Preview METHODO 4, novembre dicembre 2014

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METHODO4 Anno 1 Numero 4 novrembre-dicembre 2014 Prezzo di copertina 10 â‚Ź



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Foto di copertina ©Ottolobi

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Design Industriale a cura di G.Alito Metodi di sviluppo prodotto a cura di N.Lippi Metodi di produzione a cura di A.Viola L’intervista a cura di C.Ravaioli

Sommario

novembre-dicembre 2014

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Ecodesign e sostenibilità a cura di Collettivo NUUP®, sustainable creativity

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LCA a cura di M.Granchi e R.Bozzo

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Un libro in 10 minuti (management) a cura di P.Pirone

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Qualità del servizio a cura di M.Galgano

Project management a cura di A.Fischetti

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Software a cura di S.Di Pietro

Il futuro è oggi! intervista a Massimo Temporelli

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Gli autori di METHODO

Creatività a cura di D.Donati

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Le nostre Rubriche:

Pubblicità t/f 02.36798297 info@ottolobi.it


editoriale

METHODO

DIAMO UNA MANO ALLE IDEE O DIAMO UN’IDEA ALLE MANI?

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Siamo arrivati al quarto numero di METHODO, le rubriche proseguono nel loro percorso, le interviste si susseguono, impariamo a mettere insieme le idee, a dar loro una forma, un design, a curarne la qualità e a generarne l’anima, il software. METHODO si sta evolvendo, e presto diventerà un vero e proprio laboratorio virtuale, un HUB dove problemi e progetti convergeranno per trovare competenze e soluzioni. Ho già parlato nei precedenti numeri del mondo dei Makers e dei Fablab. Nei primi giorni di settembre si è tenuta a Roma la Maker Faire, l’evento dedicato al mondo dei cosiddetti “artigiani digitali”. Potevo mancare? No di certo, ero veramente curioso di vedere cosa ci fosse di concreto e di vero dietro ai tanti post virtuali di questo o quell’altro Fablab. Ho portato mio figlio, ho pensato che sarebbe stato divertente anche per lui, e lo è stato; lo è stato sia per la presenza di un intero padiglione per bambini, ma anche perchè tutta la manifestazione trasudava robots, macchine pazze tra cui un meraviglioso sparaelastici automatico e una serie di altre diavolerie. Nella sostanza questa Maker Faire mi è sembrata un’incredibile riunione di “nerds”, intenti a trovare qualsiasi scusa per mettere in pratica le loro capacità di animare ogni cosa con attuatori, sensori e schede Arduino. Il punto è proprio questo, là fuori (per chi vive in azienda) c’è un mondo di creativi, smanettoni, appassionati che non aspettano altro che trovare uno scopo, un tema su cui cimentarsi, non uno sparaelastici, un problema vero, un tema aziendale, un prodotto da migliorare, qualcosa che li costringa a cimentarsi con quella che — per ora e non so ancora per quanto — è l’economia prevalente, quella guidata dalle imprese tradizionali, con prodotti, modalità di sviluppo e canali di vendita abituali. La vera prima rivoluzione è questa, il prossimo passo sarà consentire alla nuova marea di inventori di accedere alla vera complessità, aprire loro le porte delle aziende, creare banalmente dei contest, sottoporre delle idee a chi, anche gratuitamente, è disposto a far vedere quanto vale e cosa è capace di fare: dare idee alle mani! Il punto di svolta non è certo, almeno per ora, la stampa 3d — ferma


Nicola Lippi

METHODO

alle tecnologie già consolidate 10 anni fa — ma all’incredibile facilità con cui oggi è possibile digitalizzare qualsiasi cosa, programmare, mettere insieme l’elettronica, dare vita agli oggetti e farli dialogare tra loro. La robotica sembra farla da padrona, il riassunto è proprio questo. Una robotica, che a dire il vero, è ancora sterile, almeno fino a quando le aziende non si accorgeranno di quante persone competenti ma soprattutto appassionate e motivate sono disponibili sul mercato. Ora staremo a vedere, mi auguro di trovare alla prossima Maker Faire le aziende vere, o almeno alcuni dei loro nuovi prodotti trasformati nelle mani di quella che vedo come unica e vera “open innovation”. METHODO, statene pur certi, in tutto questo sarà presente e darà il suo contributo. Buona lettura.

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a cura di Giuseppe Alito

Rubrica Design Industriale

LUSSO

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Prima di addentrarci nuovamente nel nostro labirintico percorso, vorrei invitare coloro che avranno la pazienza di leggere questa rubrica a fare un esperimento. Tenete nota di tutte quelle aziende che si apprestano al fallimento (oggi purtroppo basta aprire un qualsiasi quotidiano per trovarne a decine) e fate una piccola ricerca su google rispetto a quanto le stesse dichiaravano non molti mesi prima circa le azioni che avrebbero posto in essere nei confronti dei mercati. Non sempre, ma molto spesso, troverete di che essere perplessi. Basta dotarsi di pazienza e di memoria per scoprire quante (tante) imprese (evito di citarle per rispetto nei confronti dei dipendenti) in questo ultimo anno sono passate da atteggiamenti di belligeranza nei confronti del mercato (magari dopo aver fatto delle acquisizioni) al concordato preventivo. Il tutto nell’arco di una manciata di mesi! Di cosa credete si tratti? Di crisi strutturale? Di mancanza di linee di credito? Certamente no, questi ultimi sono effetti non cause. Queste aziende hanno cominciato il loro percorso maldestro prima che la crisi si presentasse così come oggi la conosciamo. Si tratta, invece, di defocalizzazione. Si tratta di “capitani d’impresa” incapaci di percepire il limite oltre il quale la propria azienda semplicemente non esiste. Essere focalizzati significa conoscere fino in fondo il proprio interlocutore perché è il solo che consente l’esistenza stessa dell’impresa. Questo non significa necessariamente che le aziende devono fare solo quello che vogliono i propri consumatori, ma assecondare l’evoluzione comportamentale

PUBBLICO E LUS con minime “forzature” che poi altro non sono che quell’elemento di valore aggiunto, di cui spesso parliamo, che rende distintivo un marchio rispetto a un altro. Percorrendo a ritroso il ragionamento vi accorgerete di quanto si sia ridotto il numero di “strade possibili” da intraprendere per impostare la nostra strategia di prodotto e andando avanti il loro numero sarà ancora inferiore. Ecco, questo è il compito della propedeutica. Risolvere quello che a mio avviso è oggi il problema più grande quando si scrive un modello di business. Ovvero un’apparente infinità di vie possibili dove spesso la scelta viene determinata dalle aspirazioni personali (dell’imprenditore) più che dalla lucida consapevolezza dei propri limiti in termini d’impresa. Abbiamo parlato di forma del mercato e della disposizione delle varie fasce di consumo all’interno di esso. Anche se molto superficialmente abbiamo, inoltre, definito le dinamiche che stanno alla base della scelta da parte dei diversi consumatori. Un altro tassello, che vorrei aggiungere oggi, riguarda una tendenza molto diffusa ma spesso non altrettanto evidente, quella che io chiamo “lo shopping dei surrogati”. Adesso più che in passato sarebbe interessante capire quanto sappiamo (noi consumatori tutti) di non comprare (sempre più spesso) né oggetti e nemmeno cose, ma solo surrogati a tutti i livelli di mercato e fasce di prezzo. Lo facciamo, ad esempio, quando acquistiamo un’utilitaria che è tale nella sostanza ma che nella forma ci riporta al mito di una grande auto sportiva. In questo


SSO PRIVATO

caso, al di là della necessità funzionale più che per un’idea, abbiamo scelto per una idealizzazione che è certamente cosa falsa ma risolutiva in termini di motivazione all’acquisto. Ciò vale per tutte le categorie merceologiche. Perché questo avviene non è un mistero. La rapida evoluzione tecnologica (di processi e prodotti) tende ad appiattire l’offerta, in termini di distintività, molto rapidamente non consentendo alle aziende di ammortare gli ingenti investimenti. Venendo, quindi, a mancare la leva della componente oggettiva (funzione) come elemento di valore aggiunto discriminate rispetto ai competitors, si cerca di oggettivare la componente soggettiva (forma) dandole una funzione, quella cioè evocativa

e in molti casi molto poco romantica. Mi viene da pensare, ad esempio, alla nuova Ford Fiesta, avete mai sentito parlare di Aston Martin? Ma poi ci sarebbe Colmar qualcosa a che vedere con Moncler? E la lotta senza fine tra Apple e Samsung? E Zara vs Balmain? Si potrebbe continuare all’infinito. Attenzione però, non stiamo parlando di repliche, ma di lecite quanto, a mio avviso, poco etiche scelte di tipo estetico. La cosa, come potete notare dagli esempi non riguarda solo le piccole imprese che copiano le grandi, anzi spesso avviene l’esatto contrario.

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a cura di Nicola Lippi

Rubrica Metodi di Sviluppo Prodotto

DESCRIVERE ED ELABORARE

ANALIZZANDO LE INTERFACCE

Negli articoli precedenti abbiamo ragionato su come condurre il progetto dai requisiti all’architettura, seguendo i passi che conducono attraverso la progettazione concettuale. Siamo arrivati a definire i criteri per scomporre e ricomporre il progetto definendone i candidati a divenire “moduli base”. Prima di passare alla progettazione vera e propria rimane un compito da svolgere: la definizione e descrizione delle interfacce, comprendere come queste abbiano un’influenza decisiva, l’ultima parola nella definizione di moduli e piattaforme. Di tutto questo tema ci occuperemo nel presente articolo. Modularizzare un prodotto nella maggior parte dei casi significa intervenire sulla sua architettura, un’adeguata analisi di quest’ultima è quindi fondamentale al fine di individuare vincoli e opportunità. Nella realtà si possono presentare diverse situazioni riassumibili in: 1. Prodotto già esistente, con funzionalità e prestazioni da mantenere 2. Prodotto nuovo, evoluzione di un prodotto esistente 3. Prodotto completamente nuovo Se siamo arrivati a questo punto dello sviluppo, quindi, dobbiamo immaginare di avere sviluppato diversi concept di architettura e di avere già scelto, secondo i criteri precedentemente descritti, quella definitiva. Vedremo quindi ora come rappresentare e descrivere un’architettura

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esistente affinandone il progetto dei moduli. Lo scopo di quest’analisi deve essere quello d’identificare vincoli e ulteriori opportunità. Le tecniche che andremo a descrivere si sono sviluppate nel tempo per cercare di descrivere sistemi che negli anni si sono evoluti diventando sempre più complessi, in particolare a causa dello sviluppo dell’elettronica. Gli strumenti che vedremo saranno sostanzialmente delle matrici che, a differenza dei modelli a blocchi, consentono di descrivere situazioni complesse senza complicare la rappresentazione grafica, specie in presenza di numerose relazioni e quindi funzioni tra le parti di un sistema. Ricordo che per descrivere un’architettura è necessario individuare gli elementi del sistema, le loro funzioni e relazioni, in pratica chi fa che cosa e verso chi. È necessario utilizzare uno strumento che consenta di analizzare sistemi composti da decine di parti diverse, la DSM, è lo strumento giusto.

DSM – DESIGN STRUCTURE MATRIX Lo strumento più semplice ma efficace per descrivere un’architettura è la DSM, ovvero “design structure matrix”. Il percorso di analisi si compone generalmente di 3 fasi: 1. Scomposizione del sistema in parti 2. Identificazione delle interazioni tra gli elementi 3. Raggruppamento (“clustering”) in moduli delle parti e dei componenti


I SISTEMI In pratica si imposta una matrice quadrata (e spesso simmetrica) dove in verticale e in orizzontale vengono riportati i componenti al livello di dettaglio di analisi che si è deciso d’intraprendere. In figura 1 è riportato l’esempio di un frigorifero dove semplicemente le x rappresentano le relazioni, cioè le parti che hanno una relazione funzionale (scambiano forze, informazioni, energia etc.)

Figura 1

L’aspetto interessante di questo tipo d’analisi è che ci consente di evidenziare la presenza di relazioni “prevalenti” e quindi d’individuare opportunità di ulteriore aggregazione e di creazione di cluster logici, in pratica di moduli. Nella figura 2 vediamo come porta e struttura rappresentino una “base” su cui tutti gli altri elementi poggiano (si relazionano)

e come vi siano degli aggregati importanti come filtro+valvola+serbatoio acqua; in pratica vi sono motivi di pensare, vista la forte interazione tra questi 3 elementi, che si possano integrare in un unico modulo. Figura 2

Spesso queste relazioni non emergono alla prima analisi, i sistemi, come abbiamo già scritto, possono essere molto complessi e con molte parti. Esistono tecniche di “clustering” — in pratica algoritmi matematici – che consentono di individuare “automaticamente” i raggruppamenti logici di parti che si relazionano maggiormente, creando le condizioni per individuare nuovi moduli o di unirne alcuni tra loro. Oltre a indicare l’esistenza di una relazione posso esprimerne la forza (del legame), o con i

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Rubrica Metodi di Produzione

a cura di Alberto Viola

LEAN PRODUCTION E GRANDI UN BINOMIO Abbiamo visto nell’ultimo numero di METHODO che il modello lean production prevede una “cassetta degli attrezzi” che ci mette a disposizione una serie di metodologie e strumenti il cui unico obiettivo è quello di ridurre gli sprechi presenti nel processo produttivo. In questo numero parleremo della “Total Productive Maintenance” (TPM) e del “Single Digit Minute Exchange of Dies” (SMED), tecniche messe a punto per aggredire e ridurre i problemi di affidabilità e flessibilità che si incontrano quando nel processo produttivo sono presenti impianti o macchine di elevata complessità. Ѐ ancora diffusa la convinzione che in contesti prevalentemente “capital intensive” il modello lean production non sia applicabile. Questa convinzione è in parte giustificata, visto che è innegabile che applicare il modello lean in presenza di grandi impianti e macchinari è sicuramente più complicato, ma non è sicuramente vera: basti pensare che il modello “lean” si è sviluppato originariamente nel settore dell’auto, dove di macchinari e impianti se ne trovano in abbondanza, soprattutto se andiamo a monte nel processo produttivo (lastrature, saldature, verniciature). Il punto chiave è che la presenza di macchine e impianti nel processo produttivo crea delle problematiche in termini di affidabilità e flessibilità che si riscontrano in minor

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misura in un processo ad alto contenuto di manodopera (settori “labour intensive”): ciò non significa che queste problematiche (che possiamo già chiamare sprechi) non possano essere almeno in parte risolte. La TPM — e lo SMED, che può essere considerata una tecnica interna allo stesso approccio — nasce proprio con questa finalità: l’obiettivo della TPM è intervenire sulle macchine e impianti del processo produttivo per aumentarne l’affidabilità e la flessibilità. Come per tutti gli altri strumenti del modello “lean”, questo obiettivo si ottiene intervenendo sugli sprechi, che nel caso delle macchine vengono declinati in quelle che in letteratura vengono chiamate le “6 grandi perdite”, qui di seguito riportate: •

guasti e set-up, 2 perdite che vanno a costituire il tempo di fermo dell’impianto, cioè lo spreco di tempo durante il quale le macchine non producono perché sono ferme; funzionamento a vuoto/microfermate e riduzioni di velocità, che rappresentano le perdite di velocità (perdite di processo, in termini di spreco), durante le quali, pur funzionando, le macchine non performano come si vorrebbe; scarti/rilavorazioni e perdite in avvio, durante le quali le macchine, pur producendo secondo gli standard di velocità stabiliti, producono scarti e/o pezzi che occorre rilavorare in quanto difettosi (spreco di prodotti difettosi).


I IMPIANTI: O INCONCILIABILE? Le 6 grandi perdite “sottraggono” alla macchina tempo utile per fare ciò che ci si aspetta da lei quando è disponibile: produrre pezzi buoni (metri, kg, etc.) nei tempi standard previsti. Sommando il tempo relativo alle 6 grandi perdite e sottraendolo al tempo totale disponibile si ottiene ciò che viene denominato il “tempo operativo a valore”, ovverossia il tempo durante il quale la macchine produce pezzi buoni secondo i tempi standard di produzione. Il rapporto tra il tempo operativo a valore e il tempo totale disponibile (detto anche tempo di apertura impianto) è chiamato O.E.E. – “Overall Equipment Effectiveness” (“efficienza complessiva dell’impianto”). Questo indicatore complessivo dell’efficienza di un impianto può essere stratificato in 3 componenti principali:

la disponibilità dell’impianto (D), data dal rapporto tra il tempo operativo (detto anche tempo di funzionamento) e il tempo totale disponibile; la performance dell’impianto (P), data dal rapporto tra tempo operativo netto (pari al tempo operativo – le perdite di velocità) e il tempo di funzionamento; la qualità (Q), che si ottiene rapportando i pezzi buoni ai pezzi totali prodotti, ivi inclusi pezzi scarto e pezzi difettosi da rilavorare. Un altro modo per calcolare la qualità è quello di rapportare il tempo operativo a valore (tempo ciclo standard * pezzi buoni) al tempo operativo netto (tempo ciclo standard * pezzi totali lavorati).

Noti D, P e Q, l’Overall Equipment Effectiveness è dato dal loro prodotto:

O.E.E. = D x P x Q

Fig.1 - L’O.E.E. – “Overall Equipment Effectiveness”

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Le aziende che credono nella Qualità e ne ricordano il valore strategico per lo sviluppo del nostro Paese

26ª CAMPAGNA NAZIONALE QUALITÀ E INNOVAZIONE promossa dal Gruppo Galgano

in ambito 20ª Settimana Europea della Qualità 10 - 16 novembre 2014

Conferita la

MEDAGLIA DI RAPPRESENTANZA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Patrocinio dei Ministeri: Sviluppo Economico, Difesa, Pubblica Amministrazione e Semplificazione

AGRO-FARMACEUTICO

ABOCA

ALIMENTARE | AGRO-ALIMENTARE

CONSORZIO TUTELA GRANA PADANO LAVAZZA MARENCO VINI Viticoltori in Strevi PERFETTI VAN MELLE PODERE ARGO Agriturismo Biologico SCAVOLINI SITLAND VENETA CUCINE

NOVARTIS VACCINES ROQUETTE ITALIA SANDOZ SANOFI SIAD SOL GROUP gas tecnici, medicinali e homecare UNIVAR ZAMBON ZOBELE GROUP

ASSICURAZIONI

COMMERCIO | GRANDE DISTRIBUZIONE

ARREDAMENTO

EUROP ASSISTANCE ITALIA GLOBAL ASSICURAZIONI GRUPPO ASSIMOCO

BIANCHI CUSCINETTI METRO ITALIA CASH AND CARRY NSK ITALIA

ASSOCIAZIONI | FONDAZIONI

AICA ASSOCIAZIONE ITALIANA PER L’INFORMATICA ED IL CALCOLO AUTOMATICO AVIS COMUNALE DI MILANO CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE CONFINDUSTRIA UMBRIA FONDAZIONE ENASARCO FONDAZIONE MEDIOLANUM ONLUS FONDAZIONE PROGETTO ARCA ONLUS FONDAZIONE SVILUPPO COMPETENZE AUTO

BMW ITALIA MOCAUTO GROUP BANCHE

BANCA MEDIOLANUM CASSA DI RISPARMIO DI ASTI FEDERLUS GRUPPO CREDITO VALTELLINESE ICCREA BANCAIMPRESA ING BANK N.V. SUCCURSALE DI MILANO RCI BANQUE SUCCURSALE ITALIANA VENETO BANCA BENI DI LARGO CONSUMO

ARTSANA GROUP FATER

CAMERE DI COMMERCIO

CAMERA DI COMMERCIO DI ANCONA CAMERA DI COMMERCIO DI TREVISO CARTA

IPI ASEPTIC PACKAGING SYSTEMS TECNOCARTA CHIMICO | FARMACEUTICO | COSMESI

A.MENARINI ABBVIE ALPA ANGELINI ASTELLAS PHARMA BASF the chemical company BECTON DICKINSON BIOFUTURA PHARMA BRISTOL MYERS SQUIBB CIP4 CLARIANT FINE FOODS & PHARMACEUTICALS GRUPPO BOERO KEDRION BIOPHARMA L’ERBOLARIO LODI NOVARTIS FARMA

COMPONENTI AUTO

APOLLO COOPERATIVA VOLOENTIERI DELPHI AUTOMOTIVE SYSTEMS DELPHI CONNECTION SYSTEMS MAGNETI MARELLI – Powertrain MECCANOTECNICA UMBRA TIBERINA WEBASTO EDITORIA

ABRUZZO MAGAZINE AGENDA DEL GIORNALISTA BUSINESSCOMMUNITY.IT DEA EDIZIONI RIVISTA ECO DM&C MAGAZINE ECCELLERE BUSINESS COMMUNITY EDIFORUM: Daily Media, Daily Net, Mediaforum, Netforum GUERINI E ASSOCIATI GUERINI NEXT GRUPPO MAGGIOLI HARVARD BUSINESS REVIEW ITALIA L’AMBIENTE GIRSA MAGAZINE QUALITA’ MARIO MODICA EDITORE: Spot andWeb MEDIA KEY METHODO MONDOLIBERO PROMOTION MAGAZINE PUBLITEC: Costruire Stampi, Deformazione, InMotion, Soluzioni di Assemblaggio&Meccatronica, Applicazioni Laser, NewsMec, Elemento Tubo RIVISTA IL PERITO INDUSTRIALE TECNA EDITRICE: L&M Leadership & Management, ICT Security TVN MEDIA GROUP: Pubblicità Italia, Pubblicità Italia Today, AdV Strategie di Comunicazione V+ idee e strumenti per vendere di più e meglio ELETTRODOMESTICI

BERTAZZONI BITRON INDUSTRIE ELETTROTECNICA ROLD FABER

Convegni organizzati con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri

“Costruire il futuro attraverso l’Innovazione. Esperienze e metodologie per accelerare la crescita”

Venaria Reale (TO), 26 / 11, in collaborazione con MAGNETI MARELLI

“Il valore etico della Qualità, un fattore chiave per lo sviluppo culturale, sociale ed economico del nostro Paese” Milano, 26 / 11 | Vicenza, 3 / 12, in collaborazione con ZAMBON | Roma, (in programma a dicembre)

INDESIT COMPANY TVS ELETTROMECCANICO | MAT. ELETTRICO

ABB - ABB SACE Division ANSALDO ENERGIA BTICINO WEIDMÜLLER

ELETTRONICO | ELETTROTECNICO

CELLULARLINE VISHAY SEMICONDUCTOR ITALIANA ENTI DI CERTIFICAZIONE

CERTIQUALITY SGS ITALIA

ENTI CULTURALI E DI FORMAZIONE

I.I.S. ISTITUTO PACIOLI CENTODIECI - MEDIOLANUM CORPORATE UNIVERSITY ENTI PUBBLICI

AVEPA AZIENDA SANITARIA TO 3 PIEMONETE COMUNE DI SEGRATE COMUNE SESTO FIORENTINO - Servizio Educativo COMUNE DI SETTIMO MILANESE CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO CONSORZIO ZAI INTERPORTO QUADRANTE EUROPA ENAC ENTE NAZIONALE PER L’AVIAZIONE CIVILE

GEA PROCOMAC GRUPPO ATURIA IGV GROUP I.M.M. HYDRAULICS INGERSOLL RAND AIR INNSE CILINDRI LOMBARDINI METAL WORK componenti per automazione pneumatica MONDIAL MOTOVARIO MUSTAD tecnologia delle viti NARDI ROBUR SCM GROUP tecnologie per il legno SLIMPA TOSTI VANESSA ZUCCHETTI RUBINETTERIA METALLURGICO

FIAMM LAMINAZIONE SOTTILE GROUP PETROLIFERO | ENERGETICO

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CENTRO CONGRESSI VILLE PONTI CIR FOOD

Aziende aderenti da oltre 10 anni


a cura di Corrado Ravaioli

ATTEGGIAMENTO

Paolo Casadei, CEO di ZAL Telecomunicazioni, è un vulcano di iniziative imprenditoriali. Terminati gli studi, ha avviato la prima società con alcuni compagni di facoltà e l’ultima avventura risale a pochi mesi fa, con il lancio di un sito di aste al rialzo on line per viaggi di lusso. La sfida più importante è quella lanciata al mercato della telefonia. Da due anni infatti ZAL Telecomunicazioni, fondata insieme a Giacomo Stella, offre servizi di telefonia fissa e connettività in concorrenza ai grandi operatori. Quali sono le tappe fondamentali del suo percorso professionale e formativo? Io sono cesenate, e lo dico con orgoglio perché Cesena è una bellissima città ed è ricca di oppurtunità. Sono un marito fortunato e padre di tre figli piccoli per cui il tempo libero lo dedico a loro, oltre agli amici più stretti. Amo il mare e la montagna, e da sempre sono appassionato di tecnologia e musica. Mi sono laureato a Bologna in Economia e Commercio con una tesi dedicata all’implementazione del business plan di un’impresa di servizi alle aziende. Un progetto che poi si è tradotto in realtà, nel senso che la mia prima vera esperienza lavorativa — realizzata insieme a campagni di facoltà e alcuni senior — è

Rubrica Intervista

QUANDO IL METODO È UN

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Rubrica Project management

a cura di Alberto Fischetti

L’ATTEGGIAMENTO VERSO IL L Nella nostra lunga esperienza di lavoro maturata in grandi aziende, in cui abbiamo avuto anche la notevole responsabilità dello sviluppo dei nostri collaboratori, ci siamo spesso posti alcuni interrogativi: • •

Come viene vissuto il lavoro? Perché spesso viene assunto, nello svolgimento dei propri compiti, un atteggiamento passivo e privo di stimoli per la creatività? Perché interesse e motivazione verso ciò che si fa sono elementi fortemente trainanti in attività al di fuori dell’ambiente di lavoro e invece sono inesistenti quando si deve lavorare?

Noi non accettiamo questa visione pessimistica (anche se qualcuno diceva che il pessimista è “un ottimista con esperienza”!) Non vogliamo certamente neppure sostenere il tragicamente ironico motto “Arbeit macht frei” che sovrastava l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz, anche se Viktor E. Frankl, psicologo fondatore della logoterapia che fu deportato ad Auschwitz, nel libro “Man’s search for meaning” ci dice che nella drammatica esperienza dei campi di sterminio aveva maggiori possibilità di sopravvivenza chi riusciva a porsi degli obiettivi anziché subire passivamente il proprio destino.

Cercheremo di fare qualche considerazione sugli atteggiamenti delle persone di fronte al lavoro e di fornire qualche possibile risposta a questi interrogativi. LA PERCEZIONE DEL LAVORO

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Il modo certamente peggiore possibile di vedere il lavoro è quello che deriva dalla narrazione biblica: il libro della Genesi dell’Antico Testamento ci riferisce che il lavoro è una punizione inflitta all’uomo da Dio (alla donna fu riservato il castigo dei dolori del parto) a seguito del peccato originale. Da questa terribile decisione divina nasce quindi la visione del lavoro come male necessario per procurare soddisfazione ai propri bisogni primari o, nel caso più fortunato, per procurarsi i mezzi necessari a svolgere le attività che più piacciono.

Nella nostra esperienza di lavoro nelle aziende abbiamo incontrato una casistica estremamente ampia di atteggiamenti verso il lavoro: da persone che letteralmente vivevano per esso a persone che subivano il lavoro come un’inevitabile malattia a loro disgraziatamente capitata. Di fronte alla vastità di questo panorama ci siamo quindi posti spesso la domanda di cosa stimoli gli individui situati al primo


LAVORO E LA CREATIVITÀ estremo e che cosa influisca negativamente sugli individui posti all’estremo opposto. Molte teorie, che noi sostanzialmente condividiamo, affermano che tutte le persone nascono con un uguale potenziale intellettuale, e che sono dei fattori d’interferenza a far sì che la performance degli individui stessi sia diversa da caso a caso. Myles Downey nel suo libro “Effective coaching” ha indicato tale fatto nell’equazione:

dalla motivazione. Più alta è la motivazione più la retta competenza/performance è inclinata verso l’alto.

performance = potenziale – interferenza Riteniamo quindi che sia necessario esaminare quali possano essere gli elementi di interferenza che impediscono che il potenziale si trasformi integralmente o in massima parte in performance nel lavoro. Poiché abbiamo iniziato con l’equazione di Myles Downey, facciamo ricorso a un’altra equazione, sperando di non essere accusati di approccio divulgativo di bassa lega a causa di questo ricorso alla matematica: performance = (atteggiamenti + conoscenze + skill) x motivazione Da quest’ultima equazione deduciamo che la performance cresce linearmente con quella che chiamiamo “competenza” (l’insieme di atteggiamenti, conoscenze tecniche e skill, ossia capacità “trasversali” o “comportamentali” quali la comunicazione, la relazionalità interpersonale e altre) secondo una retta il cui coefficiente angolare è dato

L’argomento della motivazione richiederebbe da solo una serie di ponderosi trattati. Ci limitiamo a dire che per avere sul lavoro un atteggiamento positivo che ci permetta di applicare a esso il patrimonio delle nostre caratteristiche di creatività e intelligenza, dobbiamo anzitutto riuscire a essere motivati, dato che la motivazione è quell’elemento interiore che ci spinge a fare le cose. Se le organizzazioni tenessero presenti i concetti fin qui sommariamente enunciati, dovrebbero creare i presupposti per far sì che ogni collaboratore trovasse un terreno fertile per far crescere la propria motivazione al lavoro e realizzare in esso il proprio potenziale intellettuale. Un brillante e divertentissimo consulente e autore di importanti libri di management,

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a cura di Silvestro Di Pietro

Rubrica Software

SVILUPPO SOFTWARE: PERSEG

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VANTAGGIO STRATEGICO Mia suocera si stupiva sempre quando arrivavamo, io e mia moglie, con la spesa fatta al supermercato: guardava i pacchi di pasta e scuoteva la testa dicendo “pasta comperata… la pasta si fa in casa, non ci vuole nulla…”. Certo, noi ridevamo di questo atteggiamento faticando a comprendere perché ritenevamo naturale magiare la pasta acquistata in pacchi al supermercato, solo per accorgersi con il tempo che mangiare la pasta fatta in casa è diventata un’occasione, un giorno solenne, mentre con mia suocera era una festa quasi quotidiana. Per la verità l’esempio non calza, è valido solo per introdurre il concetto di qualità che nasce dagli atteggiamenti quotidiani non dettati dalla necessità contingente. Nella vita reale, e venendo al nostro appuntamento bimestrale con il software, dobbiamo far collimare il nostro esempio con la realtà degli affari. Possiamo dire che oggi il software rappresenta uno degli ingredienti fondamentali per la sopravvivenza di una qualsiasi impresa, a prescindere dalla sua dimensione. Non solo, ma mano a mano che proseguiamo il nostro cammino sulla strada del progresso nell’era dell’informazione il software rappresenta uno dei fattori cruciali per la crescita, e in tempi difficili come quelli che stiamo passando, anche per la sua sopravvivenza stessa. Il lettore mi vorrà perdonare se non scendo subito nel dettaglio, ma vorrei prima di tutto focalizzare il nostro punto di vista su questo: “Nel secolo dell’informazione in un’impresa

non è delegabile la politica aziendale, non è delegabile il suo flusso informativo: questi sono ingredienti fondamentali per il successo ed il successo non è delegabile per definizione”. Per dipingere la situazione dello sviluppo software nelle aziende in Italia alle soglie del 2014 è necessario fare un piccolo passo indietro. Negli ultimi venti anni sono state applicate diverse strategie riguardo l’Information Tecnology: la nascita dei personal computer ha introdotto la “decentralizzazione” con struttura “client/ server” che suggeriva l’idea che molta dell’elaborazione dati, principalmente quella riguardante il lavoro d’ufficio, potesse essere attuata con tanti singoli computers. Si è quindi verificata una crescita tumultuosa di personal computers sulle scrivanie, crescita spinta dai programmi che offrivano principalmente una qualche automazione d’ufficio (word ed excel). Di fatto la mancanza di un’infrastruttura di rete condivisa – che è diventata disponibile solo dopo la seconda metà degli anni novanta – non lasciava molto spazio ad altre implementazioni su larga scala. Solo chi aveva nell’informatica un diretto collegamento con il prodotto – principalmente le istituzioni bancarie e finanziarie – ha investito nello sviluppo interno di applicazioni informatiche e accresciuto nel tempo un’infrastruttura di rete. A partire dalla seconda metà degli anni novanta altre realtà, oltre a quelle finanziarie e bancarie, hanno cominciato a investire nell’informatica con successo, escludendo


GUIRE UN O TATTICO? il flop iniziale della “new economy”, con l’introduzione d’innovazione che non fosse rappresentata solo dall’ottimizzazione della contabilità: le aziende che si occupano di logistica e, non appena la rete è diventata disponibile a livello capillare, le compagnie aeree. Il resto dell’industria e del terziario, salvo sporadici esempi di successo, sono rimaste legate a una struttura decentralizzata e destrutturata e questo fatto è risultato deleterio per molti che non hanno potuto quindi crescere in maniera adeguata. Uno dei fattori sottovalutati – e che sono stati considerati in ritardo – è stato il TCO¹ che ha gravato pesantemente sull’informatica aziendale: mano a mano che i personal computer diventavano obsoleti ogni due/tre anni il TCO ha assorbito in maniera costante enormi quantità d’investimenti. Chiunque si sia posto il problema di quantificare questo valore si sarà reso conto di due fatti: il primo è che è cresciuto nel tempo con il crescere del costo delle licenze dei sistemi operativi che consentono il funzionamento dei personal computers sia delle licenze che servono a questi per funzionare. Il secondo è che il sistema operativo più diffuso nel mondo business era (speriamo non sia ancora) così mal congegnato da rendere necessaria una continua manutenzione da effettuarsi tramite personale specializzato. Di fatto il TCO ha reso impossibile effettuare investimenti sottraendo risorse all’innovazione e sopratutto allo sviluppo

interno. Il settore informatico, almeno in Italia, si è addormentato sulla manutenzione di una infrastruttura informatica inefficiente. La sola risposta economicamente valida che si poteva elargire alle aziende strozzate dal TCO fu quella di destinare esternamente un servizio di manutenzione e successivamente — sfruttando il canale di vendita aperto dalla manutenzione — offrire soluzioni informatiche preconfezionate, spesso poco più che dilettantesche. La cosa, apparentemente vantaggiosa sul profilo economico, ha riservato nel tempo dei risvolti grotteschi, tanto che capita frequentemente di vedere infrastrutture informatiche che dovrebbero avere un’affidabilità “five nine” (cioè affidabili al 99,999%) funzionare con sistemi assolutamente inaffidabili (capita ancora oggi di vedere dei “blue screen of death”, l’errore fatale nel sistema operativo più utilizzato, in biglietterie automatiche, pos, sportelli di accettazione di ospedali, istituzioni pubbliche etc.). Non solo, ma mantenere questo parco macchine formato da personal computer e piccoli servers ha veicolato molta della forza lavoro alla semplice manutenzione, distraendo talenti ed energie dall’innovazione e sviluppo, rendendo risorse importanti precarie, incapaci di essere impiegate nello sviluppo di applicazioni e spesso incompetenti ad affrontare la continua evoluzione tecnologica. Il TCO e la conseguente delegazione in appalto della gestione

1 Total Cost of Ownership: questo valore viene “utilizzato per calcolare tutti i costi del ciclo di vita di un’apparecchiatura informatica IT, per l’acquisto, l’installazione, la gestione, la manutenzione e il suo smantellamento.” (Wikipedia)

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Rubrica Creatività

a cura di Daniela Donati

ARS CREANDI: TECNICHE DI SPUNTI PER IL CAMBIAMEN «Il futuro non è più quello di una volta»... da Paul Valéry in giù, questa frase viene solitamente attribuita a chi pone l’accento (almeno in campo innovazione) sul fatto che è sempre più difficile pensare di poter prevedere quali saranno i prossimi trend del mercato, quali le abitudini dei consumatori o quanto potrà resistere un brevetto di un’innovazione breakthrough prima di essere superato da una nuova e più fortunata invenzione. Il lettore frettoloso potrebbe allora dedurne che a poco varrebbe esercitare la propria capacità d’immaginazione se appunto, immaginare e pre-vedere non è proficuo (o quanto meno è faccenda molto complessa). Sbagliato! Il punto non è tanto se allenare o meno la propria immaginazione (basti qui ricordare l’ultimo articolo di questa rubrica chiuso proprio con una citazione di Einstein a riguardo); il punto è da dove partire, cosa immaginare, come guidare la nostra immaginazione.

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Un ostacolo si pone subito anche per i più motivati ad apprendere un nuovo approccio e delle nuove tecniche e modalità di pensiero. Si tratta di superare (o tenere in sospeso) una delle leggi che siamo stati abituati a considerare come l’unica in grado di spiegare le cose che ci circondano: la legge di causa-effetto. Secondo questa regola il passato è più potente del presente e lo determina. L’effetto vissuto nel presente è in relazione a una causa che si colloca nel passato.

Per superare l’impasse possiamo ricorrere a un filosofo dell’antica Grecia, Anassagora, decisamente controcorrente rispetto i suoi contemporanei che, non a caso, lo definirono matto. Egli sosteneva che fosse il futuro a determinare la causa, e non il presente. Ciò che lui pensava era che non fosse la causa dell’azione che ne determinava l’avvento, bensì lo scopo. Il principio di causa-scopo, piuttosto che quello causa-effetto, ci porta a cambiare e rivedere le cause del nostro agire: ad esempio, stai leggendo questo articolo perché tu possa trarne beneficio (scopo), e


I CREATIVITÀ E

NTO

“filosofia” di vita è un concetto che tratteremo eventualmente altrove (e i lettori più affezionati, che ci seguono dai primi numeri, sono certa non si saranno stupiti!). Riprendiamo il punto di partenza: da dove partire, cosa immaginare, come guidare la nostra immaginazione? La risposta è semplice: inizia dalla fine. Parti dal chiederti qual è lo scopo per cui stai immaginando una soluzione e soprattutto immaginala già realizzata, visualizza, cosa succederà quando la tua idea avrà successo; da che cosa ti accorgerai di aver preso la giusta direzione?

non perché i tuoi occhi scorrono sul monitor o sulla carta stampata (causa). Imparare a ragionare usando questo diverso paradigma di pensiero ci porterà a non giustificare le situazioni che ci accadono come predeterminate da qualcuno per noi, piuttosto a cercare una motivazione in esse. Arrivati a questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi: “E cosa c’entra tutto questo con l’immaginazione?”; “Ma questa è una rubrica di filosofia o di creatività?”. Il fatto che la creatività sia anche una

Gli appassionati di golf potranno riconoscere qui una delle tecniche più efficaci per garantirsi un putt: anticiparlo nella propria mente, visualizzare la palla mentre va diritta in buca e mantenere questa immagine in primo piano nella propria mente; quindi lanciarsi in uno swing senza pensare a non buttare la palla nell’acqua (che poi è un po’ come dire a tuo figlio piccolo che si appresta a mangiare il suo bel piatto di spaghetti: “non ti sporcare la maglietta col sugo”). Perché la mente non conosce la negazione, non riconosce il non; volete una prova? Ok, allora NON pensare a una Ferrari. Qual è la prima cosa che hai visualizzato? Probabilmente la bella sagoma della rossa col cavallino! Il motivo è molto semplice: quando focalizziamo la nostra attenzione sulle cose che non vogliamo (“non voglio arrivare in ritardo”, “non voglio perdere”, “non voglio fare brutta figura”) la mente non presta ascolto al fatto che non desideriamo

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Rubrica Ecodesign e sostenibilità

a cura di NUUP, Sustainable Creativity®. Revisione del testo e coordinamento articolo a cura di Luca Pastore per NUUP

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DESIGN BIO-ISPIRATO Biomimesi: la natura come risorsa per il design La natura, caratterizzata da un continuo mutamento degli organismi, ha generato meccanismi, strutture e materiali di estremo valore, molto spesso superiori ai corrispondenti artefatti dell’uomo, in particolare dal punto di vista ambientale ed è proprio da tale ingegnosità che possiamo prendere spunto per osservare il mondo da un’altra prospettiva. È da questa coscienza che nasce la biomimesi (dal greco bios = vita e mimesis = imitazione), la disciplina che studia e imita le caratteristiche degli esseri viventi, avendo come obiettivo il miglioramento delle attività e delle tecnologie sviluppate dall’uomo. Spesso abbiamo a che fare con qualcosa che ha origine da questo tipo di approccio progettuale come, ad esempio, la produzione di materiali impermeabili ispirata dal fogliame di alcune piante oppure dai gechi, capaci di camminare su pareti verticali, che hanno ispirato così lo sviluppo di nuovi materiali adesivi. Se ci riflettiamo bene, designer, architetti e ingegneri hanno a disposizione gli “esperimenti” che l’evoluzione naturale ha perfezionato in milioni di anni da cui possono trarre ispirazione! Sarebbe difficile fare di meglio. Come affermato da Janine M. Benyus, biologa e divulgatrice scientifica, è sulle spalle dei progettisti che grava l’impegno di creare le premesse per una nuova consapevolezza, sono loro che devono immaginarsi nuove tipologie di prodotti,

sistemi, network e trasporti, in altre parole, sono loro a doversi re-immaginare un mondo più sostenibile: la natura è la migliore fonte di ispirazione possibile nella ricerca di soluzioni ai problemi dell’uomo stesso. Inoltre sostiene che sicuramente ci vuole una certa umiltà per accettare che un microrganismo, sia come individuo che come gruppo, possa insegnarci qualcosa. Afferma: «Ancor oggi incontro ingegneri che mi guardano e dicono: “Che cosa mai posso imparare da un polipo?” E invece più conosciamo queste specie “altre” e più restiamo ammirati da come abbiano potuto risolvere i loro problemi, non solo non distruggendo l’ambiente, ma al contrario conferendogli valore aggiunto». La presa d’atto razionale difficilmente avverrà se alle persone non viene proposta un’effettiva offerta di comportamenti e prodotti alternativi. «Diamo opzioni di prodotti, processi e tecnologie alternative su vasta scala e vedremo i comportamenti cambiare su vasta scala», conclude Janine M. Benyus. La natura è una vera e propria “miniera di progetti” che aspettano solo di essere scoperti e presi a modello per la collettività. È davvero importante imparare dagli altri esseri viventi come soddisfare le nostre necessità fondamentali, senza compromettere il futuro delle generazioni a venire. In tale scenario si colloca un nuovo approccio progettuale definito Hybrid Design che, come affronteremo più avanti, propone di trasferire logiche, codici e qualità complesse dei sistemi biologici al design di prodotti e servizi sostenibili.


P, Sustainable Creativity®

“La natura come modello, La natura come misura La natura come mentore La natura va con la luce del sole La natura utilizza solo l’energia di cui ha bisogno La natura adatta la forma alla funzione La natura ricicla tutto La natura ricompensa la cooperazione La natura conta sulla diversità La natura richiede perizia locale La natura limita gli eccessi dall’interno La natura utilizza il potere dei limiti”

in diversi gruppi di organismi: vertebrati e invertebrati marini, animali terrestri e microrganismi ma la maggior parte di loro è presente negli oceani. Lo scienziato Shimomura (2012) differenzia gli organismi bioluminescenti presenti in natura attraverso piccoli gruppi, rappresentati nel grafico sottostante da Eleanor Lutz (2014):

Janine M. Benyus Bioluminescenza: un mondo da scoprire Il sogno di utilizzare le lucciole dentro un barattolo di vetro per illuminare la nostra casa potrebbe diventare una realtà, di certo non a livello letterale, ma è già reale lo studio e l’utilizzo della luciferina/luciferasi, componenti fondamentali negli organismi bioluminescenti. La bioluminescenza è un fenomeno che si presenta attraverso diverse reazioni in cui l’energia chimica viene convertita in energia luminosa, tutte queste reazioni hanno in comune l’ossidazione di un substrato, la luciferina/luciferasi, che apporta così l’energia utile per generare uno stato di eccitazione. Già nel passato si era pensato a questa possibilità, tanto che Benjamin Franklin quando scoprì che la luce poteva generarsi attraverso l’elettricità, pensò altresì che anche la luce proveniente dal mare fosse un fenomeno elettrico, scoprendo poi la falsità di questa tesi. Troviamo fenomeni di bioluminescenza

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IL FUTURO È O

Intervista a Massimo Temporelli: Educational Director, scrittore e storico della tecnologia, lavora da più di per diffondere la cultura dell’innovazione in ogni tipo scuole elementari alle più importanti università milane

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OGGI!

fIsico, quindici anni o di aula, dalle esi.

Ho letto, all’interno del blog presente sul vostro sito www.thefablab.it, una tua frase che mi ha colpita particolarmente, dice: “non sono state molte le rivoluzioni culturali che hanno visto il nostro paese protagonista, ma tutte quelle che mi tornano in mente puzzano terribilmente di futuro”. Ti chiedo: che aria stai respirando, oggi, attorno a te? All’interno dei FabLab, senza ombra di dubbio, si respira aria di futuro. Qui da noi c’è un nuovo modo di affrontare il lavoro, fatto da team di persone che si formano e si sciolgono in modo molto flessibile, a volte anche nella stessa giornata, senza un capo vero e proprio. Semplificando, un giovane creativo entra qui con un’idea e se quest’idea piace alla comunità di chi frequenta il FabLab, e più in generale anche a chi lo gestisce, allora quello diventa un progetto che incubiamo e sul quale iniziamo a lavorare. Tutto questo senza grandi formalità ma mettendo al centro dell’attenzione il progetto stesso. Come vedi, mettere in discussione i processi lavorativi come li conosciamo oggi, vuol dire già parlare di futuro. Oggi se devi far partire una startup che ha a che fare con l’hardware, cioè se tu hai un oggetto che vuoi produrre, il percorso da intraprendere è davvero molto lungo e dispendioso. Tralasciando per un attimo l’idea del prodotto che si è deciso di mettere sul mercato, il problema è riuscire a trovare qualcuno che realizzi il prototipo — con una spesa pari a qualche migliaia di euro — oltre a quello di trovare un’azienda che lo produca, cioè che lo renda industriale e quindi riproducibile in stampi. Io non me ne sono mai occupato personalmente, ma da quello che so la produzione di uno stampo ha un costo che parte da 10 mila euro in avanti. Insomma, sono tanti passi, ognuno di questi ha una difficoltà, specie in Italia e soprattutto per i giovani. Mentre da noi, in poco tempo e con spesa molto contenuta, se tu hai un’idea e vuoi entrare su un mercato piccolo — perché i FabLab ti permettono di fare piccole produzioni — puoi concretizzare il tuo progetto.

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Rubrica LCA

a cura di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

LA GESTIONE DELL’EN Introduzione La gestione dei flussi energetici in azienda riveste sempre più un aspetto d’importanza strategica per il controllo dei costi operativi diretti. Da una parte l’aumento del prezzo dell’energia spinge le aziende a interessarsi sempre di più a come viene gestita questa risorsa, che ha un sempre maggiore impatto sull’economia dell’impresa; ma dall’altra anche lo sviluppo tecnologico e gestionale di questo aspetto propone maggiori strumenti per migliorare l’approccio dell’azienda e tagliare costi vivi. Quindi, visto il reale e comprovato beneficio economico derivante da una gestione oculata del proprio consumo di energia e l’aumentare degli strumenti che ci consentono di farlo, diventa anche più importante elaborare una strategia per tenere sotto controllo le performance aziendali, per selezionare e monitorare gli strumenti che hanno una maggiore efficienza di riduzione per il nostro tipo di consumo energetico: differenti strumenti adottati su differenti stili di consumo forniscono diversi risultati.

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Il sistema di gestione dell’energia diventa quindi uno strumento molto importante nel processo di riduzione e di ricerca della massima efficienza in azienda, definendo ruoli, responsabilità, obiettivi e indicatori per tendere verso il miglioramento continuo. Sebbene la norma ISO 14001 dia già qualche possibilità per integrare obiettivi energetici nel proprio sistema di gestione ambientale, esiste da qualche anno la norma dedicata “UNI CEI EN 16001:2009 Sistemi

di gestione dell’energia – Requisiti e linee guida per l’uso”. Essa permette alle aziende di raggiungere obiettivi strategici: ridurre i costi energetici mediante il miglioramento dell’efficienza energetica e conseguire un vantaggio competitivo distinguendosi sul mercato come azienda attenta agli aspetti energetici e ambientali.

La norma 16001 e la legislazione di riferimento La norma definisce i requisiti del sistema di gestione dell’energia che permettono a un’organizzazione di attuare una politica energetica e raggiungere gli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica. La UNI CEI EN 16001 considera gli obblighi legislativi previsti per l’organizzazione senza stabilire dei requisiti di prestazione energetica, ma indicando i requisiti del sistema per conseguire un uso più efficiente dell’energia. Il modello del sistema di gestione dell’energia proposto dalla 16001 è quello classico dei sistemi di gestione della qualità, dell’ambiente e della sicurezza, basato sul ciclo PDCA. È un modello rivolto al miglioramento continuo attraverso un’azione ciclica costituita da quattro fasi: P – Plan (Pianificare); D – Do (Attuare); C – Check (Verificare); A – Act (Agire, aggiustare). Per raggiungere un utilizzo ottimale delle


NERGIA La prima fase è di raccolta dei dati (sia documentale che con rilievi in campo) per acquisire tutte le informazioni relative alle prestazioni dell’involucro edilizio e degli impianti, le modalità gestionali e le condizioni ambientali che possono influenzare i consumi energetici. Dopo la raccolta dati si implementa un registro delle opportunità di risparmio energetico in cui ogni aspetto energetico viene analizzato nel dettaglio definendo quali siano le attività prioritarie e i traguardi da raggiungere. Stilando un elenco di opportunità di miglioramento affiancate a un punteggio, si crea una classifica d’interventi prioritari che possono dare maggiori benefici in un periodo di tempo definito. risorse e un miglioramento continuo dei processi bisogna far ruotare costantemente le quattro fasi (processo iterativo). La norma 16001 descrive come questo modello si applichi ai sistemi di gestione dell’energia.

Politica energetica e pianificazione Per poter pianificare le attività in campo energetico è necessario conoscere l’attuale situazione dell’organizzazione svolgendo un’analisi iniziale che permette di individuare gli aspetti energetici maggiormente significativi. L’analisi iniziale ha quindi un’importanza molto elevata e deve essere condotta da un tecnico di comprovata esperienza.

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Il sistema di gestione dell’energia, inoltre, richiede alle organizzazioni la definizione di una politica energetica che descriva l’impegno di un’organizzazione a raggiungere gli obiettivi definiti in campo energetico. La politica energetica, approvata dalle più alte cariche aziendali, è lo strumento per dimostrare, internamente ed esternamente, la spinta dall’alto che deve per forza essere messa in campo per una corretta e continua implementazione del sistema.

Attuazione e funzionamento, monitoraggio e misurazione Stabiliti gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli si passa alla fase di attuazione rivolgendosi in particolare all’esercizio, la manutenzione, la progettazione e l’approvvigionamento degli impianti, delle apparecchiature e delle materie prime. Nell’attuazione del sistema di gestione energetico è importante sensibilizzare tutte le persone che lavorano nell’organizzazione e che possono svolgere un ruolo attivo nella gestione dell’energia. La norma sottolinea, infatti, quanto una comunicazione interna efficace sia uno strumento indispensabile per garantire il buon funzionamento del sistema. Dopo l’implementazione delle misure di gestione si procede con la valutazione dell’efficacia delle stesse e la progettazione di nuovi interventi, nell’ottica del miglioramento continuo, vero obiettivo di fondo di tutti i sistemi di gestione. Si prevede quindi il monitoraggio dei consumi energetici. I valori dei consumi di energia reali misurati devono essere confrontati con i valori dei consumi

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energetici attesi per evidenziare eventuali scostamenti e porvi quindi rimedio. La norma richiede la definizione e lo svolgimento di audit interni al sistema di gestione dell’energia, finalizzati a verificare che il sistema sia conforme a quanto pianificato, sia attuato e mantenuto e sia conforme agli obblighi legislativi previsti. Come ogni altro sistema di gestione è poi necessario svolgere almeno annualmente un riesame della direzione. Lo scopo del riesame svolto dall’alta direzione di un’organizzazione è di informare appunto i membri dell’alta direzione dell’andamento del sistema e delle prestazioni energetiche dell’azienda, assicurando così il protrarsi


INNOVARE con il

METODO PIXAR Estratto da: INNOVARE CON IL METODO PIXAR di Bill Capodagli e Lynn Jackson. Ed. ETAS Libri. Gli autori dedicano il libro al compianto Walt Disney come le seguenti parole:

Rubrica Un libro in 10 minuti

a cura di Pasqualina Pirone

“Ci ha fornito ispirazione insegnandoci a sognare, ad aver fiducia, ad aver coraggio e a fare.” Pixar, la più creativa e giocosa azienda del mondo, è fonte di ispirazione per: SOGNARE come un bambino AVER FIDUCIA nei vostri compagni di gioco AVERE IL CORAGGIO di tuffarvi e smuovere le acque FAR sbocciare il vostro potenziale infantile La creatività collettiva non fa mai parte della cultura di un’impresa per caso; ha origine da una leadership creativa che è degna di fiducia e che al tempo stesso dà fiducia agli altri affinché realizzino sogni grandiosi. Sfortunatamente, troppi manager aziendali sono fin troppo abili in questo gioco. Invece di promuovere un ambiente pieno di pensatori creativi capaci di automotivarsi, assumono il ruolo del pifferaio magico e fanno sì che i seguaci anneghino in un mare di regole,

norme e processi aziendali. La leadership esemplare è la capacità di formare e gestire un clima creativo in cui gli individui e i team si automotivano in vista del conseguimento di obiettivi di lungo termine all’interno di un ambiente caratterizzato dal rispetto e dalla fiducia reciproci. I migliori leader sono eccellenti comunicatori. Coinvolgono i loro team fornendo tutti gli strumenti e le informazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi, confidando poi nel fatto che svolgano il loro compito.

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le persone di talento collaborino efficacemente. A tal fine ci vogliono fiducia e rispetto, due attitudini che i manager non possono imporre. Devono essere conquistati con l’andar del tempo.

Un clima creativo ha bisogno di una leadership, nonché di uno stile direzionale che aiuti il personale a crescere e a maturare e, nel frattempo, che gli consenta di divertirsi. Pixar promuove chiaramente la crescita professionale dei dipendenti (Pixarian) e fa di tutto per fornir loro le opportunità e il supporto di cui hanno bisogno. Di conseguenza, capita assai raramente che un Pixarian consideri l’eventualità di lasciare la casa di produzione. Randy Nelson, rettore di Pixar University, respinge palesemente la mentalità diffusa all’interno del settore, basata sulle assunzioni di breve termine: «in genere è solo nel giorno in cui concludi la produzione che ti rendi conto di aver finalmente trovato il modo giusto per collaborare. Invece di investire nelle idee, noi investiamo nelle persone. Stiamo cercando di creare una cultura basata sull’apprendimento, popolata da persone che imparano per tutta la vita».

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I grandi leader cercano persone dotate di talenti unici nel loro genere che siano disposte a lavorare con loro, non per loro, anche se il fatto di avere personale di talento non è sufficiente. Ciò che è altrettanto difficile, naturalmente, è fare in modo che

Affinché qualunque paese possa competere in questo nuovo secolo o “verso l’infinito e oltre” dobbiamo passare dall’era attuale, caratterizzata da una mentalità di business incentrata sul breve periodo e sull’avversione ai rischi, a un’era fondata sull’offerta di product/service experience nuove e realmente cool. 1. LA STORIA LA FA DA PADRONA Non importa se realizzate film, fabbricate frigoriferi o vendete hot dog, ogni singola persona, dai membri del consiglio di amministrazione a chi lavora in magazzino, dovrebbe prima di tutto essere un narratore. Partite dallo sviluppo della vostra storia, poi innovate su questa base. 2. TECNICHE PER RIFLETTERE IN FORMA VISIVA: STORYBOARDING Generate le idee in forma grafica, non solo verbale, per ampliare i punti di vista dei membri del team, affinare il loro focus e spronarli a vedere, sentire e sognare, non solo pensare. 3. IMPROVVISAZIONE La versione inglese di Wikipedia definisce l’improvvisazione: pratica basata sull’azione e sulla reazione, sulla realizzazione e sulla creazione, in tempo reale e in risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente più prossimo in cui ci si trova. Promuovete, ispirate, istigate e insegnate l’improvvisazione.


LA GESTIONE DEL DISSERVIZIO: UNA STRAORDINARIA OPPORTUNITÀ PER SUPERARE LE ASPETTATIVE DEL CLIENTE Un approccio vincente alla service recovery La gestione del disservizio rappresenta un vero e proprio banco di prova per le aziende di servizi. Normalmente le aziende che dichiarano la qualità fattore strategico si dimostrano impreparate a gestire questo delicato momento d’interazione con il cliente. Avere un approccio metodologico robusto alla gestione del disservizio — nonché impostare e organizzare processi efficaci di service recovery — rappresenta una priorità strategia e importante per l’azienda. Come? L’obiettivo di questo terzo numero della rubrica che curo sulla “Qualità del Servizio” è quello di dare concetti utili e spunti concreti alla gestione del disservizio. Per farlo in modo sintetico, ma esaustivo, verrà utilizzato l’approccio delle 5W + H: why, what, who, where, when + how. Si tratta di riferimenti utili da considerare per qualsiasi tipo di problema perché aiutano a riconoscerlo, analizzarlo e comprenderlo. In questo modo sarà possibile affrontare tutti i punti chiave. WHY. Perché gestire in modo efficace il processo di service recovery? Puntare a zero difetti, cioè a zero disservizi è senz’altro un obiettivo fondamentale.

Questo, però, non deve indurre a ignorare il fatto che si possano verificare situazioni in cui si fornisce un servizio insoddisfacente. È proprio in questi momenti che l’azienda deve dar prova d’essere pronta e attrezzata a gestire in modo eccellente la situazione. Oggi, tuttavia, sono poche le aziende in grado davvero di fare una service recovery eccellente. Proprio per questo motivo la capacità di gestire in modo esemplare il

Rubrica Qualità del servizio

a cura di Mariacristina Galgano

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