Design industriale a cura di Giuseppe Alito
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a cura di Giuseppe Alito
DALLA
MASS PR
Rubrica Design Industriale
Ogni persona in ogni momento esegue progetti di design. Potrei sintetizzare il termine design con scelta. Tutto ciò che ci circonda, persino la selezione dei vestiti che la mattina scegliamo di indossare, tra i tanti che possediamo, è un progetto di design. Walter Gropius da direttore della Bauhaus sosteneva che ogni essere umano di qualunque estrazione sociale, produce MDM (mental design model). Si tratta di un’idea di prodotto elaborata dalla mente che nella sua componente sostanziale è statistica (cioè è simile a quella di qualunque altra persona che immagina quell’oggetto), mentre nella componente formale è soggettiva (generata, cioè, dalle esperienze sedimentate del singolo soggetto). In altre parole Gropius ci dice che ogni persona possiede una sua natura creativa che usa per costruire e modificare il proprio contesto.
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Dico questo nella speranza di riuscire mantenere una distanza considerevole rispetto a tutto ciò che siamo costretti a leggere e sentire inerente al tema specifico. Distanza dalle teorie dell’ovvio (del tipo less is more), distanza dai “salotti buoni” ormai polverosi, dove da anni non si fa altro che parlare di un passato che è ogni volta più lontano perchè sempre lo stesso, di riviste nelle quali sotto la parola design segue sempre la solita trafila di nomi (Zanuso, Castiglioni, Magistretti, Sottsass, etc.), che certamente hanno dato un enorme contributo se non addirittura vita a questa materia, ma credo sia ora di guardare oltre. Distanza, insomma, da tutto ciò che inesorabilmente ci obbliga a guardare indietro come una sorta
di specchietto retrovisore. Trattandosi di una materia che deve avere connotati di dinamicità e che deve generare “passato breve”, capirete che tutto ciò è paradossale, soprattutto in un Paese che crede ancora di essere la “patria del design”. Dopo questa doverosa premessa, vorrei iniziare adottando un approccio multidisciplinare cercando, per quanto possibile, di compiere un’ideale percorso a spirale dove il punto di partenza non sarà il centro di essa ma la sua periferia.
RODUCTION
al TAYLOR MADE Uno degli elementi fondanti dell’industrial design è la replicabilità. Walter Benjamin agli albori della rivoluzione industriale individuò nella stampa dei quotidiani il primo processo di produzione industriale di massa dove l’oggetto del business non era più “l’originale” (come avveniva per l’artigianato) ma la copia replicabile teoricamente all’infinito. Dietro la spinta impetuosa dell’evoluzione tecnica prima e tecnologica dopo l’industria si è configurata esclusivamente sulla produzione di repliche in tutti i settori manifatturieri. Nella moda, ad esempio, questo processo ha dato vita al pret-a-porter.
recente testo, di cui parleremo in seguito. L’evoluzione logica di tutto questo è il ritorno al taylor made, ma senza fare un passo indietro sul fronte produttivo, non quindi una rievocazione del ritorno all’artigianato, ma una sofisticazione ulteriore delle logiche di mass production che consentano margini di “adattabilità” tipici del fatto a mano. Può sembrare strano ma ciò avviene (e da molti anni) nel settore delle auto, direi addirittura immediatamente dopo la Ford T.
Grandissimi sono stati i benefici soprattutto per i consumatori che potevano (e possono) disporre di prodotti, sì standardizzati in termini formali ma qualitativamente ed economicamente competitivi. Un esempio di ciò è il modello Ikea. Le aziende dal canto loro hanno potuto beneficiare di una forte barriera competitiva perché solo chi disponeva di risorse sufficienti poteva permettersi di diventare “industriale” secondo la proporzione che più deve essere competitivo il prodotto maggiori sono gli investimenti tecnici e tecnologici per metterlo al mondo e produrlo.
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In termini filosofici, però, ciò ha allontanato l’uomo dall’oggetto, sia perché non ne percepisce le logiche produttive (origine) sia, appunto perché facilmente e velocemente disponibile, ne sminuisce il valore (unicità) rendendo molto difficile la trasformazione dell’oggetto in “cosa”, processo sofisticato ben descritto da Remo Bodei in un suo
Il vantaggio indiscutibile è quello di rendere partecipe il consumatore alla “creazione” stessa del prodotto nella quale può governare quelle variabili che più gli interessano come la qualità, l’eco-sostenibilità, l’unicità, e persino il costo e dunque il prezzo. Questa potrebbe essere certamente una grande sfida per l’industria del nostro Paese spesso votata all’eccellenza e molte volte di nicchia. Essere gli industriali del taylor made!
Dal punto di vista pratico bisogna pensare a metodi progettuali prima e produttivi dopo in grado di generare prodotti o sistemi di prodotto “aperti” e facilmente (ed industrialmente) customizzabili. Certamente è sempre sano avere una buona dose di competitività, ma nel nostro Paese la si deve cercare prima di tutto nei costi accessori dei quali sono gravate le imprese, costi indiretti che non contribuiscono, cioè, ad aumentare il valore della produzione, e non certo nella banalizzazione dei prodotti al fine di poterli rendere più competitivi. Bisogna seguire la propria vocazione e quella dell’Italia deve essere la vocazione dell’eccellenza quanto più competitiva possibile a tutti i livelli, ma eccellenza, sfatando il mito che grande è bello e sano. Le nostre imprese non sono in grado di competere nella parte bassa del mercato (dove serve prima di tutto massa critica), al contrario sono perfettamente in grado di produrre valore aggiunto, di produrre quella che Gianfelice Rocca definisce “innovazione incrementale” ossia la capacità, indipendentemente dalla dimensione, di combinare i vari fattori e ingredienti della produzione in modo creativo e con valenze qualitative e questa è una caratteristica solo italiana. Non puntiamo, quindi, all’aumento ma semmai alla riduzione dimensionale e soprattutto all’eccellenza che non significa fare solo le Ferrari. Anche un bicchiere può essere eccellenza. Dal punto di vista strategico riguardo alla dimensione e forma del mercato (stretto e profondo quando si compete dal basso), nel nostro caso deve avere una forma diversa. Deve essere bidimensionale. Se l’Italia fosse un’azienda sarebbe una
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leader di diversificazione, cioè un’impresa che produce business operando lo stretching orizzontale (tante categorie di prodotti diversi tra loro), questa condizione è tipica dei grandi marchi (vedi il caso Pirelli), il vantaggio rispetto alle aziende leaders di prezzo è quello che non si è costretti a operare attraverso la profondità di gamma (tante tipologie dello stesso prodotto) in uno spazio orizzontale assolutamente limitato, con poca visibilità di marca ed ingenti investimenti per allestire un’offerta competitiva con le altre leaders di prezzo. Il nostro non è un paese da grande
distribuzione, non a caso a competere in quel settore esiste solo un player italiano e spesso grazie a vantaggi non derivanti dalla propria capacità di essere competitivo. I margini di tutte le grandi catene operanti in Italia sono bassissimi o in alcuni casi negativi e per la prima volta dall’avvento della GDO in questo Paese lo scorso anno le vendite (compreso il settore food) hanno registrato una contrazione prossima al 3%. Non parlo di un mondo utopico, le realtà competitive in Italia ci sono e rimarranno, ma purtroppo non hanno carta d’identità italiana, alcuni esempi? H&M e Zara valgono quanto 8 Prada messe insieme, ma non avranno mai l’appeal del marchio italiano. Ikea da sola (in Italia) vale quanto tutte le grandi firme del funtiture design di questo paese, ma non sarà mai un marchio aspirazionale. Tuttavia in questi 10 anni l’Italia per Ikea è diventato il sesto Paese al mondo per cifra d’affari netta ed è il primo Paese sul fronte degli acquisti di mobili, mentre Ikea per l’Italia è al primo posto per acquisto di mobili italiani. Chi avrebbe mai immaginato solo 10 anni fa che nel nord ricco di questo Paese lì attaccato alla blasonata Brianza regno dei mobili di design, un giorno sarebbe arrivato uno “svedese” a sovvertire le regole del mercato. Perché, dunque, dovremmo fare prodotti low cost? Qualcuno si chiederà cosa c’entra tutto questo con il design? Poco, se si considera il design come una delle tante fasi dello sviluppo di un prodotto dove spesso la finalità è creare il nuovo più che l’innovazione, anche in considerazione del fatto che esiste una grande confusione attorno al termine innovazione.
Un prodotto nuovo può non essere innovativo, mentre un prodotto innovativo è sempre nuovo. Inoltre è necessario uscire dalla logica che innovazione significhi sempre qualcosa di tangibile, di fisico. Si può innovare semplicemente cambiando l’ordine delle cose e del pensiero che ci sta dietro. Tuttavia, data la vastità del tema andrebbe affrontato in maniera più dettagliata. C’entra tanto, invece, se si intende costruire una piattaforma stabile che riduca al minimo il rischio d’impresa grazie alla capacità di vedere più chiaramente l’obiettivo da colpire. La letteratura è piena di bellissimi prodotti che hanno affollato mercati sbagliati in momenti sbagliati. E questo è il solo lusso che non ci possiamo più permettere.
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