METHODO maggio/giugno

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METHODO Anno 1 Numero 1 maggio-giugno 2014 - Prezzo di copertina 12 â‚Ź

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Sommario

maggio/giugno 2014

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Editoriale Le nostre Rubriche:

Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazione Via A.Caretta, 3 20131 - Milano t/f 02.36798297 www.ottolobi.it P.IVA 03559000983 N.REA: MI-2021527 Pubblicità t/f 02.36798297 info@ottolobi.it

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Design Industriale a cura di G.Alito

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Metodi di sviluppo prodotto a cura di N.Lippi

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Metodi di produzione a cura di A.Viola

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L’intervista a cura di C.Ravaioli

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Project management a cura di A.Fischetti

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LCA a cura di Collettivo NUUP®, sustainable creativity

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Creatività a cura di D.Donati

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Un libro in 10 minuti (management) a cura di P.Pirone

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editoriale

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A distanza di anni dalla laurea sono ancora fermamente convinto che le competenze più importanti maturate durante gli studi di ingegneria siano la capacità logica, il metodo e i legami causa effetto. In pratica saper mettere in fila cosa bisogna fare prima per ottenere un risultato dopo. L’università ci fornisce una sorta di concentrato di pomodoro, ci aiuta ad assimilare, in pochi anni, le nozioni necessarie per entrare in azienda, o quanto meno comprenderne il linguaggio tecnico. Ci mette nelle condizioni di fare del calcolo - perlopiù di verifica - dopo aver maneggiato per anni formule e coefficienti di sicurezza. Il vero neo dell’istruzione, in generale, è che nei suoi contenuti guarda al passato. Ci mostra come problemi analoghi a quelli che affrontiamo quotidianamente siano stati risolti in passato, il tutto riassunto in brillanti dimostrazioni a più pagine. Fin dalle prime esperienze da progettista di macchinari mi è risultato chiaro che volendo competere - e quindi essere utile - con l’esperienza e la conoscenza di professionisti con 25, 30 o addirittura 50 anni di competenza lavorativa non avevo altre armi se non il metodo. Su questo terreno sono riuscito negli anni a giocare le mie carte e non potendo attingere a mezzo secolo di pratica, mi sono affidato completamente al metodo. Come se avessi nella testa un Obi-Wan Kenobi che sussurra continuamente «che il metodo sia con te». In questo modo ho sopperito alla poca esperienza e ancora oggi, di fronte a nuovi problemi, di nuove aziende che sviluppano prodotti sempre diversi da quelli che ho visto il giorno prima, chiudo gli occhi e mi impegno nel produrre idee organizzate con metodo. Alla base c’è ancora lo studio, le continue letture di saggi ed esperienze, utili a comprendere logiche nuove, invisibili fili conduttori. Credo che oggi in pochi si sentano di criticare l’approccio metodologico ai problemi. Peccato che il metodo, in realtà, sia applicato raramente. Molte aziende hanno dimenticato le basi dell’organizzazione aziendale, tanti fanno di tutto e quel tutto è spesso disorganizzato, demandato alla logica del singolo e non alla visione d’insieme. Un pericoloso effetto collaterale della mancanza di metodo è l’impossibilità di correggere gli errori. Se non si adotta un percorso chiaro e logico, difficilmente riusciremo a scoprire eventuali difetti e tantomeno a trarne insegnamenti preziosi per i successivi progetti.


“METHODO” nasce da queste poche prese di coscienza, dalla ferma convinzione che le idee da sole non bastino. Parleremo di metodi, esperienze, storie di successi di quel magico mondo delle attività operative, le stesse che trasformano embrioni d’idee in prodotti accattivanti, funzionanti, affidabili ed economicamente competitivi, attraversando una sempre maggiore complessità organizzativa. Ciò di cui abbiamo realmente bisogno è qualcosa che ci aiuti ad affrontare nuovi problemi, o addirittura a progettarne di nuovi, per spostare la visuale fino a trovarne il lato debole. Questo vuole essere METHODO, una rivista che apra le prospettive, veicolo di logica e di futuro più che di competenze specifiche. Il lettore potrebbe chiedersi «come si vuole differenziare “METHODO” dalle altre riviste di settore?». «Nei contenuti» è la risposta, soprattutto nella loro onestà intellettuale intrinseca. Nessun contributo o articolo sarà inserito a scopo di pubblicità più o meno occulta. Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che con incredibile entusiasmo, hanno voluto contribuire a questo primo numero. Buona lettura.

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Attenzione, non stiamo parlando di procedure, di pura burocrazia, ma non credo di sbagliare nel dire che uno dei principali problemi delle aziende Italiane - dopo le tasse - sia la scarsa propensione al metodo. Qualcuno potrà dire anche che ne è la fortuna, io sostengo invece che la tanto elogiata flessibilità italiana non debba essere frutto del caos, ma di un’organizzazione che sia capace di fare sintesi e creare in poco tempo prodotti all’altezza dei mercati di riferimento.

Nicola Lippi

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a cura di Giuseppe Alito

DALLA

MASS PR

Rubrica Design Industriale

Ogni persona in ogni momento esegue progetti di design. Potrei sintetizzare il termine design con scelta. Tutto ciò che ci circonda, persino la selezione dei vestiti che la mattina scegliamo di indossare, tra i tanti che possediamo, è un progetto di design. Walter Gropius da direttore della Bauhaus sosteneva che ogni essere umano di qualunque estrazione sociale, produce MDM (mental design model). Si tratta di un’idea di prodotto elaborata dalla mente che nella sua componente sostanziale è statistica (cioè è simile a quella di qualunque altra persona che immagina quell’oggetto), mentre nella componente formale è soggettiva (generata, cioè, dalle esperienze sedimentate del singolo soggetto). In altre parole Gropius ci dice che ogni persona possiede una sua natura creativa che usa per costruire e modificare il proprio contesto.

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Dico questo nella speranza di riuscire mantenere una distanza considerevole rispetto a tutto ciò che siamo costretti a leggere e sentire inerente al tema specifico. Distanza dalle teorie dell’ovvio (del tipo less is more), distanza dai “salotti buoni” ormai polverosi, dove da anni non si fa altro che parlare di un passato che è ogni volta più lontano perchè sempre lo stesso, di riviste nelle quali sotto la parola design segue sempre la solita trafila di nomi (Zanuso, Castiglioni, Magistretti, Sottsass, etc.), che certamente hanno dato un enorme contributo se non addirittura vita a questa materia, ma credo sia ora di guardare oltre. Distanza, insomma, da tutto ciò che inesorabilmente ci obbliga a guardare indietro come una sorta

di specchietto retrovisore. Trattandosi di una materia che deve avere connotati di dinamicità e che deve generare “passato breve”, capirete che tutto ciò è paradossale, soprattutto in un Paese che crede ancora di essere la “patria del design”. Dopo questa doverosa premessa, vorrei iniziare adottando un approccio multidisciplinare cercando, per quanto possibile, di compiere un’ideale percorso a spirale dove il punto di partenza non sarà il centro di essa ma la sua periferia.


RODUCTION

al TAYLOR MADE Uno degli elementi fondanti dell’industrial design è la replicabilità. Walter Benjamin agli albori della rivoluzione industriale individuò nella stampa dei quotidiani il primo processo di produzione industriale di massa dove l’oggetto del business non era più “l’originale” (come avveniva per l’artigianato) ma la copia replicabile teoricamente all’infinito. Dietro la spinta impetuosa dell’evoluzione tecnica prima e tecnologica dopo l’industria si è configurata esclusivamente sulla produzione di repliche in tutti i settori manifatturieri. Nella moda, ad esempio, questo processo ha dato vita al pret-a-porter.

recente testo, di cui parleremo in seguito. L’evoluzione logica di tutto questo è il ritorno al taylor made, ma senza fare un passo indietro sul fronte produttivo, non quindi una rievocazione del ritorno all’artigianato, ma una sofisticazione ulteriore delle logiche di mass production che consentano margini di “adattabilità” tipici del fatto a mano. Può sembrare strano ma ciò avviene (e da molti anni) nel settore delle auto, direi addirittura immediatamente dopo la Ford T.

Grandissimi sono stati i benefici soprattutto per i consumatori che potevano (e possono) disporre di prodotti, sì standardizzati in termini formali ma qualitativamente ed economicamente competitivi. Un esempio di ciò è il modello Ikea. Le aziende dal canto loro hanno potuto beneficiare di una forte barriera competitiva perché solo chi disponeva di risorse sufficienti poteva permettersi di diventare “industriale” secondo la proporzione che più deve essere competitivo il prodotto maggiori sono gli investimenti tecnici e tecnologici per metterlo al mondo e produrlo.

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In termini filosofici, però, ciò ha allontanato l’uomo dall’oggetto, sia perché non ne percepisce le logiche produttive (origine) sia, appunto perché facilmente e velocemente disponibile, ne sminuisce il valore (unicità) rendendo molto difficile la trasformazione dell’oggetto in “cosa”, processo sofisticato ben descritto da Remo Bodei in un suo

Il vantaggio indiscutibile è quello di rendere partecipe il consumatore alla “creazione” stessa del prodotto nella quale può governare quelle variabili che più gli interessano come la qualità, l’eco-sostenibilità, l’unicità, e persino il costo e dunque il prezzo. Questa potrebbe essere certamente una grande sfida per l’industria del nostro Paese spesso votata all’eccellenza e molte volte di nicchia. Essere gli industriali del taylor made!


Dal punto di vista pratico bisogna pensare a metodi progettuali prima e produttivi dopo in grado di generare prodotti o sistemi di prodotto “aperti” e facilmente (ed industrialmente) customizzabili. Certamente è sempre sano avere una buona dose di competitività, ma nel nostro Paese la si deve cercare prima di tutto nei costi accessori dei quali sono gravate le imprese, costi indiretti che non contribuiscono, cioè, ad aumentare il valore della produzione, e non certo nella banalizzazione dei prodotti al fine di poterli rendere più competitivi. Bisogna seguire la propria vocazione e quella dell’Italia deve essere la vocazione dell’eccellenza quanto più competitiva possibile a tutti i livelli, ma eccellenza, sfatando il mito che grande è bello e sano. Le nostre imprese non sono in grado di competere nella parte bassa del mercato (dove serve prima di tutto massa critica), al contrario sono perfettamente in grado di produrre valore aggiunto, di produrre quella che Gianfelice Rocca definisce “innovazione incrementale” ossia la capacità, indipendentemente dalla dimensione, di combinare i vari fattori e ingredienti della produzione in modo creativo e con valenze qualitative e questa è una caratteristica solo italiana. Non puntiamo, quindi, all’aumento ma semmai alla riduzione dimensionale e soprattutto all’eccellenza che non significa fare solo le Ferrari. Anche un bicchiere può essere eccellenza. Dal punto di vista strategico riguardo alla dimensione e forma del mercato (stretto e profondo quando si compete dal basso), nel nostro caso deve avere una forma diversa. Deve essere bidimensionale. Se l’Italia fosse un’azienda sarebbe una

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leader di diversificazione, cioè un’impresa che produce business operando lo stretching orizzontale (tante categorie di prodotti diversi tra loro), questa condizione è tipica dei grandi marchi (vedi il caso Pirelli), il vantaggio rispetto alle aziende leaders di prezzo è quello che non si è costretti a operare attraverso la profondità di gamma (tante tipologie dello stesso prodotto) in uno spazio orizzontale assolutamente limitato, con poca visibilità di marca ed ingenti investimenti per allestire un’offerta competitiva con le altre leaders di prezzo. Il nostro non è un paese da grande


distribuzione, non a caso a competere in quel settore esiste solo un player italiano e spesso grazie a vantaggi non derivanti dalla propria capacità di essere competitivo. I margini di tutte le grandi catene operanti in Italia sono bassissimi o in alcuni casi negativi e per la prima volta dall’avvento della GDO in questo Paese lo scorso anno le vendite (compreso il settore food) hanno registrato una contrazione prossima al 3%. Non parlo di un mondo utopico, le realtà competitive in Italia ci sono e rimarranno, ma purtroppo non hanno carta d’identità italiana, alcuni esempi? H&M e Zara valgono quanto 8 Prada messe insieme, ma non avranno mai l’appeal del marchio italiano. Ikea da sola (in Italia) vale quanto tutte le grandi firme del funtiture design di questo paese, ma non sarà mai un marchio aspirazionale. Tuttavia in questi 10 anni l’Italia per Ikea è diventato il sesto Paese al mondo per cifra d’affari netta ed è il primo Paese sul fronte degli acquisti di mobili, mentre Ikea per l’Italia è al primo posto per acquisto di mobili italiani. Chi avrebbe mai immaginato solo 10 anni fa che nel nord ricco di questo Paese lì attaccato alla blasonata Brianza regno dei mobili di design, un giorno sarebbe arrivato uno “svedese” a sovvertire le regole del mercato. Perché, dunque, dovremmo fare prodotti low cost? Qualcuno si chiederà cosa c’entra tutto questo con il design? Poco, se si considera il design come una delle tante fasi dello sviluppo di un prodotto dove spesso la finalità è creare il nuovo più che l’innovazione, anche in considerazione del fatto che esiste una grande confusione attorno al termine innovazione.

Un prodotto nuovo può non essere innovativo, mentre un prodotto innovativo è sempre nuovo. Inoltre è necessario uscire dalla logica che innovazione significhi sempre qualcosa di tangibile, di fisico. Si può innovare semplicemente cambiando l’ordine delle cose e del pensiero che ci sta dietro. Tuttavia, data la vastità del tema andrebbe affrontato in maniera più dettagliata. C’entra tanto, invece, se si intende costruire una piattaforma stabile che riduca al minimo il rischio d’impresa grazie alla capacità di vedere più chiaramente l’obiettivo da colpire. La letteratura è piena di bellissimi prodotti che hanno affollato mercati sbagliati in momenti sbagliati. E questo è il solo lusso che non ci possiamo più permettere.

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Rubrica Metodi di Sviluppo Prodotto

a cura di Nicola Lippi

DEFINIRE I REQUISITI

Una delle principali cause di fallimento nella commercializzazione di un prodotto risiede nell’errata definizione dei requisiti o ad argomenti a esso connessi. Non bisogna mai dimenticarsi, infatti, che il primo e principale strumento di marketing è proprio il prodotto. Purtroppo non sempre questa fase è presidiata in maniera adeguata, pur essendo cruciale per fare entrare la voce del cliente (dei clienti) e far sì che questa guidi l’intero sviluppo del nuovo prodotto. L’errata definizione dei requisiti non è la sola causa di fallimento di un progetto, come ci insegna il modello del Professor Parasuraman (vedi figura 1), esistono diversi gap tra il cliente e il prodotto che gli viene proposto. Il QFD (Quality Function Deployment), e in generale questa fase specifica, contribuisce a colmare i gap 1 e 2, ovvero il gap tra la prestazione che il cliente si attende e ciò che l’azienda percepisce, e ancora il gap tra ciò che abbiamo percepito e gli obiettivi (requisiti) di dettaglio su cui indirizziamo lo sviluppo. Di fatto, quindi, il QFD è un vero e proprio strumento di gestione del rischio esterno. E’ interessante notare come un ulteriore gap sia dato dalla nostra capacità di veicolare l’immagine del prodotto per fare in modo che il cliente ne percepisca il valore.

Figura 1 - Il modello dei 5 gap di Parasuraman

dai concorrenti è quella di essere veloci, comprendere le esigenze prioritarie, avere una scala di valori che consenta di concentrare gli sforzi e il poco tempo a disposizione su ciò che è realmente di valore per il mercato. Su questo - una definizione chiara e condivisa iniziale dei requisiti è fondamentale - si eviterà il proliferare di modifiche e revisioni che sono tra i principali sprechi e che incidono pesantemente sul time to market. (vedi figura 2)

Lo sviluppo di un prodotto avrà quindi successo se R&D riuscirà a integrare tutti i requisiti e che questi siano compatibili con:

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Tempi di sviluppo E’ inutile trascorrere anni nel ricercare la perfezione, la migliore strategia per contrastare il rischio di vedersi superare Figura 2 - Il costo delle modifiche nello sviluppo prodotto


DI PRODOTTO CON IL QFD Figura 4 Over Engineering

Investimenti in ricerca e sviluppo e di produzione

Commettere errori nella definizione dei requisiti e nella comprensione delle esigenze del mercato potrebbe comportare gravissime conseguenze sulla profittabilità degli investimenti fatti, causando ingenti perdite, oltre che procurare un danno d’immagine e un gap difficilmente colmabile con la concorrenza in tempi brevi. E’ un dato di fatto, oggi le economie di velocità stanno sostituendo le economie di scala. Nel caso meno grave di ripensamento nella definizione degli obiettivi, si avrebbero comunque delle conseguenze dovendo, di fatto, ammettere di avere buttato tempo, risorse o addirittura di dover modificare o rifare costose attrezzature. E’ necessario prendere atto che le decisioni di costo vengono prese nelle primissime fasi dello sviluppo, quando si definisce l’architettura di prodotto, sostanzialmente si è già decisa la distinta base e con essa il numero di componenti e quindi gran parte dei costi di materiali, attrezzature e assemblaggio. (vedi figura 3)

Costo del prodotto e margine di contribuzione

I contenuti del prodotto sono, nella gran parte dei casi, proporzionali al costo che ne deriva. Cadere nell’over engineering, cioè nell’ipertrofia progettuale, può causare costi non proporzionali alle aspettative del mercato, o ancora, pur soddisfacendo le aspettative a un livello adeguato, fare costare la stessa funzione più della concorrenza. E’ quindi importante analizzare il valore del prodotto e valutare bene il target di costo sulla base delle reali attese del mercato e quindi avere anche una specie di classifica d’importanza dei requisiti. Vedremo come sia questo uno dei risultati più importanti del QFD. (vedi figura 4)

Semplicità, velocità produttiva e lead time Come abbiamo già scritto, la velocità è diventata un fattore decisivo per competere sui mercati. Essere veloci vuol dire avere processi produttivi snelli, che possano sfornare prodotti a ridotto lead time, cioè con Figura 3 - I Costi sono decisi nelle primissime fasi di sviluppo

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tempi minimi tra ricevimento dell’ordine e consegna al cliente. Il successo dell’approccio lean si deve in gran parte a questo, all’avere posto l’attenzione al lead time come primo indicatore degli sprechi e quindi dei costi di produzione. Il vero limite oggi alla riduzione di questi tempi è proprio il prodotto che, con la sua architettura, la scelta dei processi di trasformazione e il numero di componenti, determina in gran parte i tempi per l’approvvigionamento e l’assemblaggio. Sono quindi temi che devono confluire nei requisiti di un nuovo prodotto, lead time e takt time devono diventare obiettivi di progetto, non solo di produzione.

vincolo a cui dare risposta in fatto di scelte progettuali. Ancora una volta, un criterio che ci consenta, oltre che di definire gli obiettivi, anche di quantificarne l’importanza, è fondamentale. A questo punto è sottointeso che la “misurabilità” degli obiettivi di progetto deve essere garantita.

Facilità di configurazione evoluzione nel tempo

Esiste da sempre ambiguità sulla definizione delle specifiche di prodotto tra Marketing (o l’area vendite) e Ricerca e Sviluppo. Generalmente l’equilibrio si sposta da un lato all’alto in ragione di dimensioni aziendali, tipologia di prodotto, consuetudini e forza manageriale di un’area rispetto all’altra. Questa ambiguità è naturale ed è dovuta alla visione che giustamente le due diverse aree devono avere, da una parte il cliente con il suo linguaggio da fruitore, dall’altra la fabbrica e i tecnici con il loro linguaggio. E’ giusto, si devono soddisfare esigenze del cliente con un prodotto che svolga delle funzioni, che per forza devono essere misurate e definite con criteri oggettivi.

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Per gli stessi motivi sopra esposti, il prodotto deve potersi adeguare velocemente a nuove esigenze, ai cambiamenti tecnologici. Una visione strategica da questo punto di vista è fondamentale. E’ importante saper immaginare, o comunque fare in modo che, tra i requisiti di prodotto, vi sia la capacità di accogliere facilmente modifiche a componenti strategici senza compromettere anni di sviluppo e investimenti. Le architetture di prodotto devono essere lasciate “aperte” al futuro e alla sua imprevedibilità.

Qualità del prodotto

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La qualità non è un solo obiettivo produttivo, la qualità oggi è un obiettivo in primo luogo del progetto. Creare funzionalità robuste e non soggette a variabilità deve diventare un obbligo per la Ricerca & Sviluppo. Partendo dal presupposto che la variabilità è nella natura del mondo, non si possono non considerare i suoi effetti nelle condizioni di utilizzo o, ancor meno, nel modo di produrre. Tutti i requisiti, almeno i più importanti, devono ricevere questo ulteriore

IL PUNTO DI VISTA ORGANIZZATIVO A sostenere la necessità di rendere metodica la fase di definizione dei requisiti sono anche alcuni problemi, chiamiamoli organizzativi o, più semplicemente, di comunicazione.

Da una penna mi aspetto una certa fluidità nello scrivere, chi deve progettare e realizzare questa “fluidità” si darà degli obiettivi di attrito, sceglierà inchiostri con determinate caratteristiche di densità e individuerà un metodo di prova per validare la stessa “fluidità”. Questa ambiguità spesso si traduce in incomprensioni che, dal punto del vista del marketing, possono essere riassunte in:


resistenze da parte dei tecnici a venire incontro agli input del marketing; resistenza a sviluppare ciò che piace piuttosto che ciò che è richiesto (“libido tecnologica”); deformazione degli input provenienti dal marketing.

un linguaggio spesso non tecnico e quindi difficilmente interpretabile. Questo è vero tanto più il prodotto è business to consumer. Nel caso invece di business to business il divario tra il linguaggio del cliente e quello del fornitore si riduce considerevolmente, mantenendo comunque una certa distanza.

Mentre il punto di vista del progettista si può riassumere in: • incompletezza delle informazioni sul prodotto da sviluppare fornite dal marketing alla progettazione; • continui cambiamenti nelle richieste durante lo sviluppo; • individuazione delle esigenze prioritarie talvolta arbitraria o “emotiva”.

In questa prima fase è necessario assicurarsi che i bisogni dei clienti siano stati tutti individuati, sia quelli impliciti che quelli latenti (chiariremo cosa significa questa distinzione), ma anche fare in modo che tutti parlino lo stesso linguaggio e che le informazioni siano organizzate in modo chiaro. E’ una fase fondamentale perché orienta tutte le decisioni ed elaborazioni successive.

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Tutti però, spesso, lamentano la mancanza di metodo, il QFD è la risposta. Lo può essere perché chiarisce e incrocia la voce del cliente con il suo linguaggio fatto di percezioni, e il linguaggio aziendale, estremamente formale e numerico. Completato il QFD sarà chiaro e condiviso il percorso logico che ha portato alla definizione dei requisiti. Saranno inoltre evidenti le priorità, quali sono i fattori che determinano il successo o l’insuccesso del progetto, fornendo a tutti una bussola per poter prendere decisioni durante tutto lo sviluppo, senza che arbitrariamente aspetti secondari possano contrastare lo svolgimento delle attività o, peggio ancora, che si perdano di vista i temi principali di sviluppo.

Identificare i clienti, la segmentazione La segmentazione è vitale per analizzare la Voce del Cliente. Se il cliente non è “segmentato” opportunamente sarà impossibile arrivare a coglierne “la vera voce” . Voci multiple potrebbero portare in direzioni opposte a quelle richieste. Non è pensabile - spesso - che, con lo stesso prodotto, si riescano a soddisfare mercati diversi, tipologie di clienti differenti con diverse culture, norme e capacità di spesa.

CATTURARE LA VOCE DEL CLIENTE

Questo è particolarmente importante in progettazione, in quanto sarebbero necessari progetti diversi per soddisfare segmenti di mercato diversi.

Il primo passo da compiere per definire i requisiti di prodotto è raccogliere la voce del cliente, i suoi bisogni. Il cliente, in relazione alla tipologia di prodotto, esprime le sue aspettative con

E’ quindi importante identificare e focalizzarsi sui più importanti segmenti per: • dimensione; • profitto; • strategia di business.

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Figura 5 - Criteri per la segmentazione

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In particolare chiedendosi: • i bisogni di chi deve soddisfare questo prodotto/processo per avere successo? • i clienti sono tutti ugualmente importanti? • ci sono altri clienti potenzialmente fondamentali? • focus sui bisogni dei clienti “esterni”, ma occorre considerare anche i clienti/utenti interni e gli stakeholder. Si introduce quindi una definizione avanzata di “Cliente” = clienti/utenti esterni e interni, più stakeholder. È consigliabile segmentare per focalizzare lo studio sui clienti più importanti: • determinare segmenti logici di clienti (regione, tipo di business, dimensione etc.); • scrivere una definizione per ciascun segmento di clienti;

segmentare o raggruppare i clienti in base alla similitudine tra i loro bisogni relativi a prodotti e servizi – AREE OMOGENEE DI BUSINESS; • concentrare prodotti e servizi sul/sui segmento/i di clienti che hanno scelto per perseguire le loro strategie di business; • scegliere i segmenti di clienti in base alla propria capacità di soddisfare in maniera redditizia i bisogni dei clienti esistenti oggi, domani e in futuro, nonché in base alla propria capacità di sviluppare le competenze necessarie per soddisfare i bisogni dei nuovi/potenziali clienti. E’ sempre fondamentale individuare i decision makers e orientare la value proposition sulle loro necessità. Chi sono i clienti/gruppi di clienti critici per il mio


prodotto o servizio? Non tutti i clienti/segmenti sono ugualmente importanti, tra i clienti, si devono identificare i “pochi fondamentali” e i “tanti utili”. (vedi figura 5 e 6 - I diversi clienti per tipologia di prodotto servizio)

Un approccio utile all’identificazione di tutti i possibili clienti è quello di formalizzare il ciclo di vita del prodotto, dalla progettazione al riciclo a fine vita. Ad esempio:

Progetto – In questa fase il cliente è il

progettista stesso che potrebbe, ad esempio, avere interesse nello sviluppare un prodotto con criteri che lo rendano facilmente configurabile (anche se in definitiva è il cliente finale che richiede tempi di sviluppo veloci). Acquisto materiali – In base a obiettivi di procurement avere interesse a indirizzare il progetto verso soluzioni o fornitori coerenti con gli stessi. Testing e laboratori di analisi - Il prodotto deve essere validabile, la predisposizione di connessioni elettriche, diagnostiche o per apparati di prova spesso non interessa al cliente finale. Produzione – Può esprimere richieste riguardo dimensioni pesi dei particolari,

materiabili utilizzabili, requisiti di sicurezza e, come si può ben immaginare, molti altri. Logistica – Esprime requisiti sulla trasportabilità, lo stoccaggio, la resistenza agli urti. Service – Desidera essere efficiente e di poter sostituire, riparare con facilità i componenti. Catena distributiva – Ha spesso delle aspettative sulle modalità di inserimento a scaffale, oppure opzioni sulla configurabilità, pallettizzazione. Utilizzatore – E’ il cliente più importante, il destinatario della gran parte delle funzioni, generalmente il cliente su cui tutti, giustamente si concentrano. Enti normativi – Tracciabilità delle informazioni, sicurezza, materiali, funzionalità obbligatorie.

RACCOGLIERE CLIENTI

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BISOGNI

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Una volta individuato il segmento di mercato e identificati i clienti di riferimento è possibile capirne i gusti, le tendenze e le inclinazioni commerciali. Le attente analisi del comportamento del cliente contribuiscono a sviluppare creatività e a individuare le opportunità. Prima di passare alla descrizione delle più comuni modalità di raccolta delle informazioni inerenti i bisogni, è necessario introdurre un’importante classificazione degli stessi, proposta dal professor Noriaki Kano, che nel 1979 introdusse per primo l’idea della “Qualità Attrattiva” .

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Sostanzialmente si classificano i bisogni come:

Figura 7 - Il modello di Kano

1) BISOGNI IMPLICITI Quelli che il Cliente dà per scontati, che non dichiara neppure. Ad esempio nessuno chiederebbe mai al barista: «mi dia un caffè in una tazzina pulita…». 2) BISOGNI ESPLICITI Quelli che il Cliente dichiara espressamente. Ad esempio specifico il tipo di caffe che desidero: «mi dà un caffè macchiato?». 3) BISOGNI LATENTI Quelli che di cui il Cliente non è ancora consapevole. Ad esempio il barista, che mi ha sentito chiamare per nome, si rivolge a me dicendo: «Ecco il suo caffè, signor Antonio».

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Ragionare su questa classificazione può aiutare a capire come vi siano alcuni bisogni la cui mancata soddisfazione provoca l’immediata contrarietà del cliente (i bisogni impliciti, scontati). Permette di comprendere che esiste una categoria di bisogni espliciti, tipicamente degli optional o delle prestazioni facilmente misurabili, che aumentano il grado di soddisfazione del cliente “linearmente” in base all’aumentare della prestazione stessa. Infine a intendere esiste una categoria di bisogni, chiamati “latenti” la cui soddisfazione provoca entusiasmo e sorpresa. Questi ultimi sono delle vere e proprie opportunità e sessioni dedicate alla loro individuazione andrebbero sempre condotte all’inizio di ogni nuovo progetto. (vedi figura 7)

È interessante ragionare sul fatto che un bisogno che oggi è “latente” non lo rimarrà a lungo. Generalmente man mano che il mercato si adegua e soddisfa il medesimo bisogno, questo diventa prima esplicito e poi implicito. Le modalità di controllo degli schermi “touch” ne sono un esempio,. Qualche anno fa era un desiderio latente (inconsapevole) la possibilità di fare a meno di un mouse o di una tastiera fisica, oggi lo si dà per scontato ormai in moltissimi dispositivi.

Come descrivere un bisogno

E’ molto importante che i bisogni siano raccolti in modo da non avere, nella loro stessa descrizione, la soluzione tecnica specifica. Il bisogno deve essere espresso nel modo più generico possibile per


specifica. Il bisogno deve essere espresso nel modo più generico possibile per consentire alla parte tecnica di esplorare le diverse soluzioni che possano condurre con successo a soddisfarlo al meglio. A una penna non viene chiesto che si possa appendere alla camicia con una linguetta riportata sul cappuccio, è più corretto fermarsi al “si possa appendere a una camicia”, la soluzione va trovata anche al di fuori della scontata linguetta sul cappuccio.

Tecniche di creatività

Ritornando alle modalità di raccolta dei bisogni, esistono diverse tecniche a supporto, tra le quali:

Il QFD IN PRATICA

L’intervista personale

E’ una delle tecniche più utilizzate ed efficaci per capire direttamente dal cliente quali siano le sue esigenze. Ai clienti è richiesto di descrivere come utilizzano i prodotti esistenti e se esistono delle esigenze non soddisfatte, su queste ultime l’intervistatore insiste cercando di descriverle al meglio. Successivamente gruppi di lavoro utilizzano il materiale raccolto per elencare tutti i bisogni, impliciti, espliciti e latenti.

Gruppi di intervista/focus group

A gruppi di 6-8 clienti è chiesto di parlare dei loro bisogn. Il vantaggio del lavorare in gruppo consiste nella possibilità di stimolare il dibattito tra i clienti, osservandone i comportamenti e le dinamiche in relazione al prodotto in esame.

Tecniche qualitative strutturate

Ai clienti viene chiesto di confrontare 3 prodotti per volta, ricercando di volta in volta i 2 prodotti più simili e i 2 più differenti e di dire perché lo sono. Tutto questo per stabilire la rete di relazioni tra i diversi prodotti.

Attraverso un facilitatore, che utilizza tecniche appropriate, si cerca di stimolare in un gruppo di lavoro aziendale la proliferazione di idee. Soprattutto si tende far emergere quelli che potrebbero essere i bisogni latenti, cioè quei bisogni che possono generare un importante ritorno sul grado di soddisfazione del cliente e che il cliente stesso, come è ben noto, difficilmente saprebbe indicarci.

Abbiamo ora la possibilità di trascrivere le prime importanti informazioni, i bisogni dei nostri clienti, e mediante l’utilizzo del QFD trasformarle in requisiti specifici di prodotto. Sostanzialmente il QFD dovrebbe consentire di: • acquisire un maggior livello di confidenza sul fatto che ciò che facciamo e’ veramente ciò che il cliente vuole; • sviluppare una visione (anche grafica) condivisa dei bisogni e delle vere priorità del cliente; • parlare tutti la stessa lingua su quello che il cliente si aspetta da noi consentendo un’integrazione profonda tra la visione commerciale e quella di tecnica. Il QFD - Quality Function Deployment - è anche chiamato “House of quality”, casa della qualità. Casa per la sua forma che, nella rappresentazione classica, ha la parte superiore somigliante a un tetto. Nel QFD confluiscono tutta una serie di informazioni che vanno dalle esigenze dei clienti all’immagine aziendale e molte altre

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Figura 8 - Contenuti del QFD

Il QFD nasce a metà degli anni ‘60 in Giappone grazie, principalmente, al lavoro del professor Akao. Nei primi anni ‘80 si diffonde in occidente e oggi viene utilizzato da moltissime aziende dei più svariati settori. Ad oggi non esistono metodi alternativi tanto strutturati ed efficaci. Team di lavoro Non esistono vincoli relativamente alla composizione del team che deve condurre l’elaborazione del QFD. È fondamentale però che sia garantita l’interfunzionalità, proprio per avere la pluralità delle fonti di esigenze e requisiti. Chiaramente le funzioni commerciali e la funzione ricerca e sviluppo devono sempre partecipare, in quanto i primi sono portatori della voce del cliente mentre i secondi sono responsabili dell’esecuzione del progetto. I tempi per l’elaborazione e le aree di supporto Il Quality Function Deployment si sviluppa

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durante le prime fasi del processo di sviluppo nuovo prodotto, che vanno dall’identificazione degli input dal mercato fino alla definizione dei target di prodotto. In particolare supporta le seguenti attività: • strutturazione ed evidenziazione della “Voce del Cliente”, gli scenari di sviluppo del segmento e della concorrenza, a supporto della definizione della Scheda Concept (scheda marketing); • approfondimento della consapevolezza della “Voce del Cliente” e del segmento (mediante sessioni creative) finalizzando lo sviluppo delle idee e di soluzioni Stilistiche e di Prodotto e relativa descrizione nelle Schede Idee; identificazione e valutazione delle caratteristiche critiche prioritarie e delle possibili scelte progettuali alternative benchmarking tecnico, valutazione dei margini di miglioramento sia tecnico che qualitativo; utilizzazione coerente di tutte le informazioni acquisite a supporto della definizione della Scheda Prodotto (specifica di base).

Il principale scopo del QFD è di fare entrare la voce del cliente all’interno dell’azienda, declinandola - attraverso - deployment successivi, in requisiti tecnici, architettura di prodotto, processi produttivi e procedure di dettaglio; definendo a ogni passaggio quali elementi, per il loro impatto sulla soddisfazione del cliente, sono di volta in volta più importanti sui quali quindi investire.


Figura 9 - Le diverse case della qualità • •

COME COSTRUIRE IL QFD IL QFD è composto, nella sua versione “classica” da 7 zone, chiamate anche “stanze”. Nella zona 1 entra la voce del cliente, nella zona 7 escono i requisiti di progetto, gli obiettivi di concreto per lo sviluppo. (vedi figura 10)

di base del cliente (generazione libera mediante Brainstorming (ad esempio utilizzando tecniche di creatività); costruzione del diagramma delle affinità per tutti i bisogni (raggruppare per gruppi omogenei); riorganizzazione dei bisogni mediante l’utilizzo del diagramma ad albero (collegare logicamente i raggruppamenti); eventuale completamento dell’albero dei bisogni mediante ricerca presso i clienti con interviste e focus group, come già anticipato nei paragrafi precedenti.

Proviamo a compiere i vari passaggi costruendo un QFD (semplificato) per una macchina fotografica. In questo caso l’albero dei bisogni è un semplice elenco, dove sono raccolte in sole 3 categorie di bisogni, a loro volta inglobati nella principale esigenza, cioè quella di “fotografare”. Dal “fotografare” fino ad esempio a “facile da trasportare” non si fa altro che rispondere alla domanda “come (deve fotografare)?”. (vedi figura 11)

Il primo passo da compiere è definire l’albero dei bisogni. ZONA 1 - ALBERO DEI BISOGNI Scopo dell’albero dei bisogni è l’individuazione, elencazione e strutturazione dei bisogni del cliente fino a giungere a una piena e corretta percezione degli stessi. I passi principali da compiere sono: • individuazione dei bisogni specifici Figura 10 - Le diverse zone del QFD

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Figura 11 - Albero dei bisogni semplificato per una macchina fotografica

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Una volta elencati i bisogni, con i criteri che abbiamo fino a qui ampiamente descritto, è possibile stabilire la loro importanza in relazione al mercato di riferimento opportunamente segmentato.

Per quanto riguarda le modalità di valutazione, in particolare per importanza e percezione da parte del mercato su prodotti simili già sul mercato, si hanno a disposizone due possibilità:

ZONA 2 - IMPORTANZA DEI BISOGNI

1) Valutazioni interne

In questa fase si valutano i bisogni in base a opportuni criteri che vengono condotti attraverso la valutazione di importanza e i livelli di percezione del mercato, confrontandosi con la concorrenza. La finalità di questa fase è porre in evidenza i bisogni prioritari che dovranno fare da guida nel proseguo del progetto. Occorre procedere alle seguenti valutazioni: • importanza di ciascun bisogno per il cliente (attraverso una valutazione interna e/o indagini esterne); • valutazione di elementi di qualità negativa (dati storici/difetti/lamentele sui prodotti attuali); • immagine di marca quali bisogni sono legati all’immagine di marca che si vuole diffondere. Non è una valutazione obbligatoria ma, se l’azienda vuole distinguersi sul mercato o fare pesare alcuni aspetti sul brand, è opportuno completare anche questa parte; • confronto con la concorrenza (analisi dei competitors).

È il team interfunzionale che, in base alle informazioni disponibili, attribuisce i valori di importanza e di soddisfazione ai bisogni del cliente. Di solito vi si fa ricorso quando non c’è abbastanza tempo per fare indagini esterne sui clienti e ci sono comunque abbastanza informazioni sui problemi di qualità negativa (dati sulle garanzie, reclami, report dell’assistenza tecnica, etc.). In questo caso il team prioritizzerà l’importanza delle esigenze con una semplice valutazione numerica, o meglio, mediante la tecnica AHP «Analytic Hierachy Process». Questo metodo, se l’obiettivo non è quello di fare una analisi del valore partendo dal QFD, può essere semplificato a una semplice valutazione binaria (il metodo AHP è nella sua forma ufficiale più formale e complesso). Si procede con un confronto a coppie tra i vari bisogni, una specie di campionato al termine del quale si ottiene una classifica di importanza da utilizzare nel QFD. (vedi figura 12)


Figura 12 - Analisi binaria per la valutazione dei bisogni

2) Valutazioni esterne Si ottengono mediante un’indagine sui clienti, basate su questionari più o meno strutturati. Il supporto di una società di ricerche è importante, ma la tendenza è quella di non delegare tutto all’esterno e di far partecipare i team di progetto anche a questa fase (non “esternalizzare l’apprendimento” sulla “Voce del Cliente”). Nel nostro esempio, per semplicità, si procede con valutazioni basate su valori da 1 a 5. (vedi figura 13) I bisogni prioritari possono essere individuati essenzialmente attraverso due gap (“scostamenti”): 1) Gap di valore Misura la distanza che separa il mio livello di offerta (prodotto/servizio) dalle aspettative del cliente. Praticamente, è la differenza tra

la valutazione d’importanza di un bisogno (valore atteso) e la valutazione di soddisfazione espressa dal cliente sul mio prodotto/servizio attuale. La soddisfazione del bisogno espressa dal cliente è espressa in scala 1-5. 2) Gap competitivo Misura la distanza che separa il mio livello di offerta (prodotto/servizio) da quello del migliore concorrente su uno specifico bisogno del cliente. Praticamente, è la differenza tra la valutazione di soddisfazione espressa dal cliente sul mio prodotto/servizio attuale e la valutazione di soddisfazione espressa dal cliente sul prodotto/servizio del miglior concorrente (Best Competitor). Al termine di queste prime valutazioni sarà possibile esprimere gli obiettivi per il nuovo modello assegnando il valore target di qualità percepita per il nuovo prodotto,

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Figura 13 - Importanza dei bisogni


considerando anche la classificazione del bisogno secondo l’analisi di Kano (implicito, esplicito, latente). Il peso che si ottiene al termine di questa fase esprime la criticità del bisogno, ovvero l’entità del miglioramento richiesto dal cliente, rispetto al prodotto attuale. Nel caso di mercato nuovo, non ancora coperto da alcun prodotto, il peso dipenderà prevalentemente dall’importanza dei bisogni. Il peso è il prodotto di importanza x grado di miglioramento (rapporto tra soddisfazione nuovo modello e modello attuale) x immagine di marca, in pratica la colonna G = A x D x E Nel nostro esempio, a causa della sua importanza e del grado di miglioramento richiesto rispetto al modello attuale sul piano della percezione, la facilità di trasporto è risultata come l’esigenza a maggior peso per il proseguo della analisi, seguita, come era logico attendersi dal, “deve fare belle foto”. (vedi figura 14) ZONA 3 - ALBERO DELLE CARATTERISTICHE

Si possono adottare due strategie tra di loro alternative. a) procedere alla costruzione dell’albero indipendentemente da quanto ottenuto dall’albero dei bisogni. Strategia non consigliata perché impedisce d’individuare metriche e quindi requisiti nuovi per nuovi bisogni; b) costruzione dell’albero delle caratteristiche derivata direttamente da quanto ottenuto dall’albero dei bisogni. Questo modo di operare è più organico e consente di legare profondamente le due grandi dimensioni del QFD, mercato e prodotto. I bisogni del cliente possono essere incrociati con diverse “caratteristiche”. Infatti, sulla base degli obiettivi che l’azienda si propone di raggiungere con il QFD, si possono avere almeno due diverse possibilità: 1) “caratteristiche” come “attributi di prodotto”. E’ l’interpretazione più diffusa, ma è la meno consigliata quando occorre innovare radicalmente il prodotto (rischio di legarsi subito alle soluzioni tecniche disponibili). In

I bisogni precedentemente elencati vengono tradotti in caratteristiche tecniche misurabili. In un linguaggio cioè oggettivo. Tali caratteristiche costituiscono il “modello sostitutivo per l’azienda” rispetto alle richieste del cliente (in forma verbale). In pratica, sono le risposte concrete che l’azienda può offrire ai bisogni del cliente.

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Figura 14 - Completamento della analisi dei bisogni


pratica si definiscono subito i requisiti. 2) “caratteristiche” come “funzioni”. È l’interpretazione alternativa, quella più orientata all’innovazione. Permette di non vincolarsi alle soluzioni disponibili e di ripensarle in funzione delle necessità del cliente. La costruzione dell’albero delle funzioni è comunque indispensabile per l’analisi del valore e talvolta guida la ridefinizione della distinta base (da logica di gruppi ingegneristici a logica di gruppi funzionali in ottica cliente). E’ molto importante, in questa fase - come abbiamo già ribadito precedentemente -, non indicare le modalità con le quali si soddisferanno i bisogni, ma solo il livello di prestazione. Questa è una fase cruciale perché, una volta elencate tutte le caratteristiche misurabili che descrivono i bisogni, sarà possibile confrontarsi “oggettivamente” con la concorrenza.

Nella figura 15 è riportato il QFD con l’albero delle caratteristiche della macchina fotografica e le relative unità di misura. ZONA 4 – MATRICE CORRELAZIONE BISOGNI/CARATTERISTICHE In questa fase si stabiliscono le relazioni fra ciascun bisogno elementare e ciascuna caratteristica di prodotto, stabilendo anche l’intensità di questa relazione solitamente con i valori 1 (scarsa correlazione), 3 (normale correlazione) e 9 (forte correlazione). Sostanzialmente deve emergere l’importanza di una data caratteristica in relazione a tutti i bisogni espressi. Non è infrequente, infatti, che un bisogno sia impattato da più di un parametro riportato sull’albero delle caratteristiche e che - a sua volta - un parametro, impattando su Figura 15 - Albero delle caratteristiche con unità di misura

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diversi bisogni, potrebbe ottenere uno score finale inatteso. Proprio in questo passaggio risiede una delle caratteristiche peculiari del QFD: fare emergere anche gli impatti multipli. Vanno inserite sia le correlazioni volute o progettate, sia quelle risultanti con particolare riferimento agli impatti negativi. Ciò deve essere fatto in valore assoluto, considerando l’impatto. Eventualmente si possono evidenziare le correlazioni negative con un campo formato rosso. Solitamente si procede nella compilazione per riga, poi riverificare per colonna ulteriori impatti dimenticati. Ogni bisogno deve avere almeno una caratteristica associata, così come ogni caratteristica deve impattare almeno un bisogno, altrimenti si stanno valutando parametri sbagliati. (vedi figura 16) Mediante una produttoria che sommi in ogni

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colonna i singoli prodotti (peso assoluto bisogni x impatto), otterremo il ranking di importanza delle singole caratteristiche. ZONA 5 – MATRICE CORRELAZIONE CARATTERISTICHE/CARATTERISTICHE In questa seconda matrice, che costituisce il tetto della casa, le caratteristiche vengono confrontate tra di loro ad una ad una. La matrice in questione costituisce un ausilio agli esperti, mettendo in evidenza come le caratteristiche siano correlate tra loro e come modificandone una si comportano (in positivo o in negativo) le altre. Questa zona può consentire di individuare delle opportunità (migliorando una caratteristica se ne possono migliorare altre correlate) oppure evidenziare delle contraddizioni (migliorando un parametro ne peggiora un

Figura 16 - Matrice degli impatti Bisogni/caratteristiche compilata


altro). Questi ultimi sono i classici casi in cui spesso si opta per un trade off, mentre la vera opportunità è innovare sul prodotto per superare la contraddizione stessa. Il TRIZ, la teoria per la risoluzione dei problemi inventivi (spesso delle contraddizioni tecniche), è un ottimo strumento di lavoro su questi temi. Un ulteriore beneficio, ottenibile da questa matrice, è la possibilità di vedere quali team dovranno lavorare a stretto contatto perché coinvolti nello sviluppare caratteristiche altamente correlate tra loro. (vedi figura 17)

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analisi oggettiva delle caratteristiche citate, relative allo stato attuale dell’azienda ed alla migliore concorrenza.

Come si determina: • attribuire un peso a ciascuna caratteristica in base alla sua correlazione con i bisogni del cliente – le voci con peso/criticità elevata sono i Customer Critical Requirements CCR (questo peso deriva dalla elaborazione della zona 4). Figura 17 - Matrice Caratteristiche/Caratteristiche

ZONA 6 – IMPORTANZA CARATTERISTICHE

In questa fase vengono valutate le caratteristiche sulla base di criteri opportuni definiti in seguito. Vengono evidenziate le caratteristiche più rilevanti/critiche, che guideranno lo sviluppo del progetto. Le considerazioni vertono su: • giudizio di importanza dei bisogni trasferito alle caratteristiche (risultato dall’elaborazione delle zone 2 e 4); • grado di difficoltà per ogni caratteristica (tecnologica, di costo, di affidabilità);

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Il peso esprime l’entità del miglioramento della performance richiesta, rispetto all’attuale): • identificare i valori del parametro di ciascuna caratteristica relativi al prodotto attuale; • identificare i valori del parametro di ciascuna caratteristica relativi ai migliori prodotti della concorrenza.

more is better: migliore la performance, più alto il livello di soddisfazione. Fare meglio del competitor e/o comprendere la relazione tra caratteristiche importanti e soddisfazione del cliente sono possibili basi per la definizione dei target; desiderio: essere aggressivi nello stabilire i target in quanto possono derivarne importanti risultati sul mercato;

Figura 18 - Benchmarking tecnico e peso delle caratteristiche

ZONA 7 – OBIETTIVI NUMERICI PER LE CARATTERISTICHE Al termine di tutta l’elaborazione si hanno tutte le informazioni per fissare i nuovi obiettivi numerici per le caratteristiche. Ecco alcuni suggerimenti: •

• •

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usare i Customer Requirements come base per definire i target, laddove sia possibile. Ricordare che i bisogni devono essere soddisfatti, non guardati come desideri impossibili; non stabilire i target solo in relazione alla performance del competitors; non accettare supinamente i compromessi sulle caratteristiche più importanti, specie in presenza di forti trade offs; Kano Model: stabilire i target dopo aver considerato il tipo di bisogno a cui è riferito;

attenzione: non farsi frenare/vincolare dalle attuali prestazioni. I livelli di prestazione dovrebbero essere guidati dal cliente e non da quanto è stato raggiunto finora, svincolandosi dal pensare alle attuali soluzioni tecniche e ai loro limiti; accanto a ogni target si dovrebbero stabilire i limiti di Capability, cioè il campo di tolleranza e la probabilità con la quale vogliamo rimanere all’interno degli stessi.

Nel nostro esempio completo, in figura 19, abbiamo trovato alcune caratteristiche più importanti di altre, ad esempio, risoluzione, estetica e dimensioni. Parametri questi su cui si è deciso di migliorare per il nuovo modello.


Figura 19 - Impostazione dei requisiti per il nuovo modello

CONSIDERAZIONI FINALI Al termine della costruzione della prima casa del QFD possiamo affermare di avere ottenuto e descritto in un unico foglio: • l’elenco dei bisogni valutato; • le prestazione del prodotto/servizio valutate rispetto a benchmarks interni/ esterni; • l’evidenziazione dei trade – offs sulle prestazioni, con individuazione di quelli critici rispetto a cui definire attività di innovazione, sviluppo alternative etc.; • target di prodotto assegnati – verifica della coerenza con input e specifiche da marketing. Benefici per il processo di sviluppo nuovi prodotti: • processo condiviso di valutazione del mercato e definizione coerente delle specifiche; • si è evitato di definire subito vincoli sulle scelte progettuali; • si è evitato di definire subito in modo automatico il miglior compromesso relativo a trade offs critici;

separazione chiara e logica delle tre tipologie d’informazione esigenze, prestazione macro, specifica di dettaglio, su cui vertono i documenti fondamentali quali specifiche marketing, specifica base, specifiche di dettaglio; • criteri standard di raccolta delle informazioni; • abitudine a definire i target di prodotto in modo completo, corredati di minore rischio di modifica delle specifiche durante lo sviluppo; • abbiamo capito per ogni tipo cliente: 1. le priorità; 2. i punti di forza e di debolezza rispetto ai concorrenti; 3. le abbiamo sintetizzate. • abbiamo capito, per ogni tipo di cliente, le funzioni/contenuti del prodotto coinvolti negli aspetti critici; • sono evidenti i punti di forza del prodotto, e i punti di debolezza; • quali sono le caratteristiche/prestazioni critiche da tenere più sotto controllo nel corso dello sviluppo del progetto.

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A questo punto si può procedere con l’esecuzione delle case successive, oppure procedere alla analisi del valore. Sono tanti gli sviluppi possibili a partire dal QFD, per il momento accontentiamoci di aver fissato e condiviso i requisiti del prodotto.

Figura 20 – QFD semplificato di una macchina fotografica con tutte le “stanze” compilate

Bibliografia consigliata: Quality function deployment F. Franceschini Lingua: Italiano Quality Function Deployment and Six Sigma: A QFD Handbook Joseph P. Ficalora , Louis Cohen Lingua: Inglese

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QFD integrating customer requiremet into product design Yoji Akao Lingua: Inglese Progettazione e sviluppo di prodotto K.T. Ulrich, S. Eppinger, R.Filippini Lingua: Italiano



a cura di Alberto Viola

Rubrica Metodi di Produzione

PRODURRE ED ESSERE C

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E’ POSSIBILE?

Dove sta andando l’industria in Italia? Come è noto la crisi degli ultimi anni ha colpito in Italia soprattutto l’industria e in particolare alcuni settori “storici” quali la siderurgia e la produzione di beni di largo consumo. I fattori che hanno portato a questa situazione sono da ricercarsi, in generale, nella fase recessiva - o di rallentamento della crescita - che stiamo attraversando a livello globale (sicuramente in Europa). A questa possiamo tuttavia aggiungere fattori più peculiari della realtà italiana, quali il costo del lavoro e dell’energia, che ha portato ad esempio alcune multinazionali a trasferire le proprie attività produttive in altri paesi europei o extra-europei. Ciò nonostante, sono frequenti esempi di aziende italiane piccole o medie che, anche in questo contesto molto difficile, riescono non solo a sopravvivere ma anche a crescere. Qual è il segreto di queste realtà e che cosa hanno fatto queste “eccellenze italiane” per superare questi ultimi anni difficili? Citare il famoso “made in Italy” è fin troppo facile, così come è scontato dire che questo settore ha fatto dell’innovazione del prodotto e della valorizzazione del brand i fattori su cui investire per garantirsi la competitività nel medio-lungo periodo. Accanto a questo comparto esistono tuttavia altri settori, meno declamati ma altrettanto importanti, che hanno puntato anche e soprattutto sull’innovazione dei processi e dell’organizzazione per migliorare le proprie

performance operative (qualità, costi del prodotto e servizio) conquistando i mercati internazionali nell’era della globalizzazione. Il comparto della fornitura di beni industrialie delle numerose aziende di successo che lo compongono, fa da esempio. Ciò che accumuna queste diverse vie per il successo e la competitività è la ricerca di nuovi sbocchi di mercato per ampliare i volumi d’affari attraverso lo sviluppo di soluzioni “personalizzate” (di prodotto e/o di servizio) per il segmento di mercato scelto. È l’era e dell’esplosione della “mass customization” che si va a sostituire alla “mass production”, destinata inesorabilmente a essere spostata nei paesi in via di sviluppo.

Un modello production”

vincente:

la

“lean

In questo contesto negli ultimi dieci anni in Italia - ancor prima negli Stati Uniti e in altri paesi in Europa - si è andato sempre più affermando un modello di sviluppo delle attività produttive denominato “lean production” (produzione “snella”): nulla recente (il modello nasce in Toyota Motors in Giappone negli anni ’50-60 ed è stato esportato in occidente già negli anni ’80) ma ancora scarsamente sviluppato in molti settori industriali, soprattutto - ahimè - in Italia. Tuttavia, se 10-15 anni fa questo modello era considerato una novità o addirittura inapplicabile nelle aziende italiane per presunte diversità “culturali” ed “ambientali”


COMPETITIVI IN ITALIA: presunte diversità “culturali” e “ambientali” rispetto a quelle in cui il modello è nato, oggi esistono differenti realtà di svariati settori che hanno applicato con successo anche in Italia la “lean production”. Il motivo di questo affermarsi del modello anche nel nostro paese è da ricercarsi nel fatto che la “lean production” consente di progettare e realizzare sistemi produttivi flessibili, agili (“snelli”) in grado di riconfigurarsi con costi contenuti per supportare la “mass customization”. Il modello “lean production” è l’unico in grado oggi, di coniugare l’efficacia del processo produttivo, necessaria per soddisfare esigenze diverse dei clienti in termini di prodotto e servizio, con l’efficienza necessaria per mantenere e ridurre i costi di produzione.

I contenuti di questa e delle prossime pubblicazioni Questa rubrica - e quelle che seguiranno nei prossimi numeri -, non si vuole sostituire o aggiungere alle già numerose pubblicazioni in circolo da anni sul modello “lean production”, né intende fornire trattazioni teoriche leziose e di dettaglio sulle singole tecniche o strumenti. L’obiettivo è fornire elementi e spunti di riflessione per stimolare la discussione e approfondire gli elementi pratici e di applicabilità del modello in specifici contesti aziendali. In questo primo numero verranno presentate le origini e le logiche di fondo

della “lean production; mentre nei numeri che seguiranno saranno presentati i principi operativi e le tecniche di base che vengono utilizzate per introdurre il modello in azienda. Il percorso si concluderà con una descrizione delle specificità di applicazione del modello nei diversi settori industriali, classificabili secondo le caratteristiche di prodotto e di processo (vedi figura 1). Verranno messe a confronto le situazione più differenti tra loro, cioè: - lato prodotto, l’applicazione del modello nelle produzioni su commessa pura e nelle produzioni per processo continuo (es: farmaceutico, chimico, alimentare), passando dalla produzione di serie ripetitiva; - lato processo, mettendo a confronto realtà con caratteristiche diverse dell’assetto produttivo (capital intensive, flow shop o labour intensive, job shop).

Fig 1: La matrice prodotto processo

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Le origini production”

del

modello

“lean

Come anticipato, il modello “lean production” ha le sue origini in Giappone, presso la Toyota Motors. Il suo inventore, Taiichi Ohno - presidente della Toyota negli anni ’50 - si trovò a dover colmare un enorme gap di competitività delle aziende del Giappone, appena uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, rispetto alle aziende statunitensi e occidentali in genere. Per far fronte a questa situazione e per colmare il gap in tempi rapidi, evitando di seguire semplicemente il modello “fordista” in auge in quegli anni (modello nato e adatto per la “mass production”. Famosa la frase di Henry Ford: «Vendete le auto di qualsiasi colore purché siano nere»), Taiichi Ohno iniziò a osservare le attività produttive del suo stabilimento con occhi diversi, ponendosi sempre la stessa domanda: «Quello che sto vedendo adesso crea valore per il cliente finale?». È con questa semplice domanda che il presidente della Toyota individuò e classificò 7 possibili sprechi presenti nelle attività produttive (muda, in giapponese).(vedi figura 2)

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Fig. 2: I 7 sprechi in produzione

E’ spreco tutto ciò che accade in produzione e che non aggiunge valore per il cliente finale. Alcuni di questi sprechi sono intuitivi, ad esempio un prodotto difettoso, altri sono più difficili da comprendere perché la cultura “dominante” nelle aziende non li considera tali, ad esempio la sovrapproduzione. La definizione dei singoli 7 sprechi è la seguente: 1. Sovrapproduzione: è rappresentata dal materiale (componenti/semilavorati) immagazzinato o semplicemente fermo nel processo produttivo in attesa della lavorazione successiva. 2. Tempo (attese): è lo spreco che si manifesta ogni volta che una risorsa aziendale (tipicamente macchine o operatori) interrompono la propria attività a valore aggiunto in attesa di materiali/informazioni/ attrezzature necessarie per il proseguimento delle attività. 3. Trasporto: si verifica quando un prodotto viene portato da un punto all’altro dello stabilimento senza aggiungergli alcun valore lungo il tragitto. 4. Perdite di processo: si manifestano quando all’interno di un ciclo produttivo (uomo o macchina) ci sono attività che non aggiungono valore o che costringono le fasi successive a eseguire attività a non valore aggiunto. 5. Scorte: è lo spreco rappresentato dalla quantità di prodotti finiti che le aziende tengono nei propri magazzini in attesa di essere venduti ai clienti. 6. Movimenti: è lo spreco simile a quello di trasporto, ma associato agli operatori. E’ rappresentato da tutti i movimenti che gli operatori compiono senza aggiungere valore al prodotto in lavorazione.


Fig. 3: L’iceberg dei costi generati da un processo produttivo difettoso

7. Prodotti difettosi: rappresentato da tutti i semilavorati e prodotti in genere che vengono scartati o richiedono rilavorazioni durante il processo produttivo. I 7 sprechi che, per definizione, aggiungono costi senza creare valore aggiunto per il cliente finale, rappresentano le aree su cui intervenire per ottenere un processo produttivo “snello”, cioè efficace per soddisfare i clienti e nel contempo efficiente, grazie all’eliminazione delle attività non necessarie. Gli sprechi possono essere eliminati intervenendo sull’organizzazione del lavoro e senza investimenti rilevanti: si può inoltre affermare che il miglioramento di un processo produttivo senza modificare i prodotti - o senza cambiare tecnologia passa necessariamente dalla riduzione degli sprechi.

Un unico nemico da combattere: la variabilità del processo produttivo Gli sprechi sono l’effetto visibile di un processo produttivo non “snello”. Esiste tuttavia un nemico da combattere più subdolo, nascosto e difficile da individuare, che è la causa stessa degli sprechi, o almeno di parte di essi: è la variabilità del processo produttivo (più in generale di tutti i processi aziendali. I giapponesi chiamano questo nemico mura. Se prendiamo, ad esempio, lo spreco “prodotti difettosi”, ciò che si vede subito è lo scarto o le rilavorazioni che vengono generate dal processo produttivo. Esistono in realtà, molti altri effetti meno visibili e più difficili da quantificare, che spesso sono più rilevanti in termini di costi per l’azienda (vedi figura 3).

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La variabilità del processo produttivo si contrappone al concetto di standard, uno dei punti fermi del modello “lean”. Lo standard è semplicemente “il miglior metodo conosciuto e condiviso oggi per eseguire un’attività”. Riuscire a ridurre la variabilità di un processo e fare in modo che funzioni il più possibile secondo lo standard definito è uno degli obiettivi principali del modello “lean”.

Un cambiamento necessario Trasformare il processo produttivo secondo le logiche del modello “lean” richiede necessariamente un cambiamento culturale e di “mindset” delle persone deputate a gestirlo e migliorarlo. Tutti siamo d’accordo sul fatto che gli sprechi debbano essere eliminati, ciò nonostante: siamo certi d’esser tutti d’accordo sul fatto che la sovrapproduzione - o work in progress -, in quanto spreco, debba essere ridotta - o addirittura eliminata - perché nasconde altri problemi?

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Figura 4: Eccessive scorte e la sovrapproduzione consentono di produrre ma nascondono gli ostacoli e gli scogli del processo produttivo (gli sprechi).

In genere accade esattamente il contrario. Chi si trova a gestire le attività produttive considera la sovrapproduzione un fattore tranquillizzante che consente di proseguire nelle attività anche se qualcosa non va per il verso giusto (ad esempio un impianto che si guasta o degli scarti a valle di una fase produttiva). Analogamente, occorre cambiare “mindset” se si vuole accettare uno dei principi operativi di base del modello lean, che impone di produrre con lotti sempre più piccoli. E che dire del fatto che nel sistema tradizionale di contabilità industriale le scorte di magazzino e la sovrapproduzione rientrano nelle attività dello stato patrimoniale andando a incrementare gli utili dell’azienda? I giapponesi chiamano muri la predisposizione a “gonfiare” il processo produttivo con la sovrapproduzione (concetto esattamente opposto a quello di sistema produttivo “snello”). In senso lato muri, in giapponese, significa


irragionevolezza e sta a indicare tutti quei comportamenti radicati nel modo tradizionale di gestire le attività produttive che si contrappongono alle logiche e ai principi del modello “lean”. Superare questi comportamenti “tradizionali” - adottando quelli richiesti dal modello “lean”è forse la missione più difficile da realizzare per cambiare il processo produttivo e renderlo più efficiente ed efficace. Nel prossimo numero vedremo con quali principi e modalità operative è possibile trasformare i processi produttivi secondo le logiche del modello “lean”. “MUDA, MURA, MURI!!!” sembra un grido di battaglia giapponese, in realtà sono i 3 “mali” del processo produttivo da quantificare e da contrastare per ottenere un processo “lean”, allo scopo di rendere più efficaci ed efficienti le attività operative.

3 suggerimenti

3 spunti di riflessione

Vuoi vedere gli sprechi? Mettiti “a cavallo del prodotto” e seguilo per tutto il processo produttivo: individuerai facilmente in quali momenti non viene aggiunto valore al prodotto.

Nella tua azienda esistono gli standard operativi del processo produttivo (chi fa che cosa e in quanto tempo)?

Segui il flusso del prodotto e individua dove si annida la sovrapproduzione: a monte e a valle dell’accumulo potrai individuare sicuramente altri sprechi. Prova a classificare gli sprechi che hai individuato. Individua quello più rilevante e che genera più costi per l’azienda.

Quando sono stati rivisti gli standard l’ultima volta? Gli standard sono stati definiti solo per le attività cicliche o anche per le attività produttive indirette e acicliche (ad esempio: tempi di setup, movimentazione dei materiali)?

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Rubrica Interviste

a cura di Corrado Ravaioli

LAVORARE, CON METODO, TRA LE ONDE DEL MERCATO Investire competenze e professionalità in un settore affine alle proprie passioni è possibile. Michelangelo Casadei, ingegnere meccanico di 41 anni, vive a Forlì e lavora presso Ferretti Group come Direttore Qualità e Miglioramento Continuo. Da sempre lo accompagna un grande amore per il mare e la vela in particolare. Trovare il giusto compromesso tra metodo e pragmatismo è la sua regola per affrontare sempre nuove sfide. Quale bagaglio di esperienze ha raccolto prima di approdare in Ferretti? Dopo la laurea in ingegneria meccanica, a Bologna, ho deciso di affrontare un’avventura professionale nel gruppo Fiat che offriva sulla carta un’esperienza completa anche se un pò “rischiosa”. Prevedeva un periodo di formazione di 4-5 mesi seguito da tre incarichi sui tre comparti CNH, Iveco e Fiat cambiando ruolo, mansione (progettazione, produzione e sales & marketing) e la sede di lavoro, prima all’estero, poi in Italia. Quali difficoltà ha incontrato e quali sono state invece le maggiori soddisfazioni? L’esperienza è stata inizialmente spiazzante perché avevo una formazione molto tecnica e mi hanno mandato a fare un’esperienza commerciale in Grecia. In pratica dovevo lavorare sulla rete di concessionari, programmare ordini e vendite, monitorando l’andamento del mercato.

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Per me significava interrompere un percorso tradizionale di specializzazione, iniziare a costruire la mia professionalità in una realtà di lingua e cultura diverse. Dopo la Grecia mi sono occupato di attrezzamenti produttivi e costi del prodotto in CNH, in alta Austria. Un’altra esperienza di rottura rispetto a quella precedente. Fino al ritorno in Italia, a Torino. L’obiettivo finale del progetto era infatti quello di riportare le risorse nell’alveo della loro formazione professionale, dopo aver costruito competenze manageriali (e interculturali) più ampie. Ha funzionato.


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Sono entrato in Iveco con un ruolo in progettazione motori diesel industriali. Poi, nei 4 anni successivi, il mio profilo si è evoluto fino alla responsabilità di Platform manager su tutta la famiglia di prodotto. La maggiore ricchezza del periodo in Iveco è stata l’opportunità di vivere in prima persona lo sviluppo di un prodotto nuovo in tutte le sue fasi. Il giorno della prima messa in moto del prototipo, nel 2005, rimane una delle mie più grandi soddisfazioni professionali di sempre. Che cosa le hanno insegnato gli anni vissuti all’interno del Gruppo Fiat? E’ stata sicuramente una grande esperienza umana e professionale, soprattutto per la rotazione su ruoli diversi e in Paesi differenti, e l’incontro con persone di grande spessore e competenza. E’ stata anche una grande scuola di metodo, di struttura e di organizzazione, a volte rigida e complicata, ma capace di insegnare a individuare ruoli e flussi corretti, e contenuti chiave delle molte professioni che fanno vivere e possibilmente prosperare l’organismo azienda. A proposito di metodo, cosa significa per lei questo termine? Quanto è importante all’interno di un flusso di lavoro per lo sviluppo di prodotto? Il metodo è l’insieme di coerenza, rigore, organizzazione, pianificazione secondo priorità e corretta comunicazione. Sia nella

gestione delle attività che in quella delle risorse. Dagli aspetti banali e quotidiani (il versioning puntuale di un documento, l’oggetto e i destinatari corretti di una e-mail) a quelli piu’ complessi, nei processi interfunzionali (ad esempio, la gestione di una modifica di prodotto). Un po’ viene dalla tua formazione, come modo di pensare e lavorare organizzato, imparato sin dagli studi. D’altra parte viene dal tuo percorso professionale. L’esperienza in una struttura ben costruita, complessa, gestita e governata secondo certi flussi aggiunge chiaramente insegnamento di metodo. Questo però non significa che i metodi che conosci siano i migliori in assoluto o sempre efficaci. Un approccio metodico è una grande ricchezza ma spesso bisogna avere il coraggio di scardinarlo e aggirarlo, e questa convinzione arriva più dall’esperienza di vita che lavorativa. A volte si è costretti a risolvere un problema attraverso un percorso alternativo. L’idea che l’unica strada che conosci è quella che ti porta alla meta può limitarti. Il fatto di affrontare esperienze nuove, assumere ruoli non troppo noti, incontrare persone diverse ti aiuta ad affinare questa capacità. Quando ha deciso di cambiare rotta? La scelta, a fine 2008, è stata dettata in parte da una visione diversa sulla strategia di prodotto, rispetto a quella aziendale del momento, ma allo stesso tempo avevo voglia di affrontare nuove sfide e ampliare la mia esperienza. Non sarà un caso se ha scelto il Gruppo Ferretti e quindi un settore molto affine alla sua passione, quella per il mare. Lavorare nel Gruppo Ferretti mi ha dato la possibilità di avvicinare ulteriormente la sfera

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professionale alle mie passioni, cosa che considero un grande privilegio nel contesto attuale. L’interesse per il prodotto e la grande passione per la cultura navale e gli sport nautici, hanno contribuito a indirizzare la scelta verso la mia attuale azienda. Ho cominciato ad andare in barca per caso, verso i sette anni, poi sono passato alla pratica agonistica partecipando, con buoni risultati, a varie regate. Infine mi sono dedicato all’insegnamento. Negli ultimi anni, ho assunto la “guida” del Circolo Nautico del Savio (Ravenna ndr), un’associazione sportiva dedita alla diffusione delle attività nautiche e alla formazione dei giovani nello sport della vela. Che soddisfazioni le dà questo ruolo? Per me è un modo per reinvestire nel sociale una professionalità che ho acquisito negli anni sul lavoro. Un Circolo sportivo equivale oggi in tutto a una piccola azienda per i vari aspetti organizzativi, fiscali, gestionali e burocratici, anche se tutto è svolto su base volontaria e la finalità è lo sviluppo, non il profitto. Offre ai giovani la possibilità di avvicinarsi a uno sport bellissimo e rappresenta un piccolo motore per l’economia del luogo.

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Invece di cosa si occupa in Ferretti? Inizialmente mi sono dedicato alla riduzione dei costi del prodotto attraverso la standardizzazione e modularizzazione dei contenuti tecnici e industriali, attraverso attività di engineering ma anche di acquisto, gestione e sviluppo delle forniture. Dal 2011 invece mi occupo di Qualità, collaudi e miglioramento continuo. Nella riorganizzazione seguita ai cambiamenti del 2009, ho sviluppato il Team di persone e le attività partendo da esperienze e metodi che prima erano legati a singoli marchi e

cantieri, centralizzando e l’organizzazione del lavoro.

rafforzando

Dalle regate alle imbarcazioni di lusso, quali sono state le sfide più impegnative? Sicuramente quelle sul lavoro. Ferretti, come tutte le aziende di questo settore, è una realtà molto più dinamica e meno “metodica” di altri settori industriali nei quali ho lavorato. E’ fondamentale avere sempre chiaro l’obiettivo, l’organizzazione per raggiungerlo e l’attuazione di quello che avevi previsto, ma anche la flessibilità e la capacità di trovare soluzioni non standard: non è forse un caso che le più grandi eccellenze nautiche siano italiane. E questo è ancora più importante in un settore caratterizzato da un prodotto molto complesso, che integra conoscenze tecniche diverse, dai compositi agli arredi, dalla propulsione meccanica ai sistemi elettrici, idraulici, all’elettronica, che combina saper fare artigianale con esigenze industriali, perfezione estetica e prestazioni funzionali. Un settore a bassi volumi dove gli aspetti affidabilistici e di durata sono difficili


da testare, e non ultimo si fa prodotto che vive in un ambiente naturale sfidante e pieno di variabili, che a cascata si ripercuotono su ciò che devi rendere disponibile affidabile e pronto sul mercato. In questo settore, trovare il compromesso tra metodologia e pragmatismo diventa fondamentale. Siccome ha citato di nuovo questa parola le chiedo una definizione di metodo, alla luce delle sue esperienze professionali. Come ho già detto lavorare con metodo significa avere un quadro chiaro degli elementi da acquisire, dei passaggi da fare, delle competenze e dei metodi da utilizzare, degli attori da coinvolgere per arrivare a un risultato. La definizione è ampia. Altrettanto importante è la capacità di vedere i limiti del metodo che si sta applicando. Fondamentale anche la gestione delle risorse secondo un approccio metodologico: le persone, quelle valide, vanno messe al centro dell’attività professionale, responsabilizzate, parlando in modo chiaro, facendo capire il perché di una richiesta. Fondamentale guidare con l’esempio: a volte si ottengono migliori risultati senza calare dall’alto disposizioni ma facendo leva sulla responsabilità e motivazione personale, d’altra parte le linee guida devono essere chiare e non opinabili. Non ultimo, è necessario evidenziare l’obiettivo complessivo rispetto a quello intermedio, avere e dare una visione d’insieme, riuscire a distinguere tra “importante” e “urgente”. Non devo rischiare di concentrare le mie energie nel punto sbagliato di un processo produttivo, di vendita o comunque di business. Parliamo di sviluppo di prodotto. Quali

possono essere alcuni suggerimenti per raggiungere il risultato? In questo momento storico, è fondamentale riuscire a coniugare creatività e innovazione nei contenuti con metodologia e rigore nell’implementazione, dal concept al mercato. Oggi, vista la pressione finanziaria e le risorse limitate, non si può sbagliare, ma non si deve perdere il coraggio di sperimentare e d’innovare. Una ricetta è quella di lavorare molto sull’obiettivo. Devo sapere cosa voglio, cosa vuole il mio mercato di riferimento, il cliente e cosa fanno gli altri. Poi nel lavoro di sviluppo bisogna essere capaci di curare ogni dettaglio del processo, sapere come fare, cosa fare e quando. Il livello dell’output richiesto è veramente molto alto nei mercati e nei settori “maturi”, per cui il risultato deve essere all’altezza. Un aspetto chiave è mantenere il saper fare in azienda e sul territorio: se posso consigliare una lettura, “Make it in America” di Andrew Liveris è un libro illuminante e attualissimo sul tema, parla di nord America, ma fatte le dovute proporzioni, i concetti valgono ugualmente per Europa e Italia. Un’ultima cosa: cosa pensa degli incubatori aziendali? L’idea in sé è stimolante. Oggi “fare azienda” è più complesso e oneroso di un tempo. Il fatto che un’infrastruttura possa aiutare a sbrigare aspetti normativi, fiscali e burocratici può agevolare la creazione di una nuova impresa. Ho due amici che hanno seguito con grande successo questa strada, avviando dentro un incubatore una start-up che oggi è un laboratorio chimico affermato, a Torino. Ci sono però anche molti casi di progetti senza seguito, che rimangono in vita solo fino a che sono “assistiti”. Questo dimostra che alla base deve esserci un’idea davvero forte, poi l’incubatore può essere un aiuto.

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Rubrica Project management

introduzione del libro Project Management di Alberto Fischetti

PROJECT MANAGEMENT Il 23 maggio 1961 il Presidente degli USA John F. Kennedy indirizzò un messaggio al congresso che, tra le altre cose, diceva: «Credo che questo Paese debba impegnarsi a raggiungere, prima che questo decennio sia trascorso, l’obiettivo di fare atterrare un uomo sulla Luna e di riportarlo sano e salvo sulla Terra». Con questo messaggio diventato famoso iniziava il Progetto Apollo e il primo obiettivo indicato da Kennedy nel suo messaggio veniva raggiunto il 20 luglio 1969 quando la navicella spaziale Eagle della missione Apollo 11 atterrava sulla Luna e gli astronauti Neil Armstrong ed Edwin Aldrin potevano passeggiare sul suolo lunare. Il secondo obiettivo e la conclusione del Progetto Apollo venivano raggiunti pochi giorni dopo, il 24 luglio, quando i due astronauti e il loro compagno di missione Michael Collins rientravano felicemente sulla terra. Il Progetto Apollo durato 8 anni, aveva comportato un investimento di 24 milioni di dollari e il coordinamento di 400.000 persone, di 20.000 aziende appaltatrici e di moltissimi laboratori universitari di ricerca, con lo scopo di ottenere in un periodo di tempo ben determinato un risultato unico, mai realizzato prima, addirittura impensabile per molti.

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Le ragioni del successo della missione Apollo 11sono state sia la soluzione di moltissimi complessi problemi scientifici, tecnologici e umani, sia l’efficace applicazione di valide tecniche di gestione progetti. Quando si parla di progetti, non

necessariamente si deve pensare a imprese ciclopiche quali il Progetto Apollo. La parola “progetto” ha prevalentemente un’accezione più contenuta, alla nostra portata e inerente la nostra vita quotidiana sia professionale che privata. Basti pensare alle innumerevoli interviste televisive (promozionali) a scrittori, pop star, attori, presentatori: «… Dicci quali sono i tuoi progetti». Noi attiviamo un progetto quando, per esempio, dobbiamo organizzare il matrimonio di nostra figlia (caso questo in verità molto simile al Progetto Apollo in termini di complessità e impiego di risorse), quando dobbiamo programmare le nostre vacanze e persino quando andiamo al supermercato a fare la spesa.


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La gestione progetti, o “project management”, implica la pianificazione e il controllo di un gruppo di risorse allo scopo di raggiungere un ben definito risultato. Per alcuni tipi di aziende, la gestione dei prodotti costituisce la base della loro attività. Pensiamo alle società di ingegneria, alle imprese di costruzioni, alla cantieristica e in generale alle aziende che realizzano prodotti su commessa. In queste aziende il project management è parte integrante ed essenziale del proprio patrimonio culturale. Cioè, in altre parole, è la loro capacità critica.

La gestione dei progetti è comunque importante anche per altri tipi di organizzazioni, che in condizioni normali operano in base a processi aziendali ripetitivi. Basti pensare, per esempio, al lancio di un nuovo prodotto, al trasferimento di uffici in un’altra sede, all’installazione di una nuova linea produttiva, all’ampliamento di un magazzino etc. Questa pubblicazione si rivolge a tutti coloro che operano in quest’ultimo tipo di organizzazione, nella convinzione che proprio questi soggetti, possano migliorare i propri risultati professionali applicando

alcune tecniche di base del project management a progetti di piccola o media complessità. Fra i nostri lettori non vogliamo includere tutti coloro la cui attività è basata sul lavoro per progetti indistintamente, bensì coloro che devono affrontare le problematiche della gestione dei progetti. Chiediamo anticipatamente scusa agli appassionati lettori dei romanzi di Arthur Conan Doyle per la maniera grossolana e approssimativa con cui abbiamo evocato i due personaggi di Sherlock Holmes e del suo amico, Dottor Watson. Avevamo semplicemente bisogno di un personaggio che facesse domande e di un altro che desse risposte (possibilmente sensate), così abbiamo deciso di ricorrere a questa celeberrima coppia della letteratura popolare. Non ce ne vogliano i cultori di questi personaggi per tale profanazione! Avendo scelto di utilizzare i personaggi di Holmes e Watson nei ruoli di mentore e allievo, abbiamo ambientato la nostra narrazione nell’anno 1899: era l’anno in cui iniziava la guerra anglo-boera e si preparava l’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Il museo delle statue di cera di Madame Tussaud era già collocato in Baker Street, vicino allo studio di Sherlock Holmes e costituiva già allora un’attrattiva universalmente nota.

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(Continua sul prossimo numero...)


a cura di collettivo NUUP®, Sustainable Creativity. Illustrazioni grafiche a cura di Gloria Escobar e Jared Jiménez

Rubrica LCA

LIFE CYCLE DESIGN, LA VIS

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OLISTICA DE

Introduzione: la sostenibilità inizia dalla comprensione dell’unità funzionale L’evoluzione dell’umanità è indissolubilmente legata all’uso e alla produzione di oggetti, in un primo momento trovati in natura e adattati allo scopo e successivamente progettati più accuratamente sulla base delle risorse presenti in natura. Vista la limitata quantità, o la lentezza rigenerativa di alcune di queste risorse e il parallelo incremento della popolazione, negli ultimi anni è stato necessario ripensare il progetto, dando maggiore peso alle performances ambientali e tenendo conto della resilienza della terra rispetto alle attuali attività della nostra specie, tra le quali la produzione e la distribuzione di beni giocano un ruolo rilevante. I “Limiti dello sviluppo” furono evidenziati già dagli anni ’60-’70 nell’omonimo rapporto del 1972 commissionato dal Club di Roma al MIT, dove l’autrice Donella Meadows, chiarì che tale linea di sviluppo non poteva rimanere invariata senza gravi conseguenze per la popolazione, il sistema industriale e l’ambiente. Questo rapporto giunse in un periodo storico enfatizzato dal boom economico, in cui l’innovazione e il progresso sembravano coincidere con inesauribili fonti a cui attingere e fu considerato un monito verso la crisi petrolifera del ‘73, che mostrò la dipendenza della nostra economia dalle risorse non rinnovabili e che potevano, quindi, esserci negate.

Come concepire, allora, uno sviluppo che potesse far fronte alla limitatezza delle risorse che finora lo avevano sostenuto? Nel 1987, la Commissione Internazionale sull’ Ambiente e lo Sviluppo (WCED), pubblicò il documento, “Our Common Future”, in cui si attribuì a tale scenario il termine sviluppo sostenibile, che indicava il soddisfacimento dei bisogni dell’umanità senza la compromissione per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Ma gli anni della globalizzazione vedono questa possibilità messa a dura prova, anche per il fatto di garantire ai paesi emergenti un eguale possibilità di sviluppo e, quindi, l’inevitabile incremento dello sfruttamento globale delle risorse, a cui già oggi attingiamo ben oltre la capacità della terra di rigenerarle. A questo proposito, da qualche anno, è stato istituito l’Earth Overshoot Day, il giorno in


per il collettivo NUUP®, Sustainable Creativity.

SIONE EL PROGETTO cui iniziamo a essere in debito ecologico nei confronti del nostro pianeta (20 agosto per il 2013). La data viene calcolata ogni anno dal Global Footprint Network, sulla base di due indici: l’impronta ecologica e la biocapacità della Terra. In ambito progettuale questa consapevolezza ha fatto sì che si passasse in molti casi da un approccio end of pipe (intervento a valle, con rimedio a danno già avvenuto) a un approccio di cleaner production, il cui scopo è prevenire il danno ambientale. Per attuare ciò è necessario avere chiaro il processo sistemico che caratterizzerà l’intero progetto, calcolandone gli impatti ambientali in ogni suo aspetto. Lo strumento al momento più approfondito per analizzare tutti gli input (consumo di risorse naturali) e gli output (rifiuti/scarti ed emissioni inquinanti) di un prodotto/servizio¹ è l’Analisi del Ciclo di Vita (o LCA da Life Cycle Assessment), che studia il progetto nella sua interezza, dall’estrazione delle risorse al fine vita. Questa metodologia, sviluppatasi negli anni ‘90, induce il progettista ad assumere un approccio più sistemico e olistico, affinché valuti tutti gli aspetti d’interazione con l’ambiente del progetto, indirizzando l’attenzione del designer dall’oggetto in sé alla sua unità funzionale, perché è su questa che si basano l’analisi e la comparazione tra le scelte più o meno sostenibili da applicare in fase progettuale. Ciò permette di allargare il raggio dell’innovazione dalla categoria di prodotto al suo intero sistema.

Unità funzionale, obiettivi, inventario, analisi e interpretazione dei risultati: verso il Life Cycle Design Una LCA descrive in maniera oggettiva il sistema che genera e accompagna un prodotto o servizio durante tutto il suo Ciclo di Vita e ne valuta, attraverso lo studio dei flussi in entrata e in uscita, i potenziali impatti ambientali. I flussi in entrata (definiti come input) sono rappresentati da qualsiasi risorsa utilizzata durante la vita del prodotto: dalle materie prime ai combustibili, dagli agenti chimici fino ai carburanti impiegati. I flussi in uscita (output) sono l’insieme dei residui/rifiuti generati in ogni fase, assieme alle emissioni termiche, atmosferiche, in acqua e nel suolo. La struttura di una LCA, riferimento per tutti coloro che si dedicano a elaborarla, si basa sulle linee guida introdotte durante il convegno SETAC nel 1990 in Vermont e sono riconfermate nella famiglia di Norme di odierno riferimento ISO 14040. Sono quattro i momenti che guidano questa analisi: 1) Goal and Scope Definition, Definizione degli Scopi e degli Obiettivi; 2) Life Cycle Inventory Analysis (LCI), fase di Inventario; 3) Life Cycle Impact Assessment (LCIA), fase di Analisi; 4) Life Cycle Interpretation, fase di Interpretazione dei Risultati. È di grande importanza definire sin dall’inizio il sistema e l’unità funzionale dell’oggetto in esame, oltreché individuare nella prima fase gli obiettivi dello studio e gli scopi (Goal and Scope Definition). Sono proprio questi che

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¹ L’Analisi del Ciclo di Vita può essere applicata sia a un prodotto che a un servizio o un processo. D’ora in poi, per semplicità di lettura, faremo riferimento solo al prodotto, ma si consideri questa nota laddove non vi siano precisi riferimenti a un oggetto fisico.


spingono un’azienda ad affrontare una LCA per conferire al proprio prodotto un’etichetta ambientale (come ad esempio l’Ecolabel), sviluppare una Dichiarazione Ambientale di Prodotto (EDP) o per pianificare interventi volti a migliorare le problematiche emerse dalla stessa analisi.

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La seconda fase di Inventario è quella in cui si raccolgono tutti i dati oggettivi che compongono il sistema indagato, composto da tutte le fasi della vita dell’oggetto; ovvero: acquisizione delle materie prime, produzione, trasporto e packaging, distribuzione, uso e manutenzione, dismissione. I dati vengono espressi in unità di misura (kg, km percorsi, KWh, etc.), raccolti sul Campo di Studio e sono definiti come Primary Data. Il vantaggio di utilizzare tali dati è quello di ottenere un risultato quanto più vicino alla realtà e instaurare una collaborazione profonda con l’azienda. Qualora non fosse possibile reperire dati sul campo perché, ad esempio, si ignorano alcuni processi di lavorazione applicati a monte della catena, ci si avvarrà dell’utilizzo di Banche Dati (Secondary data). Secondo la Normativa ISO 14040 è necessario citarne la provenienza e la data,

ai fini di una buona ricerca i dati devono essere attendibili e attualizzati. Tutte le informazioni che emergono dalla fase di Inventario costituiscono la base per la successiva fase di Valutazione degli Impatti, regolamentata dalla Normativa ISO 14040 e 14044, in cui occorre esaminare i potenziali effetti ambientali su cui dirigere lo studio. Le categorie di impatto ambientale più comuni sono ad esempio l’effetto serra,l’acidificazione (l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera che causa un consequenziale aumento di CO2 nell’acqua alterandone l’Ecosistema), l’eutrofizzazione (la comparsa in ambiente acquatico di eccessivi organismi vegetali), l’erosione del suolo, l’impoverimento delle risorse idriche, i danni al paesaggio e alla salute umana, la degradazione dell’area a livello locale. In base ai possibili scenari si procede con l’organizzazione dei dati raccolti nell’Inventario che vengono sintetizzati e quantificati nella forma più opportuna. La fase di Interpretazione, quarta e ultima, ha lo scopo di massimizzare l’Ecoefficienza di un sistema evidenziando quali siano i principali impatti emersi dalle precedenti fasi in maniera chiara e consistente in grado di offrire uno strumento completo per poter progettare soluzioni che ne riducano gli effetti ambientali o di poter sostenere, con dati oggettivi, i requisiti per ottenere l’Etichettatura Ambientale. I risultati dell’LCA uniti alle competenze dell’Ecodesigner danno vita a una nuova metodologia di progettazione sostenibile: il Life Cycle Design.


LCA: approccio qualitativo strumento utile per le aziende

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La diffusione di una “coscienza ambientale”, la crescente domanda di prodotti sostenibili da parte dei consumatori e la relativa possibilità di sviluppo per le imprese, così come l’entrata in vigore di normative europee e la migliorata capacità di controllo degli apparati tecnico - amministrativi preposti, hanno impostato un nuovo scenario, definito “Sviluppo Sostenibile”, centrato sulla compatibilità tra produzione industriale e ambiente. Le grandi aziende, come anche la PMI, si stanno adeguando al raggiungimento dell’obiettivo ”Eco-efficienza” che, di fatto, si trova sempre più a coincidere con quello della “Qualità Totale”, ciò comporterà un nuovo modo di procedere all’interno delle aziende: il progetto e la creazione di nuovi prodotti sarà accompagnato dalla valutazione del loro “Ciclo di Vita”. La SETAC (Society of Environmental Toxicology and Chemistry) nel 1993 definì l’LCA come una metodologia in grado di individuare e analizzare i principali impatti ambientali legati al Ciclo di Vita di un prodotto o di un processo e, sulla base dei risultati ottenuti, adottare soluzioni tecniche in grado di ridurre gli impatti ambientali come anche i relativi costi esterni. Tale approccio promuove la sostenibilità ambientale del prodotto e consente alle aziende di migliorare anche la qualità tecnico-ambientale dei processi di lavorazione impiegati nella produzione dello stesso. Un Ecodesigner dovrebbe partire da una consapevole scelta dei materiali e analizzare il Ciclo di Vita del suo prodotto individuandone gli impatti ambientali più significativi. La sfida di un progettista è entusiasmante: creare un prodotto funzionale, dal contenuto emozionale e comunicativo, senza dimenticare gli aspetti

economici e di sostenibilità ambientale. Per le aziende i vantaggi ambientali si trasformano spesso in possibilità di risparmio economico sul processo di produzione, basti pensare in termini economici a strategie come: minimizzazione del materiale, impiego di materiali riciclati, studio del packaging per la riduzione dei volumi e l’ottimizzazione dello spazio in fase di trasporto e stoccaggio, la riduzione e semplificazione dei pezzi nella fase di assemblaggio (che costituirà una facilitazione anche nella fase di disassemblaggio per la dismissione e il riciclo), solo per citarne alcune. L’LCA, quindi, può essere adottata per innovare le caratteristiche di un prodotto rendendolo più performante, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche per quanto concerne il suo utilizzo (minor consumo di energia, maggiore facilità d’uso, meno elementi) e, ancora, per valutare l’impatto ambientale di un nuovo processo produttivo prima di costruire uno stabilimento, oppure per supportare la comunicazione di marketing con dati scientifici comprovati. In più, applicando questo tipo di analisi, è possibile confrontare soluzioni diverse per soddisfare la stessa esigenza. La ricerca “Life Cycle Assessment: A Guide for Sustainability and Strategy Executives”, realizzata da Green Research ha evidenziato che i tre principali benefici ottenuti dalle realtà aziendali mediante una o più analisi LCA sono: 1) supporto nella realizzazione di prodotti migliori; 2) possibilità di rispondere adeguatamente alle richieste dei consumatori; 3) ottenere basi scientifiche su cui fondare lo sviluppo dei processi di sostenibilità aziendale. Le principali barriere alla diffusione di questo metodo invece sono rappresentate da: 1) difficoltà da parte del management

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aziendale di comprendere pienamente i benefici derivanti dall’LCA; 2) tempi necessari per condurre le analisi e relativi costi; 4) carenza di leggi e regolamenti che richiedano obbligatoriamente la loro applicazione. Il report conclude affermando che tempi e costi potranno diminuire inversamente rispetto alla diffusione tra le aziende dell’utilizzo di questa metodologia e quanto più si moltiplicheranno database e iniziative di collaborazione tra imprese sulla tematica. Parallelamente si modificheranno anche le finalità con cui i manager utilizzeranno i dati provenienti dalle Analisi del Ciclo di Vita che ora vengono usati prevalentemente per validare decisioni già prese o per ampliare le conoscenze sui processi o sui prodotti mentre, in un futuro prossimo, le aziende se ne serviranno sempre di più anche per progettare e innovare, agendo proattivamente.

LCA e comunicazione ambientale

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Sulla base dei dati emersi da un LCA le aziende hanno strumenti diversi per comunicare la sostenibilità dei propri prodotti. Vi sono da un lato le etichette ambientali (ISO 14024) come, per esempio, l’Ecolabel, un’etichetta della Comunità Europea che dichiara prodotti virtuosi basandosi su criteri diversi per ogni categoria di prodotto e incentivandone l’analisi del ciclo di vita. Vi sono poi le dichiarazioni ambientali di prodotto, EPD, in cui un ente certificatore esterno all’azienda riporta informazioni ambientali sul prodotto in base a parametri prestabiliti basati sull’LCA. Le dichiarazioni ambientali possono anche essere autodichiarazioni (ISO 14021), che il produttore utilizza per comunicare

autonomamente caratteristiche ambientali come la presenza di un materiale rinnovabile, riciclato, riciclabile o certificato (FSC, Cradle to Cradle, etc.). Questo genere di documenti risultano essere meno comunicativi verso il grande pubblico rispetto all’immediatezza di un’etichettatura,ma è sempre a partire da una LCA che è possibile predisporre una comunicazione più coinvolgente per i consumatori. Abbiamo visto come l’approccio sistemico dell’Analisi del Ciclo di Vita implichi la comprensione di ciascuna fase del progetto, sarebbe dunque sbagliato escludere da questa visione d’insieme il consumatore, colui che interagisce con l’oggetto, che ne viene a conoscenza, ne comprende le qualità e le possibilità, le comunica ad altri, lo usa e lo dismette. Buona parte di questo processo appena citato avviene proprio mediante la comunicazione, che può passare attraverso la pubblicità, il packaging e il materiale


informativo di vario genere (brochure, foglio illustrativo, etc.). Questa fase dovrebbe essere vista come parte integrante del progetto e il designer è tenuto a progettare anche l’aspetto comunicativo per accrescere la consapevolezza del consumatore verso uno stile di vita più sostenibile, perché possiamo dire che un progetto ecologico, i cui virtuosismi ambientali non sono ben comunicati, ha raggiunto il suo scopo solo a metà. Anche se gli esempi di comunicazione basata sui risultati dell’LCA sono ancora pochi, le imprese più attente a fornire dati ambientali ai propri clienti sono in crescita, motivo per cui si iniziano a diffondere svariate forme di comunicazione, più o meno creative, finalizzate alla restituzione di tali informazioni attraverso i diversi approcci di marketing.

La Arjowiggins Graphic, azienda che produce carta riciclata per usi tecnici, riporta nel suo sito web il Ciclo di Vita del prodotto ponendo in evidenza, per ogni fase, le sue migliori caratteristiche ambientali. (rif. http:// www.arjowigginsgraphic.com/life-cycle-ofrecycled-paper-438.html). L’Analisi del Ciclo di Vita è stato utilizzato anche per comunicazioni più dirette e creative, si pensi ad Arene Birt, un information designer che utilizza le informazioni ambientali come base per storytelling visuali molto coinvolgenti. Sono molti i casi studio da analizzare sul suo sito web (rif. www.backgroundstories.com): dal tavolo interattivo che riconosce il cibo che vi si poggia e ne racconta la “storia ambientale”, alla t-shirt per Droog Design la cui decorazione coincide con l’analisi LCA della maglietta stessa, alle confezioni di caffè che raccontano i retroscena ambientali e sociali del prodotto contenuto. Il designer Kenji Huang utilizza un’Analisi del Ciclo di Vita comparativo per evidenziare le maggiori performances ambientali del suo progetto e usa il caratteristico grafico “ad albero”, (rif. http://dl.dropboxusercontent. com/u/4716241/LCA%20Poster%20 Optimized.pdf), tipico dei software di analisi LCA, per narrare il processo creativo che lo ha portato a realizzare Ima-Jen, un kit di gioco per bambini. Influenzato dall’Analisi del Ciclo di Vita di un prodotto simile, presente sul mercato, e del quale ha individuato alcune criticità ambientali (nonostante fosse già un prodotto che si dichiarava ecologico), Huang ha cercato di ridurle migliorando ancora di più le prestazioni ambientali e sociali del suo progetto. Questo tipo di comunicazione risulta essere molto tecnica anche se resa in forma grafica, ciò nonostante riesce a mettere in evidenza anche a un pubblico di “non addetti ai lavori”, valutazioni progettuali

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riguardanti un minore impiego di materiale e una maggiore semplicità del prodotto e del packaging. Scelte che, anche per l’opinione comune, sono sinonimo di Sostenibilità Ambientale.

LCA e strategie di Ecodesign

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È importante definire l’accezione del termine Ecodesign, inteso come Life Cycle Design (LCD), traducibile con progettazione del Ciclo di Vita dei prodotti. L’Ecodesign o l’Ecoprogettazione è quindi la considerazione dei fattori ambientali nella progettazione e nello sviluppo di prodotti e di servizi. Il Life Cycle Design si propone come un approccio più generale alla progettazione, il suo obiettivo è quello di ridurre il carico ambientale associato a un prodotto nell’intero Ciclo di Vita e in relazione alla sua unità funzionale. Vediamo quali sono i vantaggi di un approccio LCD partendo dalla considerazione che bisogna prestare particolare attenzione alla lettura dell’analisi, alla scelta delle strategie da applicare nelle diverse fasi del Ciclo di Vita e che queste vanno calibrate sul tipo di prodotto e sul relativo uso. Si rischierà altrimenti di applicarne alcune che possano rivelarsi più dannose a livello ambientale. Prendiamo come esempio gli arredi in cartone: la scelta del materiale risulta indicata su progetti che avranno vita molto breve ma assolutamente inopportuna per tutti quegli oggetti che potrebbero avere maggiore durabilità. Un approccio LCD, considerando tutte le fasi del prodotto, ha dunque il vantaggio di restituire le criticità dello stesso, rendendo più impegnativa la fase progettuale, ma non per questo complicata, anzi, per molti versi più stimolante. Una prima motivazione di tale complessità è data dalla ricerca iniziale di quante più

informazioni possiamo reperire per ciò che riguarda gli input e gli output dei processi e ai loro impatti sull’ambiente, per questo esistono delle banche dati, dei metodi e degli strumenti software di calcolo. È chiaro che non è sufficiente per un prodotto soddisfare i requisiti ambientali per essere considerato un buon prodotto, ma deve essere anche in grado di rispettare gli standard di progettazione: prestazionali, tecnologici, economici, legislativi, culturali ed estetici. Come progettisti possiamo però avvalerci di utili strumenti per una corretta Ecoprogettazione, in primis, applicando strategie mirate a minimizzare le risorse ovvero ridurre l’uso di materia ed energia - selezionando risorse e processi a basso impatto ambientale, ottimizzando la vita dei prodotti, estendendo la vita utile dei materiali e - infine - progettando in funzione della valorizzazione dei materiali dismessi tramite il riciclaggio, il compostaggio o il recupero energetico, progettando in funzione della separazione di parti e/o materiali per facilitarne il recupero a fine vita attraverso il disassemblaggio. Particolare attenzione deve essere rivolta alla scelta iniziale dei materiali, in questa fase le etichette ambientali che comunicano caratteristiche come riciclabilità o compostabilità, origine del materiale, Cradle to Cradle, possono aiutarci a decidere. Come dice il professor Ashby, nel libro “Materials and Design”, ogni prodotto ha un suo materiale e ogni materiale ha attributi precisi (meccanici, produttivi, estetici, economici e ambientali) che il designer deve valutare nell’insieme delle fasi del ciclo di vita. Ogni strategia può essere perseguita attraverso diverse linee guida e specifiche opzioni progettuali ma, affinché le strategie siano efficaci, è opportuno che vengano applicate solo a seguito della definizione


degli obiettivi di progetto, a seconda del prodotto e della sua funzione. Mi piace portare come esempio di Ecodesign lo sgabello “3.1” progettato da Camilo, designer di origini colombiane e cofondatore del collettivo Nuup®, Sustainable Creativity. Il design dello sgabello porta con sé diverse strategie per ognuna delle fasi del suo ciclo di vita. Partiamo dalla scelta dei materiali: legno di betulla certificato FSC trattato con vernici ad acqua e quindi poco inquinanti. In fase di produzione il taglio della seduta viene ricavato dallo sfrido di lavorazione delle gambe, ciò permette una minimizzazione di quelli che sarebbero altrimenti scarti di lavorazione e una ottimizzazione della materia prima. Durante il trasporto viaggia smontato e il suo volume si riduce a un parallelepipedo di 45 x 45 cm alto solamente 3 cm, il cui packaging è una scatola per la pizza. Abbattere il volume di un oggetto è fondamentale per ottimizzare la fase

di trasporto e i relativi consumi (anche in termini di CO2), mentre il riutilizzo di scatole già in produzione per altri oggetti ha permesso di evitare la realizzazione di una nuova fustella e quindi di ridurre i costi ambientali ed economici di imballaggio. Montaggio e smontaggio, a uso del cliente, sono facilitati da incastri, che evitano l’uso di colle o chiodi per il fissaggio e ne facilitano la dismissione. Bibliografia: - Alastair Fuad-Luke, Eco-Design, Progetti per un futuro sostenibile, Logos 2003 - Paolo Tamborrini, Design sostenibile, oggetti, sistemi e comportamenti, Electa, 2009 - Carlo Vezzoli, Ezio Manzini, Design per la sostenibilità ambientale, Zanichelli, 2007 - Gian Luca Baldo, Massimo Marino, Stefano Rossi, Analisi del ciclo di vita LCA, gli strumenti per la progettazione sostenibile di materiali, prodotti e processi, Edizione Ambiente, 2008 - Ashby Michael F.; Johnson Kara, Materials And Design, The art and science of material selection in product design, Butterworth-Heinemann , 2009.

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a cura di Daniela Donati

Rubrica Creatività

ARS CREANDI: TECNICHE SPUNTI PER IL Creatività: una parola che suscita diverse associazioni, molte delle quali sono spesso errate. Come i tanti luoghi comuni che è bene abbandonare se si vuole intraprendere un percorso di avvicinamento (per i neofiti) o di potenziamento (per gli amanti del genere) della propria abilità creativa (scopo peraltro di questa rubrica). Così, ad esempio, occorre smentire chi pensa che la creatività non sia per tutti ma appartenga solo a fortunate persone particolarmente talentuose o geniali: siamo tutti potenzialmente creativi (ebbene sì, anche gli ingegneri)! Che poi questo potenziale ci si sia dimenticato di utilizzarlo è un’altra storia… la buona notizia è che chi lo desidera può facilmente sviluppare il proprio potenziale creativo migliorando la capacità di generare idee per la soluzione di problemi, per l’invenzione o il miglioramento di processi, prodotti o servizi, per il raggiungimento di un obiettivo, per la realizzazione di un desiderio. Altro luogo comune di cui liberarsi è quello che indica la creatività come una facoltà del pensiero, qualcosa di astratto e distaccato dalla realtà, un sinonimo di fantasia. L’immaginazione è sicuramente un ingrediente fondamentale nel pensiero e processo creativo ma da sola non basta a definire correttamente la creatività, che è piuttosto “la capacità di unire elementi

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CAMBIAM

preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili”. Questa è la miglior definizione di creatività per la quale il suo autore, il matematico, fisico, astronomo e filosofo della scienza Henri Poincaré (1854/1912), propone la formula

C=nu La creatività è dunque il prodotto di una quantità di “nuovo” e di una quantità di “utile”. In totale assenza di uno dei due elementi (novità o utilità), non sarà possibile definire “creativa” un’idea. Un ultimo luogo comune pretende che la persona creativa sia necessariamente stravagante, trasgressiva, particolarmente originale nei modi (o nelle vesti), e che la creatività non abbia regole. Ancora una volta vogliamo rassicurare tutti, compresi i manager in giacca e cravatta o tailleur d’ordinanza: non sarete obbligati a cambiare look per guadagnarvi il premio per la migliore idea di business mai prodotta nella vostra azienda! L’originalità e la stravaganza (intese come elementi di distinzione dalle idee di partenza) sono elementi utili e funzionali alla creatività soprattutto se indicatori della capacità di esprimere liberamente le proprie idee, senza temere il giudizio degli altri (un po’ come fanno i bambini che - altro luogo comune da sfatare - non sono più creativi degli adulti).


DI CREATIVITÀ E

MENTO

Sgombrato il campo da alcuni tra i principali luoghi comuni sulla creatività, possiamo passare a una breve illustrazione del processo creativo che dai primi studi di Wallas, passando per Rossman, Osborn, Jaoui e Csikszentmihalyi, dopo la nascita del bisogno o desiderio (intenzione) di trovare una soluzione, possono sintetizzarsi in 5 tappe:

di magia per come si produce, a volte “per caso”, per quanto, per citare il buon Pasteur: “il caso aiuta le menti preparate”.

L’impregnazione indica il momento in cui si raccolgono tutte le informazioni, si studia il problema, focalizzando obiettivo, vincoli, risorse e si cercano le prime soluzioni tra quelle già note e applicate nella propria realtà o in quella di altri campi analoghi. Questa tappa si conclude quando si sente che l’impregnazione è totale e non si può più assorbire nulla.

Per chiudere il processo non resta che passare all’ultima tappa di Applicazione con la realizzazione delle idee che hanno passato il vaglio critico secondo i parametri di originalità (l’elemento di novità), efficacia (quanto l’idea è utile per risolvere il problema), fattibilità (valutata in base alle risorse economiche, alle tempistiche e all’impiego di persone atte a occuparsi dell’implementazione del progetto).

L’incubazione, è una tappa la cui durata è variabile e indefinibile, durante la quale, seppur essendoci allontanati dal problema e dalla ricerca delle soluzioni, il nostro cervello continua - a nostra insaputa - a elaborare i dati raccolti nella tappa precedente fino a quando verremo colti da un effetto sorpresa che ci catapulta nella tappa successiva. L’illuminazione è la tappa del grido di Archimede, Eureka! Finalmente la via per la soluzione si rivela, generalmente sotto forma di un’intuizione che ha quasi una parvenza

La tappa di Verifica è quella in cui si passa all’analisi delle idee prodotte nella tappa precedente e se ne analizza la fattibilità e l’opportunità.

Il processo creativo così delineato è ciò che avviene in maniera “naturale”, quando si ha la possibilità di attendere i tempi necessari affinché il nostro cervello elabori le informazioni e produca l’insight creativo che ci porterà al raggiungimento del nostro obiettivo. Non sempre, tuttavia, si ha la possibilità di rispettare questi tempi e gli innovatori di professione devono non solo fornire idee creative (nuove e utili), ma anche rispettare le scadenze e più spesso gestire le urgenze.

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Che fare? Ci viene in soccorso la creatività intesa secondo due accezioni: la creatività come attitudine (uno stile di vita, l’utilizzo del pensiero creativo) e la creatività come metodo (insieme di metodi e tecniche). Questa rubrica è dedicata all’esposizione di approcci, spunti e consigli per sviluppare il nostro potenziale creativo sia attraverso l’introduzione di nuovi comportamenti da adottare quotidianamente, sia attraverso l’utilizzo di tecniche specifiche per la generazione d’idee. Ma prima di cominciare con le tecniche, gli amanti del principio per il quale “si può migliorare solo ciò che si può misurare”, potranno iniziare a valutare la propria predisposizione alla risoluzione creativa dei problemi, attraverso un celebre quiz sviluppato dalla Andersen Consulting (oggi Accenture). Le domande non sono difficili: provate a pensarci un attimo prima di rispondere. 1. Come fare a mettere una giraffa nel frigorifero? Risposta corretta: aprite il frigorifero, metteteci dentro la giraffa, chiudete il frigorifero. Questa domanda serve a capire se cercate di rendere complicata una cosa semplice. 2. Come fare per mettere un elefante nel frigorifero?

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Risposta sbagliata: aprite il frigorifero, mettete l’elefante dentro, chiudete il frigorifero. Risposta corretta: aprite il frigorifero, togliete la giraffa, mettete l’elefante nel frigorifero, chiudete il frigorifero. Questa domanda

valuta l’abilità nel considerare le implicazioni delle vostre precedenti azioni. 3. Il Re Leone ha organizzato un’assemblea con gli animali: tutti gli animali sono presenti tranne uno. Quale? Risposta corretta: L’elefante. L’elefante è infatti nel frigorifero. Questa domanda valuta la vostra memoria. Anche se non avete risposto correttamente alle prime tre domande, potete sicuramente rispondere alla prossima. 4. Dovete superare un fiume, ma è popolato di alligatori. Che cosa intendete fare? Risposta corretta: nuotate per attraversare il fiume, tanto tutti gli alligatori stanno partecipando all’assemblea. Questa domanda valuta se siete capaci di imparare velocemente dai vostri errori. Secondo i risultati dell’Andersen Consulting Worldwide, il 90% dei manager che si sono sottoposti a questo test hanno sbagliato tutte le domande. Al contrario molti bambini sotto i sei anni hanno risposto correttamente ad alcune di esse. Andersen Consulting afferma che questo risultato è la dimostrazione che molti top managers hanno lo stesso cervello di un bambino di quattro anni! Che abbiate risposto correttamente o meno, se lo vorrete, potrete trovare a partire dai prossimi articoli di questa rubrica delle tecniche di facile e rapida applicazione per sviluppare il vostro potenziale creativo e migliorare pertanto l’efficacia del vostro processo creativo e di quello dei vostri eventuali collaboratori.


STRATEGIA

OCEANO BLU Libro che combina metodo deduttivo e induttivo dove la teoria strategica trova riscontro in casi concreti e nelle esperienze consulenziali degli autori Chan Kim e Renée Mauborgne che formulano una serie di consigli su come identificare, sviluppare e lanciare sul mercato un flusso costante d’innovazioni strategiche al fine di alimentare una crescita profittevole e duratura.

Rubrica un libro in 10 minuti

a cura di Pasqualina Pirone

Tre insegnamenti risultano rilevanti: 1. Una curva del valore indice d’innovazione scardinante deve essere focalizzata, divergente (dalla concorrenza) e semplice da spiegare. 2. La creazione di valore dev’essere realizzata verso l’esterno e verso l’interno creando offerte dirompenti sul mercato e profittevoli per l’azienda. Occorre lavorare sui nuovi attributi da offrire al cliente ma anche su quelli da eliminare o ridurre. Così che creare più valore per il cliente non determini più costi. 3. Puntare al mercato di massa con innovazioni che non siano solo attrattive per piccoli segmenti così da generare un business di dimensioni significative.

La strategia Oceano Blu supera e annulla l’esigenza d’ipersegmentare il mercato. Questa strategia deriva da una visione ricostruzionista¹, approccio basato sulle teorie economiche di crescita endogena che si rifanno al pensiero di Joseph A. Schumpeter, secondo cui l’innovazione nasce da un processo interno al settore di riferimento e la cui fonte principale è l’imprenditore creativo.

performance. Sostiene un nesso causale tra le condizioni esterne di mercato e il posizionamento strategico dell’azienda).

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¹In antitesi vi è l’approccio strutturalista (visione di Porter) il cui modello di analisi è basato sul paradigma struttura-condotta-

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In mercati caratterizzati da: • eccesso di offerta; • omogeneità delle proposizioni di valore e indifferenziazione; • erosione costante dei margini medi di profitto. L’azienda dovrebbe: • adottare un approccio ricostruzionista; • creare una strategia in grado di ridefinire i confini del settore; • sbloccare nuovi oceani blu (nuova domanda). Aziende consolidate hanno sviluppato la loro posizione di Leadership grazie a strategie Oceano Blu: - BlackBerry - Bloomberg - Cirque du Soleil - Dell - eBay - NTT DoCoMo - Starbucks Hanno creato valore per gli azionisti, per i clienti, per i loro dipendenti e rappresentano un motore di crescita ineguagliabile per l’economia mondiale. Nel libro il mercato è considerato come un universo composto da due oceani: • oceano rosso, spazio di mercato conosciuto dove la concorrenza all’ultimo sangue tinge di rosso l’oceano; • oceano blu, spazio di mercato incontestato, caratterizzato dalla creazione di una nuova domanda e dall’opportunità di crescita redditizia. É un imperativo crescente, per le aziende, dar vita a nuovi oceani blu per aumentare i profitti e cogliere nuove opportunità di crescita. In

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particolar modo in un contesto caratterizzato da un’offerta che supera la domanda in molti settori, dove farsi concorrenza per strappare quote di mercato in contrazione è una condizione non sufficiente a mantenere un livello alto di performance. Gli oceani blu sono sempre esistiti, pensando a 100 anni fa oppure a 30 anni fa, quanti dei settori oggi attivi, allora erano sconosciuti? Viaggiando nel futuro, fra 20 o forse 50 anni, quali settori ora sconosciuti esisteranno? Concentrarsi sugli oceani rossi significa accettare i vincoli specifici della guerra/ concorrenza – il territorio limitato e la necessità di battere un nemico per vincere – e negare i punti di forza caratteristici del business: la capacità di creare spazi di mercato nuovi e incontestati.

DA “AZIENDA E SETTORE” A “MOSSA STRATEGICA” Lo studio condotto da W. Chan Kim e Renée Mauborgne su oltre 30 settori e in aziende con diverse caratteristiche organizzative mostra che è “la mossa strategica” - non l’azienda o il settore - l’unità di analisi corretta per spiegare come dar vita a un nuovo oceano blu e mantenere alto il livello della performance. Per “mossa strategica” s’intende l’insieme di azioni e decisioni manageriali legate all’offerta di nuovi prodotti/servizi tanto validi da creare un nuovo mercato (oceano blu). Sono state analizzate oltre 150 mosse strategiche effettuate tra il 1880 e il 2000 in più di 30 settori ed esaminato i player rilevanti, sono state cercate le convergenze tra chi ha saputo dar vita a un nuovo oceano blu e chi è rimasto intrappolato nell’oceano rosso. Sono state esplorate le divergenze tra i due gruppi. Ciò che è stato trovato è


un modello costante e comune a tutte le mosse strategiche tese alla creazione e alla conquista di un oceano blu. Si tratta della logica che gli autori chiamano value innovation.

valore per gli acquirenti e del contenimento dei costi. Questo approccio sistematico fa della creazione di oceani blu una strategia sostenibile. Come può l’azienda massimizzare sistematicamente le opportunità e, allo stesso tempo, minimizzare i rischi legati alla formulazione e all’attuazione della strategia Oceano Blu? W. Chan Kim e Renée Mauborgne hanno studiato una serie di aziende di tutto il mondo e sviluppato alcune metodologie pratiche per la conquista di un oceano blu. Metodologie applicate e testate praticamente, arricchite e perfezionate mentre venivano affiancate alcune aziende nel loro tentativo di creare un oceano blu. Per chi si occupa di strategia, la domanda fondamentale è la seguente: come si può uscire dall’oceano rosso della competizione spietata, per neutralizzare la concorrenza?

L’ innovazione di valore è la colonna portante della strategia oceano blu e richiede di concentrarsi sull’obiettivo di neutralizzare la concorrenza, invece di batterla, ricercando con la stessa enfasi il valore e l’innovazione per aprire uno spazio di mercato nuovo e incontestato. L’innovazione di valore si verifica soltanto quando l’azienda unisce l’innovazione all’utilità, al prezzo e alle voci di costo. Si confuta così uno dei dogmi della strategia basata sulla concorrenza: il trade-off tra costo e valore. Per dar vita a un oceano blu si persegue allo stesso tempo l’obiettivo della differenziazione, della creazione di

Per cercare una risposta è introdotto il “QUADRO STRATEGICO”, un framework analitico fondamentale per l’innovazione di valore e la creazione di oceani blu, che: 1. fotografa lo stato attuale dello spazio di mercato conosciuto (aree di investimento della concorrenza, fattori sui quali la concorrenza si scatena a livello di prodotti, servizi e loro consegna/erogazione); 2. fotografa l’offerta ai clienti da parte dei concorrenti sul mercato. Componente fondamentale del quadro strategico, è la CURVA DEL VALORE, una rappresentazione grafica della performance dell’azienda relativamente ai fattori competitivi del suo settore.

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Per porre l’azienda su una traiettoria di crescita forte e redditizia, date le condizioni attuali del settore, buttarsi nel benchmarking dei concorrenti e cercare di batterli offrendo qualcosa in più a un prezzo leggermente inferiore è una strategia inefficace. Nemmeno la strada delle ricerche approfondite sul cliente porta all’oceano blu perché gli studi mostrano che il cliente difficilmente riesce a immaginare come si possa creare un mercato nuovo. Per modificare dalle fondamenta il quadro strategico di un settore, bisogna iniziare togliendo il focus dai concorrenti e riorientandolo sulle alternative e spostare il focus dai clienti del settore ai non-clienti. Per seguire il doppio obiettivo del valore e del contenimento dei costi, bisogna resistere alla vecchia logica che prevede il benchmarking

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dei concorrenti attuali e la scelta fra la leadership a livello di differenziazione e quella a livello di costo. Per creare un oceano blu e per arrivare a questo obiettivo occorre basarsi sul secondo strumento analitico di base tipico degli oceani blu: il framework delle quattro azioni. Per spezzare il trade-off tra differenziazione e contenimento dei costi e per creare una nuova curva del valore, bisogna rispondere a quattro domande fondamentali (framework delle quattro azioni) che sfidano la logica strategica e il modello di business del settore: 1. tra i fattori che l’industria dà per scontati, quali andrebbero eliminati? 2. quali fattori andrebbero ridotti ben al di sotto dello standard di settore? 3. quali fattori andrebbero aumentati ben al


di sopra dello standard di settore? 4. quali fattori, mai offerti dal settore, dovrebbero essere creati? La prima domanda obbliga a considerare l’opportunità di eliminare fattori che sono oggetto di concorrenza nel settore da molto tempo. Essi vengono spesso dati per scontati, benché non abbiano più valore o siano arrivati addirittura a distruggere il valore esistente. La seconda domanda obbliga a determinare se la progettazione dei prodotti/servizi sia stata spinta troppo oltre, nello sforzo di raggiungere e battere la concorrenza. In questo caso, le aziende erogano ai clienti un servizio eccessivo, aumentando i costi senza ottenere nulla in cambio. La terza domanda costringe a scoprire ed eliminare i compromessi imposti ai clienti dall’intero settore. La quarta domanda aiuta a scoprire fonti totalmente nuove per la creazione di valore per gli acquirenti, a creare nuova domanda e a spostare il pricing strategico del settore. Nell’affrontare le prime due domande (quella sull’eliminazione e quella sulla riduzione) si arriva a capire come ridurre i costi rispetto ai concorrenti. Gli altri due fattori aiutano a capire come creare valore per gli acquirenti e creare nuova domanda. Uno strumento fondamentale per la creazione di un oceano blu è lo schema eliminare-ridurre-aumentare-creare che va compilato con le diverse azioni volte a eliminare-ridurre-aumentare-creare, consentendo così all’azienda di agire di conseguenza per creare una nuova curva di valore. Per creare un nuovo Oceano Blu, la curva di valore deve essere unica ed eccezionale,

oltre ad avere 3 qualità complementari: - focus molto chiaro, l’azienda non disperde i suoi sforzi occupandosi di tutti i fattori competitivi fondamentali; - forma della curva del valore divergente rispetto a quella dagli altri player, non sulla base del benchmarketing dei concorrenti ma sull’analisi delle alternative; - tagline del profilo, cioè il motto che lo riassume in modo semplice e diretto, chiara, autentica, avvincente e d’impatto. Il quadro strategico permette alle aziende di leggere nel presente i segni del futuro. Per farlo, esse devono capire come interpretare la curva del valore. Indipendentemente dal settore, la curva del valore nasconde molte indicazioni strategiche sullo stato attuale e futuro di un determinato business.

I SEI PRINCIPI PER FORMULARE UNA STRATEGIA OCEANO BLU PRIMO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: RIDEFINIRE I CONFINI DI MERCATO Nella loro ricerca Kim W. Chan e Renée Mauborgne hanno rintracciato sei diversi approcci di base per ridefinire i confini del mercato, che costituiscono il FRAMEWORK DEI 6 PERCORSI. Percorsi applicabili ai diversi settori che conducono le aziende verso le idee più adatte per creare un oceano blu. Sono percorsi basati sull’analisi di dati già familiari, partendo però da un nuovo punto di vista. Essi mettono in discussione i sei presupposti fondamentali che stanno alla base della strategia di molte aziende e le intrappolano nell’oceano rosso della concorrenza.

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Primo percorso: analizzare i settori alternativi. Un’azienda non è in concorrenza solo con le imprese del suo settore, ma anche con quelle di altri settori che offrono prodotti o servizi alternativi (termine più ampio di surrogato) cioè prodotti o servizi che hanno funzioni e forme diverse ma condividono lo stesso scopo. Spesso lo spazio esistente tra i settori alternativi offre delle opportunità per l’innovazione di valore. Domande da porsi: - quali sono i settori alternativi? - perché i clienti li preferiscono? Concentrandosi sui fattori principali che portano gli acquirenti a passare ai settori alternativi ed eliminando o riducendo tutti gli altri, potrete creare un nuovo spazio di mercato (oceano blu). Secondo percorso: analizzare i gruppi strategici in cui è diviso il settore. Così come spesso si può creare un oceano blu analizzando i settori alternativi, è possibile sbloccarlo analizzando i gruppi strategici (gruppo di aziende che operano all’interno dello stesso settore perseguendo una strategia simile). La chiave per creare un oceano blu, superando i confini dei gruppi strategici esistenti, è l’affrancamento da questa visione limitata. Per arrivarci bisogna capire quali fattori determinano le decisioni dei clienti che praticano il trading up o il trading down passando da un gruppo all’altro. Le aziende fanno la loro fortuna basandosi sui vantaggi decisivi dei gruppi strategici del proprio settore ed eliminando o riducendo tutti gli altri fattori. Domande da porsi: - quali sono i gruppi strategici del settore? - perché i clienti passano al gruppo più alto

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tramite il trading up o a quello più basso tramite il trading down? Terzo percorso: analizzare la catena degli acquirenti. A volte la scelta del focus ha alla base forti motivazioni economiche, ma spesso è il risultato di pratiche di settore che non sono mai state messe in discussione. Chi osa sfidare la visione tradizionale del target (qual è e quale dovrebbe essere) condivisa da un determinato settore può arrivare a scoprire un nuovo oceano blu. Analizzando i gruppi di acquirenti, l’azienda può capire meglio come ridisegnare la sua curva del valore per focalizzarsi su un gruppo che prima trascurava. Domande da porsi: - qual è la catena degli acquirenti nel settore? - su quale gruppo di acquirenti si concentra di solito il settore? - se spostate il focus su un diverso gruppo, che cosa si potrebbe fare per entrare un nuovo valore? Quarto percorso: analizzare l’offerta di prodotti e servizi complementari. Il valore che resta da generare si nasconde spesso nei prodotti e servizi complementari. La chiave è definire la soluzione complessiva che gli acquirenti cercano quando scelgono un prodotto o un servizio. Un modo semplice per farlo è pensare a ciò che avviene prima, durante e dopo l’uso del proprio prodotto. Domande da porsi: - in quale contesto viene utilizzato il prodotto o servizio? - che cosa succede prima, durante e dopo l’utilizzo? - si possono identificare le maggiori difficoltà vissute dai clienti? - come si possono eliminare queste


difficoltà tramite l’offerta di prodotti e servizi complementari? Quinto percorso: analizzare l’appeal funzionale o emotivo esercitato sugli acquirenti. Alcuni settori basano la concorrenza principalmente sul prezzo e operano per lo più sulla base di un calcolo utilitaristico; il loro appeal è di tipo razionale. Altri settori basano la concorrenza soprattutto sui sentimenti; il loro appeal è di tipo emotivo. Quando un’azienda è disposta a mettere in discussione l’orientamento funzionale o emotivo del suo settore, spesso individua un nuovo spazio di mercato. Domande da porsi: - nel settore di appartenenza, la concorrenza è basata sulla funzionalità o sull’appeal emotivo? - se è basata sull’appeal emotivo, quali elementi si possono eliminare per rendere i prodotti/servizi funzionali? - se è basata sulla funzionalità, quali elementi si possono aggiungere per dare ai prodotti/ servizi un appeal emotivo? Sesto percorso: analizzare i cambiamenti nel tempo. Tutti i settori sono soggetti a una serie di trend esterni che influenzano il business nel tempo. La maggior parte delle aziende si adattano un pó alla volta e, in un certo qual modo, passivamente al corso degli eventi. Il management tende a porre il focus sulle proiezioni relative ai trend stessi. Le intuizioni fondamentali di una strategia Oceano Blu, però, derivano raramente dalle proiezioni relative al trend. Piuttosto, emergono dalla comprensione di come il trend cambierà la percezione del valore da parte dei clienti e influenzerà il modello di business dell’azienda. Analizzando i cambiamenti nel

tempo, il management può attivamente dar forma al futuro e aprire un nuovo oceano blu. Domande da porsi: - quali sono i trend che hanno le maggior probabilità di influenzare il proprio settore? - i trend sono irreversibili e si stanno evolvendo lungo una traiettoria chiara? - che impatto avranno sul settore? - su queste basi, come si possono creare prodotti/servizi di un’utilità senza precedenti per il cliente? SECONDO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: PORRE IL FOCUS SUL QUADRO STRATEGICO COMPLESSIVO Porre il focus sul quadro complessivo e non sui numeri è il principio chiave per attenuare il rischio di investire, nella pianificazione, molti sforzi e tempo arrivando solo a produrre mosse tattiche tipiche dell’oceano rosso (concorrenza aggressiva). K.W. Chan e R. Mauborgne hanno sviluppato un approccio alternativo all’attuale processo di pianificazione strategica, che non è basato sulla preparazione di un documento ma sul disegno di un quadro strategico. Questo approccio produce regolarmente strategie capaci di sbloccare la creatività di una vasta gamma di persone nell’ambito dell’organizzazione e aprire gli occhi dell’azienda all’esistenza di un oceano blu con strategie semplici da capire e comunicare. Basando la pianificazione della strategia sul quadro strategico, l’azienda e i suoi manager evitano di lasciarsi sommergere dai numeri e dai termini tecnici, trovandosi intrappolati nei dettagli operativi. Tre effetti del disegno di un quadro strategico: 1. Mostra il profilo strategico di un settore delineando molto chiaramente i fattori attuali

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- e i possibili fattori futuri - che influenzano la concorrenza tra i player. 2. Mostra il profilo strategico dei concorrenti attuali e potenziali, identificando i fattori in cui investono. 3. Mostra il profilo strategico dell’azienda la sua curva del valore - evidenziando come stia investendo nei fattori competitivi e come potrebbe investirvi nel futuro.

Disegnare un quadro strategico non è una cosa semplice, pochi manager riescono a vedere le dinamiche complessive del loro settore andando oltre le dimensioni che rientrano sotto la propria responsabilità. Il processo prevede 4 fasi al fine di sbloccare la creatività dei manager ricorrendo alle stimolazioni visive:

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1. Risveglio Visivo: - paragonare il vostro business a quello dei concorrenti disegnando il vostro quadro strategico attuale; - identificare le aree in cui la vostra strategia va cambiata. 2. Esplorazione Visiva: - effettuare un’esplorazione sul campo dei 6

percorsi per la creazione di un oceano blu; - osservare i vantaggi distintivi dei prodotti e servizi alternativi; - identificare quali fattori andrebbero eliminati, creati o cambiati. 3. Rassegna delle Strategie Visive: - disegnare il quadro strategico più auspicabile per la vostra azienda, sulla base degli spunti tratti dall’osservazione sul campo; - chiedere un feedback sulle opzioni alternative per i vostri clienti, per quelli dei concorrenti e non clienti; - usare il feedback per delineare la migliore strategia auspicabile per il futuro. 4. Comunicazione Visiva: - distribuire i vostri profili strategici del “prima e dopo” su un’unica pagina per facilitare il paragone; - promuovere solo quei progetti e quelle mosse operative che consentono alla vostra azienda di chiudere i vari gap per mettere in pratica la nuova strategia. Il metodo della visualizzazione strategica rimette la strategia al centro della pianificazione strategica e da opportunità molto maggiori di creare un oceano blu. Il fatturato, la redditività, la quota di mercato e la customer satisfaction sono tutti indicatori del posizionamento attuale dell’azienda. Contrariamente a quanto suggerito dal pensiero strategico tradizionale, essi non possono mostrare la via per il futuro; i cambiamenti dello scenario sono troppo veloci. I chief executive dovrebbero piuttosto usare il valore e l’innovazione come parametri importanti per la gestione del business. Dovrebbero usare l’INNOVAZIONE perché, senza di essa, le aziende sono bloccate nella trappola dei piccoli passi e del testa a testa verso la concorrenza; dovrebbero usare il VALORE perché le idee innovative sono


redditizie solo se sono legate ai prodotti/ servizi per cui gli acquirenti sono disposti a pagare. TERZO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: ESTENDERE LA DIMENSIONE OLTRE LA DOMANDA ATTUALE Estendere la dimensione oltre la domanda esistente è una componente fondamentale per realizzare l’innovazione di valore. Per raggiungere tale obiettivo, l’azienda dovrebbe mettere in discussione due pratiche tradizionali nel campo della strategia: 1. Il focus sui clienti attuali. 2. La tendenza a una segmentazione sempre più fitta, per adattarsi alle differenze tra i clienti. Più forte è la concorrenza maggiore risulta, in media, la conseguente personalizzazione dell’offerta. Spesso, facendosi concorrenza per andare incontro ai gusti dei clienti, le aziende rischiano di creare target troppo ristretti. Per massimizzare la dimensione del suo oceano blu l’azienda invece di concentrarsi solo sui clienti, deve: • guardare ai non-clienti; • basarsi sui forti punti in comune tra loro, cioè gli aspetti a cui attribuiscono più valore, invece di porre il focus sulle differenze tra i clienti; • orientarsi alla desegmentazione prima che a una segmentazione più sofisticata. Ciò le consentirà di estendere la dimensione della domanda esistente, per sbloccare una massa di clienti che prima non esisteva. Non è sbagliato porre il focus sui clienti attuali o sulla segmentazione, ma è sbagliato considerarlo quale unico orientamento strategico. Se non si individuano opportunità analizzando i non-clienti si rischia di operare

in uno spazio di ristretto.

mercato sempre più

Massimizzare la dimensione non è però sufficiente, per arrivare a un risultato sostenibile occorre essere profittevoli, sviluppando un modello di business fattibile che porti una crescita sostenibile e redditizia. QUARTO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: UTILITÀ, PREZZO, COSTO E ADOZIONE Per costruire un modello di business solido e assicurarsi una buona profittabilità, l’azienda deve sviluppare la sua strategia Oceano Blu seguendo questa sequenza: utilità per il cliente, prezzo, costo e adozione.

Utilità per il cliente La vostra offerta comporta un’utilità eccezionale? La massa dei clienti ha un motivo per acquistarla? In assenza di ciò, l’idea non ha neppure in partenza alcun potenziale per la creazione di un oceano blu. In questo caso ci sono due sole opzioni: “parcheggiare” l’idea, oppure ripensarla fino ad arrivare a una risposta affermativa.

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Pricing strategico Il pricing è definito per attirare un target di massa, cioè è fissato a un livello abbordabile? Se non è così, il target non potrà acquistare la vostra offerta ed essa non farà parlare di sé in modo da risultare irresistibile. Costo Siete in grado di produrre la vostra offerta restando entro il target di costo prefissato, realizzando comunque un buon margine di profitto? Potete fare profitti definendo un pricing strategico, cioè utilizzando un prezzo accessibile alla massa dei clienti che considerate il vostro target? Qualora non possiate rispettare il target di costo, avete due strade: abbandonare l’idea, dato che l’oceano blu non si preannuncia redditizio, oppure ridisegnare il modello di business per rispettare il target di costo attraverso la leva dell’ottimizzazione della supply chain e le innovazioni a livello di costo oltre alla leva delle partnership. È proprio la combinazione di un’utilità eccezionale, un pricing strategico e il rispetto del target di costo che consente all’azienda di raggiungere l’innovazione di valore, cioè un aumento significativo di valore creato sia per gli acquirenti, sia per se stessa. Adozione L’ultima fase prevede il superamento degli ostacoli legati all’adozione. Quali sono quelli relativi alla messa in pratica della vostra idea? Li avete affrontati

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consapevolmente fin dall’inizio? La formulazione della strategia Oceano Blu è completa solo quando siete in grado di affrontare gli ostacoli legati all’adozione fin dal principio, per garantire un’attuazione efficace della vostra idea. Gli ostacoli includono la possibile resistenza che le principali parti in causa: i dipendenti, le aziende partner e il grande pubblico, dimostrano verso l’idea. Nell’istruire le tre parti in causa, la sfida principale che dovete affrontare è quella di instaurare un dibattito aperto sui motivi che rendono necessaria l’adozione della nuova idea. Dovete spiegare i suoi meriti, definire aspettative chiare rispetto alle sue varie ramificazioni e mostrare come l’azienda intenda portarle avanti. Tutte le parti in causa devono sapere che la loro voce è stata ascoltata e che non ci saranno sorprese. QUINTO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: SUPERARE I PRINCIPALI OSTACOLI ORGANIZZATIVI PER ATTUARE LA STRATEGIA OCEANO BLU Sviluppata la strategia Oceano Blu si passa all’attualizzazione affrontando le sfide legate alla sua messa in pratica. Quattro sono i principali ostacoli da affrontare: 1. Ostacolo cognitivo, aprire gli occhi dei dipendenti alla necessità di uno spostamento strategico. 2. Risorse limitate. 3. Ostacolo motivazionale, motivare i principali player a muoversi con rapidità e tenacia per arrivare a staccarsi dallo status quo. 4. Politica aziendale, l’ostilità di chi ha forti interessi in gioco. La Leadership del punto critico consentirà di superare i quattro ostacoli rapidamente e


di ottenere il supporto dei dipendenti nel distacco dallo status quo. Si basa sul concetto secondo cui, in ogni organizzazione, possono verificarsi in breve tempo cambiamenti fondamentali quando le convinzioni e le energie di una massa critica di persone creano un movimento di tipo epidemico verso un’idea. La chiave per sbloccare il movimento epidemico è la concentrazione, non la diffusione. Il punto di partenza è la considerazione che in ogni organizzazione ci sono persone, azioni e attività che esercitano un’influenza contagiosa sulla performance. Quindi per porre la sfida del cambiamento non bisogna suscitare una risposta ugualmente grande ma occorre porre il focus sull’identificazione e poi sullo sfruttamento dei fattori che esercitano un’influenza contagiosa sull’organizzazione. Superare l’ostacolo cognitivo Per superare l’ostacolo cognitivo, il leader del punto critico non si basa sui numeri ma si concentra su un’azione capace di esercitare un’influenza contagiosa, portando i dipendenti a vedere e sperimentare in prima persona la dura realtà e il basso livello di performance, ispirando un rapido cambiamento di mentalità che conduce a sperimentare la necessità di un cambiamento. Le ricerche di neuroscienze e scienza cognitiva, infatti, mostrano che le persone ricordano di più ciò che vedono e sperimentano e vi reagiscono più efficacemente. Superare l’ostacolo legato alle risorse Una volta accettata la necessità del cambiamento strategico da parte dell’organizzazione, i manager si trovano ad affrontare il problema della disponibilità scarsa di risorse e poiché acquisire nuove

risorse è un processo lungo e complesso, il leader del punto critico deve concentrarsi sull’obiettivo di moltiplicare il valore delle risorse già a disposizione. Superare l’ostacolo motivazionale Perché una nuova strategia diventi un vero e proprio movimento, le persone non devono limitarsi a riconoscere ciò che dev’essere fatto ma devono anche agire sulla base di questa consapevolezza in modo sensato e sostenuto nel tempo. Il leader del punto critico pone il focus sui fattori dall’influenza contagiosa sulla motivazione dei dipendenti. Gli sforzi vanno concentrati sui membri influenti dell’organizzazione, leader naturali, rispettati da tutti e persuasivi, puntando il riflettore sulle loro azioni e performance nell’attuazione della strategia ripetutamente e in modo visibile. Perché questa operazione funzioni, però, il tutto deve avvenire secondo il principio dell’equità dei processi - cioè con il coinvolgimento di tutte le persone necessarie nel processo - spiegando a tutti su che base è stata presa ogni decisione e i motivi per cui si verrà promossi o messi da parte in futuro. Inoltre, definendo chiaramente le aspettative relative alla performance dei dipendenti. Un altro fattore d’influenza è convincere i dipendenti che la sfida strategica sia superabile e realizzabile. Superare l’ostacolo politico Esistono potenti interessi costituiti che oppongono resistenza ai cambiamenti. Più aumentano le probabilità di cambiamento, più espliciti e accaniti saranno questi influenzatori negativi nel proteggere con ogni sforzo le proprie posizioni, la loro resistenza rischierà di danneggiare gravemente il processo di attuazione della strategia, arrivando persino a far perdere la rotta. Il leader del punto critico, per superare queste

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forze politiche, si concentra su tre fattori, individuandoli e affrontandoli: i sostenitori, coloro che hanno più da guadagnare dallo spostamento strategico, che vanno “sfruttati” al meglio coalizzandosi; gli oppositori, coloro che hanno più da perdere, che vanno “zittiti”, scoraggiati e isolati; il consigliere, un insider molto rispettato, che va inserito nel top management, che prevede in anticipo qualunque minaccia da affrontare nell’implementazione della nuova strategia. SESTO PRINCIPIO DELLA STRATEGIA OCEANO BLU: EQUITÀ DEI PROCESSI Per un’attuazione efficace della nuova strategia Oceano Blu, basata sulla spontanea volontà delle persone coinvolte, è fondamentale porre l’attenzione sulle difficoltà che si devono affrontare per portare i dipendenti a condividere con la mente e con il cuore la nuova strategia, sviluppando una cultura basata sulla fiducia, il commitment e la cooperazione spontanea, oltre che sul sostegno al Leader. Attuare una strategia Oceano Blu è una sfida ardua. Si chiede alle persone di lasciare le comodità del proprio territorio e cambiare il modo in cui hanno sempre lavorato. Per minimizzare i rischi manageriali legati alla sfiducia, alla mancanza di cooperazione e addirittura al sabotaggio, l’azienda, fin dall’inizio, deve integrare le modalità di attuazione nella strategia stessa, arrivando a una vera equità dei processi sia nella definizione della strategia che nella messa in pratica. Quando si esercita l’equità dei processi durante la fase di elaborazione della strategia, nei dipendenti si crea la fiducia nell’esistenza di regole chiare ed eque. Ciò li ispira a cooperare volontariamente

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nell’attuazione delle conseguenti scelte strategiche. La cooperazione volontaria implica la disponibilità a fare più del dovuto, a impiegare le proprie energie e la propria intraprendenza al meglio delle capacità. L’equità dei processi è definita da 3 elementi (le 3 C) che si rafforzano a vicenda: coinvolgimento, chiarimento e chiarezza dell’aspettative. La C di Coinvolgimento indica la necessità di coinvolgere ogni singola persona nelle scelte strategiche che in qualche modo la riguardano, invitandola a dare un input e permettendole di confutare, qualora lo desiderasse, i meriti delle idee e dei presupposti espressi da qualcun altro. Il coinvolgimento comunica il rispetto del management per le singole persone e le loro idee. Il coinvolgimento porta il management a fare scelte strategiche migliori e suscita, in tutte le persone coinvolte, un commitment più saldo verso la messa in pratica di queste decisioni. La C di Chiarimento indica la necessità che tutte le persone coinvolte e interessate dalle scelte strategiche definitive capiscano i motivi per cui sono state fatte. Spiegare la logica che sta alla base delle scelte effettuate suscita nei dipendenti la fiducia nel fatto che il management abbia preso in serie considerazione le loro opinioni e che abbia preso le sue decisioni con imparzialità, nell’interesse globale dell’azienda. Questo tipo di chiarimento porta ogni dipendente ad avere fiducia nelle buone intenzioni del management, anche se le sue idee non sono state accolte. La C di Chiarezza delle aspettative indica la necessità che il management, dopo aver


definito la strategia, esponga chiaramente le nuove regole del gioco. Per quanto alte possano essere le aspettative, i dipendenti dovrebbero conoscere fin da subito gli standard in base ai quali verranno giudicati e le penalità previste per gli inadempimenti. Qual è lo scopo della nuova strategia? Quali gli obiettivi da aggiungere e i milestone da superare? Quali le responsabilità di ognuno? Quando tutti e tre questi criteri sono presenti collettivamente, i dipendenti percepiscono davvero l’equità dei processi. I motivi per cui l’equità dei processi ha tutta questa importanza nell’influenzare positivamente l’atteggiamento e il comportamento dei dipendenti, si ricollegano al riconoscimento intellettuale ed emotivo. Dallo studio classico di Frederick Herzberg sulla motivazione emerse che il riconoscimento ispira una forte motivazione intrinseca, portandoci a fare più del dovuto e aprendoci alla cooperazione volontaria. Quando sentiamo che i nostri meriti intellettuali vengono riconosciuti (riconoscimento intellettuale), tutti noi siamo disposti a condividere le nostre conoscenze, anzi, ci sentiamo indotti a fare una buona impressione e a confermare le aspettative circa il nostro valore intellettuale suggerendo attivamente le proprie idee e condividendo ciò che sappiamo. Quando le nostre emozioni vengono riconosciute (riconoscimento emotivo), ci sentiamo emotivamente legati alla strategia e ispirati a dare il meglio di noi. Esiste il rovescio della medaglia, la violazione dell’equità dei processi, e con

essa la violazione del riconoscimento dei nostri meriti intellettuali ed emotivi. In questi casi i dipendenti arrivano spesso a fare pressioni affinché si faccia marcia indietro nell’applicazione di una strategia imposta in maniera iniqua; ciò avviene anche quando la strategia è ben studiata, e può svolgere un ruolo cruciale per il successo dell’azienda o risultare di grande beneficio per gli stessi dipendenti e il management. Grazie all’equità dei processi, i dipendenti tenderanno a impegnarsi per sostenere la strategia approvata anche quando non la considerano propizia o quando hanno l’impressione che sia in disaccordo con l’approccio strategico che ritengono più adeguato al loro reparto. Tutti i dipendenti si rendono conto che i compromessi e i sacrifici sono necessari, quando si vuole costruire un’azienda forte. Tutti accettano di sacrificarsi personalmente per brevi periodi, a seconda della necessità, al fine di portare avanti gli interessi a lungo termine dell’azienda. Quest’accettazione è condizionata all’equità dei processi.

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gli autori di MET GIUSEPPE ALITO

Dopo la laurea in Disegno Industriale ed un Master in Design Management, nel 1998 entra in BaleriItalia, azienda di prodotti di arredamento alta gamma, come Direttore tecnico del centro ricerche e dello sviluppo prodotti. Un anno dopo è in Ferrari come “design techniter” dove si occupa dello sviluppo delle postazioni di rilevamento telemetrico (muretto) utilizzate poi per i campionati del mondo F1 dal 2002 al 2004. Nel 2001 entra in Grand Soleil, azienda di prodotti di arredamento per esterni e di giocattoli mass market come engineering manager e con la responsabilità dello sviluppo prodotti per diventarne, due anni dopo, Responsabile R&S. All’attività professionale affianca la docenza di Design Management ai Master di Car Design e Industrial Design della Scuola Politecnica di Design SPD di Milano. Nel 2005 entra in Gio’Style Lifestyle come Responsabile Ricerca & Sviluppo. NICOLA LIPPI Ingegnere, consulente di direzione, dopo diversi anni trascorsi in aziende multinazionali di primaria importanza nelle aree di Ricerca e Sviluppo, collabora stabilmente con Galgano & Associati, storica società di consulenza italiana, occupandosi con passione e professionalità dei temi dello Sviluppo di Nuovi prodotti. Nell’ambito della professione ha contribuito con numerosi interventi in azienda ad organizzare e migliorare la capacità di sviluppare prodotti, aumentandone i contenuti in termini di innovazione, di rapporto tra costi e prestazioni nel rigido rispetto dei tempi. Metodo, visione sistemica, spirito imprenditoriale e capacità di sintesi sono i suoi principali fattori distintivi Esprime con ironia e leggerezza il suo libero pensiero sui temi dello sviluppo prodotto nel blog personale www.sviluppoprodotto.com

ALBERTO VIOLA È partner della Galgano & Associati Consulting srl, società di consulenza italiana che nel 2012 ha consolidato la sua leadership con 50 anni di attività: da quasi 15 opera nel campo della Consulenza di Direzione. Direttore della Divisione Industria, ha maturato in questi ultimi 15 anni numerose esperienze in Italia e all’estero in aziende industriali di diversi settori e dimensioni. Esperto di “lean organization” e di miglioramento continuo (kaizen) ha utilizzato in queste aziende le tecniche, gli strumenti e gli approcci specifici del Lean Production System. Relatore di numerosi seminari aziendali e interaziendali sulla “lena organization” nel 2005 e 2006 è stato docente del MIP Politecnico di Milano su queste tematiche. Nel 2012 ha pubblicato il libro “A Gemba! Guida operativa per la produzione snella”.

CORRADO RAVAIOLI 36 anni da Forlì. Giornalista professionista, lavora per un’emittente televisiva privata e collabora con testate locali e magazine on line. Si occupa di politica, economia, costume e società. Saltuariamente sviluppa contenuti per il web o redazionali industriali. E’ appassionato di cinema, musica, letteratura e nuovi media.

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THODO ALBERTO FISCHETTI Laureato in Ingegneria, nel corso di una carriera di oltre trent’anni in grandi industrie multinazionali dei settori della metalmeccanica, ingegneria, cosmesi e farmaceutica, ha maturato significative esperienze manageriali fino a far parte dell’alta direzione aziendale. Fra le varie responsabilità ricoperte è stato Project Manager in importanti progetti a livello di affiliata italiana e di gruppo europeo. Dal 2005 collabora nei settori della formazione, consulenza e coaching professionale con la Change Project. E’ autore di libri su project management, creatività e problem solving, coaching e gestione delle risorse umane.

COLLETTIVO NUUP NUUP®, Sustainable Creativity è un collettivo di designer e professionisti creativi che ha lo scopo di divulgare e promuovere comportamenti e oggetti sostenibili, basando il metodo progettuale sull’Analisi del Ciclo di Vita. Fanno parte del Collettivo Nuup: Barbara Pollini, Luca Pastore, Francesca Maccagnan, Federico Freddi, Serena Vinciguerra, Camilo Martinez, Gloria Escobar e Jared Jiménez. www.nuup.it

DANIELA DONATI Life & Corporate Coach, Trainer & Consultant, esperta nei Processi di innovazione attraverso l’applicazione delle tecniche di Creatività ai processi di miglioramento e allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi; opera dal 1998 nell’ambito della consulenza aziendale per grandi e piccole-medie imprese, pubbliche e private. Tra le sue esperienze più significative, ha effettuato progetti di innovazione in Aprilia, Arena, Barilla, Fiat, Granarolo, Moto Guzzi, Natuzzi, Telecom Italia.

PASQUALINA PIRONE Laureata in economia aziendale, analista crediti presso una nota banca ma soprattutto appassionata di economia in particolare della gestione di impresa sotto il profilo finanziario e sotto il profilo umano con forte interesse per le moderne teorie e le “rivoluzionarie “ visioni in ottica motivazionale della più strategica delle risorse aziendali, le Persone.

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PE INTERNATIONAL ITALY E GREENACTIONS INSIEME PER L’INNOVAZIONE E LA SOSTENIBILITA’ Greenactions e PE INTERNATIONAL Italy collaborano per aiutare le aziende del nostro paese ad approfittare delle opportunità della Green Economy. Le unisce la consapevolezza, basata sulla propria esperienza e su quella di molte aziende piccole e grandi, che la cultura della sostenibilità ed i suoi modelli operativi favoriscono l’innovazione, la riduzione dei costi, la conquista di nuovi mercati e il rafforzamento del brand. PE INTERNATIONAL Italy è la branch italiana di PE INTERNATIONAL, azienda leader mondiale di servizi e strumenti software per le funzioni aziendali orientate alla sostenibilità, processo che Greenactions è in grado di accompagnare mettendo a disposizione le competenze necessarie per l’analisi del business, la riduzione degli impatti ed il green marketing. GreenActions offre anche un supporto metodologico ed operativo al cliente nella introduzione in azienda del Lean Thinking che, aiutando la organizzazione nella sistematica rimozione degli sprechi in tutti i processi aziendali, rappresenta un approccio innovativo per il conseguimento dell’obiettivo di minimizzare gli impatti ambientali. Per quanto riguarda la comunicazione delle performance ambientali Greenactions può vantare competenze specifiche nello sviluppo di piani di comunicazione basati sulle piattaforme di social network, i cui valori (trasparenza e condivisione) e processi sono particolarmente coerenti con quelli di green marketing.

Per informazioni e contatti rivolgersi a Mail : mario.iesari@greenactions.it – phone:3351302303



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