[ebook] Stefano Fenoaltea - Lezioni di Economia Politica

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LEZIONI DI ECONOMIA POLITICA

TESTO Stefano Fenoaltea Università degli Studi di Brescia Facoltà di Economia

Copyright c 2001 by Stefano Fenoaltea. E' vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


,1',&( 1. L’analisi, la storia, la storia dell’analisi

1

2. L’equilibrio parziale: l’individuo e il mercato per un singolo bene

23

3. L’equilibrio generale: l’individuo in un sistema di mercati

44

4. L’equilibrio generale: il sistema dei mercati (A: puro scambio)

72

5. L’equilibrio generale: impresa e industria in un sistema di mercati

90

6. L’equilibrio generale: il sistema dei mercati (B: produzione)

126

7. La logica e la retorica: dall’interventismo al neoliberismo

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,1',&( $1$/,7,&2 1. L’analisi, la storia, la storia dell’analisi

1

1.a. l’economia politica come scienza sociale 1.a.1. introduzione 1.a.2. l’oggetto dell’economia politica 1.a.3. il metodo dell’economia politica: i modelli 1.a.4. il metodo dell’economia politica: tra modelli e realtà 1.a.5. la matrice culturale dell'economia politica 1.a.6. il ciclo ideologico dell'economia politica

1 1 1 1 2 2 3

1.b. lo stato nell'economia politica 1.b.1. introduzione 1.b.2. lo stato associazione di tutti 1.b.3. lo stato predatore 1.b.4. la politica e il potere

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1.c. i precedenti storici 1.c.1. il mondo antico 1.c.2. il medioevo feudale 1.c.3. le città medievali 1.c.4. il mercantilismo

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1.d. la nascita dell'economia politica 1.d.1. i fisiocrati 1.d.2. Adam Smith 1.d.3. David Hume 1.d.4. David Ricardo

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1.e. lo sviluppo dell'economia politica 1.e.1. industrializzazione, socialismo e economia borghese 1.e.2. Karl Marx 1.e.3. i marginalisti borghesi e socialisti 1.e.4. A. C. Pigou e Vilfredo Pareto 1.e.5. la microeconomia e l'eredità paretiana 1.e.6. la grande crisi e J. Maynard Keynes 1.e.7. la reazione a Keynes 1.e.8. gli esperimenti socialcomunisti

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1.f. l'economia politica borghese nel secondo dopoguerra 1.f.1. l'apogeo dell'interventismo 1.f.2. gli inizi della controffensiva liberista 1.f.3. la crisi della macroeconomia 1.f.4. la teoria dell'informazione

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2. L’equilibrio parziale: l’individuo e il mercato per un singolo bene

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2.a. l’analisi dell’equilibrio 2.a.1. il quadro generale 2.a.2. l’aspetto formale dell’equilibrio del singolo: la logica 2.a.3. l’aspetto formale dell’equilibrio del singolo: la geometria 2.a.4. le unità di misura 2.a.5. il mercato e il prezzo

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2.b. l'equilibrio di concorrenza perfetta 2.b.1. definizione 2.b.2. l'equilibrio del compratore concorrenziale 2.b.3. l'equilibrio del venditore concorrenziale 2.b.4. l'equilibrio del mercato in regime di concorrenza perfetta 2.b.5. il mutamento degli equilibri: offerta stabile 2.b.6. il mutamento degli equilibri: domanda stabile 2.b.7. gli equilibri con intervento pubblico: i prezzi politici 2.b.8. gli equilibri con intervento pubblico: tasse e sussidi 2.b.9. la rendita e le tasse

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2.c. l'elasticità 2.c.1. definizione 2.c.2. l'elasticità della domanda 2.c.3. l'elasticità dell'offerta 2.c.4. l'elasticità nel tempo 2.c.5. l'elasticità e le tasse

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2.d. l'equilibrio di monopolio semplice 2.d.1. definizione 2.d.2. l'equilibrio di monopolio del compratore 2.d.3. il mutamento degli equilibri 2.d.4. gli interventi correttivi 2.d.5. l'equilibrio di monopolio del venditore 2.d.6. il mutamento degli equilibri 2.d.7. gli interventi correttivi

34 34 34 35 36 37 38 38

2.e. l'equilibrio di monopolio discriminante 2.e.1. definizione 2.e.2. l'equilibrio di discriminazione imperfetta 2.e.3. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del compratore 2.e.4. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del venditore 2.e.5. l'equilibrio di monopolio bilaterale 2.e.6. l'equilibrio di monopolio semplice sequenziale

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2.f. considerazioni sulla domanda e sull'offerta 2.f.1. il rapporto tra domanda e offerta in generale 2.f.2. domanda e offerta nel singolo mercato 2.f.3. efficienza e redistribuzione

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3. L’equilibrio generale: l’individuo in un sistema di mercati

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3.a. l’analisi dell’equilibrio 3.a.1. vincoli e obiettivi 3.a.2. la funzione obiettivo: problemi di metodo 3.a.3. la funzione obiettivo: rappresentazione analitica 3.a.4. il vincolo 3.a.5. l’equilibrio

44 44 44 44 46 46

3.b. l’equilibrio dell’operatore concorrenziale 3.b.1. il vincolo e l’equilibrio 3.b.2. l’operatore con disponibilità di danaro: l'equilibrio e il reddito 3.b.3. l'operatore con disponibilità di danaro: l'equilibrio e i prezzi 3.b.4. effetti di prezzo, di reddito, e di sostituzione 3.b.5. sostituti e complementi 3.b.6. la curva prezzo-consumo e l'elasticità della domanda 3.b.7. l'operatore con disponibilità di beni 3.b.8. il baratto, l'elasticità della domanda e l'elasticità dell'offerta 3.b.9. gli indici dei prezzi e il reddito reale 3.b.10. le tasse compensate e l'effetto di sostituzione 3.b.11. l'operatore con disponibilità di tempo e l'offerta di lavoro 3.b.12. la cultura, la tecnologia, l'offerta di lavoro 3.b.13. l'operatore e il mercato intertemporale 3.b.14. l'interesse e il valore attuale 3.b.15. l'incertezza e il valore atteso

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3.c. l'equilibrio dell'operatore monopolista 3.c.1. il vincolo e l'equilibrio 3.c.2. l'equilibrio di monopolio semplice 3.c.3. l'equilibrio di monopolio perfettamente discriminante 3.c.4. domanda e domanda compensata 3.c.5. domanda, domanda compensata, e rendita del consumatore

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4. L’equilibrio generale: il sistema dei mercati (A: puro scambio) 72 4.a. gli equilibri di mercato 4.a.1. l’economia di puro scambio 4.a.2. l’efficienza paretiana 4.a.3. la concorrenza perfetta: l’equilibrio date le dotazioni 4.a.4. la concorrenza perfetta: le dotazioni dato l’equilibrio 4.a.5. il monopolio 4.a.6. l’esistenza degli equilibri

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4.b. l’ottimizzazione sociale 4.b.1. i teoremi fondamentali e l’economia del benessere 4.b.2. la funzione obiettivo sociale 4.b.3. il vincolo e l’equilibrio 4.b.4. i teoremi fondamentali dell’economia politica 4.b.5. l’efficienza economica e l’efficienza paretiana

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4.c. considerazioni sull’equilibrio 4.c.1. la natura dell’equilibrio economico 4.c.2. la natura dello sfruttamento 4.c.3. la natura della redistribuzione 4.c.4. la natura dei gusti e del progresso

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5. L’equilibrio generale: impresa e industria in un sistema di mercati

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5.a. l’economia di produzione 5.a.1. i mercati e l’arbitraggio 5.a.2. la produzione e l’impresa 5.a.3. i beni, i servizi e i mercati 5.a.4. l’industria 5.a.5. il modello dell’impresa

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5.b. la funzione di produzione 5.b.1. le cernite paretiane 5.b.2. i rendimenti di scala crescenti 5.b.3. i rendimenti di scala decrescenti 5.b.4. i rendimenti marginali dei fattori 5.b.5. la tecnica, la tecnologia e il progresso

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5.c. la minimizzazione dei costi 5.c.1. la produzione a costo minimo 5.c.2. la sostituzione tra fattori e le quote della spesa 5.c.3. i costi medi e i costi marginali

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5.d. l’equilibrio di concorrenza 5.d.1. l’equilibrio dell’impresa concorrenziale 5.d.2. l’impresa e i fattori di produzione 5.d.3. l’impresa e l’industria 5.d.4. il significato della concorrenza 5.d.5. il significato dei rendimenti variabili 5.d.6. il breve periodo e il lungo periodo 5.d.7. dal breve al lungo periodo: il mercato dei beni durevoli

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5.e. una parentesi: l’analisi tradizionale del breve periodo 5.e.1. la logica e la prassi 5.e.2. le curve dei costi 5.e.3. l’equilibrio dell’impresa e l’offerta dell’industria

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5.f. gli equilibri non di concorrenza 5.f.1. il monopolio semplice e la concorrenza monopolistica 5.f.2. potere di mercato e strategie d’impresa 5.f.3. l’oligopolio tra cartello e concorrenza 5.f.4. il modello di Cournot

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6. L’equilibrio generale: il sistema dei mercati (B: produzione)

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6.a. dall’economia di puro scambio all’economia di produzione 6.a.1. i vincoli dell’economia di produzione 6.a.2. la concorrenza, i mercati e l’efficienza paretiana

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6.b. la concorrenza nel mercato dei fattori e l’efficienza della produzione 6.b.1. la vendita dei fattori: concorrenza e pieno impiego 6.b.2. l’acquisto dei fattori: concorrenza e allocazione efficiente 6.b.3. gli equilibri con fattori specializzati 6.b.4. gli equilibri con fattori generici non sostituibili 6.b.5. gli equilibri con fattori generici sostituibili 6.b.6. la frontiera dei prezzi dei fattori

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6.c. la concorrenza nel mercato dei beni e l’efficienza complessiva 6.c.1. l’acquisto dei beni: concorrenza e allocazione efficiente 6.c.2. la vendita dei beni: concorrenza e produzione ottimale 6.c.3. efficienza paretiana, produzione, e distribuzione 6.c.4. aspetti dell’equilibrio 6.c.5. i mutamenti degli equilibri

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6.d. l’allocazione delle risorse 6.d.1. gli elementi dell’analisi 6.d.2. la trasmissione delle valutazioni 6.d.3. l’allocazione delle risorse e l’equilibrio generale 6.d.4. l’allocazione delle risorse e l’ottimo sociale

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6.e. i modelli ricardiani 6.e.1. la crescita 6.e.2. il commercio estero

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7. La logica e la retorica: dall’interventismo al neoliberismo

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7.a. l’interventismo del dopoguerra 7.a.1. le basi dell’interventismo 7.a.2. il valore normativo della domanda privata: la distribuzione della ricchezza 7.a.3. il valore normativo della domanda privata: i gusti privati 7.a.4. il funzionamento del mercato: il potere di mercato 7.a.5. il funzionamento del mercato: le esternalità in generale 7.a.6. il funzionamento del mercato: esternalità e mercati inesistenti 7.a.7. il funzionamento del mercato: problemi di informazione 7.a.8. il funzionamento del mercato: le attività puramente redistributive 7.a.9. il funzionamento del mercato: il secondo ottimo

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7.b. la reazione liberista 7.b.1. la teoria positiva dell'intervento pubblico 7.b.2 le informazioni e i costi di transazione 7.b.3. le istituzioni private: i contratti 7.b.4. le istituzioni private: le organizzazioni 7.b.5. l'etica

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7.c. la teoria dei giochi 7.c.1. il dilemma del prigioniero 7.c.2. considerazioni sul dilemma del prigioniero 7.c.3. una considerazione finale

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1. L’ANALISI, LA STORIA, LA STORIA DELL’ANALISI 1.a. l’economia politica come scienza sociale 1.a.1. introduzione Per capire cos'è una passeggiata, la cosa migliore è di mettersi in cammino; se rimandiamo comunque il primo passo, è di poco, e nello spirito di avvertire chi ci seguirà di stare attento ai rami bassi. Fuor di metafora, si cercherà in questo primo capitolo di fornire una brevissima presentazione della materia che ci accingiamo ad abbordare: per avvertire appunto il lettore sulla natura di ciò che incontrerà, o perlomeno sul modo di capirla dell'autore. Alcuni dei vocaboli e dei concetti che incontreremo in questo primo giro d'orizzonte saranno sicuramente poco chiari; ma che questo non preoccupi. Si impara a "parlare economia" come qualsiasi altra lingua, e ci vuole un minimo di pratica prima di poter capire tutto. 1.a.2. l'oggetto dell'economia politica L'economia politica studia l'attività economica sotto alcuni profili specifici, che corrispondono ai problemi fondamentali che affronta. L'astronomia classica cercava di spiegare il moto apparente degli astri; l'economia politica classica ha affrontato il problema del valore, espresso dal SDUDGRVVR GHOO DFTXD H GHL GLDPDQWL. La prima, necessaria alla vita, ha un prezzo basso, mentre i secondi, inutili, hanno un prezzo alto; perchè mai, ci si chiedeva, vale poco quel che vale molto, e vale molto quel che vale poco? Con la catastrofe economica della Grande Depressione l'economia politica classica si è trovata di fronte al mistero della GLVRFFXSD]LRQH GL PDVVD; e per risolverlo venne creata una nuova analisi. Questa è chiamata "teoria dell'occupazione", o più comunemente PDFURHFRQRPLD (perchè l'analisi considera variabili aggregate quali i consumi o il prodotto nazionale); l'economia politica tradizionale è stata rietichettata "teoria dei prezzi" (o "del valore") o più comunemente PLFURHFRQRPLD (perchè l'analisi considera i singoli consumatori, beni, mercati, e produttori). A differenza però dell'astronomia, puramente contemplativa, l'economia politica nasce affrontando anche e principalmente un fondamentale problema pratico. / HFRQRPLFR di Senofonte (c. 400 a. C.) tratta infatti della buona amministrazione del privato ("oikos" = casa, "nomos" = norma); l'oggetto dell'economia detta SROLWLFD ("polis" = città, stato) è dunque la buona amministrazione della società intera. Il nome stesso della disciplina la definisce pertanto come guida all'azione pratica dei governanti: con le parole di oggi, ormai ampiamente spogliate del loro contenuto etimologico, possiamo dire che l'oggetto madre dell'economia politica è la politica economica. 1.a.3. il metodo dell'economia politica: i modelli L'economia politica, che si vuole scienza sociale, ragiona come le scienze naturali per astrattismi detti "modelli". Il modello altro non è che il riassunto delle relazioni essenziali che regolano, per ipotesi, il fenomeno in esame; si tende a esprimerle in forma matematica, per poterne dedurre le implicazioni con sicurezza e relativa facilità. I modelli sono volutamente il più possibile semplici, compatibilmente con il fenomeno da spiegare. Questa passione per la semplicità è fondamentale: il "rasoio di Occam" (monaco inglese del primo Trecento) prescrive appunto che le variabili vanno ridotte al minimo necessario ( HQWLD QRQ VXQW PXOWLSOLFDQGD SUDHWHU QHFHVVLWDWHP ), e i modelli più 1


semplici sono considerati per ciò stesso più "eleganti". L'illustrazione canonica ci viene proprio dall'astronomia. Il modello tolemaico, geocentrico con orbite circolari, spiegava perfettamente il movimento apparente degli astri, ma in modo poco elegante: ai pianeti si doveva infatti attribuire non una semplice orbita circolare intorno alla Terra, ma un'orbita circolare intorno ad un punto che seguiva un'orbita circolare intorno a un punto che seguiva un'orbita circolare (e così via) .... intorno alla Terra. Il pregio del modello copernicano, eliocentrico con orbite ellittiche, non era quello di accostarsi meglio alla realtà osservata (dalla Terra, unico punto di osservazione fino a tempi recentissimi), ma di spiegare la stessa realtà in modo assai più semplice, senza dover ricorrere agli "epicicli" tolemaici. Peraltro la tendenza a preferire le spiegazioni semplici sembra caratteristica non solo della mente scientifica, ma della mente umana in generale. Si immagini una telenovela, con Lui e Lei. Si moltiplicano i ritardi e le assenze di Lei, che ha in ogni occasione una spiegazione: ha forato una gomma, ha perso la borsa ma poi l'ha ritrovata, e via di seguito. Lui prima ci crede, poi si insospettisce, alla fine si convince che Lei lo tradisce: proprio perchè il modello "Lei è fedele e dice la verità" si concilia con i fatti solo ipotizzando anche tutte le avventure che le sarebbero capitate, mentre "Lei è infedele e mente" spiega tutto con un'unica avventura, quella appunto con l'Altro. E' ovvio comunque che le semplificazioni lecite dipendono dal problema in esame: chi studia il sistema solare può astrarre dal volume della Terra e ridurla a un punto, chi studia i climi e le stagioni deve considerarla sferica. Lo stesso modello può essere pertanto ottimo per certi usi e pessimo per altri, esattamente come un ottimo martello rimane un pessimo cacciavite. 1.a.4. il metodo dell'economia politica: tra modelli e realtà La manipolazione del modello--il passaggio dalle ipotesi alle loro implicazioni--è opera di puro raziocinio; ma sull'intuito che fornisce le ipotesi di lavoro, e prima ancora sulla scelta del problema da affrontare, incidono le passioni e l'inconscio, i gusti e la cultura. Circa un secolo fa, ad esempio, la scoperta di imponenti rovine nell'Africa sud-orientale portò gli studiosi a ipotizzare che fossero dovute ad un ignoto popolo bianco: per razzismo, diciamo adesso, ma quel razzismo era allora funzionale al mito della missione civilizzatrice invocato per giustificare l'imperialismo. Lo stesso modello copernicano fu a lungo osteggiato perchè toglieva l'uomo dal suo giusto posto al centro del Creato: e Copernico può essere stato il primo non con il genio di intuire il modello eliocentrico, ma con il coraggio (o la perversità?) di svilupparlo. Così pure rimane ampiamente arbitraria e oscuramente condizionata la scelta, all'interno delle implicazioni logiche del modello, di quelle cui si dà risalto e che si attribuiscono alla realtà. Alle conclusioni comode, poi, si contrappone meno scetticismo che non a quelle scomode, e non ci si chiede se verrebbero ribaltate riportando nel modello qualche considerazione esclusa. Si continua così a lavorare finchè non si è "dimostrato" ciò che si voleva dimostrare, e lì ci si ferma, come nei nostri giochi con i piccoli che continuano finchè non hanno vinto loro. Tali condizionamenti a monte e a valle dei modelli sono particolarmente pesanti per le scienze sociali, che come la storia non possono non toccarci da vicino. Per tutta la fredda logica dei modelli stessi, dunque, l'economia politica è calda, impegnata, viva; ed è cresciuta nel tempo dallo scontro tra tradizionalisti e ribelli sui problemi del momento. 1.a.5. la matrice culturale dell'economia politica L'economia politica moderna si è sviluppata in Occidente, in questi ultimi due secoli caratterizzati dall'egemonia--militare, politica, economica, e, sempre più, culturale--del 2


mondo anglosassone, inglese prima, e americano poi. Malgrado la nascita nella Francia del Settecento, malgrado i notevoli contributi di studiosi di tanti paesi fra cui sicuramente l’Italia, la disciplina rimane profondamente angloamericana, e non se ne possono capire l’impostazione e l’evoluzione fuori da quella specifica matrice culturale. All’interno di quella matrice, infatti, l’analisi teorica appare in generale come un'astrazione naturale; traslata alla realtà italiana appare invece spesso ben strana, con postulati fantascientifici, e curiose cecità che la portano a non vedere, o a scoprire tardi e con sbalordimento, cose che invece sanno anche i bambini. Tutto questo lo toccheremo con mano; ma è bene tenerlo sempre in mente. Secondo poi, si nota all'interno della disciplina (o più precisamente del suo filone centrale, ortodosso) un lungo ciclo nell'atteggiamento verso l'intervento pubblico, alternamente sollecitato e disapprovato, al quale corrisponde un alterno predominio dell'anima pratica e dell'anima contemplativa che in questa disciplina convivono. Questo ciclo è il ciclo dell'opinione pubblica e della politica inglese e poi americana, da noi assente o solo mutuato (per non dire scimmiottato). 1.a.6. il ciclo ideologico dell'economia politica Riassumeremo più tardi in questa stessa introduzione l'evoluzione della dottrina economica; ci limitiamo per ora a ricordare solo le tappe fondamentali del ciclo testè segnalato della dottrina ortodossa. L'economia politica moderna nasce nel Settecento contestando l'allora diffuso interventismo. L'intuizione di fondo è che anche l'economia, come la natura, ha i suoi equilibri naturali e benefici; gli economisti devono solo dimostrarli, i governanti rispettarli. Questo liberismo, allora rivoluzionario, trionfa nell'Ottocento; e sul finire del secolo viene difeso in chiave sempre più conservatrice contro i nuovi rivoluzionari socialisti. Nel prima metà del Novecento l'economia ortodossa scopre i limiti del liberismo e riprende la via dell'interventismo, sia pure limitato (a differenza di quello auspicato dalla sinistra socialcomunista) a complementare i mercati. Si accerta infatti che questi possono fare molto, ma non tutto: possono allocare in modo efficiente le risorse scarse, ma solo a certe condizioni che non sempre si verificano, per cui compete allo Stato un ruolo allocatore quando i mercati "falliscono"; non possono comunque garantire una distribuzione "buona" della ricchezza, per cui compete comunque allo Stato un ruolo redistributore. Con la Grande Depressione, poi, si riconosce pure, abbandonando la vecchia fede, che l'equilibrio naturale può essere disastroso; per contenere il ciclo economico e evitare la disoccupazione di massa lo Stato deve assumere un ruolo stabilizzatore. L'interventismo, trionfante nel secondo dopoguerra, scatenerà a sua volta la reazione politica e culturale: in questi ultimi decenni l'economia politica pure si è riavvicinata al liberismo, contestando con nuovi argomenti l'utilità e la necessità dell'intervento pubblico.

1.b. lo stato nell'economia politica 1.b.1. introduzione Allo stato soggetto della politica economica l'economia politica attribuisce dunque tre ruoli potenziali, riferiti rispettivamente alla redistribuzione, all'allocazione, e alla stabilizzazione. Per la verità, questi tre momenti si riducono logicamente a due, in quanto il problema della stabilizzazione--il problema del ciclo economico e della disoccupazione--altro non è che un particolare problema di allocazione (tra ozio e lavoro); si distingue dal problema detto dell'allocazione, che riunisce di fatto gli altri problemi di allocazione, per l'importanza 3


in verità eccezionale di questo particolare "fallimento del mercato", e per il metodo di studio e gli strumenti di intervento altrettanto particolari (macroeconomici piuttosto che microeconomici). I momenti fondamentali sono pertanto due, di allocazione e di redistribuzione; e corrispondono in sostanza a due ruoli che lo stato (anglosassone) confonde. L'uno è quello dello stato come associazione di tutti; l'altro è quello dello stato come strumento di coercizione. 1.b.2. lo stato associazione di tutti Nella teoria comune, di matrice appunto anglosassone, liberal-democratica, lo stato compare come associazione, in sostanza volontaria, di tutti. Siccome gli associati sono tali per trarne qualche beneficio, e abbandonano l'associazione se dovesse danneggiarli, è chiaro che lo stato-associazione sarà dedito per natura a gestire quegli interventi che sono a beneficio di tutti o perlomeno che beneficiando qualcuno non arrecano danno a nessuno. Nella realtà, ovviamente, nessun intervento è naturalmente di questo tipo: qualsiasi intervento, anche se aumenta l'efficienza dell'economia, modifica i prezzi e dunque danneggia l'una o l'altra delle parti contraenti. Se aumenta l'efficienza, però, genera un prodotto aggiuntivo che crea la possibilità di compensare i danneggiati; gli interventi che aumentano l'efficienza e vengono accompagnati dalle dovute compensazioni sono pertanto accettabili all'unanimità. Nella realtà, pure, le compensazioni puntuali non sono facili, e si tende per così dire a contare sulla compensazione complessiva. Per fare un esempio specifico, ammettiamo che la liberalizzazione dei tassì comporti un beneficio netto, che comprende però oltre al beneficio per i consumatori anche una perdita per i tassinari stessi. La liberalizzazione si estende però anche al commercio, ai notai, e via di seguito; alla fine, anche i tassinari dovrebbero star meglio, guadagnando come compratori di carne o di case dalle "altre" liberalizzazioni più di quanto non perdano come tassinari dalla propria. Lo stato allocatore, che elimina le inefficienze dovute ai fallimenti dei mercati, interviene dunque almeno tendenzialmente e potenzialmente a beneficio di tutti; lo stato redistributore interviene invece inevitabilmente in modo da danneggiare chi perde. Da qui la sostanziale corrispondenza tra stato-associazione e funzione allocatrice: funzione che l'economia politica (di matrice liberal-democratica) ha studiato prima e ben più volentieri dei problemi connessi alla redistribuzione. Occorre comunque aggiungere tre precisazioni. Primo, lo stato associativo tende ad avere una struttura federale, a più livelli, in quanto l'associazione giusta è più o meno estesa a seconda del problema pratico da risolvere. Secondo, anche lo stato-associazione può trasferire reddito e ricchezza, ma solo se ciò è desiderato da tutti, anche da chi ci rimette in termini monetari. In questo caso, ovviamente, chi vuol dare e far dare ottiene soddisfazione dal miglioramento della situazione dei beneficiari, e ci guadagna in termini di benessere anche se non in termini di reddito o di ricchezza. Terzo, anche lo stato-associazione può avere poteri coercitivi, concessi dai membri a proprio vantaggio: per esempio, il potere di esigere quote di sottoscrizione per pagare un bene che il mercato non fornirebbe (la difesa, la giustizia, e gli altri beni detti appunto "pubblici"). La coercizione è qui concordata, non subita, e rimane strumento di interventi allocatori accettabili all'unanimità; anzi, proprio perchè concordata e accettata la coercizione può essere maggiore di quella imposta e subita nello stato che è coercitivo senza essere associativo. Notava già A. de Tocqueville ('H OD GpPRFUDWLH HQ $PpULTXH, 1836-39) quanto era forte lo stato della giovane Repubblica americana; ricordiamo che nelle ultime grandi 4


guerre sono stati proprio i governi dei paesi democratici quelli che hanno potuto maggiormente ricorrere al finanziamento tramite imposte, e evitare dunque il prelievo tramite creazione di moneta e inflazione. Nell’ottica liberal-democratica, dunque, si accetta tranquillamente la coercizione pubblica. Anzi, essendo vietata la coercizione privata allo stato compete "il monopolio della violenza": principio questo ovviamente condiviso dalle tradizioni non-democratiche, ad esclusione del filone anarchico (che la democrazia giustamente teme: vedi Sacco e Vanzetti...). Questo monopolio di violenza (potere, sovranità) fa sì che qualsiasi potere economico privato è legittimo solo se derivato dallo stato: da qui ad esempio la necessità storica di una decisione sovrana ad hoc per concedere ogni diritto di monopolio o di incorporazione, da qui pure l'illegalità, negli Stati Uniti, delle strategie aziendali mirate al raggiungimento del monopolio privato. Peraltro il monopolio della violenza va qualificato, proprio nel contesto dello stato associativo, che è tipicamente un'associazione tra uomini o comunque tra adulti: i minori, le donne (minori fittizi) sono tipicamente sottoposti all'autorità non solo dello stato, o non affatto dello stato, ma del padre (o dei genitori) o del marito. Si arriva qui al problema di chi è cittadino, sottoposto direttamente allo stato e dunque da esso protetto, e chi, come gli schiavi, non lo è; la famiglia era una volta sovrana nel suo interno, e anche ora lo stato è spesso restìo ad entrarvi. Il caso emblematico è quello di Roma antica, sorta sembra come associazione di clan internamente sovrani: l'autorità dei paterfamilias era assoluta, e lo stato non aveva nemmeno il diritto di tassare le terre di loro proprietà H[ MXUH TXLULWLXP. 1.b.3. lo stato predatore Lo stato che viene definito dalla propria capacità coercitiva non strumentalizzata al benessere di tutti è lo stato predatore. Nella storia si ritrovano degli stati associativi: ne sono esempi tipici, con Roma appena ricordata, le repubbliche urbane greche e latine, le città medievali (scaturite da associazioni giurate) e probabilmente anche le tribù germaniche, sempre però a livello di aristocrazie. Il più delle volte, però, e specie agli albori della civiltà, lo stato appare come predatore. Sorge infatti con la capacità di qualche banda armata di ricattare i produttori di ricchezza, esigendone dei tributi pena la messa a ferro e fuoco. Questi produttori di ricchezza sono ricattabili in quanto non possono fuggire: si tratta dunque in sostanza di agricoltori, di cui si possono distruggere i raccolti e le scorte, e anche di mercanti, che passano per forza dove li obbliga la topografia. Siccome i popoli dediti alla caccia e alla raccolta sono invece difficilmente ricattabili, i primi stati sorgono dove si esaurisce lo spazio per quel tipo di vita: esempio classico le grandi valli aride (l'Egitto, la Mesopotamia, l'India, la Cina) dove il popolo era non solo agricolo ma legato alle vicinanze del fiume. Altri stati sorgono dove vi è transito, ad esempio in Africa lungo le vie dell'oro e del sale; si ricorda come equivalente europeo la potenza tradizionale della Borgogna, a cavallo del valico tra il Mediterraneo e l'Atlantico. In questi contesti particolari si crea, per mano di qualche violento, lo stato come strumento di sfruttamento, e che come sfruttatore esige il monopolio locale dello sfruttamento. Accanto ai primi stati come l'Egitto, caratterizzati da una forte componente redistributrice (al punto che c'è chi vi ha visto un modello alternativo al mercato...), sono chiaramente di questo tipo anche gli stati dell'assolutismo (in cui il monarca gestisce il cartello dell'aristocrazia). Secondo i marxisti, poi, sono di questo tipo anche gli stati (democratici e non) caratterizzati da un'economia capitalista, chè lo stato rimane "il comitato esecutivo della classe dirigente". 5


Comunque sia, lo stato predatore è ovviamente e per natura redistributore piuttosto che allocatore; anzi, l'allocazione interessa al limite solo come mezzo per aumentare la possibile redistribuzione, a vantaggio sempre della classe dirigente. Mentre lo statoassociazione è coercitivo e redistributore in quanto allocatore, dunque, lo stato predatore è allocatore in quanto coercitivo e redistributore; e in quanto allocatore è pur sempre interessato all'economia politica. Come redistributore, però, è interessato in particolar modo alla scienza delle finanze. Questa studia appunto gli strumenti privilegiati dello sfruttamento, ossia le imposte e i monopoli fiscali (occupandosi per esempio del problema della traslazione dell'imposta, chè se non si sta attenti una tassa che si vuol far pagare ai poveri potrebbe ricadere sui ricchi); ricordiamo che tali strumenti erano peraltro spesso appaltati, chè lo stato tradizionale raramente disponeva di burocrazie efficienti. La redistribuzione ai potenti avviene invece sia attraverso i sussidi diretti, quali le rendite attribuite dal Re di Francia i suoi nobili, sia attraverso la concessione di monopoli (o di poteri amministrativi, che arricchiscono con la corruzione). 1.b.4. la politica e il potere A prima vista, lo stato allocatore sembra naturalmente democratico, quello predatore naturalmente monocratico (o aristocratico); ma la forma politica non è strettamente legata alla funzione dello stato. Almeno teoricamente, ad esempio, un monarca assoluto ma benevolo potrebbe gestire il potere per il bene di tutti, limitandosi a funzioni di miglioramento allocativo; come esempi (o pseudo-esempi) storici si può pensare ai buoni imperatori romani (Augusto, gli Antonini), e magari anche ai signori "stranieri" chiamati dalle città-stato italiane altrimenti dilaniate dalle lotte intestine. Tutt'altro che teoricamente, purtroppo, bisogna ricordare la configurazione demopredatrice: il caso cioè in cui il potere è attribuito con metodi democratici, ma gestito poi in ottica redistributrice. Questo sembra essere il caso, comune, dei paesi che hanno mutuato agli anglosassoni le forme della democrazia liberale, ma non l'etica che ne è il supporto e la sostanza. L'etica democratico-liberale nasce, come è noto, dalle sette protestanti che riconoscono il diritto alla propria visione del bene di tutti e dunque rispettano la libertà di pensare, e di esprimersi, secondo coscienza. Le maggioranze decidono, sui singoli punti, ma sempre in funzione del bene comune, nel pieno rispetto della minoranza e del singolo che è sempre libero di pensare diversamente senza che ciò sia visto come un tradimento. Dove come ahimè da noi manca questa etica, il voto "democratico" serve solo a definire la coalizione di maggioranza che poi gestisce il potere a proprio vantaggio, e a danno della minoranza: da qui l'ansia dell'italiano di trovarsi sempre con i vincitori, da qui l'esigenza di votare con i propri amici anche se si pensa diversamente, da qui l'atteggiamento dei potenti che esigono lealtà dai propri clienti piuttosto che coscienza dai propri collaboratori. Emblematico, per rendere la cosa concreta, il professore che si scaglia contro il ricercatore della sua area che ha avuto la sfrontatezza di non votare come lui: atteggiamento impensabile in una facoltà americana, dove ognuno vota come pensa senza che questo minimamente incida sul rapporti professionali e le possibilità di carriera. Tanto è lontana questa etica di mafia da quella anglosassone che la teoria della politica economica maturata appunto in ambiente anglosassone tradizionalmente teorizza lo stato solo come associazione di tutti, volta ad aumentare il benessere collettivo; l'uso del potere a vantaggio di chi lo detiene è stato teorizzato solo di recente, da parte della destra americana anti-interventista, e non a caso tale comportamento viene visto come un IDOOLPHQWR 6


dello stato.

1.c. i precedenti storici 1.c.1. il mondo antico Nel mondo antico si ritrovano come si è detto due tipologie opposte: quella delle monarchie o teocrazie predatrici, come l'Egitto; e quella delle repubbliche associative (anche se queste poi come Roma si presentano all'esterno come predatrici). Gli stati redistributori sono attivamente coinvolti nel processo di produzione, tassando il prodotto, esigendo corvées, e magari salariando i lavoratori delle terre demaniali; e tendono a dedicare parte del surplus estratto dal popolo a lavori "pubblici" di prestigio (piramidi). La Roma classica si presenta invece perlomeno al suo interno come uno stato allocatore, liberista ante litteram: lo stato gestisce il settore pubblico "minimo" (difesa, lavori pubblici; il circo; le imposte sui territori conquistati), e definisce le regole che facilitano gli scambi di mercato lasciati all'iniziativa dei singoli (il diritto privato); gestisce inoltre la redistribuzione (il pane, a favore dei poveri--peraltro solo a Roma, per motivi di ordine pubblico). Questo aspetto di massima va temperato da tre considerazioni. Primo, nella stessa Roma le lotte tra patrizi e plebei hanno sapore redistributivo, per cui almeno alle origini l'associazione-stato era presumibilmente dei soli patrizi. Secondo, il tardo impero cerca di ovviare alle sue difficoltà economiche limitando la libertà di contrattazione. L'editto di Diocleziano (c. 300 d.C.) limita i prezzi; viene visto come una sospensione del mercato, ma più probabilmente era destinato a limitare solo i prezzi pagati dall'amministrazione dello stato. Con una serie di leggi sono rese ereditarie e obbligatorie certe professioni (connesse all'approvvigionamento e all'amministrazione), e legati al suolo anche i contadini liberi. Terzo, il modello romano non era universale. Cartagine, in particolare, era una potenza commerciale che cercava di mantenere il monopolio di certi contatti (in particolare oltre le colonne d'Ercole, donde giungevano l'oro dell'Africa e lo stagno della Cornovaglia). Rimane controversa la misura in cui l'economia classica fosse simile alla nostra (controversia sul capitalismo antico). Negli anni Venti il volume sull'economia della Roma antica di M. Rostovzeff (6RFLDO DQG (FRQRPLF +LVWRU\ RI WKH 5RPDQ (PSLUH, 1926) ne sottolineava la modernità e le affinità con le economie capitaliste del nostro tempo: descriveva infatti l'economia classica come un'economia di mercato, che anche se agraria e commerciale invece che industriale non era di fondo dissimile da quelle in cui viviamo. Questa visione era naturalmente difficile da conciliare con lo schema marxista, che vede nella storia uno sviluppo lineare e obbligato: siccome il capitalismo non poteva esistere prima, oltre che dopo, il feudalesimo, l'idea di Rostovzeff che ci sia stato un capitalismo antico è sbrigativamente respinta con l'accusa di anacronismo. Per i marxisti il mondo antico era caratterizzato dal sistema schiavistico, statico, e ben diverso dal capitalismo col suo mercato del lavoro, la lotta di classe, e l'accumulazione (P. Anderson, 3DVVDJHV IURP $QWLTXLW\ WR )HXGDOLVP, 1974). La critica marxista a Rostovzeff sembra però molto debole, in quanto il mercato dei lavoratori (gli schiavi) si inserisce benissimo in un'economia capitalista a fianco del mercato del lavoro (vedi gli Stati Uniti fino al 1865). Nell'economia antica, anzi, e a differenza del Nuovo Mondo, gli schiavi erano utilizzati massimamente in lavori che esigevano non uno sforzo fisico ottenibile con la brutalità ma una collaborazione fattiva ottenibile solo con un trattamento, e degli incentivi, simili a quelli che si usano con i lavoratori liberi. Per questo motivo la barriera tra schiavi e liberi era porosa (vedi gli artigiani di Ostia ricordati da una lapide che lasciò spazio per il nome che lo schiavo avrebbe acquisito 7


con la libertà ). Diversa è la critica accanita a Rostovzeff mossa dalla scuola di K. Polanyi, che avversò il capitalismo e i mercati negando che fossero naturali all'uomo e storicamente comuni (7KH *UHDW 7UDQVIRUPDWLRQ, 1944, e 3ULPLWLYH $UFKDLF DQG 0RGHUQ (FRQRPLHV, 1968). M. Finley, titolare della cattedra di storia antica a Cambridge, si oppose in modo particolare a Rostovzeff negando appunto agli antichi interessi e istituzioni simili ai nostri (7KH $QFLHQW (FRQRP\, 1973). Malgrado l'antipatia naturale per le tesi di Polanyi degli economisti (che proprio in quanto tali non amano ipotizzare differenze culturali), e malgrado pure l'apparente superficialità degli argomenti di Finley (che nota ad esempio che Plinio comprò una villa lodandone l'amenità piuttosto che il reddito: argomento che prova ben poco, visto che anche Rockefeller avrebbe potuto fare altrettanto), la sua interpretazione è stata largamente accettata: forse per l'autorevolezza della fonte, forse anche per la mancanza di simpatia per gli antichi fra questa generazione di storici, economici e non, che non si è formata sugli studi classici. Sembra però aver visto giusto Rostovzeff. Un problema analogo si è presentato per le economie dell'Egitto o della Mesopotamia, che i seguaci di Polanyi definirono economie di reciprocità e di redistribuzione (e non di mercato). Di fatto sembra ora abbastanza accertato che la redistribuzione coinvolgesse i trasferimenti verso le classi dirigenti, mentre il resto dell'economia funzionava con i soliti mercati... 1.c.2. il medioevo feudale E' controversa l'origine del feudalesimo. La fine dell'era antica, tradizionalmente attribuita alla calata dei barbari, venne invece attribuita da H. Pirenne all'espansione dell'Islam, che spezzò l'unità del Mediterraneo (0DKRPHW HW &KDUOHPDJQH, 1937). Questo discorso è sicuramente valido in termini politici e culturali, in quanto è l'espansione dell'Islam che crea l'Europa come unità culturale e religiosa; è molto discutibile invece in termini economici, in parte per gli elementi Polanyieschi dell'analisi di Pirenne. Secondo questi infatti senza il commercio esterno non vi è quello interno, senza commercio interno non vi è circolazione di moneta, senza circolazione di moneta non vi sono imposte e dunque non vi può funzionare lo stato... La scomparsa dello stato è indubbia; se non è attribuibile alla chiusura del Mediterraneo, lo è forse alla pressione militare sulle frontiere dell'Europa (da parte di Arabi, Vichinghi, Magiari...), e forse piÚ probabilmente agli incentivi alle razzie di schiavi e dunque all'anarchia creati dalla continuazione del commercio del Mediterraneo (ma questo è un discorso lungo...). Comunque sia, lo stato scompare, e il potere sovrano di tassare e rendere giustizia passa ai signori locali; lo stesso re di Francia, ad esempio, dispone da sovrano solo delle sue proprie terre, come un barone qualsiasi. Con questa confusione tra pubblico e privato, scompaiono praticamente lo stato, la politica economica, e dunque lo spazio per l'economia politica. Notiamo peraltro che l'economia dell'Europa feudale non è piÚ considerata statica: si riconosce adesso ad esempio il progresso tecnico e organizzativo dell'agricoltura nordeuropea, e i marxisti come Anderson hanno teorizzato all'interno del feudalesimo una lotta di classe e dunque una dinamica affini a quelle del capitalismo. Non si capisce pertanto perchè marxisti e non marxisti debbano continuare a considerare diverso, e statico, il mondo antico (J. Mokyr, 7KH /HYHU RI 5LFKHV, 1990). 1.c.3. le città medievali Sempre secondo Pirenne, la città medievale (ri)crea il capitalismo in cui tuttora viviamo, che distrugge da nemico il mondo feudale (0HGLHYDO &LWLHV 7KHLU 2ULJLQ DQG WKH 8


5HYLYDO RI 7UDGH, 1925). Altri studiosi hanno giustamente notato che le città medievali vivevano producendo o commerciando beni destinati alle élites feudali; piuttosto che di antagonismo tra capitalismo (urbano) e feudalesimo (rurale) si dovrebbe forse parlare di simbiosi feudale. Comunque sia, nelle città medievali, come nel mondo romano e nel nostro, la comunità organizzata a stato gestisce il settore pubblico (difesa, lavori pubblici, educazione). In quanto mercantili e capitaliste, poi, e dunque interessate a facilitare gli scambi, le città medievali recuperano il diritto romano (a controprova ovviamente della validità delle conclusioni del Rostovzeff sul mondo antico). Si nota inoltre che il capitalismo delle città medievali è, come il nostro, non individualistico e concorrenziale ma corporativo, monopolistico, e altamente regolamentato. Il potere di mercato e il controllo della qualità (che sono peraltro connessi) vengono gestiti dai maestri artigiani organizzati in gilde; si è detto che tali organismi hanno contribuito alla formazione di un'etica produttivistica (mancante nei paesi come la Russia, che ne hanno risentito in periodi successivi). Nel campo specifico del commercio estero, le città medievali sono eredi di Cartagine piuttosto che di Roma: sono infatti tutt'altro che libero-scambiste, e buona parte della politica economica guarda appunto al controllo del commercio estero. Il potere militare viene posto spregiudicatamente al servizio del potere commerciale, debellando i concorrenti; le esportazioni (di beni di lusso, perchè gli alti costi di trasporto limitano il commercio delle merci povere) vengono garantite anche dal controllo della qualità. 1.c.4. il mercantilismo Con la chiusura del medio evo la politica interventista delle città venne traslata al livello dello stato nazionale: dopo il secolo aureo delle potenze iberiche saranno l'Olanda e poi l'Inghilterra regina dei mari, la Francia erede dell'Italia nelle manifatture di lusso. Queste politiche vedono la concorrenza interstatale come gioco a somma zero, e mirano al surplus nei pagamenti (influsso di oro). Gli economisti moderni hanno tradizionalmente tacciato i mercantilisti di ignoranza e/o stupidità, attribuendo la ricerca dell'oro al non aver capito che la ricchezza vera è la disponibilità di beni e servizi, e l'idea della somma zero al non aver capito che il commercio crea vantaggi netti per tutti. Di fatto, gli stati nazionali lottavano per il potere e la sopravvivenza, e nelle lotte di potere conta la graduatoria e non il livello; l'oro, ottenuto dal saldo dei pagamenti (inevitabilmente a somma zero), serviva direttamente a pagare le truppe mercenarie. L'interventismo mercantilista sembra pertanto assolutamente difendibile. Anche il principio che il commercio crea vantaggi per tutti va temperato in un mondo in cui l'alto costo dei trasporti limitava in pratica il commercio interlocale ai beni di lusso: nella misura in cui questi sono beni utilizzati nella concorrenza sociale (caso tipico: i gioielli), il gioco è di nuovo a somma zero. Se infatti noi ci contendiamo il rango sociale acquistando beni pregiati che dimostrano il nostro potere e la nostra ricchezza, i beni consumati sono dal punto di vista del benessere l'equivalente preciso delle armi, o della moneta (le mie valgono di più se non le possiedi pure tu). La riluttanza della Cina, che tendenzialmente esportava manufatti e importava metallo, ad aprirsi al commercio estero derivava forse in parte dall'aver capito proprio questo... Nella visione mercantilista, peraltro, si tiene conto della mobilità delle risorse: si lotta, anche con i sussidi, per attrarre e sviluppare le competenze necessarie per l'industria esportatrice. Anche da questo punto di vista il mercantilismo sembra più valido delle critiche che gli sono state mosse (e comunque tutt'altro che morto: si pensi all'Airbus). Occorre comunque distinguere tra vari tipi di interventi, variamente ispirati al 9


mercantilismo (regolamentazione che si vuole efficace, per ottenere il surplus dei pagamenti), al fiscalismo (regolamentazione che si vuole inefficace, per lucrare le multe), e alla corruzione (regolamentazione che si vuole inefficace, per lucrare bustarelle--bustarelle che però possono sostituire lo stipendio, per cui possono far parte del disegno del sovrano). In questo periodo, vari studiosi si occupano di questioni economiche, ma tipicamente su questioni particolari (paradosso del valore reale e di mercato dell'acqua e dei diamanti; problemi di inflazione), senza che si sviluppi quello che noi chiameremmo una disciplina economica. Compaiono ciononostante dei contributi validissimi: va segnalata in particolare la teoria quantitativa della moneta, sviluppata già nel Cinquecento da J. Bodin (francese) per spiegare l'inflazione in Europa con l'enorme afflusso di oro e di argento dalle americhe (5HVSRQVH j 0 GH 0DOHVWURLFW VXU OH SDUDGR[H GX IDLFW GHV PRQQDLHV, 1569).

1.d. la nascita dell'economia politica 1.d.1. i fisiocrati L'economia politica intesa come disciplina ("economics"), figlia dell'illuminismo, nasce nella Francia prerevoluzionaria (c. 1750) dalla fede neo-stoica nell'ordine naturale (e pertanto ottimale) contro il quale l'intervento è dannoso o perlomeno inutile, nella sfera della produzione e distribuzione umana come nelle altre. Questi primi economisti si chiamano pertanto ILVLRFUDWL ("deve governare la natura"); il loro primo e fondamentale principio è il non-intervento: ODLVVH] IDLUH ODLVVH] SDVVHU. Secondariamente, e nel contesto francese di appoggio all'industria (dei beni di lusso), insistono che l'agricoltura è l'unica fonte netta di ricchezza; secondo loro industria e servizi trasformano senza creare benefici netti. 1.d.2. Adam Smith A. Smith (scozzese; 7KH :HDOWK RI 1DWLRQV, 1776) porta nella cultura anglosassone (egemonica nei secoli successivi) il messaggio fisiocratico anti-interventista; il suo testo è un grande libello antimercantilista (malgrado il titolo, mutuato al nemico da abbattere). Per Smith, la ricchezza delle nazioni è il benessere dei consumatori, e non l'accumulo di metalli preziosi; vince il dibattito con il mercantilismo non solo contestandone i metodi, ma sostituendo altri obiettivi (il che a rigore di logica vanifica la critica...). Il benessere dei consumatori dipende poi dal funzionamento corretto del mercato, ossia dalla FRQFRUUHQ]D, che come una benefica PDQR LQYLVLELOH porta i singoli che fanno l'interesse proprio a fare di fatto l'interesse comune; si profila dunque la funzione statale di controllo dei mercati in chiave antitrust, opposta a quella tradizionale, mercantilista, di creare e garantire i monopoli industriali. Con la concorrenza, sostiene Smith, si allarga il mercato, permettendo dunque i notevoli aumenti di produttività che accompagnano OD VSHFLDOL]]D]LRQH: è rimasto famoso il suo esempio della divisione del lavoro in una fabbrica di spilli. Dove poi per i fisiocrati solo l'agricoltura produceva ricchezza, per Smith sono produttive sia l'agricoltura che l'industria; i servizi, non produttori di beni, vengono invece considerati sterili. La parificazione dei servizi alla produzione dei beni avrà luogo solo con la rivoluzione "marginalista", austriaca e inglese, alla fine del secolo successivo. Sfuggirà pertanto al filone marxista, allora già separato da quello liberista, con gravi conseguenze per la politica economica del mondo comunista: i sovietici avranno infatti una tendenza cronica a sottoinvestire nei trasporti, e a gestire malissimo il terziario in generale (anche perchè è quello che meno si presta alla pianificazione in termini quantitativi). 10


Smith propugna il libero scambio all’esterno come il libero commercio all’interno, ma arriva a dimostrarne i benefici solo ipotizzando differenze assolute di produttività nei diversi paesi (per cui il prodotto complessivo ovviamente aumenta se ognuno si specializza in ciò che produce a costo minore); l'argomento lascia pertanto spazio al protezionismo se il concorrente è più produttivo in tutti i settori. Sulla teoria del valore, infine, Smith si ferma ad associare i prezzi relativi al contenuto relativo di lavoro (se ci vogliono in media due ore per catturare un daino e una per catturare un castoro, un daino vale due castori): una prima approssimazione non inutile ma nemmeno soddisfacente (si pensi ai beni rari, alle diverse remunerazioni orarie di professioni diverse...). 1.d.3. David Hume Completa l'opera antimercantilista di Smith il suo connazionale e contemporaneo D. Hume, che usa la teoria quantitativa della moneta per "dimostrare" la futilità delle politiche tese ad ottenere un surplus nella bilancia dei pagamenti. La teoria dei flussi aurei di Hume nota infatti che un surplus dei pagamenti crea un'afflusso di oro che a sua volta fa lievitare i prezzi, riducendo la competitività delle esportazioni e riportando in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Nell'allocazione internazionale dell'oro, come nel resto dell'economia, esiste dunque un equilibrio naturale che non si può e non si deve disturbare. Hume convince tutti, anche se la sua teoria è errata. Primo, l'oro acquisito e WHVDXUL]]DWR dalla corona non entra in circolazione e dunque non fa lievitare i prezzi. Secondo, il protezionismo aumenta il livello dei prezzi, e dunque l'oro circolante in equilibrio. Terzo, ogni paese ha un livello dei prezzi determinato dalla struttura del commercio, in quanto i prezzi interni sono legati ai prezzi all'esportazione; i prezzi all'esportazione sono i prezzi del mercato mondiale, detratti i costi di trasporto; e i costi di trasporto incidono maggiormente sulle merci povere (perchè il trasporto è una costante per tonnellata, costante che è relativamente maggiore tanto minore è il valore unitario del bene trasportato). Il paese che esportava manufatti di lusso piuttosto che grano aveva pertanto prezzi medi più alti, e dunque uno stock di circolante maggiore... Il trionfo dell'allora nuova economia classica sembra pertanto dovuto più ad una predisposizione favorevole da parte dell'opinione pubblica che ad un merito intrinseco; e ci si chiede quanta influenza possono avere di fatto le idee in quanto tali... 1.d.3. David Ricardo Il trattato di D. Ricardo (inglese; 3ULQFLSOHV RI 3ROLWLFDO (FRQRP\ DQG 7D[DWLRQ, 1817) è visto come il primo trattato di economia analitica. Di fatto, non è un opera astratta, bensì, in tale veste, un potente attacco al protezionismo agrario dell'Inghilterra governata appunto dai grandi proprietari terrieri. Ricardo adduce due argomenti. Contro il protezionismo in generale, completa l'argomentazione di Smith dimostrando che il commercio è vantaggioso per tutti, anche se un paese è poco produttivi in tutti i settori; basta infatti che ognuno si specializzi dove possiede un YDQWDJJLR FRPSDUDWR, ossia un maggior vantaggio o un minor svantaggio. Contro il protezionismo agrario in particolare, Ricardo idea un modello di crescita in cui l'economia cresce grazie all'DFFXPXOD]LRQH (ossia all'aumento delle risorse, e non solo alla maggior specializzazione delle risorse date). L'economia tende però ad uno VWDWR VWD]LRQDULR. La produzione usa terra, capitale, e lavoro; la terra è limitata, per cui gli altri fattori sono soggetti a UHQGLPHQWL GHFUHVFHQWL (ossia: raddoppiando capitale e lavoro con terra costante il prodotto aumenta ma non raddoppia). L'economia cresce finchè i rendimenti del capitale e del lavoro superano i minimi necessari per mantenerli; la crescita termina quando la pressione demografica sulle limitate risorse agrarie convoglia l'intero surplus oltre il mantenimento dei 11


lavoratori e del capitale agli agrari, visti come puri consumatori, e non, come i capitalisti, risparmiatori e investitori. Il protezionismo agrario, che impedisce di usare le terre altrui come se fossero proprie, tende pertanto a limitare la crescita. Non si può non riconoscere l'assoluta genialità dell'analisi ricardiana. Con il modello dei vantaggi comparati, infatti, Ricardo non solo scopre un principio importantissimo, che vale nello scambio interno come in quello internazionale, ma prefigura anche altri concetti che come vedremo sono assolutamente fondamentali. Specializzandosi infatti ogni paese nella produzione in cui gode di un vantaggio comparato, si viene a minimizzare il costo di ogni bene non in termini di risorse, ma in termini dei beni cui si deve rinunciare: se ne minimizza insomma quello che si chiamerà poi il FRVWR RSSRUWXQLWj. Bastando inoltre perchè il commercio sia vantaggioso che vi siano differenze nei costi opportunità, il modello non solo presenta di fatto un problema di PDVVLPL]]D]LRQH YLQFRODWD (nel caso, la massimizzazione della produzione complessiva dato il vincolo delle risorse e delle produttività), ma ne prospetta la soluzione corretta che comporta O XJXDJOLDQ]D GHL WDVVL GL VRVWLWX]LRQH (nel caso, tra i beni nei diversi paesi). All'interno del modello della crescita, pure, Ricardo nota la differenza fondamentale tra i salari e il profitto, pagamenti necessari per mantenere i lavoratori e il capitale, e la rendita della terra, senza la quale la terra esisterebbe comunque. Da allora si è capito che non è solo la terra che può guadagnare più del minimo che basterebbe per ottenerne i servizi; ma in omaggio all'origine del concetto gli economisti chiamano UHQGLWD qualsiasi remunerazione in eccesso di tale minimo. Si può anche notare, però, che l'analisi ricardiana è non poco tendenziosa. Il modello della crescita, ad esempio, è come quello successivo di Marx un modello a classi sociali antagoniste, solo con capitalisti e lavoratori ("produttivi") da una parte e agrari ("parassiti") dall'altra. Questa schematizzazione rappresenta di fatto un notevole falso storico, in quanto erano stati proprio gli agrari a finanziare i grandi investimenti in opere di pubblica utilità (strade, canali) che avevano portato l'Inghilterra del Settecento alla rivoluzione commerciale e poi industriale. I ricchi proprietari terrieri erano di fatto risparmiatori e investitori non meno dei capitalisti. Nel modello del commercio, pure, i vantaggi generali del libero scambio notati da Ricardo (e dai testi moderni) sono tali solo se non si guarda all'interno dei paesi. Rispetto all'autarchia, infatti, il libero scambio porta alla specializzazione, che modifica ovviamente le produzioni relative; ma essendo diverse le proporzioni in cui le diverse produzioni usano i fattori di produzione, modificare le produzioni relative significa cambiare pure la scarsità relativa dei fattori, e dunque le loro remunerazioni relative. Questo lo vedremo meglio poi; ma è intuitivo che in un paese tendenzialmente manifatturiero come l'Inghilterra di allora la libera importazione di prodotti agricoli avrebbe giovato non tanto "al paese" quanto ai capitalisti e ai lavoratori, con danno grave invece per gli agrari. L'antagonismo di classe si trova dunque implicitamente anche nel modello del commercio, e non solo in quello di crescita; lo stato allocatore è anche redistributore. Forte comunque di questa dottrina economica liberista, l'agitazione del nuovo mondo industriale (i tessili di Manchester) porterà l'Inghilterra al libero scambio (Reform Bill, 1832; abolizione del dazio sul grano, 1846); e con esso l'Inghilterra imbocca senza remore la via della specializzazione industriale che ne farà "l'opificio del mondo".

1.e. lo sviluppo dell'economia politica 12


1.e.1. industrializzazione, socialismo e economia borghese Nel corso dell’Ottocento lo sviluppo industriale si diffonde in Europa e in America. Crescono come mai prima di allora la produzione, la ricchezza, anche infine il tenore di vita dei lavoratori; ma la crescita è turbata da periodiche crisi, legate non più come quelle tradizionali al maltempo e ai fallimenti dei raccolti, ma a disfunzioni interne al mondo degli affari. La nuova ricchezza industriale è pure molto concentrata (anche se meno forse della ricchezza fondiaria, ma quella era antica), nelle mani della nuova borghesia. Il liberismo un tempo rivoluzionario si trova scavalcato a sinistra dal socialismo, che convoglia appunto due istanze: quella dell'uguaglianza, e quella della stabilità, e dunque dell'efficienza, economica. Oggi, notiamo, si tende a identificare l'equità con il socialismo ma l'efficienza con il capitalismo; allora il socialismo nascente prospettava rispetto al capitalismo un guadagno insieme di efficienza e di equità. Allo stato liberale, nullafacente (o poliziotto), i socialisti contrappongono dunque uno stato fortemente interventista, redistributore e stabilizzatore. E non solo: pensando che l'instabilità del capitalismo sia dovuta al mercato, anarchico e disordinato, pensano che per superare quella vada superato questo; prospettano dunque uno stato pianificatore e direttamente allocatore. L'economia politica liberale, di regime, che i socialisti chiameranno "borghese" rimane inevitabilmente condizionata da questa sfida da sinistra. Non privilegia, forse perchè intuisce tutta la sua debolezza in materia, lo studio dell'evoluzione temporale dell'economia, la crescita, il ciclo. Si concentra piuttosto sui problemi statici che rimarranno da allora quelli centrali della (micro)economia ortodossa: sviluppa cioè in chiave più o meno consciamente antisocialista l'intuizione fisiocratica e smithiana dell'armonia naturale del mercato concorrenziale, che svolge automaticamente in modo ottimale la funzione allocatrice che i socialisti vorrebbero demandare allo stato, e approfondisce ovviamente il problema del valore. Il grande erede "borghese" di Ricardo sarà J. S. Mill (3ULQFLSOHV RI 3ROLWLFDO (FRQRP\, 1848, con numerose edizioni nei decenni successivi). Mill mutua da Ricardo e arricchisce l'analisi del commercio estero, sviluppa il costo opportunità, generalizza la "rendita", spiega i prezzi con la domanda e l'offerta; ma del Ricardo della dinamica e dello scontro tra le classi non vi è traccia. Mill ritorna insomma alla statica e all'armonia, e il suo popolarissimo testo sarà di fatto una ripresentazione perfezionata dell'opera di Smith. 1.e.2. Karl Marx L'altro grande erede di Ricardo, politicamente ed analiticamente speculare a Mill, è ovviamente K. Marx ('DV .DSLWDO .ULWLN GHV 3ROLWLVFKHQ 2HNRQRPLH, 1867). Marx vede intorno a se quello che Smith non poteva ancora vedere, e che i propri contemporanei "borghesi" non vogliono vedere: che la dinamica è l'essenza stessa del capitalismo. L'equilibrio statico di concorrenza contemplato dall'economia borghese è una chimera, chè le grandi imprese sono più efficienti delle piccole, per cui la stessa concorrenza porta al monopolio. Il capitalismo poi aumenta la produzione e la produttività: non solo con la specializzazione (Smith) o l'accumulazione di risorse (Ricardo), ma stimolando invenzioni e innovazioni, insomma il progresso tecnico, dal potenziale illimitato. Il capitalismo è un sistema per gestire la scarsità, ma secondo Marx la sua vitalità produttiva eliminerà la stessa scarsità; dunque scomparirà. Marx pone alla base della dinamica capitalista la lotta di classe, ma non quella di Ricardo: Marx considera capitalisti anche i proprietari terrieri, e ad essi contrappone i proletari, ossia i lavoratori obbligati a vendere il proprio lavoro ai capitalisti, e dunque a farsi 13


sfruttare, perchè sono stati privati dei mezzi di produzione. Il capitalismo è definito da questa specifica contrapposizione di classi, con la conseguenza per noi paradossale che Marx non considera capitalisti gli Stati Uniti di allora, dove chi voleva coltivare la terra poteva ottenerla gratis. L'economia capitalista è soggetta a crisi periodiche, che sono funzionali in quanto creano disoccupazione, riducono i salari, e dunque rigenerano lo sfruttamento e l'accumulazione; nella crisi finale il proletariato prenderà il potere e "gli espropriatori saranno espropriati". Marx si presenta dunque come un figlio spurio della tradizione socialista, di cui è erede morale (ossia ne accetta i valori di fondo), ma non intellettuale e politico (ossia ne rifiuta l'analisi e il programma). Infatti secondo lui il sistema ottimale (comunista) si potrà instaurare solo quando lo sviluppo capitalistico avrà risolto il problema economico della scarsità; il programma che ne consegue è rivoluzionario ma solo "quando i tempi saranno maturi," per cui nell'immediato non ha contenuti pratici. Da questo punto di vista, si badi bene, il "socialismo scientifico" dei marxisti è molto più utopistico dei "socialismi utopistici" (così bollati dallo stesso Marx) di cui gli schemi, per quanto spesso fantastici, miravano perlomeno a risolvere il problema attuale e fondamentale dell'organizzazione ottimale in un mondo di risorse limitate. Sempre da questo punto di vista, il 0DQLIHVWR FRPXQLVWD (1848) è marxista solo dove inneggia ai trionfi della borghesia (che ha salvato l'umanità dall'imbecillità rurale: ricordiamo Pirenne); le proposte di nazionalizzazioni e via di seguito che ricalcano gli altri socialismi sono invece assolutamente ingiustificate dall'analisi marxista (anche se politicamente necessarie: non si può fondare un partito con un programma di inazione...). Sul problema del valore, infine, Marx identifica il valore "vero" con il contenuto in lavoro (più che altro per motivi ideologico-retorici, per dare al lavoro quel monopolio di creazione del valore che i fisiocrati avevano invece dato alla terra). A differenza di Smith non pretende che il valore-lavoro corrisponda al prezzo; anzi, distingue valore e prezzo, e s'infogna nel problema fantastico della "trasformazione" dei valori in prezzi. 1.e.3. i marginalisti borghesi e socialisti Il problema del valore viene invece brillantemente risolto, verso la fine dell'Ottocento, dall'economia borghese con i "marginalisti" (austriaci e inglesi). Si capisce infatti, per riprendere il vecchio paradosso, che il valore di mercato va riferito non all'acqua in generale, ma all'unità in più o in meno--la cosiddetta XQLWj PDUJLQDOH-nella situazione del momento. L'acqua è essenziale alla vita, ma siccome abbonda non è affatto essenziale l'unità marginale: darmene ancora, o togliermene un litro, cambia ben poco il mio benessere, e dunque l'acqua vale poco. Se fossimo persi nel deserto con un'unica borraccia, quel litro marginale significherebbe la sopravvivenza, e varrebbe più di qualsiasi diamante; ma normalmente le posizioni dei margini di consumo sono tali che il diamante marginale vale effettivamente molto, e l'acqua marginale poco o niente. Da allora--e lo vedremo!--le disquisizioni (micro)economiche sono tutte in termini "marginali"; e nel gergo degli economisti le cose marginali sono proprio quelle importanti. Nel mondo anglosassone il marginalismo verrà diffuso da A. Marshall (3ULQFLSOHV RI (FRQRPLFV, 1890, con numerose edizioni successive), con però un'enfasi sull'analisi dei singoli mercati ("l'equilibrio parziale") piuttosto che del sistema dei mercati ("l'equilibrio generale") che impoverisce l'analisi (e rimarrà a tutt'oggi caratteristica della tradizione angloamericana). L'analisi più profonda, del sistema dei mercati, viene invece portata avanti dalla scuola austriaca, in aperta polemica con i socialisti. A tutt'oggi non esiste una presentazione migliore della logica del valore, dell'interconnessione degli equilibri dei diversi mercati, e dei 14


costi come riflessi della domanda per i prodotti alternativi dei fattori di produzione, di quella contenuta nel volume di E. von Böhm-Bawerk (3RVLWLYH 7KHRULH GHV .DSLWDOHV, 1889). Sempre in chiave antisocialista l'americano J. B. Clark studia le implicazioni dell'analisi marginalista per la distribuzione del reddito. L'equilibrio efficiente del sistema economico esige che la remunerazione dei fattori di produzione sia quella di mercato (che corrisponde appunto al loro "valore marginale"); pertanto, conclude Clark, il capitalista deve ricevere i profitti o interessi di mercato. L'errore palese di Clark sta nel confondere fattori e persone: è il capitale che ha diritto ai profitti, e rimane da dimostrare che il capitalista abbia diritto al capitale. La confusione di Clark sembra peraltro perdurare, e di essere alla base delle "controversie dei Cambridge" (fra Cambridge inglese, di sinistra, Cambridge americano, dove si trovano Harvard e M.I.T., di destra) sulla teoria del capitale negli ultimi anni Sessanta. Gli inglesi sembrano infatti essere stati spinti a negare "il capitale" per negare i capitalisti; ma questa negazione non ha bisogno di quella. Di fatto la logica del marginalismo non è necessariamente antisocialista, e compare ben presto una piccola élite di marginalisti di sinistra, ben più lucidi di Clark. Poco dopo il 1900, infatti, E. Barone nota che lo stato socialista allocatore ("il ministro della produzione in uno stato collettivista") deve "semplicemente" riprodurre le condizioni di equilibrio prodotte da un mercato concorrenziale. Così facendo, scinde capitale (che può essere pubblico) e capitalisti. Controbatte F. Hayek (austriaco) che ciò è tutt'altro che semplice: la chiave dell'efficienza del mercato concorrenziale è l'efficienza nell'uso delle informazioni. In tale sistema infatti ogni operatore economico deve conoscere solo i propri gusti, se consumatore, o le proprie capacità tecniche, se produttore, e i prezzi di mercato, proprio perchè i prezzi generati da un sistema concorrenziale riassumono tutte le informazioni utili relative ai gusti e alle capacità tecniche degli altri operatori. Per riprodurre i risultati del mercato l'allocatore pubblico baroniano dovrebbe conoscere di scienza propria i gusti e le capacità tecniche di tutti gli operatori presenti nell'economia. Il punto che si farà lentamente strada è che il mercato stesso si può usare, come sistema di allocazione, in società ugualitarie o meno, rispondendo così anche alla critica di Hayek. Questo è il contenuto del "socialismo di mercato" (O. Lange, polacco, c. 1930), implicito peraltro anche nella moderna economia del benessere (Bator, dopoguerra). A livello di pubblico, però, il socialismo di mercato è rimasto poco capito, e i più continuano a considerare il mercato come strumento prettamente capitalista. 1.e.4. A. C. Pigou e Vilfredo Pareto A. C. Pigou è stato il successore di Marshall a Cambridge. Pigou è ricordato più che altro come reazionario per le sue critiche a Keynes; ma prima ancora di Keynes, Pigou (7KH (FRQRPLFV RI :HOIDUH, 1920) ha riportato l'interventismo nell'economia politica borghese. Pigou infatti teorizza quei "fallimenti dei mercati" (dovuti per esempio all'inquinamento dell'ambiente) che richiedono un intervento pubblico negli stessi mercati, con tasse o sussidi, per modificare gli equilibri altrimenti non ottimali. Ma questo intervento allocatore sarebbe il meno. Pigou modella direttamente l'ottimizzazione sociale, ponendo come obiettivo la massimizzazione del benessere collettivo che identifica, seguendo la tradizione britannica che risale a J. Bentham (contemporaneo di Smith e Hume), con la somma del benessere dei singoli. Presume che il benessere di ogni individuo cresca con il suo reddito, ma con aumenti decrescenti (visto che si soddisfano per primi i bisogni più urgenti); e considerando semplicemente uguale per tutti la capacità di ottenere benessere dal reddito dimostra che l'ottimizzazione sociale richiede XQD SHUIHWWD SHUHTXD]LRQH GHL UHGGLWL. Lo stato deve dunque essere redistributore; e in base al modello più 15


banale deve seguire i dettami del socialismo più accanito! V. Pareto non apparteneva alla generazione di Pigou (era contemporaneo piuttosto di Marshall), ma è utile considerarli insieme. Dal punto di vista del positivismo allora trionfante, che legava la scienza alla verifica empirica, l'economia politica borghese aveva un punto dolente. I prezzi dei beni venivano infatti spiegati con gli aumenti di benessere legati alle loro unità marginali; ma queste XWLOLWj PDUJLQDOL non erano di fatto osservabili e misurabili. Pareto ebbe il merito scientifico di VHPSOLILFDUH il modello che spiegava l'equilibrio dei mercati: capì infatti che per generare le implicazioni dell'analisi marginalista basta attribuire ai consumatori un RUGLQH GL SUHIHUHQ]H definito sui consumi possibili. Basta insomma sapere se il consumatore, potendo scegliere tra il pachetto A (due mele e una pera) o il pacchetto B (una mela e due pere), sceglie A o sceglie B--cosa direttamente osservabile--o se invece è LQGLIIHUHQWH tra A e B (cosa pure osservabile, magari chiedendo o osservando scelte ripetute); non è affatto necessario misurare l'utilità. Come vedremo, questo scaturisce di fatto dalle condizioni già notate dei massimi vincolati, ossia l'equivalenza tra i WDVVL GL VRVWLWX]LRQH. Per l'equilibrio del consumatore questi tassi riguardano la sostituzione di un bene contro l'altro, mantenendo costante da un lato la spesa--per cui il tasso è dato dal rapporto dei prezzi, PHOD SHUD , che si semplifica in SHUH PHOD --e dall'altro il benessere, ossia paragonando consumi LQGLIIHUHQWL. Questo secondo tasso di sostituzione è il rapporto delle utilità marginali, 8 PHOD 8 SHUD , che si semplifica pure in SHUH PHOD : non c'è bisogno di misurare l'utilità perchè le unità "utilità" si elidono. A ben vedere l'analisi paretiana dice che per capire l'equilibrio economico "non bisogna misurare l'utilità", nel duplice senso di questa frase ambigua: "non c'è bisogno di misurare l'utilità", e dunque, ricordando il rasoio di Occam, "bisogna evitare di misurare l'utilità": il modello con meri ordini di preferenze è sufficiente, non bisogna complicarlo inutilmente. Per l'economia politica borghese, però, "bisogna evitare di misurare l'utilità" è diventato un principio autonomo: applicato non solo quando effettivamente tale misura non è necessaria, ma anche per delegittimare le analisi che postulano tale misura quando di fatto è necessaria. Tra queste rientrano appunto le analisi della YDOXWD]LRQH degli equilibri dal punto di vista dell'ottimizzazione sociale, e della desiderabilità della redistribuzione, ovviamente impossibili senza una misura del benessere di ciascuno (a prescindere dal modo con il quale vengono poi combinate per calcolare l'ottimo sociale: la sommatoria di Pigou è solo uno dei sistemi possibili). Sull'ottimizzazione sociale esiste una letteratura, che incontreremo; ma è periferica, lontana dal nocciolo della disciplina che pur nasceva come "l'oiko-nomia" della "polis". 1.e.5. la microeconomia e l'eredità paretiana L'economia politica borghese si è tenuta stretta, come vedremo, il Pigou dell'intervento pubblico allocatore; ma pur di allontanarsi dal Pigou pericoloso redistributore ha sposato Pareto. I concetti fondamentali della attuale microeconomia sono infatti l'efficienza paretiana, gli equilibri paretiani, gli ottimi paretiani, le mosse paretiane, la superiorità paretiana, e così via. In inglese, poi, si usa il sostantivo in apposizione dove l'italiano usa l'aggettivo, per cui si parla di "Pareto efficiency", "Pareto equilibrium", e così via: il nome stesso di Pareto fa dunque parte del lessico degli economisti, forse più di qualsiasi altro (e sicuramente di qualsiasi altro nome italiano: per fortuna, chè in seconda posizione troviamo Ponzi, finanziere truffaldino). Questi concetti "paretiani" sono tutti improntati al rifiuto di misurare con un metro 16


comune, e dunque di valutare al netto, guadagni e perdite. Una situazione è pertanto 3DUHWR VXSHULRUH (si direbbe in inglese) a un altra se sono diverse, e WXWWH le diversità sono a favore della prima (per esempio, nel caso in cui di due alberghi quello che costa di meno mi piace di piÚ). Una PRVVD SDUHWLDQD è uno spostamento da una situazione ad un altra ad essa "Paretosuperiore" (come quando essendoci scambiati gli impermeabili uscendo da teatro ognuno si riprende il suo). Un RWWLPR SDUHWLDQR è qualsiasi situazione di HIILFLHQ]D SDUHWLDQD, ossia non "Pareto-inferiore" a (o "Pareto-dominata" da) qualsiasi altra, ossia dalla quale non esistono mosse paretiane (anche se per mutuare un esempio famoso il pollo lo mangio tutto io, e tu crepi di fame). La rilevanza di questi concetti per l'economia politica è ovvia: lo scambio di mercato (senza coazione e senza inganno) è ovviamente una mossa paretiana. Se lo scambio continua fintanto che sono possibili mosse paretiane, lo scambio porta necessariamente a equilibri che sono "Pareto-efficienti" e dunque ottimi paretiani; qualsiasi HTXLOLEULR SDUHWLDQR è corrispondentemente un equilibrio di mercato (per cui se la situazione iniziale è già un equilibrio paretiano non ci sono scambi possibili). Siccome poi il monopolio riducendo lo scambio lascia spazi a miglioramenti paretiani (anche se non necessariamente per vie volontarie, ma questo lo chiariremo poi), questa analisi riporta naturalmente all'enfasi Smithiana sui benefici della FRQFRUUHQ]D (che lo stato allocatore deve dunque salvaguardare). L'economia borghese accetta pure, come abbiamo già notato, l'intervento allocatore con tasse o sussidi pigoviani in presenza dei "fallimenti dei mercati" (anche concorrenziali) che sono tali proprio perchè portano a equilibri non "Paretoefficienti": peraltro con notevoli strappi alla pura logica dell'analisi proprio perchè (come abbiamo visto) ogni intervento reale danneggia qualcuno e dunque non può essere difeso come mossa paretiana. In tutto ciò quello che colpisce è l'escamotage retorico che porta l'economia borghese a identificare il bene con l'efficienza paretiana, che come abbiamo visto a proposito di Pigou e di polis (e di polli) è una cosa ben diversa dall'efficienza e basta. L'economista borghese si presenta dunque alla società come si presenterebbe a un'azienda un ingegnere monomaniacale, che incaricato di migliorarne l'efficienza identifica questa con (poniamo) l'efficienza termica: spende un patrimonio per acquistare macchine che minimizzano l'uso del carburante, tralasciando ogni altra considerazione, e l'azienda va in rovina. Il motivo presumibile di tutto ciò, lo ripetiamo, è che all'interno della matrice culturale anglosassone i problemi di allocazione sono problemi comodi, mentre quelli di redistribuzione sono problemi scomodi. Poco importa peraltro se il lettore non condivide questa ipotesi: l'essenziale è che si sia comunque convinto che le scienze sociali vanno avvicinate con forte scetticismo e senso critico. 1.e.6. la grande crisi e J. Maynard Keynes La grande crisi che si apre nel 1929 e porta la disoccupazione nei paesi industrializzati fino al 25% della forza lavoro scuote finalmente la fede degli economisti borghesi nella capacità di autoregolamentazione del sistema capitalistico liberista. J. M. Keynes (7KH *HQHUDO 7KHRU\ RI (PSOR\PHQW ,QWHUHVW DQG 0RQH\, 1936), erede della tradizione liberista della Cambridge inglese, teorizza la possibilità di un equilibrio di sottoccupazione, che va rotto dall'azione statale. Il contributo di Keynes si può riassumere molto schematicamente in tre punti. Primo, il reddito aggregato è variabile, in quanto proporziona il risparmio agli investimenti; lo stato è dunque utilmente stabilizzatore. Secondo, il desiderio di aumentare le disponibilità di potere d'acquisto liquido, che è alla base dell'eccesso di risparmio, si può soddisfare meno penosamente aumentando lo stock di moneta a prezzi costanti che non abbassando i prezzi a 17


stock di moneta costante (perchè i prezzi calano solo lentamente, e con una disoccupazione abbastanza forte da far calare i salari e dunque i costi); lo stato usa dunque utilmente la politica monetaria (ossia controlla lo stock di moneta) a fini anticiclici. Terzo, la domanda di liquidità può diventare infinita (a tassi di interesse minimi), in qual caso per raggiungere il pieno impiego lo stato deve intervenire direttamente sulla domanda di beni e servizi; lo stato usa dunque utilmente la politica fiscale (ossia controlla le entrate e le spese pubbliche) a fini anticiclici. Nasce così la macroeconomia, che considera all'interno dell'economia borghese l'intervento dello stato stabilizzatore. La politica economica anticiclica rischia peraltro di assorbire l'intera politica economica; porta con se più o meno casualmente un interesse alla redistribuzione, essendo i keynesiani generalmente interventisti e di sinistra moderata (perlomeno negli Stati Uniti), ma toglie attenzione dalla politica di allocazione microeconomica forse più importante per la crescita di lungo periodo. Lo stato stabilizzatore è poi contemporaneamente redistributore, nella misura in cui nulla indebolisce la posizione contrattuale dei lavoratori più della disoccupazione diffusa. M. Kalecki, polacco contemporaneo di Keynes, ripropone infatti la tesi marxista che le crisi periodiche sono necessarie al capitalismo, in quanto rimettono i lavoratori al posto loro, e ne deduce che lo stato capitalista non può essere stabilizzatore. A rigor di logica, però, questa conclusione sembra troppo ampia, e sarebbe forse più corretto sostenere solo che lo stato capitalista non può tenere sempre bassa la disoccupazione. In tempi più recenti, infatti, il nesso tra stabilizzazione e redistribuzione si è manifestato su un fronte leggermente spostato: premesso che sono tutti d'accordo nell'eliminare il ciclo e stabilizzare il tasso di disoccupazione, destra e sinistra hanno litigato sul tasso di disoccupazione da mantenere (anche a colpi di retorica: la destra è riuscita a far chiamare "naturale" una disoccupazione vicina al 10%, che un tempo sarebbe stata vista come un'abominazione). Negli ultimi anni, negli Stati Uniti, la crescita economica ha riportato la disoccupazione a livelli bassissimi, e la controversia si è sopita; rimane il problema di capire per quali motivi l'Europa non riesce a crescere, e a generare l'occupazione, quanto gli Stati Uniti... 1.e.7. la reazione a Keynes Col secondo punto di cui sopra Keynes riconosce la tendenza autoequilibratrice del sistema economico, anche se solo in un lungo periodo nel quale "siamo tutti morti". Col terzo punto, invece, Keynes disconosce tale tendenza, colpendo al cuore la costruzione Smithiana alla base della scienza economica borghese. I difensori della visione Smithiana, capeggiati dal Pigou, attaccano dunque il terzo punto: col calare dei prezzi e l'aumentare del potere d'acquisto della massa di moneta, nota Pigou, aumenta la ricchezza e dunque la spesa per consumi, riportando l'economia al pieno impiego anche se non aumentano gli investimenti. Questo argomento ha valore filosofico ma non pratico, in quanto non tocca il secondo punto, che giustifica l'intervento monetario come sostituto preferibile alla lenta correzione automatica del sistema. Poco nota ma meritevole di attenzione è invece la reazione di H. C. Simons (Chicago), che presenta "A positive program for laisser faire." Per Simons, l'aggiustamento automatico attraverso riduzioni dei prezzi è difficile in presenza di potere di mercato, e doloroso in presenza di debiti (il cui peso reale aumenta, facendo fallire anche imprese sane, quando calano i prezzi in modo inatteso). Per permettere il mantenimento indolore del pieno impiego senza un intervento (discrezionale) dello stato, Simons propone pertanto un'organizzazione economica in cui lo stato mantiene rigorosamente la concorrenza (gestendo 18


in proprio qualsiasi monopolio naturale), e proibisce il debito privato, permettendo alle imprese di finanziarsi solo con l’emissione di azioni... 1.e.8. gli esperimenti socialcomunisti Sulla scia delle grandi guerre vanno al potere i marxisti in Russia (Lenin) dal 1917, in Jugoslavia dal 1945 (Tito), nel resto dell’Europa orientale fra il 1945 e il 1948, in Cina (Mao Tse Tung) dal 1949. In Russia, come in Francia dopo il 1789, le potenze estere intervengono per ristabilire "l'ancien régime", ma senza successo: non è un caso che le rivoluzioni avvengono solo nelle grandi potenze (e poi con la protezione di queste: vedi Vietnam e Cuba). Si segnalano diversi modelli. In Russia, dopo vari tentennamenti, si instaura un regime di capitalismo di stato. Lo stato è proprietario dei mezzi di produzione; la produzione (sulla scia dell'analisi di Marx, che vede il capitalismo come tendente al monopolio delle imprese giganti) viene affidata a imprese enormi, anche in agricoltura, e pianificata attraverso indicatori quantitativi (a discapito della qualità). Il sistema rivela una capacità di innovazione molto scarsa; si può capire come un'economia di guerra (vedi l'esperienza degli Stati Uniti nel 1941-45, molto simile). L'interfaccia tra produzione e famiglie rimane affidata al mercato. Le persone scelgono gli studi e le carriere in base alla remunerazione attesa; i beni vengono venduti in negozi (molto mal forniti, con beni scadenti e code a non finire: ciò rivela sia una scarsa capacità di recepire le esigenze dei consumatori, sia una forte inflazione soppressa). In sostanza, dunque, i sovietici sopprimono solo i mercati all'interno del settore produttivo, che sono peraltro proprio quelli che (per via della specializzazione delle imprese) funzionano meglio degli altri. Come in Italia, peraltro, le classi dirigenti si mettono al riparo dai disagi del pubblico attraverso canali privilegiati. In Jugoslavia, si attua un modello cooperativo: ogni impresa con più di cinque dipendenti deve essere di proprietà dei lavoratori, che si dividono pertanto il valore aggiunto (reddito da lavoro più reddito da capitale), al netto degli interessi sul finanziamento bancario. A livello teorico, rimangono vivi i risultati di efficienza del mercato, identici a quelli del modello del capitalismo concorrenziale (anche se con una distribuzione della proprietà e del reddito ovviamente diversi). In Cina e poi in Cuba si sperimenta invece un modello più avanzato, in cui si rifiutano gli incentivi materiali, e si cerca di far lavorare tutti per amore del prossimo. Ne consegue una fortissima pressione ideologica, e una notevole coercizione pratica da parte dell'apparato locale.

1.f. l'economia politica borghese nel secondo dopoguerra 1.f.1. l'apogeo dell'interventismo Nei primi decenni del secondo dopoguerra l'economia politica borghese diventa fortemente interventista: accompagna di fatto l'opinione pubblica che in America sostiene, da Roosevelt a Johnson, uno stato attivamente impegnato nel risolvere i problemi sociali, insomma, in quel contesto, "di sinistra". Sul fronte analitico la teoria dell'equilibrio generale e la cosiddetta "economia del benessere" scaturita dall'analisi pigoviana dell'ottimizzazione sociale stabiliscono i limiti della mano invisibile di Smith. Da un lato, si nota che vi è un numero infinito di possibili allocazioni efficienti delle risorse, correlate con diverse possibili allocazioni della ricchezza, cosicchè il mercato può al massimo ottimizzare l'allocazione delle risorse per una data distribuzione della ricchezza (riconoscendo così almeno implicitamente che l'efficienza non 19


ha bisogno di disuguaglianza); dall'altro, si nota che il decentramento al mercato è sufficiente solo in condizioni abbastanza restrittive, fuori delle quali rimane spazio per un intervento correttivo. La microeconomia appoggia così gli interventi allocativi e redistributivi. La macroeconomia appoggia a sua volta gli interventi di stabilizzazione. Negli anni '50 e '60 lo schema Keynesiano diventa la nuova ortodossia, e negli Stati Uniti le controversie fra gli economisti sono solo sull'identità della politica stabilizzatrice più efficace (la destra è monetarista, la sinistra fiscalista). La manovra fiscale di Kennedy, di matrice keynesiana e tesa a ridar vigore all'economia, riesce pienamente; gli economisti parlano allora di aggiustamenti di perfezionamento ("fine tuning"). Nel contempo, si teorizza la convergenza dei sistemi (di mercato, pianificati) verso un unico modello, ottimale, di economia di mercato guidata da uno stato fortemente interventista. In Francia, in particolare, si sviluppa la "pianificazione indicativa": non obbligatoria come quella sovietica, ma solo di previsione autorealizzante. Notiamo peraltro che questo tipo di pianificazione può funzionare solo in un regime non concorrenziale, in cui gli obiettivi aggregati si traducono in obiettivi privati tramite la costanza delle quote di mercato... Si diffonde infine la WHRULD GHL JLRFKL, che con l'esempio clamoroso del GLOHPPD GHO SULJLRQLHUR dimostra che le scelte individuali possono portare a equilibri socialmente dannosi, e nega pertanto quell'armonia naturale intuita dai fisiocrati e da Smith e da allora al cuore dell'economia anti-interventista. 1.f.2. gli inizi della controffensiva liberista Allo stesso tempo, e se si vuole allora controcorrente, si sviluppano le basi della GHUHJRODPHQWD]LRQH, applicata per prima ai tassi di cambio e ai trasporti. Con riferimento ai trasporti ferroviari, in particolare, si sviluppa la teoria della regolamentazione frustrata dalla tendenza alla simbiosi fra burocrati e industria. Si sviluppano in parte su queste basi da un lato la WHRULD GHOO DJHQ]LD, che nota come l'interesse del mandatario non coincida con quello del mandante, e dall'altro la WHRULD GHOO D]LRQH FROOHWWLYD, in cui si nota che lo stesso stato tenderà a servire interessi particolari piuttosto che interesi generali. A complemento di queste la destra americana sviluppa la teoria della ricerca delle rendite ("rent-seeking"): dove lo stato interviene (e anche lo stato allocatore è inevitabilmente redistributore, chè ogni modifica dei prezzi comporta benefici per una parte e danni per l'altra) i privati investiranno risorse per ottenere favori dallo stato, con un dispendio netto che comporta un danno complessivo. Ne consegue un nuovo scetticismo nei confronti dell'azione pubblica, e la consapevolezza che le imperfezioni del mercato non bastano da sole a giustificare l'intervento dello stato anch'esso non scevro da costi e carenze; questo tipo di analisi è noto adesso come la teoria "positiva" dell'intervento pubblico (ossia la teoria di come funziona veramente). Si riduce così lo spazio per l'intervento dello stato allocatore, almeno in senso statico. In senso dinamico, anche la pianificazione passa di moda, in quanto lo stato alla fine non è dotato di strumenti di previsione migliori di quelle dei singoli: le scommesse tecnologiche si rivelano spesso perdenti (almeno in Occidente...). 1.f.3. la crisi della macroeconomia La fiducia nelle capacità di previsione e di controllo, quasi intera al seguito dell'intervento trionfale dell'amministrazione Kennedy-Johnson, dura ben poco: già nei primi anni '70 la manovra antinflazionistica di Nixon non riesce affatto, e, subito dopo, la crisi energetica porta ad un aumento contemporaneo dell'inflazione e della disoccupazione che contraddice i modelli canonici. I sistemi di controllo macroeconomico sviluppati nel corso 20


degli anni vengono poi scossi dalla deregolamentazione dei tassi di cambio e soprattutto dei flussi di capitale. In parte per motivi tecnici che rendono vane certe politiche di controllo ove i capitali siano altamente mobili, in parte per un riflusso filosofico che ridà forza alla fede preKeynesiana nell'ottimalità automatica del mercato, si diffonde un senso della scarsa efficacia del controllo macroeconomico. Oggigiorno, si ha poca fede nella governabilità delle economie (e non solo di mercato!); i temi più sentiti riguardano forse l'assetto istituzionale che favorisce la crescita. 1.f.4. la teoria dell'informazione Vari sviluppi specifici nella teoria economica (fra cui la teoria dell'agenzia e la teoria dell'azione collettiva) sono stati riuniti e sistematizzati nella nuova teoria dei problemi di informazione. A livello macroeconomico si richiede che l'equilibrio sia anche un'equilibrio informativo, ossia in cui non vi siano errori sistematici e dunque prevedibili (teoria delle aspettative razionali). A livello microeconomico si abbandona invece l'ipotesi (dell'analisi neoclassica marginalista) che gli operatori economici abbiano informazioni perfette per studiare le conseguenza delle informazioni non solo limitate ma "asimmetriche" (ossia una parte contraente sa cose che l'altra non sa). Da questa premessa scaturisce l'analisi dei FRVWL GL WUDQVD]LRQH, ossia i costi che si incorrono nel negoziare i contratti e nel verificarne l'esecuzione; questi costi variano ovviamente a seconda del bene da trasferire (omogeneo/eterogeneo, semplice/complesso), e degli incentivi creati dalla struttura stesso del contratto. Si nota che le transazioni possono spesso avvenire con strutture contrattuali diverse, e che verranno usate le forme meno costose. Ad esempio, si può lavorare la terra con salariati, o affittarla a chi la coltiva; i costi di negoziato sono minori per la prima forma (non c'è bisogno di un inventario), quelli di verifica minori per la seconda (non c'è bisogno di controllare l'esecuzione del lavoro, in quanto l'affittuario, a differenza del salariato, è incentivato a lavorare dallo stesso contratto di affitto, che lascia a lui tutto il prodotto ottenuto con uno sforzo aggiuntivo); essendo poi i costi di negoziato costi iniziali, e i costi di verifica costi correnti, è chiaro che si affitterà il lavoro per periodi brevi e la terra per periodi lunghi. Questa analisi è stata portata avanti (come quella simile della teoria positiva dell'azione pubblica) da economisti prevalentemente di destra, che ne hanno ricavato il messaggio che lo stato deve lasciar correre non solo in materia di prezzi, ma anche in materia di istituzioni. L'idea è che vi è concorrenza tra le istituzioni (forme contrattuali, mercati) come tra le imprese, e che tale concorrenza porta all'efficienza; quello che sopravvive sopravvive proprio perchè efficiente, per cui lo stato non deve intervenire (ad esempio come quello italiano, che ha bandito la mezzadria). Vicina a questa analisi vi è quella dei sistemi legali, che tende a vedere anche le leggi come strumenti di efficienza economica. Allo stesso tempo, però, la teoria dei costi di informazione è fortemente corrosiva della base stessa della posizione di destra, ossia la fede nella mano invisibile. L'idea che basti la concorrenza a far coincidere interessi pubblici e privati assume infatti che le informazioni siano perfette, e solo su questo assunto si può giustificare l'affermazione di M. Friedman (economista di destra di grande talento) che le imprese hanno come unico dovere quello di massimizzare i profitti, senza comportarsi in modo "responsabile". Se l'impresa ad esempio sa che le automobili che produce hanno freni difettosi, e i clienti non lo sanno, ecco che l'equilibrio desiderabile si ottiene con la responsabilità, l'onestà, ecc.., o con l'intervento statale. Con la teoria dell'informazione, dunque, la teoria economica liberal-borghese si riavvicina alla posizione cattolica/popolare/socialista, che teme la ricerca del vantaggio 21


privato e diffida dunque dei mercati. Si riconosce cioè che il buon funzionamento "dei mercati" richiede un supporto etico, che riduca i costi di transazione: supporto etico che è forse la caratteristica specifica dei paesi sviluppati, e che manca a quelli sottosviluppati che proprio per questo rimangono tali (Russia post-comunista; "familismo amorale" nel meridione italiano). Da qui si configura un ulteriore ruolo dello stato ODWR VHQVX allocatore, ossia quello dello stato educatore. Un'ultima osservazione: la libertà dei singoli di contrattare a piacimento, senza intervento pubblico, può naturalmente essere difesa, e da una certa destra lo è, direttamente come principio etico: si può cioè affermare che il diritto alla libertà di contrattazione fa parte del diritto naturale alla libertà. Su questo si può concordare o meno; ma è una posizione assolutamente diversa da quella liberal-democratica dai fisiocrati e Smith in poi, che giustifica la libertà di contrattazione come modo migliore di raggiungere obiettivi sociali ("la ricchezza delle nazioni"), ossia come strumento e non come fine a se stessa.

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2. L’EQUILIBRIO PARZIALE: L’INDIVIDUO E IL MERCATO PER UN SINGOLO BENE 2.a. l’analisi dell’equilibrio 2.a.1. il quadro generale L’economia (moderna) nasce con due problemi fondamentali: quello della IRUPD]LRQH GHL SUH]]L (il paradosso dell’acqua e dei diamanti), e quello dell’DOORFD]LRQH GHOOH ULVRUVH (la mano invisibile). I due problemi sono ovviamente connessi, in quanto l’equilibrio di un sistema di mercati dipende da quello dei singoli mercati; la loro chiave è l'equilibrio dell'individuo che opera nel mercato. Questi equilibri sono stati capiti a fondo solo con la svolta marginalista (fine '800), che supera le teorie del valore connesse al costo di produzione (o al contenuto di lavoro; vedi Smith, Ricardo, Marx); da allora, la (micro)economia si può considerare l'DQDOLVL GHOOH VFHOWH. In genere, per la societĂ come per l'individuo, scegliere implica una JDPPD di opzioni (il YLQFROR), e un criterio di scelta (la IXQ]LRQH RELHWWLYR). Come meglio vedremo in seguito, la scelta effettivamente fatta è formalizzata come un equilibrio di RWWLPL]]D]LRQH, che comporta l'equiparazione dei tassi marginali di sostituzione nel vincolo e nell'obiettivo (i prezzi, come tali, sono tassi di sostituzione tra merce e denaro). Inizialmente consideriamo solo l'equilibrio parziale del singolo mercato, e dell'individuo che opera in un singolo mercato, senza curarci del contesto piĂš ampio (equilibrio complessivo dell'individuo, della societĂ ). Anche in questo contesto semplificato, però, l'equilibrio è caratterizzato da alcune equivalenze marginali. 2.a.2. l'aspetto formale dell'equilibrio del singolo: la logica Per il momento, dunque, consideriamo una singola dimensione di azione ("quanto gelato consumare", "quanta strada fare in bicicletta"...), e consideriamo solo la scelta della quantitĂ di equilibrio, ossia del PDUJLQH fino al quale si sceglie di spingere quell'azione. Notiamo che a qualsiasi (singola) azione portata fino ad un certo margine si possono associare vantaggi e svantaggi (benefici e costi) lordi. Il margine scelto sarĂ quello che ne PDVVLPL]]D la differenza positiva, ossia il EHQHILFLR QHWWR; e il beneficio netto raggiunge ovviamente un massimo (locale) quando sono uguali il beneficio (lordo) marginale, ossia il beneficio DJJLXQWLYR per unitĂ di azione, e il costo (lordo) marginale, ossia il costo DJJLXQWLYR per unitĂ di azione. Se infatti l'unitĂ di azione aggiuntiva porta piĂš benefici che costi conviene proseguire, e non siamo ancora al punto di massimo (se il piacere di godermi la passeggiata è ancora superiore al dispiacere della crescente stanchezza, vado avanti). Una manifestazione dell'egemonia culturale anglosassone è che le sigle usate dagli economisti, anche italiani, sono mutuate direttamente dall'inglese (che antepone l'aggettivo al sostantivo): il beneficio marginale si abbrevia dunque 0% ("marginal benefit"), il costo marginale 0& ("marginal cost"). 5LVSHWWR DOOD VLQJROD GLPHQVLRQH GL D]LRQH GXQTXH O HTXLOLEULR FRUULVSRQGH DOOD FRQGL]LRQH 0%R 0&R GRYH R q O RSHUDWRUH FKH GHFLGH 127$ %(1( SHUFKq O HTXLSDUD]LRQH PDUJLQDOH GHL FRVWL H GHL EHQHILFL VLD FRQGL]LRQH GL HTXLOLEULR TXHVWL GHYRQR HVVHUH ULIHULWL DOOR VWHVVR RSHUDWRUH TXHOOR DSSXQWR FKH 23


GHFLGH 2.a.3. l’aspetto formale dell’equilibrio del singolo: la geometria Si veda la Figura 2.a.3.1. Per convenienza di rappresentazione e di calcolo, ipotizziamo che i benefici e i costi totali ("total benefit" 7%, "total cost" 7&), funzione della quantitĂ da scegliere 4, abbiano ambedue la forma quadratica 7 4 D4 E4 (senza intercetta, per cui l'azione "zero" ha conseguenze nulle). Questo implica che i correspondenti valori medi ("average benefit" $%, "average cost" $&), definiti come 7 4, hanno una comoda forma lineare $ 7 4 D E4. I valori marginali, che altro non sono che le derivate di 7 rispetto a 4, sono allora pure lineari con la stessa intercetta e pendenza doppia del corrispondente valore medio: 0 D E4. Siccome 7 4 $ 4 , in generale 0 $ $ 4; con queste funzioni lineari $ si riduce appunto a E. Per ottenere un equilibrio con una scelta precisa, con 4 > 0, assumiamo ovviamente un coefficiente D maggiore per i benefici che non per i costi (D% > D&), e un coefficiente E positivo per i costi (dunque marginali e medi crescenti) e negativo per i benefici (dunque marginali e medi decrescenti). Ricordiamo che i valori medi sono crescenti (calanti) se e solo se i valori marginali sono superiori (inferiori) ai valori medi: la media dei voti si alza (si abbassa) solo con l'aggiunta di un voto superiore (inferiore) alla media. Il primo grafico illustra l'equilibrio con i totali. A sinistra e a destra di 4H le pendenze delle curve sono diverse; il divario tra le due (misurato YHUWLFDOPHQWH) cresce verso destra a sinistra di 4H, e verso sinistra a destra di quel valore; al divario massimo, le pendenze--il beneficio e il costo marginali--sono uguali. Il secondo illustra lo stesso equilibrio col beneficio totale QHWWR--la distanza verticale tra le due curve del primo grafico--che ovviamente raggiunge un massimo in corrispondenza di 4H. Il terzo illustra lo stesso equilibrio con i valori marginali e medi: sulle ascisse rimane la quantitĂ , sulle ordinate si misura il beneficio o il costo non piĂš totale ma XQLWDULR. Con funzioni lineari, e data la pendenza delle curve marginali doppia di quelle delle curve medie, è ovvio che se le marginali si incrociano in corrispondenza di 4H le medie si incrociano in corrispondenza di 24H. In questo grafico, pure, è ovvio che se a un dato margine (ossia data una certa quantitĂ ) il beneficio marginale supera il costo marginale, conviene aumentare la quantitĂ (per lucrare appunto la differenza tra questi valori); il massimo beneficio netto si ottiene dunque con la quantitĂ per la quale si riduce a zero la differenza tra il beneficio marginale e il costo marginale. La Figura 2.a.3.2 riprende il primo e il terzo grafico della figura precedente, per illustrare meglio le corrispondenze geometriche tra di loro. Questi hanno le stesse ascisse; le ordinate sono in alto i valori totali 7 (illustrati con i soli benefici, per alleggerire la presentazione), in basso i valori unitari 7 4. Ne consegue che le altezze del grafico inferiore si trovano sul grafico superiore come pendenze: il valore medio < sulle ordinate in basso (dimensione: 7 4) è in alto la tangente dell'angolo <, ossia appunto il totale sulle ordinate 7 diviso per il totale sulle ascisse 4 (da cui appunto la dimensione 7 4); e cosĂŹ pure il valore marginale ;. Nel grafico superiore, notiamo, per qualsiasi 4 il valore marginale è la pendenza della tangente alla curva dei totali; il valore medio è la pendenza della retta dal punto sulla curva dei totali al punto di origine. Notiamo che ; è minore di <: i benefici medi sono infatti decrescenti. Le altezze nel grafico superiore (dimensione: 7) si trovano invece sul grafico inferiore come aree: 7 4 4 7. Il totale =, in alto l'altezza della curva dei totali, è in basso il rettangolo ottenuto appunto come il prodotto del valore medio e della quantitĂ ; questo rettangolo in basso corrisponde in alto precisamente all'altezza = raggiunta seguendo 24


la pendenza < (il valore medio) per una distanza 4. In alto, però, l'altezza = si raggiunge anche seguendo la curva stessa per la distanza 4, ossia sommando gli incrementi marginali; in basso, dunque, l'area = si ottiene anche dal trapezio definito dalla curva dei valori marginali fino a 4. Queste due rappresentazioni di = hanno ovviamente un'area identica, per cui il triangolo rettangolo 9 (escluso dall'una) è ovviamente identico al triangolo : (escluso dall'altra); come già sappiamo, dunque, il valore medio per 4 è il valore marginale per 4 . Ritornando alla Figura 2.a.3.1, notiamo dunque che per qualsiasi quantità il beneficio netto compare nel terzo grafico come la differenza tra l'area sotto la curva dei benefici marginali e l'area sotto la curva dei costi marginali, ossia come il trapezio definito da queste due curve; è ovviamente massimo quando le curve si incrociano, e il trapezio si riduce a triangolo. $YYHUWHQ]D FRQWLQXHUHPR D ODYRUDUH FRQ JUDILFL GL TXHVWR WLSR SHU FXL q HVVHQ]LDOH HVVHUQH SDGURQL 2.a.4. le unità di misura 0% e 0& possono essere misurati direttamente nel metro psichico dell'operatore, o nel metro monetario; comunque vanno misurati in unità uniformi. Qualora le unità naturali di 0% e 0& non siano le stesse, l'uniformità di misura dovrà essere imposta convertendo l'una o l'altra variabile dal suo metro naturale a quello dell'altra variabile. Il tasso di conversione emerge esso stesso dal processo di ottimizzazione globale; ma questo si vede solo se tale processo viene preso esplicitamente in considerazione (vedi infra). In molti casi il metro naturale dei benefici e dei costi è quello psichico: cosÏ ad esempio chi al momento del trasloco decide quanto mangiare del gelato che rimane nel surgelatore e altrimenti butta via, o chi in passeggiata decide quando tornare sui suoi passi. Nel considerare l'individuo che opera nel mercato, il metro naturale dei costi di chi compra come dei ricavi di chi vende è il metro monetario (che è peraltro il metro naturale dei prezzi che l'analisi vuole spiegare). Per chi compra e rivende, dunque, benefici e costi sono ambedue naturalmente monetari; ma i benefici di chi compra beni di consumo, e i costi di chi li vende privandosene, sono naturalmente in unità psichiche. A questo livello di analisi, questi costi e benefici psichici si presumono convertiti in unità monetarie, senza specificare come. Per il compratore di beni di consumo, dunque, l'equilibrio è raggiunto quando il beneficio e il costo marginali, misurati in termini monetari, sono uguali: 0%F 0&F, dove 0%F è il valore monetario che l'operatore dà al suo beneficio marginale psichico, e 0&F è il costo marginale associato direttamente ai prezzi pagati (l'unità di misura è dollari per unità fisica). Per il venditore che si priva di beni di consumo, pure, l'equilibrio è raggiunto quando il beneficio e il costo marginali, misurati in termini monetari, sono uguali: 0%Y 0&Y, dove invece 0&Y è il valore monetario che l'operatore da al suo costo marginale psichico, e 0%Y è il beneficio marginale associato ai prezzi ricevuti. 2.a.5. il mercato e il prezzo L'equilibrio del mercato determina il prezzo. Perchè un mercato sia in equilibrio, devono essere in equilibrio i singoli partecipanti (per ognuno di essi, 0%R 0&R), e i loro equilibri devono essere coerenti. Per capire un equilibrio di mercato bisogna pertanto controllare separatamente l'equilibrio di chi compra, l'equilibrio di chi vende, e la coerenza tra questi equilibri. La coerenza degli equilibri individuali è mediata dalla struttura del mercato, in vari modi che vedremo appresso. In genere, le quantità scambiate devono essere coerenti, ossia il 25


totale venduto deve corrispondere al totale comprato (distinguendo eventualmente un terzo operatore residuale, come la banca centrale che in regime di cambi fissi compra o vende il saldo delle quantità scambiate dagli operatori privati al prezzo prefissato); i prezzi pagati e ricevuti devono essere coerenti, ossia il prezzo pagato deve essere uguale a quello ricevuto (o scostarsene dell'ammontare esatto dell'eventuale tassa sullo scambio--tassa che può essere negativa, nel qual caso si parla di sussidi). Inoltre, e in modo fondamentale, la struttura del mercato riflette il "potere di mercato" dei vari partecipanti, ossia i vincoli ai quali sono soggetti. Questo potere a sua volta determina il nesso tra prezzo di mercato e costo marginale per chi compra, e/o tra prezzo di mercato e beneficio marginale per chi vende; determina dunque l'equilibrio dei singoli operatori e pertanto l'equilibrio del mercato. In questo senso e per questo motivo, il valore (prezzo di mercato) dipende non solo dai benefici di chi compra e dai costi di chi vende ("domanda e offerta"), ma anche dalla struttura del mercato (precisazione di E. Chamberlin, che nei primi anni '30, e contemporaneamente alla J. Robinson, sviluppò la teoria della concorrenza monopolistica, che incontreremo poi).

2.b. l'equilibrio di concorrenza perfetta 2.b.1. definizione: La concorrenza perfetta è definita dall'DVVHQ]D GL SRWHUH GL PHUFDWR, per cui l'individuo non può influire sul prezzo di mercato. Per estensione si definisce concorrenziale il comportamento di qualsiasi operatore che, a torto o a ragione, prende il prezzo di mercato come una variabile esogena, ossia non influenzata dalla propria azione. Siccome il prezzo è (considerato) dato, per il compratore il costo medio è costante, e coincide con il costo marginale; per il venditore il beneficio medio è costante, e coincide con il beneficio marginale. Il costo marginale per il compratore e il beneficio marginale per il venditore si identificano dunque direttamente con il prezzo di mercato: 0&F 3, e 3 0%Y. 2.b.2. l'equilibrio del compratore concorrenziale Per tale individuo, dunque, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginale equipara il valore marginale psichico monetizzato del bene al prezzo di mercato: infatti il suo equilibrio esige 0%F 0&F, la concorrenzialità implica 0&F 3, per cui 0%F 0&F 3 e dunque in equilibrio concorrenziale 0%F 3. L'equilibrio fra quantità acquistata e prezzo si trova dunque sulla curva dei valori marginali psichici monetizzati, ciascuno dei quali indica quanto il compratore valuta in moneta quell'unità marginale, come illustrato nel grafico superiore della Figura 2.b.2.1. ( SHUWDQWR XWLOH LGHQWLILFDUH OD FXUYD GL GRPDQGD FRQ OD FXUYD GHL EHQHILFL PDUJLQDOL GHO FRPSUDWRUH RVVLD FRQ OD FXUYD GHJOL HTXLOLEUL SUH]]R DFTXLVWL SHU JOL RSHUDWRUL LQ UHJLPH GL FRQFRUUHQ]D SHUIHWWD Per comodità , il valore marginale psichico monetizzato o beneficio marginale del compratore si può chiamare SUH]]R GL GRPDQGD : è infatti il prezzo massimo al quale il compratore comprerebbe quell'unità marginale. In equilibrio, dunque, il compratore concorrenziale equipara prezzo di domanda e prezzo di mercato (i tassi di sostituzione dollaro/unità fisica nell'obiettivo e nel vincolo). Comprando il compratore tutte le unità al prezzo di mercato, paga le unità inframarginali al prezzo di mercato inferiore ai prezzi di domanda. La differenza tra quanto ha effettivamente pagato e quanto sarebbe stato disposto a pagare, ossia il beneficio netto, si chiama la UHQGLWD del compratore. Questa è illustrata nel grafico inferiore della Figura, in due 26


modi alternativi: corrisponde infatti al triangolo pari alla sommatoria dei benefici netti marginali, o al rettangolo pari al prodotto della quantità e del beneficio netto medio. Il beneficio lordo è naturalmenta la somma del beneficio netto e del costo lordo (geometricamente il rettangolo) 3 4. Ricordiamo che la rendita, un tempo, era quello che rendeva la terra. I classici notarono che la rendita della terra non andava a coprire un costo di produzione, ma era invece un sovrappiÚ (surplus) rispetto al prezzo minimo al quale sarebbe comunque disponibile (zero). La rendita era dunque un surplus; per estensione, nell'economia borghese, qualsiasi surplus analogo a quello della terra si è chiamato "rendita". E' ormai ovvia la soluzione del paradosso dell'acqua e dei diamanti: l'acqua vale poco sul mercato perchè la sua abbondanza ne abbassa l'utilità PDUJLQDOH e il prezzo, anche se essendo necessaria alla vita rende una grandissima utilità WRWDOH, ossia al consumo di acqua è associata una forte rendita; il caso dei diamanti è appunto quello speculare. 2.b.3. l'equilibrio del venditore concorrenziale Consideriamo qui per simmetria il venditore di beni di cui è esso stesso consumatore (il contadino, che produce grano, o meglio ancora il pescatore, per il quale i costi monetari sono irrisori). Per tale individuo, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginale equipara il prezzo di mercato al valore marginale psichico monetizzato del bene: 3 0%Y (per via della concorrenzialità ), 0%Y 0&Y (in equilibrio), per cui 3 0%Y 0&Y e 3 0&Y, come illustrato nel grafico superiore della Figura 2.b.3.1. L'equilibrio fra quantità acquistata e prezzo si trova dunque sulla curva dei valori marginali psichici monetizzati, ciascuno dei quali indica quanto il venditore valuta in moneta quell'unità marginale. ( SHUWDQWR XWLOH LGHQWLILFDUH OD FXUYD GL RIIHUWD FRQ OD FXUYD GHL FRVWL PDUJLQDOL GHO YHQGLWRUH RVVLD FRQ OD FXUYD GHJOL HTXLOLEUL SUH]]R YHQGLWH SHU JOL RSHUDWRUL LQ UHJLPH GL FRQFRUUHQ]D SHUIHWWD Per comodità , il valore marginale psichico monetizzato o costo marginale del venditore si può chiamare SUH]]R GL RIIHUWD : è infatti il prezzo minimo al quale il venditore venderebbe quell'unità marginale. In equilibrio, dunque, il venditore equipara prezzo di mercato e prezzo di offerta (i tassi di sostituzione dollaro/unità fisica nell'obiettivo e nel vincolo). Vendendo il venditore tutte le unità al prezzo di mercato, vende le unità inframarginali al prezzo di mercato superiore ai prezzi di offerta. La differenza tra quanto ha effettivamente riscosso e quanto sarebbe stato disposto ad accettare si chiama la UHQGLWD del venditore (geometricamente un triangolo o un rettangolo, come nel grafico inferiore della Figura). Il beneficio lordo è ovviamente il ricavo 3 4 (un rettangolo), pari alla somma del beneficio netto e del costo lordo, che corrispode a sua volta al rettangolo 4 $&Y, o al trapezio definito dalla curva dei costi marginali. 2.b.4. l'equilibrio del mercato in regime di concorrenza perfetta L'equilibrio del mercato concorrenziale si ottiene combinando gli equilibri delle parti, ossia mantenendo i compratori sulla curva di domanda e i venditori sulla curva di offerta. Notiamo che se compratori e venditori sono perfettamente concorrenziali (prendono i prezzi per dati), le loro curve di domanda e di offerta sono sommabili orizzontalmente: infatti a un dato prezzo la quantità complessiva comprata/venduta è la somma di quelle comprate/vendute dai singoli (Figura 2.b.4.1). Il numero di operatori concorrenziali, come tale, è pertanto indifferente (ossia non importa se una data offerta di mercato, ad esempio, proviene da uno, 27


da cento, o da mille). Se il prezzo pagato è il prezzo ricevuto, e le vendite del venditore sono gli acquisti del compratore, allora l'equilibrio del mercato corrisponde all'intersezione delle curve di domanda e di offerta: si definiscono cioè un'unica quantità scambiata ad un unico prezzo tale che 0%F 0&F (equilibrio del compratore), 0&F 3 (concorrenzialità del compratore), 3 0%Y (concorrenzialità del venditore), e 0%Y 0&Y (equilibrio del venditore), per cui 0%F 0&F 3 0%Y 0&Y (Figura 2.b.4.2, dove l'offerta è indicata da 6, "supply"). Si raggiunge cosÏ 0%F 0&Y: ovverosia, lo scambio attraverso il mercato impersonale massimizza la somma dei benefici netti (rendite dei compratori piÚ rendite dei venditori), raggiungendo il risultato 3DUHWR HIILFLHQWH che potrebbe raggiungere una trattativa diretta tra le parti, risultato che è efficiente proprio nella misura in cui vengono esauriti gli scambi che possono produrre benefici netti. Ricordiamo Hayek: il mercato riproduce il risultato che otterrebbe il pianificatore superinformato ipotizzato da Barone. Si nota però che l'efficienza dell'equilibrio concorrenziale è limitata, nel senso che prende per buone le curve di domanda e offerta che possono invece riflettere distorsioni di vario tipo. Questo lo approfondiremo poi; per ora indichiamo a titolo di esempio che l'offerta potrebbe non tener conto di qualche effetto nocivo sull'ambiente, mentre la domanda potrebbe essere influenzata dal prezzo distorto di qualche succedaneo (vedi ad es. il problema del pendolarismo, in cui la domanda di trasporti pubblici è ridotta dal fatto che chi usa l'auto privata non tiene conto del fatto che impone ritardi agli altri utenti). 2.b.5. il mutamento degli equilibri: offerta stabile Uno scambio di una certa quantità a un certo prezzo è un equilibrio per un certo periodo. Nel tempo, per mutamenti dell'offerta e della domanda, variano tipicamente sia la quantità che il prezzo, e può succedere di tutto; a fini pedagogici esamineremo qui solo dei casi particolari, in cui il mutamento di fondo è volutamente circoscritto. Immaginiamo, seguendo il grafico superiore della Figura 2.b.5.1, un mercato di concorrenza perfetta in equilibrio, nel quale la curva di domanda si sposta da ' a ' . L'equilibrio si sposta ovviamente dalla combinazione 3 4 alla combinazione 3 4

, sulla medesima curva (appunto stabile) di offerta. Con l'aumento della domanda si genera al prezzo 3 un HFFHVVR GL GRPDQGD pari a 4 4 , che fa lievitare i prezzi; l'aumento dei prezzi a sua volta porta i venditori a vendere di piÚ (spostandosi lungo 6) e i compratori a comprare di meno (spostandosi lungo ' ), finchè non si raggiunge il nuovo equilibrio. Sarebbe forse meno pesante dire "aumenta la domanda, che fa aumentare i prezzi aumentando l'offerta e riducendo la domanda": ma l'espressione è ambigua, proprio perchè usa le stesse parole per indicare gli VSRVWDPHQWL GHOOH IXQ]LRQL, che rompono l'equilibrio iniziale ("aumenta la domanda"), e gli VSRVWDPHQWL OXQJR OH IXQ]LRQL, che invece portano al nuovo equilibrio ("aumentando l'offerta e riducendo la domanda"). Nei testi anglosassoni si insiste nell'usare "domanda" e "offerta" solo per indicare le stesse funzioni, per parlare invece della "quantità domandata" e della "quantità offerta" nel caso di spostamenti lungo una curva immutata; il punto essenziale è comunque che bisogna stare attenti, e avere le idee chiare anche se le parole possono essere imprecise. Il grafico, in questo caso, è uno strumento prezioso. Immaginiamo ora che nel nostro mercato, sempre con curva di offerta stabile, la curva di domanda si sposti ripetutamente, come nel grafico inferiore della stessa Figura. Gli equilibri sono gli incroci delle diverse curve di domanda, e la stessa curva di offerta; L SXQWL RVVHUYDWL ULYHODQR GXQTXH OD FXUYD GL RIIHUWD. 2.b.6. il mutamento degli equilibri: domanda stabile 28


Se invece è stabile la domanda e si sposta l'offerta si verifica il caso speculare, illustrato dalla Figura 2.b.6.1. Immaginiamo infatti, seguendo il grafico superiore della Figura, un mercato di concorrenza perfetta in equilibrio, nel quale la curva di offerta si sposta da 6 a 6 . L'equilibrio si sposta ovviamente dalla combinazione 3 4 alla combinazione 3 4

, sulla medesima curva (appunto stabile) di domanda. Con l'aumento dell'offerta si genera al prezzo 3 un HFFHVVR GL RIIHUWD pari a 4 4 , che fa calare i prezzi; la riduzione dei prezzi a sua volta porta i venditori a vendere di meno (spostandosi lungo 6 ) e i compratori a comprare di piÚ (spostandosi lungo '), finchè non si raggiunge il nuovo equilibrio. Immaginiamo ora che nel nostro mercato, sempre con curva di domanda stabile, la curva di offerta si sposti ripetutamente, come nel grafico inferiore della stessa Figura. Gli equilibri sono gli incroci delle diverse curve di offerta, e la stessa curva di domanda; L SXQWL RVVHUYDWL ULYHODQR GXQTXH OD FXUYD GL GRPDQGD. 2.b.7. gli equilibri con intervento pubblico: i prezzi politici A volte i prezzi sono fissati per legge, ossia per motivi politici. Il grafico superiore della Figura 2.b.7.1 illustra il prezzo politico superiore a quello di mercato libero. Si constata che con l'imposizione di tale prezzo aumenta la quantità venduta e si riduce la quantità acquistata, e si registra dunque un HFFHVVR GL RIIHUWD nelle transazioni fra privati. Per evitare che questo riporti il prezzo a quello del mercato libero lo stato deve presentarsi come FRPSUDWRUH UHVLGXDOH, acquistando al prezzo politico qualsiasi quantità che rimarrebbe altrimenti invenduta; gli equilibri dei compratori (privati) e dei venditori sono dunque tutti allo stesso prezzo, ma per quantità diverse. La perdità di benessere è ovvia. Nel grafico si riduce il beneficio lordo dei compratori del trapezio definito da 4F, 4H, e la curva di domanda, e aumenta il costo lordo dei venditori del trapezio definito da 4H, 4Y, e la curva di offerta. Se preferiamo, la rendita dei compratori cala del trapezio definito da 3, 3H, e la curva di domanda, la rendita dei venditori aumenta del trapezio definito da 3, 3H, e la curva di offerta (per un guadagno netto pari al triangolo definito da 3, e le curve di domanda e di offerta), e la rendita dei contribuenti viene decurtata del costo della quantità comprata dallo stato, ossia del rettangolo definito da 3, 4F, e 4Y (per una perdita netta equivalente alla misura precedente). Gli esempi piÚ ovvi di tali interventi sono i prezzi "europei" dei prodotti agricoli, che hanno portato appunto all'accumulo di "montagne di burro", "laghi di latte", ecc. Le "quote latte" sono l'espediente per ridurre questo eccesso imponendo un limite diretto alla produzione, ossia forzando la curva di offerta a diventare verticale per 4 4F (con un risparmio per i contribuenti ma una perdita per i produttori). Il grafico inferiore della Figura 2.b.7.1 illustra il prezzo politico inferiore a quello di mercato libero. Si constata che con l'imposizione di tale prezzo cala la quantità venduta e aumenta la quantità acquistata, e si registra dunque un HFFHVVR GL GRPDQGD nelle transazioni fra privati. Nel caso speculare a quello precedente lo stato si presenta come YHQGLWRUH UHVLGXDOH, vendendo al prezzo politico qualsiasi richiesta che rimarrebbe altrimenti insoddisfatta; gli equilibri dei compratori e dei venditori (privati) sono dunque sempre tutti allo stesso prezzo, ma per quantità diverse. Un esempio di tale intervento è quello nel mercato della valuta straniera: il cambio lira/marco è fisso proprio perchè lo stato compra e vende lire contro marchi al tasso predeterminato senza limite di quantità . A volte, invece, lo stato fissa il prezzo politico ... e basta, come con gli affitti bloccati o i prezzi calmierati in tempo di guerra. Si crea cosÏ un'eccesso di domanda che rimanendo tale tende a generare mercati neri, corruzione, privilegiati e frustrati... 2.b.8. gli equilibri con intervento pubblico: tasse e sussidi 29


Se invece il mercato rimane tra privati, e il prezzo rimane libero, ma le transazioni sono gravate da una tassa, l'equilibrio è quello illustrato dalla Figura 2.b.8.1: il prezzo pagato non è il prezzo ricevuto, per cui la quantità di equilibrio corrisponde a 0%F 0&F 3F 3Y 7 ! 3Y 0%Y 0&Y. Il gettito fiscale è (il rettangolo) 4 7 4 0%F 0&Y . In queso caso QRQ si raggiunge 0%F 0&Y: ovverosia, lo scambio attraverso il mercato QRQ raggiunge il risultato HIILFLHQWH in cui vengono esauriti gli scambi che possono produrre benefici netti, proprio perchè una tassa unitaria riduce la quantità scambiata (nel caso, al di sotto del livello ottimale). Si nota infatti un triangolo di rendita positiva, tra l'equilibrio con tasse e l'equilibrio di mercato libero, che si potrebbe ottenere aumentando gli scambi. Un sussidio unitario (una tassa negativa) ha l'effetto contrario, e porta ad un volume di scambi superiore a quello (ottimale) di mercato libero (Figura 2.b.8.2). Si nota infatti un triangolo di rendita negativa (perchè i prezzi di offerta sono superiori ai prezzi di domanda), tra l'equilibrio con tasse e l'equilibrio di mercato libero, che si potrebbe evitare riducendo gli scambi. Notiamo che le tasse e i sussidi XQLWDUL, proprio perchè gravano sulle unità marginali, spostano gli equilibri di mercato: sono dunque questi, come vedremo, gli strumenti di intervento dello stato allocatore pigoviano. 2.b.9. la rendita e le tasse Per essere piÚ precisi, in un mercato concorrenziale una tassa che deve essere sopportata dall'unità marginale sposta il margine fino al punto in cui la stessa unità marginale genera una rendita equivalente alla tassa. In generale, infatti, è solo la rendita che può assorbire una tassa, e le tasse vengono pagate solo dalle rendite. La prima conseguenza di ciò è che l'effetto della tassa unitaria sulla quantità scambiata, e dunque il gettito della stessa tassa, dipende dalla pendenza FRPSOHVVLYD delle curve di domanda e di offerta. Immaginiamo un mercato in cui con tassa zero si scambiano 100 unità a $50 l'una, e consideriamo l'equilibrio con una tassa di $10/unità , come nella Figura 2.b.9.1. Nel primo grafico, le curve sono ambedue cosÏ piatte che la rendita generata anche dallo scambio della prima unità non arriva a $10, per cui non verrà scambiata nemmeno la prima unità ; la tassa, che come in questo caso distrugge la base imponibile e dunque non ha gettito, è detta SURLELWLYD. Nel secondo grafico, le curve di domanda e offerta sono ambedue in forte pendenza, e basta una piccola riduzione dello scambio per far comparire la rendita necessaria sull'unità marginale; la quantità scambiata rimane vicina a quella con tassa zero (si riduce, poniamo, a 95), e il gettito è corrispondentemente alto (nel caso, $950). La seconda conseguenza è che la distribuzione dell'onere delle tassa fra le parti contraenti dipende dalla pendenza UHODWLYD delle curve di domanda e di offerta. Nel terzo grafico, ad esempio, la pendenza complessiva è come nel secondo grafico, per cui la quantità scambiata e il gettito saranno uguali; ma mentre nel secondo le pendenze delle due curve erano per ipotesi identiche, nel terzo sono molto diverse. Rispetto al prezzo con tassa zero, nel secondo grafico il prezzo pagato era superiore di $5, quello ricevuti inferiore di $5, con un effetto dunque simmetrico sulle parti contraenti; nel terzo, con la curva di offerta quasi piatta, la tassa si ripercuote quasi interamente sul prezzo pagato, che aumenta poniamo di $9, mentre il prezzo ricevuto cala solo di $1. In questo caso, si può dire che la tassa la paga quasi interamente l'acquirente. Notiamo che il risultato illustrato dal terzo grafico dipende unicamente dalla pendenza delle curve, e dunque dalla distribuzione della rendita, in prossimità dell'equilibrio di concorrenza. Non dipende da chi per legge "deve pagare la tassa": anche se la legge dice che 30


la tassa la paga il venditore, con siffatte curve sarà comunque il compratore a pagarla (in prevalenza), perchè il gettito è (prevalentemente) a scapito della rendita del compratore. Quando l'operatore che sopporta l'onere della tassa non è quello di legge, si dice che vi è WUDVOD]LRQH della tassa. Il fatto che le tasse gravano comunque sulle rendite significa poi che possono essere gravate direttamente di tasse le rendite LQIUDPDUJLQDOL, con tasse non unitarie, al limite senza spostare il margine e senza dunque possibilità di traslazione. Un esempio di tassa inframarginale è la OLFHQ]D per operare sul mercato: se tu compratore ottieni una rendita di $100 in regime di concorrenza, io posso farti pagare fino a quella cifra il diritto di partecipare al mercato. L'equilibrio di questo mantiene le condizioni (equivalenze marginali) del mercato libero, proprio perchè la tassa QRQ colpisce l'unità PDUJLQDOH; l'equilibrio potrebbe essere comunque spostato se togliendoti (poniamo) $70 ti impoverisco abbastanza per ridurre la tua domanda (ossia, a parità di beneficio marginale psichico, ne riduco l'equivalente in dollari). Ricordiamo che la "rendita" (rent) era la remunerazione della terra, che si può tassare al limite del 100% senza perderne i servizi (a differenza dei salari, necessari per tenere in vita i lavoratori). Verso la fine dell'Ottocento si sviluppò negli Stati Uniti un movimento "per la tassa unica" appunto sulla terra (H. George, che però sembra pensasse piÚ all'incremento di valore dovuto allo sviluppo economico senza meriti del proprietario che non alle categorie ricardiane); l'uso di "rendita" per indicare qualsiasi surplus ci aiuta a ricordare che la terra è un caso forse estremo ma non certo unico. Siccome poi è rendita appunto ciò che si può espropriare con una tassa, è ovvio che la componente di rendita in una remunerazione dipende dal punto di vista. Si immagini ad esempio un tale che guida benissimo, ma non sa fare altro. Lo ingaggia la Ferrari, a molti miliardi l'anno; ma se questa cifra supera di solo un milione il minimo necessario per evitare che passi ad un'altra scuderia, allora solo quel milione è rendita GDO SXQWR GL YLVWD GHOOD )HUUDUL. Dal punto di vista della Formula Uno, però, è probabile che la sua remunerazione possa essere di molto ridotta, prima di perderlo poniamo alla Formula Indy; per la Formula Uno, dunque, è rendita tutta quella riduzione possibile. E cosÏ via: per l'intero mondo delle corse, è rendita quasi tutta la remunerazione del nostro, chè la sua migliore occupazione alternativa sarebbe quella di fare il tassinaro (Figura 2.b.9.2).

2.c. l'elasticitĂ 2.c.1. definizione Gli economisti chiamano HODVWLFLWj il UDSSRUWR WUD OH YDULD]LRQL SHUFHQWXDOL di due variabili funzionalmente collegate; si parla cosĂŹ dell'elasticitĂ dell'occupazione alla produzione, delle importazioni al cambio, e via di seguito. Nel contesto presente rivestono ovviamente particolare importanza l'elasticitĂ della quantitĂ al prezzo lungo le curve di domanda e di offerta, definite ad un punto o lungo un segmento. Nel primo caso, H G4 4 G3 3 ; nel secondo si mettono convenzionalmente ai denominatori le medie dei punti estremi del segmento, per cui H G4 4 4

G3 3 3

. Tali elasticità normalmente variano lungo le curve di riferimento: le curve a elasticità costante sono infatti casi particolari. 2.c.2. l'elasticità della domanda Siccome le curve di domanda hanno una pendenza negativa, quantità e prezzo variano in direzione opposta, e l'elasticità è negativa; siccome però un'elasticità "alta" indica naturalmente una reattività forte, lontana da zero, per non fare uno strappo alla lingua se ne fa 31


uno all'algebra, e parlando di elasticità della domanda gli aggettivi ne riflettono il solo valore assoluto. Il ricavo è a sua volta il prodotto del prezzo e della quantità: se la domanda è "elastica", ossia con valore assoluto superiore a uno, l'effetto quantità supera l'effetto prezzo e il ricavo varia con la quantità (per cui aumenta se cala il prezzo); se invece la domanda è "anelastica", ossia con valore assoluto inferiore a uno, l'effetto prezzo supera l'effetto quantità e il ricavo varia con il prezzo (per cui aumenta se aumenta il prezzo). Una curva di domanda orizzontale ha un'elasticità infinita (massima, in valore assoluto), per cui tale elasticità caratterizza la domanda per il venditore in concorrenza perfetta; una verticale, un'elasticità pari a zero ("minima"). Come si vede dalla Figura 2.c.2.1 una curva con pendenza bassa ha dunque un'elasticità alta, e il ricavo segue la quantità, mentre una curva con pendenza forte ha un'elasticità bassa, e il ricavo segue il prezzo; ma questo linguaggio è impreciso. Si consideri infatti la retta $( nel grafico superiore della Figura 2.c.2.2, che può essere considerata o la stessa curva di domanda, o la tangente a questa al punto &. L'elasticità della domanda al punto & è il (valore assoluto del) rapporto G4 4 G3 3 G4 G3 4 3

%& $% 2' &' 2% $% '( 2' &( $&. Facendo scorrere il punto & si constata che l'elasticità aumenta verso $, e diminuisce verso (. L'elasticità lungo una curva di domanda lineare varia infatti come indicato nel grafico inferiore della medesima Figura: da un valore infinito al prezzo di domanda massimo, a uno a metà di tale prezzo, a zero a prezzo zero. Il ricavo è zero se la quantità è nulla, e se il prezzo è nullo; è massimo quando la domanda passa da elastica (per cui calando il prezzo il ricavo aumenta) a anelastica (per cui calando ancora il prezzo il ricavo diminuisce), ossia al prezzo corrispondente ad un elasticità unitaria 2$ . Questo implica non solo che una curva di domanda lineare ha un'elasticità variabile sull'intera gamma da infinita a zero, ma che tutte le domande lineari con intercetta $ avranno allo stessa prezzo la stessa elasticità, a prescindere dalla pendenza. Per tornare alla Figura 2.c.2.1, dunque, a essere precisi la curva con poca pendenza non è una curva di domanda elastica, bensì il pezzo elastico (perchè vicino all'asse verticale) di una curva di domanda; la curva con pendenza forte non è a sua volta una curva di domanda anelastica, bensì il pezzo anelastico (perchè vicino all'asse orizzontale) di una curva di domanda. La curva a elasticità costantemente unitaria implica un ricavo (75, "total revenue") costante; essendo 75 3 4 e dunque 4 75 3, la costanza di 75 e dunque l'elasticità costantemente unitaria corrispondono a una curva di domanda LSHUEROLFD (Figura 2.c.2.3). 2.c.3. l'elasticità dell'offerta Siccome le curve di offerta hanno (normalmente) una pendenza positiva, quantità e prezzo variano insieme; risalendo lungo una curva di offerta la spesa aumenta sempre e comunque, a prescindere dal valore dell'elasticità. L'elasticità indica dunque abbastanza banalmente la reattività. Una curva di offerta orizzontale ha un'elasticità infinita (massima), per cui tale elasticità caratterizza l'offerta per il compratore in concorrenza perfetta; una verticale, un'elasticità pari a zero (minima). Come si vede dalla Figura 2.c.3.1 una curva con pendenza bassa ha dunque un'elasticità alta, mentre una curva con pendenza forte ha un'elasticità bassa; ma questo linguaggio pure è impreciso. Si consideri infatti la retta 6 nel grafico superiore della Figura 2.c.3.2, che può essere considerata o la stessa curva di offerta, o la tangente a questa al punto &. L'elasticità dell'offerta al punto & è il rapporto G4 4 G3 3 G4 G3 4 3 $' &' 2( &( &( &' 2% $% ! . Facendo scorrere il punto & si constata che l'elasticità aumenta verso sinistra, diventando infinita al punto $ (2% 2$, $% ), e cala verso destra, tendendo a 32


uno (aumentando 2% e $% con 2$ 2% $% costante, 2$ 2% tende a zero); e questo è vero per qualsiasi offerta lineare con intercetta positiva $ ! , a prescindere dalla pendenza. Nel grafico inferiore della stessa Figura al punto & l'elasticità è il rapporto $' &' 2' &' $' 2' 2% $ % . Facendo scorrere il punto & si constata che l'elasticità diminuisce verso sinistra, diventando zero al punto $ (2' 2$, $' ), e aumenta verso destra, tendendo a uno (aumentando 2% e $ % con $ 2 $ % 2% costante, $ 2 2% tende a zero); e questo è vero per qualsiasi offerta lineare con intercetta negativa ($

), a prescindere dalla pendenza. E' ovvio pure che qualsiasi offerta lineare con intercetta zero ha un'elasticità costantemente unitaria, in quanto $% (o $ %) 2%, anche questo a prescindere dalla pendenza. Per tornare alla Figura 2.c.3.1, dunque, a essere precisi la curva con poca pendenza è comunque elastica (intercetta positiva), ma è PROWR elastica perchè ne osserviamo il pezzo vicino all'intercetta; la curva con forte pendenza è comunque anelastica (intercetta negativa), ma è PROWR SRFR elastica perchè ne osserviamo il pezzo vicino alle ascissi. 2.c.4. l'elasticità nel tempo Una regola generale è che l'elasticità delle curve di domanda e di offerta aumenta con il tempo considerato, appunto perchè nel tempo aumentano i possibili margini di aggiustamento. Anche questo lo vedremo meglio poi; ma il concetto stesso si spiega facilmente. Si ricordi l'aumento repentino del prezzo del petrolio, e dei suoi derivati, a opera dell'OPEC. Nell'immediato, io consumatore posso fare ben poco: evitare le gite in macchina la domenica, scaldare meno casa... ma per il resto posso solo subire il prezzo piÚ alto. Nel breve periodo, dunque, la domanda è molto poco elastica. Con piÚ tempo, posso fare piÚ cose: sostituire la macchina con una che consuma meno, rivestire casa di pannelli isolanti e/o sostituire l'impianto termico con uno piÚ efficiente, cambiare casa o lavoro per ridurre il pendolarismo... In un contesto concorrenziale possiamo illustrare tale fenomeno con la Figura 2.c.4.1. L'equilibrio iniziale è 3 4 ; l'offerta cala da 6 a 6 . Nel breve periodo la curva di domanda è '%3, che ci porta a 3 4 ; nel lungo periodo la curva di domanda è '/3, e arriviamo a 3 4 . Notiamo che gli spostamenti sono prima lungo '%3, poi (spostandosi la stessa '%3) lungo 6 ; la quantità cala e poi cala ancora, il prezzo sale e poi (parzialmente) ricala. 2.c.5. l'elasticità e le tasse Ricordando quanto detto sulle tasse unitarie e le pendenze delle curve di domanda e di offerta, è ovvio che dal punto di vista del gettito (ossia dello stato predatore) i consumi piÚ imponibili sono quelli a domanda fortemente anelastica anche nel lungo periodo. Fra questi spiccano tre categorie di beni. La prima, ovvia, è quella che possiamo chiamare dei GLVWLQWLYL GL UDQJR VRFLDOH ("status symbol"), necessari a chi vuole circolare dignitosamente nell'alta società . La seconda, appena meno ovvia, è quella dei EHQL DVVXHIDFHQWL, come il tabacco, gli alcoolici, le droghe, necessari a chi ne è dipendente. La terza, forse la piÚ interessante, è quella degli DGGLWLYL, che rappresentano una piccola quota di un consumo congiunto. Ipotizziamo, per fare un esempio, che consumiamo oggetti di bronzo, lega del rame e dello stagno; che l'elasticità della domanda per il bronzo sia unitaria; e che senza tasse il costo del bronzo è costituito per il 90 percento dal rame e per il 10 percento dallo stagno. L'elasticità della domanda per lo stagno è il prodotto dell'elasticità della domanda per il bronzo, e della quota dello stagno sul suo costo: se infatti il prezzo dello stagno aumenta del 33


100 per cento il prezzo del bronzo aumenta del 10 per cento, il consumo di bronzo cala del 10 per cento, e il consumo di stagno cala del 10 per cento, per un'elasticità pari a 0,1. L'esempio più ovvio di un additivo, oggidì, è la benzina, componente del consumo di trasporti, e non a caso stratassata. Storicamente, l'esempio più significativo è il sale: non è un caso che le rivenditorie dello stato italiano fossero appunto di "sali e tabacchi", come per altri versi non è nemmeno un caso che non fossero "sali, tabacchi, e visoni".

2.d. l'equilibrio di monopolio semplice 2.d.1. definizione: Il SRWHUH GL PHUFDWR PLQLPDOH, identificato con il PRQRSROLR VHPSOLFH, consiste nel SRWHUH GL VFHJOLHUH LO SUH]]R, che rimane XQLFR, ODVFLDQGR VFHJOLHUH OD TXDQWLWj (oppure di scegliere la quantità, lasciando che un'asta definisca il prezzo). Per l'individuo conscio di avere tale potere il vincolo non è pertanto il prezzo di mercato, ma un continuo di binomi prezzo-quantità; sceglie pertanto non la quantità dato il prezzo, ma quantità e prezzo insieme dato il vincolo che è la controparte che definisce le combinazioni possibili scegliendo una di queste variabili in funzione dell'altra. Si distinguono il monopolio in senso stretto o monopolio di vendita, in cui il potere di mercato è appunto di chi vende, e il monopsonio o monopolio di acquisto, in cui il potere di mercato è di chi compra; i due casi sono ovviamente speculari. L'individuo dotato di tale potere di mercato può scegliere una quantità e il prezzo ad essa associato lungo una curva di equilibri quantità-prezzo definiti, si noti bene, da operatori FRQFRUUHQ]LDOL ("price-takers"), che scelgono appunto la quantità dato il prezzo. La curva degli equilibri possibili è dunque per il monopolista una curva di valori PHGL (costi se compra, benefici se vende); la curva dei suoi valori marginali è pertanto la curva marginale corrispondente a tale curva dei valori medi (per cui se questa è una retta sarà la retta con la stessa intercetta e pendenza doppia). Gli esempi di tale potere di mercato ci vengono normalmente non dagli scambi tra produttori-consumatori (i nostri pescatori), ma dalle aziende: qualsiasi azienda che "ha il monopolio" dei propri prodotti (come la FIAT delle FIAT) può sceglierne il prezzo di vendita; qualsiasi azienda che domina il mercato della propria materia prima (come un tempo l'American Tobacco Company quello del tabacco in foglia americano) può modificarne il prezzo di acquisto. Ricordando che si possono sommare le curve di domanda o di offerta degli operatori concorrenziali, si nota che se accanto (ad esempio) al compratore monopolista vi sono altri compratori, concorrenziali, la curva di offerta che il compratore monopolista ha di fronte a se è l'offerta netta definita da tutti gli operatori concorrenziali (ossia ad ogni prezzo la quantità lorda offerta dai venditori, meno la quantità acquistata dai compratori concorrenziali), come nella Figura 2.d.1.1. Un esempio fra i mercati dei beni è dato dalla MacDonald's, che compra da sola una quota molto cospicua del raccolto di patate statunitense, mentre gli agricoltori che vendono e gli altri compratori sono tutti individualmente insignificanti; casi simili si ritrovano nei mercati locali del lavoro ovunque questi sono dominati da una grande azienda (come la FIAT a Torino). 2.d.2 l'equilibrio di monopolio del compratore In questo caso, i venditori rimangono concorrenziali, e il loro equilibrio è come descritto sopra (2.b.3. e Figura corrispondente): il prezzo di mercato sarà un prezzo di offerta, ossia la combinazione prezzo-quantità sarà sulla curva di offerta 3 0%Y 0&Y . 34


L'equilibrio scelto dal compratore dotato di potere di mercato è illustrato dalla Figura 2.d.2.1. Per tale compratore prezzo e quantità variano insieme, ossia può far ridurre il prezzo riducendo gli acquisti (lungo la curva di offerta, che è per il compratore la curva dei costi medi $&F); rimanendo unico il prezzo, il costo marginale per il compratore è 0&F 3 G3 G4 4, ossia il prezzo effettivamente pagato per l'unità marginale piÚ l'aumento di spesa (dato che G3 G4 ! ) per le unità inframarginali. Per tale individuo, dunque, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginale equipara il prezzo di domanda (che per il consumatore è il valore marginale psichico monetizzato del bene) al costo marginale, superiore al costo medio che è il corrispondente prezzo di mercato: 0%F 0&F 3 G3 G4 4 ! 3. L'equilibrio fra quantità acquistata e prezzo QRQ si trova pertanto sulla sulla curva di domanda (la curva dei valori marginali psichici monetizzati), e il prezzo di domanda eccede il prezzo di mercato, come illustrato nel grafico superiore. Comprando il compratore tutte le unità al prezzo di mercato inferiore ai prezzi di domanda, gode anche qui di una rendita (nel grafico inferiore della Figura 2.d.2.1, il triangolo piÚ il rettangolo). Rimanendo concorrenziale il venditore, si verifica ovviamente che 0%F 0&F ! 3 0%Y 0&Y. In questo caso QRQ si raggiunge perciò 0%F 0&Y: ovverosia, lo scambio attraverso il mercato QRQ raggiunge il risultato efficiente in cui vengono esauriti gli scambi che possono produrre benefici netti (per cui potrebbero esserci scambi ulteriori; su questo torneremo). Si nota che rispetto al regime di concorrenza, con l'equilibrio all'incrocio della domanda e dell'offerta, aumenta la rendita del compratore; per il venditore diminuisce, con una perdita maggiore del guadagno della controparte (da cui appunto la perdita secca, "inefficiente", che compare come il triangolo fra domanda e offerta a destra dell'equilibrio). Notiamo che la rendita del compratore è geometricamente la somma del triangolo definito dalla curva di domanda e da 0%F 0&F, e del rettangolo definito da 4 e da 0%F 0&Y. Questo rettangolo corrisponde al gettito fiscale nel regime concorrenziale in presenza di tasse: si capisce cosÏ lo sdegno di Simons di fronte al monopolista che si comporta appunto da sovrano, e si capisce anche perchè le patenti di monopolio erano elargizioni sovrane. Notiamo infine che il compratore ha potere di mercato proprio nella misura in cui ha (e sa di avere) di fronte una curva di offerta di elasticità limitata (ossia con pendenza positiva). In equilibrio, il divario tra il prezzo di domanda e il prezzo di mercato è appunto funzione dell'elasticità dell'offerta: infatti 0%F 3 G3 G4 4, e 0%F 3 G3 G4 4 3 H6 . 2.d.3. il mutamento degli equilibri La Figura 2.d.3.1 illustra il mutamento degli equilibri di monopolio del compratore. Nel grafico in alto a sinistra la curva di offerta è stabile, e si sposta la curva di domanda; la combinazione quantità -prezzo di equilibrio, che non è l'incrocio domanda-offerta, ma è comunque sulla curva di offerta, si sposta lungo la curva di offerta. Se rimanendo sempre stabile la curva di offerta si sposta ripetutamente la curva di domanda, come nel grafico in basso a sinistra, allora i diversi equilibri rivelano la curva di offerta (come nel mercato concorrenziale, proprio perchè il venditore è anche in questo caso concorrenziale). Nel grafico in alto a destra la curva di domanda è stabile, e si sposta l'offerta. Se questa aumenta, conservando la sua pendenza, allora calerà il prezzo e aumenterà la quantità scambiata, FRPH VH lo spostamento fosse lungo una curva di domanda; di fatto, però, ambedue gli equilibri sono sotto la curva di domanda. Se rimanendo stabile la curva di domanda lineare si sposta ripetutamente la curva di offerta, conservando sempre la sua 35


pendenza, come nel grafico in basso a destra, allora i diversi equilibri descriveranno una SVHXGR GRPDQGD anch’essa lineare, con la stessa intercetta della curva di domanda, e una pendenza maggiore di questa. L’angolo tra domanda e pseudo-domanda dipende a sua volta dalla pendenza della curva di offerta, e dunque dal potere di mercato: l'intercetta è comune perchè in quel punto l'elasticità dell'offerta diventa infinita, e il potere di mercato nullo. La distinzione tra domanda e pseudo-domanda dimostra che bisogna scegliere tra due definizioni della domanda, che troppo spesso vengono confuse: il luogo degli equilibri prezzo-acquisti QRQ corrisponde sempre al luogo dei benefici marginali del compratore. La domanda si potrebbe definire come il luogo degli equilibri prezzo-acquisti, per cui gli equilibri dei compratori sarebbero sempre sulla curva di domanda, ma questa corrisponderebbe ai benefici marginali dei compratori solo se questi sono concorrenziali; noi abbiamo scelto invece di identificare la domanda con i benefici marginali dei compratori, che corrisponde agli equilibri prezzo-acquisti solo se i compratori sono concorrenziali. La definizione in tal senso (2.b.2) poteva sembrare inutilmente complicata; vediamo adesso che non lo è. 2.d.4. gli interventi correttivi Si nota che una tassa o un sussidio unitari spostano la quantità di equilibrio come in regime concorrenziale. Si può pertanto ristabilire l'equilibrio efficiente sussidiando gli scambi, come nella Figura 2.d.4.1. Questo aumenta notevolmente la rendita: quella del venditore passa da &'( a (*+, che corrisponde ovviamente a quella di concorrenza; quella del compratore monopolista passa da $%'& a $)*(, ossia diventa quella del regime di concorrenza più l'intero sussidio 4 3Y 3F (sussidio si può peraltro confiscare con una tassa che non incide sulle curve marginali, ad esempio obbligando il compratore ad acquistare dallo stato una "licenza a comprare"). Vi è anche una soluzione più semplice, che consiste semplicemente nell'imporre per legge il prezzo di equilibrio concorrenziale: con questo espediente infatti il compratore perde il suo potere di mercato, e al prezzo di concorrenza compra la quantità di concorrenza. All'atto pratico, però, e come vedremo meglio poi, queste interventi correttivi sono tutt'altro che facili: richiedono ad esempio che il legislatore conosca la curva di domanda del monopolista, che i prezzi di mercato non rivelano (perchè sono come sappiamo incroci di offerta e pseudo-domanda); e richiedono pure che la realtà non sia più complessa del modello. Per dare un esempio delle difficoltà pratiche consideriamo un mercato locale del lavoro, caratterizzato da un equilibrio di monopolio del compratore; nella Figura 2.d.4.2, il salario ("wage") sarebbe Z0 e l'occupazione /0. Un salario minimo pari a Z& dovrebbe ristabilire l'equilibrio concorrenziale, con occupazione /&; sarebbe dunque ottimale? Nei dibattiti recenti sulle proposte di aumentare il salario minimo negli Stati Uniti, si nota, i sindacati sono favorevoli, gli economisti generalmente contrari, e non solo da posizioni "di destra". Di fatto, gli economisti rifutano l'analisi rappresentata dalla nostra Figura, perchè questa considera il lavoro RPRJHQHR, cosa che di fatto non è. Immaginiamo cha vi siano due tipi di lavoratori, "normali" e "disgraziati"; ogni disgraziato vale, come lavoratore, la metà di un normale. Possiamo sempre usare la nostra Figura, misurando l'occupazione in "normali equivalenti"; in un equilibrio concorrenziale il salario "normale" sarebbe Z&, ma ogni disgraziato sarebbe pagato Z& . Il salario minimo, superiore a tale cifra, rende inutilizzabili tali lavoratori; di fatto, dunque, il salario minimo è gradito ai sindacati e avversato dagli economisti perchè sembra proteggere i lavoratori più qualificati dalla concorrenza dei meno qualificati (i giovani, gli immigrati...). Per fare un secondo esempio, si dice a volte che un sindacato, imponendo un salario 36


maggiore di quello di mercato, potrebbe far aumentare l’occupazione. La Figura in esame sembra illustrare esattamente tale possibilitĂ : se infatti il mercato locale del lavoro è dominato da una grande impresa con potere di mercato, che sceglie appunto l'equilibrio Z0 /0 , il sindacato potrebbe portare l'occupazione al livello concorrenziale /& ! /0 imponendo il salario concorrenziale Z& ! Z0. Ma sceglierebbe il sindacato proprio questa soluzione, tendenzialmente efficiente? Non necessariamente: possiamo immaginare che invece di fare cosĂŹ l'interesse generale il sindacato faccia l'interesse particolare dei suoi membri, che sono solo i lavoratori occupati. In tal caso se può imporre il salario impone Z%, che trasferisce ai membri il rettangolo "fiscale" senza aumentare l'occupazione (e se può fissare salario e occupazione impone Z$, sul beneficio medio del datore di lavoro, trasferendo dunque ai suoi membri anche la rendita inframarginale). Potrebbe pure fare l'interesse particolare della (sola) maggioranza dei suoi membri: se vige la regola che l'ultimo assunto è il primo cacciato, i membri piĂš anziani che rappresentano il 51 per cento degli occupati potrebbero mettersi d'accordo per far imporre dal sindacato il salario massimo per un'occupazione ridotta appunto del 49 per cento (gioco al massacro che peraltro può continuare, risalendo la curva di domanda di 51 per cento in 51 per cento, finchè i due piĂš anziani non fanno cacciare il terzo...). E ricordiamo poi per completezza che il sindacato potrebbe anche fare l'interesse particolarissimo dei propri dirigenti, che in cambio di un cospicuo versamento in Svizzera accettano Z0 e raccontano agli operai che era impossibile ottenere di piĂš... 2.d.5. l'equilibrio di monopolio del venditore In questo caso, i compratori rimangono concorrenziali, e il loro equilibrio è come descritto sopra (2.b.2. e Figura corrispondente): il prezzo di mercato sarĂ un prezzo di domanda, ossia la combinazione prezzo-quantitĂ sarĂ sulla curva di domanda 0%F 0&F 3 . L'equilibrio scelto dal venditore dotato di potere di mercato è illustrato dalla Figura 2.d.5.1. Per tale venditore prezzo e quantitĂ variano in opposizione (ossia può far aumentare il prezzo riducendo le vendite, lungo la curva di domanda, che è per il venditore la curva dei benefici medi $%Y); rimanendo unico il prezzo, il beneficio marginale per il venditore è 0%Y 3 G3 G4 4, ossia il prezzo effettivamente ricevuto per l'unitĂ marginale meno il calo di incassi (dato che G3 G4 ) per le unitĂ inframarginali. Per tale individuo, dunque, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginale equipara il prezzo di offerta (che per il venditore-consumatore è il costo marginale psichico monetizzato del bene) al ricavo marginale, inferiore al ricavo medio che è il corrispondente prezzo di mercato: 3 ! 3 G3 G4 4 0%Y 0&Y. L'equilibrio fra quantitĂ venduta e prezzo QRQ si trova pertanto sulla curva di offerta (la curva dei valori marginali psichici monetizzati), e il prezzo di mercato eccede il prezzo di offerta, come illustrato nel grafico superiore. Vendendo il venditore tutte le unitĂ al prezzo di mercato superiore ai prezzi di offerta, gode anche qui di una rendita (nel grafico inferiore della Figura 2.d.5.1, il triangolo piĂš il rettangolo). Rimanendo concorrenziale il compratore, si verifica ovviamente che 0%F 0&F 3 ! 0%Y 0&Y. In questo caso QRQ si raggiunge perciò 0%F 0&Y: ovverosia, lo scambio attraverso il mercato QRQ raggiunge il risultato efficiente in cui vengono esauriti gli scambi che possono produrre benefici netti (per cui potrebbero esserci scambi ulteriori; su questo torneremo). Si nota che rispetto al regime di concorrenza, con l'equilibrio all'incrocio della domanda e dell'offerta, aumenta la rendita del venditore; per il compratore diminuisce, con 37


una perdita maggiore del guadagno della controparte (da cui appunto la perdita secca, "inefficiente", che compare come il triangolo fra domanda e offerta a destra dell’equilibrio). Notiamo che la rendita del venditore è geometricamente la somma del triangolo definito dalla curva di offerta e da 0%Y 0&Y, e del rettangolo definito da 4 e da 0%F 0&Y. Il monopolio del venditore è dunque analogo a quello del compratore, solo che cambia la parte che cattura il rettangolo di rendita "fiscale"; anche qui, l'equilibrio è modificabile con tasse e sussidi. Notiamo poi che il venditore ha potere di mercato proprio nella misura in cui ha (e sa di avere) di fronte una curva di domanda di elasticitĂ limitata (ossia con pendenza negativa). In equilibrio, il divario tra il prezzo di mercato e il prezzo di offerta è appunto funzione dell'elasticitĂ della domanda: infatti 3 G3 G4 4 0&Y, e 0&Y 3 G3 G4 4 3 H' con, ovviamente, H' . Notiamo infine che al punto di equilibrio la domanda è necessariamente elastica. Geometricamente, sappiamo che se la domanda è lineare è elastica, e il beneficio marginale del venditore è positivo, per i prezzi superiori alla metĂ del prezzo di domanda massimo; se i costi marginali del venditore sono positivi lo saranno anche, in equilibrio, i suoi benefici marginali, e dunque l'elasticitĂ della domanda sarĂ positiva. La logica di fondo è semplicissima: se i costi marginali del venditore sono positivi, questo risparmia riducendo le vendite; fintanto che la domanda è anelastica, riducendo le vendite riduce i costi e aumenta i benefici, per cui non può essere in equilibrio. 2.d.6. il mutamento degli equilibri La Figura 2.d.6.1 illustra il mutamento degli equilibri di monopolio del venditore. Nel grafico in alto a sinistra la curva di domanda è stabile, e si sposta la curva di offerta; la combinazione quantitĂ -prezzo di equilibrio, che non è l'incrocio domanda-offerta, ma è comunque sulla curva di domanda, si sposta lungo la curva di domanda. Se rimanendo sempre stabile la curva di domanda si sposta ripetutamente la curva di offerta, come nel grafico in basso a sinistra, allora i diversi equilibri rivelano la curva di domanda (come nel mercato concorrenziale, proprio perchè il compratore è anche in questo caso concorrenziale). Nel grafico in alto a destra la curva di offerta è stabile, e si sposta la domanda. Se questa aumenta, conservando la sua pendenza, allora aumenteranno il prezzo e la quantitĂ scambiata, FRPH VH lo spostamento fosse lungo una curva di offerta; di fatto, però, ambedue gli equilibri sono sopra la curva di offerta. Se rimanendo stabile la curva di offerta lineare si sposta ripetutamente la curva di domanda, conservando sempre la sua pendenza, come nel grafico in basso a destra, allora i diversi equilibri descriveranno una SVHXGR RIIHUWD: una retta che avrĂ la stessa intercetta della curva di oferta, e una pendenza maggiore di questa, facendo con questa un angolo che dipende a sua volta dalla pendenza della curva di domanda (e dunque dal potere di mercato: l'intercetta è comune perchè in quel punto l'elasticitĂ della domanda diventa infinita, e il potere di mercato nullo). Vale anche per l'offerta quanto detto rispetto alla domanda. La distinzione tra offerta e pseudo-offerta dimostra cioè che bisogna scegliere tra due definizioni dell'offerta, che troppo spesso vengono confuse: il luogo degli equilibri prezzo-vendite QRQ corrisponde sempre al luogo dei costi marginali del venditore. L'offerta si potrebbe definire come il luogo degli equilibri prezzo-vendite, per cui gli equilibri dei venditori sarebbero sempre sulla curva di offerta, ma questa corrisponderebbe ai costi marginali dei venditori solo se questi sono concorrenziali; noi abbiamo scelto invece di identificare l'offerta con i costi marginali dei venditori, che corrisponde agli equilibri prezzo-vendite solo se i venditori sono concorrenziali. La definizione in tal senso (2.b.3) poteva sembrare inutilmente complicata; vediamo adesso che non lo è. 38


2.d.7. gli interventi correttivi Si nota che una tassa o un sussidio unitari spostano la quantità di equilibrio come in regime concorrenziale. Si può pertanto ristabilire l'equilibrio efficiente sussidiando gli scambi, come nella Figura 2.d.7.1. Questo aumenta notevolmente la rendita del monopolista (che diventa quella del regime di concorrenza più l'intero sussidio 4 3Y 3F ; ma questo sussidio si può confiscare con una tassa che non incide sulle curve marginali (ad esempio, dunque, obbligando il venditore ad acquistare dallo stato una "licenza a vendere"). Vi è ovviamente anche in questo caso la soluzione più semplice, che consiste semplicemente nell'imporre per legge il prezzo di equilibrio concorrenziale: con questo espediente infatti il venditore perde il suo potere di mercato, e al prezzo di concorrenza vende la quantità di concorrenza. Anche in questo caso, però, sorgono come vedremo difficoltà pratiche, per problemi sia di informazione (rimane ignota la curva di offerta), sia di eterogeneità del bene cui si riferisce il prezzo: bloccato il prezzo, infatti, si incentiva il risparmio sui costi a scapito della qualità, molto meno facilmente misurabile che non il prezzo per unità di peso o la semplice quantità.

2.e. l'equilibrio di monopolio discriminante 2.e.1. definizione Nella teoria del valore LO SRWHUH GL GLVFULPLQDUH q LO SRWHUH GL SUDWLFDUH SUH]]L GLYHUVL LQ PHUFDWL RSSRUWXQDPHQWH VHJPHQWDWL. La "segmentazione" consiste nell'impossibilità di scambio tra le diverse controparti del monopolista discriminante, ed è dunque essenziale; se non ci fosse, ad esempio, la controparte più favorita farebbe gli acquisti o le vendite per tutti gli altri. La discriminazione è dunque difficile nella fornitura di merci, che si prestano facilmente agli scambi molteplici; è facile invece nella fornitura dei servizi (da cui la complicazione delle tariffe aeree, che segmentano appunto il mercato separando i clienti in varie categorie in funzione del prezzo di domanda). L'equilibrio nei singoli mercati rimane comunque quello di monopolio, come sopra, con la cattura del "rettangolo fiscale", la perdita netta di benessere rispetto all'equilibrio concorrenziale, e via di seguito. Le cose cambiano, e diventano interessanti (almeno a livello teorico), nel caso del potere di mercato detto di GLVFULPLQD]LRQH SHUIHWWD . In questo caso il monopolista può imporre XQ SUH]]R GLYHUVR SHU RJQL XQLWj VFDPELDWD (o come vedremo equivalentemente specificare contemporaneamente il prezzo e la quantità, a SUHQGHUH R ODVFLDUH). Di conseguenza tale monopolista, conoscendo i pezzi di domanda o di offerta dell controparte, SXz FDWWXUDUH WXWWL L EHQHILFL JHQHUDWL GDOOR VFDPELR--ragion per cui ha interesse a generarli tutti, e dal punto di vista dell'efficienza (anche se non della distribuzione della rendita, catturata appunto tutta dal monopolista) l'equilibrio assomiglia a quello concorrenziale. 2.e.2. l'equilibrio di discriminazione imperfetta Si consideri il grafico superiore della Figura 2.e.2.1, che illustra una situazione abbastanza comune. Il venditore è l'unico nazionale, ma uno dei tanti del mondo. La sua curva di offerta è 6, mentre ' è la domanda interna (e 0 è la curva ad essa marginale); il prezzo mondiale, al quale può vendere all'estero qualsiasi quantità, è 3H. Notiamo che in regime di libera importazione i consumatori nazionali possono anche importare a 3H, per cui questa retta orizzontale diventa la domanda netta per il nostro 39


produttore (che è dunque privo di potere di mercato). Immaginiamo dunque, per dargli tale potere, che un governo compiacente vieti la importazione del bene che produce. A questo punto la domanda netta per il nostro diventa la spezzata $%& Se costui non discrimina, ma pratica un unico prezzo, cerca l'incrocio tra i suoi costi marginali (6) e i suoi benefici marginali, che sono appunto la curva marginale alla sua curva di domanda netta, ossia il segmento $) (marginale alla domanda fino al punto %) e poi la semi-retta %& (marginale a se stessa, in quanto a pendenza zero). Il punto di equilibrio è dato da &: vende 4& al prezzo 3H (ossia essendo comunque concorrenziale al margine, col vincolo del prezzo unico rimane concorrenziale). A quel prezzo unico vende 4% unità sul mercato interno, e il resto all'estero. CosÏ facendo, però, non massimizza il suo beneficio. Sul mercato estero, infatti, il beneficio marginale è 3H, ma sul mercato interno è solo 0%; se a parità di vendite complessive sposta un'unità dal mercato interno a quello estero, lucra 3H 0% . Questo discorso vale ovviamente fintanto che non sono uguali i due benefici marginali. ,Q JHQHUDOH LQIDWWL OD FRQGL]LRQH GHOO RWWLPR SHU XQ RSHUDWRUH q O XJXDJOLDQ]D PDUJLQDOH D WXWWL L PDUJLQL GHO FDVR 0% 0% 0%Q 0& 0& 0&Q WXWWL ULIHULWL DOOR VWHVVR RSHUDWRUH Nel caso, il suo ottimo si ottiene con l'uguaglianza dei due benefici marginali, ossia, riportando quello delle vendite all'interno a 3H. L'equilibrio sul mercato interno è dunque definito dal punto ,, e quello complessivo sempre da &; vende pertanto solo 4, all'interno, al prezzo 3L, e il resto all'estero a 3H. Col prezzo unico, il beneficio lordo era 3H4&; discriminando, diventa (a parità di vendite e di costi complessivi) 3H4& 3L 3H 4,. In sostanza, senza discriminazione il venditore considera unico il mercato, e dunque decide quanto vendere usando la marginale alla somma delle domande; il beneficio lordo è dunque l'area sotto $)%&, uguale a 3H4&. Discriminando separa i mercati, e dunque decide quanto vendere usando la somma delle marginali (invece che la marginale della somma); il beneficio lordo è dunque l'area sotto $,&, e il guadagno dalla discriminazione è precisamente il triangolo ,%), uguale a 3L 3H 4,. Il grafico inferiore della Figura 2.e.2.1 illustra il caso piÚ generale, in cui ambedue le domande separabili hanno pendenza non-zero. Anche in questo caso con la discriminazione si passa da prezzi uguali e benefici marginali diversi a prezzi diversi e benefici marginali uguali, e si guadagna il triangolo che è la differenza fra l'area sotto la somma delle curve marginali alle domande e l'area sotto la curva marginale alla somma delle domande. Il monopolio discriminante del compratore è ovviamente il caso simmetrico, che lasciamo al lettore. 2.e.3. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del compratore Il compratore perfettamente discriminante è ad esempio l'unico datore di lavoro della zona, che può assumere ogni lavoratore ad un prezzo diverso; conoscendone i prezzi di offerta, paga ovviamente solo questi. La curva di offerta che ha di fronte è dunque quella generata dai lavoratori, ordinati appunto per prezzo di offerta, incominciando dal piÚ basso. L'equilibrio corrispondente è illustrato dalla Figura 2.e.3.1. Il costo marginale per il compratore è 0&F 3P, ossia il prezzo effettivamente pagato per l'unità marginale (senza incidere sui prezzi pagati per le unità inframarginali); tale curva dei prezzi è dunque per il compratore anche la curva dei costi marginali (alla quale è ovviamente associata una curva dei costi medi, che però non ha particolare interesse). Per tale individuo, dunque, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginali equipara il valore marginale psichico monetizzato del bene al prezzo che ne è il costo marginale: 0%F 0&F 3P. 40


L'equilibrio fra quantità acquistata e prezzo marginale (massimo) si trova pertanto sulla curva dei valori marginali psichici monetizzati, ossia sulla curva di domanda, ma per le unità inframarginali i prezzi di domanda eccedono i prezzi di mercato. Comprando il compratore tutte le unità inframarginali a prezzi di mercato inferiori ai prezzi di domanda, gode anche qui di una rendita, che è appunto tutta quella generata dallo scambio. L'equilibrio è pertanto efficiente come quello concorrenziale, ma se ne differenzia per la distribuzione diversa della rendita. Qualora il monopolista avesse di fronte una curva di offerta generata da un singolo individuo che ne subisce il potere, otterrebbe lo stesso risultato offrendo un dato prezzo per una data quantità (quella appunto che genera tutta la rendita), per cui la controparte non può scegliere la quantità in base al prezzo, ma solo prendere o lasciare (Figura 2.e.3.2). A voler essere precisi, e come vedremo meglio in seguito, in questo caso la curva di offerta non rimane quella del mercato concorrenziale se la valutazione monetaria del costo psichico cambia perchè il venditore è impoverito dalla confisca della rendita. 2.e.4. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del venditore Questo caso è ovviamente speculare al precedente. Il venditore perfettamente discriminante è ad esempio il chirurgo, che può far pagare prezzi diversi a ogni paziente: io non posso ovviamente mandare te al posto mio, anche se tu pagheresti di meno. Conoscendo il chirurgo i prezzi di domanda dei diversi pazienti, esige ovviamente esattamente questi (da cui la nota conversazione fra chirurghi: "Per cosa hai operato quel paziente?" "Per quaranta milioni." "Ma che aveva?" "Quaranta milioni."). La curva di domanda che ha di fronte è dunque quella generata dai pazienti, ordinati appunto per prezzo di domanda, incominciando dal più alto. L'equilibrio corrispondente è illustrato dalla Figura 2.e.4.1. Il beneficio marginale per il venditore è 0%Y 3P, ossia il prezzo effettivamente ottenuto per l'unità marginale (senza incidere sui prezzi ottenuti per le unità inframarginali); tale curva dei prezzi è dunque per il venditore anche la curva dei benefici marginali (alla quale è ovviamente associata una curva dei benefici medi, che però non ha particolare interesse). Per tale individuo, dunque, l'equilibrio che equipara beneficio e costo marginali equipara il costo marginale psichico monetizzato del bene al prezzo che ne è il beneficio marginale: 3P 0%Y 0&Y. L'equilibrio fra quantità venduta e prezzo marginale (minimo) si trova pertanto sulla curva dei valori marginali psichici monetizzati, ossia sulla curva di offerta, ma per le unità inframarginali i prezzi di mercato eccedono i prezzi di offerta. Vendendo il venditore tutte le unità inframarginali a prezzi di mercato superiori ai prezzi di offerta, gode anche qui di una rendita, che è appunto tutta quella generata dallo scambio. L'equilibrio è pertanto efficiente come quello concorrenziale, ma se ne differenzia per la distribuzione diversa della rendita. Qualora il monopolista avesse di fronte una curva di domanda generata da un singolo individuo che ne subisce il potere, otterrebbe lo stesso risultato chiedendo un dato prezzo per una data quantità (quella che genera tutta la rendita), per cui la controparte non può scegliere la quantità in base al prezzo, ma solo prendere o lasciare (Figura 2.e.4.2). Anche qui, a voler essere precisi, la curva di domanda non rimane quella del mercato concorrenziale se la valutazione monetaria del costo psichico cambia perchè il compratore è impoverito dalla confisca della rendita. Questo è facilmente intuibile: nel caso limite in cui spenderei tutto il mio reddito per il bene in esame, la mia curva di domanda concorrenziale è iperbolica (infatti la quantità che compro è una costante, divisa dal prezzo); ma è chiaro che se rimango senza soldi avendo comprato una certa quantità il mio prezzo di domanda per un'altra unità è 41


semplicemente zero.

2.e.5. l’equilibrio di monopolio bilaterale In questo caso, nessuno si comporta in modo concorrenziale: il venditore QRQ è vincolato dalla curva di domanda, nè il compratore dalla curva di offerta. Contrariamente ha quanto potrebbe sembrare (anche a tanti autori di testi di economia!), dunque, l'equilibrio di monopolio semplice dell'uno o dell'altro è assolutamente irrilevante. Se il negoziato continua fintanto che si possono fare proposte accettabili da ambo le parti, la quantità e i prezzi limite sono quelli che corrispondono ai due equilibri di monopolio perfettamente discriminante: ossia, si presume che tutta la rendita venga generata, e che venga o divisa o ai limiti assorbita interamente dall'uno o dall'altro (Figura 2.e.5.1). 2.e.6. l'equilibrio di monopolio semplice sequenziale Notiamo a questo punto che se lo stesso monopolista semplice può ripetere l'operazione fintanto che vi sono accordi raggiungibili, anche qui per definizione si genera tutta la rendita. I beni vengono infatti venduti (acquistati) a prezzi progressivamente ridotti (maggiorati), per cui si tratta in pratica di una forma particolare di discriminazione sequenziale (Figura 2.e.6.1). Peraltro questa soluzione è abbastanza artificiale, perchè presume che l'operatore concorrenziale non si accorga mai che il prezzo cala continuamente, e reagisce ad ogni prezzo come se fosse l'ultimo; se si vuol è proprio perchè la controparte non è così tonta che il monopolista semplice si ferma all'equilibrio iniziale anche se teoricamente ci sarebbe spazio per uno scambio ulteriore.

2.f. considerazioni sulla domanda e sull'offerta 2.f.1. il rapporto tra domanda e offerta in generale Nell'ottica comune, l'offerta si oppone alla domanda: si pensa a chi offre come chi ha beni e vuole danaro, a chi domanda come chi ha danaro e vuole beni. A ben pensarci, però, il danaro è solo [?] uno strumento di scambio; a monte della domanda c'è l'offerta, a monte dell'offerta la domanda: anzi, l'offerta è domanda, la domanda è offerta. Di base, però, il movente è sempre il desiderio di consumare, non di togliersi: come avevano capito i marginalisti, il fondamento dello scambio, e dunque della valutazione, è la domanda. 2.f.2. domanda e offerta nel singolo mercato Queste considerazioni sono trattate naturalmente in un contesto di equilibrio generale; ma l'identità di fondo tra domanda e offerta si può osservare anche al livello del singolo mercato, postulando un individuo con una data curva di domanda e una data disponibilità del bene in questione (l'esempio ovvio è il contadino che ha prodotto una certa quantità di vino, poniamo, e deve decidere quanto vino consumare). Nella Figura 2.f.2.1 questa disponibilità 4R corrisponde ovviamente al consumo di equilibrio (concorrenziale) 4H per un certo prezzo 3R. Se 3 3R, 4H ! 4R; se invece 3 ! 3R, allora 4H 4R. Nel primo caso, l'individuo acquista una quantità [aggiuntiva] 4F 4H 4R; nel secondo, invece, vende 4Y 4R 4H, dal che è ovvio che la curva di offerta altro non è che [l'immagine speculare de] la curva di domanda per 3 ! 3R. 42


2.f.3. efficienza e redistribuzione Riassumendo quanto sopra, si nota che GDWH OD GRPDQGD H O RIIHUWD YL VRQR YDUL HTXLOLEUL SRVVLELOL D VHFRQGD GHOOD VWUXWWXUD GHO PHUFDWR, come aveva sottolineato a suo tempo Chamberlin. Tralasciando il monopolio perfettamente discriminante e il monopolio semplice sequenziale, che sono piÚ che altro una curiosità teorica, notiamo che VRQR WHQGHQ]LDOPHQWH HIILFLHQWL RVVLD JHQHUDQR WXWWD OD UHQGLWD JOL HTXLOLEUL GHL PHUFDWL OLEHUL VRQR LQYHFH LQHIILFLHQWL TXHOOL GHL PHUFDWL JUDYDWL GDO SRWHUH SULYDWR PRQRSROLR R SXEEOLFR WDVVH Ritroviamo qui la "mano invisibile" di Smith, nel senso che in regime di concorrenza l'individuo è portato a comportarsi in modo socialmente utile. La rendita ottenuta, ossia il beneficio netto ottenuto dallo scambio, aumenta con il potere di mercato relativo (da zero per chi ha di fronte un potere illimitato al massimo per chi dispone di tale potere con di fronte un imbelle). ,O EHQHVVHUH LQGLYLGXDOH GLSHQGH GXQTXH DQFKH GDO SRWHUH UHODWLYR GL PHUFDWR Non a caso la redistribuzione viene operata anche e forse principalmente tramite la distribuzione del potere di mercato: ovviamente per motivi politici, chè un sussidio esplicito è una voce in bilancio che fa parlare di se ogni volta che si rifà il bilancio, mentre la distribuzione del potere di mercato è una legge di cui si parla solo quando si fa...

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3. L’EQUILIBRIO GENERALE: L’INDIVIDUO IN UN SISTEMA DI MERCATI 3.a. l’analisi dell’equilibrio 3.a.1. vincoli e obiettivi Come giĂ indicato, l'analisi delle scelte che è il fondamento della microeconomia viene formalizzata come una ottimizzazione vincolata, ottimizzazione che implica l'uguaglianza tra tassi di sostituzione marginali (nella funzione obiettivo e nel vincolo). Per capire l'equilibrio complessivo (generale) di un operatore economico bisogna pertanto specificarne la funzione obiettivo e i vincoli. L'RELHWWLYR del singolo viene identificato con la PDVVLPL]]D]LRQH GHOO XWLOLWj. A seconda del livello di analisi, invece, il YLQFROR di fondo può essere identificato con una disponibilitĂ ("dotazione") di reddito monetario, di beni, di tempo...; gli stessi mercati trasformano poi questi vincoli fondamentali in una JDPPD GL RS]LRQL (il vincolo decisionale), in un modo che varia a seconda della struttura del mercato. 3.a.2. la funzione obiettivo: problemi di metodo La massimizzazione dell'utilità è discussa e poco compresa. Molti la prendono alla lettera: i non economisti spesso attribuiscono all'economia il postulato di un KRPR HFRQRPLFXV "razionale", per poi negarne l'esistenza (sempre, o in passato: vedi la scuola di Polanyi); anche Sen ha scritto che bisogna superare il postulato della massimizzazione dell'utilitĂ . Questa concezione sembra però errata, a due livelli. Primo, nella misura in cui la funzione di utilitĂ non è vincolata, "massimizzare l'utilitĂ " significa solo fare ciò che si vuole: eventuali restrizioni e ipotesi comportamentali compaiono solo nella specificazione della funzione di utilitĂ , e non nel principio della sua massimizzazione. Secondo, a livello di metodologia scientifica, il modello da scegliere è sempre quello minimalmente complesso (rasoio di Occam). Anche il postulato (secondario) che l'utilitĂ sia solo funzione del consumo di beni materiali è pertanto giustificato quando basta per capire ciò che si vuole capire (ad es. il comportamento dei mercati), cosĂŹ come il modello di un astrofisico può ridurre la Terra ad un punto nello spazio: è un astrazione, scelta in quanto sufficiente per risolvere il problema in esame, e non una rappresentazione esauriente della realtĂ alla quale si crede. Il punto metodologico fondamentale, lo ricordiamo, è che il modello di spiegazione non è unico ("quello vero"), ma funzionale (che prendiamo per "vero" nella misura in cui per ampliarne la portata empirica basta complicarlo in modo esteticamente "naturale"). Sono altrettanto "vere", ad esempio, due cartine diverse dell'Italia, una colorata per distinguere i rilievi, l'altra con ogni regione colorata a tinta unita: ognuna infatti tralascia ciò che esiste ma non interessa. 3.a.3. la funzione obiettivo: rappresentazione analitica Per mettere a fuoco il problema della scelta vincolata, basta considerare un operatore di fronte a due "beni-obiettivo", ossia due beni che sono entrambi argomenti della funzione obiettivo. Possiamo dunque postulare 8 8 ; < , con derivate positive, generalizzabile a Q beni-obiettivo. Graficamente, si segue la convenzione cartografica, in cui la terza dimensione (l'altezza nelle piantine, l'utilitĂ nel caso nostro) viene proiettata sul piano definito dalle altre due con curve di livello (iso-altezza, iso-utilitĂ ), come nella Figura 3.a.3.1. Essendo l'unico criterio l'utilitĂ , tra le combinazioni di ; e < che comportano la VWHVVD XWLOLWj l'individuo è 44


LQGLIIHUHQWH; le curve di iso-utilità sono pertanto note appunto come FXUYH G LQGLIIHUHQ]D. L'obiettivo è la massimizzazione di 8, ossia il raggiungimento del livello di utilità (graficamente, la curva di indifferenza o isoutilità ) piÚ alto possibile. Come ha notato Pareto, questa massimizzazione in termini di beni è invariante a qualsiasi trasformazione monotonica di 8 (ossia qualsiasi trasformazione che conservi la graduatoria tra le varie combinazioni possibili, e dunque lasci invariate le curve d'indifferenza); nulla dipende dagli scarti di utilità tra piÚ preferito e meno preferito, per cui basta una misura RUGLQDOH dell'utilità . La funzione di utilità si assume FRPSOHWD (ossia senza buchi), GLIIHUHQ]LDELOH (ossia con curve d'indifferenza senza spigoli), WUDQVLWLYD (ossia non incoerente, come vedremo appresso), VHQ]D VD]LHWj (ossia si escludono G8 G; e G8 G< per qualsiasi combinazione di ; e <), e FRQYHVVD (ossia con curve d'indifferenza a pendenza non crescente verso destra). La collina descritta dalle nostre curve di iso-altezza è insomma regolare, tondeggiante, e sempre in salita tra nord e est, come appunto nella Figura. La non sazietà si ricollega alla logica dei paragoni paretiani: significa infatti che se un pacchetto ; < ne domina un altro in senso paretiano, ossia contiene piÚ di un bene e non meno dell'altro (per cui nel grafico nel quadrante a nord-est del pacchetto dominato), ad esso si associa un'utilità maggiore (o come minimo non minore). Nella realtà , ovviamente, ciò non è vero: se non smetto di mangiare a un certo punto sto peggio. Per giustificare comunque l'ipotesi della non sazietà gli economisti l'appoggiano spesso all'ipotesi dello "smaltimento gratuito" ("free disposal"), per cui se possiedo piÚ cibo ma non sono obbligato a mangiarlo non posso stare peggio, anche se posso essere sazio e non stare meglio. In tal caso la mia curva di indifferenza definita sui beni a mia disposizione, consumabili ma non necessariamente consumati, è al limite parallela agli assi; l'eventuale angolo acuto con pendenze positive definito sul consumo effettivo (di zucchero e caffè, per esempio) si riporta, con lo smaltimento gratuito, all'angolo retto dei paragoni paretiani. Lo smaltimento gratuito non è però piÚ credibile della non sazietà : non solo sto peggio se continuo a mangiare gelato, ma chi me ne scaricasse una tonnellata in cucina mi farebbe un grosso dispetto. Di fatto, è essenziale all'equilibrio solo la transitività : infatti se l'individuo preferisce $ a %, % a &, e & a $, diventa incapace di scegliere. La transitività è una caratteristica comune, ma non universale: vale per esempio per le grandezze (se Tizio pesa piÚ di Caio, e Caio piÚ di Sempronio, Tizio pesa piÚ di Sempronio), ma non per l'agonismo sportivo (la Lazio batte il Milan, il Milan batte la Juve, ma la Juve batte la Lazio). La morra cinese è un gioco senza strategie vincenti proprio perchè intransitivo: la carta copre il sasso, il sasso spunta la forbice, la forbice taglia la carta. Le altre caratteristiche attribuite alla funzione di utilità servono piuttosto come vedremo a ottenere equilibri pedagogicamente illuminanti: precisi, e sensibili a qualsiasi mutamento del vincolo. Tutto qui: se il consumatore solo davanti a una tavola imbandita a un certo punto smette di mangiare, o mangia solo dolci, non crolla la microeconomia. Per qualsiasi punto del grafico, dunque, passa una curva d'indifferenza convessa, con pendenza negativa. Questa pendenza è il WDVVR PDUJLQDOH GL VRVWLWX]LRQH tra ; e < lungo la curva d'indifferenza (706 , dove "o" indica "obiettivo"), e corrisponde al rapporto tra le utilità marginali (08 G8 G;): infatti G8 08 G; 08 G<, per cui se G8 , allora G< G; 706 08 08 . La dimensione di 08 , si badi bene, è "unità di utilità per unità di ;", e il suo valore rimane ignoto in quanto dipende dalla specificazione esatta (cardinale) di 8. La dimensione di 08 08 , invece, è "unità di < per unità di ;": le "unità di utilità " al numeratore e al denominatore infatti si elidono. Il 706 pertanto non dipende dalla specificazione cardinale di 8, per cui possiamo (e secondo la regola di Occam dobbiamo) fermarci al livello ordinale-a meno ovviamente di voler considerare problemi diversi, per i quali la forma cardinale R

;

R

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;

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<

R

45

<


diventa invece rilevante. La Figura 3.a.3.2 ripropone la collina dell'utilità , nel piano ; <, e di nuovo nel piano 8 ; per < < . Il significato dell'ordinalità è che l'asse 8 è elastico: possiamo allungarlo o comprimerlo, modificando l'altezza della collina, senza nulla cambiare alla proiezione della stessa sul piano ; <, e dunque senza cambiare le curve d'indifferenza, i 706 , e gli equilibri. Come è ovvio peraltro dalla Figura, "allugando" a sufficienza l'asse 8 la pendenza di 8 ; può passare da calante a crescente, ossia con utilità marginali crescenti. L'analisi ordinale non ha infatti bisogno di, e non implica, il "principio dell'utilità marginale decrescente": è questo un principio a parte, che nasce dal presupposto ragionevole che qualsiasi bene viene usato prioritariamente dove è piÚ utile. Notiamo però che questo stesso presupposto presuppone a sua volta che i diversi usi non interagiscano: se immaginiamo ad esempio una terapia che rimane senza effetti se non raggiunge una certa intensità , ecco che il beneficio marginale può essere crescente. Ritorneremo sul problema dei rendimenti crescenti nel contesto della produzione, che si misura senza problemi. Nel contesto ordinale, peraltro, è la FRQYHVVLWj che coglie la sostanza intuitiva del principio dell'utilità marginale decrescente: lungo la curva di indifferenza (per cui G8 , e evitiamo di dover misurare G8), cambia il 706 (il rapporto delle utilità marginali) nel senso che il bene di cui è aumentato il consumo vale relativamente meno in termini dell'altro bene, di cui il consumo si è ridotto. R

R

3.a.4. il vincolo Il vincolo, come l'obiettivo, è funzione di ; e <; l'operatore può scegliere qualsiasi punto sul vincolo, o all'interno di esso. Il vincolo si modella per ovvi motivi come un vincolo di spesa (5) per il consumo: 5 5 ; < ; come vedremo tra breve tale vincolo può essere definito direttamente in danaro ("il consumatore"), o invece da una disponibilità di beni ; < convertibili in danaro (il nostro contadino che si ritrova con grano e vino), o anche, in un contesto piÚ ampio, di tempo convertibile in danaro, ovviamente lavorando. Il vincolo di spesa non è l'unico concepibile. Si ricorda a Harvard che a questo punto del corso il futuro Aga Khan alzò la mano per chiedere cosa succede se uno non ha vincolo di spesa; la risposta giusta è che diventa allora determinante il vincolo di tempo, 7 7 ; < . Normalmente, però, il vincolo di spesa è quello che determina effettivamente l'equilibrio; ed è comunque quello che interessa una disciplina che studia i prezzi e gli scambi. All'interno del vincolo di spesa, pure, vi è un WDVVR PDUJLQDOH GL VRVWLWX]LRQH 706 , al quale l'operatore può sostituire ; con <, e viceversa, a spesa costante. Se rinuncio a un'unità di ;, risparmio 0& ; con tale risparmio 0& il numero di unità aggiuntive di < che mi posso permettere è 0& 0& , per cui 706 0& 0& . Infatti G5 0& G; 0& G<; se G5 , allora G< G; 706 0& 0& . La dimensione di 0& è ovviamente "dollari per unità di ;"; quella del 706 è "unità di < per unità di ;", esattamente come il 706 , perchè i dollari qui si elidono come li si elidono le utilità .

Y

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3.a.5. l'equilibrio Il punto scelto, ossia l'equilibrio, corrisponde per definizione al punto accessibile preferito a ogni altro punto accessibile. Geometricamente, VH OH IXQ]LRQL VRQR ORFDOPHQWH GLIIHUHQ]LDELOL la scelta che corrisponde al massimo dell'utilità permesso dal vincolo è caratterizzata da una tangenza tra vincolo e curva d'indifferenza. Se infatti il vincolo incrocia la curva d'indifferenza, spostandosi opportunamente lungo il vincolo si raggiunge una curva d'indifferenza piÚ alta; pertanto ogniqualvolta vi è qualche differenza tra i tassi marginali di sostituzione 46


nell'obiettivo e nel vincolo, vi è la possibilità di miglioramento (vedi il principio dei vantaggi comparati). Ne consegue che O HTXLOLEULR GL PDVVLPL]]D]LRQH YLQFRODWD q FDUDWWHUL]]DWR GDOO XJXDJOLDQ]D WUD 706 RELHWWLYR H 706 YLQFROR 706R 706Y Data la funzione obiettivo, dunque, l'equilibrio dipende dal vincolo, ossia dalle disponibilità iniziali (beni, danaro...) da un lato e dalle possibilità che offre il mercato (anche in funzione della sua struttura) dall'altro; variando il vincolo, o la funzione obiettivo, varia l'equilibrio. L'atteggiamento positivista della disciplina economica fa sì che l'economista applicato scelga di spiegare le diversità (interlocali, intertemporali) fra gli equilibri in base a differenze di vincoli, osservabili, e non a differenze di obiettivi (gusti) non osservabili. Il cambiamento o la differenza di gusti è infatti per l'economista l'equivalente del miracolo per lo scienziato della natura: è sempre possibile, può spiegare tutto ciò che non si capisce, ma proprio per questo è una spiegazione sterile, che non aiuterà mai a capire di più. Notiamo inoltre che l'economista assume che l'individuo fa sempre quello che vuole, per cui ogni scelta è quella voluta ("che massimizza l'utilità") nel momento in cui è fatta (atteggiamento peraltro condiviso dal psicanalista, che spiega al paziente perchè quello che ha fatto è quello che realmente voleva fare...). Dati i vincoli, dunque, O HTXLOLEULR ULYHOD OH SUHIHUHQ]H: conoscendo il vincolo e la scelta dell'operatore, sappiamo che in quel punto la sua curva d'indifferenza ha la pendenza del vincolo; e variando sperimentalmente il vincolo possiamo teoricamente ricostruire tutta quella curva d'indifferenza, e come quella le altre. Notiamo infine che questo principio che il comportamento è sempre razionale (nel senso debole e convenzionale della parola) è universalmente accettato dagli economisti per quanto riguarda l'operatore consumatore. Non lo è invece per quanto riguarda l'operatore stato: posizione forse poco coerente, ma necessaria per giustificare la critica delle scelte di politica economica (e le consulenze per migliorarle). Se lo stato venisse trattato come il singolo, infatti, l'economista potrebbe solo studiare la politica come l'astronomo studia le stelle, per risalire ai gusti dei governanti, senza pensare di poter intervenire per migliorare le scelte che si assumono ottimali (e che possono dunque sembrare strane solo a chi non le capisce). A questo punto è ovvio il valore pedagogico della forma particolare della funzione di utilità: questa garantisce infatti un equilibrio interno, sensibile (in quanto tangenza) con continuità a ogni mutamenti del vincolo. La Figura 3.a.5.1 illustra alcuni casi esclusi dai nostri postulati. Nel primo grafico, l'individuo è sazio, per cui il vincolo di spesa diventa ininfluente. Nel secondo, l'utilità è concava. Se il vincolo è meno concavo delle curve di utilità (come nel grafico, in cui il vincolo è una retta), il massimo si raggiunge dove il vincolo tocca uno degli assi; una rotazione del vincolo intorno a quel punto potrebbe non mutare l'equilibrio, o spostarlo con un salto all'incrocio con l'altro asse. Nel terzo, l'utilità non è ovunque differenziabile: le curve di indifferenza sono non vere curve, ma spezzate, Se il vincolo è una retta, l'equilibrio sarà ad uno spigolo (che può essere su uno degli assi); ruotando il vincolo intorno a quello spigolo l'equilibrio rimane immutato, o salta ad un altro spigolo.

3.b. l'equilibrio dell'operatore concorrenziale 3.b.1. il vincolo e l'equilibrio L'operatore concorrenziale in quanto tale ha di fronte a se dei prezzi parametrici, sulla base dei quali decide le quantità: 706 è pertanto costante (il vincolo è una retta) e uguale al prezzo relativo dei due beni (706 0& 0& 3 3 , dove 0& è il costo marginale per Y

Y

;

<

47

;

<


quell’operatore). In equilibrio, dunque, 08 08 706 706 3 3 : la combinazione di ; e < scelta dall’operatore in HTXLOLEULR FRQFRUUHQ]LDOH è data dal punto di WDQJHQ]D WUD OD FXUYD GL LQGLIIHUHQ]D (pertanto la piĂš alta raggiungibile) H OD UHWWD GHL SUH]]L (Figura 3.b.1.1). Questa condizione di equilibrio equivale ovviamente a 08 3 08 3 , piĂš facilmente intuibile. La dimensione di questi rapporti è (utilitĂ per unitĂ di ; o <)/(dollari per unitĂ di ; o <), che si riduce a (utilitĂ /dollaro): si massimizza insomma l'utilitĂ uguagliando il rendimento (l'utilitĂ marginale) per unitĂ di spesa a tutti i margini di spesa (; < ). Questo è ovvio, in quanto se al margine l'utilitĂ ottenuta per unitĂ di spesa non è uguale da un margine all'altro posso spostare un dollaro da dove rende di meno a dove rende di piĂš, con un guadagno netto. La stessa analisi vale anche per l'Aga Khan, solo che i prezzi sono misurati non in dollari ma in unitĂ di tempo (una partita a squash richiede mezz'ora, un concerto due ore...); l'allocazione ottimale del tempo richiede ovviamente un'uguale soddisfazione per unitĂ di tempo a tutti i margini di attivitĂ . ;

<

R

Y

;

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3.b.2. l'operatore con disponibilità di danaro: l'equilibrio e i reddito Immaginiamo che l'operatore disponga direttamente di una somma di danaro (5). Questa somma corrisponde alla spesa possibile; nella prassi (che seguiremo) si identifica con il reddito, che si presume interamente speso. Il vincolo 5 ;3 <3 ha come intercette sugli assi 5 3 e 5 3 . Il vincolo e l'equilibrio rimangono ovviamente immutati se 5, 3 e 3 cambiano tutti nella stessa proporzione, lasciando pertanto immutati i loro rapporti. Si esprime cosÏ il concetto del "reddito reale", che corrisponde al SRWHUH G DFTXLVWR: il benessere dipende da questo, e non dal "reddito nominale" in dollari, che vale di meno se i prezzi sono piÚ alti. Il vincolo si sposta invece conservando la pendenza se cambia 5 o se cambiano 3 e 3 con 3 3 invariato, ossia se cambia il reddito reale a prezzi relativi invariati. Nella Figura 3.b.2.1 immaginiamo che 5 aumenti da 5 a 5 . L'equilibrio si sposta, cambiando i consumi di ambedue i beni; G; e G<, dovuti a G5, si chiamano HIIHWWL GL UHGGLWR. Da un equilibrio all'altro, cambiando solo il reddito, 706 706 rimane immutato. Il luogo dei punti delle diverse curve d'indifferenza con quel 706 è dunque il luogo degli equilibri, dato quel 706 (ossia quei prezzi relativi), se varia il reddito; tale luogo si chiama, con forma anglosassone, la FXUYD UHGGLWR FRQVXPR. Con prezzi relativi diversi, la curva reddito-consumo pure è diversa (Figura 3.b.2.2); comunque tutte le curve reddito-consumo partono dall'origine degli assi, per il semplice motivo che con reddito zero anche i consumi sono zero. Se cambiando il reddito, con prezzi invariati, il consumatore varia i suoi consumi, vuol dire che si spostano le curve di domanda. Il consumo del bene ; è dunque funzione del reddito oltre che del prezzo: ; 5 3 . Questa relazione è tridimensionale, e dunque una collina; la singola curva di domanda ne è uno spaccato bidimensionale, che varia dunque con la variabile esclusa (il reddito). Nella Figura 3.b.2.3, la curva di domanda è 3 ; con 5 5 , e 3 ; con 5 5 ; essendo in questo caso la collina un piano inclinato, le curve di domanda sono lineari e a pendenza costante. Variando il consumo con il reddito, a prezzi costanti, si può calcolare O HODVWLFLWj DO UHGGLWR del consumo, ad esempio di ;: H G; ; G5 5 . Nel caso normale, la curva reddito-consumo ha una pendenza positiva, per cui H ! per ambedue i beni: il consumo di ambedue aumenta con il reddito, e ambedue sono detti dunque beni "normali" o "superiori". Se invece la curva reddito-consumo ha una pendenza negativa, come nella Figura 3.b.2.4, l'elasticità al reddito è positiva per uno dei beni (<, nel grafico), e negativa per l'altro (;, nel ;

<

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5

5

48


grafico); il bene con l’HODVWLFLWj DO UHGGLWR QHJDWLYD è detto un EHQH LQIHULRUH. Siccome il reddito che aumenta è sempre interamente speso, non tutti i beni possono essere inferiori: almeno uno deve essere superiore. Di esempi di beni inferiori il mondo è pieno: sono infatti tali tutti i beni che consumiamo quando e perchè siamo poveri, e che smettiamo di consumare come ci possiamo permettere di meglio. Un esempio ci viene dall'Europa settentrionale, dove una volta il pane bianco, di grano, era il pane dei ricchi, e i poveri mangiavano il pane nero, di segala. Da questo esempio è ovvio che lo stesso bene può essere normale entro certi limiti di reddito, e inferiore entro altri: infatti i poverissimi mangiavano pure pane di segala, ma in quantità ridotte, che aumentavano se e come potevano. Interessa anche sapere se l'elasticità al reddito è superiore o inferiore a uno. Se per il bene ; infatti H , come aumenta il reddito aumenta la spesa per ; (il consumo, a prezzo costante), ma diminuisce la quota di ; sulla spesa complessiva; con H ! , invece, tale quota aumenta. I beni con HODVWLFLWj DO UHGGLWR EDVVD sono dunque i EHQL GL SULPD QHFHVVLWj, mentre i beni con HODVWLFLWj DO UHGGLWR DOWD sono i EHQL GL OXVVR, e fra i due si trova ovviamente una fascia intermedia. Infatti i poveri spendono gran parte del loro reddito per nutrirsi, poco per coprirsi, e nulla per la barca; i medi spendono relativamente di meno per nutrirsi, di più per coprirsi, e forse ogni tanto affittano una barca; in proporzione al reddito i ricchi spendono quasi niente per nutrirsi, forse quanto i medi per coprirsi, e una tombola per mantenere la flotta da diporto. Perchè "sale e tabacchi", e non "sale, tabacchi e visoni"? Sale, tabacchi, e visoni hanno tutti una domanda con bassa elasticità al prezzo, per cui sono tutti e tre tassabili; ma la domanda di sale e tabacchi ha anche un'elasticità bassa al reddito, mentre la domanda di visoni è altamente elastica al reddito. Ne consegue che le tasse sul sale e i tabacchi assorbono una quota maggiore del reddito dei poveri che non dei ricchi, ossia sono WDVVH UHJUHVVLYH, mentre una tassa sui visoni, beni di lusso, sarebbe stata WDVVH SURJUHVVLYD. Le curve che per i diversi tipi di beni legano la quota di spesa al reddito, come ad esempio nella Figura 3.b.2.5, sono note come FXUYH GL (QJHO (da non confondere con Engels collaboratore di Marx). Le quote sommano a uno; tutte le elasticità al reddito (o meglio alla spesa complessiva) possono essere unitarie, ma se tale elasticità è maggiore di uno per un bene deve essere minore di uno per almeno uno degli altri beni, e viceversa. 5

5

3.b.3. l'operatore con disponibilità di danaro: l'equilibrio e i prezzi Cambiando invece solo 3 con 5 e 3 invariati, il vincolo cambia pendenza ruotando intorno all'intercetta del bene < con prezzo immutato. Nella Figura 3.b.3.1 immaginiamo che 3 cali da 3 a 3 . L'equilibrio si sposta, cambiando i consumi di ambedue i beni; G; e G<, dovuti a G3 (nel caso, G3 ), si chiamano HIIHWWL GL SUH]]R. Da un equilibrio all'altro, cambiando solo 3 , rimane fermo 5 3 ma varia 706 e dunque 706 . Il luogo dei punti in cui 706 706 , ossia di tangenza fra le diverse curve d'indifferenza e i diversi vincoli con intercetta 5 3 , è dunque il luogo degli equilibri, dato quel reddito e quel prezzo di <, se varia il prezzo di ;; tale luogo si chiama, con forma anglosassone, una FXUYD SUH]]R FRQVXPR. Cambiando il reddito, ovviamente, l'intercetta verticale sarebbe diversa, e l'intera curva prezzo-consumo si sposterebbe (Figura 3.b.3.2). Dati 5 e 3 e cambiando solo 3 , uno spostamento lungo la curva prezzo-consumo corrisponde ad uno spostamento lungo la FXUYD GL GRPDQGD per ;. Nella Figura 3.b.3.3, infatti, sotto il grafico della curva prezzo-consumo compare il grafico con lo stesso asse orizzontale, riferito appunto al consumo di ;, e sull'asse verticale i diversi prezzi di ;; il luogo di tali consumi di equilibrio per il compratore concorrenziale è ovviamente la sua curva di domanda. Notiamo pure il grafico in alto a sinistra, che porta sugli assi il prezzo e la quantità di ;

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R

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49

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<: rappresenta dunque lo spazio della curva di domanda per < (con una rotazione di novanta gradi: basta girare il foglio in senso orario per ritrovarlo in forma "normale"). La curva prezzo-consumo rivela che cambiando il prezzo di ;, cambia anche il consumo di <; e siccome il prezzo di < non è cambiato, LO PXWDPHQWR GHO SUH]]R GL ; VSRVWD OD GRPDQGD SHU <. Il consumo del bene < è dunque funzione, oltre che del reddito e del prezzo di <, anche del prezzo di ;: < 5 3 3 . Questa relazione è quadridimensionale, e dunque una ipercollina; la singola curva di domanda ne è uno spaccato bidimensionale, che varia dunque con ambedue le variabili escluse (il reddito, il prezzo di ;). In generale, con Q beni, il consumo di ognuno di questi è una funzione a (Q + 2) dimensioni: ogni consumo è infatti funzione del reddito e di tutti i prezzi. / HTXLOLEULR HFRQRPLFR q XQ HTXLOLEULR JHQHUDOH SURSULR SHUFKq JOL HTXLOLEUL GHL VLQJROL PHUFDWL VRQR LQWHUGLSHQGHQWL Lo vediamo qui per quanto riguarda il consumo, lo vedremo poi per quanto riguarda la produzione. Il punto è fondamentale: chi non capisce l'economia come un sistema di equilibri interdipendenti non la capisce, e rimane "naïf". Immaginiamo una falda aquifera che rende comunicanti diversi laghi: il naïf che non ne capisce le implicazioni pensa che se cala il livello dell'acqua del lago che ha davanti agli occhi la spiegazione pure deve essere davanti ai suoi occhi, e incolpa magari il ragazzino col secchiello. Variando poi il consumo di < con il prezzo di ; si può ovviamente calcolare O HODVWLFLWj LQFURFLDWD, ossia G< < G3 3 . Il vincolo di spesa vincola pure il rapporto tra tale elasticità incrociata e l'elasticità della domanda di ; (l'elasticità "propria", ossia della quantità rispetto al proprio prezzo). Se, come nel grafico, la pendenza della curva prezzoconsumo è positiva, l'elasticità incrociata è negativa G< ! G3 , e l'elasticità propria è inferiore a uno: infatti se la spesa complessiva è costante ma calando 3 aumenta il consumo di <, e dunque dato 3 aumenta la spesa per <, allora diminuisce la spesa per ;, per cui la domanda di ; è anelastica. Se la domanda di ; fosse invece elastica, calando 3 aumenterebbe la spesa per ; e diminuirebbe dunque quella per <, per cui dato 3 cala il consumo di <; G< per G3 , e l'elasticità incrociata è positiva. La pendenza negativa (zero, positiva) della linea prezzo-consumo corrisponde insomma a un'elasticità incrociata positiva (zero, negativa) e propria superiore (uguale, inferiore) a uno. Questi vincoli che vengono dalla spesa complessiva si applicano ovviamente all'elasticità propria di un bene, da un lato, e l'elasticità incrociata del complesso degli altri beni, dall'altro: se 8 8 ; < = , rispetto a 3 potrebbero essere contemporaneamente superiore a uno l'elasticità della domanda di ; (per cui calando 3 la spesa per ; aumenta) e negativa l'elasticità incrociata di < (per cui aumenta pure la spesa per <), ma allora l'elasticità incrociata di = sarebbe per forza fortemente positiva (per ridurre abbastanza la spesa per = da mantenere costante la spesa complessiva). Approfittiamo di questo esempio per ricordare che i modelli sono volutamente semplici, ma diventano troppo semplici quando portano a conclusioni che dipendono proprio dalla semplificazione, e si perdono se si arricchisce il modello: il modello delle scelte su due soli beni è utilissimo, ma come tutti i modelli va usato con giudizio. <

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3.b.4. effetti di prezzo, di reddito, e di sostituzione I mutamenti dei consumi dovuti al mutamento di un prezzo, tenendo fermo il reddito e gli altri prezzi--ovvero le proiezioni sugli assi ; e < degli spostamenti lungo la curva prezzoconsumo--sono come abbiamo detto gli HIIHWWL GL SUH]]R. Per approfondirli, studieremo il caso in cui cala il prezzo di ;, per cui aumenta il potere di acquisto (il reddito reale) del nostro consumatore; quanto diremo si applicherĂ ovviamente, mutatis mutandis, anche alle conseguenze di un aumento del prezzo di ;, e ai mutamenti del prezzo di <. 50


Cala dunque il prezzo di ;, e il consumatore si sposta lungo la curva di prezzoconsumo, con due risultati: da un lato, raggiunge una curva d’indifferenza superiore; dall’altro, modifica il tasso di sostituzione interno (706 , il rapporto delle utilità marginali) per adeguarlo a quello esterno (706 , il rapporto dei prezzi). Questi risultati sono ambedue inevitabili, il primo per la non-sazietà (di fronte all'allentamento del vincolo), il secondo per la differenziabilità. Questi due aspetti sono utilmente considerati separatamente, come nella Figura 3.b.4.1. Calando 3 il consumatore si sposta da a : 8 aumenta da 8 a 8 , il consumo di ; passa da ; a ; , il consumo di < da < a < ; ; ; e < < sono gli effetti di prezzo. Per isolare l'effetto corrispondente all'aumento di utilità, si immagina che questo avvenga a prezzi costanti, con un incremento di reddito, e dunque con uno spostamento lungo la curva reddito-consumo; per isolare l'effetto corrispondente al mutamento del tasso di sostituzione si immagina che questo avvenga a utilità costante, e dunque con uno spostamento lungo la curva di indifferenza. Nella Figura, dunque, si costruisce il punto , sulla curva di reddito-consumo che passa per i punto e la curva di indifferenza che passa per il punto . Il punto sarebbe l'equilibrio su 8 , con un adeguato incremento di reddito, ai prezzi iniziali; ; e < sarebbero i consumi corrispondenti, con 8 8 come nel punto . Il movimento dal punto al punto si decompone in un movimento dal punto al punto , "di reddito", e dal punto al punto , "di sostituzione". Considerando le proiezioni sugli assi di questi movimenti, JOL HIIHWWL GL SUH]]R VL GHFRPSRQJRQR LQ HIIHWWL GL UHGGLWR H HIIHWWL GL VRVWLWX]LRQH. Nella Figura, l'effetto di prezzo ; ; si decompone nell'effetto di reddito ; ; e l'effetto di sostituzione ; ; ; l'effetto di prezzo < < si decompone nell'effetto di reddito < < e l'effetto di sostituzione < < . Al posto del punto , peraltro, si potrebbe costruire il punto , sulla curva di indifferenza iniziale, e sulla curva di reddito-consumo corrispondente ai prezzi finali (ossia quella che passa per il punto : nel punto , la pendenza di 8 è uguale alla pendenza di 8 al punto ). Gli effetti di sostituzione diventano dunque le proiezioni dello spostamento dal punto al punto invece che dal punto al punto , e gli effetti di reddito le proiezioni dello spostamento dal punto al punto invece che dal punto al punto . L'effetto di prezzo rimane lo stesso, ma si decompone diversamente. Che si possano ottenere due risultati diversi è fastidioso ma non grave; il problema è simile alla differenza percentuale tra 5 e 10, che è del 100 per cento per un verso e del 50 per cento per l'altro. Come in quel caso, peraltro, la differenza scompare per mutamenti infinitesimali. Notiamo varie cose. Primo, nel caso illustrato dalla Figura l'effetto di reddito è positivo per ambedue i beni: sono dunque ambedue "normali", ma potrebbero anche non esserlo. Secondo, l'effetto di sostituzione è negativo per < ma positivo per ;; e questo non può essere diversamente, visto che dipende dall'adeguamento del 706 al 706 , e la funzione di utilità è convessa e differenziabile. / HIIHWWR GL VRVWLWX]LRQH q VHPSUH D IDYRUH GHO EHQH FKH GLYHQWD UHODWLYDPHQWH PHQR FDUR Terzo, l'effetto di reddito dipende dalla pendenza della curva reddito-consumo (ossia dell'elasticità al reddito del bene in questione), e dall'aumento del reddito reale (ossia, per non parlare di utilità, del divario tra la curva effettiva dei prezzi e quella ad essa parallela costruita per localizzare il punto o il punto ); e questo dipende ovviamente dal rapporto tra il risparmio a consumi immutati e il reddito complessivo, ossia da G3 3 e 3 ; 5 . Il mio potere d'acquisto aumenta infatti notevolmente se si dimezza il prezzo di un bene che assorbe la metà della mia spesa, per cui i consumi che esaurivano il mio reddito adesso ne assorbono solo i tre quarti; ma se si riduce del due per cento il prezzo di un bene che assorbe la metà R

Y

;

R

;

51

Y

;

;


della mia spesa, o se si dimezza il prezzo di un bene che assorbe il due per cento della mia spesa, il mio potere d’acquisto cambia di poco, chè i consumi che esaurivano il mio reddito ne assorbono tuttora il novantanove per cento. L'espressione algebrica della decomposizione dell'effetto di prezzo (per mutamenti infinitesimali) è nota come O HTXD]LRQH GL 6OXWVN\, che si può scrivere nella forma seguente: G; G3 G; G3

;

; XWLOLWj FRVWDQWH

; G; G5

SUH]]L FRVWDQWL

o anche, in termini di elasticitĂ (sempre riferite a ;), moltiplicando ogni elemento dell'equazione per 3 ; e l'ultimo elemento per 5; 5; , ;

H H 3 ; 5 H '

&

;

5

dove H è l'elasticità del consumo di ; al proprio prezzo per spostamenti lungo la curva di indifferenza. è necessariamente negativo (se 3 cala, Come abbiamo visto, G; G3

lungo la curva di indifferenza ; aumenta). Se ; è un bene normale, G; G5 ! ; dunque ; G; G5 , e siccome anche G; G3 , se cala il prezzo aumenta il consumo. Se ; è un bene inferiore, invece, la pendenza negativa "normale" della domanda richiede che l'effetto di sostituzione (positivo per G3 ) ecceda l'effetto di reddito (negativo per G3 ); e questo è molto probabile ma non assolutamente inevitabile. Se infatti il consumatore, povero, spende quasi tutto il suo reddito per un bene spiccatamente inferiore, calando il prezzo di questo bene, l'effetto di reddito, forte e negativo, potrebbe eccedere l'effetto di sostituzione, necessariamente positivo. Alla riduzione del prezzo seguirebbe dunque una riduzione dei consumi, per cui la curva di domanda avrebbe (localmente) una pendenza positiva (Figura 3.b.4.2). Questo caso anomalo è noto come il SDUDGRVVR GL *LIIHQ, dal nome dello studioso che interpretò cosÏ il mercato dei beni di prima necessità nei paesi poveri. L'idea di fondo è semplice. Io povero del nord-Europa spendo tutto per comprarmi pane di segala, nero e duro, riuscendo giusto giusto a sfamarmi. Si dimezza il prezzo del pane di segala, per cui potrei mangiarne il doppio; ma sono comunque sazio, per cui piuttosto che mangiare di piÚ voglio mangiare meglio. Compro dunque anche pane bianco (da mangiare a sandwich tra due fette di pane nero), e riduco in proporzione gli acquisti di pane nero. In tutto ciò, comunque, il punto essenziale è che i mutamenti dei prezzi hanno sia effetti di reddito, perchè mutano il potere di acquisto, sia effetti di sostituzione, perchè mutano i prezzi relativi. L'effetto di reddito è ovvio, e ben capito dal pubblico, che strilla ogni volta che aumenta il prezzo della benzina; l'effetto di sostituzione è purtroppo piÚ sottile e meno ovvio, e troppo spesso pubblico e politici non ne tengono conto. Eppure OD VHQVLELOLWj GHOOH VFHOWH DL PXWDPHQWL GHL SUH]]L UHODWLYL FKH FKLDPLDPR O HIIHWWR GL VRVWLWX]LRQH q XQ DVSHWWR IRQGDPHQWDOH H XQLYHUVDOH GHO IXQ]LRQDPHQWR GHL PHUFDWL, anche perchè causa l'interdipendenza dei mercati anche in assenza di effetti di reddito; lo vediamo qui per il consumo, lo vedremo poi per la produzione. Non si può dunque sovrastimare l'importanza dell'effetto di sostituzione, e dei danni che fanno gli interventi che non ne tengono conto: far pagare la rimozione dei rifiuti ingombranti incentiva la discarica abusiva, sussidiare i bambini delle donne sole incentiva le separazioni, e via di seguito. Negli Stati Uniti, a ragion veduta, hanno deciso di non rendere obbligatorio sugli aerei il seggiolino per bebè, anche se potrebbe salvare la vita in caso di incidente: infatti il costo aggiuntivo avrebbe spostato dei viaggiatori dall'aereo all'automobile, mezzo meno sicuro, e al netto i morti sarebbero aumentati invece che &

; XWLOLWj FRVWDQWH

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; X F

;

;

52


diminuiti. Aggiungiamo che ogni punto del piano ; < è un equilibrio possibile, in quanto per quel punto passa una curva d'indifferenza con una data pendenza. Ne consegue che variando a piacere l'intercetta e la pendenza del vincolo, ossia VIUXWWDQGR LQGLSHQGHQWHPHQWH L GXH HIIHWWL GL UHGGLWR H GL VRVWLWX]LRQH VL SRVVRQR SRUWDUH JOL RSHUDWRUL D TXDOVLYRJOLD HTXLOLEULR: la decomposizione degli effetti di prezzo è dunque alla base degli interventi di politica economica. 3.b.5. sostituti e complementi Nel linguaggio comune, e una volta tanto anche nel gergo degli economisti, si distingono EHQL VRVWLWXWL, ossia che VL FRQVXPDQR LQ DOWHUQDWLYD, e EHQL FRPSOHPHQWL, ossia che VL FRQVXPDQR LQVLHPH: sono ad esempio sostituti il treno e l'automobile, sono complementi l'automobile e la benzina. La distinzione è ovvia, ma per riportarla nel nostro modello bisogna procedere con cura, e specificare ciò che varia e ciò che rimane costante. Se rimane costante la struttura dei prezzi, e varia il reddito, le variazioni dei consumi rispecchiano le elasticità al reddito. La distinzione tra sostituti e complementi al variare del reddito si riallaccia dunque a quella tra beni superiori e inferiori: gli uni sono sostituti degli altri, chè come aumenta il consumo dei primi si riduce quello dei secondi, mentre sono invece complementari tra di loro sia gli uni che gli altri, di cui i consumi aumentano insieme, o si riducono insieme; e sono indipendenti, ossia nè sostituti nè complementi degli altri, i beni con elasticità al reddito zero, e consumo dunque invariato. Da questo punto di vista, però, anche treni e automobili saranno complementi, se e perchè con un reddito piÚ alto si viaggia di piÚ con ambedue i mezzi; eppure è ovvio che per ogni viaggio rimangono mezzi alternativi, mentre l'uso dell'automobile implica l'uso congiunto della benzina. Se invece si tiene costante il reddito, e varia la struttura dei prezzi, la distinzione tra sostituti e complementi verte sul segno dell'elasticità incrociata: se cala il prezzo di ; e dunque (escludendo i casi Giffen) aumenta il consumo di ;, il bene < è un sostituto di ; se il consumo di esso cala (elasticità incrociata positiva), un complemento se invece aumenta (elasticità incrociata negativa), e indipendente se non cambia (elasticità incrociata zero). Se si riduce il prezzo del treno, il consumatore farà in treno viaggi che altrimenti avrebbe fatto in automobile, mentre se si riduce il prezzo della benzina farà un uso maggiore dell'automobile, e fin qui tutto bene; ma la riduzione del prezzo del treno ha anche un effetto di reddito, che potrebbe portare a viaggiare di piÚ anche in automobile. Anche in questo caso, dunque, possono essere complementi anche i mezzi che sono di fatto alternativi. Il problema creato dagli effetti di reddito si può ovviamente aggirare definendo sostituti e complementi in base al segno dell'elasticità incrociata al netto dell'effetto di reddito, ossia lungo una curva d'indifferenza. Sorge però un problema diverso, chè se 8 8 ; < e la scelta è dunque tra due soli beni, tale elasticità incrociata non può essere negativa: se il consumatore si sposta lungo la curva di indifferenza fra ; e < perchè è calato il prezzo di ;, comprando piÚ ;, compra per forza meno <, e i due beni sono necessariamente sostituti. Possiamo solo valutare il grado di sostituzione, che si ricollega alla grandezza dell'effetto di sostituzione per un dato mutamento del 706: meno è incurvata la curva d'indifferenza, infatti, maggiore sarà lo spostamento necessario per ottenere un dato mutamento di pendenza. Notiamo i casi limite. Se la curva d'indifferenza è una retta, i beni sono VRVWLWXWL SHUIHWWL, ossia indistinguibili dal punto di vista dell'uso, nelle proporzioni indicate dalla pendenza costante della curva d'indifferenza. Per esempio, se l'affrancatura della posta è per multipli di mille lire, per il consumatore ogni francobollo da mille lire è sempre l'equivalente di due da cinquecento. In tali casi, sono costanti sia il 706 che il 706 , per cui l'equilibrio è indifferentemente lungo l'intero vincolo 706 706 , come appunto per i francobolli, o su R

R

53

Y

Y


uno degli assi (se i francobolli da cinquecento costassero quattrocento lire, il consumatore comprerebbe solo quelli, come nel grafico superiore la Figura 3.b.5.1). Al limite opposto la curva di indifferenza è ad angolo retto: i beni sono utili solo se consumati in una certa proporzione, la sostituzione possibile è nulla, e i beni sono ovviamente VWUHWWDPHQWH FRPSOHPHQWDUL (come nel grafico inferiore della Figura). In questo caso, si noti bene, i beni sono complementi stretti se non sono affatto sostituti, e sostituti perfetti se non sono affatto complementari (ossia non è mai preferito il consumo congiunto al consumo di uno solo); complementarietà e sostituibilità sono due modi di considerare un'unica cosa, come nel caso di un bicchiere che tanto piÚ è pieno tanto meno è vuoto, e scompare il concetto di indipendenza. Per recuperare il quadro piÚ ricco bisogna considerare almeno tre beni: 8 8 ; < = . In questo caso la curva di indifferenza è una superficie tridimensionale, e O HODVWLFLWj LQFURFLDWD D XWLOLWj FRVWDQWH SXz HVVHUH QHJDWLYD ]HUR R SRVLWLYD: se è negativa, i beni sono complementari (se cala il prezzo della benzina, si usa di piÚ l'automobile al netto dell'effetto di reddito); se è positiva, sono sostituti (se cala il prezzo del treno, si usa di meno l'automobile, al netto dell'effetto di reddito); e se è zero, sono indipendenti. In questo caso, dunque, complementarietà e sostituibilità corrispondono di nuovo a due cose diverse, e nel caso dei beni indipendenti sono nulle sia l'una che l'altra: come nel caso di un foglio di carta, che se è bianco non è nè nero nè rosso. Come sopra, però, il rapporto tra un bene e l'insieme degli altri non può essere che di sostituzione: possono dunque essere complementi non tutti i beni ma al massimo tutti meno uno, sostituti dell'ultimo, mentre tutti possono essere sostituti. 3.b.6. la curva prezzo-consumo e l'elasticità della domanda Abbiamo visto al punto 3.b.3 che la pendenza della curva prezzo-consumo, positiva, zero, o negativa, corrisponde a un valore dell'elasticità ("propria") della domanda inferiore, uguale, o superiore a uno; e abbiamo visto al punto 2.c.2 che se la domanda è lineare l'elasticità cala col calare del prezzo. Consideriamo adesso l'intera curva prezzo-consumo, sempre per il bene ; dati 5 e 3 , come nel primo grafico della Figura 3.b.6.1. Variando 3 , il consumatore può sempre acquistare la stessa quantità massima di <, < 5 3 ; il suo vincolo ruota pertanto intorno a quel punto < . Con prezzi positivi per ambedue i beni, la pendenza del vincolo è necessariamente negativa; diventerebbe verticale per un prezzo infinito di ;, e orizzontale per un prezzo nullo di ;. Da ( < , dunque, il consumatore si può spostare solo verso il basso e verso destra; lo stesso punto < è l'equilibrio per un prezzo infinito, o comunque sufficientemente alto, di <. Supponiamo poi che per < passi la curva di indifferenza 8 ; siccome gli equilibri con consumi diversi da ; ; < sono necessariamente preferiti a questa combinazione, sempre possibile, la curva prezzo-consumo è necessariamente al di sopra della curva 8 , tranne che allo stesso punto < . Riassumendo, la curva prezzoconsumo parte da < , e si trova interamente sopra a 8 e sotto a < . Notiamo che il prezzo massimo di ; al quale il consumatore compra la prima unità , 3 , corrisponde (dato 3 ) alla pendenza di 8 al punto < ; e che nelle vicinanze di quel punto, ossia per prezzi vicini a quel massimo, la curva prezzo-consumo ha necessariamente pendenza negativa. Ritroviamo il risultato già notato per le curve di domanda lineari: per prezzi alti e consumi bassi, la domanda è elastica. Ne vediamo adesso il motivo: per consumi bassi l'effetto di reddito è poca cosa, e l'elasticità incrociata (per il complesso degli altri beni) è positiva perchè dominata dall'effetto di sostituzione. Se poi i beni sono abbastanza complementari, sia nel senso che sono ambedue superiori con elasticità al reddito simili (e dunque giocoforza prossime all'unità , nel qual caso <

;

0

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54

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limite le curve reddito-consumo sono rette che partono dal punto di origine degli assi), sia nel senso che le curve d’indifferenza sono abbastanza convesse (per cui anche a prezzi molto bassi di ; il consumatore non consuma solo ;), allora abbassandosi a sufficienza il prezzo di ; e aumentando dunque a sufficienza il consumo di ; e l’effetto di reddito positivo sul consumo di <, quest'ultimo effetto domina l'elasticitĂ incrociata: in tal caso, come nella Figura 3.b.6.1, OD FXUYD SUH]]R FRQVXPD VL DSSLDWWLVFH H SRL ULVDOH. Per prezzi calanti di ; l'elasticitĂ della domanda di ; è dunque inizialmente alta, poi unitaria (per 3 3 , nel grafico), e poi inferiore a uno, appunto come la GRPDQGD OLQHDUH. Quest'ultima è dunque una rappresentazione semplificata di una domanda dominata inizialmente dall'effetto di sostituzione, come è inevitabile, ma poi dagli effetti di reddito. L'unica stranezza della domanda interamente lineare è la limitazione del consumo anche a prezzo zero, che è palesemente in violazione dell'ipotesi della non sazietĂ ; a essere precisi la stranezza è nell'asimmetria che esige che le curve di indifferenza diventino parallele all'asse ; (da cui il consumo limitato anche a prezzo zero) ma non all'asse < (da cui il prezzo di domanda limitato anche a consumo zero). Di fatto, dunque, per preferenze "normali" simmetriche e convesse, la domanda lineare è una buona approssimazione della curva di prezzo-consumo a forma di "U", tranne che per prezzi o consumi quasi nulli. Il secondo grafico della Figura rappresenta appunto la domanda lineare per ;, con prezzo di domanda massimo 3 , e elasticitĂ unitaria a 3 3 : calando il prezzo da 3 la spesa 3 ; aumenta, è massima per 3 , e poi ricala. La spesa residua è destinata al consumo di <, per cui in ogni equilibrio < 5 3 ; 3 ; fermo restando il denominatore, calando 3 il numeratore dapprima cala e poi risale, con un minimo a 3 3 ; a quel prezzo di ; il consumo di < è dunque al minimo dato 5 e 3 . Nel primo grafico, tale consumo minimo è indicato da < . Il terzo grafico rappresenta invece la domanda per <, che si sposta, dato 5, come cambia 3 . La domanda ' , la piĂš a destra, corrisponde a un prezzo di ; pari o superiore a 3 ; dato 3 , < < 5 3 . Calando 3 , ' si sposta verso sinistra, fino a ' per 3 3 , nel qual caso < < ; calando ancora 3 , ' si risposta verso destra. Se invece come nella Figura 3.b.6.2 l'elasticitĂ incrociata rimane sempre dominata dall'effetto di sostituzione, o perchè i beni sono abbastanza sostitutivi, o perchè l'effetto di reddito è forte per ; e debole per <, allora la curva prezzo-consumo non risale mai. La domanda di ; è dunque sempre elastica, almeno finchè l'operatore consuma anche <; se (come appunto nella Figura) a prezzi di ; abbastanza bassi consuma solo ;, la curva prezzoconsumo coincide allora con quell'asse, e con ;3 5 l'elasticitĂ della domanda di ; è per forza pari a uno. Riassumendo, dunque, O HODVWLFLWj GHOOD GRPDQGD FUHVFH FRQ OH SRVVLELOLWj GL VRVWLWX]LRQH H JOL HIIHWWL GL UHGGLWR SURSUL. I beni a domanda anelastica sono dunque non solo senza sostituti, ma anche sazianti: il mio consumo di sale varia poco, sia con il suo prezzo, sia con il mio reddito. Come la rendita, poi cosĂŹ pure l'elasticitĂ della domanda varia con il livello di aggregazione considerato: è tipicamente elastica la domanda per ogni marca di sigarette, forti sostituti tra di loro, ma anelastica la domanda per le sigarette (e ancor piĂš per i tabacchi) nel loro complesso. A scanso di equivoci ricordiamo che la linearitĂ della domanda è un'ipotesi utile perchè facilita i calcoli, cosĂŹ come può esserlo la linearitĂ nei logaritmi, che corrisponde ad un'elasticitĂ costante: infatti se la domanda è data da ORJ4 D E ORJ3 allora E G ORJ4 G ORJ3 G4 4 G3 3 . La linearitĂ (nelle variabili o nei logaritmi) è tipicamente accettabile come DSSURVVLPD]LRQH ORFDOH, ossia per calcoli su variazioni piccole; per calcoli non locali, come quelli riferiti alle rendite complessive dei compratori o dei venditori, la linearità è tutt'altro che scontata, e l'elasticitĂ può variare in modo anche discontinuo, proprio ;

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perchè possono comparire o scomparire sostituti a prezzi diversi. Consideriamo ad esempio la domanda di trasporti merci su strada (' ), ipotizzando che la domanda di trasporti (' ) sia fortemente anelastica, ma che il trasporto su rotaia sia un sostituto perfetto disponibile al prezzo 3 . A prezzi bassi, inferiori a 3 , ' coincide con ' , ed è dunque anelastica; ma ' diventa piatta, con elasticità infinita, al prezzo 3 (Figura 3.b.6.3, grafico superiore). Tornando poi alla domanda per visoni (' ), possiamo ipotizzare che sia anelastica a prezzi abbastanza alti per farne uno "status-symbol", mentre a prezzi bassi troverebbe un sostituto perfetto nella pelliccia di coniglio disponibile a prezzo 3 (Figura 3.b.6.3, grafico inferiore). In ambedue i casi la domanda per il bene in esame è elastica quando quel bene è uno di un insieme di beni funzionalemente simili (trasporti, pellicce senza status), e anelastica quando quel bene coincide con il complesso del caso (unico mezzo di trasporto usato, unica pelliccia con status). V

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3.b.7. l'operatore con disponibilità di beni Nel considerare l'effetto del cambiamento del prezzo di ; abbiamo immaginato finora che l'operatore fosse dotato di un reddito monetario 5, e che il prezzo di < rimanesse immutato; di conseguenza, variando 3 la retta dei prezzi ruota intorno al punto fisso dato da 5 3 , che corrisponde alla quantità di < che l'operatore può consumare a qualsiasi prezzo di ;. Nulla cambia, nei grafici, se invece di definire tale punto fisso specificando 5 e 3 lo definiamo specificando direttamente una disponibilità iniziale di ; e <, con ; e < 5 3 ; e nulla cambia se immaginiamo un'economia monetizzata, in cui l'operatore converte la sua intera dotazione in una somma di danaro 5 3 < con la quale può sempre ricomprare la dotazione iniziale, o un'HFRQRPLD GL EDUDWWR, in cui il prezzo relativo dei due beni è dato non dal rapporto dei due prezzi in moneta ma direttamente dalla UDJLRQH GL VFDPELR. Per qualsiasi prezzo relativo, infatti, l'operatore sceglie le quantità di ; e di < che vuole consumare esattamente come prima. La differenza è solo nel racconto: invece di dire che l'operatore decide quanto comprare dei due beni spendendo danaro dato, diciamo che converte i suoi beni dati in danaro per poi decidere quanto comprare dei due beni spendendo quel danaro, oppure che decide quanto < scambiare con ; al tasso definito dal loro prezzo relativo. Partendo dal punto < , infatti, compra comunque ; vendendo, al netto, < < ; la curva prezzo-consumo rappresenta nel contempo la domanda per ; e l'offerta di <, che sono appunto come si diceva due modi di vedere un'unica cosa. Questo caso si può ovviamente generalizzare immaginando un punto fisso che corrisponda ad una dotazione iniziale con quantità positive di ambedue i beni, ; ! < ! , come nella Figura 3.b.7.1. Nel grafico superiore sono indicate solo tali dotazioni, e la curva di indifferenza corrispondente, 8 . Il vincolo dell'operatore è dato ovviamente dalla retta dei prezzi che passa per ; < , equivalente, in in un'economia monetizzata, alla somma di danaro 5 3 ; 3 < . Nel grafico inferiore sono indicati tre vincoli possibili, numerati : le pendenze sono date dal prezzo relativo dei due beni, la posizione, lo ripetiamo, dal punto fisso che corrisponde alla dotazione iniziale. Il vincolo è tangente a 8 nel punto ; < : l'equilibrio corrisponde alla stessa dotazione iniziale, e il mercato non offre all'operatore nulla di utile, proprio perchè il 706 non è diverso dal 706 . Con il vincolo , invece, ; vale relativamente poco, e < relativamente tanto; l'operatore si avvantaggia spostandosi lungo il vincolo fino a ; < , vendendo dunque < < e comprando ; ; . Questo equilibrio si trova ovviamente sulla curva prezzo-consumo che nasce in ; < e si trova nello spazio a sud-est di tale punto e sopra a 8 . ;

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Ma la curva prezzo-consumo non è tutta qui. Con il vincolo , infatti, ; vale relativamente tanto, e < relativamente poco; l'operatore si avvantaggia spostandosi lungo il vincolo fino a ; < , vendendo dunque ; ; e comprando < < . Questo equilibrio si trova ovviamente sulla curva prezzo-consumo che nasce in ; < e si trova nello spazio a nord-ovest di tale punto e sopra a 8 . Ricordiamo il contadino che si presenta sul mercato con il suo raccolto (2.f.2): in questo caso il contadino possiede, poniamo, grano e vino, per ipotesi gli unici beni di consumo: compare a seconda dei prezzi relativi come venditore di grano e compratore di vino, o viceversa. Va segnalato a questo punto un problema semantico. In inglese, "domanda" e "offerta" riferite alle curve nello spazio prezzo-quantità si chiamano "demand" e "supply". La curva prezzo-consumo nello spazio dei beni si chiama "price-consumption line", ma anche, nel contesto del baratto con disponibilità iniziali di beni, "offer curve": che si traduce pure con "curva di offerta", creando però in italiano una confusione fra "offer curve" e "supply curve", confusione che si risolve appunto controllando le variabili sugli assi.

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3.b.8. il baratto, l'elasticità della domanda e l'elasticità dell'offerta Abbiamo visto, al punto 3.b.6., che preferenze "normali" simmetriche e convesse danno luogo a curve prezzo-consumo a "U" approssimabili (tranne che proprio accanto agli assi) con curve di domanda lineari. Se le curve di domanda lineari o quasi sono in questo senso "normali", e in un'economia di baratto la curva prezzo-consumo è una curva insieme di domanda e di offerta, si potrebbe pensare che sono simmetricamente "normali" le curve di offerta anch'esse lineari; ma non è cosÏ. Nella Figura 3.b.8.1 rappresentiamo un operatore dotato di ; < ! , con preferenze "normali" su ; e <, curva prezzo-consumo a "U" (grafico superiore), e domanda lineare per ; (grafico centrale), come nella Figura 3.b.6.1; è diverso il grafico inferiore, che rappresenta non piÚ la domanda per < del consumatore dotato di reddito, ma l'offerta ("supply") di <, 6 . Nel caso del consumatore dotato di reddito, il prezzo 3 che compare sull'asse verticale del grafico centrale ha dimensione " (ceduti) per unità di ; (ricevuta)", e il rettangolo di spesa 3 ; (che calando il prezzo aumenta e poi ricala) ha dimensione . Nel contesto del baratto, il prezzo 3 è direttamente un prezzo relativo (la ragione di scambio), con dimensione "unità di < (cedute) per unità di ; (ricevuta)", per cui il rettangolo di spesa 3 ; ha dimensione "unità di <", e corrisponde appunto alla quantità complessiva di < venduta, ossia all'offerta di < a quel prezzo relativo (parametrico); e cosÏ pure il ricavo per la vendita di <, ossia 3 <, ha dimensione "unità di ; (ricevute) per unità di < (cedute), per unità di < (cedute)", ossia "unità di ;". Ne consegue che LQ XQ FRQWHVWR GL EDUDWWR DOOD VSHVD SHU OD TXDQWLWj DFTXLVWDWD FRUULVSRQGH OD TXDQWLWj YHQGXWD DO ULFDYR SHU OD TXDQWLWj YHQGXWD FRUULVSRQGH OD TXDQWLWj DFTXLVWDWD Già dal grafico centrale, dunque, sappiamo che calando il prezzo relativo di ;, ossia aumentando il prezzo relativo di < che è l'inverso di quello, data la domanda lineare per ; la spesa per ;, ossia la quantità venduta di <, aumenta e poi ricala: come nel grafico inferiore, dove i tre prezzi indicati sono gli stessi (invertiti) del grafico centrale. In questi grafici la spesa massima per ;, ossia la vendita massima di <, si ottiene per 3 3 ; con prezzi piÚ alti o piÚ bassi di ; si spende di meno, ossia con prezzi piÚ bassi o piÚ alti di < se ne vende di meno. Le stesse informazioni si trovano nel grafico superiore, dove le vendite di < si misurano da < . Il consumo minimo < , e dunque la vendita massima < < , si ottiene con la retta dei prezzi 3 ; l'operatore vende meno < non solo a prezzi di < piÚ bassi (la retta 3 ) ma anche a prezzi di < piÚ alti (la retta 3 ). Come la curva prezzo-consumo cambia R

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direzione, da sud-est a nord-est, l'elasticità della domanda di ; passa da maggiore di uno a minore di uno, e l'elasticità dell'offerta di < passa da maggiore a minore di zero. Ne consegue che LQ XQ FRQWHVWR GL EDUDWWR IUD GXH EHQL QRUPDOL, superiori e poco sostituti, OH FXUYH GL GRPDQGD VRQR DSSURVVLPDWLYDPHQWH OLQHDUL H OH FXUYH GL RIIHUWD FRUULVSRQGHQWL D SHQGHQ]D LQL]LDOPHQWH SRVLWLYD PD SRL QHJDWLYD. Notiamo pure che se la curva di domanda è lineare fino all'asse, e a quell'intercetta come sappiamo perfettamente elastica, la curva di offerta pure avrà un'intercetta con elasticità infinita, come nel grafico inferiore per 3 3 ; l'elasticità dell'offerta sarà a sua volta unitaria a un prezzo ovviamento intermedio tra quel prezzo, al quale iniziano le vendite, e quello piÚ alto al quale la quantità venduta à massima e l'elasticità dell'offerta pari dunque a zero. Nel grafico, l'elasticità unitaria dell'offerta si verifica per 3 3 . Tutto ciò non è irrilevante, anche perchè il commercio nasce sempre come semplice baratto. Nel caso particolare del commercio tra Europa e Africa precoloniale, per esempio, si nota un tendenza all'aumento continuo del prezzo pagato per gli schiavi (misurato nei beni contro i quali venivano scambiati), mentre da ogni singola zona costiera le esportazioni di schiavi prima esplodevano e poi calavano. Gli storici anche economici, pensando che le curve di offerta "normali" sono sempre a pendenza positiva, ci vedono la prova che la tratta spopolava l'Africa; l'economista avveduto capisce che le correlazioni osservate si conciliano pure con l'ipotesi molto meno drammatica che per gli Africani i beni importati e gli schiavi erano ambedue superiori, e poco sostituti. <

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3.b.9. gli indici dei prezzi e il reddito reale L'inflazione è un aumento del livello generale dei prezzi, e dunque un concetto prettamente macroeconomico; la consideriamo in questo contesto solo per gli aspetti che chiarisce appunto la teoria microeconomica del consumatore. L'inflazione si misura normalmente in termini percentuali, da un periodo (un anno) all'altro. Abbiamo visto che se aumentano i prezzi a parità di reddito nominale (5) si riduce il potere di acquisto, ossia il reddito reale, e dunque il benessere (8). Sarebbe intuitivo definire l'inflazione in funzione dell'obiettivo, identificandola dunque con l'aumento percentuale del reddito nominale necessario per mantenere 8 in presenza dell'aumento dei prezzi; il problema però è che il benessere non è direttamente osservabile. Di fatto, dunque, l'inflazione si misura con un LQGLFH GHL SUH]]L, ossia dal UDSSRUWR GL VRPPH SRQGHUDWH GHL SUH]]L FRQ SHVL FRVWDQWL. I pesi usati per ponderare i prezzi sono normalmente le quantità corrispondenti; e in un paragone molto semplice con due soli periodi possiamo usare le quantità del primo, o le quantità del secondo. Dati i prezzi 3 nei due periodi e , i due indici possibili sono , 6200$ 3 4 6200$ 3 4 e , 6200$ 3 4 6200$ 3 4 , dove L identifica i beni e le quantità 4 sono appunto i pesi. Immaginiamo che tra i due periodi ci sia inflazione. Se non cambiano i prezzi relativi qualsiasi prezzo, e dunque qualsiasi ponderazione, ne dà la stessa misura, che è poi come già sappiamo esattamente l'aumento di 5 necessario per riportare il consumatore all'equilibrio precedente. Le cose diventano invece interessanti se i prezzi relativi cambiano; ipotizziamo dunque che sia aumentato solo il prezzo di ;. La Figura 3.b.9.1 illustra cosa succede se il consumatore è stato compensato con , , ossia portando il suo reddito da 5 a , 5. Nell'anno il consumatore si trovava con il vincolo 9 , e dunque l'equilibrio in $, con consumo ; < e benessere 8 . Dato l'aumento di 3 , con reddito immutato il vincolo passerebbe da 9 a 9 , e l'equilibrio passerebbe dal punto $ al punto %, con una perdita di benessere. Siccome 5 3 ; 3 < , la compensazione con , 3 ; 3 < 3 ; 3 < gli permette di ricomprare nell'anno i beni comprati nell'anno : , 5 3 ; 3 < . Il vincolo 9 , con il reddito compensato, è pertanto

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parallelo a 9 ma passa per ; < , come 9 . Di fatto, dunque, la compensazione con , trasforma il nostro consumatore da uno con disponibilità di reddito in uno con disponibilità di beni ; < , come il contadino al punto precedente; e siccome i prezzi relativi sono diversi da quelli che facevano di quella combinazione un consumo di equilibrio il nostro consumatore ne trae vantaggio. Nel grafico si sposta lungo 9 fino a &, e si ritrova con 8 ! 8 . Se con la compensazione vogliamo solo ripristinare 8 , la compensazione con , è eccessiva: tale indice sovrastima l'aumento di reddito necessario per evitare una perdita di benessere. Se definiamo l'inflazione dall'aumento necessario del reddito, in termini percentuali, l'indice la sovrastima; se definiamo l'inflazione dall'aumento dell'indice, la compensazione necessaria è minore dell'inflazione. La Figura 3.b.9.2 illustra cosa succede se il consumatore è stato compensato invece con , , ossia portando il suo reddito da 5 a , 5. Le lettere $, %, e & hanno lo stesso significato che nella Figura precedente; ma in questo caso conviene ragionare a ritroso. Con il reddito compensato, e i prezzi dell'anno , dunque, si trova in &, tangenza di 8 e 9 , e consuma ; < ; , 5 3 ; 3 < , cosÏ come 5 3 ; 3 < . Siccome però , 3 ; 3 < 3 ; 3 < , ovviamente 5 , 5 , 3 ; 3 < 3 ; 3 < : la compensazione con , è tale che l'anno precedente, con il reddito e i prezzi di allora, avrebbe potuto comprare sia ; < che ; < , ossia scegliere tra $ e &. Il vincolo originale, 9 , passa dunque per $ e per &; e con quel vincolo aveva preferito $, per cui 8 8 . Se con la compensazione vogliamo ripristinare 8 , la compensazione con , è inadeguata: tale indice sottostima l'aumento di reddito necessario per evitare una perdita di benessere. Se definiamo l'inflazione dall'aumento necessario del reddito, in termini percentuali, l'indice la sottostima; se definiamo l'inflazione dall'aumento dell'indice, la compensazione necessaria è maggiore dell'inflazione. Segnaliamo a questo punto un'altra ambiguità semantica. Si capisce da quanto sopra che ripristinare il SRWHUH GL DFTXLVWR, il UHGGLWR UHDOH, e il EHQHVVHUH sono la stessa cosa con prezzi relativi invariati; non è cosÏ, però, se cambiano i prezzi relativi. L'unico uso consolidato è quello di identificare il benessere con la curva di indifferenza; per potere di acquisto si intende normalmente la possibilità di comprare un paniere particolare (che è poi il significato degli indici), ma a volte si intende invece la possibilità di raggiungere un certo benessere; e per reddito reale si intende o l'una cosa o l'altra, a seconda del contesto (in genere il paniere in un contesto statistico-applicato, come nell'analisi macroeconomica, piÚ spesso il benessere in un'analisi teorica, microeconomica). Come per l'inflazione, o le stesse curve di domanda e offerta, sta sempre al lettore chiedersi cosa esattamente ha in mente l'autore, sperando che non abbia le idee confuse. %

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3.b.10. le tasse compensate e l'effetto di sostituzione Abbiamo detto che l'effetto di sostituzione è meno ovvio, e meno noto, dell'effetto di reddito. Immaginiamo che di fronte ad una crisi del petrolio il governo aumenti il prezzo della benzina, con un aggravio per le famiglie (calcolati sui consumi dati) di molti miliardi, che il governo restituisce ad esse riducendo le aliquote dell'imposta sul reddito. Molti considererebbero tale operazione assolutamente inutile, senza conseguenze nè per il consumo di benzina nè tanto meno per il benessere delle famiglie, visto che quel che lo stato toglie con una mano lo restituisce con l'altra; ma questo ragionamento non tiene conto appunto dell'effetto di sostituzione. L'operazione è infatti l'equivalente di una compensazione con , , illustrata al punto precedente con la Figura 3.b.9.1: l'aumento del prezzo riduce il reddito reale, ma lo sgravio fiscale che restituisce alle famiglie la maggior spesa con consumi dati permette loro di mantenere esattamente i consumi precedenti. Nella Figura, la benzina sarebbe il bene ;, tutti

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gli altri beni il bene <. Se il vincolo iniziale era 9 , con equilibrio in $, e l’aumento del prezzo della benzina sposta il vincolo in 9 , lo sgravio fiscale risposta il vincolo per farlo passare di nuovo per $; ma il vincolo non ritorna a 9 . Diventa 9 , e il nuovo equilibrio sarĂ non $ ma &, con un minor consumo di benzina e un maggior benessere, grazie appunto alla sostituzione. Per capirne la logica, immagini il lettore di disporre di 50 milioni l'anno, di cui ne spende uno per andare una settimana a sciare. Lo stato interviene, per ipotesi, portando il costo della settimana bianca a un miliardo e un milione, e regala al lettore un miliardo l'anno, che gli permette di pagarsi esattamente i consumi precedenti, compresa la settimana a sciare, ma che può spendere come vuole. Che farebbe il lettore? Manterrebbe immutati i suoi consumi reali, o ridurrebbe il consumo dello sci per aumentare clamorosamente tutti gli altri consumi? $

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3.b.11. l'operatore con disponibilità di tempo e l'offerta di lavoro Prendiamo ora in considerazione l'equilibrio dell'operatore che è vincolato non da un reddito fisso (come se fosse pensionato), ma da una disponibilità di tempo e una capacità di guadagno. Il giorno comprende 24 ore; il mercato presenta all'individuo concorrenziale non solo i prezzi dei beni, ma anche il suo salario orario, e sta all'individuo scegliere quanto lavorare. Il modo piÚ diretto di ricondurre il tutto a quanto già descritto è di includere il tempo libero nella funzione di utilità come qualsiasi altro bene, e di identificare il suo prezzo unitario con il salario orario al quale l'operatore rinuncia se non lavora. Il vincolo di reddito diventa allora il guadagno massimo teoricamente possibile, ossia, al giorno, 24 volte il salario orario; e l'operatore alloca questo "reddito" tra i beni, compreso il tempo libero. Assumendo 8 ; < 7 , dove ; e < sono beni "veri" e 7 è il tempo libero, e dati i prezzi di ognuno di questi, il vincolo diventa 5 3 3 ; 3 < 3 7, equivalente ovviamente, risolvendolo per i flussi effettivi, 3 7 3 ; 3 <. Considerando 7 come un bene qualsiasi è ovvio che nell'equilibrio il beneficio marginale di un dollaro speso di 7 deve essere uguale a quello di un dollaro speso per ; o per <. Se l'individuo lavora troppo poco, significa che al margine il dollaro speso per ; e per < rende tanto, quello speso per 7 rende poco: ovvero, se sacrifica un'ora di tempo libero il costo marginale di quei dollari aggiuntivi è minore del beneficio che ottiene spendendoli. Da questo punto di vista, dunque, nulla di nuovo; ma vale comunque la pena di approfondire il problema per capire meglio l'offerta di lavoro. Semplificando il problema dell'equilibrio complessivo del singolo l'offerta di lavoro può essere analizzata come una scelta tra due soli beni superiori (come sopra, al punto 3.b.8): nel caso, il tempo libero 7, e un bene complesso 4 che rappresenta gli altri consumi, come nella Figura 3.b.11.1. Nell'analisi piÚ banale si attribuisce all'individuo una dotazione di 24 ore al giorno e niente beni, per cui la curva prezzo-consumo inizia appunto al punto . Aumentando il salario reale 4 7 , ossia il tasso di sostituzione tra tempo e beni nel vincolo, l'individuo si sposta prima verso nord-ovest, poi verso nord-est: è cioè dominante all'inizio l'effetto di sostituzione, e poi l'effetto di reddito, che porta l'individuo ben pagato a consumare piÚ tempo libero oltre che piÚ (altri) beni. Il tempo lavorato è semplicemente 7 : si misura sull'asse adi 7 verso sinistra, partendo da . La curva di offerta di lavoro ha dunque una forma speculare a quella della curva prezzo-consumo: con salari bassi un aumento dei salari porta a lavorare di piÚ, e con salari alti a lavorare di meno--come certi dentisti americani che lavorano solo tre giorni a settimana, e si godono il fine-settimana da giovedÏ a martedÏ. La cosa strana di questa analisi è che per salari abbastanza bassi l'individuo sceglie di 7

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non lavorare per niente, e campa di solo tempo libero: l'ipotesi implicita che ciò sia possibile significa dunque che tale individuo può nutrirsi nel suo tempo libero, o coltivando la propria terra, o andando a caccia e raccolta. L'analisi non coglie dunque il proletario di Marx, che per sopravvivere deve lavorare, nel senso preciso di vendere il suo tempo sul mercato. Passiamo dunque alla Figura 3.b.11.2, nella quale la collina dell'utilità si alza sopra il livello zero solo se 4 ! 4 : 4 rappresenta dunque il consumo minimo di beni materiali per continuare a vivere. Per simmetria, poniamo pure che ci sia un tempo minimo di riposo, 7 ; l'origine della collina è dunque 7 4 . Nella Figura compaiono tre curve prezzo-consumo, definite per tre diversi punti di origine; quella intermedia, che parte da 4 , corrisponde alla Figura precedente, è ovviamente riferita all'individuo che ha un reddito indipendente, non da lavoro, equivalente a 4 , che gli permette appunto di sopravvivere (e basta) anche se non lavora. La curva prezzo-consumo piÚ a destra, che parte da 4 ! 4 , è riferita ad un individuo ancora piÚ ricco, che pertanto offre meno lavoro; come nel caso precedente, però, la curva prezzo-consumo è a forma di "C", per cui la curva dell'offerta di lavoro conserva la forma a "C" rovesciata. Il caso del proletario è ben diverso: se non lavora ha 24 ore al giorno di tempo libero, ma non consuma (altri) beni, per cui il suo vincolo ha come punto fisso l'origine . La sua curva prezzo-consumo non inizia però in quel punto, bensÏ al punto 7 4 , ossia ai limiti della sussistenza: con un salario minore di 4 7 , infatti, muore, perchè o non mangia o non dorme. Come il salario si alza oltre quel minimo, la curva prezzo-consumo ha nella Figura una pendenza iniziale positiva, a differenza di quelle dei borghesi; ha una pendenza positiva anche per salari molto alti, come quelle dei borghesi, quando il reddito indipendente diventa relativamente ininfluente; e nella fascia intermedia può avere una pendenza sempre positiva, o, se a forma di "S", anche un tratto a pendenza negativa. Riassumendo, si nota che D TXDOVLDVL VDODULR L SRYHUL ODYRUHUDQQR SL GHL ULFFKL, e che OD SHQGHQ]D GHOOD FXUYD GL RIIHUWD GL ODYRUR WHQGH DG HVVHUH QHJDWLYD D VDODUL DOWL SHU WXWWL D VDODUL EDVVL DQFKH SHU L SRYHUL Storicamente, infatti, i periodi di salari reali alti tendono a coincidere con orari di lavoro limitati, mentre a salari reali bassissimi si associano orari di lavoro massacranti. Questa analisi spiega la logica delle politiche coloniali inglesi, mirate ad aumentare l'offerta di lavoro: in Africa imposero una tassa sulle persone per impoverirle, nelle colonie "bianche" vietarono la libera occupazione della terra (col risultato peraltro di dirottare gli emigranti verso gli Stati Uniti). P

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3.b.12. la cultura, la tecnologia, l'offerta di lavoro La Figura 3.b.12.1 riprende la Figura 3.b.11.2, illustrando preferenze diverse. Nel grafico superiore, le curve d'indifferenza sono ripide, e (al limite) traslazioni orizzontali l'una dell'altra; le curve reddito-consumo sono dunque (al limite) piatte. Tali individui si saziano rapidamente di beni, e (al limite) il tempo libero è l'unico bene superiore. Con tali preferenze chi può campare senza lavorare offrirà solo poco lavoro, e a salari alti; lavoreranno molto solo i poveri, e per loro l'offerta di lavoro sarà non solo a pendenza negativa ma, per salari bassi, addirittura iperbolica. Siccome e fintanto che la pendenza della curva d'indifferenza per 4 4 è maggiore di quella del vincolo (il salario), infatti, l'equilibrio rimane a quel livello di 4: io voglio guadagnare $10 al giorno, e se il salario raddoppia il mio impegno si dimezza. Nel grafico inferiore troviamo il caso speculare. Le curve d'indifferenza sono piatte, e (al limite) traslazioni verticali l'una dell'altra; le curve reddito-consumo sono dunque (al limite) verticali. Tali individui si saziano rapidamente di tempo libero, e (al limite) il consumo materiale 4 è l'unico superiore. P

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Con tali preferenze, siccome e fintanto che la pendenza della curva d’indifferenza per 7 7 è minore di quella del vincolo (il salario), l'equilibrio mantiene quel livello di 7. I poveri lavoreranno allora sempre a tutto spiano, e i ricchi pure, per un salario che supera un certo minimo. Nel caso illustrato, anzi, il G4 che compensa G7 7 è minore di 4 , e i ricchi potranno permettersi di lavorare per un salario minore di quello di sussistenza! Se vogliamo divertirci possiamo provare a ricollegare questi due grafici a differenze culturali. Uno spunto ci è dato dai cimiteri, che ricreano l'ideale di vita: quelli italiani sono piccole cittĂ murate, con tutti gomito a gomito anche se con palazzi per i ricchi e miniappartamenti per i poveri; quelli germanici (e anglo-sassoni) sono distese in cui ognuno sta in campagna, lontano dai suoi simili. Ipotizziamo pure che il tempo libero sia l'occasione della socializzazione, palesemente (non sia mai detto a ragion veduta) un bene superiore per noi e non per loro: ecco che noi siamo pigri, e loro lavoratori. Un altro spunto ci è dato dalla religione. Il Dio Padre dei cattolici è buono e perdonatore, quello dei protestanti giusto e vendicatore. Ipotizziamo pure che il tempo libero sia quello del godimento e del peccato: riecco che noi siamo pigri, e loro lavoratori. Anzi, nessuno lavorerĂ di piĂš, a prescindere dalla propria ricchezza, dei calvinisti protestanti allo spasimo, con curve di indifferenza addirittura in salita; e siccome non avranno nemmeno il tempo di spendere i loro guadagni accumuleranno. CosĂŹ M. Weber ('LH SURWHVWDQWLVFKH (WKLN XQG GHU *HLVW GHV .DSLWDOLVPXV, 1904) collegò la nascita del capitalismo alla Riforma nel Europa del nord, scordandosi peraltro l'Italia medievale. Gli inglesi in Africa, che si lamentavano della pigrizia degli indigeni, ritenevano sicuramente di avere di fronte persone rappresentate dal grafico superiore; e si capisce l'efficacia delle tasse come sostituto, direbbe un marxista, dell'espropriazione dei contadini che creò il proletariato nella stessa Inghilterra. Gli spagnoli in America ebbero peraltro giĂ secoli prima lo stesso problema, cui trovarono la soluzione brutalmente semplice dei lavori forzati; s'impietosĂŹ degli Indios il buon BartolomĂŠ de las Casas, che per salvarli propose di sostituirli, nelle miniere e nei campi, con schiavi africani. Di fronte allo stesso problema, sempre in America Latina, delle imprese statunitensi hanno recentemente distribuito cataloghi di grandi negozi: strategia impostata ovviamente sullo spostamento delle preferenze del nostro grafico, per trasformare "pigri" in "lavoratori". Con questo spunto l'economista si chiede se non si può riportare le differenze osservate dalle preferenze ai vincoli: cosa ovviamente possibile, in quanto le "preferenze" dei nostri grafici sono una riduzione a due dimensioni di una funzione di fatto a moltissime dimensioni. Un modo di impostare l'analisi è quello di riconsiderare 4, che come tutte le variabili aggregate può nascondere una serie di problemi. In particolare, possiamo ipotizzare una funzione di utilitĂ 8 8 ) 0 7 , in cui 7 è sempre il tempo libero, e al posto del generico 4 abbiamo due beni distinti, il cibo ) ("food") e i manufatti 0. Ipotizziamo pure che il cibo sazi, e i manufatti no, o perlomeno non nei paesi tecnologicamente avanzati, in cui la gamma di manufatti comprende non solo i prodotti tradizionali ma sempre piĂš prodotti un tempo inconcepibili: a pancia piena, insomma, non lavoro di piĂš per guadagnarmi un'altra banana, ma lavoro volentieri di piĂš per guadagnarmi la televisione, la lavatrice, e via di seguito. Gli indigeni dei paesi arretrati sono allora pigri non perchè sono diversi, ma perchè vivono in paesi arretrati. Questo schema spiegherebbe non solo appunto la tradizionale "pigrizia" dei popoli primitivi, e la logica della distribuzione di cataloghi per stuzzicare la voglia di beni prima ignoti, ma forse anche quel che sembra lo spostamento nel tempo della curva di offerta di lavoro. OggidĂŹ, infatti, si lavora anche per acquisire redditi reali superiori a quelli che una volta corrispondevano alla ricchezza e giustificavano l'ozio; una ragione potrebbe essere appunto che i beni di oggi sono obiettivamente piĂš appetibili di quelli di una volta. Non è P

P

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l'unica spiegazione possibile: un'altra è la competizione sociale, che è uno stimolo a vincere a prescindere dalla posta--discorso che peraltro porta molto lontano, e sul quale torneremo. Ritorniamo infine, prima di passare ad altri temi, al problema dei regimi maoisti e castristi. In quei paesi molto poveri, una produzione adeguata per eliminare la miseria richiede un notevole impegno lavorativo; ma la politica garantista e ugualitaria disincentiva il lavoro da parte di individui egoisti. Dei nostri grafici, infatti, quello adatto è quello superiore: i beni, ridotti al riso e alla divisa blu, saziano rapidamente; il reddito garantito porta anche il nullafacente a 4 ! 4 , per cui l'offerta di lavoro del cittadino medio sarebbe quella piÚ a destra; ma essendo poi i suoi consumi praticamente indipendenti dai suoi sforzi il salario reale è praticamente zero. Gli individui egoisti, non piÚ obbligati a lavorare dallo spettro della fame, devono essere dunque obbligati a lavorare per costrizione diretta: se il comunismo sovietico che usava il salario per incentivare il lavoro era di fatto per un marxista serio un volgare capitalismo, sia pure di stato, il comunismo cinese che si voleva piÚ avanzato era di fatto un ritorno al primitivo sistema schiavista, sia pure di stato. L'unico modo di uscire da questa trappola era la rieducazione, che avrebbe portato come si è detto al lavoro per amore del prossimo: e questa si può vedere sia come la creazione dell'uomo nuovo del NLEEXW], nobile e idealista, sia come il lavaggio dei cervelli orwelliano, che interiorizza la compulsione senza renderla perciò meno opprimente e odiosa. P

3.b.13. l'operatore e il mercato intertemporale Abbiamo finora considerato l'equilibrio dell'operatore che ottimizza l'allocazione della spesa tra due beni; almeno implicitamente, il problema era tutto contenuto in un unico periodo di tempo. Nulla cambia, nell'analisi formale, se si passa ad un'analisi su piÚ periodi: basta infatti considerare gli stessi beni in periodi diversi come beni diversi, e l'operatore ottimizza la spesa intertemporale esattamente come quella intratemporale, ossia equiparando come sempre i tassi marginali di sostituzione nell'obiettivo e nel vincolo. Il mercato intertemporale rimane però interessante per vari motivi particolari. Uno è l'aspetto politico: è infatti nel contesto intertemporale che si ritrovano il capitale e l'interesse, e che l'economia borghese affronta dunque il problema di giustificare il reddito di chi non lavora. Fra gli aspetti piÚ puramente economici spiccano invece il problema della valutazione degli effetti dilazionati o scaglionati nel tempo, e il problema della trasformazione della sequenza delle disponibilità nella sequenza preferita ("ottimale") dei consumi. Incominciamo da questo secondo problema. Si considerano dati sia la sequenza (in gergo, il "sentiero intertemporale", dall'inglese "time path") delle disponibilità , sia il vincolo, tecnico o di mercato, di trasformazione intertemporale dei beni. Si presume inoltre che i consumi dei diversi periodi siano fortemente complementari, per cui si mira in sostanza a spianare i consumi nel tempo. Riprendendo l'esempio di Friedman (che ci costruirà sopra una teoria macroeconomica del consumo e del risparmio), immaginiamo che io venga pagato ogni venerdÏ. Preferisco di gran lunga tre pasti al giorno, piuttosto che ventuno pasti tutti di venerdÏ; trasformo dunque il sentiero delle disponibilità (poniamo $700 di venerdÏ, e $0 gli altri giorni) nel sentiero preferito dei consumi ($100 ogni giorno), ovviamente con un fortissimo risparmio positivo ogni venerdÏ ($600), e un notevole risparmio negativo (- $100) gli altri giorni. Si consideri la Figura 3.b.13.1. I beni sono come sempre ; e <; immaginiamo però che l'unico bene di consumo sia il grano, e che ; sia il grano consumato quest'anno, e < il grano consumato l'anno prossimo. Il sentiero delle dotazioni è indicato dal punto ; la retta tratteggiata, di riferimento, indica la pendenza del vincolo se il grano si può spostare da un anno all'altro a costo e guadagno zero. La retta solida ipotizza che 100 unità di grano ; si possono trasformare in solo 90 di grano < (tenendolo in magazzino, con perdite ai topi); 63


l’operatore sceglie comunque di dividere i consumi tra i due anni, consumando dunque meno di 100 unitĂ complessive, ma con un sentiero temporale preferito. Se per ipotesi i topi colpiscono solo a Capodanno, potrebbe consumare ad esempio 50 quest'anno, e 0,9(100 - 50) = 45 l'anno prossimo. Nelle operazioni intertemporali si chiama LQWHUHVVH il rendimento netto, che può essere calcolato in danaro (interesse QRPLQDOH) o in beni (interesse UHDOH): se 9 è ciò che viene dato, e 9 ciò che viene ripreso dopo un anno, il tasso di interesse L si calcola, in percentuale, come 9 9 9 ; nel nostro esempio, dunque, il tasso di interesse (ovviamente reale) è 10%. In un economia monetizzata il tasso di interesse nominale non può essere negativo: se infatti la banca mi pagasse per prendere soldi in prestito, chiederei dei prestiti infiniti. Normalmente, nel mercato del danaro, anche l'interesse reale è positivo; ma può anche essere negativo, e lo è abbastanza spesso appunto in periodi di inflazione. L'interesse reale L è infatti (approssimativamente) quello nominale L , meno il tasso di inflazione L : L L L . Se ad esempio io in danaro impresto 100 e recupero 105, il tasso nominale è +5%; ma se l'inflazione intanto è del 10% i beni che mi costavano 1,00 adesso costano 1,10, e con i 105 ottenuti ne compro solo 105/1,10 = 95, per un interesse reale del -5%. Per l'operatore il prezzo relativo dei beni nei due periodi, ossia il 706 , è ovviamente L : come al solito, le decisioni reali non sono influenzate da cambiamenti puramente nominali. Nella Figura 3.b.13.2 si rappresentano due casi tipici, assumendo un tasso di interesse reale dato dal mercato. Nel grafico superiore, come nella Figura precedente, il sentiero delle dotazioni è squilibrato verso il presente: ; ! < , e l'operatore userĂ il mercato intertemporale per rimandare i consumi; nel grafico inferiore tale sentiero è squilibrato verso il futuro, con ; < , e l'operatore userĂ il mercato per anticipare i consumi. Il primo caso può rappresentare il lavoratore che sta per collocarsi a riposo, e si aspetta dunque una riduzione dei guadagni da lavoro; il secondo, lo studente che si aspetta un aumento di reddito dopo la laurea, o anche il figlio di famiglia abbiente che ottimizza i consumi emettendo cambiali "a Babbo morto". Se aumenta il tasso di interesse, aumenta nel grafico la pendenza del vincolo, che ruota intorno al punto fisso dato dal punto delle dotazioni (linee tratteggiate). Il bene-adesso ; vale di piĂš, rispetto al bene-dopo <: è intuitivo, e ovvio dal grafico, che l'aumento dell'interesse giova a chi lo riceve perchè rimanda i consumi, ossia vende beni-adesso e compra beni-dopo, e danneggia chi invece lo paga perchè si trova nella posizione speculare. Torniamo brevemente sul significato politico di questa analisi. L'interesse lo lucra chi rimanda i consumi: insegnava l'economia borghese d'un tempo che un interesse positivo è necessario per compensare il sacrificio del capitalista, che appunto "si astiene" dal consumare i suoi averi. Nel contesto di allora, in cui l'opulenza della borghesia contrastava con la miseria dei proletari, era perlomeno paradossale attribuire "l'astinenza" ai grassi piuttosto che ai denutriti; ebbe buon gioco Marx a schernire tale modo di interpretare le cose. Aggiungiamo poi che se il problema è quello della redistribuzione intertemporale indicato da Friedman, peraltro insospettabile, può convenire come nel nostro esempio rimandare i consumi anche con un interesse negativo: se vi è complementarietĂ tra i consumi dei diversi periodi, la "grande bouffe" che consuma tutto oggi non ci sarebbe nemmeno a interesse zero.

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3.b.14. l'interesse e il valore attuale Il tasso di interesse (piÚ uno), l'abbiamo visto, è il prezzo relativo dei beni, o delle somme di danaro, disponibili in due periodi diversi; come qualsiasi prezzo relativo permette dunque la conversione degli uni negli altri. Immaginiamo un tasso di interesse nominale del 10% all'anno, e un mercato perfetto (che mette appunto l'operatore di fronte allo stesso tasso per qualsiasi quantità e da ambedue i lati dello scambio); allora $100 oggi sono l'equivalente 64


di $110 tra un anno (e di $121 tra due anni), e $110 tra un anno (come $121 tra due anni) l’equivalente di $100 oggi. Dato l’interesse annuo L, infatti, la somma 9 diventa dopo un anno 9 L 9 , e dopo due 9 L 9 L 9 ; ne consegue che il YDORUH DWWXDOH di una somma futura 9 , disponibile tra W anni, è appunto 9 9 L . Attraverso il tasso di interesse (o "di sconto", in quanto $110 futuri vengono "scontati" a $100 attuali), dunque, si determina il valore attuale anche di ciò che ha valore oggi solo perchè avrĂ valore domani: come le azioni di nuove societĂ che per ora hanno solo perdite, ma hanno un valore positivo che è appunto il valore attuale del valore futuro giustificato dai guadagni attesi in quel futuro. Immaginiamo una serie di redditi pari a 5 annuo da oggi e per Q anni ancora. Il valore attuale dell'intera serie è la FDSLWDOL]]D]LRQH . di questi, ossia la somma dei redditi scontati: . 5 >5 L @ >5 L @ >5 L @, che ovviamente varia direttamente con 5 e Q e inversamente con L: come aumenta il tasso d'interesse, infatti, si riducono gli equivalenti attuali dei valori futuri (e quanto piĂš sono lontani, tanto piĂš si riducono). Nel caso di una serie infinita di redditi 5, il valore attuale è semplicemente . 5 L: infatti dato L sarebbe appunto 5 il rendimento perpetuo ottenibile da una somma . (con un interesse del 10% si ottiene con $1000 un rendimento perpetuo di $100/anno, per cui il valore attuale di tale rendimento perpetuo è appunto $1000). Dimezzandosi il tasso di interesse, raddoppia dunque il valore attuale di un dato rendimento perpetuo; il valore attuale dello stesso rendimento annuo limitato nel tempo aumenta pure, ma di meno, e tanto meno quanto piĂš è limitato (infatti se il tasso d'interesse annuo passa dal 10% al 5% il valore attuale di $100 adesso e tra un anno aumenta solo da $190.91 a $195.24, mentre il valore attuale di $100/anno per sempre aumenta da $1000 a $2000). Se l'operatore può scegliere tra sentieri di disponibilitĂ alternativi, sceglierĂ quello con il massimo valore attuale. Nella Figura 3.b.14.1, che mantiene le convenzioni dei grafici immediatamente precedenti, si ipotizza che l'operatore possa scegliere tra i due punti $, che corrisponde a ; < , e %, che corrisponde a ; < ! < : come se avesse due anni di vita, e potesse lavorare da subito ottenendo ; e poi < , oppure studiare per un anno, senza guadagno, per poi guadagnare piĂš del doppio. Conviene, ovviamente, la scelta che porta all'utilitĂ piĂš alta; siccome però il vincolo dei consumi è lineare, e passa per il punto scelto, è ovvio che il sentiero migliore dipende unicamente dalla pendenza del vincolo e dunque dal tasso di interesse, a prescindere dalla forma specifica delle curve di indifferenza. Con un tasso di interesse basso, il vincolo ha una pendenza debole, e il punto % permette consumi sempre superiori a quelli permessi da $ (rette solide); con un tasso di interesse alto il vincolo ha una pendenza forte, e il punto $ permette consumi sempre superiori a quelli permessi da % (rette tratteggiate). Aumentando il tasso di interesse, dunque, si ribalta la graduatoria dei valori attuali, che corrispondono alle intercette dei vari vincoli con l'asse orizzontale. Nel caso, conviene investire nello studio solo se il tasso di interesse è sufficientemente basso; nel caso contrario, conviene anticipare il guadagno, anche se minore. Si tocca qui un risultato che è uno dei postulati della macroeconomia: che a tassi di interesse minori corrispondono appunto investimenti maggiori.

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3.b.15. l'incertezza e il valore atteso Le scelte sopra analizzate sono tutte in condizioni di certezza, anche se rivolte al futuro. Il futuro, di fatto, è incerto, e le scelte vanno spesso fatte in condizioni di incertezza. Torneremo poi sulla teoria dei giochi, che è tutta un approfondimento di questo particolare problema; per il momento vogliamo solo segnalare alcuni aspetti di esso direttamente legati a quanto sopra. Ovviamente, un dato beneficio futuro vale di meno se non è certo. Un modo 65


abbastanza sbrigativo di formalizzare questo fatto è di supporre che tali benefici vengano doppiamenti scontati: al tasso di interesse L perchè sono futuri, e ad un tasso U legato al rischio che il beneficio di fatto non si avveri in tutto o in parte. Ipotizzando come sopra una serie di redditi pari a 5 annuo da oggi e per Q anni ancora, e considerando incerti quelli futuri, il valore attuale dell'intera serie si può esprimere come . 5 >5 L U @ >5 L U @ >5 L U @, che ovviamente varia inversamente con U oltre che con L. Questa formulazione è ovviamente molto generale: U può dipendere infatti non solo dalle condizioni oggettive (la probabilità dei vari avvenimenti), ma anche dall'atteggiamento soggettivo dell'operatore di fronte all'incertezza. Per separare questi due aspetti del problema si distingue tra il valore atteso, oggettivo, e l'utilità attesa, soggettiva; e per non complicare l'esposizione tralasciamo l'aspetto prettamente intertemporale (ipotizzando di fatto o un tasso di interesse pari a zero, o una risoluzione immediata dell'incertezza, per cui il tempo comunque non conta). Il YDORUH DWWHVR 9 è l'aspettativa matematica dei ricavi, ossia la somma dei ricavi possibili 5, ponderati con le loro probabilità S: 9 S 5 S 5 Assumiamo che questi ricavi siano alternativi, per cui di fatto se ne verificherà uno e solo uno; in questo caso le probabilità S sommano ovviamente a uno. Sempre in questo caso di ricavi alternativi, per XWLOLWj DWWHVD si intende invece la somma ponderata, con le stesse probabilità , delle utilità associate ai vari ricavi: 8 S 8 5 S 8 5 Questa utilità attesa si può paragonare direttamente all'utilità associata ad un ricavo certo pari a 9 , ossia 8 9 ; e da questo paragone deriva la scelta dell'operatore. Si consideri la Figura 3.b.15.1. Il nostro ha un reddito 5 di $400 (periodico), e, dati i tempi, una probabilità del 20% di subire furti per $300 (sempre periodici); il valore atteso del suo reddito è dunque (8/10)$400 + (2/10)$100 = $340. Immaginiamo pure che possa assicurarsi contro il furto, e vedersi rimborsati i $300 eventualmente persi, al costo (periodico) di $60; può dunque scegliere tra un reddito netto sicuro di $340, e un reddito aleatorio di pari valore atteso. Nel grafico superiore, la sua funzione di utilità esibisce un utilità marginale del reddito decrescente: in questo caso, ovviamente, 8 9 ! 8 , e l'operatore si assicura. Nel grafico inferiore, la sua funzione di utilità esibisce un utilità marginale del reddito crescente: in questo caso, ovviamente, 8 9 8 , e l'operatore non si assicura. Notiamo subito l'aspetto metodologicamente interessante: il comportamento dell'operatore rivela appunto la curvatura della funzione di utilità . Nel caso della scelta tra due beni, avevamo notato, vengono rivelate le curve di indifferenza, ossia una funzione di utilità ordinale: qualsiasi trasformazione monotonica della stessa vale quanto un'altra, e le due rappresentazioni dei grafici della Figura rimangono indistinguibili. Nel caso della scelta fra risultati aleatori, invece, viene rivelata una funzione di utilità cardinale, che distingue appunto i due casi dei grafici e non ammette pertanto come quella ordinale qualsiasi trasformazione monotonica. Per la precisione, ammette solo una trasformazione affine, della forma \ D[ E: l'unità di misura è arbitraria, ma una volta scelta la funzione è definita, e rimangono paragonabili non solo i livelli (maggiori o minori) ma anche gli intervalli (maggiori o minori). Esattamente come la misura della temperatura: i gradi sono arbitrari, ma il valore in gradi Fahrenheit è legato a quello in gradi Centigradi dalla formula appunto lineare ) & . Dicono poi gli economisti che l'individuo rappresentato dal grafico superiore della Figura è DYYHUVR DO ULVFKLR, mentre l'altro, speculare, lo gradisce; ma qui si confondono forse due cose che andrebbero distinte. Infatti è vero che l'individuo del grafico superiore si assicura, ma si assicura per via del suo atteggiamento al reddito piuttosto che al rischio: accetterebbe infatti in regalo qualsiasi biglietto di lotteria (anche se preferirebbe ovviamente

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ricevere il valore atteso del premio), mentre uno avverso al rischio come tale lo rifiuterebbe perchè non dormirebbe piÚ. Nella visione ortodossa, infatti, è problematico il comportamento peraltro comune degli individui che da un lato si assicurano, e dall'altro comprano biglietti di lotteria (che tipicamente poi costano molte volte il loro valore atteso): si conciliano le cose solo con l'ipotesi assolutamente "ad hoc" e dunque inelegante che l'utilità marginale del reddito è prima calante e poi crescente, e per ognuna di queste persone la funzione cambia curvatura proprio dove si trova... Se si riconosce invece che una cosa è la curvatura della funzione di utilità , e un'altra l'eventuale piacere del gioco di azzardo, il problema scompare: i biglietti della lotteria si comprano come le caramelle, ottimizzando la spesa, per il gioco e non per il premio che ne è solo la scusa; l'assicurazione si compra come si investe nello studio, per ottimizzare il profilo del reddito netto.

3.c. l'equilibrio dell'operatore monopolista 3.c.1. il vincolo e l'equilibrio Ritorniamo adesso al problema iniziale della scelta ottimale dei beni da consumare, per considerare i casi in cui l'operatore è dotato di potere di mercato. Ricordiamo che con funzioni differenziabili il punto preferito, ossia quello che raggiunge la curva d'indifferenza piÚ alta ("massimizza l'utilità ") dato il vincolo, sarà una tangenza che rende uguali i tassi marginali di sostituzione, ossia il rapporto tra i benefici marginali per unità di bene da un lato, e i costi marginali per unità di bene dall'altro. In equilibrio, dunque, 08 08 706 706 0& 0& . Per l'operatore concorrenziale, l'abbiamo visto, i costi marginali sono costanti e uguali ai prezzi, parametrici, per cui il vincolo è una retta; per l'operatore dotato di potere di mercato i prezzi e i costi marginali relativi variano con le quantità (positivamente per gli acquisti, negativamente per le vendite), per cui LO YLQFROR q FXUYR H FRQYHVVR GDOO DOWR, come nella Figura 3.c.1.1. Spostandosi lungo il vincolo verso sud-est, infatti, si vende ; o si compra meno ;, e si compra < o si vende meno <, riducendo il prezzo e il costo marginale relativo di ; e aumentando quelli di <. Se l'operatore monopolista è un puro consumatore in un economia monetizzata e dispone di una somma di danaro 5, il vincolo è 5 ;3 ; <3 < e ha come intercette sugli assi (5 3 per ; ) e (5 3 per < ). In tal caso, il vincolo si sposta se cambia 5 o se cambia la curva di offerta di ; o di <; notiamo peraltro che perchè il vincolo sia curvo basta il potere di monopolio in uno dei due mercati, in quanto 0& 0& varia anche se ad esempio varia solo 0& con ; mentre rimane costante 0& 3 . Se invece il contesto è quello di un'economia di baratto, con un unico mercato in cui si scambiano i due beni al loro prezzo relativo, il vincolo varia con la curva degli equilibri possibili della controparte, passando sempre per il punto fisso dato dalla dotazione iniziale di ; e < del monopolista. Essendoci poi un unico mercato è ovvio che il potere di monopolio è nel baratto, e dunque contemporaneamente nella vendita di un bene e nell'acquisto dell'altro. In equilibrio, dunque, la combinazione di ; e < scelta dall'operatore in equilibrio di monopolio è data dal punto di tangenza tra la curva di indifferenza (pertanto la piÚ alta raggiungibile), convessa dal basso, e la curva del vincolo, convessa dall'alto (come appunto nella Figura). A questo livello di generalità non si può dire di piÚ, in quanto il rapporto preciso tra prezzi, quantità , e costi marginali dipende come sappiamo dal potere di mercato, discriminante o meno. ;

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3.c.2. l'equilibrio di monopolio semplice 67

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L’operatore dotato di potere di monopolio semplice ha di fronte a se un operatore concorrenziale, che sceglie le quantitĂ in funzione dei prezzi. ,O YLQFROR GHO PRQRSROLVWD VHPSOLFH, ossia gli equilibri tra i quali può scegliere, è dunque la curva degli equilibri di un operatore concorrenziale, ossia OD FXUYD SUH]]R FRQVXPR GHOOD FRQWURSDUWH. L'equilibrio del monopolista semplice è illustrato dalla Figura 3.c.2.1, immaginando che sia un puro compratore di ;, con potere di monopolio in quel mercato (che sia l'unico, di baratto, o meno). Nel grafico superiore, dunque, il punto fisso è < ; il vincolo del monopolista, 9, è la curva prezzo-consumo della controparte. L'equilibrio è dato da ; < , sia ambedue acquistati, sia in un contesto di baratto vendendo < < per acquistare ; . Il monopolista verifica che sia quello il punto raggiungibile preferito, dato appunto dalla tangenza tra 9 e la sua curva d'indifferenza piĂš alta raggiungibile, %; ci arriva fissando la retta dei prezzi 3 che passa dal punto fisso, di origine, al punto di equilibrio, e lasciando che l'operatore concorrenziale scelga di spostarsi lungo 3 fino all'equilibrio suo dato appunto dall'intersezione tra questa e la sua curva prezzo-consumo 9. Al punto di equilibrio, dunque, l'operatore concorrenziale è in equilibrio sulla sua curva prezzo-consumo, con una tangenza tra il suo vincolo, che è la retta dei prezzi 3, e la sua curva d'indifferenza piĂš alta raggiungibile, che è nel grafico la tratteggiata $. Il monopolista pure è in equilibrio, con una tangenza tra il suo vincolo, che è la curva prezzo-consumo della controparte 9, e la sua curva d'indifferenza piĂš alta raggiungibile, che abbiamo giĂ identificato nel grafico con la curva %. Essendo ambedue i contraenti in equilibrio, lo è il mercato. Notiamo che in equilibrio i 706 dell'operatore concorrenziale sono uguali alla pendenza di 3; quelli del monopolista alla pendenza di 0, piĂš ripida di 3. Immaginiamo per comoditĂ , nel grafico inferiore, che il nostro monopolista lo sia solo come acquirente di ;, e che 3 sia dato (per cui 3 0& ). Con quel prezzo dell'altro bene, la sua domanda per ; è data da ', che corrisponde ai suoi benefici marginali (in moneta); ha di fronte la curva di offerta 6, dell'operatore concorrenziale, al quale corrisponde la curva dei costi marginali 0&. Sceglie 3 ; , che massimizza il suo beneficio netto, con 0% 0& ! 3 , per cui ovviamente 0& 0& ! 3 3 : nel grafico superiore, appunto, 0 è piĂš ripida di 3. Ritroviamo risultati giĂ noti: nel grafico inferiore l'equilibrio 3 ; non è sulla curva di domanda del monopolista, ma casomai sulla curva di pseudo-domanda. Nel grafico superiore, la retta dei prezzi 3 è tangente alla curva di utilitĂ & del monopolista: se fosse anche lui concorrenziale, con prezzi relativi 3 consumerebbe ; ! ; , con benessere maggiore che non in equilibrio di monopolio. Nel grafico inferiore, infatti, con 3 parametrico consumerebbe ; , sulla curva di domanda; il guadagno di benessere che otterebbe se potesse aumentare gli acquisti senza far salire i prezzi corrisponde al triangolo di rendita definito dalla curva di domanda, ; ; , e 0& 3 . Nel grafico superiore, dunque, l'ipotetico equilibrio concorrenziale alla tangenza fra 3 e & è sulla curva prezzo-consumo del nostro operatore ((), che corrisponde alla sua curva di domanda; l'equilibrio di monopolio è piĂš vicino al punto di origine, sulla curva che possiamo chiamare pseudo-prezzo-consumo ()). R

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3.c.3. l'equilibrio di monopolio perfettamente discriminante L'operatore dotato di potere di monopolio perfettamente discriminante ha di fronte a se un operatore talmente debole che, subendo tale potere, non ottiene nessun vantaggio dallo scambio (se non uno infinitesimale, giusto per indurlo ad accettarlo). ,O YLQFROR GHO PRQRSROLVWD SHUIHWWDPHQWH GLVFULPLQDQWH, ossia gli equilibri tra i quali può scegliere, è dato dunque direttamente dal livello di benessere iniziale della controparte: coincide dunque con OD FXUYD GL LQGLIIHUHQ]D GHOOD FRQWURSDUWH. L'equilibrio del monopolista perfettamente dicriminante è illustrato dalla Figura 68


3.c.3.1, immaginando che sia un puro compratore di ;, con potere di monopolio in quel mercato (che sia l'unico, di baratto, o meno). Nel grafico superiore, dunque, il punto fisso è < ; il vincolo del monopolista, 9, è la curva d'indifferenza della controparte. L'equilibrio è dato da ; < , sia ambedue acquistati, sia in un contesto di baratto vendendo < < per acquistare ; . Il monopolista verifica che sia quello il punto raggiungibile preferito, dato appunto dalla tangenza tra 9 e la sua curva d'indifferenza piÚ alta raggiungibile, %; e ci può arrivare in due modi. Può infatti fissare la retta dei prezzi 3 che passa dal punto fisso, di origine, al punto di equilibrio, e propone alla controparte uno scambio a quel prezzo di < < (piÚ una caramella) contro ; ; oppure può fissare una serie di prezzi man mano piÚ alti per quantità infinitesimali di ;, e spostare cosÏ la controparte lungo la propria curva di indifferenza fino al punto desiderato. Immaginiamo per comodità , nel grafico inferiore, che il nostro monopolista lo sia solo come acquirente di ;, e che 3 sia dato (per cui 3 0& ). Con quel prezzo dell'altro bene, la sua domanda per ; è data da ', che corrisponde ai suoi benefici marginali (in moneta); ha di fronte la curva di offerta 6 della controparte. Può catturare tutta la rendita generata dallo scambio offrendo appunto prezzi infinitamente differenziati, che corrispondono dunque ai suoi costi marginali, fino al massimo di 0& , oppure offrendo il prezzo 3 per la quantità ; (da prendere o lasciare), scegliendo ovviamente quel prezzo sulla curva dei suoi costi medi $& corrispondente ai marginali 6 ; nel primo caso cattura il triangolo compreso tra ' e 6 , nel secondo il trapezio equivalente definito da ', $& e da ; . Nel grafico inferiore 0& ! 3 ; in quello superiore, corrispondentemente, la pendenza di 0 è maggiore della pendenza di 3. Perchè 6 e non semplicemente 6? La risposta si vede dalla Figura 3.c.3.2, che riproduce la Figura precedente con qualche elemento in piÚ. Se nel grafico inferiore 6 fosse effettivamente la curva di offerta di un operatore concorrenziale, corrispondente alla sua curva prezzo-consumo, allora se potesse scegliere la quantità da vendere al prezzo 3 sceglierebbe ; ; ma dal grafico superiore vediamo che sceglie quella quantità solo se a quel prezzo la tangenza con la sua curva d'indifferenza piÚ alta raggiungibile capita proprio con quella quantità , come con la curva 9 ; ma la tangenza con 3 potrebbe essere benissimo a nord-ovest o a sud-est di quel punto, e dare dunque vendite minori o maggiori. CosÏ pure se potesse vendere tutte le unità al prezzo 0& , che il monopolista gli offre solo per l'ultimissima unità : venderebbe comunque ; solo se la tangenza della retta 0 , parallela a 0, con la curva d'indifferenza piÚ alta raggiungibile capitasse proprio a quella quantità , come con 9 . Siccome però la pendenza di 0 è uguale a quella di 0, per ; ; la pendenza di 9 deve essere la stessa di 9; e questo è vero per qualsiasi prezzo solo se le curve di indifferenza del nostro sono traslazioni YHUWLFDOL l'una dell'altra, ossia se per lui l'unico bene superiore è <, e ; non è nè superiore nè inferiore, con elasticità al reddito pari a zero. Se invece anche ; è un bene superiore, la curva d'indifferenza tangente a 0 sarà non nella posizione di 9 , ma a nord-ovest di questa, come 9 ; vende dunque ; ; al prezzo 0& , e nel grafico inferiore la curva di offerta 6 (che corrisponde alla curva prezzo-consumo che passa per la tangenza di 0 e 9 ) passa per 0& ; e non per 0& ; . Se ne intuisce il motivo. Il mercato concorrenziale lascia al venditore la rendita che il monopolista discriminante invece gli toglie, per cui è di fatto piÚ ricco, per cui consuma piÚ beni superiori: se ; è per lui un bene superiore ne consuma di piÚ, ossia ne vende di meno, in regime di concorrenza che non subendo un monopolio perfettamente discriminante. R

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3.c.4. domanda e domanda compensata La stessa analisi ci fa capire perchè nel caso del venditore perfettamente discriminante la rendita del consumatore che può catturare è definita da una curva di domanda diversa da 69


quella del compratore in regime di concorrenza (2.e.4.). La domanda in regime di concorrenza corrisponde infatti alla curva prezzo-consumo, quella che ha di fronte il monopolista perfettamente discriminante corrisponde invece alla curva di indifferenza; ricordando l’equazione di Slutsky notiamo che la prima comprende effetti di reddito e di sostituzione, la seconda solo effetti di sostituzione. Nella Figura 3.c.4.1 il grafico superiore illustra dunque lo spostamento dell’equilibrio di un compratore in mercati di concorrenza, come nella Figura 3.b.4.1; sull’asse verticale, per comodità, misuriamo direttamente il reddito in dollari. In equilibrio, consuma una certa quantità di ;, e una certa quantità di dollari (che trattiene, ovviamente, per altri consumi). Immaginiamo 5 , e 3 che cala da 3 a 3 ; l'equilibrio si sposta da a , lungo la curva prezzo-consumo; i punti e definiscono le decomposizioni alternative dell'effetto di prezzo in effetto di reddito e effetto di sostituzione. I punti e sono dunque sulla curva redditoconsumo per 3 , e i punti e sulla curva reddito-consumo per 3 . Queste curve hanno pendenza positiva, per cui il bene ; è un bene superiore. Nel grafico inferiore la curva di domanda ' corrisponde alla curva prezzo-consumo: come questa associa ; a 3 , e ; a 3 . Se tale riduzione del prezzo fosse invece opera di un monopolista perfettamente discriminante, che fa pagare al consumatore tutti i prezzi intermedi, questo si sposterebbe dal punto non al punto , sulla curva di prezzo-consumo, ma al punto , sulla curva d'indifferenza. Per il consumatore, è come se il guadagno di potere di acquisto dovuto alla riduzione di 3 , che lo porterebbe da 8 a 8 , fosse compensato da una perdita di 5 pari a , che lo riporta a 8 ; si chiama pertanto GRPDQGD FRPSHQVDWD la curva che collega le combinazioni di equilibri di prezzo e quantità per spostamenti lungo una curva di indifferenza, e dunque corrisponde a questa così come la curva di domanda (concorrenziale) corrisponde alla curva prezzo-consumo. Nel grafico inferiore, la domanda compensata '& corrisponde a 8 : come questa infatti associa ; a 3 , e ; a 3 . A 8 corrisponde invece '& , che come quella associa ; a 3 , e ; a 3 . Notiamo dal grafico inferiore che le curve di domanda compensate sono più ripide, e dunque meno elastiche, della curva di domanda. Ricordiamo l'equazione di Slutsky in termini di elasticità H H 3; 5 H , dove H è appunto l'elasticità della domanda compensata: H ! H appunto perchè ; è un bene superiore, con H ! , e dunque effetto di reddito positivo per riduzioni di 3 . Se infatti H , e l'effetto di reddito è nullo, nel grafico superiore le curve reddito-consumo sarebbero verticali, come nella Figura 3.c.4.2; in quel caso ; ; , ; ; , e le curve compensate coincidono tra di loro e con la curva di domanda (che diventa pure invariante al reddito, e dunque unica per dati prezzi degli altri beni). Ritroviamo così il risultato già notato per il venditore al punto precedente. Se infine H , e l'effetto di reddito è negativo perchè ; è un bene inferiore, nel grafico superiore le curve reddito-consumo sarebbero a pendenza negativa, come nella Figura 3.c.4.3; in quel caso ; ; , ; ! ; , e le curve compensate sono più elastiche che non la curva di domanda (che a sua volta si sposta verso il basso come aumenta il reddito).

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3.c.5. domanda, domanda compensata, e rendita del consumatore La rendita del consumatore è il beneficio netto dallo scambio, che può ridurre a zero un venditore perfettamente discriminante; è una superficie nello spazio prezzo-quantità, con dimensione dunque XQLWj XQLWj , che è la dimensione del reddito; e corrisponde come un aumento di reddito ad un aumento di benessere. L'aumento di benessere, nelle tre Figure di cui al punto precedente, è sempre univoco, e corrisponde al passaggio da 8 a 8 ; ma la misura della rendita è univoca solo in assenza di effetti di reddito. Nella Figura 3.c.4.2, infatti, coincidendo nel grafico inferiore le curve di domanda compensata tra di loro e con la curva di domanda, il trapezio di rendita definito dai

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due prezzi e dalla curva di domanda, compensata o meno, è unico. Si ottiene dunque la stessa cifra con la domanda compensata che corrisponde a 8 e con la domanda compensata che corrisponde a 8 , e ovviamente con la domanda concorrenziale. Portando il consumatore nel grafico superiore dal punto al punto , infatti, si compensa il calo del prezzo togliendogli un reddito pari a ; riportandolo dal punto al punto si compensa il movimento esattamente inverso del prezzo dandogli un reddito aggiuntivo pari a , esattamente uguale a . Essendo le curve reddito-consumo verticali, e le curve d'indifferenza traslazioni verticali l'una dell'altra, la distanza verticale è ovviamente identica alla distanza verticale . Nelle Figure 3.c.4.1 e 3.c.4.3, invece, le due curve di domanda compensata definiscono per i due prezzi di ; due trapezi di rendita, uno maggiore e l'altro minore di quello definito dalla curva di domanda concorrenziale. Nella Figura 3.c.4.1, con ; superiore, se abbassandosi il prezzo il consumatore passerebbe da a , la compensazione di reddito è pari a , che corrisponde al trapezio definito da '& ; se alzandosi il prezzo ritornerebbe da a , la compensazione di reddito è pari a ), che corrisponde al trapezio definito da '& , maggiore del precedente, così come appunto ! . Nella Figura 3.c.4.3, con ; inferiore, otteniamo il risultato speculare: la compensazione equivalente alla riduzione del prezzo è maggiore, invece che minore, di quella equivalente al movimento opposto, e . Geometricamente, infatti, con ; superiore le curve di indifferenza più alte sono traslazioni non solo verso nord ma anche verso est di quelle più basse, per cui le distanze verticali tra di esse si restringono verso sud-est e si allargano verso nord-ovest, e viceversa con ; inferiore; date due curve di indifferenza quali 8 e 8 , le coppie di parallele tangenti ad ambedue che sono sempre verticalmente equidistanti in assenza di effetti di reddito (Figura 3.c.4.2) sono ad una distanza verticale che aumenta con la loro pendenza se ; è superiore, e diminuisce con questa se ; è inferiore. Con effetti di reddito, dunque, vi sono due cifre diverse in dollari che corrispondono allo stesso incremento di benessere, aggiunto o sottratto: tra un equilibrio e l'altro varia dunque il tasso di sostituzione tra utilità e dollari, ossia l'utilità marginale di un dollaro 08 . La rendita definita dalla curva di domanda concorrenziale, che è una cifra intermedia, è tale perchè misurata con dollari di utilità marginale che non è costante, ma varia tra i due valori corrispondenti alle due curve di domanda compensata.

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4. L’EQUILIBRIO GENERALE: IL SISTEMA DEI MERCATI (A: puro scambio) 4.a. gli equilibri di mercato 4.a.1. l’economia di puro scambio L’economia politica moderna nasce, lo ricordiamo, dall’intuizione che in un sistema di mercati liberi le scelte private siano coordinate "come da una mano invisibile" e portino naturalmente a un equilibrio socialmente ottimale. L’analisi dell’economia nel suo complesso come insieme coerente di equilibri individuali ("microeconomici") è nota come la WHRULD GHOO HTXLOLEULR JHQHUDOH, o anche, ponendo l'accento sull'ottimizzazione sociale, come O HFRQRPLD GHO EHQHVVHUH: nel gergo degli economisti, infatti, si tende a chiamare "utilitĂ " il benessere dei singoli, e "benessere" ("welfare", come nel titolo del volume di Pigou) il benessere collettivo. Per capire l'equilibrio complessivo di un'economia di mercato bisogna considerare insieme gli equilibri di tutti gli operatori, famiglie e imprese, consumatori e produttori. Di fatto, però, i cosiddetti WHRUHPL IRQGDPHQWDOL GHOO HFRQRPLD GHO EHQHVVHUH si possono esaminare giĂ nel contesto semplificato di un'economia di puro scambio, ossia senza produzione. In questa economia ci sono solo dei consumatori, una data quantitĂ dei beni di consumo, e un'allocazione iniziale di questa ricchezza; l'economia è come quella dei bambini che si portano a scuola le collezioni di figurine, per poi scambiarsele. Semplificando poi la semplificazione, si riducono a due i consumatori, e i beni. Questa economia supersemplificata viene rappresentata geometricamente dalla VFDWROD GL (GJHZRUWK (da F.Y. Edgeworth, economista matematico inglese contemporaneo di Marshall e Pareto), riportata nel grafico superiore della Figura 4.a.1.1. La "scatola" è un rettangolo; lungo i lati si misurano i due beni, uno orizzontalmente, l'altro verticalmente; le dimensioni del rettangolo corrispondono alle quantitĂ totali disponibili, ; e <; e i consumi dei partecipanti vengono misurati dagli angoli opposti. Lo spazio del rettangolo è dunque quello dei beni, e pertanto delle curve d'indifferenza; quelle dell'operatore con origine dei consumi in basso a sinistra compaiono normalmente, quello con origine in alto a destra compaiono normalmente se si rovescia il foglio. A ogni punto interno della scatola, quale il punto , corrisponde dunque un'allocazione dei beni (consumi), e pertanto un indice dell'utilitĂ per ogni consumatore: ;$ ;% ; <$ <% < 8$ 8$ ;$ <$ 8% 8% ;% <% . Nella scatola bidimensionale, dunque, compaiono quattro dimensioni: le due del foglio, corrispondenti ai beni, e le due delle utilitĂ , indicate dai valori corrispondenti alle curve di indifferenza. Il grafico inferiore ne è una rappresentazione tridimensionale. Si immagini che la scatola sia la superficie di un tavolo: il punto , proiettato sui lati, indica la divisione dei beni, misurati sui lati, fra i consumatori. All'angolo sud-ovest si trova l'origine per $; la sua collina dell'utilitĂ sale come ci si allontana da quell'origine verso nord-est, anche oltre i limiti del tavolo. All'angolo nord-est si trova l'origine per %; la sua collina dell'utilitĂ sale come ci si allontana da quell'origine verso sud-ovest, anche oltre i limiti del tavolo. Alla verticale di si incontrano, rispettivamente a $ e %, le superfici della collina di $ e della collina di %; l'altezza di ogni collina (8$ per l'una, 8% per l'altra) si misura sull'asse corrispondente, che parte dal punto di origine del consumatore corrispondente. Questi due assi verticali, si badi bene, sono indipendenti e incommensurabili, e il fatto che nel grafico al punto la collina di $ passi sopra quella di % non vuol dire nulla. Dipende infatti solo dalle scale che usiamo, come se 8$ fosse misurato in dollari e 8% in ettari, e al punto i valori corrispondenti fossero cento dollari e due ettari: se le nostre scale sono un metro di altezza per dieci dollari o per ettaro passa sopra $, se sono un metro per cento dollari o per ettaro passa sopra %, senza che la cosa abbia significato. 72


4.a.2. l’efficienza paretiana L'efficienza paretiana corrisponde in generale alle situazioni in cui non si può migliorare lungo una dimensione senza peggiorare lungo un'altra: nel caso specifico, alle situazioni in cui non si può aumentare il benessere (l'utilitĂ ) di un individuo senza ridurre quella di un altro. Dalla sovrapposizione delle proiezioni delle funzioni di utilitĂ nella scatola di Edgeworth è ovvio che questa condizione di efficienza paretiana si verifica ai punti di tangenza tra le curve d'indifferenza, ossia a 706R$ 08;$ 08<$ 08;% 08<% 706R%. La forma di questa condizione è quella ormai nota dei massimi vincolati: il massimo dell'utilitĂ dell'uno (l'obiettivo) data l'utilitĂ dell'altro (il vincolo, per questa massimizzazione) si ottiene equiparando i due tassi marginali di sostituzione. Ogni tangenza tra fra le curve di indifferenza denota dunque un'allocazione dei beni Pareto-efficiente, ossia un ottimo paretiano. Il luogo di tali tangenze, denominato la FXUYD GHL FRQWUDWWL , è illustrato nel grafico superiore della Figura 4.a.2.1. Da qualsiasi punto di tale curva, proprio perchè la distribuzione dei beni è giĂ Pareto-efficiente, non esistono redistribuzioni che non riducano l'utilitĂ di almeno uno dei consumatori. Al punto 2, ad esempio, 8$ 8$ e 8% 8% ; se ci si sposta all'interno della curva 8$ aumenta 8$ ma si riduce 8%, se ci si sposta all'interno della curva 8% aumenta 8% ma si riduce 8$, se ci si sposta all'esterno di ambedue si riducono sia 8$ che 8%. In qualsiasi punto QRQ sulla curva dei contratti le curve di indifferenza, non essendo tangenti, si incrociano, come al punto 1. Le due curve che vi si incrociano definiscono un'area lenticolare; qualsiasi redistribuzione che porta da quel punto all'interno dell'area, o ad un altro punto del suo perimetro (che non sia l'altro incrocio delle stesse curve, il punto 4) rappresenta un miglioramento paretiano. Ai punti 1 e 4, infatti, 8$ 8$ e 8% 8% ; se ci si sposta fra di essi lungo 8$ allora 8% ! 8% , se ci si sposta fra di essi lungo 8% allora 8$ ! 8$ , se ci si sposta all'interno dell'area 8$ ! 8$ e 8% ! 8% . Qualsiasi altro spostamento dal punto 1, all'esterno dell'area lenticolare, comporta invece la riduzione o di 8$, o di 8%, o di ambedue. Date le pendenze delle curve di indifferenza, poi, partendo dal punto 1 qualsiasi miglioramento paretiano comporta uno scambio di una certa quantitĂ di ; per una certa quantitĂ di <; e proprio in quanto miglioramento paretiano sarebbe accettabile per ambedue i consumatori. L'area lenticolare delimita dunque le possibili redistribuzioni volontarie, ossia i possibili scambi, a partire dall'incrocio corrispondente. Nel grafico inferiore si misurano sugli assi le utilitĂ dei due individui (ossia si riportano, a angolo retto, i due assi indipendenti ambedue verticali rispetto al piano dei beni). Questi assi definiscono lo spazio delle utilitĂ ; il massimo dell'una data l'altra (date le due colline, ossia le funzioni di utilitĂ , e le dimensioni del tavolo, ossia i beni disponibili) si chiama la FXUYD GHOOH XWLOLWj SRVVLELOL , ed è per definizione il luogo delle combinazioni di utilitĂ Pareto-efficienti. Corrisponde ovviamente alla curva dei contratti, a parte il fatto che è definita direttamente nello spazio 8$ 8% piuttosto che nello spazio ; < . Notiamo le corrispondenze tra la geometria nello spazio ; < e quella nello spazio 8$ 8% . Ogni punto in ; < lungo la curva dei contratti corrisponde ad un punto lungo la curva delle utilitĂ possibili in 8$ 8% , e viceversa: data l'utilitĂ dell'uno, infatti, vi è un unico massimo dell'utilitĂ dell'altro, raggiunto per l'unica allocazione dei beni disponibili che rende uguali i due 706R. Nella Figura, ad esempio, il massimo di 8% dato 8$ 8$ è 8% (e il massimo di 8$ dato 8% 8% è 8$ , al punto sulla curva dei contratti e sulla curva delle utilitĂ possibili; il massimo di 8% dato 8$ 8$ è 8% , al punto sulla curva dei contratti e sulla curva delle utilitĂ possibili. Ogni punto interno alla curva delle utilitĂ possibili in 8$ 8% corrisponde invece a 73


due punti in ; < posti ai due incroci delle curve di indifferenza: la combinazione 8$ 8% , che non è Pareto-efficiente, si trova infatti nel grafico superiore ai punti e , che corrispondono alle due diverse allocazioni dei beni compatibili con quest'unica combinazione di utilità ; nel grafico inferiore, che riporta solo le utilità , la combinazione di queste che corrisponde a e si trova in un unico punto. Il grafico superiore a quattro dimensioni contiene infatti informazioni sulle quantità consumate e sulle utilità ; il grafico inferiore, a due dimensioni, contiene informazioni solo sulle utilità . L'area lenticolare degli scambi possibili definita da 8$ e 8% nel grafico superiore corrisponde nel grafico inferiore all'area quasi triangolare delimitata da 8$ , 8% e la curva delle utilità possibili. Uno spostamento dal punto 1 o il punto 4 all'interno dell'area lenticolare del grafico superiore corrisponde dunque nel grafico inferiore ad uno spostamento dall'apice in basso a sinistra del quasi triangolo ad un punto all'interno di esso (o sul pezzo della curva delle utilità possibili che ne è il lato curvo, se nel grafico superiore si raggiunge la curva dei contratti). Uno spostamento lungo 8$ dal punto 1 al punto 4 nel grafico superiore corrisponde invece in quello inferiore ad uno spostamento orizzontale lungo la base del quasi triangolo, dall'apice di sinistra a quello di destra e poi viceversa; uno spostamento lungo 8% dal punto 1 al punto 4 nel grafico superiore corrisponde in quello inferiore ad uno spostamento verticale lungo il lato sinistro del quasi triangolo, dall'apice in basso a quello in alto e poi viceversa. Un punto esterno alla curva delle utilità possibili in 8$ 8% , quale il punto , non corrisponde a nessun punto in ; < date le dimensioni della scatola di Edgeworth, in quanto appunto non raggiungibile con le risorse e i gusti dati. Dati i gusti, sarebbe raggiungibile con una scatola piÚ grande: allontanandosi i due punti di origine, infatti, ogni collina rimane immobile rispetto al proprio punto di origine, per cui dati ;$ <$ e dunque 8$ aumentano ;% e/o <% e dunque 8%. Se aumentano i beni disponibili, dunque, aumenta l'utilità massima dell'uno per ogni utilità dell'altro, e la curva delle utilità possibili si sposta allontanandosi dall'origine degli assi delle utilità . 4.a.3. la concorrenza perfetta: l'equilibrio date le dotazioni Nel capitolo 2 abbiamo considerato l'equilibrio di mercato nello spazio prezzoquantità ; ricordiamo che gli equilibri possibili sono molteplici, in quanto dipendono sia dalle curve di domanda e di offerta, sia, date queste, dal potere di mercato dei vari contraenti. Ciò vale pure per l'equilibrio generale dell'economia rappresentata dalla scatola di Edgeworth. Iniziamo con l'equilibrio di concorrenza perfetta, ossia in cui WXWWL gli operatori sono concorrenziali, illustrato dalla Figura 4.a.3.1. Nel grafico superiore il punto L indica O DOORFD]LRQH LQL]LDOH, ossia la dotazione di beni di ciascuno dei due contraenti, alla quale corrispondono le utilità indicate dalle curve di indifferenza 8$L e 8%L. La curva 3&$, che parte da L e si trova all'interno di 8$L, è la curva prezzo-consumo di $, ossia il luogo dei suoi equilibri, data la sua dotazione iniziale e dati i suoi gusti, se considera parametrici i prezzi di mercato. La curva 3&% è l'analoga curva di %. In un contesto di baratto, l'abbiamo visto, la curva prezzo-consumo è nel contempo la sua curva di offerta di un bene e di domanda dell'altro, in cui le quantità sono funzione del prezzo relativo 3; 3< ; nel caso specifico, data l'ubicazione di L, 3&$ indica l'offerta di < e la domanda di ;, mentre 3&% indica l'offerta di ; e la domanda di <. Nell'equilibrio di concorrenza perfetta tutti gli operatori reagiscono ai prezzi lungo le proprie curve di domanda e di offerta, ossia di prezzo-consumo; nella scatola di Edgeworth il punto che corrisponde agli incroci domanda-offerta è l'incrocio delle curve prezzo-consumo, che rappresenta il punto di equilibrio di concorrenza perfetta HF. Notiamo che questo è un equilibrio JHQHUDOH: sono infatti in equilibrio simultaneo e compatibile tutti gli operatori (due) e tutti i mercati (uno). 74


Il prezzo relativo di equilibrio di concorrenza perfetta è dato dalla pendenza della retta 3F tra L e HF. Lo scambio di equilibrio è di ;F (ceduto da % e acquisito da $) contro <F (ceduto da $ e acquisito da %), desiderato a quel prezzo da ambedue, per cui le scelte sono coerenti. A un prezzo relativo di ; più alto, invece, le scelte non sono coerenti: una retta dei prezzi più ripida, partendo da L, incontra 3&$ prima di 3&%, per cui a quel prezzo relativo $ offre meno < di quanto non chieda %, e chiede meno ; di quanto non offra %; l'eccesso di domanda per < e di offerta di ; portano appunto ad un rincaro relativo di < finchè non si raggiunge l'equilibrio. Spostandosi ambedue gli operatori lungo la propria curva prezzo-consumo, ambedue aumentano il proprio benessere, raggiungendo livelli di utilità maggiori (curve di indifferenza più alte) di quelle iniziali: 8$F ! 8$L, 8%F ! 8%L. Questo guadagno di utilità per ambedue corrisponde alla divisione tra venditore e compratore della rendita generata dallo scambio. Nell'equilibrio concorrenziale di domanda e offerta la rendita è non solo condivisa, ma interamente generata, per cui si raggiunge l'efficienza paretiana; nella scatola di Edgeworth, corrispondentemente, l'equilibrio concorrenziale si trova sulla curva dei contratti && (il luogo dei punti Pareto-efficienti, di tangenza fra le curve di indifferenza di $ e di %). Gli incroci tra le curve prezzo-consumo e qualsiasi retta dei prezzi sono infatti punti di tangenza tra questa e la curve di indifferenza del contraente corrispondente; dove si incrociano le curve prezzoconsumo le curve di indifferenza dei diversi contraenti sono tangenti alla retta dei prezzi nello stesso punto, e sono dunque tangenti tra di loro. L'ubicazione delle curve prezzo-consumo dipende ovviamente dalle dotazioni iniziali: se queste corrispondono nel grafico non al punto L ma al punto L , con utilità iniziale rispetto a L superiore per $ e inferiore per %, l'equilibrio concorrenziale corrispondente HF si troverebbe all'interno dell'area lenticolare definita dalle curve di indifferenza che passano per L piuttosto che per L; ma le curve prezzo-consumo che partono da L come quelle che partono da L si incrociano necessariamente sulla curva dei contratti. Qualsiasi equilibrio concorrenziale è infatti Pareto-efficiente perchè ogni operatore equipara il proprio 706R 08; 08< allo stesso prezzo relativo 3; 3<, per cui 706R$ 08;$ 08<$ 3; 3< 08;% 08<% 706R%. Dalla forma algebrica è ovvio che il risultato illustrato dalla scatola di Edgeworth per due operatori e due beni in un unico mercato vale per qualsiasi numero di operatori, beni, e mercati, purchè la condizione indicata si verifichi per ogni coppia di operatori e di beni. Già nel modello di puro scambio, dunque, si arriva alla conclusione nota come il SULPR WHRUHPD IRQGDPHQWDOH GHOO HFRQRPLD GHO EHQHVVHUH: che LQ XQ VLVWHPD FRPSOHWR GL PHUFDWL TXDOVLDVL HTXLOLEULR GL FRQFRUUHQ]D SHUIHWWD q 3DUHWR HIILFLHQWH. Il grafico inferiore della Figura riporta i risultati del grafico superiore, nello spazio dei beni, allo spazio delle utilità. Il punto iniziale L è all'interno della curva delle utilità possibili; l'equilibrio concorrenziale HF da esso raggiungibile è su tale curva, a nord-est di esso, ossia con guadagni di utilità per ambedue i contraenti. Il punto L si troverebbe a nord-ovest di L, e da esso si raggiungerebbe un punto HF della curva delle utilità possibili a nord-ovest di HF. 4.a.4. la concorrenza perfetta: le dotazioni dato l'equilibrio Il grafico superiore della Figura 4.a.4.1 riproduce la scatola di Edgeworth della Figura precedente, con il punto iniziale L, le curve di indifferenza e le curve prezzo-consumo corrispondenti, la retta dei prezzi 3F e il punto di equilibrio HF. Notiamo che il punto Paretoefficiente di equilibrio concorrenziale HF è raggiungibile non solo da L, ma da qualsiasi punto iniziale lungo 3F. Più infatti L si avvicina a HF lungo 3F, più 8$L e 8%L si avvicinano a 8$F e 8%F, più dunque si riduce l'area lenticolare degli scambi accettabili; ma lo spostamento da L a HF rimane uno scambio di equilibrio concorrenziale. Infatti le curve di indifferenza dei 75


contraenti sono ambedue tangenti alla retta del prezzo relativo 3F nel punto HF, per cui tale punto rimane su ambedue le curve prezzo-consumo, e dunque al loro incrocio, per qualsiasi L su 3F. Nello spazio prezzo-quantità, l'equivalente dell'avvicinare L a HF lungo 3F, lasciando immutato l'equilibrio, è l'avvicinamento dell'asse dei prezzi al punto di equilibrio, come nel grafico inferiore della Figura: diminuisce lo scambio, diminuisce la rendita, ma solo perchè spostiamo la dotazione iniziale come se fosse già avvenuto uno scambio parziale al prezzo di equilibrio, e l'equilibrio finale non cambia. Tornando al grafico superiore e generalizzando quanto sopra, per qualsiasi punto sulla curva dei contratti, ossia di tangenza fra le curve di indifferenza, passa una retta tangente a queste; e da qualsiasi punto lungo tale retta si raggiunge quel punto della curva dei contratti come equilibrio concorrenziale. Si arriva così alla conclusione nota come il VHFRQGR WHRUHPD IRQGDPHQWDOH GHOO HFRQRPLD GHO EHQHVVHUH: che (a certe condizioni che abbiamo preso per date, e sulle queli torneremo tra breve) TXDOVLDVL DOORFD]LRQH 3DUHWR HIILFLHQWH SXz HVVHUH UDJJLXQWD FRPH HTXLOLEULR GL FRQFRUUHQ]D SHUIHWWD LQ XQ VLVWHPD FRPSOHWR GL PHUFDWL, da un insieme di allocazioni iniziali. Nella Figura 4.a.4.2 si illustrano ancora una volta una scatola di Edgeworth, e lo spazio corrispondente delle utilità. Nel grafico superiore abbiamo tracciato delle curve di indifferenza abbastanza particolari, in due modi. Primo, supponiamo che lungo la curva dei contratti la pendenza delle curve di indifferenza sia sempre la stessa, per cui il prezzo relativo di equilibrio è sempre uguale; secondo, supponiamo che le curve di indifferenza abbiano una forma tale che la retta che unisce i due incroci delle stesse curve, dalle due parti della curva dei contratti, QRQ sia parallela alle rette dei prezzi di equilibrio. Sono indicati i due incroci L e L di due curve di indifferenza: il primo sulla retta dei prezzi 3 , che porta a HF , il secondo sulla retta dei prezzi 3 , che porta a HF . Nel grafico inferiore, nello spazio delle utilità, HF e HF sono punti distinti, con combinazioni di utilità diverse; ma L e L sono associati alla stessa combinazione di utilità, per cui corrispondono ad un unico punto. A quell'unico punto iniziale corrispondono dunque due equilibri concorrenziali, che non sono però equilibri molteplici per la stessa allocazione: come è evidente dal grafico superiore sono due equilibri associati ad allocazioni iniziali diverse, che sono indistinguibili nel grafico inferiore solo perchè quel grafico confonde le allocazioni diverse che danno la stessa combinazione di utilità. Notiamo ancora che HF è raggiungibile da L , e da qualsiasi punto su 3 tra quei due punti; nel grafico inferiore, dunque, tra L e HF si troveranno i punti corrispondenti a quel segmento di 3 . Non saranno necessariamente in linea retta, ma partendo da L ogni tale punto sarà ovviamente a nord-est del precedente. Continuando su 3 oltre HF si incontrano altri punti iniziali dai quali questo è raggiungibile, ma con combinazioni di utilità diverse da quelle già incontrate; e si arriva ad esempio al punto L , con utilità rispetto a L superiore per $ e inferiore per %. Nel grafico inferiore, dunque, L è a nord-ovest di L ; lo spostamento lungo 3 da L a L passando per HF corrisponde al movimento verso nord-nord-est da L a HF , e da questo verso ovest-sud-ovest fino a L . Da L , allo stesso modo, lungo 3 si raggiunge prima HF , e poi L . Siccome insomma ogni punto interno alla curva delle utilità possibili corrisponde a due punti nello spazio dei beni, sui lati opposti della curva dei contratti, ogni equilibrio concorrenziale sulla curva delle utilità possibili è tale per due luoghi di punti iniziali (sempre a sud-ovest di esso), e per ogni punto interno passano i luoghi di due equilibri distinti (sempre a nord-est di esso).

4.a.5. il monopolio 76


La Figura 4.a.5.1 illustra gli equilibri di monopolio; assumiamo che il potere di mercato sia detenuto dall’operatore $. Nel caso del monopolio semplice, ricordiamo, l’operatore % rimane concorrenziale, e sceglie la quantità dato il prezzo; il monopolista $ sceglie il prezzo, ottimizzando dato il vincolo del comportamento concorrenziale della controparte. Nel grafico superiore, che è la solita scatola di Edgeworth, l'equilibrio di monopolio semplice di $ è illustrato dal punto HPVD. Se il monopolista semplice è $, infatti, il suo vincolo è come sappiamo la curva prezzoconsumo di %; l'equilibrio che massimizza l'utilità di $ dato questo vincolo è la tangenza fra questo e la curva di indifferenza di $, al punto HPVD indicato. Rispetto all'equilibrio concorrenziale HF per lo stesso punto iniziale L si notano varie differenze. Primo, il prezzo relativo 3PVD fissato da $ è diverso da quello concorrenziale 3F: la retta ha pendenza minore, per cui è relativamente più caro il bene < che $ vende, e meno caro il bene ; che $ compra. Secondo, $ ottiene un incremento di utilità (una rendita) maggiore, e % uno minore: 8$PVD ! 8$F ! 8$L, mentre 8%F ! 8%PVD ! 8%L. Terzo, l'equilibrio non è più Pareto-efficiente, ossia non genera tutta la rendita ottenibile: in HPVD la curva di indifferenza di % è tangente a 3PVD che incrocia 3&% alla quale è tangente la curva di indifferenza di $. Nel grafico inferiore, nello spazio delle utilità, l'equilibrio di monopolio semplice di $ si trova all'interno della curva delle utilità possibili, nel quasi-triangolo definito da questa, l'utilità di equilibrio concorrenziale di $, e l'utilità iniziale di %. Per analizzare il monopolio semplice sequenziale basta trattare il punto HPVD come un nuovo punto L, trovare il nuovo equilibrio, e via di seguito: è ovvio che ripetendo l'operazione ci si avvicina a volontà alla curva dei contratti, sempre all'interno delle aree lenticolari che progressivamente si restringono. L'equilibrio di monopolio perfettamente discriminante da parte di $ è illustrato invece dal punto HPGD. Se il monopolista perfettamente discriminante è $, infatti, il suo vincolo è come sappiamo la curva di indifferenza iniziale di %, che non guadagna nulla dallo scambio; l'equilibrio che massimizza l'utilità di $ dato questo vincolo è la tangenza fra questo e la curva di indifferenza di $, al punto HPGD indicato. Rispetto all'equilibrio di monopolio semplice HPVD per lo stesso punto iniziale L si notano varie differenze. Primo, il prezzo relativo medio fissato con la quantità da prendere o lasciare è ancora più alto per il bene che il monopolista vende, e basso per quello che compra: la retta da L a HPGD ha infatti pendenza minore anche di 3PVD, oltre che ovviamente di 3F. Secondo, $ ottiene rispetto a L un incremento di utilità (una rendita) ancora maggiore, e % uno nullo: 8$PGD ! 8PVD ! 8$F ! 8$L, mentre 8%F ! 8%PVD ! 8%L 8%PGD. Terzo, l'equilibrio è di nuovo Pareto-efficiente, ossia genera tutta la rendita: in HPGD la curva di indifferenza di $ è direttamente tangente alla curva di indifferenza di %. Nel grafico inferiore l'equilibrio HPGD si trova ovviamente sulla curva dei contratti alla verticale di L: il monopolio perfettamente discriminante genera tutta la rendita, ma viene tutta accaparrata dal monopolista. Per non appesantire il grafico superiore indichiamo solo gli equilibri di monopolio di %; sono ovviamente costruiti specularmente a quelli di $. Nel grafico inferiore, il punto HPVE di monopolio semplice si trova ovviamente all'interno del quasi-triangolo definito dalla curva dei contratti, l'utilità di equilibrio concorrenziale di %, e l'utilità iniziale di $; il punto HPGE di monopolio perfettamente discriminante si trova sulla curva dei contratti, orizzontalmente a destra di L. Ricordiamo infine l'equilibrio di monopolio bilaterale. Il punto di equilibrio non si può prevedere; sappiamo solo che sarà anch'esso all'interno dell'area lenticolare, e tendenzialmente sulla curva dei contratti, e che i due equilibri di monopolio perfettamente 77


discriminante ne segnano i limiti. Il problema vero del monopolio bilaterale risiede nelle difficoltà del negoziato, che possono rimandare all'infinito (e dunque nella realtà impedire) il raggiungimento di un accordo. Dei monopoli unilaterali, poi, il monopolio perfettamente discriminante e il monopolio semplice sequenziale sono interessanti come costruzioni intellettuali, ma di scarsa rilevanza pratica: il monopolio di cui è ricco il mondo, e che il mercantilismo assecondava, è ovviamente quello semplice o al massimo imperfettamente discriminante. Escludendo i casi astrusi e riducendo dunque il monopolio a quello semplice, si raggiunge la conclusione complementare ai teoremi fondamentali riferiti alla concorrenza perfetta: che LO PRQRSROLR LPSHGLVFH LO UDJJLXQJLPHQWR GL HTXLOLEUL 3DUHWR HIILFLHQWL. Paragonando poi l'equilibrio concorrenziale con i due equilibri di monopolio semplice e i due di monopolio discriminante notiamo che 8$PGD ! 8$PVD ! 8$F ! 8$PVE ! 8$PGE 8$L, e 8%PGE ! 8%PVE ! 8%F ! 8%PVD ! 8%PGD 8%L: risultato che corrisponde perfettamente alla variazione delle rendite nello spazio prezzo-quantità. L'intera gamma degli equilibri possibili dipende poi dall'allocazione iniziale, che definisce l'area lenticolare degli scambi possibili e le due curve prezzo-consumo, e si sposta con questa: in particolare, se invece che dall'allocazione L lo scambio parte dall'allocazione L con utilità maggiore per $ e minore per %, allora ognuno degli equilibri associati a L comporterà un'utilità maggiore per $ e minore per % che non il corrispondente equilibrio associato a L: 8$FL ! 8$FL e 8%FL 8%FL, e via di seguito. Se identifichiamo la distribuzione iniziale dei beni con la ricchezza, possiamo riassumere quanto sopra notando che a scambi completati LO EHQHVVHUH LQGLYLGXDOH GLSHQGH GDOOD ULFFKH]]D H GDO SRWHUH UHODWLYR GL PHUFDWR. Potere UHODWLYR, chè l'operatore senza potere si ritrova meglio se anche la controparte è senza potere. Ricchezza, ma non ricchezza relativa, anche se a risorse date la maggior ricchezza di uno non può essere che la minor ricchezza di un altro, e dunque relativa: se aumentano le risorse, infatti, può aumentare il benessere iniziale di tutti i contraenti--almeno stando alle ipotesi implicite nei nostri grafici, sulle quali torneremo. 4.a.6. l'esistenza degli equilibri Le ipotesi implicite nei nostri grafici sono di fatto numerose, e l'esame delle loro implicazioni occuperà molti dei capitoli successivi. In questa sede notiamo solo che l'esistenza dei cinque equilibri indicati nella Figura precedente è garantita dalla forma delle curve di indifferenza, che rispettano le ipotesi "normali" elencate al punto 3.a.3. Con siffatte curve di indifferenza, infatti, l'area degli scambi possibili è necessariamente convessa, e le curve prezzo-consumo si incrociano necessariamente all'interno di essa. Un esempio contrario è illustrato dalla Figura 4.a.6.1, in cui solo % è rappresentato con preferenze, e dunque una curva prezzo-consumo, "normali"; per $, invece, assumiamo una superficie di utilità che sale verso nord-est a forma di teatro greco, con curve di indifferenza concave anzichè convesse. Per $, dunque, i beni sono supersostituti; e sappiamo che in tal caso la curva prezzo-consumo è discontinua, e gli equilibri saltano agli assi. Nel grafico superiore della Figura assumiamo che le curve di indifferenza maggiormente incurvate siano quelle di %. In tal caso, le tangenze fra le curve di indifferenza corrispondono sempre alla curva dei contratti, ossia il luogo degli equilibri paretiani; ma l'area degli scambi possibili fra le due curve di indifferenza iniziale è a menisco. Ai limiti di questa, sulla curva dei contratti, troviamo i due equilibri di monopolio discriminante. All'interno della stessa troviamo l'equilibrio di monopolio semplice di $: la curva prezzoconsumo di % è infatti interna alla sua curva di indifferenza, e necessariamente tangente ad una curva di indifferenza di $ superiore a quella iniziale. Non esistono invece l'equilibrio di 78


monopolio semplice di %, e l'equilibrio concorrenziale, perchè la curva prezzo-consumo di $ è discontinua, e oltre il punto di origine nessuna parte di essa è all'interno dell'area degli scambi possibili; è in particolare all'esterno di tale area il punto in cui la curva prezzoconsumo di % incrocia la curva dei contratti, che sarebbe altrimenti l'equilibrio concorrenziale. Nel grafico inferiore della Figura assumiamo che le curve di indifferenza maggiormente incurvate siano quelle di $. In tal caso, le tangenze fra le curve di indifferenza corrispondono a dei PLQLPL, e non dei massimi, dell'utilità dell'uno data quella dell'altro; gli equilibri paretiano si trovano invece sugli assi, a un estremo o l'altro di una curva d'indifferenza (da scegliere paragonando nei due punti le utilità dell'altro); e l'area degli scambi possibili delimitata dalle curve di indifferenza iniziali è non all'interno dei loro due incroci ma all'esterno, e dunque normalmente in due pezzi. Per il resto ritroviamo i risultati di prima: esistono (sul perimetro) i due equilibri di monopolio discriminante, e all'interno dell'area degli scambi possibili l'equilibrio di monopolio semplice di $, mentre non esistono l'equilibrio di concorrenza o di monopolio di %. Tutto ciò non incide sul primo teorema fondamentale dell'economia del benessere, che ci specifica una caratteristica dell'equilibrio concorrenziale, ovviamente se esiste. Precisa invece il secondo teorema: qualsiasi allocazione Pareto-efficiente può infatti essere raggiunta come equilibrio di concorrenza perfetta in un sistema completo di mercati, da un insieme di allocazioni iniziali, D FRQGL]LRQH FKH OH SUHIHUHQ]H QRQ YLROLQR DOFXQH UHVWUL]LRQL. Aggiungiamo per la precisione che la forma canonica delle funzioni di utilità è VXIILFLHQWH per garantire l'esistenza di un equilibrio di concorrenza; non è strettamente necessaria, anche perchè un'eventuale violazione delle ipotesi può trovarsi in un'area dello spazio dei beni non rilevante per lo scambio.

4.b. l'ottimizzazione sociale 4.b.1. i teoremi fondamentali e l'economia del benessere L'economia del benessere studia il benessere collettivo. Il messaggio riassunto dai teoremi fondamentali dell'economia del benessere è che la concorrenza porta a risultati complessivi buoni, il monopolio a risultati complessivi non buoni: l'analisi moderna conferma così la tesi di Smith della benefica "mano invisibile" associata alla concorrenza, e la sua condanna del monopolio. L'analisi conferma pure la tesi di Hayek: in un sistema di concorrenza il risultato buono si ottiene grazie all'azione dei singoli che reagiscono solo ai prezzi di mercato, ed è il mercato stesso che coordina tale azioni; il pianificatore Baroniano potrebbe raggiungere risultati simili solo conoscendo le preferenze e le dotazioni di tutti. Rispetto alla politica economica, ossia all'economia politica nel suo senso etimologico, la conclusione palese è che lo stato deve mantenere la concorrenza. Questo è il messaggio storico del liberismo, nato, lo ricordiamo, come messaggio rivoluzionario: i regimi mercantilisti infatti favorivano i monopoli, e nelle condizioni di allora lo stato doveva prima di tutto abolire i privilegi e FUHDUH la concorrenza (ricordiamo la legge Le Chapelier del 1791, in Francia, che abolì di colpo le antiche corporazioni). Nell'Italia di oggi il messaggio liberista rimane rivoluzionario, chè lo stato italiano (non a caso il primo fascista) ha continuato a distribuire privilegi e limitare la concorrenza: solo adesso, spinti dall'Europa e lottando a fatica con le nostre tradizioni, ci siamo dotati di un'Autorità garante della libertà economica, e tra mille proteste iniziamo a liberalizzare le professioni, il commercio, i trasporti, le comunicazioni... I teoremi fondamentali precisano però che lo stato deve limitarsi a mantenere la 79


concorrenza solo se il sistema dei mercati è completo. Il linguaggio è recente, ed è da poco che gli economisti considerano LO SUREOHPD GHL PHUFDWL LQHVLVWHQWL con questa precisa dicitura; ma anche i piÚ accesi fautori dello stato nullafacente dell'Ottocento riconoscevano a questo alcuni funzioni, quali la difesa e la giustizia, che non si potevano ovviamente lasciare al mercato. I "fallimenti dei mercati" teorizzati da Pigou nel suo testo del 1920 sono adesso considerati, come vedremo, casi particolari di mercati inesistenti, ai quali deve supplire giustappunto l'azione "allocatrice" dello stato. Nel linguaggio di oggi, dunque, i teoremi fondamentali dell'economia del benessere ci dicono che lo stato deve mantenere la concorrenza, e intervenire come complemento del sistema dei mercati dove questo è incompleto e porterebbe pertanto ad allocazioni migliorabili. Tutto qui: i teoremi fondamentali dell'economia del benessere non toccano nemmeno il problema della distribuzione del reddito o della ricchezza, che dunque non sarebbe fondamentale. Eppure l'ottimizzazione sociale contemplata dal Pigou era strettamente legata al problema della distribuzione, e Pigou stesso sostenne che ("normalmente") una redistribuzione a favore dei meno abbienti non può che aumentare il benessere collettivo. Di fatto l'ottimizzazione sociale oggetto dell'economia del benessere è la massimizzazione di una funzione obiettivo collettiva, che non può trascurare la distribuzione; ma l'analisi di cui sopra questo problema non lo tocca nemmeno, perchè è di fatto un'analisi dell'equilibrio economico generale e non del benessere collettivo. Anche l'economia del benessere è stata formalizzata, come vedremo appresso; ciò che colpisce è che i teoremi fondamentali dell'equilibrio generale siano contrabbandanti come teoremi fondamentali "dell'economia del benessere", cosa che assolutamente non sono. La spiegazione naturale (anche se indimostrabile) di questa apparente assurdità è che è politicamente utile. Il problema della distribuzione è infatti il punto dolente del capitalismo; non potendo come vedremo rispondere a Pigou a livello di analisi, gli economisti borghesi apologeti del capitalismo ormai trionfante emarginano l'intera problematica con un espediente retorico. Se si riuscisse allo stesso modo di far passare come "teorema fondamentale del ambientalismo" il teorema che il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei cateti si darebbe allo stesso modo l'impressione che il problema dell'ambiente è senza interesse. 4.b.2. la funzione obiettivo sociale L'ottimizzazione sociale è il problema che si pone la "oiko-nomia" della "polis". Viene formalizzata come l'ottimizzazione individuale, ossia come un problema di massimizzazione vincolata; questo esige ovviamente una funzione obiettivo e una funzione vincolo definiti nello stesso spazio, ossia con gli stessi argomenti. La funzione obiettivo sociale è la cosidetta "funzione di benessere sociale" o FBS (in inglese "social welfare function" o SWF). Sulla scia della tradizione utilitaristica, che identifica l'obiettivo della società con la felicità dei suoi membri, si assume che il benessere sociale sia una data composizione delle utilità individuali, ) ) 8D 8E . Come al solito, queste funzioni tridimensionali possono essere rappresentate sul piano del foglio, proiettando la terza dimensione sulle altre due con la solita convenzione cartografica. Nei grafici della Figura 4.b.2.1 gli assi sono gli argomenti della funzione ), ossia le utilità degli individui; i luoghi di uguali valori di ) sono rappresentati dalle curve di iso-benessere sociale, che possiamo chiamare "curve d'indifferenza sociale" nello spazio delle utilità . Notiamo che tali curve sono invarianti a qualsiasi trasformazione monotonica (ossia che mantiene l'ordine) della funzione ), che pertanto può essere considerata ordinale, come la funzione 8 obiettivo del singolo; ma come si presumono misurabili i beni argomenti di 8, si presumono misurabili le utilità argomenti di ). 80


Si disegna normalmente e piÚ che altro per abitudine una collina di benessere sociale tondeggiante, simile a quelle delle utilità , come quella nel grafico (a); ma è ovvio che la forma particolare attribuita a tale funzione ha un suo significato. Per lo stesso Pigou, ad esempio, la funzione ) ha la forma "benthamiana" ) 8$ 8%, per cui le curve di indifferenza sociali sono lineari e parallele, e con pendenza uno/uno, come nel grafico (b): le utilità di tutti sono infatti misurate nelle stesse unità , e l'utilità dell'uno è socialmente un sostituto perfetto dell'utilità di un altro. Per lo stato predatore, pure, le curve di indifferenza sociali sono lineari e parallele, ma con pendenza zero o infinita, come nel grafico (c). Tale stato ha infatti a cuore il benessere del solo gruppo dirigente, e l'utilità degli altri, come quella delle bestie, ha peso zero: nel grafico ad esempio ) 8%, per cui conta l'utilità di % ("bianchi") e non quella di $ ("aborigeni"). Sia la funzione benthamiana che quella predatrice sono peraltro casi particolari della funzione additiva ) D8$ E8%, con coefficienti D e E diversi. Il caso metodologicamente piÚ interessante è quello del grafico (d), con curve di indifferenza sociali ad angolo acuto, con i vertici lungo una retta che passa per l'origine degli assi. L'angolo formato con gli assi da questa retta specifica il rapporto tra le utilità cui tiene questa società : da qualsiasi punto di questa retta, infatti, una mossa che aumenta l'utilità di uno lasciando invariata l'altra QRQ aumenta il benessere sociale, in sostanza perchè l'aumento dell'utilità media è piÚ che compensato dal peggioramento della distribuzione. In questo caso, ricordando che per gli individui si considerano "strettamente complementari" i beni se le curve di indifferenza sono ad angolo retto, possiamo dire che per la società le utilità degli individui sono "supercomplementari". Un esempio è dato dalla funzione ) 8$ 8% _8$ 8%_ : con utilità 5 e 5 il benessere è 10, con 6 e 5 è 9, con 6 e 5,5 è 10,5, con 7 e 5,5 è 9,5, con 6 e 6 è 12. Tale funzione si applica a una società che evidentemente preferisce di molto la fratellanza alla ricchezza media: come forse la Cina di Mao o la Cuba di Castro, o a livello diverso la madre di due figli poveri che rifiuta il dono che arricchirebbe uno di loro a condizione che l'altro venga lasciato nella miseria. Con ad esempio ) 8$ 8% _ 8$ 8%_ si rappresenta invece una società che tiene sempre molto al rapporto tra le utilità , ma le vorrebbe appunto nel rapporto 1 a 5: come forse il Sud Africa dell'DSDUWKHLG razzista, o la cattiva matrigna che rifiuterebbe un dono che avvicinerebbe Cenerentola al livello delle figlie. L'aspetto particolare della supercomplementarietà è che la società come tale può preferire situazioni preferite da nessuno dei suoi membri (nel caso della fratellanza, sia $ che % preferirebbero 7 e 5,5 a 5 e 5, ma la società preferirebbe 5 e 5). Questo non esige peraltro che la funzione ) sia imposta da chi decide per gli altri (sia Mao, Castro, o la madre); può scaturire anche da un contratto sociale, come nel caso delle corporazioni medievali, o anche spesso dei sindacati, che mirano alla parità di guadagno dei membri. Torneremo sulle funzioni di benessere sociale a proposito della redistribuzione; notiamo solo con quest'ultimo esempio che non rispettano necessariamente il criterio paretiano associato alla non sazietà (criterio che non può ovviamente essere recuperato, come si vorrebbe per le funzioni di utilità individuali, con lo smaltimento gratuito: il benessere degli individui è quello che è, e non se ne può buttar via un eventuale eccesso). Ne consegue che lo stesso criterio paretiano non è, come si crede, un criterio oggettivo, "scientifico", senza giudizi impliciti di valore ("value-free"). Chi affidandosi a tale criterio ritiene che qualsiasi miglioramento per almeno un individuo che non comporti un peggioramento per nessuno comporti necessariamente un miglioramento collettivo limita le forme possibili delle curve d'indifferenza sociali, e esprime almeno implicitamente il preciso giudizio di valore che alla distribuzione non si dà molta importanza. 81


4.b.3. il vincolo e l’equilibrio La massimizzazione della funzione obiettivo sociale ) ) 8$ 8% , che nello spazio 8$ 8% aumenta verso nord-est (anche se non necessariamente, abbiamo detto, verso nord o verso est) è ovviamente vincolata direttamente dalla curva delle utilitĂ possibili, che possiamo identificare con 9 9 8$ 8% ; indirettamente, è vincolata dalla disponibilitĂ dei beni ; e <, e dalle funzioni di utilitĂ 8$ e 8% definite sui consumi di quei beni. Nel grafico superiore della Figura 4.b.3.1 sono raffigurate nello stesso spazio delle utilitĂ la funzione ), rappresentata da alcune curve di indifferenza sociale, e la funzione 9, la curva delle utilitĂ possibili. Data due funzioni differenziabili, è ovvio che il massimo di ) dato il vincolo 9 corrisponde a un'equivalenza dei tassi marginali di sostituzione, nell'obiettivo e nel vincolo, ossia a un equilibrio di tangenza: nel grafico, l'ottimo sociale corrisponde al punto . Siccome l'ottimo sociale si trova sul vincolo, e il vincolo è il luogo delle combinazioni di utilitĂ Pareto-efficienti, è ovvio che l'ottimo sociale è Pareto-efficiente. Il benessere sociale ) è funzione delle utilitĂ , ma queste sono funzioni dei consumi individuali, per cui il benessere sociale è a sua volta funzione dei consumi individuali. In generale, ) ) 8$ ;$ <$ 8% ;% <%

; sostituendo per le utilità si ottiene la funzione che esprime il benessere direttamente in funzione dei beni ("goods"), ) )* ;$ <$ ;% <% . Immaginiamo per fare un esempio usando funzioni semplicissime che ) 8$ 8% , 8$ ;$ <$ , 8% ;% <% ; con le dovute sostituzioni si ottiene il benessere come funzione dei beni )* ;$ <$ ;% <%. Notiamo tre cose. Primo, questa relazione tra il benessere e i consumi individuali è comunque mediata dalle funzioni di utilità , per cui se cambia ad esempio 8$ cambia di riflesso anche )*; è ben diversa dunque da un eventuale funzione in cui il benessere sociale è GLUHWWDPHQWH funzione dei consumi individuali, e invariante alle variazioni delle utilità individuali ("Mao vuole che tutti portino la divisa blu"). Secondo, e di conseguenza, non si può in generale costruire )* senza misurare le utilità individuali e ponderarle attraverso una funzione ). Il massimo della funzione )* è infatti invariante a tali misure e tali pesi solo in casi molto particolari: se ad esempio ) rispetta il criterio paretiano della non sazietà , $ ama ; e odia perfino l'odore di <, e % ama < e odia perfino l'odore di ;, allora con ;$ ; e <% < si massimizzano contemporaneamente 8$, 8% e ). Bastano infatti le curve di indifferenza degli individui per identificare la distribuzione dei beni preferita da ambedue; e se le curve di indifferenza sociale non possono avere pendenze positive quella distribuzione massimizza ) per qualsiasi ponderazione delle utilità , e dunque per qualsiasi trasformazione monotonica delle stesse. Terzo, gli argomenti della questa funzione )* si trovano nello spazio dei beni, ossia della scatola di Edgeworth; questa si può dunque arricchire di una quinta dimensione, verticale rispetto al piano dei beni come le dimensioni utilità , sulla quale misuriamo il livello di ). Il benessere ) rappresenta dunque una terza collina, che possiamo proiettare nel rettangolo ; < usando la solita convenzione cartografica. Questa terza collina è derivata di fatto dalle altre due: dato il piano della nostra scatola (il tavolo del grafico inferiore della Figura 4.a.1.1) da un punto qualsiasi che definisce le allocazioni dei beni saliamo verticalmente fino a incontrare le due superfici delle utilità individuali, di cui misuriamo i valori, per poi inserire questi nella funzione ) 8$ 8% e ottenere i corrispondente valore di ). Mentre però le due colline delle utilità continuano a salire come ci si allontana dal loro punto di origine, la terza collina, del benessere sociale, ha una sommità all'interno dello spazio della scatola, come nel grafico centrale della Figura 4.b.3.1; la proiezione sul piano dei beni si presenta dunque come nel grafico inferiore della Figura, con un punto interno di altezza massima, e per le altezza inferiori curve chiuse ad anello intorno a questo punto. 82


Il grafico inferiore si ricostruisce facilmente da quello superiore, anche perchè già sappiamo che nessun punto del grafico superiore esterno al vincolo compare in quello inferiore, mentre ogni punto sul vincolo compare una volta in ambedue i grafici, e ogni punto interno al vincolo nel grafico superiore compare due volte in quello inferiore. Il punto di massimo ) è sul vincolo, e dunque sulla curva dei contratti, come lo sono i punti e . Il pezzo della curva d'indifferenza sociale tra i punti e nel grafico superiore corrisponde nel grafico centrale all'anello di iso-) che passa per i punti e della curva dei contratti. Il punto nel grafico superiore, non Pareto-efficiente, è su quella stessa curva di indifferenza sociale, con la stessa utilità per $ che non al punto e la stessa utilità per % che non al punto ; nel grafico centrale compare ai punti e , alle due intersezioni della curva di indifferenza di $ che passa per e della curva di indifferenza di % che passa per , e l'anello di iso-) che passa per e passa dunque per e . E cosÏ via. Notiamo che con curve di indifferenza sociali in pendenza negativa nello spazio delle utilità gli anelli di iso-) hanno curvatura maggiore delle curve di indifferenza individuali, per cui l'anello che passa ad esempio per i punti e è interno all'area lenticolare definito dalla curva di indifferenza di $ che passa per e dalla curva di indifferenza di % che passa per . Con tali curve di indifferenza sociali, infatti, il calo di 8% è compensato da un adeguato aumento di 8$, e viceversa. Se si spostano i consumatori dalla curva dei contratti al punto lungo una curva di indifferenza di $ si riduce l'utilità di %, ma non aumentando quella di $ cala pure ); per mantenere ) bisogna che aumenti l'utilità di $. Aggiungiamo a scanso di equivoci che gli anelli di iso-) sono di fatto curve di indifferenza sociali, nello spazio dei beni; ma chiamarle cosÏ può creare confusione. Le curve di indifferenza sociali nello spazio delle utilità , come le curve di indifferenza individuali nello spazio dei beni, rappresentano infatti solo la funzione obiettivo, e sono invarianti per mutamenti del vincolo corrispondente. Non cosÏ gli anelli di iso-), che sono specifici al vincolo dei beni disponibili e dei gusti dati. Se aumentano le disponibilità di beni, ad esempio, si ingrandisce la scatola nello spazio dei beni e si allenta il vincolo nello spazio delle utilità . Nello spazio dei beni le curve di indifferenza individuali rimangono invarianti rispetto ai propri assi; gli anelli di iso-) rimangono invarianti solo rispetto alle combinazioni delle utilità (perchè rimangono invarianti le curve di indifferenza sociali nello spazio delle utilità ), per cui si allargano con la scatola. La collina sociale infatti si innalza: il vecchio punto di massimo pure diventa un anello, e il nuovo massimo piÚ alto si trova all'interno di esso. 4.b.4. i teoremi fondamentali dell'economia politica Se dunque come abbiamo ipotizzato il benessere collettivo è una composizione delle utilità individuali, e le composizioni possibili di queste sono vincolate unicamente dalle risorse date, allora il benessere collettivo è a sua volta vincolato dalle allocazioni Paretoefficienti riassunte dalla curva delle utilità possibili, e l'allocazione che massimizza il benessere sociale sarà una particolare di queste. Ricordando il secondo teorema dell'economia del benessere possiamo concludere che se le funzioni di utilità rispettano le note condizioni LQ XQ VLVWHPD FRPSOHWR GL PHUFDWL O DOORFD]LRQH PLJOLRUH SHU OD VRFLHWj SXz HVVHUH UDJJLXQWD FRPH HTXLOLEULR GL FRQFRUUHQ]D SHUIHWWD GD H VROR GD GHWHUPLQDWH GLVWULEX]LRQL GHOOD ULFFKH]]D. Siccome poi l'allocazione ottimale è solo una di un'infinità di allocazioni Pareto-efficienti e dunque di equilibri concorrenziali, OH SUREDELOLWj FKH O DOORFD]LRQH PLJOLRUH SHU OD VRFLHWj VFDWXULVFD GD XQD GLVWULEX]LRQH FDVXDOH GHOOD ULFFKH]]D VRQR LQILQLWHVLPDOL. I teoremi fondamentali dell'economia del benessere sono questi; ma siccome quella denominazione è già registrata proponiamo di chiamarli L WHRUHPL IRQGDPHQWDOL GHOO HFRQRPLD SROLWLFD. 83


L’analisi dell’equilibrio generale dimostra infatti che un sistema completo di mercati concorrenziali (o un sistema incompleto corretto dall'intervento dello stato allocatore) è efficiente nell'adattare l'allocazione delle risorse alla domanda privata, perchè alloca i beni disponibili agli usi con i prezzi di domanda privati più alti; gli usi extramarginali, esclusi, valgono ovviamente di meno, VXO PHUFDWR, di quelli inframarginali, soddisfatti. I prezzi di domanda privati sono come sappiamo dei benefici marginali privati monetizzati, ossia delle utilità private convertite in dollari attraverso la ponderazione con un coefficiente personale che scaturisce dall'equilibrio dei singoli e dipende dalla ricchezza ("il reddito"), oltre che dai gusti, di ognuno. Se il benessere sociale è una composizione delle utilità private, i benefici marginali ("prezzi di domanda") sociali legati ai divers usi dei beni sono a loro volta gli stessi benefici marginali privati, convertiti in benefici sociali attraverso i coefficienti attribuiti ad essi dalla funzione di benessere sociale. L'obiettivo è ovviamente quello di allocare i beni disponibili agli usi con i benefici marginali sociali più alti; lo raggiunge il mercato concorrenziale, altrettanto ovviamente, se la ponderazione privata con la ricchezza corrisponde a quella sociale. Se la distribuzione della ricchezza è buona, dunque, il maggior valore di mercato corrisponde al maggior valore sociale; o meglio, chiamiamo buona la distribuzione della ricchezza che porta a quel risultato. Nella letteratura del vecchio socialismo spicca la critica al sistema di mercato che convoglia il latte al gattino della signora benestante e ne priva il bambino del povero: l'errore ormai palese di tale critica è quello di attribuire al mercato un risultato non desiderabile che è invece da imputare unicamente alla cattiva distribuzione della ricchezza. Se infatti la distribuzione della ricchezza non è buona, il mercato che funziona non può che portare a risultati anch'essi non buoni. Un coltello funziona bene se taglia bene; se è usato per ammazzare piuttosto che per tagliare il pane la colpa c'è, ma non è del coltello, che taglia quel che gli si dà da tagliare. Così pure LO PHUFDWR q XQR VWUXPHQWR QHXWUR, che adatta l'allocazione ai gusti mediati dalla distribuzione della ricchezza, qualsiasi essa sia; come capirono i "socialisti di mercato" è pertanto XWLOH D XQD VRFLHWj IRUWHPHQWH XJXDOLWDULD FRPH D XQD FRQ IRUWL VSHUHTXD]LRQL. Per ottenere dal mercato i risultati che vuole (che non sono necessariamente ugualitari), però, la società deve creare una distribuzione della ricchezza compatibile con tali risultati. La "mano invisibile" della concorrenza smithiana porta infatti al raggiungimento di obiettivi collettivi solo se la distribuzione della ricchezza è quella voluta; e siccome non si ottiene per caso OR VWDWR KD DQFKH XQD IXQ]LRQH UHGLVWULEXWULFH. Notiamo che nel contesto del modello, peraltro, la distribuzione della ricchezza è interamente "a monte" del mercato, perlomeno come allocazione reale, anche se è poi il mercato che genera (e può cambiare) i prezzi dei beni posseduti. Sfugge dunque interamente al modello la continua redistribuzione della ricchezza reale che sembra invece caratteristica delle economie "di mercato": problema centrale per la teoria marxista, ma non come già sappiamo per la teoria borghese. 4.b.5. l'efficienza economica e l'efficienza paretiana Si consideri la Figura 4.b.5.1, nello spazio delle utilità. Manteniamo inizialmente le solite ipotesi, e in particolare l'ipotesi che l'unico vincolo al benessere collettivo sia la curva delle utilità possibili (il vincolo 9 ). In tal caso l'allocazione migliore è data dal punto su tale vincolo, raggiungibile come equilibrio concorrenziale ad esempio dal punto ; se lo stato porta la distribuzione della ricchezza al punto , il mercato porta poi all'equilibrio desiderato, il cosiddetto "ottimo". Le cose si complicano in modo interessante se si ipotizza un secondo vincolo, 84


qualsiasi, che impedisce il raggiungimento dell’ottimo; nel gergo degli economisti, il miglior punto effettivamente raggiungibile è allora il "secondo ottimo" (dall'inglese "second best", di uso comune). Nella Figura, ipotizzando il vincolo 9 , l'area raggiungibile è quella interna ad ambedue i vincoli; il secondo ottimo è dato allora dal punto , all'interno della curva delle utilità possibili, che non è localmente vincolante. Sarebbero sempre raggiungibili le allocazioni sulla curva delle utilità possibili tra i punti e ; ma queste sono senza interesse, in quanto comportano un benessere inferiore a quello ottenuto al punto . Può essere utile considerare il caso analogo del singolo consumatore concorrenziale che per qualche secondo vincolo non può raggiungere l'ottimo privato di tangenza tra il vincolo di spesa e la curva di indifferenza. In tal caso ovviamente ottimizza con una tangenza fra la curva di indifferenza più alta effettivamente raggiungibile e il secondo vincolo, che è quello localmente efficace, senza esaurire la spesa possibile; sarebbe palesemente assurdo da parte sua comprare una combinazione diversa di beni, che lo soddisfa meno, pur di esaurire la spesa. Tornando alla Figura, immaginiamo che si applichi agli Stati Uniti d'anteguerra, e che il vincolo politico del momento sia rappresentato non da 9 , che eliminiamo, ma dalla distribuzione della ricchezza esistente, al punto , che porta con la concorrenza al punto : sulla curva delle utilità possibili, ma spiazzato rispetto al punto in modo da lasciare troppo a % ("i benestanti") e troppo poco a $ ("gli altri", i lavoratori). Il punto sarebbe stato raggiunto riconoscendo i sindacati e compensando la mancanza di ricchezza con il potere di mercato: abbandonando l'equilibrio di concorrenza, ma aumentando il benessere sociale. Notiamo in merito il cosiddetto (in inglese) "trade-off between equity and efficiency", che si può rendere come la necessità di scegliere tra migliorare la distribuzione e mantenere l'efficienza, garantita dal mercato. Fra gli economisti, e con pochissime voci dissenzienti, tale "trade-off" è un luogo comune, trattato anche da studiosi autorevoli; e porta ovviamente a proporre compromessi in cui si interviene in qualche modo per attenuare la povertà scandalosa, evitando però di toccare più che tanto l'equilibrio efficiente di mercato. Alla luce di quanto sopra, però, tale "trade-off" è inesistente; che ci si creda dimostra ancora una volta la debolezza della logica di fronte alla retorica, e alle preferenze politiche ("borghesi", nel caso) che questa determinano. L'efficienza economica sta infatti nel raggiungimento dell'obiettivo di massimizzare il benessere dati i vincoli, ed è tautologicamente desiderabile; l'efficienza degli economisti, paretiana, non lo è, e ne ha l'apparenza solo perchè viene chiamata appunto "efficienza". L'efficienza o ottimo di Pareto, cui portano i mercati, è una posizione dalla quale non sono possibili scambi volontari (ulteriori); se si fosse chiamata VWDOOR SDUHWLDQR a nessuno verrebbe in mente di cercare un compromesso tra la distribuzione buona e lo stallo. Che l'equilibrio di mercato concorrenziale sia efficiente nel senso paretiano non significa poi che sia desiderabile, come si è appena visto: raggiungere l'efficienza paretiana significa solo raggiungere il vincolo che chiamiamo la curva delle utilità possibili, ma il mero raggiungimento di tale vincolo non è un obiettivo, come non è un obiettivo per il singolo il mero esaurimento della spesa. L'obiettivo in un caso come l'altro è unico (il massimo benessere, la massima utilità); il vincolo delle utilità possibili come il vincolo di spesa è solo un vincolo, e se non è LO vincolo localmente efficace diventa semplicemente irrilevante. Si nota qui un secondo modo in cui la retorica travisa la logica. L'efficienza paretiana nello spazio delle utilità corrisponde al massimo dell'utilità di uno data l'utilità degli altri; corrisponde alla curva delle utilità possibili, che a sua volta corrisponde alla curva dei contratti nella scatola di Edgeworth. In quel contesto, come abbiamo visto, O XQLFR vincolo alle composizioni pareto-efficienti delle utilità è dato dalle risorse diponibili. Nel contesto del secondo ottimo, però, vi è anche un'altro vincolo. Torniamo alla 85


Figura, con i due vincoli 9 e 9 , che abbiamo identificato seguendo la prassi come la curva delle utilità possibili o luogo dei punti Pareto-efficienti, e l'altro vincolo. Questa prassi retorica è però fuorviante: a ben vedere, se i vincoli sono due, la curva delle utilità effettivamente possibili è quella che rispetta ambedue i vincoli, ossia il pezzo di 9 dall'asse verticale fino al punto , e il pezzo di 9 da quel punto all'asse orizzontale. Non solo: per lo stesso motivo i punti Pareto-efficienti, che massimizzano l'utilità dell'uno data l'utilità degli altri con i vincoli effettivi, si trovano non solo e sempre lungo 9 , che tiene conto solo del vincolo delle risorse, ma solo e sempre sulla curva delle utilità effettivamente possibili, ossia tanto sul pezzo di 9 a sinistra del punto quanto sul pezzo di 9 a destra di questo. All'interno della stretta logica paretiana, dunque, il punto su 9 è "efficiente" (di stallo) quanto il punto o il punto ; e ancora una volta non verrebbe in mente a nessuno di cercare un compromesso tra il punto "più giusto" e il punto riconosciuto QRQ "più efficiente". 4.c. considerazioni sull'equilibrio 4.c.1. la natura dell'equilibrio economico Questa confusione tra efficienza paretiana con e senza tutti i vincoli rilevanti è una che la microeconomia si porta appresso: l'abbiamo di fatto già incontrata, senza sottolinearla, ma possiamo adesso riprenderla in considerazione. Abbiamo detto, ad esempio, che gli equilibri di monopolio semplice sono inefficienti, in quanto non generano tutta la rendita; l'equilibrio è tale che uno scambio ulteriore porterebbe ad un miglioramento per entrambi i contraenti, esattamente come nel disequilibrio iniziale. Ma allora anche l'equilibrio è un disequilibrio, e lo scambio continua: si arriva così al monopolio semplice sequenziale, che genera alla fine tutta la rendita. Di fatto il monopolio semplice non è sequenziale, per l'ovvio motivo che la controparte capirebbe il gioco e aspetterebbe i prezzi più bassi: tenendo conto di questo vincolo aggiuntivo, l'equilibrio di monopolio semplice è davvero un equilibrio. Ma lo è proprio perchè i contratti ulteriori sono di fatto inconciliabili con quello iniziale; tenuto conto di tutti i vincoli, e non solo dei beni a disposizione, non sono possibili altre mosse paretiane, per cui l'equilibrio raggiunto è di fatto Pareto-efficiente. Allo stesso modo, è facile dimostrare che l'equilibrio di monopolio semplice è dominato, in senso paretiano, da un contratto alternativo, in cui la controparte offre al monopolista un premio se riduce il prezzo a quello concorrenziale: come nel monopolio sequenziale, si tratta di generare, e di spartirsi, tutta la rendita. Ancora una volta, dunque, l'equilibrio di monopolio semplice non sarebbe teoricamente un equilibrio, e verrebbe spiazzato da tali contratti alternativi; se non succede è ovviamente perchè "la controparte" del monopolista è fatta di tanti individui che hanno difficoltà a organizzarsi per proporre tale contratto (e se per caso si organizzano, non hanno poi motivo di proporre quel tipo di contratto). Ancora una volta, dunque, il monopolio semplice è di fatto un equilibrio proprio perchè da quella posizione non vi sono mosse paretiane. In sostanza, dunque, si arriva alla conclusione che WXWWL JOL HTXLOLEUL GL PHUFDWR VRQR SDUHWLDQL, o non sono equilibri; ma si capiscono come paretiani solo considerando tutti i vincoli del caso. Il punto è particolarmente importante per la microeconomia applicata: i problemi interessanti sono infatti gli equilibri (le configurazioni mantenute nel tempo) che non si capiscono subito, perchè a prima vista, ossia utilizzando il semplice modello canonico, sembrano Pareto-inefficienti; si considerano risolti se si identifica il vincolo aggiuntivo, ossia l'arricchimento del modello, che spiega perchè di fatto sono Pareto-efficienti. 86


4.c.2. la natura dello sfruttamento Il problema della retorica si ripropone a proposito dello sfruttamento: il vocabolo è carico di connotati negativi, e ciò che si qualifica come tale è ciò che si vuole condannare come violazione della giustizia commutativa. Premesso dunque che è sfruttato chi riceve dallo scambio meno del dovuto, possiamo utilizzare gli strumenti analitici di cui sopra per identificare tre diversi concetti di giustizia, e di sfruttamento, presenti nella letteratura economica. La posizione più diffusa tra gli economisti moderni ("neoclassici") identifica il giusto prezzo con il prezzo di equilibrio concorrenziale, ricalcando in sostanza la dottrina cristiana elaborata da San Tommaso. In uno scambio volontario, informato, e senza discriminazione perfetta, ambedue i contraenti ottengono un guadagno; ma si considera sfruttato chi paga un prezzo maggiore, o riceve un prezzo minore, di quello di concorrenza. Nel primo grafico della Figura 4.c.2.1 l'equilibrio di concorrenza è il punto ; l'operatore $ è sfruttato se l'equilibrio è ad esempio al punto , meno favorevole a $ e più favorevole a % del punto . Con tali definizioni è ovvio che si esclude lo sfruttamento nei mercati concorrenziali, e dunque nel capitalismo concorrenziale; lo si associa invece al monopolio. Una posizione diversa è adottata da Friedman, abilissimo economista di destra restìo a condannare anche i monopoli privati. Friedman identifica lo sfruttamento con la perdita rispetto alla posizione iniziale del contraente, ossia con una mossa non paretiana, come nel secondo grafico della Figura. Con tale definizione è ovvio che lo spazio per lo sfruttamento in un'economia di mercato si restringe fin quasi a scomparire: non può esistere nello scambio volontario informato, nemmeno in regime di monopolio, e richiede dunque o la coercizione, o l'inganno, o come minimo l'ignoranza. Afferma dunque Friedman che il capitalismo anche monopolistico è un sistema per natura senza sfruttamento. La posizione speculare a quella di Friedman è quella tradizionale dei marxisti, per i quali il capitalismo comporta lo sfruttamento del lavoro anche se i mercati sono concorrenziali. Tale sfruttamento è illustrato nel terzo grafico della Figura; è ovvio che corrisponde direttamente alla differenza tra l'equilibrio reale e quello giusto, che è definito in termini assoluti e non (come dagli altri) in funzione della posizione che precede lo scambio. Per i marxisti i proletari non sono poveri perchè sono sfruttati, sono sfruttati perchè sono poveri, e sono poveri perchè non possiedono i mezzi di produzione (il capitale) che spetterebbe loro. 4.c.3. la natura della redistribuzione Si riconsideri la scatola di Edgeworth, completata con gli anelli di iso-) e l'allocazione particolare che massimizza il benessere. Si può raggiungere quell'allocazione ottimale, si è detto, scegliendo una distribuzione iniziale della ricchezza dalla quale si arriva a quella desiderata attraverso lo scambio concorrenziale. Una critica a quanto sopra è stata mossa osservando che per scegliere l'allocazione iniziale giusta in funzione di quella finale desiderata lo stato deve "sapere tutto", come appunto il pianificatore Baroniano, e che se conosce l'allocazione finale desiderata tanto vale che intervenga per imporre direttamente questa. La seconda parte di tale critica è ottusa. Nel contesto della scatola di Edgeworth è infatti ovvio che "tanto vale" imporre direttamente l'allocazione ottimale; dovrebbe essere altrettanto ovvio che questo è vero perchè abbiamo ipotizzato un'economia di puro scambio, in cui "le risorse" che costituiscono la ricchezza da distribuire sono già beni finali di consumo, cosa che in realtà non sono. Di fatto, il vantaggio del mercato è quello intuito da Smith, ossia che fa leva sull'interesse privato per raggiungere uno scopo comune; ma questo compare in particolare nella sfera della produzione, che come abbiamo già notato riesce 87


difficile da incentivare nei regimi che allocano direttamente i beni finali. Notiamo anche un secondo motivo per cui il giusto oggetto della redistribuzione è la ricchezza, ossia la proprietà dei fattori di produzione, e non il prodotto. Lo stato può infatti lasciare al mercato la produzione, e la distribuzione del prodotto data la ricchezza (anche se con risultati migliorabili se ci sono "fallimenti dei mercati"); non può non intervenire nella distribuzione stessa della ricchezza. Si immagini il seguente dialogo, in un paese di recente colonizzazione: "Vattene dalla mia terra." "Perchè è tua?" "Perchè l'ho avuta da mio padre." "E lui come l'ha avuta?" "Si è battuto per averla." "Io per averla sono pronto a battermi con te." Il punto è che la società civile non può non regolare in qualche modo la trasmissione della ricchezza da una generazione all'altra; e qualsiasi regola è convenzionale. Nei paesi anglosassoni si attribuisce ai morti la capacità di disporre senza limiti, come se fossero ancora vivi; in Italia è disponibile un terzo della proprietà , il resto riservato agli eredi legittimi; la comunità potrebbe avocare a se l'intera proprietà dei morti, o anche (al rischio di tafferugli) considerarle "res nullius". Lo stato non solo "deve" intervenire come redistributore per ottenere la distribuzione desiderata, ma in bene o in male non può comunque evitare di intervenire in chiave redistributiva (e interviene di fatto pesantemente, in tantissimi modi che vedremo meglio poi). Rimane la prima parte della critica, sulle informazioni necessarie per allocare la ricchezza in modo ottimale; e questa suggerisce varie riflessioni. Per un verso, infatti, sembra piÚ una critica a Hayek che a Barone: ci dice infatti che per pianificare un equilibrio ottimale certe informazioni sono necessarie, anche se si usa il mercato come strumento di allocazione. Senza tali informazioni (e l'ottimizzazione della distribuzione sulla base di esse) il mercato "da solo" può al massimo raggiungere l'efficienza paretiana, ma come abbiamo visto questo significa raggiungere il vincolo piuttosto che l'obiettivo. All'atto pratico (e anche su questo torneremo), è ovvio che tali informazioni non sono di fatto disponibili. Anche per questo motivo, l'oggetto della redistribuzione diventa la ricchezza (la proprietà , il potere di mercato, il "capitale umano" creato anche dalla scolarità ) in se stessa: non potendo conoscere i gusti e le capacità di godimento si cerca insomma di far giustizia sulle possibilità offerte ai singoli, ossia sui vincoli, piuttosto che sugli equilibri finali. 4.c.4. la natura dei gusti e del progresso Il progresso è l'aumento del benessere, che consideriamo sempre come una composizione delle utilità private. Nel modello contemplato il benessere raggiungibile è limitato dalle disponibilità dei beni, date le funzioni di utilità : si massimizza ) ) 8$ ;$ <$ 8% ;% <%

, soggetto al vincolo che sono date le somme dei consumi individuali ; e <. Da un massimo di ), dunque, l'unico modo di aumentarlo è quello di allentare il vincolo aumentando la disponibilità dei beni. Il messaggio pratico è che lo stato deve favorire l'aumento della produzione; non a caso l'indicatore pratico del progresso è l'aumento del Prodotto Interno Lordo, complessivo o pro capite. Tralasciamo in questa sede i problemi delle statistiche macroeconomiche, e delle convenzioni contabili che fanno del Prodotto Interno Lordo una misura assai imperfetta della stessa produzione (non contando ad esempio i danni ambientali); e dovrebbe essere inutile ripetere che l'aumento della produzione non migliora necessariamente il benessere. Ci soffermiamo invece sull'impostazione stessa del problema, che non è, come potrebbe sembrare, priva di contenuto politico. Immaginiamo per essere piÚ precisi che le IXQ]LRQL GL XWLOLWj non siano date, ma in qualche modo PDQLSRODELOL. Nelle economie capitaliste vi è infatti l'industria della 88


pubblicità; questa potrebbe essere dedicata non solo a informare i consumatori, ma anche a modificarne i gusti, descrivendo il "di più" in modo da rendere meno soddisfacente ciò che già si consuma. In questa prospettiva il sistema capitalista sembrerebbe efficientissimo nel produrre beni, ma poco efficiente nel trasformarli in utilità e dunque in benessere: come aumentano ; e < e si sale più in alto sulle colline di utilità le stesse colline si abbassano, e il guadagno netto di utilità, se c'è, è comunque ridimensionato. Alcuni studi di psicologia economica portano ad una versione radicale di tale argomento, associando il livello di benessere individuale ("l'utilità") non ai risultati raggiunti, ma al rapporto tra i risultati raggiunti e quelli attesi: sta bene insomma chi sta meglio del previsto, e male chi sta peggio del previsto, a prescindere dal livello effettivamente raggiunto. Sono stati dunque felici gli americani negli anni Cinquanta e Sessanta, perchè erano cresciuti durante la Grande Depressione, si aspettavano la miseria, e hanno trovato l'agiatezza; sono stati infelici nei decenni successivi perchè quelli erano cresciuti nel dopoguerra, si aspettavano un continuo rapido sviluppo, e hanno trovato i bassi tassi di crescita dalla crisi del petrolio fin quasi alla fine del secolo; adesso, come testimonia la Borsa, sono euforici... Se così è, la crescita economica come tale non aumenta il benessere, se non nella fase iniziale, quando scompare la fame. Riconsideriamo pure la Cina di Mao, che aveva anche le sue campagne produttivistiche (il "Grande Salto in Avanti"), ma soffermiamoci sui consumi limitati ("riso e divisa blu"). Escludiamo per ipotesi che fossero il riflesso di una funzione di benessere sociale definita direttamente sui beni ("Mao vuole che tutti portino la divisa blu"), e conserviamo l'ipotesi del benessere composizione delle utilità individuali. Si prospetta l'ipotesi alternativa che il comunismo cinese fosse anche in questo speculare al capitalismo occidentale, e che la pubblicità di stato ("la divisa blu è bella") fosse mirata a rendere SL soddisfacente ciò che già si consumava: in sostanza, a rendere più efficiente non (solo) la produzione di beni, ma la loro trasformazione in utilità e dunque in benessere.

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5. L’EQUILIBRIO GENERALE: MERCATI

IMPRESA E INDUSTRIA IN UN SISTEMA DI

5.a. l’economia di produzione 5.a.1. i mercati e l’arbitraggio Abbiamo considerato finora l’equilibrio del singolo consumatore, e di un’economia di puro scambio fra consumatori. Allarghiamo adesso il discorso alla produzione, per considerare l’equilibrio dei singoli produttori, e poi di un’economia di produttori e consumatori. Produttori e consumatori, e non solo. L’economia di mercato dei modelli microeconomici è infatti animata da una molteplicità di LPSUHQGLWRUL, puri e quasi fantomatici procacciatori di guadagni di DUELWUDJJLR; la loro attività (e concorrenza) rende coerente il sistema dei prezzi, e fa scomparire i loro stessi guadagni. L'esempio canonico dell'arbitraggio ci viene dal mercato delle valute: se il dollaro vale poniamo lire 1.900, e la sterlina lire 3.100 o $1.40, ci si può rapidamente arricchire trasformando 1.900.000 lire in $1.000, questi in £714,29, e queste in 2.214.286 lire, ripetendo l'operazione all'infinito. Queste stesse operazioni però creano una domanda netta di dollari contro lire, che porta il dollaro oltre le 1.900 lire; di sterline contro dollari, che porta la sterlina oltre $1.40; e di lire contro sterline, che porta la sterlina sotto 3.100 lire. L'operazione continua finchè non si raggiunge ad esempio $1 = 2.000 lire, £1 = 3.000 lire, e £1 = $1.50, che è appunto una configurazione di equilibrio con guadagni da arbitraggio nulli. Va sottolineato che O HTXLOLEULR GL XQ VLVWHPD GL PHUFDWL VL LGHQWLILFD appunto FRQ O HOLPLQD]LRQH GHL JXDGDJQL GL DUELWUDJJLR. Questa definizione dell'equilibrio implica a sua volta quanto già detto, che gli equilibri di mercato sono necessariamente Pareto-efficienti (tenuto conto di tutti i vincoli del caso). Infatti in un economia di puro scambio, e con l'unico vincolo delle risorse, la diversità dei tassi marginali di sostituzione dei diversi consumatori crea opportunità di arbitraggio: se una mela è l'equivalente di due banane per $ e di tre banane per %, un imprenditore si può arricchire prendendo in prestito una mela, scambiandola con % con tre banane, scambiando due di queste con $ per la mela che deve restituire, e lucrando dunque una banana, per poi ripetere l'operazione; ma l'arbitraggio stesso sposta i consumi in modo da far convergere i tassi marginali di sostituzione (i consumi di $ variano nella direzione "più banane, meno mele", per cui per $ aumenterà il valore in banane di ogni mela; i consumi di % variano in modo speculare). Quando questi tassi sono uguali non ci sono più guadagni di arbitraggio, e il consumo è Pareto-efficiente: si è raggiunto l'equilibrio. Oggi, e grazie anche allo sviluppo della telematica, gli economisti considerano l'arbitraggio, e dunque il raggiungimento dell'equilibrio, praticamente istantaneo. Un economista, si racconta, passeggiava con un amico per le vie della città. A un certo punto l'amico vede per terra un biglietto di banca e esclama: "Guarda! Un biglietto da 100.000 lire!" Risponde l'economista: "Impossibile. Se ci fosse veramente, qualcuno l'avrebbe già raccolto." 5.a.2. la produzione e l'impresa La SURGX]LRQH è una forma di arbitraggio, attraverso la modifica utile delle caratteristiche che definiscono i beni, ossia la trasformazione di beni in altri beni; anche qui, dunque, l'equilibrio si raggiunge quando svaniscono i guadagni dall'arbitraggio. Le caratteristiche che definiscono i beni comprendono a loro volta non solo gli aspetti fisicochimici ma anche il tempo e il luogo (a meno che queste dimensioni non siano vanificate, ossia ridotte a un unico punto, l'una da tassi di sconto nulli e l'altra da costi di trasporto nulli). 90


La produzione comprende pertanto non solo le trasformazioni materiali, come la riconfigurazione delle fibre della lana greggia in filato e poi in tessuto, ma anche le trasformazioni nel tempo e nello spazio. Il commercio è dunque "produttivo" quanto l'agricoltura o l'industria, proprio perchè sono beni diversi gli stessi tessuti di lana a Brescia piuttosto che a Biella, o nel 2000 piuttosto che nel 1999. La produzione è gestita dalle LPSUHVH: queste sono organizzazioni dirette da un imprenditore e dedite appunto alla produzione a fine di lucro. Le decisioni che determinano l'equilibrio economico sono prese dunque (prescindendo per ora dall'intervento pubblico) da un lato dalle imprese ("i produttori"), dall'altro dalle famiglie ("i consumatori"); le une come le altre operano scelte formalizzate come ottimizzazioni vincolate, e l'impresa produce beni come il consumatore "produce utilità". La differenza di "prodotto" tra l'impresa e il consumatore è però fondamentale, sotto due profili. Primo, il prodotto dell'impresa si misura senza problemi, con un punto zero e un'unità di misura ben definiti, per cui all'interno della produzione non si pongono i problemi che hanno portato a ragionare sulle utilità in termini ordinali. Secondo, l'utilità dei consumatori è l'argomento diretto della funzione di benessere sociale, mentre il bene prodotto dall'impresa incide sul benessere sociale solo attraverso l'utilità che rende nel consumo: si può dire dunque, se si vuole, che lo stato-associazione è lo stato delle famiglie consumatrici e non delle imprese produttrici, per cui queste sono puramente strumentali. In pratica, dunque, all'interno della logica del modello microeconomico il benessere del consumatore è importante, e ci si preoccupa se il consumatore "sta male"; il benessere dell'impresa è irrilevante, e non ci si preoccupa minimamente se questa "sta male" e magari muore. 5.a.3. i beni, i servizi e i mercati La produzione gestita dalle imprese è una trasformazione onerosa: per produrre beni si consumano i IDWWRUL GL SURGX]LRQH rappresentati da altri EHQL (la materia prima, il carburante), e dai VHUYL]L resi dal capitale produttivo (gli edifici, i macchinari) e dal lavoro. La distinzione tra i beni e i servizi consumati dalla produzione corrisponde a sua volta alla distinzione tra EHQL QRQ GXUHYROL e EHQL GXUHYROL. Si chiamano infatti "non durevoli" i beni che sono distrutti nell'essere usati: cucinando un pezzo di carne, ossia producendo un pezzo di carne cotta, io distruggo un pezzo di carne cruda e il metano bruciato. Si chiamano invece "durevoli" i beni che non sono distrutti nell'essere usati: cucinando un pezzo di carne, se non sono un imbranato grave, non distruggo la bistecchiera e la cucina a gas, e non ci rimetto la pelle. Cucinando, dunque, consumo la materia prima e il carburante; consumo altresì non il macchinario, gli utensili, e il lavoratore, che sono appunto durevoli, ma i loro servizi. I servizi sono ovviamente non durevoli, in quanto si creano e si consumano nel momento dell'uso. I beni non durevoli e i servizi si distinguono inoltre in LQWHUPHGL, che sono o saranno assorbiti in una trasformazione successiva (il filato di lana), e ILQDOL, se assorbiti direttamente dal consumo; i beni durevoli, che sono tutti finali, si distinguono in beni finali di produzione (il telaio), e finali di consumo (il tessuto). Nel modello di base, e nella prassi della contabilità nazionale, si tende a considerare la famiglia specializzata nel consumo come l'impresa è specializzata nella produzione, per cui si considerano beni finali di consumo quelli acquistati dalle famiglie piuttosto che quelli effettivamente consumati. Di fatto, come era implicito nell'esempio di cui sopra, i beni "finali" di consumo spesso non sono di fatto tali, e buona parte della produzione avviene all'interno delle famiglie. Al supermercato, per l'appunto, si compra la carne cruda; il bene di consumo è la carne cotta portata a tavola, e la trasformazione finale se non è opera di un impresa (il ristorante) è opera della stessa famiglia. La divisione della produzione tra imprese e famiglie (e non solo) è un problema interessante, 91


sul quale torneremo; per ora, però, ipotizziamo un mondo semplificato, in cui solo le imprese "producono", e le famiglie ... mangiano carne cruda. In un'economia di produzione compaiono dunque vari tipi di mercati; è utile in particolare distinguere i mercati LQWHUQL DO PRQGR GHOOH LPSUHVH, i mercati di LQWHUIDFFLD WUD OH LPSUHVH H OH IDPLJOLH, e i mercati LQWHUQL DO PRQGR GHOOH IDPLJOLH. Questi ultimi sono mercati "secondari", in cui vengono scambiati beni non di nuova fabbricazione. I secondi si dividono a loro volta in due: comprendono da un lato i mercati dei beni finali di consumo, venduti dalle imprese alle famiglie, e dall'altro i mercati in cui le famiglie vendono alle imprese i servizi dei fattori (ossia affittano alle imprese i fattori) di loro proprietà, come appunto il lavoro. Nei primi, tra le imprese, vengono scambiati ovviamente i beni non durevoli detti appunto intermedi. Per i beni finali di produzione, che rappresentano il capitale produttivo, bisogna spendere una parola in più. Di fatto, questi vengono normalmente venduti dall'impresa che li produce all'impresa che poi ne consuma i servizi; e come vedremo la stessa analisi economica, condizionata dall'ambiente nel quale si è sviluppata, tende a identificare l'imprenditore proprietario dell'impresa con il capitalista proprietario della fabbrica e dei macchinari. Sui motivi di questa identità di fatto torneremo; per ora notiamo soltanto che la proprietà dei fattori di produzione durevoli è logicamente distinta dall'uso dei loro servizi, e questo vale per la terra, gli edifici, e le macchine come per il lavoro. L'impresa pura produttrice compra solo ciò che consuma, ossia i beni intermedi e L VHUYL]L del capitale e del lavoro; l'impresa produttrice e proprietaria del capitale (o, nei tempi, dei lavoratori schiavi) è una forma ibrida. In un sistema di mercati completo, le imprese sono esclusivamente produttrici, la proprietà dei beni durevoli è esclusivamente delle famiglie; tutti i beni finali sono allora venduti dalle imprese alle famiglie, e tutti i servizi dei fattori di produzione durevoli, ossia i servizi del capitale non meno del lavoro, sono venduti dalle famiglie alle imprese. 5.a.4. l'industria Si chiama poi LQGXVWULD l'insieme di imprese che producono "lo stesso bene". Le definizioni in merito sono ovviamente arbitrarie, in quanto più o meno aggregate: si può considerare ad esempio "l'industria laniera" o la più ampia "industria tessile". In senso etimologico, il monopolista è l'unico che (produce e) vende un certo bene; ma proprio perchè la definizione del bene è arbitraria quanto quella dell'industria (il tessuto? il tessuto di lana? il tessuto di lana pettinata? un certo tessuto di lana pettinata?) la definizione etimologica di monopolio serve più che altro ad arricchire avvocati e "esperti" nelle cause anti-trust, e gli economisti preferiscono identificare il monopolio con il potere di mercato (e di fatto per il venditore con il rapporto tra prezzo e beneficio marginale, funzione dell'elasticità della domanda, e per il compratore con il rapporto tra prezzo e costo marginale, funzione dell'elasticità dell'offerta). Nei limiti dell'arbitrarietà delle definizioni, e ricordandoci che alla fine ciò che conta è appunto l'elasticità della domanda e dell'offerta per le singole imprese o per particolari "industrie", i IDWWRUL GL SURGX]LRQH si possono a loro volta distinguere in JHQHULFL, ossia comuni a più industrie (il carburante); VSHFLILFL DOO LQGXVWULD, come le materie prime che definiscono i beni prodotti (la lana per l'industria laniera); o anche VSHFLILFL DOO LPSUHVD. Il lavoro era tradizionalmente considerato un fattore assolutamente generico; si riconosce adesso che è tale invece solo lo sforzo fisico, che è appunto ciò che utilizzava in passato la grande industria che chiedeva agli operai (immigrati dalle campagne se non addirittura da altri paesi) solo la ripetizione di qualche semplice gesto. L'industria di oggi, come quella tradizionale dell'artigianato, chiede agli addetti anche e massimamente uno sforzo 92


intellettuale, che esige a sua volta un bagaglio di conoscenze. Questo bagaglio viene oggi chiamato FDSLWDOH XPDQR: è in parte generico (sapere leggere), in parte sicuramente preponderante specifico all'industria (sapere controllare un telaio), in parte pure specifico all'impresa (sapere a chi rivolgersi se il telaio si blocca). Bisogna tener presente che nella prassi, gli economisti chiamano un'industria "concorrenziale" se è composta da imprese concorrenziali, "monopolistica" se concentrata in un'unica impresa, "oligopolistica" se concentrata in poche imprese (dal greco "oligo-" che significa appunto "poco"), o anche, come vedremo, "di concorrenza monopolistica" se composta da numerose imprese dotate di potere di mercato. Notiamo in merito due stranezze: la prima, generale, è il miscuglio di definizioni etimologiche e funzionali; e la seconda, particolare, è l'incongruenza tra il significato di "concorrenziale" se riferito all'impresa da un lato, e all'industria dall'altro. L'impresa "concorrenziale" non ha potere di mercato; l'industria "concorrenziale" ha quasi inevitabilmente potere di mercato, a due livelli. Nel mercato del bene prodotto, la quantità complessiva prodotta è quella prodotta dall'industria, per definizione di questa; se l'industria ha di fronte una normale curva di domanda a pendenza negativa, il prezzo varia con la quantità prodotta dall'industria, e l'industria ha potere di mercato nel mercato in cui vende. Questo è vero anche per l'industria comunemente detta concorrenziale, ossia composta di imprese senza potere di mercato; l'industria sarebbe invece essa stessa "concorrenziale", nel senso di essere priva di potere di mercato, solo se si trovasse a produrre un bene con sostituti perfetti, e in quantità talmente limitate da non influire sul prezzo di questi. In una piccola economia aperta, possono essere tali tutte le industrie, per le quali sono parametrici i prezzi del mercato mondiale; ma in un'economia chiusa (o aperta ma grande) è difficile immaginare un industria senza potere si mercato (se non quella, appunto molto particolare, dei soldi falsi). L'industria è anche, proprio perchè l'unica produttrice di un bene, l'unica acquirente dei fattori di produzione ad essa specifici, fra cui in particolare la materia prima che definisce il bene e l'industria ("l'industria laniera"); anche l'industria "concorrenziale", ossia composta di imprese concorrenziali, ha dunque tipicamente di fronte una o più curve di offerta in pendenza. Sono invece prive di potere nei mercati dei fattori di produzione due tipi di industrie: da un lato, come per il bene prodotto, le industrie di piccole economie aperte, che non influiscono sui prezzi mondiali dei fattori di produzione specifici all'industria mondiale ma non alla singola industria locale; dall'altro, anche in un'economia grande o chiusa, le industrie piccole che non usano fattori specifici, ma solo materie prime, macchinari, e lavoro assolutamente generici o perlomeno specifici a industrie molto molto più grandi. Un esempio potrebbe essere l'industria dei pulisci-parabrezza ai semafori. Il significato di tutto ciò è che i prezzi di vendita e almeno alcuni dei prezzi di acquisto che interessano una qualsiasi produzione, anche se parametrici per le singole imprese, concorrenziali, raramente rimangono parametrici per l'insieme delle imprese, ossia l'industria, anche "concorrenziale". L'analisi dell'equilibrio in un economia di produzione deve dunque tener conto non solo della reazione della singola impresa ai movimenti dei prezzi, ma anche della reazione dei prezzi ai mutamenti della produzione, e dunque delle vendite e degli acquisti, dell'insieme delle imprese. 5.a.5. il modello dell'impresa La teoria dell'impresa che è parte integrale della teoria dei prezzi e dell'equilibrio generale è in verità molto riduttiva. Non si chiede infatti nè come è organizzata al suo interno, nè perchè occupa quello spazio preciso (ad esempio perchè dalla lana greggia al filato, piuttosto che dal filato al tessuto o direttamente dalla lana greggia al tessuto; perchè 93


quel filato, piuttosto che un altro): l’impresa se esiste esiste e basta, nello spazio tra vari mercati dati. In questo spazio opera delle scelte, di cui si esamina la logica, con strumenti ovviamente strettamente affini a quelli già sviluppati per esaminare le scelte dei consumatori. Le scelte dell'impresa di particolare interesse sono FRPH SURGXUUH, e TXDQWR SURGXUUH (ma non "cosa" e "a partire da cosa" produrre, deciso a monte). Queste due scelte si articolano peraltro in tre momenti. Si immagina infatti come vedremo un primo momento, in cui l'impresa definisce all'interno dell'universo dei modi possibili di operare il sottoinsieme dei modi WHFQLFDPHQWH HIILFLHQWL: definisce cioè, in gergo, la IXQ]LRQH GL SURGX]LRQH. In un secondo momento, e sulla base dei costi marginali dei fattori di produzione, identifica all'interno di questo sottoinsieme di combinazioni tecnicamente efficienti quelle che PLQLPL]]DQR L FRVWL per ogni livello di produzione: definisce cioè la IXQ]LRQH GHL FRVWL. Si arriva così, in due tappe, a decidere "come produrre". Avendo stabilito così il costo della produzione per ogni livello di attività, l'impresa identifica i suoi costi marginali, e dunque la sua curva di offerta. Identifica a parte i ricavi marginali dalla vendita del prodotto; e in funzione dei costi e dei ricavi marginali sceglie il livello di attività che PDVVLPL]]D LO SURILWWR. Decide così "quanto produrre", ossia quanto comprare dei vari fattori di produzione e quanto prodotto vendere; e definisce così il suo equilibrio. Segnaliamo subito che la contabilità dei costi e dei profitti economici non è quella delle aziende e delle leggi fiscali. Gli economisti (ma non le aziende) comprendono infatti nei costi la remunerazione necessaria del capitale azionario, e, nel caso, del proprietariomanager, che si identifica con la remunerazione normale, "di mercato": infatti se l'impresa non raggiunge quelle norme il capitale e il proprietario-manager l'abbandoneranno per trasferirsi altrove. Data questa definizione onnicomprensiva dei costi, il SURILWWR degli economisti è un puro surplus, ossia una UHQGLWD: precisamente ciò che si può togliere senza perdere i servizi dei fattori utilizzati. Sulla base di tali definizioni gli economisti identificano gli equilibri di mercato con O D]]HUDPHQWR GHL SURILWWL grazie appunto alla concorrenza tra gli imprenditori per i guadagni di arbitraggio. La funzione dei costi dipende dunque esplicitamente dai prezzi dei fattori di produzione (o dalle funzioni prezzo-quantità, se l'impresa ha potere di mercato in quei mercati), e l'equilibrio dipende pure dal prezzo del prodotto (o dalla funzione prezzo-quantità, sempre se l'impresa ha potere di mercato in quel mercato); ma l'equilibrio sarà sempre un punto sulla funzione dei costi, e la funzione dei costi corrisponderà sempre a un sottoinsieme della funzione di produzione. La determinazione della funzione di produzione prescinde invece dai prezzi (o dalle funzioni prezzo-quantità) dei fattori di produzione e del bene; di fatto, però, presume che i prezzi dei fattori siano positivi, per cui l'inefficienza tecnica significa un aggravio dei costi e una riduzione di profitto. Logicamente, è ovvio che la massimizzazione del profitto richiede e dunque implica la minimizzazione dei costi, e questa, a sua volta, l'efficienza tecnica. Sempre logicamente, non è vero il contrario: un'impresa potrebbe teoricamente cercare l'efficienza tecnica, ossia evitare lo spreco puro, per poi scegliere di produrre con una tecnica che (con i prezzi vigenti dei fattori di produzione) non minimizza i costi; potrebbe minimizzare i costi, ma poi scegliere di produrre una quantità di prodotto che (date le condizioni del mercato) non massimizza i profitti. Di fatto, però, è difficile giustificare la ricerca dell'efficienza tecnica e la minimizzazione dei costi se non in funzione della massimizzazione dei profitti; il mondo è infatti pieno di organizzazioni che non avendo l'obiettivo del lucro non s'impegnano poi a contenere i costi... L'impresa, comunque, massimizza il profitto, almeno per ipotesi; e l'ipotesi stessa si 94


può giustificare in vari modi. Una giustificazione possibile, weberiana (e dunque non poco datata), si appella alla psicologia calvinista: l'imprenditore massimizza il profitto perchè l'accumulazione è il segno che la sua opera è gradita a Dio, e dunque l'utilità dipende dall'accumulazione piuttosto che dal consumo (in particolare di tempo libero, a scapito del profitto). Una seconda giustificazione, piÚ recente, deriva invece dall'ipotesi della separazione tra azionisti e managers: gli azionisti, coinvolti solo come proprietari, sono interessati solo al profitto, e dunque danno ai mangers il mandato di massimizzarlo. Una terza giustificazione è quella darwiniana: se la concorrenza fra gli imprenditori porta a equilibri con costi minimi e profitti nulli, saranno appunto nulli, nell'equilibrio di mercato, i profitti di chi li massimizza; chi non massimizza i profitti si ritrova con profitti negativi, ossia non copre i costi, e dunque fallisce. Non c'è bisogno di ipotizzare un imprenditore calvinista, virtuoso: lo stesso mercato fa di virtÚ necessità . Un esempio lampante di ciò è dato dalla "Society for the Propagation of the Gospel", associazione di protestanti inglesi che nel primo Ottocento era all'avanguardia dell'agitazione anti-schiavista. Fortuna volle che per un lascito testamentario la SPG si trovò proprietaria di una piantagione di canna da zucchero nei Caraibi; e decise coerentemente di trattare i propri schiavi con umanità . Purtroppo--ed è per questo che le piantagioni assomigliavano ai campi di lavoro hitleriani--la brutalità aumentava la produttività degli schiavi in quei lavori pesanti: la SPG si trovò rapidamente con una produttività minore di quella che determinava sul mercato il costo e i prezzo dello zucchero, e dunque la sua piantagione chiudeva in perdita. Dovendo scegliere tra il fallimento e la brutalità , la SPG si adeguò e riprese l'uso della frusta.

5.b. la funzione di produzione 5.b.1. le cernite paretiane La funzione di produzione è una relazione tra il prodotto 4 e i fattori di produzione, che sono di fatto numerosissimi, e comprendono perlomeno una materia prima, degli strumenti, e il lavoro; per le nostre solite esigenze cartografiche ipotizziamo che questi siano solo due, "il capitale" . e "il lavoro" /. Ricordiamo che la relazione è tra unità fisiche omogenee: "il capitale" è dunque non una somma di danaro ma un certo tipo ben definito di strumento. Questa "funzione di produzione", abbiamo detto, è il luogo delle combinazioni tecnicamente efficienti, determinata da una (molteplice) cernita paretiana. Si consideri la Figura 5.b.1.1: misuriamo sugli assi del grafico il consumo dei due fattori, e sul terzo asse perpendicolare al piano del foglio la terza variabile, il prodotto, esso pure perfettamente e oggettivamente misurabile. Le variabili sono tutte riferite a flussi per un'unità di tempo: consumando ogni giorno i servizi di / lavoratori e di . strumenti si ottiene 4 prodotto al giorno. Ipotizziamo che il prodotto sia il movimento di terra (in metri cubi), e che l'unità di capitale sia il badile: il punto rappresentato nel grafico superiore della Figura corrisponde dunque all'uso di due lavoratori e un badile per unità di tempo. A questa combinazione di fattori corrispondono una serie di prodotti: bassissimo se i lavoratori usano il badile come poggiatesta per riposarsi, maggiore se uno lo usa tenendolo alla rovescia, ancora maggiore se uno lo usa tenendolo per il manico mentre l'altro lo guarda, massimo se ambedue lo usano a modo con turni sfasati. La prima cernita paretiana è tra queste varie combinazioni di fattori e di prodotti; essendo sempre gli stessi i fattori, la combinazione non dominata è ovviamente quella con il prodotto massimo, pari, poniamo, a 10 metri cubi. La seconda cernita paretiana è tra i punti definiti dalla prima. La combinazione

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ottenuta, pari a domina in senso paretiano tutti punti tra nord e est, ossia con . ! e/o / ! , che non comportino 4 ! ; sarebbe a sua volta dominata da qualsiasi combinazione tra sud e ovest, ossia con . e/o / , che comportino 4 (e a fortiori 4 ! ). Se la combinazione sopravvive a questa seconda cernita, è ovvio che tra sud e ovest dal punto si trovano solo valori di 4 inferiori a 10; tra nord e est da quel punto, per lo stesso motivo, sopravvivono solo combinazioni con 4 superiore a 10. Le altre combinazioni con 4 che sopravvivono perchè non sono dominate sono ovviamente tra nord e ovest o tra est e sud: non rendono di piÚ e consumano piÚ di un fattore, ma consumano meno dell'altro. Il risultato di questa seconda cernità è dunque per ogni livello di prodotto una serie di punti, ognuno a nord-ovest o sud-est degli altri, collegati da una serie di scalini definiti dalle semirette che dagli stessi punti vanno verso nord e verso est, come nel grafico inferiore della Figura. Nel caso, ipotizziamo che alla seconda cernita sopravvivano, per 4 , i tre punti $, % e &, con consumi di fattori pari rispettivamente a , a e a . Questi tre punti corrispondono a tre WHFQLFKH HOHPHQWDUL GL SURGX]LRQH, definite dal rapporto tra i fattori: . / è pari a 0,5 (unità di . per unità di /: badili/uomo) per il primo, a 0,25 per il secondo, e a 0,125 per il terzo. La terza cernita paretiana è tra i punti, e le corrispondenti tecniche elementari, definiti dalla seconda. Immaginiamo a questo punto che queste tecniche siano D UHQGLPHQWL GL VFDOD FRVWDQWL, ossia che se moltiplichiamo . e / per una costante F (a . / dunque invariato) il prodotto pure si moltiplica per F. Graficamente, nello spazio dei fattori le variazioni di scala sono movimenti lungo un raggio dal punto di origine, la pendenza del quale definisce appunto il rapporto, costante, fra i fattori; la costanza dei rendimenti di scala significa che lungo tale raggio (ossia variando entrambi i fattori in modo da mantenere costante il loro rapporto) la sezione della collina della produzione è una retta che passa per il punto di origine, come nel grafico superiore della Figura 5.b.1.2. Rapportando la produzione 4 ad un fattore di produzione, ad esempio /, si può calcolare la SURGXWWLYLWj media, 4 / , e marginale, G4 G/ . Nei mutamenti di scala la variazione è in tutti i fattori in modo da mantenere le loro proporzioni, come se variasse l'uso di un fattore composito 1 D. / . La produttività media e la produttività marginale di tale fattore composito sono ovviamente 4 1 e G4 G1 ; i rendimenti di scala sono appunto costanti se queste due produttività sono sempre uguali e (dunque) costanti. Il grafico inferiore della Figura riprende il grafico inferiore della Figura precedente per illustrare la terza cernita nel caso appunto dei rendimenti di scala costanti. In tal caso, si possono ottenere 100 unità di prodotto non solo con le combinazioni di fattori corrispondenti a $, % e &, ossia usando una sola delle tre tecniche disponibili, ma anche con le combinazioni di fattori corrispondenti ai segmenti di retta che uniscono questi tre punti, usando contemporaneamente tecniche diverse. Producendo ad esempio 50 unità con la prima tecnica e 50 con la seconda si utilizzano complessivamente 9,5 unità di capitale e 28 di lavoro, che corrisponde al punto a metà tra $ e % (ottenuto graficamente costruendo un parallelogramma sui due segmenti corrispondenti alle tecniche utilizzate: l'apice ; corrisponde a sua volta all'uso complessivo dei fattori). Nel caso, la combinazione di particolare interesse è quella fra la prima e la terza, che genera punti tra $ e & che dominano %: producendo ad esempio 50 unità con la prima tecnica e 50 con la terza si producono 100 unità in tutto con solo 30 unità di lavoro e 7,5 di capitale, ossia al punto <, contro le 36 e 9 della seconda tecnica. Il punto % viene dunque eliminato non da $ o da & ma da ambedue insieme; e cosÏ l'intero raggio corrispondente alla seconda tecnica. Alla fine di questa terza cernita, i luoghi dei punti efficienti di produzione uguale o LVRTXDQWL sono le spezzate illustrate nella Figura 5.b.1.3. Con due tecniche elementari 96


efficienti, come nel primo grafico della Figura, sono composti da una semi-retta verticale, una semi-retta orizzontale, e, con rendimenti di scala costanti, il segmento di retta a pendenza negativa fra di esse. Se invece di due le tecniche efficienti (non dominate da combinazioni di altre) e a rendimenti costanti fossero quattro, l’isoquanto sarebbe composto dalle due semirette parallelle agli assi e da tre segmenti di retta a pendenza negativa e decrescente, come nel secondo grafico della Figura. Più sono numerose le tecniche efficienti, più sono numerosi, e corti, i segmenti dell'isoquanto a pendenza costante; al limite, le tecniche efficienti sono infinite, e l'isoquanto diventa una curva continua a pendenza decrescente (terzo grafico): esattamente come la "normale" curva di indifferenza dell'individuo. Con rendimenti di scala costanti, dunque, gli isoquanti sono necessariamente convessi dal basso; sono anche ovunque differenziabili solo se le tecniche efficienti sono infinite, ossia se il rapporto tra i fattori è infinitamente variabile con tecniche elementari indipendenti (e non solo combinando tecniche diverse). 5.b.2. i rendimenti di scala crescenti Se moltiplicando tutti i fattori per la costante F, e dunque a . / invariato, la variazione relativa del prodotto supera quella dei fattori di produzione siamo in presenza di rendimenti di scala FUHVFHQWL; se le rimane inferiore, di rendimenti di scala GHFUHVFHQWL. La Figura 5.b.2.1 illustra il caso dei rendimenti di scala crescenti. Nel primo grafico, si presenta la sezione della collina della produzione lungo un raggio nello spazio dei fattori, ossia a . / costante (come il grafico superiore della Figura 5.b.1.2); i rendimenti crescenti significano che la produttività marginale dei fattori così combinati ("un uomo e un badile"), ossia la pendenza della curva del prodotto nel punto dato, supera la produttività media, ossia la pendenza della retta dall'origine al punto dato. Nel caso, questo si verifica lungo l'intera curva del prodotto, per cui i rendimenti di scala sono sempre crescenti. Nel grafico centrale si illustra un caso in cui dalla seconda cernita di cui sopra si ottengono due tecniche elementari, e lo scalino corrispondente. Con rendimenti di scala crescenti, la metà del prodotto si ottiene con più della metà dei fattori, e così via: il luogo degli apici dei parallelogrammi costruiti producendo un dato 4 combinando le due tecniche sarà pertanto non più il segmento di retta che unisce i due punti corrispondenti a quel 4 sui due raggi delle tecniche elementari, ma una curva concava dal basso, con una curvatura che aumenterà appunto con l'aumento dei rendimenti con l'aumento di scala. Se i rendimenti crescono abbastanza poco, dunque, la curva ottenuta sarà a sua volta interamente all'interno dello scalino ottenuto dalla seconda cernita (curva solida); in tal caso la terza cernita elimina interamente lo scalino prodotto dalla seconda (come nel caso dei rendimenti costanti, anche se con un segemento di curva invece che di retta). Se invece la crescita dei rendimenti è molto forte, per cui riducendo la produzione con una tecnica elementare il risparmio di fattori è molto modesto, la curva ottenuta sarà a sua volta interamente esterna allo scalino (curva tratteggiata, contenuta comunque nel paralleogramma costruito direttamente su $ e %); in questo caso la terza cernita non produce risultati utili, e l'isoquanto rimane la spezzata a scalino prodotta dalla seconda. Nel terzo grafico si illustra un caso intermedio, in cui la curva luogo degli apici dei parallelogrammi ha di nuovo una pendenza positiva in prossimità delle tecniche elementari, ma non rimane interamente esterna allo scalino; in tal caso l'isoquanto che risulta dalla terza cernita paretiana comprende i segmenti di retta $; e <%, corrispondenti alla produzione di 4 interamente con la prima tecnica o interamente con la seconda, e la curva ;<, che corrisponde alla produzione di 4 mischiando le due tecniche. Con più tecniche, combinandole due a due, si ottiene un isoquanto a bordo d'ombrello, come nel grafico superiore della Figura 5.b.2.2: generalmente convesso, ma con segmenti 97


concavi tra una tecnica e l’altra. Come aumenta il numero delle tecniche elementari efficienti i segmenti concavi diventano sempre più numerosi ma sempre più corti; al limite, con un numero infinito di tecniche elementari efficienti, ognuno di questi si riduce a un punto, e l'isoquanto diventa una curva convessa continua, come nel grafico inferiore della Figura. L'isoquanto è allora esattamente analogo a quello ottenuto con rendimenti di scala costanti (terzo grafico, Figura 5.b.1.3); la differenza tra i due casi si trova allora solo nella disposizione degli isoquanti stessi, che lungo un raggio e per aumenti assoluti costanti sono equidistanti con rendimenti costanti (Figura 5.b.2.3, grafico superiore), e sempre più ravvicinati con rendimenti crescenti (grafico inferiore). 5.b.3. i rendimenti di scala decrescenti Il caso dei rendimenti di scala decrescenti è più complesso, e problematico. Per definizione, è semplicemente speculare al caso precedente, come si vede dal primo grafico della Figura 5.b.3.1, che presenta la sezione della collina della produzione lungo un raggio nello spazio dei fattori, ossia a . / costante: in presenza di rendimenti di scala decrescenti la produttività marginale dei fattori così combinati ("un uomo e un badile"), ossia la pendenza della curva del prodotto nel punto dato, è inferiore alla produttività media, ossia la pendenza della retta dall'origine al punto dato. Nel caso, questo si verifica lungo l'intera curva del prodotto, per cui i rendimenti di scala sono sempre decrescenti. Le difficoltà che presentano i rendimenti di scala decrescenti sono a monte, e a valle, della definizione. A monte, non si capisce a cosa potrebbero essere dovuti: l'aumento di scala può infatti aprire possibilità nuove, ma non toglie quelle vecchie, in quanto si può sempre semplicemente replicare l'unità più piccola e ottenere dunque rendimenti costanti. Con ad esempio cento uomini e cento badili si possono forse raggiungere produttività medie più alte, organizzandoli a dovere, di quella del singolo col suo badile; ma mal che vada posso sempre far lavorare ogni uomo col suo badile come se fosse solo, e cento di queste combinazioni non possono che produrre cento volte il prodotto di ognuna di esse (se si obietta che cento uomini potrebbero intralciarsi a vicenda, si contro-obietta che se non si aumenta lo spazio disponibile in proporzione agli altri fattori siamo fuori dai paragoni di scala). Allo stesso modo, chi ha un miliardo in banca non può guadagnare di meno, in percentuale, di chi ha cento milioni, perchè alla peggio fraziona il miliardo in dieci conti da cento milioni. A valle della definizione i problemi sorgono in presenza di tecniche molteplici, al punto che la terza cernita paretiana rischia non di integrare ma di sopraffare la seconda. Il grafico centrale illustra il problema nel caso in cui la seconda cernita abbia lasciato due tecniche elementari efficienti, D e E. Con rendimenti di scala decrescenti, infatti, la metà del prodotto si ottiene con meno della metà dei fattori, e così via: il luogo degli apici dei parallelogrammi costruiti producendo un dato 4 combinando le due tecniche sarà pertanto non più il segmento di retta che unisce i due punti corrispondenti a quel 4 sui due raggi delle tecniche elementari, ma una curva convessa dal basso, con una curvatura che aumenterà appunto con la riduzione dei rendimenti con l'aumento di scala. Il grafico illustra i due casi possibili. Con rendimenti poco decrescenti, la curva che unisce i due punti di pari prodotto $ e % ha sempre pendenza negativa, e a parte la curvatura del segmento costruito dalla terza cernita il risultato è simile a quelli ottenuti sinora: così ad esempio la curva che passa per <. Con rendimenti fortemente decrescenti, la curva luogo degli apici dei parallelogrammi ha una pendenza positiva in prossimità delle tecniche elementari, come con rendimenti fortemente crescenti; solo che da questi punti la pendenza porta verso sud-ovest, e non, come in quel caso, verso nord-est. Illustra questo caso la curva che passa per =: è ovvio che in tal caso, per i soliti motivi paretiani, lo stesso punto $ viene eliminato dai punti a sud-ovest di esso, e l'isoquanto finale può essere composto di un pezzo 98


della curva costruita combinando le tecniche elementari e da due semirette tangenti a questa e parallele agli assi. In tal caso, il risparmio di fattori riducendo la scala di operazione lungo ogni tecnica elementare è tale che non conviene mai concentrarsi su una sola di queste; l'isoquanto allora non contiene piÚ nessuno dei punti risultanti dalla seconda cernita, anche se le tecniche da essa definite rimangono in uso, proprio perchè non rimangono mai in uso esclusivo. Il terzo grafico illustra il caso con piÚ di due tecniche elementari. Combinando due a due le tecniche adiacenti si ottiene un profilo a bordo di ombrellone; ma mentre con rendimenti costanti o crescenti non conviene mai combinare piÚ di due tecniche elementari efficienti, con rendimenti ovunque decrescenti conviene ovviamente distribuire la produzione fra piÚ tecniche. Combinando le quattro tecniche disponibili (costruendo non un parallelogramma, che somma l'uso di fattori di due tecniche, ma la spezzata come 2= fatta di quattro segmenti con le pendenze dei quattro raggi e la lunghezza corrispondente al livello di attività delle varie tecniche elementari) si ottiene una curva come quella che passa per i punti =, che elimina, nel caso illustrato, tutte le tecniche elmentari; e tale risultato sarà tanto piÚ probabile, quanto piÚ decrescono i rendimenti con gli aumenti di scala, e quanto piÚ numerose sono le tecniche elementari disponibili. Per completare questo terzo grafico con un esempio numerico, si immagini che 100 4 possono essere prodotti con quattro tecniche elementari usando rispettivamente . / , . / , . / e . / . Se con ognuna di queste per ottenere un quarto del prodotto, ossia 25 4, basta un quinto di tali fattori, il totale di 100 4 si ottiene con (75/5) = 15 unità di . e di /, e questa combinazione è Pareto-superiore alle due tecniche elementari interne; se invece basta un ottavo il totale di 100 4 si ottiene con (75/8) = 9,4 unità di . e di /, e questa combinazione è Pareto-superiore a tutte e quattro le tecniche elementari. Con rendimenti sempre decrescenti e tecniche numerose i punti sugli isoquanti indicano sempre e comunque le combinazioni di fattori Pareto-efficienti, ma ne indicano solo le quantità complessive ottenute sommando attività eterogenee. Mille uomini e mille badili non corrispondono a mille volte un uomo con un badile, ma tutta una gamma di combinazioni da un uomo con cento badili a cento uomini con un solo badile: i rendimenti decrescenti sono difficili da giustificare, e difficili da interpretare.

5.b.4. i rendimenti marginali dei fattori Il risultato delle cernite paretiane di cui sopra è la IXQ]LRQH GL SURGX]LRQH 4 4 . / , analoga alla funzione di utilità 8 8 ; < . Notiamo che nel caso della funzione di utilità , considerata data, la cernita paretiana rimane implicita: infatti l'utilità che mi danno le patate è quella che mi possono dare cucinate a mio gusto, e non quella che mi darebbero se i miei figli me le tirassero in testa. L'isoquanto, a sua volta, è analogo alla curva di indifferenza. Nello spazio dei fattori, infatti, per qualsiasi punto passa un isoquanto, con pendenza negativa o perlomeno non positiva. Questa pendenza è il WDVVR PDUJLQDOH GL VRVWLWX]LRQH tra . e / lungo l'isoquanto (706 ), e corrisponde al rapporto tra i prodotti marginali 03 e 03 : infatti G4 03 G/ 03 G., per cui se G4 , allora G. G/ 706 03 03 . Come abbiamo già notato, però, a differenza dell'utilità il prodotto è perfettamente osservabile e misurabile: è per questo infatti che si possono distinguere le funzioni di produzione a rendimenti costanti e variabili, distinzione che scompare, come abbiamo visto, se la misura del "prodotto" non va oltre il criterio puramente ordinale. Per lo stesso motivo sono pure osservabili e misurabili non solo il tasso marginale di sostituzione (fra gli argomenti delle funzioni, per cui scompare la terza dimensione, del prodotto o dell'utilità ), ma pure il numeratore e il denominatore di questo, ossia i prodotti marginali dei fattori. Le utilità RL

/

.

RL

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/

.

.

/


marginali (e medie) dei beni rimangono infatti soggette all'arbitrarietà delle trasformazioni ordinali di 8; i prodotti marginali dei fattori sono invece univoci e misurabili direttamente in unità di 4 per unità di / o di .. Mentre i rendimenti di scala si osservano nello spazio dei fattori lungo i raggi dal punto di origine, ossia mantenendo costanti le proporzioni dei vari fattori, i UHQGLPHQWL PDUJLQDOL GHL IDWWRUL si osservano variando l'uso di un unico fattore di produzione, mantenendo costante l'uso di tutti gli altri, ossia lungo una retta parallela ad uno degli assi. Il SURGRWWR (rendimento, produttività) PDUJLQDOH GHO ODYRUR o 03 ("marginal product of labor") corrisponde dunque a G4 G/ , dato .. La produttività media del lavoro o $3 ("average product of labor"), a sua volta, corrisponde a 4 / , sempre dato .. Si consideri la Figura 5.b.4.1. Il primo grafico rappresenta una funzione di produzione a rendimenti di scala costanti, con due tecniche elementari efficienti. Il fattore . è fisso al livello . . Il secondo grafico illustra lo spaccato della collina di produzione lungo la retta . , ossia la funzione 4 /

. Con due tecniche elementari e rendimenti di scala costanti questa funzione è una spezzata, con una pendenza che cala con la pendenza degli isoquanti. Con . . , infatti, il prodotto aumenta inizialmente con / a un tasso costante (per G4 costante gli isoquanti sono equidistanti) e massimo: aumentando / si incrociano gli isoquanti ad angolo retto, ossia si risale la collina nella direzione di pendenza massima. Come si incrocia il raggio della prima tecnica elementare si passa ad un tasso di aumento di nuovo costante, ma minore del precedente: gli isoquanti sono equidistanti ma più distanziati, e questo per due motivi. Da un lato, infatti, la pendenza massima della collina (misurando la distanza minima tra gli isoquanti, sempre per G4 costante) è minore fra le tecniche elementari che fra queste e gli assi; e dall'altro i movimenti con . . non sono più nella direzione della pendenza massima, bensì ad angolo con questa. Come si incrocia il raggio dell'ultima tecnica elementare il tasso di aumento diventa zero: la pendenza massima è di nuovo alta, ma i movimenti con . . sono nella direzione della pendenza nulla. Nel terzo grafico si illustrano i prodotti marginali (linea solida) e medi (linea tratteggiata) del fattore /. I primi corrispondono alla pendenza della curva 4 nel secondo grafico: sono ovviamenti costanti lungo i segmenti rettilinei di questa, con scalini dove questa cambia pendenza. Osserviamo che se i rendimenti di scala fossero crescenti per un dato G4 gli isoquanti sarebbero sempre più ravvicinati, lungo i raggi delle tecniche elementari, e concavi da basso nello spazio fra quei raggi; nel secondo grafico le pendenze positive aumenterebbero come ci si allontana dal punto di origine, e nel terzo i segmenti a prodotto marginale positivo sarebbero a pendenza positiva. La Figura 5.b.4.2 riprende il caso della Figura precedente, con due tecniche e rendimenti di scala costanti, e illustra i mutamenti nel prodotto del lavoro se cambia il capitale. Nel primo grafico compaiono le rette corrispondenti a . . e . . ! . . La retta . incrocia i raggi delle tecniche elementari in corrispondenza di / e di / ; la retta . , in corrispondenza di / e di / . Nel secondo grafico si vede che la funzione 4 /

è una spezzata che cambia pendenza in corrispondenza appunto di / e di / ; la funzione 4 /

è pure una spezzata con le stesse pendenze della precedente, solo che mantiene la pendenza massima fino a / ! / , e la pendenza intermedia nell'intervallo / / ! / / . Nel terzo grafico si vedono i prodotti marginali: l'andamento è a scalino, i livelli sono gli stessi, ma i piani degli scalini sono più larghi. Se aumenta il numero delle tecniche elementari nel primo grafico aumentano ovviamente gli spigoli della funzione 4 / nel secondo, e se ne accorciano i segmenti rettilinei; nel terzo grafico si moltiplicano pure gli scalini di 03 , che diventano pertanto più piccoli. Al limite, con un numero di tecniche infinito e isoquanti dunque curvi e /

/

.

.

.

/

100

.

.

.


differenziabili, ogni segmento lineare di 4 / , e ogni scalino di 03/, si riduce a un punto, e i grafici della Figura 5.b.4.2 diventano quelli della Figura 5.b.4.3. 5.b.5. la tecnica, la tecnologia e il progresso La funzione di produzione, che è un insieme di tecniche efficienti (non necessariamente elementari), definisce a sua volta nel gergo degli economisti una WHFQRORJLD. La tecnologia corrisponde dunque all'intera collina della produzione; la tecnica, come abbiamo visto, a un particolare sottoinsieme della collina, definito da un dato rapporto tra i fattori. Un cambiamento di tecnica è dunque uno spostamento sulla collina data, dunque con gli isoquanti dati; un cambiamento di tecnologia è uno spostamento della stessa collina, per cui si spostano gli stessi isoquanti. Il SURJUHVVR "tecnico" (tecnologico) corrisponde appunto a un FDPELDPHQWR GL WHFQRORJLD, che innalza la collina della produzione: a parità di fattori si ottiene piÚ prodotto, a parità di prodotto si usano meno fattori, per cui gli isoquanti si spostano verso l'origine. Con una tecnologia data, la produttività media del lavoro 4 / aumenta se si adottano tecniche con piÚ capitale per ogni lavoratore, ossia se si aumenta . / ; con il progresso aumenta 4 / a parità di . / . Gli economisti modellano il progresso tecnico come un "moltiplicatore" della produttività dei fattori, che si inserisce tra il servizio reso direttamente dal fattore e quello direttamente consumato nella produzione. Si scriva la funzione di produzione come 4 I . / , . W ., / W /: il prodotto è funzione invariante dei fattori equivalenti, che sono a loro volta l'equivalente di quelli effettivamente forniti moltiplicati per un indice del livello tecnologico. Se W raddoppia, ad esempio, ogni unità di capitale diventa l'equivalente di due; si dice pertanto di tale progresso tecnico che ULVSDUPLD FDSLWDOH. Se per esempio raddoppia W , e dunque . . , con W invariato, il progresso tecnico risparmia capitale e non risparmia lavoro, per cui non è QHXWUDOH. In tal caso infatti gli isoquanti vengono compressi verso l'asse / in proporzione all'uso di ., come nel grafico superiore della Figura 5.b.5.1: l'isoquanto che corrisponde ad un prodotto dato si sposta dalla posizione D alla posizione E. Si è invece in presenza di progresso tecnico neutrale se W e W aumentano nella stessa proporzione W . In tal caso gli isoquanti vengono compressi contemporaneamente verso ambedue gli assi, ossia verso l'origine, come nel grafico inferiore della Figura. In presenza poi di rendimenti di scala costanti per ogni combinazione . / si ottiene un aumento di 4 nella stessa proporzione W : gli isoquanti vengono rietichettati, nel senso che l'isoquanto che passa per . / si associa non piÚ a 4 ma a W 4 , ma non sono altrimenti modificati. Questo caso è illustrato, per W , nel grafico inferiore della Figura: l'isoquanto per 4 si sposta dalla posizione D alla posizione E, ma quello per 4 che stava nella posizione F viene a occupare precisamente la posizione D. Se si presume che il progresso tecnico è sempre neutrale diventa inutile distinguere i due indici, che si possono ridurre a uno applicato direttamente alla combinazione dei fattori: 4 I . / . I W. W/ WI . / . Usando i dati della contabilità nazionale sull'arco di un secolo e passa si è scoperto che il prodotto è aumentato, nel lungo periodo, molto, molto di piÚ della disponibilità dei fattori, per cui l'aumento del prodotto pro-capite sarebbe dovuto massimamente al progresso tecnico, e solo in piccola parte all'accumulazione di capitale. Anche se l'importanza del progresso tecnico è indubbia, questo calcolo sembra sovrastimarla, perchè non tiene conto per esempio dell'aumento nel grado di istruzione del lavoratore medio; se non si esplicita appunto l'aumento del "capitale umano", si sottostima l'aumento dei fattori effettivamente disponibili. Può essere utile sottolineare in chiusura la differenza tra diversità di tecnica e diversità di tecnologia. Il cambiamento di tecnica, cambiando il rapporto tra i fattori, fa variare in H

H

H

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H

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H

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H

H

H

101

/


senso opposto la produttività di questi. Se paragoniamo per esempio l'agricoltura europea con quella nord-americana troviamo che la produttività del lavoro 4 / è molto più alta in America, la produttività della terra 4 7 molto più alta in Europa--costellazione riconducibile all'uso di due tecniche diverse nell'ambito di una tecnologia comune. In America, infatti, il rapporto terra/lavoro 7 / è molto più alto che non in Europa: la loro agricoltura è estensiva, la nostra intensiva, ossia per unità di prodotto loro usano poco lavoro e molta terra, noi poca terra e tanto lavoro, come nel grafico superiore della Figura 5.b.5.2 (dove per facilitare i paragoni questi sono scalati alla singola unità di prodotto, di fatto una cifra in dollari ottenuta ponderando le quantità dei diversi prodotti ottenuti per i loro valori unitari). Nel grafico inferiore è illustrato il caso in cui di due paesi, $ e (, nel paese ( sono maggiori le produttività di ambedue i fattori considerati. Chiaramente, i due punti corrispondenti a questi paesi non possono trovarsi sullo stesso isoquanto nello spazio di questi fattori di produzione. Le spiegazioni possibili sono due. Se i fattori considerati sono effettivamente tutti quelli usati, allora la differenza tra i due isoquanti indica una diversità di tecnologia: il paese ( è padrone di una tecnologia avanzata ignota nel paese $. Se invece vi è qualche altro fattore di produzione, può darsi che gli isoquanti indicati siano semplicemente spaccati diversi di un unico isoquanto tridimensionale: per esempio, se il prodotto dipende da terra, lavoro, e concime, i due paesi potrebbero disporre della stessa tecnologia ma usare tecniche diverse, con un uso di concime forte in ( e ridotto in $ (da cui una produttività alta per la terra e il lavoro, ma bassa per il concime, in (, e viceversa in $). Nel caso del Africa tropicale, in particolare, i rendimenti medi per ettaro sono molto bassi; l'opinione comune era questo fosse dovuto all'arretratezza tecnologica (per cui si applicherebbe il grafico inferiore della Figura, con l'esclusione di un eventuale terzo fattore, e l'Africa come paese $), e dalla bassa produttività della terra si desumeva una bassa produttività del lavoro. Adesso c'è chi sostiene che alla bassa produttività della terra corrisponde invece un'alta produttività del lavoro, per cui l'Africa va vista non come arretrata ma semplicemente come poco popolata, esattamente come l'America nel grafico superiore della Figura. La Figura 5.b.5.3 illustra il nocciolo della controversia. Nell'Africa tropicale si coltivano radure temporanee ricavate nelle foreste, usando l'ascia (che serve non a tagliare gli alberi ma solo a togliere loro un anello di scorza per ucciderli e poi bruciarli); la visione tradizionale è illustrata dal primo grafico, che associa l'ascia ad una tecnologia "primitiva" rispetto a quella dell'aratro. L'interpretazione revisionista è illustrata dagli altri due grafici. Questa sostiene infatti che l'ascia e l'aratro sono due tecniche diverse all'interno du un'unica tecnologia, con proporzioni fattoriali diverse: la coltivazione con l'ascia, che è altamente produttiva per ora di lavoro proprio perchè evita il lavoro di aratura e la cura degli animali da traino, è utilizzabile solo se la terra è talmente abbondante che può riposare per decenni (il tempo di far ricrescere la foresta) tra una coltivazione e l'altra. La coltivazione con l'ascia era peraltro utilizzata anche in Europa, nella tarda età della pietra, prima del passaggio all'aratro. La visione comune degli Occidentali, da metà Ottocento in poi, è che la storia è la storia del progresso tecnico (da cui per l'appunto "età della pietra"): i passaggi dalla caccia e raccolta alla coltivazione con l'ascia, come da questa all'aratro, e poi alla "nuova agricoltura" introdotta nel Settecento inglese sono tutti visti come l'introduzione di tecnologie superiori, come appunto nel grafico superiore della Figura 5.b.5.4. I revisionisti invece sostengono da un lato che la "nuova agricoltura" era solo "l'applicazione ai campi dei metodi dell'orto", ossia una semplice intensificazione, e dall'altro che la caccia e raccolta erano segni anch'essi non di povertà d'idee ma di abbondanza di territorio. La nascita della stessa agricoltura sarebbe dovuta alla crescita demografica, e 102


pertanto associata ad una riduzione del tenore di vita, come indicano appunto gli scheletri dell’epoca. La storia umana diventa una lunga storia di intensificazione del lavoro, come nel grafico inferiore della Figura; e diventa irresistibile il riferimento all’Eden con popolazione praticamente nulla.

5.c. la minimizzazione dei costi 5.c.1. la produzione a costo minimo I costi si minimizzano non in assoluto (si ridurrebbero a zero evitando di produrre), ma per ogni livello di prodotto: minimizzando la spesa per un dato prodotto, o, equivalentemente, massimizzando il prodotto per una data spesa. Per ogni livello di spesa complessiva, dunque, l’impresa identifica l’allocazione che massimizza il prodotto, esattamente come il consumatore identifica l'allocazione della spesa che massimizza l'utilitĂ . L'unica differenza, a parte la misurabilitĂ del prodotto, è che mentre si ipotizza che le curve di indifferenza siano ovunque differenziabili, ossia che le loro pendenze varino senza discontinuitĂ , si riconosce come abbiamo visto che gli isoquanti possono avere degli spigoli se le tecniche elementari non sono infinite; a fini espositivi, però, ipotizzeremo degli isoquanti differenziabili come le curve di indifferenza. I fattori di produzione sono come sappiamo non proprio "il lavoro" e "il capitale", beni durevoli, ma i loro servizi; per non appesantire la discussione questo lo daremo per inteso. Chiameremo Z ("wage") il prezzo del [servizio del] lavoro, e U ("rental") il prezzo del [servizio del] capitale; con 4 4 . / il costo complessivo ("total cost") è 7& Z/ U.. Come giĂ sappiamo, nel caso generale 7& Z / / U . ., e 706 0& 0& , dove vincolo e costi marginali sono riferiti all'impresa che compra i fattori. Nel caso particolare dell'impresa priva di potere di mercato nei mercati dei fattori i prezzi di questi sono parametrici, per cui GZ G/ e GU G. , 0& Z, 0& U, e il luogo di spesa costante o LVRFRVWR diventa una retta con la pendenza costante 706 Z U . Nel grafico superiore della Figura 5.c.1.1 sono illustrati, per un impresa concorrenziale nel mercato dei fattori, tre livelli di spesa 7& ! 7& ! 7& ; in ogni caso le intercette sugli assi sono la spesa complessiva divisa per il prezzo del fattore corrispondente. Se invece l'impresa ha potere di mercato il prezzo pagato aumenta con la quantitĂ acquistata, e il costo marginale del fattore ne supera il costo medio (il prezzo pagato, se unico, ossia nel caso del potere di monopolio semplice); che ciò si verifichi in ambedue i mercati dei fattori, o anche in uno solo di essi, l'isocosto (il vincolo che corrisponde ad una spesa costante) diventa concavo dal basso, come nel grafico inferiore della Figura. Il prodotto massimo per ogni dato livello di spesa si ottiene ovviamente al punto di tangenza tra l'isocosto corrispondente e l'isoquanto piĂš alto raggiungibile, ossia, come al solito, quando si equiparano i tassi di sostituzione nell'obiettivo e nel vincolo. In generale, 706 0& 0& 03 03 706 ; nel caso concorrenziale 706 Z U 03 03 706 . Nei grafici, 4 è il prodotto massimo per 7& , e cosĂŹ via; il luogo delle tangenti associa ogni livello di prodotto al suo costo minimo e definisce dunque la funzione dei costi. Come per il consumatore, l'allocazione ottimale della spesa implica una resa uguale per unitĂ di spesa: si minimizzano infatti i costi quando 0& 0& 03 03 , ossia 03 0& 03 0& , e, nel caso concorrenziale, 03 U 03 Z . La dimensione di queste ultime uguaglianze è 4 . 7& . 4 / 7& / 4 7& , ossia XQLWj GL SURGRWWR GROODUR : un dollaro aggiuntivo rende lo stesso prodotto aggiuntivo a ogni margine di spesa. Se cosĂŹ non fosse si potrebbe spostare un dollaro da dove rende di meno a dove YL

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YL

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rende di più, aumentando il prodotto complessivo a parità di spesa complessiva; ma se questo fosse possibile non sarebbe già massimizzato il prodotto per il costo dato. Dalla condizione 0& 0& 03 03 possiamo ottenere pure l'equivalenza inversa a quella precedente, ossia 0& 03 0& 03 , e, nel caso concorrenziale, U 03 Z 03 ; la dimensione di queste è ovviamente non XQLWj GL SURGRWWR GROODUR ma GROODUL XQLWj GL SURGRWWR . L'uso di un utensile aggiuntivo costa infatti 0& , ossia U per l'impresa concorrenziale: questa spesa aggiuntiva è ovviamente G7& G. . Il prodotto aggiuntivo è a sua volta 03 G4 G. ; dunque 0& 03 G7& G. G4 G. G7& G4 , ossia l'aumento dei costi per unità aggiuntiva di prodotto 0& . Lo stesso ragionamento vale ovviamente per il lavoro, per cui 0& 03 0& 03 0& . Il costo marginale del prodotto è insomma l'inverso della resa di un dollaro di spesa per un fattore di produzione aggiuntivo: se un dollaro di spesa aggiuntiva, per l'uso di un utensile o di un lavoratore, mi rende mezza unità di prodotto, un unità di prodotto aggiuntiva aumenta la spesa complessiva di due dollari; e come il dollaro di spesa aggiuntiva deve avere lo stesso rendimento in prodotto che venga speso per utensili o per lavoratori, così l'unità di prodotto aggiuntiva deve avere lo stesso costo in dollari che venga ottenuto affittando altri utensili o affittando altri lavoratori (perchè se così non fosse si ridurrebbero i costi complessivi a parità di prodotto affittando meno utensili e più lavoratori, o viceversa). Queste equivalenze valgono ovviamente per cambiamenti infinitesimali: per cambiamenti non infinitesimali l'aumento di produzione aggiungendo un unico fattore ne riduce il prodotto marginale (e se l'imprea ha potere in quel mercato ne aumenta il costo marginale), per cui per ristabilire l'equivalenza e mantenere la tangenza tra isocosto e isoquanto bisogna aggiungere anche una congrua quantità dell'altro fattore. /

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4

5.c.2. la sostituzione tra fattori e le quote della spesa L'impresa concorrenziale nei mercati dei fattori è dunque analoga al consumatore concorrenziale nei mercati dei beni; come si vede dal grafico superiore della Figura 5.c.2.1 il luogo delle tangenze fra isocosti e isoquanti corrisponde alla curva reddito-consumo del consumatore, e come questa si sposta se cambia il prezzo relativo dei fattori acquistati. L'effetto di VRVWLWX]LRQH vale dunque nella produzione quanto nel consumo, ed è sempre a favore del bene (o fattore) di cui si è ridotto il prezzo relativo. Notiamo per inciso che nelle analisi delle imprese si tralascia l'effetto di reddito, in sostanza perchè si riconosce che l'impresa sceglie anche il livello di spesa. Di fatto, come abbiamo visto, il consumatore pure sceglie quanto lavorare, e dunque quanto guadagnare, e dunque quanto spendere; ma la tradizione didattica che abbiamo seguito nelle pagine precedenti si limita a considerare separatamente l'allocazione della spesa da un lato, come se questa fosse fissa, e la scelta del reddito dall'altra in funzione solo del salario, come se fossero fissi i prezzi dei beni. Un'analisi più completa del consumatore ricalcherebbe quella dell'impresa, con una sequenza di momenti decisionali che definiscono la funzione di utilità (come consumare le patate), il luogo delle utilità massime per ogni livello di spesa (e dunque la "funzione di costo" dell'utilità), e infine il livello di attività (equiparando il beneficio marginale di un dollaro di spesa ottimizzata al costo marginale del lavoro necessario per ottenerlo). Nel suo equilibrio generale il consumatore, come l'impresa, reagisce al cambiamento del prezzo di un bene che compra non solo riallocando la spesa ma anche cambiando il livello di attività. Torniamo all'impresa concorrenziale nel mercato dei fattori. Per un dato mutamento del prezzo relativo dei fattori, il mutamento dei consumi relativi di questi dipende dalla forma degli isoquanti. Come i beni per il consumatore, i fattori di produzione possono essere sostituti o complementi, e tali rapporti possono essere definiti in vari modi; un modo diffuso 104


considera appunto la relazione tra due fattori lungo un unico isoquanto. Con due fattori, si trova in tal caso la gamma di possibilità che conosciamo. Con isoquanti a angolo retto vi è un'unica tecnica possibile, i fattori sono perfettamente complementari, non sono affatto sostituti, e la proporzione nella quale si usano non varia con il loro prezzo relativo: in concomitanza del rapporto tra i fattori imposto dalla tecnica il 706 salta da infinito a zero, e con quel rapporto qualsiasi 706 sarà compreso tra questi due valori. Con isoquanti lineari i fattori sono sostituti perfetti, non sono affatto complementari, e 706 è costante. Per l'impresa concorrenziale, con 706 pure costante, l'equilibrio sarà su uno degli assi, e un mutamento del prezzo relativi dei fattori o è senza effetto, o sposta l'equilibrio da un asse all'altro (cambiando pertanto il rapporto dei fattori da zero a infinito o viceversa). Di fatto, i fattori sono sostituti perfetti se vi è un unico fattore di produzione sottostante, e i diversi fattori ne contengono quantità diverse, o anche la stessa quantità, nel qual caso sono "diversi" solo in base a criteri irrilevanti. Così, per esempio, se il fattore di produzione è il lavoro, il lavoro dei lavoratori con gli occhi scuri sarà un sostituto perfetto, al tasso 1:1, del lavoro dei lavoratori con gli occhi chiari, proprio perchè il colore degli occhi è una considerazione irrilevante. Così pure, se producendo canna da zucchero uno schiavo frustato lavora il doppio di un libero salariato, schiavi e liberi sono sostituti perfetti, al tasso 1:2 che corrisponde appunto al rapporto (inverso) tra il loro sforzo unitario. Si chiama O HODVWLFLWj GL VRVWLWX]LRQH il rapporto tra le variazioni percentuali lungo l'isoquanto del rapporto tra i due fattori, da un lato, e il loro tasso marginale di sostituzione, G . /

. /

G706 706 dall'altro: H G . / . /

G 03 03 03 03

. Questa elasticità è infinita nel caso dei sostituti perfetti, in quanto spostandosi lungo l'isoquanto cambia . / ma non cambia 706 ; è nulla nel caso dei complementi stretti, al punto dell'isoquanto sul raggio della tecnica efficiente, in quanto a un G . / infinitesimale corrisponde un G706 infinito (da zero a infinito o viceversa). L'elasticità di sostituzione è un aspetto della funzione di produzione; ma è interessante perchè la minimizzazione dei costi implica l'uguaglianza del 706 con il 706 e dunque (sempre per l'impresa concorrenziale nei mercati dei fattori) con il prezzo relativo dei fattori. L'elasticità di sostituzione indica dunque di quanto tale impresa cambierà le proporzioni in cui usa i fattori al variare del prezzo relativo di questi. A questo punto l'elasticità di sostituzione si comporta (non a caso) come l'elasticità della domanda: prezzo e quantità variano in direzioni opposte, ma con elasticità alta è dominante l'effetto quantità e aumenta la spesa per il fattore o bene di cui si è ridotto il prezzo relativo, mentre con elasticità bassa è dominante l'effetto prezzo e aumenta la spesa per il fattore o bene di cui è aumentato il prezzo relativo. Immaginiamo che aumenti il prezzo relativo del lavoro: se l'elasticità di sostituzione è nulla il rapporto . / non cambia, e aumentando Z U aumenta ovviamente la quota dei salari nella spesa complessiva e pertanto la quota relativa dei salari Z/ U. . Con elasticità di sostituzione alta l'impresa potrebbe al limite passare da una produzione che usa solo lavoro a una che usa solo capitale: aumentano Z e Z U , ma tale è il calo di / e l'aumento di ., ossia l'aumento di . / , che Z/ U. si riduce. Sempre come per l'elasticità della domanda, il valore critico dell'elasticità di sostituzione è pari a uno: con elasticità unitaria l'aumento di . / compensa esattamente l'aumento di Z U , Z/ U. non cambia, e le quote dei fattori nella spesa complessiva rimangono pure immutate. In generale, come si vede dal grafico superiore della Figura, l'elasticità di sostituzione varia di punto in punto sulla collina della produzione, senza particolari restrizioni. Nel grafico inferiore è rappresentata invece una funzione di produzione particolamente comoda a fini espositivi (come le curve di domanda e di offerta lineari): una funzione caratterizzata RL

YL

RL

YL

VRVWLWX]LRQH

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/

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RL

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RL

RL

RL

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YL


dalla costanza della pendenza degli isoquanti lungo i raggi dal punto di origine. Con tale funzione, detta RPRWHWLFD, il rapporto . / adottato dall’impresa concorrenziale nei mercati dei fattori varia solo con Z U , e non con 4; l'elasticitĂ di sostituzione pure dipende allora da . / e Z U , ma non da 4, in quanto costante lungo ogni raggio dall'origine. Con restrizioni aggiuntive si arriva alla funzione di produzione a elasticitĂ di sostituzione costante, ossia uguale non solo lungo ogni raggio ma anche fra un raggio e l'altro. Una nota funzione di produzione con elasticitĂ di sostituzione costante e sempre pari a uno è la funzione &REE 'RXJODV definita come 4 $. / , con D . Notiamo che è a rendimenti di scala costanti: 4 Q. Q/ $ Q. Q/ Q $. / Q4 . / . Inoltre 03 G4 G. D $. / . D4 . e 03 G4 G/ D $. / / D 4 /, per cui 03 . D4 e 03 / D 4; minimizzando i costi Z U 03 03 , per cui 03 / 03 . Z/ U. D D, che è ovviamente costante. Siccome poi 03 / 03 .

D D implica 03 03 > D D@ . / , la pendenza dell'isoquanto varia con la pendenza del raggio dall'origine . / ma non con il livello di 4, e la funzione di produzione è (ovviamente) omotetica. Si consideri la Figura 5.c.2.2. Nel grafico superiore il punto ' è la tangenza tra l'isocosto %) e l'isoquanto 4; a quel punto corrispondono un consumo di / pari a 2( e un consumo di . pari a 2$. La spesa totale indicata dall'isocosto è & U 2% Z 2) , da cui Z U 2% 2) $% $' e Z $' U $% . D'altra parte . / 2$ 2( , da cui . 2(

/ 2$ ; ne consegue Z/ $' 2$ U. $% 2( , da cui, siccome $' 2(, Z/ U. $% 2$ . Di fatto 2$ è il capitale effettivamente utilizzato, $% l'equivalente in capitale, ai prezzi di mercato, del lavoro utilizzato; le quote del lavoro e del capitale nella spesa complessiva sono ovviamente in proporzione a questi segmenti. Il grafico inferiore illustra il significato geometrico dell'elasticità di sostituzione unitaria lungo l'isoquanto 4: dati i due isocosti con pendenza diversa tangenti all'isoquanto in due punti diversi ' e ' , le intercette degli isocosti e le proiezioni dei punti di tangenza sono tali che $% 2$ $ % 2$

. Se poi (come nella Cobb-Douglas) la funzione di produzione è omotetica e l'elasticità di sostituzione è ovunque unitaria, le tangenze con una data pendenza sono tutte sullo stesso raggio dall'origine, per cui spostando ad esempio il punto ' lungo il raggio 2' non cambia il rapporto $% 2$ ; in tal caso quanto detto sull'invarianza di tale rapporto vale anche se i due punti considerati non sono sullo stesso isoquanto. D

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5.c.3. i costi medi e i costi marginali La minimizzazione dei costi genera come abbiamo visto un luogo di tangenze tra gli isoquanti, rettilinei per l'impresa concorrenziale, e gli isocosti. Questo luogo di tangenze associa dunque a ogni livello di produzione (in unità fisiche: tonnellate...) il corrispondente livello di spesa minima (in unità monetarie: dollari...), e, ovviamente, a ogni livello di spesa il corrispondente prodotto massimo. Nella Figura 5.c.3.1 il primo grafico illustra il luogo di tali tangenze, e tre particolari tangenze che associano appunto tre livelli di spesa a tre livelli di prodotto 4. Nel secondo grafico della Figura è illustrata la curva dei costi totali 7& ("total cost") che si ottiene riportando nello spazio dollari-quantità le combinazioni di spesa e prodotto che corrispondono alle tangenze nel primo grafico, e dunque ai costi minimi per ogni livello di prodotto. Nel terzo grafico si ripete l'esercizio affrontato a suo tempo (Figura 2.a.3.2): tenendo 4 sull'asse orizzontale si misura sull'asse verticale non piÚ ma 4, che è la dimensione non dei costi complessivi ma dei costi unitari medi e marginali. Ricordiamo che tali costi unitari si evidenziano nel grafico precedente come pendenze: per esempio se 4 4 il costo marginale ("marginal cost") 0& G7& G4 corrisponde alla pendenza della funzione 7& in corrispondenza di 4 , ossia nel grafico all'angolo ; creato dalla tangente a

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7& nel punto ; il costo medio ("average cost") $& 7& 4 corrisponde invece alla pendenza del raggio dall’origine alla funzione 7& in corrispondenza di 4 , ossia nel grafico all’angolo < creato dalla retta dall’origine a 7& nel punto . A fini didattici abbiamo scelto una curva 7&, e tre combinazioni di 4 e , abbastanza particolari. Dalla forma stessa di 7& notiamo che (per la parte evidenziata) la pendenza di questa è in continuo aumento: i costi marginali sono sempre crescenti. Quanto ai costi medi, questi sono uguali al punto e al punto , ambedue sullo stesso raggio dall'origine illustrato con una retta continua. La retta tratteggiata è invece nel contempo il raggio dall'origine al punto , e la tangente a 7& al punto : l'angolo < corrisponde dunque sia al costo medio che al costo marginale, che nel punto sono uguali. Si osserva peraltro che < è minore non solo di < , ma di qualsiasi altro angolo < corrispondente al costo medio: risalendo infatti lungo 7&, l'angolo < diminuisce fino a toccare un minimo al punto , per poi risalire. I costi medi hanno dunque un andamento a "U", con un minimo a 4 , dove coincidono peraltro con i costi marginali proprio perchè l'angolo < più piccolo è dato ovviamente dal raggio tangente a 7&. Notiamo pure che se 4 4 allora ; <, ossia 0& $&, mentre se 4 ! 4 allora ; ! <, ossia 0& ! $&. Le curve dei costi marginali e medi sono illustrate nel terzo grafico della Figura. I costi marginali sono sempre crescenti; i costi medi sono uguali per 4 e 4 , e minimi per 4 ; sempre per 4 i costi medi e marginali sono uguali; per 4 4 i costi medi superano i costi marginali, e viceversa per 4 ! 4 . La curva dei costi marginali incrocia dunque la curva dei costi medi al minimo di questi. Non può essere diversamente: il minimo di $& è il punto in cui questa passa da calante a crescente; ma è l'aggiunta del valore marginale che modifica il valore medio (come la media dei voti...), per cui il valore medio cala fintanto che il valore marginale è inferiore al valore medio, e risale come i valori marginali superano il valore medio.

5.d. l'equilibrio di concorrenza 5.d.1. l'equilibrio dell'impresa concorrenziale Se ipotizziamo per facilitarci l'esposizione che la funzione di produzione (la "tecnologia") si comune a tutte le imprese, di fronte a prezzi identici queste avranno funzioni di costo identiche, e dunque equilibri identici; possiamo dunque limitare l'analisi all'impresa "rappresentativa". Gli economisti hanno tradizionamente ipotizzato che le curve dei costi delle imprese siano effettivamente a "U", ossia con costi medi calanti fino a un certo livello di produzione, e poi crescenti. Ipotizzando sempre per semplificare l'analisi che la funzione di produzione sia omotetica, per dati prezzi le tangenze tra isoquanti e isocosti saranno tutte lungo un raggio dal punto di origine, come nel primo grafico della Figura 5.d.1.1. Essendo dunque le variazioni lungo tale raggio semplici variazioni di scala, con rapporti immutati tra i fattori, è ovvio che la variazione dei costi medi è legata all'andamento dei rendimenti di scala: raddoppiando per esempio il consumo dei fattori e dunque la spesa, i costi medi calano se il prodotto aumenta di più del doppio, e crescono se il prodotto aumenta di meno del doppio. Ipotizzare costi medi a "U" significa in sostanza ipotizzare rendimenti di scala variabili, prima crescenti e poi decrescenti; i costi medi minimi si verificano quando i rendimenti di scala smettono di essere crescenti a incominciano ad essere calanti, ossia al punto preciso dei rendimenti di scala costanti. Siccome poi il punto di origine è sulla curva dei costi totali (ossia con spesa zero si ottiene prodotto zero), la curva dei costi totali che corrisponde ai costi medi a "U" è prima convessa dall'alto e poi convessa dal basso, come 107


illustrato nel secondo grafico della Figura (con un punto di inflessione che corrisponde ai costi marginali minimi, peraltro senza interesse particolare). Per l'impresa concorrenziale, poi, il prezzo di vendita è parametrico, per cui la curva dei ricavi totali è un raggio dall'origine. Data la linearità della curva dei ricavi, la doppia curvatura della curva dei costi serve a definire la scala ottimale e il livello di produzione dell'impresa: un punto unico in cui i ricavi marginali e i costi marginali sono uguali, e l'impresa massimizza i profitti. Questo equilibrio è illustrato nel secondo e terzo grafico della Figura: con ricavi totali ("total revenue") 75 e ricavi medi e marginali 3 l'equilibrio è in 4 , con ricavi totali 75 e ricavi medi e marginali 3 l'equilibrio è a 4 , e via di seguito. Di fatto, poi, e con meccanismi che vedremo meglio tra poco, la concorrenza fra gli imprenditori azzera i profitti; l'equilibrio dell'impresa che è compatibile con l'equilibrio dei mercati, ossia con rendite zero, è solo quello rappresentato dal profitto massimo pari a zero, ossia di una retta dei ricavi totali tangente alla curva dei costi totali al punto dei costi medi minimi: ogni impresa produce la quantità precisa e unica che minimizza i costi medi, vende a un prezzo che (grazie alla concorrenza) è uguale non solo al costo marginale ma al costo medio minimo, e massimizzando i profitti riesce appena a coprire i costi. Si capisce così l'attaccamento degli economisti ai rendimenti di scala prima crescenti e poi calanti. Se questi fossero sempre crescenti, la curva dei costi totali sarebbe sempre convessa dall'alto, come nel primo grafico della Figura 5.d.1.2; l'impresa vorrebbe crescere senza limiti, e l'equilibrio concorrenziale di profitto massimo zero sarebbe impossibile. Se i rendimenti di scala fossero sempre calanti la curva dei costi sarebbe sempre convessa dal basso, come nel secondo grafico della Figura; i costi minimi e l'equilibrio di concorrenza con prezzo pari al costo medio minimo si otterrebbero con imprese microscopiche, che producono ognuna una quantità infinitesimale del prodotto. Con rendimenti e costi costanti, poi, la curva dei costi totali sarebbe un semplice raggio dal punto di origine, come la curva dei ricavi totali. Se queste due rette hanno pendenze diverse l'impresa vuole o scomparire (se i costi marginali e medi sono sempre superiori ai ricavi marginali e medi) o crescere senza limiti (se i ricavi marginali e medi sono sempre superiori ai costi marginali e medi), come nel terzo e quarto grafico della Figura; nell'equilibrio di concorrenza a profitto zero avrebbero la stessa pendenza, come nel quinto grafico della Figura, ma con ricavi e costi marginali e medi sempre uguali l'impresa è indifferente tra qualsiasi livello di produzione e decide a caso quanto produrre. Notiamo peraltro che i rendimenti costanti creano difficoltà solo nel caso dell'impresa concorrenziale: l'impresa che vende con potere di mercato ha dei ricavi medi e marginali decrescenti, e se la curva dei costi è lineare basta la curvatura della curva dei ricavi a definire il punto di profitto massimo, come nel sesto grafico della Figura. In sostanza, dunque, l'esistenza della concorrenza fra imprese non microscopiche giustifica l'ipotesi dei rendimenti di scala prima crescenti e poi calanti. Rimane logicamente problematica l'idea stessa dei rendimenti di scala decrescenti, per i motivi suddetti; la spiegazione tradizionale che col crescere dell'impresa prima o poi i costi crescono perchè l'imprenditore non riesce più a controllare tutto può essere vera, ma è logicamente fuori dai paragoni di scala perchè si ipotizza che aumentano tutti i fattori di produzione tranne uno, quello appunto che gestisce gli altri.

5.d.2. l'impresa e i fattori di produzione Data la funzione di produzione, la decisione dell'impresa sulla quantità di fattori di produzione da acquistare equivale alla decisione di quanto produrre, vendere, e ricavare. Per l'impresa concorrenziale il costo marginale di ciascun fattore corrisponde al suo prezzo: 0& G7& G/ Z e 0& G7& G. U. Il beneficio corrispondente all'impiego di un unità di fattore aggiuntivo è l'aumento corrispondente del ricavo, detto ricavo marginale 05 /

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("marginal revenue"), termine che continueremo a usare al posto del generico "beneficio marginale": 0% G75 G/ 05 e 0% G75 G. 05 . Questo ricavo marginale dell'unità di fattore si può utilmente scomporre in due parti, corrispondenti all'aumento da un lato dei ricavi per unità di prodotto, ossia il ricavo marginale del prodotto 05 , e dall'altro della produzione per unità del fattore, ossia il prodotto marginale del fattore 03 o 03 : 05 G75 G/ G75 G4 G4 G/ 05 03 , e 05 G75 G. G75 G4 G4 G. 05 03 . Se l'impresa è concorrenziale pure nel mercato in cui vende, il prezzo del bene è parametrico e 05 3 , per cui 05 3 03 e 05 3 03 . L'equilibrio nell'uso dei fattori implica 0& 05 e 0& 05 ; se l'impresa è concorrenziale in tutti i mercati, queste uguaglianze si riducono a Z 3 03 e U 3 03 . In sostanza, dunque, il prezzo del fattore è il suo costo marginale (in dollari per unità di fattore); l'impresa ne impiega quanto basta per ridurre a tale livello il corrispondente beneficio o ricavo marginale, che è a sua volta pari al prodotto di due elementi, il prezzo del bene (in dollari per unità di prodotto), e il prodotto marginale del fattore (in unità di prodotto per unità di bene). Come si vede dalla Figura 5.d.2.1, riferita al lavoro, OD FXUYD GHL ULFDYL PDUJLQDOL GHO IDWWRUH GL SURGX]LRQH q OD FXUYD GL GRPDQGD GHOO LPSUHVD SHU TXHO IDWWRUH. Le equazioni Z 3 03 e U 3 03 corrispondono, per l'impresa concorrenziale in tutti i mercati, alla massimizazione del profitto; dal loro rapporto si ottiene Z U 03 03 , che è la condizione che corrisponde alla minimizzazione dei costi. Questo non sorprende: già sappiamo che massimizzare i profitti implica minimizzare i costi (della quantità prodotta). Peraltro la condizione Z 3 03 , o in generale 0& 05 03 , equivale a 3 Z 03 , e in generale a 05 0& 03 ; e cosÏ pure a 05 0& 03 . Ma già sappiamo dal punto 5.c.1. che 0& 03 0& 03 0& ; per cui la condizione che corrisponde all'uso dei fattori che massimizza il profitto corrisponde pure a 05 0& , ossia alla produzione che massimizza il profitto. Siccome la produzione dipende dall'uso dei fattori, non potrebbe essere altrimenti. Nell'equilibrio dei mercati, poi, il profitto è nullo, e l'impresa produce la quantità che minimizza i costi medi, ossia al livello che corrisponde ai rendimenti di scala costanti (fra quelli crescenti e quelli calanti). Nella Figura, il trapezio definito dalla curva dei ricavi marginali del lavoro e la quantità di lavoro utilizzata corrisponde al ricavo complessivo 75; il rettangolo definito dal salario unitario e quella stessa quantità di lavoro, al monte salari Z/; data la nullità dei profitti 75 7&, e il triangolo residuo definito dalla curva dei ricavi marginali e il salario unitario corrisponde dunque al reddito del capitale U. 75 Z/ 7& Z/. Invocando il WHRUHPD GL (XOHU, notiamo che se la funzione 4 . / è omogenea di primo grado, ossia a rendimenti di scala costanti (come appunto nell'equilibrio dei mercati), allora si verifica che 4 G4 G. . G4 G/ / 03 . 03 /; ne consegue che 3 4 3 03 . 3 03 / U. Z/, ossia che se ogni fattore è pagato il valore del suo prodotto marginale la somma dei pagamenti ai fattori esaurisce esattamente il reddito dell'azienda (cosa che invece non si verifica con rendimenti di scala crescenti o calanti). /

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5.d.3. l'impresa e l'industria La Figura 5.d.3.1 illustra l'equilibrio dell'impresa rappresentativa, dell'industria che si ipotizza composta di Q imprese identiche, e dei mercati, sempre nell'ipotesi di concorrenza perfetta in tutti i mercati. Tutti i grafici sono nello spazio prezzo-quantità , rispettivamente del bene prodotto (in alto), del lavoro (al centro), e del capitale (in basso); i grafici a sinistra sono riferiti all'impresa, quelli a destra all'industria e ai mercati. In alto a sinistra è illustrato l'equilibrio dell'impresa come produttrice del bene: il prezzo di questo è parametrico, per cui 05 $5 3 , l'impresa massimizza il profitto, per cui 05 0& , e la concorrenza fra gli imprenditori riduce il profitto a zero, per cui 4

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$5 $& ; ne consegue che $& 0& , per cui il prodotto 4 è quello associato ai costi medi piÚ bassi raggiungibili. In alto a destra è illustrato l'equilibrio nel mercato del bene: il prezzo (che l'impresa considera parametrico) è dato dall'incrocio tra domanda e offerta; la quantità totale è quella prodotta dalle Q imprese, per cui 4 Q4 . La domanda di mercato è definita dai consumatori del bene ("le famiglie", se questo è un bene finale, come si è detto); sulla definizione dell'offerta torneremo tra breve. Al centro a sinistra è illustrato l'equilibrio dell'impresa come utilizzatrice di lavoro: il prezzo di questo è parametrico, per cui 0& $& Z; l'impresa massimizza il profitto, per cui 05 0& , e l'impresa utilizza / unità di lavoro. Al centro a destra è illustrato l'equilibrio nel mercato del lavoro: il prezzo (che l'impresa considera parametrico) è dato dall'incrocio tra domanda e offerta; la quantità totale è quella utilizzata dalle Q imprese, per cui / Q/ . L'offerta di mercato è definita dai venditori del lavoro ("le famiglie"); sulla definizione della domanda torneremo tra breve. In basso a sinistra e a destra troviamo gli stessi grafici per il fattore "capitale"; ricordiamo che ipotizziamo un sistema completo di mercati, per cui l'impresa affitta "il capitale" dalle famiglie esattamente come affitta "il lavoro". Consideriamo adesso l'offerta del bene, e la Figura 5.d.3.2, che riprende la Figura precedente. Ipotizziamo che per un motivo qualsiasi la domanda per il bene aumenti. Nel grafico in alto a destra la domanda si sposta da ' a ' ; l'equilibrio si sposterà lunga la curva di offerta 6 da 3 4 a 3 4 . Le condizioni di equilibrio dell'impresa sono quelle note, e non cambiano: nel nuovo equilibrio come nel vecchio produrrà a costi medi minimi e profitti zero. Ipotizziamo, a fini espositivi, che la scala di produzione che minimizza i costi medi non sia cambiata: l'impresa produce quanto prima, ma a costi medi e marginali piÚ alti. Come illustrato dal grafico in alto a sinistra, le curve dei costi dell'impresa sono scivolate verso l'alto. Se poi l'impresa produce quanto prima, è ovvio che l'aumento della produzione complessiva si ottiene aumentando non la scala delle imprese esistenti, ma il numero di queste: se 4 4 , e 4 Q 4 ! 4 Q 4 Q 4 , allora Q ! Q , e Q Q 4 4 . Di fatto, non è detto che la scala delle imprese rimanga costante; ma il punto fondamentale è che FRQ UHQGLPHQWL YDULDELOL OH LPSUHVH KDQQR XQD GLPHQVLRQH EHQ GHILQLWD H GD XQ HTXLOLEULR DOO DOWUR YDULD LO QXPHUR GHOOH LPSUHVH. Per l'industria, insomma, l'unità rilevante è la singola impresa di scala ottimale, con il suo prodotto; l'industria intera cambia scala cambiando il numero non delle unità di prodotto in quanto tali, ma delle unità produttrici. La curva di offerta dell'industria concorrenziale indica per definizione la quantità prodotta e venduta a ogni prezzo, parametrico per le singole imprese; le variazioni di tale quantità riflettono le variazioni nel numero delle imprese attive, e non (o non solo) le variazioni della scala produttiva delle imprese esistenti; e l'elasticità della curva di offerta dipende, o meglio è limitata, dalla variazione dei costi delle imprese indotta dalla variazione nel loro numero e nella produzione complessiva. Essendo data la tecnologia, e variabile il numero delle imprese che la usano, l'industria che cresce replicando imprese identiche è ovviamente a rendimenti di scala costanti: come cresce l'industria la produttività dei fattori di produzione non diminuisce, anche se diminuirebbe se ogni impresa dovesse produrre di piÚ. Ma se la produttività non cala, l'aumento dei costi dell'impresa non può essere dovuto che all'aumento dei costi unitari dei fattori che utilizza, ossia dei prezzi dei fattori. Il motivo di questo aumento dei prezzi dei fattori e dunque dei costi è illustrato negli altri grafici della Figura. L'industria è concorrenziale, ripetiamo, solo nel senso che è composta da imprese concorrenziali; nel mercato dei fattori rappresentati nei grafici ha un notevole potere di mercato, e il prezzo di equilibrio varia con le quantità acquistate 4

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dall'industria nel suo complesso. I costi aumentano, e la curva di offerta dell'industria non è perfettamente elastica, perchè non sono perfettamente elastiche le curve di offerta dei fattori di produzione; come l'industria si espande aumenta la domanda dei fattori, e i prezzi di questi aumentano. Ipotizziamo, per semplicità, che l'industria "concorrenziale" abbia lo stesso potere in ambedue i mercati dei fattori; i prezzi di questi aumentano dunque senza cambiare il loro prezzo relativo, e le singole imprese non cambiano le quantità relative dei fattori che usano (e dunque non cambia la scala che minimizza i costi, e non cambiano nemmeno le quantità assolute dei fattori usate dalle singole imprese). In questo caso ipersemplificato, insomma, le imprese si moltiplicano ma non cambiano: l'aumento del prezzo del bene copre esattamente l'aumento dei costi unitari dei singoli fattori e del bene prodotto. In generale, ovviamente, la cosa non sarà così semplice: l'industria userà fattori più o meno specifici, la sua espansione farà aumentare i prezzi dei diversi fattori in proporzioni diverse; espandendosi l'industria cambieranno dunque le proporzioni dei fattori che minimizzano i costi, cambierà pure probabilmente la scala ottimale della singola impresa. Ma tutto ciò è incidentale; rimane il punto fondamentale, cioè che OD FXUYD GL RIIHUWD GHOO LQGXVWULD FRQFRUUHQ]LDOH q LO OXRJR GHL FRVWL PHGL PLQLPL GHOOH LPSUHVH DO YDULDUH della scala dell'industria, ossia GHOOD SURGX]LRQH FRPSOHVVLYD GHO EHQH H TXHVWL FRVWL YDULDQR SHUFKq YDULDQR L SUH]]L GHL IDWWRUL. Ne consegue che la curva di offerta dell'industria è perfettamente elastica solo l'industria intera è priva di potere nei mercati dei fattori, per cui i prezzi di questi rimangono invariati. Come già notato (5.a.4.), ciò esige che l'industria in esame sia una componente esigua della domanda complessiva per tutti i fattori che usa: in sostanza, che affitti i fattori di produzione in un vasto mercato mondiale, o, in un'economia chiusa, che sia piccola e non usi fattori ad essa specifici. Ne consegue pure, ovviamente, che l'offerta dell'industria aumenta se vi è progresso tecnico, che aumenta il prodotto a parità di uso dei fattori e dunque dei prezzi di questi e dei costi dell'impresa, e pure se aumenta l'offerta dei fattori, ossia se ogni quantità complessiva di questi si può affittare a prezzi più bassi. 5.d.4. il significato della concorrenza In un contesto pienamente concorrenziale, poi, il prezzo del bene 3 è anche il costo marginale per il compratore del bene 0& , per cui nell'equilibrio di questo è uguale pure al suo prezzo di domanda o beneficio marginale 0% ; il prezzo del fattore di produzione, ad esempio Z, è anche il beneficio marginale per il venditore del lavoro 0% , per cui nell'equilibrio di questo è uguale pure al suo prezzo di offerta o costo marginale 0& . L'equilibrio dell'impresa concorrenziale L significa a sua volta che 3 05 0& Z 03 : se ad esempio al margine un lavoratore produce un quarto di unità di prodotto, il prezzo del bene sarà uguale al salario di quattro lavoratori. Nell'equilibrio concorrenziale, dunque, 0% 0& 3 05 Z 03 0% 03 0& 03 . Riassumendo, 0% 0& 03 : in equilibrio il beneficio marginale del compratore del bene è uguale al costo marginale di esso, non solo per l'impresa, ma per i lavoratori che di fatto lo producono (quattro, se 03 = 0,25). Il compratore del bene compra, indirettamente e tramite l'impresa, il lavoro necessario per produrlo; se tutti i mercati sono concorrenziali questo scambio indiretto raggiunge esattamente il livello (Pareto) efficiente che raggiungerebbe se lo scambio fosse diretto. Dati due beni ; e <, poi, nell'equilibrio di concorrenza 3 0& Z 03 U 03 e 3 0& Z 03 U 03 , per cui 3 3 03 03 03 03 , e i prezzi relativi che guidano le scelte dei consumatori corrispondono 4

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esattamente ai FRVWL RSSRUWXQLWj UHDOL (i rapporti dei prodotti marginali, uguali per tutti i fattori). Nell’equilibrio di concorrenza, dunque, l’individuo sceglie esattamente i consumi che sceglierebbe se avesse direttamente di fronte a se il tasso al quale si possono sostituire i diversi beni spostando risorse dalla produzione dell’uno alla produzione dell’altro. Ogni operatore reagisce solo al prezzo di mercato; se i mercati sono concorrenziali i prezzi portano le famiglie compratrici di beni e affittatrici di fattori a praticare tutti gli scambi e le trasformazioni utili (paretiani), come se fossero in contatto diretto e conoscessero le possibilità tecniche, o come se fossero coordinati da un pianificatore onnisciente. Il mercato di concorrenza può dunque essere considerato un coordinatore, come aveva intuito Smith, o un mezzo efficientissimo di diffusione delle informazioni, insomma di FRPXQLFD]LRQH, come intendeva Hayek. Questo equilibrio Pareto-efficiente non si raggiunge, ovviamente, se il compratore del bene o il venditore del fattore di produzione è dotato di potere di mercato, cosa peraltro abbastanza rara. Non si raggiunge nemmeno se l'impresa è dotata di potere di mercato, sia come venditrice del bene, sia come compratrice del fattore. L'impresa monopolista restringe gli scambi, in effetti comunicando al compratore del bene un'offerta dei fattori minore di quella effettiva, e al venditore del fattore una domanda minore di quella effettiva. Ricordiamo ancora una volta lo sdegno di Simons di fronte al monopolio privato. In un'ottica individualista, hayekiana, la funzione sociale dell'impresa è quella di far comunicare le famiglie che comprano (beni) e vendono (fattori), e solo l'impresa concorrenziale fa da tramite in modo onesto. L'impresa monopolistica passa informazioni distorte, presentando agli acquirenti prezzi di offerta gonfiati, ai venditori offerte di acquisto sminuite: esattamente come l'agenzia immobiliare disonesta, che potendo trattare separatamente con chi compra e chi vende fa pagare al primo una somma superiore a quella che dice al secondo di avere ricevuto. 5.d.5. il significato dei rendimenti variabili L'ipotesi dei rendimenti variabili e dunque dei costi medi a "U" serve, l'abbiamo visto, a giustificare la struttura dell'industria come una di concorrenza tra imprese di dimensioni ben definite. Ricordiamo che i rendimenti sempre decrescenti portano alla concorrenza, ma tra imprese microscopiche; i rendimenti sempre crescenti distruggono la concorrenza, come aveva capito Marx, perchè l'impresa più grande ha costi minori delle più piccole, che dunque falliscono; i rendimenti ORFDOPHQWH costanti, nell'equilibrio di concorrenza, assicurano il profitto zero con remunerazioni dei fattori pari ai valori dei prodotti marginali; ma i rendimenti sempre costanti renderebbero aleatorie le dimensioni delle imprese. Di fatto, come abbiamo visto, i prezzi dei fattori e dei beni dipendono tutti dagli acquisti e dalle vendite dell'industria intera; la suddivisione interna dell'industria è ininfluente, per cui potrebbe benissimo essere aleatoria. Per essere più precisi, è utile distinguere l'impresa, unità amministrativa, dalla fabbrica, unità produttiva. L'industria è naturalmente concorrenziale se i costi medi minimi si raggiungono con fabbriche piccole, ossia che producono poco rispetto al consumo totale al prezzo di costo minimo; alla singola impresa si possono benissimo attribuire rendimenti e costi costanti, moltiplicando fabbriche di dimensioni ottimali. Il fatto che la dimensione dell'impresa diventa allora aleatoria non ha conseguenze: quand'anche una singola impresa dovesse riunire tutte le fabbriche dell'industria, rimarrebbe senza potere di mercato. Ricordiamo infatti che la domanda per il singolo operatore è la domanda netta, ottenuta come saldo fra domanda complessiva e offerta altrui; se anche gli altri imprenditori possono affittare mura, macchine, e lavoro--ossia allestire una fabbrica--e produrre agli stessi costi minimi della grande impresa esistente, l'offerta degli altri è 112


perfettamente elastica a quel prezzo di costo minimo, ed è pure perfettamente elastica la domanda netta per il prodotto della grande impresa. Possiamo dire se vogliamo che l'industria rimane concorrenziale anche se coincide con un'unica grande impresa, che non è un monopolio nel senso economico, ossia non ha potere di mercato. Possiamo anche dare un significato diverso alle parole, e dire che questa industria è un monopolio, nel senso etimologico/giuridico, perchè coincide con un'unica grande impresa, e dunque non concorrenziale; ma dobbiamo allora aggiungere che l'assenza di potere di mercato, e dunque gli effetti della concorrenza fra imprese numerose, sono garantiti comunque dalla concorrenza degli altri imprenditori e delle loro imprese potenziali. Il gergo degli economisti si è assestato, forse stranamente, su questa seconda costellazione; si dice adesso che i risultati dei mercati concorrenziali (con tante imprese effettivamente attive) si ottengono anche con i PHUFDWL FRQWHQGLELOL, ossia quelli in cui l'unica impresa, "di monopolio" (etimologico), rimane esposta alla concorrenza da parte di imprese potenzialmente attive. In sostanza, dunque, possiamo benissimo permettere alle imprese di replicare il modo meno costoso di produrre, e godere pertanto di costi costanti; rimarranno comunque prive di potere di mercato, per cui l'industria rimane concorrenziale, nel senso convenzionale, a prescindere dal loro numero. Tale numero diventa sÏ aleatorio; ma siccome non incide sui comportamenti nulla dipende da esso, e rimane dunque senza interesse. Da un equilibrio all'altro, dunque, variano il prodotto dell'industria, il consumo e dunque i prezzi dei fattori, e dunque i costi delle imprese e il prezzo del bene; il numero delle imprese è indifferente, e varia di fatto il numero delle fabbriche. 5.d.6. il breve periodo e il lungo periodo Avevamo segnalato che in generale l'elasticità delle curve di domanda e di offerta è tipicamente minore nel breve periodo che non nel lungo periodo (2.c.4.). Torniamo adesso a illustrare questo concetto nel contesto specifico della produzione, dove i diversi periodi hanno un senso ben preciso. Per definizione, QHO OXQJR SHULRGR VRQR YDULDELOL WXWWL L IDWWRUL GL SURGX]LRQH PHQWUH QHO EUHYH SHULRGR q YDULDELOH XQ VROR IDWWRUH GL SURGX]LRQH; se i fattori di produzione sono piÚ di due esisteranno pure periodi intermedi, tanto meno brevi, tanto piÚ numerosi sono i fattori variabili. Si consideri l'industria dei trasporti aerei. Non è una scelta a caso: è infatti un'industria caratterizzata dalla completezza dei mercati, e la diffusa separazione tra imprese produttrici di trasporti, che utilizzano beni durevoli (gli aerei), e i proprietari di questi beni (di fatto altre imprese, di leasing). Per ipotesi, questa industria produce un prodotto omogeneo 4 ("viaggi", o piÚ precisamente, posti-chilometro), che vende in un mercato concorrenziale al prezzo 3 . Usa un capitale . specializzato, gli aerei da trasporto, anch'essi omogenei, che affitta giorno per giorno in un mercato anch'esso concorrenziale, al prezzo U. Gli aerei sono oggetti complessi, con un tempo di produzione di molti mesi, per cui la flotta aerea non si può aumentare dal giorno all'indomani; nel breve periodo, dunque, il capitale disponibile è fisso. Nel lungo periodo, il capitale può ovviamente crescere; siccome poi di fondo gli aerei sono assemblaggi di alluminio informatizzati, e contano ben poco rispetto alle pentole e i PC, nel lungo periodo sono disponibili al prezzo di costo costante 3 . Per i soliti equilibri di arbitraggio gli investimenti in aerei da affittare renderanno l'interesse di mercato (e un premio di rischio), per cui nel lungo periodo anche U è costante. L'industria dei trasporti aerei usa anche personale specializzato, piloti e meccanici. Questi hanno bisogno di un lungo addestramento, per cui non si possono aumentare in tempi brevi; per il resto sono persone normali, in offerta perfettamente elastica. In sostanza sono 4

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simili agli aerei; e siccome vogliamo limitarci a due fattori di produzione li incorporiamo direttamente nel capitale, e non ne parliamo piÚ. Per il resto l'industria usa lavoro / assolutamente generico (che scarica e carica il bagaglio, ricarica i serbatoi, e riordina la cabina tra un volo e l'altro), reclutabile dagli altri settori al prezzo costante Z, e variabile anche nel breve periodo. La tecnologia è ovviamente a rendimenti costanti (raddoppiando aerei e personale si produce il doppio); per semplificare l'esposizione assumiamo che il numero (arbitrario) di compagnie aeree sia fisso e pari a Q, e che queste siano identiche. Si consideri la Figura 5.d.6.1. I due grafici in alto sono nello spazio prezzo-quantità dei fattori di produzione; sono riferiti all'industria, ma facilmente riferibili all'impresa. Quello a sinistra è riferito al lavoro, disponibile per l'industria (oltre che per l'impresa) a salario Z costante, nel breve periodo come nel lungo; l'offerta di lavoro di breve periodo 6 è dunque orizzontale, e coincide con l'offerta di lavoro di lungo periodo 6 . Per passare dall'industria all'impresa, basta dividere per Q i valori sull'asse orizzontale. Il grafico a destra è riferito al leasing del capitale, ossia degli aerei. L'offerta di lungo periodo 6 è anch'essa orizzontale, al prezzo U ; l'offerta di breve periodo è invece verticale. Per passare dall'industria all'impresa basta dividere per Q i valori sull'asse orizzontale, e ricordare che per l'impresa l'offerta è sempre perfettamente elastica (orizzontale) al prezzo di mercato U. I grafici centrali sono nello spazio prezzo-quantità del bene prodotto. Quello a sinistra è riferito all'industria; con funzioni di offerta dei fattori perfettamente elastiche nel lungo periodo e rendimenti di scala costanti, l'offerta di trasporto aereo di lungo periodo 6 è anch'essa perfettamente elastica, per ipotesi al prezzo 3 . Il grafico di destra è riferito all'impresa, che per ipotesi produce Q del prodotto complessivo. Le curve a "U" dei costi medi sono riferite ad una flotta data; con i prezzi dei fattori ai valori di lungo periodo il costo minimo rimane pari a 3 , e la quantità corrispondente varia con la dimensione della flotta aerea ("il numero delle fabbriche"). Il grafico in basso, nello spazio dei fattori, e dunque degli isoquanti e isocosti, è riferito pure all'industria; per passare all'impresa basta ancora una volta dividere per Q i valori sugli assi e sugli isoquanti. Ipotizziamo un equilibrio iniziale, caratterizzato nei tre grafici "di mercato" dall'intersezione delle curve di domanda ' con le curve di offerta di lungo periodo 6 . Nei grafici in alto si osservano le combinazioni Z / e U . per l'industria, da cui per l'impresa Z / Q e U . Q ); al centro si osservano 3 4 per l'industria e 3 4 Q per l'impresa; e in basso si osserva l'equilibrio con appunto (per l'industria) / . 4 , che corrisponde al costo totale minimo 7& per la quantità prodotta. Immaginiamo che la domanda per il trasporto aereo aumenti, spostandosi da ' a ' , raddoppiando la quantità desiderata al prezzo 3 . Nel nuovo equilibrio di lungo periodo l'industria occuperà / / persone e . . aerei, producendo 4 4 viaggi, con prezzi immutati dei fattori e dei beni; la singola impresa raddoppia impieghi e produzione, e raddoppiando la flotta la curva dei costi medi per la flotta data si sposta da $& a $& , con costo medio minimo immutato e prodotto appunto doppio. Nello spazio dei fattori si osserva un aumento di scala a rendimenti costanti, dal punto ( al punto ( , con consumi dei fattori, costi complessivi, e prodotto tutti raddoppiati, per l'industria e dunque per ogni impresa (anche se come sappiamo una redistribuzione tra le diverse imprese, o un mutamento nel loro numero, non cambia nulla). Consideriamo ora l'equilibrio di breve periodo, durante il quale la flotta aerea complessiva rimane fissa. Al prezzo 3 , raddoppiando la domanda, le compagnie aeree sono inondate di richieste; come un ufficio riceve le prenotazioni, un'altro ufficio assume personale, e un'altro ancora chiede aerei aggiuntivi alle compagnie di leasing. Siccome però %3

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gli aerei disponibili sono quelli che sono, questa richiesta di aerei aggiuntivi fa solo lievitare il prezzo di affitto degli aerei esistenti; ne risulta un aumento dei costi delle compagnie e dunque del prezzo del prodotto. La produzione aumenta, ma solo grazie all’aumento del personale; aumenta pure il rapporto lavoro/capitale, coerentemente con la VRVWLWX]LRQH tra i fattori indotta dal mutamento dei loro prezzi relativi. Ripercorriamo i vari elementi del nuovo equilibrio. Nei grafici in alto notiamo per ora l’aumento della domanda per ambedue i fattori di produzione, riflesso dell’aumento della domanda per il prodotto; per ipotesi nel mercato del lavoro si scambia una quantità / ! / a prezzo Z immutato, nel mercato (di leasing) degli aerei si scambia una quantità . . , dunque immutata, al prezzo U ! U . Nel grafico centrale a sinistra compare OD FXUYD GL RIIHUWD GL EUHYH SHULRGR dell'industria in esame, 6 ; come quella di lungo periodo corrisponde al luogo dei costi medi minimi delle imprese concorrenziali al variare del prodotto complessivo e dunque dei prezzi dei fattori di produzione, ma a differenza di questa è definita per una quantità immutata del fattore fisso, nel caso, lo stock di aerei. La quantità del fattore fisso è dunque un parametro della curva di offerta di breve periodo; quella illustrata è appunto quella definita per lo stock di aerei raggiunto nell'equilibrio iniziale 3 4 , e passa dunque per quel punto. Ipotizziamo che la 6 (definita, ripetiamo, dall'aumento dei costi e dei prezzi con l'aumento della produzione con stock di capitale fisso) incontri la curva di domanda ' al e 4 ! 4 . Nel grafico centrale di destra vediamo che per punto 3 4 , con 3 ! 3 l'impresa, dati sempre gli equilibri con profitti di arbitraggio nulli, i costi medi minimi sono aumentati appunto fino a $& 3 ! $& ; il prodotto corrispondente (date sempre per comodità Q imprese identiche) è ovviamente 4 Q ! 4 Q . Nel grafico in basso, nello spazio dei fattori, il nuovo equilibrio sarà il punto ( definito dall'intersezione fra l'isoquanto 4 e la retta che mantiene . . , che è poi il punto di tangenza fra quell'isoquanto e l'isocosto 7& con pendenza Z U Z U : di fatto, la concorrenza tra le imprese per accaparrare gli aerei ne fa lievitare il prezzo di leasing finchè la quantità desiderata non coincide con la quantità disponibile. Infatti . è fisso solo per l'industria; ognuna delle Q imprese osserva solo l'aumento del prezzo U, che la porta a decidere di produrre di più con una flotta immutata, e più personale (totale e per unità di capitale). La forza lavoro dunque aumenta, nel caso fino a / ! / ! / : in sostanza, visto l'alto prezzo dei viaggi e l'alto costo degli aerei, l'impresa assume molto personale di terra per abbreviare i tempi morti tra un volo e l'altro. Con la stessa flotta aerea si produce dunque 4 ! 4 , con però un notevole incremento dei costi medi. Dati i rendimenti costanti, infatti, i costi medi pure sarebbero costanti se si potesse produrre 4 a costi minimi con prezzi e rapporti dei fattori immutati, ossia al punto di tangenza dell'isoquanto 4 all'isocosto 7& (la tratteggiata parallela a 7& e 7& ). Si produce invece con Z immutato e U aumentato, e costi totali 7& ; l'aumento dei costi medi è nella proporzione 7& 7& , ossia data la costanza di Z nella proporzione / / fra le intercette orizzontali di questi due isocosti. Ritorniamo ora ai grafici in alto, riferiti ai mercati dei fattori. A salario immutato, l'industria impiega come si è detto / ! / ! / persone. Essendo immutato il capitale utilizzato, e dunque la curva del prodotto marginale del lavoro, lo spostamento della domanda di lavoro da ' a ' è dovuto interamente all'aumento del prezzo del bene: per ogni quantità di / il prezzo di domanda 3 03 aumenta perchè è aumentato 3 . La domanda per il bene durevole è anche aumentata, di ' in ' , sia perchè è aumentato il prezzo del bene, sia perchè con l'aumento del personale / aumenta pure il prodotto marginale del capitale 03 . Siccome però nel breve periodo l'offerta di aerei è rigida, come si è visto l'aumento della domanda porta solo ad un aumento delle tariffe di leasing, da U a U . %3

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5.d.7. dal breve al lungo periodo: il mercato dei beni durevoli Consideriamo adesso il passaggio dall’equilibrio di breve periodo al nuovo equilibrio di lungo periodo. Nell’equilibrio di breve periodo sono in equilibrio le imprese, che massimizzano i profitti peraltro pari a zero, e i mercati in cui si affittano i lavoratori e gli aerei; se l’equilibrio è pur sempre solo di breve periodo, è perchè non è in equilibrio anche lo stock di capitale, appunto perchè come si è ipotizzato il suo incremento richiede notevoli tempi tecnici. Consideriamo adesso in termini generali un tipico mercato di beni durevoli. Nel breve periodo, come abbiamo visto, essendo fissa la quantitĂ disponibile, l'arbitraggio (la concorrenza tra le imprese) porta il prezzo di leasing U al prezzo di domanda per lo stock esistente, ossia al valore del suo prodotto marginale. L'arbitraggio opera pure nel mercato in cui si scambiano gli stessi beni durevoli; come sappiamo (supra, 3.b.14), il prezzo di domanda e di mercato di questi 3 sarĂ il valore attuale, ossia la la capitalizzazione, del reddito netto atteso. Se per ipotesi U è il reddito netto del proprietario del bene (ossia se la manutenzione è a carico dell'affittuario), e si presume che tale reddito rimarrĂ costante per la vita 7 del bene, e il tasso di sconto (comprensivo del premio rischio) è L, allora 3 U >U L @ >U L @ >U L @. Il prezzo 3 dunque aumenta con U (e a paritĂ di U attesi nel futuro piĂš lontano, aumenta se aumentano gli U attesi negli anni piĂš vicini). Nel caso della terra, data e indistruttibile, il discorso finisce qui; ma per i beni durevoli riproducibili bisogna tener conto sia della produzione nuova, sia delle rottamazioni. Immaginiamo per semplicitĂ che le rottamazioni siano una quota costante G dello stock esistente; in assenza di produzione nuova dello stock . nel periodo W sopravviverĂ solo G . nel periodo W . Tenendo conto della produzione nuova . nel periodo W, otteniamo . G . . ; nei tempi abbastanza lunghi da permettere mutamenti nello stock di beni durevoli tale stock è ovviamente in equilibrio se tende a rimanere costante. Nell'equilibrio di lungo periodo, dunque, . . , e dunque . G. . Si considerino i grafici superiori della Figura 5.d.7.1. Il grafico a sinistra è nello spazio prezzo-quantitĂ dello stock di beni durevoli, quello a destra nello spazio prezzoquantitĂ del flusso periodico di beni durevoli nuovi. Ipotizziamo inizialmente che lo stock . sia appunto di equilibrio di lungo periodo: per ipotesi, cioè, dati i prezzi degli altri fattori, la tecnologia, e il prezzo del bene prodotto usando questo bene durevole, il valore del prodotto marginale dello stock . genera un prezzo di leasing U che genera un prezzo del bene durevole 3 (grafico a sinistra) tale che a quel prezzo, e data la curva di offerta dei produttori di tali beni durevoli 6 (grafico a destra), la produzione nuova . compensa esattamente G. . Notiamo che . è uno stock di equilibrio stabile: infatti se (fermi restando la tecnologia, l'offerta degli altri fattori, e la domanda per il prodotto) dovesse aumentare ., calerebbe il prezzo di leasing e dunque (lungo la domanda ' ) il prezzo del bene durevole, e dunque pure la produzione nuova, che non coprirebbe piĂš le rottamazioni, per cui . si ridurrebbe. Ipotizziamo adesso che per qualche motivo (l'aumento della domanda per il prodotto, la variazione del prezzo di un altro fattore) aumenti la domanda per l'uso del capitale; nel breve periodo, con . dato, aumenta U, il valore attuale del flusso atteso, e dunque 3 . Ipotizziamo che la domanda per il bene durevole si sposti da ' a ' , generando un prezzo 3 . Con tale prezzo la nuova produzione raggiunge . ! . G. , per cui . cresce. Crescendo ., si riduce U e il prezzo di domanda per ., 3 , lungo ' ; cresce in proporzione a . la rottamazione periodica G.. Calando 3 , poi, si riduce la nuova produzione, lungo 6 ; il nuovo equilibrio di lungo periodo si raggiunge con . , assumendo che il prezzo .

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corrispondente del bene durevole 3 induca una nuova produzione . G. . Essendo 3 ! 3 , e (per ipotesi) immutati il tasso di sconto e la vita media dei beni durevoli, da un equilibrio di lungo periodo all’altro deve aumentare anche il reddito U di cui 3 è la capitalizzazione. I grafici inferiori della Figura riportano l'andamento temporale di . e . : notiamo che mentre nel tempo lo stock . passa dal livello stabile iniziale . al livello stabile finale . attraverso un semplice periodo di crescita, la produzione di beni durevoli . passa dal livello stabile iniziale . al livello stabile finale . con una rapida espansione iniziale ben oltre tale livello, per poi ridiscendere fino ad esso. *OL DJJLXVWDPHQWL GHJOL VWRFN SRUWDQR D FLFOL QHL IOXVVL GL DJJLXVWDPHQWR; non a caso i cicli da domanda (e la disoccupazione periodica) sono caratteristici delle economie industriali, dotate appunto di un notevole capitale riproducibile. Nelle economie agricole la prevalenza del capitale non riproducibile (la terra) elimina questa fonte di instabilità; tali economie sono invece soggette a cicli di offerta agricola, col variare del raccolto, che causano carestie nei paesi poveri (e magari anche disoccupazione fra gli artigiani, nella misura in cui l'offerta agricola è anche domanda industriale; ma questo dipende dalla natura del loro mercato, più o meno esclusivamente padronale, e dei contratti agrari, che possono stabilizzare i redditi dei padroni o dei lavoratori). Torniamo ai nostri aerei. Nel mercato degli stessi aerei il passaggio da un equilibrio all'altro ricalca la Figura 5.d.7.1, con un'unica piccola variante: si assume che la curva di offerta di aerei nuovi 6 sia inizialmente piatta e poi in salita, a punta di sci; . e . sono ambedue sulla parte piatta, in modo da mantenere costante il prezzo di leasing U , e solo . è sulla parte in salita (anche perchè l'industria produttrice adatta gli impianti ai livelli sostenibili, e non alle punte cicliche). Si riprenda la Figura 5.d.6.1. Nel grafico in basso, l'equilibrio salta inizialmente da ( a ( ; poi, man mano che . aumenta e U si riduce l'isocosto diventa più ripido, i costi e il prezzo del prodotto si riducono, il prodotto complessivo aumenta, e l'equilibrio si sposta da ( verso nord-ovest--dunque, nel caso, con una riduzione del personale--fino a raggiungere ( . Nel grafico in alto a sinistra la domanda di lavoro, che era saltata da ' a ' , si riduce progressivamente fino a ' ; siccome nel frattempo aumenta ., la riduzione è dovuta al calo del prezzo del prodotto, che domina l'aumento del prodotto marginale fisico. Nel grafico in alto a destra la domanda di capitale segue un'evoluzione simile; in questo caso, però, la caduta della domanda di aerei in leasing è dovuta alla riduzione congiunta del prezzo del prodotto e (data la riduzione di /) del prodotto marginale fisico. Nel grafico centrale a sinistra, l'equilibrio nel mercato dei viaggi aerei era saltato lungo l'offerta di breve periodo 6 , definita da . . , dall'incrocio di questa con ' all'incrocio con ' . Come cresce ., poi, 6 si sposta verso destra, generando equilibri successivi lungo ' , per poi fermarsi quando incrocia anche 6 ; in quel punto, infatti, U sarà tale da stabilizzare .. Nel grafico centrale a destra, infine, la curva dei costi medi dell'impresa rappesentativa, che era saltata da $& a $& , ridiscende nel tempo, per raggiungere di nuovo i costi minimi iniziali. Con l'ipotesi di comodo che il numero di imprese rimane costante, ognuna di queste si ritrova nel lungo periodo con $& e un prodotto doppio di quello iniziale. Nulla cambia se ipotizziamo che le imprese ritornano ad $& , con un prodotto identico a quello iniziale, e raddoppiano di numero; come sappiamo, con rendimenti costanti la scala di equilibrio dell'impresa non è definita, ed è del tutto indifferente. .

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5.e. una parentesi: l'analisi tradizionale del breve periodo 117

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5.e.1. la logica e la prassi Apriamo una parentesi per informare il lettore sull’analisi dei costi e degli equilibri di produzione di breve periodo che continuano a presentare gli altri testi di economia: non per capire la logica del modello, già presentata, ma per conoscere gli schemi mentali tuttora diffusi. Nel lungo periodo, come abbiamo visto, tutti i mercati esistono, tutti i prezzi e tutte le quantità sono variabili, l'arbitraggio riduce i profitti a zero, e i prezzi di offerta dell'industria concorrenziale corrispondono ai costi minimi del prodotto, che variano con la scala di produzione perchè questa determina i prezzi nei mercati dei fattori di produzione. Nel breve periodo, come pure abbiamo visto, l'unica differenza è che un qualche fattore di produzione ("il capitale") è disponibile in quantità complessiva fissa, perchè ha esso stesso i suoi tempi di produzione. La nostra analisi del lungo periodo è assolutamente ortodossa; la nostra analisi del breve periodo è invece diversa da quella nel patrimonio comune degli economisti, che è stranamente illogica e sopravvive sicuramente solo perchè nessuno ci pensa più. Come vedremo, infatti, l'analisi comune del breve periodo presume che in tale periodo l'arbitraggio sia sospeso all'esterno dell'impresa anche se non all'interno di essa; che non esista un mercato per "il capitale", e che l'impresa lo valuti non al valore attuale ma al valore storico, scordandosi la prima differenza tra economisti e contabili; e infine che siano fissi i prezzi di tutti i fattori di produzione, ossia che ad esempio il prezzo del cotone non dipenda dalla domanda da parte dell'industria cotoniera. La radice di tale impostazione è ovviamente non la logica ma la storia. La tradizione anglosassone ha infatti maturato un modello dell'impresa che ricalca l'impresa-tipo della rivoluzione industriale inglese: piccola, mono-fabbrica, a conduzione familiare, di proprietà sostanzialmente inalienabile del gestore, e a sua volta proprietaria degli impianti. La fabbrica era allora quella che era, e nel breve periodo si decideva solo sull'intensità dell'uso degli impianti e dunque della forza lavoro, peraltro assolutamente generica, da assumere. "Il capitale" si considera pertanto fisso, nel breve periodo, per la stessa impresa, che a sua volta non è in vendita, per cui i valori attribuiti all'uno e l'altra diventano irrilevanti; si confondono imprenditore e proprietario del capitale, profitti d'impresa e guadagni da speculazione in proprietà, si ragiona insomma senza rifletterci in un contesto particolare di mercati inesistenti. Più strana è l'ipotesi che l'industria intera non abbia nel breve periodo alcun potere di mercato, nemmeno rispetto alla materia prima che essa sola utilizza. Qui la storia non aiuta: è vero infatti che l'Inghilterra di allora era libero-scambista, e comprava le materie prime sui mercati mondiali; ma la stessa Inghilterra era "l'opificio del mondo", e i prezzi mondiali erano di fatto i prezzi sulla piazza inglese. Le altre industrie nazionali si potevano considerare "piccole", ininfluenti sui prezzi, ma l'industria inglese certo no; probabilmente si tratta di una semplice svista. 5.e.2. le curve dei costi Si consideri la Figura 5.e.2.1, riferita ai costi dell'impresa nel breve periodo. In alto a sinistra, nello spazio degli isoquanti, ipotizziamo che nel breve periodo sia possibile solo la fabbrica esistente, corrispondente a . . ; data quella fabbrica il costo complessivo di ogni livello di produzione si ottiene variando / con . invariato fino a raggiungere l'isoquanto desiderato. Il FRVWR FRPSOHVVLYR 7& ("total cost"), nel grafico a destra, si ottiene sommando il FRVWR ILVVR 7)& ("total fixed cost"), ossia il costo del capitale calcolato convenzionalmente come l'interesse sulla spesa per la fabbrica L3 ., e il FRVWR YDULDELOH 79& ("total variable cost"), che corrisponde alla remunerazione Z/ del fattore variabile, il lavoro (se ci fossero due fattori variabili, il loro uso si ottimizzerebbe con le solite tangenze fra isoquanto e

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isocosto nello spazio corrispondente). In basso a sinistra si riprende il grafico precedente per evidenziare le pendenze che corrispondono ai costi medi e marginali, illustrati poi nel grafico a destra. Per ogni livello di produzione 4 il costo marginale 0& è sempre unico, e corrisponde alla pendenza della curva dei costi totali; all'interno dei costi medi si distinguono invece, dato il costo fisso, tre valori diversi. Dal punto di origine del grafico a sinistra si misura l'angolo che corrisponde al costo medio fisso $)& ("average fixed cost"), ovviamente iperbolico nel grafico a destra in quanto pari a 7)& 4 , e l'angolo che corrisponde al costo medio totale $7& ("average total cost"), per ipotesi a "U" nel grafico a destra; dal punto corrispondente a 4 7& 7)& nel grafico a sinistra si misura invece l'angolo che corrisponde al costo medio variabile $9& ("average variable cost"), anch'esso a "U" nel grafico a destra. Siccome 7& 7)& 79&, ovviamente $7& $)& $9&: la curva $7& si ottiene sommando verticalmente le curve $)& e $9&. Essendo poi il costo marginale l'unica fonte di variazione dei costi, la curva 0& incrocia le curve $9& e $7& nei rispettivi minimi (per il solito motivo: i valori medi aumentano se il valore marginale supera il valore medio, ecc.). Si passi alla Figura 5.e.2.2, nella quale si ipotizza, nel lungo periodo, la possibilità di due fabbriche di dimensioni diverse. Ognuna genera una famiglia di curve di costi, come quelle della Figura precedente; nel breve periodo l'impresa avrà una di queste fabbriche, cui corrispondono le curve dei costi di breve periodo. Nel lungo periodo l'impresa può scegliere tra le due fabbriche; i costi totali di lungo periodo sono sempre i piÚ bassi raggiungibili, evidenziati nel grafico centrale dalla curva spessa, fatta appunto dai costi della fabbrica piccola per produzioni basse, e della fabbrica grande per produzioni alte (in termini tecnici, la curva dei costi di lungo periodo è l'inviluppo delle curve dei costi di breve periodo). Nel grafico in basso compaiono come curve solide le curve dei valori medi (totali) e marginali di lungo periodo; essendo derivate dalla curva dei costi totali corrispondono anche queste ai costi associati a . fino 4 4 , e ai costi associati a . per 4 superiori. Siccome la curva dei costi medi non è differenziabile per 4 4 , in corrispondenza di tale valore la curva dei costi marginali è discontinua. La Figura 5.e.2.3 ripete la precedente, ipotizzando che nel lungo periodo il capitale sia infinitamente variabile. Con una funzione di produzione "normale" (a rendimenti variabili) ogni livello di . è ottimale per un unico livello di produzione, che corrisponde alle solite tangenze tra isoquanto e isocosto; vi sono dunque un'infinità di curve dei costi di breve periodo, ognuna delle quali corrisponde ad un livello diverso di ., e ognuna di queste tocca l'inviluppo dell'insieme, che è la curva dei costi di lungo periodo, in un unico punto. Nei grafici sono illustrati tre livelli di ., ottimali per i tre livelli di 4 specificati, come si vede anche dalle tangenze tra isocosti (di lungo periodo) e isoquanti. Nel grafico in basso sono illustrati i costi medi (totali) e marginali; come nella Figura precedente la curva dei costi medi di lungo periodo è l'inviluppo dei costi medi di breve periodo, e la curva dei costi marginali di lungo periodo è composta di pezzi (qui, singoli punti) delle curve dei costi marginali di breve periodo, sempre per i livelli di produzione per i quali la curva dei costi medi tocca l'inviluppo. Per 4 4 , ad esempio, i costi medi e marginali di lungo periodo sono quelli di breve periodo per . . , e cosÏ di seguito.

5.e.3. l'equilibrio dell'impresa e l'offerta dell'industria Nel breve periodo, secondo l'analisi tradizionale, sono fissi il numero delle imprese, i loro impianti, e i prezzi dei fattori; nel lungo periodo, e solo nel lungo periodo, sono variabili. Si consideri la Figura 5.e.3.1. Il grafico in alto a sinistra illustra l'equilibrio di lungo periodo: profitto massimo pari a zero, prezzo pari ai costi medi minimi. Tale equilibrio per l'impresa si verifica nel lungo periodo per qualsiasi prezzo di equiliibrio di mercato: si 119


riconosce cioè che la curva di offerta di lungo periodo corrisponde ai costi minimi per ogni livello di produzione complessivo, e che le variazioni della produzione complessiva incidono sui prezzi dei fattori e fanno dunque slittare verso l'alto o verso il basso l'intera famiglia delle curve dei costi della singola impresa. Se aumenta la domanda, il prezzo nel nuovo equilibrio di lungo periodo sarà dato, nel grafico in alto a destra, dall'incrocio della nuova domanda con la curva 6 ; data la pendenza di questa, sarà superiore al prezzo 3 vigente nell'equilibrio precedente. Il grafico a sinistra avrà lo stesso aspetto, ma con curve spostate, e la tangenza tra prezzo e costi medi si verificherà al nuovo prezzo di equilibrio. E fin qui tutto bene. Il problema è nel breve periodo, illustrato nei grafici inferiori. Ipotizziamo un equilibrio iniziale di lungo periodo, al prezzo 3 , e che la domanda poi aumenti da ' a ' . Nel breve periodo, l'equilibrio sarà dato dall'incrocio tra la nuove domanda e la curva di offerta di breve periodo, e il prezzo aumenterà a 3 . Anche qui tutto bene, chè quanto detto è implicito nella definizione di "offerta di breve periodo"; la stranezza, per non dire l'errore, sta nell'affermazione che OD FXUYD GL RIIHUWD GL EUHYH SHULRGR q OD VRPPD RUL]]RQWDOH GHOOH FXUYH GHL FRVWL PDUJLQDOL GL EUHYH SHULRGR GHOOH VLQJROH LPSUHVH (si precisa tipicamente "sopra ai costi medi variabili minimi", riconoscendo all'impresa la possibilità di non produrre e di limitare le perdire ai costi fissi). Questo viene presentato come conseguenza del fatto che le imprese sono date, e ognuna ottimizza raggiungendo 3 05 0&; ma le curve 0& sono date per i prezzi vigenti dei fattori, e si possono sommare solo se l'aumento di domanda per i fattori variabili da parte dell'insieme delle imprese non incide sui prezzi di questi. Questa ipotesi, implicita e non riconosciuta, può essere plausibile per il lavoro, se generico; non può esserlo, come abbiamo già notato, per la materia prima specifica all'industria, se non in casi molto particolari. Si assume insomma che nel breve periodo le curve dei costi delle imprese sono immobili. Con 3 3 , data la 0& , l'impresa produrrà 4 , e guadagnerà dunque un profitto pari a 4 3 $& . Questo profitto è generato, rispetto a costo storico della fabbrica, dal fatto che la capacità produttiva è stata resa scarsa dall'aumento della domanda e della produzione; a ogni imprenditore converrebbe aumentare la propria capacità produttiva; eppure non cambia il prezzo delle fabbriche, nè di affitto, nè di acquisto, perchè a nessuno viene in mente di muoversi in tal senso, forse appunto perchè non è socialmente corretto chiedere a una famiglia di cedere la propria fabbrica. L'imprenditore, nell'immobilismo degli altri e l'assenza dunque di arbitraggio, intasca i profitti che in un sistema completo di mercati sarebbe immediatamente assorbito dal prezzo d'uso, o di acquisto, delle fabbriche. In un sistema completo di mercati, l'abbiamo visto, il prezzo delle fabbriche raggiunge continuamente il livello di equilibrio, ossia quello che porta gli imprenditori a desiderare, collettivamente, la capacità produttiva disponibile; nell'analisi tradizionale gli imprenditori si tengono la capacità produttiva che si trovano ad avere perchè non possono variarla. Nell'analisi tradizionale il passaggio dal breve al lungo periodo si racconta ipotizzando che i profitti delle imprese attirano altri imprenditori, che fondano nuove imprese, assumono lavoro, comprano materia prima; nel lungo periodo cambiano dunque la capacità produttiva complessiva, il prezzo del bene, i prezzi dei fattori. Il meccanismo comunque non è chiaro: nelle more, infatti, l'impresa già attiva dovrebbe mirare a modificare i propri impianti per raggiungere 4 , che equipara prezzo e costo marginale di lungo periodo; ma così facendo sbaglia, perchè come apre la nuova fabbrica aprono anche le altre, il prezzo cala, e la nuova fabbrica risulta sovradimensionata. In un sistema completo di mercati, con l'aggiustamento attraverso la crescita dello stock di capitale, tali problemi non sorgono. /3

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5.f. gli equilibri non di concorrenza 5.f.1. il monopolio semplice e la concorrenza monopolistica L’analisi ordinaria dell’impresa di monopolio--peraltro in senso etimologico, chè si ipotizza coincida con l'industria--è illustrata dal grafico superiore della Figura 5.f.1.1. Le curve solide rappresentano la domanda, la curva dei ricavi marginali del monopolista derivata da questa, e le curve dei costi medi e marginali di lungo periodo. Notiamo che le curve dei costi dovrebbero tener conto del potere di mercato, perlomeno nei fattori specializzati; non è molto coerente ipotizzare perlomeno come caso tipico un monopolio di vendite senza un potere di monopolio di acquisto. L'equilibrio del monopolista, nel lungo periodo, è dato ovviamente dall'incrocio tra curva dei ricavi marginali, e curva dei costi marginali di lungo periodo; il prezzo sarà altrettanto ovviamente un prezzo di domanda e non un prezzo di offerta. A questa produzione corrisponde pure uno stock di capitale, fisso nel breve periodo, e dunque una curva dei costi marginali di breve periodo che (se riflette il potere di monopolio nei mercati dei fattori) corrisponde effettivamente alla curva di offerta di breve periodo. Si presume normalmente che il monopolista, non soggetto a concorrenza, possa conservare i profitti anche nel lungo periodo; su questo torneremo tra pochissimo. Notiamo per inciso che la domanda dei fattori da parte del monopolista riflette comunque il potere di monopolio nel mercato di vendita: infatti G75 G/ G75 G4 G4 G/ 05 03 3 03 . Il grafico inferiore illustra invece l'equilibrio detto di FRQFRUUHQ]D PRQRSROLVWLFD: forma ibrida che ipotizza appunto un equilibrio di lungo periodo con profitto zero, grazie alla concorrenza, con comunque un certo potere di mercato nelle vendite. Sembra applicabile a molti casi, in cui ogni impresa possiede un marchio che differenzia il proprio prodotto, per cui la concorrenza non è perfetta; però chiunque può produrre cose simili, abbassando la domanda e alzando i costi per le imprese preesistenti. Come si vede dal grafico, nell'equilibrio di lungo periodo il profitto massimo è zero: la domanda è tangente alla curva dei costi medi, per cui in equilibrio con 05 0& anche 3 $&; però le pendenze comuni non sono nulle, per cui 3 ! 05 e $& ! 0&. Quando venne scoperta, negli anni Trenta, sembrò un'idea importantissima; di fatto, però, rimase alquanto sterile, anche perchè come vedremo dal punto di vista dell'economia del benessere (o meglio dell'efficienza paretiana) conta il potere di mercato, e la permanenza o meno delle rendite (che distinguono la concorrenza monopolisica dal monopolio semplice) è assolutamente irrilevante. Di fatto, poi, vi è un motivo più profondo per non trattare monopolio semplice e concorrenza monopolistica come due casi distinti. Il potere di mercato e la rendita del monopolista si fondano infatti su qualche elemento, che non appartiene agli imprenditori come tali, e dunque in un sistema completo di mercati viene anch'esso valutato al suo prezzo: prezzo che altro non è che la capitalizzazione dei profitti che permette. Questo è il caso arcinoto delle licenze commerciali: la licenza della farmacia è senz'altro una licenza ad uccidere, ma chi vuole aprire una farmacia deve comprare la licenza, e questo costo ridurrà i suoi ricavi ai profitti "normali", ossia a profitti economici nulli. Il monopolio, insomma, è sempre "di concorrenza monopolistica", proprio perchè esistono gli imprenditori e l'arbitraggio. Il fatto poi che le rendite di monopolio vengano capitalizzate nella licenza ha una conseguenza fondamentale: che il guadagno dalla licenza viene interamente assorbito da chi la riceve per primo (per non dire dai politici che la concedono...). Come la licenza esiste, diventa dal punto di vista dei mercati un cespite assolutamente identico a qualsiasi altro: la 4

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liberalizazione del commercio, per gli operatori che hanno comprato o ereditato la licenza, è esattamente l'equivalente di qualsiasi altra politica che riduce a zero il valore di un cespite, come se lo stato si mettesse ad esempio a distribuire gratis copie di libri di successo senza pagare diritti di autore. La creazione di limitazioni alla concorrenza giova insomma solo a chi per primo riceve le licenze senza pagarle, senza guadagno per chi le acquista sul mercato secondario, e con una perdita duratura di efficienza, che diventa poi difficile rimuovere senza danneggiare anche imprenditori innocenti. 5.f.2. potere di mercato e strategie d'impresa Un'implicazione dell'analisi di cui sopra è che l'equilibrio di monopolio sarà sempre nella parte elastica della curva di domanda. Geometricamente, lo sappiamo, una domanda lineare ha un'elasticità superiore a uno nella metà superiore; il reddito lordo è massimo appunto a metà curva, e per quella quantità il ricavo marginale si riduce a zero (Figura 5.f.2.1). I costi marginali positivi incrociano necessariamente il ricavo marginale dove questo è pure positivo, ossia per quantità minori e prezzi maggiori di quelli che ridurrebbero l'elasticità della domanda a meno di uno. Intuitivamente, il discorso è ancora più semplice. Se il prezzo di vendita aumenta, si riducono le vendite e i costi totali; se la domanda fosse anelastica il ricavo lordo seguirebbe il prezzo e aumenterebbe con il prezzo; aumentando i ricavi e calando i costi i profitti necessariamente aumentano, per cui una domanda anelastica al prezzo di mercato è incompatibile con la massimizzazione dei profitti. Negli anni Cinquanta alcuni economisti usarono le allora nuove tecniche econometriche per verificare empiricamente questa conclusione teorica, e ottennero un risultato sorprendente: in molti casi le imprese fissavano prezzi di vendita tali che la domanda era localmente anelastica. Le reazioni furono molto varie. Diverse scuole accettarono la conclusione che le imprese di monopolio non massimizzessero affatto i profitti. Una ipotizzò che le imprese sfruttano del monopolio non tanto la possibilità di guadagno quanto la possibilità di sopravvivere anche con una gestione "rilassata". Un'altra ipotizzò che le imprese in genere mirano non a soluzioni ottimali ma a soluzioni "soddisfacenti", anche per mancanza di informazioni, per cui se un primo tentativo portasse a risultati accettabili non esplorerebbero strategie migliori (logica "satisficing" piuttosto che "optimizing"). Un'altra ancora ipotizzò che gli incentivi e i salari dei PDQDJHUV dipendono dalla dimensione dell'impresa, per cui questi massimizzano non i profitti ma le vendite (con il vincolo di profitti accettabili). Gli economisti più convinti riformularono invece la massimizzazione del profitto per tener conto delle aspettative. Si notò infatti che se un impresa massimizza il profitto nel breve periodo, con prezzi alti, invita gli imprenditori ad invadere il proprio mercato, e rischia di finire male; se invece massimizza il valore attuale del profitto atteso e dunque il valore presente dell'azienda sceglie profitti più bassi ma più sicuri nel tempo, coprendo il mercato disponibile in modo da non lasciare spazi appetibili. L'implicazione che tale strategia difensiva è tanto più utile quanto più sono basse le "barriere all'entrata" è stata a sua volta confermata da studi empirici; e da qui si è passati al concetto dei "mercati contendibili" che abbiamo già incontrato, e all'idea che anche la concorrenza potenziale limita il potere di mercato. 5.f.3. l'oligopolio tra cartello e concorrenza Monopolio significa "unico venditore", ma l'aspetto fondamentale è il potere di mercato; oligopolio significa "pochi venditori", ma l'aspetto fondamentale è O LQWHUGLSHQGHQ]D di questi, e la scelta delle strategie d'impresa in piena conoscenza di tale interdipendenza. I problemi dell'oligopolio si prestano all'uso della WHRULD GHL JLRFKL, così chiamati 122


perchè i giochi che non sono di puro azzardo pongono appunto il problema di scegliere le proprie mosse in funzione della risposta attesa da parte del concorrente. Tali giochi sono tipicamente troppo complicati per essere approfonditi in questa sede; un esempio semplice è dato dal "dilemma del prigioniero", peraltro ricco di implicazioni che vanno ben oltre i problemi dell'impresa, sul quale torneremo. Per ora ci limitiamo agli strumenti già sviluppati, utili comunque per chiarire alcuni concetti fondamentali. Si consideri il primo grafico della Figura 5.f.3.1, che rappresenta un'industria che produce a costi costanti; possiamo immaginare che sia riferita al trasporto aereo su qualche tratta particolare. In assenza di barriere all'entrata è ovvio che l'equilibrio sarà quello concorrenziale, con prezzo 3 0& $&, e 4 4&. Se invece sulla tratta in questione opera un'unica concessionaria questa tenderà altrettanto ovviamente a comportarsi come monopolio (forse pure discriminante, ma ipotizziamo semplice, per non complicare l'analisi), con prezzo 3 e (con domanda lineare) 4 4 4 . Si verifica invece un oligopolio se le concessionarie sono più di una. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, il trasporto aereo internazionale era tipicamente affidato a compagnie "di bandiera"; e l'esperienza di quegli anni illustra una soluzione possibile al problema dell'oligopolio. Piuttosto che farsi concorrenza, infatti, le compagnie si erano riunite in un FDUWHOOR, e si vincolavano, con l'appoggio dei governi, a praticare lo stesso prezzo, allocarsi i voli, e uniformare la qualità del servizio: si comportavano cioè come un monopolio collettivo, riproducendo la soluzione di monopolio per massimizzare i profitti congiunti, che poi si dividevano, lasciando all'utente in sostanza la scelta dei colori dell'aereo. In genere, e per nazionalismo, non si andava oltre. Nei paesi scandinavi, però, tre vettori nazionali si fusero nella 6 $ 6 ; e si arrivò quasi a fondere i vettori nazionali degli allora sei paesi del Mercato Comune europeo in un'unica $LU 8QLRQ, riducendo i vettori nazionali a meri azionisti (e dunque participanti pro quota ai profitti del monopolio). L'appoggio dei governi è di fatto essenziale per garantire l'osservanza delle regole del cartello da parte delle imprese participanti. In assenza di tale appoggio, infatti, i cartelli sono LQVWDELOL. Un motivo è illustrato dall'esperienza del cartello petrolifero. I produttori esistenti, prima che si formasse il cartello, erano naturalmente i paesi con costi di estrazione bassi (vedremo poi perchè); il loro accordo per praticare prezzi di monopolio rese remunerativa l'estrazione da parte di tanti altri paesi, anche in ambienti molto difficili come il Mare del Nord, e il cartello venne soggetto ad una crescente concorrenza da parte di "nuovi entranti". Un altro motivo è illustrato ad esempio dalle grandi reti ferroviarie americane del secolo scorso, spesso concorrenziali sulle lunghe tratte. Le imprese si accordavano per praticare prezzi da monopolio, ma difficilmente riuscivano a mantenerli. Per la singola impresa, infatti, il prezzo di monopolio è il prezzo ottimale solo a parità di quota di mercato: chi ottiene una quota fissa del profitto congiunto ha infatti interesse a massimizzare appunto il profitto congiunto. Ma la quota di mercato non è necessariamente fissa: se gli altri praticano prezzi di monopolio, come da accordo, io posso aumentare la mia quota (e i miei profitti) facendo sconti sottobanco. Si consideri il secondo grafico della Figura, riferito alla singola impresa; ipotizziamo che il prezzo, come da accordo, sia appunto il prezzo da monolio 3 . Per quel punto passano due curve di domanda: ' , a elasticità relativamente bassa, che rappresenta la quota dell'impresa, per ipotesi costante, della domanda complessiva; e ' , che rappresenta gli equilibri possibili se l'impresa riduce il prezzo, fermo restando il prezzo praticato dagli altri, e aumenta dunque la sua quota di mercato. Il prezzo 3 è stato scelto in modo da massimizzare i profitti congiunti, date le quote di mercato; per l'impresa, dunque, è ottimale data la domanda ' . Se invece riesce a ridurre i prezzi di soppiatto, può operare lungo ' ; e allora conviene un prezzo più basso, con vendite maggiori. &

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Di fatto, dunque, le imprese si accordavano su 3 , ma poi cercavano tutte di trarne vantaggio; siccome riducevano insieme i prezzi rimanevano invariate le quote di mercato, e nel tentativo di spostarsi tutte lungo la propria ' si spostavano di fatto lungo ' ... per poi raggiungere un nuovo accordo, che non aveva sorte migliore di quello precedente. L’unico modo di garantire i profitti di monopolio è insomma la fusione per raggiungere un monopolio effettivo--o l'intervento pubblico per dar forza di legge ai prezzi concordati. Oggigiorno, le leggi dei maggiori paesi condannano gli accordi per fissare i prezzi, e le AutoritĂ garanti "della concorrenza" bloccano la formazione di monopoli. Tipicamente, però, e specie negli Stati Uniti, si tende a credere nei rendimenti diffusamente crescenti, e dunque nei vantaggi di costo delle imprese giganti; si finisce col permettere tutte le fusioni fino al raggiungimento dell'oligopolio, vigilando poi (spesso piĂš male che bene) a che le poche imprese rimaste si facciano un'effettiva concorrenza. Il problema è che le poche imprese hanno sempre di fronte, in qualsiasi momento, le due curve di domanda di cui sopra: quella a quota di mercato costante, che si applica se tutte le imprese praticano sempre prezzi uguali e dunque li variano insieme, e quella a quota di mercato variabile, se la singola impresa è l'unica a modificare i prezzi. Si consideri il terzo grafico della Figura: se il prezzo è vicino ai costi, le imprese capiscono benissimo che possono aumentare i profitti alzando insieme i prezzi, e possono farlo con una FROOXVLRQH WDFLWD, senza un accordo preventivo. L'esempio è dato dal trasporto aereo negli Stati Uniti, ormai dominato da poche grandi compagnie. Spesso una di queste annuncia un aumento dei prezzi, per mantenerlo se le altre la seguono, o ritirarlo nel caso contrario. Le imprese di un oligopolio sono insomma conscie della loro interdipendenza; meno sono, piĂš è facile che l'accordo tacito venga mantenuto. Anche per questo, le grandi imprese hanno un interesse comune a rimanere poche. La deregolamentazione del trasporto aereo, negli Stati Uniti, è stata seguita da una serie di fusioni tra le compagnie esistenti, da un lato, e di nuove iniziative dall'altro. Per i primi anni si è verificata un'emorragia di perdite, da parte di tutti, e una serie di fallimenti; oggi le grandi superstiti guadagnano moltissimo. Le perdite erano presentate come errori di gestione, da un eccesso di concorrenza; ma è legittimo ipotizzare che fossero volute dalle imprese piĂš solide, che sapevano che sarebbero rimaste in campo, e che anche se non potevano ammetterlo quelle perdite erano di fatto un investimento mirato ai profitti di monopolio una volta sbaragliati o assorbiti i concorrenti deboli. Ne è la controprova la furia con la quale queste imprese si scagliano contro ogni tentativo di aprire il mercato interno americano a vettori esteri: furia incomprensibile per un industria concorrenziale, in cui la nazionalitĂ dell'impresa è assolutamente irrilevante, assolutamente "giustificata" invece se le imprese si sono comprati i profitti attuali con una strategia costosa e lungimirante che rischia di essere vanificata se si permette la concorrenza non da parte di neonate deboli e facilmente schiacciabili, ma da parte di colossi esteri forti come loro. 0

5.f.4. il modello di Cournot Presentiamo in chiusura il modello di Cournot, economista matematico francese dell'Ottocento, sia perchè fa parte del bagaglio culturale comune degli economisti, sia perchè dimostra come un modello "sbagliato" per certi usi sia comunque "giusto" per altri. Si ipotizzi come sopra un'industria a domanda lineare e costi costanti; in regime di concorrenza 3 0& $& e 4 4 , in regime di monopolio 3 3 e 4 4 4 . Cournot ipotizza che ogni impresa prenda per data la produzione altrui, e si comporti da monopolista nel mercato residuale, in un senso preciso: soddisfa la metà della domanda residuale, definita come il consumo al prezzo concorrenziale meno la produzione degli altri. Ogni impresa L produce 4 4 4 , dove 4 è la produzione altrui. Il prezzo sarà &

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quello ottenuto vendendo all'asta il prodotto complessivo; le imprese però non reagiscono al prezzo, ma solo alle quantità prodotte, da un lato, e al consumo massimo, al prezzo di costo (di concorrenza), dall'altro. Per il primo produttore 4 ; sceglie dunque 4 4 4 , come sopra. Si immagini che arrivi un secondo produttore; siccome già esiste una produzione pari a 4 , produrrà la metà del residuo, ossia 4 . Il primo reagisce riducendo la produzione, secondo la regola, per produrre 4 4

, ossia 4 , al che il secondo aumenta la sua produzione a 4 , al che il primo riduce ancora la sua, e cosÏ via; arrivano a produrre ognuno 4 4 4 4 , per un prodotto complessivo pari a 4 , come nel grafico superiore della Figura 5.f.4.1. Se arriva un terzo, produce all'inizio 4 4 4 ; ma attraverso il solito gioco si assesteranno tutti e tre su 4 4 4 4 , per un prodotto complessivo pari a 4 . E cosÏ via: se Q è il numero delle imprese, il prodotto complessivo è Q Q

4 , che come aumenta Q tende ovviamente a 4 . Il modello è elegante, in quanto unifica monopolio, oligopolio, e concorrenza; è invece abbastanza assurda l'ipotesi che ognuno reagisca solo alla quantità e non al prezzo (ossia che ognuno calcoli il proprio ottimo ipotizzando implicitamente prezzi diversi insostenibili in un mercato unico), e che per giunta si consideri l'unico a scegliere la quantità non a caso e per sempre ma continuamente in funzione della situazione del mercato. Sembra invece utile tale modello, sia pure ribaltato, per capire la tendenza degli staterelli di una volta a soffocare il commercio, e dunque lo slancio dato all'economia dall'unificazione doganale, e l'ingrandimento degli stessi stati lungo le rotte del commercio. Per fare un caso concreto pensiamo al Reno prima dello Zollverein, strangolato da un susseguirsi di dazi. Si immagini che vi transiti un certo tonnellaggio, con una funzione di domanda lineare '; l'intercetta sull'asse orizzontale 4 è il tonnellaggio che transiterebbe in assenza di dazi, e l'intercetta verticale 3 è il dazio cumulativo appena sufficiente per eliminare il commercio. Un singolo stato predatore massimizzerebbe il suo reddito con 3 3 , permettendo dunque 4 4 , e lucrando 3 4 . Con due stati, ognuno dei quali considera dato il dazio dell'altro, l'equilibrio di Cournot si raggiunge quando ognuno dimezza il traffico che permette l'altro: ne risulta un dazio complessivo pari a 3 , appunto perchè ognuno dimezza un traffico già ridotto di un terzo, come nel grafico inferiore della Figura. Con Q stati, ognuno dei quali considera dati i dazi degli altri Q , il dazio complessivo raggiunge Q Q

3 , il traffico si riduce a Q

4 , e il gettito complessivo si riduce a 3 4 Q Q : con Q , per avere un'idea, a un quarto circa del massimo ottenibile. Non a caso i primi stati non meramente locali si estendono lungo le vie del commercio; non a caso, in tempi storici, l'apertura del golfo di Ghinea al commercio marittimo è stata seguita dalla formazione di nuovi grandi stati fra la costa e l'interno. D

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6. L’EQUILIBRIO GENERALE: IL SISTEMA DEI MERCATI (B: produzione) 6.a. dall’economia di puro scambio all’economia di produzione 6.a.1. i vincoli dell’economia di produzione Riprendiamo a questo punto il problema dell’equilibrio generale, in un modello allargato alla produzione. Nel modello di puro scambio, come abbiamo visto, il benessere sociale dipende dalle utilità degli individui, le utilità degli individui dipendono dal consumo di beni, e le disponibilità dei beni sono date; le disponibilità dei beni e le funzioni di utilità generano immediatamente la curva delle utilità possibili, che vincola il benessere sociale. Nell'economia di produzione questa struttura è più articolata. Il benessere sociale dipende sempre dalle utilità degli individui, e le utilità degli individui dipendono sempre dal consumo di beni; ma le disponibilità dei beni non sono date. Piuttosto, sono date le disponibilità delle risorse (i fattori di produzione), e la tecnologia (le funzioni di produzione); esiste pertanto tutta una gamma di produzioni possibili, ossia di disponibilità dei beni, che determinano a loro volta le utilità possibili degli individui. L'insieme delle produzioni raggiungibili con le risorse e la tecnologia disponibili è illustrato dalla Figura 6.a.1.1, ipotizzando come sopra che esistano due soli beni. Il confine di tale insieme è dato dalla FXUYD GHOOH SURGX]LRQL SRVVLELOL o FXUYD GL WUDVIRUPD]LRQH. In ogni punto di tale curva il settore produttivo è Pareto-efficiente, in quanto non si può ovviamente aumentare la produzione di un bene senza ridurre la produzione di qualche altro bene, "trasformando" appunto questo in quello tramite una riallocazione dei fattori di produzione. Per ottenere una quantità aggiuntiva di ; bisogna dunque sacrificare una certa quantità di <; e questa è il FRVWR RSSRUWXQLWj di quella. Come si vede poi dalla Figura 6.a.1.2, ogni punto della curva di trasformazione definisce una disponibilità di beni, che a sua volta definisce nello spazio dei beni, come nell'economia di puro scambio, una scatola di Edgeworth, una curva dei contratti, e dunque una curva delle utilità possibili. Nel grafico superiore della Figura sono illustrati due casi, con le disponibilità di beni corrispondenti ai punti e , e ipotizzando come sopra che gli individui siano anch'essi solo due. In ambedue i casi i consumi di un individuo si misurano dall'origine degli assi, quelli dell'altro dal punto di produzione sulla curva di trasformazione: spostandosi la produzione da a le curve di indifferenza del primo (ad esempio 8 ) rimangono ferme, mentre quelle del secondo (ad esempio 8 ) rimangono immobili rispetto al proprio punto di origine, e si spostano con questo. A ognuno di questi due punti di produzione corrisponde un luogo di tangenze tra le curve di indifferenza dei due consumatori; nel grafico inferiore, nello spazio delle utilità, questi due luoghi corrispondono a due distinte curve delle utilità possibili, rispettivamente &83 e &83 . Dato il punto , notiamo, 8 è compatibile con al massimo 8 ; dato il punto , solo con 8 . Nell'economia di produzione, dunque, esistono una serie infinite di &83, una per ogni punto di produzione sulla curva delle produzioni possibili. Tenendo conto della possibilità di variare la produzione e dunque la disponibilità dei beni, l'utilità massima di un individuo per ogni utilità dell'altro è data ovviamente dall'inviluppo delle singole &83. Questo inviluppo è illustrato, con due &83 rappresentative, nella Figura 6.a.1.3; è noto come la IURQWLHUD GHOOH XWLOLWj SRVVLELOL )83 , e rappresenta ovviamente nell'economia di produzione i vincolo alla massimizzazione del benessere sociale che nell'economia di puro scambio è invece la semplice &83 per i beni dati. $

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6.a.2. la concorrenza, i mercati e l'efficienza paretiana L'allargamento del modello di equilibrio generale per tener conto della produzione è 126


necessario per capire la valutazione dei fattori di produzione e la natura dei costi, nonchè ovviamente l'efficienza nell'allocazione delle risorse oltre che dei beni; ma come si è detto la possibilità di produrre non modifica i teoremi fondamentali già desunti dal modello di puro scambio. Come vedremo, infatti, la concorrenza in un sistema completo di mercati porta comunque all'efficienza paretiana complessiva, ossia a situazioni in cui non si può aumentare il benessere di una persona senza ridurre il benessere di un'altra. In un'economia di puro scambio tale risultato si raggiunge in un unico momento ideale, riallocando i beni dati; è garantito (semprechè le funzioni di utilità siano "normali") dalla concorrenza nell'unico mercato, di baratto; e gli operatori appartengono tutti ad un'unica categoria di figure complesse, essendo contemporaneamente proprietari, venditori, compratori e consumatori dei beni esistenti. In un'economia di produzione, più complessa, si distinguono diversi mercati e diversi operatori. I mercati sono da un lato dei fattori di produzione, e dall'altro dei beni; gli operatori sono da un lato le famiglie, che vendono fattori di produzione e comprano beni, e dall'altro le imprese che comprano fattori di produzione e vendono beni. Si distinguono insomma quattro figure semplici, rispettivamente venditori di fattori, compratori di fattori, venditori di beni, e compratori di beni; e a queste quattro figure corrispondono altrettanti momenti ideali in cui (semprechè siano "normali" le funzioni di utilità, e di produzione) la concorrenza porta a soddisfare le diverse condizioni della Pareto-efficienza complessiva. Notiamo subito che questa quadripartizione è rigorosa solo se il tempo delle persone non è contemporaneamente un fattore di produzione che le famiglie vendono alle imprese, e un bene finale che vendono a se stesse; per il momento, dunque, ipotizziamo che il tempo sia solo un fattore di produzione e non anche un bene di consumo. Ciò detto, l'insieme delle condizioni della Pareto-efficienza complessiva si può decomporre in quattro sotto-insiemi distinti. Una prima condizione è il pieno impiego dei fattori, ossia che vengano utilizzati tutti i fattori di produzione disponibili, senza restrizioni artificiali; nel caso contrario si potrebbe infatti produrre di più di tutti i beni, e dunque aumentare il benessere di tutti i consumatori, sfruttando fattori non utilizzati. Come vedremo, il raggiungimento di questa prima condizione è garantito dalla concorrenza tra i venditori dei fattori. Una seconda condizione è che i fattori utilizzati siano allocati tra le imprese in modo tale da massimizzare la produzione di ogni bene data la produzione degli altri; nel caso contrario si potrebbe infatti produrre di più di tutti i beni, e dunque aumentare il benessere di tutti i consumatori, semplicemente riallocando i fattori utilizzati. Come vedremo, il raggiungimento di questa seconda condizione è garantito dalla concorrenza tra i compratori dei fattori, e per la precisione dalla minimizzazione dei costi di produzione in regime di concorrenza nell'acquisto dei fattori. Una terza condizione è che i beni prodotti e dunque disponibili siano allocati tra i consumatori in modo tale da massimizzare il benessere di ogni individuo dato il benessere degli altri; nel caso contrario si potrebbe infatti aumentare il benessere di tutti i consumatori, semplicemente riallocando i beni disponibili. Come abbiamo visto, il raggiungimento di questa terza condizione è garantito dalla concorrenza tra i compratori dei beni. La quarta condizione è che non sia possibile aumentare il benessere di tutti i consumatori cambiando le quantità prodotte dei diversi beni, ossia spostando fattori di produzione da un'industria all'altra. Come vedremo, se sono già raggiunte le condizioni precedenti il raggiungimento di questa quarta condizione è garantito a sua volta dalla concorrenza tra i venditori dei beni, e per la precisione dalla massimizzazione dei profitti in regime di concorrenza nei mercati dei beni. 127


Se sono pienamente concorrenziali i mercati sia dei beni che dei fattori, dunque, si raggiunge la condizione di Pareto-efficienza complessiva, e, come nel modello di puro scambio, il mercato concorrenziale porta ad un equilibrio sulla funzione che vincola la massimizzazione del benessere sociale (la frontiera delle utilità possibili). Di più non può fare, e ancora una volta la massimizzazione del benessere sociale richiede una "buona" allocazione iniziale della ricchezza; l'unica novità rispetto al modello di puro scambio è che la ricchezza corrisponde non più alla proprietà originale dei beni, ma alla proprietà dei fattori di produzione.

6.b. la concorrenza nel mercato dei fattori e l'efficienza della produzione 6.b.1. la vendita dei fattori: concorrenza e pieno impiego Tralasciamo per ora il problema del tempo libero come bene di consumo, e anche dell'accumulazione del capitale, per ipotizzare un economia in cui le disponibilità di tutti i fattori di produzione sono semplicemente date. L'offerta di questi è dunque orizzontale a prezzo zero dall'origine fino alla quantità disponibile, e poi verticale. Nel primo grafico della Figura 6.b.1.1. si illustra un equilibrio concorrenziale in cui la domanda incrocia la curva di offerta nel tratto verticale. L'equilibrio prezzo-quantità è dato da quell'incrocio; la quantità venduta e utilizzata è l'intera quantità disponibile, e il prezzo è positivo. Questo prezzo non serve a generare la quantità venduta: data la natura dell'offerta, infatti, l'intera remunerazione del fattore è rendita, come per la terra nel modello ricardiano. Piuttosto, il prezzo serve a razionare l'uso della risorsa scarsa, restringendolo agli usi di maggior valore, a sinistra dell'intersezione domanda-offerta. Nel secondo grafico si illustra il caso in cui la domanda è talmente ristretta, o se preferiamo le disponibilità del fattore è talmente abbondante, che la domanda incrocia l'offerta sull'asse orizzontale piuttosto che sul tratto verticale. In tal caso, la risorsa non è scarsa, e il prezzo di equilibrio concorrenziale è zero: anche se chiunque ne usa quanta ne vuole non se ne esauriscono le disponibilità, e il prezzo nullo segnala appunto che non vi è motivo di razionare l'uso della risorsa fra i diversi usi possibili. Di fatto, le risorse a prezzo nullo sono tipicamente lasciate fuori dai computi economici: nessuno ad esempio chiede quanto ossigeno consuma un'automobile. Per lo stesso motivo non sono oggetto di proprietà, salvo diventarlo quando diventano scarse, ossia quando la quantità richiesta a prezzo zero eccede la quantità disponibile; l'esempio più ovvio è la stessa terra, che è diventata scarsa, in tempi più o meno remoti, solo con la crescita demografica. Nel terzo grafico si illustra il caso in cui il venditore del fattore è un monopolista, ma il fatto è senza conseguenze: il ricavo marginale del monopolista incrocia infatti la curva di offerta nel tratto verticale, e lo stesso monopolista ha dunque interesse a fare utilizzare l'intera quantità disponibile del fattore di sua proprietà. Il prezzo di monopolio coincide in questo caso con il prezzo concorrenziale, e il monopolio non ha alcun effetto. Nel quarto e quinto grafico invece si illustra il caso in cui il monopolio di vendita porta a una restrizione della quantità utilizzata, perchè il ricavo marginale del venditore incrocia la curva di offerta sull'asse orizzontale e non sul tratto verticale. Nel quarto grafico la risorsa è comunque scarsa, ma il monopolio ne aumenta la scarsità, aumentando il prezzo e riducendo la quantità utilizzata; nel quinto grafico il monopolio rende scarsa una risorsa che non lo sarebbe, riducendone ancora una volta l'utilizzazione. La concorrenza tra i venditori dei fattori è dunque sufficiente a garantire che i fattori siano interamente utilizzati: nei limiti delle disponibilità se sono scarsi, e dell'utile se non lo sono. Non è necessaria al pieno utilizzo dei fattori, come si è visto, se questi sono 128


sufficentemente scarsi; lo è invece se questi sono appena o non affatto scarsi, perchè allora il monopolio crea una scarsità artificiale. Come esempio in merito possiamo citare la restrizione all'uso della terra, di fatto abbondante, nelle colonie inglesi ricordate da Marx; dei grandi di Spagna, pure, si è detto che mantenevano incolte parti dei loro latifondi, per aumentare la rendita sulla parte affittata ai contadini. Nel sesto grafico è indicata la curva delle produzioni possibili &33, date le disponibilità dei fattori di produzione e la tecnologia. La concorrenza tra i venditori dei fattori porta a utilizzare interamente le risorse scarse, e permette dunque il raggiungimento di tale curva; il monopolio di vendita che crea una scarsità artificiale dei fattori vincola di fatto l'economia a una curva più ristretta, &33 , come se la disponibilità dei fattori fosse minore. Y

6.b.2. l'acquisto dei fattori: concorrenza e allocazione efficiente Ipotizziamo a questo punto che la vendita dei fattori avvenga in condizioni di concorrenza, e che dunque non ci siano scarsità artificiali create da eventuali monopoli. L'economia in esame può dunque raggiungere la curva delle produzioni effettivamente possibili; e la raggiungerà se le imprese minimizzano i costi acquistando i fattori in condizioni di concorrenza. La cosa non sorprende: sappiamo infatti che la minimizzazione dei costi da parte delle imprese è analoga alla massimizzazione dell'utilità da parte dei consumatori, che se questi comprano i beni in condizioni di concorrenza l'allocazione dei beni sarà Pareto-efficiente, e che la Pareto-efficienza nel consumo dei beni corrisponde al raggiungimento della curva delle utilità possibili date appunto le disponibilità di questi. Riprendiamo dunque l'analisi e gli strumenti di cui sopra (4.a.2), cambiando solo i nomi delle variabili. Nella grafico superiore della Figura 6.b.2.1 compare una scatola di Edgeworth nello spazio dei fattori. Le dimensioni della scatola indicano i fattori disponibili; il consumo di essi da parte dei due produttori è misurato dagli angoli diagonalmente opposti; e la produzione raggiunta da ognuno di questi, misurata perpendicolarmente al piano dei fattori, è indicata dall'isoquanto proiettato su quel piano. Il luogo delle tangenze tra gli isoquanti (la "curva dei contratti") è ovviamente il luogo delle allocazioni dei fattori Pareto-efficienti, ossia che massimizzano la produzione di uno dei beni data la produzione dell'altro. Ogni punto sulla curva dei contratti nel grafico superiore corrisponde dunque ad un punto sulla curva delle produzioni possibili, nel grafico inferiore, e viceversa (vedi e ); a ogni punto interno alla scatola di Edgeworth ma non sulla curva dei contratti corrisponde un punto all'interno della curva delle produzioni possibili, e a ogni punto all'interno della curva delle produzioni possibili corrispondono nella scatola di Edgeworth due punti, le due intersezioni degli isoquanti corrispondenti (vedi e ); e i punti esterni alla curva delle produzioni possibili, non raggiungibili, non compaiono affatto nella scatola di Edgeworth (vedi ). Il punto preciso di equilibrio in questi grafici dipenderà dai livelli di attività scelti dai diversi produttori, e dunque dalle decisioni relative alla massimizzazione del profitto. Per il momento queste non ci interessano; vogliamo infatti solo dimostrare che se le imprese minimizzano i costi acquistando i fattori in condizioni di concorrenza l'equilibrio sarà necessariamente sulla curva delle produzioni possibili. La dimostrazione è immediata. L'allocazione dei fattori tra i produttori è Paretoefficiente se gli isoquanti sono tangenti, ossia se 706 03 03 03 03 706 . Ogni impresa minimizzando i costi equipara il proprio 706 al proprio 706 0& 0& . Se le imprese sono tutte concorrenziali per tutte 706 0& 0& Z U ; ma se sono identici i loro 706 lo saranno anche i loro 706 , e l'allocazione dei fattori sarà Pareto-efficiente. Se invece qualche impresa è dotata di potere di mercato i costi marginali del fattore per l'impresa eccederanno il prezzo di mercato, e l'uguaglianza tra i 706 delle L;

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diverse imprese non è piÚ garantita. In questo contesto la concorrenza è dunque sufficiente per il risultato desiderato. Sembra non necessaria, in quanto il rapporto tra i costi marginali potrebbe rimanere uguale al rapporto dei prezzi, con un potere di monopolio uguale, e dunque un rapporto costo marginale/prezzo uguale, in ambedue i mercati dei fattori; ma come vedremo poi questo è un risultato spurio, dovuto alla struttura particolarmente semplice del modello in esame. Notiamo pure che ; e < sono due beni qualsiasi, distinti perchè prodotti da produttori diversi. I beni considerati possono essere effettivamente diversi, e rappresentare i prodotti di industrie diverse; ma possono anche essere identici, e rappresentare dunque i prodotti di imprese diverse all'interno di una stessa industria. La differenza è che se le imprese appartengono alla stessa industria i loro prodotti si possono paragonare e sommare direttamente, al di là dei paragoni paretiani; e questo permette un passo ulteriore. Si consideri la Figura 6.b.2.2, in cui si rappresenta il mercato di un fattore 7 specifico ad un industria. L'offerta di 7, 6 , è data dall'asse orizzontale fino a 7 , e poi dalla retta verticale. Ipotizziamo Q imprese, di cui Q concorrenziali nel mercato di 7, e una con potere di mercato. La domanda complessiva delle imprese concorrenziali è ' ; la domanda del monopolista è ' . Il monopolista ha dunque di fronte l'offerta di 7 data dalla differenza orizzontale tra l'offerta e la domanda concorrenziale, ossia 6 6 ' ; tale offerta rappresenta la curva dei suoi costi medi, e il suo equilibrio corrisponde all'intersezione tra ' e la curva marginale a 6 , ossia 0& . Il monopolista decide dunque di comprare 7 , lasciando 7 7 7 alle imprese concorrenziali, e fissa pertanto il prezzo U. In equilibrio, per le imprese concorrenziali (anche nel mercato dei beni), U 3 03 , per cui 03 U 3 . Per il monopolista, U 0& 05 03 ; 05 3 se il monopolista nel mercato del fattore è comunque concorrenziale nel mercato del bene prodotto, e 05 3 nel caso contrario. Per il monopolista, dunque (e comunque) 03 0& 05 ! U 3 03 . Il prodotto marginale G4 G7 è dunque maggiore per il monopolista che non per le altre imprese; spostando un unità di 7 da queste a quello aumenta il prodotto complessivo a parità di consumo del fattore. Il monopolio di acquisto nel mercato del fattore di produzione è pertanto causa di un'inefficienza nella produzione. 7

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6.b.3. gli equilibri con fattori specializzati Riprendiamo adesso in considerazione la curva delle produzioni possibili (la curva di trasformazione), ipotizzando che i mercati dei fattori siano pienamente concorrenziali e che l'equilibrio produttivo si trovi dunque su tale curva. Incominciamo con un esempio semplice, in cui la produzione dei due beni ; e < usa un fattore generico, il lavoro /, e due fattori specializzati, 7 e .: ; ; 7 / e < < . / . Sono date le disponibilità complessive dei fattori: 7 7 , . . , e / / / . Nella Figura 6.b.3.1, i primi due grafici rappresentano gli isoquanti relativi ai due beni, con l'indicazione delle quantità dei fattori fissi. Si presume che i rendimenti di scala siano costanti; per non complicare l'analisi assumiamo inoltre che ogni industria sia composta da un'unica impresa, per cui i grafici sono riferibili direttamente all'industria. Da questi grafici si deriva per ogni bene la relazione tra prodotto e consumo di lavoro, fermo restando l'uso dell'intera disponibilità del fattore specializzato. I quattro grafici in basso formano un gruppo collegato. Di questi quattro, il primo rappresenta appunto lo spaccato della funzione < < . / per . . ; il terzo, il vincolo della forza lavoro / / / , per cui le due intercette sono ambedue pari a / , e la pendenza è di ; e il quarto, lo spaccato della funzione ; ; 7 / per 7 7 , con gli assi invertiti rispetto alla rappresentazione normale. Da queste equazioni si ottiene un'equazione in ; e <, che è appunto la curva di trasformazione, rappresentata a sua volta nel secondo dei ;

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quattro grafici; come si vede la convessità di questa curva deriva direttamente dal fatto che nelle singole produzioni i rendimenti marginali del lavoro sono decrescenti. Questi quattro grafici ricompaiono poi nella Figura 6.b.3.2, con l'unica differenza che sono riorientati per sovrapporre i quattro punti di origine. Per fare un esempio algebrico ipotizziamo ; 7 / e 7 , e < . / e . ; da ciò ; / e dunque ; / , da cui / ; , e, analogamente, / < . Inserendo tali valori nell'equazione / / / , si ottiene / ; < , per cui la curva di trasformazione è un quarto di cerchio; l'equazione di questa è < / ; . Le produzioni si modificano, spostando l'equilibrio lungo la curva di trasformazione, spostando da un'industria all'altra i fattori di produzione generici; ma con le funzioni di produzione l'unico fattore generico è il lavoro. Come è ovvio dai grafici, spostando un'unità di / da ; a < si perde G; 03 , e si guadagna G< 03 . La pendenza della curva di trasformazione è il tasso marginale di sostituzione tra ; e < attraverso la riallocazione dei fattori, detto in gergo WDVVR PDUJLQDOH GL WUDVIRUPD]LRQH; questo 707 corrisponde dunque al rapporto tra i prodotti marginali del fattore generico. Si ottiene insomma 707 G< G; 03 03 . Ricordiamo però che se l'impresa minimizza i costi (in un sistema di mercati completo) il costo marginale del prodotto è il costo marginale di qualsiasi fattore (il suo prezzo, in regime di concorrenza) diviso per il prodotto marginale corrispondente. Chiamiamo come al solito Z la remunerazione del lavoro, e U e U , rispettivamente, quelle dei fattori specializzati. Nel caso particolare, dunque, 0& Z 03 , e 0& Z 03 ; ne consegue che 707 03 03 Z 0& Z 0& 0& 0& . La convessità dall'alto della curva di trasformazione corrisponde pertanto non solo ai rendimenti marginali decrescenti del fattore generico in ambedue le produzioni, ma anche (e proprio per questo) a costi marginali crescenti per ambedue i prodotti: insomma, a curve di offerta "normali", con pendenza positiva. Nella Figura 6.b.3.3 si considerano direttamente i mercati dei fattori. I due grafici in alto sono riferiti ai due fattori specifici; in regime di concorrenza nei mercati dei fattori la loro remunerazione sarà semplicemente quella corrispondente al loro rendimento marginale, per cui ad esempio U 05 03 (se l'impresa è concorrenziale anche nel mercato del bene 05 3 ; ma questo adesso non ci preoccupa). Il grafico in basso è riferito invece al mercato del lavoro. Sugli assi verticali si misura il valore del rendimento marginale del lavoro nelle due produzioni, nel caso in ; sull'asse a sinistra e in < sull'asse a destra; la distanza orizzontale tra questi assi corrisponde al lavoro complessivo, e il lavoro assorbito da ogni industria si misura orizzontalmente dalla base del rispettivo asse verticale, verso destra per ; e verso sinistra per <. Ogni punto sul segmento orizzontale corrisponde dunque ad un'allocazione del lavoro tra le due industrie, e dunque a una combinazione di produzioni sulla curva di trasformazione. Perchè un'allocazione sia un equilibrio di mercato, il lavoro deve ricevere lo stesso salario ("di mercato") Z in ambedue le industrie; se cosÏ non fosse, infatti, i lavoratori si sposterebbero dal settore in cui guadagnano di meno a quello in cui guadagnano di piÚ. Per ambedue le imprese/industrie, poi, quel salario Z che è per loro il costo marginale del lavoro deve corrispondere al beneficio marginale corrispondente, da cui 05 03 Z 05 03 . Nella Figura 6.b.3.4 si riprende la Figura precedente, evidenziando i mutamenti impliciti in uno spostamento lungo la curva di trasformazione. Ipotizziamo un aumento di < e una riduzione di ;; e ipotizziamo pure, visto che contano solo i prezzi relativi, che rimanga fisso il prezzo del lavoro Z. Nel terzo grafico della Figura, dunque, il nuovo incrocio tra le due curve di domanda di lavoro sarà a sinistra di quello originale; richiede pertanto che le

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curve di domanda si spostino da quelle solide a quelle tratteggiate. Come si sposta / da ; a <, infatti, cala 03 e aumenta 03 ; per mantenere 05 03 Z 05 03 deve dunque aumentare 05 0& , e ridursi 05 0& . Aumentano dunque 05 05 e 0& 0& , e cambia appunto il 707 , diventando relativamente più costoso (e caro) il bene di cui aumenta la produzione relativa. Cambiano pure gli equilibri nei mercati dei fattori. Nel primo grafico si vede che si riduce la remunerazione del fattore specifico al bene di cui si riduce la produzione, U 05 03 : cala infatti 05 , e riducendosi / e dunque / 7 si riduce pure 03 , per cui tra l'altro U si riduce in termini relativi più di 05 . Il caso dell'altro fattore specifico è speculare: U aumenta, e in termini relativi più di 05 perchè aumentano sia 05 , sia 03 . Ipotizzando poi che da un equilibrio all'altro non cambino i rapporti 3 05 nei mercati dei beni, possiamo notare la seguente graduatoria nei mutamenti dei prezzi relativi: GU U ! G3 3 ! GZ Z ! G3 3 ! GU U . I cambiamenti nelle produzioni relative si accompagnano dunque di un cambiamento nell'intera costellazione dei prezzi relativi; e le variazioni più sensibili sono nelle remunerazioni dei fattori specifici. Il protezionismo, riducendo l'interscambio con l'estero, aumenta la produzione dei beni che altrimenti si importerebbero, e riduce quella dei beni che altrimenti si esporterebbero per pagare le importazioni; notando l'effetto di tali mutamenti nella produzione sulle remunerazioni dei fattori specifici, e dunque sulle rendite percepite dai loro proprietari, si capisce che i mutamenti della politica commerciale scatenino quasi sempre passioni fortissime. /<

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6.b.4. gli equilibri con fattori generici non sostituibili Ritorniamo adesso al caso già presentato nella Figura 6.b.2.1, in cui i due beni ; e < sono ambedue prodotti con i due fattori . e /. Assumiamo che i due prodotti abbiano LQWHQVLWj IDWWRULDOL GLYHUVH: cioè, che per qualsiasi rapporto Z U il rapporto . / sia diverso nelle due industrie. Assumiamo pure che tale diversità sia VLVWHPDWLFD, ossia che dato qualsiasi Z U il rapporto . / più alto si trovi sempre nella stessa industria. Per rendere il discorso concreto identifichiamo il capitale con la terra 7, e assumiamo che i due beni siano il vino e il grano: ambedue usano terra e lavoro, ma rispetto al grano la vite esige un forte dispendio di lavoro su poca terra, per cui il vino 9 è intensivo in lavoro e il grano * è intensivo in terra. Per illustrare le conseguenze di queste diverse intensità fattoriali, che riproducono in sostanza quelle del caso precedente dei fattori specializzati, usiamo un nuovo espediente grafico, illustrato dal grafico superiore della Figura 6.b.4.1: gli assi definiscono lo spazio dei fattori, ma le origini degli isoquanti sono semplicemente sovrapposte, mentre 7 e / indicano le disponibilità complessive dei fattori. Assumiamo inizialmente che le possibilità di sostituzione tra i fattori siano nulle: gli isoquanti di 9 e di * sono ambedue a angolo retto, ma sono diversi i rapporti 7 / definiti per ciascuna industria dall'unica tecnica elementare disponibile (ed è più alto, per ipotesi, il rapporto per il grano). Nel caso, ipotizziamo che (date le unità dei fattori) il rapporto 7 / sia pari a 2 nel grano e 0,33 nel vino; che i rendimenti di scala siano costanti; che un'unità di * richieda due di 7 e una di /, e una di 9 richieda una di 7 e tre di /; e che 7 e / . Nel grafico inferiore è illustrata la curva delle produzioni possibili. Per costruirla, consideriamo separatamente i vincoli creati dai due fattori. Il vincolo 7 , da solo, limita le produzioni possibili, definendo la retta 33 ; siccome ogni unità di * richiede due unità di 7 l'intercetta del vincolo sull'asse * (la produzione massima permessa dalla terra disponibile) è pari a (500/2) = 250, mentre l'intercetta sull'asse 9 è (500/1) = 500. Allo stesso modo la retta 33 ha un'intercetta pari a (600/1) = 600 sull'asse * e (600/3) = 200 sull'asse 9. 7

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Le produzioni possibili rispettano per forza ambedue i vincoli; la curva delle produzioni possibili è dunque la spezzata DEF, che è appunto convessa dall'alto. Notiamo le corrispondenze tra i due grafici. Il punto D è quello in cui si produce solo *, e il prodotto è vincolato dalla terra; nel grafico superiore compare all'incrocio tra la tecnica di * e il vincolo 7 . L'incrocio di quella stessa tecnica con il vincolo / corrisponde invece al punto G, di fatto non raggiungibile per mancanza di terra. Allo stesso modo troviamo il prodotto massimo di 9 al punto F, vincolato dal lavoro; nel grafico superiore compare all'incrocio tra la tecnica di 9 e il vincolo / . L'incrocio di quella stessa tecnica con 7 definisce invece il punto H, di fatto non raggiungibile per mancanza di lavoro. Il punto E è invece l'unico che si trovi su ambedue i vincoli; corrisponde, nel grafico superiore, all'incrocio tra 7 e / . Tra D e E, in ambedue i grafici, si usa tutta la terra, ma non tutto il lavoro; e viceversa tra E e F. Lungo questi due segmenti, il fattore sovrabbondante avrà un prezzo nullo, mentre il prezzo dell'altro sarà tale da assorbire l'intero valore del prodotto. Tra D e E, in particolare, Z , e il rapporto tra i costi marginali e medi dei due beni è costante e pari al rapporto dei loro consumi unitari di terra: infatti 0& $& U, e 0& $& U. Tra E e F, invece, l'unica risorsa scarsa è il lavoro, per cui U , e il rapporto tra i costi marginali e medi è dato dal contenuto relativo di lavoro, come per il daino e il castoro di Adam Smith; nel caso, 0& $& Z, e 0& $& Z. In questa economia, il punto E è l'unico che corrisponde al pieno impiego di ambedue i fattori di produzione. Nel grafico superiore, le produzioni corrispondenti si trovano costruendo, da E, un parallelogramma sui raggi delle tecniche elementari. Questo definisce i punti I e J, rispettivamente, sui due raggi: infatti sommando le quantità dei fattori utilizzate da ciascuna industria, come definite da quei due punti, si ritrova E. Gli isoquanti che passano per I e J definiscono a loro volta le produzioni corrispondenti, che si ritrovano alle stesse lettere sugli assi del grafico inferiore. Algebricamente, questi punti sono la soluzione di un semplice sistema di equazioni, che riassume i due vincoli elementari del grafico inferiore. Siccome ogni unità di 9 consuma tre unità di /, e ogni unità di * ne consuma una, 9 * ; e cosÏ pure, per la terra, 9 * . La soluzione è 9 * . Notiamo che al punto E, la curva di trasformazione non ha una pendenza definita. I costi marginali dei beni sono discontinui, e diversi in aumento e in diminuzione; il loro rapporto pure non è definito, anche se deve rimanere contenuto entro le pendenza di DE da un lato e EF dall'altro. I rapporti dei prezzi dei fattori, pure, sono fissi ma molto diversi (zero, e infinito) lungo DE e EF, e dunque variabilissimi se l'equilibrio passa da una parte all'altra del punto E. 9

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6.b.5. gli equilibri con fattori generici sostituibili Risultati meno esasperati si ottengono se si rende il modello meno rigido, ammettendo la sostituzione tra i fattori. Al posto degli isoquanti a angolo retto della Figura precedente, dunque, la Figura 6.b.5.1 presenta isoquanti curvi. Manteniamo l'ipotesi che i rendimenti di scala siano costanti; e ipotizziamo per semplicitĂ che le funzioni di produzione siano omotetiche, per cui in ogni industria 7 / dipende solo da Z U , e non dalla quantitĂ prodotta. Ipotizziamo come sopra che 9 e * siano intensivi l'uno in lavoro e l'altro in terra, per qualsiasi rapporto dei prezzi dei fattori; e questo esige a sua volta che le possibilitĂ di sostituzione siano abbastanza simili nelle due industrie, come nel grafico superiore della Figura. Il grafico inferiore illustra il caso contrario: essendo le possibilitĂ di sostituzione molto diverse nella produzione di ; e di <, l'intensitĂ fattoriale relativa varia con Z U . In questo caso, infatti, le possibilitĂ di sostituzione sono ristrette nella produzione di ;, e ampie 133


in quella di <; variando Z U il rapporto 7 / varia poco per ;, e molto per <. Con un prezzo relativo del lavoro alto, dunque, < è relativamente intensivo in terra (il raggio < è piÚ ripido di ; ); con un prezzo relativo del lavoro basso, invece, < è relativamente intensivo in lavoro (il raggio < è meno ripido di ; ). Nel grafico superiore, gli isoquanti dei due beni hanno curvature simili, per cui cambiando il prezzo relativo dei fattori le tecniche cambiano in modo simile nelle due produzioni, e il raggio relativo a * è sempre piÚ ripido del raggio relativo a 9. La Figura 6.b.5.2 illustra un equilibrio possibile, nello spazio dei fattori e in quello dei beni. Nel grafico superiore, il punto E corrisponde al pieno impiego dei fattori; nel caso, è raggiunto con le tecniche indicate dai raggi * e 9 , e i livelli di produzione corrispondenti ai punti D e F, che generano un parallelogramma con apice in E. La pendenza degli isoquanti in D e F è identica, e pari al rapporto dei prezzi dei fattori Z U ; date le possibilità di sostituzione e l'omoteticità , infatti, i raggi * e 9 sono compatibili in quanto definiti appunto per quella stessa pendenza degli isoquanti. Siccome poi gli isoquanti hanno la stessa pendenza e i fattori di produzione sono interamente utilizzati l'equilibrio che combina le produzioni corrispondenti ai punti D e F si trova sulla curva delle produzioni possibili, come indicato nel grafico inferiore. La Figura 6.b.5.3 illustra il mutamento dell'equilibrio. Nel primo grafico l'equilibrio originale riproduce quello della Figura precedente; ipotizziamo ora che per un motivo qualsiasi si riduca la produzione di * e aumenti quella di 9. Inizialmente la produzione di * si contrae lungo * , e quella di 9 si espande lungo 9 ; ma questi movimenti deformano il parallelogramma, e l'apice di questo lascia E per spostarsi verso sud-est. Si crea cioè un eccesso di offerta di terra, e di domanda di lavoro, proprio perchè con le tecniche iin uso il settore che si contrae libera piÚ terra e meno lavoro di quanto non assorba il settore in espansione. Questi squilibri nei mercati dei fattori causano però un aumento del prezzo relativo del lavoro: aumenta Z U , che a sua volta porta ambedue le industrie a cambiare tecnica per usare relativamente meno lavoro e piÚ terra. Diventano dunque piÚ ripidi i raggi 7 / , e si raggiunge cosÏ il nuovo equilibrio, con raggi * e 9 , produzione in D e F , e un parallelogramma che ritrova E e dunque mantiene l'equilibrio nei mercati dei fattori. In sostanza, dunque, i fattori generici usati intensivamente in industrie diverse si comportano come se fossero specifici a queste industrie: come si cambia la produzione a favore del bene intensivo in un fattore particolare, aumenta il prezzo relativo di quel fattore. La logica è trasparente: il rapporto 7 / medio è e deve rimanere 7 / ; questo rapporto medio è una media ponderata dei rapporti specifici alle due industrie, per cui 7 / J 7 / Y 7 / ; se cambiano i pesi relativi J e Y devono cambiare pure i rapporti da essi ponderati. Se in particolare come nel esempio precedente 7 / ! 7 / ! 7 / e si riduce J Y , devono aumentare 7 / e 7 / ; e questo a sua volta si ottiene aumentando Z U , cosa che risulta automaticamente dal gioco del mercato. Il secondo grafico della Figura illustra lo spostamento lungo la curva di trasformazione; il terzo spiega l'aumento della pendenza di questo. Nel terzo grafico si illustra nello spazio dei fattori un isocosto iniziale 7& , tangente all'isoquanto * in * e all'isoquanto 9 in 9 . Con rendimenti di scala costanti, dati i prezzi relativi dei fattori corrispondenti a 7& , i costi medi e marginali (costanti) dei beni sono $& 0& 7& * e $& 0& 7& 9 . Con lo spostamento lungo la curva di trasformazione nella direzione del bene intensivo in lavoro aumenta il salario relativo, e l'isocosto diventa piÚ ripido; ma allora * e 9 non avranno piÚ lo stesso costo complessivo. Nel grafico, infatti, * si ottiene con 7& , tangente all'isoquanto * in * , mentre 9 si ottiene con 7& ! 7& , tangente all'isoquanto 9 in 9 . Ne consegue che 7& 9 7& * ! 7& 9 7& * , e dunque che 0& 0& ! 0& 0& : come cambiano le produzioni lungo la curva di $

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trasformazione cambiano i prezzi relativi dei fattori e dunque le funzioni di costo dei beni, aumentando il costo marginale relativo del bene di cui aumenta la produzione. Ricordiamo che minimizzando i costi in regime di concorrenza 03 03 Z U

03 03 . Ne consegue che Z 03 U 03 0& , e Z 03 U 03 0& : che si vari la produzione variando al margine il consumo di un fattore o di un altro, il costo marginale è lo stesso. Ne consegue pure che 03 03 03 03 0& 0& : al margine, i rapporti dei prodotti marginali dei fattori nelle diverse produzioni sono uguali, e uguali al rapporto (inverso) dei costi marginali. Il tasso marginale di trasformazione 707, che è la pendenza della curva di trasformazione, corrisponde a questo rapporto comune dei prodotti marginali e al rapporto dei costi marginali: che si sposti al margine un'unità di lavoro o un'unità di terra, il mutamento delle produzioni, e dei costi, è lo stesso. Ritroviamo dunque con più di un fattore generico quanto già stabilito (6.b.3) con un unico fattore generico, e fattori specializzati. La Figura 6.b.5.4 illustra i casi limite della specializzazione completa, in cui si produce un bene solo. Il primo grafico riporta la curva di trasformazione; corrispondono alla specializzazione il punto D, in cui si produce solo grano, e il punto E, in cui si produce solo vino. Il secondo grafico riporta, per memoria, il parallelogramma dei fattori che corrisponde a un equilibrio non di specializzazione, quale il punto F, indicando la pendenza degli isocosti, ossia il rapporto Z U , nell'equilibrio indicato. Il terzo e quarto grafico illustrano gli equilibri di specializzazione. L'equilibrio nei mercati dei fattori esige che il rapporto 7 / nell'unica industria attiva corrisponda a 7 / . Se l'economia si specializza in *, intensivo in terra, il rapporto Z U deve essere più basso che in qualsiasi altro equilibrio, appunto per ridurre 7 / , che altrimenti supera 7 / , a quel livello; e così se si specializza in 9, intensivo in lavoro, il rapporto Z U deve essere più alto che in qualsiasi altro equilibrio. Il quinto grafico ripropone la scatola di Edgeworth nello spazio dei fattori. Come è facile verificare disegnando gli isoquanti per * e per 9 su due fogli diversi e poi sovrapponendoli, il luogo delle tangenze tra gli isoquanti è una curva: come si vede dai grafici precedenti il rapporto 7 / cala continuamente come la produzione di * passa da zero al massimo raggiungibile, mentre il rapporto 7 / aumenta continuamente come la produzione di 9 passa da zero al massimo raggiungibile; e questo implica a sua volta che Z U aumenta continuamente come si passa per equilibri successivi sulla curva di trasformazione da una specializzazione completa in * (il punto D) ad una specializzazione completa in 9 (il punto E). La Figura 6.b.5.5 illustra infine un'altro caso limite, in cui i due prodotti hanno isoquanti sovrapposti e dunque intensità fattoriali identiche. In tal caso, come si vede dal primo grafico, con funzioni di produzione omotetiche il parallelogramma si restringe fino a diventare un raggio. In equilibrio, 7 / 7 / 7 / , per qualsiasi produzione relativa di * e di 9; e il rapporto Z U è sempre lo stesso, quello appunto che garantisce l'unico rapporto 7 / di equilibrio. Nella scatola di Edgeworth il luogo delle tangenze diventa la retta che unisce i due punti di origine, e nei punti di tangenza la pendenza comune è sempre la stessa, uguale al rapporto Z U pure costante. Con rendimenti di scala costanti, poi, rimanendo costanti i prezzi relativi dei fattori rimangono pure costanti i costi medi e marginali dei due beni, e la curva di trasformazione divente una retta, a pendenza costante. In questo caso le curve di offerta dei beni sono piatte; con curve di trasformazione convesse dall'alto, invece--che sia per l'esistenza di fattori specializzati, o per differenze sistematiche di intensità fattoriale, o pure per rendimenti di scala decrescenti (anche se non se ne capisce la logica)--le curve di offerta dei beni sono in pendenza positiva. /*

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135

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6.b.6. la frontiera dei prezzi dei fattori Un tema ricorrente in quanto sopra è la variazione dei prezzi relativi dei fattori in funzione della variazione della produzione lungo la curva di trasformazione. Producendo una combinazione Pareto-efficiente dei beni, infatti, si produce un certo prodotto complessivo (il Prodotto Interno Lordo, nella nomenclatura della statistica macroeconomica): 3,/ 3 * 3 9. Con profitti nulli, l'intero prodotto equivale al reddito complessivo dei fattori: 3,/ Z/ U7 . Date le disponibilità dei fattori, dunque, a ogni produzione corrisponde un certo prezzo relativo dei fattori, e una certa GLVWULEX]LRQH IDWWRULDOH GHO UHGGLWR. Data poi la distribuzione della ricchezza, ossia la distribuzione tra le varie persone (famiglie) dei diritti di proprietà nei vari fattori, a questa corrisponde una certa GLVWULEX]LRQH SHUVRQDOH GHO UHGGLWR. Ammettiamo che se la produzione è Pareto-efficiente, ossia sulla curva di trasformazione, il 3,/ è quello massimo ottenibile, e ipotizziamo che sia costante in termini nominali (tralasciando dunque i problemi di aggregazione dei beni prodotti mentre cambiano le quantità relative di questi, e i valori unitari). Dato che il 3,/ viene ripartito tra i fattori dati in proporzione ai loro prezzi relativi, è ovvio che se la produzione è efficiente e il 3,/ è massimizzato, è pure massimizzato il prezzo (e il reddito) di ogni fattore dati i prezzi (e i redditi) degli altri. Alla produzione sulla curva delle produzioni possibili (la frontiera dei prodotti ottenibili) corrisponde insomma una combinazione di prezzi dei fattori anch'essa sulla frontiera corrispondente, detta appunto la IURQWLHUD GHL SUH]]L GHL IDWWRUL. La Figura 6.b.6.1 riassume quanto detto in proposito. Il primo grafico riporta la curva di trasformazione ottenuta con fattori specializzati (vedi 6.b.3); il secondo, la frontiera dei prezzi di questi fattori. Il punto D, in cui si produce solo <, corrisponde al massimo di U , ossia del prezzo del fattore usato solo da <; essendo allora nulla la produzione di ;, è nulla la domanda per il fattore usato solo in quella produzione, e dunque nullo il suo prezzo U . Il punto & corrisponde alla specializzazione opposta, in ;; è allora massimo U , e nullo U . Nel punto E si producono ambedue i beni, e ambedue i fattori hanno un prezzo intermedio, tra zero e il massimo. Il terzo grafico riporta la curva di trasformazione con due fattori non specializzati, intensità fattoriali diverse, e sostituzione nulla tra i fattori (6.b.4); il quarto, la frontiera dei prezzi di questi fattori. Nel segmento D E, ricordiamo, si produce solo o principalmente *, solo la terra è vincolante, e il lavoro non è scarso; il prezzo della terra è positivo e tale da esaurire il 3,/, per cui U 3,/ 7 , mentre Z . Nel segmento E F, invece, si produce solo o principalmente 9, solo il lavoro è vincolante, e la terra non è scarsa; il prezzo del lavoro è positivo e tale da esaurire il 3,/, per cui Z 3,/ / , mentre U . Al punto E, ambedue i fattori sono pienamente utilizzati, ma lo spigolo della curva di trasformazione ammette diversi costi marginali relativi e dunque prezzi relativi dei fattori; possono dunque variare Z e U, rispettando il vincolo 3,/ Z/ U7 . Il quinto grafico riporta la curva di trasformazione con due fattori non specializzati, intensità fattoriali diverse, e sostituzione ("simile") tra i fattori (6.b.5); il sesto, la frontiera dei prezzi di questi fattori. Il punto D, in cui si produce solo *, corrisponde al massimo di U, ossia del prezzo del fattore usato intensivamente da *; è allora nulla la produzione di 9, ma ambedue i fattori sono pienamente utilizzati, e Z è al suo minimo ma comunque positivo. Il punto F è il caso speculare, e E è un punto intermedio. Il settimo grafico riporta la curva di trasformazione con due fattori non specializzati, e isoquanti identici (6.b.5); l'ottavo, la frontiera dei prezzi di questi fattori. In questo caso la curva di trasformazione è una retta, e i prezzi relativi dei fattori (come i costi marginali dei beni) sono invarianti a mutamenti nella composizione del prodotto; la frontiera dei prezzi dei fattori si restringe ad un unico punto, compatibile con tutti quelli sulla curva di trasformazione. *

9

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7

7

136

.


Riassumendo il riassunto, alla curva di trasformazione corrisponde la frontiera dei prezzi dei fattori (massimo di U dato Z). Il massimo di U so ottiene massimizzando la produzione del bene relativamente intensivo in 7, e così via. Questo significa che se si varia il paniere prodotto, si variano anche i prezzi relativi dei fattori: appunto perchè questi sono dati, e il loro prezzo deve indurre i produttori a consumarne, insieme, esattamente la quantità totale disponibile. Spostandosi la produzione nella direzione del bene intensivo in uno dei fattori, per mantenerne costanti i consumi complessivi deve cambiare il loro prezzo relativo, cosicchè l'effetto di sostituzione interno ad ogni produzione compensa l'effetto dello spostamento tra le produzioni. In particolare, un paese che passa dall'autarchia al libero scambio si concentra nella produzione del bene che usa fattori localmente abbondanti; aumenta pertanto il prezzo relativo di questi, e cala invece quello dei fattori localmente rari (ragion per cui i sindacati statunitensi si sono opposti al mercato comune col Messico). Tanto maggiore è la differenza di intensità fattoriale dei due beni prodotti, ossia la diversità di 7 / dato Z U , tanto maggiore è: --la variazione di Z U per una data variazione del paniere prodotto; --la variazione, di conseguenza, del costo relativo, marginale e medio, dei beni, e pertanto della pendenza della curva di trasformazione; --la pendenza delle curve di offerta (di lungo periodo), pendenze che altro non indicano, giustappunto, che la variazione dei costi dovuta alla variazione dei prezzi dei fattori necessaria per mantenerne il pieno impiego quando varia il paniere prodotto in modo da alterare il consumo complessivo dei fattori a prezzi relativi invariati.

6.c. la concorrenza nel mercato dei beni e l'efficienza complessiva 6.c.1. l'acquisto dei beni: concorrenza e allocazione efficiente Abbiamo già visto, in un contesto di puro scambio, che la concorrenza porta a un'allocazione efficente dei beni disponibili. In un contesto di produzione, questo risultato viene narrato in un modo appena diverso: la dotazione di beni compare non più come semplicemente data ma come il risultato di scelte produttive. Ipotizziamo che queste siano maturate con mercati dei fattori concorrenziali, e dunque che la produzione sia efficiente; il punto di produzione compare dunque sulla curva di trasformazione, come nella Figura 6.c.1.1, definita per due beni qualsiasi ; e <. Dato questo punto possiamo costruire una scatola di Edgeworth nello spazio dei beni, con le curve d'indifferenza dei consumatori; il luogo delle tangenze corrisponde come nel puro scambio al luogo delle allocazioni efficienti di quei beni. Nel contesto di puro scambio si trovava nella stessa scatola il punto iniziale, che indicava la distribuzione iniziale dei beni che venivano poi barattati da operatori che erano contemporaneamente compratori e venditori; in un economia di produzione i consumatori sono puri compratori, e il loro potere di acquisto dipende dalla loro ricchezza definita non in beni ma in fattori, e dai prezzi di equilibrio di questi. Per il resto, vale il discorso già fatto: l'efficienza paretiana nell'allocazione dei beni esige che siano uguali i tassi marginali di sostituzione dei consumatori (706 , ossia i rapporti delle loro utilità marginali; nell'equilibrio di ciascuno il 706 viene equiparato al rapporto dei costi marginali dei beni per i singoli consumatori; se i consumatori sono tutti concorrenziali come compratori dei beni i loro rapporti dei costi marginali sono tutti pari al rapporto dei prezzi di mercato, e i loro 706 sono dunque uguali. L'allocazione di equilibrio si troverà pertanto sulla curva dei contratti, e dunque, nello spazio delle utilità, sulla curva delle utilità possibili date quelle disponibilità di beni. Nella Figura un equilibrio con R

R

R

137


consumatori concorrenziali è illustrato dal punto D. Il punto E, non efficiente, illustra invece un equilibrio in presenza di monopolio. Ipotizziamo che $ abbia potere di monopolio nel mercato di acquisto di <. Per $, dunque, 706 08 08 0& 0& 3 3 , mentre per % 706 08 08 0& 0& 3 3 : la curva d'indifferenza di % è tangente alla retta dei prezzi, quella di $ alla retta dei costi marginali (meno ripida, perchè per lui 0& ! 3 ). Il potere di monopolio di acquisto di < porta a un prezzo relativo di < minore di quello concorrenziale; ma quello che interessa è che le curve di indifferenza non possono essere tangenti. Ancora una volta, la concorrenza sembra sufficiente ma non necessaria, in quanto un individuo dotato di potere di monopolio di acquisto analogo in ambedue i mercati sembrerebbe comunque avere di fronte un vincolo con un tasso di sostituzione pari ai prezzi relativi; ma ancora una volta questo è un risultato spurio, dovuto alla struttura particolarmente semplice del modello. R

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6.c.2. la vendita dei beni: concorrenza e produzione ottimale Ipotizziamo adesso un'economia con una dotazione di . e /, mercati dei fattori concorrenziali, e dunque una produzione di ; e < sulla curva di trasformazione; la pendenza di questa in quel punto è 707 0& 0& 03 03 03 03 . Ipotizziamo pure che i compratori dei beni siano tutti concorrenziali, per cui il 706 08 08 è unico e uguale per tutti. Sono insomma efficienti sia la produzione, sia l'allocazione dei beni prodotti; rimane da vedere se è o meno ottimale anche il paniere prodotto, e dunque se è Pareto-efficiente o meno l'economia nel suo complesso. Immaginiamo inizialmente che non siano uguali il 706 e il 707 : ad esempio, al margine per ogni consumatore una mela è l'equivalente di una pera, mentre spostando risorse si può ottenere un mela aggiuntiva sacrificando solo mezza pera. In tal caso, ovviamente, rimane spazio per migliorare il benessere di tutti i consumatori, dando loro per ogni pera tolta non una mela, che basterebbe per compensarli, ma due. Perchè sia impossibile tale miglioramento cambiando la produzione, e dunque sia già ottimale la produzione, deve verificarsi un'ultima equivalenza marginale, ossia 706 707 . Anche questa condizione è garantita dalla concorrenza, e piÚ precisamente dalla massimizzazione del profitto da parte delle imprese che vendono i beni in condizioni di concorrenza. Se queste sono concorrenziali, infatti, i loro ricavi marginali coincidono con i prezzi di mercato, e la massimizzazione del profitto porta alla condizione 3 0& e 3 0& . Ne consegue ovviamente che 706 08 08 3 3 0& 0& 707 , come nel grafico superiore della Figura 6.c.2.1. Se invece sono concorrenziali tutti i mercati, con l'unica eccezione che ad esempio il bene ; viene venduto in condizioni di monopolio, allora per il venditore di ; si verifica 3 ! 05 0& . Ne consegue ovviamente che 706 08 08 3 3 ! 0& 0& 707 , come nel grafico inferiore della Figura 6.c.2.1. Notiamo che questa configurazione corrisponde ad XQD SURGX]LRQH LQDGHJXDWD GHO EHQH PRQRSROL]]DWR H FRUULVSRQGHQWHPHQWH GDWD O HIILFLHQ]D GHOOD SURGX]LRQH XQD SURGX]LRQH HFFHVVLYD GHJOL DOWUL EHQL. Infatti se il punto di produzione si sposta lungo la curva di trasformazione verso sud-est, aumentando la produzione di ; (monopolizzato) e riducendo quella di < (concorrenziale), diventa piÚ ripida la pendenza della curva di trasformazione, e (spostandosi le origini delle curve di indifferenza legate al punto di produzione) meno ripida la pendenza delle curve di indifferenza lungo la curva dei contratti: convergono cioè il 706 e il 707 . Notiamo tre cose. Primo, come sopra, la concorrenza tra i venditori dei beni sembra sufficiente per ottenere 706 707 , ma non necessaria, in quanto con poteri di monopolio simili nei due mercati si potrebbe comunque ottenere 3 3 0& 0& , con 3 0& ;<

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138

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3 0& ! ; ma come al solito questo è un risultato spurio legato alla struttura particolarmente semplice del modello. Secondo, ritroviamo adesso una considerazione già fatta sull'ottimalità degli equilibri concorrenziali nei singoli mercati. Nella Figura 6.c.2.2, i due grafici superiori illustrano gli equilibri concorrenziali nei mercati di ; e <. Nei due grafici inferiori si illustrano gli equilibri con un monopolio di vendita in ;. Il mercato di < rimane concorrenziale, ma l'equilibrio non è piÚ quello di prima: infatti la riduzione delle produzione di ; causata dal monopolio libera risorse che vengono assorbite dalla produzione di <, aumentandone l'offerta. Tralasciando eventuali effetti sulla domanda (ossia assumendo implicitamente che la domanda di ; sia localmente di elasticità unitaria), la curva di offerta di < con monopolio in ;, ossia 6 ,è spostata rispetto alla stessa con concorrenza anche in ;, ossia 6 ; il monopolio in ; per effetti di offerta riduce il prezzo e aumenta i consumi degli altri beni. Gli incroci domandaofferta corrispondono insomma agli equilibri globalmente Pareto-efficienti solo se le curve stesse emergono da un contesto pienamente concorrenziali; un monopolio in qualche mercato porta a curve "sbagliate" negli altri mercati. Terzo, notiamo che se l'unico elemento non-concorrenziale si trova nella vendita dei beni, l'economia rimane pienamente efficiente tranne appunto che per la scelta non ottimale della produzione. Tale situazione è illustrata nei primi due grafici della Figura 6.c.2.3. La produzione è sulla curva di trasformazione, nel punto D. Il 706 è unico, nel punto E, per cui l'allocazione dei beni è efficiente, date le disponibilità (ossia il punto D); nello spazio delle utilità il punto E è dunque sulla curva delle utilità possibili dato D, ossia su &83 . Il 706 , però, diverge dal 707; e questo significa che non si raggiunge la Pareto-efficienza complessiva, ossia che il punto E è sulla &83 ma non anche sulla frontiera delle utilità possibili, ossia la )83. Nei grafici inferiori la situazione è la stessa, con in aggiunta 706 707, dati gli equilibri in F e G. Questo significa che il punto G è non solo sulla curva delle utilità possibili date quelle disponibilità dei beni, ossia sulla &83 , ma anche sulla frontiera delle utilità possibili, la )83; per essere precisi, ricordando che la )83 è l'inviluppo delle &83, nel punto corrispondente a G la &83 è la )83. Riassumendo, la concorrenza perfetta è garanzia di efficienza paretiana: i fattori sono pienamente utilizzati; è efficiente l'allocazione dei fattori e dunque la produzione, perchè 03 03 03 03 ; è efficiente l'allocazione dei beni prodotti, perchè 08 08 08 08 ; ed è ottimale il paniere prodotto, perchè 08 08 03 03 03 03 . I mercati concorrenziali producono dunque una situazione di efficienza paretiana complessiva, per cui l'economia si trova sulla frontiera delle utilità possibili--ma non necessariamente al punto socialmente ottimale di tale frontiera, il che è esattamente la conclusione raggiunta per l'economia senza produzione. In sostanza, dunque, e in assenza dei "fallimenti" che vedremo appresso, LO VLVWHPD GL PHUFDWL FRQFRUUHQ]LDOL SRUWD O HFRQRPLD DG XQD FRPELQD]LRQH GL SURGX]LRQL H GL FRQVXPL FKH q HIILFLHQWH LQ VHQVR SDUHWLDQR H SHUWDQWR RWWLPDOH GDWD OD GLVWULEX]LRQH GHOOD ULFFKH]]D OH GLVSRQLELOLWj GL ULVRUVH L JXVWL H OH WHFQRORJLH 4XHVWR ULVXOWDWR QRQ SXz HVVHUH VRFLDOPHQWH RWWLPDOH VH QRQ OR q OD GLVWULEX]LRQH LQL]LDOH GHOOD ULFFKH]]D PD TXHVWR QRQ q FROSD GHO PHUFDWR FKH q XQR VWUXPHQWR GL FRQWUROOR GHOO HFRQRPLD DVVROXWDPHQWH QHXWUR ULVSHWWR DL SDUDPHWUL ULFFKH]]D ULVRUVH JXVWL WHFQRORJLH GHO VLVWHPD. Ripetere il paragrafo precedente, che è fondamentale. <

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6.c.3. efficienza paretiana, produzione, e distribuzione Prima di abbandonare questi strumenti può essere utile considerare piÚ da vicino 139


l’interdipendenza tra produzione e distribuzione in un equilibrio generale concorrenziale e dunque (con le ipotesi implicite che vedremo poi) complessivamente Pareto-efficiente. Se i consumatori hanno gusti simili e la composizione dei consumi varia poco con il reddito, la produzione di equilibrio Pareto-efficiente dipende poco dalla distribuzione della ricchezza; al limite tutti consumano un paniere di composizione identica, a qualsiasi reddito, e l'unico punto di produzione Pareto-efficiente è quello che corrisponde al paniere desiderato con prezzi relativi pari ai costi marginali relativi. Ipotizziamo dunque per illustrare questo caso limite che le funzioni di utilità siano omotetiche, e identiche per tutti gli individui: la composizione dei consumi varia pertanto con i prezzi relativi dei beni ma non con il reddito (per cui le elasticità al reddito sono sempre pari a uno). Come sappiamo dal caso analogo nello spazio dei fattori (Figura 6.b.5.5), la curva dei contratti è allora la diagonale della scatola di Edgeworth, e la pendenza delle tangenze fra le curve di indifferenza è costante. Nel grafico superiore della Figura 6.c.3.1 sono rappresentati nello spazio dei beni la curva di trasformazione, con tre punti di produzione D, E, e F, e una curva di indifferenza rappresentativa, con le tangenti corrispondenti ai tre punti di produzione. Come si riduce il rapporto < ; aumenta in modo continuo il rapporto 0& 0& 707, e si riduce in modo continuo il rapporto 08 08

706 ; è ovvio dunque che 706 707 in un unico punto, per ipotesi il punto E. Essendo le preferenze omotetiche e identiche, 706 707 lungo l'intera curva dei contratti, che coincide con il raggio da 2 a E; il punto E coincide dunque con la Paretoefficienza complessiva a prescindere dalla distribuzione della ricchezza, e dei consumi di equilibrio, tra gli individui. Questo significa a sua volta che nello spazio delle utilità, riportato nel grafico inferiore della Figura, la )83 coincide con &83 ; &83 , come &83 , si trova interamente all'interno della )83. Se invece i consumatori hanno gusti diversi, il punto di produzione di equilibrio complessivamente Pareto-efficiente sarà diverso a seconda della distribuzione della ricchezza tra di loro, e tenderà ovviamente ad uniformarsi ai gusti di chi pesa di più. Reciprocamente, la compatibilità o meno di un dato punto di produzione con la Pareto-efficienza complessiva dipenderà dalla distribuzione della ricchezza fra consumatori di gusti diversi. Ipotizziamo per illustrare un caso semplificato che le funzioni di utilità siano sempre omotetiche, ma diverse da un consumatore all'altro, e in particolare che l'individuo $ abbia utilità intensive in <; dato qualsiasi rapporto 3 3 , dunque, < ; ! < ; . Come sappiamo dal caso analogo nello spazio dei fattori (Figura 6.b.5.4), se misuriamo i consumi di $ dall'origine degli assi in basso a sinistra la curva dei contratti nella scatola di Edgeworth sarà una curva convessa dall'alto, e la pendenza delle tangenze fra le curve di indifferenza (il 706 di equilibrio) sarà tanto minore, quanto più ci si allontana dal punto di origine di $, come nel primo grafico della Figura 6.c.3.2. Nel secondo grafico della Figura una simile scatola di Edgeworth è iscritta nella curva di trasformazione, per ipotesi con un punto di produzione D tale che il 707 è compreso fra i valori estremi del 706 , rispettivamente 706 e 706 , ai due estremi della curva dei contratti. Siccome lungo la curva dei contratti il 706 varia in modo continuo e monotonico tra i suoi valori estremi, esiste necessariamente all'interno della scatola un unico punto di consumo E tale che 707 706 ; il punto di produzione D è dunque a sua volta compatibile con la Pareto-efficienza complessiva, ed è dunque un equilibrio concorrenziale, se e solo se la distribuzione della ricchezza è tale che alla produzione in D corrispondono i consumi in E. Il terzo grafico della Figura, nello spazio delle utilità, riporta la &83 , definita appunto per la produzione in D, e la )83. L'unico punto comune corrisponde a E; il resto della &83 è interno alla )83, perchè 706 e 707 non sono uguali. I due pezzi della &83 rispettivamente a nord-ovest e a sud-est di E corrispondono infatti nel grafico precedente alla ;

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140


curva dei contratti rispettivamente a nord-est e a sud-ovest di E. Nella Figura 6.c.3.3 si riprende l’esempio precedente, illustrando come si modificano gli equilibri di consumo se cambia la dimensione della scatola come cambierebbe appunto se cambiasse il punto di produzione. Con le solite preferenze diverse, il punto di produzione definisce una curva dei contratti con dei 706 che variano da un minimo di 706 al punto ad un massimo di 706 al punto 2. Se il punto di origine dei consumi di % si sposta da a , la scatola diventa meno alta e stretta; cambia la curva dei contratti, che diventa meno ripida; e cambiano i 706 lungo la stessa. In particolare, i 706 estremi diventano ambedue meno ripidi: quelli minimi, più lontani da 2, si riducono perchè la funzione di utilità di $ è omotetica, e da a si riiduce il rapporto < ; ; e basta rovesciare il foglio per vedere che lo stesso vale per quelli massimi, più lontani dall'origine di % (il punto di produzione), che passano dunque per 2. Si ritrova insomma appena arricchito il risultato già ottenuto nella Figura 6.c.3.1. In quel caso, con preferenze omotetiche identiche, il 706 era costante lungo qualsiasi curva dei contratti; come il punto di produzione scendeva lungo la curva di trasformazione, il 706 diminuiva. Nella Figura 6.c.3.3 le preferenze sono omotetiche ma diverse, e ogni curva dei contratti definisce non un unico 706 , ma una gamma tra un minimo e un massimo; ma come il punto di produzione scende lungo la curva di trasformazione, si sposta verso il basso l'intera gamma come prima si spostava verso il basso il valore unico. Peraltro non può essere diversamente, visto che le preferenze identiche sono un caso particolare di quelle diverse: come spariscono le differenze tra le preferenze spariscono quelle tra i 706 estremi, e la gamma tra questi estremi si riduce ad un valore unico. Ipotizziamo adesso che i tassi marginali di trasformazione nei due punti di produzione, 707 e 707 , siano compresi tra i valori estremi dei 706 sulle curve dei contratti corrispondenti: 706 ! 707 ! 706 , e 706 ! 707 ! 706 . Notiamo però che con lo spostamento da a aumenta la pendenza della curva di trasformazione, per cui 707 707 , mentre si sposta verso il basso la gamma dei 706 ; necessariamente, dunque, il punto di consumo che concilia il punto di produzione con la Pareto-efficienza complessiva (il punto E del secondo grafico della Figura precedente) si troverà più vicino al punto 2, ossia corrisponderà ad una minore ricchezza, e un minor benessere, per $. Questo risultato si può capire facilmente considerando i casi estremi. Ipotizziamo che ambedue i 707 coincidano appunto con uno dei valori estremi dei 706 : siccome 707 707 , 706 ! 706 ! 706 e 706 ! 706 ! 706 , l'unica possibilità è 706 707 e 706 707 ; ma 706 si trova al punto di produzione, all'angolo opposto dall'origine dei consumi di $, e 706 invece al punto 2. Intuitivamente, poi, è naturale che se $ consuma di più il mercato tenderà a improntarsi maggiormente ai gusti suoi; nel caso limite infatti $ consuma tutto, e il mercato produce quello che sceglierebbe $ se fosse vincolato direttamente dalla curva di trasformazione (graficamente, il punto di consumo coincide con il punto di produzione, e in quel punto la curva di indifferenza di $ è tangente alla curva di trasformazione). La Figura 6.c.3.4 presenta due grafici, nello spazio rispettivamente dei beni, e delle utilità. Nel grafico superiore della Figura ritroviamo la curva di trasformazione, con sei punti di produzione, numerati in ordine da D a I, e le sei curve dei contratti corrispondenti. Le preferenze omotetiche di $ e di % sono rappresentate da due curve di indifferenza rappresentative: una di $, solida, scelta tangente alla curva di trasformazione; e una di %, misurandone i consumi da 2, per l'occasione (perchè normalmente li misuriamo nella scatola di Edgeworth a partire dal punto di produzione), tratteggiata, anche questa scelta tangente alla curva di trasformazione. Queste due tangenze definiscono sulla curva di trasformazione i punti E e H, ossia il secondo e il penultimo. R

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141

RP

RP


Il punto E riproduce il caso limite della Figura precedente, con 707 706 . Rappresenta per costruzione l’equilibrio di Pareto-efficienza complessiva quando $ possiede e consuma tutto, per cui il punto di consumo E coincide con il punto di produzione E. Il consumo in E rappresenta insomma l'utilità massima per $, e dunque nel grafico inferiore l'intercetta della )83 sull'asse 8 . Il resto della &83 è invece interno alla )83: con la produzione in E, infatti, lungo la curva dei contratti 706 ! 707 tranne che in E . Il punto H a sua volta riproduce l'altro caso limite della Figura precedente, con 707 706 . Rappresenta per costruzione l'equilibrio di Pareto-efficienza complessiva quando % possiede e consuma tutto, per cui nella scatola di Edgeworth il punto di consumo H coincide con il punto di origine 2 (come è ovvio: se l'origine dei consumi di % è H piuttosto che 2, la curva di indifferenza tratteggiata passa per 2 piuttosto che per H, e in quel punto 706 707). Il consumo in H rappresenta insomma l'utilità massima per %, e dunque nel grafico inferiore l'intercetta della )83 sull'asse 8 . Il resto della &83 è invece interno alla )83: con la produzione in H, infatti, lungo la curva dei contratti 706 707 tranne che in H . Consideriamo adesso i due punti di produzione intermedi, F e G. A ognuno di questi è legato un punto di consumo sulla curva dei contratti corrispondente, rispettivamente F e G , per il quale 706 707 e il punto di produzione è compatibile con la Pareto-efficienza complessiva. Per trovare questi punti di consumo, visto che la funzione di utilità di $ è omotetica, basta risalire la curva di indifferenza di $ per trovare i punti F e G con 706 pari al 707 in F e G, e poi seguire il raggio tra quei punti e il punto di origine 2 fino a incontrare la curva dei contratti del caso: in quel punto, i 706 di $ e di % sono uguali (perchè siamo sulla curva dei contratti), e uguali al 707 (perchè per $ ogni raggio da 2 è il luogo dei punti a 706 costante, e dunque per costruzione uguale al 707 nel punto di produzione). Nel grafico inferiore, dunque, F e G sono ognuno sulla )83; tranne che per questi due punti, anche la &83 e la &83 sono interna alla )83. Il punto D, sulla curva di trasformazione tra il prodotto massimo di < e il punto E, è invece tale che 707 706 lungo l'intera curva dei contratti: non esiste pertanto un punto D che rappresenti con D un equilibrio pienamente Pareto-efficiente. Ne consegue che nel grafico inferiore la &83 (non illustrata) è interamente interna alla )83. Il punto I, sulla curva di trasformazione tra il prodotto massimo di ; e il punto H, è ovviamente analogo. Infatti 707 ! 706 lungo l'intera curva dei contratti: non esiste pertanto un punto I che rappresenti con I un equilibrio pienamente Pareto-efficiente. Nel grafico inferiore anche la &83 (non illustrata) è dunque interamente interna alla )83. Torniamo adesso al grafico superiore. L'intera )83 corrisponde ovviamente al luogo dei punti pienamente Pareto-efficienti: E , H , e tutti i punti intermedi costruiti come F e G . Notiamo che anche questa curva è convessa dall'alto: come il punto di produzione si sposta tra E e H lungo la curva di trasformazione i punti di consumo si spostano da una curva dei contratti all'altra, e si avvicinano a 2; ma si spostano anche su raggi da 2 sempre più ripidi, appunto perchè corrispondono a 706 sempre più alti per rimanere uguali al 707 sempre crescente. RP

$

E

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R0

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%

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R

F

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I

R

6.c.4. aspetti dell'equilibrio Notiamo cinque aspetti dell'equilibrio concorrenziale. Primo, il mercato concorrenziale adatta la produzione alla domanda, ossia ai gusti mediati dalla ricchezza. Abbiamo studiato per comodità un esempio con preferenze omotetiche ma diverse; conclusioni simili si raggiungono ipotizzando più realisticamente preferenze simili ma non omotetiche. Come abbiamo visto, infatti, le elasticità al reddito sono lungi dall'essere tutte sempre unitarie, e si distinguono facilmente, nella realtà, i beni di lusso, quelli di prima necessità, e la fascia intermedia. Nella realtà, dunque, la produzione si 142


adatta piÚ che altro alla VWUXWWXUD della ricchezza e dei redditi: un'economia adattata ad una distribuzione molto differenziata produce pane per i poveri e caviale per i ricchi, un'economia adattata ad una distribuzione poco differenziata produce pollo per tutti. Secondo, il mercato concorrenziale massimizza il prodotto complessivo ("il 3,/") ai prezzi di mercato. Nell'equilibrio pienamente concorrenziale ("sulla )83"), infatti, il 707 al punto di produzione è uguale al 706 , come per ipotesi nel punto ( della Figura 6.c.4.1; il 707 è dunque uguale al rapporto dei prezzi dei beni, 3 3 . Nello spazio dei beni, però, una retta con pendenza negativa pari a 3 3 corrisponde ad una somma costante dei beni ponderati con i loro prezzi: 5 3 ; 3 <. La curva di trasformazione vincola le produzioni possibili; le rette con pendenza pari a 3 3 indicano somme costanti dei valori dei beni, ai prezzi vigenti; la tangenza tra la curva di trasformazione e la retta di iso-valore nel punto di produzione di equilibrio concorrenziale complessivamente Pareto-efficiente corrisponde dunque alla massimizzazione di 5 3 ; 3 <. Terzo, una volta definita la )83 l'analisi dell'ottimizzazione sociale ricalca esattamente quella già svolta nel contesto di puro scambio, con la &83 data direttamente dai beni a disposizione. La Figura 6.c.4.2, in particolare, riprende la Figura 4.b.3.1, estendendola per tener conto della produzione. Il primo grafico, nello spazio delle utilità , indica la )83, alcune curve di indifferenza sociale (ossia di pari ) 8 8 ), il punto 0 di benessere sociale massimo, ovviamente sulla )83, e la &83 corrispondente. Il secondo grafico, nello spazio dei beni, riprende in forma semplificata il grafico superiore della Figura 6.b.3.4: con la )83 sono compatibili i punti di produzione sul segmento della curva di trasformazione tra D e E, e alla stessa )83 corrispondono i punti di consumo a questi associati, sulla tratteggiata tra 2 e E. Immaginiamo che al punto 0 sulla )83 e la &83 nel primo grafico corrisponda nel secondo il punto 0, sulla )83 e sulla curva dei contratti definita per il punto di produzione 0 ; i beni messi a disposizione dalla produzione socialmente (e non solo Pareto-) ottimale sono dunque ; e < . In questo spazio dei beni si possono definire gli anelli di iso-), come si è fatto nella Figura 4.b.3.1. L'unico grafico aggiuntivo, nella Figura nuova, è il terzo, nello spazio dei fattori: al punto di produzione 0 sulla curva di trasformazione nello spazio dei beni corrisponde ovviamente un punto 0 sulla curva dei contratti nello spazio dei fattori, per il quale passano gli isoquanti corrisponenti a ; e < . Quarto, come nell'economia di puro scambio, cosÏ anche nell'economia di produzione il punto di massimo benessere sociale si può ottenere da una serie di allocazioni iniziali. Immaginiamo per semplificare l'esposizione che le preferenze siano omotetiche e identiche, e che il massimo benessere complessivo si ottenga quando i consumi di $ sono tripli di quelli di %. Questo equilibrio richiede 5 3 ; 3 < 5 3 ; 3 < . D'altra parte, 5 U. Z/ , 5 U. Z/ , e 5 5 U. Z/ 3 ; 3 < 3,/. Un modo di raggiungere l'equilibrio desiderato, anche senza conoscere i prezzi di equilibrio, è ovviamente quella di rendere $ proprietario di tre quarti di ognuno dei fattori di produzione; ma vanno bene anche tutte le altre allocazioni della proprietà tali che, ai prezzi di equilibrio dei fattori, 5 5 . Se ad esempio in equilibrio U. Z/ , si potrebbe rendere $ proprietario dell'intero capitale e di un terzo del lavoro. Quinto, e di nuovo come nell'economia di puro scambio, in un economia di produzione l'equilibrio concorrenziale non necessariamente esiste. Esiste sicuramente se sono "normali" le funzioni in base alle quali gli operatori decidono, ossia le funzioni di utilità da un lato, come abbiamo già visto (4.a.6), e le funzioni di produzione dall'altro. Se gli isoquanti non sono convessi dal basso, come le curve di indifferenza, può non essere raggiungibile la curva dei contratti nello spazio dei fattori; se poi i rendimenti di scala sono sempre crescenti, come pensava Marx, l'impresa piÚ grande avrà un vantaggio di costo che la porterà a sconfiggere i concorrenti e diventare un monopolio. R

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6.c.5. i mutamenti degli equilibri Diamo un’ultimo sguardo al nesso tra distribuzione della ricchezza (proprietà dei fattori), gusti, produzione, e prezzi dei fattori. Abbiamo appena visto che dati gusti diversi la produzione Pareto-efficiente varia con la distribuzione del reddito. Ipotizziamo una redistribuzione del reddito ottenuta spostando proprietà da %, che ama vino, a $, che ama grano; ne consegue un aumento di produzione del grano, e un calo di produzione di vino, ottenuti con uno spostamento di fattori dal vino al grano. Se la produzione di vino è intensiva in lavoro, e quella di grano in terra, lo spostamento di fattori e il mutamento della produzione comportano un mutamento nella remunerazione dei fattori, a scapito del lavoro e a vantaggio della terra. Ora se $ è proprietario della terra, e % del lavoro, questo mutamento dei prezzi dei fattori indotto dallo spostamento di ricchezza e dunque di reddito causa un'ulteriore spostamento di reddito (con la data distribuzione della proprietà) che rafforza il primo, e via di seguito; se invece $ è proprietario del lavoro e % della terra si otterrà uno spostamento di reddito indotto che limita quello iniziale. La distribuzione del reddito sarà pertanto più stabile dove le preferenze e le proprietà si incrociano, e tenderà invece ad esasperarsi dove ognuno preferisce il prodotto intensivo nel proprio fattore. Sembra che lo sviluppo dell'Occidente abbia avuto un effetto trainante, sul terzo mondo, maggiore nell'Ottocento che non in tempi più recenti: forse appunto perchè nell'Ottocento l'Occidente ricco richedeva le risorse del terzo mondo (minerali, fibre tessili, legni...), mentre oggi l'Occidente ricco richiede piuttosto le risorse proprie (informatica, servizi finanziari...).

6.d. l'allocazione delle risorse 6.d.1. gli elementi dell'analisi Riconsideriamo adesso l'equilibrio generale come un problema di allocazione delle risorse (i fattori di produzione). Non cambiano le conclusioni già acquisite, ma si ottengono due risultati utili. Primo, si generalizza il modello quanto basta per eliminare l'apparenza che ci possano esserci equilibri efficienti con "poteri di monopolio simili" in vari mercati, apparenza che sopravvive al modello semplificato esaminato nelle pagine precedenti. Secondo, si rende esplicita con la logica del marginalismo la catena di valutazioni che partendo dai consumatori risale attraverso i vari mercati e le varie trasformazioni dei prodotti ai fattori di produzione. Si evidenzia così la natura della valutazione economica, dell'offerta come domanda alternativa, e dell'intero sistema dei prezzi come trasmettitore di informazioni. Dal punto di vista dell'allocazione delle risorse, si raggiunge un ottimo paretiano complessivo se, per ogni risorsa considerata a parte, ogni unità rende la stessa utilità marginale monetizzata, ossia lo stesso prezzo di domanda finale, in ogni uso. Si deve cioè ottenere al margine lo stesso valore in dollari, per il consumatore finale, per ogni ora di lavoro, che il lavoro sia usato per produrre cibo o per produrre cinema; e lo stesso valore in dollari, per il consumatore finale, per ogni tonnellata di carbone, che il carbone sia usato per produrre elettricità o per produrre acciaio; e così via. In questo modo ogni diritto d'uso è acquisito da chi lo valuta di più; se così non fosse si potrebbe aumentare il benessere di tutti trasferendo un'unità di risorsa (un diritto d'uso) da dove vale di meno a dove vale di più, con la dovuta compensazione. Per raggiungere un ottimo sociale, l'equivalenza marginale deve stabilirsi non solo tra i benefici privati (i prezzi di domanda), ma tra i benefici sociali. Si deve cioè ottenere al 144


margine lo stesso beneficio sociale per ogni ora di lavoro, che il lavoro sia usato per produrre cibo o per produrre cinema; e lo stesso beneficio sociale per ogni tonnellata di carbone, che il carbone sia usato per produrre elettricità o per produrre acciaio; e cosÏ via. Come già sappiamo "il mercato" può portare all'efficienza paretiana per qualsiasi distribuzione della ricchezza, ma all'ottimo sociale solo se la distribuzione della ricchezza è "giusta" (nei due sensi della parola, quello etico e quello strumentale). Che sia "giusta" o meno la distribuzione della ricchezza, l'equivalenza o meno dei benefici marginali privati per unità di risorsa dipende ovviamente dagli equilibri degli operatori nei diversi mercati, di cui ricordiamo gli elementi, ricalibrandoli nel caso per riportare l'unità di misura all'unità di risorsa. Incominciamo dai proprietari delle risorse 5. Per questi, che sono i venditori nei mercati delle risorse, la condizione di equilibrio è 0% 0& , misurati ambedue in dollari per unità di risorsa (per ipotesi, un'ora di servizio). Il beneficio marginale 0% corrisponde al reddito marginale dalla vendita di un'unità di risorsa: 0% 3 G3 G5 5, per cui 0% 3 per gli operatori concorrenziali e 0% 3 , perchè G3 G5 , per gli operatori con potere di mercato (monopolio semplice di vendita). Il costo marginale 0& corrisponde a sua volta al prezzo di offerta della risorsa. Riconosciamo adesso, superando una delle semplificazioni precedenti, che si concreta in modo diverso a seconda che si tratti di lavoro (umano) o di altri fattori. Per il lavoro, infatti, 0& è un'utilità marginale monetizzata, come per i beni di consumo, perchè il tempo è appunto un bene di consumo; la dimensione del prezzo di offerta è dunque XWLOLWj RUD XWLOLWj RUD . Per i fattori non umani, come ad esempio la terra, 0& è semplicemente zero fino alla quantità disponibile, e poi indefinito (nel grafico, la curva di offerta è verticale); questo implica come sappiamo che il monopolio dei fattori di produzione inanimati incide sul loro impiego solo se la domanda è anelastica. Passiamo adesso alle imprese, che acquistano le risorse 5 e vendono i beni 4. Per l'impresa come compratrice delle risorse la condizione di equilibrio è ovviamente 0% 0& , misurati ambedue in dollari per unità di risorsa. Il costo marginale 0& corrisponde al costo marginale per l'impresa dell'acquisto di un'unità di risorsa: 0& 3 G3 G5 5, per cui 0& 3 per gli operatori concorrenziali come compratori di risorse e 0& ! 3 , perchè (G3 G5 ! , per gli operatori con potere di mercato (monopolio semplice di acquisto). Il beneficio marginale 0% , che è il prezzo di domanda, corrisponde a sua volta al reddito marginale derivante dall'acquisto di un'unità di risorsa, ossia dalla vendita del prodotto marginale della risorsa: 0% 05 03 . Nel caso ad esempio dell'impresa che produce mele, la dimensione del beneficio marginale ottenuto dall'unità di risorsa è PHOD

PHOH RUD RUD . Ricordiamo che il reddito marginale per unità (venduta) di prodotto è 05 3 G3 G4 4, con G3 G4 per le imprese con potere di monopolio semplice di vendita, e G3 G4 per le imprese concorrenziali nel mercato del prodotto; ne consegue che 0% 3 03 per le imprese concorrenziali nella vendita dei beni e 0% 3 03 , perchè G3 G4 , per gli operatori con potere di mercato (monopolio semplice) nella vendita del prodotto. Ricordiamo pure che un'impresa può avere potere di monopolio sia come acquirente di risorse che come venditrice di prodotti, e che questo è anzi un caso normale, in presenza di fattori specializzati: il monopolio di vendita di tessuti di cotone è automaticamente monopolio di acquisto di filo di cotone e vice versa, e un'assenza di potere di mercato si verifica allora solo con curve di domanda o di offerta perfettamente elastiche. Arriviamo infine ai consumatori finali dei beni 4. Per questi compratori la condizione di equilibrio naturale è 0% 0& . Ipotizzando sempre che il bene in questione sia una mela, l'utilità marginale monetizzata (il prezzo di domanda) 0% ha dimensione XWLOLWj PHOD XWLOLWj PHOD ; il costo marginale 0& è l'aumento di spesa 5Y

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dovuto all’acquisto di una mela aggiuntiva, con dimensione PHOD . Ricordiamo che 0& 3 G3 G4 4, per cui 0& 3 se il compratore è concorrenziale, e 0& ! 3 , perchè G3 G4 ! , se il compratore ha potere di mercato (monopolio semplice di acquisto). Per analizzare le valutazioni finali dei servizi dei fattori, consideriamo come unitĂ non la singola mela, ma il numero di mele prodotte al margine da un unitĂ di risorsa, e scriviamo dunque 0% 03 0& 03 , con 0& 03 3 03 se il compratore del bene è concorrenziale e 0& 03 ! 3 03 se il compratore del bene ha potere di mercato; la dimensione di questi valori marginali è PHOD PHOH RUD RUD . Notiamo che 0% 03 è esattamente l'utilitĂ marginale monetizzata prodotta per il consumatore finale da un'unitĂ della risorsa usata per produrre il bene consumato: è il prezzo di domanda per un'unitĂ di risorsa non dell'impresa, ma del consumatore finale. 4F

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6.d.2. la trasmissione delle valutazioni Per capire il funzionamento del sistema dei prezzi, i vari equilibri di cui sopra vanno considerati insieme; la relazione tra il prezzo di offerta dell'unitĂ di risorsa 0& e il prezzo di domanda del consumatore finale 0% 03 dipende infatti dalla struttura dei mercati. Riassumendo, si considerano i rapporti tra le seguenti variabili, tutte in RUD : 5Y

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0& 0% 3 0& 0% 3 03 0& 03 0% 03 5Y

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0& 0% per l'equilibrio del venditore della risorsa. 0% 3 se il venditore della risorsa è concorrenziale; 0% 3 se il venditore della risorsa ha potere di monopolio. 3 0& se il compratore della risorsa è concorrenziale; 3 0& se il compratore della risorsa ha potere di monopolio. 0& 0% per l'equilibrio del compratore della risorsa, che è il venditore del bene prodotto dalla risorsa. 0% 3 03 se il venditore del bene prodotto dalla risorsa è concorrenziale; 0% 3 03 se il venditore del bene prodotto dalla risorsa ha potere di monopolio. 3 03 0& 03 se il compratore del bene prodotto dalla risorsa è concorrenziale; 3 03 0& 03 se il compratore del bene prodotto dalla risorsa ha potere di monopolio. 0& 03 0% 03 per l'equilibrio del compratore del bene prodotto dalla risorsa. Ricordiamo per inciso che il monopolio semplice in non è compatibile con il monopolio semplice in , e che il monopolio semplice in non è compatibile con il monopolio semplice in . Riassumendo il riassunto, si nota che 0& 3 3 03 0% 03 se tutti i mercati sono concorrenziali: gli estremi della catena sono uguali se tutti i segni intermedi sono delle uguaglianze. In questo caso, i prezzi (dei beni che sono i prodotti marginali delle risorse, e delle stesse risorse) comunicano ai fornitori di risorse la valutazione effettiva dei consumatori. In caso di monopolio (semplice), da qualsiasi parte e a qualsiasi livello, 0& 0% 03 : il potere di mercato porta sempre ad una GLPLQX]LRQH dell'attività , e a una "perdita di segnale" dai consumatori finali ai produttori ultimi. Si ritorna allo sdegno di Simons, e alla visione del monopolista come agente disonesto, che comunica al venditore un prezzo minore di quello effettivamente offerto dal compratore. Se tutti i mercati sono concorrenziali, poi, e dunque tutti i segni nella catena sono delle uguaglianze, gli elementi estremi saranno uguali a prescindere dalla lunghezza della catena stessa. Possiamo dunque superare un'altra delle semplificazioni precedenti, e abbandonare l'ipotesi che un'unica impresa occupi l'intero spazio produttivo tra le risorse e il 5Y

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bene finale. Immaginiamo che l’impresa che compra la risorsa produca non il bene finale 4 ma un bene intermedio *; con mercati concorrenziali si complica la catena ma non il concetto. Ipotizziamo un mercato pienamente concorrenziale per la risorsa 5, per cui, come sopra, 0& 0% 3 0& 0% . Se l’impresa che compra 5 e vende * è concorrenziale nella vendita di *, 0% 3 03 ; se l'impresa che compra * e vende 4 è concorrenziale nell'acquisto di *, 3 0& e dunque 3 03 0& 03 ; per l'equilibrio di questa seconda impresa 0& 0% 05 03 , per cui 0& 03 0% 03 05 03 03 ; se questa seconda impresa è concorrenziale nella vendita di 4, allora 05 3 e dunque 05 03 03 3 03 03 ; se il consumatore finale compratore di 4 è concorrenziale, 3 0& , e dunque 3 03 03 0& 03 03 ; e per l'equilibrio del consumatore finale 0& 0% , e dunque 0& 03 03 0% 03 03 , per cui alla fine con un passaggio aggiuntivo si ritrova 0& 0% 03 03 , e il prezzo di offerta della risorsa è uguale al prezzo di domanda da parte del consumatore finale. Con il passaggio unico dalla risorsa al bene finale, diciamo dal lavoro alla mela, il prezzo di domanda finale per il prodotto del lavoro era l'utilità marginale monetizzata legata ad esempio alle quattro mele prodotte al margine in un'ora di lavoro; con il doppio passaggio, diciamo dal lavoro alla mela e dalla mela al sidro, il prezzo di domanda finale per il prodotto del lavoro è l'utilità marginale monetizzata legata ad eseempio al mezzo litro di sidro prodotto al margine dalle quattro mele prodotte al margine in un'ora di lavoro. La dimensione è sempre RUD : in un caso risulta semplificando XWLOLWj XWLOLWj PHOD PHOH RUD , nell'altro risulta semplificando XWLOLWj XWLOLWj VLGUR VLGUR PHOD PHOH RUD . Notiamo che il grado di specializzazione lungo una filiera merceologica è indifferente solo con la concorrenza. In presenza di monopoli, invece, la moltiplicazione dei beni intermedi può portare alla moltiplicazione dei monopoli d'impresa. In tal caso le restrizioni dovute a questi si cumulano, come i dazi sul Reno richiamati nel contesto del modello di Cournot, e con la stessa conseguenza: si riduce l'attività più di quanto non la ridurrebbe un monopolio unico, con una riduzione dei profitti di monopolio complessivi, e si incentiva pertanto la fusione dei diversi monopoli. Non a caso le economie altamente monopolizzate generano anche imprese YHUWLFDOPHQWH LQWHJUDWH, ossia che uniscono trasformazioni successive normalmente gestite da industrie diverse (come la Ford di un tempo, che possedeva le proprie accaierie). 5Y

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6.d.3. l'allocazione delle risorse e l'equilibrio generale Ritorniamo per il momento all'ipotesi che i beni prodotti siano tutti finali, per esplicitare il sistema di equilibri per una risorsa 5 usata per produrre beni molteplici, per ipotesi ;, <, e =. Usando una riga per ognuno di questi beni, si può generalizzare come segue la catena di cui sopra: >;@ 0& 0% 3 03 0& 03 0% 03 ><@ 0& 0% 3 0& 0% 3 03 0& 03 0% 03 >=@ ? 0& 0% 3 03 0& 03 0% 03 5F

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Come sopra, se (e solo se) tutti i mercati sono concorrenziali, tutti i simboli rappresentati dai numeri sono delle uguaglianze, e vengono dunque resi uguali i benefici marginali finali 0% 03 della risorsa in tutti i suoi usi. Se questa uguaglianza si verifica separatamente per tutti le risorse, l'economia in questione è complessivamente Paretoefficiente, e l'equilibrio è sulla )83. Nel caso di risorse non umane, la catena di cui sopra può incominciare direttamente da 3 , perchè il prezzo di offerta non è definito. Per tali rsiorse è ovvio che con mercati 4F

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5

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concorrenziali il prezzo di offerta per il prodotto ; (nella quantità data da 03 ) altro non è che il prezzo di domanda per il prodotto alternativo < o = (sempre nelle quantità date dai rispettivi 03 ): con mercati concorrenzial, "la curva di offerta è una curva di domanda alternativa". Questo vale peraltro anche per il lavoro, in quanto il prezzo di offerta 0& è il prezzo di domanda per l'attività alternativa (ozio). In caso di monopolio in o , e/o in o , il segno "uguale" diventa "meno di". Se si introduce un monopolio, ad esempio di vendita di ; e dunque in ; , si passa da 05 3 a 05 3 , con una riduzione di 05 e un aumento di 3 . L'aumento di 3 trascina con se, in aumento, tutte le varibili riferite a ;, nella prima riga, a destra di , e dunque il corrispondente beneficio marginale finale 0% 03 ; si riducono invece, con 05 , le variabili riferite a ; a sinistra di , nella prima riga, e tutte le variabili delle altre righe (che rimangono legate a queste dai segni di uguaglianza), compresi i rispettivi 0% 03 . I movimenti relativi di 3 (e variabili collegate) da un lato e 05 (e variabili collegate) dall'altro dipende ovviamente dalle elasticità di domanda e di offerta; se le risorse non sono specializzate sarà tipicamente maggiore l'effetto diretto sul bene monopolizzato, e limitato, proprio perchè diffuso, l'effetto sugli altri beni. Ritroviamo comunque un risultato già noto: che l'introduzione di un monopolio di vendita di un bene aumenta l'offerta degli altri beni prodotti con le stesse risorse (Figura 6.c.2.2). Lo stesso vale ovviamente per un monopolio d'acquisto da parte di un impresa, in , o da parte di un consumatore, in ; e con le dovute qualificazioni vale anche per i monopoli di vendita dei fattori, in , in quanto un monopolio di vendita di lavoro aumenta l'offerta di ozio, e il monopolio di vendita dell'uso della terra coltivabile attribuito ai Grandi di Spagna aumenterebbe l'offerta delle riserve di caccia. Il punto essenziale è che l'equilibrio economico è sempre un equilibrio generale, che si comporta, se si vuole, come un palloncino gonfiato: se lo si stringe da una parte, si espande tutto il resto. Le funzioni di domanda e di offerta sono interdipendenti, e gli equilibri concorrenziali da esse generati nei singoli mercati sono compatibili con la Pareto-efficienza complessiva solo se le stesse curve di domanda e di offerta riflettono la concorrenza in tutti i mercati. Risalta pure l'errore dell'idea che per ottimizzare ad esempio il paniere prodotto basta un potere di mercato uguale (anche se non zero) nella produzione di tutti i beni. Questo risultato si ottiene infatti solo se tutte le catene di cui sopra sono di uguale lunghezza; ma non lo sono, ad esempio perchè le mele si consumano come mele e come sidro, e non lo possono essere se uno dei beni prodotti dal (non) lavoro è il tempo libero. Al massimo, infatti, i "monopoli simili" mantengono l'uguaglianza nella colonna di destra, dei benefici marginali ottenuti da un'ora di tempo dedicata alla produzione di beni materiali; ma si perde comunque l'uguaglianza tra questi e la colonna di sinistra, che essendo il costo del lavoro per lo stesso lavoratore è anche il beneficio marginale di un'ora di tempo dedicato all'ozio, e alla fine la scarsità fittizia dei beni porta a consumare troppo ozio e troppi pochi beni. 5

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5

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6.d.4. l'allocazione delle risorse e l'ottimo sociale Riprendiamo, sopprimendo alcuni passaggi intermedi ma aggiungendo i benefici marginali sociali, la catena di cui sopra: >;@ 3 03 0% 03 06% G) G5

><@ 06% G) G5 0& 3 3 03 0% 03 06% G) G5

>=@ ? 3 03 0% 03 06% G) G5

4

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Per raggiungere l'efficienza paretiana complessiva, ossia un equilibrio sulla )83, devono essere uguali, risorsa per risorsa, i benefici marginali finali privati ottenuti dai diversi 148


usi della risorsa, ossia i diversi 0% 03 , e, per il lavoro, 0& . Per raggiungere l’ottimo sociale, che massimizza ) 8 8 , devono essere uguali, risorsa per risorsa, i benefici marginali sociali ("marginal social benefits") 06% G) G5 ottenuti dai diversi usi della risorsa: quelli a destra, per le risorse usate per produrre beni, e pure quello a sinistra, nel caso del (non) lavoro che produce ozio: il latte non deve insomma andare al gatto se dovrebbe invece andare al bambino. Di fatto, considerando il tempo libero come un bene per non farne un caso a parte, le risorse producono benessere sociale producendo beni che producono utilitĂ che producono benessere sociale: 06% G) G5 G) G8 G8 G4 G4 G5 . La dimensione di questi benefici marginali sociali, chiamando I l'unitĂ di benessere sociale, è I RUD , ottenuta semplificando I XWLOLWj XWLOLWj EHQH EHQH RUD ; quella dei benefici marginali privati, lo ricordiamo, è RUD , ottenuta semplificando XWLOLWj XWLOLWj EHQH EHQH RUD . Visti gli elementi comuni a queste due espressioni, è ovvio che all'uguaglianza in RUD corrisponde l'uguaglianza in I RUD se la ponderazione privata di XWLOLWj EHQH EHQH RUD , con XWLOLWj , corrisponde a quella sociale, con I XWLOLWj . La distribuzione "giusta" della ricchezza e dunque del reddito è quella che assicura tale corrispondenza, e porta l'equilibrio concorrenziale al punto della )83 socialmente ottimale. In questo caso, e solo in questo caso, ai benefici privati monetizzati piĂš alti corrispondono i benefici sociali piĂš alti; in questo caso, e solo in questo caso, il mercato concorrenziale funziona effettivamente come una "mano invisibile" che porta gli individui che cercano solo il benessere privato ad un equilibrio che raggiunge non solo l'efficienza paretiana, che malgrado la retorica fuorviante dell'economia borghese non è un obiettivo in quanto tale, ma il massimo benessere sociale. Se invece la distribuzione della ricchezza non è quella "giusta", il mercato concorrenziale "giustamente" convoglia il latte al gatto della signora ricca, e ne priva il bambino della madre povera. Da questa analisi molto semplice, che immagina implicitamente un sistema completo di mercati (e non solo), si stabiliscono i primi limiti al liberismo a oltranza. Lo stato nullafacente è infatti ottimale solo se i mercati sono naturalmente concorrenziali, e la distribuzione della ricchezza naturalmente "giusta"; altrimenti lo stato ha come compito minimo quello di assicurare la concorrenza da un lato, e la giustizia della distribuzione della ricchezza dall'altro. Si ritrovano cosĂŹ con le dovute precisazioni le grandi intuizioni dell'economia politica: che come aveva intuito Smith solo il mercato concorrenziale può guidare i privati come una benefica "mano invisibile"; che come aveva intuito Hayek i prezzi generati dal mercato concorrenziale sono VHJQDOL corretti, che contengono le informazioni che dovrebbe altrimenti acquisire un pianificatore benevolo; e che dunque il mercato concorrenziale è uno strumento efficace per raggiungere obiettivi sociali, che è appunto il filo conduttore dell'analisi economica dai fisiocrati ai socialisti di mercato. Spetta ai marginalisti, di fine Ottocento e politicamente di destra, il merito di aver capito fino in fondo come funziona un'economia di mercato; ma è di Pigou, e dei socialisti di mercato politicamente di sinistra anche se pochi e isolati, il merito di aver capito che il mercato si limita a generare la remunerazione dei fattori di produzione di proprietĂ individuale e dunque la distribuzione del reddito data la distribuzione della proprietĂ . La stessa distribuzione della proprietĂ , anche se ampiamente modificabile dalla fortuna nella speculazione, sulla quale torneremo, è logicamente un SULXV rispetto al mercato; e è determinata in prima istanza dalle scelte sociali in materia di ereditĂ e di scolaritĂ , che determinano la trasmissione da una generazione all'altra del capitale fisico e umano. 6.e. i modelli ricardiani 4F

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6.e.1. la crescita Ritorniamo adesso ai modelli di Ricardo (presentati al punto 1.d.3, che per evitare ripetizioni si chiede di rileggere). Interpretiamo i modelli con gli strumenti da noi acquisiti, e dunque con il linguaggio del marginalismo ovviamente ignoto a Ricardo stesso. Iniziamo dal modello della crescita. Per chiarirne la logica, riduciamo i fattori di produzione a due: il lavoro, e la terra, che appartiene all’aristocrazia. L’economia contiene due settori: uno, agricolo, produce il bene di sussistenza ("il grano"), l’altro, non agricolo, produce il bene di lusso. I lavoratori ricevono il salario reale di equilibrio, uguale nei due settori; consumano solo il bene di sussistenza, per cui il salario reale si misura direttamente in tale bene, ed è pari al prodotto marginale del lavoro nel settore agricolo. L'aristocrazia riceve la rendita della terra; consuma solo il bene di lusso (in sostanza perchè è una classe talmente esigua che il suo consumo di "grano" è trascurabile), per cui il bene di sussistenza è consumato solo dai lavoratori. La terra, usata solo dal settore agricolo, è disponibile in quantità fissa; il lavoro è una risorsa data in qualsiasi momento ma variabile nel tempo. Se i salari sono alti, la popolazione ben nutrita resiste meglio alle malattie, e cresce; se i salari sono bassi, la gente muore di malattia se non di fame, e la popolazione cala. Il salario critico che mantiene stabile la popolazione e dunque il numero dei lavoratori è il salario "di sussistenza". Il primo grafico della Figura 6.e.1.1 illustra lo "stato stazionario", ossia l'equilibrio (anche demografico) di lungo periodo cui tende tale economia. Sugli assi si trovano il prodotto complessivo del bene di sussistenza 4 , e il lavoro /. Il prodotto 4 dipende ovviamente dalla terra (data) e dal lavoro presente nel settore agricolo, / ; il lavoro è soggetto a rendimenti marginali decrescenti, per cui la pendenza della funzione 4 / diminuisce se cresce / . Il salario di sussistenza è pari a V; nello stato stazionario la popolazione è costante, per cui necessariamente il salario di mercato Z 03 Z V, e altrettanto necessariamente il lavoro agricolo / è pari a / , ossia al numero che (con la terra e la tecnologia del caso) genera appunto quel salario. Con / / , 4 4 , che con Z V remunera e mantiene una forza lavoro complessiva pari a / 4 Z 4 V. In termini reali (quintali di grano), 4 è il monte salari di equilibrio; di questo, 4 Z / V/ è la remunerazione (e sussistenza necessaria) dei lavoratori agricoli, e 4 4 Z / /

V / / è la rendita che è a sua volta la remunerazione (e sussistenza necessaria) dei lavoratori del settore non agricolo. Notiamo che la variabile demografica è di fatto / , che in equilibrio si divide in / e / / in modo da generare un salario uguale nei due settori, ossia la condizione 4 03 / / / 03 . Il numeratore del rapporto è la rendita, ossia il prodotto agricolo complessivo meno il monte salari agricolo, pari a sua volta al prodotto marginale del lavoro agricolo per il numero di tali lavoratori; il denominatore è la forza lavoro non agricola; il rapporto (la rendita per lavoratore non agricolo) è il salario non agricolo, che deve essere appunto uguale al salario agricolo, ossia il prodotto marginale di tale lavoro. Con / / , ad esempio, tale equivalenza dei salari si verifica solo con / / . Se infatti dato / avessimo / / , allora avremmo 4 / 4 V/ , e dunque un salario medio 4 / V; ma con / / il salario agricolo 03 ! 03 V, per cui il salario agricolo sarebbe superiore al salario medio e necessariamente superiore al salario non-agricolo. Ne conseguirebbe uno spostamento della forza lavoro verso l'agricoltura, fino appunto a raggiungere l'allocazione di equilibrio di / , con / / . Il secondo grafico della Figura illustra il caso di un'economia in crescita, appunto perchè (con la stessa funzione di produzione e disponibilità di terra) / / / . Dato / , la forza lavoro agricola di equilibrio (di breve periodo, ossia del mercato del lavoro anche se non demografico) è / , da cui un salario di equilibrio pari a Z 03 ! V, un monte salari 6

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agricoli pari a 4 Z / , e una rendita (monte salari non agricoli) pari a 4 4 . L’economia cresce perche Z ! V, ossia, se si vuole, perchè all'interno del settore agricolo la rendita non assorbe tutto il surplus 4 V/ . GiĂ qui, dunque, si può concludere che "la crescita cessa quando la rendita assorbe l'intero surplus": che per continuare a crescere bisogna tenere basse le rendite agricole, permettendo ad esempio la libera importazione di grano. Il modello ricardiano "della crescita" è peraltro utile anche in altri contesti. Per esempio, se si sostituisce al regime capitalista rappresentato dai nostri grafici un regime comunista con remunerazioni uguali per tutti (magari con l'obbligo di lavorare tipico di tali regimi), o anche un regime di piccola proprietĂ universale (per cui ogni lavoratore cumula il suo reddito da lavoro e da proprietario), ognuno otterrĂ non il prodotto marginale del proprio lavoro, ma il prodotto medio; e l'economia arriverĂ all'equilibrio 4 / , con una popolazione maggiore di quella che potrebbe sostenere un regime capitalista. Evviva dunque l'uguaglianza ... solo che tale popolazione si mantiene solo perchè tutti lavorano i campi. Scomparsa l'aristocrazia che cumula le rendite per consumarle come beni di lusso, sparisce il settore non agricolo: e con esso l'arte, la cultura (vedi la battuta che in secoli di democrazia contadina la Svizzera non è andata oltre l'orologio a cucĂš). Per fare un'altro esempio, si identifichi il settore non agricolo con il settore urbanocommerciale-manifatturiero, e si consideri un mondo di economie aperte al commercio internazionale. Il grafico descrive l'equilibrio dell'economia mondiale, chiusa; all'interno del mondo un'economia aperta può avere un settore non agricolo piĂš o meno sviluppato. Al limite il paese sottosviluppato, "periferia", ha solo l'agricoltura: la rendita viene esportata dall'aristocrazia in natura, per pagare beni di lusso importati, prodotti altrove. Il paese sviluppato, "centro", ha un settore non agricolo ipertrofizzato: riunisce al limite l'industria e il commercio del mondo intero, mantenendolo appunto con le rendite agricole importate in natura dal mondo intero. 6

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6.e.2. il commercio estero Ricordiamo che la teoria classica del commercio estero è stata tutta tesa a dimostrare i vantaggi del libero scambio. Smith giustificava il libero scambio colla dottrina detta dei vantaggi assoluti: se tra il nostro paese e l'estero la produttività del lavoro varia tra settori in modo complementare, allora è ovvio che possiamo tutti consumare di piÚ se ognuno si specializza in quel che produce meglio e poi lo scambia. Immaginiamo ad esempio che un pezzo di stoffa costi 3 ore di lavoro da noi e 4 ore all'estero, mentre una botte di vino costa 6 ore da noi e 4 all'estero, e che sia noi che loro disponiamo di 1200 ore di lavoro. In regime autarchico si possono produrre ad es. da noi 200 pezzi di stoffa (con 600 ore) e 100 botti (con 600 ore), e all'estero 150 pezzi di stoffa (con 600 ore) e 150 botti di vino (con 600 ore), per un totale di 350 pezzi di stoffa e 250 botti di vino. Con la specializzazione e il commercio si possono produrre 400 pezzi di stoffa da noi e 300 botti di vino all'estero, a vantaggio di tutti. L'intuizione di Smith era che limitando il commercio la politica commerciale mercantilista limitava la specializzazione e dunque il benessere; ma la sua dimostrazione dei vantaggi del commercio non escludeva che potesse essere utile la protezione doganale contro un concorrente che producesse tutto a costi reali minori dei nostri. Il buco nella difesa del libero scambio lasciato dallo Smith venne brillantemente tappato dal Ricardo con la teoria detta dei vantaggi comparati. Ricardo dimostra infatti che il commercio ci avvantaggia anche se commerciamo con un paese piÚ produttivo di noi in tutto. Basta infatti che il suo vantaggio di produttività su di noi vari tra settore e settore; allora se ognuno si specializza dove il vantaggio relativo è maggiore, o lo svantaggio minore, il 151


commercio è comunque vantaggioso. Immaginiamo che un pezzo di stoffa costi 10 ore di lavoro da noi e 4 ore all'estero, mentre una botte di vino costa 20 ore da noi e 4 all'estero, e che sia noi che loro disponiamo di 1200 ore di lavoro. In regime autarchico si possono produrre ad es. da noi 60 pezzi di stoffa (con 600 ore) e 30 botti (con 600 ore), e all'estero 150 pezzi di stoffa (con 600 ore) e 150 botti di vino (con 600 ore), per un totale di 210 pezzi di stoffa e 180 botti di vino. Con la specializzazione e il commercio si possono produrre 120 pezzi di stoffa da noi e 100 pezzi di stoffa (con 400 ore) all'estero, per un totale di 220, e 200 botti di vino (con 800 ore) all'estero, a vantaggio di tutti. Questa teoria è generale: siccome si tratta solo di vantaggi FRPSDUDWL, nessuno può esserne sprovvisto (da cui tante battute facili: perchè tale imbecille insegna all'università? per via dei vantaggi comparati [ossia farà male quel mestiere, ma farebbe peggio qualsiasi altro]). Notiamo peraltro che Ricardo dimostra di fatto il vantaggio del commercio in un mondo di risorse immobili: date le produttività indicate il guadagno maggiore si ottiene infatti non con la specializzazione e il commercio ma con l'emigrazione, perchè se ci spostiamo tutti all'estero potremo produrre ad es. 300 pezzi di stoffa e 300 botti di vino... Con i nostri strumenti riconosciamo facilmente la logica del modello ricardiano. Le risorse immobili dei due paesi definiscono due curve di trasformazione; l'ottimo paretiano nella produzione complessiva (massimo vino per una data quantità di stoffa) esige evidentemente un'equivalenza nei tassi marginali di sostituzione, che sono, nel caso ipotizzato, i tassi marginali di trasformazione. Nel primo grafico della Figura 6.e.2.1 troviamo, sovrapposte con assi comuni, le curve di trasformazione $ $ e % % di due paesi $ e % produttori di stoffa 6 e vino 9, con equilibri autarchici D e E, con 707 diversi. Nel secondo grafico troviamo la scatola costruita rovesciando il grafico riferito a % e sovrapponendo i due punti di equilibrio. Le dimensioni della scatola indicano la produzione complessiva; è ovvio che la situazione non è Pareto-efficiente, perchè le due curve di trasformazione si intersecano, e la scatola si può ingrandire fino a quando non sono tangenti. Contano solo i vantaggi comparati (i diversi 707) perchè la produttività assoluta non compare proprio: i grafici non contengono infatti informazioni sulle risorse sottostanti le diverse curve di trasformazione, che possono essere poche con produttività alta come molte con produttività bassa. L'efficienza paretiana esige dunque l'uguaglianza dei 707; nella Figura 6.e.2.2 la curva 0 0 è la curva di trasformazione complessiva, ottenuta come il luogo di 2 per le diverse tangenze fra $ $ e % % . Il punto 0 indica infatti la produzione massima di stoffa, con ambedue i paesi specializzati in questa, il punto 0 la produzione massima di vino, e la curva fra i due i diversi massimi di un bene data la produzione dell'altro. Come al solito, il mercato concorrenziale porta all'efficienza paretiana: Se i paesi si scambiano liberamente i beni esisterà un unico prezzo relativo dei due beni, quello del "mercato mondiale", e i 707 dei due paesi saranno uguali perchè in ognuno, in equilibrio, il 707 sarà uguale a quel prezzo relativo. Abbiamo già detto che la conclusione che "il libero scambio giova a tutti" è fuorviante. Come si vede dalla Figura 6.e.2.3, l'uguaglianza dei 707 che vige nell'equilibrio di libero scambio (ad esempio con D e E ) si ottiene solo con un cambiamento del paniere prodotto nei singoli paesi, rispetto agli equilibri autarchici (D e E) con 707 diversi; e sappiamo che questo comporta a sua volta uno spostamento lungo al frontiera dei prezzi dei fattori, con una perdita, in ciascun paese, per il fattore usato intensivamente (o solo) nella produzione del bene di cui si riduce appunto la produzione. E il Ricardo del modella della crescita questo lo sapeva… %

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7. LA LOGICA E LA RETORICA: DALL’INTERVENTISMO AL NEOLIBERISMO 7.a. l’interventismo del dopoguerra 7.a.1. le basi dell’interventismo L'analisi di cui sopra indica, a livello logico, che a certe condizioni lo stato ottimale è nullafacente. A livello retorico, questo risultato può essere presentato sia sottolineandone la possibilità, e pertanto in chiave anti-interventista (come da parte dei fisiocrati del "laissez faire"), sia invece calcandone l'improbabilità, e dunque in chiave interventista. A metà Novecento, anche per il fallimento macroeconomico del non-intervento che aveva portato alla Grande Depressione e con essa al nazismo e alla guerra, l'atteggiamento degli economisti della scuola dominante (inglese e sempre più americana) era nettamente interventista. Accanto all'attivismo macroeconomico, stabilizzatore, si proponeva negli anni Cinquanta e Sessanta un attivismo redistributivo e allocativo giustificato appunto dalla presunta mancanza delle condizioni per un ottimo di non-intervento. Tutto questo, si noti bene, senza minimamente tener conto dei tanti argomenti con i quali si può comunque giustificare una limitazione dell'intervento pubblico; questi ultimi sono stati elaborati dopo, come parte dell'ondata di reazione anti-interventista maturata dagli anni Settanta. Nell'ottica del dopoguerra lo stato era considerato di fatto uno strumento perfetto, gratuito, per cui ogni sia pur minima imperfezione del mercato giustificava un intervento correttivo. Lo schema naturale per l'analisi dei problemi che possono esigere un intervento pubblico è la catena delle valutazioni marginali considerata nel capitolo precedente, in quanto indica direttamente sia l'ubicazione del problema, sia i risvolti per i mercati collegati (da rapporti di produzione). Ricordiamo che come evidenziato da tale schema l'ottimo paretiano ("privato") si ottiene se per ogni risorsa sono uguali, per ogni unità di questa, i benefici marginali privati (i prezzi di domanda finale 0%4F035, in dollari per ora di uso della risorsa) per ogni uso e compratore; l'ottimo sociale si raggiunge invece se sono uguali i benefici marginali sociali (06%, in unità di benessere sociale per ora di uso della risorsa). Se per comodità misuriamo 06% in dollari "sociali", possiamo dire che gli ottimi corrispondono all'uguaglianza dei benefici marginali misurati da un lato in dollari privati (ottimo paretiano), dall'altro in dollari sociali (ottimo sociale); l'efficienza paretiana massimizza pertanto il prodotto in dollari privati ma non necessariamente in dollari sociali. In uno schema domanda/offerta si possono pure distinguere varie curve, ossia la domanda/offerta di mercato, quella privata efficiente, quella sociale; il contenuto è equivalente a quello evidenziato dalla nostra catena, ma l'analisi è meno trasparente. L'interventismo considera ovviamente i contesti nei quali può mancare l'ugualizzazione sia degli benefici marginali privati, sia (indipendentemente) dei benefici marginali sociali. Un modo di organizzare l'analisi è di considerare prima il valore normativo della domanda privata, e poi il funzionamento del mercato. Se il mercato funziona bene, infatti, si raggiunge l'uguaglianza dei benefici marginali privati; e se la domanda privata ha di fatto valore normativo, l'uguaglianza dei benefici marginali privati comporta l'uguaglianza dei benefici marginali sociali. 7.a.2. il valore normativo della domanda privata: la distribuzione della ricchezza Perchè sia ottimale il non-intervento, è ovviamente necessario che la domanda privata sia "buona": infatti il mercato altro non può fare che adattare "bene" i risultati finali alla domanda privata. I problemi che possono sorgere a questo livello riguardano sia la distribuzione della ricchezza, sia il valore normativo degli stessi gusti privati. Ritorniamo 153


adesso per alcuni approfondimenti sul problema della distribuzione della ricchezza. Un primo aspetto riguarda O HTXLWj della distribuzione della ricchezza. Notiamo, in merito, quattro punti. Il primo è che l'equità ha aspetti sia intragenerazionali che intergenerazionali. E' noto il contrasto tra gli Stati Uniti e l'Europa: in America le sperequazioni del reddito sono molto più esasperate che non in Europa, ma il ricambio generazionale è molto maggiore che non in Europa (grazie anche alle scuole di élite, con borse di studio generose, che aprono a tutti le carriere brillanti). Il secondo è che una società concorrenziale è necessariamente meritocratica: dove chi non copre i costi fallisce, e chi non assume i più bravi non copre i costi, nessuno si può permettere di dare un posto al figlio dell'amico piuttosto che al più bravo. Il terzo è che la società meritocratica non è necessariamente equa. Nel dopoguerra gli intellettuali americani, in prevalenza di sinistra moderata, erano a favore della meritocrazia, e contro la ricchezza ereditata, "senza merito"; il solito acutissimo Friedman obiettò che ereditare particolari abilità era aleatorio e senza merito come ereditare particolari ricchezze, e che se la sinistra considerava legittima la prima lotteria non poteva coerentemente considerare illegittima la seconda. Il ragionamento calza, ma porta lontano. Non giustifica infatti come vorrebbe Friedman il capitalismo: se infatti accettiamo che l'equità è nella lotteria della nascita, dove chiunque può nascere fortunato o sfortunato, allora è equa qualsiasi società: a priori, infatti, chiunque potrebbe nascere faraone, o schiavo del faraone. L'implicazione logica è che l'equità non è nella lotteria, ma nei risultati della lotteria: è più equa la società in cui è minore la posta in gioco, e sono più contenute le distanze tra fortunati e sfortunati. Il quarto è che è sorprendentemente difficile definire "i poveri". Se si usa un metro assoluto (un certo reddito reale), con il progresso si finisce col chiamare "poveri" praticamente tutti nel secolo scorso, e nessuno nel secolo prossimo; se si usa un metro relativo, come il 25 per cento meno ricco, nulla può ridurre il numero di poveri. L'UE definisce povere le famiglie con un reddito inferiore alla metà della media nazionale. Tale definizione sembra ben trovata, perchè ammette la relatività della povertà pur lasciando variare l'incidenza percentuale della stessa; di fatto è doppiamente imbecille, perchè l'alta proporzione di poveri nel Mezzogiorno scomparirebbe con l'indipendenza della Padania, e perchè registra più poveri quando tutti stanno meglio e meno poveri quando tutti stanno peggio (perchè il ciclo economico incide massimamente sui profitti, e dunque sui redditi più alti). Un secondo aspetto riguarda O LQWHUYHQWR FRUUHWWLYR nel caso che la distribuzione iniziale non sia "buona". In un'economia di puro scambio, ricordiamo, la ricchezza è definita direttamente in beni di consumo, e coincide pertanto con il reddito disponibile. In un economia di produzione, invece, la ricchezza è definita come proprietà di fattori di produzione, che a loro volta generano il reddito disponibile in funzione del loro prezzo di affitto; e come aveva capito Clark, l'efficienza (paretiana) esige che le remunerazioni dei fattori siano quelle concorrenziali. In tale contesto il noto "WUDGH RII tra l'efficienza (paretiana) e l'equità" nasce dal tentativo di migliorare la distribuzione del UHGGLWR lasciando ferma la distribuzione della ULFFKH]]D (ossia i diritti di proprietà dei singoli nei vari fattori di produzione), introducendo appunto distorsioni nei prezzi dei fattori (con i casi limite, superinefficienti, dei regimi maoisti-castristi). Non è ovviamente meno inefficiente il tentativo di migliorare la distribuzione del reddito reale lasciando ferma la distribuzione del reddito nominale, attraverso ad esempio l'IVA maggiorata sui beni di lusso. Questo sistema, oltre all'inefficienza dalla distorsione del sistema dei prezzi, colpisce in particolare i non ricchi con passioni particolari (la barca, l'aereo...). Notiamo in merito che la soluzione corretta è quella di operare direttamente sulla 154


distribuzione della ricchezza (come appunto in un’economia di puro scambio). Per quanto riguarda il capitale fisico e finanziario, le imposte correnti sulla ricchezza causano distorsioni, in quanto un'imposta dell'un per cento annuo sul capitale è identica ad un'imposta del venti per cento sul reddito da capitale, se questo rende il cinque per cento. Si può però operare attraverso le imposte di successione, o meglio di eredità (in cui la progressività si applica all'ammontare ricevuto, e non lasciato, dai singoli). Per quanto riguarda invece il capitale umano, si può operare attraverso l'educazione, ossia modificando la capacità di guadagno (piuttosto che il guadagno stesso, a capacità immutata). Adesso, si noti bene, le scuole migliori sono tipicamente a disposizione dei più ricchi e dei più intelligenti, per cui l'educazione tende ad esasperare la disuguaglianza. Le differenze di capacità di guadagno sono comunque difficili da eliminare; ma forse il problema della redistribuzione è meno drammatico di quanto non sembri. La condanna delle imposte che limitano i guadagni degli imprenditori capaci appunto di creare notevoli concetrazioni di ricchezza scaturisce infatti dal modello canonico del consumatore, che sacrifica tempo libero per consumare più beni; da tale modello, anzi, si potrebbe concludere che per minimizzare il costo collettivo bisogna tassare di più il tempo poco produttivo di chi guadagna poco che non il tempo molto produttivo di chi guadagna molto. Al modello canonico si possono però opporre due modelli alternativi. Uno è quello della rivalità: Bill Gates è in gara con Ted Turner, e l'importante è vincere; la posta in gioco si può ridurre con le imposte senza modificare i comportamenti. L'altro è quello darwiniano dell'incertezza e della fortuna: la grande ricchezza, come il fallimento della maggior parte delle nuove iniziative, è il risultato di circostanze impreviste e imprevedibili, per cui ha una componente enorme di rendita. In questo secondo modello l'imprenditore è uno che compra un biglietto della lotteria; dall'esperienza del Superenalotto notiamo l'elasticità della vendita di biglietti al premio, sicuramente fino ad un certo livello, ma forse non oltre (ossia il premio da mille miliardi non attira più persone del premio da cento miliardi). Un terzo aspetto del problema riguarda il nesso tra distribuzione della ricchezza e SUHVHQ]D VXO PHUFDWR. Finora, abbiamo considerato il problema della distribuzione della ricchezza tra i consumatori solo in modo generico; in modo più preciso, si distinguono all'interno dell'insieme dei consumatori i nuclei familiari presenti (le unità che effettivamente si esprimono sul mercato), i nuclei familiari futuri, e i singoli membri dei nuclei familiari. L'analisi svolta finora è riferita in sostanza ai primi, tra i quali si può effettivamente riallocare la ricchezza; e il problema è esaurito se lo stato è un associazione di famiglie, o meglio di paterfamilias, come Roma antica. Se lo stato è invece un'associazione più ampia, per cui il benessere sociale dipende anche dall'utilità delle JHQHUD]LRQL IXWXUH e/o dall'utilità dei GHEROL all'interno dei nuclei familiari, il problema si complica: la ricchezza non può infatti essere distribuita in modo giusto, perchè non si può dare potere di mercato ai bambini e alle generazioni future. In tal caso, lo stato dovrà intervenire non solo "a monte del mercato" per migliorare la distribuzione della ricchezza tra le famiglie, ma anche "nel mercato" come tutore o agente degli assenti e dei deboli. 7.a.3. il valore normativo della domanda privata: i gusti privati La domanda privata ha valore normativo se la distribuzione della ricchezza è "buona", e se hanno valore normativo gli stessi gusti privati. Su questo secondo punto richiamiamo prima di tutto quanto segnalato alla fine del quarto capitolo: che perchè funzioni la "mano invisibile" i gusti privati devono essere in qualche modo ontologicamente precedenti rispetto al mercato. Tutta la costruzione dell'economia del benessere infatti traballa se è la stessa produzione a determinare le preferenze individuali, che questo avvenga tramite la pubblicità 155


(mi piace la Coca-Cola perchè mi sento dire che piace), o tramite l'assuefazione (mi piace la Coca-Cola perchè l'ho sempre bevuta). Nella misura in cui i gusti sono manipolabili, ricordiamo, diventa oggetto di politica economica anche il come manipolarli, o permettere che vengano manipolati. Infatti se ) ) 8$ ;$ <$ 8% ;% <%

, e le funzioni 8 non sono date, ) varia non solo con le disponibilità dei beni ma anche con la capacità di questi di generare 8. PiÚ sono avidi i consumatori, minore è l'utilità ottenuta dai beni disponibili; e come abbiamo notato il potere del capitalismo di generare benessere aumentando la disponibilità di beni è ampiamente annullato dall'avidità da esso stesso nutrita, con l'assuefazione, forse inevitabile, ma anche con la pubblicità . A questo discorso, che porterebbe a limitare la pubblicità in quanto socialmente nociva, l'economia politica ortodossa non ha mai dato risalto: forse per timore della crisi macroeconomica che poteva scaturire da un calo dei consumi, forse anche per un naturale rifiuto ideologico di un argomento non poco sovversivo nei confronti del capitalismo trionfante. Nell'economia politica ortodossa il problema del valore normativo dei gusti privati si concreta in forma diversa, come problema dei cosiddetti EHQL PHULWHYROL. Si ipotizza infatti che il benessere sociale possa dipendere dal consumo dei beni non solo indirettamente, tramite le utilità individuali, ma anche direttamente: ad esempio, ) ) 8$ ;$ <$ 8% ;% <% ; , per cui 06%; comprende sia il solito elemento G) G8 G8 G; , sia l'elemento aggiuntivo G) G; ', che sarebbe l'impatto diretto di ; su ). Il bene ; è "meritevole" in senso stretto se G) G; ' ! , e "demeritevole" in caso contrario. In presenza di tali beni, con mercati concorrenziali, la catena delle valutazioni si presenta come segue: >;'@ ! 06% >;@ 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 0%4F035 ! 06% ><@ 35 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 0%4F035 ! 06% >=@ ? 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 0%4F035 ! 06%

G) G5 ' G) G5

G) G5

G) G5

L'equilibrio è Pareto-efficiente, per l'equivalenza dei prezzi di domanda 0%4F035; se la distribuzione della ricchezza è "giusta" sono pure uguali i corrispondenti benefici marginali sociali, nelle ultime tre righe; non si raggiunge comunque l'ottimo sociale, che esige ovviamente che il beneficio marginale sociale nella terza e quarta riga sia uguale non a quello della seconda, ma alla somma di quelli delle prime due, ottenuti dallo stesso consumo. Se in questo senso i gusti privati non hanno valore normativo, la "mano invisibile" fallisce l'obiettivo: questa esige infatti che ) sia funzione solo di 8, e solo indirettamente dei consumi dei beni, perchè il mercato libero risponde solo alla domanda privata. Ipotizziamo che ; sia di fatto un bene "demeritevole", per cui la somma dei 06% nelle prime due righe è minore dei 06% nelle altre righe. Per raggiungere l'ottimo sociale bisogna ridurre il consumo di ;, per esempio con una tassa pigoviana per unità di ;, che rende il prezzo pagato dal consumatore, e dunque il costo marginale di questo, maggiore del prezzo ricevuto dal produttore, e dunque del beneficio marginale di questo. Si passa dunque ad un equilibrio come segue:

>;'@

! 06% G) G5 ' 156


>;@ 0&5F 0%5F 34Y035 34F035 0%4F035 ! 06% G) G5

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Dosando in modo giusto la tassa si riporta la somma del 06% nelle prime due righe all’uguaglianza con gli altri 06%: si raggiunge l'ottimo sociale, che peraltro non è più un equilibrio Pareto-efficiente fra i privati (ossia non è più sulla )83), proprio perchè il benessere sociale non è più funzione solo dalle combinazioni delle utilità individuali ma anche del consumo di ;. Nello spazio prezzo-quantità di ;, troveremmo accanto alla curva di domanda privata una curva, più bassa, di domanda sociale; la tassa serve a spostare l'equilibrio dall'incrocio fra offerta e domanda privata all'incrocio fra offerta e domanda sociale (Figura 7.a.3.1). La conclusione di questo discorso è appunto che in presenza di beni meritevoli o demeritevoli lo stato deve intervenire: con sussidi per incoraggiare il consumo dei beni propriamente meritevoli, con tasse, o anche nel caso con proibizioni o concessioni di monopolio, per scoraggiare il consumo dei beni demeritevoli. Esempi di beni demeritevoli sono considerati la droga, l'alcool, o il tabacco, esempi di beni meritevoli il latte (distribuito nelle scuole americane). Si possono aggiungere vari commenti. Prima di tutto, bisogna stare attenti a non immaginare beni meritevoli dove la realtà è un'altra. Il monopolio del tabacco in Italia, come le tasse sullo stesso negli Stati Uniti, sono nati sicuramente per motivi fiscali. La proibizione della droga, come quella dei prodotti alcoolici negli Stati Uniti degli anni Trenta, serve di fatto interessi malavitosi, con inevitabili risvolti occulti sulla vita politica; e dal riconoscimento di ciò nascono le proposte di legalizzazione, al limite di tutti i EXVLQHVV che la proibizione non sopprime ma rende illegali (gioco, prostituzione...), come misure di buongoverno. La distribuzione gratuita del latte pure può servire interessi privati (l'industria produttrice), o servire per correggere la distribuzione della ricchezza all'interno ai nuclei familiari (a scuola il piccolo il latte lo beve; se diamo alle famiglie i soldi per comprarlo papà li spenderebbe in whisky). Metodologicamente, poi, la categoria dei beni meritevoli è un'invenzione poco raccomandabile, appunto perchè può spiegare e giustificare qualsiasi intervento altrimenti incomprensibile: è dunque molto vicina al miracolo, che "spiegando" tutto non fa capire niente. Il problema più profondo, infine, è quello filosofico-politico, di capire se in uno statoassociazione la categoria dei beni meritevoli è legittima, o meno. Si può infatti argomentare che la premessa dell'associazione è il rispetto dei gusti, insindacabili, dei singoli membri per quanto attiene alla propria sfera di autonomia: la maggioranza non ha pertanto il diritto di imporre alla minoranza di non bucarsi, o di portare il chador, solamente perchè certi comportamenti non le piacciono. Di fatto, però, chi vuole limitare la libertà altrui invoca non i propri gusti, ma leggi naturali o divine, che le leggi umane devono rispettare proprio in quanto esprimono inevitabilmente una posizione etica: negli Stati Uniti la passione degli anti-abortisti, come un tempo quella degli anti-schiavisti, nasce dal considerare inaccettabile non tanto il crimine contro i diritti umani, quanto il fatto che la comunità eretta a stato lo condoni. 7.a.4. il funzionamento del mercato: il potere di mercato I problemi del funzionamento del mercato si possono ridurre ai problemi di potere di mercato; di esternalità; di informazione; e delle attività di puramente redistributive. Abbiamo già visto come il potere di mercato vizia i prezzi come segnali dei costi 157


opportunità , e genera un trasferimento dal debole al forte (che è poi tipicamente dal povero al ricco); ricordiamo il senso etico in cui Simons voleva che il potere fosse solo dello stato. Il problema del potere di mercato giustifica ovviamente l'intervento pubblico in chiave DQWL WUXVW, per mantenere la concorrenza; ma si pongono problemi particolari nei casi in cui per motivi tecnici la concorrenza è impossibile. Si chiamano infatti PRQRSROL QDWXUDOL le industrie con rendimenti di scala crescenti fino a un livello di produzione tale, rispetto alle dimensioni del mercato, che i costi si minimizzano affidando l'intera produzione ad un'unica grande impresa, come nella Figura 7.a.4.1. Teoricamente, l'intervento pubblico appropriato, "pigoviano", è assai semplice: basta imporre prezzi pari ai costi marginali, e coprire il deficit (che compare con 0& $&) con un sussidio. Il problema di fondo, che non cambia con la proprietà dell'azienda (che può essere un monopolio pubblico, o un monopolio privato regolamentato), è che la funzione di costo non è data, e non è nota fuori dall'azienda stessa; e la pressione a contenere i costi, già limitata dalla mancanza di concorrenza, tende praticamente a svanire se si toglie pure l'incentivo alla massimizzazione dei profitti. 7.a.5. il funzionamento del mercato: le esternalità in generale La presenza di HVWHUQDOLWj è a sua volta la tipica causa dei "fallimenti" anche dei mercati concorrenziali. Gli "effetti esterni" sono infatti effetti diretti sul benessere, o sulla produttività , di un terzo, che non compare nel mercato in cui si determina l'attività in questione, e di cui dunque il mercato non tiene conto. Si immagini, ad esempio, che un privato $ decida di fumare, o di ascoltare musica, in un modo che incide direttamente sul benessere altrui: in questo caso 8% dipende anche dai consumi di $, per esempio, 8% 8% ;% <% ;$ . In questo caso il beneficio marginale privato di ;$ è duplice, e il suo valore complessivo è la somma delle valutazioni di $, che decide quanto ; consumare, e di %, che soffre (o gode) l'effetto esterno. In tal caso, con mercati concorrenziali, la catena delle valutazioni si presenta come segue: >;(@ >;@ 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 ><@ 35 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 >=@ ? 0&5F 0%5F 34035 0&4F035

0%4H035 ! 06% 0%4F035 ! 06% 0%4F035 ! 06% 0%4F035 ! 06%

G) G5 ( G) G5

G) G5

G) G5

L'equilibrio non è Pareto-efficiente, in quanto sono uguali i prezzi di domanda nelle ultime tre righe, mentre in questo caso la stessa Pareto-efficienza richiede l'uguaglianza dei benefici marginali privati della terza e quarta riga con la somma di quelli delle prime due, legate allo stesso uso; e se la distribuzione della riccheza è "giusta" l'ottimo sociale si raggiunge insieme alla Pareto-efficienza. Nello spazio prezzo-quantità di ; si trovano in questo caso la curva di domanda privata dei consumatori diretti, che è l'unica che si esprime sul mercato; la curva di domanda privata collettiva, che comprende gli effetti esterni, ed è dunque superiore alla precedente se questi effetti sono positivi, e inferiore se sono negativi; e la curva di domanda sociale, che coincide con la precedente se la distribuzione della ricchezza è quella "giusta". Immaginiamo che l'effetto esterno sia positivo, per cui la somma dei 06% nelle prime due righe è maggiore dei 06% nelle altre righe. Per raggiungere l'efficienza paretiana e l'ottimo sociale bisogna aumentare il consumo di ;, per esempio con un sussidio pigoviano per unità di ;, che rende il prezzo pagato dal consumatore, e dunque il costo marginale di questo, minore del prezzo ricevuto dal produttore, e dunque del beneficio marginale di 158


questo. Si passa dunque ad un equilibrio come segue: >;(@ >;@ 0&5F 0%5F 34Y035 ! 34F035 ><@ 35 0&5F 0%5F 34035 0&4F035 >=@ ? 0&5F 0%5F 34035 0&4F035

0%4H035 ! 06% 0%4F035 ! 06% 0%4F035 ! 06% 0%4F035 ! 06%

G) G5 ( G) G5

G) G5

G) G5

Dosando in modo giusto il sussidio si riporta appunto la somma dei benefici marginali privati e sociali nelle prime due righe all’uguaglianza con gli equivalenti nelle altre righe; nello spazio prezzo-quantità si sposta l'equilibrio dall'incrocio tra l'offerta e la domanda privata dei consumatori diretti all'incrocio tra l'offerta e la domanda privata collettiva (che coincide con la domanda sociale). In gergo, si dice che il sussidio "internalizza l'esternalità" (Figura 7.a.5.1; la geometria è identica a quella dei beni meritevoli, e cambia solo l'interpretazione del divario tra domanda privata e domanda sociale). 7.a.6. il funzionamento del mercato: esternalità e mercati inesistenti Questi effetti esterni possono esistere a tutti i livelli: fra consumatori, come nell'esempio di cui sopra; fra produttori, come quando l'inquinamento delle acque da parte di un produttore aumenta i costi di un'altro, che deve depurare le acque prima di poterle usare; o fra produttori e consumatori, come quando l'inquinamento delle acque da parte di un produttore riduce il piacere del nuoto da parte dei consumatori. Queste esternalità si ricollegano oggi all'inesistenza di certi mercati: in un sistema completo di mercati infatti anche il diritto di inquinare l'acqua, o di emettere onde sonore, sarebbe oggetto di commercio, e con la concorrenza in tutti i mercati si raggiungerebbe un'allocazione efficiente anche di questi diritti. Da questa impostazione è nata in tempi recenti la proposta di creare tali diritti, per permetterne lo scambio di mercato; notiamo che tale forma di intervento per internalizzare le esternalità e raggiungere l'efficienza è comunque meno pesante e pertanto più gradita ai liberisti di quella tradizionale, pigoviana, proprio perchè si concreta "a monte del mercato" e non "nel mercato" stesso. Dal punto di vista del mercato inesistente si possono distinguere vari tipi di esternalità. Nei FDVL RUGLQDUL esistono i mercati principali, ma non tutti quelli sussidiari: esiste un mercato per il prodotto, ma non per il sottoprodotto, esistono i mercati per la materia prima ma non per le materie ausiliari. Per esempio, l'apicultore produce miele e cera, che vende, ma anche pollinazione dei frutteti, che non vende (perchè nessuno sa di chi sono le api quando sono lontane dall'arnia); la domanda di pollinazione non è dunque parte della domanda per l'apicultura, quale si esprime sul mercato. Se questa esternalità non viene internalizzata dalla fusione tra le imprese ortofrutticole e quelle apicultrici, si può raggiungere un livello di attività efficiente sussidiando ("pigovianamente") la produzione con beneficio esterno. Per esempio, pure, la fabbricazione dell'acciaio usa ferro, carbone, ecc., ma anche aria e acqua, che da pulite diventano sporche: l'inquinamento è l'esempio canonico dell'esternalità negativa, in quanto l'operatore non tiene conto dei costi relativi che rimangono appunto esterni. Esistono varie soluzioni, tra cui quella di obbligare i padroni (se pochi) a vivere accanto alla fabbrica... La soluzione "pigoviana" è come si è visto quella di tassare la produzione nociva. Bisogna però procedere con cautela, tenendo sempre presente le possibilità di sostituzione. Tassare l'acciaio è una soluzione rozza: potremmo infatti con minore sacrificio produrre non molto meno acciaio allo stesso modo di prima, ma poco meno acciaio in un modo meno inquinante. Per incentivare la modifica del "come" e non solo del "quanto" produrre, la tassa deve essere direttamente sulla causa immediata del danno esterno 159


(l’emissione ad esempio di anidride carbonica, per l’effetto serra). La soluzione adesso preferita è invece quella di creare il mercato inesistente, vendendo appunto "diritti di inquinamento" (fino al limite desiderato), ma permettendone lo scambio sul mercato secondario; in tal modo chi trova meno costoso ripulire la produzione piuttosto che inquinare adotta tale soluzione, e l'inquinamento rimane solo dove il costo di ripulire la produzione supera il costo del danno ambientale. A volte invece manca, e non si può creare, lo stesso mercato principale: o perchè non si possono definire i diritti di proprietà, o perchè gli effetti esterni sono assolutamente dominanti rispetto a quelli interni. Il difetto dei diritti di proprietà è caratteristico delle esternalità legate al problema delle ULVRUVH QDWXUDOL DG DFFHVVR LOOLPLWDWR. Se chiunque potesse usare un pascolo, o far legna in un bosco, senza pagare, lo sfruttamento della risorsa diventerebbe rapidamente eccessivo, fino all'esaurimento della stessa risorsa; il fatto che si debba pagare il proprietario limita il consumo. Il problema sorge dove il proprietario non esiste, perchè sarebbe comunque troppo difficile identificarlo se esistesse (come per le api sui fiori). Il problema si ritrova ad esempio nei mari: la pesca tende ad essere eccessiva perchè il pesce non è di nessuno finchè non è pescato, e l'utente che si autolimita per conservare la risorsa non beneficia della propria azione (perchè i figli dei pesci che lascia saranno comunque di tutti: il beneficio rimane appunto esterno). Da qui la necessità dell'intervento pubblico: estendendo le acque territoriali, firmando accordi internazionali, limitando comunque la pesca. Negli Stati Uniti, in cui i sottosuolo è del proprietario del suolo (e non, come da noi, del sovrano), il problema si pone anche per il petrolio: tutti i proprietari pescano nello stesso bacino sotterraneo, e il petrolio diventa mio solo se lo estraggo io. Da qui l'assurda moltiplicazione dei pozzi, e la corsa all'estrazione (che crea costi di stoccaggio, e anticipa gli stessi costi di estrazione). Quando invece i beni hanno effetti quasi esclusivamente esterni si parla di EHQL SXEEOLFL, appunto perchè non saranno prodotti se non dallo stato. In questi casi il mercato non esiste perchè non vale il SULQFLSLR GHOO HVFOXVLRQH dal consumo di quelli che non comprano il bene stesso. L'esempio classico è la difesa (periferica, o per deterrente). Se io proteggo casa mia con un deterrente nucleare, proteggo anche le case dei vicini, per cui ognuno aspetta che si muova il vicino; o ci muoviamo insieme accettando di dividerci gli oneri (ossia formando uno stato che obbliga tutti a pagare), o non ci muoviamo per niente. Il castello, notiamo, fornisce una difesa che non è un bene pubblico: protegge solo chi ci vive, o paga il biglietto per entrare; non a caso i castelli erano dei potenti, e le città murate nascevano come repubbliche. La giustizia pure è considerata un bene pubblico, ma a torto, perchè vale di fatto il principio dell'esclusione (da cui i fuorilegge, cui era appunto negata la protezione della società civile). La giustizia non è l'unico finto bene pubblico. Vi sono altri beni forniti dallo Stato, il consumo dei quali è privato e non collettivo. In questi casi il servizio è "pubblico" solo perchè gratuito per l'utente, e gratuito per l'utente perchè sarebbe troppo gravoso farlo pagare; alla base dell'intervento pubblico c'è quello che oggi si chiama il costo di transazione, di cui appresso. L'esempio tipico è dato dalla viabilità ordinaria: teoricamente si potrebbe mettere un bigliettaio a ogni angolo di strada, in pratica paralizzerebbe il traffico. Sui viaggi lunghi invece il rapporto transazioni/consumo si riduce, e le autostrade a pedaggio sono ovviamente possibili. La tecnologia può ovviamente cambiare i costi di transazione: una volta per l'elettricità si pagava solo la connessione ma non il consumo, che non si riusciva a misurare; forse tra non molti anni sistemi automatici di rilevazione satellitare permetteranno di far pagare l'utenza anche per le strade, a costi di transazione minimi. Nel frattempo, la viabilità ordinaria si comporta come una risorsa ad accesso illimitato, consumata a livelli eccessivi 160


(ingorghi, ecc.) proprio perchè i costi privati non comprendono i costi dei danni esterni (in pratica ognuno decide di usare l'automobile senza curarsi del fatto che rallenta gli altri). I beni pubblici in senso tecnico esistono a vari livelli, locali (fuochi d'artificio) e nazionali (difesa); è per questo che lo stato allocatore, a differenza di quello predatore, ha una struttura naturalmente federale. Siccome i beni pubblici sono a consumo congiunto e simultaneo, hanno effetti (quasi) esclusivamente esterni. Le domande individuali si sommano verticalmente e non orizzontalmente (Figura 7.a.6.1): se siamo in cento a sentire un concerto, e vale mille per ognuno, il concerto vale centomila; e se ognuno si sazia dopo tre concerti, il quarto vale zero. Se fossero banane invece di concerti, la prima varrebbe mille (perchè solo uno la consuma), e saremmo tutti sazi dopo trecento banane (tre diverse banane per ognuno di noi). Tra i beni pubblici in senso lato compaiono anche le caratteristiche fondamentali della società in cui viviamo; e qui ci si riallaccia ai problemi precedenti. La concentrazione della ricchezza ha infatti notevoli effetti esterni, prevalentemente negativi: genera disutilità in chi si sente (relativamente) povero; mina il rispetto della legge ("lei non sa chi sono io"); svia la concorrenza politica (non facciamo nomi). Ha anche però esternalità positive: tutta la cultura, tutta l'arte si è sviluppata al servizio dei ricchi. Potrebbe supplirvi la domanda pubblica, ma non è detto (come nel già citato caso della Svizzera). Può esistere anche un'esternalità generalizzata, e particolarmente perniciosa, tra i consumi. Se le aspettative dei consumatori si formano anche dall'osservazione dei consumi altrui, e più ancora se i diversi consumatori sono coinvolti in un gioco di rivalità sociale, infatti, i benefici marginali positivi dei consumi sui consumatori diretti sono controbilanciati, al limite totalmente, dai loro effetti esterni negativi. Il problema è formalmente uno di esternalità, ma la sostanza si ricollega ovviamente a quanto già detto a proposito del valore normativo dei gusti privati, e dell'incapacità del capitalismo di generare un aumento di benessere paragonabile all'aumento della produzione. Più infatti si glorifica la concorrenza come competizione (e l'inglese ha l'unica parola "competition" per entrambi), più si tende a dividere la società tra pochi "vincitori" e tanti "perdenti"; e più il gioco è pulito e effettivamente meritocratico, più i perdenti hanno motivo di deprimersi. Che in Italia i concorsi li vincano i raccomandati è ingiusto e obbrobrioso, ma è la salvezza psicologica di tutti gli altri, compreso quelli che non avrebbero comunque vinto; e l'odio atavico degli italiani per la meritocrazia rivela forse la saggezza di un popolo antico. 7.a.7. il funzionamento del mercato: problemi di informazione Veniamo adesso ai problemi di informazione. Questi non compaiono nei capitoli precedenti, perchè l'analisi dell'equilibrio generale ipotizza implicitamente informazioni "perfette"; è ovvio comunque che il buon funzionamento dei mercati richiede che sia i consumatori che i produttori siano adeguatamente informati. Anche in assenza di altri problemi, infatti, la domanda espressa sul mercato corrisponde a quella vera, di valore (presumibilmente) normativo, solo se i consumatori conoscono sia i propri gusti, sia le caratteristiche dei beni, sia le offerte di mercato. Di fatto, la conoscenza dei gusti (o più precisamente, la conoscenza della capacità di trarre soddisfazione da beni con date caratteristiche) è limitata dall'esperienza; la conoscenza delle caratteristiche dei beni è limitata anch'essa dall'esperienza, e per di più soggetta a misinformazioni e a distorsioni pubblicitarie; e la scelta può essere ottimale solo se si conoscono le alternative possibili ("pensavo che la vacanza in montagna mi sarebbe piaciuta"; "non sapevo che questa lavatrice si sarebbe rotta subito"; "mi sono vestito da YSL, ma mi accorgo che sembro solo un cafone ripulito"; "non l'avrei mai comprata da Tizio se avessi saputo che la vendeva Caio a metà prezzo"). Si apre qui un campo di intervento di 161


educazione ("educare il gusto") e di miglioramento delle informazioni sui beni e sui prezzi; notiamo anzi che il potere di mercato deriva spesso dal contenuto informativo del marchio, che garantisce un certo livello di qualità, e dunque dalla mancanza di informazioni dirette sui prodotti. In teoria, i problemi di informazione dei produttori sono analoghi a quelli dei consumatori. In pratica, e perlomeno in un contesto statico, i produttori sono tendenzialmente molto meglio informati dei consumatori: essendo infatti i produttori relativamente specializzati, possono dedicare un professionista alla raccolta delle informazioni sulle (relativamente) poche cose che li riguardano. In un contesto dinamico in cui si tratta per i produttori di generare informazioni nuove tramite la ricerca, invece, il mercato funziona male. La ricerca ha infatti costi interni (per chi la porta avanti); in un contesto concorrenziale ha benefici prevalentemente esterni, in quanto le informazioni si diffondono naturalmente senza pagamento di prezzo, mentre il monopolio (compreso quello creato dal brevetto) internalizza i benefici della ricerca ma crea prezzi distorti dal potere di mercato. La soluzione interventista che risolve il dilemma è quella di mantenere la concorrenza, e affidare la ricerca al settore pubblico (come da tempo, negli Stati Uniti, per il settore agricolo). 7.a.8. il funzionamento del mercato: le attività puramente redistributive Consideriamo infine le attività puramente redistributive. Il furto, l'estorsione, e simili attività si differenziano dallo scambio di mercato in quanto l'arricchimento degli uni si ottiene tramite l'impoverimento degli altri. Il costo sociale di tali attività è molteplice: comprende da un lato la perdita del prodotto netto che darebbero le risorse consumate sia dalle stesse attività, sia dalla loro prevenzione; e comprende spesso pure delle perdite aggiuntive, dalle orecchie dei rapiti ai ricordi di famiglia dei derubati. Non a caso, tali attività sono considerate criminali, e represse. Il problema è però più ampio dell'attività criminosa, e gli economisti si sono chiesti se l'DWWLYLWj VSHFXODWULFH non è anch'essa puramente redistributiva, e dunque gravata perlomeno da un costo opportunità. In generale, gli speculatori sono stati assolti, parificandoli ai commercianti: come questi aumentano il benessere collettivo spostando i beni da dove valgono di meno a dove valgono di più, così pure, si è detto, gli speculatori spostano i beni da quando valgono di meno a quando valgono di più. Se poi lo speculatore operasse nel modo opposto causerebbe un danno netto, ma lo assorbirebbe lui in quanto lavorando in perdita trasferisce ricchezza al resto della società. Questi argomenti sembrano piuttosto sbrigativi. Il primo si applica infatti allo speculatore in beni non durevoli: spostare grano da quando abbonda per metterlo a disposizione durante una carestia è effettivamente utile, oltre che remunerativo. Ma lo speculatore di oggi è più tipicamente uno speculatore in titoli, o in beni durevoli; ed è ovvio che con la speculazione nei valori fondiari, ad esempio, non si sposta la terra da un periodo all'altro come si sposta invece il grano. Il secondo argomento sembra invece specioso, e errato proprio nella misura in cui è valido il primo: la speculazione errata che rende più grave la carestia porterà anche al fallimento dello speculatore, ma poco guadagneranno quelli che nel frattempo sono morti di fame. 7.a.9. il funzionamento del mercato: il secondo ottimo L'impostazione "pigoviana" giustificava l'intervento pubblico a tutta una serie di livelli. Oltre che stabilizzatore macroeconomico, lo stato si presentava anche come garante della distribuzione "giusta" della ricchezza e del buon funzionamento dei mercati, sia mantenendo la concorrenza, sia intervenendo nei mercati come allocatore ogniqualvolta l'attività privata non avrebbe comunque raggiunto gli obiettivi sociali. Come se questo non 162


bastasse, poi, l’invenzione dei "beni meritevoli" era una licenza per l’intervento pubblico in qualsiasi mercato, giustificato dalla sola decisione di intervenire. Un motivo ulteriore di intervenire anche in mercati che funzionano bene è stato trovato, in tutta logica, nella dottrina del VHFRQGR RWWLPR, che abbiamo già brevemente incontrato. Si può infatti dimostrare che se lo stato non può rimuovere tutte le distorsioni e raggiungere l'ottimo sociale, in genere è preferibile introdurre distorsioni a compensazione di quelle esistenti. L'esempio fatto a suo tempo (4.b.5) riguardava un problema di distribuzione della ricchezza; non potendo ottimizzarla, si ripiegava sul secondo ottimo concedendo potere di mercato ai gruppi non sufficientemente ricchi. I problemi allocativi non sono diversi: richiamando il punto precedente, ad esempio, se non si possono informare i consumatori sulle caratteristiche dei beni può essere benefico il marchio di fabbrica che comunica informazioni anche se genera potere di mercato. L'esempio classico del secondo ottimo riguarda i trasporti urbani. Le auto private impongono infatti costi esterni, in particolare nelle ore di punta, quando ognuno fa perdere tempo agli altri. Siccome questi costi esterni sono legati al posto e al momento, andrebbero internalizzati usando misure dirette dei singoli spostamenti; ma (almeno fino ad oggi) tali misure sono impossibilmente costose, e il prezzo privato dell'uso delle auto per il pendolarismo rimane inferiore a quello "sociale", che comprende appunto i costi esterni. Siccome non si può mettere il pendolare di fronte al costo pieno dell'uso dell'auto, per guidare le sue scelte con i giusti tassi di sostituzione di mercato si cerca di ristabilire i giusti prezzi relativi vendendo sottocosto i servizi dei mezzi pubblici. Questa soluzione rimane chiaramente di secondo ottimo perchè si aggiusta la scelta all'interno dei trasporti falsando la scelta tra trasporto e altri beni; viene infatti sussidiato il pendolarismo in generale, incoraggiando ubicazioni residenziali troppo distanti da quelle lavorative. A livello pratico, di fatto, la dottrina del secondo ottimo è sicuramente una pessima guida all'intervento pubblico, perchè distoglie l'attenzione dalla soluzione diretta del problema di fondo; nel caso del trasporto urbano, per esempio, i costi del pendolarismo in auto si potrebbero effettivamente internalizzare differenziando i prezzi dei parcheggi, in attesa che la rilevazione satellitare risolva del tutto il problema. Si insegna agli ingegneri che non bisogna inventare i guanti di gomma se la stilografica macchia le dita; lo stesso principio vale per la politica economica.

7.b. la reazione liberista 7.b.1. la teoria positiva dell'intervento pubblico Negli anni Settanta, nel mondo anglosassone, esaurita l'ondata interventista scaturita dalla Grande Depressione, si è scatenata la reazione che ha portato al governo Reagan e la Thatcher (e le sinistre a spostarsi non poco verso destra). La dottrina economica ha partecipato pienamente a questo movimento, anche se non in modo univoco. In questi ultimi decenni si sono infatti sviluppate in particolare le teorie microeconomiche direttamente antiinterventiste, che contrappongono ai costi e "fallimenti" del mercato i costi e "fallimenti" dello stato (e alle quali fanno da complemento le teorie macroeconomiche che sottolineano l'incapacità, piuttosto che la capacità, di intervento stabilizzatore). Si chiama adesso "normativa" la teoria dell'intervento pubblico che considera lo stato uno strumento perfetto e senza costi, da utilizzare dunque ogniqualvolta il mercato non produce una soluzione ottimale; si chiama invece "positiva" la più recente teoria dell'intervento pubblico che ne sottolinea piuttosto i costi e l'inefficacia, e tende dunque a limitarlo. 163


I FRVWL GHOO LQWHUYHQWR SXEEOLFR sottolineati dalla teoria positiva sono sia diretti che indiretti. L’intervento ha costi GLUHWWL, intrinseci, perchè è un'attività che come le altre consuma risorse reali: esige infatti l'opera di persone che si informino, che decidano, e che implementino le decisioni, esige le strutture a loro necessarie, esige insomma tutto l'apparato di un ministero. I costi LQGLUHWWL dell'intervento pubblico sono a loro volta di due tipi. Da un lato, siccome lo stato non dispone di strumenti fiscali neutri, le imposte necessarie per coprire i costi diretti introducono GLVWRUVLRQL ILVFDOL; qualsiasi spesa pubblica ha dunque oltre al costo delle risorse consumate anche un costo esterno rappresentato dalla perdita di efficienza indotta dal prelievo fiscale. Dall'altro, siccome l'intervento pubblico ha inevitabilmente risvolti redistributivi, il solo fatto che lo stato possa intervenire e dunque beneficiare qualcuno induce quel qualcuno a investire risorse per ottenere quel guadagno; l'intervento pubblico incoraggia dunque DWWLYLWj SXUDPHQWH UHGLVWULEXWLYH. In gergo, tale attività mirata a ottenere favori pubblici è detta "di ricerca delle rendite" ("rent-seeking"). Negli Stati Uniti si concreta più che altro in contributi alle campagne elettorali (sempre più costose e ovviamente a somma zero), in attività di "lobbying" (contatti con i legislatori per indurli a condividere certi obiettivi), e in corruzione spicciola (la grande corruzione, dei tempi in cui i deputati onesti erano quelli che si facevano corrompere da una sola delle parti interessate, risale al tardo Ottocento: che abbia coinciso come di recente in Italia con la prima grande ondata di modernizzazione dell'economia ci dà qualche speranza...). In Europa, la "ricerca delle rendite" si concreta più vistosamente in costosi ricatti alla società, come il blocco degli aeroporti con la "rivolta dei trattori" a proposito delle quote latte; si nota la strana tolleranza degli europei continentali, perlomeno, verso questo tipo di comportamento (forse per mancanza di tradizioni di autogoverno). Ovunque, poi, la forma preferita del sussidio è la concessione di potere di mercato: a differenza del sussidio diretto, infatti, tale sussidio indiretto a spese dei consumatori non passa per il bilancio pubblico, e dunque rimane nascosto... Nell'ottica neoliberista, poi, l'intervento pubblico è tipicamente non solo costoso ma inefficace, se non addirittura sistematicamente controproducente, sia che intervenga come allocatore, sia che intervenga come redistributore. Dove l'interventista giustifica l'attivismo invocando i fallimenti del mercato, il neoliberista lo condanna invocando invece i IDOOLPHQWL GHOOR VWDWR. In tema di allocazione la matrice di questo nuovo pensiero è stata l'analisi del settore dei trasporti, sempre negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta-Sessanta. Da un lato, infatti, si è notato che la Interstate Commerce Commission, creata nel tardo Ottocento per limitare il potere di monopolio delle ferrovie e tutelare i consumatori (in particolare gli agricoltori delle pianure all'interno del paese), operava di fatto a sostegno di quel potere di monopolio, proteggendo le ferrovie dalla nuova concorrenza del trasporto su strada. Da questo è nata in particolare la teoria detta della FDWWXUD del regolamentatore da parte del regolamentato: si è infatti capito che l'agenzia di controllo delle ferrovie era necessariamente affidata a persone che conoscevano il settore, che dunque ne provenivano e vi sarebbero ritornate alla fine del mandato pubblico; non a caso, dunque, anche durante quel mandato continuavano a fare gli interessi delle ferrovie. Possiamo notare che in questa forma il problema è molto americano, e legato appunto alla limitazione delle carriere pubbliche che fa mutuare i massimi burocrati al settore privato; ma la tendenza alla simbiosi sembra inevitabile anche dove i burocrati siano di carriera. Dall'altro lato si è notato l'inefficienza della regolamentazione del trasporto aereo da parte della Civil Aeronautics Board, che operava attraverso la concessione delle singole linee a pochi operatori in concorrenza tra di loro e fissava il prezzo per coprire i costi. Essendo 164


così impedita la concorrenza sui prezzi, le linee aeree si facevano concorrenza sulla qualità (alte frequenze con voli semivuoti, servizio di bordo lussuoso), facendo lievitare i costi e dunque tenendo alte le tariffe fissate dallo stato. All'interno della California, invece, erano sorte linee (intrastatali e dunque non soggette al controllo federale) che praticavano prezzi molto più bassi, con servizi meno comodi ma ovviamente graditi dal pubblico. La conclusione ancora una volta è stata che l'intervento pubblico era dannoso piuttosto che benefico; e nel giro di un decennio venne abolito l'organo di controllo e deregolamentato il settore dei trasporti aerei. Notiamo per inciso non solo la capacità di adattamento del sistema americano, ma anche quell'apertura garantita dal federalismo che permettendo l'innovazione nella sola California portò il problema all'attenzione di tutti; in un paese centralizzato come l'Italia nessuno si sarebbe mai accorto di niente... Per quel che riguarda invece l'aspetto più propriamente redistributivo l'opera fondamentale, sempre degli anni Sessanta, è /D WHRULD GHOO D]LRQH FROOHWWLYD di M. Olson. Questa nota infatti che l'azione politica ha costi privati, per chi cerca di mettere in moto un intervento pubblico, mentre i benefici pubblici rimarranno massimamente esterni al singolo. Ne consegue che il singolo difficilmente si darà da fare per "far politica" in senso buono (a parte forse l'attivismo atavico delle californiane...); chi farà politica tenderà a farlo appunto nel senso nostrano, deteriore, dove significa muoversi non per il bene pubblico ma per un beneficio privato. La redistribuzione sia diretta (fiscale) che tramite il potere di mercato tenderà pertanto sistematicamente a favorire interessi costituiti, particolari, piuttosto che interessi generali e meritevoli. Questa teoria si è poi generalizzata nei decenni successivi sposandosi con quella dell'informazione, e dei problemi di agenzia, sui quali torneremo tra breve. In forma sviluppata la teoria dei fallimenti dello stato nota in sostanza che i cittadini in generale sono relativamente poco informati sull'azione pubblica, e che lo stato è pertanto un agente inaffidabile della comunità che governa: i legislatori e i burocrati hanno essi pure obiettivi privati, e questi li portano sistematicamente a favorire interessi di parte a danno della comunità. 7.b.2. le informazioni e i costi di transazione Nell'ultimo trentenni si è sviluppata altresì la teoria dei costi di transazione, dei problemi di informazione, e delle istituzioni. Di questa teoria, data la moda dei tempi, sono state sviluppate soprattutto le implicazioni anti-interventiste, anche se come abbiamo già notato aprono la porta ad un ruolo ulteriore dello stato, quello di educatore. Abbiamo visto come nell'economia del benessere classica, le uniche istituzioni sono lo stato e mercato, che si presume funzionino senza costi. Le imprese e le famiglie che si incontrano nei mercati compaiono a loro volta solo come "individui", senza articolazione interna. Lo stato si presenta dunque come l'unico agente economico fuori dagli individui. Questo può essere considerato in termini positivi (un'astrazione), o in termini normativi: per Simons, ricordiamo, tutto ciò che non è concorrenza perfetta, e dunque comporta potere, va ricondotto allo stato (rischiando peraltro il Terrore, robespierrano o staliniano). R. Coase per primo notò (già negli anni Trenta, ma per decenni nessuno ci badò) che l'articolazione interna dell'impresa era fondata su rapporti di autorità piuttosto che di mercato; questo significa che questi rapporti sono meno costosi di quelli di mercato, e pertanto che i rapporti di mercato non sono senza costi. L'esistenza di questi costi di transazione, riconducibile all'incompletezza delle informazioni, fa sì che non si hanno solo e tutti i mercati: piuttosto, mancheranno dei mercati, esisteranno dei sostituti. Si ricorre infatti ad un mercato solo quando conviene, e altrimenti si ricorre ad altri mercati, o a soluzioni non di mercato (ossia a transazioni interne ad un istituzione), o semplicemente non si compie lo 165


scambio. Le istituzioni sono dunque se si vuole sostituti di mercati costosi; e questo è vero non solo per lo stato, ma anche per le imprese, le famiglie, e le organizzazioni senza scopo di lucro. Dall'analisi della struttura delle informazioni e dei costi di transazione deriva insomma una teoria economica delle istituzioni: queste sono dunque considerate endogene, e non più, come una volta, semplicemente date. I FRVWL GL WUDQVD]LRQH scaturiscono sempre da SUREOHPL GL LQIRUPD]LRQH: per essere informati bisogna investire risorse, e a volte le informazioni hanno costi insuperabili. I difetti di informazione creano immediatamente problemi di raggiungimento degli accordi (costi di negoziato), e di esecuzione degli accordi (costi di supervisione); in gergo, si parla di "asimmetrie informative" (non so quello che sa la controparte) e di "problemi di agenzia" (non sapendo cosa intende fare o ha fatto la controparte, entro certi limiti devo fidarmi di lei). Notò successivamente lo stesso Coase che nel mondo teorico del modello neoclassico, con informazioni perfette e (dunque) senza costi di transazione, scompaiono necessariamente le inefficienze, proprio perchè ogni inefficienza crea una situazione in cui sono possibili miglioramenti paretiani. L'inefficienza del monopolio scomparirebbe, ad esempio, sia che il monopolio semplice diventi "sequenziale", esaurendo i benefici ottenibili dallo scambio, sia che i clienti del monopolista si mettano d'accordo fra di loro e con lui per pagarlo per ridurre i prezzi ai costi marginali; l'inefficienza delle esternalità scomparirebbe pure, sempre grazie all'accordo diretto tra le parti interessate (se il mio fumo ti dà fastidio, raggiungiamo un equilibrio paretiano pagando io te perchè mi lasci fumare, o tu me perchè non fumi). In un mondo senza costi di transazione, dunque (e sempre a parte eventuali beni meritevoli), lo stato non ha bisogno di fare l'allocatore, e la sua funzione si restringe a quella redistributrice. L'idea che senza costi di transazione l'efficienza paretiana è garantita dall'azione privata è nota pertanto come il WHRUHPD GL &RDVH. La presenza nella realtà dei costi di transazione è pure ricca di conseguenze, a tanti livelli. Prima di tutto, e banalmente, certe transazioni si evitano perchè il costo è superiore al beneficio (ad esempio, ogni condomino ha la propria antenna televisiva). Secondo, e come conseguenza del punto precedente, esprimendo in forma negativa il teorema di Coase si constata che i mercati possono appunto "fallire" per esternalità o potere di mercato, giustificando pertanto un intervento pubblico allocatore o stabilizzatore (per raggiungere l'efficienza) e non solo redistributore. Siccome però anche l'azione pubblica è gravata da costi di transazione e problemi di agenzia (i fallimenti dello stato di cui sopra), il fallimento del mercato non giustifica automaticamente l'intervento pubblico (che viene pertanto ridimensionato, rispetto all'impostazione pigoviana che riconosce i fallimenti privati ma non quelli pubblici). Terzo, e questo non sembra essere stato notato, i mercati possono anche funzionare in modo concorrenziale, chè la stessa concorrenza sparirebbe se i costi di transazione non rendessero difficile mettere d'accordo, e vincolare all'accordo, un gran numero di imprese indipendenti. Nel mondo di Coase tutti i produttori (e tutti i consumatori) si organizzerebbero in monopoli, e i mercati sarebbero sì efficienti, ma come monopoli bilaterali. Scomparirebbe l'ottimizzazione marginale degli operatori che reagiscono a prezzi parametrici, e scomparirebbe anche il paradosso dell'acqua e dei diamanti, chè i proprietari dell'acqua la venderebbero a prezzi ben superiori a quelli dei diamanti... Quarto, è ovvio che i costi di transazione di mercato sono anche funzione del sistema legale, per cui incombe allo stato creare un quadro "istituzionale" che li minimizzi rendendo facilmente raggiungibili, e eseguibili, i contratti. Nel contesto anglosassone si è sviluppato lo studio economico del diritto, che tende a vedere il sistema legale come tendenzialmente efficiente proprio in queto senso. Da parte nostra possiamo ricordare il valore del diritto romano, recuperato appunto dalle città commerciali del medio evo; si contrasta invece la 166


situazione italiana dei nostri giorni, con una legislazione assolutamente non informata da questa esigenza di efficienza economica (pedaggi autostradali, tasse di registro, permessi a non finire...), e una giustizia che rende praticamente inesigibile l’adempimento dei contratti (lentezze, proroghe degli sfratti...). Quinto, ed è forse lo spunto più ricco, riconoscendo i costi di transazione si supera came abbiamo notato la dicotomia classica tra stato e mercato, e si recupera all'analisi economica il vasto campo delle istituzioni private (contratti, organizzazioni) e anche socialiculturali (etica). 7.b.3. le istituzioni private: i contratti Gli scambi di mercato esigono FRQWUDWWL, e sono gravati da costi di transazione. Gli stessi operatori tenderanno naturalmente a scegliere le forme istituzionali che minimizzano tali costi. Grazie all'analisi dei costi i transazione, dunque, possiamo capire il perchè di certi contratti e mercati, e non di altri. Ricordiamo l'esempio della terra da lavorare, che si può affittare a chi la lavora (il lavoro affitta la terra), o far lavorare a salariati (la terra affitta il lavoro). Nel primo caso sono alti i costi di negoziato (l'inventario di apertura e di chiusura), nel secondo quelli di supervisione (chè il salariato non controllato si riposa); essendo poi i costi di negoziato fissi per il singolo contratto, e quelli di supervisione funzione della sua durata, si capisce che per accordi brevi si ricorra all'affitto del lavoro, e per accordi lunghi all'affitto della terra. Allo stesso modo, dove la supervisione sarebbe particolarmente costosa (come per i rappresentanti che lavorano lontano dagli occhi del principale) se ne riduce la necessità strutturando il contratto in modo da allineare gli incentivi dell'agente con quelli del mandante (remunerando ad esempio i rappresentanti con una percentuale sulle vendite; il peculio dei romani sembra nascere pure come compartecipazione al gregge). Notiamo che l'assenza di alcuni mercati non significa che quelle transazioni comportino necessariamente costi inabbordabili, e che quei mercati non possano esistere; possono semplicemente essere tralasciati (come ad esempio l'affitto a breve della terra) a favore di sostituti più convenienti. La stessa analisi permette di considerare anche i contratti e i mercati tipici del capitalismo industriale, caratterizzato di fatto dallo scarso sviluppo dei mercati di affitto del capitale. Si affittano gli edifici, si affittano gli aerei; ma in genere le macchine sono di proprietà delle stesse imprese, che uniscono capitale e lavoro assumendo dipendenti, ossia affittando il lavoro. Da questo fatto poi scaturiscono poi l'autorità dei padroni e le lotte sindacali; ma se il lavoro dipendente è tanto odioso, perchè non è piuttosto il lavoro ad affittare il capitale? Prima della rivoluzione industriale la produzione era in mano ad imprese artigiane, famigliari (forse del padre padrone, ma lasciamo stare); perchè gli artigiani, liberi e indipendenti, sono stati trasformati in operai e costretti a prendere ordini? Notiamo che non è una risposta l'efficienza produttiva della fabbrica, ovvero le economie di scala ("il bisogno di concentrare la produzione") che derivavano dall'uso della forza motrice generata da una singola grande macchina a vapore o idraulica. Questa efficienza produttiva implica la concentrazione locale della produzione, non la sua forma istituzionale: rimane teoricamente possibile, e in alcuni casi si è verificato, che si costruisse la fabbrica e il motore, per poi affittare l'uso di questo capitale a lavoratori che rimanevano indipendenti. L'analisi dei costi di transazione suggerisce anche in questo caso una risposta. Il mercato di affitto delle macchine funziona male, ossia è gravato da alti costi di transazione, perchè le macchine sono complesse e delicate, e non è palese un eventuale abuso delle stesse. Nelle pianure nordamericane il grano matura prima nelle latitudini più basse, e durante l'estate le stesse grandi mietitrebbiatrici si spostano da sud a nord, con un ovvio risparmio di 167


mezzi; ma queste non sono affittate agli agricoltori che ne richiedono i servizi. Piuttosto, il proprietario della macchina contratta per mietere i campi di grano, e la macchina è sempre nelle mani sue. Per lo stesso motivo, notiamo, un tempo si affittavano non i buoi, ma i servizi dell'aratore con i suoi buoi; per lo stesso motivo si affittavano gli schiavi solo dove chi li utilizzava non aveva interesse a maltrattarli, come nell'artigianato o nell'agricoltura mediterranea, e non nell'agricoltura tropicale; per lo stesso motivo forse si affittano adesso gli aerei più facilmente di altre macchine, proprio perchè l'affittuario ha lo stesso interesse del proprietario a mantenerli in buone condizioni. In sostanza, dunque, la macchina tende ad essere usata da chi ne è proprietario, e se la usa un altro questo tenderà a usarla sotto gli occhi, e agli ordini, del proprietario; conviene insomma affittare il lavoro, e sorvegliarlo, perchè va comunque sorvegliata la macchina. In quest'ottica la radice della fabbrica è l'efficienza tecnica, ma la radice della sua organizzazione è negli alti costi di transazione nei mercati di affitto delle macchine. L'artigiano tessitore era proprietario del suo telaio a mano, semplice e poco costoso; diventa operaio non perchè è più efficiente la produzione meccanica, ma perchè il telaio meccanico costa troppo perchè il lavoratore ne possa essere proprietario, e lasciarlo fermo di notte. I telai meccanici erano necessariamente di proprietà dei benestanti, e lavoravano senza interruzione; l'unico modo di evitare l'affitto della macchina era di affittare il lavoro, e fargli fare i turni. Ne è la controprova la formula Benetton: scomparso con la trasmissione a basso costo dell'elettricità il bisogno di concentrare fisicamente la produzione meccanica, permettendo il benessere di massa che il lavoratore stesso sia proprietario della macchina e che non si lavori più di notte, la fabbrica scompare. Più ampiamente, l'idea che le forme contrattuali siano scelte per minimizzare i costi di transazione ha portato ad estendere alle stesse forme contrattuali la visione di concorrenza darwiniana già applicata alle imprese. Siccome questa concorrenza porta naturalmente alla sopravvivenza delle forme migliori, bisogna presumere che ciò che esiste esiste per buoni motivi; e questa presunzione ha risvolti sia pratici che metodologici. Dal punto di vista metodologico ha portato ad un nuovo apprezzamento della razionalità di istituzioni anche non tipiche del capitalismo anglosassone, quali ad esempio i villaggi dei campi aperti nel medio evo, o della mezzadria nel resto del mondo, frenando così quella boria dei padroni del mondo che consideravano barbari e irrazionali chiunque non fosse come loro (ossia tutti gli altri vivi, e tutti i morti, compresi i loro). Dal punto di vista pratico ha frenato del pari la presunzione degli "ingegneri sociali", cautelandoli appunto che la pratica nel tempo era forse migliore maestra della loro teoria. La lezione di fondo è stata dunque di limitare l'intervento pubblico anche in campo istituzionale, evitando riforme che potevano essere controproducenti: lezione salutare soprattutto per gli economisti dello sviluppo, che nel primo dopoguerra erano invece pronti a intervenire a dritta e a manca (vedi appunto la soppressione della mezzadria...). 7.b.4. le istituzioni private: le organizzazioni Fra le organizzazioni private si trovano ovviamente le imprese, le famiglie, e le associazioni non per lucro (delle quali non parleremo, per mancanza di idee in proposito). Per quel che riguarda le LPSUHVH, la rilevanza dei costi di transazione è ovvia: queste esistono come abbiamo appena visto negli spazi tra i mercati a costi bassi, che funzionano bene, e evitano, magari assorbendoli, i mercati a costi alti, che funzionano male. Per esempio, appunto, normalmente le macchine si comprano, non si affittano; così pure si vendono ghisa e acciaio, non si vende l'impasto in via di raffinazione; così pure in presenza di economie esterne due imprese si fondono per internalizzarle. Le stesse imprese possono poi ridurre i costi di transazione nei mercati in cui operano, comparendo qui come sostituti 168


dell’azione pubblica contemplata dalla teoria normativa: ad esempio, come abbiamo visto, la reputazione di un’impresa riduce l’ignoranza del consumatore e facilita lo scambio. Il caso delle IDPLJOLH è più articolato e interessante. Nella misura infatti in cui il problema di fondo del mercato è il comportamento egoista in presenza di informazioni imperfette, si potrebbe ipotizzare che la soluzione è lo sviluppo della coesione sociale, ossia della sostituzione dell'altruismo o amore all'egoismo. A livello nazionale, come abbiamo notato, questo è stato sperimentato, senza gran successo, dal comunismo cinese e cubano (differenti da quello sovietico). In ogni società, però, esiste comunque la famiglia come luogo (teoricamente) di amore e altruismo, per cui la soluzione del problema del mercato potrebbe essere quella di contenere l'attività economica all'interno appunto delle famiglie. Questo infatti si verifica per una fetta molto grossa della produzione totale, ma non per tutta l'attività. Il motivo ovviamente è che anche la famiglia ha dei "fallimenti" economici: la mancanza di capitale umano (capacità particolari), e la mancanza di economie di scala. Peraltro, il vantaggio di costi di transazione della produzione famigliare può essere dovuta all'amore, ma anche ad altre cause: per esempio, si è detto che in agricoltura il vantaggio del lavoro famigliare è che i membri dipendenti sono soggetti all'autorità del capofamiglia quasi come schiavi, e non possono minacciare scioperi al momento del raccolto. Comunque sia, quel che emerge da questa analisi è una visione multipolare, piuttosto che mono- o bi-polare, del quadro istituzionale. Non si considera più il mercato come in qualche senso ontologicamente primario, con il complemento pubblico o privato reso necessario dai suoi fallimenti (e se si continua a parlarne così, è solo per inerzia semantica). Mercato, stato, impresa e famiglia sono istituzioni paritarie, ognuna con una sfera propria in cui funziona appunto meglio delle altre, mentre per il resto "fallisce" solo nel senso che qualche altra istituzione funziona meglio. Il messaggio portato avanti dalla destra adesso dominante è ovviamente quello di limitare l'intervento pubblico, restringendo lo stato a quella sfera sua propria oltre la quale era stato portato dall'interventismo rooseveltiano e johnsoniano. 7.b.5. l'etica Portando avanti l'analisi dei costi di transazione, però, la destra americana mina la sua caratteristica fede nell'individualismo e nella libertà di contrattazione. L'analisi coasiana mette infatti in luce come i liberi mercati funzionino bene solo in presenza di informazioni perfette; in un mondo di informazioni costose e asimmetriche, il consumatore è sempre alla mercè del venditore poco scrupoloso, e bisognoso pertanto di tutela pubblica. Riconoscendo i costi di transazione la stessa analisi borghese rende dunque palese la speciosità dell'affermazione di Friedman che le imprese hanno come unico dovere quello di massimizzare il profitto: il profitto si massimizza infatti sfruttando anche le asimmetrie informative, ma così facendo non si producono quei risultati benefici contemplati dalla mano invisibile. Logicamente, dunque, le imperfezioni informative portano a diffidare dell'effetto socialmente benefico dell'autonomia individuale. Sono cioè profondamente corrosive dell'idea dei fisiocrati e di Smith, radicata nella cultura generale del mondo anglosassone, che l'individuo che agisce per i fini propri tende ad agire a sostegno degli obiettivi sociali e non contro di loro; tendono piuttosto a giustificare quel timore viscerale della libertà individuale che era caratteristico dell'DQFLHQ UpJLPH e che sussiste ampiamente nella cultura cattolicopopolare, socialista, o statalista del continente europeo. L'alternativa alla tutela pubblica dei consumatori potenzialmente vittime dei venditori meglio informati è invece proprio quel comportamento "responsabile"--o più semplicemente 169


onesto--dei venditori che Friedman sosteneva non fosse necessario. La mano invisibile richiede infatti non l’egoismo semplice e spregiudicato ma un perseguimento onesto dei propri interessi, dove l'onestà compensa appunto l'impossibilità pratica di negoziare contratti "completi" (ossia contratti che non permettano abusi da chi dispone di informazioni privilegiate): il mercato funziona bene dove la ricerca del profitto è limitata dall'etica che proibisce appunto l'inganno, e i costi di transazione sono ridotti proprio perchè ci si può fidare della parola della controparte. Questo può averlo già capito lo Smith, che sembra avvertirlo nel suo testo di etica (/D WHRULD GHL VHQWLPHQWL PRUDOL) anche se non nel suo testo di economia (/D ULFFKH]]D GHOOH QD]LRQL). Che il buon funzionamento del mercato e dunque dell'economia richieda un supporto etico è comunque sempre più riconosciuto: ricordiamo l'idea che il Mezzogiorno sia povero proprio per il suo "familismo amorale", ossia per l'assenza di vincoli etici fuori dalla famiglia (E. Banfield, /D EDVH PRUDOH GL XQD VRFLHWj VRWWRVYLOXSSDWD, anni Cinquanta), e il caso attuale della Russia ex-sovietica. Dati i costi di informazione, dunque, la fede nella mano invisibile richiede logicamente l'etica, e l'educazione che la forma. La destra americana non ne parla, perlomeno in questi termini, ma sembra avvertita del problema. Pur volendo ridurre al minimo il ruolo dello stato, infatti, gli vuole assolutamente mantenere il ruolo di educatore, e di educatore appunto al modo di vita americano, contrassegnato da un livello medio di onestà, e di rispetto per gli altri e per la società civile, che possiamo solo invidiare. E' la sinistra americana che propone scuole "multiculturali", in cui gli immigrati recenti potrebbero tramandare le loro proprie lingue e tradizioni, mentre la destra non ne vuole sapere di questa estensione della libertà di scelta individuale. Sembra un'incoerenza, ma a pensarci bene forse non lo è.

7.c. la teoria dei giochi 7.c.1. il dilemma del prigioniero L'altro grande filone teorico portato a maturità negli ultimi decenni è quello della teoria dei giochi. Questa teoria è entrata nell'analisi economica come un modo alternativo di modellare le decisioni, abbandonando le ottimizzazioni marginaliste per esplicitare invece il problema della scelta dell'operatore nella consapevolezza non solo delle possibili scelte della controparte, ma della dipendenza di queste dalle proprie. Questo è ovviamente il contesto dei giochi (carte, scacchi...), da cui il nome, e anche il contesto del negoziato, dell'interdipendenza oligopolistica, e simili. Questo modo di analisi è adesso assolutamente di moda, e molti sviluppi recenti della teoria della politica economica usano questi strumenti (modellando ad esempio la politica monetaria come un "gioco" tra pubblico e banca centrale). In questo capitolo consideriamo solo il famoso "dilemma del prigioniero," con il quale la teoria dei giochi è entrata nella coscienza comune degli economisti. Questo si presenta peraltro in chiave interventista, come un attacco alla fede smithiana nella "mano invisibile"; ripropone di fatto, anche se non sembra sia stato riconosciuto, il ruolo dello stato educatore. In un contesto di "gioco" ogni operatore deve scegliere tra almeno due "strategie", che comportano per lui un certo risultato che varia con la strategia scelta dalla controparte. Una combinazione di strategie è un HTXLOLEULR se nessuno dei due cambia la propria scelta vista quella dell'altro. La presentazione grafica usuale è quella di una matrice, in cui vengono disposte verticalmente le strategie possibili dell'uno, e orizzontalmente quelle dell'altro; ogni casella corrisponde dunque ad una possibile coppia di strategie, ed in essa si indicano con due numeri il risultato corrispondente per ciascuno dei due giocatori. 170


Nel dilemma del prigioniero si ipotizza che la polizia abbia preso due indiziati, che tiene separati, e ai quali comunica che con le prove che ha può mandarli ambedue in galera per un anno. Se uno solo dei due ammette il crimine maggiore di cui sono sospettati, fornendo dunque prove contro l'altro che nega, costui otterrà la scarcerazione immediata, mentre l'altro verrà condannato a tre anni; se invece ambedue ammettono il crimine maggiore, evitando o abbreviando il processo, patteggerà due anni di galera per ciascuno. La matrice del caso si presenta dunque come segue, con numeri negativi nelle caselle per indicare che la reclusione è una pena e non una ricompensa: PRIGIONIERO B

ammette PRIGIONIERO A nega

ammette nega ___________________ | | | | | | | -2,-2 | 0,-3 | | | | |---------|---------| | | | | -3, 0 | -1,-1 | | | | |_________|_________|

Ogni prigioniero ha la scelta tra due strategie, "ammettere" o "negare". Si nota che per ognuno la strategia "ammettere" è GRPLQDQWH, ossia conviene per qualsiasi scelta dell'altro. Infatti se lui (B) nega (colonna di destra), se io (A) ammetto (riga superiore) sconto zero anni (prima cifra della casella in alto a destra), mentre se nego (riga inferiore) sconto un anno (prima cifra della casella in basso a destra), per cui mi conviene ammettere. Se invece lui (B) ammette (colonna di sinistra), se io (A) ammetto (riga superiore) sconto due anni (prima cifra della casella in alto a sinistra), mentre se nego (riga inferiore) sconto tre anni (prima cifra della casella in basso a sinistra), per cui mi conviene ammettere. Dunque ammetto; e lui pure, in base a considerazioni analoghe. L'equilibrio ottenuto in base alle decisioni individuali sarà dunque quello "ammette-ammette", in alto a sinistra, che comporta due anni di reclusione per ciascuno: soluzione peggiore, per ambedue, di quella in basso a destra, in cui ambedue negano. Il dilemma del prigioniero è stato presentato come la grossa scoperta che l'azione egoista, individuale, può essere collettivamente dannosa: come una critica, dunque, alla fede smithiana nella mano invisibile. 7.c.2. considerazioni sul dilemma del prigioniero Questa analisi, e la conclusione che se ne è tratta, permettono una serie di considerazioni. Notiamo, primo, che può essere utile in un contesto anglosassone correggere la fede comune e probabilmente eccessiva nell'azione individuale, "egoista"; in un contesto come quello italiano dove il messaggio smithiano non è mai stato internalizzato, e le possibilità del mercato sono capite da pochi, che la dottrina economica prenda questa piega è culturalmente e politicamente dannoso. Notiamo, secondo, che la presentazione del problema sembra assurdamente anglosassone: in un paese serio, quale il nostro, l'equilibrio del dilemma del prigioniero è 171


ovviamente "nega-nega", perchè il criminale che ne incrimina un'altro sa benissimo che verrà ammazzato, con tutta la famiglia, il cane, e il gatto, come esce di galera. La soluzione reale del problema illustrato dal dilemma del prigioniero è pertanto ben nota: dove il comportamento egoista porta a risultati collettivamente dannosi la collettività impone la stategia dominata, ma di fatto superiore, come UHJROD di comportamento, punendo chi trasgredisce. Terzo, è ovvio peraltro che il problema del "dilemma del prigioniero", con la sua soluzione, sono assolutamente comuni, e che non c'è bisogno di andare tanto lontano. Si pensi ad esempio al fare la fila nei negozi, invece di cercare di farsi servire comunque per primo. E' ovvio che se gli altri fanno la fila, io ci guadagno a non farla, e se gli altri non la fanno sarei sciocco a farla solo io, per cui la strategia dominante è di non fare la fila; e se tutti ragionano così il risultato è che la spesa diventa una lotta a colpi di chi spinge di più, con una perdita di benessere collettivo. Non a caso è O HGXFD]LRQH che ci dice che dobbiamo fare la fila e aspettare il nostro turno; e la sanzione sociale è la punizione, che può arrivare all'ostracismo, del maleducato identificato come tale. Si pensi pure ad un conflitto armato: se di fronte all'assalto nemico gli altri tengono duro e io scappo mi metto sicuramente in salvo, se gli altri scappano e io non scappo mi faccio solo ammazzare per primo, per cui la strategia dominante è quella di scappare. Se tutti scappano però il fronte cede, e il nemico farà strage dei fuggiaschi: non a caso l'educazione civica e militare porta ad internalizzare la regola di comportamento collettivamente ottimale anche se individualmente dominata, e sanziona i trasgressori (il vile è escluso dai FOXEV e dalla possibilità di un buon matrimonio; il soldato che abbandona il posto viene passato per le armi). Si pensi infine alla stessa concorrenza di mercato: è ovvio che è analoga al dilemma del prigioniero nella misura in cui i venditori otterrebbero tutti profitti maggiori se mantenessero prezzi da monopolio, e che l'azione egoista del singolo danneggia alla fine pure lui. Non a caso la cosiddetta "etica professionale" consiste proprio nel non farsi concorrenza sui prezzi... Quarto, tale etica dei professionisti è assolutamente analoga all'omertà crminale nella misura in cui la regola di "buon" comportamento avvantaggia i membri del gruppo (risolvendo il ORUR "dilemma del prigioniero") a danno della società più ampia. La norma che deve inculcare la società intera (lo stato educatore) è dunque che l'etica delle coalizioni redistributive va trasgredita in nome di un etica più alta, quella del buon cittadino. Anche qui, gli Stati Uniti sono molto più avanti di noi: la limitazione della concorrenza, che in Europa è vista come uno strumento assolutamente normale (e da utilizzare senza remore, se non ci fosse la legislazione anti-trust imposta dalla Comunità), è considerata in America un comportamento asociale e immorale oltre che illegale. Quinto, è pure ovvio che l'etica che porta alla "buona" soluzione del dilemma del prigioniero deve essere diffusa, per dare ad ambedue i "giocatori" la ragionevole certezza di avere a che fare con una persona che deciderà appunto in modo etico. Il comportamento etico di ognuno deve essere insomma sostenuto da quello degli altri (la saldezza dell'esercito si basa non solo sulla disciplina dei singoli, ma sulla fiducia di ciascuno nella disciplina dei compagni). L'equilibrio "buono" è pertanto fragile, e bastano poche eccezioni per far ritornare la società a quello "cattivo" (cosa anche questa nota alla coscienza comune americana, riassunta dal proverbio "una singola mela marcia può guastare tutto il paniere"). L'azione egoista socialmente nociva va pertanto duramente repressa anche "per incoraggiare gli altri". Sesto e ultimo, il dilemma del prigioniero illustra di fatto non che sia nociva l'azione individuale, ma che lo può essere se non è appunto condizionata da un'etica adeguata. Le 172


norme tradizionali dell’etica e dell’educazione esistono infatti per indurre i singoli a comportarsi nel modo corretto, utile alla fine anche a loro, piuttosto che a comportarsi in modo "strategico" con un danno non solo per gli altri ma anche (data la reazione inevitabile degli altri) per loro. Descrive dunque in sostanza i problemi non di qualsiasi società decentrata e libera, ma in modo specifico i problemi di una società di furbi, in cui alla fine tutti si ritrovano a mal partito proprio perchè fanno tutti i furbi. Chi non ha capito lo capirà la prossima volta che si troverà col semaforo verde e l'incrocio bloccato. 7.c.3. una considerazione finale Gli sviluppi teorici degli ultimi decenni hanno aggiunto molto alla comprensione della funzione, e dei limiti, dell'intervento dello stato. Data l'atmosfera di reazione all'interventismo precedente, l'analisi è stata sviluppata in modo da far emergere in particolare i motivi di limitare tale intervento: si sono pertanto sottolineati i costi e i "fallimenti" dello stato, e la tendenza dell'attività individuale a elaborare istituzioni efficienti. Come si è ampiamente detto, però, sia la teoria di costi di informazione che il dilemma del prigioniero sottolineano il supporto etico di cui necessita l'azione decentrata, se si vuole che sia socialmente benefica; e questo a sua volta implica che lo stato ha anche un'importantissimo ruolo di educatore. Che il mercato necessiti di un complemento etico è peraltro cosa nota da tempo. Decenni fa, infatti, era già stato detto che l'economia politica serve a far economia appunto di amore (altruismo, etica). Solo qualche ideologo di parte poteva sostenere che il mercato rendeva l'etica assolutamente irrilevante; piuttosto, l'economia politica insegna quanto si può fare appellandosi agli interessi piuttosto che all'etica, conservando dunque il ricorso all'etica per i casi in cui non se ne può fare a meno. Se vogliamo risparmiare petrolio, ad esempio, è inutile appellarsi alla coscienza dei cittadini, basta aumentare il prezzo della benzina e del gasolio; se vogliamo tutelare l'ambiente dall'inquinamento spicciolo da parte del pubblico non possiamo far altro che educare i cittadini ad avere coscienza. Una politica economica bene intesa si fonda ovviamente sulla comprensione delle capacità, e dei limiti, degli strumenti disponibili, e sulla loro scelta oculata in funzione dei singoli problemi.

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