la realtà? I nobili oppositori dei social? O essi stessi saranno inghiottiti dall’anonimato di chi non ha “immagine”? O finiremo nel semplice oblio di una memory card, di un hard disk che tra qualche decennio risulterà illeggibile. Amelì Lasaponara
Tutti abbiamo un destino comune. Siamo collezionisti di illusioni evocate che si irradiano a distanza fino a significare qualsiasi cosa. Ci piace, insomma, masturbarci con infedeltà multiple di noi stessi. Marla Lombardo
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Anni fa, durante un esame di Antropologia Visuale preparato in un paio di giorni (e di notti insonni), dissi esser stata molto colpita dal parallelismo fatto dall’autore del testo tra la rappresentazione di sè della tribù del nord Africa nelle foto anni ’60 e i simboli della classe sociale di appartenenza presenti nei primi ritratti dei mecenati borghesi, i mercanti fiamminghi. Ero stata affascinata da come quei quadri ritraenti il personaggio in abiti e situazioni quotidiane fossero in realtà costruiti secondo dei canoni molto rigidi: nessun oggetto, nessun gesto era lasciato al caso. Ogni elemento, perfino l’espressione, era un simbolo deciso dal committente per dichiarare la sua posizione socioeconomica. Altrettanto attenti ad ogni dettaglio risultavano i membri della tribù africana: l’antropologo ci forniva la dettagliata descrizione del rapporto tra la loro posa e il loro abbigliamento e il ruolo nella loro società. Alla fine non presi il massimo dei voti poiché, a quanto pare, questo parallelismo era stato inventato da me di sana pianta sul momento. Con la crescente diffusione dei social network, mi ritrovai a pensare molto spesso a questo episodio di fronte a ogni foto pubblicata online. Non riesco a frenarmi dal dissezionare ogni immagine negli elementi che la compongono e studiare il rapporto tra intenzione del soggetto/reale messaggio trasmesso, assegnandoli il G.S.C. - Grado di Credibilità del Selfie. Questo atteggiamento nel tempo mi ha portato addirittura a stimare la coerenza di alcuni personaggi “superficiali” che vivono solo della loro immagine, il loro duro impegno nell’infallibile autorappresentazione, tanto più stimabile quanto più lontana dalla realtà effettiva. Trovo banale l’accusa di falsità mossa ai social network, d’altronde le classiche biografie dei grandi personaggi non sono tutte romanzate? Piuttosto proporrei uno studio di questa “falsità”: abbiamo a portata di mano una vastissima quantità di dati non elaborati aggiornati in tempo reale degli “ideal self” di ognuno. Proposta di autoanalisi: scorrere le proprie foto e chiedersi il motivo che ci aveva indotto a pubblicarle, il rapporto tra la situazione rappresentata e il contesto reale in cui sono state scattate. Karolina Mitra Lusikova
“La possibilità di mostrarsi corrisponde alla possibilità di annullarsi. Poter essere un corpo, una presenza in un luogo, dove esiste solo ciò che quel luogo, quel corpo, raccontano. E puoi nascondere ferite, ricordi, cicatrici. Puoi fingerti altro, un essere che beve un cocktail in un bar molto figo, protetto dietro al velo della superficialità, che non racconta niente, che si ciba di presenzialismo. Posare significa mentire. Mentire significa essere vili, ma anche proteggere. Dire mezze verità, non mostrare cedimenti, debolezze. Non farsi cogliere impreparati. Appaio, mi spoglio, e sparisco. Esiste solo il desiderio di me, senza il peso di quel che sono. Di tutto quello che c’è, intatto, dall’altra parte del seno.” Luciana Manco
I nuovi media? Una importante possibilità per la comunicazione assimilabile come rivoluzione/evoluzione all’invenzione dei caratteri mobili di Gutemberg. Poi ogni uno si travesta come meglio crede perché l’umanità lo fa dalla notte dei tempi in quanto soggetto/oggetto del proprio creare e sempre in relazione al grado di tecnologia di cui dispone e/o ha disposto durante il lungo cammino evolutivo. Se non ci fossero bisognerebbe inventarli. È l’Uomo mutevole e mutante, bellezza! Angelo Marino
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Altre forme di identità culturali e pubbliche
Seguire la storia della posa fotografica nel Novecento segna l’andamento di un IO in perenne conflitto tra istinto (individuale) e ragione (sociale). Oggi, da quando è quasi scomparso il concetto di stampa cartacea in ambito fotoamatoriale, l’istinto soggettivo si è spostato sul piano sociale (sembra che il mondo intero sia contaminato da una frenesia ossessiva per fissare rapsodici frangenti di sé), mentre la ragione fotografica guida ormai solo alcuni su un piano strettamente selettivo e, quindi, individuale. Viviamo dentro un’onda elettronica inarrestabile che avrà esiti di temporanea catarsi, al punto che le necessarie evoluzioni passeranno per alcune apparenti involuzioni nostalgiche (il vinile che cresce di produzione ne è un perfetto esempio). L’istinto sociale procede velocissimo e plasma la visuale sul mondo, i movimenti posturali, le nuove patologie ma anche le sistematiche modellazioni del Genoma postduemila. La ragione non è mai stata così… individuale. Gianluca Marziani
Sui muri di Berlino, nell’ormai lontano 1994 potevi leggere un manifesto che recitava così: “Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero” Queste sarcastiche parole risuonano attuali, ora più che mai... Viviamo il tempo della «modernità liquida», prendendo in prestito le parole del sociologo Bauman, in cui vengono a mancare le antiche certezze di Stato-nazione, famiglia, lavoro e l’individuo non ha più garanzie di appartenenza. Ognuno fa parte di comunità guardaroba, che funzionano a tempo, stanno assieme fino a quando qualcuno non decide di riprendersi il suo abito e uscire di scena. È un mondo in cui la strategia del carpe diem diventa quella vincente.Oggi, trovare un’identità, un’appartenenza diventa sempre più difficile e altrettanto più necessario. In un momento storica in cui il villaggio globale ipotizzato da McLuhan negli anni ’60 del secolo scorso diventa sempre più reale, ecco che, tramite l’avvento del satellite, che ha permesso comunicazioni in tempo reale a grande distanza, il mondo è diventato “piccolo” assumendo, di conseguenza, i comportamenti tipici di un villaggio. In questo contesto il linguaggio iconico diventa gergo internazionale e la comunicazione di massa si fonda per l’appunto sull’iconicità di questa lingua. “Other Identity” - altre forme di identità culturali e pubbliche – è un grande progetto, “un lavoro” cui prendono parte artisti che sviluppano i temi dell’autorappresentazione del sè, dell’immagine pubblica e di quanto siano cambiati questi concetti con i nuovi linguaggi introdotti dai social media. L’identità non è un dato anagrafico e naturale, è piuttosto un processo di costruzione, lungo, elaborato e mai finito. «L’identità è un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica - dice Bauman e ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora». Il social network consente di controllare e definire la propria identità sociale e quella dei propri amici. La fusione tra mondo reale e virtuale produce un’«identità fluida», allo stesso tempo flessibile ma precaria, mutevole ma incerta. La realtà attuale finisce per trasmetterci incertezze e paure: «Sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente… ». Gli artisti di “Other Identity” investigano, attraverso la tematica identitaria, diversi discorsi: in primis coniugano la tradizione del ritratto, di matrice rinascimentale, con lo studio del medium e non solo del messaggio veicolato dallo stesso, inoltre si propongono di creare qualcosa di esteticamente pregnante. Credo che quest’ultimo punto sia fondamentale. In una società sempre più always on, perennemente connessa a una rete telematica satura di immagini com-
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merciali, la necessità è proprio quella di vedere immagini NON commerciali. È urgente il bisogno di uscire da un’estetica mirata al sollecito del solo consumo per abbracciare produzioni artistiche atte a stimolare il pensiero. Indagare l’identità fluida, oggi, significa fare un atto di coraggio, fermarsi, guardarsi indietro ma senza smettere di camminare in avanti...riflettere...ripensarci come singoli, ragionare su di noi, sul nostro presente e, soprattutto, su ciò che stiamo diventando per capire, assorbire, attutire e goderci tutto ciò che accadrà. Chiara Messori
“Non fidarsi delle apparenze” dicevano i nostri vecchi, una volta. Immaginiamo se questi ultimi fossero ora fra noi... sarebbe tutto un “lo avevo detto”, “vedi? avevo ragione...”. Si perchè siamo stati traghettati dalla generazione di “essere o avere” a quella di “apparire o non apparire”. E le apparenze ingannano. Eccome se ingannano...Tutto è ego. Spropositato, immenso... La generazione del “sempre connesso”, sta mettendo davanti e sopra tutti la comunicazione. E non sempre tutto ciò è positivo... Diciamocela tutta, cosa ce ne frega se la casalinga di Voghera ha cucinato il pollo in fricassea? Nulla, ma lei lo posta su fb e tutti siamo in qualche maniera coinvolti in questa evoluzione culinaria, Così per il colore delle unghie, la vacanza premio o la nuova automobile... Per non parlare dell’arte e della fotografia... Ma se per quest’ultima basterebbe rimettere in circolazione solo macchine con la pellicola e l’80 % dei fotografi mediocri in circolazione sparirebbero in un men che non si dica, con la pittura la cosa è diversa... Qui l’80 % dei neo artisti non solo produce cose inutili ma le fa anche male! E allora? si sopperisce con il selfie. Carino simpatico, divertente... e così si arriva ad apprezzare cose che mai avremmo pensato anche solo di prendere in considerazione solo perchè l’autore “ci sa fare”. Insomma la comunicazione fai da te che da i suoi risultati... E che risultati. Ma non è tutto negativo, anzi! In rete si trovano talenti, virtuosi e innovatori. Basta saperli cercare... qualche consiglio; 1) evitare le pagine con troppi selfie, torte e cagnolini/gattini; Gli autori troppo spavaldi nonostante le evidenti carenze. Il “famolo strano” andava bene per Verdone, farlo “strano” in arte non è sinonimo di “buona” ate; 3) ricordarsi, ogni tanto, che ci si può anche scollegare e dire le cose guardandosi negli occhi senza il filtro della webcam... per il resto è tutto positivo, anche l’arte ! Roberto Milani
Autoreferenziale, autocelebrativo, il selfie è diventato virale. Causa o effetto del mondo globalizzato in cui viviamo? Nel mondo dei consumi e dei mutamenti continui della società contemporanea, tra virtuale e reale, sembra essere diventato la nuova chiave di interpretazione per svelare e chiarire i nostri momenti di vita, stati d’animo, felicità, speranze, ma anche le nostre perplessità, i nostri dubbi e le nostre incertezze. Nuovo mezzo di comunicazione? Indice di fragilità del nostro io in cerca di unità, di continuità con l’altro che è in noi e con gli altri? Originale modalità di ricerca dei nostri desideri più profondi? Oppure pura e semplice acquisizione tecnologica e psicologica? Miglioramento dei nostri livelli di libertà di movimento non solo nello spazio ma anche nel tempo? Arduo trovare le giuste risposte ora, importante però analizzare e cercare di interpretare questo nuovo fenomeno di massa e i suoi possibili sviluppi in relazione ai meccanismi dei media, in relazione alla transitorietà e precarietà dei rapporti umani e alle incertezze economiche e geografiche di vaste aree della popolazione mondiale. Lorenzo Mortara
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Via con la pazza folla Gli strumenti del comunicare influenzano il comportamento sociale nelle grandi e piccole cerimonie della storia pubblica e privata che si svolgono in diretta e in cui il tema dell’identità s’impiglia in piccole storie di infinita alterità. Vi è una tendenza di ricerca che è andata intensificandosi nel corso degli ultimi decenni, fino a divenire una materia della riflessione degli artisti, sulle tipologie di identità e sulle forme culturali che insistono sulla fragilità e aridità dei sentimenti e sul fallimento della comunicazione fra gli individui in una società perduta nella veloce estraneità del mondo. Qual è il senso del vivere in una società dominata dal bisogno bulimico dei selfie? Eternare la propria presenza incorporea, come un messaggio in bottiglia nello stagno domestico (dove il tempo mitico delle pose di Narciso, teso ad afferrare se stesso, si tramuta in una serialità svuotata di identità). L’istante in cui guardiamo noi stessi, un’immagine come nostro doppio incorporeo, porta con sé la certezza di sapere che si sta osservando qualcosa che chiunque può osservare. Noi, attraverso i mezzi di comunicazione contemporanei, siamo “chiunque” e ci immergiamo nella pazza folla come pubblico di noi stessi. Le nostre immagini non sono più di natura individuale anche se hanno un origine interiore. Esse hanno interiorizzato il concetto di folla, e noi siamo abitati da immagini collettive che ci lasciano capire che non percepiamo il mondo soltanto come individui, ma su un piano collettivo che sottomette la nostra percezione relativa a un’attuale forma temporale. Ormai il fenomeno è così diffuso, la costruzione apparente dell’identità attraverso i media un processo inarrestabile e maturo, che possiamo anche non essere consapevoli, quando partecipiamo a questi riti, delle implicazioni e, tuttavia, ancor di più si rafforza in noi la sua wirkung (l’effetto collettivo), come se l’immagine esistesse in virtù di una facoltà propria. In epoca post-coloniale le immagini scatenano conflitti. A un primo livello di soggettività pubblica, politica e democratica, le immagini stanno conoscendo una fase cruciale dagli esiti incerti e dove il banco di prova è rappresentato dai risvolti che la tragica vicenda di Charlie Hebdo lascia presagire. C’è poi un secondo piano, prettamente individuale che si autodetermina in un post-umano in cui il corpo è un limite facilmente superabile nella riconfigurazione della chirurgia plastica. Fuggiamo dal nostro corpo e ci rifugiamo nell’incorporeo dell’immagine. “Immanenza e trascendenza del corpo trovano conferma per noi attraverso le immagini alle quali imponiamo questa controtendenza. I mezzi digitali odierni cambiano la nostra percezione – così come tutti gli altri mezzi tecnici prima di loro – eppure questa percezione rimane ancora legata al corpo. Soltanto nelle immagini ci liberiamo al posto dei nostri corpi, verso i quali dirigiamo uno sguardo a distanza. Gli specchi elettronici ci raffigurano così come vorremmo essere, ma come in realtà non siamo. Ci mostrano il corpo artificiale che non può morire, facendo sì che le nostre utopie si avverino in effige” (H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma 2013, p. 35). Ivana Mulatero
Crearsi un’altra identità è una forma di infantilismo, siamo adulti bambini alle prese con un nuovo giocattolo: il social network. Quando gli adulti-bambini si annoiano diventano cannibali. Sono capaci di nutrirsi solo della vitalità altrui e proprio per questo non si percepiscono. E siccome non si percepiscono non possono vivere, e sono avidi soltanto dello sguardo o del like altrui, come i vampiri hanno bisogno del sangue degli altri. Le persone che non hanno percezione di se stesse sono in fondo molto noiose e quindi prendono in prestito un’immagine che non appartiene loro ma che rimanda a ciò che è accettabile nel mondo dei media. La percezione che l’uomo ha di se stesso è molto più interessante della comprensione e dell’analisi del suo essere. Ecco perché andiamo alla ricerca della percezione che hanno gli altri di se stessi e non del loro vero essere. Maya Pacifico
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Premetto che non sono la persona più adatta a scrivere di ritratto e identità in tempi di social network se non altro perché ne so poco e niente. La mia frequentazione di Facebook è saltuaria e distratta, non ho un telefono che si connetta a internet o sia in grado di scattare foto decenti, ho una vaga idea di cosa siano Instagram e Whatsapp, ma soprattutto non amo essere social, cioè in generale non mi interessa far sapere ad altri quello che faccio e che non faccio. Non ho insomma quell’esigenza di condivisione, di comunicazione di me attraverso l’immagine, che mi sembra lo stimolo principale per la proliferazione delle identità digitali. È un problema mio. Nonostante ciò, penso che sarebbe quanto meno interessante capire quali sono le conseguenze iconografiche di una continua incontrollata proliferazione di autoritratti che non ha precedenti. Comincerei mettendo da una parte tutti quelli che sono gli emblemi di sé inscritti nel cerchio e nel quadrato delle profile picture. I visi sorridenti con un braccio sulla spalla dell’amico/a opportunamente tagliato fuori, i paesaggi di mare e i tanti tramonti, le immagini del soggetto neonato o del di lui/lei figlio/a, gli innumerevoli cuccioli e animali vari, le citazioni, gli avatar, per non parlare dei simboli legati a manifestazioni di solidarietà, fede politica, calcistica eccetera. Da un’altra parte metterei invece i selfie, le immagini che celebrano l’attimo con i calici alzati, confermando il presente prima che scompaia nell’oblio del passato attraverso una continua storicizzazione dell’istante, mostrano turisti festaioli gesticolanti e occhieggianti come tanti emoticon, oppure collezioni di genuini appunti diaristici dai luoghi più disparati, persino il proprio bagno. Successivamente, organizzerei tutto questo materiale per elementi ricorrenti e originalità discordanti e cercherei con attenzione e curiosità quanto è replica di un modello assimilato, variazione, idea originale, trasgressione degli stereotipi, provocazione. Alla fine avrei compilato un atlante, inevitabilmente provvisorio, dove probabilmente sarei in grado di identificare i germi di nuove iconografie specifiche del medium, delle quali forse riuscirei anche a tracciarne l’evoluzione secondo variabili legate all’età degli autori, la loro estrazione culturale, la provenienza geografica... Sarebbe un lavoro divertente e intrigante che molto probabilmente qualcuno ha già fatto, ma che in ogni caso ignoro. Se non mi sono lanciato nell’impresa però è perché ho la sensazione che l’analisi approfondita di tutte queste immagini con perizia tassonomica mancherebbe quello che in fondo credo dovrebbe essere l’obiettivo ultimo della ricerca: la descrizione dell’idea di identità nell’epoca dei social media. In un suo saggio sul ruolo sostanziale dell’abbigliamento in diverse culture pubblicato nel suo libro Stuff (2010), l’antropologo Daniel Miller sottolinea come le nostre indagini siano viziate da una certa “ontologia della profondità”, dalla convinzione cioè che la superficie nasconda sempre una verità da cercare nel nucleo più interno di un oggetto. Il fatto è che l’autoritratto di oggi, come il vestiario di cui si è occupato Miller, non può essere liquidato come questione superficiale, né rappresenta l’espressione di una realtà profonda, il segno, l’equivalente, il medium della sua rivelazione. Gli autoritratti, i selfie, le profile picture sono semplicemente l’identità del soggetto che senza sosta si autodefinisce per gli altri nell’artificio più o meno consapevole della costruzione della propria apparenza. E tutto questo funziona un po’ come le pellicole di una cipolla che alla fine sono la cipolla stessa: chi le separa e rimuove convinto di trovarne il nucleo originario rimarrà a mani vuote. Massimo Palazzi
I dispositivi per la produzione d’immagini, oltre a manifestare il narcisismo di chi li utilizza, andrebbero impiegati per un’indagine identitaria della macchina, del regime percettivo “altro” che la caratterizza, il solo ormai in grado di restituire una visione del mondo aggiornata. Luca Panaro
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Il vuoto Erano perennemente imprigionati nel malinteso di come bisogna saper vivere. Avevano mai osservato i folli ai bordi delle strade? Per loro la vita si confondeva con la sopravvivenza, nessun confine tra ragione e sentimenti, nessun limite alla libertà di provare qualsiasi emozione che gli passasse per la testa. Erano vivi, vivi davvero, mentre loro che avevano pensato di avere tutto restando semplicemente immobili non avevano nulla, neppure la libertà, avevano creduto al concetto di libero arbitrio, di scelta, di eventualità, ma erano solo schiavi di convenzioni e di stereotipi e di quel mondo fatto solo di aria e puntini sgranati. Si affannavano attraverso uno schermo trasparente a navigare in mondi privi di fondamenta, mondi che da lì a breve si sarebbero sbriciolati come castelli di sabbia. A quel punto l’oblìo. L’abisso senza fine. Soli con se stessi, senza inganno e senza trucco e l’immagine che avrebbero avuto da quello specchio trasparente fatto di pezzi fasulli di vita sarebbe stato il vuoto, semplicemente il vuoto. Sabrina Paravicini
“...cerco di smerigliarmi ora e sempre come appaio e mi sveglio continuamente e in maniera frammentariamente composta sempre cercando di non smerigliarmi per altre porte&vie che si aprono con l’aprirmi al giorno che è già inoltrato...’’ “...se acconsento ora alle mie continue richieste non posso non rischiare di aprirmi ad/in imprevedibili modalità che potrebbero minare la mia più che smodata identità e quindi cadere e compormi in visi mani pezzi che ucciderebbero il colore faticosamente conquistato dopo l’adorazione in bianco e nero di anni gioiosamente di contrasto assoluto di sfumature delicatissime di grigi...’’ Claudio Parentela
È questa l’epoca del controsenso, nella quale la tecnologia ha portato la velocità e il tempo reale nelle comunicazioni e mai come ora si hanno lacune cognitive, non c’è mai stata una simile stolida indifferenza verso l’enorme archivio che abbiamo fra le mani, le informazioni e i media non sono mai stati altrettanto superficiali e limitati nel tempo. Il fatto che esista un grande sfogatoio visivo e sonoro come il web (o qualsiasi apparecchio digitale) ha impigrito la memoria collettiva e individuale: puoi avere tutto a portata di mano quando ti serve, perché riempire la nostra mente di cose? Molto meglio viaggiare con una testa vuota che possa connettersi a un cloud emozionale e mentale solo se e quando richiesto dalle situazioni. Ecco quindi lo scomparire delle identità e il nascere di involucri umani con intelligenza in remoto, senza emozioni slegate da situazioni concrete, senza desideri che potrebbero interferire con il nulla pneumatico e potrebbero differenziare gli involucri umani. Si ricerca questa identità (e originalità) perduta con segni, marchi, acquisti, status symbol che al contrario ribadiscono la completa abdicazione del libero arbitrio in favore di qualcosa (o qualcuno) che possa tracciare la nostra faccia, il nostro profilo, i nostri gusti. Nella fotografia, l’avvento del digitale ha portato tutti a scattare milioni di foto inutili, perché lo spazio di archiviazione è pressoché illimitato: dove prima bisognava effettuare delle scelte perché le foto a disposizione erano una ventina a seconda del rullino, ora non c’è limite all’inquinamento visivo, che ha trovato nel web un formidabile veicolo che non soltanto è iperveloce, ma ti arriva a casa. L’identità perduta ha portato migliaia di disperati a cercare spasmodicamente un certificato di esistenza dagli altri: guardate dove sono andato, guardate i miei figlioletti, guardate cosa sto mangiando, guardate cosa mi piace, vi scongiuro mettetemi un “mi piace”, dimostratemi che sto vivendo. L’arte contemporanea, che dovrebbe essere spiazzante e interrogarsi come è sua prerogativa
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proprio sull’identità, ha fatto del multimedia e delle installazioni un ricettacolo di brutture che esistono solo per la sconfinata ignoranza e frettolosità di un pubblico che si lascia guidare nei propri gusti da critici o intellettuali che formano quello che Baudrillard chiamava “Il complotto dell’arte”. Il miope narcisismo della maggior parte di artisti che non si guardano più attorno, che non vogliono confrontarsi con altre identità per paura di perdere la propria (se mai l’hanno avuta) ha collaborato al declino dell’arte contemporanea come antenna che capta prima di altri le frequenze del futuro. L’identità poggia su valori, creatività, indipendenza e desideri: se ci fate caso sono gli elementi in via di estinzione. Claudio Pozzani
Nel considerare l’impatto dei social media sull’identità individuale e sulla sua rappresentazione, credo che sia decisivo evitare discorsi eccessivamente deterministici. I media ci cambiano, non c’è dubbio; ma l’uomo non ha perso il pelo il giorno dopo aver inventato il vestito. Penso ai discorsi che sono stati fatti sull’egotismo dei “millennials”. Non siamo “selfish” perché facciamo “selfie”. Facciamo “selfie” perché chi ha progettato lo smartphone a un certo punto ha pensato che poteva metterci una doppia camera: una rivolta verso il mondo, l’altra rivolta verso di noi. Un prodotto non inventa mai un bisogno: ne intuisce la necessità, per poi estenderla anche a chi non la avvertiva. Sarà che l’autoscatto esiste da quando esiste la fotografia, e l’autoritratto da quando esiste la pittura (o meglio l’idea di autore in pittura); sarà che veniamo subito dopo quello che è stato chiamato The Century of the Self; sarà che tanta gente si contorceva per fare selfie prima che fosse tecnologicamente determinato; sarà che lo schermo ha sempre avuto uno stretto legame con lo specchio. Sta di fatto che ora molti di noi hanno in tasca un oggetto che ci consente di fotografare, archiviare e pubblicare al ritmo a cui respiriamo, o quasi. Sicuramente fotografiamo di più di quando una fotografia era il prodotto di un dispositivo autonomo, che registrava l’immagine su un coso costoso chiamato “rullino” dotato di uno spazio di archiviazione limitato, e che poi andava costosamente “sviluppato” per avere accesso, con un certo ritardo, all’immagine. E certamente, l’accesso universale ai mezzi di distribuzione erode fortemente il limite tra pubblico e privato. Questa è probabilmente la vera novità: nell’era dei social media, l’immagine fotografica diventa un dispositivo sociale. Oggi, ogni volta che metto mano alla fotocamera, ho in mente un potenziale destino pubblico per l’immagine che produco; un destino che in molti casi non si attualizza, ma che è lì, già contemplato nell’atto fotografico. Scatta, migliora, condividi con… uno, nessuno, centomila. Questo significa che siamo diventati tutti modelli in un unico, grande casting? Che la rappresentazione del sé ha perso l’autenticità consentita da media precedenti? Non credo. Non c’è mai autenticità nella mediazione, ci sono solo vari livelli di menzogna. Chiunque sia consapevole di stare per diventare un’immagine, si mette in posa, costruisce la propria immagine pubblica. Racconta. Finge, e nel farlo dice anche qualcosa su di sé. Ritraendoci più spesso, forse impariamo a farlo meglio; e presumendo una circolazione pubblica dell’immagine, sicuramente impariamo a farlo in maniera più consapevole. Domenico Quaranta
L’identità Nell’epoca Della Sua Riproducibilità Tecnica “Il problema dello sfondo sociale nel quale si realizza l’identità dell’individuo” – scriveva Gianfranco Bruno nell’introdurre una mostra significativamente intitolata La ricerca dell’identità, allestita nel Palazzo Reale di Milano sul finire del 1974– “assume impressionante rilievo in coincidenza con l’instaurarsi di meccanismi di vita artificiosamente organizzata. (…) La variabilità del linguaggio espressivo, non riconducibile alla logica cristallizzata dei sistemi sociali, offre allora ipotesi di realtà alternative: nell’ambito vasto che va dal documento d’esistenza o di
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storicità determinata, all’impulso verso un’invenzione del mondo e verso il recupero di un’identità reale”. A quarant’anni di distanza la realtà in cui si calava questo discorso – che peraltro mantiene una sua legittimità -appare profondamente mutata. La caduta delle grandi narrazioni e delle identità collettive che ne portavano l’impronta, da un lato, e il vertiginoso processo d’innovazione delle modalità comunicative dall’altro hanno reso la situazione sempre più complessa, privando l’individuo di riferimenti certi e rendendo ancora più acuta l’esigenza di un’autorappresentazione che al tempo stesso lo assimili al corpo sociale e ne consacri l’unicità. Questa aspirazione, sintetizzata da Andy Warhol nella celebre frase che recita “in futuro ognuno sarà universalmente famoso per quindici minuti”, ha trovato sbocchi popolari nei social networks, in ambienti virtuali come Second Life e nella pratica pervasiva del selfie, fenomeno narcisistico,autoritratto degradato dal solipsismo e intensificato dall’ossessiva ripetizione. Sullo sfondo di una congerie di format televisivi (Grande Fratello e simili) che mettono in scena una visibilità totale e di pratiche come la chirurgia estetica, che traspone il maquillage (o l’applicazione dei correttivi del software fotografico)in un vero e proprio restauro “fisico” della propria immagine. L’arte del Novecento, al pari della filosofia e della letteratura, ha scandagliato l’ambito della crisi del soggetto e del suo disagio esistenziale, con opere capitali che, in questa sede, non è il caso di evocare; ne ha delineato l’atteggiarsi attraverso procedimenti di deformazione, di azzardo, di gestualità impulsiva, di iterazione, di rovesciamento dello sguardo, di frammentazione; ne ha rimarcato la dialettica tra i poli dell’annichilimento e dell’esibizione mediante la simbologia della maschera, l’enigmaticità metafisica,il travestimento, la raffigurazione metonimica, il détournement, la messa in scena del corpo, la riproduzione iperrealista e le suggestioni concettuali. Oggi, se gli artisti “hanno rinunciato, perché costretti” – come osserva Alberto Boatto – “a quella centralità che fino al tramonto dell’Ottocento avevano esercitato nel settore dell’immagine”, mantengono però il privilegio di sviluppare, in una sfera di (pur relativa) libertà, una ricerca che “consiste nel disseminarsi in un essere fluido e errante” - aggiungerei: tanto singolare quanto collettivo –“così da transitare da possibile a possibile, da identità a identità”. Solo per questa via, forse, nel preveggente scenario immaginato nel 1964 da Isaac Asimov per il nostro tempo, dove “l’umanità è gravemente afflitta dalla noia, una malattia che si diffonde sempre più ampiamente, crescendo ogni anno d’intensità”, l’arte potrà continuare il proprio corpo a corpo con gli specchi dell’io. Sandro Ricaldone
Tratto dal testo di Mariella Rossi Una metafora identitaria. I nodi concettuali dedicato a Stefano Cagol, scritto nel 2001 e quindi ben prima della nascita dei social network, ma che risulta perfettamente calzante con l’idea attuale dell’identità. L’arte è anticipatrice! Il testo è stato inserito nella pubblicazione della mostra “All’esedra” a cura di Daniel Marzona, Villa Manin, Codroipo-Udine, 2001 alla quale Cagol partecipava: IMMAGINE Una stretta relazione tra oggetto osservato e soggetto osservatore, che sembrano entrare l’uno nell’altro e fondersi […] tanto da diventare entrambi protagonisti del reciproco “sguardo interpretante” (M. Canevacci, 1995), l’uno commento dell’altro, in uno scambio incessante. IDENTITÀ Immagini che si susseguono senza sconvolgimenti improvvisi, ma sempre diverse, metafora del percorso di appropriazione dell’identità. Viaggio, in costante divenire, fatto non di mete definitive, ma di infinite possibilità che formano “un’accumulazione costruttiva” (D. Sparti, 1996) ed intessono la tela dell’identità […]. Mariella Rossi - Stefano Cagol
L’uomo è un essere complesso e ambiguo, soggetto a pressioni esterne che lo spingono a conformarsi al gruppo, alla società. Spesso “reinterpreta” la propria vita per farla collimare con il sistema, perché ha bisogno di trovare un equilibrio tra la comunità e la propria dimensione individuale. Infatti, quando una persona fa fatica ad identificarsi con la collettività cerca un’altra identità, che spesso è artefatta e a volte anche distorta. Oggi i social
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media hanno un ruolo di prioritaria importanza in questo contesto: veicolano modelli distanti dalla realtà, per lo più basati sul benessere economico, sull’edonismo. Ci si crea un “io” alternativo, una personalità attraente, vincente, un’identità altra sempre più mediata dal sistema. Una volta si parlava di maschere per dissimulare e adattare il proprio modo di essere: una maschera per la famiglia, una per il lavoro, una per gli amici e così via... Tante maschere per affrontare tante situazioni diverse, per presentarsi nella maniera più “socialmente” giusta. Ma, in fin dei conti, nel corso dei secoli ben poco è cambiato. L’auto rappresentazione ha sempre sfruttato i mezzi a lei più congeniali ed è sempre stata al passo con i tempi. La globalizzazione non ha fatto altro che accentuare la necessità dell’uomo di mostrarsi nella maniera che ritiene più adeguata agli stimoli che riceve. Claudia Sensi
Si è potuta vedere la falsificazione intensificarsi e scendere sino alla fabbricazione delle cose più banali, come una nebbia appiccicosa che si accumuli a livello del suolo di tutta l’esistenza quotidiana. Si è potuto veder pretendere all’assoluto, sino alla follia “telematica”, al controllo tecnico e poliziesco degli uomini e delle forze naturali, controllo i cui errori proliferano proprio allo stesso ritmo dei mezzi. Si è potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il proprio legame conflittuale con la verità e con la verosimiglianza, in modo tale da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora. Citare Guy Debord e “La società dello spettacolo” mi pare in assoluto il modo più concreto per analizzare e fermare il pensiero sul groviglio quotidiano dell’immagine. Profetico visionario, il libro legge oggi con lucidità estrema il nostro contemporaneo di cui tutti siamo sucubi, attori ignari e consapevoli. Una grande macchina del falso, l’apologia e l’apoteosi del nulla che ci investe quotidianamente ci ruba il tempo, inghiotte la naturale normalità in una posa filtrata di cattivo gusto innaturale, segmentata dallo schermo. Se qualcosa ci salverà sarà la fotografia, la fotografia contro l’immagine almeno nel suo momento spontaneo, vero non filtrato non sedotto dallo schermo. Stefania Seoni
Del testo a cui mi rimandi e che se ho ben capito è il filo rosso di una mostra, salto la evidenza di una domanda che ha natura sociologica o poco più. Dei media e dei social e il loro agir come frullatori del soggetto ne dicono molti e quasi tutti con ragione. Salto anche di precipitare sul soggetto e la sua rappresentazione: D’altronde quando mai il soggetto è altro da una rappresentazione ? Che sia di Twitter o del Vangelo non importa: cambia il “rappresentante” e ben poco la rappresentazione. Altra questione se il soggetto e l’identità siano rivolti all’opera d’arte. L’arte è forse la più squisita pratica per togliersi dalle scatole il soggetto: sia questo il presunto tema del lavoro di un artista o ancora peggio il suo io. L’arte non entra in questione con il soggetto o l’io o la sua rappresentazione : spazza via tutto invece. Quel che supera un opera non la riguarda. Non sa nulla di te di noi di Twitter o quel che vuoi. A dispetto del maquillage che anche l arte adotta per rendersi forse più masticabile al proprio tempo in realtà non lo avverte. L’arte (e per fortuna ) è sempre (se) la stessa. Nihil sub sole novum. Ivano Sossella
Siamo giunti ad un’identità camuffata, storpiata e fittizia, nonostante l’evidente ed il previdente, nonostante volti e gesti “immortalati”. Quanta presunzione in questi scatti, nascosta da linee ovvie e strarifatte, in tutto questo ondeggiare non si sa dove inizia il vero e dove muore la finzione.
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Siamo milioni di vite, infinite identità mostrate dal mercificare di questa tecnologia, che buttata nelle mani del consumatore diventa arma di finzione. Pochi hanno occhi, pochissimi nel vedere se stessi. Rari gioielli emergono dal calderone dell’“evidente”, quelli che davanti l’obiettivo non si sentono puntati come da un cannone, quelli che dinanzi a quelle lamelle “vivono” e non muoiono, se non di piacere nel posare. Ricercarsi, vedersi e trovarsi è una sfida ogni giorno per chi muta e diventa medicina di un rinnovarsi costante, intraprendente e perturbante. Una visione dell’“IO” che genera ibridanti pensieri, senza la ricerca del come, ma solo la ricerca persistente del “sè”. Siamo pose, messe in scena sul calderone del visibile. Non resta più l’ombra della minima illusione. Qualcuno rimane qualcuno si cerca sono rarisono veri. Benedetta Spagnuolo
Se Andy Warhol poteva dire negli Anni Sessanta che “in futuro ognuno avrà diritto ad un quarto d’ora di celebrità” con l’avvento di internet e di fenomeni come Facebook la sua profezia è stata già di gran lunga oltrepassata. Oggi ognuno di noi può essere visto dal mondo intero e sentirsi una celebrità (con migliaia di contatti) in ogni momento del giorno. Il desiderio di esprimere la propria individualità da una parte e lo spirito di emulazione dall’altra fanno si che più le nostre vite sono definite e condizionate dall’organizzazione sociale più cresce il bisogno di individuazione e identificazione del singolo. All’inizio, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, i divi del cinema e le star della musica, come nuovi dei dell’Olimpo, hanno catalizzato i sogni e le aspirazioni di migliaia di fans, desiderosi di sognare vite che a loro, comuni mortali, era impossibile vivere. Oggi chiunque può affidare al web la costruzione di un’identità aumentata, se non fittizia, e avere l’illusione di narrare se stesso come un personaggio dello star system. I momenti più banali della vita quotidiana diventano scatti che sembrano destinati al pubblico di un immaginario tabloid: la nuova pettinatura, il nuovo cappotto, cosa ho cucinato stasera… Il narcisismo è socialmente accettato e anzi incentivato, percepito come capacità di saper esprimere e comunicare se stessi anche se la comunicazione è unilaterale e sembra sconfinare piuttosto in un disturbo di personalità, in un gioco di specchi che si moltiplica all’infinito. La possibilità di alimentare continuamente il proprio profilo sui social, in presa diretta attraverso gli smartphone, sempre accesi e connessi, genera una confusione tra reale e virtuale dove l’individuo da una parte agisce e dall’altra subisce le sue stesse costruzioni. L’impressione è che l’alternanza continua tra real e unreal vada spesso a discapito del real: più si arricchisce la vita virtuale, coltivata quotidianamente, più si impoveriscono la vita reale e le vere relazioni. Lo sdoppiamento genera frustrazione nei confronti della vita reale, che messa in confronto a quella virtuale non può che uscirne sconfitta: scontrarsi con la realtà dà un senso di impotenza mentre i nostri avatar inseriti in altri mondi possono vivere illimitate esperienze e successi, come in un rifugio consolatorio. Federica Titone
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I social media, compresi nella loro totalità, sono il cuore dell’irrealismo della società reale….il modello presente del’immagine pubblica…la realtà sorge nel linguaggio di massa, ed il mainstream diventa reale. Caterina Tomeo
Risucchiati dall’illusione di una intimità acquisita, dove lo spazio online è considerato l’estensione di quello offline, si finisce in quel vortice di autocelebrazione: espressione ideale di una società egocentrata. Meccanismo di involuzione identitaria che, tra narcisismo e carenza d’autostima, si avvia ad una fase inevitabilmente implosiva. Roberta Vanali
Other Identity, che privilegio! A chi non piacerebbe avere un altra identità, una per ogni occasione d’uso, probabilmente sempre migliore rispetto a quella che già conosciamo così bene. Il social network è il luogo perfetto, è lo spazio dove tutto è vero e anche la menzogna è magicamente altra verità e non importa se per un attimo o per l’eternità. Altre identità si possono moltiplicare a nostro piacimento, perchè guardare un’altra “nostra” identità, ci rende più liberi di credere di essere davvero qualcosa che non saremo mai per tanti motivi e altrove. Esattamente per questo è nata in rete Venette Waste,il fumetto icona dell’organizzazione che valorizza gli sprechi della moda, lei rappresenta bene tutto quello che io vorrei essere, è il mio lato migliore ma anche di più, è la mia guida, guru, binario, punto fermo, è la mia trasgressione autentica.Io naturalmente sono la sua prima follower,infatti la seguo ma sarebbe forse più corretto dire che la inseguo e voglio credere che riuscirò a prenderla ma solo perché so perfettamente che fuori da quel mondo virtuale non esisterà più.....Nell’era dell’uomo dominata da Narciso, Other Identity è l’alter ego perfetto, quello che ci consente di vivere più tranquillamente la nostra segreta, sconosciuta, magnifica imperfezione fatta di mille squisite fragilità e debolezze. Sul percorso dell’acquisizione di questa nuova consapevolezza dell’io, l’arte di Other Identity ci illumina e io voglio ringraziare Francesco Arena per questa grande opportunità. Venette Waste
Potrebbe non trattarsi di me, se non altro perché sono io. Da quando ho capito chi sono evito di riconoscermi. Non dubito del dubitare, sono dubbioso del dubitante. Se avessero raccontato di me non ci avrei creduto. Non vedo perché gli altri dovrebbero credermi. Sapete niente sul mio conto? Io l’ho perso. Bruno Wolf
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ORGANIZZAZIONE Francesco Arena È un artista ed un fotografo, opera da anni nel campo dell’arte realizzando progetti anche site specific; oltre a serie fotografiche e polaroid, struttura installazioni che interagiscono con l’utilizzo di oggetti, fotografie e video proiezioni. Ha realizzato numerose personali in Italia ed all’estero ed è presente in molte collezioni private e pubbliche. Nei suoi lavori indaga sul ruolo delle immagini nella società contemporanea e sulla possibilità di ribaltare le nostre abitudini interpretative. Hanno scritto di lui numerosi critici tra cui: Luca Beatrice; Michela Bompani; Valentina Caserta; Luisa Castellini; Enzo Cirone; Viana Conti; Monica Dall’Olio; Vittorio Fagone; Elena Forini; Matteo Fochessati; Joseph Gerighausen; Maria Flora Giubilei; Marta Casati; Ferruccio Giromini; Fattori Testori (Giancarlo Norese); Emilia Marasco; Paola Magni; Ivana Mulatero; Massimo Palazzi; Federica Pinna; Ludovico Pratesi; Ivan Quaroni; Franco Ragazzi; Sandro Ricaldone; Marco Rosci; Elisabetta Rota; Maurizio Sciaccaluga; Franco Sborgi; Marco Senaldi; Sandra Solimano; Gabriella Ventaglio; Marisa Vescovo; Maria Grazia Toderi. Contatti 340 2540631 francesco.arena@libero.it francesco.arena.visualart@gmail.com skype:francesco.arena66 twitter.com/arena_sisko www.francescoarena.it www.youtube.com/c/FRANCESCOARENA-visualart www.facebook.com/FrancescoArena.contemporaryart
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CON IL PATROCINIO DI REGIONE LIGURIA Contatti www.regione.liguria.it
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IN COLLABORAZIONE CON Comune di Genova, Settore Musei e Biblioteche Centro di Documentazione per la Storia, l’Arte, l’Immagine di Genova (DocSAI) L’istituto conserva le collezioni iconografiche storiche di proprietà comunale dedicate alla storia della città (Archivio fotografico e collezioni cartografica e topografica), coordina il progetto GenovaFotografia e le attività della Loggia della Mercanzia. Contatti Tel.: +39 010 5574958 Fax.: +39 010 5574970 biblarte@comune.genova.it www.museidigenova.it
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Goethe-Institut Genua È l’istituto culturale ufficiale della Repubblica Federale di Germania, incaricato dal Ministero degli Affari Esteri di promuovere la lingua e la cultura tedesca all’estero, di curare la collaborazione culturale internazionale e di trasmettere una sempre attuale immagine della Germania; organizza e sostiene numerosi eventi che promuovono la collaborazione internazionale e presentano la cultura tedesca in Liguria. Contatti Via Assarotti, 19/12° – 16122 - Genova Tel.: +39 010 574501 Fax: +39 010 5745035 E-mail: info@genua.goethe.org Sito: www.goethe.de/genova
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Guidi&Schoen - Arte Contemporanea La galleria promuove la pittura e la fotografia, il video, l’installazione e la scultura, senza seguire una linea o un media specifico, ma piuttosto ciò che è profondo nel significato e sofisticato formalmente. Negli anni la galleria ha partecipato ad alcune tra le più importanti fiere internazionali in Europa e negli Stati Uniti, in città come Parigi (Paris Photo), Madrid (ARCOmadrid), Mosca (Art Moscow), Miami (PULSE Miami Beach), New York (VOLTA NY), Bologna (Arte Fiera), Torino (Artissima). Ha inoltre collaborato con alcune delle più importanti istituzioni internazionali nel campo dell’arte contemporanea come il Mart di Trento e Rovereto, il Vietnam National Fine Art Museum di Hanoi, la Biennale d’Arte e la Biennale di Architettura di Venezia, il Centre Pompidou di Parigi, il Centro Pecci per l’Arte Contemporanea di Prato, Phillips De Pury a New York, il Foam Museum di Amsterdam, l’Hangaram Art Museum di Seul, la Fondazione Quadriennale di Roma, l’Avesta Art Foundation in Svezia e il Leopold Museum di Vienna. Articoli dedicati agli artisti della galleria e alla sua attività sono apparsi sull’Herald Tribune (edizioneglobale del New York Times), Digital Photo, El País, Silver Shotz, Arte, Espoarte, Exit, Evolo, Flash Art, FotoMagazin, Frame, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, la Repubblica, La Stampa. Contatti Vico Casana 31r - 16123 - Genova Tel.: +39 010.2530557 E-mail: info@guidieschoen.com Sito: www.guidieschoen.com
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SPONSOR
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SPONSOR Kodak alaris KODAK ALARIS ha rilevato nel 2013 dalla Estaman Kodak Company il settore Prodotti Fotografici e le soluzioni per la gestione documentale. Il settore fotografico comprende la produzione della carta fotografica, le soluzioni di stampa Picture Kiosk e APEX e le applicazioni per il mercato consumer, mentre il settore documentale si occupa degli scanner digitali e servizi software avanzati utilizzati da alcune fra le più grandi aziende del mondo. “La nostra missione è sfruttare la potenza delle immagini e delle emozioni ad esse associate, ed offrire la possibilità di custodire i ricordi della vita delle persone”. Per questo motivo Kodak Alaris ha messo a disposizione dei suoi utenti una nuova soluzione per catturare e conservare i momenti speciali della propria vita: l’app KODAK MOMENTS, scaricabile gratuitamente. Grazie a questa app si possono catturare e modificare le immagini, prima di condividerle sui social media – ad esempio Facebook, Flickr, Instagram, Dropbox - o ordinare immediatamente le stampe con la consegna a domicilio o ritiro presso un punto vendita. Oltre ai più diffusi formati di stampa, si possono anche creare biglietti di auguri, collage, fotocalendari e molto altro ancora, tutto da una singola applicazione, disponibile per dispositivi Android e IOS, che grazie ad un potente software invierà le immagini ad un KODAK Picture Kiosk per la stampa. www.kodakmomentsapp.com/it/#home Video illustrativo: www.youtube.com/watch?v=RauinigXTSI
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Banano Tsunami Il Banano Tsunami è uno splendido locale sul mare, nel cuore di Porto Antico, dietro a Piazza delle Feste. Adatto per tutte le ore, dal pranzo e la cena nel bellissimo ristorante panoramico, all’aperitivo con stuzzichini, fino alla notte dove il locale diventa un vero e proprio club con due dancefloors diversi e tre bar. Contatti Ponte Embiraco, Porto Antico di Genova, 16128, Genova Tel.: 339 6602492 Sito: www.bananotsunami.it
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Excellium S.r.l. / Comunicare group Excellium / Comunicare group nasce dal progetto di un “pool” di professionisti che possono vantare una pluriennale esperienza nel settore della progettazione e realizzazione di mostre, allestimenti museali e fieristici, ma anche nel settore congressuale in particolare di eventi aziendali e istituzionali, convention, inaugurazioni, celebrazioni e cene di gala. Il “service” per eventi “core business” della nostra società, è gestito da un team giovane, moderno, efficace e creativo che fornisce agli interlocutori un qualificato e affidabile supporto, atto a soddisfare qualsiasi esigenza del settore avvalendosi delle più avanzate tecnologie e dei migliori professionisti. Excellium / Comunicare group ha una struttura dotata di “know-how”, di professionalità, di flessibilità e di idee innovative, caratteristiche indispensabili nell’epoca della comunicazione globale, dove l’apparire e l’essere si intersecano fino a fondersi; dove la comunicazione è esigenza prioritaria e imprescindibile di qualsiasi realtà. La nostra società dispone di un ampio e completo magazzino di strutture per allestimenti, arredi e sistemi di illuminazione sia architettonici che per lo spettacolo; disponiamo inoltre di sistemi audio, video, Luci e sistemi interattivi e multimediali dedicati al “service”, al noleggio, noleggio a lungo termine oppure alla vendita. I nostri tecnici posso progettare sistemi e impianti dalla fase embrionale alla messa in opera finale seguendo tutte gli sviluppi direttamante. Excellium / Comunicare group propone allestimenti completi potendo fornire direttamente: sedute per le platee, palchi, podi e tutte le tecnologie necessarie (monitor al plasma e lcd, video-proiettori e schermi, impianti di traduzione simultanea, amplificazione audio, illuminotecnica, riprese televisive, ring di americana, scenografie, arredi, etc.) La nostra “mission” è seguire i clienti e partner dall’ideazione alla realizzazione, dalla creazione artistica alla progettazione tecnica degli eventi, offrendo una gamma completa di soluzioni e servizi. Excellium / Comunicare group si propone con soluzioni diversificate sia a clienti istituzionali e aziende internazionali, che richiedono un orizzonte di prestazioni ampio e di alto livello, sia alla piccola e media impresa, dove il rapporto qualità-prezzo risulta determinante per la realizzazione dell’evento. Operiamo sul territorio nazionale ma offriamo i nostri servizi anche in occasione di eventi all’estero o in tour itineranti. Contatti Numero verde: 800-973595 Fax: +39-010-8562209 E-mail: info@comunicare.net Sito: www.comunicare.net www.excellium.it
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Il Secolo XIX - Italiana Editrice S.p.A. Il Secolo XIX è il quotidiano leader della Liguria: possiede il primato italiano di penetrazione a livello regionale. Il Secolo XIX, infatti, punta ad una completezza di informazione, sia essa internazionale o nazionale, che lo fa essere “il primo giornale”, ed è talmente radicato nella realtà ligure che, negli anni, è diventato un punto di riferimento autorevole ed efficace per tutti i problemi regionali. Il formato è tabloid con full colour fino a 96 pagine, con 5 edizioni locali (Genova/Basso Piemonte, Levante, La Spezia, Savona, Imperia/Sanremo) e l’edizione nazionale.
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Contatti Segreteria di redazione Mariangela Ferrari Marina Olita E-mail: segreteria@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388426
Economia e Marittimo Francesco Ferrari E-mail: francesco.ferrari@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 628
Web Diana Letizia E-mail: letizia@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 632
Cronaca di Genova Claudio Caviglia E-mail: caviglia@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 629
Politico Vittorio De Benedictis E-mail: francesco.ferrari@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 628
Sport Paolo Giampieri E-mail: giampieri@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 631
Interni - Esteri Roberto Scarcella E-mail: scarcella@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 483
XTe (Cultura, Spettacoli, Album) Andrea Plebe E-mail: plebe@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 626
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Locanda di Palazzo Cicala Affascinante hotel a Genova in centro proprio di fronte al Duomo di San Lorenzo vicino al Porto antico, all’Acquario di Genova e alla Stazione dei Treni. Palazzo Cicala nel Centro storico di Genova rappresenta la scelta strategica per vivere con brevi passeggiate tanto la città d’arte - il Palazzo Ducale, il Polo Museale di via Garibaldi, il teatro Carlo Felice, i carrugi medievali, le grandi chiese- quanto la città moderna e d’affari - il Porto Nuovo, il Cotone Congressi, la Fiera, l’Università, la Regione, il Municipio e le eleganti vie dello shopping. L’albergo per famiglie con bambini è a Genova l’indirizzo di riferimento per la scoperta dell’Acquario e della Città dei bambini, che si raggiungono in pochi minuti. Esternamente è caratterizzato da un’impotente facciata settecentesca sulla piazzetta delle Scuole Pie e dalla loggia medievale su piazza San Lorenzo. Il portone d’ingresso e la monumentale scala conservano la suggestiva magia degli aristocratici palazzi genovesi. La hall, che gode della visione trionfale del Duomo gotico, sintetizza lo stile dell’hotel, un’attualizzazione degli spazi del passato attraverso forme e colori del design contemporaneo, dove toni chiari e sobri ma accesi da tocchi vivaci regalano una nuova freschezza e fruibilità. Un’accoglienza affabile è a disposizione degli ospiti per informazioni sulla città, i musei, le fiere, i ristoranti, gli spettacoli, gli eventi, gli itinerari in barca, le offerte speciali, i pacchetti per famiglie e quant’altro. Le camere della Locanda, che si affacciano quasi tutte sulla tranquilla piazza Scuole Pie, sono ampie e luminose, con alti soffitti a volta decorati da eleganti stucchi, evidenziano e conservano atmosfere e memorie di agi e raffinatezze d’antan. All’interno, l’arredo, ricercato ed essenziale, rivela l’armonioso incontro tra spazi antichi, design contemporaneo e alcuni mobili d’alta epoca. Le tecniche dell’illuminazione rispecchiano i migliori prodotti della più avanzata progettazione, primo esempio fra gli alberghi di Genova. Le suite sono l’ideale per le famiglie in viaggio con i bambini; a disposizione su richiesta il servizio di baby-sitter. l’hotel dispone infatti di connessione internet wi-fi sempre a disposizione dei propri. Contatti Piazza San Lorenzo, 16, 16123, Genova Tel.: +39 010 2518824 Fax: +39 010 2467414 E-mail: info@palazzocicala.it Sito: www.palazzocicala.it Skype: locanda cicala
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Radio Babboleo Il sistema babboleo Tre stazioni radiofoniche e un sito internet, ognuno con un’identità chiara, ma con un’unica missione: informare e divertire la Liguria. Questo è il sistema Babboleo: Radio Babboleo, Radio Babboleo News, Radio Babboleo Suono e babboleo.it raggiungono ogni giorno migliaia di persone. Nata nel maggio 1976, Radio Babboleo è stata una delle prime radio private italiane e si è subito affermata come punto di riferimento dell’ascolto nel panorama ligure. Il sistema Babboleo permette oggi all’ascoltatore di farsi una radio su misura attingendo a tre frequenze diverse e integrando un sito internet sempre aggiornato, grazie al quale conoscere tutti gli eventi culturali e musicali della Liguria, ed essere sempre aggiornati sulle notizie principali. Babboleo: una radio locale, con più di 30 anni di storia alle spalle, che è uscita dagli schemi tradizionali ed è diventata la più originale, nel panorama delle radio private, grazie al Sistema Babboleo. Radio babboleo È la stazione radio dell’intrattenimento. Trasmette ogni giorno la musica migliore dagli anni ‘90 a oggi, selezionata secondo un gusto adulto, alla ricerca di ballate e di scelte pop, di suoni caldi, conosciuti ed emozionanti. I conduttori di maggior appeal e l’informazione in breve di Radio Babboleo accompagnano la giornata con tutto ciò che di interessante accade a Genova e in Liguria. Babboleo news È la stazione radio dell’informazione. Cosa succede a Genova ed in Liguria? La risposta giunge da una qualificata redazione che rende viva e continuamente aggiornata un’emittente completamente parlata, sempre interessante, mai noiosa. Il ritmo dei fatti di Genova e della Liguria è scandito ogni giorno da Babboleo News, la prima stazione locale news/talk d’Italia. Babboleo suono È la stazione radio della musica anni ‘70 e ‘80. Dai Pink Floyd ai Police, dai successi di Michael Jakson ai Genesis, spaziando tra la migliore selezione pop che ha reso unico un periodo musicale vivo ancora oggi. Sequenze musicali mozzafiato sempre pronte per ricaricare la giornata di ricordi e di nuove emozioni. Babboleo.it È il sito internet del Sistema Babboleo, attraverso il quale conoscere tutto quel che ruota attorno al mondo Babboleo: il palinsesto delle tre stazioni radio, i volti e la personalità di conduttori e giornalisti, le frequenze. Ma anche per essere costantemente aggiornati sui fatti di cronaca e di politica, sugli eventi culturali e musicali di Genova e della Liguria, e sulle ultime notizie sportive. Oltre che per riascoltare i giornali radio e le interviste realizzate ogni giorno. Contatti Sms: +39 340 9929750 Tel.: + 39 010 2467888 E-mail: diretta@babboleo.it Sito: www.babboleo.it
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Xenia Creative Team LTD Siamo un gruppo di creativi indipendenti con base a Londra. La nostra carriera freelance ci ha insegnato molto di più di quel che ci saremmo aspettati. A volte serve molto tempo ai dipendenti per rendersi conto di quando occorre essere coraggiosi con le proprie scelte, con le proprie idee e coi propri prodotti creativi. Siamo sul mercato da abbastanza tempo per riconoscere quando è tempo di agire e di prendersi le proprie responsabilità. L’innovazione è sempre un rischio. Ma il più delle volte, ne vale la pena. Servizi Progettiamo brand dall’inizio alla fine, offrendo servizi di naming, logo design, immagine coordinata e definizione di tagline. Sviluppiamo creatività above e below the line. Il digitale è un’abitudine oggi, ma la nostra sfida è quella di connettere i puntini online e offline: creiamo piattaforme integrate e campagne che posizionano correttamente il tuo prodotto sul mercato. Ci teniamo alla fase di concretizzazione delle idee. Abbiamo una lunga esperienza in produzione e post-produzione video e fotografica, così come in direzione della fotografia, in sound design, in motion graphics e nell’organizzazione e coordinazione di eventi. Contatti 45 King William Street, EC4R 9AN London, United Kingdom E-mail: info@xeniacreative.com www.xeniacreative.co.uk
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“Other Identity” Other Identity, Altre forme di identità culturali e pubbliche | prima edizione. un progetto a cura e di Francesco Arena ©2016 Con il patrocinio della Regione Liguria e in collaborazione con: Comune di Genova, Settore Musei e Biblioteche; Goethe-Institut Genua; Galleria Guidi&Schoen Sponsor tecnici e partner: Kodak; Radio Babboleo; Xenia Creative ltd; Comunicare; Locanda di Palazzo Cicala; Banano Tsunami Coordinamento immagine grafica: Davide Ape; coordinamento contenuti web: Benedetta Spagnuolo Multimedia e video a cura di Francesco Arena e Dagmar Thomann Traduzioni: Elena Gallo; Kristina Kostova Fotografie ufficiali dell’evento: Francesco Arena; Mihail Ivanov Un grazie particolare a tutti gli artisti e agli autori dei testi, al loro entusiasmo e al loro appoggio; un ringraziamento particolare a Roberta Canu e Elisabetta Papone che hanno reso possibile la manifestazione; al nostro grafico Davide Ape, per la pazienza con la quale ci ha seguito, a Benedetta Spagnuolo per il supporto e per avere aggiornato tutta la nostra comunicazione in tempo reale.
“Other Identity” Other Identity. Other forms of cultural and public identities | first edition. A project curated by Francesco Arena © 2016 With the support of Regione Liguria and in collaboration with: Comune di Genova, Museum and Libraries section; Goethe-Institut Genoa, Guidi&Schoen Art Gallery Sponsored by: Kodak; Radio Babboleo; Xenia Creative ltd; Comunicare; Locanda di Palazzo Cicala; Banano Tsunami Graphic Image coordination by Davide Ape; web content coordination by Benedetta Spagnuolo Multimedia and video content by Francesco Arena e Dagmar Thomann Translation by Elena Gallo; Kristina Kostova Official photography at the event by Francesco Arena and Mihail Ivanov Special thanks to all artists and authors taking part to the event for their enthusiasm and support, to Roberta Canu and Elisabetta Papone for their logistic help that made it all possible, to our graphic designer Davide Ape for his dedication and patience and to Benedetta Spagnuolo for the support and for updating all our communication in real time.
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