RIVISTA ITALIANA DI
DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA
DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O
NUOVA SERIE - ANNO XLI 1998
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E
INDICE GENERALE
DOTTRINA AMBROSETTI E.M., La determinazione della pena nel reato continuato: brevi note in merito ad una recente pronuncia delle Sezioni Unite in tema di misure cautelari e continuazione (N) ......................................................................
682
AZZALI G., Prospettive negoziali del delitto di truffa (A) ....................................
321
BERTOROTTA F., Concorso eventuale di persone e reati associativi (A) ...............
1273
CONTENTO G., Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro (A) ....................
1151
CORVI P., I « tempi » del procedimento di riesame dei provvedimenti de libertate nella più recente giurisprudenza (A) ............................................................
1201
CUSTODERO O., Capacità a delinquere e commisurazione della pena: problemi ed orientamenti (A) ...........................................................................................
78
DEMURO G.P., Il bene giuridico proprio quale contenuto dei reati a soggettività ristretta (A) .....................................................................................................
845
DE VERO G., I reati associativi nell’odierno sistema penale (A) ........................
385
DE VERO G., Le scriminanti putative. Profili problematici e fondamento della disciplina (A) ...................................................................................................
773
ESER M., Giustizia penale « a misura d’uomo » (A) ...........................................
1063
FELICIONI P., Le contestazioni nell’esame dell’imputato (A) ................................
292
GARGANI A., L’« abuso innominato di autorità » nel pensiero di Francesco Carrara (A) ........................................................................................................
1224
GAROFOLI V., Presunzione d’innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni (A) ..........................................................
1168
GIACONA I., Il problema dell’accertamento dell’idoneità degli atti ex art. 56 c.p., con particolare riferimento a un caso di tentativo di congiunzione carnale (A) ............................................................................................................
892
GIARDA A., Un’altra tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato (N) ...........................................................................................................
1018
GIOVAGNOLI R., « Pregiudizialità » penale nei processi civili (A) ........................
509
GIUNTA F., L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio (A) ...............................................................................................
414
GREVI V., Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale (A) .......................................................
726
GREVI V., Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui (A) ......
1129
INSOLERA G., Profili di tipicità del concorso: causalità, colpevolezza e qualifiche soggettive nella condotta di partecipazione (A) ...........................................
440
LAVARINI B., Ordine di esecuzione erroneo e detenzione ingiusta (A) ................
938
— IV — LOZZI G., Il patteggiamento e l’accertamento di responsabilità: un equivoco che persiste (N) ...................................................................................................
1396
MANGIONE A., « Abuso di maggioranza » ed « abuso d’autorità » nella gestione d’impresa: dogmatica ed ermeneutica nell’applicazione dell’art. 61, n. 11 c.p. (A) .........................................................................................................
529
MAZZINI G., Una discutibile sentenza in tema di inquinamento idrico: il versamento occasionale di sostanze non di rifiuto (gasolio) non provenienti da insediamento (N) ..........................................................................................
1405
MELE M.E., L’art. 68, primo comma, della Costituzione: l’insindacabilità dei membri del Parlamento (N) .........................................................................
1044
MONTAGNA M., Processo penale e insindacabilità parlamentare (A) ..................
98
MORGANTE G., Osservazioni in tema di concorso dell’extraneus nelle contravvenzioni edilizie proprie (N) ..............................................................................
281
MORSELLI E., Condotta ed evento nella disciplina del tentativo (A) ...................
36
MORSELLI E., Condotta ed evento nella teoria del reato (A) ...............................
1081
MOSCARINI P., L’esame del coimputato dopo la L. 7 agosto 1997, n. 267: dal suo parziale silenzio al regime delle contestazioni (A) ......................................
65
MOSCARINI P., Il regime sanzionatorio delle perquisizioni illecitamente compiute per iniziativa della polizia giudiziaria (A) ...................................................
1245
ORLANDI R., L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale (A) ...
452
PADOVANI T., Il concorso dell’associato nei delitti-scopo (A) ..............................
761
PALAZZO F., Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali (A) .........................................................................
350
PATANÉ V., In tema d’incompatibilità del giudice nell’udienza preliminare del processo minorile (con particolare riguardo alla valutazione negativa sull’irrilevanza del fatto) (N) ................................................................................
1028
PETTOELLO MANTOVANI L., Pensieri sulla politica criminale (A) .........................
22
PIATTOLI B., Modificazione dell’imputazione e poteri del G.U.P. (N) .................
655
PISANI M., Criminalità organizzata e cooperazione internazionale (A) ...............
703
QUAGLIERINI C., In tema di onere della prova nel processo penale (A) ..............
1255
RISICATO L., Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze (A) ..................
132
SPAGNOLO G., Criminalità organizzata e reati associativi: problemi e prospettive (A) ................................................................................................................
1161
TIEDEMANN K., L’europeizzazione del diritto penale (A) .....................................
3
VALLINI A., Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza (N) ................................................................
1426
VITARELLI T., Maltrattamenti mediante omissione? (A) ......................................
179
Cass. 21 gennaio 1998 con nota di C.P. .............................................................
301
COMMENTI E DIBATTITI MAZZOLA R., Le radici cristiane e laiche del diritto penale statuale ..................
1309
MORGANTE G., In tema di attentato alla sicurezza dei trasporti: limiti della disciplina attuale e prospettive di riforma ...........................................................
568
— V — NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO CAPITTA A.M., Le limitazioni del diritto al silenzio nella riforma del processo penale inglese ...................................................................................................
243
CURI F., L’istituto della recklessness nel sistema penale inglese .........................
975
DEL RE M.C., L’abuso rituale dei minori: una forma estrema di aggressione all’integrità psichica ........................................................................................
222
DI FEDERICO G., L’indipendenza del pubblico ministero e il principio democratico della responsabilità in Italia: l’analisi di un caso deviante in prospettiva comparata .....................................................................................................
230
MADEO A., La tutela penale del mare contro l’inquinamento nell’ordinamento inglese ..............................................................................................................
596
ROMEO-CASABONA C.M., I reati relativi alle manipolazioni genetiche nel codice penale spagnolo del 1995 .............................................................................
204
SACERDOTI G., La convenzione OCSE del 1997 sulla lotta contro la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali
1349
VERVAELE J.A.E., Il sequestro e la confisca in seguito a fatti punibili nell’ordinamento degli Stati Uniti d’America ................................................................
954
ZHONGLIN C., Una svolta storica nel diritto penale cinese: l’introduzione di un nuovo codice .................................................................................................
584
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Beiträge und Materialien aus dem Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht, Freiburg i.Br, 1996-1997 (D.F.) ...........................
1010
GELARDI M., Il dolo specifico, Cedam, Padova, 1996, pp. X-349 (I.G.) .............
272
The International Criminal Court: Observations and Issues before the 1997-98 Preparatory Committee; and Administrative and Financial Implications, Joint Project of: International Association of Penal Law - International Human Rights Law Institute, DePaul University — International Institute of Higher Studies in Criminal Sciences - International Law Association, American Branch, Committee on ICC. Erès, Toulouse, 1997, pp. V-290 (L.C.) .
274
Revista Penal, fasc. n. 1, luglio 1997 (C.B.) .......................................................
277
GIURISPRUDENZA Appropriazione indebita — Utilizzo extrabilancio di fondi sociali - Non costituisce di per sé appropriazione indebita - Onere della prova su effettiva destinazione - Sussistenza (C.p. art. 646) (con nota di C.P.) ...........................................................................
301
— Fondi extrabilancio - Destinazione al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali - Appropriazione indebita - Insussistenza (C.p. art. 646) (con nota di C.P.) ...................................................................................................
301
— VI — Dibattimento — Istruzione dibattimentale - Esame delle parti - Contestazioni - Lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare - Allegazione di atti al fascicolo per il dibattimento (C.p.p. artt. 503, 513, 515) (con nota di P. FELICIONI) .............................................
290
Diffamazione — Dichiarazioni offensive pronunciate da un parlamentare durante una campagna elettorale — Prerogativa costituzionale della insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni — Attività politica extraparlamentare esplicata all’interno dei partiti — Esclusione (Cost. art. 68; c.p. art. 595) (con nota di M.E. MELE) ........................................................................................
1038
Dolo — Nozione - Necessaria sussistenza della volontà dell’evento - Rifiuto di cure Obbligo del medico di intervenire coattivamente - Divieto di trattamenti sanitari obbligatori extra legem - Omicidio mediante omissione - Configurabilità Esclusione (Cost. art. 32; c.p. art. 40 ult. co.; c.p. artt. 575 e 589) (con nota di A. VALLINI) .................................................................................................
1422
Edilizia e urbanistica — Contravvenzioni — Costruzione abusiva - Assenza di concessione - Comproprietario dell’area — Condizioni e limiti - Estraneità alla realizzazione e commissione dell’opera - Esclusione (con nota di G. MORGANTE) ....................... False comunicazioni sociali — Riserva occulta - False comunicazioni sociali - Sussistenza - Condizioni (C.c. art. 2621, n. 1) (con nota di C.P.) ................................................................ — Falso in bilancio - Inesigibilità dell’autodenuncia - Insussistenza dell’esimente (C.c. art. 2621, n. 1) (con nota di C.P.) .......................................................
279
301 301
Giudice penale — Processo a carico d’imputati minorenni — Giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine ad una misura cautelare nei confronti dell’imputato — Successiva partecipazione all’udienza preliminare — Incompatibilità — Omessa previsione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24, 25, 27, 101; c.p.p., art. 34) (con nota di V. PATANÉ) ................................................
1023
— Processo a carico d’imputati minorenni — Giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta del p.m. di declaratoria di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto — Successiva partecipazione all’udienza preliminare — Incompatibilità — Omessa previsione — Infondatezza (Cost., artt. 3, 24, 25, 101; c.p.p., art. 34) (con nota di V. PATANÉ) ...................................
1023
Illecito finanziamento dei partiti — Momento consumativo - Depenalizzazione per effetto della l. n. 515 del 1993 - Esclusione (l. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7) (con nota di C.P.) ...............
301
Inquinamento idrico — Scarico occasionale di gasolio - Impossibilità della previa autorizzazione - Irrilevanza - Sussistenza del reato (Legge 10 maggio 1976 n. 319, art. 21, primo comma) (con nota di G. MAZZINI) ................................................................. Misure cautelari personali — Deposito dell’ordinanza cautelare e degli atti del p.m. — Difensore — Diritto di estrarre copia — Omessa previsione — Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3, 24; c.p.p. art. 293, comma 3o) (con nota di A. GIARDA) .................. — Estinzione - Termini di durata massima della custodia cautelare - Condanna
1404
1015
— VII — per più reati in continuazione - Persistente efficacia della custodia cautelare solo per alcuni di detti reati - Nozione di pena inflitta e di condanna ai fini degli artt. 300, comma 4 e 303, comma 1, lett. c) c.p.p. - Riferimento ai singoli reati e non all’intero reato continuato (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 278, 300, comma 4, 303) (con nota di E.M. AMBROSETTI) ............................................ — Estinzione - Termini di durata massima della custodia cautelare - Condanna per più reati in continuazione - Omessa specificazione del giudice - Determinazione incidentale da parte del giudice della misura cautelare - Necessità Possibilità di determinazione da parte della Cassazione - Casi - Fattispecie (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 300, 303, 310, 311, 620) (con nota di E.M. AMBROSETTI) ...............................................................................................................
673
673
Omicidio — Dolo - Nozione - Necessaria sussistenza della volontà dell’evento - Rifiuto di cure - Obbligo del mercato di intervenire coattivamente - Divieto di trattamenti sanitari obbligatori extra legem - Omicidio mediante omissione - Configurabilità - Esclusione (Cost. artt. 32; c.p. art. 40 ult. co; c.p. artt. 575 e 589) (con nota di A. VALLINI) .......................................................................
1422
Procedimenti speciali — Applicazione della pena su richiesta delle parti - Prescrizione del reato quale conseguenza dell’accordo sulla comparazione delle circostanze attenuanti e aggravanti - Possibilità per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato a norma dell’art. 129 c.p.p. - Esclusione (C.p.p. artt. 129, 444) (con nota di G. LOZZI) .............................................................................................................
1377
— Applicazione della pena su richiesta delle parti - Sentenza applicativa della pena richiesta - Assoggettabilità a revisione - Esclusione (C.p.p. artt. 444, 630) (con nota di G. LOZZI) ..........................................................................
1378
Reato continuato — Misure cautelari personali - Estinzione - Termini di durata massima della custodia cautelare - Condanna per più reati in continuazione - Persistente efficacia della custodia cautelare solo per alcuni di detti reati - Nozione di pena inflitta e di condanna ai fini degli artt. 300, comma 4 e 303, comma 1, lett. c) c.p.p. - Riferimento ai singoli reati e non all’intero reato continuato (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 278, 300, comma 4, 303) (con nota di E.M. AMBROSETTI) ... — Misure cautelari personali - Estinzione - Termini di durata massima della custodia cautelare - Condanna per più reati in continuazione - Omessa specificazione del giudice - Determinazione incidentale da parte del giudice della misura cautelare - Necessità - Possibilità di determinazione da parte della Cassazione - Casi - Fattispecie (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 300, 303, 310, 311, 620) (con nota di E.M. AMBROSETTI) ......................................................................
673
673
Udienza preliminare — Restituzione degli atti al P.M. per la modifica dell’imputazione in senso più favorevole all’imputato - Autonomia del provvedimento (C.p.p. artt. 178 e 423) (con nota di B. PIATTOLI) ...................................................................... — Contestazione di circostanza aggravante - Insussistenza - Trasmissione degli atti al P.M. per l’esclusione di circostanza contestata - Legittimità (C.p.p. artt. 423 e 521, comma 2) (con nota di B. PIATTOLI) ...........................................
644
644
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. PISANI) — Un’inutile trasferta a Londra di un giudice dibattimentale ............................
693
— VIII — — Svizzera-Kazakistan: un’estradizione pluricondizionata ................................. — Svizzera-Italia: in tema di estensione dell’estradizione .................................. — L’attività internazionale del Ministero della Giustizia nel 1997 .................... — Italia-Tunisia: ancora sul caso Craxi .............................................................. — Assistenza giudiziaria e principio di specialità: la posizione elvetica ............ — Italia-Svizzera. In tema di: doppia punibilità e illecito finanziamento dei partiti; principio di specialità e procedimenti di natura fiscale .......................... — Italia-Svizzera. In tema di: doppia punibilità e illecito finanziamento dei partiti; principio di specialità e procedimenti di natura fiscale (Postilla) .......... — Svizzera-Federazione russa: cooperazione internazionale e diritti dell’uomo . — Islamismo iraniano e cooperazione internazionale ........................................ — La Slovenia e la Convenzione europea di assistenza giudiziaria ................... — Il Belgio e la disciplina dell’estradizione ........................................................ — ‘‘Controle judiciairie’’ e paradisi fiscali .......................................................... — Sulla motivazione delle richieste di estradizione ............................................ — Riparazione della detenzione ingiusta nei procedimenti di estradizione ........ — Richieste di cooperazione senza risposta ........................................................ — Il controllo sulla regolarità degli atti compiuti a seguito di rogatoria ........... — Svizzera: il formulario in tema di « riserva della specialità » ......................... — Alle autorità dello Stato richiedente ............................................................... — Riserva della specialità ................................................................................... — Italia-Svizzera: negoziati in tema di assistenza giudiziaria ............................ — La rinuncia alla « specialità » dell’estradizione nei rapporti Italia-Stati Uniti d’America ........................................................................................................ — Italia-USA: sviluppi recenti del caso Baraldini ............................................... — Affare Lockerbie: l’intimazione della « consegna » .........................................
698 700 1051 1052 1054 1055 1055 1059 1060 1061 1061 1061 1437 1438 1438 1438 1440 1440 1440 1441 1441 1443 1444
DOTTRINA
L’EUROPEIZZAZIONE DEL DIRITTO PENALE (*) (**)
I. Introduzione. — Il diritto penale segue con naturale ritardo il fenomeno di europeizzazione già conosciuto da altri rami del diritto, nei quali viene prospettato un adattamento di regola previsto esplicitamente nei trattati di diritto internazionale e da compiersi attraverso le competenze istituzionali delle Comunità europee. Fino a Maastricht tale fenomeno non si riscontrava nel diritto penale. L’analisi della europeizzazione di tale branca del diritto da un lato risulta quindi più semplice, ma dall’altro, per offrire un adeguato quadro della sua situazione, deve oltrepassare gli approcci istituzionali e pattizi internazionali. Le prospettive future, così come le opinioni da me sollecitate sul punto, appaiono più rosee, benché sicuramente ricche di incertezze concernenti le linee di tendenza della politica del diritto. Il sistema penale è infatti, più di altre materie giuridiche, espressione della sovranità nazionale, la cui rinuncia anche solo parziale è sempre accettata malvolentieri. Inoltre, il diritto penale è, almeno in larga parte, diritto politico (1), e presenta un legame particolarmente forte non solo con la tradizione e con la coscienza dei valori, ma anche con emozioni e paure primarie. Senza voler prendere in considerazione altri settori del diritto, il sistema penale è in minima parte tecnica giuridica e solo in modesta misura può essere considerato per i suoi risvolti economici. Con un’immagine utilizzata di frequente, il diritto penale, e soprattutto la sua parte speciale, può essere concepito come lo specchio in negativo dei valori e dei principi di una data società (2). Certamente, questi valori hanno profonde radici comuni e presentano almeno parzialmente contenuti conformi; ma resta il fatto che essi vengono intesi (*) Relazione tenuta il 5 luglio 1996 all’Università di Wurzburg in occasione del convegno « Wurzburger Europarechtstage ». In considerazione della natura di relazione del presente scritto, le note sono state ridotte al minimo. La relazione si iscrive in un progetto di ricerca per l’armonizzazione del diritto in Europa nell’ambito del Premio per la ricerca « Max Planck » 1995. (**) Traduzione italiana a cura di Anna Valentina Bernardi, rivista dall’Autore. (1) Sul punto, cfr. già TIEDEMANN, Strafrechtspolitik und Dogmatik in den Entwürfen zu einem Dritten Strafrechtsreformgesetz, Bonn, 1970. (2) Cfr., da ultimo, TIEDEMANN, Das neue Strafgesetzbuch Spaniens und die europäische Kodificationsidee, in JZ, 1996, 647 ss.
— 4 — secondo punti di vista e accezioni così diverse, che persino l’individuazione del loro minimo comune denominatore appare quanto mai difficile. Le differenze fondamentali nella configurazione della fattispecie « truffa », le controversie a carattere politico-criminale circa l’inclusione dei soggetti più sprovveduti all’interno del suo ambito di tutela e i suoi mutevoli rapporti con le fattispecie limitrofe e rispetto ad essa speciali (quali ad esempio il reato di falso in atti e quello di evasione fiscale) sono solo un primo esempio di questa diversità, che emerge già nell’ambito della tutela del patrimonio e della certezza nei traffici giuridici. Anche la procedura penale presenta, in molti ordinamenti giuridici di Stati membri dell’Unione Europea, peculiarità dovute alle proprie tradizioni; peculiarità che spiegano, ad esempio, le titubanze nel limitare i poteri del giudice istruttore in Francia nonostante che tale figura sia stata completamente abolita in altri Paesi. Un ulteriore esempio della specificità delle procedure penali nazionali è offerto dalla comparsa assai tardiva del pubblico ministero in Inghilterra, unitamente ad una pienezza di poteri della polizia che può sorprendere l’osservatore esterno. Infine, per quanto concerne l’Italia, si pensi al fallimento del procedimento penale di recente, all’eccezionale fenomeno socio-culturale del pentitismo e al varo di una molteplicità di fattispecie penali costruite sul modello del reato di associazione mafiosa (3). Quanto sin qui detto ha comunque bisogno di dimostrazioni più concrete e di ulteriori esempi. Prendendo innanzitutto in esame l’influsso istituzionale modesto, anzi estremamente modesto, esercitato dalla Comunità sul diritto penale nazionale nella sua odierna configurazione, risulta evidente che nel codice penale tedesco solo il reato di riciclaggio di denaro (§ 261 StGB) discende in modo immediato da una direttiva comunitaria (nel caso di specie la direttiva del 10 giugno 1991: « sulla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite ») (4). Ma gli effetti vincolanti di tale direttiva sono in larga misura superati da quelli prodotti dalla Convenzione delle Nazioni Unite di Vienna del 20 dicembre 1988 in materia di traffico illecito di sostanze psicotrope e stupefacenti. Infatti, solo in base all’accordo di Vienna gli Stati firmatari risultano impegnati ad introdurre specifiche figure di illecito penale e ad attribuire loro natura di reati, mentre la direttiva sul riciclaggio del Consiglio contiene solamente l’obbligo per gli Stati membri di « sanzionare » i fatti di riciclaggio e quindi fa salva, a seguito delle controversie insorte al momento della sua elaborazione, la sovranità nazionale in materia penale dei singoli Stati; potestà che, secondo la dottrina dominante (e (3) Per una sintesi comparativa della trasformazione delle regole e degli istituti processualpenalistici, cfr. TIEDEMANN, Rapport General, in Rev. int. dr. pén., 1993, 813 ss. (4) G.U.C.E. n. L. 166/77 del 18 giugno 1991.
— 5 — nonostante il parere del Parlamento Europeo), non è stata trasferita neppure in parte alla Comunità e che quindi può venire condizionata dalle direttive comunitarie solo, secondo l’opinione oggi dominante, in merito al fatto tipico o al divieto, con esclusione comunque della scelta sanzionatoria (5). Al di fuori del codice penale, nel cosiddetto diritto penale complementare, la situazione non è diversa, dato che anche qui, nonostante la più completa accessorietà del diritto penale rispetto alla materia extrapenale, la sanzione criminale non viene concepita come semplice corollario della potestà disciplinare di altri rami del diritto. Nel diritto complementare tedesco, con il suo informe disordine dovuto all’esistenza di circa 1000 testi normativi a carattere penale, solo il reato di insider trading previsto dal § 38 del Wertpapierhandelsgesetz può essere considerato un illecito penale modellato sui principi comunitari. Infatti tale norma, entrata in vigore il 1o agosto 1994, si fonda sulle direttive CEE del 12 dicembre 1988 (relativa ad informazioni da pubblicare al momento dell’acquisto e della cessione di una partecipazione importante in una società quotata in borsa), del 13 novembre 1989 (sul coordinamento delle normative concernenti le operazioni effettuate da persone in possesso di informazioni privilegiate) e del 10 maggio 1993 (relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari) (6), che sono state attuate in modo più fedele al diritto comunitario di quanto non lo sia stata la direttiva sul riciclaggio. Tant’è che la conversione di quest’ultima direttiva ha dato esiti estremamente difformi: un caso particolarmente eclatante è quello offerto dalla Germania, dove appare macroscopica la divergenza tra quanto indicato dalla Comunità e la normativa nazionale di attuazione. Indubbiamente, la direttiva sul riciclaggio ha presentato sin dall’inizio molti punti interrogativi, primo fra tutti quello della stessa opportunità o necessità dell’armonizzazione di tale materia, secondo una tendenza internazionale di moda, sorta negli Stati Uniti, che vede proprio nella previsione del reato di riciclaggio la panacea per la lotta contro la criminalità organizzata. Oltre tutto, questa direttiva non accenna nemmeno ad armonizzare gli scopi di tutela perseguiti da ogni singolo Stato attraverso questa fattispecie penale: l’intervento statale sui beni patrimoniali da riciclare, dunque le norme nazionali sul sequestro, sulla confisca e comunque su ogni forma di incame(5) Cfr., sinteticamente, TIEDEMANN, Europäisches Gemeinschaftsrecht und Straftrecht, in NJW, 1993, 23 ss.; nonché nella letteratura spagnola FERRÀ OLIVÉ, in Estudios de derecho penal economico, a cura di Arroyo/Tiedemann, 1994, 275 (281 ss.); NIETO MARTÌN, Fraudes comunitarios, 1996, 356 ss.; più generoso nella letteratura italiana RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea, Padova, 1996. (6) G.U.C.E. l. n. 348/62 del 17 dicenbre 1988, l. n. 334/30 del 18 novembre 1989, l. n. 141/27 dell’11 giugno 1993.
— 6 — ramento dei beni in questione da parte dello Stato (7). Neppure le direttive concernenti l’insider trading, attuate in modo più soddisfacente, e le corrispondenti fattispecie penali nazionali costituiscono modelli da imitare, ma introducono — soprattutto per escludere la responsabilità civile — i presupposti di una tutela pretesa esclusivamente sovraindividuale, capovolgendo così il principio dell’extrema ratio della tutela penale, riconosciuto da tutti gli Stati membri (8). II. Tendenze e tesi in merito ad una armonizzazione europea del diritto penale. — Dopo questa premessa, non particolarmente benevola nei confronti del diritto europeo, è necessario tornare in modo più ampio e sistematico sui nostri passi per esaminare quelle tendenze che, pur essendo meno evidenti, ci consentiranno di formulare una previsione conclusiva. 1. Un commiato dal codice penale europeo? — Attualmente l’ipotesi di creare un codice penale europeo o anche, più semplicemente, un codice penale modello viene giudicata con sfavore. L’idea di un codice penale modello, la cui origine può rinvenirsi nel Model Penal Code statunitense e in alcuni lavori sudamericani aventi come obiettivo proprio la stesura di un codice sovrastatuale di riferimento, è stata più volte accolta favorevolmente (ad esempio dal Consiglio d’Europa già nel 1971) nel passato e un codice penale europeo è stato nuovamente invocato recentemente da singoli deputati della Commissione Giustizia del Bundestag tedesco e in seno al Parlamento europeo. Concordemente con le opinioni espresse da autori italiani, come quella del Presidente della Commissione per la riforma del codice penale Pagliaro, (9) anche Sieber, nella sua sintesi del simposio di fondazione della Vereinigung für Europäisches Strafrecht a Wurzburg nel 1992, sostiene la validità di un codice penale modello « per accelerare l’armonizzazione degli ordinamenti penali europei » (10). Considerando però il carattere prettamente politico del diritto penale, nonché la molteplicità dei valori culturali in esso coinvolti, cui si è già fatto riferimento (7) Cfr., per un sostegno in prospettiva comparativa, HÖRETH, Die Bekämpfung der Geldwäsche unter Berücksichtigung einschlägiger ausländischer Vorschriften und Erfahrungen, Diss., Tübingen, 1996. (8) Cfr., per tutti, TIEDEMANN, in StV, 1996, 699 ss.; sul punto, cfr. fondamentalmente OTTO, Der Mißbrauch von Insider-Informationen als abstraktes Gefährdungsdelikt, in Bausteine des europäischen Wirtschaftsstrafrechts, a cura di Schünemann/Suàrez Gonzalez, Köln-Berlin-Bonn-München, 1994, 447 ss. (9) Cfr. PAGLIARO, Grenzen der Strafrechtsvereinheitlichung in Europa, in Schünemann/Suarez, cit., 379 (385). (10) Cfr. SIEBER, in Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, a cura di Sieber, 1993, 159, e Entwicklungsstand und Perspektiven des europäischen Wirtschaftsstrafrechts, in Schünemann/Suarez, cit., 349 (365). Cfr., altresì, DANNECKER, Strafrecht der Europäischen Gemeinschaft, in Strafrechtsentwicklung in Europa, a cura di Eser/Huber, Freiburg, 1993 ss.
— 7 — preliminarmente, tali richieste e sollecitazioni appaiono davvero poco realistiche; senza contare che ulteriori perplessità potrebbero sorgere sul piano della competenza istituzionale della comunità dal principio di sussidiarietà. Analoghe osservazioni valgono anche per la questione ulteriore, se sia cioè più facile l’armonizzazione della parte generale o della parte speciale del diritto penale. Indubbiamente, tale allontanamento dall’idea di un codice penale modello, che peraltro potrebbe venir redatto anche su iniziativa di privati, va visto sulla base della situazione attuale ed è probabilmente da intendersi come transitorio. Infatti, proprio i più recenti codici penale francese (1994), portoghese (1995) e spagnolo (1996), così come il progetto del codice penale italiano del 1992, presentano, se posti a confronto con il diritto tedesco ed austriaco, parallelismi ed analogie così sorprendenti che, nel lungo periodo, il progetto relativo all’elaborazione di singoli, eventualmente ampi, settori specifici di un codice penale modello non dovrebbe assolutamente venire abbandonato. Il dibattito sul punto deve però tener conto, in modo più risoluto di quanto sia avvenuto fino ad ora, della crisi dell’idea di una codificazione europea, le cui cause e i cui effetti sono inevitabilmente destinati a ripercuotersi anche sul sistema penale (11). Una denominazione quantomeno fuorviante hanno del resto i lavori delle Nazioni Unite relativi ad un « codice penale mondiale » (12), in quanto proprio essi rivelano la reale portata dell’iniziativa: non si tratta della « possibilità di un diritto mondiale » (Zitelmann, 1888), bensì della formulazione e della previsione delle principali fattispecie penali di diritto internazionale: vale a dire del genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. A tal fine, a partire dal 1995, una commissione sta redigendo lo statuto di un tribunale internazionale permanente, competente a giudicare questi reati, unitamente a regole di carattere processuale, tra cui alcune in materia di estradizione (13). Questo modello di codice, la cui realizzazione è tutt’altro che utopica, ed a cui si oppongono, astenendosi, soprattutto i paesi asiatici, pone in evidenza gli elementi da ritenersi fondamentali anche in prospettiva di un’armonizzazione a livello europeo; elementi che qui, per ragioni di tempo, possono essere esposti sinteticamente per tesi: (11) Sul punto TIEDEMANN, Das neue Strafgesetzbuch Spaniens und die europäische Kodificationsidee, cit, 647 ss. (12) REICHART, Die Bemühungen der Vereinten Nationen zur Schaffung eines « Weltstrafgesetzbuches », in ZRP, 1996, 134 ss. (13) Cfr., sul punto, BASSIOUNI, Recent United Nation Activities In Connection with the Establishment of a Permanent International Criminal Court and the Role of the Association internationale de droit pénal and the Instituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali, in Rev. int. dr. pén., 1996, 127 ss., Association Internationale de Droit Pénal (AIDP), Draft Statute for an International Criminal Court, 1995.
— 8 — 2. Le tesi su tipo, portata e fattori dell’armonizzazione penale. — Tesi a) Suscettibili di armonizzazione non sono tanto gli ordinamenti e i codici penali nel loro complesso, bensì piuttosto singoli settori di essi. Il processo di adattamento a livello nazionale può pertanto non rispettare la tradizionale distinzione tra parte generale e speciale, ed investire anche il sistema penale in senso lato, comprensivo quindi del diritto penale amministrativo e del diritto processuale. Sulle più recenti normative comunitarie che avallano questa tesi si avrà modo di tornare più ampiamente. Tesi b) Il processo di armonizzazione, di internazionalizzazione e quindi anche di europeizzazione del diritto penale consiste non tanto nell’elaborare regole più o meno fisse, quanto nello scegliere e nell’adottare determinati principi, e nel creare standard minimi di tutela, destinati ad incontrare consenso soprattutto se diretti a garantire i diritti fondamentali dell’uomo. Simili standard si rinvengono, ad esempio, nel progetto di Convenzione per la tutela penale dell’ambiente, progetto elaborato dal Consiglio d’Europa il 21 giugno 1995 (14) allo scopo di armonizzare gli ordinamenti penali nazionali in questo settore. Tesi c) La necessità e l’effetto di una armonizzazione degli ordinamenti penali nazionali, così come gli effetti che da tale processo di armonizzazione discendono, derivano solo in parte da previsioni normative (convenzioni, direttive, etc.), ma ancor più dall’esistenza di istituti processuali quali l’estradizione e l’assistenza legale, la cui effettività presuppone un diritto penale sostanziale già ampiamente adattato. A questo proposito è sufficiente ricordare le parole chiave « reciprocità » e « norma identica ». Tesi d) Oltre che dall’esistenza di apposite prescrizioni normative, l’armonizzazione penale deriva anche dalla costituzione di istituzioni internazionali, quali il Tribunale dell’Aia contro i crimini di guerra, che ha dovuto inevitabilmente elaborare — attraverso la sintesi di più ordinamenti giuridici — un unico ordinamento processuale capace di produrre, in caso di esito soddisfacente nella pratica, notevoli ripercussioni sugli ordinamenti nazionali. Al riguardo, basti l’esempio dell’art. 71 di tale ordinamento che permette, a determinate condizioni, l’escussione dei testi con mezzi audiovisivi. Se si riferiscono queste considerazioni al diritto penale europeo — che del resto costituisce l’oggetto della mia relazione — resta ancora da approfondire un aspetto che, mentre ha un rilievo modesto sul piano dell’armonizzazione a livello mondiale, riguarda in modo primario i fattori di europeizzazione degli ordinamenti penali. Mi riferisco allo scambio e al contatto internazionale tra operatori giuridici, che hanno assunto negli ul(14) Cfr. MÖHRENSCHLAGER, Vorhaben des Europarats zum Umweltstrafrecht, in Wistra, 1996, fasc. 1, p. IV ss.
— 9 — timi decenni una frequenza e un’intensità difficilmente immaginabili prima della nascita dei moderni mezzi di comunicazione e di trasporto. Un importante contributo è stato inoltre apportato dalla creazione di istituzioni finalizzate al sostegno di tali attività. In tal modo si è notevolmente estesa la conoscenza degli ordinamenti giuridici stranieri e, parallelamente, si è formato tra gli operatori un accordo di fondo su talune importanti problematiche penalistiche, concernenti anche la politica criminale, gli aspetti sanzionatori, la procedura e l’esecuzione penale. I risultati così raggiunti sono stati formalizzati in risoluzioni adottate nell’ambito di congressi internazionali (come ad esempio quelli promossi dall’Associazione Internazionale del Diritto Penale AIDP) ed hanno suscitato ampi consensi attorno alle possibili soluzioni dei problemi comuni. Il processo di armonizzazione in atto, relativamente alle tematiche di parte speciale, è dimostrato dai già citati nuovi codici penali; codici nei quali è riconoscibile, a livello europeo, la comune tendenza alla depenalizzazione di vasti settori del diritto penale classico e alla corrispondente criminalizzazione di condotte avvertite dalla società moderna come particolarmente offensive (reati economici e ambientali, manipolazioni del patrimonio genetico umano, etc.); oltretutto, tale tendenza diverge da uno Stato all’altro solo nelle sfumature. Per ciò che concerne i profili sanzionatori, gli ordinamenti penali europei aderiscono oggi ad una vasta corrente internazionale di riforma, i cui cardini possono individuarsi, sostanzialmente, nell’abolizione o limitazione della pena detentiva breve e nell’introduzione di misure alternative da eseguirsi nel fine settimana; nel lavoro socialmente utile e soprattutto nell’adozione della pena pecuniaria calcolata secondo il sistema scandinavo dei tassi giornalieri; nell’abbandono delle tradizionali pene infamanti, unitamente ad una valorizzazione delle interdizioni professionali nei casi più gravi di abuso professionale e commerciale, in particolare nel diritto penale economico; nella nuova configurazione delle sanzioni contro le persone giuridiche e le altre associazioni di persone. Oltretutto, la tesi della possibile convergenza degli ordinamenti penali europei è sostenibile anche in relazione alla dogmatica della parte generale. Ne è un esempio la teoria dell’errore — che contrariamente a quanto afferma Weigend nella sua pur meritoria disamina (15) — giunge a soluzioni sostanzialmente identiche in Germania, Inghilterra, Francia e Spagna (16). Tale convergenza si riscontra anche in tema di errore di diritto, permettendo di formulare regole comuni per la trattazione di questo delicato argomento; argomento, questo, tradizionalmente risolto in modo (15) WEIGEND, Strafrecht durch internationale Vereinbarungen-Verlust an nationaler Strafrechtskultur?, in ZStW, 1993, 774 (783 ss.). (16) Cfr. TIEDEMANN, in Geerds-Festschrift, 1995, 95 ss.; ID., Sullo stato della teoria dell’errore con particolare riferimento al diritto penale dell’economia e alle leggi speciali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 71 ss. (88 ss.).
— 10 — opposto a seconda del modello di Stato autoritario o liberale. Analoghi rilievi valgono anche per le principali cause di giustificazione quali espressione di situazioni di conflitto e di emergenza, nonché per il concorso di persone nel reato con i suoi diversi modelli di responsabilità differenziata o unitaria. Allo stato, su incarico della Commissione della Comunità europea, abbiamo elaborato, assieme a colleghi stranieri, studi comuni su importanti questioni di parte generale (17), anche se con specifico riferimento a settori di parte speciale di competenza della Comunità stessa (cfr. tesi A)). Nel medio o lungo periodo questo allineamento sui topoi della disciplina può portare di nuovo ad un’ampia astrazione della parte generale. Come stadio intermedio e sperimentale, costituisce un passo avanti il collaudo di regole generali applicate ad un settore particolare di disciplina, da noi richiesto da tempo per la dogmatica del diritto penale tedesco (18). Anche da questo punto di vista teorico, non pare costituire uno svantaggio il fatto che la Commissione abbia una competenza istituzionale limitata, che le consente di emanare solo nell’ambito del diritto penale amministrativo le norme circa le sanzioni da essa stessa applicabili. Sul punto, la Corte di giustizia ha sviluppato principi così condivisibili, che resta incomprensibile il motivo per cui Grasso chiede che si eviti « a ogni costo » che la Corte stessa partecipi all’elaborazione di una futura parte generale del diritto penale (19). Con ciò non si contesta che la dogmatica della parte generale costituisca in larga misura un patrimonio comune europeo, valido quindi anche indipendentemente dalle iniziative promosse a livello comunitario. Che essa appaia pertanto facilmente armonizzabile (20), o possa considerarsi addirittura già armonizzata, lo dimostra ampiamente la scelta del tema della Strafrechtslehrertagung del 1997 a Berlino e della Gesellschaft für Rechtsvergleichung con la sua conferenza penale a Graz nel 1997. Prima di approfondire gli sviluppi cui si è fatto cenno, riteniamo opportuno evidenziare ancora una volta, tra i fattori che concorrono ad armonizzare il diritto penale in Europa, il ruolo svolto dal Consiglio d’Europa, le cui convenzioni e raccomandazioni vertono sia su importanti questioni della parte generale e speciale dei diritto penale, sia sulla prassi processualpenalistica internazionale (l’attenzione è rivolta principalmente agli (17) Cfr. BACIGALUPO-GRASSO-TIEDEMANN, Vorschlag einer EG-Verordnung über Grundsätze für die Anwendung Gemeinschaftsrechtlicher Sanktionen, in Schünemann/Suarez, cit. 465 ss. (18) TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, Tübingen 1969. (19) GRASSO, Le prospettive di formazione di un diritto penale dell’Unione Europea, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 1159 (1188). (20) In questo senso BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in Annali dell’Università di Ferrara. Sez. V - Scienze Giuridiche, Saggi III, 1996, 53; FRISCH, in Sieber, cit., 149 (150); VOGEL, Wege zur europäisch-einheitlichen Regelungen im Allgemeine Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, 331 (333 ss.).
— 11 — istituti dell’estradizione e dell’assistenza legale, ma anche al trasferimento dell’attività repressiva e di esecuzione della sentenza, nonché alla sorveglianza di condannati in libertà condizionata) (21). Tra le problematiche trattate in tempi recenti, si possono ricordare, a titolo d’esempio, unitamente al progetto già menzionato in tema di diritto penale ambientale, le raccomandazioni sulla criminalità informatica ed economica e quella circa le sanzioni contro le persone giuridiche. Tali raccomandazioni vengono giustamente percepite, al pari delle risoluzioni adottate nell’ambito dei congressi internazionali di diritto penale, quali espressione della comune convinzione circa l’esistenza di una vera e propria nazione culturale europea; tanto è vero che questi atti, che vengono elaborati da organi formati da esperti, sono spesso adottati all’unanimità, nonostante espresse riserve formulate dai singoli Stati su singole questioni. Nella prassi della politica criminale degli Stati membri, poi, non tutte le raccomandazioni del Consiglio d’Europa vengono prontamente recepite, così come non ogni convenzione di tale istituzione viene effettivamente ratificata. Tutto ciò, però, non compromette la spinta vigorosa verso l’armonizzazione, nonostante quest’ultima di regola non si esprima in atti giuridicamente vincolanti. Comunque, già lo Statuto del Consiglio Europeo del 5 maggio 1949 annovera espressamente tra le proprie finalità l’allineamento degli ordinamenti penali nazionali. L’attività delle Corti costituzionali nazionali e della Corte europea dei diritti dell’uomo, sebbene tenuta in minor considerazione da parte dei penalisti, è dotata di un’efficacia obbligatoria certo diseguale ma in numerosi Stati caratterizzata dalla massima vincolatività. Comprensibilmente, il giudizio di costituzionalità solo di rado ha ad oggetto la disciplina legislativa in materia di diritto e procedura penale (ciò è accaduto, ad esempio, per la normativa sull’aborto, su cui si sono pronunciate molte Corti costituzionali nazionali (22)), mentre normalmente ha ad oggetto la decisione del singolo caso concreto, il che comunque produce effetti di notevole rilievo sul sistema penale (23). L’attività degli organi di Strasburgo si fonda notoriamente sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, spesso indicata come « Costituzione Europea », la quale conferma la nostra tesi B) sugli standard, da intendersi come principi minimi operanti soprattutto in ambito processuale penale, ma aventi importanti ripercussioni anche nel diritto penale sostan(21) Cfr. VOGLER, Die strafrechtlichen Konventionen des Europarats, in Jura, 1992, 586 ss. (22) Cfr., sinteticamente, ARROYO ZAPATERO, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad Complutense de Madrid, 1981, 195 ss. (23) Sulla giurisprudenza del Tribunale Costituzionale Tedesco, cfr. TIEDEMANN, Verfassungsrecht und Strafrecht, Heidelberg, 1991, con riferimenti e considerazioni a carattere comparatistico.
— 12 — ziale. In questo senso DELMAS-MARTY, nel sottotitolo del suo noto lavoro Le flou du droit (1986), parla proprio di un movimento du code pénal aux droits de l’homme (dal codice penale ai diritti dell’uomo). La copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo attua le garanzie minime offerte dalla Convenzione, fino a renderle, non di rado, il più concrete possibile in presenza di determinate circostanze. A titolo di esempio è sufficiente citare, in ambito processuale, il problema della validità della prova ottenuta grazie alla collaborazione di agenti infiltrati, nei confronti dei quali recentemente la Corte di Strasburgo impone dei vincoli. Non appena un caso analogo a quello deciso a Strasburgo verrà sottoposto al Tribunale federale tedesco, è probabile che anche la prassi sinora invalsa in Germania venga messa in discussione, e probabilmente modificata (24). Inoltre, importanti Corti costituzionali nazionali, come quelle tedesca, italiana, francese e spagnola, hanno sviluppato, in conformità con i criteri espressi dalla Corte europea, una giurisprudenza non improntata sulla volontà di armonizzazione, ma comunque sorprendentemente omogenea per ciò che attiene all’interpretazione dei principi fondamentali del diritto e della procedura penale. Esse, soprattutto, hanno esteso ad ambiti affini a quello penale l’applicabilità di fondamentali garanzie penalistiche come i principi di legalità e colpevolezza, la presunzione di non colpevolezza e il diritto alla difesa. Particolarmente rilevante è il fatto che il già citato diritto penale amministrativo viene, per questa via, ad essere sempre più accostato al sistema penale, perdendo così, almeno parzialmente, la sua tradizionale separatezza, ma al contempo anche la sua negoziabilità. In conclusione, il diritto penale amministrativo è destinato a divenire un’efficace alternativa sanzionatoria nell’ambito della politica sociale e criminale dello Stato di diritto; soprattutto se ad esso viene affiancata l’istituzione di autorità amministrative indipendenti con potere quasi giurisdizionale, quali in Germania il Bundeskartellamt o l’istituendo Wertpapieraufsichtsamt. L’efficacia vincolante del diritto costituzionale applicato dalle Corti nazionali si dimostra quindi un inatteso, e perciò tanto più notevole, fattore di armonizzazione, soprattutto rispetto ai principi della parte generale del diritto penale. Le Corti costituzionali, nonostante si astengano dall’affrontare direttamente le singole questioni della dogmatica penale, prendono comunque posizione in modo molto puntuale sui problemi fon(24) Cfr. ROXIN-ARZT-TIEDEMANN, Einführung in das Strafrecht und Strafprozessrecht, 3. ediz., Heidelberg, 1994, 130, con argomenti a sostegno. In generale sugli effetti della Convenzione dei diritti dell’uomo sul diritto e sulla procedura penale tedeschi, si veda KUHL, Der Einfluß der Europäischen Menschenrechtskonvention auf das Strafrecht und Strafverfahrensrecht der Bundesrepublik Deutschland (Teil 1), in ZStW 100 (1988), 406 ss. e 601 ss.; sull’importanza dei suoi principi per l’armonizzazione penale europea, cfr. DELMAS-MARTY, Pour un droit commun, 1994, in particolare 244 ss.
— 13 — damentali (vedi supra, tesi B)) che si pongono al limite tra la politica criminale e la configurazione del sistema penale (25) A titolo di esempio ricordiamo la recente pronuncia della Corte costituzionale italiana, che, contrariamente a quanto espressamente disposto dal codice penale, riconosce la scusabilità dell’errore inevitabile sul precetto (26), nonché il ruolo svolto a livello costituzionale dal principio di proporzionalità. Tale principio, che pone un limite sia alla politica criminale sia alla legislazione processualpenalistica, è da tempo riconosciuto dal diritto tedesco, spagnolo e italiano, mentre solo di recente è stato « scoperto » dalla giurisprudenza costituzionale francese, con effetti sul diritto penale e sulla politica criminale (27). 3. In particolare sul diritto penale amministrativo. — Un ruolo non difforme nel risultato, ma decisamente più pregnante nell’azione armonizzatrice, spetta alla Corte di giustizia della Comunità europea di Lussemburgo. La sua giurisprudenza non solo riconosce generali diritti di libertà, oltre al principio di proporzionalità, ma — per ciò che concerne le sanzioni amministrative irrogate dalla Commissione in settori quali quello agrario e della pesca, carbosiderurgico, dei cartelli economici, del traffico e in molti altri campi — ha elaborato una sorta di parte generale completa del diritto penale amministrativo. Quest’ultima, da noi già in precedenza definita eccellente, aderisce ad una generale tendenza, che emerge nel dibattito sull’armonizzazione, alla semplificazione della parte generale (28). Sempre con riferimento alla suddetta parte generale del diritto penale amministrativo, essa può venir considerata un autonomo distillato dei più importanti ordinamenti giuridici degli Stati membri, tanto più che trova un riscontro codificato nelle leggi tedesche, italiane e portoghesi sulla depenalizzazione, tra loro molto affini. La competenza sanzionatoria attribuita alla Comunità europea in questo settore quasi penale, detto infatti « punitivo » (29), favorisce la formazione di regole che, a seguito delle decisioni della Corte di giustizia, tanto pragmatiche quanto legate al caso (25) Cfr. TIEDEMANN, Verfassungsrecht, cit., 6. (26) Corte costituzionale 24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, 686 ss. con nota di PULITANÒ. (27) DELMAS-MARTY e TEITGEN-COLLY, Punir sans juger?, Paris, 1992. (28) Cfr., a sostegno, TIEDEMANN, Der Allgemeine Teil des europäischen supranationalen Strafrechts, in Jescheck-Festschrift, 1985, 1411 (1436 ss.), e in Geerds-Festschrift, 110; come pure BERNARDI, op. cit., 57 ss. e 141 ss.; VOGEL, op. cit., 338. (29) Cfr. HEITZER, Punitive Sanktionen im Europäischen Gemeinschaftsrecht, 1997; PRIEBE, in Sanktionen als Mittel zur Durchsetzung des Gemeinschaftsrechts, a cura di van Gerven/Zuleeg, 1996, 55 (56); TIEDEMANN, in The system of administrative and penal sanctions in the Member States of the European Communities, a cura della Commissione europea, vol. II, 1994, p. 11 ss.; TSOLKA, Der Allgemeine Teil des europäischen supranationalen Strafrechts i.w.S., Frankfurt a. M., 1995, 35 ss.; VOGEL, in Die Bekämpfung des Subventionsbetrugs im EG-Bereich, a cura di Dannecker, 1993, 170 ss.
— 14 — singolo, assumono il carattere di principi (cfr. tesi B)), precisi nel loro nucleo, ma piuttosto vaghi nei loro confini, e forse proprio per questo in grado di ottenere consensi e di essere armonizzati: nullum crimen sine lege (con il perenne problema del common law inglese); la retroattività della legge più favorevole (in quanto non esclusa espressamente dal legislatore); nulla poena sine culpa (con notevoli limitazioni in quegli Stati membri che riconoscono anche la « strict liability » e la « faute matérielle »); le scriminanti dello stato di necessità e della legittima difesa (ma senza la distinzione tedesca tra lo stato di necessità con efficacia scriminante e quello con efficacia scusante); la necessità, per lo Stato di diritto, della prescrizione (che però nel Regno Unito è stata introdotta solo di recente e che rimane comunque inapplicabile alle « more serious offences »); la rilevanza dell’errore, soprattutto dell’errore di diritto o sul precetto ( se inevitabile, come nel caso in cui sia determinato da informazioni incomplete provenienti da fonti competenti); la posizione di garanzia per l’impresa dominante (nell’ambito della cosiddetta unità d’imprese). Alcune questioni giuridiche, che in precedenza non erano state chiarite dalle pronunce della Corte di giustizia in tema di sanzioni amministrative comunitarie, sono state ormai espressamente disciplinate nel regolamento della CE del 18 dicembre 1995 (30). Si tratta di questioni attinenti alla previsione di comportamenti elusivi (attraverso una clausola amministrativa con effetti sulle norme sanzionatorie), alla teoria della partecipazione delittuosa (nel senso della pari responsabilità dei concorrenti), alla punibilità delle persone giuridiche (in ogni caso per mezzo di sanzioni amministrative punitive), alla prescrizione (con un termine di quattro anni) e al principio del ne bis in idem (nel senso della possibilità di calcolare la pena tenendo conto del principio di proporzionalità). L’intento costantemente perseguito dalla Commissione, di redigere un mini-codice contenente principi di diritto sostanziale e processuale da applicarsi alle sanzioni amministrative non è stato ulteriormente perseguito a causa della pressione politica degli Stati membri. Questo progetto è stato però nuovamente presentato nel 1996 — su incarico del Parlamento europeo — da parte della XX Direzione Generale della Commissione (controllo del bilancio) e mira alla creazione di un Corpus iuris penale costituito non solo da una parte speciale che prevede una decina di reati volti soprattutto alla tutela degli interessi finanziari della Comunità, ma anche dalla relativa parte generale, accompagnata da norme processuali molto dettagliate. Questo mini-codice è un’evidente dimostrazione di quella armonizzazione settoriale, di cui supra alla tesi A). L’assimilazione di principi penalistici e parapenalistici nel campo delle sanzioni amministrative comunitarie si verifica in un settore giuri(30)
G.U.C.E. l. n. 312/1 del 23 dicembre 1995.
— 15 — dico forse addirittura estraneo al diritto penale criminale. Nel breve periodo, questa evoluzione può produrre effetti armonizzanti negli Stati membri solo in quanto essi stessi autonomamente applichino, ad esempio in ambito agrario, sanzioni di diritto comunitario (si pensi ad esempio al blocco delle sovvenzioni) secondo le norme giuridiche elaborate a livello europeo. Nel medio periodo, invece, il prototipo di diritto comunitario può svolgere soprattutto la funzione di modello per quegli Stati in cui fino ad ora sono mancate leggi di depenalizzazione oppure in cui la loro operatività è circoscritta alle ipotesi che prevedono sanzioni pecuniarie, come ad esempio accade in Germania. Al confronto, l’europeizzazione e l’armonizzazione nel campo proprio del diritto penale criminale nazionale è più diretta ma meno evidente, tanto più che il citato progetto di un Corpus iuris non risulta a tutt’oggi pubblicato. Pertanto, la trattazione di questo processo di armonizzazione attiene già alle prospettive future. Al presente appartiene invece la constatazione che fino alla sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 1989 (31) sul cosiddetto « scandalo greco del mais » (che era uno scandalo greco relativo a mais di provenienza jugoslava e che quindi può poi essere a ragione definito uno scandalo greco!), l’influsso armonizzante del diritto comunitario sul diritto penale nazionale si caratterizza, in realtà, per i suoi effetti « in negativo »: il principio di proporzionalità, infatti, così come altri diritti di libertà garantiti dal diritto comunitario, sono stati utilizzati dalla Corte di giustizia, a seguito di ricorso dei tribunali penali degli Stati membri, per riconoscere singole previsioni sanzionatorie nazionali come lesive del principio di proporzionalità perché troppo severe, e per ritenere inapplicabili taluni divieti nazionali perché, ad esempio, in contrasto con il principio di libera circolazione. 4. Assimilazione e armonizzazione del diritto penale nazionale. — Un ulteriore esempio di questo tipo di intervento, ormai di uso corrente, della Corte di giustizia, è dato dalla sentenza del 29 febbraio 1996 (Rs. C193/94) che, nella causa intentata dall’AG Berlin-Tiergarten contro una cittadina greca, ha dichiarato in contrasto con il diritto comunitario la norma tedesca, penalmente sanzionata, in base alla quale la patente di guida rilasciata da un altro Stato membro della Comunità perde, dopo un anno, la sua validità, dovendo quindi essere convertita in una corrispondente patente tedesca. Rimane poi insoluta l’ulteriore questione, che ora verrà decisa dal Tribunale Costituzionale Federale, riguardante il problema se l’inapplicabilità del precetto penale così stabilita sia da intendersi come abrogazione o inesistenza nel senso di cui all’art. 103 comma 2 GG, che garantisce il principio di legalità (interpretazione, quest’ultima, (31) La sentenza è pubblicata in Racc., 1989, 2965 ss. e in EuZW, 1990 100 ss., con nota di TIEDEMANN.
— 16 — che a mio avviso è da accogliere). Con la sentenza sullo scandalo greco del mais la Corte di giustizia ha poi ricavato dall’obbligo di fedeltà comunitaria, previsto dall’art. 5 Tr. CE, il principio in base al quale gli Stati membri sono tenuti a tutelare in modo « efficace » gli interessi comunitari allo stesso modo dei corrispondenti interessi nazionali, utilizzando a questo scopo anche il diritto penale, e devono inoltre azionare il procedimento penale a garanzia dei primi in modo così accurato e risoluto come fanno a garanzia di questi ultimi. Quest’obbligo di assimilazione della tutela penale tra interessi finanziari comunitari e interessi dei singoli Stati è stato nel frattempo fissato in modo espresso e manifesto nell’art. 209 A Tr. CE; in quanto tale, però, esso non comporta alcuna armonizzazione, poiché, più precisamente, viene richiesto solo un adeguamento della tutela penale di beni giuridici comunitari alla tutela penale dei corrispondenti beni nazionali, come esistente nel diritto degli Stati membri. Il diritto penale nazionale viene quindi sì europeizzato (cfr. per il diritto tedesco il § 264 comma 6 StGB; §§ 3 comma 1 frase 2, 370 comma 6 Abgabenordnung) ma non propriamente armonizzato, anche se indubbiamente una qual certa minima armonizzazione discende dal dovere, affermato dalla sentenza della Corte di giustizia sul caso del mais, di adottare da parte degli Stati tutti « i provvedimenti necessari per garantire l’efficacia e l’effettività del diritto comunitario ». Questa « formula di effettività », caratteristica della giurisprudenza della Corte di giustizia, dovrebbe in ogni caso comportare, in casi gravi, anche il ricorso alla sanzione penale. Ad ogni modo, la sentenza sul mais ha avuto l’effetto di una vigorosa spinta innovatrice, che innanzitutto ha dato impulso all’attività politicolegislativa degli uffici di Bruxelles nel campo del diritto penale e del suo adeguamento in prospettiva comunitaria; e ciò anche a causa del diffuso disagio dovuto al fatto che le frodi comunitarie vengono combattute in modo estremamente difforme da uno Stato ad un altro (32). Una più ampia armonizzazione in senso proprio emerge ormai dal Trattato dell’Unione Europea ed in particolar modo dagli artt. K e ss., che di esso costituiscono il cosiddetto terzo pilastro. In occasione del vertice dei rappresentanti dei governi degli Stati membri tenutosi a Cannes il 26 luglio 1995 è stata infatti sottoscritta sulla base dell’art. K 1 n. 5 (« Lotta contro la frode su scala internazionale » intesa come « questione di interesse comune ») una Convenzione per la tutela degli interessi finanziari delle Comunità, che obbliga i singoli Stati ad introdurre o a migliorare le fattispecie penali nazionali poste a tutela del bilancio della Comunità europea. Al contempo, però, essa disciplina anche importanti questioni della parte generale, quali la teoria della partecipazione nel reato, differen(32) Cfr., sul punto, TIEDEMANN, Der Strafschutz der Finanzinteressen der Europäischen Gemeinschaft, in NJW, 1990, 2226 ss. con argomenti a sostegno.
— 17 — ziando i concetti di autore e di complice, la punibilità dei dirigenti d’impresa e di coloro che detengono il potere decisionale, e la posizione di garanzia di questi soggetti. La Convenzione, che costituisce un esempio significativo della più volte citata armonizzazione settoriale o specifica dei sistemi penali europei (33), è certamente vincolante per i Governi degli Stati membri, ma necessita, per entrare in vigore, della ricezione ad opera dei Parlamenti nazionali, che sono liberi di decidere al riguardo. Non è il caso qui di esporre i problemi che in Germania nascerebbero da una modifica o da un’integrazione del § 264 StGB, che notoriamente contempla solo le sovvenzioni economiche, le quali peraltro vengono tutelate in modo più ampio, nei confronti anche di forme lievi di captazione. È peraltro evidente che, quale diretta conseguenza dell’obbligo di assimilazione di cui all’art. 5 e all’art. 209 A Tr. CE, anche la tutela delle sovvenzioni economiche erogate dalla Comunità deve essere garantita contro gli stessi comportamenti. Di maggiore importanza appare il fatto che la Convenzione, nonostante possa essere oggetto di compromessi e susciti seri dubbi interpretativi (si pensi, ad esempio, alla formulazione dell’art. 1 comma 4, che sembra richiamare il dolus in re ipsa), riesca efficacemente ad armonizzare, con la sua definizione di truffa (art. 1 comma 1), due distinte concezioni di tale reato: da un lato quella di derivazione francese e inglese, affine al furto ed incentrata sull’inganno e sull’atto di disposizione, dall’altro l’autonoma costruzione tedesca, risalente al XIX secolo, che pone invece l’accento sul danno patrimoniale. Tale definizione, imperniata sulla condotta fraudolenta e sull’evento tipico, nonostante l’ancoraggio a tali punti-cardine, consente ai legislatori nazionali ampia libertà di movimento all’interno dei confini della fattispecie. Così facendo, viene meno il rischio che risultino acriticamente appiattite le consolidate peculiarità nazionali. Un accenno meritano anche i lavori relativi ai due protocolli aggiuntivi alla Convenzione. Sulla base del modello offerto dall’US-Foreign Corrupt Practices Act (34), tali lavori si propongono di estendere ai funzionari europei così come agli impiegati stranieri le norme nazionali relative ai fatti di corruzione, nonché di introdurre la punibilità delle persone giuridiche in relazione alle frodi contro la Comunità europea (35). Non è possibile prevedere se e quando la Convenzione e i suoi proto(33) TIEDEMANN, in Geerds-Festschrift, 110; VOGEL, Wege zur europäisch-einheitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, cit., 333 ss. (sul progetto della Convenzione). (34) Cfr., sul punto, TIEDEMANN, Delinquenzverhalten und Machtmißbrauch multinationaler Unternehmen, in Multinationale Unternehmen und Strafrecht, a cura di Tiedemann, Köln-Berlin-Bonn-München, 1980, 3 (43 ss.), come anche PEDRAZZI, Multinationale Unternehmen und nationale Strafgewalt, ibid, 83 (92 ss.). (35) Sulle varie soluzioni date a questo problema, anche a livello internazionale, si veda Criminal liability of corporations, a cura di de Doelder-Tiedemann, 1996; cfr. anche
— 18 — colli aggiuntivi verranno ratificati. Nell’eventualità in cui la Convenzione e i relativi protocolli fallissero gli scopi prefissati, non è da escludere che la Corte di giustizia estenda il cosiddetto primo pilastro, vale a dire principalmente la competenza delle direttive così come prevista dal Trattato CE, alla normativa penale in questione. Un’interpretazione estensiva delle basi normative degli atti che incidono su diritti fondamentali, sconosciuta nel diritto tedesco ma accolta dalla direttiva sull’insider-trading così come dalla Convenzione del 1995, pare indicare questa direzione. III. Prospettive di sviluppo futuro. — L’attuale incertezza circa il successo della armonizzazione del diritto penale, realizzabile per mezzo del primo o del terzo pilastro dell’UE, rende poco chiare le ulteriori linee di sviluppo. Tuttavia noi condividiamo la previsione che Jescheck ha formulato, con una valutazione per quel tempo ardita, già cinque anni fa e secondo la quale « il percorso degli Stati europei nei prossimi dieci anni si orienterà sempre più verso l’unificazione, anche se le peculiarità nazionali dei popoli europei sopravviveranno nelle future istituzioni dell’Europa unita in modo molto più marcato che in altre federazioni, come gli Stati Uniti o il Brasile » (36). Non pare discutibile che, secondo quanto accaduto del resto nei lavori preparatori al nuovo codice italiano (37), la parte speciale dei codici penali degli Stati membri debba essere attentamente verificata, segnatamente nei punti in cui deve aversi assimilazione tra gli interessi comunitari e gli interessi nazionali; ciò riguarda, oltre ai già citati delitti di corruzione, i delitti di falsità in atti e i delitti contro l’amministrazione della giustizia. Pare quindi auspicabile da un lato che la Comunità europea acquisisca nel lungo periodo, rispetto ai propri interessi finanziari, specifiche competenze penali in relazione alla jurisdiction to prescribe e in ogni caso in relazione alla jurisdiction to enforce (un primo passo in questo senso potrebbe essere l’istituzione di un pubblico ministero europeo con competenza per i fatti più gravi); dall’altro, che venga superata l’attuale politica di esclusiva tutela degli « interessi finanziari » della Comunità tramite la previsione dei soli reati di truffa nelle sovvenzioni e di evasione fiTIEDEMANN, in Schoch-Stoll-Tiedemann, Freiburger Begegnung - Dialog mit dem BGH, 1996, 30 ss. (36) Cfr. JESCHECK, in Thong-Won Kim-Festschrift, 1991, 947 ss.; cfr. anche BLECKMANNI, Die Überlagerung des nationalen Strafrechts durch das Europäische Gemeinschaftsrecht, in Stree/Wessels-Festschrift, Heidelberg 1993, 107 (112 ss., in particolare sul principio di effettività); ROXIN, cit. da Wolter, Begegnungen mit Claus Roxin. Ein Glückwunsch zum 65 Geburtstag, in GA, 1996, 201 (205). (37) Si vedano, sul punto, JESCHECK, in LK, 11 ediz., 1992, Einl. Rdn 103; PAGLIARO, op. cit., 384.
— 19 — scale (38), nonostante noi stessi abbiamo evidenziato la grande rilevanza pratica di questo approccio in numerosi studi degli anni ’70 (39). La tutela penale deve inoltre estendersi all’ipotesi di truffa nelle gare d’appalto quando è compiuta ai danni della Comunità europea. Accanto alla tutela degli interessi propri della Comunità (si pensi agli interessi finanziari, alla regolamentazione dei mercati, al buon andamento degli uffici e alla disciplina della prova) si riscontra, come le direttive sull’insider-trading e sul riciclaggio di denaro confermano, una armonizzazione dei precetti penali concernenti talune relazioni indirette della Comunità con interessi sia dei singoli sia degli Stati membri. In ogni caso la tutela penale di interessi di questo tipo, quali principalmente la tutela del lavoro (art. 118 A Tr. CE) e la tutela dell’ambiente (art. 130 R Tr. CE), dovrebbe venire armonizzata, in quanto esplicitamente di competenza comunitaria. In tale ambito, la competenza delle direttive per ciò che concerne la cornice sanzionatoria emerge dal principio dell’‘‘effet utile’’, ma può essere altresì ricavata, stando alla concezione più moderna e tratta anch’essa dal principio di effettività (così come sviluppato dalla Corte di giustizia), dall’art. 5 Tr. CE, e intesa come competenza all’emanazione di direttive con contenuti sanzionatori. Tale articolo dispone che gli Stati membri devono offrire un’adeguata salvaguardia alle norme comunitarie, nel senso di offrir loro una tutela minima e quindi, ad esempio, devono assicurare il rispetto di norme ambientali comunitarie così come quello di norme ambientali nazionali (effetto, questo, che si produce automaticamente attraverso l’utilizzo di norme penali in bianco e con l’interazione tra norme nazionali e norme comunitarie). Il diritto penale del lavoro e dell’ambiente si dimostra adeguato ad un’armonizzazione non solo per la materia in sé, ma anche per la tecnica legislativa utilizzata fino ad ora dagli Stati membri; sarebbe pertanto opportuno disciplinare unitamente ad esso anche le relative questioni di parte generale (omissioni da parte di impiegati della pubblica amministrazione, responsabilità e concorso di dirigenti d’impresa, etc.). Analoghe considerazioni valgono per la normativa sui prodotti alimentari, avente ad oggetto anche la tutela della salute e del consumatore, il cui fondamento giuridico si rinviene nella garanzia della libera circolazione delle merci (art. 30 Tr. CE) e nella relativa giurisprudenza della Corte di giustizia. Tali « moderni » settori del diritto penale si presentano complessivamente più idonei all’adeguamento rispetto alle classiche fattispecie di reato, spesso caratterizzate da una risalente tradizione nazionale. Oltre a ciò, gli artt. K TUE consente di prevedere una armonizzazione del diritto penale nei settori delle frodi internazionali o del traffico di droga (K 1 n. 4), rispetto al quale tuttavia l’iniziativa giuridico-penale è (38) Correttamente SCHÜNEMANN, Vorwort, in Schünemann/Suarez, cit. V. (39) Da TIEDEMANN, Subventionskriminalität in der Bundesrepublik, Hamburg 1974.
— 20 — stata ormai trasferita alle Nazioni Unite. Poiché l’espressione « frode » è criminologicamente assai ampia e non ricomprende solo la truffa in senso tecnico, l’art. K 1 n. 5 TUE offre ampi spazi per l’armonizzazione del diritto penale economico nel suo complesso, in quanto esso presenti, come oggi spesso è il caso, collegamenti internazionali. Un’interpretazione estensiva dell’art. K 1 n. 9 TUE sulla cooperazione internazionale di polizia in determinati settori potrebbe portare ad unire l’efficacia di quest’ultima, nel senso già espresso nella tesi C), all’adeguamento di altre parti del diritto penale nazionale. Questa interpretazione, caldeggiata dall’Italia ma finora non accolta dalla Commissione giustizia del Bundestag tedesco, trova sostegno nel fatto che l’adeguamento giuridico rappresenta senza dubbio il presupposto di un’efficace cooperazione (cfr. supra tesi C)). Così l’art. K 1 n. 5 colloca espressamente la lotta alle frodi internazionali nel contesto della cooperazione nei settori degli affari interni e della giustizia, considerando la prima come parte o aspetto della seconda. Similmente l’accordo sull’Europol del 26 luglio 1995 (40) elenca all’art. 2 determinate materie, quali il traffico illecito di stupefacenti, di sostanze nucleari e di persone, per le quali non è utilmente realizzabile una cooperazione internazionale che non sia accompagnata da una armonizzazione minima del diritto sostanziale. Nella prassi politica, l’accettazione di questa interpretazione estensiva è quanto mai incerta, così come lo è l’accettazione dell’idea, dominante nella dottrina internazionale, per cui le differenze riscontrabili nel diritto penale economico in senso lato, comprensivo dell’intera politica economica, della tutela della salute e dei consumatori, etc. riguardano il funzionamento del mercato comune o producono effetti immediati sul funzionamento dello stesso o infine portano addirittura ad alterazioni della concorrenza (41). Si pensi solamente alle differenze in materia di responsabilità penale da prodotto, nella quale in mancanza di una specifica disciplina sanzionatoria (o, in mancanza, di un ricorso alla fattispecie di omissione di soccorso) la punibilità per l’omesso ritiro di prodotti pericolosi non è contemplata negli Stati che non prevedono i delitti omissivi impropri. È difficile contestare che in quest’ambito, così come in generale, il diritto penale non abbia ad oggetto anche « il funzionamento del mercato interno ». Questo dovrebbe conseguentemente portare all’attivazione, in tutti i settori possibili, della generale competenza di direttiva di cui all’art. (40) G.U.C.E. n. C 316/1 del 27 novembre 1995. (41) SCHÜNEMANN, op. cit.; TIEDEMANN, Europäisches Gemeinschaftsrecht und Strafrecht, in NJW, 1993, 24, con ulteriori argomentazioni. Sulla persistente importanza delle previsioni sanzionatorie nella normativa sui prodotti alimentari si veda DANNECKER, in ZLR, 1996, 313 ss; sulla sua armonizzazione cfr. i contributi di APPEL, BACIGALUPO e STREINZ, in Lebensmittelstrafrecht und Verwaltungssanktionen in der Europäischen Union, a cura di Dannecker, 1994.
— 21 — 100 A Tr. CE, con la finalità di armonizzare grandi parti degli ordinamenti penali nazionali. Molto, se non tutto, dipenderà quindi da come il terzo pilastro dell’UE verrà accolto nella prassi dei quindici Stati membri. Se tali Stati e i loro parlamenti non utilizzassero questa terza via rimarrebbe allora, accanto al rafforzamento della competenza di direttiva, peraltro improbabile a causa della carenza di legittimazione democratica della Comunità, esclusivamente la speranza di un rinnovato vigore del Parlamento europeo, quanto meno nel senso di un’estensione dei suoi poteri nel cosiddetto procedimento di codecisione. Non crediamo, del resto, che una revisione dei Trattati di Maastricht possa portare anche all’attribuzione di una competenza legislativa di cornice al Parlamento per (determinate) questioni penali. Alla luce degli attuali approcci al problema delle truffe comunitarie, non potranno ritenersi inutili proposte di riforma, pur se modeste: l’europeizzazione, intesa come processo di armonizzazione degli ordinamenti penali europei, richiede, proprio in considerazione delle difficoltà peculiari del diritto penale che nulla rimanga intentato. KLAUS TIEDEMANN Ordinario di Diritto penale, Procedura penale e Diritto penale dell’economia presso La Albert-Ludwigs-Universität di Freiburg in Breisgau
PENSIERI SULLA POLITICA CRIMINALE
Ho scritto questo studio con animo di allievo pensando a WILHELM GALLAS, alla fertile stagione in cui, nella Tübingen consacrata alla cetra di Hölderlin, ostinatamente lavoravamo per le spighe di un nuovo raccolto europeo. SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Due enunciati ed esigenza di valutarli come tali e nelle loro realizzazioni sistematiche. — 3. Valutazione dei due enunciati. — 4. Dai due enunciati alle loro realizzazioni sistematiche. — 5. Valutazione delle realizzazioni sistematiche. a) Fattispecie. - b) Antigiuridicità. - c) Colpevolezza. - 6 Riflessioni su diritto penale e socialità.
1. Premessa. — Con Claus Roxin, l’insigne penalista di Monaco, sento che mi manca un colloquio: perché anche tra studiosi, come tra chicchessia, lo scrivere sulle cose non è certamente come il parlarne. Fa difetto, voglio dire, al discorso scritto la qualità del dialogo, che invece è essenza in quello parlato: ciò che in quest’ultimo è scambio di idee, riesce nel primo solo una riflessione. Sta in tale limitatezza il motivo del rammarico. Qui, dunque, io posso soltanto manifestare i « pensieri » che in me suscita la politica criminale quale risulta dalla concezione cui mi trovo di fronte (1). Incontestabile, certo, è la forte carica sociale che contrassegna un lavoro come Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, summa delle tesi sostenute dall’autore (2). E tuttavia un’indagine appare d’obbligo, con la quale si abbia a far emergere in che modo tra le molte rivendicazioni attuali di socialità, quella di Roxin si distingua. La quale, cioè, chiarisca il suo messaggio. (1) Vedi, per una prima prospettazione della tesi qui più ampiamente sviluppata, il mio articolo Kriminalpolitik und Strafrechtssystem apparso sulla Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, Band 109 (1997), p. 17 ss. (2) In considerazione di tale carattere dell’opera, è ad essa che ritengo di limitare, nel presente scritto, i riferimenti. E per ciò, i richiami che seguono sono ristretti alle sole pagine. La numerazione originaria di queste, che tenni presente nella ZStW, viene però sostituita, per comodità del lettore italiano, con quella risultante nell’edizione curata da Sergio MOCCIA (Napoli, 1986), della quale adotto qui il testo.
— 23 — L’operazione culturale che il giurista tedesco compie, consiste, si sa, nel far penetrare la politica criminale nel diritto penale. Allo scopo di comprendere rettamente il senso dell’intervento attuato, va peraltro subito detto di quale natura è la politica criminale che viene introdotta: essa non costituisce, nella visuale in esame, a differenza che in quella comune, una negazione ad opera del momento empirico, di ciò che precedentemente sul piano giuridico era stato stabilito, un atto che modifica un principio penalistico in una scelta contingente. In tal caso, la politica criminale anziché essere un aggiustamento di tiro delle conseguenze che il diritto penale altrimenti provocherebbe, diviene diritto penale essa stessa. 2. Due enunciati ed esigenza di valutarli come tali e nelle loro realizzazioni sistematiche. — Ma in che modo avviene tale trasformazione delle due discipline? Ecco fare ingresso qui quell’idea di socialità, quella dimensione sociale del pensiero, per cui una politica criminale posta non più all’esterno del diritto penale bensì all’interno di esso, o considera quest’ultimo come pura forma di cui diventa la sostanza, o muta la propria tradizionale antitesi rispetto alle categorie giuridiche in una sintesi. Entrambe le contrapposizioni si trovano espresse più volte nell’opera del penalista germanico (3), ed entrambe puntualmente si ritrovano nei chiosatori della sua tesi. Il discorso, tuttavia, non può proseguire se non si distingue ciò che Roxin dichiara da ciò che egli fa. Se, voglio dire, i due enunciati non vengono valutati e come tali e nelle loro realizzazioni sistematiche. 3. Valutazione dei due enunciati. — Io sospetto nel collega tedesco — è questo uno dei miei « pensieri » — fervori troppo intensi per un rilancio della vecchia disciplina. Che, trasportata, come s’è visto, dall’esterno del diritto penale all’interno di esso, ne viene a sconvolgere, ovviamente, la tavola dei valori. Con la conseguenza che sia nell’ipotesi in cui la politica criminale entrando abbia ad avere il dominio (politica criminale intesa come sostanza di un diritto penale esaurito come pura forma), sia nell’ipotesi in cui il dominio abbia invece a spartirlo (politica criminale e diritto penale non più in antitesi ma riuniti in sintesi), plurimi, immediati, sconcertanti, insorgono interrogativi, e da essi incertezze le quali non possono non lasciare chi legge oltremodo disorientato. Così, se, ad esempio, con il primo enunciato si dice che « il diritto penale è la forma nella quale obiettivi di politica criminale vengono tradotti in termini giuridicamente validi » (4), ha ragione certamente Bricola (3) (4)
Cfr. i richiami che seguono. ROXIN, p. 68.
— 24 — quando afferma che scopo di Roxin « è quello di introdurre la politica criminale nel seno stesso della dogmatica, che diventa concretizzazione dei principi e delle esigenze della politica criminale » (5). E non diversamente deve concludersi, è ovvio, di fronte all’asserto secondo cui « le singole categorie del reato — tipicità, antigiuridicità, colpevolezza — vanno fin da principio considerate, sviluppate e sistematizzate dall’angolo visuale della loro funzione politico-criminale » (6): se questo, invero, vien fatto ognuno è più che in grado di avvedersi del ruolo plasmante di una tale funzione in rapporto a ciascun elemento costitutivo dell’illecito. Per cui ciò che fa da padrone è la politica criminale, configurata infatti, lo si è visto, come la sostanza esprimentesi attraverso la forma che il diritto penale realizzerebbe. Ma se a decidere è la politica criminale, non è forse vero che un diritto penale più non esiste? E che si ha, dunque, il dissolversi di ogni suo principio? A conseguenze praticamente non diverse conduce l’altro enunciato, quando, ad esempio, nell’asserto di base Roxin scrive che « la vincolatività del diritto ed il finalismo della politica criminale non possono essere in contraddizione [l’antitesi di cui parlavo più sopra], ma devono ricondursi a sintesi » (7); o quando altrove egli dice « Il mio obiettivo è di orientare tutti i risultati giuridicamente rilevanti all’idea dell’adeguatezza agli scopi della politica criminale, senza sacrificare la certezza del diritto » (8). Quale risulta infatti, così, il ruolo svolto dalle due discipline? Prendiamo in esame le proposizioni appena richiamate. Anzitutto è palese che l’affermazione secondo cui « la vincolatività del diritto ed il finalismo della politica criminale non possono essere in contraddizione, ma devono ricondursi a sintesi » (9), costituisce un’idea accattivante, certo, ma contraria all’essenza stessa della giuridicità. Sarebbe il diritto penale medesimo, invero, a venire meno a causa di una « sintesi » siffatta, la cui sorte, col tempo, assai più realisticamente dovrebbe chiamarsi una progressiva, innegabile sostituzione: ad opera di questa o di quella pur « giusta risoluzione, adeguata cioè alla peculiarità del caso » (10), che la forza della socialità, la politica criminale secondo Roxin, porta con sé. E nel medesimo ordine di idee va letta la finalità perseguita: « Il mio obiettivo è di orientare tutti i risultati giuridicamente rilevanti all’idea dell’adeguatezza agli scopi della politica criminale, senza sacrificare la certezza del diritto » (11). Una « certezza del diritto », che si dichiara principio non sa(5) BRICOLA, Rapporti tra dogmatica e politica criminale, in Riv. it., 1988, p. 10. (6) ROXIN, p. 40. (7) ROXIN, p. 35. (8) ROXIN, p. 20. (9) ROXIN, vedi il passo richiamato a nota 7. (10) ROXIN, p. 69. (11) ROXIN, vedi il passo richiamato a nota 8.
— 25 — crificabile, è destinata infatti, prima o poi, ad essere travolta dai fattori sociali, ove l’obiettivo sia quello di « orientare tutti i risultati giuridicamente rilevanti all’idea dell’adeguatezza agli scopi della politica criminale » come Roxin la concepisce. Ecco perché dicevo che in entrambe le ipotesi, non solo quando le due discipline vengono viste in un rapporto di forma-sostanza ma anche quando la loro naturale antitesi viene fusa in una sintesi, sulle domande che qui emergono non è consentito sorvolare. E sono anzi d’obbligo rigorose riflessioni. L’intento del penalista germanico e di quanti con lui mettono oggi l’accento sulla vitalità e sull’importanza di una politica criminale concepita nel senso fatto presente all’inizio, è palese. L’intento, ho detto allora, è quello di dare spazio al sociale, alla componente, cioè, con cui il diritto deve stabilire il dialogo. Cosa che, dopo l’ubriacatura o, peggio, l’istituzionalizzazione anche nel diritto penale di una mentalità logico-formale, non può che approvarsi. Ciò da cui piuttosto io dissento è il modo col quale siffatto formalismo della scienza penalistica viene avversato. Si vuole, con la politica criminale, far cambiare rotta al diritto penale? Si vuole, con essa, dare rilievo alla socialità? Ma Roxin, in entrambe le formulazioni che sopra ho evidenziate, lo abbiamo visto: l’una o l’altra che si voglia scegliere, ambedue risultano contrarie — questo il dato che mi preme sottolineare — non solo ad un diritto penale inteso in senso logico-formale, ma al diritto penale tout court. Come può invero il diritto, per costituirsi validamente come tale, rimettersi al non-diritto, alla socialità? Una domanda, questa, che non si accontenta della semplice evidenza. Ed infatti, se l’acquisizione della componente sociale è stata, per la giuridicità, un’opera lunga di scavo, una paziente indagine di decenni, un invaghirsi a volte non compreso di idee che solo in seguito sono divenute principi, così oggi chi valuta simili fatiche ha il dovere di non opporsi con uno sbrigativo fin de non-recevoir ad elaborazioni come quella cui ci si trova di fronte, le quali mostrano sincerità e serietà negli intenti. Ma proprio qui sta il punto, il nodo centrale dell’intera problematica sollevata da questo Kriminalpolitik und Strafrechtssystem. Il quale se per un verso appaga sicuramente chi chiede al giurista maggiori interessi verso l’oggetto del suo lavoro, verso l’essere, per un altro verso induce in lui preoccupazioni inequivocabili circa la non tangibilità del diritto, del dover essere. Io non mi propongo certo, con ciò, di affermare tra legge e fatto una barriera di significati che né all’una né all’altro rende giustizia, essendo divenuto oggi ben chiaro (voglio limitarmi ai lavori di Esser, Art. Kaufmann e Larenz) che sia la norma per regolare come la realtà per essere regolata, entrambe hanno bisogno di un vicendevole scambio di contenuti. Se di un simile steccato concettuale intendessi, al contrario, farmi fautore, non andrei nemmeno io al di là di un vieto formalismo da tempo
— 26 — oramai superato, il quale, com’è manifesto, nulla ha a che vedere con l’oggetto delle critiche mosse dal giurista tedesco. Io mi propongo invece di dire che la ragione per cui contesto il pur suggestivo intervento di politica criminale da lui operato nella materia penalistica sta nell’intento di evitare un dissolversi della giuridicità, la cui contingente esistenza nel sociale non può giungere sino a sopprimere la decidente essenza del diritto. 4. Dai due enunciati alle loro realizzazioni sistematiche. — Le valutazioni critiche sin qui formulate si sono volte ad esaminare le conseguenze cui pervengono i due enunciati di Roxin relativamente ai rapporti tra diritto penale e politica criminale. Come mi sono proposto a suo tempo, non voglio però esimermi dal seguire l’autore anche negli sviluppi sistematici del suo asserto. Al riguardo, la ricerca da lui condotta percorre un arco di indagini le quali hanno per oggetto le singole categorie del reato — tipicità, antigiuridicità, colpevolezza — che, come egli afferma (lo si è visto ad altro proposito), « vanno fin da principio considerate, sviluppate e sistematizzate dall’angolo visuale della loro funzione politicocriminale » (12). È questo, a mio avviso, il passo di assoluta centralità, quello che occorre tenere dinanzi agli occhi quando si voglia concretamente approfondire la particolare istanza di socialità avanzata con la tesi in esame. È esso. infatti, a indicarci come debba andar valutata la reazione della materia penalistica allorché viene confrontata con la politica criminale che lo scrittore tedesco intende introdurvi. Roxin parte, in effetti, assai bene quando condanna come un mero contenitore concettuale il diritto penale giuspositivistico di von Liszt e dei suoi eredi. E non può, in egual maniera, non approvarsi quando afferma che il lavoro soltanto sistematico è capace di « garantire risultati certamente univoci ed uniformi, non però giusti da un punto di vista sostanziale » (13). Tuttavia, sebbene ineccepibile sia l’avvio, ineccepibile non è il suo procedere. In una critica preposta alla parte costruttiva, l’autore, pur dando riconoscimento agli sforzi sostenuti dalla dottrina contro il cosiddetto « automatismo dei concetti teorici », in seguito aggiunge: « ma non si può dire che tali prospettive siano state finora elaborate, da un punto di vista metodologico e sistematico, in maniera soddisfacente » (14). « Da ciò appare chiaro — prosegue poco più in là — che la strada giusta può consistere solo nel dare alle scelte di valore della politica criminale uno spazio tale nell’ambito del sistema del diritto penale, da far sì che il loro fondamento legislativo, la loro chiarezza e valutabilità, la loro armonica incidenza e le (12) ROXIN, p. 40. (13) ROXIN, p. 29. (14) ROXIN, p. 33.
— 27 — loro ripercussioni sul caso concreto non abbiano un’importanza minore rispetto agli apporti del sistema formale positivistico di provenienza lisztiana » (15). Guardiamo dunque a quelle che ho chiamate le realizzazioni sistematiche della tesi. Facendo seguito ad una parte nella quale ribadisce il proprio pensiero ed illustra sul piano storico la materia, Roxin divide il lavoro, prima di una conclusione, in tre sezioni, con le quali considera, come dicevo, le tre categorie del reato — fattispecie antigiuridicità, colpevolezza — allo scopo di conferire ad esse la sostanza che, egli dice, la politica criminale è in grado di fornire. 5.
Valutazione delle realizzazioni sistematiche.
a) Fattispecie. — Io penso che la sezione dedicata a tale categoria sia idealmente distinguibile in due parti. In una prima parte, concernente le « possibilità di sviluppo del sistema sulla base dei presupposti delineati », Roxin afferma che le esigenze del principio penalistico di legalità vengono normativamente realizzate non solo quando vi sia una descrizione quanto più precisa di azioni (reati di azione) ma anche quando esista un rinvio a doveri sociali fissati da normative particolari (reati d’obbligo) (16). « Il risultato pratico di una tale bipartizione sistematica del Tatbestand — asserisce l’autore — mi sembra consista nel fatto che il punto di partenza normativo prende per la prima volta in considerazione, con sorprendente chiarezza, la realtà sociale che costituisce il substrato di tutte le distinzioni dommatiche... Ora, questa distinzione, che ha un fondamento sostanziale, ha anche conseguenze dommatiche che finora non sono state affatto riconosciute in maniera sufficientemente chiara » (17). Al qual riguardo, in rapporto, cioè, a siffatta pur ineccepibile impostazione, mi sia consentito tuttavia far presente che il diritto penale non ha affatto bisogno di ricorrere a ciò che l’autore intende per politica criminale. Sulla materia sottoposta qui ad analisi la dottrina, non che penalistica, giuridica, da tempo, invero, ha lavorato a fondo, porgendo, e con chiarezza, modelli normativi dedotti secondo una logica in base alla quale entrambe le forme di precetto — quella derivata direttamente (attraverso le modalità di un’azione) e quella derivata indirettamente (attraverso doveri sociali fissati da normative particolari) — si propongono oggi, senza la minima difficoltà di ordine concettuale, su un medesimo piano, in una medesima nozione (la condotta). Negare ciò sarebbe possibile solo a patto di ravvisare ancora nei dati penalistici, elabo(15) ROXIN, p. 35. (16) ROXIN, pp. 42 e 43. (17) ROXIN, pp. 43 e 44.
— 28 — razioni aventi natura unicamente formale, disconoscendo tutto quello che in termini di sostanza è stato fatto. Quanto ad una seconda parte, che potrebbe essere definita come l’aspetto interpretativo del principio legalitario trattato nella prima, l’autore afferma: « All’ulteriore questione relativa al metodo da seguire per stabilire il contenuto dello stesso concetto di Tatbestand si risponde, per lo più in via molto generica, che i singoli elementi tipici vanno interpretati teleologicamente, partendo dal bene giuridico tutelato » (18). Ma il principio teleologico, « veramente banale, ha avuto — egli oppone — effetti pericolosi », secondo quanto « un’esauriente analisi dell’evoluzione giurisprudenziale potrebbe indicare », facendo vedere come « i nostri giudici, per assicurare una tutela ampia e completa, ispirata a questo principio, abbiano adottato un’interpretazione estensiva della fattispecie che ha contribuito non poco all’aumento della criminalità » (19). Che fare dunque? Roxin risolve il quesito contrapponendo ad interessi che con interpretazioni di « teleologia » allargano l’ambito del diritto penale (e della punibilità), interessi che con interpretazioni di « adeguatezza sociale » come quella, ad esempio, richiamantesi ad un’esiguità dell’offesa, allargano invece l’ambito della politica criminale (e della non punibilità). Ora, in ordine ad un siffatto confronto ermeneutico tra la visuale teleologicamente intesa, che è espressione di un finalismo il quale guarda al solo bene protetto, e la visuale socialmente adeguata, che è espressione, invece, di un finalismo il quale arricchisce di contenuti comunitari il bene medesimo, anch’io non esito certo a dire che va dichiarata vincente la seconda. Per cui non posso che dare ragione, in merito a tale antitesi tra le due concezioni in oggetto, al giurista tedesco, facendo entrare, limitatamente, però, al problema interpretativo, la politica criminale nel diritto penale; attraverso quel principio di adeguatezza sociale che è nato e si è affermato, del resto, nell’ambito penalistico. b) Antigiuridicità. — Nel proseguire dal suo angolo visuale il vaglio riguardante le categorie del reato e spostandosi su quella dell’antigiuridicità, Roxin prende in esame le cause di giustificazione, di cui ribadisce « la funzione politico-criminale nella soluzione di conflitti sociali » (20), e ulteriormente chiarisce il proprio pensiero nei termini seguenti: « Con le cause di giustificazione la dinamica dei mutamenti sociali penetra nella teoria del reato. Un sequestro di persona, una violazione di domicilio o una lesione dell’integrità fisica restano sempre uguali. ... Le fattispecie, dunque, ... sono costrette nei limiti di concetti che è la lettera della legge a fissare. Ma le ragioni per le quali è consentito arrestare un uomo, entrare (18) ROXIN, p. 49. (19) ROXIN, p. 50. (20) ROXIN, p. 51; vedi in precedenza p. 41.
— 29 — in una casa o provocare una lesione dell’integrità fisica, cambiano continuamente » (21). Nulla da obiettare, certo. E tuttavia ai fini del rapporto politica criminale-diritto penale, ciò non sta a significare alcunché. La mobilità della norma scriminante non trova invero riscontro nella norma incriminatrice solo a causa dei modi diversi con cui il dato della socialità acquista rilevanza nei due tipi di regole, agendo dall’interno nel caso delle norme scriminanti, dall’esterno nel caso delle norme incriminatrici: socialmente mutevole al pari del fatto che scusa, il fatto che accusa assume, nella sua struttura interna, un volto legale definito per ovvie esigenze di tutela giuridica, con la sempre permanente possibilità, tuttavia, che nuove situazioni sociali abbiano a profilarsi e a suggerire, appunto dall’esterno, modificazioni nei confini tra lecito e illecito. Tutto qui, dunque. Ora, se nelle fluide ragioni che possono portare a cause di giustificazione si vuol ravvisare una « funzione di politica criminale » in seno al diritto penale, ciò si può fare liberamente. È questione di preferenza terminologica. Sempreché, tuttavia, la « funzione di politica criminale » con cui, si dice, « va affrontata la sistematizzazione dell’antigiuridicità » (22) non sia vista anche come fattore il quale esercita, « indipendentemente dalle prospettive generalizzanti che esso offre, notevoli ripercussioni sulla ristrutturazione delle singole cause di esclusione dell’antigiuridicità » (23), come parametro, cioè, per considerare o, meglio, per non considerare più come antigiuridica dal punto di vista politico-criminale questa o quella condotta. Senz’altro approvabili sono gli esempi che il giurista tedesco adduce nel testo (obbligo di fuga nell’ipotesi di aggressioni da parte di bambini o di malati di mente o nel caso di difesa contro aggressioni provocate colpevolmente). Ma per altre situazioni che vengono a configurarsi? No: il potere di decidere in relazione ad un’ammissibilità di ciò che sarebbe reato non va espropriato, secondo la visuale di Roxin, al diritto penale. Dico questo perché nelle cause di giustificazione, a differenza che nelle fattispecie, « non si può procedere — com’è l’autore stesso ad avvertire — mediante la sussunzione sotto descrizioni concettualmente fissate. Tutt’al più, il diritto scritto può stabilire soltanto criteri di orientamento della condotta (cioè — l’autore prosegue — i principi da me delineati), che vanno concretizzati caso per caso » (24); concretizzati, egli intende dire, secondo i criteri della politica criminale. Che cosa in rapporto alle relative situazioni deve ritenersi o no antigiuridico, come dire ciò che è contrario al diritto penale, viene così il solo antisociale, come dire ciò che è contrario alla politica criminale, a stabilirlo. (21) ROXIN, pp. 51-52. (22) ROXIN, p. 52. (23) ROXIN, p. 55. (24) ROXIN, p. 57.
— 30 — c) Colpevolezza. — Da ultimo, il confronto tra politica criminale e categoria della colpevolezza. Roxin, in apertura, fa sua la teoria di coloro i quali, con varianti di maggiore o minor rilievo, sostengono che tale componente del reato « viene determinata dalla dottrina degli scopi della pena » (25). È guardando a questa visuale, fondata sulla prevenzione, che egli enuncia i propri pensieri: « Una volta accertato che il comportamento dell’autore era sbagliato, dal punto di vista della regolazione dei conflitti sociali — afferma lo studioso tedesco —, alla dommatica non resta che risolvere un’ulteriore questione: se un tale comportamento meriti una pena » (26). Nella risposta positiva a questa domanda starebbe la colpevolezza. Riguardo al problema, Roxin già nelle premesse si era espresso con chiarezza: chi in uno stato di necessità « agisca senza obblighi specifici derivantigli dal suo ruolo sociale, può andare esente da pena — egli aveva detto — perché non necessita di risocializzazione e, per l’eccezionalità della situazione, non può costituire un cattivo esempio » (27). Il che, a ben vedere, significa prendere ad oggetto non il reato bensì il reo; valutandolo, sotto un primo aspetto, come componente della comunità, sotto un secondo aspetto, per l’influsso esercitato sulla comunità medesima. Sotto entrambi gli aspetti, dando rilievo — ed è questo che interessa la problematica qui trattata — unicamente a quella esigenza di socialità, che sta a fondamento della politica criminale. 6. Riflessioni su diritto penale e socialità. — Con il vaglio appena concluso ho mostrato come il pensiero di Roxin abbia uno sviluppo del tutto coerente: esso non si esaurisce, cioè, in mere affermazioni teoriche con cui viene detto che la sostanza del diritto penale è la politica criminale, o che il diritto penale e la politica criminale vanno composti in sintesi, ma si ripercuote su concreti problemi. Qui non sto certo a ripetere la ragione per cui, nella categoria della fattispecie, deve ritenersi estraneo al quesito riguardante il rapporto tra le due discipline, il binomio reati d’azione-reati d’obbligo. Dico, piuttosto, che nella stessa categoria della fattispecie a proposito dell’interpretazione, come in quelle dell’antigiuridicità e della colpevolezza la rispondenza tra enunciati e realizzazioni sistematiche è risultata ineccepibile. Ora, è proprio sulla base di simili costatazioni, che l’esigenza del rifiuto di una politica criminale assunta a sostanza del diritto penale (ciò che, come s’è visto, costituisce, nel secondo enunciato, lo sbocco cui si perviene col tempo), appare manifesta. Ma, potrebbe opporre Roxin: e la sostanza, in tal modo? Ovvero, secondo il suo dizionario: e la socialità? (25) ROXIN, p. 60. (26) ROXIN, p. 60. (27) ROXIN, p. 41.
— 31 — Procediamo con ordine: la sostanza, anzitutto. Al riguardo va fatto presente che un’idea formalistica cui l’autore dice di volersi opporre è cosa che gli studiosi, con un difficile, a volte tormentato lavoro, da gran tempo ormai hanno combattuto e si sono lasciati alle spalle. La distanza che separa noi penalisti di oggi da un diritto penale concepito unicamente come forma è davvero epocale. Essa infatti ci rinvia a quell’età della nostra disciplina che, facendo propri gli schemi filosofici del positivismo imperante, li realizzava valutativamente quale mera rilevazione sul materiale della giuridicità, ed esauriva in ciò e nelle relative risultanze ogni attività del ricercatore. Dimenticare questo significa ignorare l’autonomia dei pensieri che nel corso di un intero secolo la scienza penalistica ha dimostrato di sapersi conquistare pur muovendosi su di un terreno estremamente aspro anche perché irto di problemi non solo suoi. Ma significa soprattutto ignorare — ed è il discorso che qui interessa — la natura sempre meno concettuale, sempre più interessata ai contenuti, conferita all’elaborazione del reato, o meglio ad ogni elaborazione, che prima era stata impostata in termini e con consistenza puramente teorici. Teleologismo? Anch’esso certamente, ma non esso soltanto. La verità è che alla sostanza si è guardato, senza distinzione di orientamenti, per tutto l’arco di un secolo il quale ha visto il diritto penale affrancarsi da concezioni e da costruzioni soltanto formali. Un pensiero che già altrove ho manifestato (28), subito però si impone, drastico ed evidente: la sostanza davanti alla quale ci troviamo — teleologica o no che sia — costituisce un modo di arricchire il solo diritto. E per questo si potrebbe essere indotti a cedere a lusinghe « socialitarie » del tipo di quella prospettata da Roxin. Ma il giurista, e parlo del penalista, della sua cultura, avendo preso atto che la socialità, in certi casi, rende indeterminati e labili i confini certi di questo o di quel principio del diritto penale, ritiene doveroso procedere di fronte ad attrattive di siffatto genere con estrema cautela. Per quanto mi riguarda, sia chiaro, non mi dirò certo insensibile al dato comunitario che, pur di fronte a valutazioni di diritto le quali esaurivano ogni cosa, sempre ho posto come fondamento — assieme al dato esistenziale — della vita che regge la giuridicità. Si potrà invero dissentire dalla tesi che esaminiamo ma, sebbene superato e distante sia il tempo del formalismo, l’istanza del collettivo si mostra con la stessa urgenza di allora. E peraltro, va subito aggiunto, incontrando limiti irrinunciabili chiamati a governare una forza la quale, da sola, sarebbe destinata a divenire antigiuridica. È proprio su tali limiti che vorrei far soffermare l’attenzione del lettore nelle presenti « riflessioni su diritto penale e socialità » cui il para(28)
Cfr. Il valore problematico della scienza penalistica, Palermo, 1961, p. 28 ss.
— 32 — grafo è dedicato. Ed in proposito mi sia consentito qui richiamare due idee che sostenni a cominciare dagli anni Sessanta: l’esigenza-base di una problematica da opporre ai postulati della dogmatica e l’altra esigenza, da essa discendente, di una socialità alla quale riferire le valutazioni del diritto. Dicevo dunque a suo tempo (e una certa ampiezza nelle testimonianze che adduco mi sembra opportuna data la pertinenza dei pensieri di allora ai fatti di oggi e alle minacce di cui sono portatori): « Appunto il sociale: questo che nel Valore problematico ho indicato come il grande assente assieme al fatto, come il polo mancante nella tensione dialettica che dovrebbe reggere la vita della norma al suo interno, non esito ora a indicare come ciò che ha in pratica recitato, da vent’anni in qua, la parte dell’unico attore » (29). E precisando la natura di un tale squilibrio socio-penalistico, soggiungevo: « Quando parlo di un sociale che viene sostanzialmente a prevaricare, a questo io penso: ad una situazione di costume caratteristica del nostro tempo, la quale stravolge il modo di essere della norma penale in quanto opera nei suoi confronti un processo di sottile penetrazione e di progressiva sostituzione [la stessa parola che oggi ho usata a p. 3 nella critica alla sintesi politica criminale-diritto penale sostenuta da Roxin], per cui a dettare la legge non è più il filtro del diritto — ciò che sopra si è chiamato il dover essere, come dire ciò che all’essere chiarisce il dovere — bensì questa oppure quella condizione che di volta in volta ha nei fatti il sopravvento: l’interesse particolare di un singolo, la visione tutta parziale di un gruppo di potere, e così via (30). Su tale direttrice, dopo aver ribadito che a decidere dev’essere il diritto, dev’essere la norma, scrivevo che se la norma è il diritto nel suo momento creante, qualora un diritto creante non sia non è più nemmeno norma: « ciò che in tal caso viene a mancare è infatti la sostanza stessa del dato precettivo, di cui la forma soltanto finisce per permanere » (31). È questo, appunto, il fenomeno che attualmente si riscontra, in modo lineare, pure nel sistema di Roxin, dove il diritto penale sarebbe la forma cui la politica criminale conferirebbe sostanza. Cosicché la relazione socio-penalistica che ho posta oggi in luce nel pensiero dell’autore tedesco, si mostra non diversa da quella che avevo rilevata ieri nella generale tendenza. E pertanto ben si addice qui la medesima grave conclusione cui allora ero pervenuto: « La verità è che mancando nella condizione odierna uno dei due poli su cui regge il fenomeno giuridico-penale, il valore del (29) Questo passo viene richiamato dallo studio 1961-1983. Contro dogmi ed empirismi contenuto nella seconda edizione del Valore problematico appena citato, Milano, 1983, p. 29. (30) Op. cit., p. 30. (31) Op. cit., pp. 30-31.
— 33 — dover essere, manca alla socialità dell’essere affacciantesi di volta in volta sul piano delle leggi, non soltanto il polo opposto — la sostanza del diritto — ma, com’è ovvio, assieme ad esso, quella tensione tra i due che sola trasforma il contatto in contrasto e quindi in problema creando con ciò il rapporto sociale e politico da cui vengono al diritto le proposte per le possibili scelte » (32). Oggi dico qualcosa di più: che in un siffatto rapporto, il quale vede il diritto uscire perdente, perdente, a ben vedere, risulta pure la socialità poiché, in assenza di un confronto con il diritto, la socialità diviene priva dell’unica ragione che la rende giustificabile in un ordinamento. Senza una piena consapevolezza di quanto sin qui affermato ed un conseguente allineamento di pensieri, ogni discorso che riguardi il dato del collettivo in relazione a quello del giuridico è destinato a fallire. Si aggiunga, infine, che il messaggio recato con la socialità dalla nostra epoca non può essere ritenuto valido quando ignori la sostanza del diritto anche perché una socialità configurata come pilotante viene a costituire una regola irrazionale, un’energia allo sbando: cosicché sottoscriverla significherebbe farsi prendere da un’euforia non dissimile da tante altre che hanno pervaso gli studiosi negli ultimi decenni, finendo col trasformare l’essere imprevedibile e cangevole in un imprevedibile e cangevole dover essere. A simili aberrazioni normative è necessario dunque opporsi non solo per salvare il diritto che perde ma anche per salvaguardarsi da una socialità che vince, dalle incognite rilevabili all’interno di essa, ove si formano esigenze le quali sono spontanee sì ma proprio per ciò non ordinate. Il mio colloquio (soliloquio) con Roxin giunge così al suo momento focale. I termini del dissenso si fanno manifesti, e concrete le conseguenze che ne derivano. Un riconoscimento dato alla socialità sul piano del diritto non è, invero, qualcosa di univoco: per l’autore tedesco come per me la giuridicità certo muta allorché non è sola, allorché scopre il fattore comunitario e gli conferisce rilievo. Ma ciò non basta a stabilire un’uguaglianza di pensieri. Quando pure il dato del collettivo riceva il risalto dovuto, quest’ultimo infatti può assumere modi antitetici: o svilupparsi in un processo di penetrazione nel giuridico, per cui entrambi i termini finiscono col perdere la loro identità, o instaurare invece un dialogo che ne rispetti la dualità. Roxin imbocca — ben lo sappiamo — la prima via. Nel suo lavoro la socialità muove verso il diritto e ne permea le strutture. Semplice forma diviene il diritto, sostanza portante la socialità. Ora, di fronte ad una tesi che specie attualmente può attrarre, io voglio qui ribadire quanto ho sostenuto nel mio lavoro 1961-1983. Contro dogmi ed empirismi, e cioè che un diritto è tanto più valido non quanto (32)
Op. cit., p. 39.
— 34 — più sia pervaso di socialità, ma quanto più intenso sia il suo rapporto con essa, quanto più, vale a dire, mantenendo la propria sostanza individuale, si mostri capace di comprendere, come dover essere, l’essere cui si rivolge. Cosicché il rapporto tra i due abbia a significare questo: dialogo, e su tale via dialettica, tra il mutevole che è di ogni momento e l’unico che è della legge, tra quanto per natura è irregolare e quanto è chiamato a costituirne la regola. Il diritto va concepito, cioè, non già come espressione della socialità, ma come strumento con cui si separa, nella socialità, ciò che dev’essere disapprovato da ciò che dev’essere invece approvato; penalisticamente: punito ovvero non punito. Questa la ragione per cui respingo e respingerò sempre l’idea di uno Stato sociale di diritto, che è di ieri ma che può in ogni momento risorgere, con la quale il diritto viene inteso come inscindibile dalla politica e fondato sulla conformità alle esigenze di essa; cosicché quanto dovrebbe essere norma risulta, al contrario, mera adesione a fatti e ad impulsi contingenti. Certo, Roxin qui non c’entra. Il discorso che riguarda la sua costruzione già è stato fatto. Ma posso ben osservare che se quanto egli sostiene non esprime un pensiero come quello appena richiamato perché — e volentieri lo affermo — la politica criminale in cui viene da lui riposta la socialità, risulta autonoma, nello schema delineato, rispetto al diritto penale, un’autonomia siffatta rivela non di meno, alla fine, natura solo concettuale, per i mutamenti apportati nelle strutture del diritto penale a seguito della costatata penetrazione in esso della politica criminale (33). Cosicché (33) Il tema di nuovi rapporti tra diritto penale e politica criminale, la concezione di una politica criminale intesa come socialità e la sua introduzione quale sostanza in un diritto penale inteso come forma, tutto ciò non ha mancato di suscitare interesse pure presso gli studiosi italiani. Molti sono i nomi che testimoniano la validità dei vari interventi: da G.V. DE FRANCESCO (In tema di rapporti tra politica criminale e dogmatica: sviluppi e prospettive nella dottrina del reato, in Arch. pen., 1975, p. 52 ss.) a TAGLIARINI (Politica criminale e sistematica giuridico-penale nel pensiero di Claus Roxin, in Ind. pen., 1976, p. 347 ss.), da MOCCIA (Pena e colpevolezza nel pensiero di Claus Roxin, in Ind. pen., 1981, p. 155 ss.) a PULITANÒ (Politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, a cura di Marinucci e Dolcini, Milano, 1985, p. 36 ss.), a BRICOLA (Rapporti tra dogmatica e politica criminale, in Riv. it., 1988, p. 3 ss.). Quanto a quest’ultimo Autore, voglio ricordare qui il riconoscimento da lui dato a sforzi che ho sostenuti ormai molto tempo fa. Riferisco le sue parole accompagnate, per maggior chiarezza, dai suoi ampi richiami: « Già all’inizio degli anni Sessanta, muovendo da premesse non ideologiche stricto sensu, né costituzionalistiche, bensì da un’impostazione ‘‘problematica’’ della scienza penale, la dogmatica formava oggetto in Italia di pesanti attacchi, in quanto mero reticolo di costruzioni le quali ‘‘vivono prigioniere di una dimensione formale che le fa essere sorde alla socialità perché prive del fatto... Alle sistemazioni dei concetti — che nella scienza penalistica finiscono per divenire le sistematiche delle concezioni — deve sempre accompagnarsi, invece, la mobilità del cercare. Il dogma giuridico non raggiunge attualità e soluzioni: è pensiero pensato non pensante... Da ciò la necessità che sia il problema, in ogni momento, a vivificare il dogma giuridico con la possibile verità di un novum contrario... e la necessità conseguente di dare alla socialità un ingresso effettivo
— 35 — pure in tale tesi si tratta di una concezione la quale appare non compatibile — lo si è visto — con l’evidente esigenza di principi giuridici indipendenti e decidenti. In modo altrettanto convinto aggiungo peraltro che, sebbene dissenta dagli esiti elaborativi raggiunti dall’autore, avverto egualmente l’obbligo di prenderne le difese contro ogni loro utilizzazione strisciante, e di segnalare che la sensibilità culturale e le doti penalistiche di Roxin non debbono essere assoggettate ad avventure — più che ad aperture — verso futuribili socialitari oltremodo pericolosi. Paure infondate? No: minacce che agitano problematiche le quali sono di tutto questo secolo. Oggi non meno di ieri, invero, si fanno sentire, anche se sotterranei, sussulti ideologici individuabili non in uno piuttosto che in altro estremismo ma, più semplicemente, nell’autoritarismo. Sono tali presenze ad aver sollecitato in me i ‘‘pensieri’’ qui riportati circa il dissenso in apparenza soltanto dogmatico di cui si tratta, inducendomi a riflettere sulle radici e sugli approdi culturali che pure in tal caso le strutture del diritto racchiudono. LUCIANO PETTOELLO MANTOVANI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Roma
nella dogmatica: il che solo un reale ascolto preliminarmente prestato al fatto può consentire. Obiettivo, quest’ultimo, non raggiunto né dai fautori degli schemi naturalistici, né dagli assertori del finalisino ‘fenomenologico’, in quanto entrambi mutano non già gli elementi delle anteriori elaborazioni ma soltanto la loro disposizione interna, e con ciò pronunciano contro l’astrattezza da essi addebitata a chi li ha preceduti, una condanna che vale, ovviamente, contro essi stessi’’ » (cfr., al riguardo, il mio Valore problematico, cit., alle pp. 23, 21, 22 e 57). Scriveva ancora Bricola: « La critica alla dogmatica e alla sua anemia problematica mira, per Pettoello Mantovani, a fondare ‘‘una scienza penalistica problematicamente concepita ed autonoma — non empirica né ideologicamente ancella — per una costruzione ontologica da intendersi quale garanzia sia di fronte alla legge come di fronte al giudice’’ » (BRICOLA, op. loc. cit., che si richiama al Valore problematico, cit., p. 39). Accorta individuazione, questa, della tesi da me sostenuta, la quale non è solo di teoria penalistica, ma guarda anche a ciò che politicamente il diritto penale può diventare. E in chiusura (op. cit., pp. 6-7) si legge: « Ritornando recentemente su questi temi, l’Autore (Valore problematico, cit., p. 33) rimprovera alla dommatica non più astrattezza esangue e priva di sacralità e di problematicità ma una tendenza a lasciarsi dominare da una somma confusa di ideologie, a degradarsi dai pensieri agli accorgimenti, a ridursi a tecnica, a politica criminale », consegnandosi così ad un pragmatismo di fondo. E qui Bricola lamentava la sinonimia instaurata tra gli attuali aspetti del diritto penale da me denunciati e la politica criminale. Nulla da obiettare: se egli per politica criminale intendeva, come sappiamo, un insieme di principi direttivi derivanti dalla Costituzione, io non ho infatti alcuna difficoltà a rimuovere dal novero degli empirismi cui oggi il diritto penale si è svilito un riferimento a tale disciplina, da lui trasformata e nobilitata. Il dissenso diventa davvero un fatto puramente terminologico.
CONDOTTA ED EVENTO NELLA DISCIPLINA DEL TENTATIVO (*)
SOMMARIO: 1. Il fondamento della punibilità del tentativo. — 2. Il significato dell’esistenza di reati privi di evento per la teoria del reato. — 3. Il delitto tentato quale « titolo autonomo » di reato. — 4. L’essenzialità del dolo per l’individuazione del tentativo. — 5. La non configurabilità di un « tentativo di delitto colposo ». — 6. La non configurabilità del tentativo nelle contravvenzioni. — 7. Il dolo eventuale nel tentativo. — 8. Il c.d. reato impossibile e il principio generale di idoneità. — 9. L’idoneità degli atti: valutazione a) ex ante o ex post? — 10. Segue: b) in astratto o in concreto? — 11. Il problema dell’univocità degli atti. — 12. Il principio generale di tipicità e la nozione di atto esecutivo. — 13. Desistenza volontaria e recesso attivo. — 14. Tentativo circostanziato e tentativo di delitto circostanziato. — 15. Il tentativo nelle varie specie di delitti dolosi.
1. Il fondamento della punibilità del tentativo. — L’offesa al bene giuridico tutelato dalle norme può consistere, come è noto, in una lesione dello stesso o in una sua mera messa in pericolo; e i reati che, nella previsione legislativa, si esauriscono in quest’ultima, sono notoriamente detti reati di pericolo, in contrapposizione ai primi che sono detti reati di danno. Secondo la dottrina dominante, la ratio, o fondamento, della punibilità del tentativo di reato, ovvero reato tentato, è costituita, per l’appunto, dalla messa in pericolo del bene giuridico, di modo che i delitti meramente tentati, assieme a quelli a consumazione anticipata, rientrerebbero nell’ampia e multiforme categoria dei reati di pericolo. A tale riguardo va però dissipato un sottile equivoco. Bisogna infatti distinguere chiaramente tra la astratta messa in pericolo del bene giuridico tutelato e la concreta messa in pericolo dell’oggetto materiale (cosa o persona). Nel primo caso — nel limitato e astratto senso di una forma categoriale di manifestazione dell’offesa-essenza del reato — giustamente il tentativo può essere catalogato tra i reati di pericolo. Sarebbe però improprio ravvisare nel pericolo per il bene giuridico il fondamento della punibilità dei reati di pericolo, così come sarebbe errato ravvisarlo nella lesione (*) Questo scritto riproduce, con alcune modificazioni, il testo della voce « Tentativo », in corso di stampa nel Digesto, Discipline penalistiche, volume XIV, editrice UTET, Torino.
— 37 — dello stesso per i reati di danno. Come meglio vedremo in prosieguo, la ratio della punibilità dei reati (compresi quelli di mera creazione legislativa, una volta « creati », con esclusione delle sole contravvenzioni) non consiste nel c.d. danno criminale, bensì nell’allarme sociale, ossia in quell’impatto psicologico negativo della trasgressione nel tessuto sociale, da cui scaturisce la « reazione di rigetto » espressa con la pena. Nella seconda, più pregnante, ipotesi bisogna poi considerare che nel tentativo, mancando, per definizione, l’evento naturalistico, viene meno il presupposto sine quo non sarebbe possibile parlare non solo di un danno, ma altresì di un pericolo per l’oggetto materiale (1). Da tutto ciò è dato concludere che la punibilità del tentativo non ha, quale suo fondamento, il pericolo della realizzazione di un evento antigiuridico, comunque inteso, vuoi in senso naturalistico vuoi in senso giuridico. Prima facie, si potrebbe anche supporre che il pericolo per l’oggetto materiale sia tenuto in conto per il tentativo almeno nella fase della sua astratta previsione legislativa. Sennonché non va perso di vista che il legislatore, nell’ipotizzare la figura legale del tentativo, presuppone necessariamente come evitata la possibilità della consumazione; esclude cioè in partenza la realizzazione dell’intento del soggetto attivo, e con ciò la stessa sussistenza di un effettivo pericolo. Per definizione è meramente tentato il reato che, visto post factum, non si è consumato; per cui, anche se può avere dato luogo a « sensazioni » di pericolo, quest’ultimo è però da ritenersi escluso dalla sua astratta strutturazione normativa proprio in quanto il tentativo è in essa considerato come mero « conato », ossia come reato privo di evento. Comunque, sempre in sede di astratta previsione legislativa, condotte illecite che dessero luogo a un pericolo sarebbero necessariamente dei reati con evento, e, precisamente, con evento di pericolo, come quelli cui fa riferimento il legislatore con l’espressione « evento dannoso o pericoloso » usata agli artt. 40, 43 e 49, 2o comma, c.p.. In questo caso si tratterebbe però di reati di pericolo punibili in quanto tali, e non già in quanto tentativi di reato, essendo questi ultimi per l’appunto configurati, già in linea ontologico-strutturale, come carenti di quell’evento — di pericolo o di danno che sia — la cui realizzazione darebbe luogo al reato consumato di pericolo o di danno. Ma neppure se vista in concreto la punibilità del tentativo può essere (1) Se fosse diversamente, non si vedrebbe bene perché venga punita la sola messa in pericolo dolosa e non anche quella colposa. Né ciò può accadere in ragione della minore gravità di quest’ultima, giacché non sempre questo è vero: ad esempio, una messa in pericolo colposa con virtuale esito mortale costituisce una condotta obiettivamente più grave che non una lesione dolosa lieve o delle semplici percosse. La verità è che l’evento è essenziale per la rilevanza dei reati colposi, mentre nel tentativo di reato l’evento è invece, per definizione, assente.
— 38 — ricondotta al pericolo. In effetti un tentativo di reato deve essere punito anche se — lo si consideri ex post, ovvero ex ante, ossia prima della sua attuazione — la condotta non abbia dato luogo ad alcuna reale e concreta situazione di pericolo. Per fare un esempio, è punibile anche chi spara con un’arma che sia il soggetto passivo sia gli astanti sanno bene essere difettosa, e quindi specificamente non idonea a realizzare l’intento. Come vedremo in prosieguo (§ 10), è sufficiente una generica idoneità dell’azione, ossia una sua attitudine genericamente o approssimativamente intesa e valutata. Ma ad un’idoneità siffatta non corrisponde sempre un effettivo pericolo; né una condotta solo genericamente idonea può necessariamente costituire una condotta pericolosa. Un pericolo astratto, quale in fondo è quello generico, non è un pericolo reale, ma è solo la possibilità di un pericolo. La verità è che l’idea, quanto mai diffusa in dottrina, secondo cui il tentativo di reato verrebbe punito in ragione della pericolosità della condotta, è frutto della tralatizia concezione — in Italia tuttora dominante — secondo la quale il diritto penale dovrebbe essere inteso in funzione della prevenzione non già di condotte criminose in quanto tali, bensì di eventi dannosi (c.d. Erfolgsstrafrecht, o diritto penale dell’evento). A ben guardare, invece, alla luce di una moderna concezione personalistica dell’illecito penale — la quale trova oltretutto sostegno nell’art. 27, 1o comma della nostra Costituzione — il reato si configura più propriamente, non già come la produzione di un evento antigiuridico, bensì come la produzione antigiuridica di un evento. Di modo che il disvalore penale, sia del reato tentato che di quello consumato, va ravvisato nella condotta, e non già nell’evento (diritto penale della condotta, o Handlungstraf recht) (2). Se ciò è valido per tutti indistintamente i reati, è però particolarmente evidente per quelli c.d. « di mera condotta », ma soprattutto per quelli tentati, proprio in quanto essi, per definizione, difettano dell’evento come elemento costitutivo, così che un disvalore dell’evento non è qui neppure astrattamente ipotizzabile. Il disvalore di condotta non comporta però, si badi, che la punizione del tentativo debba ascriversi a pure motivazioni etico-sociali. Sicché non può accogliersi l’opinione dei soggettivisti (come ad es. il Maggiore), secondo la quale il tentativo sarebbe punibile in quanto « manifestazione di (2) La constatazione che il delitto tentato costituisce il più chiaro e comprovante esempio di illecito penale a disvalore di condotta è corroborata dal fatto che la sua configurazione è sconosciuta nel diritto penale romano classico e nel diritto penale germanico, e soltanto timidamente emerge nel diritto penale giustinianeo e nei diritti germanici influenzati dall’evoluzione giuridica romana. È in definitiva col Cristianesimo — il quale valorizzò il momento soggettivo della condotta ed esaltò il valore di quest’ultima — che il tentativo comincia ad assurgere a categoria autonoma, successivamente teorizzata dai Commentatori. Ciò significa che in tanto sorge e assume fondamento la rilevanza di un reato solo tentato, e non consumato, in quanto pervenga a rilevanza penale il disvalore di un fatto privo di evento, ossia il disvalore della pura condotta.
— 39 — una volontà ribelle alla legge », mostrando così di intendere la reazione punitiva in funzione diretta della violazione del dovere di obbedienza del cittadino. Il tentativo non può infatti essere concepito come un reato di mera disubbidienza, per giunta ispirato a una sorta di diritto penale dell’atteggiamento interiore (Gesinnungsstrafrecht), del tutto in contrasto col fondamentale principio del diritto penale del fatto. In effetti la mancanza di evento non impedisce assolutamente al reato tentato di conservare il suo contenuto di offensività nei confronti del bene giuridico (3). Si tratta anzi di una offensività che si riconnette al bene giuridico tutelato in modo primario e diretto, scaturendo dal puro disvalore di condotta, senza passare attraverso la mediazione di un qualche disvalore di evento, derivante da un risultato naturalistico « dannoso o pericoloso ». A sua volta il concetto di « offesa al bene » deve intendersi nell’ampio senso psico-dinamico di turbamento sociale intrapsichico relazionato al valore tutelato e non, tout court, nel convenzionale senso razionale-meccanicistico di lesione o messa in pericolo dello stesso. Del resto, a ben (3) Non è superfluo osservare, per inciso, che l’espressione « tale comportamento offende il bene giuridico » viene in dottrina impropriamente intesa come equivalente a « tale comportamento cagiona (provoca, produce, etc.) un’offesa al bene », anziché, come sarebbe più corretto sul piano linguistico, a « tale comportamento rappresenta, o costituisce, un’offesa al bene ». Non abbiamo qui che da ripetere le parole di ANTOLISEI: « questo modo di configurare i rapporti fra il reato e l’offesa dell’interesse tutelato è erroneo, perché l’offesa in parola non è un effetto del reato, ma ne costituisce il contenuto » [...] è lo stesso comportamento ravvisato come lesione del bene anzidetto (Manuale, p. gen., 13a ed., Milano, 1994, 186). Insomma, il termine « offesa » altro non è che un traslato, il quale sta ad esprimere l’essenza antinormativa del fatto, ossia la sua trasposizione semantica in termini di disvalore. Il carattere offensivo della condotta rappresenta semplicemente un predicato di relazione di questa. Seppure si vuol concepire l’offesa come una sorta di « conseguenza » del comportamento, dovrebbe essere chiaro che si tratta di una conseguenza di natura puramente logica, allo stesso modo che una conclusione può essere definita come la conseguenza di un sillogismo. È cioè un’inferenza di natura logico-deduttiva, la quale non ha assolutamente nulla a che vedere con i processi di causalità naturalistica. Né vale eccepire, di contro, che la legge ricollega espressamente il danno o il pericolo all’evento, e non già alla condotta, proprio ai più volte citati artt. 40, 43, 49 c.p., con la significativa espressione « evento dannoso o pericoloso ». È fuori dubbio che il danno o il pericolo materiale, i quali possono derivare dall’evento, non sono affatto la stessa cosa che la lesione e la messa in pericolo ideale nei confronti del bene giuridico. Notoriamente, nell’omicidio, una cosa è la morte fisica della vittima, come conseguenza naturalistica della condotta, e altra cosa è la lesione, ossia l’offesa, recata al bene giuridico protetto della vita, come conseguenza logica di una condotta di omicidio consumato. Seppure, nella specie, il risultato materiale finisce col « coincidere » cronologicamente con la conseguenza logica dell’offesa, ciò non toglie nulla al fatto che si tratta di due entità concettuali del tutto distinte. Tanto è vero che, nel tentativo di omicidio, si ha comunque l’offesa del bene giuridico-vita, anche se in concreto può non esservi stato alcun pericolo per la vita fisica di un soggetto, e addirittura neppure sensazione alcuna di pericolo (es.: uso di arma scarica per errore dell’agente, ben noto al soggetto passivo al momento del tiro). Sull’argomento, cfr.: MORSELLI, Disvalore di evento e disvalore di condotta nella teoria del reato, in RDPP, 1991, 832 ss.
— 40 — guardare, un bene giuridico, in quanto entità astratta, non può mai essere propriamente leso o messo in pericolo; e dovrebbe essere chiaro che quando si usano simili espressioni non si fa altro che dar luogo ad una metafora, sia pure convenzionalmente utile, ma a nulla di più di una metafora. Orbene, il disvalore di condotta — nel tentativo non meno che nei delitti consumati — in tanto solleva l’esigenza emotiva della punizione, in quanto provoca quell’effetto reattivo nella comunità, o turbamento sociale intrapsichico, che si denomina allarme sociale. Ragion per cui è proprio siffatto allarme sociale a costituire, in definitiva, il fondamento della punibilità del reato tentato; esattamente come avviene per il delitto consumato, esso rappresenta l’espressione immediata, in termini emozionali, del contenuto di offensività del tentativo nei confronti dei beni tutelati (4). Detto allarme sociale non ha nulla a che vedere con il pericolo — concreto o astratto, reale o virtuale che sia — e neppure con la sensazione di un siffatto pericolo, fondata o infondata: esso insorge nella collettività non già in seguito alla previsione e al relativo timore di possibili conseguenze dell’attuale o del futuro operato del soggetto agente, sibbene in seguito all’apprendimento di un fatto avvenuto in violazione di un interiore divieto o « tabù » collettivo, operante a livello inconscio. Tanto è vero che l’esigenza di una reazione punitiva scaturirebbe comunque anche nell’estrema ipotesi che venisse dimostrata la totale inesistenza in concreto sia di un pericolo attuale sia di un pericolo futuro, e questo in termini di prevenzione, non solo speciale, ma financo generale. Anche se ciò non significa che necessariamente il soggetto vada punito: mode ipergarantistiche, o più serie preoccupazioni umanitarie, possono esimere dall’applicazione della pena. Nel qual caso l’assenza di pericolo può servire di supporto al (4) È particolarmente illuminante la contraddizione in cui è caduto ANTOLISEI laddove (cfr. Manuale, cit, 441) afferma che « la ragione per la quale si punisce il tentativo è la stessa, proprio la stessa per la quale si punisce il reato consumato [... e cioè:] reca un duplice pregiudizio: turba il soggetto passivo e produce allarme sociale nell’ambiente in cui si svolge ». La contraddizione consiste in ciò: in precedenza (184 ss.) l’A. aveva sostenuto che il fondamento della punibilità del reato consiste nel c.d. danno criminale, vale a dire nella lesione o messa in pericolo di un bene, nelle quali egli ravvisa l’offesa-contenuto (e non già risultato) del reato. Ora una cosa è l’allarme sociale inteso come turbamento sociale intrapsichico conseguente al reato, altra è la lesione o la messa in pericolo di un bene giuridico, intese nel convenzionale senso meccanicistico-ontologico. E poiché nel tentativo la possibilità della consumazione si presuppone esclusa, giustamente l’A. ha evitato di ravvisare nel pericolo il fondamento della sua punibilità. Ma allora è gioco-forza concludere che è l’allarme sociale la vera ragione per cui si punisce non solo il reato tentato, ma altresì quello consumato, costituendo per entrambi il comune denominatore e l’origine della esigenza emotiva di pena. È da notare che il fondamento della punibilità del tentativo è visto nell’allarme sociale dalla maggioranza della dottrina tedesca (c.d. Eindruckstheorie). Cfr. per tutti, JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allg. Teil, 4a ed., 1988, 462 s., specie nota 16. Per la nostra letteratura si fa rinvio a: MORSELLI, Disvalore d’evento, cit., passim; ID., Note in tema delitto tentato, in AP, 1987, 80 ss.
— 41 — meccanismo di razionalizzazione, che di solito si utilizza per giustificare la mancata punizione. Ma questo non vuol dire, si badi, che l’esigenza punitiva non fosse adeguatamente fondata; più semplicemente, essa è stata disattivata da susseguenti controspinte emozionali. 2. Il significato dell’esistenza di reati privi di evento per la teoria del reato. — Secondo la concezione originaria del legislatore, quale emerge dagli artt. 40, 41, 42, 43, 49, 56, etc. del codice, di regola tutti gli illeciti penali sono reati di evento e non si ha rilevanza penale senza un rapporto di causalità con la condotta. E da una siffatta concezione non vediamo ragione di discostarci. Sfuggono a questa regola solo quei reati che, per espressa destinazione legislativa, si presentano strutturati come privi di evento. Non ci riferiamo qui alle fattispecie che la dottrina suole impropriamente designare come « reati di mera condotta », giacché anche in esse è possibile ravvisare un evento naturalistico, e precisamente un « evento concomitante » alla fase conclusiva della condotta, in quanto non cronologicamente scisso dalla medesima (es.: l’assenza del detenuto nel reato di evasione). Si tratta invece dei reati c.d. a consumazione anticipata (tra i quali si pongono anche i delitti di attentato e gli omissivi propri) e di quella forma di manifestazione del reato che è per l’appunto rappresentata dal tentativo; entrambi questi due tipi di reato presentano rilevanti analogie strutturali, essendo i primi caratterizzati dall’assenza di un evento quale elemento costitutivo della fattispecie e, al tempo stesso, dalla « tendenza » alla realizzazione di un risultato esterno alla fattispecie. L’esistenza di reati che, per espressa strutturazione, sono carenti di evento è di notevole significato. Essa sta a dimostrare che il minimo comune denominatore di ogni illecito penale è costituito dalla sola condotta; e che, pertanto, il disvalore intrinseco, su cui si fonda l’antigiuridicità del fatto, non può essere ravvisato che come un disvalore di condotta, e non già di evento. Ancor più evidente risulta siffatto fondamentale rilievo, se si riflette che il tentativo non può considerarsi come un reato imperfetto per il semplice fatto che l’iter delittuoso è rimasto incompleto. Sia la semplice assenza dell’evento (c.d. tentativo compiuto ovvero delitto mancato) che l’eventuale incompiutezza della condotta (tentativo incompiuto) — secondo la distinzione fatta dallo stesso legislatore all’art. 56 — non assumono rilevanza al punto da togliere perfezione al reato: reato non consumato non equivale a reato non perfezionato (ad es., il reato permanente si consuma con la cessazione della situazione posta in essere, ma si perfeziona nel momento in cui questa ha inizio). Vero è che il nostro codice prevede per il tentativo una diminuzione obbligatoria della pena (art. 56, comma 2o) come se si trattasse di un titolo di reato di minore portata, in quanto « amputato » e quindi imper-
— 42 — fetto, se non addirittura come una sorta di circostanza attenuante (atecnica) del reato consumato. Questa diminuzione tuttavia non deve necessariamente essere intesa nel senso che il legislatore consideri la carenza dell’evento, di per sé, ragione di un diminuito disvalore del fatto, in quanto carente di disvalore di evento; piuttosto va ravvisato in essa una presunzione (assoluta) di minore disvalore della condotta, in quanto si assume essere questa non dotata di un grado di idoneità sufficiente fino al punto da produrre l’evento stesso. Altre legislazioni — a nostro avviso più correttamente — tengono in considerazione la possibilità, tutt’altro che infrequente, che la mancanza dell’evento sia in concreto dovuta al caso fortuito o alla forza maggiore, anziché alla inadeguatezza dell’azione, per cui preferiscono affidare alla discrezionalità del giudice non solo il quantum, ma altresì l’an di tale diminuzione (ad es.: legislazione svizzera, tedesca, svedese, danese, russa, cinese, etc.) o addirittura non prevederla espressamente (legislazione francese, polacca, etc.). Del resto, a essere coerenti, se proprio si volesse tener fede alla logica del diritto penale dell’evento, ci si dovrebbe chiedere come mai, nel nostro ordinamento, un reato del tutto privo di evento, come è quello tentato, viene comunque punito. Dovrebbe invero apparire più rilevante il fatto che la mancanza d’evento in questo caso non elimina radicalmente la punibilità, che non il mero dato della esigenza di una poenae deminutio. Se la punibilità, per quanto diminuita, resta pur sempre in piedi, vuol dire allora che il vero baricentro del reato è dallo stesso legislatore accentrato sulla condotta, e non già sull’evento! In effetti, la condotta è l’unico elemento che il reato tentato ha in comune con quello consumato, consistendo la differenza tra l’uno e l’altro proprio nell’assenza dell’evento in quello tentato. 3. Il delitto tentato quale « titolo autonomo » di reato. — Quanto si è testé enunciato vale anche a far luce sulla questione se l’art. 56 costituisca o meno una norma accessoria, « estensiva » della punibilità direttamente derivante dalla norma incriminatrice « principale » di parte speciale (come, ad es., quella dell’art. 624 sul furto). L’opinione corrente in dottrina, secondo cui, senza l’estensione derivante dal citato art. 56, nessun reato sarebbe punibile « a titolo di » tentativo, sembra trovare fondamento nella tecnica legislativa, in base alla quale le fattispecie sono descritte solo in termini di consumazione, vale a dire di realizzazione dell’evento. Ma una tale considerazione si muove evidentemente nella tralatizia prospettiva del diritto penale dell’evento e deve essere quindi riveduta sulla base del principio personalistico. Anche in ipotetica assenza di una norma espressa, quale l’art. 56, la punibilità a titolo di tentativo — comunemente ammessa da tutti i sistemi giuridici — potrebbe e dovrebbe essere desunta dalla norma incriminatrice (impro-
— 43 — priamente) detta « principale ». Ciò non già in base al principio che il maius conterrebbe in sé anche il minus — per cui l’incriminazione del reato consumato coinvolgerebbe necessariamente anche quella del mero tentativo — sibbene partendo dal presupposto che il nucleo dell’illecito penale è costituito dal disvalore della condotta. Si scorge così che, piuttosto che un maius rispetto al tentativo, la consumazione ne costituisce un quid pluris. In altre parole, nonostante che la norma sul tentativo possa apparire configurata come una circostanza attenuante atecnica rispetto a quella incriminatrice di parte speciale, nella sostanza può ravvisarsi proprio il contrario: è la consumazione che dovrebbe se mai essere considerata una circostanza aggravante atecnica rispetto al tentativo, dal momento che con quest’ultimo il reato è già perfetto, e il disvalore della condotta è già venuto in essere; e si è manifestato nella sua pienezza, come è particolarmente evidente quando il delitto non sia giunto a consumazione solo per intervento del caso fortuito o della forza maggiore. Del resto il tentativo non potrebbe comunque costituire una circostanza attenuante rispetto al reato consumato per la semplice ragione che la circostanza rappresenta sempre qualcosa di più nei confronti della figura tipica del reato, mentre nel nostro caso si ha qualcosa di meno (5). Esattamente si sostiene in dottrina che, pur conservando il nomen juris della figura delittuosa cui si riferisce, il delitto tentato costituisce un autonomo titolo di reato rispetto a quello descritto nella fattispecie della parte speciale. Ciò però mal si concilia con il diffuso assunto che l’art. 56 c.p. rappresenti una norma « secondaria » con funzione estensiva rispetto alla norma di parte speciale, che sarebbe da considerarsi come « principale ». In realtà una soluzione meramente tecnica, dettata da preoccupazioni di semplificazione e di economia espositiva, nel corso della redazione del codice, non può essere spinta fino ad assumere arbitrari significati contenutistici. Senza queste pur comprensibili preoccupazioni di economia sistematica, nulla avrebbe impedito al legislatore di descrivere, accanto a (nell’ordine topico, dopo, o meglio ancora, prima di) ogni fattispecie di consumazione, anche una fattispecie di tentativo. Ciò avrebbe avuto almeno il non trascurabile vantaggio di tagliar corto alle vexatae quaestiones relative alla configurabilità del tentativo nelle diverse categorie di reati. Addirittura il legislatore avrebbe anche potuto formulare una gran parte delle norme in chiari termini di disvalore di condotta, anziché di evento. Così, ad es., la norma che proibisce l’omicidio poteva essere scritta, in analogia a quanto fatto nell’art. 276 (attentato al Capo di Stato), precisamente così: « chiunque attenta alla vita di un uomo è punito, etc. »; al contempo nulla impediva di stabilire poi un aumento di (5)
Così testualmente ANTOLISEI, op. cit., 438.
— 44 — pena per il caso che l’agente abbia conseguito il suo scopo, col procedimento seguito, ad es., negli artt. 247 e 642 (6). Del resto una norma similare già è stata inserita nel Codice col nuovo testo (1979) dell’art. 280. 4. L’essenzialità del dolo per l’individuazione del tentativo. — L’analisi strutturale della rilevanza penale del tentativo offre la più eloquente dimostrazione di quella essenziale appartenenza del dolo all’intima struttura della condotta e quindi all’antigiuridicità, anziché alla colpevolezza (7), che costituisce il perno teorico di ogni moderna concezione « personalistica » dell’illecito penale. Nel tentativo, l’esteriorizzazione dell’intento del soggetto è ridotta al minimo: manca del tutto l’evento (ipotesi di c.d. delitto mancato, o tentativo compiuto) o, addirittura, oltre all’evento, anche una parte della condotta tipica (tentativo incompiuto). La carenza di materialità che ne deriva sottrae al fatto buona parte di quella univocità di significazione che normalmente accompagna ogni realizzazione esteriore; sicché quel significato che nel reato consumato può essere obbiettivamente fornito dai « facta concludentia », nel tentativo è invece individuabile soprattutto attraverso la via obbligata dell’elemento soggettivo. In breve, non è possibile giungere ad affermare che un dato delitto è stato « tentato » senza tener conto dell’intenzione del soggetto in modo primario e diretto, ossia già in sede di accertamento della tipicità, prima ancora che ai fini della colpevolizzazione. Si prenda in considerazione un tentativo di omicidio, con ferimento al corpo della vittima. Esteriormente, niente, assolutamente niente, distingue codesto tentativo di omicidio, dalle lesioni personali. Ciò che impedisce a questo ferimento di essere una semplice lesione, per trasformarsi in un fatto molto più grave, quale è il tentativo di omicidio, è esclusivamente l’intenzione di uccidere che ha diretto e sorretto l’azione criminosa del soggetto. Se mancasse all’azione questa precisa intenzionalità, cadremmo in un vicolo cieco, perché non resterebbe più alcuna distinzione possibile tra una lesione personale ed un tentativo di omicidio. Più che mai nel tentativo rifulge quindi quella che è la funzione del dolo come « portatore del significato dell’illecito » (8). Codesta funzione non è qui affatto diversa da quella svolta nel reato consumato, ma nel tentativo essa emerge al massimo chiara e inconfutabile. In ultima analisi, ciò (6) Sia l’esempio che l’assunto sono di ANTOLISEI, op. cit., 440. (7) È notoriamente merito di Hans WELZEL aver messo in rilievo tale prospettiva dogmatica (c.d. teoria finalistica dell’azione). L’essenzialità del dolo per la individuazione del tentativo e quindi, a fortiori, del reato consumato, costituisce uno dei cardini più efficaci e suggestivi della sua argomentazione. Cfr. di tale A.: Das deutsche Strafrecht, 3a ed., 1954, 32, ed edizioni successsive. (8) Per ulteriori sviluppi, cfr.: MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989.
— 45 — che vale per il reato tentato, deve valere a fortiori anche per quello consumato: il dolo è elemento della fattispecie, e non già della colpevolezza; svolge un ruolo fondante della stessa tipicità ed è essenziale per l’individuazione della tipicità del fatto concreto. 5. La non configurabilità di un « tentativo di delitto colposo ». — Dall’essenzialità strutturale del dolo per la condotta tipica del tentativo (e, a fortiori, del reato consumato) deriva anche l’impossibilità di configurare un « tentativo di delitto colposo ». Di regola, il codice non prevede la rilevanza di condotte colpose non seguite da evento: l’evento è perciò essenziale per la rilevanza dei reati colposi. Ciò potrebbe bastare per escludere la punibilità di un tentativo in un delitto colposo. Nondimeno, per l’attuale tendenza ad anticipare la soglia della tutela dalla fase del danno a quella del pericolo, nulla impedisce che il legislatore giunga a configurare con un disposto autonomo, analogo all’attuale art. 56, la rilevanza del fatto colposo, anche indipendentemente dall’attuazione di un risultato, come « forma di manifestazione » del reato diversa dalla consumazione. Ciò è tanto vero che già allo stato attuale, buona parte della materia contravvenzionale (specie nell’ambito della circolazione stradale) è concepita come configurazione di reati colposi « a consumazione anticipata ». Peraltro, è da osservare che, in una simile ipotesi di creazione di una forma di manifestazione diversa dalla consumazione, specifica per i delitti colposi, dovrebbe essere vista tutt’al più la configurazione di reati colposi di pericolo. Non si tratterebbe cioè in nessun modo di « tentativi colposi » in senso proprio; ciò per la semplice ragione che un tentativo senza « intento », vale a dire senza dolo, è una contraddizione in adjecto, non essendo strutturalmente concepibile tentare la realizzazione di un fatto, senza al tempo stesso prevedere e volere o, quanto meno, « consentire al rischio » del risultato della condotta. 6. La non configurabilità del tentativo nelle contravvenzioni. — Il codice prevede espressamente la punibilità del tentativo solo per i delitti (epigrafe e testo dell’art. 56). Si ritiene in dottrina che ciò sia semplicemente dovuto al c.d. principio di intervento minimo, e, precisamente, alla insufficiente rilevanza offensiva di un fatto contravvenzionale nella mera fase del tentativo. In realtà non si tratta qui di un semplice problema di misura quantitativa della rilevanza offensiva del torto. Ciò che viene in gioco è invece la sostanziale diversità di struttura degli illeciti delittuosi rispetto a quelli contravvenzionali: solo i primi presentano natura criminosa, con relativo disvalore di condotta e conseguente allarme sociale; mentre i secondi costituiscono illeciti di formale disubbidienza a un divieto di provocare un
— 46 — evento, proprio in quanto, dal punto di vista criminologico, non provocano allarme sociale. È questa la ragione per cui, se pure non mancano contravvenzioni commesse con la rappresentazione e la volizione dell’evento (es.: artt. 655, 659, 718, 663, etc. c.p.), il dolo, inteso come malafede o animus criminoso, rimane caratteristica esclusiva dei delitti. In ciò sta il senso, e al tempo stesso, la soluzione alla vexata quaestio dottrinale circa l’elemento soggettivo nelle contravvenzioni. Consegue da tutto ciò che, una volta riconosciuto che le contravvenzioni non hanno mai carattere doloso, ma sempre e soltanto colposo, e posto che per aversi tentativo occorre il dolo, il tentativo risulterà allora necessariamente configurabile solo per i delitti, e tra questi — come si è detto — solo per quelli dolosi. Questa è la ragione di fondo della limitazione del tentativo ai soli delitti contenuta nell’epigrafe dell’art. 56. 7. Il dolo eventuale nel tentativo. — Assai controverso è il problema della configurabilità di un tentativo con dolo eventuale. Esempi scolastici a riguardo sono il caso di chi incendia una casa prevedendo la morte di una vecchietta paralitica, pur senza volerla né desiderarla, ma solo acconsentendo al rischio, o quello del terrorista che mette una bomba sotto un monumento al solo scopo di distruggerlo, ma anche a costo di coinvolgere un passante. Contrariamente alla maggioranza della dottrina (9), la giurisprudenza è piuttosto propensa a ritenere il fatto punibile a titolo di tentativo (nella specie come tentativo di omicidio, in concorso con incendio o danneggiamento tentato o consumato). Certo, se si dovesse seguire alla lettera la nozione formale del dolo, quale sembra emergere dall’art. 43, 1o comma, Ia alinea (previsione e volizione dell’evento) e, a maggior ragione, se si restringesse ulteriormente la portata del dolo nel tentativo alla sola « intenzione », seguendo ancor più rigorosamente il dettato di tale disposto (« il delitto è doloso, o secondo l’intenzione... »), un tentativo commesso con dolo eventuale non apparirebbe neppure concepibile. Ma se si parte dalla semplice e in sé ovvia considerazione che il tentativo altro non è che attuazione parziale o totale della condotta descritta nella fattispecie dolosa prevista per il reato consumato, con la sola variante della mancanza di evento, allora ci si rende conto che il dolo del tentativo non può essere altro che il dolo della consumazione; e poiché questo — nonostante il silenzio (lacuna) legislativo (9) Sul punto: MORSELLI, Il dolo eventuale nel delitto tentato, in IP, 1978, 27 ss. Per la tesi restrittiva, che però non tiene conto dell’allarme sociale che sta a fondamento della punibilità del tentativo, e che è presente anche in caso di dolo eventuale: DE FRANCESCO G.A., Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, in RIDPP, 1988, 963 e ss. In senso conforme al testo cfr. invece: ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, I, 2a ed., 1995, 552; PETROCELLI, Il delitto tentato, 1966, 36; VANNINI, Il problema giuridico del tentativo, 2a ed., 1950, 51.
— 47 — — può in concreto manifestarsi anche nella forma del dolo eventuale, allora non v’è ragione alcuna per cui non possa essere ravvisato un tentativo punibile anche in chi abbia agito col solo dolo eventuale. Ciò appare più persuasivo se si riconosce che il concetto criminologico di dolo non può identificarsi col momento volitivo; esso è qualcosa di più ampio e profondo, ed ha natura emozionale-affettiva; è l’atteggiamento di interiore adesione (Gesinnung) al risultato antisociale, il quale può sì presupporre la sua volizione (come avviene nel caso di dolo intenzionale), ma non si identifica necessariamente con questo. Quanto al requisito della direzionalità, che nel tentativo deve sorreggere (art. 56: « atti diretti a... ») la condotta delittuosa, essa deve essere intesa, anziché nel restrittivo senso soggettivo di sinonimo della « intenzionalità », più propriamente come finalità intrinseca obiettivamente emergente dalla condotta, quale conseguenza di tale atteggiamento interiore, in quanto diretto contro l’oggetto materiale del reato e/o il soggetto passivo. 8. Il c.d. reato impossibile e il principio generale di idoneità. — Il tentativo è in primis regolato dall’art. 56 c.p. Nondimeno l’analisi della normativa ad esso attinente deve iniziare dall’art. 49, 2o comma, il quale disciplina il delitto impossibile: « la punibilità è [...] esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso ». Il ruolo e la portata normativa di tale disposto sono da tempo oggetto di accesa controversia in seno alla dottrina. Mentre tradizionalmente si tende a ravvisare in esso un fenomeno che rappresenti, per così dire, un « doppione in negativo » del delitto tentato (l’esclusione dalla pena di azioni non idonee a produrre l’evento, vale a dire di ciò che, impropriamente, viene anche denominato come « tentativo inidoneo »), un’autorevole corrente dottrinaria intende invece assegnarvi il ruolo di portatore del principio c.d. di (effettiva) offensività (10). Tale concezione (c.d. « realistica dell’illecito ») fa leva, tra l’altro, (10) La teoria è nota. Vedi per tutti: MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 203 e ss. e letteratura ivi citata. La principale critica che va sollevata verso la c.d. « concezione realistica » dell’illecito, è che essa identifica il principio di offensività con il principio di materialità, intesa quest’ultima come dannosità, con il risultato di ravvisare il disvalore del reato nell’evento, sia esso naturalistico ovvero giuridico, mentre invece il disvalore va visto nella condotta. Non basta infatti che un fatto sia lesivo di un bene o lo metta in pericolo, perché sia di per sé antigiuridico. L’attività medico-chirurgica, per esempio, è pericolosa e può risultare perfino dannosa, quando porta alla morte del paziente; lo stesso si deve dire per la violenza sportiva; ma nonostante ciò si tratta di attività che, per mancanza di disvalore della condotta, sono socialmente adeguate, e quindi atipiche, perciò giuridicamente indifferenti. Analogo ragionamento vale per le cause di giustificazione: la legittima difesa o lo stato di necessità comportano comunque un danno (anche la vita dell’aggressore, come tale, ha valore e deve essere rispettata nei limiti del possibile); tuttavia la condotta di chi agisce per legittima difesa o per stato di necessità, in quanto, per la circostanza della « costrizione » (artt. 52 e 54 c.p.), sia sorretta
— 48 — sulle numerose discrepanze tra il disposto di cui si tratta e l’art. 56. In particolare, nel primo è dato ravvisare principalmente: l’estensione della normativa alle contravvenzioni, implicita nell’epigrafe all’articolo (« reato impossibile »); la limitazione del requisito dell’idoneità all’« azione », anziché agli « atti »; l’ulteriore ipotesi di « inesistenza dell’oggetto » materiale; l’omissione del requisito dell’univocità; la previsione d’una misura di sicurezza. Ma il punto decisivo su cui intende far leva cotale interpretazione risiede nell’espressione « evento dannoso o pericoloso », che, allo stesso modo di quella analoga contenuta nell’art. 43 (ma a differenza del termine « evento » contenuto nell’art. 56), si vuole debba essere concepita in senso « giuridico ». Diverse e variegate sono le argomentazioni addotte a sostegno di questa tesi; tra queste, in primis, la « logica necessità » che il disposto venga inteso come concernente tutti i reati, e quindi anche quelli che si assumono essere « di pura condotta », ossia « privi di evento naturalistico »; nonché il ruolo di offesa verso il bene tutelato che il legislatore avrebbe assegnato all’evento per averlo qualificato con i predicati di reladall’animus defendendi, è socialmente tollerata per carenza di disvalore di condotta, e il fatto difetta di antigiuridicità non già perché privo di danno sociale, ma perché non viola un dovere giuridico, per il principio vim vi repellere licet (sottolinea lucidamente il ruolo dell’elemento soggettivo nelle cause di giustificazione SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, 1981, passim). Tutto ciò nonostante che, ancora una volta, si tratti di fatti materialmente dannosi. Il discorso, di cui sopra, vale per i reati dolosi. Per quelli colposi si deve fare, invece, riferimento al principio cosiddetto del « rischio consentito », detto anche « rischio socialmente adeguato ». Anche qui troviamo che nella vita sociale i beni giuridici sono continuamente minacciati da attività pericolose e dannose, che entro un certo limite sono però consentite; basta pensare ai problemi ecologici provocati dalle industrie chimiche e degli inquinamenti industriali, dei mari e dei fiumi, e soprattutto al fenomeno della circolazione stradale, dove continui sono sia il danno che il pericolo. Esiste quindi una sfera di rischio nella vita collettiva, che è consentita; essa lo è però alla condizione e nei limiti in cui la condotta sia osservante di determinate regole cautelari, e pertanto risulti, in tal modo, priva di disvalore. Anche qui è chiaro che, se ci mettessimo dal punto di vista del principio di materialità o dannosità, a stretto rigore, tutte queste attività dovrebbero essere vietate, ma con la intollerabile conseguenza che la vita comune sarebbe paralizzata. In conclusione, si deve dire che il principio di offensività va inteso nel senso che l’offesa diretta al bene giuridico o, più genericamente, all’interesse giuridico, non passa attraverso l’evento naturalistico, bensì deriva direttamente dalla condotta: il portatore dell’offesa al bene, ossia del disvalore, non è l’evento, ma la condotta. A quali gravi pericoli può condurre lo sviluppo consequenziale della logica del c.d. « diritto penale dell’evento » è dimostrato dal recente scritto di SGUBBI, Il reato come rischio sociale, 1991, nel quale viene prospettato il disfacimento dei basilari principi della tipicità, della determinatezza, della responsabilità fondata sull’accertamento dell’elemento soggettivo, e, per finire, di quello stesso principio di offensività in relazione al bene giuridico che costituisce il cardine c.d. garantistico della concezione c.d. realistica del reato. Il reato decade così a mera « trasgressione » (reato « di pura disubbidienza »?) e l’intera materia viene a perdere il proprio contrassegno di disvalore « criminalistico » per straripare sul terreno del diritto amministrativo!
— 49 — zione della dannosità e della pericolosità: un evento dannoso o pericoloso — si dice — non può essere altro che la lesione o la messa in pericolo del bene. Una tesi siffatta non può però essere accolta. A parte il rilievo che taluna di queste discrepanze viene a rappresentare un motivo di logica incongruenza proprio nell’ambito della tesi stessa (si veda, ad esempio, l’inserimento dell’inesistenza dell’oggetto materiale), si osserva che, se può essere condivisibile che la lettera del disposto sembra non coincidere, nella sua formulazione, con un mero « doppione in negativo » del delitto tentato, resta comunque vero che essa neppure vi si discosta del tutto: dato il riferimento alla sussistenza di un’« azione », lo si può negare per il tentativo incompiuto, ma non per quello compiuto. Va comunque riconosciuto che se si attribuisse al disposto soltanto, o anche solo principalmente, codesto ruolo duplicativo, non si farebbe altro che renderlo pleonastico in seno al sistema. Più persuasivo è invece ravvisare in esso un significato più ampio e basilare, in funzione di un principio generale dell’ordinamento. Del resto, è la stessa Relazione ministeriale al Progetto definitivo del codice vigente a confermare che questa è stata l’intenzione del legislatore, allorché, al § 70, afferma che l’idoneità deve essere considerata « requisito essenziale in ogni attività illecita, perché possa essere qualificata delittuosa per la disposizione generale espressa nell’art. 53 [attuale 49], capoverso ». Questo principio generale non è tuttavia quello di offensività rispetto al bene tutelato, ossia di idoneità all’offesa del medesimo, bensì, molto più semplicemente, quello di idoneità alla realizzazione dell’evento naturalistico: l’art. 49, 2o comma, non fa che dettare, per i reati il cui evento non si è verificato, una disciplina del rapporto tra condotta ed evento parallela a quella che è stata statuita agli artt. 40 e 41, per i reati a evento verificatosi, con l’altrettanto generale principio di causalità. Né vale assumere che il termine « evento », contenuto in detto disposto, dovrebbe essere necessariamente inteso in senso giuridico, altrimenti si dovrebbero escludere dalla sua sfera di operatività i c.d. reati di pura condotta. La verità è che — notoriamente — i compilatori del codice avevano accolto un concetto naturalistico ampio di evento, presente in ogni reato. Di conseguenza — come si è già rilevato (retro, § 2) — ben può affermarsi che tutti indistintamente i reati presentano un collegamento con un evento naturalistico, sia esso reale, in quanto interno alla fattispecie, ovvero virtuale, come risultato esterno alla stessa (come avviene nel tentativo e nelle ipotesi di consumazione anticipata); e quelli che impropriamente vengono denominati « reati di pura condotta », sono da intendersi piuttosto come « reati ad evento concomitante » alla condotta, in contrapposizione a quelli « a evento susseguente » alla stessa, caratterizzati da uno jatus temporale, con relativo problema di nesso causale. D’altro canto, è dato osservare che lo stesso legislatore assume la
— 50 — dannosità e pericolosità come qualifiche dell’evento anche nell’art. 40, dove evidentemente l’evento non può che assumere un significato naturalistico, per cui appare incoerente, o quanto meno eccessivo, desumere da esse che la stessa espressione debba invece essere riferita, nell’art. 49, 2o comma, all’offesa dell’interesse tutelato. L’art. 49, 2o comma, deve essere quindi interpretato in maniera radicalmente diversa da come propone la « concezione realistica », di cui si è detto. È vero che si tratta di un principio generale dell’ordinamento, e quindi di qualcosa di più di un « doppione in negativo » del reato tentato (art. 56). Ma tale principio non è quello di offensività, bensì quello di idoneità: l’idoneità a cagionare l’evento naturalistico. Talché un buon numero di quegli esempi di situazioni problematiche, che la c.d. « concezione realistica » considera risolvibili sulla base del principio di offensività, riceve invece, a nostro avviso, una più persuasiva soluzione intendendoli come figure di tentativo compiuto inidoneo, e quindi come fatti non conformi al tipo, se già non possano farsi rientrare nell’ancor più generale principio di irrilevanza giuridica per « irrisorietà » (c.d. Geringfügigkeit). Si tratta di ipotesi variegate quali il falso grossolano, il falso inutile, il falso autorizzato, la falsità testimoniale su circostanze strane o prive di efficacia probatoria, le privazioni della libertà personale per una durata trascurabile, la truffa commessa con artifici e raggiri manifestamente scoperti, le accuse calunniose paradossali o manifestamente infondate, e via dicendo. Tra tali ipotesi paradigmatiche può rientrare anche il c.d. falso innocuo, quando sia tale per difetto di idoneità all’inganno e non costituisca, invece, un caso di irrisorietà (come avviene per la sottrazione di un pugno di ghiaia o di un’albicocca o di un chiodo arrugginito). Ciò posto, non è difficile allora render ragione, nel quadro dell’impostazione qui accolta, alle divergenze di formulazione rispetto all’art. 56. È vero che il legislatore non ha avuto di mira una mera ripetizione « in negativo » del tentativo. Esso ha inteso effettivamente dettare un principio generale valido per tutte le ipotesi di reato, comprensive dei reati di attentato e a consumazione anticipata in genere, delle forme omissive, sia proprie che improprie, di quelle colpose, e di quelle contravvenzionali. Ma — ripetiamo — codesto principio non ha nulla a che vedere con quello c.d. di « offensività » rispetto al bene tutelato: si tratta della idoneità che deve avere ogni condotta punibile nei confronti della realizzazione dell’evento naturalistico, lato sensu, concomitante alla condotta o susseguente, presente in ogni reato. Quanto alle limitazioni della qualifica di « reato impossibile » alle sole ipotesi di compiutezza dell’azione, esse si spiegano non già con la intenzione di dar risalto all’eventualità di « fatti conformi al tipo, ma inoffensivi » per inidoneità dell’azione a conseguire l’offesa, bensì, molto più semplicemente nel quadro della previsione di una misura di sicurezza per quei fatti che, pur essendo non conformi al tipo, perché, privi di idoneità
— 51 — all’evento, naturalistico lato sensu, nondimeno siano accompagnati dalla pericolosità del soggetto, con la conseguente esigenza che quest’ultima sia suffragata da una azione, ossia da una esteriorizzazione più esaustiva di un semplice contesto di « atti ». Riguardo poi all’enunciazione espressa dell’ipotesi dell’« inesistenza dell’oggetto », contenuta solo nell’art. 49, essa trova giustificazione in ciò: mentre nell’art. 56 la semplice non presenza, o mancanza occasionale, dell’oggetto materiale — in quanto sua inesistenza, rectius, insussistenza relativa — può essere considerata come un deficit attinente alle modalità di tempo e di luogo dell’azione o degli atti, risolventesi in una loro carenza di idoneità, viceversa l’« inesistenza assoluta », o in rerum natura, costituisce evidentemente un limite ex se, del tutto autonomo dalle modalità dell’azione, quale deficit di un elemento costitutivo della fattispecie. Pertanto, mentre la prima ipotesi può essere agevolmente assorbita nel requisito dell’idoneità degli atti di cui all’art. 56, la seconda, invece, doveva necessariamente essere esplicitata dal legislatore nella formula del 2o comma dell’art. 49, nel quadro dei requisiti della tipicità. Anche le altre discrepanze rispetto all’art. 56 — elencate all’inizio del presente paragrafo — sono motivate dalla diversa funzione che ha l’art. 49, 2o comma, riguardo a quel disposto, tenendo presente che quest’ultima norma mira a dichiarare, oltre al principio generale di idoneità, anche l’applicabilità delle misure di sicurezza al reato impossibile. 9. L ’idoneità degli atti: valutazione a) ex ante o ex post? — Passando ora all’analisi in dettaglio dell’art. 56, si rileva che i due requisiti del tentativo punibile sono l’idoneità degli atti e la loro « direzione non equivoca », ossia l’univocità degli stessi in relazione a un evento che le fattispecie di parte speciale prevedono come elemento costitutivo di un delitto. Il discorso sull’idoneità deve qui riallacciarsi a quanto si è detto nel primo paragrafo circa l’asserita natura di reato di pericolo del tentativo e circa il fondamento della punibilità dello stesso; e si pone negli stessi termini in relazione sia all’art. 49, 2o comma, per l’individuazione del reato impossibile, sia all’art. 56. Secondo un’opinione largamente dominante in dottrina (11), l’idoneità dovrebbe essere accertata dal giudice secondo un giudizio c.d. ex ante, detto anche di prognosi postuma, vale a dire ponendosi nella situazione dell’autore in fase della realizzazione dell’azione. Un giudizio ex post, ossia a fatto avvenuto, sarebbe — si dice — facilmente erroneo, in quanto la semplice constatazione che l’evento non si è verificato porterebbe a concludere sempre per l’inidoneità dell’azione a produrlo. (11) Per una differente concezione (c.d. prognosi obiettivo-postuma): MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in RIDPP, 1983, 1224; ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 1994, 2a ed., 302.
— 52 — Non si può però concordare con siffatto punto di vista, nonostante che, per la sua larga diffusione, si presenti quasi come un luogo comune; tanto più che non trova seguito in altre dottrine, quali ad es. quella tedesca. Anzitutto non è affatto vero che il giudice, valutando dopo il fatto, debba in ogni caso concludere per l’inidoneità dell’azione. Il mancato verificarsi dell’evento può, infatti, essere dovuto, non solo all’inidoneità intrinseca dell’azione, ma anche, in tutto o in parte, all’intervento di fattori esterni preesistenti, concomitanti e soprattutto sopravvenuti, di tipo accidentale o casuale. Ora il giudice può benissimo sceverare ex post l’incidenza di tali fattori sul mancato verificarsi dell’evento da quello che può propriamente essere il deficit attitudinale insito nell’azione: un colpo di pistola ben diretto, ma che non giunge a segno per puro caso o per l’intervento di una forza maggiore, rimane un’azione perfettamente idonea, anche se visto ex post! D’altro canto, occorre chiedersi: con riferimento a quale preciso momento andrebbe formulato il giudizio ex ante? Se « subito dopo » il compimento dell’azione o degli atti, si tratterebbe pur sempre di un giudizio ex post rispetto ai medesimi, dato che « il fatto » del tentativo si esaurisce con l’azione o l’atto stesso, e l’evento, per definizione, non si verificherà comunque. La valutazione positiva di idoneità dell’azione di chi colpisce con un pugnale un soggetto protetto, sotto le vesti da una corazza, rimane invero immutata sia che venga fatta prima di accertare questa protezione sia che venga fatta dopo; basterà solo tener presente che la sussistenza non visibile della corazza è fattore accidentale preesistente ed estraneo alla condotta del soggetto. Vero è che in questo momento può ancora pronunciarsi un giudizio di « attendibilità » (probabilità o non-improbabilità) rispetto all’evento non verificatosi; ma, in ultima analisi, ciò che si vuol stabilire è se la mancata verificazione dell’evento sia addebitabile ad un vizio intrinseco all’azione, oppure sia dovuta a un fattore esterno, come il caso fortuito o la forza maggiore; e questo rimane pur sempre un giudizio ex post. Se invece il giudizio cosiddetto « ex ante » viene compiuto immettendosi nel momento che precede l’azione, esso allora — a guardare bene — diviene impossibile, dovendosi ovviamente tener conto, per giudicare idonea l’azione, delle possibili variabili di modalità in quello che in concreto sarà il suo effettivo svolgimento. Né il ragionamento cambia se si sceglie una via intermedia, in quanto altrettanto impossibile è una valutazione nel corso dell’azione, dovendosi pur sempre attendere il suo compimento per un giudizio definitivo (es.: l’agente può iniziare a sparare con un’arma di troppo corta gittata rispetto al soggetto passivo, però può alla fine colpire nel segno se questi gli si avvicina, ovvero usando un’altra arma, più efficace alla distanza). Decisivo infatti è spesso solo l’ultimo atto del concreto iter esecutivo. 10.
Segue: b) in astratto o in concreto? — Sempre in tema di ido-
— 53 — neità degli atti, altro problema da sempre dibattuto in dottrina è quello di come considerare tale idoneità: a) in assoluto oppure in relazione all’oggetto-soggetto passivo; b) in astratto oppure tenendo conto delle particolari circostanze del caso, risultanti al momento dell’azione, nonché delle eventuali conoscenze « speciali » del soggetto, il che equivale a dire in concreto. Giustamente è stato da tempo osteggiato il criterio dell’idoneità in assoluto (il propinare dello zucchero può essere idoneo a uccidere se la vittima è un diabetico), non essendovi dubbio che per decidere si debba far riferimento alla particolare situazione in cui si trova la vittima. Non va però perso di vista che mezzi o atti inidonei o idonei in assoluto comunque esistono in rerum natura, e il loro riconoscimento può giovare all’indagine processuale, abbreviandola. Non sembra peraltro che si debba richiedere che l’azione si riveli idonea in concreto, come vuole invece la maggioranza della dottrina (12), oltretutto in aperto contrasto con la giurisprudenza. L’inidoneità in concreto degli atti o dell’azione è spesso dovuta soltanto a un errore di calcolo, o di valutazione, o di esecuzione da parte dell’agente. È il caso di chi impugna la pistola scarica al posto di quella carica; ovvero porge la tazzina non avvelenata al posto di quella contenente il veleno; ovvero spara con una pistola da troppo lunga distanza; ovvero infierisce con un pugnale contro un soggetto visibilmente protetto da una corazza nell’erronea convinzione di perforarla, sottovalutandone lo spessore. Considerare in tali ipotesi inidonea l’azione ai sensi degli artt. 56 e 49, in quanto, sulla base delle particolari circostanze sussistenti al momento del fatto, la condotta del soggetto attivo « non poteva » giungere al risultato previsto e voluto; e pertanto ravvisare in esse altrettanti tentativi inidonei, ovvero reati impossibili ex art. 49, 2o comma, significherebbe estendere eccessivamente — in nome di un malinteso garantismo — la sfera dell’impunità: come dire che il soggetto sarebbe praticamente « autorizzato » a « riprovarci »! La verità è invece che il disvalore della condotta, e pertanto l’allarme sociale che sta a fondamento della punibilità del tentativo, sono presenti nelle ipotesi di « inidoneità in concreto per errore dell’agente » nella stessa, identica misura che nelle azioni ritenute invece concretamente idonee (come, ad es., quella di chi cerca di colpire con un pugnale un soggetto non visibilmente protetto da una corazza). È poi vero che, per valutare se l’atto sia rilevante a titolo di tentativo, si deve tener conto altresì delle eventuali conoscenze speciali del soggetto agente (come nel caso del medico curante nei confronti del diabetico o di uno scienziato che abbia scoperto un nuovo veleno). Ma una siffatta rilevazione non attiene propriamente al problema dell’idoneità, né riguarda (12) Fra le poche voci contrarie, rimaste isolate, è quella del MALINVERNI, Il tentativo punibile, in SP, 1967, 424 ss.
— 54 — minimamente la vexata quaestio della sua valutazione in astratto o in concreto. Essa serve invece per l’individuazione della tipicità della condotta a parte subjecti, vale a dire dell’inizio dell’attività punibile, che — come vedremo — va effettuata sulla base del concreto piano dell’agente, avendo così come punto di partenza l’accertamento del dolo, e pertanto delle conoscenze generali o speciali del soggetto in relazione al fatto di reato. Una volta stabilito che l’idoneità — concreta o astratta che sia — va valutata ex post, non sussiste alcun reale problema a questo riguardo sul terreno dell’idoneità, bastando rilevare che si danno casi in cui, per l’accertamento dell’idoneità degli atti, è necessario tener conto delle conoscenze speciali (cosiddetto Sonderwissen) dell’agente. Questo peraltro non è un problema specifico del tentativo, ma riguarda l’imputazione del fatto in generale, e viene a proporsi già in sede di accertamento del nesso causale ai sensi dell’art. 41 c.p. In conclusione l’idoneità degli atti va giudicata ex post e « in astratto », o meglio — onde evitare che l’idoneità in astratto venga confusa con l’idoneità assoluta — in senso generico, in contrapposto con l’idoneità vista in concreto, o meglio, valutata in senso specifico. Decisiva è a riguardo la considerazione dell’allarme sociale suscitato dall’azione, in ragione del suo specifico disvalore, anche indipendentemente dalle concrete sue possibilità di condurre al risultato. Se si tiene conto della multiformità di accezioni di cui è passibile il termine « idoneità », è allora agevole spiegare perché in molte legislazioni il tentativo « inidoneo » risulti espressamente punibile (per es., in quella tedesca, austriaca e spagnola). A ben guardare, una tale difformità di trattamento è soltanto apparente. Un’agevole analisi di linguaggio porta a constatare che nella previsione normativa di quelle legislazioni si fa, infatti, riferimento alla punibilità degli atti concretamente inidonei ma genericamente idonei, mentre, viceversa, nella nostra si ha riguardo a quella degli atti genericamente idonei, comprensivi di quelli concretamente inidonei. La sostanza comunque non muta: sia per la nostra che per quelle legislazioni, il tentativo che appare inidoneo in concreto è punibile quando sia comunque idoneo in astratto, rectius, in senso generico, e l’evento non si sia verificato per un errore di esecuzione dell’agente. 11. Il problema dell’univocità degli atti. — Il principio di idoneità — esattamente come quello di causalità — è tra quei principi generali dell’ordinamento giuridico penale che il legislatore avrebbe anche potuto non esplicitare, dovendosi considerare in rebus ipsis. Sicché quando ci si imbatte in legislazioni in cui siffatto requisito appare sottaciuto, sarebbe grave errore dedurne che in quegli ordinamenti giuridici l’idoneità degli atti non venga tenuta in considerazione agli effetti della punibilità. Altro discorso deve, invece, essere fatto per il requisito dell’univocità degli atti. Qui veramente risiede il problema cruciale in materia di tentativo: quello di stabilire l’inizio dell’attività punibile.
— 55 — L’iter criminis può essere istantaneo (come, ad es., nell’ingiuria verbale) oppure procedere attraverso una pluralità di fasi, quali la premeditazione, la decisione, la preparazione, l’esecuzione, la consumazione. Escluso, nel modo più assoluto — sulla base del fondamentale principio del « diritto penale del fatto » e delle più elementari istanze garantistiche — che la mera premeditazione e la decisione di per sé sole possano configurare un tentativo punibile, occorrendone la traduzione in un inizio di attività (cogitationis poenam nemo patitur), si discute se, ed eventualmente entro quali limiti, la fase preliminare alla realizzazione della fattispecie possa essere penalmente rilevante. La questione assume particolare gravità in quanto il legislatore del 1930, con la formula della « direzione non equivoca degli atti » accolta nell’art. 56, ha programmaticamente voluto abbandonare la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi già contenuta espressamente nell’abrogato codice Zanardelli (e che notoriamente risale al codice napoleonico, secondo una formula tuttora in vigore in Francia, in base alla quale, per aversi tentativo, occorre « un commencement d’exécution »). Secondo un’opinione assai diffusa in dottrina — e forse non del tutto priva di fondamento — non sarebbero stati estranei a codesta novazione motivi politici legati al regime autoritario in vigore all’epoca; al punto che con essa si sarebbe inteso sovvertire non solo la formula, ma addirittura la sostanza dell’abrogata distinzione, in modo da estendere la punibilità agli atti preparatori, in spregio alle garanzie dovute ai diritti della personalità. Sta di fatto però che i numerosi progetti di riforma del codice penale, che si sono susseguiti dal dopoguerra ad oggi, si sono espressi, in modo pressoché alterno, ora nel senso di un ritorno alla formula abrogata, ora nel senso del mantenimento dell’attuale. Cosicché, a quasi settanta anni dalla entrata in vigore del codice, e nel perdurare di un regime pienamente democratico e garantistico, la formula permane immutata, e, per di più, operante e vitale in seno alla giurisprudenza. Il che potrebbe costituire da solo il più valido argomento a confutazione della tesi che ravvisa in essa necessariamente un fondamento antiliberale; e comunque fa supporre che ragioni « obiettive » contribuiscano al mantenimento della norma, a prescindere dalla mens legis che l’ha dettata. Ad un’attenta analisi appare insomma plausibile che la novazione non sia stata meramente formale, e che un’effettiva estensione ed anticipazione della punibilità in funzione di un più efficiente rigore repressivo, siano state programmate dal legislatore dell’epoca; ma la validità della formula, comprovata dalla sua resistenza nel tempo, induce a ritenere che ciò si sia verificato solo attraverso un ampliamento della sfera degli atti esecutivi, senza peraltro giungere fino al punto di rendere rilevanti gli atti preparatori. Più precisamente, con la tuttora vigente formula dell’univocità degli
— 56 — atti, la tradizionale distinzione tra atti preparatori non punibili e atti esecutivi punibili è, a nostro avviso, rimasta in piedi: il mutamento ha inciso soltanto sul significato e sulla portata del termine « esecuzione »; e ciò nel senso che si è inteso estenderne la portata logica, fino a ricomprendere in esso atti sulla cui esatta valenza vigeva fino allora incertezza in dottrina, in modo da renderli individuabili come « esecutivi in senso lato ». 12. Il principio generale di tipicità e la nozione di atto esecutivo. — Tra i vari e disparati criteri elaborati dalla dottrina per individuare la linea di demarcazione tra gli atti preparatori e quelli esecutivi, il più coerente con i principi della teoria generale del reato, e il più ineccepibile dal punto di vista logico-formale, appare indubbiamente quello che fa riferimento ai limiti della corrispondenza alla fattispecie, vale a dire della tipicità: l’atto sarebbe esecutivo allorché è conforme al modello descritto dal legislatore; esecuzione significherebbe insomma attuazione della condotta tipica. Sono peraltro note le radicali critiche sollevabili contro un siffatto criterio (c.d. formale-obiettivo). Nelle fattispecie c.d. causalmente orientate e, più in generale, in quelle c.d. a forma aperta (ad es., l’omicidio doloso), la tipicità viene dalla dottrina fatta coincidere con la causazione dell’evento, con il risultato pratico di non riuscire a tracciarne i limiti rispetto sia agli atti più « distanziati » (come, ad es., l’acquisto o la lubrificazione dell’arma), sia agli atti più immediati nei confronti dell’evento (ad es., l’appostarsi o il puntare l’arma). Ma, nelle fattispecie c.d. a forma vincolata, e soprattutto in quelle soggettivamente orientate, il dubbio non è affatto minore: l’appoggiare la scala al muro di cinta, o lo stesso penetrare attraverso il giardino recintato della casa, costituiscono già « azione tipica » del furto? il predisporre o il semplice prepararsi a far entrare in funzione la macchina stampatrice rientra già nella fattispecie del falso nummario? Nello sforzo di trovare una via d’uscita a siffatti dilemmi, parte della dottrina si è rivolta verso una soluzione drasticamente restrittiva della portata della fattispecie. Così negli esempi su riportati, tipico, e quindi esecutivo, sarebbe, nell’omicidio, solo l’atto di premere il grilletto, nel furto l’atto di materiale sottrazione dell’oggetto, nel falso nummario l’atto con cui si dà inizio alla stampa. Dal momento però che il più elementare senso giuridico impedisce di segnare su questa linea i limiti della punibilità a titolo di tentativo, tale corrente dottrinaria si è vista indotta a concludere — in aperta deroga ai principi generali — che il criterio della tipicità non assolverebbe più, in materia di reato tentato, a quella funzione di mediazione del principio di stretta legalità, che pur unanimemente si asserisce essergli stato assegnato dall’ordinamento giuridico. E ciò nonostante che una siffatta deroga suoni tanto più grave, e quindi risulti tanto meno attendibile, in quanto qui più che mai, in assenza strutturale dell’elemento costitutivo materiale, regolatore a parte objecti, rappresentato dall’evento,
— 57 — apparirebbe necessaria l’individuazione della tipicità. Si finisce così con l’affermare che l’attività penalmente rilevante inizierebbe prima del momento della realizzazione della fattispecie, abbracciando tutti gli atti che si trovano con essa in rapporto di immediatezza temporale o di presupposizione logica: tali atti vengono, quindi, definiti come pre-tipici (c.d. teoria materiale-obiettiva, facente capo a Frank) (13). Ora, in sé e per sé, l’idea che si possa attribuire rilevanza penale ad atti od azioni che, in quanto precedano — tanto cronologicamente quanto topicamente — il momento della tipicità, devono qualificarsi non tanto come pretipici, quanto piuttosto come atipici, essendo chiaramente « non conformi al tipo », è decisamente da respingere, se si vuole restare coerenti col principio di stretta legalità. In realtà, ciò che codesta teoria « materiale-obiettiva » tenderebbe ad affermare è semplicemente la rilevanza di atti che solo prima facie possono apparire non conformi al tipo, mentre, sottoposti ad un più approfondito esame, finiscono per risultare tipici. Codesta teoria ha insomma il pregio di aver colto la sostanza del problema, ma ha il difetto di non averlo saputo impostare in termini plausibili, in quanto muove da un concetto angusto, ed estremamente formalistico, sia della fattispecie che della tipicità. In ogni fattispecie bisogna invero distinguere l’aspetto letterale (fattispecie c.d. letterale), da cui prende spunto il procedimento di interpretazione, e quello sostanziale, che è il risultato di questo (fattispecie c.d. esegetica). Considerare l’aspetto sostanziale, per giungere al rinvenimento della fattispecie esegetica, significa che, accanto agli elementi esplicitati dal legislatore e ai limiti esegetici espressi della norma, vanno considerati altresì gli elementi e, in genere, i contenuti impliciti, nonché i c.d. limiti esegetici taciti della fattispecie letterale. Oltre a ciò non va perso di vista il ruolo fondante nei confronti della tipicità che ha — quale portatore del disvalore specifico dell’illecito — l’elemento soggettivo e, soprattutto il dolo; il che, se è particolarmente evidente nei reati c.d. soggettivamente orientati (vedi: ingiuria e diffamazione, vilipendio, atti osceni, corruzione, falso, calunnia, maltrattamenti in famiglia, violenza, minaccia e via dicendo), è comunque valido anche per quelli causalmente orientati (come per l’omicidio, le lesioni, il danneggiamento), dove l’elemento soggettivo si rende in ogni caso indispensabile quanto meno per distinguere il tipo doloso da quello colposo. Orbene, se tutto questo è vero per il reato consumato, deve valere a maggior ragione per quello tentato. Qui assurge alla massima evidenza come il dolo, in quanto presupposto della « direzione non equivoca degli atti », venga a svolgere, accanto al ruolo di portatore del disvalore, anche (13) In questo ordine d’idee è il MANTOVANI, op. cit., p. 446 ss. Si tratta di una soluzione coerente per chiunque sposti il disvalore del reato nell’evento. Il suo difetto più evidente consiste però nel non tener la dovuta fede al fondamentale principio di tipicità, essenziale corollario di quello di stretta legalità.
— 58 — quello di « indice rivelatore » della sussistenza della corrispondenza del fatto concreto al tipo. Codesta diversa prospettiva va sotto il nome di concezione « materiale-individuale-obiettiva », ed è merito della teoria finalistica dell’azione di Hans Welzel averla promossa e sviluppata in seno alla dottrina tedesca (14), al punto da venire recepita nel vigente codice penale tedesco, dove al § 22 è detto espressamente che costituiscono tentativo, e sono quindi esecutivi, gli atti con cui il soggetto « direttamente si accinge a realizzare la fattispecie secondo il suo piano concreto ». Nessun problema si presenta per gli atti che si palesano obiettivamente come preparatori, i quali si pongono, come sempre, al di fuori della sfera di rilevanza. Parimenti nessun problema si presenta per gli atti obiettivamente evidenziantisi come esecutivi, e come tali corrispondenti alla fattispecie letterale: questi non potranno essere considerati come esecutivi sulla sola base del piano concreto dell’agente. Il criterio del riferimento al piano concreto dell’agente vale, invece, a fornire un sostanziale criterio di soluzione (sempre alla luce dell’allarme sociale per l’effettivo disvalore della condotta, così come si è visto per il requisito dell’idoneità) a quella particolare zona intermedia, obiettivamente ambivalente, di quegli atti che assumono valenza di esecutività solo se tale valenza è stata loro attribuita dall’agente. Così il recarsi o l’appostarsi sul luogo del progettato delitto, e persino lo spianare l’arma in direzione del soggetto passivo, non costituiscono, a stretto rigore, atti di per sé univoci: possono significare inizio di realizzazione solo se tale era in concreto l’intento realizzatore dell’agente; mentre sono solo atti preparatori, o di consumazione di diverso delitto, se suo proposito era soltanto di studiare le mosse del soggetto passivo o di minacciarlo (15). Ciò che caratterizza tali atti è la loro immediata connessione logicocausale (non però necessariamente: logico-temporale) con l’atto o gli atti obiettivamente ed evidentemente diretti verso il risultato (c.d. esecutivi in senso stretto, o formale). Non si tratta qui di atti atipici o pretipici, bensì di una tipicità per così dire indotta o anticipata, nonché indiretta e relativa: indiretta perché « accede » (un’« accessorietà » similare a quella della condotta dei partecipi rispetto a quella degli autori nel concorso di persone) agli atti di realizzazione in senso stretto e formale; relativa, perché essa è in funzione dello specifico piano che l’agente formula nel caso (14) WELZEL, op. cit., p. 140. È la cosiddetta « Ansatzformel », oggi fatta propria dalla maggioranza della dottrina tedesca; cfr. per tutti: JESCHECK, op. cit., 466 ss., specie nota 3. (15) Questa concezione — che in ultima analisi trova chiare radici nel pensiero del Carrara, il quale per primo ebbe a proporre la formula dell’univocità degli atti — corrisponde, nelle sue linee essenziali, a quella elaborata dal PETROCELLI (op. cit., 141-149). In senso conforme, da ultimo: ROMANO, op. cit., 558 ss.
— 59 — concreto. Avviene qui insomma un meccanismo di anticipazione della soglia della tipicità analogo a quello delle « actiones liberae in causa » (vedi altresì infra, § 15), nel senso che ci deve essere un « rapporto di stretta anticipazione rispetto agli atti decisivi per la consumazione » (16). Non è dunque esatto che l’univocità degli atti debba essere accertata solo valutando l’azione, vuoi in sé e per sé, vuoi in relazione alle modalità esteriori con cui in concreto essa è stata realizzata. Ad esempio, il semplice fatto di spianare un fucile con atteggiamento di minaccia può assumere diversi significati: dallo scherzo alla violenza privata o al sequestro, dalla rapina al tentativo di omicidio. Piuttosto tale univocità deve sovente essere accertata aliunde, sulla base dell’elemento soggettivo, e, in particolare, del piano concreto dell’agente, comunque risulti emergente, attraverso i vari mezzi di prova, tra i quali anche la confessione, e, nei limiti del possibile, per facta concludentia, sorretti dalle massime di esperienza. È in codesto richiamo alla progettualità del soggetto in funzione del limite oggettivo che è da ravvisare il senso e il ruolo propri della formula degli « atti diretti in modo non equivoco » accolta nell’art. 56. Si tratta di una formula che, lungi da eliminare la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, le fornisce piuttosto un criterio di individuazione più preciso e sicuro, in armonia con i moderni portati della concezione del diritto penale della condotta. E questa è, a parer nostro, la ragione profonda per cui — nonostante i numerosi tentativi d’innovarla — tale formula permane tuttora ferma e vitale nel nostro sistema legislativo e in seno all’applicazione giurisprudenziale. In sintesi: è esecutivo l’atto che « esegue » la fattispecie in conformità del piano concreto dell’agente, e non già l’« atto esecutivo della fattispecie », sic et simpliciter. Visto sul piano criminologico, il momento che il giudice deve cogliere nell’iter criminis per qualificare come « esecutiva » l’attività del soggetto è quello dell’acting out, ossia del « passaggio all’atto ». Di certo l’atteggiamento interiore antisociale da solo non è ancora rilevante per il diritto: lo diviene soltanto se, e in quanto esso si traduca nel « passaggio all’atto ». La Gesinnung antisociale — ossia l’animus nocendi in cui si sostanzia il dolo di un delitto — diviene insomma matrice di un tentativo solo nel momento in cui essa si appalesa come « attuosa », in quanto attuante il piano dell’agente. Deve essere comunque chiaro che l’accertamento dell’intenzione dell’agente non è di per sé sufficiente a far qualificare come univoca la direzione degli atti, come vorrebbe la tesi dei soggettivisti. Piuttosto è il ruolo, ossia la significazione attribuita dal soggetto all’atto, nel quadro della sua concreta programmazione, a orientare e quindi determinare la sua prossimità logico-causale alla consumazione, e in tal modo la sua non equivo(16)
Così testualmente ROMANO, op. cit., 559.
— 60 — cità. Questo non significa che l’univocità degli atti debba acquisire una dimensione soggettiva. L’oggettività della direzione è dimostrata anzitutto dal fatto che l’intenzione dell’agente può essere provata « al cento per cento » e gli atti essere nondimeno equivoci (17). Quanto al riferimento al piano concreto dell’agente, esso vale a fornire al giudice il punto di aggancio di una valutazione che, pur procedendo da un dato individuale, non per questo cessa di essere obiettiva, in quanto detto piano vale solo a dare « significatività » all’atto materiale ed estrinseco. 13. Desistenza volontaria e recesso attivo. — Il 3o comma dell’art. 56 prevede la desistenza del soggetto attivo dall’azione nella fase del tentativo incompiuto; mentre l’ultimo comma prevede il « recesso attivo » nella fase del tentativo compiuto. In entrambi i casi il legislatore richiede la « volontarietà » del comportamento, inserendo nelle rispettive formule l’avverbio « volontariamente ». In dottrina si è concordi nel ritenere che tale volontarietà non equivalga a spontaneità, intesa nel senso di comportare un pentimento dell’agente o comunque motivi d’ordine morale; ragione per cui deve ritenersi impropria la denominazione di « pentimento » o « ravvedimento operoso », che tradizionalmente si usa dare al recesso attivo. Pertanto, il soggetto può essere indotto a desistere dall’azione, o anche a impedire l’evento, per paura, ribrezzo, e persino per calcolo utilitaristico, quale l’opportunità di attendere l’occasione più propizia o di trovare un ricettatore più remunerativo. Si conviene altresì che « volontarietà » stia anche a significare, per converso, assenza di costrizione esterna, per cui non può considerarsi volontaria la desistenza di chi interrompe l’azione per il sopraggiungere della polizia o di testimoni o per la riconosciuta insufficienza dei mezzi usati. La desistenza volontaria importa l’impunità del soggetto. Ci si chiede quale ne sia la ratio. Si ritiene comunemente che si tratti di considerazioni di politica criminale, come ad es. l’interesse sociale di creare un « ponte d’oro » al reo che abbandona il suo proposito criminoso. Ma ciò non appare persuasivo, perché costituirebbe una frattura nell’esigenza di una risposta reattiva all’allarme sociale che sottostà al sistema penale. Considerazioni analoghe inficiano altre teorie: l’impunità non può essere vista nè come un « premio » per il volontario ritorno al diritto (dopo che questo era già stato violato), né come una difesa sic et simpliciter della vittima. A ben guardare, a venir meno è qui lo stesso allarme sociale, nella presunzione che la desistenza, quando sia volontaria, sia indice di difettiva o comunque non certa capacità di delinquere in concreto, ossia in relazione allo specifico delitto, da parte del soggetto. In altri termini, viene ad interrompersi il « passaggio all’atto » o acting out, per cui la Gesin(17)
Così testualmente ROMANO, op. cit., 558.
— 61 — nung cessa di apparire « attuosa ». Ciò vale anche nell’ipotesi che il soggetto interrompa l’azione per un mero calcolo utilitaristico, perché comunque, anche in questo caso, di fronte al fatto della desistenza, non sussiste più la certezza che il soggetto sia capace di compiere atti idonei a realizzare quel determinato delitto. In definitiva, viene meno proprio il fondamento che — come abbiamo detto — giustifica la punibilità del tentativo, vale a dire l’allarme sociale derivante dalla sussistenza di un disvalore di condotta: l’interruzione volontaria ha invero significato psicologico di un qualche impedimento, e quindi di negazione di quanto già il soggetto aveva iniziato a porre in essere (18). Quanto al recesso attivo, esso costituisce una circostanza attenuante, l’unica espressamente prevista per il tentativo. Questa peraltro ha la sua ratio, più che in una diminuita o difettiva capacità a delinquere, nel diminuito disvalore della condotta, quale circostanza estrinseca susseguente alla stessa, e quindi quale modalità di realizzazione dell’illecito penale, che — come è diffusamente riconosciuto — ha natura di illecito modale. Non è in ogni caso esatto far consistere tale ratio nel venir meno della possibilità del disvalore dell’evento, in quanto l’assenza del risultato è implicita nel tentativo ed è già stata considerata dal legislatore nella diminuzione della pena prevista nell’art. 56 rispetto al delitto consumato (cfr. retro, § 3). 14. Tentativo circostanziato e tentativo di delitto circostanziato. — Ci si domanda se e in che modo influiscano sulla punibilita del tentativo le circostanze del reato, e cioè in quali casi le circostanze stesse si imputino all’autore del fatto. Si danno qui due ipotesi. La prima è quella del tentativo circostanziato (o delitto tentato circostanziato), che si ha allorché le circostanze sono state interamente realizzate, perché riguardano elementi preesistenti o concomitanti all’esecuzione del reato (es.: art. 61, nn. 1, 5, 6, 9, 10, 11; art. 62, nn. 1, 2, 3). Qui l’aumento o la diminuzione di pena relativi alle circostanze vanno effettuati sulla pena-base stabilita per il tentativo. In senso analogo deve essere risolto il problema della seconda ipotesi, che è quella del tentativo di delitto circostanziato (o delitto circostanziato tentato), che si ha allorquando le circostanze non sono state realizzate perché attinenti a una fase successiva, ma rientrano pur tuttavia nella previsione-volizione dell’agente (es.: artt. 61, n. 7, 62, n. 4). Qui buona parte (18) In senso analogo, ma senza il supporto psico-criminologico dell’allarme sociale quale fondamento della punibilità del tentativo: MESSINA, La desistenza volontaria come causa di esclusione della capacità a delinquere, in SP, 1954, 11 ss. Si avvicina alla tesi qui sostenuta la c.d. Strafzwecktheorie (ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtsystem, 2a ed., 1973, 35) ispirata al rilievo della « inutilità » della pena di fronte alla « scarsa » volontà di delinquere; codesta concezione « funzionalistica » non spiega peraltro una totale rinuncia alla pena (in tal senso: STRATENWERTH, Strafrecht, Allg. Teil, 3a ed., 1981, 206).
— 62 — della dottrina e la giurisprudenza, considerando che le circostanze per rilevare devono essere realizzate, le ritengono inapplicabili. Una siffatta opinione è però conseguenza della tralatizia concezione del diritto penale dell’evento, che oggi tende da più parti ad essere respinta a favore della moderna concezione personalistica dell’illecito; ciò è tanto vero che lo stesso più recente progetto di riforma del codice (c.d. progetto Pagliaro) prevede espressamente il tentativo di delitto circostanziato sulla base degli artt. 61, n. 7 e 62, n. 4, c.p. 15. Il tentativo nelle varie specie di delitti dolosi. — Ci si chiede quali forme di reato ammettano la configurabilità del tentativo. Si è già detto circa le ragioni non soltanto formali, bensì strutturali, per cui vi sfuggono sia i delitti colposi sia i reati contravvenzionali. Problematico è se lo stesso si debba dire per i reati di attentato (come ad es. nei delitti di cui agli artt. 241, 276, 285, 286, 289, 295, 296, 434 c.p.) e, più in generale, per quelli c.d. a consumazione anticipata, ritenendosi compresi, in quest’ultima categoria, anche i reati di pura omissione o omissivi propri, in quanto la relativa fattispecie non comporta, quale suo elemento costitutivo, la realizzazione di un evento. La dottrina tende a risolvere la questione in senso negativo, motivando che, in questa specie di reati, ciò che costituisce il minimum per l’esistenza del tentativo basterebbe per la consumazione (19). Per quanto poi più specificatamente riguarda i reati omissivi propri, si assume che il tentativo non sarebbe configurabile perché, se il termine utile per compiere l’azione dovuta non è scaduto, il non averla posta in essere non implicherebbe ancora violazione dell’obbligo, mentre, se il termine fosse scaduto, il reato sarebbe già consumato. Sennonché entrambe le tesi suscitano perplessità. Per quanto riguarda i reati d’attentato in senso stretto (come agli artt. 276, 277, 280 c.p.), dovrebbe risultare chiaro che l’assunto negativo può valere solo per il tentativo c.d. compiuto; mentre per quello incompiuto non si vede ragione sufficiente per una soluzione altrettanto negativa. Ad esempio, nel caso di attentato alla vita del Capo dello Stato (art. 276), non si comprende perché mai, qualora fosse stato sorpreso in appostamento sul luogo del progettato delitto, il soggetto dovrebbe essere punito nella stessa misura di chi invece avesse esploso contro il medesimo un colpo andato a vuoto, senza cioè beneficiare della riduzione di pena prevista dall’art. 56, 2o comma. Per giunta, se l’espressione « attentare » di cui agli artt. 276, 277, 280, dovesse essere intesa come equivalente alla più descrittiva locuzione « commettere un fatto diretto a » contenuta negli artt. 241, 283, 285, 286, 434, c.p., nel primo caso ci troveremmo di fronte a un fatto « incompiuto », non suscettibile di pena trattandosi di (19)
Cfr. per tutti, ANTOLISEI, op. cit., 466.
— 63 — reato a consumazione anticipata. Ma se in esso si vuole già ravvisare un inizio di esecuzione di un attentato, allora costituisce un atto comunque rilevante a titolo di tentativo incompiuto, e pertanto meritevole di riduzione di pena ex art. 56. Nel caso più specifico delle omissioni proprie, il problema sembra presentarsi in termini più complessi. Di recente, parte autorevole della dottrina (20) ha sostenuto la loro configurabilità nella forma tentata per la possibilità di un iter criminis, ossia di una realizzazione plurisussistente, frazionabile e progressiva, anche in tali delitti (es.: il caso di chi viene sorpreso mentre prende l’aereo per recarsi all’estero al fine di porsi nell’impossibilità di adempiere l’obbligo alla scadenza del termine). A riguardo l’alternativa consisterebbe dunque in ciò: ritenere la possibilità del tentativo punibile prima della scadenza del termine, oppure considerare irrilevante qualsiasi comportamento inteso a mettersi nelle condizioni di non poter adempiere, qualificando come « esecutiva » la sola condotta del mancato adempimento. La soluzione corretta può essere agevolmente rinvenuta tenendo presente quanto si è in precedenza rilevato circa l’individuazione dell’atto esecutivo tramite il rinvenimento dei limiti della tipicità sulla base del concreto piano dell’agente (c.d. tipicità indiretta-relativa: retro, § 12). Mutatis mutandis, il comportamento di chi si metta (o cerchi di mettersi) nelle condizioni di non poter adempiere presenta notevole analogia con l’ipotesi di chi si metta in uno stato di incapacità d’intendere e di volere al fine di poter commettere impunemente un reato (art. 87). La eadem ratio dell’actio libera in causa è qui in ogni caso presente. Orbene, poiché, come si è visto, nelle actiones liberae in causa si ha un’anticipazione della soglia della tipicità sulla base del concreto piano dell’agente analoga a quella necessaria per l’individuazione degli atti univoci nel tentativo, così anche la realizzazione della fattispecie di pura omissione può avere inizio in un momento antecedente a quello in cui, con la scadenza del termine, il reato giunge a consumazione. Posta in questi termini, la realizzabilità del tentativo nelle omissioni proprie non rappresenta dunque né una anomalia né una particolarità di questo tipo di reato, ma rientra nei principi generali in materia sia di struttura della fattispecie sia di tentativo. Se è vero che prima della scadenza del termine utile non può esservi consumazione, è però altrettanto vero che l’agente può ben compiere atti idonei e diretti in modo non equivoco a realizzarla, e pertanto punibili ex art. 56 c.p. (21). Nessun problema pongono invece i reati commissivi mediante omissione, i quali sono reati a evento susseguente alla condotta (impropria(20)
A partire da FROSALI, Sistema penale italiano, v. II, 1958, 38; da ultimo: CARAC-
CIOLI, Il tentativo nei reati omissivi, 1975, 63 ss.; PAGLIARO, Principi, p. gen., 1987, 539.
(21) In tal senso: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1989, 463; ROMANO, op. cit., 561 s.; MANTOVANI, op. cit., 452.
— 64 — mente detti reati di evento) e, pertanto, è configurabile che, una volta realizzata l’omissione, l’evento non abbia a verificarsi. Vero è che l’art. 56, e, indirettamente, anche l’art. 49, 2o comma, descrivono il tentativo con riferimento rispettivamente agli « atti » e all’« azione », ma si deve ritenere che il legislatore abbia con ciò soltanto inteso aver riguardo alla maggioranza dei casi, senza che per questo debbano ritenersi escluse le ipotesi omissive; tanto più se si considera che — come si è testé visto — l’attuabilità del tentativo nelle omissioni proprie può avvenire solo attraverso un comportamento attivo, mentre per le omissioni improprie le relative fattispecie vengono descritte dallo stesso legislatore solo nella corrispondente forma di attuazione attiva. Si discute infine se i reati di pericolo siano realizzabili nella forma tentata. Il dubbio è qui dovuto alla presupposizione che il tentativo costituisce un reato di pericolo, donde l’illazione che un tentativo di reato di pericolo verrebbe tautologicamente a rappresentare « un pericolo di pericolo ». Sennonché — a parte la già rilevata limitata rilevanza della detta presupposizione — resta il fatto che il concetto di tentativo, in quanto attinente alla struttura della fattispecie, sta solo a significare l’assenza dell’evento naturalistico, sia esso dannoso o pericoloso, mentre la distinzione tra reati di pericolo e reati di danno opera su di un piano del tutto differente, riguardando unicamente il rapporto tra la fattispecie astratta e l’offesa al bene giuridico tutelato. Ragion per cui nulla osta a che un tentativo possa configurarsi tanto in un reato di danno quanto in un reato di pericolo, ogni qual volta esso non giunga a consumazione in quanto « l’azione non si compia o l’evento non si verifichi ». Per finire, si deve aggiungere che anche nei reati aggravati dall’evento il tentativo è configurabile, dato che in essi l’evento aggravatore può verificarsi anche in conseguenza di un’azione non condotta a termine (es. una donna muore di spavento in seguito a un tentativo di aborto non consentito). Nondimeno, affinché la punibilità non si risolva in una deprecabile ipotesi di responsabilità obiettiva, occorre che l’evento aggravatore sia dal soggetto previsto e accettato almeno nella forma del dolo eventuale (22). Trattandosi di una responsabilità necessariamente dolosa, com’è quella a titolo di tentativo, non è infatti sufficiente la mera prevedibilitàevitabilità caratteristica della colpa. ELIO MORSELLI Ordinario di diritto penale nell’Università di Perugia
(22)
Differentemente ANTOLISEI, op. loc. cit.
L’ESAME DEL COIMPUTATO DOPO LA L. 7 AGOSTO 1997, N. 267: DAL SUO PARZIALE SILENZIO AL REGIME DELLE CONTESTAZIONI
SOMMARIO: 1. La sentenza costituzionale n. 254 del 1992. — 2. I problemi nati da tale decisione. — 3. Le soluzioni adottate con l’art. 1 l. 7 agosto 1997, n. 267. — 4. Punti rimasti irrisolti: a) generalità. — 5. (Segue): b) il silenzio parziale. — 6. (Segue): c) il regime delle contestazioni. — 7. Osservazioni conclusive.
1. Fin da epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del c.p.p. 1988, una delicata questione interpretativa ha investito la disposizione di cui al comma 2o dell’art. 513: posto che quest’ultima ammetteva esplicitamente la lettura in dibattimento, sentite le parti, delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare dall’imputato in un procedimento connesso o collegato solo nel caso in cui, su richiesta di parte, non fosse stato possibile ottenere la presenza di quest’ultimo nella fase dibattimentale, quid iuris qualora detto prevenuto, comparso, si fosse poi rifiutato di rispondere in sede di esame, nell’esercizio della facoltà conferitagli dagli artt. 210 comma 4o o 6o? L’interrogativo, evidentemente, appariva particolarmente scottante con riferimento alla specifica ipotesi nella quale dette dichiarazioni, rese nella fase investigativa, avessero assunto un contenuto accusatorio nei confronti dell’imputato nel procedimento de quo, dato che il difensore di quest’ultimo non avrebbe avuto alcuna possibilità di assistere all’atto di effettuazione delle medesime, e, quindi, di effettuarvi richieste, osservazioni e riserve. In proposito, si fronteggiarono opinioni contrarie (1); ma quella pre(1) Per un primo orientamento, anche nella fattispecie in oggetto sarebbero state leggibili, sentite le parti, le dichiarazioni accusatorie rese in sede investigativa o di udienza preliminare; sia perché le disposizioni previste dal capoverso dell’art. 513 avrebbero dovuto essere considerate come ideale prosecuzione di quelle contenute nel comma 1o dello stesso articolo, sicché l’ipotesi in oggetto sarebbe stata da ricondurre nell’àmbito di quest’ultimo; sia in quanto, accogliendo contraria soluzione, sarebbe risultata introdotta un’irragionevole disparità di trattamento in ordine alla leggibilità delle suddette dichiarazioni a seconda che queste fossero provenute da un coimputato o da un imputato in un procedimento connesso o collegato, in relazione, cioè, alla circostanza, puramente casuale, che, contro più imputati, si
— 66 — valente (2), la quale escludeva la leggibilità delle dichiarazioni rilasciate nella sede suddetta dall’imputato in procedimento connesso o collegato che, poi, nell’esame dibattimentale, avesse rifiutato di rispondere condusse la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo, con riferimento all’art. 3 comma 1o Cost., il suddetto capoverso dell’art. 513: questa norma, laddove non prevedeva la lettura in questione nella preindicata ipotesi di rifiuto, determinava una disparità di trattamento — irragionevole in quanto ‘‘dipendente da scelte o da valutazioni contingenti di natura processuale’’, ‘‘se non da eventi del tutto casuali’’ — tra dichiarazioni anteriori al dibattimento, a seconda che esse fossero provenute da un coimputato (v. art. 513 comma 1o, nella versione originaria) o da un imputato in un procedimento connesso o collegato (3). fosse proceduto cumulativamente o separatamente (v. Trib. Genova, 28 aprile 1995, Consultore, in Foro it., 1996, II, c. 263; Cass., 6 aprile 1995, p.m. in proc. Primavera, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 290; Trib. Marsala, 15 luglio 1994, Di Maggio, ivi, 1994, p. 848; Trib. Trapani, 14 aprile 1994, Di Maggio, ivi; Cass., 18 giugno 1992, Nesi, ivi, 1991, pp. 766-767, con nota conf. MANFREDI, Testimonianza de relato: dichiarazioni di imputato in procedimento connesso e loro utilizzabilità; Trib. Vicenza, 11 marzo 1992, Cappellotto, in Giur. merito, 1992, II, p. 891; Trib. Torino, 31 maggio 1991, in Dif. pen., 1992, n. 34, p. 86; Trib. Pesaro, 14 gennaio 1991, Pazzaglia, in Giust. pen., 1991, III, cc. 560 ss.; BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., 1990, IV, cc. 41-42; FELICIONI, L’utilizzazione delle prove acquisite in altro procedimento penale: problema interpretativo o necessità di intervento legislativo?, in Cass. pen., 1992, pp. 1828-1830; GREVI, Le ‘‘dichiarazioni rese dal coimputato’’ nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, p. 1162; JAZZETTI, In tema di utilizzabilità di dichiarazioni rese da imputato connesso che si rifiuti di rispondere, in Giust. pen., 1992, III, c. 118; NAPPI, Guida al Codice di procedura penale, 2a ed., Milano, 1991, p. 118. (2) Alla stregua di quest’ultima, la posizione dell’imputato in un procedimento connesso o collegato, ai sensi dell’art. 210 tenuto a presentarsi e passibile di accompagnamento coattivo (commi 2o e 6o), ma avente i diritti di essere assistito da un difensore (commi 3o e 6o) e di non rispondere nel corso dell’esame (commi 4o e 6o), costituiva un ‘‘ibrido’’ fra la posizione del testimone e quella dell’imputato, onde non poteva essere ricondotta senz’altro a quest’ultima; quindi, la disposizione di cui all’art. 513 comma 1o non si riferiva direttamente anche all’imputato in un procedimento connesso o collegato; né a al medesimo essa poteva essere estesa in via analogica, data l’eccezionalità — desumibile dal divieto di cui all’art. 514 — delle norme autorizzatrici di letture dibattimentali (in tal senso, fra gli altri, Ass. Catania, 11 ottobre 1991, Pino, in Cass. pen., 1992, p. 424 ss., m. 288; Trib. Vasto, 16 luglio 1991, Y, in Giust. pen., 1992, III, cc. 115 ss.; Cass., 3 luglio 1991, Cerra, in Cass. pen., 1992, p. 1820 ss., m. 966; D’AMBROSIO, sub art. 210 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, Torino, 1990, pp. 523-524; FASSONE, se giudizio, in FORTUNA, DRAGONE, FASSONE, GIUSTOZZI e PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1990, p. 710; MURONE, Presupposti e limiti di utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni di imputato di reato connesso o collegato, in Giust. pen., 1991, III, cc. 561 ss.; NOBILI, sub art. 513 c.p.p., in Commento, cit., V, Padova, 1991, p. 440; ROMANO, In tema di letture consentite nel dibattimento penale, in Giur. merito, 1992, II, pp. 891-892. (3) Corte cost., 3 giugno 1992, n. 254; in senso critico su questa sentenza v. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni in precedenza rese dall’imputato (o coim-
— 67 — 2. La situazione determinatasi a séguito di tale decisione comportava che una dichiarazione accusatoria emessa nel corso delle indagini preliminari da imputato in procedimento connesso o collegato nei confronti del prevenuto nel procedimento de quo avrebbe potuto senz’altro concorrere a determinare la condanna di quest’ultimo senza che al medesimo fosse mai stato consentito d’avvalersi di alcun contributo tecnico-difensivo: non di quello realizzantesi attraverso il ‘‘contraddittorio per la prova’’, cioè in sede di esame incrociato, nel dibattimento o nell’incidente probatorio; e nemmeno di quello, pur minore, costituito dalla presenza del suo difensore all’atto di effettuazione delle dichiararazioni durante la fase investigativa. Nondimeno, la Corte di cassazione ritenne manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 513 comma 2o e 192 commi 3o e 4o c.p.p. con riferimento agli artt. 76 Cost. e 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nelle parti in cui le prime due disposizioni consentivano al giudice, in determinati casi, di tenere conto dell’interrogatorio reso dall’imputato in procedimento connesso o collegato al di fuori del contraddittorio, in quanto le medesime non avrebbero consentito di fondare esclusivamente su di una dichiarazione precedente del medesimo prevenuto una sentenza di condanna. Infatti, l’art 192 — si diceva — nelle parti de quibus non solamente non permette, ma addirittura vieta al giudice di affermare la responsabilità penale esclusivamente sulla chiamata di correità, eseguita o no in contraddittorio delle parti, richiedendo invece che detta chiamata sia valutata unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità (4). Posta l’insufficienza di quest’ultima soluzione (la chiamata di correo resa senza garanzie per l’accusato poteva avere pur sempre un valore, appunto, concorrente ai fini della condanna del medesimo), tre erano le possibili vie attraverso cui il legislatore avrebbe potuto riformare la preindicata situazione: attribuire al difensore dell’imputato nel procedimento de quo — secondo lo schema, peraltro superato, del ‘‘garantismo inquisitorio’’ — il diritto di assistere anche all’interrogatorio dell’imputato in un procedimento connesso o collegato; ovvero, obbligare quest’ultimo, qualora avesse effettuato dichiarazioni accusatorie in fase investigativa nei confronti dell’imputato nel procedimento de quo, a rispondere secondo verità nel contraddittorio dibattimentale (5) (dovere che, però, sarebbe putato) che rifiuta l’esame in dibattimento, in Giur. cost., pp. 1949 ss.; MURONE, Deformazione della prova dibattimentale e lettura di interrogatori resi da imputati dello stesso reato o di reato connesso, in Giust. pen., 1992, I, cc. 325 ss. (4) Cass., 26 settembre 1995, in C.E.D. Cass., 203072. (5) Tale la soluzione auspicata dal TONINI, sull’esempio dei modelli anglosasssoni (v. in Diritto dell’imputato a interrogare colui che lo accusa e diritto di non rispondere, in Dir. pen. e proc., 1997, pp. 353 ss.); nello stesso senso cfr. anche CHIAVARIO, L’art. 513 taglia il
— 68 — stato in contrasto con una consolidata interpretazione dell’art. 24 comma 2o Cost. secondo cui è inclusa nel diritto di difesa anche la facoltà di non rispondere) (6); oppure, ancora, negare la valenza probatoria a carico delle dichiarazioni accusatorie raccolte segretamente dall’imputato di reato connesso o collegato nei confronti dell’imputato nel procedimento de quo senza il consenso di quest’ultimo (7). 3. La l. 7 agosto 1997, n. 267 (recante ‘‘Modifiche del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove’’) segue, appunto, quest’ultima strada: nel caso di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210, il giudice, su richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l’accompagnamento coattivo del dichiarante o l’esame a domicilio o la rogatoria internazionale ovvero l’esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non è possibile ottenere la presenza del soggetto in questione, ovvero procedere all’esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell’art. 512, qualora la impossibilità dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Ove, però, il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l’accordo delle parti (art. 513 comma 2o, come sostituito dall’art. 1 l. n. 267 del 1997). Peraltro, la sostituzione del testé menzionato capoverso dell’art. 513 non poteva non comportare anche quella della prima parte dello stesso articolo: questa, già in precedenza, si era rivelata di dubbia legittimità per l’ipotesi di dichiarazioni del coimputato in un procedimento cumulativo, rilasciate al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini prelitraguardo ma la riforma attende già nuovi interventi, in Guida al diritto. Il Sole-24 ore, n. 30, 9 agosto 1997, p. 10; GIORDANO, Lotta alla mafia: l’emergenza non è finita e il p.m. aspetta il ‘‘doppio binario’’, ivi, p. 13. (6) VOENA, Difesa III Difesa penale, in Enc. giur., X, Roma, 1988, p. 16; cfr. anche FERRAIOLI, Riflessioni sul diritto dell’imputato a non collaborare, in Cass. pen., 1982, p. 2038; FRIGO, Ritornano l’oralità e il contraddittorio mentre cresce il rischio di una controriforma, in Guida al diritto. Il Sole-24 ore, n. 32, 30 agosto 1997, p. 71; GREVI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, pp. 9-59; SCAPARONE, Il II comma dell’art. 24. Il diritto di difesa nel processo penale, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca. Artt. 24-26, Bologna-Roma, 1981, pp. 87-91; ID., Evoluzione ed involuzione del diritto di difesa, Milano, 1990, pp. 25-31. (7) Linea che è stata, appunto, quella fatta propria dai Senn. FASSONE, SALVI, SALVATO, BARBIERI, BONFIETTI, CALVI, RUSSO, SENESE e DUVA, nel Disegno di legge comunicato alla Presidenza del Senato il 17 settembre 1996, recante ‘‘Modifiche dell’art. 513 del codice di procedura penale e interventi collegati’’ (v. in Senato della Repubblica. XIII legislatura, n. 1502); e nel Progetto di legge n. 3647, approvato dalla II Commissione permanente (Giustizia) del Senato della Repubblica il 19 aprile 1997 (v. stampato del Senato n. 964), di iniziativa dei Senn. CIRAMI, FUMAGALLI, CARULLI, BRUNO NAPOLI, CALLEGARO (v. in Atti parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura. Disegni di legge e Relazioni. Documenti, p. 1).
— 69 — minari, accusatorie nei confronti di altro coimputato: qualora il primo prevenuto, successivamente, fosse stato contumace o assente per il dibattimento, o si fosse rifiutato di sottoporsi all’esame nel corso di questa fase, le suddette dichiarazioni, solo che una parte lo avesse richiesto, avrebbero potuto esser lette ed utilizzate nel dibattimento ai danni dell’accusato, nonostante che il difensore di questo non avesse avuto alcun diritto d’interloquire all’atto di effettuazione delle medesime (8). Per tale aspetto, l’art. 513 comma 1o, versione originaria, appariva in contrasto non solo con i principi di uguaglianza (art. 3 comma 1o Cost.), d’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 comma 2o Cost.) e di necessario confronto con i testimoni a carico (art. 6 § 3 lett. d) Convenzione europea e 14 § 3 lett. e) Patto internazionale sui diritti civili e politici), ma anche con il sistema originario del c.p.p. 1988, che ammetteva l’utilizzazione delle prove assunte con l’incidente probatorio solo nei confronti degli imputati i cui difensori avessero partecipato alla loro assunzione (art. 403). Si rendeva, pertanto, necessario assimilare il trattamento del coimputato di cui al comma 1o dell’art. 513 con quello dell’imputato in procedimento connesso o collegato riguardato dalla seconda parte dello stesso articolo: nel senso che, quando il coimputato fosse stato contumace o assente o avesse rifiutato di sottoporsi all’esame, il giudice dovesse disporre, a richiesta di parte, che fosse data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria da questi delegata (9) o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare solo con il consenso dell’interessato (cfr. art. 513 comma 1o, come sostituito dall’art. 1 l. n. 267 del 1997) (10). Peraltro, a ben vedere, i primi due commi dell’art. 513 sostituito non (8) NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, p. 299; UBERTIS, Giudizio di primo grado (disciplina del) nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, p. 536. (9) Va ricordato che la sentenza costituzionale 24 febbraio 1995, n. 60 ha ritenuto illegittimo l’art. 513 comma 1o in quanto non concerneva anche le dichiarazioni effettuate dall’imputato alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero ex art. 370 comma 1o, come sostituito dall’art. 5 comma 3o d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, modificato, in sede di conversione, dalla l. 7 agosto 1992, n. 356. Su tale sentenza v. COPPETTA, L’equiparazione tra l’interrogatorio del pubblico ministero e l’interrogatorio deferito alla polizia giudiziaria nella disciplina delle letture ex art. 513 c.p.p., in Giur. cost., 1995, pp. 2132 ss.; DI CHIARA, Processo penale e giurisprudenza costituzionale. Itinerari, Roma, 1996, pp. 37-38; F. MASSA, L’assimilazione tra atti del p.m. e atti delegati alla polizia giudiziaria si estende alle letture dibattimentali, in Cass. pen., 1995, pp. 2455 ss.; SANTACROCE, Prosegue il ridimensionamento da parte della Corte costituzionale dell’impianto accusatorio del processo penale: l’interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria e la sua utilizzazione probatoria, ivi, pp. 17511754. La disposizione ricavabile dalla sentenza costituzionale testé citata è stata ritenuta da applicarsi anche alla fattispecie di cui all’art. 513 comma 2o (Corte cost., 25 luglio 1995, n. 381). (10) In tal senso, il Disegno di legge d’iniziativa dei Senn. FASSONE, SALVI, SALVATO,
— 70 — escludono del tutto ‘‘l’alternativa inquisitoria’’ consistente nella utilizzazione, ai fini del giudizio, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, ma ne subordinano l’ammissibilità al fatto che l’interessato o le parti manifestino in tal senso la loro volontà; non diversamente da quanto può avvenire, ed avviene, nelle forme di c.d. ‘‘giustizia negoziata’’ (cioè, nel giudizio abbreviato e nel ‘‘patteggiamento’’). Va, inoltre, tenuta presente, quale quella d’uno strumento di anticipata tutela dell’oralità e del contraddittorio rispetto al dibattimento, la previsione del comma 3o del suddetto art. 513, come sostituito dall’art. 1 l. n. 267 del 1997, che consente di applicare le disposizioni di cui all’art. 511 alle dichiarazioni assunte sulla base dell’art. 392 (le norme del cui comma 1o, lett. c) e d), sono state opportunamente ampliate dall’art. 4 comma 1o l. n. 267 del 1997). Criticabile, infine, l’esplicito rinvio (contenuto nell’art. 513 comma 2o, come sostituito dall’art. 1 l. ult. cit.), alla disposizione dell’art. 512 qualora l’impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante ovvero di procedere in alcun modo al suo esame dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni; a ben vedere, infatti, questo richiamo appare superfluo, data la portata generale della norma da ultimo citata, e quindi, in ispecie, la sua implicita applicabilità anche nei casi di cui all’art. 513 comma 1o sostituito (11). 4. Il senso complessivo dei ‘‘nuovi’’ commi 1o e 2o dell’art. 513 è, dunque, quello per cui le dichiarazioni accusatorie rese durante la fase investigativa o nell’udienza preliminare dal coimputato o dall’imputato in un procedimento connesso o collegato possono valere a carico del coimputato o, rispettivamente, dell’imputato nel procedimento de quo solo qualora, correlativamente, il coimputato vi consenta o vi sia l’accordo tra le parti; vien fatto, allora, di chiedersi quali siano le regole da applicare in due differenti ipotesi, che la l. 7 agosto 1997, n. 267 non considera espressamente: quando, cioè, il coimputato o l’imputato in un procedimento connesso o collegato, pur non rifiutandosi di sottostare all’esame dibattimentale o, rispettivamente, non avvalendosi ab initio del diritto al BARBIERI, BONFIETTI, CALVI, RUSSO, SENESE e DUVA, in Senato della Repubblica. XIII legislatura, n. 1502, cit., pp. 3-4. (11) V., conf., LOCATELLI, Prova penale. La riforma dell’art. 513 c.p.p.: profili di incostituzionalità, effetti processuali e prime applicazioni giurisprudenziali, in Gazz. giur. Giuffrè - Italia oggi, n. 38, 1997, p. 5; NAPPI, Prova penale. Commento alle nuove norme sulla valutazione delle prove (l. n. 267 del 1997), ivi, n. 33, 1997, p. 4. Nel senso della illegittimità costituzionale dell’art. 513 comma 1o, come sostituito dall’art 1 l. n. 267 del 1997, per la mancata previsione della ipotesi d’impossibilità sopravvenuta delle dichiarazioni v. DUBOLINO, Prospettive di vita movimentata per il nuovo art. 513 c.p.p.?, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 386.
— 71 — silenzio, durante il procedimento istruttorio de quo non replichi a singole, specifiche, domande cui abbia risposto nelle investigazioni o nell’udienza preliminare; ed allorché i medesimi soggetti, sempre nel corso dello stesso esame, rendano dichiarazioni difformi da quelle (accusatorie) rese nelle fasi testé citate. 5. Il primo caso trova espressa disciplina solo con riferimento alla fattispecie del testimone: se questi rifiuta, o comunque omette, anche parzialmente, di rispondere su circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni, le medesime possono essergli contestate dalle parti (ex art. 500 comma 2o-bis, come sostituito, in sede di conversione, dall’art. 7 comma 4o d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356). Nel silenzio della legge, si pone il quesito se identica soluzione possa o no adottarsi, attraverso l’estensione analogica della testé menzionata disposizione, anche per l’ipotesi di silenzio parziale del coimputato o dell’imputato in procedimento connesso o collegato. Però, in queste ultime fattispecie, non ricorre quella eadem ratio che consentirebbe la suddetta operazione: il testimone è tenuto sia a comparire (artt. 366 commi 2o e 3o c.p. e 133 c.p.p.) che a rispondere, ed a rispondere veridicamente (artt. 372 c.p. e 207 c.p.p.), mentre il coimputato non solo non è passibile di accompagnamento coattivo ai fini dell’esame dibattimentale (arg. ex art. 490), ma, se comparso in udienza, può rifiutare di sottoporsi a tale mezzo istruttorio (arg. ex art. 208); l’imputato in un procedimento connesso o collegato, poi, ai sensi dell’art. 210, può essere, si, fatto accompagnare coattivamente (v. commi 2o e 6o), però, una volta presente per il dibattimento, ha facoltà di non rispondere alle domande che gli vengono rivolte durante l’esame (v. commi 4o e 6o). Conseguentemente, appare fuori di luogo l’applicazione, ai due soggetti per ultimi menzionati, di un meccanismo, quale quello dell’art. 500 comma 2obis, che potrebbe eludere gli effetti pratici del diritto al silenzio parziale, implicitamente riconosciuto sia a favore del coimputato (art. 64 comma 3o) che dell’imputato in un procedimento connesso o collegato (art. 210 commi 4o e 6o). Dunque, nella situazione de qua, in ordine al coimputato non resterebbe che applicare l’art. 209 comma 2o; nel senso che, qualora egli rifiutasse di rispondere ad una specifica domanda, se ne dovrebbe far menzione nel verbale, con possibilità, per il giudice, di trarre argomento di prova dal suo silenzio (12); con riferimento all’imputato in un procedimento connesso o collegato, poi, parrebbe perfino discutibile che sia ido(12) BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, ne La conoscenza del fatto nel processo penale a cura di G. Ubertis, Milano, 1993, p. 107; S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1994, p. 2271; CORa DERO, Procedura penale, 3 ed., Milano, 1995, p. 651; ID., Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Torino, 1992, p. 258; GREVI, Prove, in AA.VV., Profili del nuovo codice di
— 72 — nea ad operare la norma per ultima indicata, in mancanza di uno specifico richiamo omologo a quelli di cui all’art. 210 comma 5o. Ma, in verità, l’ipotesi di silenzio parziale del coimputato o dell’imputato in un procedimento connesso o collegato va a ricadere in un altro tipo di disciplina: rispetto al primo soggetto, una norma è desumibile dal comma 3o dell’art. 503, in base al quale, durante l’esame del prevenuto, il pubblico ministero e i difensori, per contestare in tutto o in parte il contenuto della ‘‘deposizione’’, possono servirsi di dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. La mancata risposta del coimputato ad una domanda ben può, infatti, essere considerata elemento negativo del suddetto contenuto, tale, quindi, se in contrasto con precedente enunciazione, da innescare il meccanismo della contestazione (13). In relazione, poi, all’imputato in un procedimento connesso o collegato, l’art. 503 risulta oggi esplicitamente richiamato dal comma 5o dell’art. 210, come sostituito dall’art. 2 comma 1o b, d.-l. n. 306 del 1992, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356. Insomma, le fattispecie in oggetto rientrano in quella — di cui ci si riserva di parlare nel § successivo — della difformità tra dichiarazioni rese nel dibattimento e dichiarazioni effettuate in fase investigativa o nell’udienza preliminare. procedura penale a cura di G. Conso e V. Grevi, 4a ed., Padova, 1996, p. 257; Cass., 30 marzo 1994, in C.E.D. Cass., 298636; Id. 9 gennaio 1992, ivi, 207718. Invece, l’ORLANDI (sub art. 209 c.p.p., in Commento, cit., II, p. 507) ritiene che del rifiuto di rispondere si possa fare, tuttalpiù, un uso indiretto. Nel corso dei lavori preparatori della l. 7 agosto 1997, n. 267, è stato proposto di estendere al coimputato o imputato in procedimento collegato o connesso la disciplina prevista dall’art. 500 comma 5o, come sostituito, in sede di conversione, dall’art. 7 comma 4o d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356 (cioè, il regime del pieno valore di prova dei fatti affermati nelle dichiarazioni precedenti il dibattimento quando, anche per le modalità della deposizione o per altre circostanze emerse da detta fase, risulti che il soggetto di prova è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga o deponga il falso ovvero risultino altre situazioni che hanno compromesso la genuinità dell’esame) (v., fra gli altri, Sen. FOLLIERI, in Senato della Repubblica. XIII legislatura. Giunte e Commissioni parlamentari. 188o Resoconto. Seduta di giovedì 31 luglio 1997, p. 56; Min. FLICK, in Camera dei deputati. Mercoledì 4 giugno 1997. Bollettino delle Giunte e delle Commissioni. XIII legislatura, p. 33). Conf. v., successivamente, CHIAVARIO, op. cit., p. 11; RIVELLO, Il banco di prova delle aule di giustizia fa emergere le lacune della riforma, in Guida al diritto. Il Sole-24 ore, n. 37, 4 ottobre 1997, p. 72; ID., Inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato se non sono state raccolte in udienza, ivi, n. 32, 30 agosto 1997, p. 84. In senso contrario v., invece, PECORELLA, Riforma dell’art. 513 e processi di mafia: il ‘‘doppio binario’’ non è la giusta soluzione, in Guida al diritto. Il Sole-24 ore, n. 34, 13 settembre 1997, p. 12. (13) Per una considerazione omologa, relativa al predetto art. 500 comma 2o-bis v. FERRUA, Studi sul processo penale II Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 176. Il NAPPI (op. cit., 5a ed., Milano, 1996, p. 393), invece, ritiene che, nell’ipotesi in questione, sia senz’altro applicabile analogicamente la disposizione testé menzionata. Cfr. anche RIVELLO, op. ult. cit., p. 84.
— 73 — 6. Per quanto riguarda questa ipotesi di contrasto, posto che l’art. 503 comma 3o, richiamato dall’art. 210 comma 5o, prevede l’anzidetta possibilità di contestazione, si tratta di stabilire quale valore debba essere attribuito alla dichiarazione accusatoria resa dal coimputato o dall’imputato in un procedimento connesso o collegato in fase investigativa o durante l’udienza preliminare una volta che detta dichiarazione sia stata contestata. Nessun dubbio che la dichiarazione in discorso possa essere usata per un apprezzamento critico di quella dibattimentale: il comma 4o dell’art. 503 (fatto espressamente salvo dalla Corte costituzionale con la sentenza 3 giugno 1992, n. 255) richiama il comma 3o dell’art. 500, il quale, oggi, quale risulta a seguito della sostituzione operata dall’art. 7 comma 4o d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, come convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, prevede che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possano essere valutate dal giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata. Ad apparire discutibile è, invece, la possibilità o no di un impiego probatorio delle dichiarazioni contestate. In proposito, va ricordato che, per l’art. 503 comma 4o, le dichiarazioni della parte privata cui il difensore aveva diritto di assistere, assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria da questo delegata (v. art. testé citato come sostituito dall’art. 8 comma 1o d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356), una volta utilizzate per le contestazioni, sono acquisite al fascicolo per il dibattimento, divenendovi, così, suscettibili di lettura e quindi di valutazione diretta a fini probatori. La stessa regola vige riguardo alle dichiarazioni rese al giudice per le indagini preliminari ex artt. 294, 299 comma 3o-ter (quale inserito dall’art. 13 comma 1o l. 8 agosto 1995, n. 332), 391 e 422. Tale disciplina concerne, indubbiamente, le dichiarazioni della parte privata-imputato, che è espressamente considerata dall’art. 503 comma 1o; ma va riferita anche alle dichiarazioni dell’imputato in un procedimento connesso o collegato, dato il suddetto, esplicito, richiamo dell’art. 210 comma 5o all’art 503. Si potrebbe, allora, essere condotti a ritenere che le dichiarazioni accusatorie rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, per opera di questo delegata, dal coimputato o dall’imputato in un procedimento connesso o collegato, in quanto il difensore abbia avuto il diritto di assistere al rilascio delle medesime (v. artt. 363, 364 comma 1o e 370 comma 1o), siano suscettibili di essere utilizzate come prove anche a carico di altro coimputato o dell’imputato nel procedimento de quo. Ad avviso di chi scrive, però, questa interpretazione non può essere accolta: infatti, il difensore che ha diritto di assistere all’atto in cui sono effettute siffatte dichiarazioni è solo quello del coimputato che delle medesime è autore o dell’imputato nel procedimento connesso o collegato; il difensore del coimputato o dell’imputato nel procedimento de quo riguar-
— 74 — dato dalle accuse, invece, non è legittimato a presenziare nella suddetta sede; per conseguenza, viene qui a mancare quella correlazione tra garanzie difensive ed utilizzabilità dibattimentale che costituisce la ratio dell’art. 503 comma 5o (14). Del resto, se le preindicate dichiarazioni accusatorie potessero essere usate a carico di altro imputato, risulterebbe irragionevolmente contraddetto il sistema che si e voluto instaurare in tema di letture dibattimentali mediante i primi due commi — tendenti ad evitare l’impiego di siffatte parole senza il consenso o l’accordo della parte che ne potrebbe risultare pregiudicata — dell’art. 513, come sostituiti dall’art. 1 l. n. 267 del 1997. Bisogna, dunque, concludere in questo senso: posto che, se, quando il coimputato è contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all’esame dibattimentale, o l’imputato in un procedimento connesso o collegato rifiuta di rispondere in tale sede, le dichiarazioni accusatorie rese nelle indagini preliminari non possono essere utilizzate nei confronti di altro coimputato o dell’imputato nel procedimento de quo senza il consenso o l’accordo anche di questo; vi sarebbe un’ingiustificabile disparità di trattamento se, invece, quando il coimputato si sottoponesse, rispondendo, all’esame dibattimentale, o l’imputato in procedimento connesso o collegato, nel corso dello stesso esame, replicasse alle domande che gli sono rivolte, le dichiarazioni accusatorie difformi da quelle effettuate in udienza, una volta contestate, potessero essere acquisite a fini probatori, indipendentemente dal suddetto consenso o accordo. Oltretutto, risulterebbe facilmente aggirabile, in tal modo, il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni testé menzionate se non con la volontà dell’interessato implicitamente risultante dai primi due commi dell’art. 513 sostituito. (14) DEGANELLO, sub art. 210 c.p.p., in Commento, cit., Secondo aggiornamento, Torino, 1993, pp. 78-79; ID., Commento all’art. 2 D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla L. 7 agosto 1992 n. 356 - Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, in Legislaz. pen., 1993, p. 44; FRIGO, Problemi deontologici, tecnici e psicologici nella gestione dei ‘‘pentiti’’: la posizione del difensore, in Cass. pen., 1991, I, p. 1179; ID., Ritornano l’oralità e il contraddittorio, cit., pp. 72 e 79; GROSSO, L’interrogatorio libero tra i due codici, in Giust. pen., 1990, III, cc. 302303; MURONE, Presupposti e limiti di utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni di imputato di reato connesso o collegato, ivi, 1991, III, cc. 561 ss.; NOBILI, sub art. 513 c.p.p., in Commento, cit., Secondo aggiornamento, Padova, 1993, p. 275, nota 31. Contra, nel senso della possibilità di un impiego probatorio delle dichiarazioni de quibus, v. BARGIS, Le dichiarazioni di persona imputata in un procedimento connesso, Milano, 1984, p. 103; GREVI, ‘‘Le dichiarazioni rese dal coimputato’’, cit., p. 1161; LOCATELLI, Alcune osservazioni sulle modifiche al codice di rito conseguenti al d.l. 8 giugno 1992 convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356 e alle pronunzie della C. cost. n. 24, 254 e 255 del 1992, in Cass. pen., 1992, p. 3180; NAPPI, Prova penale. Commento alle nuove norme sulla valutazione delle prove (l. n. 267 del 1997), in Gazz. giur. Giuffrè - Italia oggi, n. 33, 1997, p. 5, RIVELLO, op. ult cit., p. 84; ID., Il dibattimento nel nuovo processo penale, Torino, 1997, p. 235; ID., sub art. 503 c.p.p., in Commento, cit., Secondo aggiornamento, p. 257; ID., sub art. 8 d.l. 8 giugno 1992, cit., in Legislaz. pen., 1993, p. 105; Cass., 12 novembre 1995, in C.E.D. Cass., 202040; Id. 7 luglio 1992, ivi, 190566; Id. 1o luglio 1992, ivi, 192009.
— 75 — Più problematico il discorso relativo alle dichiarazioni accusatorie effettuate dal coimputato al giudice per le indagini preliminari durante l’interrogatorio dovuto a chi è sottoposto a misura cautelare (art. 294), o in quello preliminare alla decisione su sospensione o rinvio di tale misura (art. 299 comma 3o-ter), o in quello reso in sede di convalida del fermo o dell’arresto (art. 391 comma 3o). Anche in questi casi — espressamente richiamati dall’art. 503 comma 6o al fine di consentire l’acquisizione previa contestazione delle dichiarazioni rese nelle sedi suddette — trattasi di atti cui ha diritto di assistere il difensore del coimputato dichiarante (v. artt. 294 comma 4o e 391 comma 1o), ma non il difensore del coimputato attinto dalle accuse, onde l’impiego di quest’ultime senza il consenso del testé citato prevenuto par contrastare con il principio di necessaria correlazione tra il contraddittorio per la prova e l’utilizzazione dibattimentale della medesima a carico dell’accusato ricavabile dai primi due commi dell’art. 513 sostituito. Tuttavia, di fronte al chiaro tenore dell’art. 503 comma 6o (che non fa espresso riferimento alla condizione del diritto del difensore dell’imputato di assistere), e nel silenzio in proposito della l. 7 agosto 1997, n. 267, è difficile ritenere che quest’ultimo provvedimento abbia abrogato la prima disposizione; non resta, quindi, che prender atto di un diverso regime delle dichiarazioni accusatorie rese dal coimputato al giudice per le indagini preliminari a seconda che tale prevenuto sia contumace, assente, o rifiuti di sottoporsi all’esame oppure renda dichiarazioni difformi: nel primo caso, dette dichiarazioni accusatorie saranno inutilizzabili senza il consenso di chi ne è riguardato, nel secondo, acquisibili previa contestazione. Si tratta, evidentemente, di una ‘‘dissonanza’’ — parzialmente attenuata dalla natura giurisdizionale dell’organo procedente e dalla funzione garantistica dell’atto — alla quale solo un ulteriore intervento del legislatore o della Corte costituzionale potrà porre rimedio. Ancor più delicata la questione suscitata dal quinto capoverso dell’art. 503 nella parte in cui finisce per sancire la piena valenza probatoria, previa contestazione, delle dichiarazioni accusatorie rese dall’imputato in un procedimento collegato o connesso durante le ‘‘sommarie informazioni ai fini della decisione’’ ex art. 422 comma 7o nei confronti dell’imputato nel procedimento de quo. In questo caso, difatti, le suddette dichiarazioni avvengono nel contesto di un interrogatorio al quale il difensore dell’imputato nel procedimento de quo ha diritto di partecipare, con facoltà di porre domande al soggetto di prova per mezzo del giudice (art. 422 comma 7o). Pertanto, qualora l’imputato in un procedimento connesso o collegato si esprima, poi, nel dibattimento de quo, in senso difforme, l’utilizzazione probatoria delle dichiarazioni accusatorie rese nell’udienza preliminare previa loro contestazione non violerà il principio di correlazione tra garanzie difensive e valenza dibattimentale. Vien fatto, però, di rilevare che se, invece, il prevenuto considerato
— 76 — nell’art. 210, nel dibattimento, si avvalesse della facoltà di non rispondere, le sue eventuali precedenti dichiarazioni accusatorie effettuate nel corso della suddetta udienza ex art. 422 comma 7o non potrebbero essere utilizzate nei confronti dell’imputato nel procedimento de quo senza l’accordo anche di questo soggetto. Si deve concludere, allora, che, per l’utilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese prima del dibattimento, la l. 7 agosto 1997, n. 267, nei suddetti casi di silenzio, sembra esigere un requisito ulteriore rispetto alla mera assistenza all’atto del difensore dell’accusato in procedimento de quo nell’udienza preliminare; e cioè, che tale legale abbia partecipato alla formazione della prova attraverso l’esame incrociato. Si manifesta, anche in questo caso, una ‘‘dissonanza’’ tra il sistema delle contestazioni e quello delle letture. Nessuna incongruenza sussiste, invece, quando il giudice dell’udienza preliminare, su richiesta di parte, abbia disposto che l’interrogatorio dell’imputato sia reso nelle forme contemplate dagli artt. 498 e 499, così come prevede il terzo periodo — inserito dall’art. 2 comma 2o l. 7 agosto 1997, n. 267 — del comma 2o dell’art. 421: in questo caso, le eventuali dichiarazioni accusatorie rese dall’imputato nell’udienza preliminare ben potranno essere utilizzate nel dibattimento, trattandosi di parole rilasciate in un contraddittorio, sia pur anticipato, tra le parti per la prova (v., infatti, art. 514 comma 1o, come sostituito dall’art. 2 comma 1o l. n. 267 del 1997). 7. L’art. 1, l. 7 agosto 1997, n. 267 sembra essere una solo parziale riaffermazione dei principi dell’oralità e del contraddittorio, già derogati, nel 1992, dalla Coste costituzionale e dalla legislazione novellistica. Peraltro, detti principi sono ribaditi, in verità, nel senso ‘‘forte’’ dell’ininfluenza — salvo il consenso o l’accordo dell’interessato — di quanto affermato al di fuori del ‘‘contraddittorio’’ — tra le parti — ‘‘per la prova’’. Nondimeno, le norme ricavabili dall’articolo testé menzionato appaiono di difficile coordinamento con quelle desumibili dal testo originario del c.p.p. 1988 e dai successivi interventi giurisprudenziali e legislativi. Solo un improbabile globale ripristino (15) in senso accusatorio del sistema (15)
FRIGO, op. ult. cit., p. 79. In senso contrario a tale ripristino v., invece, LOCA-
TELLI, Prova penale. La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., pp. 2 ss.; PULEIO, Osservazioni sul
disegno di legge in tema di valutazione delle prove, in Giust. pen., 1997, III, cc. 542 ss. Nel senso che la normativa introdotta dalla l. 7 agosto 1997, n. 267 introduce un’illogica differenziazione, quanto a utilizzabilità, fra le dichiarazioni testimoniali e quelle rese dalle persone indicate nell’art. 210 v. Prove penali: a un mese dal varo il nuovo art. 513 approda alla Consulta. Tribunale per i minorenni di Bologna, ord. 19 settembre 1997, Ciavardini, in Guida al diritto. Il Sole-24 ore, n. 37, 4 ottobre 1997, p. 76. Si è sostenuto, altresì, che il nuovo testo dell’art. 513 introdurrebbe, quanto alla leggibilità delle precedenti dichiarazioni, un’irragionevole disparità di trattamento tra coimputato e imputato in procedimento
— 77 — probatorio penale (soprattutto con riferimento al delicatissimo tema della testimonianza) potrebbe forse consentire di meglio risolvere tutti gli interrogativi, tra i quali quelli qui affrontati. Prof. PAOLO MOSCARINI Associato di procedura penale nell’Università di Siena
connesso o collegato, in relazione alla circostanza che non fosse possibile ottenere nel dibattimento la presenza del primo oppure quella del secondo (Trib. Sanremo, ord. 30 settembre 1997, Cristiano e altri, in G.U., 1a serie speciale, 24 dicembre 1997).
CAPACITÀ A DELINQUERE E COMMISURAZIONE DELLA PENA: PROBLEMI ED ORIENTAMENTI
SOMMARIO: 1. Premesse generali. — 2. Capacità a delinquere e finalità della sanzione penale. — 3. La capacità a delinquere quale criterio ‘‘commisurativo’’ della pena. — 4. Inadeguatezza del modello ‘‘unitario’’ di commisurazione ed esigenza d’una nuova prospettazione di paradigmi commisurativi. — 5. Considerazioni finali circa un rinnovato sistema di commisurazione della pena.
1. La ‘‘capacità a delinquere’’ configura — unitamente alla ‘‘gravità del reato’’ — uno dei basilari criteri di commisurazione della pena in concreto. A tenore dell’art. 133 c.p., infatti, il giudice nell’esercizio del suo potere discrezionale, in ordine alla ‘‘determinazione’’ (del tipo e della misura) della sanzione penale da irrogare, deve tener conto, altresì, della ‘‘capacità a delinquere del colpevole’’: da desumersi da tutta una serie ben specificata di ‘‘indici’’, riguardanti la personalità del reo e la storia della sua vita (1). Orbene: facendo riferimento, in particolare, ai motivi a delinquere, al carattere del reo, ai suoi precedenti penali e giudiziari, alla sua condotta antecedente, concomitante o susseguente al reato, nonché alle relative condizioni di vita (individuale, familiare e sociale), si tende ad estendere la valutazione giudiziale dal fatto oggettivo alla personalità del reo: al fine precipuo di conseguire una più adeguata ‘‘graduazione’’ (ed ‘‘individualizzazione’’) della pena da irrogarsi (2). (1) Per una prima ricognizione in merito al ruolo della capacità a delinquere ai fini della ‘‘concretizzazione’’ della sanzione penale, si v. segnatamente: BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, I. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, pp. 74 ss. e 344 ss.; G. DE FRANCESCO, Appunti sulla capacità a delinquere come criterio di determinazione della pena nel reato continuato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, pp. 1450 ss.; DOLCINI, Discrezionalità del giudice e diritto penale, in Diritto penale in trasformazione, a cura di G. Marinucci ed E. DOLCINI, Milano, 1985, pp. 269 ss.; ID., Potere discrezionale del giudice (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, pp. 750 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere nell’applicazione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, pp. 1343 ss.; SPASARI, Capacità a delinquere e pena, ivi, 1978, pp. 7 ss.; TASCONE, Applicazione della pena, in Enc. giur. Treccani, II, Roma, 1988, pp. I ss.; ID., Capacità a delinquere, ivi, V, Roma, 1988, pp. I ss. (2) In argomento: DE CATALDO NEUBURGER, Il carattere, i motivi, la condotta e l’am-
— 79 — È bene tener presente che l’istituto della ‘‘capacità a delinquere’’ — sconosciuto al codice Zanardelli del 1889 — è stato introdotto dal codice penale del 1930, quale espressione del raggiunto compromesso fra le opposte scuole (classica e positiva) di diritto penale: segnatamente in sede di formulazione delle disposizioni di cui all’art. 133 c.p. (3). Ad un attento esame, però, non può sfuggire il rilievo che l’art. 133 c.p. si è venuto a trovare, in definitiva, a metà strada fra i postulati della scuola classica e della scuola positiva: dando luogo, quindi, ad una diversità di interpretazioni che hanno contribuito a connotare in termini di notevole ‘‘equivocità’’ il concetto stesso di capacità a delinquere (4). In particolare: per i seguaci della Scuola classica la capacità a delinquere ha da riguardare la ‘‘genesi’’ del delitto, per poter chiarire i rapporti fra soggetto e fatto-reato; e viene a consistere, precisamente, in una sorta di ‘‘attitudine al reato commesso’’ (5). In una tale ottica — che tende a proiettare nel passato il giudizio in merito alla capacità criminale del soggetto — quel che principalmente interessa valutare è la ‘‘personalità morale’’ del reo, quale si esprime nel fatto realizzato (6). La capacità a delinquere, pertanto, servirebbe a valubiente come indici di personalità, di capacità a delinquere e di pericolosità, in Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, a cura di G. Gulotta, Milano, 1987, pp. 235 ss.; DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità sociale, Milano, 1985, pp. 56 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979, pp. 43 ss. e 301 ss.; MALINVERNI, Capacità a delinquere, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, pp. 118 ss.; ID., Motivi (dir. pen.), ivi, XXVII, Milano, 1977, pp. 290 ss.; NUVOLONE, La capacità a delinquere nel sistema del diritto penale, in Trent’anni di diritto e Procedura penale, I, Padova, 1969, pp. 578 ss.; RAMAJOLI, Capacità a delinquere e teoria del soggetto attivo del reato, in Arch. pen., 1970, pp. 206 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, pp. 284 ss. (3) Cfr., a tal riguardo, ANTOLISEI, La ‘‘capacità a delinquere’’, in Scritti di diritto penale, Milano, 1955, pp. 167 ss.; BELLAVISTA, Il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, ne Il Tommaso Natale, 1975, pp. 145 ss.; GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, Milano, 1952, pp. 128 ss. e 176 ss.; VASSALLI, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, in Primo corso di perfezionamento per uditori giudiziari. Conferenze, II, Milano, 1958, pp. 742 s. (4) Al qual proposito: BETTIOL, Pena retributiva e poteri discrezionali del giudice, in Scritti giuridici, I, Padova, 1966, pp. 524 ss.; ID., Capacità a delinquere e pena retributiva, in Ind. pen., 1979, pp. 365 ss.; CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989, pp. 503 ss.; DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità sociale, cit., pp. 45 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, op. cit., pp. 33 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Pt. gen., Bologna, 1985, pp. 440 ss. (5) V., per tutti, BELLAVISTA, Il potere discrezionale del giudice, cit., pp. 179 ss.; BETTIOL, Diritto penale, Pt. gen., Padova, 1976, pp. 372 ss.; PETROCELLI, La funzione della pena, in Saggi di diritto penale, Padova, 1952, pp. 114 ss. (6) Sul punto: DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità sociale, cit., p . 47 ss.; MALINVERNI, I moventi a delinquere, in Scuola pos., 1956, pp. 273 ss.; ID., Capacità a delinquere, cit., pp. 123-124; PANNAIN, Manuale di diritto penale, I, Torino, 1967, pp. 819 s.; PETROCELLI, La funzione della pena, cit., pp. 122 ss.
— 80 — tare il grado di colpevolezza per il reato posto in essere: al fine di esprimere un giudizio, sufficientemente ‘‘individualizzato’’, di riprovevolezza e rimproverabilità in capo all’autore dell’illecito penale (7). A quest’ultimo riguardo è opportuno precisare che il nesso capacità criminale-colpevolezza viene ad essere contestato da quanti — sulla base del rilievo che alcuni degli elementi richiamati dall’art. 133 c.p. non si presentano compatibili con un giudizio di colpevolezza limitato al singolo fatto delittuoso — considerano la ‘‘capacità a delinquere’’ un parametro di valutazione esclusivamente rilevante ai fini della graduazione della pena (8). Per quanto attiene, poi, agli orientamenti specifici dei seguaci della Scuola positiva, v’è da segnalare che la capacità a delinquere è considerata con riguardo, segnatamente, alla ‘‘attitudine del soggetto a commettere nuovi reati’’: e, pertanto, il giudizio relativo non rimane circoscritto al reato commesso, ma tende altresl a proiettarsi nel futuro per formulare una ‘‘prognosi’’ circa il possibile reiterarsi del comportamento criminoso del reo (9). In tale prospettiva la capacità a delinquere tende ad identificarsi — quanto meno nel suo nucleo essenziale e più significativo — con la ‘‘pericolosità sociale’’ del soggetto; ferma restando, in ogni caso, una sensibile diversità ‘‘quantitativa’’ dei due concetti: in considerazione del fatto che la capacità criminale richiama con ogni evidenza la mera ‘‘possibilità’’, di contro alla ‘‘probabilità’’ di ricaduta nell’illecito penale che motiva il giudizio di pericolosità sociale (10). Non può mancarsi, infine, di segnalare che in merito alla puntuale (7) Cfr. altresì, BETTIOL, Capacità a delinquere e pena retributiva, cit., pp. 368 ss.; ID., Pena retributiva e poteri discrezionali, cit., pp. 529 s.; DOLCINI, Appunti sul limite della colpevolezza nella commisurazione della pena, in questa Rivista, 1975, pp. 1158 ss.; ID., La commisurazione della pena, cit., pp. 176 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere, cit., pp. 1352 ss. (8) Cfr., in particolare, BELLAVISTA, Il problema della colpevolezza, Palermo, 1942, pp. 104 ss.; ID., Il potere discrezionale del giudice, cit., pp. 194 ss.; nonché: PAGLIARO, Principi di diritto penale, Pt. gen., Milano, 1980, pp. 485 ss.; SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pp. 63 ss. e 129 ss. (9) In proposito, per tutti, FLORIAN, Parte generale del diritto penale, I, Milano, 1934, pp. 320 ss.; FROSALI, Sistema penale italiano, I, Torino, 1958, pp. 658 ss.; ID., Pena, in Noviss. dig. it., XII, Torino, 1965, pp. 818 ss.; GRISPIGNI, Risposta sulla pericolosità criminale nel codice penale, in Scuola pos., 1933, I, pp. 30 ss.; ID., Diritto penale it., cit., I, pp. 181 ss. (10) Per apposite puntualizzazioni al riguardo: ANTOLISEI, La ‘‘capacità a delinquere’’, cit., pp. 172 ss.; CALABRIA, Sul problema dell’accertamento della pericolosità sociale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 782 ss.; GUADAGNO, Accertamento del fatto e accertamento della personalità come presupposti per l’applicazione della sanzione penale, in Studi in onore di B. Petrocelli, II, Milano, 1972, pp. 930 ss.; GUARNERI, Pericolosità sociale, in Noviss. dig. it., XII, Torino, 1965, pp. 955 ss.; SABATINI, Orientamenti in tema di pericolosità, in Giust. pen., 1958, II, c. 385 ss.; TAGLIARINI, Pericolosità, in Enc. dir., XXXIII, Milano,
— 81 — precisazione e delimitazione del concetto di ‘‘capacità a delinquere’’ si è venuta prospettando una ulteriore posizione interpretativa che assegna all’istituto in esame, praticamente, una duplice funzione: di ‘‘graduazione’’ della colpevolezza, sul presupposto che tanto più il fatto è riprovevole quanto maggiore è la morale attribuibilità del fatto stesso al suo autore; di ‘‘prognosi’’ riguardante le potenzialità criminali del soggetto in una prospettiva di prevenzione speciale (11). Non è certamente agevole stabilire, una volta per tutte, quale delle appena cennate interpretazioni sia la più adeguata a corrispondere pienamente allo spirito dell’attuale previsione normativa richiamante l’istituto della capacità a delinquere. È di tutta evidenza, difatti, che — in mancanza di univoche indicazioni desumibili dal testo dell’art. 133 c.p. — il significato da attribuirsi a ridetta ‘‘capacità’’ viene a dipendere dall’incidenza specifica che è dato attribuire a svariati altri elementi (‘‘esterni’’, per così dire, al concreto accadimento delittuoso): e che, per parte loro, sono suscettibili di assumere intonazioni diverse a seconda delle concezioni di fondo fatte proprie dall’interprete, specie con riferimento alla apposita finalità attingibile tramite la irrogazione della sanzione penale (12). Quel che è certo, comunque, è che la capacità a delinquere — in presenza d’un fatto di reato — non può mai difettare (mentre così non è a dirsi per la pericolosità sociale): dato che ogni soggetto ha una sua ‘‘identità’’, un suo proprio modo di essere, una sua ‘‘personalità’’ che sempre può (e deve) essere confrontata con l’accadimento delittuoso (13). È proprio da un tale confronto che il giudice può trarre gli elementi valutativi indispensabili per ‘‘graduare’’ la specifica portata della capacità 1983, pp. 27 ss.; ID., Colpevolezza, pericolosità, trattamento, Bologna, 1993, pp. 79 ss. e 147 ss. (11) Indicativamente, in tal senso, MANTOVANI, Diritto penale, Pt. gen., Padova, 1979, pp. 587 ss.; NUVOLONE, La capacità a delinquere nel sistema del diritto pen., cit., pp. 583 ss.; ID., Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, pp. 331 ss.; RAMAJOLI, La capacità a delinquere nel diritto penale italiano, in Arch. pen., 1970, I, pp. 24 ss.; ID., Capacità a delinquere e teoria del soggetto attivo, cit., pp. 199 ss. (12) Per taluni spunti in merito: AZZALI, Profitto e punibilità nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, pp. 1417 ss. (altresì in: Scritti di teoria generale del reato, Milano, 1995, pp. 142 ss.); BRICOLA, Il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della sanzione criminale (natura e profili costituzionali), in Monit. trib., 1968, pp. 1230 ss.; ID., La discrezionalità nel diritto penale, cit., pp. 85 ss.; LARIZZA, La commisurazione della pena: rassegna di dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, pp. 598 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Pt. gen., cit., pp. 445 ss.; MALINVERNI, Motivi (dir. pen.), cit., pp. 293 ss. (13) Così, per tutti, CONTENTO, Corso di diritto penale, cit., pp. 504-505; ed altresì: DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità, cit., pp. 53 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Pt. gen., Milano, 1996, pp. 494-495.
— 82 — criminale del reo: e, con essa, la concreta responsabilità ed il relativo riscontro sanzionatorio (14). Tanto più elevato sarà il grado della ‘‘capacità a delinquere’’ quanto più il fatto illecito, nella sua dimensione oggettiva, risulterà essere del tutto ‘‘coerente’’ rispetto alla personalità del reo: nel senso che possa considerarsi come una sua normale espressione, pienamente adeguata al tipo di personalità morale del soggetto. Laddove, invece, il fatto posto in essere si presenti come un episodio ‘‘eccezionale’’ — non conforme all’orientamento usuale di vita del soggetto — ne verrà a risultare quasi sempre più ridotto lo spessore della capacità criminale del suo autore (15). Ecco, quindi, che in dottrina si è venuto delineando un orientamento che propende ad inquadrare, in particolare, i fattori rimarcanti la ‘‘capacità a delinquere’’ — unitamente, del resto, a quelli richiamanti la ‘‘gravità del reato’’ — di cui all’art. 133 c.p., nell’ambito sistematico afferente alle circostanze (in ispecie: c.d. ‘‘improprie’’) del reato (16). Non si è mancato di precisare, peraltro, che le situazioni di fatto rilevanti ai fini dell’accertamento d’una maggiore o minore capacità criminale, sono da annoverarsi precisamente fra gli elementi ‘‘normativi’’ del fatto-reato: e, in quanto tali, hanno da essere considerati quali componenti essenziali della struttura fondamentale della fattispecie criminosa (17). A siffatte impostazioni dottrinali non può non riconoscersi il pregio di interpretare in modo sostanzialmente ineccepibile il rapporto intercorrente tra la qualificazione del fatto come reato e la rispettiva dichiarazione di punibilità: attesocché la pena edittalmente prevista ha da corrispondere necessariamente (per ineludibili ragioni di politica criminale) a tutta una serie di fattori ed elementi — dalla legge stessa ben predeterminati — (14) Diffusamente in proposito: ANTOLISEI-CONTI, Manuale di diritto penale, Pt. gen., Milano, 1994, pp. 593 ss. e 663 ss.; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Pt. gen., Padova, 1986, pp. 445 ss. e 859 ss.; DE FELICE, Commisurazione della pena e delinquente occasionale, in Ind. pen., 1982, pp. 40 s.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 39 ss.; ID., Note sui profili costituzionali della commisurazione della pena, in questa Rivista, 1974, pp. 339 ss.; LARIZZA, La commisurazione della pena, cit., pp. 611 ss.; MANTOVANI, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 589 ss. (15) In tal senso, segnatamente, CONTENTO, Corso di diritto pen., cit., pp. 505-506; DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità, cit., pp. 55 ss. (16) Vds., a tal riguardo, DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione della pena, Milano, 1983, pp. 86 ss.; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1988, pp. 841 ss.; PADOVANI, Circostanze del reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, pp. 189 ss.; PROSDOCIMI, Note su alcuni criteri di classificazione delle circostanze del reato, in Ind. pen., 1983, pp. 270 ss. e 284 ss.; SEMERARO, Concorso di persone nel reato e commisurazione della pena, Padova, 1986, pp. 138 ss. (17) In merito, del tutto indicativamente, PAGLIARO, Principi di diritto pen., Pt. gen., cit., p. 492; ID., Appunti su alcuni elementi normativi contenuti nella legge penale, in questa Rivista, 1964, pp. 447 ss.
— 83 — aventi, in pratica, una significativa incidenza sulla concreta ‘‘determinazione’’ della sanzione penale nel caso specifico (18). Ordunque: nel contesto degli elementi di fattispecie che si usa definire — con riferimento al principio di tassatività-determinatezza — ‘‘elastici’’ (19), viene a trovar posto proprio l’apposita valutazione circa la capacità a delinquere; che, per tanto, risulta attenere propriamente alla struttura stessa della fattispecie incriminatrice, in quanto intesa a precisare la specifica ‘‘portata’’ della stessa gravità del reato (20): in ragione, essenzialmente, del fatto che viene a richiamare un puntuale giudizio in merito alla colpevolezza del soggetto, così come ha da risultare, in primis, dalla concreta valutazione della ‘‘intensità del dolo’’, ovvero del ‘‘grado della colpa’’ (21). Laddove si consideri, poi, l’incidenza che anche la ‘‘condotta susseguente’’ al reato ha da esercitare ai fini di un esaustivo giudizio in ordine alla capacità criminale del reo (22), non può non riconoscersi il rilievo — nella particolare prospettiva, peraltro, di favorire il perseguimento della finalità ‘‘rieducativa’’ di cui all’art. 27, comma 3o, Cost. — di quella posizione interpretativa ravvisante il più corretto inquadramento dell’istituto della capacità a delinquere nell’ambito della teoria della pena: in quanto incidente, segnatamente, sulla concreta ‘‘determinazione’’ (ed ‘‘individualizzazione’’) della sanzione penale (23). (18) Cfr., in proposito, AZZALI, Profitto e punibilità nella teoria del reato, cit., pp. 1419 ss.; BRICOLA, Il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della sanzione, cit., pp. 1244 ss.; SCOPELLITI, Pena e discrezionalità del giudice penale (rinnovamento strumentale), in Rass. studi penit., 1965, pp. 317 ss. (19) Al qual riguardo: PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, pp. 66 ss. e 296 ss.; ID., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1991, pp. 35 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, pp. 40 ss.; VASSALLI, Tipicità, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, pp. 540 s. (20) Sul punto, per tutti, BRICOLA, La discrezionalità nel diritto pen., cit., pp. 98 ss. e 157 ss. ; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 42 ss. e 258 ss.; ID., Commento all’art. 133, in Commentario breve al codice penale, a cura di A. Crespi, F. Stella e G. Zuccalà, Padova, 1986, pp. 305 ss. (21) In argomento, segnatamente, DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione della pena, cit., pp. 95 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere, cit., pp. 1366 ss.; PASELLA, Discrezionalità del giudice ed incidenza frazionaria delle circostanze sulla pena base, in Arch. Pen., 1975, I, pp. 423 ss. e 452 ss.; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, pp. 199 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, cit., sub art. 133, pp. 289 ss. (22) Per appositi rilievi al riguardo: CONTENTO, La condotta susseguente al reato, Bari, 1965, pp. 197 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 314 ss.; PROSDOCIMI, Profili penali, cit., pp. 227 ss.; e, più in generale, MALINVERNI, Circostanze del reato, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 74 s.; MARINI, Le circostanze del reato. Parte generale, Milano, 1965, pp. 30 ss. e passim. (23) A tal proposito: AZZALI, Profitto e punibilità, cit., pp. 1419-1420; DOLCINI, Note
— 84 — In quest’ultima prospettiva il giudizio in merito alla capacità a delinquere del reo tende altresì a soppesare quelle eventualità per le quali il soggetto — che già si è evidenziato non sensibile alla specifica ‘‘minaccia’’ della sanzione penale — possa aver motivo ancora, in seguito, di violare le apposite prescrizioni della legge penale: e, di conseguenza, tende — tramite la pena irrogata in concreto — a scongiurare per quanto possibile le eventualità di ‘‘ricaduta’’ nell’illecito penale (24). Quel che, in ogni caso, non può mancarsi di rimarcare — ferma restando la necessità di ulteriori precisazioni al riguardo — è che il giudizio relativo alla capacità criminale del reo ha da richiamare precisamente (più che la risoluzione attinente all’an della ‘‘punibilità’’ del soggetto) la puntuale ‘‘determinazione’’ del quantum afferente alla sanzione penale da irrogarsi nel caso concreto (25). 2. Circa la portata specifica del giudizio relativo alla capacità a delinquere sono rinvenibili — nella letteratura penalistica e criminologica — una molteplicità di ‘‘estensioni’’, che si sono riverberate, inevitabilmente, sulla portata stessa del significato concettuale della ‘‘capacità criminale’’ del soggetto attivo del reato (26). È di ogni evidenza, in effetti, che la valutazione della capacità a delinquere risulterà avere un ambito ben più circoscritto laddove venga ad incentrarsi, essenzialmente, su quei fattori che hanno avuto un qualche ruolo nella ‘‘genesi’’ del fatto-reato; nel mentre, invece, si presenterà senz’altro più ‘‘comprensiva’’ quella valutazione che abbia a far riferimento sui profili costituzionali della commisurazione, cit., pp. 356 ss.; SPASARI, Capacità a delinquere e pena, cit., pp. 21 ss.; nonché: AGOSTINO, Brevi riflessioni sulla determinazione della pena, in Giur. it., 1977, IV, c. 47 s.; BELLAVISTA, Il potere discrezionale, cit., pp. 198 ss. e 208 ss.; PORTIGLIATTI BARBOS, Personalità, diagnosi criminologica e individualizzazione del trattamento, in Scuola pos., 1967, pp. 31 ss.; VELOTTI, Il principio dell’individualizzazione della pena, in Rass. studi penit., 1971, pp. 797 ss. (24) Cfr.: DELL’OSSO, Capacità a delinquere e pericolosità, cit., pp. 65 ss.; DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione della pena, cit., pp. 107 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere, cit., pp. 1370 s.; NUVOLONE, La capacità a delinquere nel sistema, cit., pp. 591 ss.; PROSDOCIMI, Profili penali, cit., pp. 283 ss. (25) Indicativamente, a quest’ultimo riguardo, BRICOLA, La discrezionalità nel diritto pen., cit., pp. 89 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 39 ss. e 330 ss.; MANTOVANI, Diritto pen., cit., pp. 585 ss.; SEMERARO, Concorso di persone nel reato e commisurazione, cit., pp. 140 ss.; SPASARI, Capacità a delinquere e pena, cit., pp. 15 ss. (26) In merito, per una articolata e diffusa disamina: ANTOLISEI, La ‘‘capacità a delinquere’’, cit., pp. 172 ss.; BETTIOL, Capacità a delinquere e pena, cit., pp. 370 ss.; DELL’OSSO, op. ult. cit., pp. 9 ss. e 53 ss.; DE MAURO, La capacità a delinquere dell’art. 133 del Cod. penale, in Scritti giuridici in onore di A. De Marsico, I, Milano, 1960, pp. 495 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere, cit., pp. 1356 ss.; MUSACCHIO, Brevi considerazioni sull’incidenza dei moventi del reato nella valutazione della capacità a delinquere, in Difesa pen., 1994, pp. 73 ss.; PIRRONE, La capacità a delinquere e l’indagine sulla personalità, in Rass. studi penit., 1977, pp. 741 ss.; SPASARI, op. ult. cit., pp. 7 ss.
— 85 — altresi al ‘‘pronostico’’ circa i possibili sviluppi della ‘‘carriera’’ criminale dell’agente (27). Orbene: fra le varie posizioni interpretative al riguardo, merita segnalare, in particolare, quella impostazione secondo cui una valutazione completa circa la capacità criminale non possa prescindere né dalla considerazione della (maggiore o minore) ‘‘attribuibilità morale’’ del fatto al suo autore — sulla fase, segnatamente, del rilevamento e della precisazione dello specifico spessore della di lui colpevolezza — né dal puntuale accertamento ‘‘prognostico’’ circa le potenzialità criminali del colpevole, in un’ottica prettamente special-preventiva (28). In una siffatta impostazione, dunque, emerge all’evidenza come la capacità a delinquere sia suscettibile di connotarsi, precisamente, secondo una duplice dimensione e funzione. Nell’ottica della dimensione per così dire ‘‘statica’’ (o ‘‘diagnostica’’), invero, la portata della capacità criminale del reo viene ad emergere dalla puntuale ricognizione in merito alle caratteristiche e modalità concrete della condotta illecita, e viene a consistere, in sostanza, nel grado di ‘‘signoria morale’’ dell’agente rispetto al fatto posto in essere: concorrendo, quindi, a definire lo spessore di ‘‘rimproverabilità’’ del soggetto per l’illecito realizzato; e, di conseguenza, a precisare gli ambiti specifici di responsabilità per tale illecito penalmente rilevante (29). Per quanto attiene, invece, all’angolo visuale relativo alla dimensione c.d. ‘‘dinamica’’ (o ‘‘prognostica’’) la capacità a delinquere è intesa ad evidenziare, principalmente, le ‘‘potenzialità criminali’’ del reo: concorrendo, in definitiva, all’accertamento della ‘‘attitudine’’ del soggetto di che trattasi a commettere nuovi reati (30). Ecco quindi che la capacità a delinquere è suscettibile d’essere utilizzata — sul terreno della concreta determinazione della misura della pena — in modo ‘‘plurivalente’’: stante la sostanziale ‘‘equivocità’’ della norma (27) Cfr., con gli AA. già citt. alla nota prec., CONTENTO, Corso di diritto pen., cit., pp. 505 ss.; DOLCINI, op. ult. cit., pp. 43 ss. e passim; GUARNERI, Capacità a delinquere, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, pp. 867 ss.; MALINVERNI, Capacità a delinquere, cit., pp. 120 ss.; RAMAJOLI, La capacità a delinquere nel diritto pen., cit., pp. 15 ss.; ROMANOGRASSO, Commentario sistematico, II, cit., pp. 287 ss. (28) In una tal prospettiva: MANTOVANI, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 260 ss. e 585 ss.; NUVOLONE, Il sistema del diritto pen., cit., pp. 330 ss.; RAMAJOLI, La capacità a delinquere, cit., pp. 33 ss.; ID., Capacità a delinquere e teoria del soggetto attivo, cit., pp. 200 ss. (29) Al qual riguardo, in particolare, DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 261 ss. e 293 ss.; NUVOLONE, La capacità a delinquere, cit., pp. 587 ss.; VASSALLI, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione, cit., pp. 746 ss. (30) Si v., in proposito, ASSUMMA, La sospensione condizionale della pena, Napoli, 1984, pp. 38 ss. e 130 ss.; BARTULLI, La sospensione condizionale della pena. Prospettive dommatiche, Milano, 1971, pp. 61 ss. e 112 ss.; DE FRANCESCO, Appunti sulla capacità a delinquere, cit., pp. 1453 ss.; PROSDOCIMI, Profili penali, cit., pp. 219 ss. e 252 ss.; RAMAJOLI, La capacità a delinquere, cit., pp. 35 ss.
— 86 — di cui all’art. 133 c.p., che si limita (in buona sostanza) a richiamare taluni indici ‘‘fattuali", senza indicare esplicitamente i criteri ‘‘finalistici’’ motivanti la pena nel momento della irrogazione (31). Non viene a risultare, per tanto, ben chiaro quale sia il ruolo che — nella fase ‘‘irrogativa’’ della pena — abbiano a svolgere le svariate e diversificate finalità attingibili tramite la sanzione penale: vale a dire, fondamentalmente, di ‘‘retribuzione’’ o di ‘‘prevenzione’’ (generale o/e speciale); ragion per cui gli elementi richiamati dall’art. 133 c.p. — proprio in quanto variamente interpretabili alla luce della finalità della pena che si è inteso previamente privilegiare — non si presentano in grado di rappresentare dei criteri sufficientemente idonei a ‘‘vincolare’’ il concreto esercizio del potere discrezionale del giudice penale (32). Ne è riprova la sostanziale elusione dell’obbligo di motivazione ex art. 132 c.p., mediante il ricorso a formule di rito — quali: ‘‘tenuto conto degli elementi di cui all’art. 133 c.p. si ritiene equa’’ (ovvero: ‘‘adeguata al fatto e alla personalità’’) una pena pari a .. — ; laddove, in definitiva, le vere ragioni della scelta sanzionatoria sono riportabili, per lo più, alla specifica sensibilità ed intuizione del giudicante (33). Vale segnalare, a tal riguardo, che la stessa diffusa tendenza dei giudici di merito ad irrogare la pena nel minimo (o in prossimità dei minimi edittali) — per quanto intesa a porre un qualche rimedio al rigorismo, a volte eccessivo, dell’impianto sanzionatorio recato dal codice Rocco — (31) Per puntuali richiami: DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione, cit., pp. 134 ss.; DOLCINI, Commento all’art. 133, in Commentario breve al cod. pen., cit., pp. 301 ss.; ID., L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in questa Rivista, 1990, pp. 398 ss. e 426 ss.; LARIZZA, La commisurazione della pena, cit., pp. 60I ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 447 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del cod. pen., II, cit., pp. 291 ss. (32) Diffusamente, in argomento, BRICOLA, La discrezionalità, cit., pp. 80 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 49 ss. e 177 ss.; ID., La disciplina della commisurazione della pena: spunti per una riforma, in questa Rivista, 1981, pp. 34 ss. (altresì in: Problemi generali di diritto penale. Contributo alla riforma, a cura di G. Vassalli, Milano, 1982, pp. 143 ss.); FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o) in Commentario alla Costituzione - Rapporti civili, tomo IV, a cura di G. Branca ed A. Pizzorusso, Bologna, 1991, pp. 326 ss.; MANNOZZI, Fini della pena e commisurazione finalisticamente orientata: un dibattito inesauribile?, in questa Rivista, 1990, pp. 1088 ss.; MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo’’ nella teoria della pena, Napoli, 1984, pp. 208 ss. e 267 ss. (33) Si v., al riguardo, AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, pp. 229 s.; BRICOLA, La discrezionalità, cit., pp. 109 ss.; DOLCINI, La commisurazione, cit., pp. 59 ss.; ID., La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, op. cit., pp. 149 ss.; LARIZZA, La commisurazione della pena, cit., pp. 604 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del cod. pen., II, cit., pp. 280 ss.; nonché: CONTENTO, Note sulla discrezionalità del giudice penale, con particolare riguardo al giudizio di comparazione fra le circostanze, ne Il Tommaso Natale, 1978, pp. 657 ss.; LATAGLIATA, Problemi attuali della discrezionalità nel diritto penale, ivi, 1975, pp. 344 ss.; SPASARI, Appunti sulla discrezionalità del giudice penale, in questa Rivista, 1976, pp. 50 ss.
— 87 — non va esente del tutto da rilievi critici: dato che è suscettibile di operare nel senso di una poco ‘‘controllata’’ indulgenza; e, conseguentemente, in netto contrasto con le specifiche esigenze di una corretta, ed effettivamente ‘‘adeguata’’, commisurazione della pena (34). Ordunque: per poter rimediare, in qualche modo, alla difettosa formulazione dell’art. 133 c.p., si presenta intralasciabile il richiamo — allo stato della vigente disciplina normativa — delle indicazioni rivenienti dalle apposite disposizioni di cui all’art. 27 della Costituzione repubblicana. Occorre, difatti, ben considerare che l’art. 27, comma 1o, Cost. reca il principio della ‘‘personalità’’ della responsabilità penale, quale espressione della responsabilità essenzialmente ‘‘colpevole’’: ragion per cui il requisito della colpevolezza del fatto — sul presupposto, appunto, della ritenuta costituzionalizzazione del principio nulla poena sine culpa — ha da assolvere un ruolo fondamentale (anche) riguardo alla ‘‘commisurazione della pena’’ (35). Consegue, quindi, che nell’interpretazione dell’art. 133, comma 1o, c.p. alla colpevolezza non potrà mancarsi di riconoscere il ruolo di criterio-guida ai fini della ‘‘quantificazione’’ della sanzione penale; e, pertanto, gli indici richiamanti la ‘‘intensità del dolo’’ e il ‘‘grado della colpa’’ non potranno che avere una incidenza prevalente — all’atto della determinazione della complessiva ‘‘gravità del reato’’ — rispetto a quelli attinenti alla ‘‘gravità del danno o del pericolo’’ prodotto dal reato: tanto da non poter consentire che l’organo giudicante venga ad irrogare una pena del tutto ‘‘sproporzionata’’ in relazione all’entità della colvevolezza del fatto di cui è giudizio (36). (34) In merito, in particolare, DOLCINI, Discrezionalità del giudice e diritto pen., cit., pp. 266 ss.; ID., In tema di non menzione della condanna, sospensione condizionale della pena e attenuanti generiche: discrezionalità vincolata o ‘‘graziosa’’ indulgenza?, in questa Rivista, 1975, pp. 327 ss.; LARIZZA, La modificazione e applicazione della pena, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Codice penale, Pt. gen., a cura di F. Bricola e V. Zagrebelsky, III, Torino, 1984, pp. 1045 ss.; PAGLIARO, La riforma delle sanzioni penali tra teoria e prassi, in questa Rivista, 1979, pp. 1205 ss.; SIRENA, Contenuti e linee evolutive della giurisprudenza in materia di sanzioni, in Problemi generali di diritto penale. Contributo alla riforma, cit., pp. 415 ss.; STILE, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, ne Il Tommaso Natale, 1979, pp. 1471 ss. (35) Puntualmente, in tal senso, ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1o, in Commentario alla Costituzione - Rapporti civili, tomo IV, cit., pp. 24 ss. e 43 ss.; DOLCINI, Note sui profili costituzionali della commisurazione, cit., pp. 364 ss.; FIORE, Diritto penale, Pt. gen., I, Torino, 1993, pp. 363 ss.; MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in Diritto penale in trasformazione, op. cit., pp. 353 ss.; PULITANÒ, Appunti sul principio di colpevolezza come fondamento della pena: convergenze e discrasie fra dottrina e giurisprudenza, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto pen., cit., pp. 89 ss.; VASSALLI, Colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, pp. 18 ss. (36) In ordine al ruolo di limite ‘‘individual-garantistico’’ assolto dalla colpevolezza
— 88 — Da quest’ultimo punto di vista, dunque, trattasi di evitare che si venga ad accordare un rilievo assorbente alla gravità del danno o del pericolo, sulla base di preoccupazioni di prevenzione generale: per addivenire, in concreto, alla irrogazione di pene ‘‘esemplari’’, che possano fungere da ammonimento nei confronti della generalità dei consociati (37). In tal modo, infatti, verrebbe a violarsi il divieto — recato sempre dall’art. 27, comma 1o, Cost. — di ‘‘responsabilità per fatto altrui’’: dato che il reo verrebbe a subire una pena eccedente la colpevolezza del fatto realizzato, in ossequio alla assorbente finalità di scoraggiare la commissione di fatti dello stesso tipo da parte di altri soggetti (38). Con specifico riguardo, poi, alla disposizione di cui al comma 3o dell’art. 27 Cost. — secondo cui le pene ‘‘devono tendere alla rieducazione del condannato’’ — non può non rilevarsi che il perseguimento della finalità rieducativa della pena non potrebbe efficacemente realizzarsi (sia pure nella fase ‘‘esecutiva’’ della stessa) laddove non fosse data al giudicante — già in sede di ‘‘irrogazione’’ — la possibilità di operare articolate scelte sia in ordine al tipo che alla misura della sanzione ritenuta più idonea a conseguire la riferita finalità (39). nel contesto d’un diritto penale con finalità ‘‘preventive’’, cfr. ampiamente: CASAROLI, Funzione e commisurazione della pena fra Grundgesetz e Strafrechtssystem, in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, a cura di A. Pizzorusso e V. Varano, I, Milano, 1985, pp. 642 ss.; DOLCINI, op. ult. cit., pp. 358 ss. e 366 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, pp. 395 ss. ; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, pp. 836 ss.; FIORE, Diritto penale, Pt. gen., II, Torino, 1995, pp. 201 ss.; MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo’’, cit., pp. 112 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, pp. 798 ss.; SILBERNAGL, Il diritto penale senza colpevolezza? Appunti critici sul processo di dissoluzione della categoria della colpevolezza nel diritto penale preventivo orientato alle conseguenze, in Dei delitti e delle pene, 1987, pp. 269 ss. (37) A tal proposito: BRICOLA, La discrezionalità, cit., pp. 85 ss.; DOLCINI, La commisurazione, cit., pp. 108 ss. e 246 ss.; ID., Potere discrezionale del giudice, cit., pp. 754 s.; HASSEMER, Prevenzione generale e commisurazione della pena, in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di M. Romano e F. Stella, Bologna, 1980, pp. 126 ss.; MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Milano, 1982, pp. 132 ss.; PAGLIARO, Commisurazione della pena e prevenzione generale, in questa Rivista, 1981, pp. 25 ss.; PROSDOCIMI, Profili pen., cit., pp. 248 ss.; ZIPF, Politica criminale, trad. it. a cura di A. Bazzoni, Milano, 1989, pp. 109 ss. (38) Per appositi spunti in tal senso, ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1o, cit., loc. cit., pp. 49 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 448 ss.; MONACO, Prospettive dell’idea, cit., pp. 87 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, II, cit., pp. 294 ss. (39) Sul punto: CASAROLI, Funzione e commisurazione della pena, cit., pp. 651 ss.; DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in questa Rivista, 1990, pp. 812 ss.; EUSEBI, La pena ‘‘in crisi’’. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990 pp. 145 ss.; GIUNTA, Sanzioni sostitutive, in Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano, 1986, pp. 823 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali (Atti
— 89 — A tal proposito si presentano, altresì, di fondamentale rilevanza le indicazioni rivenienti dalla sentenza n. 313/1990 della Corte costituzionale: secondo cui, precisamente, la finalità rieducativa ‘‘lungi dal rappresentare una generica ‘tendenza’ riferita solo al trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo significato ontologico, accompagnandola da quando nasce, fino a quando in concreto si estingue’’ (40). Trattasi, a ben vedere, di una chiara ed inequivoca presa di posizione in ordine agli ‘‘scopi’’ della pena, dai riflessi di tutto rilievo in merito al processo stesso di ‘‘commisurazione’’ della sanzione penale (41). In conclusiva: è proprio la statuizione costituzionale in ordine alla ‘‘rieducatività’’ del condannato che tende, fondamentalmente, ad orientare l’interpretazione e la ricostruzione dell’istituto della capacità a delinquere nel segno della prevenzione speciale (sub specie di ‘‘rieducazione’’); per cui la puntuale valutazione della capacità criminale del reo dovrà valere per il giudice quale criterio orientativo nella scelta (vuoi del ‘‘tipo’’, vuoi della ‘‘misura’’) della sanzione penale più rispondente alle esigenze di ‘‘recupero sociale’’ del condannato: nel rispetto, ben s’intende, pur sempre del limite massimo di pena rappresentato dal grado della di lui colpevolezza (42). 3. Non può revocarsi in dubbio — a termini proprio dell’art. 133, comma 2o, c.p. — che quello della capacità a delinquere rappresenti uno dei criteri basilari di cui il giudice deve tener conto in sede di irrogazione e ‘‘commisurazione’’ della sanzione penale (43). Quel che, però, non è bastantemente pacifico — sulla base sempre Convegno C.N.P.D.S.: St. Vincent, 6-8 maggio 1994), Milano, 1996, pp. 183 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema delle comminatorie edittali, in questa Rivista, 1992, pp. 423 ss.; PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, ibidem, pp. 517 ss. (40) Vds., espressamente, Corte Cost., 2 luglio 1990, n. 313 - Rel. E. Gallo, in Foro it., 1990, I, c. 2400. (41) Segnatamente, al riguardo, DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., pp. 816 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione della pena, Padova, 1996, pp. 9 ss.; MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’: la diaspora del sistema commisurativo, in questa Rivista, 1994, pp. 422 ss.; STILE, Prospettive di riforma della commisurazione della pena, in Verso un nuovo Codice penale (Atti Convegno del Centro studi C. Terranova - Palermo, nov. 1991), Milano, 1993, pp. 317 ss. (42) In argomento: EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio: il ruolo del servizio sociale, in questa Rivista, 1993, pp. 498 ss.; FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o, cit., pp. 327 ss.; ID., Pena ‘‘patteggiata’’ e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale, in Foro it., 1990, I, cc. 2385 ss.; MONACO, Prospettive dell’idea, cit., pp. 108 ss.; MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’, cit., pp. 434 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma, cit., pp. 427 ss. (43) Per una puntuale disamina in merito alla portata del giudizio circa la ‘‘capacità a
— 90 — dell’attuale formulazione del disposto di cui al comma 2o del più volte richiamato art. 133 — è che la capacità a delinquere configuri senz’altro un criterio di commisurazione della pena sufficientemente idoneo a rappresentare un ‘‘vincolo giuridico’’ riguardo all’esercizio del potere discrezionale dell’organo giudicante (44): attesocché, in concreto, gli stessi indici da cui ridetta ‘‘capacità’’ è desumibile, sono suscettibili di assumere una rilevanza ed un signiicato diversi a seconda della precipua finalità che della sanzione penale si venga a privilegiare in sede interpretativa ed applicativa (45). In effetti: ancor più che la valutazione della ‘‘gravità del reato’’, il giudizio riguardante la ‘‘capacità a delinquere’’ del reo evidenzia non trascurabili margini di ‘‘equivocità’’, solché si consideri la varia e differente valenza, nel caso specifico, del concretizzarsi degli appositi indici (‘‘fattuali’’) normativamente rilevanti a tal riguardo (46). Quel che si presenta, pertanto, ineludibile — in una prospettiva di riforma — è l’esigenza di agganciare espressamente il giudizio circa la capacità a delinquere alla specifica finalità che si intenda legislativamente privilegiare per la sanzione penale (47). Ecco, quindi, che laddove ci si prefigga di dar corso effettivo al perseguimento della peculiare finalità ‘‘rieducativa’’ costituzionalmente prevista per le pene, non potrà mancarsi di considerare e ricostruire lo stesso delinquere del colpevole’’, sia pure da vari punti di vista, cfr. particolarmente: CONTENTO, Corso di dir. pen., cit., pp. 506 ss.; DELL’OSSO, Capacità a delinquere, cit., pp. 54 ss.; DOLCINI, La commisurazione, cit., pp. 40 ss. e 78 ss.; FIORE, Diritto pen., Pt. gen., II, cit., pp. 201 ss.; MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere, cit., pp. 1344 ss.; PAGLIARO, Principi di dir. pen., Pt. gen., cit., pp. 493 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, II, cit., sub art. 133, pp. 287 ss. (44) Si v., in proposito, BRICOLA, La discrezionalità, cit., pp. 98 ss.; ID., La verifica delle teorie penali alla luce del processo e della prassi: problemi e prospettive, in La quest. crim., 1980, pp. 453 ss.; DOLCINI, Potere discrezionale del giudice, cit. pp. 749 ss.; MANTOVANI, Diritto pen., cit., pp. 704 ss.; MARINI, Lineamenti del sistema pen., cit., pp. 849 ss.; MONACO, Prospettive,, cit., pp. 97 ss.; STILE, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, cit., pp. 1475 ss.; VASSALLI, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione, cit., pp. 750 ss. (45) Al qual riguardo: ANTOLISEI, La ‘‘capacità a delinquere’’, cit., pp. 171 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 449 ss.; MALINVERNI, Capacità a delinquere, cit., pp. 125 ss.; NUVOLONE, La capacità a delinquere nel sistema, cit., pp. 584 ss.; ID., Il sistema del dir. pen., cit., pp. 333 ss.; SPASARI, Capacità a delinquere e pena, cit., pp. 8 ss. (46) Cfr., DOLCINI, La commisurazione, cit., spec. pp. 39 ss. e 303 ss.; MUSACCHIO, Brevi considerazioni sull’incidenza dei moventi del reato nella valutazione della capacità a delinquere, cit., pp. 74 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, II, cit., pp 287-289; TASCONE, Capacità a delinquere, cit., pp. 4-5. (47) Per significative indicazioni in tal senso: DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione, cit., pp. 117 ss.; DOLCINI, Commento all’art. 133, in Commentario breve, cit., pp. 302 ss.; ID., La disciplina della commisurazione, cit., pp. 45 ss.; FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o, cit., loc. cit., pp. 329 ss.; LARIZZA, La modificazione e applicazione della pena, cit., pp. 1039 ss.; MONACO, Prospettive, cit., pp. 127 ss.
— 91 — istituto della capacità a delinquere nell’ottica della prevenzione speciale mediante rieducazione (48). Considerato, infatti, che la capacità a delinquere ha da richiamare, in special modo, la valutazione complessiva della personalità del soggetto — così come si è evidenziata nella realizzazione della condotta illecita — e pertiene, propriamente, all’oggetto del giudizio in ordine alla responsabilità penale del reo (49), si è venuta vieppiù affermando l’opinione secondo cui ogni concreta decisione (in merito al ‘‘tipo’’ e alla ‘‘misura’’ della pena) — richiamante un giudizio sulla personalità ex art. 133 c.p. — dovrà necessariamente cercare di ‘‘contemperare’’ le esigenze di giustizia sostanziale con quelle di natura special preventiva (50). Senonché, — in ragione, essenzialmente, del rispetto dovuto al basilare principio del carattere ‘‘personale’’ della responsabilità penale (ex art. 27, comma 1o, Cost.) — dovrà tenersi ferma, con ogni cura, la delimitazione delle esigenze della prevenzione speciale entro una soglia di rilevanza che non debordi in malam partem; nel senso che il giudice — nell’esercizio della propria ineliminabile discrezionalità — verrà al più, presentandosene le condizioni, ad applicare una pena meno elevata rispetto a quella che lo specifico ‘‘grado’’ della colpevolezza avrebbe richiesto: eppertanto, in ogni caso, non sarà consentito spingersi alla applicazione d’una pena (sia pure tesa alla ‘‘risocializzazione’’) eccedente lo spessore della colpevolezza stessa (51). Dalle premesse considerazioni risulta con ogni evidenza — per quanto attiene, in ispecie, al rapporto corrente tra i commi 1o e 2o dell’art. 133 c.p. (52) — che, allo stato attuale, il criterio principale di commisurazione della pena è da rinvenirsi nella ‘‘gravità del reato’’: richiedente, di necessità, la fissazione del massimo di pena entro i limiti della colpevo(48) Si v., segnatamente, DOLCINI, La commisurazione, cit., pp. 93 ss. e 157 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., cit., pp. 450 ss.; MANNOZZI, Fini della pena e commisurazione, cit., pp. 1102 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 296 ss.; VENTURATI, Commento all’art. 133, in Commentario breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, a cura di G. Zuccalà, Padova, 1992, pp. 322-323. (49) Sul punto: DELL’OSSO, Capacità a delinquere, cit., pp. 69 ss.; NUVOLONE, Il sistema del dir. pen., cit., pp. 336 ss.; PAGLIARO, Principi di dir. pen., cit., pp. 494-495. (50) In proposito v., FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o, cit., pp. 328 ss.; MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’, cit., pp. 430 ss.; STILE, La commisurazione della pena nel contesto attuale del sistema sanzionatorio. Aspetti problematici, in Studi in onore di G. Vassalli, I, Milano, 1991, pp. 287 ss. (51) Diffusamente, in argomento, CASAROLI, Funzione e commisurazione, cit., pp. 657 ss.; DOLCINI, Appunti sui limite della colpevolezza, cit., pp. 1165 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione, op. cit. pp. 402 ss.; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, cit., pp. 845 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, cit., pp. 803 ss. (52) Vds., al riguardo, FIORE, Diritto pen., Pt. gen., II, cit. pp. 201 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., cit., pp. 447-450; PAGLIARO, Principi, cit., pp. 509 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 290-291; TASCONE, Applicazione della pena, cit., pp. 2 ss.
— 92 — lezza del fatto; per quindi accordare rilievo alla valutazione dell’apposita ‘‘capacità a delinquere’’ del colpevole: che può consentire al giudice, in dati casi, di operare una riduzione di pena rispetto al limite massimo segnalato dalla ‘‘gravità’’ dell’illecito realizzato (53). Per quanto attiene, poi, alle prospettive di apprestare — nel contesto d’una organica riforma codicistica — una formula normativa più adeguata (di quanto non sia quella recata dall’attuale art. 133 c.p.) alle aspettative d’una più razionale e ‘‘pertinente’’ commisurazione della pena, non potrebbe tralasciarsi di attingere preziose indicazioni dai reiterati suggerimenti rivenienti dalla dottrina: secondo cui — come meglio si vedrà di sottolineare nel prosieguo — dovrebbe accordarsi, anzi tutto, il più esplicito rilievo ai fattori e ai criteri valutativi afferenti alla ‘‘colpevolezza del fatto’’, da integrarsi, possibilmente, con ulteriori, appositi criteri (pur sempre ‘‘modali’’) intesi a rendere più fattiva la realizzazione della specifica finalità costituzionale di ‘‘reinserimento sociale’’ del condannato (54). 4. Quel che si presenta, dunque, non ulteriormente procrastinabile — sulla scorta delle osservazioni che si son venute facendo — è, senz’altro, l’esigenza di addivenire (in sede di revisione normativa) ad una più calibrata ed accorta formulazione delle previsioni di cui, attualmente, all’art. 133 c.p.: di talché ne risulti quella auspicata maggiore ‘‘razionalizzazione’’ della disciplina della commisurazione della pena, che possa consentire una più sensibile ‘‘coerenza’’ delle valutazioni giudiziali rispetto a quelle prospettate dal legislatore (55). Occorre prendere atto, in tale ottica, che un modello per così dire ‘‘unitario’’ (qual è quello attualmente operante) di commisurazione risulta essere — per più d’un verso — inadeguato: specie in ordine al fattivo per(53) In merito, per apposite considerazioni, DOLCINI, Note sui profili costituzionali della commisurazione, cit., pp. 359 ss.; ID., La commisurazione, cit., pp. 181 ss.; FIANDACA, Commento all’art. 27, cit., pp. 326 ss.; MANTOVANI, Diritto pen., cit., pp. 710 ss.; MONACO, Prospettive, cit., pp. 144 ss. (54) A quest’ultimo riguardo cfr. altresì, tra gli altri, BRICOLA, La verifica delle teorie penali, cit., pp. 357 ss.; DOLCINI, Note sui profili costituzionali, cit., pp. 364 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione, op. cit., pp. 19 ss.: MONACO-PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’, cit., pp. 436 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, in Prospettive di riforma del codice pen., cit., pp. 192 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 290 ss.; STILE, Prospettive di riforma della commisurazione della pena, cit., pp. 317 ss. (55) Al qual proposito: DOLCINI, La disciplina della commisurazione, cit., pp. 46 ss.; ID., L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in questa Rivista, 1990, pp. 406 ss.; FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o, cit., pp. 325 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’, cit., pp. 389 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio, cit., pp. 443 ss.; RICCIO, Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, pp. 23 ss.; SATURNINO, Discrezionalità (dir. pen.), ivi, XI, Roma, 1989, pp. 5 ss.
— 93 — seguimento del fondamentale ed ineludibile finalismo ‘‘rieducativo’’ delle pene contemplato dalla Costituzione repubblicana e riaffermato dalla Corte costituzionale (56). Senonché — come, peraltro, è stato opportunamente osservato (57) — s’impongono, a tal proposito, ulteriori, apposite precisazioni. La finalità di rieducazione del condannato, invero, ha da poter riguardare la pena ‘‘nella sua complessità’’ (58): nel senso che non deve, di necessità, interessare specificamente ognuna delle singole ‘‘fasi’’ (di ‘‘previsione’’, ‘‘irrogazione’’ ed ‘‘esecuzione’’) nelle quali si articola e scandisce la dinamica del sistema punitivo (59). Ne viene che ben potrebbe prevedersi — da parte del legislatore della riforma — che il giudice venga ad applicare una pena rigorosamente rispondente al grado della ‘‘colpevolezza per il fatto’’; lasciando fuori, pertanto, dalla fase della commisurazione (in senso stretto) ogni valutazione pertinente alle aspettative della prevenzione speciale: riservando appositamente, in modo assorbente, dette valutazioni alla fase ‘‘esecutiva’’ della pena (60). D’altronde, per quanto attiene allo stato della vigente legislazione, quel che emerge incontrovertibilmente è una qual certa ‘‘pluralità’’ di modelli commisurativi: non tutti precisamente imperniati sulla criteriologia propria dell’art. 133 c.p. (61). Solo con riguardo alla pena detentiva (‘‘da eseguirsi’’), infatti, può ritenersi alquanto ‘‘centrale’’ il ruolo dell’attuale art. 133: dato che con riferimento sia alla pena pecuniaria che alle sanzioni c.d. ‘‘alternative’’(id est: ‘‘non privative della libertà personale’’), nonché con riguardo alla (56) Per puntuali rilievi al riguardo, segnatamente, EUSEBI, La pena ‘‘in crisi’’, op. cit., pp. 127 ss.; FIANDACA, Pena ‘‘patteggiata’’ e principio rieducativo, cit., cc. 2387 ss.; MONACO-PALIERO, Variazioni in tema, cit., pp. 430 ss.; PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema, cit., pp. 547 ss. (57) Cfr., per tutti, MONACO-PALIERO, Variazioni, cit., pp. 436 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, cit., loc. cit., pp. 198 ss.; STILE, La commisurazione della pena nel contesto attuale del sistema sanzionatorio, cit., pp. 291 ss. (58) In tal senso, espressamente, STILE, Prospettive di riforma della commisurazione della pena, cit., p. 320. (59) Cfr. ancora: STILE, La commisurazione della pena nel contesto attuale del sistema, cit., pp. 301 ss. (60) Sul punto, diffusamente, EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio, cit., pp. 502 ss.; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, cit., pp. 876 ss.; ID., Commento all’art. 27, cit., pp. 339 ss.; PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, cit., pp. 825 ss. (61) Per appositi richiami in proposito, MONACO-PALIERO, Variazioni, cit., pp. 431 ss. e 442 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, cit., pp. 187 ss.; STILE, La commisurazione della pena nel contesto attuale del sistema, cit., pp. 288 ss.
— 94 — pena ‘‘patteggiata’’ (informata, com’è, a scopi di ‘‘economia processuale’’), valgono, sin d’ora, differenziati modelli di commisurazione (62). Basti considerare che, per quanto attiene alla pena pecuniaria, gli artt. 133-bis e ter recano all’evidenza un ‘‘autonomo’’ modello commisurativo: incentrato, essenzialmente, sulla puntuale valutazione delle condizioni economiche del reo (63). Così pure per quel che riguarda le sanzioni ‘‘sostitutive’’ può ben rinvenirsi nell’art. 58 della l. n. 689/1981 un autonomo ‘‘parametro’’ commisurativo: facente leva sulla efficacia coattiva delle specifiche ‘‘prescrizioni’’ ivi previste, miranti precisamente alla ‘‘risocializzazione’’ (o, quanto meno, alla ‘‘non desocializzazione’’) del condannato (64). A ben considerare, poi, — da una tale ‘‘reale’’ situazione della commisurazione della pena — ne consegue il riscontro di una ‘‘pluralità’’ di attori del processo commisurativo: attesocché il tipo e la misura della sanzione penale risultano essere, in buona sostanza, fissati e precisati non solo dal giudice della ‘‘cognizione’’, ma anche da quello della ‘‘esecuzione’’, nonché dalle stesse ‘‘parti’’ (P.M. ed imputato) del processo penale: per quanto attiene specificamente alla pena ‘‘patteggiata’’ (65). Di qui l’esigenza — in sede di revisione normativa — di meglio ‘‘articolare’’ e ‘‘differenziare’’ appositamente i criteri e le modalità di esercizio della discrezionalità in ordine all’applicazione della pena in concreto: in ragione, essenzialmente, del particolare ‘‘tipo’’ di sanzione penale da ir(62) Al qual riguardo: BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1989, pp. 322 ss.; DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative?, Milano, 1989, pp. 198 ss.; FIANDACA, Pena ‘‘patteggiata’’ e principio rieducativo, cit., cc. 2385 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., II, pp. 297 ss.; TRANCHINA, ‘‘Patteggiamento’’ e principi costituzionali: una convivenza piuttosto difficile, in Foro it., 1990, I, cc. 2394 ss. (63) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., cit., pp. 453 ss.; LARIZZA, La commisurazione della pena, cit., pp. 614 ss.; ID., La modificazione e applicazione della pena, cit., pp. 1059 ss.; MONACO-PALIERO, op. ult. cit., spec. pp. 431-432; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 301 ss. (64) In argomento: GIUNTA, Sanzioni sostitutive, cit., loc. cit., pp. 833 ss.; PALIERO, sub art. 58, in Commentario delle ‘‘Modifiche al sistema penale’’, a cura di E. Dolcini-A. Giarda-F. Mucciarelli-C.E. Paliero-E. Riva Crugnola, Milano; 1982, pp. 303 ss.; STILE, Prospettive di riforma della commisurazione, cit., pp. 323 ss.; TRAPANI, Le sanzioni penali sostitutive, Padova, 1985, pp. 95 ss. e III ss.; VINCIGUERRA, La riforma del sistema punitivo nella l. 24 novembre 1981, n. 689, Padova, 1983, pp. 262 ss. e 278 ss. (65) Vds., indicativamente, E. GALLO, Sistema sanzionatorio e nuovo processo, in Giust. pen., 1989, III, cc. 649 s.; LOZZI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in questa Rivista, 1989, pp. 31 ss.; MELILLO, Osservazioni in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, in Cass. pen., 1990, pp. 531 ss.; MONACO-PALIERO, op. cit., pp. 431 ss.; MOSCONI-PAVARINI, Flessibilità della pena in fase esecutiva e potere discrezionale, cit., pp. 67 ss.
— 95 — rogare e delle diversificate ‘‘modalità’’ connotanti la specifica applicazione ed esecuzione della pena (66). 5. Quando si parla di ‘‘commisurazione’’ della pena ci si riferisce, fondamentalmente, a quella particolare attività dell’organo giudicante intesa alla ‘‘determinazione’’ del quantum di pena da irrogarsi per il concreto fatto-reato di cui v’è giudizio (67). Non può mancarsi, però, di tener conto che — in un più lato senso — la c.d. ‘‘commisurazione della pena’’ attiene, del tutto propriamente, anche a tutti quegli adempimenti del giudicante richiamanti in qualche modo l’esercizio di una discrezionalità: vuoi in ordine alla scelta della ‘‘specie’’ di pena, vuoi con riguardo all’applicazione (o comparazione) di circostanze aggravanti o (e) attenuanti, vuoi in relazione alla concessione di particolari ‘‘benefici’’ di legge (quali: la sospensione condizionale della pena e il perdono giudiziale), vuoi, infine, riguardo all’applicazione delle varie ‘‘misure alternative’’ e ‘‘sanzioni sostitutive’’ (68). A tali fini, in ogni caso, non può disconoscersi che la valutazione relativa alla concreta ed effettiva capacità a delinquere del colpevole ha da esplicare un ruolo di tutto rilievo: specie alla luce della peculiare finalità di ‘‘positiva’’ prevenzione speciale risocializzatrice che la Costituzione ha inteso assegnare alle pene (art. 27, comma 3o) (69). Orbene: quel che non può non essere ribadito con ogni nettezza è che — pur essendo possibile effettuare dell’art. 133 c.p. una ‘‘lettura’’ in chiave costituzionale (70) — una armonica ed adeguata ‘‘razionalizzazio(66) Cfr.: EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma, cit., pp. 504 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, cit., pp. 201 ss.; PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema, cit., pp. 443 ss.; PALIERO, Metodologie, cit., pp. 554 ss. (67) Per una articolata considerazione degli aspetti più salienti della problematica sottesa alla ‘‘commisurazione della pena’’ si v., in particolar modo, BRICOLA, La discrezionalità, cit., pp. 73 ss. e 324 ss.; DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., pp. 4 ss. e 39 ss.; ID., Discrezionalità del giudice e dir. pen., cit., pp. 263 ss.; MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione, cit., pp. 6 ss. e 127 ss.; SEMERARO, Concorso di persone nel reato e commisurazione, cit., pp. 174 ss.; STILE, Discrezionalità e politica pen. giudiziaria, cit., pp. 1479 ss.; ID., La commisurazione della pena nel contesto attuale, cit., pp. 293 ss. (68) In merito, ampiamente, CONTENTO, Note sulla discrezionalità del giudice pen., cit., pp. 658 ss.; DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione, cit., pp. 119 ss.; MONACO, Prospettive, cit., pp. 133 ss.; ID., Le pene sostitutive tra sistema penale ‘‘legale’’ e sistema ‘‘reale’’, in Arch. pen., 1984, pp. 233 ss.; PADOVANI, op. ult. cit., pp. 423 ss. (69) Al qual proposito: ASSUMMA, La sospensione condizionale, cit., spec. pp. 220 ss.; DOLCINI, Commento all’art. 133, in Commentario breve, cit., pp. 306 ss.; ID., La ‘‘rieducazione del condannato’’ tra mito e realtà, in questa Rivista, 1979, pp. 469 ss.; DELL’OSSO, Capacità a delinquere, cit., pp. 65 ss.; GIUNTA, Sospensione condizionale della pena, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, pp. 90 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, pp. 102 ss.; FIANDACA, Commento all’art. 27, comma 3o, cit., pp. 273 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 277 ss. (70) Si v., sul punto, BRICOLA, op. ult. cit., pp. 350 ss.; DOLCINI, Potere discrezionale
— 96 — ne’’ di quella particolare fase del giudizio che attiene alla ‘‘commisurazione’’ della pena appare pienamente perseguibile solo nel contesto e nella prospettiva di una organica e complessiva revisione legislativa: richiedente, in sostanza, una ‘‘rifondazione’’ del sistema delle pene (71). Occorre, in effetti, che si addivenga — nel migliore dei modi — ad un più soddisfacente ed efficace ‘‘coordinamento’’ fra le varie fasi (di: ‘‘previsione’’, ‘‘irrogazione’’ ed ‘‘esecuzione’’) nelle quali si articola la dinamica del ‘‘sistema punitivo’’ (72). In tale prospettiva si impone, innanzitutto, una organica riformulazione della ‘‘scala sanzionatoria’’ ed una conseguenziale complessiva risistemazione dei ‘‘tipi’’ di sanzione penale — in ispecie, ‘‘non detentivi’’: quali modelli sanzionatori pienamente ‘‘autonomi’’ — con riferimento alle varie e specifiche previsioni incriminatrici di parte speciale (73). Ne dovrebbe risultare un ‘‘sistema sanzionatorio’’ in cui la pena detentiva abbia a corrispondere solo ai reati più gravi, mentre per le fattispecie delittuose di minore rilievo dovrebbero prevedersi espressamente — in sede ‘‘comminatoria’’ — sanzioni ‘‘alternative’’ (o ‘‘sostitutive’’) e ‘‘sospensive’’ (74). Per quanto attiene poi, segnatamente, ai vari modelli di commisurazione, dovrebbero essere senz’altro da preferire quei modelli che meglio si dimostrassero in grado di ‘‘esaurire’’ — di per sé — il procedimento relativo alla determinazione (e ‘‘quantificazione’’) della pena: ‘‘contenendo’’, pertanto, quanto più negli ambiti più ristretti il potere discrezionale del giudicante, mediante la puntuale formalizzazione di ‘‘criteri-guida’’ inerenti al concreto esercizio dello stesso (75). A tal proposito non può non rimarcarsi, fondamentalmente, l’esidel giudice, cit., pp. 751 ss.; ID., La disciplina della commisurazione, cit., pp. 51 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., Pt. gen., cit., pp. 448 ss. (71) Segnatamente, al riguardo, DOLCINI, La commisurazione, cit., pp. 77 ss. e 153 ss.; ID., Note sui profili costituzionali, cit., pp. 369 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., pp. 409 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’, cit., pp. 20 ss.; MONACO-PALIERO, op. cit., pp. 431 ss. e 445 ss.; PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, pp. 931 ss.; ID., La disintegrazione attuale del sistema, cit., pp. 421 ss. (72) Per incisivi spunti: EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive, cit., pp. 507 ss.; MONACO, Prospettive, cit., pp. 279 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, in questa Rivista, 1995, pp. 325 ss.; STILE, La commisurazione della pena, cit., pp. 302 ss.; ID., Prospettive di riforma, cit., pp. 317 ss. (73) Cfr., in particolare, PADOVANI, La disintegrazione, cit., pp. 437 ss.; PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, pp. 390 ss.; PALIERO, Metodologie, cit., pp. 559 ss.; ID., La riforma del sistema sanzionatorio, in Prospettive di riforma del cod. pen., cit., pp. 207 ss. (74) Puntualmente, in argomento, MOCCIA, Il diritto pen. tra essere e valore, cit., pp. 173 ss.; MONACO-PALIERO, op. cit., pp. 442 ss. e 453 ss.; PADOVANI, op. ult. cit., pp. 428 ss. (75) Per significativi rilievi in tal senso: DOLCINI, Razionalità nella commisurazione,
— 97 — genza di prevedere — per lo meno — due distinti modelli ‘‘commisurativi’’, riguardanti rispettivamente la pena detentiva e le sanzioni ‘‘alternative’’: e richiamanti, quindi, appositi e diversificati parametri di commisurazione (76). Si presenta, altresì, intralasciabile la necessità di meglio armonizzare nel sistema l’istituto del ‘‘patteggiamento’’: attesocché — tramite il ricorso ad un tale istituto — la concreta misura della sanzione penale risulta scaturire da un ‘‘accordo di parti’’, e non già da una apposita decisione del giudice, informata ai criteri di cui all’art. 133 c.p. (77). OLINDO CUSTODERO Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Bari
cit., pp. 810 ss.; MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’, cit., pp. 24 ss.; NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, in Prospettive di riforma, cit., pp. 198 ss.; PALIERO, La riforma del sistema, cit., pp. 213 ss.; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, pp. 290 ss.; STILE, Prospettive, cit., pp. 327 ss. (76) Vds., in merito, MONACO-PALIERO, op. cit., pp. 455 ss.; PALIERO, Metodologie, cit., pp. 539 ss.; STILE, op. ult. cit., pp. 329 ss. (77) Cfr., tra gli altri, DOLCINI, op. ult. cit., pp. 806 ss.; FIANDACA, Pena ‘‘patteggiata’’, cit., cc. 2387 ss.; LOZZI, L’applicazione della pena, cit., pp. 41 ss.; MELILLO, Osservazioni in tema di applicazione della pena su richiesta, cit., pp. 536 ss.
PROCESSO PENALE E INSINDACABILITÀ PARLAMENTARE
SOMMARIO: 1. La sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 1996. — 2. Il concetto e la natura delle immunità. — 3. L’immunità c.d. extrafunzionale. — 4. L’immunità funzionale. — 5. La deliberazione dell’insindacabilità parlamentare nei rapporti tra Parlamento e magistratura.
1. Con la sent. n. 129 del 1996 (1) la Corte costituzionale è intervenuta a dirimere un conflitto di attribuzioni insorto tra Parlamento e autorità giudiziaria in materia di insindacabilità, con riguardo ad un procedimento penale concernente delle dichiarazioni espresse da un senatore durante una trasmissione televisiva, in seguito alle quali la persona offesa aveva presentato querela per il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, secondo comma, c.p. Nella specie, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo aveva dichiarato manifestamente infondata l’eccezione di applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost., ordinando la restituzione degli atti al pubblico ministero per la prosecuzione del processo ed informandone, nel contempo, la Camera di appartenenza del parlamentare, come previsto dall’allora vigente art. 3, secondo comma, d.-l. 16 maggio 1994, n. 291. In seguito, il Tribunale di Palermo, preso atto della delibera con cui il Senato aveva dichiarato insindacabili, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., le opinioni espresse dal suo componente, disponeva con ordinanza di procedere al dibattimento, affinché in esso potesse essere pronunciato il proscioglimento nei confronti dell’imputato per non punibilità. Più esattamente, configurando l’immunità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., quale causa di esenzione dalla pena, « e non semplicemente di procedibilità », si rilevava, da parte dell’organo giurisdizionale, l’« inapplicabilità del combinato disposto degli artt. 129, secondo comma, e 469 c.p.p., i quali non contemplano tra le ipotesi di proscioglimento prima del dibattimento la non punibilità dell’imputato ». Da qui l’esigenza — evidenziata nell’ordinanza del Tribunale di Palermo, trattandosi, nella specie, di persona imputata in un altro procedimento penale — di addivenire alla fase dibattimentale al fine, altresì, di tutelare l’interesse della persona offesa a vedere accertata la propria totale estraneità ai fatti attribuitigli. (1)
V. in Giur. cost., 1996, 1120 ss.
— 99 — La posizione assunta dall’autorità giudiziaria a fronte della decisione parlamentare sull’insindacabilità ha ricevuto una netta censura da parte della Corte costituzionale, che ha rilevato come, qualora un procedimento penale sia già stato avviato, non è in gioco l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., poiché l’obbligo del giudice di pronunciarsi immediatamente, in ogni stato e grado del processo, sulla sussistenza della « causa di irresponsabilità dell’imputato, affermata dalla Camera di appartenenza, discende direttamente dalla norma costituzionale ». Pertanto, con la sentenza n. 129 del 1996 (2) si è annullata l’ordinanza emessa dal Tribunale di Palermo che disponeva di proseguire il processo e, sulla scia delle precedenti sentenze n. 1150 del 1988 e n. 443 del 1993, è stato ribadito che spetta esclusivamente « alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro, con l’effetto, qualora sia ritenuta esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale, sempre che il potere sia stato correttamente esercitato ». In questa prospettiva, si conferma quale unico rimedio cui l’autorità giudiziaria può ricorrere, ove ritenga non correttamente esercitato il potere di valutazione da parte delle Camere, il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale (3). Siffatto controllo, tuttavia, è da intendersi circoscritto ai « vizi in procedendo » ovvero ad omessa o erronea valutazione dei presupposti dell’art. 68, primo comma, Cost., riscontrabile, in particolare, nel caso di « manifesta estraneità della condotta del parlamentare al concetto di opinione o di esercizio delle funzioni » (4). Il dato peculiare che connota il conflitto di attribuzione risolto con la pronuncia della Corte costituzionale concerne la mancanza, da parte del(2) Cfr. M. LOPRESTI, Insindacabilità del parlamentare e onere del ricorso per conflitto di attribuzione: la Corte ribadisce la propria giurisprudenza (e preannuncia una decisione « sostanziale »?), in Giur. it., 1996, I, 551 ss.; A. PACE, Il « nulla osta » parlamentare a che il giudice possa decidere la causa nel merito: una questione, ex artt. 24, comma 1, 68, comma 1 e 101, comma 2 Cost., ormai da archiviare?, in Giur. cost., 1996, 1132 ss.; M. TIRELLI, La delibera parlamentare che ritiene applicabile l’art. 68, comma 1, Cost. lascia alla magistratura una sola alternativa, in Dir. pen. e proc., 1996, 1082 ss. (3) Un’interpretazione, quest’ultima, come rilevato dalla stessa sent. n. 129 del 1996, cui si è conformato l’art. 2, ottavo comma, d.-l. 12 marzo 1996, n. 116, sebbene in epoca successiva ai fatti che hanno dato luogo al conflitto di attribuzione sollevato, nella specie, dal Senato della Repubblica. Si tratta, in ogni caso, di un conflitto di attribuzione tra Parlamento ed autorità giudiziaria, configurato, al pari di quanto è accaduto con la sent. n. 1150 del 1988, « in termini di contestazione del ‘‘cattivo uso’’ dei rispettivi poteri e non di vindicatio potestatis »: A. MENCARELLI, Conflitto da menomazione, bilanciamento di interessi e principio di leale cooperazione tra autorità giudiziaria e Camere in tema di insindacabilità parlamentare, in Giur. it., 1996, I, 439. (4) Negli stessi termini, v. Corte cost., sent. n. 1150 del 1988, n. 443 del 1993, e, più recentemente, n. 379 del 1996.
— 100 — l’autorità giudiziaria, di alcuna contestazione sulla valutazione formulata dal Parlamento, seppure contraria all’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari aveva dichiarato la manifesta infondatezza dell’eccezione di applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost. Tant’è che l’iniziativa per attivare il controllo dell’organo di giustizia costituzionale è stata assunta da parte del Senato, una volta che il Tribunale di Palermo ha inteso proseguire con il dibattimento al fine di poter ivi prosciogliere l’imputato per non punibilità del fatto di reato. L’argomento su cui si fonda la decisione dell’autorità giudiziaria attiene alla natura sostanziale dell’insindacabilità, configurata come causa di esenzione della pena, seguendo un orientamento che trova largo riscontro in dottrina. Ed effettivamente, così ragionando, l’obbligo di un’immediata declaratoria ai sensi dell’art. 129 c.p.p., con riferimento all’insindacabilità, non sembra trovare spazi applicativi. Il proscioglimento immediato, in ogni stato e grado del processo, per mancanza di una causa di non punibilità disciplinato dall’art. 129 c.p.p. ed il proscioglimento anticipato nella fase predibattimentale di cui all’art. 469 c.p.p., invero, non comprendono la specifica ipotesi di una causa di esenzione della pena (5). Siffatto argomentare, tuttavia, ad avviso del giudice costituzionale, peccherebbe di relatività, dal momento che alquanto incerta è la natura della prerogativa parlamentare a proposito della quale vi è un altro indirizzo interpretativo che, mettendo in risalto l’essenza oggettiva dell’istituto, lo configura quale causa di esclusione dell’illecito. In questa contrapposizione di orientamenti, la Corte costituzionale, piuttosto che prendere posizione rispetto ad uno di essi ovvero ulteriormente definire il contenuto dell’immunità parlamentare, ha optato per una soluzione che dovrebbe assumere i caratteri dell’assolutezza: qualunque « sia la dottrina preferibile circa la natura dell’irresponsabilità dei membri del Parlamento per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, è certo che alla deliberazione della Camera di appartenenza che la riconosce è coessenziale l’effetto inibitorio dell’inizio o della prosecuzione di qualsiasi giudizio di responsabilità, penale o civile per il risarcimento dei danni ». (5) Nell’odierno codice di rito l’inserimento della formula « il fatto non è previsto dalla legge come reato » anche tra le formule di proscioglimento contemplate dagli artt. 425 e 530 c.p.p., rispettivamente, per le sentenze di non luogo a procedere e di assoluzione, esclude che si possa riproporre l’interpretazione estensiva prospettata in passato (cfr. E. DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, Milano, 1955, 51; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, 1961, 193 s.; GIUS. LATTANZI, « Fatto non preveduto come reato » nell’art. 152 c.p.p., in Riv. pen., 1965, I, 493 ss.) e tale da includervi le ipotesi in cui la persona fosse risultata non punibile o non imputabile (cfr. E. MARZADURI, Commento all’art. 129, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, Torino, 1990, 117). Si ritiene, pertanto, che la formula de quo risulta riferibile esclusivamente alla circostanza in cui il fatto contestato dall’accusa « risulti penalmente irrilevante, non corrispondendo ad alcuna fattispecie legale » (F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 8a ed., 1985, 987).
— 101 — L’intento del giudice costituzionale di delimitare i rapporti tra Parlamento e magistratura in materia di insindacabilità, puntualizzato secondo i canoni interpretativi già fissati in precedenza, tende a prevalere rispetto ad ogni analisi sulla natura dell’immunità garantita ai parlamentari e sul tipo di provvedimento adottabile dall’autorità giudiziaria per porre fine ad un processo penale già instaurato nel cui àmbito venga ad assumere rilevanza l’art. 68, primo comma, Cost. Si profila, infatti, una certa indeterminatezza quanto alla soluzione prospettata dalla Corte costituzionale per ciò che concerne gli effetti sia sul piano sostanziale che su quello processuale derivanti dalla delibera della Camera competente a valutare l’insindacabilità. A questo proposito, la sent. n. 129 del 1996 si limita a rilevare come la prerogativa parlamentare rappresenti, sotto il primo profilo, « una causa di irresponsabilità dell’autore delle dichiarazioni contestate » e determini, relativamente all’aspetto procedurale, « l’obbligo per l’autorità giudiziaria di prendere atto della deliberazione parlamentare e di adottare le pronunce conseguenti ». Il ricondurre direttamente nell’alveo della norma costituzionale l’obbligo del giudice di astenersi dall’accertamento della responsabilità penale nei confronti del parlamentare non si rivela esaustivo ai fini di un’indagine che tenti di comprendere entro quali limiti si può esplicare l’attività degli organi giudiziari e a quali schemi decisori si debba ricorrere per porre fine ad un procedimento penale già instaurato nel corso del quale venga dichiarata insindacabile l’opinione espressa dal componente il Parlamento. Nell’àmbito delle prerogative fissate a tutela di determinati soggetti o uffici pubblici, il rappporto tra norme costituzionali e codice di rito vede affidato a quest’ultimo un ruolo strumentale (6), volto a dare concreta attuazione alle prime (7). In altri termini, se nelle une sono fissate le ipotesi di immunità, nelle altre si rinviene la disciplina del procedimento da seguire. Si tratta, dunque, di un nesso in forza del quale le norme costituzionali in tema di immunità vanno inserite nel procedimento penale dove sono destinate ad esplicare la loro efficacia. Questo legame, tuttavia, non (6) In tal senso, con riferimento all’istituto dell’autorizzazione a procedere, v. Corte cost., sent. n. 99 del 1965. (7) Sebbene vada sottolineato come, per ciò che attiene all’autorizzazione a procedere e all’autorizzazione ad acta, la funzione delle norme fissate dal codice di rito, nel corso del tempo, sia andata attenuandosi, poiché le diverse ipotesi autorizzative esistenti nel nostro ordinamento hanno trovato spazio in specifiche leggi costituzionali all’uopo predisposte, le quali non si sono limitate a fissare i casi, ma hanno provveduto a dettare anche la disciplina relativa alle modalità procedimentali, integrandola con normative di attuazione. Esempi di questo « affrancamento » dal codice di rito sono la l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, unitamente alla l. 5 giugno 1989, n. 219, nonché, prima che decadesse senza essere nuovamente convertito, il d-.l. 23 ottobre 1996, n. 555, ultimo di una lunga serie di reiterazioni, volto a fissare le norme attuative della l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3.
— 102 — può prescindere da un passaggio intermedio, fondamentale per il suo porsi come anello di congiunzione: il diritto sostanziale. Ogni decisione penale, invero, tranne che attenga a questioni di rito, non è altro che la conseguenza di un « giudizio intorno ad una situazione, il cui modello è offerto dalle norme di diritto sostanziale » (8). La decisione della Corte costituzionale offre, pertanto, lo spunto per alcune riflessioni sulla natura delle immunità parlamentari e sugli effetti conseguenti nel processo penale. 2. Com’è noto, con il termine « immunità penale » si suole indicare il fenomeno giuridico in forza del quale determinati soggetti per l’ufficio pubblico che ricoprono sono sottratti alle conseguenze sanzionatorie penali derivanti da un illecito di cui gli stessi siano autori (9). Si tratta di ipotesi diversificate tra loro quanto a portata ed effetti, potendo l’« esenzione » concernere tutti gli atti compiuti (immunità assoluta), ovvero soltanto quelli connessi all’esercizio delle funzioni (immunità relativa). In ogni caso, si è di fronte ad una delle eccezioni al principio di obbligatorietà della legge penale previste dal diritto pubblico interno o internazionale ed alle quali fa riferimento l’art. 3, primo comma, c.p. (10). Al fine di comprendere la natura di siffatte prerogative, tentando di coglierne le implicazioni sia sul piano sostanziale che su quello processuale, diverse teorie interpretative si sono succedute ed intersecate nel tempo. L’essenza connotante la categoria delle immunità è stata rinvenuta tra i limiti all’obbligatorietà della legge penale, ovvero configurata come elemento negativo della capacità penale, o ancora la si è ricondotta nell’àmbito delle cause di giustificazione, fra le cause personali di eclusione della pena e tra quelle di esenzione dalla giurisdizione. Tra queste, la teoria che si è posta in termini più assolutistici è quella che tende ad intravedere nelle diverse prerogative funzionali una deroga all’efficacia del precetto penale capace di determinare in capo ai soggetti che ne usufruiscono una situazione di legibus soluti (11). In realtà, simile configurazione, corrispondente ad una concezione dello Stato in cui la (8) F. CORDERO, voce Merito (dir. proc. pen.), in Noviss. dig. it., X, Torino, 1964, 578. Sui rapporti tra rito e merito nella struttura del processo penale, cfr. O. DOMINONI, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Milano, 1974, 5 ss. (9) Cfr. A. PAGLIARO, voce Immunità (dir. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 213. (10) Nel senso che l’art. 3 c.p. non crea delle deroghe in senso proprio al generale dovere di osservanza della legge penale da parte di tutti i soggetti, configurando semplicemente la sottrazione di taluni alla pena, v. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. P.te generale, 13a ed., Milano, 1994, 134; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. P.te generale, 3a ed., Bologna, 1995, 122. (11) In questo senso, cfr. G. MAGGIORE, Diritto penale, I, 5a ed., Milano, 1949, 140; e, analogamente, ma soltanto in riferimento alla figura del Re e del Sommo Pontefice, B. PETROCELLI, Princìpi di diritto penale, I, Napoli, 1944, 185 ss.
— 103 — persona del Sovrano è considerata « sacra ed inviolabile » e, dunque, non soggetta alla legge ma fonte della stessa, una volta collocata nell’attuale assetto istituzionale non può che rivelarsi anacronistica. Occorre, infatti, tener conto che, a fianco di specifiche prerogative funzionali ed extrafunzionali concernenti, ad esempio, il Capo dello Stato o gli agenti diplomatici, vigono apposite disposizioni che impongono agli stessi il rispetto e l’osservanza delle leggi (12). Se la conclusione cui si perviene seguendo la tesi che considera gli immuni come estranei all’ordinamento giuridico attiene alla mancanza di un assoggettamento degli stessi all’imperio del precetto penale, non del tutto dissimile è l’esito sul quale converge l’analisi che tende a collocare il fenomeno dell’immunità nell’alveo della capacità penale. Diverse, piuttosto, sono le modalità attraverso cui si spiega la mancata soggezione alla legge penale da parte dei soggetti che usufruiscono delle prerogative. A fondamento di questa seconda ricostruzione interpretativa si pone un concetto di capacità giuridica penale (13) composto da una duplicità di elementi: la sussistenza dell’imputabilità, intesa come capacità di intendere e (12) Basti pensare al generale dovere di osservare la Costituzione e le leggi della Repubblica sancito dal legislatore costituente e rafforzato dal giuramento di fedeltà per coloro che ricoprono funzioni pubbliche (art. 54 Cost.), alla configurazione istituzionale del Capo dello Stato quale primus inter pares, o, ancora, sul piano internazionale, all’art. 41, § 1, della Convenzione di Vienna del 1961, ove si prescrive nei confronti dei soggetti che godono delle immunità diplomatiche l’obbligo di rispettare le leggi e i regolamenti dello Stato accreditatario. (13) La mancanza di un’apposita definizione legislativa o di un richiamo normativo, seppur indiretto, circa la nozione di capacità penale è all’origine dei numerosi sforzi compiuti dalla dottrina per l’elaborazione di un concetto unitario. Tentativi, tuttavia, culminati in un susseguirsi di interpretazioni fondate, talvolta, su premesse diversificate e, spesso, oscillanti tra soluzioni estreme. A quest’ultimo riguardo, si segnalano per la loro peculiarità quelle teorie volte a considerare il concetto di capacità giuridica incompatibile con il sistema penale (E. FLORIAN, Parte generale del diritto penale, I, 4a ed., Milano, 1934, 286 ss.; P. NUa VOLONE, Il sistema del diritto penale, 2 ed., Padova, 1982, 255), o a negargli in quest’ambito ogni rilevanza giuridica (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., 547) o, ancora, a ridurne la portata identificandolo con l’imputabilità (G. BETTIOL-L. PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, 12a ed., Padova, 1986, 455 ss.; G. LEONE, L’imputabilità nella teoria del reato, in Riv. it. dir. pen., 1937, 361 ss.). Al contrario, in una prospettiva tendente ad inquadrare la capacità penale come concetto giuridico autonomo, pur nelle diverse accezioni, cfr. R. DELL’ANDRO, voce Capacità giuridica penale, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 104 ss.; M. GALLO, voce Capacità penale, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, 880 ss.; V. MANZINI, Trattato di diritto penale, I, 5a ed., Torino, 1981, 560 ss.; A. MORO, La capacità giuridica penale, Padova, 1939, 63 ss.; G.D. PISAPIA, Contributo alla determinazione del concetto di capacità, in Studi di diritto penale, Padova, 1956, 2 ss.; P. SEVERINO, voce Capacità penale, in Enc. giur., V, Roma, 1988, 3 ss. Per un’analisi delle teorie elaborate riguardo alla definizione di capacità penale, v. P. DE FELICE, Riflessioni in tema di capacità giuridica penale, Napoli, 1979, 33 ss. Sui rapporti tra capacità giuridica penale e capacità di essere imputato, cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, Milano, 1968, 47 ss.; G. CONSO, voce Capacità processuale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 140 ss.
— 104 — di volere, e la mancanza di ipotesi di immunità. Più esattamente, il percorso logico-giuridico seguito da coloro che si pongono in tale prospettiva parte dal presupposto che la capacità penale si configuri come l’attitudine ad essere titolare di rapporti giuridici in materia penale e, cioè, di situazioni soggettive di dovere e di assoggettabilità alle sanzioni penali, considerati entrambi come momenti assolutamente inscindibili (14). Da qui alla configurazione dell’immunità quale requisito negativo della capacità penale (15), nella prospettata teoria, il passo è breve ove si consideri come il soggetto che gode di tale prerogativa, non potendo essere sottoposto a sanzione penale, « per ciò stesso, non può nemmeno essere considerato titolare di un correlativo dovere di astensione dal fatto di reato » (16). A fronte di siffatta costruzione teorica si è, tuttavia, obiettato come la medesima sia espressione di un puro formalismo giuridico e, sebbene corretta sotto l’aspetto dogmatico, non riesca poi a cogliere l’essenza del fenomeno immunità e a spiegarne la causa giuridica. L’aver posto l’accento esclusivamente sul dato finale del fenomeno e, cioè, sulla non applicabilità della pena, invero, conduce ad una descrizione del meccanismo meramente estrinseco che caratterizza l’immunità. D’altro canto, si è evidenziato come, seguendo l’accennata impostazione, si giunge ad accomunare in un’unica categoria circostanze profondamente dissimili tra di loro sul piano sostanziale. Da un lato, infatti, vi sarebbero i soggetti non imputabili per cause naturali, poiché psichicamente incapaci di adeguarsi al pre(14) Si tratta di considerazioni che traggono origine da specifiche premesse di teoria generale in forza delle quali, attribuendo, ai fini della determinazione del concetto di capacità giuridica penale, una preminente rilevanza alle situazioni giuridiche soggettive « attive », si è assunto come perno quella relativa al « dovere ». A questo proposito, dopo aver evidenziato il nesso di indissolubilità esistente, all’interno della norma penale, tra l’elemento precettivo e quello sanzionatorio, è stato osservato come una persona possa essere « tenuta ad una certa condotta » soltanto « quando l’opposto di questa condotta funziona nella norma da condizione di un atto coattivo qualificato come conseguenza di un illecito ». Ne discende che, incentrato il dovere sull’assoggettabilità ad una pena, destinatario del primo potrà essere solo colui che è sottoponibile a sanzione. In questi termini, cfr. M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 881 ss. (15) Si può rilevare come, da parte di coloro che analizzano il concetto di capacità penale, pur nella diversità di contenuti attribuiti al medesimo, sia riscontrabile una generale tendenza ad inquadrarvi, comunque, il fenomeno giuridico dell’immunità. Cfr., a questo proposito, F. BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1961, 91; F. CARNELUTTI, Teoria generale del reato, Padova, 1933, 105 s.; G. DELITALA, Il « fatto » nella teoria generale del reato, Padova, 1930, 211; R. DELL’ANDRO, voce Capacità giuridica penale, cit., 115 ss.; M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 884; A. MORO, La capacità giuridica penale, cit., 79 ss.; G.D. PISAPIA, Contributo alla determinazione del concetto di capacità nel diritto penale, cit., 11; P. SEVERINO, voce Capacità penale, cit., 5. In senso contrario, v. P. DE FELICE, Riflessioni in tema di capacità giuridica penale, cit., 107. Per un’impostazione che porta a spiegare attraverso l’incapacità penale soltanto alcune tra le ipotesi di immunità e, precisamente, quelle che attengono alla qualifica del soggetto, ovvero il Capo di Stato estero ed il Pontefice, cfr. A. PAGLIARO, voce Immunità (dir. pen.), cit., 218 ss.. (16) M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 884.
— 105 — cetto penale e, dall’altro lato, le persone immuni, non assoggettabili a pena esclusivamente per motivi di opportunità politica (17). La teoria che risolve il problema della ratio dell’immunità rifacendosi al concetto di incapacità penale, inoltre, si rivelerebbe insufficiente a spiegare la preclusione di un accertamento giudiziario e della punibilità anche per quelle ipotesi di reato commesse antecedentemente all’assunzione della qualifica che giustifica la deroga e per le quali il procedimento penale eventualmente già avviato dovrà essere interrotto (18). Si tratta di notazioni critiche che, in buona parte, vengono rivolte da coloro che prediligono inquadrare l’istituto delle immunità tra le cause personali di esenzione della pena (19). Siffatto orientamento che, peraltro, è quello predominante in materia, prende le mosse dalla considerazione che nei confronti dei soggetti immuni il legislatore, per ragioni di opportunità, ha ritenuto di non punire penalmente la commissione di atti dagli stessi compiuti, fermo restando l’illiceità del fatto e l’obbligo di osservare la legge, valevole indistintamente per tutte le persone. Nondimeno, anche questa ricostruzione teorica ha formato oggetto di alcuni rilievi che, al pari di quelli relativi alla tesi che configura l’immunità come requisito negativo della capacità penale, ne hanno evidenziato l’insufficienza a descrivere pienamente la ragione giuridica dell’istituto. L’incentrare l’analisi sulla inapplicabilità della sanzione penale, invero, non fornirebbe alcuna spiegazione della causa di siffatta deroga (20), offrendo non più che « una definizione puramente tautologica » (21). D’altro canto, muovendosi nell’ottica dell’assoluta inscindibilità « precetto-sanzione », è stato rilevato come il tentativo di ricondurre la ratio delle prerogative ri(17) F. ANTOLISEI, Manuale, cit., 135, che rileva, altresì, la sconvenienza di siffatta assimilazione, poiché « la mancanza di imputabilità implica una diminuzione dello Stato giuridico del soggetto, mentre l’immunità importa un accrescimento dello Stato medesimo »; nonché G. BETTIOL, Diritto penale. P.te generale, 10a ed., Padova, 1978, 174; F. MANTOVANI, Diritto penale. P.te generale, 3a ed., Padova, 1992, 823. (18) Cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 84; e, analogamente, U. GIULIANI, Sulla natura giuridica delle immunità penali, in Scuola pos., 1962, 686. (19) In questa prospettiva, cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., 135 s.; G. BETTIOL, Diritto penale, cit., 175; F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, 149; P. DE FELICE, Riflessioni in tema di capacità giuridica penale, cit., 107; F. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, 2a ed., Milano, 1952, 37; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 823 s.; G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità dei membri del parlamento, in Giust. pen., 1973, I, 209; nonché, tra gli studi più recenti, D. BRUNELLI, voce Immunità, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 9. (20) Cfr. R. DELL’ANDRO, voce Capacità giuridica penale, cit., 117, ove si osserva come rimanga « assolutamente imprecisata la causa giuridiea di quella esenzione », la quale « non può spiegarsi altrimenti che come un posterius rispetto all’attività di fattori agenti necessariamente in un momento anteriore ». (21) Cfr. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, in questa Rivista, 1980, 631, soffermandosi, tra l’altro, sulle incertezze dogmatiche che concernono la stessa categoria delle cause di non punibilità ed i relativi confini.
— 106 — conosciute dall’ordinamento a determinati soggetti nell’àmbito delle cause personali di esenzione della pena finisca per configurare in termini puramente etici il dovere di astenersi dall’illecito penale (22), poiché teorizzare il necessario rispetto della norma penale in mancanza di una contestuale e correlativa assoggettabilità a pena nel caso di inosservanza (23) significa affermare « la liceità penale di quel fatto per quel soggetto » (24). Il tutto corredato, sul piano delle conseguenze giuridiche, dalle osservazioni stigmatizzanti il fatto che, ove si considerino le immunità alla stregua di cause personali di esenzione della pena, nei confronti del soggetto immune è prospettabile l’applicazione di una misura di sicurezza, ai sensi di quanto disposto dall’art. 203 c.p., non venendo così esclusa ogni conseguenza sfavorevole (25). Si sposta sul terreno esclusivamente processuale la teoria che considera le ipotesi di cui all’art. 3 c.p. come situazioni nelle quali è impossibile attivare il processo, pur fermo restando l’obbligo di osservare la legge penale e senza che questa incapacità processuale possa incidere sulla norma penale sostanziale (26). Alla base di un tale convincimento vi è, da un lato, la concezione del processo come pena o pregiudizio, dall’altro, l’idea di « sacralità » che involge il soggetto immune: due immagini che si escludono necessariamente a vicenda. I rilievi critici avanzati verso questo tipo di prospettazione si sono attestati su un diverso ordine di problemi (27). Si è, in primo luogo, rilevato come anche siffatta teoria lascerebbe del tutto imprecisata la causa dell’esenzione, similmente a quanto accade per la tesi che nelle immunità intravede delle cause di non punibilità (28), ed in qual modo rimarrebbe priva di spiegazione la non perseguibilità del soggetto, una volta che sia venuta meno la qualifica soggettiva determinante l’immunità, per i fatti compiuti nel corrispondente periodo (29). Né sono mancate obiezioni provenienti da coloro che, considerando la capacità penale come attitudine ad essere (22) Cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 82. (23) In questo senso, cfr. M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 883; P. SEVERINO, voce Capacità penale, cit., 5. (24) Così A. PAGLIARO, voce Immunità (dir. pen.), cit., 220. (25) Cfr. M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 883. (26) Cfr. G. LEONE, L’imputabilità nella teoria del reato, cit., 391; ID., Lineamenti di diritto processuale penale, 4a ed., Napoli, 1956, 170. In prospettiva apparentemente analoga, cfr. F. BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, cit., 103, ove, sebbene si accolga favorevolmente l’inquadramento delle immunità quali cause di esenzione dalla giurisdizione, si sottolinea come tale configurazione possa considerarsi esatta soltanto se di tali cause sia specificata la natura sostanziale. (27) Nel senso di considerare inopportuno questo tipo di argomentazioni poiché, tra l’altro, sminuirebbero dal punto di vista politico il fenomeno dell’irresponsabilità, cfr. A. MORO, La capacità giuridica penale, cit., 85 s. (28) Cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 82. (29) Cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 85.
— 107 — titolari di doveri ed assoggettati a sanzione, hanno evidenziato l’inconciliabilità intrinseca ad un’analisi che, pur non negando, sotto il profilo sostanziale, in capo al soggetto il configurarsi di una tale situazione, giunge, poi, ad asserire la non instaurabilità di quello strumento, indispensabile per l’applicazione della pena, rappresentato dal processo (30). Vi è, peraltro, chi ha sottolineato come la tesi che inquadra le immunità quali cause di esenzione dalla giurisdizione non distingue tra immunità assolute e relative. Solo per le prime, infatti, si potrebbe parlare di una vera e propria esenzione dalla giurisdizione, mentre per le seconde l’esenzione è soltanto parziale, potendo, in questi casi, prospettarsi comunque un accertamento giudiziario al fine di verificare se il fatto compiuto rientri o meno tra gli illeciti tutelati attraverso l’immunità (31). Infine, un ulteriore profilo critico è emerso anche in virtù dell’analisi avanzata da parte di quella dottrina che, a proposito della sottrazione di una persona dalla giurisdizione, ha rilevato come « non sembr(i) pensabile l’illiceità d’un fatto rispetto al quale ogni giudice sia privo del potere di pronunciare », sottolineando la differenza che intercorre tra una situazione in cui il giudice non debba pronunciarsi pur avendone il potere e quella in cui non vi sia neanche quest’ultimo (32). Tra le diverse interpretazioni avanzate in dottrina a proposito della ragione giuridica connotante il fenomeno dell’immunità ha trovato, di recente, ampio seguito la tesi che, spostando l’attenzione dal piano soggettivo per focalizzarla su quello attinente alla struttura del reato, vi ha ravvisato la natura tipica delle cause di giustificazione (33). Con specifico rife(30) Cfr. M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 883; P. SEVERINO, voce Capacità penale, cit., 4. (31) In questi termini, cfr. G. CONSO, voce Capacità processuale, 141 s., il quale, a proposito del dibattito sulla natura sostanziale o processuale delle immunità, conclude nel senso di un’incapacità processuale dell’immune quale risultato ultimo cui pervenire in ogni caso, basando, siffatta soluzione, sul presupposto teorico per il quale l’incapacità processuale è una diretta conseguenza dell’incapacità penale. In termini critici verso la configurazione dell’immunità quale causa di esenzione dalla giurisdizione, v. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 624 s., che, muovendosi in una prospettiva diversificatrice tra immunità attinente agli atti connessi all’esercizio della funzione ed immunità riguardante reati comuni, rileva come mentre nell’ultima ipotesi si tratterebbe di un mero rinvio o di una sospensione temporanea dell’attività processuale — pronta a riprendere una volta sopravvenuta l’autorizzazione a procedere richiesta ovvero cessata la qualifica soggettiva ricoperta dal soggetto —, nel primo caso « la non punibilità è dovuta a ragioni di diritto sostanziale, e perciò la esenzione dalla giurisdizione sarebbe al più una conseguenza riflessa; ma in realtà nemmeno esiste, data sempre la possibilità di un accertamento negativo ». (32) Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, cit., 84; O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, cit., 271. (33) Inizialmente prospettata da A. PAGLIARO, voce Immunità, cit., 221 s., questa teoria è stata, poi, sostenuta da T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 632 ss.; O. DOMINIONI, Immunità, estraterritorialità e asilo nel diritto penale internazionale,
— 108 — rimento alle immunità funzionali, si è evidenziato come il « substrato materiale » sul quale si fonda l’istituto è rappresentato dal bilanciamento di interessi operato dal legislatore al sussistere di un’ipotesi conflittuale tra due opposte esigenze, ma di cui una debba considerarsi primaria. Nella specie, considerato che « dal fondo di ogni immunità sostanziale affiora sempre la necessità di garantire il soddisfacimento di un interesse fondamentale per la vita dell’ordinamento », è agevole constatare come « ogni qualvolta un interesse di minor rilevanza entri in conflitto con uno degli interessi facenti capo alla funzione e garantiti attraverso il suo esercizio, il conflitto non può essere risolto che affermando la prevalenza del secondo e la soccombemza del primo » (34). Più esattamente, si configurerebbe una situazione in cui, essendovi l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere, si ritiene integrata la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. (35), seppure con un’estensione delle modalità attraverso le quali la stessa solitamente si manifesta (36). Nell’àmbito delle obiezioni sollevate a fronte dell’accennata teoria, si è sottolineato come non se ne possano condividere tanto le premesse quanto le deduzioni dal momento che le scriminanti si basano « su un giudizio positivo del fatto commesso, perché utile o necessario e perciò giuridicamente autorizzato od imposto » (37) ed, invece, nel caso delle immunità non ricorrano tali requisiti. Tra l’altro, si è dubitato dell’opportunità di prefigurare appositamente le immunità quali cause di giustificazione per il semplice fatto che talune affermazioni dei soggetti ricoprenti determinati incarichi possono considerarsi « come necessaria, e comunque legittima, estrinsecazione del mandato e sono pertanto tali che potrebbero ricadere nel quadro dell’art. 51 c.p. » (38) anche in mancanza di espressa in questa Rivista, 1979, 387; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, cit., 128; ed accolta, con riguardo all’insindacabilità parlamentare, da L. CIAURRO, Autorizzazione a procedere e giudizio civile, in Quad. cost., 1989, 512: R. MORETTI, Sui limiti delle immunità parlamentari, in Giur. cost., 1976, I, 767; S. MANNUZZU, Immunità parlamentari e processo democratico, in Pol. dir., 1981, 75; F. POSTERARO, voce Prerogative parlamentari, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, 4. Colloca tra le cause scriminanti, in presenza delle quali si esclude l’antigiuridicità del fatto, anche l’irresponsabilità di cui all’art. 90, primo comma, Cost., C. TAORMINA, Procedimenti e giudizi di accusa, Milano, 1978, 99 s. In genere, relativamente all’immunità parziale configurata come causa di giustificazione v., altresì, A. MOLARI, I soggetti, in AA.VV., Appunti di procedura penale, Bologna, 1994, 90. In senso contrario, paventando un sostanziale svuotamento della prerogativa, cfr. A. PIZZORUSSO, Dissonanze e incomprensioni tra la concezione penalistica e la concezione costituzionalistica delle immunità parlamentari, in questa Rivista, 1984, 580. (34) Cfr. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 633 s. (35) Così T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 636; A. PAGLIARO, voce Immunità (dir. pen.), cit., 221. (36) Cfr. A. PAGLIARO, voce Immunità, cit., 221. (37) Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 822 s. (38) Con specifico riguardo all’insindacabilità prevista per i parlamentari dall’art. 68,
— 109 — norma costituzionale. Quest’ultima, pertanto, nel momento in cui è dettata dal legislatore si rivela indicatrice della volontà del medesimo di estendere l’àmbito di esenzione anche a fatti che non ricadrebbero nell’alveo scriminante e, dunque, non qualificabili come leciti (39). Il ricondurre l’immunità nell’una o nell’altra categoria concettuale non è disquisizione puramente teorica, ma presenta dei risvolti pratici che si riflettono sia sul piano sostanziale che processuale. Invero, al variare delle premesse interpretative mutano altresì le conseguenze giuridico-penali che ne possono discendere. Gli esiti applicativi ai quali si fa solitamente riferimento nel definire la ratio posta a base dell’immunità concernono l’impedibilità del fatto, la punibilità dell’eventuale compartecipe all’azione compiuta dall’immune, la rilevanza dell’errore sui presupposti dell’immunità, la risarcibilità del danno, nonché, a livello processuale, il tipo di sentenza e la formula di proscioglimento da adottare qualora sia stato indebitamente instaurato un processo nei confronti di un soggetto immune. In particolare, il fulcro della questione intorno al quale ruotano le diverse implicazioni pratiche connesse all’opzione interpretativa circa la ratio dell’immunità attiene alla qualifica attribuibile al fatto dell’immune: si è di fronte ad un’illecito, sebbene non imputabile al soggetto o non assoggettabile a pena, ovvero ad un comportamento lecito ab origine, a seconda che nel fenomeno dell’immunità si rinvenga, rispettivamente, da un lato, una causa di incapacità penale, di esenzione della pena o dalla giurisdizione e, dall’altro lato, una scriminante. Pertanto, mentre nelle prime tre ipotesi interpretative, in linea generale e con gli opportuni distinguo, il fatto dell’immune sarà impedibile ed integrerà i presupposti della legittima difesa (40), si potrà considerare punibile il compartecipe (41), vi potrà essere l’applicazione di miprimo comma, Cost., G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità dei membri del parlamento, cit., 209. (39) A questo proposito, si è fatto riferimento all’art. 68, primo comma, Cost., che « conferma la liceità di taluni contegni e ne manda non punibili altri che a quelli si ricollegano rappresentandone una proiezione più vasta »: G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione, cit., 209; nonché, in prospettiva analoga, v. P. SEVERINO, voce Capacità penale, cit., 7. D’altra parte, cfr. T. DELOGU, L’immunità penale, cit., 639, il quale all’accennata obiezione risponde evidenziando la contradictio in adjecto che si delinea ove uno stesso comportamento sia ritenuto contestualmente atto di esercizio di funzioni e reato. (40) Così A. PAGLIARO, voce Immunità, cit., 220. In prospettiva particolare, cfr. M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 884, che, pur escludendo l’antigiuridicità penale del fatto commesso dall’immune, ritiene ammissibile la legittima difesa dinanzi a quell’azione che rivesta i caratteri dell’illecito civile o amministrativo posto in essere dal soggetto che usufruisce della prerogativa. (41) Qualora si opti per la tesi che riconnette l’immunità all’incapacità penale, l’esclusione della qualifica di illecito per il fatto commmesso dall’immune non preclude la responsabilità penale di altri soggetti concorrenti nell’azione criminosa (in questo senso, cfr. R. DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano, 1956, 222; A. PA-
— 110 — sure di sicurezza (42), e sarà perfettamente plausibile il sorgere di un’obbligazione civile per il risarcimento del danno (43), nell’ultima prospettiva concettuale, la soluzione agli stessi quesiti si profila in senso del tutto opposto (44) come, del resto, sarebbe se le immunità venissero considerate alla stregua di ipotesi concernenti soggetti legibus soluti (45). Il regime applicativo connesso alla ragione giuridica che si ritiene di attribuire al fenomeno immunità diverge, peraltro, anche per quel che attiene al tipo di pronuncia da adottare qualora si instauri un processo penale nei confronti di un soggetto immune. In primo luogo, si tratta di appurare se l’esito cui approda l’avviato procedimento sia rappresentato da una sentenza di merito o di rito. A questo riguardo, è agevole constatare come si incorra in una decisione del primo genere qualora all’immunità venga attribuita natura di diritto sostanziale, mentre è configurabile una pronuncia sul rito se l’istituto è ricondotto prevalentemente al diritto processuale. In termini più specifici, ove il fenomeno dell’immunità appaia connesso, secondo le differenti prospettazioni interpretative, all’incapacità penale, alle cause di esclusione della pena o a quelle di giustificazione, nonché ricondotto a persone considerate legibus solutae, la decisione con cui, accertata l’esistenza della preclusione, oggettiva o soggettiva, a proseguire il processo penale, dovrà esserne dichiarata la causa non potrà che GLIARO, voce Immunità, cit., 220). Ad analoga conclusione, peraltro, si giunge se si vuol ricondurre la categoria delle immunità tra le cause di non punibilità, le quali non possono essere estese ad altre persone che non usufruiscano di specifiche prerogative (sul punto, cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 817). (42) La questione, invero, non è del tutto pacifica poiché, da una parte della dottrina, a proposito delle cause di non punibilità, si è sostenuto che le stesse non escludono soltanto la pena principale, ma anche le pene accessorie, le misure di sicurezza e gli altri effetti penali: G.D. PISAPIA, Fondamento e limiti delle cause di esclusione da pena, in Riv. it. dir. pen., 1952, 47. Con specifico riferimento alle immunità, cfr. G. VASSALLI, voce Cause di non punibilità, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 626, che osserva come l’esclusione delle misure di sicurezza sia già implicita nel fenomeno dell’immunità. In senso critico nei confronti della teoria che ravvede nell’immunità una causa di esenzione della pena dal momento che ne deriverebbe l’applicazione di misure di sicurezza per gli immuni, cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 82; M. GALLO, voce Capacità penale, cit., 883. (43) Cfr. A. PAGLIARO, voce Immunità, cit., 220, sottolineando come la stessa « non sia suscettibile di esecuzione coattiva per la parallela esenzione dalla giurisdizione civile » ed in qual modo il suo adempimento non sia ripetibile. (44) Al riguardo, per una dettagliata analisi, v. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 648 ss. (45) Anche in tal caso, infatti, non sarebbe prospettabile la legittima difesa, mancando ogni possibile qualificazione di carattere penale del fatto commesso dall’immune e, dunque, quell’« offesa ingiusta » richiesta dall’art. 52 c.p. Né dovrebbe ritenersi ammissibile l’eventuale compartecipazione criminosa da parte di terzi, poiché, quest’ultima, avendo carattere accessorio, presuppone necessariamente un fatto antigiuridico commesso da un autore principale. Sul punto, cfr. G. BETTIOL-L. PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, cit., 195 s.
— 111 — essere una statuizione sul merito. Al contrario, il medesimo procedimento si concluderebbe con un provvedimento di rito ove l’immunità dovesse considerarsi come ipotesi di esenzione dalla giurisdizione. Nel primo degli accennati àmbiti, poi, si delinea un’ulteriore differenziazione quanto alle formule adottabili. Per quel che riguarda il giudizio attinente a questioni di merito, invero, il proscioglimento sarà determinato dalla considerazione che il soggetto « non è imputabile », « non è punibile » ovvero « il fatto non costituisce reato » a seconda che si tratti di una causa di esclusione dell’imputabilità, della pena o di giustificazione. Ne consegue che, mentre nelle prime due accezioni vi è un’attestazione della sussistenza del fatto criminoso contestato dall’accusa ma se ne esclude l’imputabilità al soggetto sottoposto a giudizio ovvero la sua punibilità, sussistendo una delle corrispondenti ragioni previste dall’ordinamento, nel terzo tipo di formula adottata per il proscioglimento si riconosce essersi verificato il fatto ma non l’illiceità del medesimo data la presenza di una situazione scriminante (46). L’opzione per l’una o per l’altra teoria interpretativa sulla natura delle immunità si rivela, dunque, densa di implicazioni anche per ciò che attiene alle pronunce giurisdizionali data la sussistenza di una specifica gerarchia tra le formule adottabili in sede di proscioglimento (47), ed il diverso regime quanto ad appellabilità della sentenza, efficacia preclusiva di altri procedimenti penali, autorità di cosa giudicata in sede extrapenale (48). 3. Al fine di comprendere la portata del fenomeno immunità nell’àmbito del processo penale è necessario scindere tra atti inerenti all’esercizio delle funzioni ed atti connessi alla vita privata (49). L’insindacabilità parlamentare rappresenta un tipico esempio di immunità del primo tipo. Altra cosa è l’immunità c.d. extrafunzionale che attiene ad atti compiuti in veste privata per i quali, purtuttavia, possono sussistere specifiche guarentige processuali. Ad ognuna di queste due categorie sono collegati effetti diversi. In particolare, mentre l’una si ripercuote sia sul piano sostanziale che processuale, l’altra è produttiva di conseguenze soltanto su quest’ultimo. (46) Riguardo alle diverse formule assolutorie ed alla loro diversità di portata, cfr. F. CORDERO, Procedura penale, cit., 518 e 988 s. (47) In proposito, cfr. E. DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., 60 ss.; G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, 104; GIUS. SABATINI, Classificazione e gerarchia delle formule di proscioglimento, in Giust. pen., 1954, III, 457 ss. Con riferimento all’innovato codice di rito, cfr. E. MARZADURI, Commento all’art. 530, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., V, Torino, 1991, 514 ss. (48) Così F. CORDERO, Procedura penale, cit., 974. (49) In questa prospettiva si colloca, altresì, l’analisi condotta da V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 85 ss.
— 112 — L’immunità extrafunzionale assicura che un determinato individuo non possa essere assoggettato a processo penale per fatti « comuni » commessi nel corso della carica o anteriormente ad essa. Tale prerogativa, tuttavia, scompare al termine dell’incarico, consentendo che per quegli stessi fatti possa perseguirsi il soggetto precedentemente immune. Si è, dunque, con riguardo al periodo di carica, dinanzi ad un limite per il potere giurisdizionale reso palese dall’impossibilità di avviare un accertamento di carattere penale anche per i fatti antecedenti l’assunzione delle funzioni, « mentre la reviviscenza della punibilità, a carica scaduta, anche per i fatti estrafunzionali risalenti al periodo della carica » dimostra « che l’immunità non è produttiva di alcun limite alla applicazione della legge penale sostanziale » (50). Si tratta, tuttavia, di identificare le modalità attraverso cui si giunge a circoscrivere la capacità di accertamento sul piano giudiziario (51). A questo proposito, l’alternativa è tra il configurare, da un lato, un difetto di giurisdizione in capo al giudice procedente e la contestuale incapacità processuale dell’immune nonché, dall’altro lato, la sussistenza di una causa di improcedibilità dell’azione penale (52). L’opzione, in tal caso, volge necessariamente nel primo senso. Invero, ove si configurasse nell’immunità extrafunzionale un’ipotesi influente sull’esercizio dell’azione penale si sarebbe dinanzi ad una situazione in cui per l’immune è possibile essere sottoposto comunque ad un’attività investigativa, seppure (50) Così O. DOMINIONI, Immunità, estraterritorialità e asilo nel diritto penale internazionale, cit., 390; e, similmente, V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 87, rilevando, con riferimento alle norme che prevedono le immunità diplomatiche, come esse « non incid(a)no sulla illiceità del fatto, il quale conserva il carattere di reato » ed in qual modo si tratti, invece, di disposizioni che « attengono alla giurisdizione e non al diritto sostanziale ». (51) Molto spesso, infatti, si è ricorsi a formule alquanto generiche per descrivere questo fenomeno. Alla definizione di « impedimenti processuali » (A.P. SERENI, Diritto internazionale, II, Sez. I, Milano, 1958, 524) si è affiancata quella di « condizioni di non procedibilità » (R. BORIN, L’extraterritorialità delle forze armate, in Riv. dir. internaz., 1937, 213; A. MARAZZI, voce Immunità diplomatiche, in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 196; S. NAVA, voce Diplomazia e diplomatici, ivi, V, 1960, 656; A. TOMMASI DI VIGNANO, Immunità e privilegi dei funzionari delle organizzazioni internazionali, Padova, 1961, 16, nt. 12, e 17, nt. 13, ove, tuttavia, si fa altresì riferimento ad una « mera insuscettibilità di formazione di un rapporto processuale in cui il diplomatico rivesta una posizione giuridica passiva ») per giungere ad una più indefinita « esenzione dalla giurisdizione » (P. BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale pubblico, 8a ed. Milano, 1962, 365; A. MALINTOPPI, voce Diplomatici agenti (dir. internaz.), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 592; M. MIELE, L’immunità giurisdizionale degli organi stranieri, Milano, 1961, 18). (52) Nel senso di ritenere che l’immmunità diplomatica avente riguardo a fatti di natura « privata » rappresenti « una condizione negativa di procedibilità », v. Trib. Roma, Uff. istr., ord. 16 febbraio 1966, A.B., in Arch. pen., 1966, II, 212; in prospettiva analoga, relativamente ai militari N.A.T.O., v. Cass., Sez. Un., 28 novembre 1959, Meitner, ivi, 1960, II, 340 s.; e, più recentemente, estendendo le immunità diplomatiche anche ai funzionari e agli impiegati consolari, fa riferimento all’improcedibilità dell’azione penale Cass., Sez. I, 12 novembre 1993, Bevilacqua, in Cass. pen., 1994, 3000, 1852.
— 113 — entro i confini delineati dall’art. 346 c.p.p. (53). Se è vero che a fronte di un fatto commesso da un soggetto protetto da immunità non è del tutto esclusa l’esperibilità di accertamenti volti a comprendere l’estensione oggettiva di tale prerogativa, è altresì vero che ciò vale solo per le ipotesi in cui all’immunità funzionale non si accompagni un’immunità extrafunzionale. In tal caso, infatti, la verifica sull’attinenza dell’illecito compiuto nell’esercizio delle funzioni, anche a causa di situazioni dai contorni talvolta indefiniti o sfumati, può rendersi necessaria allo scopo di appurare l’effettiva preclusione al processo penale (54). Nell’ipotesi in cui, invece, vi sia un’immunità assoluta, ogni preliminare controllo sul rapporto di attinenza dei fatti alla funzione svolta è vano, poiché, pur trattandosi di un’azione criminosa riconducibile alla sfera privata del soggetto, l’autorità giudiziaria non può in alcun modo attivarsi processualmente. L’unico elemento potenzialmente suscettibile di verifica, in questo caso, concerne la sussistenza della qualifica che consente al soggetto di usufruire di determinate prerogative (55): ogni altra attività di accertamento preliminare, sebbene condotta nei limiti fissati dall’art. 346 c.p.p., si rivela impraticabile. Ne discende che, all’interno dell’odierno assetto codicistico, il limite al potere giurisdizionale derivante da un’immunità extrafunzionale non può essere ricondotto tra le cause preclusive l’esercizio dell’azione penale (56), ma va inteso quale difetto di giurisdizione ovvero, sotto altro punto di vista, come incapacità processuale dell’imputato. Del resto, se (53) È noto, infattti, come, a fronte della mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, il pubblico ministero non sia tenuto immediatamente ed automaticamente ad archiviare (art. 411 c.p.p.), ma possa svolgere le attività investigative necessarie ad assicurare le fonti di prova e, se vi è pericolo nel ritardo, assumere le prove previste dall’art. 392 c.p.p. (art. 346 c.p.p.). Al contrario, qualora sia riscontrabile un difetto di giurisdizione, è precluso ogni tipo di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria. Invero, una volta riscontrato il limite al potere giurisdizionale, nella specie coincidente con l’incapacità processuale dell’immune, esso dovrà essere immediatamente dichiarato e ciò può avvenire anche nel corso delle indagini preliminari, ai sensi di quanto disposto dall’art. 20, secondo comma, c.p.p. Nel senso che, essendo la presenza del giudice soltanto eventuale, anche il pubblico ministero possa « delibare il difetto di giurisdizione al fine di ‘‘anticipare’’ una pronuncia del giudice che finirebbe per rivelarsi inutiliter data », v. A. MACCHIA, Commento all’art. 20, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, I, Milano, 1989, 122. (54) Sul punto, v. G. CONSO, voce Capacità processuale, cit., 142; M. PISANI, I problemi della giurisdizione penale, Padova, 1987, 47; ID., voce Giurisdizione penale, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 400. (55) Attività, quest’ultima, oltre che eventuale, sicuramente più ristretta rispetto a quella delineata dall’art. 346 c.p.p. (56) Non può, peraltro, farsi a meno di rilevare l’anomalia di una condizione del procedere in cui il carattere di estraneità all’autorità giudiziaria ed alla persona offesa, solitamente connotante i requisiti necessari per l’esercizio dell’azione penale, risiederebbe non in una dichiarazione di volontà altrui, fondata su valutazioni di opportunità e volta a rimuovere l’ostacolo al processo, bensì in una mera circostanza collegata al decorso del tempo. Soltanto
— 114 — così non fosse risulterebbe eluso lo scopo ultimo perseguito attraverso la previsione delle immunità assolute: « evitare un qualsiasi turbamento nel regolare svolgersi dell’attività » (57). A ciò si aggiunga l’esigenza di assicurare una tutela più o meno intensa nell’ipotesi in cui sia stata emessa una sentenza nonostante la preclusione derivante dalle prerogative extrafunzionali. Ove si volesse considerare queste ultime alla stregua di condizioni di improcedibilità, la decisione viziata sotto tale profilo, se non impugnata, acquisirebbe autorità di cosa giudicata (58). Diversamente, la pronuncia adottata in violazione di un limite alla iurisdictio è inesistente e, dunque, insuscettibile di passare in giudicato. Qualora si sia iniziato un procedimento penale nei confronti di una persona che gode di immunità extrafunzionale, dovrà essere adottata una pronuncia attestante il difetto di giurisdizione originato dall’incapacità processuale dell’imputato in quanto soggetto immune. Si tratta di una decisione di natura processuale che esula da ogni questione di diritto sostanziale. Né tantomeno, la stessa può considerarsi al pari di un proscioglimento in rito con la conseguente inadeguatezza di un ricorso alla formula del « non doversi procedere » (59). Lo schema decisorio previsto dal legislatore ed utilizzabile nel caso di immunità extrafunzionale è disciplinato dall’art. 20 c.p.p. secondo cui il difetto di giurisdizione è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (60). La tematica della carenza di iurisdictio nell’odierno sistema codicistico, invero, oltre a ricevere un’autonoma e distinta collocazione riguardo all’incompetenza (61), a quest’ultimo, infatti, risulta connessa la conclusione, naturale o anticipata, del mandato, con il conseguente venir meno dell’incertezza circa il concretizzarsi della condizione di procedibilità. Per un particolare approccio volto a negare l’assimilazione dell’immunità extrafunzionale propria degli agenti diplomatici alle condizioni di procedibilità soprattutto a causa della diversa struttura che connota i due fenomeni, cfr. V. CAVALLARI, La capacità, cit., 89 ss. (57) Cfr. V. CAVALLARI, La capacità, cit., 87. (58) Cfr. O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento, cit., 252 s. e 279 ss.; ID., Immunità, estraterritorialità, cit., 389, nt. 46; e, per un cenno in tal senso, V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 92. (59) In questo senso, cfr. O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento, cit., 270 e 281. (60) In particolare, se il limite al potere giurisdizionale è riscontrato nel corso delle indagini preliminari, il giudice emette ordinanza e restituisce gli atti al pubblico ministero (artt. 20, secondo comma, e 22, primo comma, c.p.p.). Qualora il difetto di giurisdizione dovesse essere riscontrato alla chiusura delle indagini preliminari e « in ogni stato e grado del processo », il giudice provvede con sentenza disponendo, « se del caso », la trasmissione degli atti all’autorità competente (art. 20, secondo comma, c.p.p.). Sulle problematiche connesse alla rilevabilità del difetto di giurisdizione, cfr. A. MACCHIA, Commento all’art. 20, cit., 121 ss.; A. PIGNATELLI, Commento all’art. 20, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., I, Torino, 1989, 140. (61) Sul definitivo tramonto della commistione tra il concetto di incompetenza e
— 115 — ha assunto toni ampliati rispetto a quanto stabilito dal codice Rocco, ove la corrispondente materia restava confinata unicamente ai rapporti tra giurisdizione ordinaria e speciale (62). A fronte dell’innovata disposizione e, in particolare, dell’inciso « se del caso », si può indubbiamente affermare la sua riconducibilità sia alle ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione che a quello relativo (63), intendendo, nel primo caso, una totale carenza di giurisdizione da parte di qualsiasi organo riguardo ad un determinato fatto o nei confronti di un certo soggetto e, nell’altro, una mancanza per l’autorità giudiziaria ordinaria del potere giurisdizionale spettante, invece, ad un giudice speciale (64). In particolare, la declinatoria di cui all’art. 20 c.p.p. è adottabile tanto nella circostanza in cui implicato in un giudizio penale sia un soggetto immune (65) quanto nelle ipotesi in cui la cognizione di un accadimento spetti ad autorità giurisdizionali straniere per la qualifica del soggetto agente (appartenenti alle forze armate della N.A.T.O. stanziate in Italia) ovvero per il difetto di uno dei criteri di collegamento previsti dagli artt. 7-10 c.p. (66). La mancanza di un effetto preclusivo connesso alla declaratoria sul quello di carenza di giurisdizione, presente negli artt. 38 e 477, primo comma, c.p.p. 1930, cfr. A. MACCHIA, Commento all’art. 20, cit., 120 s. (62) Nel codice di rito del 1930 mancava un’apposita formula decisoria adottabile per quelle ipotesi di difetto di giurisdizione che esulassero dall’ordinamento interno, poiché l’art. 38 c.p.p. 1930 appariva preposto al solo fine di regolare i rapporti tra giudici ordinari e speciali. Tant’è che, per descrivere il fenomeno connesso alla declaratoria sul difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana rispetto a quella straniera, da parte della dottrina, si era ricorsi al concetto di pronuncia « innominata » (sul punto, cfr. O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, cit., 290). Proprio a causa di questo vuoto normativo, non di rado, la giurisprudenza aveva adottato, dinanzi a situazioni connotate dalla carenza di iurisdictio, formule composite, nonché ambigue e inidonee ad esprimere una specifica portata identificatrice, quali, ad esempio, il « non doversi procedere per difetto di giurisdizione » (per un’approfondita disamina che non trascura, peraltro, alcuni cenni critici su questo modo di operare, cfr. O. DOMINIONI, Improcedibilità, cit., 254 ss.; ID., Sulle sentenze penali che dichiarano il « difetto di giurisdizione » dell’autorità giudiziaria italiana, in Riv. dir. proc., 1967, 736 ss.). (63) In proposito, cfr. M. PISANI, voce Giurisdizione penale, cit., 399. (64) Sul punto, cfr. A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, 1992, 49 s.; A. MACCHIA, Commento all’art. 20, cit., 124; A. PIGNATELLI, Commento all’art. 20, cit., 139; G. TRANCHINA, I soggetti, in AA.VV., Diritto processuale penale, 2a ed., I, Milano, 1996, 110. (65) Da notare come, in passato, nonostante mancasse un’esplicita disposizione in tal senso, l’art. 38 c.p.p. 1930 è stato considerato riferibile altresì alle ipotesi in cui l’imputato godeva di immunità giurisdizionale penale: G. GUARNERI, voce Competenza penale, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 105; S. RANIERI, Manuale di diritto processuale penale, 5a ed., Padova, 1965, 92. (66) Pertanto, l’espressione « se del caso » non implica un’assoluta discrezionalità dell’organo giurisdizionale circa la trasmissione degli atti all’autorità competente. Essa, piuttosto, mira ad indicare nella sussistenza di un ulteriore organo dotato di giurisdizione riguardo al fatto oggetto del procedimento il parametro cui attenersi per ordinare o meno il suddetto trasferimento cartolare. Qualora si tratti di un soggetto immune la pronuncia ex
— 116 — difetto di giurisdizione (67), del resto, ben si concilia con l’efficacia limitata nel tempo propria dell’immunità extrafunzionale. Al venir meno, infatti, di questo ostacolo all’esercizio del potere giurisdizionale, coincidente con il momento in cui l’imputato, concluso l’incarico affidatogli, riacquista la capacità processuale, nulla vieta che possa instaurarsi nei confronti di quel soggetto un processo penale volto ad accertare la responsabilità per fatti « comuni », non collegati all’esercizio delle funzioni, compiuti anteriormente o durante il mandato. Si può, dunque, concludere che, nel caso di immunità extrafunzionale, vi è una sorta di esenzione temporanea dalla iurisdictio legata al fatto che il soggetto, capace penalmente al momento della commissione dell’illecito, non lo è processualmente se chiamato a rispondere della sua azione. Vi possono essere, infatti, dei motivi di opportunità politica inerenti i rapporti tra poteri dello Stato ovvero, sul piano internazionale, tra organi di Stati diversi, in virtù dei quali l’ordinamento autolimita la propria giurisdizione (68), che si può espandere nella sua globalità soltanto al termine del mandato cui è connessa la prerogativa. Nell’ipotesi in cui si tratti di immunità assoluta vi sarà, durante il periodo di carica, un’esenzione dalla iurisdictio relativa ai fatti « comuni », mentre, per quelli connessi all’esercizio delle funzioni, l’eventuale accertamento giudiziario dovrà ritenersi limitato al proscioglimento nel merito a causa del sussistere di una scriminante. All’esito del mandato, l’effetto art. 20 c.p.p. si limiterà a dichiarare il difetto di iurisdictio senza provvedere ad alcuna trasmissione di atti. (67) Sull’inidoneità a produrre un qualsivolglia effetto preclusivo in termini di ne bis in idem, cfr. O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, cit., 289, che nega alla delaratoria relativa al difetto di giurisdizione un’efficacia preclusiva anche nei termini ridotti in cui è riconosciuta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 90 e 17 c.p.p. 1930, alle sentenze di proscioglimento sul rito. Ciò in ragione del fatto che voler attribuire a tale decisione « non soltanto la funzione meramente pratica di porre fine al processo in corso », ma anche « un preciso rilievo normativo » e una valenza di « accertamento di una situazione giuridica, capace di produrre effetti del tipo di quelli riconoscibili nelle sentenze di proscioglimento a contenuto processuale » implicherebbe un valido esplicarsi del potere giurisdizionale che, invece, tale non è vista la mancanza dei presupposti processuali (p. 286). Pertanto, « la conclusione da trarre è che la declaratoria di difetto di giurisdizione non vale come accertamento in senso tecnico e il trattamento che riceve non differisce tendenzialmente da quello tipico delle decisioni inesistenti » (p. 288). In un’ottica diversa, volta ad equiparare la declaratoria di un difetto assoluto di giurisdizione alle sentenze di proscioglimento, affermandone l’impugnabilità dinanzi al giudice d’appello oltre che in Cassazione, v. G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, I, Milano, 1965, 119. (68) Cfr. A. GAITO, Commento all’art. 1 c.p.p. 1930, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, 1987, 5; M. PISANI, I probiemi della giurisdizione penale, cit., 47; ID., voce Giurisdizione penale, cit., 399 ss.; e, con riferimento all’ammissibilità di esenzioni « soggettive » dalla giurisdizione nell’àmbito dell’ordinamento e dei diritti fondamentali dallo stesso garantiti, v. M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, I, Milano, 1982, 62 ss.
— 117 — preclusivo di una pronuncia sul merito garantirà l’immune dall’essere sottoposto nuovamente a processo penale per il reato dal quale era stato prosciolto nel corso della carica e, inoltre, per ogni altra ipotesi criminosa verificatasi nell’esercizio delle funzioni il procedimento successivamente avviato non potrà che concludersi con proscioglimento perché « il fatto non costituisce reato ». Al contrario, concluso l’incarico, nulla impedirà l’avviarsi di un procedimento penale a carico del soggetto per i fatti privati compiuti durante il mandato o antecedentemente ad esso, anche se, riguardo agli stessi, era stata già emessa una declaratoria di difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 20 c.p.p. Quanto all’immunità relativa, quella cioè attinente ai soli illeciti funzionali, nessuna differenza è dato riscontrare, sotto il profilo processuale, tra il periodo di carica ed il tempo successivo ad esso. Invero, sia nell’uno che nell’altro periodo, con riferimento al reato compiuto nell’esercizio delle funzioni, vi potrà essere un giudizio penale destinato, comunque, a concludersi, riscontrato il nesso di funzioni, con una sentenza proscioglitiva per antigiuridicità del fatto. Nessuna esenzione giurisdizionale, invece, sia prima che dopo, potrà esservi per tutti quei reati commessi dall’immune come privato cittadino. 4. Quanto alle prerogative attinenti ai fatti connessi all’esercizio della funzione, il loro protarsi anche oltre lo scadere del mandato (69) fa emergere una prevalente natura di diritto sostanziale. Ne consegue che non può parlarsi esclusivamente di effetti sul piano processuale inquadrandoli nella sola esenzione dalla giurisdizione penale o in una più generale improcedibilità (70). Al contrario, la fissità nel tempo propria delle immunità funzionali trova spiegazione ove si consideri come « un fatto che originariamente non fosse antigiuridico o non costituisse reato o risultasse accompagnato da una causa di non punibilità non può successivamente, per il sopravvenire di mutamenti di fatto, costituire la premessa di una condanna » (71). Pertanto, « ciò che dell’immunità funzionale sopravvive alla situazione che ne costituì il presupposto è l’inapplicabilità delle norme incriminatrici » (72). (69) In proposito, cfr. E. FLORIAN, Parte generale del diritto penale, cit., 267. (70) Così O. DOMINIONI, Immunità, estraterritorialità e asilo nel diritto penale internazionale, cit., 387. Con riferimento alle ipotesi di immunità internazionale v., nel primo senso, M. MIELE, L’immunità giurisdizionale, cit., 6 ss.; ID., Immunità dalla giurisdizione penale degli organi di enti internazionali per atti compiuti nel territorio di uno Stato straniero, in Riv. dir. internaz., 1940, 470 ss.; nella seconda prospettiva, P. BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale pubblico, cit., 365; T. PERASSI, Consoli ed agenti diplomatici: immunità in materia penale, in Riv. dir. internaz., 1933, 239 s. (71) In questo senso, v. O. DOMINIONI, Immunità, estraterritorialità, cit., 387, nt. 36. (72) Cfr. O. DOMINIONI, Immunità, estraterritorialità, cit., 386 s.
— 118 — Con specifico riferimento all’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni, scarne sono le indicazioni rinvenibili nel dato normativo (73). Le formule « non possono essere chiamati a rispondere », o « non è responsabile » (74) adottate dal legislatore, invero, si traducono in un generico richiamo all’impossibilità di un accertamento giudiziario sulla responsabilità dei soggetti tutelati. Non resta, dunque, che rifarsi alla ratio sottesa alla previsione di una specifica tutela che risulta collegata alla natura dell’atto posto in essere dall’immune, piuttosto che alla qualità rivestita dal soggetto agente nel momento in cui deve procedersi (75). A questo proposito, nell’àmbito del processo penale, quale ricostruzione interpretativa più idonea sembra prospettarsi quella che riconduce l’immunità funzionale tra le cause scriminanti. L’insindacabilità, infatti, opera principalmente sul piano oggettivo, inibendo la qualificazione del fatto come antigiuridico. Le norme che, soprattutto a livello costituzionale, fissano l’insindacabilità per determinati organi istituzionali, tuttavia, non possono essere ricondotte alla fattispecie contemplata dall’art. 51 c.p. (76), di cui, altrimenti, costituirebbero una ripetizione meramente pleonastica. Si tratta, invece, di scriminanti previste in modo autonomo e specifico, dalle quali discende un diverso potere valutativo per l’organo giurisdizionale che deve accertarne l’esistenza. Quest’ultimo, infatti, non sarà chiamato a valutare la conformità della condotta ai cànoni di un corretto esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, come sarebbe ai sensi dell’art. 51 c.p. (77), bensì semplicemente a controllare la perti(73) Questo tipo di prerogativa è riconosciuta, nell’ordinamento interno, non solo ai parlamentari (art. 68, primo comma, Cost.), ma, altresì, ai consiglieri regionali (art. 122, quarto comma, Cost.), ai giudici costituzionali (art. 5 l. cost. 11 marzo 1953, n. 1), ai membri del Consiglio superiore della magistratura (art. 5 l. 3 gennaio 1981, n. 1) e al Presidente della Repubblica per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, fatti salvi i reati di altro tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90, primo comma, Cost.). (74) Alle quali, anteriormente alla l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3, si aggiungeva l’espressione « non possono essere perseguiti » contemplata dall’originario testo dell’art. 68, primo comma, Cost. La modifica, tra l’altro, è stata determinata dall’intento di delineare nettamente l’àmbito di operatività della prerogativa, estendendolo anche alle questioni civili, amministrative o disciplinari. In prospettiva volta ad allargare l’area dell’immunità funzionale al di fuori della sfera penale, già con riferimento al previgente testo dell’art. 68 Cost., cfr. G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità dei membri del parlamento, cit., 193; S. TRAVERSA, voce Immunità parlamentare, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 192. Sulla nuova normativa in materia di immunità parlamentare, cfr. M.C. GRISOLIA, L’insindacabilità dei membri delle Camere « per le opinioni espresse ed i voti dati ». Un consolidato istituto parlamentare di difficile regolamentazione, in Dir. e soc., 1995, 25 ss.; M. MIDIRI, La riforma dell’immunità parlamentare, in Giur. cost., 1994, 2411. (75) Per tale criterio distintivo tra immunità funzionale ed extrafunzionale, cfr. V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 92 s. (76) Secondo quanto prospettato da A. PAGLIARO, voce Immunità, cit., 221. (77) In tal senso, cfr. F. POSTERARO, voce Prerogative parlamentari, cit., 4.
— 119 — nenza dell’atto posto in essere riguardo all’esercizio della funzione espletata, senza alcun intervento nel merito. Qualora il vaglio sul legame intercorrente tra l’atto e la funzione esercitata abbia esito positivo, il procedimento penale si concluderà con una sentenza di proscioglimento perché « il fatto non costituisce reato » (78). Siffatto inquadramento, però, risulta strettamente connesso ad una concezione restrittiva della estensione dell’immunità e, in particolare, dell’esercizio delle funzioni nel cui alveo si fanno rientrare i comportamenti tutelati. Così come accade per tutte le cause di giustificazione, anche per l’immunità devono essere rispettati dei limiti oltre i quali non è più configurabile una scriminante. In questa prospettiva, si considerano esclusi dall’immunità i casi di abuso delle proprie funzioni da parte del soggetto agente, mentre vi si includono le ipotesi in cui l’immune abbia posto in essere un’atto, di per sé illecito, ma compiuto nella « realizzazione di uno dei poteri-doveri nei quali la competenza attribuita alla funzione si articola » (79). L’attività degli organi giudiziari sarà, dunque, limitata ad accertare se vi è un nesso tra il fatto compiuto e la funzione svolta facendo riferimento alla natura, alla forma ed agli effetti dell’atto nonché al fine perseguito (80). (78) Ne discende che il soggetto che gode di immmunità funzionale non può considerarsi processualmente incapace: O. DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento, cit., 273; A. MOLARI, I soggetti, cit., 90. (79) Cfr. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 643. (80) In questo senso, con riguardo all’immunità funzionale degli agenti diplomatici, cfr. M. MIELE, L’immunità giurisdizionale degli organi stranieri, cit., 43, rilevando come debba ricercarsi, altresì, « se l’agente diplomatico abbia agito come organo del proprio Stato, se vi sia un nesso di causalità necessaria fra l’atto o il fatto e l’esercizio della funzione ». In generale, prospettando un rapporto di causalità necessaria con l’esercizio delle funzioni, v. P. BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale pubblico, cit., 363; V. CAVALLARI, La capacità dell’imputato, cit., 93 s. Con riferimento all’immunità parlamentare, criticamente, G. LONG, Commento all’art. 68 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1986, 193, il quale osserva come, in questo modo, i limiti del diritto di espressione delle opinioni e dei voti « sarebbero soggetti ad una penetrante analisi del giudice, cioè di un altro potere dello Stato ». Si avverte qui l’eco di un’annosa questione concernente la definizione di reati ministeriali anch’essa legata al concetto di illeciti penali commessi nell’esercizio delle funzioni. A questo proposito v, da ultimo, Cass., Sez. Un., 20 luglio 1994, De Lorenzo, in Giur. it., 1995, II, 702 ss., ove, pur escludendo che si possa fare riferimento ad un mero rapporto temporale di contestualità cronologica con le funzioni ministeriali e che siano necessari « ulteriori elementi qualificanti, come l’abuso dei poteri e delle funzioni, o la violazione dei doveri d’ufficio », si è, poi, ampliata la sfera dei reati ministeriali. Il criterio interpretativo cui la S.C. ha fatto ricorso è stato quello della « strumentale connessione » esistente tra la condotta illecita e il compimento delle funzioni nel cui àmbito, tuttavia, devono considerarsi inclusi non soltanto i provvedimenti formali assunti dal ministro, ma anche quella « serie di interventi che si sviluppano secondo un iter procedimentale piuttosto complesso, nel quale possono confluire contributi necessari od eventuali di altri organi o di altri uffici della stessa o di una diversa amministrazione ». Criticamente, v. E. FURNO, La Cassazione ed i reati mi-
— 120 — Per quel che concerne l’insindacabilità parlamentare, una conferma della ricostruzione dell’istituto in termini di scriminante può desumersi anche dalle norme di attuazione del riformato art. 68 Cost. L’art. 2 d.-l. 23 ottobre 1996, n. 555, invero, prevedeva che al sussistere dell’insindacabilità, riconosciuta dal giudice ovvero affermata dalla Camera competente, dovesse pronunciarsi, in ogni stato e grado del processo, sentenza ex art. 129 c.p.p. e, nel corso delle indagini preliminari, emettersi decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 409 c.p.p. A prescindere da talune incongruenze emergenti nel dato normativo (81), ciò che qui preme rilevare è come si facesse riferimento ad una situazione di obbligatoria immediatezza della decisione conseguente alla rilevata insindacabilità. Circostanza, quest’ultima, la quale ben si concilia con l’esigenza, manifestata nella sent. n. 129 del 1996, che, a fronte della prerogativa riconducibile all’art. 68, primo comma, Cost., lo svolgimento del processo penale sia prontamente inibito senza necessità di avviarlo o proseguirlo per giungere ad una determinata fase procedimenatale in cui si possa prosciogliere l’imputato con una specifica formula, secondo, invece, quello che è stato il percorso logico-giuridico seguito, nella specie, dall’autorità giudiziaria. Quanto alle formule di proscioglimento attraverso le quali porre fine ad un processo penale relativo ad un illecito ricompreso nella sfera dell’insindacabilità parlamentare, il richiamo all’art. 129 c.p.p. da parte delle norme di attuazione dell’art. 68 Cost. non può che intendersi riferito alla formula « il fatto non costituisce reato », rivelandosi le altre inadeguate a descrivere la realtà procedimentale connotata dalla sussistenza di un’immunità funzionale (82). Tra l’altro, ove l’effetto inibitorio dovesse verifinisteriali nel testo novellato dell’art. 96 della Costituzione: un’occasione mancata?, in Giur. it., 1995, IV, 370 ss. Nel senso, invece, di condividere l’esigenza di considerare reati ministeriali anche quelle fattispecie criminose collegate indirettamente con le funzioni esercitate, v. G. SANTACROCE, La delimitazione della categoria dei reati ministeriali tra interpretazione e legge costituzionale di riforma, in Giust. pen., 1995, III, 133. Sull’individuazione dell’organo deputato ad attribuire la qualifica « ministeriale » a un determinato illecito, v. D. CENCI, Profili problematici dell’attività del pubblico ministero nei procedimenti d’accusa, in Giur. it., 1997, IV, 16. (81) L’art. 2, terzo comma, d.-l. n. 555 del 1996, nell’ipotesi in cui il giudice ritenga applicabile l’art. 68, primo comma, Cost., sembrerebbe prospettare un’« archiviazione d’ufficio ». Al contrario, qualora l’insindacabilità sia stata affermata dalla Camera competente e si è nel corso delle indagini preliminari, l’archiviazione è adottata su richiesta del pubblico ministero. Sul punto, v. G. FIDELBO, Quattordicesima reiterazione per il d.-l. attuativo dell’art. 68 Cost., in Dir. pen. e proc., 1996, 431. (82) In verità, tra gli argomenti esposti nel ricorso volto a sollevare il conflitto di attribuzioni risolto dalla sent. n. 129 del 1996 si affermava che l’art. 68, primo comma, Cost., « non tanto prevede una condizione di non punibilità, quanto qualifica il comportamento ricadente nel suo àmbito normativo come fatto non previsto dalla legge come reato, di guisa che la declaratoria di proscioglimento avrebbe dovuto essere immediatamente pronunciata a norma dell’art. 129, primo comma, c.p.p., mentre nessuna attinenza nella specie ha l’art.
— 121 — carsi nel corso delle indagini preliminari (83), il riferimento all’archiviazione non è casuale dal momento che i presupposti prescritti dagli artt. 408 e 411 c.p.p. sono considerati idonei a coprire l’intero àmbito delle formule proscioglitive per le quali è previsto l’obbligo dell’immediata declaratoria (84). Si tratta, tuttavia, di una disciplina che non era ancora in vigore all’epoca dei fatti oggetto del conflitto di attribuzioni risolto dalla sent. n. 129 del 1996, poiché inserita in un momento successivo con il d.-l. 12 marzo 1996, n. 116 (85) e, inoltre, non più vigente. Invero, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1996 sull’abusata prassi della reiterazione di decreti legge non convertiti, l’ultimo decreto legge contenente le norme di attuazione dell’art. 68 Cost. (86), una volta 469 dello stesso codice ». È un’affermazione, tuttavia, che lascia perplessi ove si consideri come la formula « fatto non previsto dalla legge come reato », avente oggi una sua autonomia in quanto inserita, come si è visto, anche negli artt. 425 e 530 c.p.p., sia adottabile nei casi in cui l’ipotesi accusatoria non corrisponde ad alcuna fattispecie legale e, questo, non sembra essere il caso dell’immunità parlamentare. (83) Evenienza, quest’ultima, espressamente contemplata dall’art. 2, sesto comma, d.-l. n. 555 del 1996, al fine di « anticipare il più possibile la protezione del parlamentare, consentendo al giudice di compiere tempestivamente la valutazione circa la sussistenza o meno della prerogativa, senza attendere la chiusura delle indagini »: G. FIDELBO, Quattordicesima reiterazione, cit., 431. (84) Cfr. Relazione al progetto preliminare del c.p.p., in Gazz. Uff., 24 ottobre 1989 n. 250, Suppl. ord., 50. In proposito, per una dettagliata analisi con ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza, v. F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, 368 ss. Sul punto, cfr altresì, E. MARZADURI, Commento all’art. 129, cit., 118 s.; M.T. STURLA, Commento all’art. 129, in Commentario, cit., II, Milano, 1989, 100 s. Contra, nel senso che l’indicazione delle ipotesi di cui agli artt. 408 e 411 c.p.p. debba considerarsi tassativa, cfr. M.G. COPPETTA, La riparazione per l’ingiusta detenzione, Padova, 1993, 143 s.; G. DEAN, L’impromovibilità dell’azione penale, Milano, 1996, 98, nt. 55; G. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, 1994, 19 ss. In genere, sui presupposti di operatività dell’archiviazione, cfr. T. BENE, Prime riflessioni su archiviazione e obbligatorietà dell’azione penale, in Arch. pen., 1992, 40 ss.; A.A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, 7 ss.; C. VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, 96 ss. (85) Gli elementi di novità apportati da quest’ultimo rispetto al testo dei precedenti decreti legge derivano dal fatto che il Governo, in ossequio alla volontà parlamentare, ha ritenuto di accogliere, salvo alcune varianti di carattere formale, le modifiche approvate dal Senato in sede di conversione del d.-l. 8 gennaio 1996, n. 9, poi decaduto. In questi termini, cfr. Relazione al disegno di legge per la conversione, presentato il 12 marzo 1996 al Senato della Repubblica, in Senato della Repubblica. XII Legislatura. Disegni di legge e relazioni, stampato n. 3929. (86) Il riferimento è al d.-l. 23 ottobre 1996, n. 555, preceduto da una lunga serie di reiterazioni di decreti legge non convertiti: d.-l. 15 novembre 1993, n. 455; d.-l. 14 gennaio 1994, n. 23; d.-l. 17 marzo 1994, n. 176; d.-l. 16 maggio 1994, n. 291; d.-l. 15 luglio 1994, n. 447; d.-l. 8 settembre 1994, n. 535; d.-l. 9 novembre 1994, n. 627; d.-l. 13 gennaio 1995, n. 7; d.-l. 13 marzo 1995, n. 69; d.-l. 12 maggio 1995, n. 165; d.-l. 7 luglio 1995, n. 276; d.-
— 122 — decaduto, non è stato convertito in legge, aprendo così, un vuoto legislativo di notevole rilevanza. 5. La sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 1996, come si è visto, riprende lo schema procedimentale delineato dalla sent. n. 1150 del 1988 a proposito dei rapporti tra organi parlamentari e giudiziari in tema di potere deliberativo della prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, Cost. (87). D’altro canto, sulla stessa impostazione si è mantenuta la disciplina di attuazione dell’art. 68 Cost. in punto di insindacabilità (88). Pur nella molteplicità di versioni che ne ha connotato il cammino, infatti, un dato è rimasto sempre fermo: il potere di valutare l’esistenza della prerogativa compete al Parlamento con successiva efficacia inibente, in caso di esito positivo, della prosecuzione del procedimento (89). In quest’ottica, è stato solitamente previsto che il giudice possa provvedere a dichiarare l’insindacabilità nei casi di particolare evidenza, senza dover previamente interpellare la Camera cui appartiene il parlamentare. Al contrario, ogniqualvolta per l’organo giurisdizionale si prospettino dei dubbi circa la sussistenza dell’immunità sostanziale eccepita dalle parti, dovrà essere investita della relativa questione la Camera competente (90). Ne discende l. 7 settembre 1995, n. 374; d.-l. 8 novembre 1995, n. 466; d.-l. 8 gennaio 1996, n. 9; d.-l. 12 marzo 1996, n. 116; d.-l. 10 maggio 1996, n. 253; d.-l. 10 luglio 1996, n. 357; d.-l. 6 settembre 1996, n. 466. (87) La Corte costituzionale, con sent. n. 1150 del 1988, nel risolvere un conflitto di attribuzione sorto tra la Corte d’appello di Roma ed il Senato della Repubblica, ha dichiarato che, spetta alla Camera di appartenenza valutare la condotta addebitata ad un proprio membro e, conseguentemente, le condizioni di insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., con l’effetto, qualora sia riscontrato l’esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità, sempre che il vaglio parlamentare sia stato correttamente esercitato. In prospettiva similare, v. Corte cost., sent. n. 379 del 1996, cit., e n. 443 del 1993, cit.; nonché, nella giurisprudenza di merito, cfr. App. Roma, 16 gennaio 1991, Soc. Gestione editoriale periodici italiani c. Cerminara e altri, in Foro it., 1982, I, 942. (88) Per alcune epplicazioni di tale normativa, v. Trib. Brescia, 16 dicembre 1994, Sgarbi, in Arch. nuova proc. pen., 1995, 652, con nota di C. BARBIERI, Giurisdizione e pregiudizialità parlamentare: « una conversione mancata »; e Trib. Roma, ord. 24 giugno 1994, Amendola c. Sgarbi; Trib. Roma, ord. 16 aprile 1994, Caselli c. Sgarbi e Reti televisive italiane; Trib. Roma, ord. 14 marzo 1994, Amendola c. Sgarbi, in Foro it., 1994, I, 3217 ss. (89) Ritiene che la disciplina attuativa dell’art. 68 Cost. sia finalizzata a « prevenire il conflitto tra Autorità giudiziaria e Parlamento », o, almeno, « evitare che il giudicato penale si formi prima che il Parlamento abbia occasione di far valere la garanzia delle insindacabilità », R. ORLANDI, La riforma dell’art. 68 Cost. e la normativa di attuazione: l’autorizzazione a procedere al traghetto dall’una all’altra legislatura, in Legisl. pen., 1994, 545 s. (90) Per un’analisi della disciplina di attuazione dell’art. 68 Cost., v. G. FIDELBO, Quattordicesima reiterazione, cit., 426 ss.; R. ORLANDI, La riforma dell’art. 68 Cost., cit., 541 ss.; e, in prospettiva non scevra di alcuni spunti critici riferiti, altresì, al ricorso alla decretazione d’urgenza quale strumento per fissare le regole attuative di norme costituzionali, v. A. PACE, La nuova immunità, in La Repubblica, 4 gennaio 1994; S. PANIZZA, La disci-
— 123 — che le censure eventualmente prospettabili riguardo all’impostazione base adottata dai decreti legge preordinati all’attuazione dell’art. 68 Cost. in punto di insindacabilità, finiscono necessariamente per rimettere in discussione i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale ed assunti come perno intorno cui far ruotare la nuova disciplina. Si impone, tuttavia, una riflessione. A prescindere dalle perplessità derivanti dal tipo di strumento normativo adottato, l’essere ricorsi a dei provvedimenti d’urgenza con i quali dettare, oltre alla disciplina attuativa per l’intervenuta abrogazione dell’autorizzazione a procedere, anche degli strumenti procedurali attraverso cui rilevare l’insindacabilità non è stato casuale né, tantomeno, intenzionalmente finalizzato all’introduzione di ulteriori filtri parlamentari (91). Ciò che, infatti, era inizialmente apparso come un malcelato tentativo di reintrodurre innovate ma anacronistiche forme di privilegio per i componenti del Parlamento, costituiva, sotto un diverso profilo, l’effetto immediato di una disciplina, la cui celere predisposizione palesava l’esigenza — a tutt’oggi valida e imprescindibile — di fornire meccanismi operativi necessari ai fini dell’insindacabilità, una volta venuto meno l’istituto dell’autorizzazione a procedere (92). Nel sistema anteriore alla riforma dell’art. 68 Cost., invero, non esistendo regole specifiche volte a disciplinare le modalità attraverso le quali investire le Camere della decisione sulla prerogativa funzionale, accadeva che queste ultime si trovassero a poter deliberare sulla relativa questione solo in seguito a richiesta di autorizzazione a procedere. Più esattamente, il giudice, salvo l’ipotesi in cui, ritenendo i fatti oggetto di imputazione « coperti » da immunità sostanziale, provvedeva a dichiararla, era costretto per poter proseguire il procedimento penale a richiedere al Parlamento apposita autorizzazione, essendo quest’ultima sempre necessaria ai sensi del previgente art. 68, secondo comma, Cost. In tal caso, il vaglio della Camera finiva potenzialmente per involgere non solo il fumus persecutionis ma anche il carattere funzionale dell’atto (93). Tant’è che, riteplina delle immunità parlamentari tra Corte e legislatore (costituzionale ed ordinario), in Giur. cost., 1994, 606 ss.; R. ROMBOLI, La « pregiudizialità parlamentare » per le opinioni espresse e i voti dati dai membri delle Camere nell’esercizio delle loro funzioni: un istituto nuovo da ripensare (e da abolire), in Foro it., 1994, I, 995; A. RUGGERI-A. SPADARO, Nota minima in tema di « pregiudizialità parlamentare », in Pol. dir., 1994, 103 ss.; G. ZAGREBELSKY, La riforma dell’autorizzazione a procedere, in Corr. giur., 1994, 283 s. (91) Criticamente sul carattere non meramente attuativo, bensì integrativo dell’art. 68 Cost., connotante la disciplina fissata dal Governo, v. A. RUGGERI-A. SPADARO, Nota minima in tema di « pregiudizialità parlamentare », cit., 105. (92) Si è espresso nel senso di un necessario completamento della disciplina costituzionale attraverso una normativa di attuazione, R. ORLANDI, La riforma dell’art. 68 Cost., cit., 543. (93) In passato, l’insindacabilità (art. 68, primo comma, Cost.) e l’inviolabilità parlamentare (art. 68, secondo e terzo comma, Cost.) si configuravano in termini notevolmente
— 124 — nuti sussistenti i presupposti di applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost., la Giunta dichiarava la propria incompetenza e restituiva gli atti al Ministro di grazia e giustizia (94). L’esigenza di un’autorizzazione rilasciata dal Parlamento per poter procedere penalmente su ogni fatto di differenziati quanto a finalità perseguite, natura, efficacia e potere valutativo affidato alle Camere (in proposito, cfr. T. DELOGU, L’immunità penale dei consiglieri regionali, cit., 652; O. DOMINIONI, Autorizzazione a procedere e salvaguardia del Parlamento, in Pol. dir., 1979, 24 s.). Una distinzione, peraltro, che si rifletteva anche sul diverso meccanismo di rilevazione delle stesse. In sintesi, mentre la tutela dall’essere sottoposto a procedimento penale o ad altri atti di coercizione personale era rimessa al Parlamento, la salvaguardia della libertà di espressione dei componenti le Camere era, in primo luogo, assegnata all’autorità giudiziaria, competente a dichiarare la sussistenza dell’insindacabilità. Sul punto, cfr. R. MORETTI, Commento all’art. 68 Cost., in Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. Crisafulli e L. Paladin, Padova, 1990, 412, rilevando come « quando tuttavia il magistrato procedente dovesse reputare il fatto non rientrante nella sfera funzionale e pertanto dovesse richiedere l’autorizzazione a procedere, toccherà all’assemblea deliberare la restituzione degli atti ». (94) La richiesta di autorizzazione a procedere, pertanto, restava priva di risposta. Com’è stato efficacemente puntualizzato, con riferimento all’originario testo dell’art. 68 Cost., « gli organi parlamentari non sono infatti chiamati a deliberare su richieste che... non sarebbero mai dovute pervenire. Per i fatti coperti da immunità non va aperto procedimento penale, dato che è esclusa la loro antigiuridicità; e quindi non va richiesta autorizzazione. Se essa perviene (per errore o perché la magistratura ha dato una diversa valutazione dei fatti), viene restituita da parte del ramo del Parlamento interessato »: G. LONG, Commento all’art. 68 Cost., cit., 198 s. V., per alcuni esempi, anche G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità dei membri del parlamento, cit., 195. Cfr. R. MORETTI, Commento all’art. 68 Cost., cit., 412, che evidenzia come, a fronte della ritenuta insindacabilità, non sarebbe sufficiente da parte della Camera il mero diniego dell’autorizzazione a procedere, per l’efficacia meramente processuale di tale atto che fa salva la prosecuzione del processo al termine del mandato. Altra cosa è la prassi sviluppatasi nella « giurisprudenza » parlamentare, solitamente definita come insindacabilità « indiretta » o « impropria », per la quale, a fronte di una richiesta di autorizzazione a procedere, la Camera competente esprimeva il proprio diniego, motivandolo sulla base della riconducibilità del fatto contestato nell’alveo dell’art. 68, primo comma, Cost. Si dilatava, cioè, la portata applicativa di quest’ultima norma sino a ricomprendervi tutta l’attività politica del parlamentare e, dunque, non solo le dichiarazioni orali ma, altresì, fatti materiali avvenuti nel corso di manifestazioni politiche o sindacali. Con la differenza, in tal caso, che, rispetto alle ipotesi di insindacabilità « propria », la negata autorizzazione a procedere non avrebbe impedito di avviare un procedimento penale nei confronti dello stesso soggetto e per il medesimo fatto allo scadere del mandato. Su questo fenoneno, riconducibile all’uso dell’autorizzazione a procedere fatto dal Parlamento, v. O. DOMINIONI, Autorizzazione a procedere e salvaguardia del Parlamento, cit., 25 s.; G. LONG, Commento all’art. 68 Cost., cit., 197 s.; A. MANZELLA, Formazione della Camera - Stato giuridico del deputato - La verifica dei poteri - L’autorizzazione a procedere - L’accusa parlamentare, in II regolamento della Camera dei deputati. Storia, istituti, procedure, Roma, 1968, 149 s.; M. PACELLI, Fondamento e natura giuridica dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei membri del Parlamento, in Studi per il 20o anniversario dell’Assemblea Costituente, Firenze, 1965, 532 ss.; S. TRAVERSA, voce Immunità parlamentare, cit., 198, nt. 88; G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità, cit., 195, nt. 7; nonché, con specifico riferimento alla prassi costante di diniego dell’autorizzazione a procedere per i reati di diffamazione ed, in genere, per tutti i reati di opinione, v. U. ROSSI, L’estensione in via indiretta della prerogativa dell’insindacabilità, in Giur. it., 1991, IV, 237 ss.
— 125 — reato contestato ad un suo componente, dunque, costituiva un filtro attraverso il quale l’attività degli organi giudiziari doveva sempre passare, anche qualora avesse considerato inesistente la prerogativa dell’insindacabilità per una determinata ipotesi criminosa (95). La mancanza, oggi, di siffatto filtro, che operava, per i casi di insindacabilità, « in seconda battuta », rischia di individuare nel giudice l’unico depositario del potere di valutazione della prerogativa. Da qui l’esigenza di intervenire subito dopo l’abrogazione dell’autorizzazione a procedere con una disciplina di attuazione che, tra l’altro, prevedesse anche un meccanismo procedurale atto a rilevare l’insindacabilità in un giusto equilibrio dei rapporti tra poteri dello Stato. Il problema di fondo, infatti, è proprio quello di assicurare che Parlamento ed autorità giudiziaria possano esplicare le rispettive competenze nel pieno rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia riconosciute ad entrambi dalla Costituzione. Attribuire esclusivamente all’uno o all’altra il potere valutativo sull’insindacabilità significherebbe mettere seriamente in crisi, a seconda dei casi, uno dei suddetti principi. Di ciò era consapevole la Corte costituzionale che ha assegnato alla Camera di appartenenza del parlamentare il potere di riscontrare l’immunità sostanziale, ma non in via esclusiva. Si è, infatti, stabilito che tale potere è comunque suscettibile di controllo attraverso il conflitto di attribuzione attivabile, dinanzi alla Corte costituzionale, da parte della magistratura, ove quest’ultima ritenga che la decisione parlamentare sia inficiata da « vizi che incidono comprimendolo sulla sfera di attribuzione dell’autorità giudiziaria » (96). Nondimeno, la soluzione prospettata dalla Corte costituzionale se ha indubbiamente il pregio di considerare ammissibile il conflitto di attribuzioni tra magistratura e Parlamento in materia di prerogative dei componenti di quest’ultimo, sottolineando la natura non « arbitraria » delle delibere parlamentari relative alle immunità (97), lascia perplessi nella parte in cui affida in primis alla Camere la potestà di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse da un proprio componente. Si tratta, invero, di una soluzione che non trova conforto nel dettato normativo oltre che nella natura connotante la prerogativa de quo. A differenza della previgente autorizzazione a procedere o dell’attuale autorizzazione ad acta, nessun potere è attribuito al Parlamento dalla norma costituzionale. L’art. 68, primo (95) Con riferimento al procedimento civile ed alla mancanza, evidenziata dal giudice a quo, di una disciplina idonea a « sollecitare » il Parlamento affinché si pronunci in materia di insindacabilità, cfr. Corte cost., sent. n. 444 e n. 445 del 1993. (96) Corte cost., sent. n. 1150 del 1988, cit. (97) Sul punto, cfr. N. ZANON, La Corte costituzionale e la « giurisprudenza » parlamentare in tema di immunità, in Legisl. pen., 1989, 267 s.; ID., La Corte e la « giurisprudenza » parlamentare in tema di immunità: affermazioni di principio o regola del caso concreto?, in Giur. cost., 1988, 5595 ss.
— 126 — comma, Cost., è una disposizione rivolta agli organi giurisdizionali (98) affinché, nel momento in cui procedono contro un parlamentare, valutino l’esistenza o meno dell’immunità sostanziale e, in caso di esito positivo, ne prendano atto ponendo fine al processo. D’altro canto, l’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., muovendosi al pari di una scriminante, deve essere rilevata dal giudice, poiché « nell’ordine costituzionale delle competenze, l’interpretazione, e l’applicazione delle norme attinenti ai presupposti della punibilità e della procedibilità non possono che rientrare nella giurisdizione piena dell’Autorità giudiziaria » (99). Invero, an(98) In quest’ottica, del resto, potrebbe collocarsi la sent. n. 129 del 1996 nella parte in cui rileva che l’obbligo del giudice — il quale non ritenga di sollevare conflitto di attribuzione — di attenersi alla declaratoria parlamentare circa le sussistenza della prerogativa e dichiararla, « discende direttamente dalla norma costituzionale ». Cfr., altresì, Corte cost., sent. n. 443 del 1993, cit., ove, pur ribadendo che il potere di valutare la prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, Cost., spetta al Parlamento, si evidenzia come il giudice, a sua volta, può e deve pronunciarsi in proposito, soprattutto se il parlamentare eccepisce l’esistenza dell’immunità in giudizio e manchi una pronuncia da parte delle Camere. D’altro canto, si afferma, che la decisione parlamentare non può essere condizionata « dai criteri elaborati da organi della giurisdizione », poiché sarebbe « inammissibile ingerenza nella prerogativa parlamentare il pretendere di sovrapporre ai criteri seguiti dalla Camera quelli suggeriti da orientamenti giurisprudenziali dell’organo giudiziario ». Si tratta di affermazioni le quali se, da un lato, hanno l’effetto di escludere che il conflitto di attribuzioni possa divenire uno strumento cui ricorrere in via preventiva, prima che le Camere abbiano esercitato il loro potere valutativo, dall’altro lato finiscono « per incrinare quel principio del Parlamento come giudice esclusivo delle prerogative che la Corte vorrebbe invece riaffermare »: A. VALASTRO, La prerogativa parlamentare della insindacabilità all’indomani della l. cost. n. 3 del 1993, in Giur. cost., 1994, 3099. Sul punto, cfr., altresì, M. OLIVIERO, In tema di insindacabilità dei membri del Parlamento, in Giur. cost., 1994, 449; N. ZANON, voce Parlamentare (status di), in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 631. (99) Così G. ZAGREBELSKY, La riforma dell’autorizzazione a procedere, cit., 284; e, in prospettiva analoga, v. S. PANIZZA, La disciplina delle immunità parlamentari, cit., 616; F. POSTERARO, voce Prerogative parlamentari, cit., 5; R. ROMBOLI, La « pregiudizialità parlamentare », cit., 997; A. VALASTRO, La prerogativa parlamentare della insindacabilità, cit., 3098. Ciò, tra l’altro, anche in un’ottica di maggiore tutela per il terzo offeso dalla manifestazione del pensiero dei parlamentari. Problema, quest’ultimo, sul quale, nonostante la disattenzione a livello normativo, si è concentrata una parte della dottrina sollecitando la previsione di garanzie del singolo almeno in sede procedurale attraverso l’intervento nel conflitto di attribuzioni tra Parlamento e magistratura (così N. ZANON, La Corte e la « giurisprudenza » parlamentare, cit., 5602 s., rilevando come diversa sia la posizione del parlamentare il cui intervento nel conflitto può apparire opinabile ove si accolga l’impostazione tradizionale per cui titolare della prerogativa non è il singolo componente ma l’Assemblea nel suo complesso. Su quest’ultimo aspetto, con riferimento al parlamentare che voglia attivare un conflitto di attribuzioni avverso la decisione della Camera di appartenenza che lede la sua posizione, v., altresì, G. ZAGREBELSKY, Le immunità parlamentari. Natura e limiti di una garanzia costituzionale, Torino, 1979, 98 s.; e, per una vicenda analoga verificatasi nell’ordinamento spagnolo, cfr. Tribunal Constitucional, 22 luglio 1985, n. 90, Gracia Guillén c. Barral Agesta, in Foro it., 1986, IV, 149, con osservazioni di A. PIZZORUSSO). In prospettiva diversa, volta ad arginare il fenoneno della lesione dell’onorabilità del cittadino, si è propo-
— 127 — che qualora si volesse condividere il principio, al quale si è richiamata la sent. n. 1150 del 1988, secondo cui « le prerogative parlamentari non possono non implicare un potere dell’organo a tutela del quale sono disposte », ciò non significa che tale potere debbe necessariamente essere identificato con una pregiudiziale potestà decisoria. Piuttosto, il potere valutativo riconoscibile alle Camere può esplicarsi attraverso un conflitto di attribuzione sollevato da queste ultime come eventuale reazione ad un iniziale vaglio giurisdizionale sull’insindacabilità (100). Certo, convincente può apparire l’obiezione di chi si interroga sull’efficacia di un’immunità che, volta a delimitare i confini tra poteri dello Stato, sia poi rilevata da un soggetto terzo, l’autorità giudiziaria, la quale rappresenta il potere nei cui confronti l’immunità funge da limite (101). Tuttavia, senza voler sconfinare in valutazioni di carattere patologico attinenti all’uso che il Parlamento ha fatto delle proprie prerogative, non va dimenticato che « l’attribuzione di funzioni giurisdizionali o paragiurisdizionali ad organi di rappresentanza politica... ha sempre costituito oggetto di puntuale previsione a livello di costituzione formale » come nell’ipotesi, per esempio, del potere delle Camere riunite di mettere in stato di accusa il Presidente della Repubblica (102). Il controllo giurisdizionale, qualunque sia la natura che sto come rimedio l’attivazione di un procedimento interno alla Camera di appartenenza del parlamentare al pari di quanto avviene nei casi in cui un membro del Parlamento si ritenga offeso da un suo collega nel corso di una seduta (artt. 58 Reg. Camera e 88 Reg. Senato; e, in dottrina, C. CERETI, Diritto costituzionale italiano, 7a ed., Torino, 1966, 433; R. MORETTI, Sui limiti delle immunità parlamentari, in Giur. cost., 1976, 770 s.; G. VASSALLI, Punti interrogativi, cit., 199; G.P. VOENA, Conferenza stampa di un parlamentare e dichiarazioni diffamatorie, in questa Rivista, 1980, 319). Da ultimo, constatata l’attualità del problema, auspica che esso riceva una compiuta regolamentazione, M.C. GRISOLIA, L’insindacabilità dei membri delle Camere « per le opinioni espresse e i voti dati », cit., 45 s. Rilevanti, sotto il profilo della tutela del terzo, anche le osservazioni di Corte cost., sent. n. 129 del 1996, cit., in cui si afferma che il principio di indipendenza e autonomia del potere legislativo sancito dall’art. 68, primo comma, Cost., « sacrifica il diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino che si ritenga offeso nell’onore o in altri beni della vita da opinioni espresse da un senatore o deputato nell’esercizio delle sue funzioni ». (100) Cfr. G. ZAGREBELSKY, La riforma dell’autorizzazione a procedere, cit., 284. In prospettiva maggiormente specificatrice, v. A. PACE, Il « nulla osta » parlamentare, cit., 1134, ove si prospetta l’eventualità, del tutto legittima in quanto basata sul presupposto della parità tra poteri contrapposti, che la Camera di appartenenza, « anticipando il possibile (e temuto) provvedimento del giudice, possa, talvolta, statuire che una certa condotta parlamentare sia coperta dall’art. 68, 1o comma, Cost., conseguentemente costringendo l’autorità giudiziaria a reagire, lamentando una situazione di conflitti tra poteri ». In altri termini, « se si muove per prima una Camera, sarà la magistratura, valutate le circostanze, a dover sollevare il conflitto; se si muove per prima la magistratura, sarà la Camera, valutate le circostanze, a effettuare il ricorso ». (101) Così G. LONG, Un altro intervento della Corte che limita le immunità dei consiglieri regionali, in Giur. cost., 1994, 3807. (102) In tal senso, v. F. FARALLI, A proposito della portata delle immunità dei consiglieri regionali e della definizione del concetto di funzione, in Giur. cost., 1995, 3721, nt. 15.
— 128 — si ritiene voler attribuire all’insindacabilità, non può essere escluso né tantomeno relegato ad una posizione meramente reattiva alla preliminare delibera del Parlamento, sempre che, tuttavia, esso non si tramuti in un’interferenza nei riguardi del potere legislativo. Ciò non accadrà se il vaglio giudiziario si limita ad accertare la pertinenza dell’atto contestato con l’esercizio della funzione parlamentare, senza addentrarsi nella valutazione del merito. Attività che potrà essere agevolata da un intervento del legislatore mirato a rendere più chiaro e circostanziato l’àmbito di estensione della prerogativa contemplata dall’art. 68, primo comma, Cost. (103), consentendo, così, al giudice di porre in essere una pura operazione di riscontro circa la corrispondenza tra atto e compiti parlamentari suscettibili di specifica tutela. L’impostazione seguita dalla Corte costituzionale e presa a fondamento dalla normativa di attuazione preordinata dopo la riforma dell’art. 68 Cost. se già in passato destava perplessità, a maggior ragione ha dato adìto a dubbi una volta abrogato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, essendosi modificata la piattaforma legislativa sulla quale si basava la sent. n. 1150 del 1988 e mancando, dunque, uno dei presupposti fondamentali per l’argomentare di quest’ultima (104). Una fondamentale rile(103) In questa prospettiva si collocava l’art. 2, secondo comma, d.-l. n. 116 del 1996 (successivamente reiterato con identico contenuto sino all’ultima edizione dei decretilegge attuativi dell’art. 68 Cost.), qualificando come condotte riconducibili alle funzioni parlamentari la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, interpellanze e interrogazioni e, in genere, gli interventi nelle Assemblee o in altri organi delle Camere, nonché qualsiasi espressione di voto comunque formulata e ogni altro atto parlamentare. Si specificava, altresì che la prerogativa funzionale era applicabile anche « ad attività divulgative connesse, pur se svolte fuori dal Parlamento » (art. 2, terzo comma, d.-l. n. 116 del 1996). Lo sforzo, così tradotto, di definire l’area garantita dall’irresponsabilità parlamentare, rende manifesta la non ulteriore rinviabilità del problema, soprattutto dinanzi all’evoluzione e ai cambiamenti che, nell’odierna società, contrassegnano il « modo di fare politica », essendo, quest’ultima, sempre più espletata al di fuori delle sedi istituzionali. In particolare, si tratta di comprendere se l’insindacabilità vada applicata al soggetto in quanto ed esclusivamente come parlamentare ovvero quale parlamentare che esplica anche un’attività connessa ai rapporti con il partito di appartenenza e con il proprio elettorato. Se è vero che può apparire talvolta difficile discernere i confini tra funzione parlamentare e funzione politica, essendo gli stessi non di rado coincidenti (sull’individuazione di talune « zone di confine » e sulle problematiche connesse, cfr. A. VALASTRO, La prerogativa parlamentare della insindacabilità, cit., 3083 s.), è altresì vero che una distinzione si impone, rischiando, altrimenti, di veder turbato « l’equilibrio della contesa politica » tra colui che è parlamentare e colui che, pur svolgendo attività politica, non lo è (G. LONG, Commento all’art. 68 Cost., cit., 196 s.). (104) Cfr. A. PACE, Il « nulla osta » parlamentare, cit., 1134, che, con riferimento alla sentenza n. 129 del 1996, assume dei toni critici verso l’atteggiamento della Corte costituzionale che, nonostante sia stato abrogato l’istituto dell’autorizzazione a procedere e sia, dunque « mutato il quadro di riferimento », « continua a ritenere validamente utilizzabile la propria giurisprudenza in tema di conflitti tra poteri conseguenti a fattispecie di (vere o presunte) insindacabilità parlamentari ».
— 129 — vanza acquisisce, infatti, il venir meno, nell’odierno assetto costituzionale, di una delle due prerogative alle quali la Corte, pur marcandone la differenza, faceva riferimento per desumere complessivamente la competenza del Parlamento a deliberare sull’insindacabilità. In particolare, è stata eliminata dall’ordinamento proprio l’immunità processuale dalla cui previsione era dato con più immediatezza arguire un’espressa attribuzione di poteri alle Camere. Il risultato è quello di far apparire il primo comma dell’art. 68 Cost. nella sua vera essenza di norma non in grado di fornire il fondamento necessario a « quel giudizio sulla esistenza delle condizioni per la insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari che la Corte ha riconosciuto in esclusiva alla Camera competente, anziché al giudice procedente » (105). Tuttavia, se è pur vero che la scomparsa dal nostro ordinamento di un’autorizzazione parlamentare come condizione necessaria ai fini della procedibilità dell’azione penale rappresenta indubbiamente un segno dei tempi di cui il legislatore si è fatto interprete intervenendo sul panorama generale delle prerogative, è altresì vero che, a tutt’oggi, permangono delle forme di condizionamento sul processo da parte delle Camere. Il riferimento è alle c.d. autorizzazioni ad acta, contemplate dall’art. 68, secondo e terzo comma, Cost. (106), che continua a prevedere dei poteri autorizzativi espressamente attribuiti al Parlamento. Malgrando l’intuibile differenza di funzioni e portata tra i due diversi tipi di autorizzazioni, un’interpretazione puramente formale del dettato legislativo tra passato e presente potrebbe non fornire argomenti sufficienti per ovviare alla pretesa di attribuire agli organi parlamentari il potere di giudicare delle proprie immunità. A questo fine, appare più proficuo far perno sulla distinzione esistente, all’interno dell’art. 68 Cost., tra il primo comma e i restanti due: l’uno, nello specificare la prerogativa funzionale, non individua alcun organo competente a dichiararla, gli altri, nel disciplinare le autorizzazioni ad atti dell’autorità giudiziaria, identificano nel Parlamento il soggetto istituzionale cui spetta il potere di rilasciarle. Le lacune appena prospettate necessitano di un intervento legislativo che detti regole certe per la rilevabilità della prerogativa sostanziale spettante ai parlamentari. I decreti-legge finalizzati all’attuazione del riformato art. 68 Cost., succedutisi dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 1993 ad oggi, miravano anche a questo scopo. La natura del (105) Cfr. R. ROMBOLI, La « pregiudizialità parlamentare », cit., 998; e, analogamente, S. PANIZZA, La disciplina delle immunità parlamentari, cit., 615. (106) L’autorizzazione della Camera competente è necessaria per poter sottoporre il parlamentare a perquisizione personale o domiciliare, ad arresto o altre privazione della libertà personale (art. 68, secondo comma, Cost.), nonché ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza (art. 68, terzo comma, Cost.).
— 130 — provvedimento d’urgenza, però, non ha garantito certezza e stabilità sia sotto il profilo dei contenuti, mutati più di una volta, che dell’efficacia temporale (107). Il discorso, tra l’altro, va oltre i confini dell’immunità parlamentare per accedere anche alle forme di irresponsabilità riconosciute dal nostro ordinamento a consiglieri regionali, componenti del Consiglio superiore della magistratura e giudici costituzionali (108). Si può dire, infatti, che, seguendo il ragionamento compiuto dalla Corte costituzionale e adottato nella disciplina attuativa dell’art. 68 Cost., l’insindacabilità delle opinioni espresse dagli anzidetti soggetti nell’esercizio delle loro funzioni dovrebbe, a sua volta, essere dichiarata dall’organo rappresentativo (109). Benché sotto alcuni espetti discusso e discutibile, il contenuto della normativa di attuazione dell’art. 68 Cost. aveva il pregio di fissare per la prima volta regole certe sull’operatività della prerogativa funzionale prevista per l’attività parlamentare. Allo stato attuale, vi è un vuoto normativo di cospicua entità e rilevanza per la vita dell’ordinamento costituzionale che esige di essere colmato definitivamente e al più presto. Si è, infatti, ritornati ad una situazione corrispondente a quella anteriore all’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 1993, con la non trascurabile differenza che è stato abolito l’istituto dell’autorizzazione a procedere e qualcosa è (107) Sui disagi e le scelte inesatte o inopportune compiute tanto dalla magistratura quanto dal Parlamento a causa di simile mancanza di chiarezza, v. M.C. GRISOLIA, L’insindacabilità dei membri delle Camere, cit., 41 ss. (108) Ritiene che il meccanisno deliberativo in materia di insindacabilità disciplinato dalle norme di attuazione dell’art. 68 Cost. sia estensibile anche a questi soggetti, tenendo conto delle eventuali differenze, v. R. ORLANDI, La riforma dell’art. 68 Cost. e la normativa di attuazione, cit., 549 s. (109) In proposito, cfr. Corte cost., sent. n. 274 del 1995 e n. 432 del 1994, ove, risolvendo dei conflitti di attribuzioni sollevati dalle Regioni nei confronti dello Stato in relazione a provvedimenti adottati dall’autorità giudiziaria riguardanti consiglieri regionali, ci si è limitati, nell’un caso, ad escludere e, nell’altro, ad ammettere che spetta allo Stato, e per esso al giudice delle indagini preliminari, sindacare l’attività di un membro del Consiglio regionale, motivando tali decisioni sulla base della ritenuta o meno presenza, nella fattispecie, di un’attività rientrante tra quelle suscettibili di tutela ex art. 122, quarto comma, Cost. Pertanto, la Corte costizionale, non avendo individuato, in termini generali, il soggetto competente a pronunciarsi sull’insindacabilità dei consiglieri regionali, lascerebbe implicitamente intendere che la valutazione sulla sussistenza della prerogativa funzionale sia riservata agli organi giudiziari con la possibilità per il Consiglio regionale di salvaguardare le proprie prerogative attraverso il conflitto di attribuzioni. Sul punto, cfr. F. FARALLI, A proposito della portata delle immunità dei consiglieri regionali, cit., 3722; G. LASORELLA, Sui confini delle attività insindacabili ai sensi dell’art. 122, quarto comma, della Costituzione: una decisione che desta perplessità, in Le Regioni, 1995, 977, criticamente verso la giurisprudenza oscillante della Corte costituzionale che, da un lato, « delimita con sempre maggiore precisione e pervasività l’insindacabilità dei consiglieri regionali, dall’altro consente, con le proprie pronunce... interpretazioni sempre più estensive (addirittura conferendo il potere di autodefinirne i confini) di quella dei membri del Parlamento ».
— 131 — mutato nel delicato equilibrio che regge i rapporti tra Parlamento e magistratura. Nell’incertezza, unico punto di riferimento resta l’impostazione data dalla Corte costituzionale che, però, non attribuisce alcun rilievo, ai fini della deliberazione sull’insindacabilità, alle modifiche legislative di rango costituzionale intervenute a proposito delle immunità parlamentari (110). Permangono, peraltro, in assenza di un chiaro dettato legislativo, privi di risposta quesiti (111) ai quali l’attività interpretativa di dottrina e giurisprudenza (112) può sì fornire soluzioni valide ed adeguate, ma non pone al riparo da oscillazioni applicative che potrebbero cagionare un disorientamento non indifferente sia per gli operatori del diritto che per l’opinione pubblica. MARIANGELA MONTAGNA Dottore di ricerca Università di Perugia
(110) Cfr. Corte cost., sent. n. 379 del 1996, cit., n. 129 del 1996, cit., e n. 443 del 1993, cit. (111) Il riferimento è all’estensione oggettiva della prerogativa; al soggetto competente a deliberarne l’esistenza; al meccanismo di rilevazione; agli eventuali controlli; nonché agli esiti processuali del procedimento penale il cui svolgersi risulti inibito da un’immunità di carattere funzionale, come l’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. (112) A fronte del vuoto normativo generato dalla mancata conversione del decretolegge, evidenzia come l’effetto principale sarà quello di « lasciare l’autorità giudiziaria ‘‘sola’’ e ‘‘più libera’’ di fronte ai problemi interpretativi » posti dall’applicazione dell’art. 68 Cost., R. ORLANDI, L’immunità parlamentare dopo la mancata conversione del d.-l. che regolava l’attuazione dell’art. 68 Cost., in Dir. pen. e proc., 1997, 15 ss.
IL CONCORSO COLPOSO TRA VECCHIE E NUOVE INCERTEZZE
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il complesso rapporto tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti: le aporie sorte in seno alla dottrina tradizionale. — 3. Segue: le « forme » della partecipazione ed il problema della dilatazione della tipicità colposa. — 4. L’elemento soggettivo del concorso colposo in giurisprudenza ed in dottrina: considerazioni critiche. — 5. La consapevolezza di cooperare con altri come « minimo comun denominatore » di tutte le fattispecie plurisoggettive eventuali, dolose e colpose. — 6. Segue: riflessi sulla funzione svolta dall’art. 113 c.p. all’interno del sistema penale. — 7. La generale vocazione incriminatrice dell’art. 113 c.p. e gli itinerari di una ragionevole interpretazione restrittiva.
1. La vicenda, all’interno del nostro sistema penale, della disposizione sulla cooperazione nel delitto colposo (1) è certamente singolare. L’art. 113 c.p., vera « novità » del codice Rocco, nasce come norma desti(1) Sulla cooperazione nel delitto colposo v., in generale, ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, 179; ALDOVRANDI, Il concorso di persone nel reato colposo: rassegna critica di giurisprudenza, in Indice pen., 1994, 104; ID., in Codice penale a cura di T. Padovani, 1997, sub art. 113; ALIBRANDI, Considerazioni sulla partecipazione nel delitto colposo, in Riv. pen., 1988, 490; ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Arch. pen., 1983, 67; ALICE, Il concorso colposo in fatti contravvenzionali, in questa Rivista, 1983, 1027; BERSANI, Appunti sulla funzione della cooperazione colposa nella sistematica del c.p., in Riv. pen., 1995, 999; BOSCARELLI, Contributo alla teoria del « concorso di persone nel reato », Padova, 1958, 95; COGNETTA, La cooperazione nel delitto colposo, in questa Rivista, 1980, 63; DASSANO, Colpa specifica ex art. 586 e funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p.: un’erronea applicazione in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in questa Rivista, 1977, 397; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, 515; FROSALI, L’elemento soggettivo del concorso di persone nel reato, in Arch. pen., 1947, I, 8; M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, 125; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, 1993, 450; GRASSO in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, 1996, sub art. 113; INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, 1988, 478 e ss.; LATAGLIATA, voce Cooperazione nel delitto colposo, in Enc. dir., X, 1962, 609; PANNAIN, Manuale di diritto penale. Parte generale, I, Torino, 1967, 885; PARODI-NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di Bricola e Zagrebelsky, 1996, 125 ss; PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, 1952, 74; PIETROLUCCI, Brevi note sui limiti entro i quali può trovare applicazione il concorso di persone nel reato colposo ex art. 113 c.p. in materia di incidenti stradali, in Temi Romana, 1990, 247; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988.
— 133 — nata a risolvere autoritativamente la vivace disputa sulla stessa configurabilità di una partecipazione criminosa nel delitto colposo, per lo più negata, com’è noto, dalla dottrina allora prevalente (2). Ciononostante, alcuni autori e la giurisprudenza hanno per lungo tempo manifestato forti riserve sulla previsione in esame, ritenendo che essa integrasse comunque una forma « impropria » di concorso di persone nel reato (3). In essa, infatti, non sarebbe ravvisabile il vero dato qualificante della partecipazione criminosa, rappresentato dalla comune volontà di cagionare l’evento lesivo. Dal canto suo la dottrina più recente, pur negando la natura « impropria » del concorso colposo (4), tende a circoscriverne la funzione e l’ambito di operatività, giungendo a volte ad auspicare persino l’eliminazione de iure condendo dell’art. 113 dalla parte generale del codice penale (5): attribuire alla disposizione in tema di cooperazione colposa una piena efficacia estensiva della punibilità, analoga a quella di cui è dotato l’art. 110 c.p., equivarrebbe a stravolgere i principi generali che regolano la respon(2) È interessante, a riguardo, ricordare quanto già affermava il CARRARA, Grado della forza fisica del delitto, in Opuscoli di diritto criminale, 1878, par. 196, sulla incompatibilità tra colpa e concorso di persone: « Concorso di azione senza concorso di volontà. Mi affretto a dire che in questo caso non possono mai sorgere i termini della complicità. Non può aversi innanzi alla legge punitiva responsabilità di un fatto, se non concorre responsabilità morale. E responsabilità morale non può essere dove non trovisi la intenzione diretta al fine delittuoso. La complicità non può risultare da una contingente convergenza di fatti, senza una positiva convergenza di voleri ». Per altri essenziali riferimenti storici alla fattispecie del concorso colposo, si fa rinvio ai contributi di BATTAGLINI, In tema di concorso di più persone nel reato colposo, in Giust.pen., 1931, 93; BETTIOL, Sul concorso di più persone in delitto colposo, in Riv. it. dir. pen., 1930, 672 ss.; DEL VECCHIO, Cooperazione nel delitto colposo, in Riv. pen., 1933, 33; FEROCI, Concorso in reato colposo e concorrenza (o meglio: coincidenza) di colpa, in Riv. it. dir. pen., 1931, 73 ss.; RENDE, Cooperazione in delitto colposo e concorso di colpe, in Riv.pen., 1936, 396; SPASARI, Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone nel reato colposo, Milano, 1956, 8. (3) In dottrina, per tutti, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, XIII ed., Milano, 1994, 537. In giurisprudenza cfr., ad es., Cass. pen., Sez. I, sent. 7611 del 30 luglio 1981 (ud. 26 maggio 1981), in Foro it., 1982, parte II, 421, con nota di M. BOSCHI; nello stesso senso Cass. pen., Sez. I, sent. 6150 del 6 luglio 1979 (ud. 12 marzo 1979), in Giust. pen., 1980, parte III, 341. Ancor più significativa, a riguardo, appare Cass. pen., Sez. I, sent. 7314 del 29 agosto 1979 (ud. 4 aprile 1979), in Riv. pen., 1980, 62, dalla cui massima si evince che « il reato concorsuale è un reato a struttura unitaria nel quale l’azione tipica è costituita dall’insieme degli atti dei singoli compartecipi. In esso, gli atti dei singoli compartecipi sono, nello stesso tempo, atti loro propri ed atti comuni a tutti gli associati, dei quali, perciò, ciascuno risponde unitariamente. Il carattere unitario del reato concorsuale si basa, sotto l’aspetto oggettivo, sulla evidente connessione causale degli atti dei singoli compartecipi e, sotto l’aspetto soggettivo, sul nesso finalistico esistente tra tali atti, intesi dai singoli come parti di un tutto unitario: donde la esclusione del concorso vero e proprio nel reato colposo ». (4) Cfr. COGNETTA, La cooperazione, cit., 64, e, di recente, SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 22 e ss. (5) ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 67 e ss.
— 134 — sabilità colposa (6) e, soprattutto, realizzerebbe un’intollerabile violazione del principio di frammentarietà (7). È stato autorevolmente sostenuto, a riguardo, che le deroghe al principio di frammentarietà sarebbero giustificabili sul solo versante del reato doloso, posto che soltanto il dolo di concorso è in grado di supplire all’atipicità originaria del fatto del partecipe (8). Più in generale, attenta dottrina ritiene inconciliabile con la più recente evoluzione della teoria della colpa l’ipotizzare che la condotta del concorrente possa non essere di per sé colposa (9). Tali preoccupazioni appaiono in qualche misura eccessive: dal momento che, infatti, la atipicità è la caratteristica precipua di tutte le condotte di partecipazione, siano esse dolose o colpose, non si può insistere oltre un certo limite nel denunciare l’incompatibilità del concorso colposo con i principi di tipicità e di frammentarietà, senza con ciò vanificare la scelta politico-criminale a suo tempo effettuata dal legislatore attraverso l’art. 113 c.p. Occorre, piuttosto, approfondire ed individuare con attento vaglio selettivo i presupposti, il contenuto ed i limiti di rilevanza di eventuali condotte colpose atipiche. Del resto, i problemi nascenti dalla disposizione sulla cooperazione colposa non sembrano facilmente risolvibili né sostenendo la sua superfluità all’interno del nostro sistema penale, né tantomeno negando alla fattispecie in esame una efficacia estensiva della punibilità in rapporto ai reati causalmente orientati. Si è affermato in particolare che una abrogazione dell’art. 113 c.p. non creerebbe certo intollerabili lacune di tutela, visto che eventuali forme di semplice partecipazione all’altrui fatto colposo, pur astrattamente ipotizzabili, non apparirebbero per ciò solo degne di autonoma considerazione penalistica : sarebbe, a riguardo, significativo il raffronto con la legislazione penale tedesca, che, com’è noto, non riconosce alcuna figura e forma di concorso colposo (10). E la stessa funzione di disciplina svolta dall’art. 113 c.p. in rapporto ai reati causali puri si rivelerebbe inutile: in assenza della previsione in tema di cooperazione col(6) Per i riferimenti essenziali sul reato colposo, si fa rinvio a CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, 1990; M. GALLO, voce Colpa penale, in Enc. dir., VII, 1960, 624; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, cit.; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, 1965; PADOVANI, Il grado della colpa, in questa Rivista, 1969, 819; PIOLETTI, Fattispecie soggettiva e colpevolezza nel delitto colposo. Linee di una analisi dogmatica, in questa Rivista, 1991, 529; ID., Contributo allo studio del delitto colposo, 1991; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 1995, sub art. 43, 60. Sui rapporti tra l’art. 113 ed i principi generali in materia di responsabilità colposa, v. diffusamente infra, n. 4 e ss. (7) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 519. (8) ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 75. (9) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 515 ss. (10) ANGIONI, Il concorso, cit., 75.
— 135 — posa, una pluralità di condotte già intrinsecamente colpose sarebbe riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 41, comma terzo c.p., la cui linea di confine rispetto all’art. 113 c.p. è stata — ed è ancora — ritenuta pressoché impalpabile (11). Ora tali affermazioni, come acutamente evidenziato di recente (12), producono l’effetto di spostare il problema relativo ai limiti di tipicità della condotta colposa all’interno della fattispecie monosoggettiva, con il rischio di attribuire una (originaria e dubbia) tipicità colposa a comportamenti che potrebbero più dignitosamente meritare tale qualifica per il tramite di una (apertamente riconosciuta) funzione estensiva dell’art. 113 c.p. Sostenere che, in rapporto ai reati causali puri, l’art. 113 c.p. possiede solo una funzione di disciplina, significa invero accreditare, senza il necessario vaglio critico, che qualunque condotta concorsuale contraria ad un generico dovere obiettivo di diligenza, anche se priva di una immediata connessione di rischio rispetto all’evento lesivo, possa già autonomamente rilevare ai sensi della singola fattispecie incriminatrice di parte speciale di volta in volta in questione. Ma siffatta conclusione è di dubbia compatibilità con il disposto dell’art. 43 c.p., il quale richiede espressamente che l’evento sia conseguenza dello specifico pericolo che la regola cautelare violata mirava a prevenire (13). Una importante conferma dell’attuale tendenza a trasferire incautamente il problema dell’anticipazione della soglia della tipicità colposa sul versante del reato monosoggettivo viene offerta proprio dal dibattito sviluppatosi in Germania, « dove, in assenza di una fattispecie generale analoga a quella di cui all’art. 113 c.p., le ipotesi che da noi vengono ricondotte nell’ambito della cooperazione colposa sono per lo più discusse (e ammesse) già sulla base della fattispecie monosoggettiva causalmente orientata » (14). Estremamente significativa, a riguardo, è la controversa diatriba sulla configurabilità di una fahrlässige mittelbare Täterschaft, che induce parte della dottrina a ritenere punibile, sulla sola base della norma incriminatrice (questa volta addirittura a forma vincolata) in tema di falso giuramento colposo di cui al par. 163 StGB, chi abbia concorso colposa(11) La pretesa identità strutturale tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti è, come vedremo, uno dei più impegnativi ostacoli all’attribuzione di una piena autonomia dogmatica e politico-criminale all’art. 113 c.p.: cfr. infra, n. 2. (12) GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, I, cit., 82 ss. (13) Secondo FORTI, Colpa, cit., 418 è proprio questa la presa di posizione del legislatore italiano. Essa ha una valenza prettamente garantistica: dietro l’esigenza di individuare affidabili criteri di imputazione oggettiva dell’evento vi è infatti la necessità di evitare la sovrapposizione tra colpa e versari in re illicita. Inoltre, l’individuazione del Risikozusammenhang tra condotta ed evento riveste di significato la stessa violazione della diligenza dalla cui precisazione soltanto acquista una definita fisionomia il fatto colposo tipico nel suo insieme. (14) GIUNTA, Illiceità, cit., 83 (corsivo nostro).
— 136 — mente alla determinazione di tale evento (15). È dunque tutt’altro che scontato che la mancanza, in un determinato sistema penale, della figura del concorso colposo costituisca di per sé sicuro presidio nei confronti di una dilatazione della responsabilità colposa. La verità è che la sede più idonea per discutere dei margini più problematici di rilevanza della colpa è costituita dalla categoria delle forme di manifestazione del reato, di cui la disposizione in tema di cooperazione colposa potrebbe rivelarsi, ad onta del perdurante scetticismo o dell’aperta avversione della dottrina italiana, parte integrante e significativa (16). Non si vede invero la ragione per cui, in presenza di una disposizione come l’art. 113 c.p., il problema — comunque aperto, come dimostra l’esperienza penalistica d’oltralpe — dell’estensione dell’ambito della tipicità colposa non debba essere esaminato nel più adeguato contesto dell’ampliamento dei margini originari di incriminazione delle condotte punibili promosso dalle clausole generali previste dal legislatore del 1930 in tema di concorso di persone nel reato. Un raffronto testuale tra gli artt. 110 e 113 c.p. rivela subito che siamo di fronte a due previsioni assolutamente omogenee, perché frutto della medesima tecnica normativa (17). A (15) CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, München, 1991, XXIV ed., sub par. 25, 59. La prevalente dottrina d’oltralpe ritiene invece che nei delitti colposi non sia necessario configurare forme di complicità né, tanto meno, di reità mediata. Tali figure sembrano infatti concepibili esclusivamente sul versante del reato doloso, dove delimitano e distinguono l’una dall’altra le diverse tipologie di partecipazione criminosa. Viceversa, le fattispecie colpose di evento causalmente orientate sono strutturalmente « omnicomprensive », essendo autonomamente applicabili a tutte le forme del comportamento umano purché sia configurabile la violazione di una regola cautelare di condotta. Di conseguenza, è possibile parlare di un Einheitstäter nei delitti colposi causali puri. Ciò non varrebbe, tuttavia, secondo la dottrina più sensibile al rispetto del canone della frammentarietà, per i delitti colposi a forma vincolata: in queste ipotesi, solo l’esecuzione di mano propria della condotta tipizzata può essere qualificabile come reità. Ad es., nella fattispecie di cui al par. 163 StGB (falso giuramento colposo), è punibile soltanto colui che giura colposamente il falso, non anche chi, in altra maniera, provochi colposamente un falso giuramento. (16) La categoria delle c.d. « forme di manifestazione del reato » ricomprende, nel senso qui accolto, quelle clausole — contenute nella parte generale del nostro c.p. (quali gli art. 40 cpv., 56 e 110 c.p) — dotate di efficacia estensiva della punibilità ed idonee, pertanto, a creare livelli di criminalizzazione in secondo grado (o addirittura in terzo grado, in caso di loro reciproca « combinazione ») di condotte non direttamente riconducibili alle fattispecie incriminatrici di parte speciale. Sui rapporti tra forme di manifestazione del reato e principi fondamentali della materia penale cfr., in particolare, DE VERO, Le forme di manifestazione del reato in una prospettiva di nuova codificazione penale, in AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 195 e ss. (17) Conferma dell’omogeneità strutturale esistente tra gli artt. 110 e 113 c.p. è, del resto, fornita dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo del c.p., laddove si legge che « la scientia maleficii ha un contenuto fondamentale, che è comune ed identico a tutte le forme di partecipazione e rispetto a tutti i reati, e consiste nella consapevolezza di concorrere, con la propria azione, all’azione altrui. Tale consapevolezza è ipotizzabile in tutte le
— 137 — prima vista, anzi, la formulazione testuale dell’art. 113 risulta addirittura più incisiva e precisa di quella che contraddistingue l’art. 110 : mentre l’art. 110 incrimina chiunque concorra nel medesimo reato, l’art. 113 incentra la sua struttura sulla cooperazione nella produzione dell’evento lesivo, sottolineando così il profilo della consapevole interazione personale tra le condotte dei concorrenti ed il delitto realizzato (18). Da qui l’importanza di comprendere appieno cosa si intenda per cooperazione nella causazione dell’evento colposo e quali linee distintive separino il concorso colposo dal concorso di cause colpose indipendenti ex art. 41, comma terzo c.p.: la presente indagine mira appunto a ridefinire il significato e la reale portata del concorso colposo alla luce delle caratteristiche tipiche delle clausole generali di incriminazione presenti nel nostro codice penale. Sarà, a tal fine, necessario verificare se la cooperazione colposa possa — ed in che limiti — rivendicare una sua piena autonomia rispetto alla fattispecie di cui all’art. 41, comma terzo e 43 c.p., per poi individuare forme e contenuto della (vera e propria) partecipazione colposa. Solo su queste basi sarà possibile stabilire se la disposizione di cui all’art. 113 c.p. sia in contrasto insanabile con il principio di frammentarietà e conseguentemente meritevole, de iure condendo, di una radicale eliminazione o se non sia piuttosto bisognevole, de iure condito, di una ragionata interpretazione restrittiva, che ne valorizzi la ratio senza il pericolo di applicazioni distorte. 2. Come già accennato, una delle questioni più controverse sollevate dall’art. 113 c.p. riguarda senza dubbio la incerta linea di demarcazione che separa il concorso colposo dall’affine figura del concorso di cause colpose indipendenti ex art. 41, comma terzo e 43 c.p., caratterizzato dal convergere autonomo di più condotte colpose tutte dotate di efficacia eziologica rispetto all’evento lesivo. Sulla distinzione in esame si è detto che essa sia un problema « immaginario » (19), posta l’impossibilità di distinguere due fattispecie oggettivamente identiche; o ancora che essa, stante l’assoluta omogeneità dei due istituti, dovrebbe ravvisarsi unicamente sotto il profilo della presenza — o dell’assenza — di un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti (20). possibili forme di attività criminose realizzate da più persone, e perciò non v’è ragione di escludere il concorso nei reati colposi e nelle contravvenzioni ». Sul punto, BATTAGLINI, In tema di concorso, cit., 96. (18) Secondo PEDRAZZI, Il concorso, cit., 69, l’espressione « cooperazione » è più efficace del termine « concorso »: « salvo sfumature, il nucleo del concetto richiama l’idea di contributo causale ». (19) Così, testualmente, BOSCARELLI, Contributo, cit., 98. (20) Per tutti, GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit.,II, sub art. 113, 3, ed
— 138 — Tuttavia, in tempi recenti, il discrimen si rivela più ambiguo ed articolato: se alcuni Autori, da un lato, identificano il confine tra concorso colposo e concorso di fatti colposi indipendenti nel mero « legame psicologico » che qualifica l’art. 113 (21), dall’altro sembrano ammettere, quanto meno in relazione ai reati a forma vincolata, che la condotta del concorrente possa non essere di per sé colposa: eventualità, questa, in cui mancano, ovviamente, più fatti colposi, indipendenti o meno (22). Data la complessità della materia trattata, si rivela quanto mai opportuna una rapida ricognizione dei principali orientamenti della dottrina. Questa essenziale operazione consentirà di individuare due moduli argomentativi di rilievo determinante nel prosieguo della presente indagine: a) si dovrà, in primo luogo, verificare i limiti entro i quali il concorso colposo ed il concorso di cause ex art. 41, comma terzo c.p., siano istituti « gemelli » o, quanto meno, omogenei: tale disamina si concentrerà, ovviamente, sul profilo oggettivo delle due fattispecie in esame, onde verificare se l’art. 113 possa rivendicare piena autonomia strutturale e funzionale rispetto al concorso di fatti colposi indipendenti (23); b) solo successivamente, l’indagine si sposterà sulla consistenza e sul ruolo effettivamente svolti dal legame « psicologico » tra le condotte dei concorrenti nel reato colposo (24), al fine di chiarire se esso sia, come sostenuto di recente, estraneo alla struttura del reato colposo anche in una manifestazione plurisoggettiva (25) ovvero se proprio sul terreno del concorso di persone il legame soggettivo tra le condotte abbia una sua precisa ragion d’essere. Una considerazione preliminare si impone: tutti gli orientamenti qui esaminati giungono, per vie diverse, alla conclusione secondo la quale concorso colposo e concorso di cause colpose sono istituti quanto meno strutturalmente affini, quasi « sovrapponibili ». Eppure, ad una analisi critica delle varie argomentazioni sulla cui base viene ribadita la pretesa somiglianza tra i due fenomeni (e la conseguente superfluità dell’art. 113 c.p.), emerge l’esatto contrario: non solo, cioè, le due fattispecie hanno differente natura giuridica, ma hanno anche diversa struttura, potendo Autori ivi citati. Questo sembra essere anche l’orientamento seguito dalla giurisprudenza prevalente. V., ad es., Cass.pen., Sez. IV, sent. 4896 del 21 aprile 1988 (ud. 23 novembre 1987), inedita, e Sez. I, sent. 6247 del 24 giugno 1982 (ud. 18 marzo 1982), in Giur. it., 1983, parte II, 252. (21) Cfr., per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 515 ss. (22) FIANDACA-MUSCO, loc. ult. cit. Ribadisce l’assoluta autonomia strutturale tra concorso di cause e cooperazione colposa in reati a forma vincolata SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 94 e ss. Secondo l’Autrice, il vero punto di contatto tra i due istituti si rinviene sul terreno dei reati causalmente orientati. (23) V. infra, n. 3. (24) Infra, nn. 4 e 5. (25) Da ultimo, GIUNTA, Illiceità, cit., 452.
— 139 — l’art. 113 c.p. ricomprendere nel suo ambito di operatività condotte atipiche di semplice partecipazione, che non integrerebbero di per sé gli estremi degli artt. 41 e 43 c.p. Definitivamente tramontata sembra essere la tesi, a lungo seguita dalla giurisprudenza (26), secondo cui nella cooperazione colposa si avrebbe unità di reato con pluralità di concorrenti, mentre nel concorso di cause colpose indipendenti si avrebbe pluralità di reati con un unico evento: tesi, questa, che, a ben vedere, sembra quasi voler ribadire, più che escludere, una identità sostanziale tra le due fattispecie. Non deve stupire, dunque, che si sia — a suo tempo — rilevato che « siavi o non siavi adesione psichica, non v’è dubbio che tutte le condotte colpose contribuiscono alla produzione dell’evento », il quale rappresenta sempre « la consumazione di un unico delitto » naturalisticamente inteso (27). In realtà, l’inadeguatezza del criterio in esame risiede nella sua natura meramente formale-classificatoria: esso nulla può suggerire ai fini della presente indagine, poiché nulla dice sulla natura delle condotte colpose, indipendenti o meno, e sulla loro diretta o indiretta connessione di rischio rispetto all’evento lesivo. Degno di rilievo, perché parzialmente recuperato di recente da quegli Autori che negano l’afferenza strutturale di componenti psicologiche al fenomeno della cooperazione (28), è poi l’orientamento che ritiene impossibile — quanto meno in relazione al concorso colposo in reati causali puri — una qualunque distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti (29). Il legame psicologico tra le condotte dei concorrenti si rivelerebbe, cioè, estraneo alla natura ed all’essenza del concorso colposo, « potendo darsi che la colpa di chi realizzi una simile fattispecie implichi proprio la mancata rappresentazione di una condotta di un soggetto col quale l’agente cooperi e, quindi, l’inconsapevolezza di cooperare » (30). È stato, del pari, sostenuto che la distinzione tra i due istituti non ha motivo di esistere, in quanto « l’identità dell’evento rende unico il reato nell’uno e nell’altro caso ». In questa prospettiva, anzi, la presenza di un collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti apparirebbe inutile e, per certi aspetti, fuorviante, visto che nulla autorizzerebbe a ritenere esistente la consapevolezza nella cooperazione ed a escluderla nel concorso di cause (31). Ora, una tale impostazione offre inevitabilmente il fianco a diversi rilievi critici. (26) V., ad es., Cass. pen., Sez. IV, sent. 12593 del 26 novembre 1980, inedita. (27) PANNAIN, Manuale, cit., 887. (28) Per tutti, GIUNTA, Illiceità, cit.,452. (29) BOSCARELLI, Contributo, cit., 95, e, di recente, SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 98. (30) BOSCARELLI, loc. ult. cit. (31) PANNAIN, Manuale, cit., 887.
— 140 — In primo luogo, essa finisce con lo svuotare di qualunque significato ed utilità la disposizione di cui all’art. 113. Siffatta conclusione è però preclusa dal pressoché unanime riconoscimento, ad opera della dottrina più recente, di una funzione estensiva della punibilità della disposizione in esame in rapporto quanto meno ai reati colposi a forma vincolata (32). In relazione a questa categoria di delitti, la norma sulla cooperazione avrebbe efficacia costitutiva ex novo dell’incriminazione di condotte originariamente atipiche: è allora evidente che cooperazione colposa e concorso di cause non sono due istituti pienamente sovrapponibili e, soprattutto, che essi hanno caratteristiche diverse già a livello oggettivo. Di conseguenza, la necessità di tenere distinti i due fenomeni non è affatto un problema « immaginario ». Vi è, poi, da chiedersi se realmente il legame psicologico tra le condotte dei concorrenti sia del tutto estraneo al fenomeno della cooperazione colposa. Oggi si sostiene che esso si rivelerebbe superfluo nelle ipotesi di concorso colposo in reati causali puri, dove l’art. 113 c.p. svolgerebbe una semplice funzione di disciplina. Ciò non varrebbe più nel diverso caso di concorso colposo in reati a forma vincolata, dove proprio il collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti giustificherebbe l’incriminazione di condotte atipiche (33). Ma, se così stanno le cose, l’elemento soggettivo acquista un rilievo fondamentale nell’ambito della funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. Non può, pertanto, essere ritenuto un carattere meramente eventuale della cooperazione colposa (34). Non stupisce, allora, che l’orientamento più seguito dalla dottrina ravvisi proprio nel collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti la linea di confine tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti (35). Tuttavia, se appare certo che alcuni autori ritengono l’elemento soggettivo l’unica nota distintiva tra due istituti sostanzialmente identici (36), altra parte della dottrina afferma invece che, in pre(32) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 94: nelle fattispecie colpose a forma vincolata, « il problema della differenziazione neppure si pone, poiché ci troviamo di fronte a condotte originariamente atipiche che concorrono colposamente con condotte tipiche e ciò distingue tale ipotesi, già sul piano meramente descrittivo, rispetto a quella del concorso di cause colpose indipendenti ». Persino ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 74 e ss., ammette — pur con perplessità motivate dalla necessità di rispettare il principio di frammentarietà — che l’attuale formulazione dell’art. 113 c.p. ha funzione estensiva della punibilità in rapporto ai reati colposi a forma vincolata. Nello stesso senso FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 518. (33) Questo è quanto sostenuto da SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 101 e 118. (34) V. quanto più approfonditamente si dirà infra, nn. 4 e 5. (35) Per tutti, di recente, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 515 ss. (36) Così M.GALLO, Lineamenti, cit., 113, il quale nega che sia riconducibile all’art. 113 una funzione incriminatrice ex novo, sul presupposto che tutte le fattispecie colpose presenti nel nostro sistema penale siano causalmente orientate. Ciò significa che, « analoga-
— 141 — senza del legame psicologico, oltre che di tutti gli altri requisiti della fattispecie concorsuale, un fatto che di per sé sarebbe irrilevante in chiave monosoggettiva diventa rilevante in una manifestazione plurisoggettiva (37): ciò varrebbe per tutte le ipotesi di concorso colposo, sia in reati causali puri che in fattispecie a forma vincolata. In questo caso cooperazione colposa e concorso di cause ex art. 41, comma terzo c.p. appaiono oggettivamente come due unità distinte, con diversa struttura e diversa funzione: l’art. 113 c.p., analogamente all’art. 110, è una clausola dotata di efficacia estensiva della punibilità, mentre l’art. 41, comma terzo c.p., si limita a disciplinare il fenomeno della convergenza di più condotte di per sé intrinsecamente colpose. Da qui l’esigenza di una differente valutazione normativa e di una diversa disciplina giuridica (38). In questo contesto, merita un rilievo particolare la posizione di chi ha rinvenuto l’autonoma ragion d’essere dei due istituti in esame non tanto « in un diverso ambito di applicazione, quanto nel modo di considerare il fenomeno » (39). Vi sono, infatti, condotte che, pur risultando a posteriori dotate di efficacia eziologica, non possiedono da sole una fisionomia definita, non essendo ancora esecutive. Si tratta, piuttosto, di condotte dotate di una pericolosità « astratta ed indeterminata », che diventa « attuale e specifica solo incontrando la condotta pericolosa altrui » (40). Sarebbe questo meccanismo a giustificare, soprattutto in riferimento alle mente a ciò che si verifica per le fattispecie dolose del medesimo tipo, la tipicità della condotta è in funzione dell’elemento soggettivo che la sorregga ». (37) Questo, in particolare, è l’orientamento seguito dai sostenitori della teoria dell’accessorietà. Cfr., ad es., BATTAGLINI, In tema, cit., 94: « soltanto sussistendo la scientia delicti, la consapevolezza cioè di accedere ad una condotta negligente altrui, è possibile l’applicazione di una sanzione al complice, anche se la sua attività sia stata accessoria ed inadeguata: altrimenti si tratta di attività autonome ed indipendenti che vanno valutate, ai fini della responsabilità, in relazione alla rispettiva efficienza causale mediata o immediata ». Anche secondo LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 613, dall’elemento psicologico dipende la qualificazione dogmatica della cooperazione colposa come forma di concorso o come pluralità di fatti colposi indipendenti. Tuttavia, « è un dato di comune esperienza che vi sono comportamenti di cooperazione nel delitto colposo che, di per sé, non presentano alcun carattere di oggettiva negligenza, imprudenza o imperizia e che, isolati dal contesto delle altre azioni di cooperazione, a cui sono legati soltanto per una relazione psicologica, non potrebbero in nessun caso costituire delitti colposi a sé stanti ». (38) Estremamente significativa, a riguardo, è la disciplina relativa agli effetti della querela: essa, ex art. 123 c.p., si estenderà automaticamente a tutti i concorrenti nella sola ipotesi del concorso colposo. Nella diversa fattispecie del concorso di cause ex art. 41, comma terzo, c.p., avrà invece efficacia nei confronti di colui o di coloro che siano indicati nella stessa come autori dei singoli fatti delittuosi. (39) PEDRAZZI, Il concorso, cit., 75. (40) PEDRAZZI, loc. ult. cit. L’Autore fa, a riguardo, l’esempio di Tizio che lascia incustodito un fucile carico. La condotta « pericolosa » di Tizio « acquista una fisionomia giuridica solo quando Caio impugna l’arma senza verificarla, e la punta per gioco contro una persona o un animale o una cosa, derivandone un danno che può essere di natura diversissima ».
— 142 — ipotesi di condotte non concomitanti, l’applicazione della disciplina concorsuale. Siffatto orientamento, evidentemente collegato alla teoria dell’accessorietà (41), si rivela di estremo interesse ai fini della presente indagine, perché sottolinea il fatto che la condotta di cooperazione può essere dotata di una efficacia causale « mediata » nei confronti dell’evento lesivo, esattamente come accade per le condotte di partecipazione sul versante del concorso doloso(42). Essa può, cioè, essere priva di una immediata connessione di rischio rispetto all’evento cagionato, proprio perché la sua pericolosità è ancora indeterminata. Piuttosto, sorgono perplessità per il ridimensionamento del collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti operato dalla tesi qui in esame: nella cooperazione colposa, « poiché la condotta produce l’evento solo incrociando la serie causale posta da altri, l’agente non è in grado di prevedere il verificarsi dell’evento, se non è in grado di prevedere l’attività altrui. Non è detto con questo che debba esserne di fatto consapevole »(43). In questi termini, sembra però che la cooperazione possa prescindere da un contesto di attuale interazione dei concorrenti: nel qual caso, apparirebbe decisamente debole, nella prospettiva dell’accessorietà, il collegamento tra la condotta a pericolosità « indeterminata » e la condotta colposa tipica (44). In tempi recenti, si è assistito ad una parziale rivalutazione della struttura e della funzione dell’art. 113 c.p., il quale acquisterebbe peraltro caratteri di piena autonomia rispetto all’istituto del concorso di cause sul solo versante del concorso colposo in reati a forma vincolata (45). In realtà, anche secondo questo orientamento può cogliersi, sul piano naturalistico, una differenza tra cooperazione colposa in reato causale puro e concorso di cause, a condizione di ritenere che le singole condotte di partecipazione siano originariamente incomplete, mentre le condotte (41) Nello stesso senso SPASARI, Profili, cit., 82. È peraltro curioso rilevare come probabilmente la teoria dell’accessorietà si riveli più efficace sul terreno del concorso colposo che su quello del concorso doloso: nell’ambito della cooperazione colposa, infatti, la condotta dell’autore è necessariamente tipica in quanto contraria al dovere obiettivo di diligenza. Viceversa, non sarebbe nemmeno possibile individuare un collegamento causale tra condotta ed evento lesivo. Se così stanno le cose, è allora difficile riuscire ad immaginare fatti concorsuali colposi ad esecuzione frazionata, come tali incompatibili con la teoria dell’accessorietà, in cui nessuno dei partecipi violi compiutamente una norma precauzionale. (42) Sul problema dell’individuazione del contributo causale del concorrente, v., per tutti, VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 ss., e DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, 175 ss. (43) PEDRAZZI, Il concorso, 74. (44) V. anche infra, n. 4, (45) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 96 ss.
— 143 — colpose indipendenti siano già originariamente complete (46). Tale distinzione viene ritenuta irrilevante sul piano giuridico: ma cosa si intende per condotta colposa incompleta? L’incompletezza si riferisce al solo decorso causale, o non piuttosto alla pericolosità ancora « indeterminata » della condotta concorsuale? In entrambe le ipotesi, la questione merita un approfondimento adeguato. Solo per tal via sarà consentito comprendere se realmente l’art. 113 c.p. svolga una semplice funzione di disciplina in rapporto ai reati causalmente orientati. Certo è che negare alla norma sulla cooperazione colposa una funzione incriminatrice sul versante dei reati causali puri induce a ritenere che tutte le ipotesi di concorso colposo relative a questa categoria di reati si risolvano in altrettante forme di correità. Ma un’affermazione di questa portata deve, semmai, essere suffragata da un’indagine sull’effettivo rapporto che lega le varie condotte di cooperazione rispetto all’evento lesivo. Da qui l’esigenza di una attenta analisi delle forme e delle modalità del concorso colposo, il cui punto di partenza sarà rappresentato proprio dal Risikozusammenhang tra le singole condotte di partecipazione ed il fatto colposo cagionato. Se è vero, infatti, che sono configurabili vere e proprie ipotesi di correità colposa (come, ad esempio, una gara automobilistica ingaggiata da due soggetti con esito mortale conseguente a gravi imprudenze di entrambi) oggettivamente identiche alla fattispecie del concorso di cause, è anche vero che l’art. 113 cpv. e l’art. 114 c.p. si riferiscono a possibili forme di partecipazione, morale o materiale, all’altrui fatto colposo (47). Nel qual caso, ovviamente, l’art. 113 c.p. acquisterebbe piena autonomia rispetto all’istituto del concorso di cause ex art. 41, comma terzo c.p. anche sul terreno dei reati causalmente orientati. Non solo: in questa prospettiva, il collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti si presenterebbe come elemento qualificante essenziale di tutte le ipotesi di concorso colposo. È giunto il momento di effettuare questa verifica. 3. Se ciascuno dei concorrenti realizza personalmente la condotta tipica (intrinsecamente colposa), la cooperazione nel delitto colposo si ri(46) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 98. (47) Nel senso della configurabilità di una istigazione al delitto colposo si erano già pronunziati FROSALI, L’elemento soggettivo, cit., 8 e LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 618. Tale orientamento, del resto, appare confermato da qualche — sia pur rara — sentenza della S.C. Cfr., a riguardo, Sez. IV, sent. 4232 del 15 giugno 1972, inedita, che ravvisa la cooperazione nell’insorgere del pericolo di naufragio colposo da parte di chi influisca direttamente sulle decisioni del comandante « con consigli pressanti e coartazioni psicologiche, inducendolo a prendere decisioni in ordine alla navigazione che, se libero da qualsiasi influenza, non avrebbe prese perché avventate e tali da porre in pericolo la sicurezza del natante ». Contra ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 76.
— 144 — solve in una ipotesi di correità obiettivamente identica alla figura del concorso di cause colpose indipendenti. In tale eventualità, infatti, tutte le condotte di cooperazione sono di per sé colpose ed omogenee tra loro, dato che ciascuna di esse viola il medesimo tipo di regola precauzionale: basti pensare, per riprendere l’accenno di poco sopra, ad una gara automobilistica in cui ciascuno dei partecipanti, in atto di sfida, superi il limite di velocità prescritto dal codice della strada. Se, a seguito del comune convergere delle condotte imprudenti, si verifica un incidente mortale, risulterà evidente che tutte le condotte dei concorrenti sono tipiche rispetto all’evento lesivo concretamente cagionato (48). In relazione a queste ipotesi, l’art. 113 c.p. svolge di certo una semplice funzione di disciplina, poiché tutte le regole cautelari violate dai concorrenti sono in diretta connessione di rischio rispetto all’evento lesivo: ciò significa che ciascuna condotta di cooperazione potrebbe autonomamente rilevare già ai sensi della singola fattispecie incriminatrice di parte speciale, posto che l’evento realizzato in cooperazione rappresenta la concretizzazione dello specifico rischio che le norme precauzionali violate miravano ad evitare. Estremamente significativo, a riguardo, è il riferimento a quello che, in giurisprudenza, viene considerato un caso « classico » di correità colposa: l’ipotesi di evento letale conseguente alla cooperazione colposa « per consulto » tra medici appartenenti allo stesso reparto ospedaliero ovvero a reparti diversi. Nel caso di specie, i concorrenti appartengono tutti alla stessa cerchia professionale: da essi si richiede quindi, sulla base del criterio dell’homo eiusdem professionis et condicionis, il medesimo livello di perizia (49). Qualora invece la condotta di cooperazione si concreti in un’azione atipica, perché ancora non direttamente colposa rispetto all’evento finale, ma semplice condicio sine qua non dell’altrui azione colposa, il diverso connotarsi del concorso colposo rispetto al concorso di cause colpose indipendenti emerge anche sul terreno dei reati causali puri (50). In questo contesto si inquadrano, così come del resto accade già sul (48) V., di recente, Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 100 del 5 gennaio 1996, inedita, relativa proprio ad una fattispecie di gara automobilistica sorta estemporaneamente sulla strada. (49) Dalla giurisprudenza in materia, si evince il principio secondo il quale sia il medico specialista, sia gli altri medici specialisti della stessa materia chiamati a consulto rispondono congiuntamente delle lesioni o della morte cagionate al paziente a causa di errata diagnosi e di errata terapia, salvo che non si dimostri un’effettiva e conclamata diversità di valutazione diagnostica e di opportunità terapeutica tra i sanitari convenuti a consulto. Per una disamina più dettagliata delle varie ipotesi di cooperazione colposa in campo sanitario, si fa rinvio a PARODI-NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, cit., 142. (50) Sul punto, LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 614, e, di recente, ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., 181. L’Autore ritiene che anche nei confronti delle fattispecie causalmente orientate possa essere riconosciuta una limitata funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. Essa andrebbe riferita, innanzitutto, « a quelle condotte di partecipazione che, proprio per il fatto di essere meramente agevolatorie, non posseggono un ruolo condi-
— 145 — versante del concorso doloso, le varie ipotesi di partecipazione morale o materiale all’altrui fatto colposo. Nell’individuazione della natura del contributo concorsuale, risulterà decisivo il grado di « pericolosità » — ancora « astratta ed indeterminata », secondo la felice espressione della dottrina prima citata (51) — della condotta in correlazione causale mediata rispetto all’evento lesivo. Seguendo questo meccanismo, sarà possibile verificare a quali condizioni ed entro quali limiti sia possibile dilatare l’ambito della tipicità colposa rispetto a quello definito da una corretta interpretazione dell’art. 43 c.p. in rapporto all’art. 41, comma terzo c.p. Ora, al fine di chiarire più efficacemente la dinamica delle forme della partecipazione colposa, è opportuno distinguere le condotte agevolatorie in due categorie. A) Alla prima sono riconducibili tutti i casi di partecipazione — morale o materiale — all’altrui fatto colposo caratterizzati dalla assoluta atipicità originaria della condotta di partecipazione. In tali ipotesi, un fatto che di per sé sarebbe irrilevante in chiave monosoggettiva perché penalmente « neutro », diventa rilevante in una manifestazione plurisoggettiva proprio in quanto strettamente connesso con l’altrui condotta tipica. Integra, ad esempio, gli estremi di una partecipazione materiale al fatto colposo altrui la condotta di Tizio che, durante una merenda estiva in un bosco, procura delle stoppie a Caio, il quale poi le utilizza per accendere un fuoco violando le precise regole cautelari fissate a riguardo dall’art. 59 t.u.l.p.s. (52) e cagionando, così, un incendio. In relazione all’esempio qui riferito, si potrebbe obiettare che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una ipotesi di correità colposa, visto che tanto Tizio quanto Caio avrebbero potuto prevedere ed evitare l’incendio. In tal modo, però, finiremmo col trascurare due elementi importanti. Ometteremmo, in primo luogo, la doverosa indagine sulla natura della condotta di Tizio: di certo, il semplice atto di raccogliere legna in un zionale nei confronti dell’evento lesivo ». Conferma testuale della possibilità di configurare una cooperazione colposa in cui confluiscano anche condotte non strettamente condizionali è poi fornita, secondo Albeggiani, dall’applicabilità — anche alle ipotesi di concorso colposo — dell’attenuante facoltativa prevista dall’art. 114 c.p. (51) PEDRAZZI, Il concorso, cit., 75. (52) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 59 t.u.l.p.s., ora depenalizzato dall’art. 17-bis dello stesso t.u., introdotto dal d.lgs. 13 luglio 1994, n.480: « è vietato di dar fuoco nei campi e nei boschi alle stoppie fuori del tempo e senza le condizioni stabilite dai regolamenti locali e a una distanza minore di quella in essi determinata. In mancanza di regolamenti, è vietato di dare fuoco nei campi o nei boschi alle stoppie prima del 15 agosto e ad una distanza minore di cento metri dalle case, dagli edifici, dai boschi, dalle piantagioni, dalle siepi, dai mucchi di biada, di paglia, di fieno, di foraggio e da qualsiasi altro deposito di materia infiammabile o combustibile. Anche quando è stato acceso il fuoco nel tempo e nei modi ed alla distanza suindicati, devono essere adottate le cautele necessarie a difesa delle proprietà altrui, e chi ha acceso il fuoco deve assistere di persona e col numero occorrente di persone fino a quando il fuoco sia spento ».
— 146 — bosco non viola ancora, per ciò solo, gli estremi di una regola precauzionale di condotta. In secondo luogo, non terremmo conto della relazione di rischio esistente tra la condotta di partecipazione e l’evento-incendio: la condotta di Tizio possiede una rilevanza indiretta rispetto all’incendio provocato da Caio, visto che dalla semplice raccolta della legna non sorge ancora automaticamente il pericolo del divampare di un incendio. È, semmai, la consapevole interazione tra le due condotte a giustificare l’applicazione dell’art. 113 ed a creare il Risikozusammenhang tra il fatto di chi procura la legna e la condotta di chi poi cagiona materialmente l’incendio, estendendo lo spettro preventivo della regola cautelare violata fino a ricomprendere la prevedibilità delle possibili conseguenze dannose della condotta di entrambi i campeggiatori (53). Analoghe considerazioni valgono anche per le ipotesi di partecipazione morale al fatto colposo altrui. Possiamo, a proposito, richiamare un altro esempio « classico » di cooperazione colposa: Tizio viaggia sull’autovettura di Caio; ha fretta, ed allora istiga Caio, che è al volante, ad accelerare. A seguito dell’eccessiva velocità, viene cagionato un incidente mortale. Ciò che non rende automaticamente tipica la condotta di Tizio è proprio la pericolosità ancora indeterminata del semplice invito ad aumentare la velocità, dal quale il passeggero avrebbe sicuramente fatto bene ad astenersi, ma che tuttavia non si identifica con la violazione della regola cautelare rilevante ex art. 43 e consistente appunto nello spingere l’autovettura oltre il limite consentito. Sostenere che anche l’esempio qui proposto integra un’ipotesi di correità significa affermare che i margini di tipicità della condotta colposa possono, già a livello monosoggettivo, estendersi fino a ricomprendere quei comportamenti che abbiano solo agevolato, aumentando il rischio della sua verificazione, l’altrui fatto colposo. Ma questo può essere il frutto dell’operatività di una distinta clausola incriminatrice, quale l’art. 113 c.p.: nell’ipotetica assenza di tale disposizione ci si dovrebbe rassegnare a considerare (tipicamente) colposo ai sensi dell’art. 43 c.p. esclusivamente il comportamento del guidatore, il quale solo, materialmente ed (auto)responsabilmente, contravviene al limite di velocità pigiando il piede sul pedale acceleratore. Anche in questo caso, quindi, è l’attualità di interazione consapevole tra i concorrenti a porre la condotta dell’istigatore in connessione di rischio rispetto all’evento morte materialmente cagionato dal conducente dell’autovettura: il contesto di cooperazione è tale che la condotta dell’uno, naturalisticamente distinta da quella dell’altro, finisce per compenetrarsi con essa, assumendone quella diretta valenza colposa di cui sarebbe altrimenti priva. (53) Ben diversa sarebbe la qualificazione giuridica del fatto se Tizio e Caio avessero acceso insieme il fuoco. In questa ipotesi saremmo evidentemente di fronte ad un caso di correità.
— 147 — Che, poi, sul versante del concorso colposo, siano ipotizzabili forme di partecipazione morale al fatto colposo altrui è dimostrato in generale dalle circostanze richiamate dal capoverso dell’art. 113 c.p.(54): esse si riferiscono, infatti, ai casi di determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile, o di persone soggette all’autorità, direzione o vigilanza del determinatore, ovvero alle ipotesi di determinazione al reato di persona minore degli anni diciotto o in stato di infermità o di deficienza psichica (55). Ora, il determinatore è proprio colui che, pur non realiz(54) È, opportuno, in questa sede, far cenno alle recenti modifiche intervenute a carico degli artt. 111 e 112 c.p. ed ai riflessi da esse prodotti sul versante del concorso colposo. Il d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella l. 12 luglio 1991, n. 203, recante « provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata », ha modificato il primo comma dell’art. 111 c.p. (stabilendo un aumento di pena da un terzo alla metà se si tratta di delitti per cui è previsto l’arresto in flagranza) ed ha aggiunto all’art. 112 c.p. un secondo comma, che dispone un aumento di pena sino alla metà « per chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una condizione o qualità personale, nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza ». Un secondo comma all’art. 111 c.p. ed un terzo comma all’art. 112 c.p. sono stati successivamente aggiunti dal d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito nella l. 18 febbraio 1992, n. 172, istitutiva del « fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive ». Il nuovo secondo comma dell’art. 111 c.p. fissa un aumento di pena fino alla metà « se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la potestà », e da un terzo a due terzi « se si tratta di delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza ». Il terzo comma dell’art. 112 c.p. prevede invece che « se chi ha determinato altri a commettere il reato o si è avvalso di altri nella commissione del delitto ne è il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dal n. 4 del primo comma, la pena è aumentata sino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena è aumentata fino a due terzi »: cfr., a riguardo, G.A. DE FRANCESCO, Commento al d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito con modif. dalla l. 18 febbraio 1992, n. 172, in Legisl. pen., 1992, 763 ss; PAZIENZA, Sulle recenti modifiche dell’art. 112, in questa Rivista, 1992, 269 ss.; ID., Riflettendo sui nuovi 111, secondo comma e 112, terzo comma c.p., in questa Rivista, 1992, 1091 ss. Le suddette modifiche, che contemplano ipotesi particolarmente gravi di determinazione a commettere un reato (quali appunto quelle relative alla utilizzazione di minori nella commissione di delitti da parte dei genitori esercenti la potestà), producono i loro effetti anche sul terreno del concorso colposo. Ciò è dimostrato inequivocabilmente dal richiamo operato dal terzo comma dell’art. 112 c.p. alla circostanza di cui al n. 4 del primo comma della stessa disposizione (applicabile anche al concorso colposo), e soprattutto dal terzo comma dell’art. 114 c.p., il quale — nel testo modificato dal d.l. 31 dicembre 1991, n. 419 — prevede ora una diminuzione di pena « per chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite nei numeri 3 e 4 del primo comma e nel terzo comma dell’art. 112 c.p. ». Tali interventi risultano allora di particolare interesse ai fini della presente indagine: l’applicabilità delle nuove circostanze qui in questione anche al concorso colposo costituisce una importante conferma, sia pure in negativo, del fatto che il c.d. collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti non è, come invece sostenuto di recente, per nulla estraneo alla struttura ed all’essenza della cooperazione colposa: v., in proposito, quanto verrà detto più dettagliatamente infra, n. 4. (55) Nelle ipotesi di cooperazione colposa in campo sanitario, l’aggravante di cui al n. 3 dell’art. 112 c.p. sembra applicabile al primario che abbia espresso all’aiuto o all’assi-
— 148 — zando materialmente il fatto, suscita nell’esecutore della condotta tipica un proposito prima inesistente (56): si rafforza, allora, il dubbio che, anche sul versante dei reati causalmente orientati, non siano configurabili soltanto ipotesi di correità colposa. Solo se ritenessimo che gli artt. 111 ed i nn. 3 e 4 dell’art. 112 siano riconducibili alla figura dell’autore mediato potremmo, in questo caso, ritenere tipica la condotta del determinatore: ma l’istituto dell’autore mediato non è stato recepito dalla dottrina italiana, perché sostanzialmente estraneo alla nostra tradizione storicodogmatica. È noto, anzi, che proprio le suindicate circostanze sono state, di recente, qualificate come ipotesi speciali di partecipazione morale all’altrui fatto di reato (57). stente diagnosi poi rivelatesi errate. In virtù del r.d. 30 settembre 1938, n. 1631 e del d.p.r. n. 761 del 1979, tali soggetti sono sottoposti alla diretta autorità e vigilanza del primario. A riguardo, si è anzi rilevato che il peso dell’autorità, dell’anzianità e dell’esperienza del primario che esprime diagnosi o pareri successivamente rivelatisi errati, attribuisce inevitabilmente ai suddetti pareri clinici natura ed effetto di partecipazione per determinazione nell’azione o nell’omissione del sanitario che, per soggezione, si uniformasse ad essi. Per una dettagliata casistica giurisprudenziale in materia, cfr. PARODI-NIZZA, La responsabilità, cit., 136. (56) GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., II, sub art. 111, 6, rileva che la nozione di determinazione di cui all’art. 111 appare « più ristretta di quella di istigazione, intesa come forma di concorso morale, che comprende anche le ipotesi di mero rafforzamento del proposito criminoso altrui ». (57) Nel sistema penale italiano, le disposizioni di cui agli artt. 111, 112 ultimo comma e 119 consentono di ritenere pacificamente ammissibile il concorso di persone nel reato anche nel caso in cui uno o alcuni dei concorrenti siano non imputabili o non punibili. Di conseguenza, non avrebbe motivo di essere, nel nostro ordinamento giuridico, la fattispecie dell’autore mediato. Tale istituto, infatti, nasce e si sviluppa in Germania per ovviare agli inconvenienti derivanti dall’accoglimento di una concezione restrittiva di autore da un lato, e dall’accoglimento dalla teoria dell’accessorietà estrema quale fondamento del concorso di persone dall’altro. Cfr., a riguardo, SINISCALCO, voce Autore mediato, in Enc. dir., IV, 1959, 445, e GRASSO in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., sub art. 110, 5, il quale sottolinea come « il comportamento di chi determina al reato un soggetto incapace ovvero una persona tratta in inganno o costretta alla commissione del fatto con violenza o minaccia non si sarebbe potuto sussumere né nella fattispecie monosoggettiva (per carenza di tipicità), né nelle previsioni concorsuali (per l’assenza di un fatto principale colpevole) ». La mittelbare Täterschaft, sopravvissuta all’accoglimento della teoria dell’accessorietà limitata, si è poi sviluppata sino a ricomprendere, nel suo complesso ambito di operatività, anche ipotesi in cui lo strumento umano guidato dallo Hintermann è una persona perfettamente capace di intendere e di volere (come nei discussi casi di sfruttamento di un apparato di potere organizzativo e dei c.d. strumenti dolosi privi di intenzione o di qualifica). Per gli essenziali riferimenti storico-dogmatici, si fa rinvio a CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, cit., sub par. 25, 6. Proprio le origini storiche e le — peraltro eterogenee — linee evolutive della categoria della mittelbare Täterschaft hanno spinto la dottrina italiana prevalente a rifiutarne la ricezione nel sistema penale delineato dal legislatore del 1930, e ad inquadrare le previsioni normative di cui agli artt. 46, 48, 54 ultimo comma, 86 e 111 c.p. nell’ambito del concorso di persone nel reato tout court, del quale rappresenterebbero anzi « ipotesi speciali » grazie ad una « somma di elementi attinenti alle modalità di realizzazione del fatto »: v., per tutti, PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, 1973, 190 ss.
— 149 — Alle ipotesi di condotte meramente agevolatorie dell’altrui fatto colposo sembra poi richiamarsi l’art. 114 c.p., che afferma come applicabile anche al concorso colposo la circostanza attenuante del contributo di minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato (58). Sul terreno della cooperazione colposa, « contributo di minima importanza » non può essere certo quella condotta di partecipazione di per sé contrastante con una precisa regola cautelare e, quindi, intrinsecamente colposa (altrimenti si potrebbe essere indotti a pensare che esistano norme precauzionali di rilevanza « minima »!). A ben vedere, forse proprio nell’ambito del concorso colposo l’art. 114 c.p. recupera il significato a lungo negato alla previsione in esame soprattutto dalla giurisprudenza (59): sul terreno del concorso colposo, il contributo di minima importanza ben potrebbe essere quello (originariamente) atipico, che sia privo in modo particolare del collegamento di rischio giustificante appieno l’imputazione oggettiva dell’evento lesivo finale a livello monosoggettivo (60). B) Della seconda categoria fanno parte condotte agevolatorie collocabili idealmente in una sorta di « zona grigia » rispetto alla netta alternativa di afferenza alla dimensione (già) monosoggettiva o (solo) plurisoggettiva del delitto colposo. Si tratta, cioè, di condotte nelle quali può ravvisarsi un margine autonomo di rilevanza colposa, non interamente mutuato, come nei casi precedentemente esaminati, dalla compenetrazione con l’altrui comportamento tipicamente colposo, e che tuttavia sembrano anch’esse non porsi ancora in connessione causale immediata rispetto all’evento lesivo cagionato. Tali condotte vengono generalmente considerate tipiche ed inquadrate, secondo diversi angoli prospettici, ora come forme di correità (61), ora come tipologie specifiche di reità monosoggettiva (62): in questo contesto si colloca la fattispecie di incauto affida(58) Nello stesso senso ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit, 182. (59) Sul punto GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 114, 2. (60) Secondo SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 149, l’art. 114 c.p. svolge « un fondamentale compito di adeguamento della pena proprio nelle ipotesi di concorso colposo in fattispecie causalmente orientate ». Anzi, « la diversa entità degli apporti materiali dei concorrenti, in una fattispecie strutturata in forma libera, nella quale la condotta può indifferentemente atteggiarsi come istigatoria, agevolatrice, partecipativa, esecutrice, attiva, omissiva, con l’unico limite dell’efficacia causale (oltre che, sul piano soggettivo, della colpa), appare non già una eventualità marginale, ma una concreta e frequente possibilità ». È curioso, però, il fatto che tali parole diano l’impressione di confutare, più che di confermare, che sul terreno dei reati causali puri l’art. 113 c.p. si limita a svolgere una semplice funzione di disciplina. (61) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 518, in merito alla fattispecie dell’incauto affidamento di autovettura. (62) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 499: sempre l’incauto affidamento della propria autovettura a persona che si sa essere priva di patente rappresenterebbe proprio una delle eccezioni alla generale operatività del principio di affidamento, giustificata — nel caso di specie — dall’incapacità del terzo affidatario di soddisfare le aspettative dei consociati.
— 150 — mento della propria autovettura a persona che si sa essere priva di patente di guida e che cagioni un evento lesivo, spesso ricorrente nella casistica giurisprudenziale (63). Di questa complessa categoria sembrano, a prima vista, far parte altresì talune ipotesi di condotte colpose non concomitanti: il riferimento è al discusso caso della pistola carica lasciata incustodita, che venga successivamente utilizzata da taluno per fare uno scherzo che si rivela fatale (64). In realtà, la somiglianza tra le due fattispecie concrete in esame è solo apparente: riservandoci di riprendere il discorso nella sede più opportuna (65), possiamo per il momento affermare che, nella qualificazione giuridica dell’una e dell’altra ipotesi, acquisirà rilievo determinante proprio il collegamento soggettivo tra le condotte dei concorrenti, presente nell’un caso e mancante nell’altro. Certo è che, in questi casi, la condotta di partecipazione è sì (genericamente) colposa, ma non per questo ancora (o necessariamente) in immediata connessione di rischio rispetto all’evento cagionato. È allora tutto da dimostrare, riprendendo l’esempio dell’incauto affidamento di autovettura, che, in assenza di una disposizione quale l’art. 113 c.p., la condotta dell’affidante sarebbe già autonomamente punibile sulla base della fattispecie monosoggettiva di parte speciale: o che, in altri termini, il disvalore soggettivo-colposo della condotta dell’affidante possa essere pienamente equiparato al disvalore della condotta — certamente tipica — dell’affidatario, che si pone alla guida dell’autoveicolo essendo privo dei necessari requisiti di perizia (66). Anche questa operazione sembra essere il frutto di una dilatazione della tipicità colposa operata già a livello monosoggettivo senza il necessario vaglio critico (67). (63) Cfr., ad es., Cass. pen., Sez. IV, sent. 8162 del 5 giugno 1990 (ud. 20 febbraio 1990), in Arch. giur. circ., 1991, 24, e Sez. IV, sent. 3222 del 2 aprile 1970 (ud. 2 dicembre 1969), inedita, ove si afferma che l’affidamento incauto di un veicolo costituisce comportamento colposo del tutto autonomo rispetto a quello del conducente che provochi un incidente stradale a seguito della sua attività di guida; nello stesso senso, Sez. IV, sent. 4873 del 14 aprile 1976 (ud. 23 gennaio 1976), in Giust. pen., 1976, parte II, 411, la quale ribadisce che « è costante giurisprudenza di questa Corte Suprema che l’affidamento incauto di un veicolo, concretando un reato di mero pericolo, non pone senz’altro in essere una cooperazione nel fatto colposo eventualmente derivante dalla guida del veicolo affidato; la corresponsabilità può ricorrere soltanto quando sia dimostrato che il reato colposo si è verificato a causa dell’imperizia nella guida ». (64) Cfr., ad es., PEDRAZZI, Il concorso, cit., 75. (65) V. quanto più approfonditamente si dirà infra, nn. 4, 5 e 6. (66) Infra, n. 5. (67) È da segnalare, in questa sede, un parallelismo che può proporsi tra la problematica dell’anticipazione dei limiti della tipicità colposa e le ipotesi di c.d. colpa impropria di cui agli artt. 47, comma primo, 59, comma quarto e 55 c.p. (sul punto v., di recente, GIUNTA, Illiceità, cit., 448, e ROMANO, Commentario, cit., sub art. 43, 107-109). Definitivamente superato ormai l’orientamento che ravvisava nelle disposizioni suindicate tipologie de-
— 151 — Merita infine un rilievo particolare, nell’ambito di un’indagine volta a delineare le « forme » della partecipazione colposa, l’orientamento di chi ha ritenuto che, sul versante dei reati causali puri, l’art. 113 possa svolgere una particolare funzione estensiva della punibilità « combinandosi » con l’art. 40 cpv. c.p.(68). Nelle ipotesi di concorso colposo in reato commissivo mediante omissione (69), l’art. 113 consentirebbe cioè di rendere penalmente rilevante il contributo di partecipazione che venga fornito da « persona estranea alla specifica situazione di garanzia che è fonte di responsabilità penale ». A riguardo, si cita il caso di A, infermiere impegnato a praticare a B, gravemente ammalato, una fleboclisi. Se la moglie di A, per « mera trascuratezza », riesce a convincerlo ad accompagnarla a far compere ritardando l’appuntamento con il paziente B, il quale in conseguenza di ciò muore, sarebbe configurabile una responsabilità ex art. 40 cpv. in capo all’infermiere ed una responsabilità per combinato disposto degli artt. 113 c.p. e 40 cpv. in capo alla moglie di costui. Si afferma, a riguardo, che « la condotta di chi concorre ad un delitto omissivo, senza eslittuose anomale in cui si risponderebbe a titolo di colpa di un evento voluto, si riconosce, a detta della dottrina più sensibile, che la non felice espressione « impropria » non può certo riferirsi ad una pretesa volizione dell’evento in fattispecie in cui, invece, il fatto è strutturalmente colposo. In questa prospettiva, tuttavia, le norme di cui agli artt. 47, comma primo, 59, comma quarto e 55 c.p. sarebbero prive di una loro autonomia, riaffermando semmai i principi generali stabiliti, in materia di colpa, dal’art. 43 c.p. Anche i fautori di questo orientamento giungono però ad ammettere che, nelle fattispecie in esame, muta lo « spettro preventivo della norma cautelare violata », posto che la colpa si sustanzia non nella prevedibilità e prevenibilità dell’evento lesivo ma nel mancato riconoscimento della situazione tipica: cfr. GIUNTA, loc. ult. cit.: così, ad es., « sussisterà il reato di lesioni personali colpose nel caso in cui il chirurgo, scambiando le rispettive cartelle cliniche a causa della loro imperfetta stesura, asporti la milza al paziente affetto da appendicite e viceversa ». E già CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, vol. I, Firenze, 1924, par. 265, individuava un diverso atteggiarsi della tipicità colposa nella distinzione tra errore vincibile e colpa. Ora, proprio l’anticipazione della soglia della tipicità colposa ad un momento logicamente e cronologicamente precedente quello della realizzazione della condotta delittuosa stricto sensu sembra rappresentare la peculiarità delle fattispecie di c.d. colpa impropria. E, a ben vedere, si tratta di un fenomeno analogo a quello discusso nel testo. La mancata rappresentazione della situazione tipica, ai sensi ad esempio dell’art. 47, comma primo, c.p. esprime di per sé un livello di pericolosità ancora « generica ed indeterminata » rispetto all’evento lesivo finale, perchè solo un comportamento logicamente — e talora cronologicamente — successivo dell’autore ne attualizza e specifica la valenza rischiosa: il cacciatore può sì erroneamente scambiare per la preda la sagoma del proprio compagno eppure, se si astiene dallo sparare, non ne deriverà alcun danno all’incolumità personale. E così come può dubitarsi che gli artt. 47, 55 e 59, più che confermare, amplino l’ambito della responsabilità colposa già risultante dall’art. 43 c.p., allo stesso modo è lecito prospettare che analoga funzione estensiva sia ascrivibile all’art. 113 c.p. (68) ALBEGGIANI, I reati, cit., 182. (69) In merito alla combinazione tra gli artt. 40 cpv. e 110 c.p., sia consentito il rinvio a RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in questa Rivista, 1995, 1267 e ss.
— 152 — sere personalmente obbligato ad impedire l’evento, potrà assumere rilievo penale in base ad un processo analogo a quello che permette, in caso di concorso in reato proprio, l’estensione della responsabilità dell’intraneus al soggetto privo di qualifica » (70). Siffatta interpretazione, mentre ha il merito di mostrarsi sensibile alla naturale vocazione « estensiva » dell’incriminazione propria dell’art. 113 c.p., presta tuttavia il fianco a numerosi e non irrilevanti rilievi critici. Essa, in primo luogo, non sfugge, secondo alcuni, al sospetto di essere frutto di una indebita estensione analogica in malam partem dell’art. 40 cpv. (71): per tal via, infatti, si giunge a ritenere responsabile per omesso impedimento dell’evento anche soggetti diversi dallo Hintermann, eludendo, così, il principio nullum crimen sine lege: la moglie dell’infermiere dovrebbe rispondere, in altri termini, a titolo di colpa, di un fatto che non ha materialmente commesso e che non aveva, in alcun modo, l’obbligo giuridico di impedire. Bisogna comunque sottolineare che siffatta estensione, cosiddetta analogica, appare, in realtà, come la coerente conseguenza dell’applicazione distinta e successiva della clausola (in ipotesi) incriminatrice di cui all’art. 113 c.p. ad un reato colposo realizzato a sua volta per il tramite dell’art. 40 cpv. c.p.: si tratta, cioè, del risultato, certamente discutibile da un punto di vista politico-criminale ma tecnicamente ineccepibile, del doppio e cumulativo effetto estensivo della punibilità ascrivibile a due concorrenti forme di manifestazione del reato (72). Piuttosto, l’esempio surriferito si presenta in più punti ambiguo ed impreciso. Non si comprende, infatti, quale sia il reale atteggiamento psicologico dell’infermiere: se egli consapevolmente diserta l’appuntamento, indifferente alle sorti del paziente B, sorge il dubbio che il garante versi in una condizione di dolo eventuale, e non di colpa cosciente. Nel qual caso, ovviamente, non potrà essere invocata una concorrente responsabilità ex art. 113 c.p. della moglie di costui, dato che la disposizione in esame ricomprende nel suo ambito di operatività le sole ipotesi di concorso colposo, escludendo a contrario la possibilità di incriminare forme di partecipazione colposa all’altrui fatto doloso (73). (70) ALBEGGIANI, I reati, cit., 184. (71) A riguardo, v. i rilievi di INSOLERA, voce Concorso, cit., 480. (72) La clausola di equivalenza di cui all’art. 40 cpv. c.p. (ed il c.d. reato commissivo mediante omissione che da essa prende vita) è qui considerata come una forma di manifestazione del reato, analogamente agli artt. 110 e 113 c.p., per la sua efficacia incriminatrice: sul presupposto dell’esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo, è possibile, per il tramite di tale norma, estendere i margini originari di tipicità delle condotte punibili fino a ricomprendere delle omissioni: sul punto, più approfonditamente, RISICATO, La partecipazione, cit., 1267 ss. (73) Per un’efficace sintesi delle problematiche connesse alla configurabilità di forme di partecipazione a diverso titolo soggettivo nel medesimo reato, si fa rinvio a FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 456 ss.
— 153 — Vi è, poi, da chiedersi come debba essere interpretata la « mera trascuratezza » della moglie dello Hintermann: eppure la specificazione di tale elemento si rivela di estrema importanza, poiché da esso — e solo da esso — dipende l’eventuale responsabilità penale della donna. Solo nel caso in cui la « trascuratezza » si traduca nella consapevole adesione al fatto materiale del marito sarà possibile parlare di cooperazione colposa della moglie dell’infermiere nella causazione mediante omissione dell’evento-morte. Viceversa, se la donna, ignara degli obblighi professionali del marito, lo invita a fare una passeggiata, realizza un comportamento intrinsecamente lecito e certamente insuscettibile di assumere rilievo penale ex art. 113 c.p. Anche dall’esempio in ultimo proposto, risulta quindi la indispensabilità di un’attenta analisi del contenuto e della funzione del c.d. « legame psicologico » tra le condotte dei concorrenti, quale ineludibile discrimine tra concorso di fatti colposi indipendenti ed una cooperazione colposa da assumere nella sua naturale vocazione estensiva dei margini originari di incriminazione dei fatti colposi (74). 4. L’indagine sull’effettiva consistenza del legame psicologico tra le condotte dei concorrenti è stata in genere affrontata dalla giurisprudenza senza la dovuta attenzione. In particolare, la giurisprudenza di legittimità si limita spesso a richiamare genericamente le linee distintive tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti (75) e le differenze nascenti — sul piano del trattamento sanzionatorio — dall’una o dall’altra qualificazione giuridica (76). Manca, però, una approfondita (74) ALBEGGIANI, I reati, cit., 189, ritiene proprio per questa ragione plausibile la distinzione tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti. Anzi, « la presenza di un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, non solo permette di operare una distinzione « concettuale » fra ipotesi dommaticamente diverse, ma fornisce la indispensabile chiave per comprendere le ragioni di una diversa disciplina normativa ». Contra ANGIONI, Il concorso, cit., 69 e ss. (75) In merito alla distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti, la giurisprudenza della S.C. è solita chiamare in causa quello che viene a volte impropriamente definito un « collegamento di volontà dei diversi soggetti agenti »: così Sez. IV, sent. 4896 del 21 aprile 1988 (ud. 23 novembre 1987), inedita. In altre pronunzie, il discrimen tra i due istituti in esame è individuato nella « consapevolezza di partecipare all’azione o all’omissione altrui »: cfr. Sez. IV, sent. 2405 del 23 febbraio 1987 (ud. 15 novembre 1986), inedita; Sez. IV, sent. 6134 del 30 giugno 1983 (ud. 6 dicembre 1982), inedita; Sez.I, sent. 6247 del 24 giugno 1982 (ud. 18 marzo 1982), in Giur. it., 1983, parte II, 252. Non mancano, però, sentenze in cui l’elemento psicologico è genericamente definito come « accordo sulla condotta, da parte delle varie persone che pongono in essere le azioni da cui deriva l’evento non voluto »: così Sez. IV, sent. 11298 del 29 ottobre 1980 (ud. 18 luglio 1980), inedita. Solo in casi isolati, la S.C. sembra richiedere, ai fini della configurabilità dell’art. 113 c.p., la « consapevole partecipazione alla condotta colposa »: in tal senso, Sez. IV, sent. 626 del 18 maggio 1965 (ud. 18 marzo 1965), inedita. (76) Secondo Cass. pen., Sez. IV, sent. 11908 del 22 novembre 1991 (ud. 5 giugno
— 154 — analisi sulle forme della cooperazione e sull’elemento soggettivo caratterizzante l’art. 113 c.p. (77). La S.C. ribadisce, cioè, che ai fini dell’applicabilità dell’art. 113 non è necessario un previo accordo, ben potendo la consapevolezza di concorrere con altri sorgere estemporaneamente o unilateralmente. Tale assunto, però, ha finito — in alcuni casi — col legittimare applicazioni distorte dell’art. 113, volte a ricomprendere nel suo ambito di operatività vere e proprie forme di partecipazione colposa all’altrui fatto doloso (78), o casi di responsabilità per evento diverso da quello voluto (79). 1991), inedita, l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. può essere concessa solo in caso di concorso colposo ex art. 113 c.p., e non anche nella diversa fattispecie del concorso di condotte colpose indipendenti. Questa non è però l’unica differenza di rilievo: se il reato commesso è infatti perseguibile a querela, essa, ex art. 123 c.p., sarà estensibile ai concorrenti nell’ipotesi di cui all’art. 113 c.p. Nel diverso caso di concorso di cause, la querela avrà invece efficacia soltanto nei confronti di colui o di coloro che sono indicati nella stessa come autori dei singoli fatti colposi. In tal senso, Sez. IV, sent. 6242 del 24 maggio 1988 (ud. 7 marzo 1988), inedita, e Sez. IV, sent. 1528 del 20 ottobre 1966 (ud. 15 giugno 1966), inedita. Cfr. anche ALDOVRANDI, Il concorso di persone, cit., 115. (77) ALDOVRANDI, Il concorso, cit., 108, nota esattamente a riguardo come la tematica del contributo causale del concorrente alla realizzazione del reato sia stata sviluppata essenzialmente in rapporto all’illecito doloso. Di conseguenza, ben poco è rinvenibile in dottrina e in giurisprudenza in ordine al contributo minimo necessario ad integrare un’ipotesi di cooperazione colposa. Non mancano, però, alcune pronunzie della S.C. in cui si individuano vere e proprie forme di partecipazione all’altrui fatto colposo. Cfr., ad es., Sez. IV, sent. 956 del 5 luglio 1971 (ud. 21 aprile 1971), in Riv. circ. trasp., 1973, 491, secondo cui l’ipotesi di cui all’art. 113 c.p. si concreta « non soltanto con la partecipazione materiale, ma anche con la determinazione o l’induzione, con qualunque mezzo, al comportamento antigiuridico ». Nello stesso senso anche Sez. IV, sent. 1833 del 18 febbraio 1967 (ud. 9 novembre 1966), inedita. (78) Il riferimento è alla discutibile Cass. pen., Sez.IV, sent. 8891 del 10 agosto 1987 (ud. 20 maggio 1987), inedita, che ha ritenuto responsabile a titolo di concorso in incendio colposo, ai sensi degli artt. 449 e 423 c.p., « anche chi, pur non avendo dato materialmente origine al fuoco, tuttavia abbia dato causa colposamente all’incendio verificatosi, per aver posto le condizioni necessarie non già a far sviluppare il fuoco, ma a cagionare l’incendio ». Nel caso di specie, è stato per tal via ritenuto che l’avere accatastato circa seimila traverse di legno impermeabilizzate con sostanze oleose in due soli cumuli, la mancanza di zone di protezione, la vicinanza a case di abitazione, avessero favorito il propagarsi del fuoco appiccato dolosamente da terzi. Ora, però, siffatta interpretazione non sfugge al sospetto di rappresentare un’indebita estensione analogica in malam partem dell’art. 113 c.p. Tale norma, infatti, prevede e regola soltanto la cooperazione nel delitto colposo, e non legittima affatto la generalizzata configurazione di ipotesi di partecipazione colposa all’altrui fatto doloso. Ma, a ben vedere, il caso esaminato dalla S.C. non rappresenta neanche una fattispecie di concorso a diverso titolo soggettivo nel medesimo reato, mancando — nell’ipotesi qui considerata — proprio quel collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti che qualifica il fenomeno del concorso di persone nel reato, sia esso poi doloso o colposo. Avremo, al più, due fatti tra loro indipendenti, di cui uno (certamente) doloso ed uno (eventualmente) colposo. (79) Cfr. Cass. pen., Sez.I, 24 giugno 1974, annotata da DASSANO, Colpa specifica,
— 155 — D’altro canto, il problema dell’elemento psicologico nella cooperazione colposa viene vagliato dagli studiosi in termini ben più articolati. In dottrina, tre sono essenzialmente gli orientamenti volti a definire l’effettiva consistenza del legame psicologico tra le condotte dei concorrenti nel delitto colposo. A) La tesi più rigorosa ritiene che a qualificare la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. sia necessaria la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta (80). Il partecipe, cioè, dev’essere quanto meno cosciente di aderire all’altrui condotta negligente, imprudente o imperita. Proprio tale consapevolezza, anzi, legittimerebbe una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. anche in relazione ai reati causali puri: « il carattere colposo della condotta di chi coopera nel delitto colposo non è una qualità oggettivamente intrinseca all’azione, ma costituisce il riflesso dell’altrui negligenza, imprudenza o imperizia a cui il concorrente volontariamente aderisce » (81). Alla tesi in esame sono state mosse due obiezioni ritenute insormontabili: in primo luogo, si è sostenuto che la consapevolezza del carattere specificamente colposo dell’altrui condotta limiterebbe l’operatività dell’art. 113 c.p. alle sole ipotesi di colpa con previsione (82); in secondo luogo, si è poi affermato che già la consapevolezza della colposità dell’altrui condotta sarebbe sufficiente a fondare, in capo al partecipe, un autonomo rimprovero per colpa (83). In siffatta evenienza, quindi, l’art. 113 avrebbe una semplice funzione di disciplina, limitandosi ad assoggettare ad un particolare regime giuridico condotte intrinsecamente colpose (84). A tali osservazioni, in realtà, è possibile replicare tenendo presenti i cit., 397 e ss.: anche in questa singolare pronunzia, l’art. 113 c.p. è chiamato in causa al di fuori della sua specifica sedes materiae, sia pure sul presupposto che la responsabilità per evento diverso da quello voluto costituisca un’ipotesi di colpa per inosservanza di leggi. (80) LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 615; nello stesso senso, SPASARI, Profili, cit., 79. (81) LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 616. (82) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 517. Secondo GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 113, 11, se il compartecipe si rendesse conto del carattere imprudente dell’altrui condotta, verserebbe addirittura in una situazione non di colpa cosciente, ma di dolo eventuale. (83) Così ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 81. Secondo l’Autore, la tesi di Latagliata finisce col travisare struttura e contorni dell’imputazione colposa, posto che il carattere colposo della condotta « non è mai una qualità intrinseca all’azione isolata dal suo contesto, ma una qualifica che si ricava dalla considerazione di tutte le circostanze concrete conosciute o riconoscibili ex ante, che accompagnano l’azione ». Se cioè l’agente è consapevole della colposità dell’altrui condotta,il suo comportamento è di per sé in contrasto con una evidente norma di prudenza. Di conseguenza, « se l’evento dannoso rientra tra quelli che tale norma tende a prevenire, esso può venire tranquillamente imputato a titolo di colpa, a prescindere dalla sovrastruttura di un ipotetico concorso di persone ». (84) È quanto sostenuto, ad es., da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 517 e ss., in merito all’impossibilità di configurare una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. in re-
— 156 — principi generali in materia di responsabilità colposa. È subito opportuno sottolineare come la consapevolezza del carattere negligente, imprudente o imperito dell’altrui condotta non limiti necessariamente l’operatività dell’art. 113 c.p. alle ipotesi di colpa cosciente (85): si ha colpa cosciente, infatti, quando l’evento, oltre che prevedibile, sia anche previsto come conseguenza della propria (o dell’altrui) condotta, pur se l’agente non accetta il rischio della sua verificazione (86). Ne consegue che la semplice consapevolezza di cooperare all’altrui condotta negligente, imprudente o imperita non implica per ciò solo la previsione dell’evento lesivo, ben potendo quest’ultimo essere configurabile anche in questo caso come conseguenza meramente prevedibile (ed evitabile) del fatto colposo altrui (87). Bisogna poi rilevare come la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta non basti, di per sé, a qualificare come autonomamente colposa la condotta del partecipe rispetto all’evento materialmente cagionato da altri. Si è già evidenziato, in precedenza, come nei casi di partecipazione all’altrui fatto colposo la condotta del concorrente, dotata di pericolosità astratta ed indeterminata, possa anche non essere in diretta connessione di rischio rispetto all’evento cagionato (88). Inoltre, ciò che lazione ai reati causali puri. Di recente, peraltro, si è assistito, in dottrina, anche alla rivalutazione della « semplice » funzione di disciplina svolta dall’art. 113 c.p. in rapporto alle fattispecie causalmente orientate. Cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 166: « la maggiore articolazione dell’elemento psicologico in ipotesi di realizzazione congiunta dell’illecito colposo e la sua funzione di delimitazione del rimprovero personale per ciascuno dei soggetti che vi hanno partecipato, rischierebbero forse di venir più facilmente tralasciate se tali ipotesi venissero tout court trasferite alla disciplina comune dell’esecuzione monosoggettiva ». (85) In ogni caso, l’eventuale limitazione dell’operatività dell’art. 113 c.p. alle sole ipotesi di colpa con previsione sarebbe in sé pienamente giustificabile alla luce di valutazioni politico-criminali volte a restringere la portata della fattispecie in esame per garantire un più rigoroso rispetto del principio di frammentarietà: vedi infra, n. 7. (86) Per tutti, ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 43, 28: la colpa cosciente è la rappresentazione della possibilità di realizzazione del fatto, accompagnata però dalla sicura fiducia che esso in concreto non si verificherà. È, del resto, ben noto che proprio il dato della effettiva rappresentazione dell’evento lesivo si rivela problematico al momento di individuare un discrimen tra l’elemento soggettivo in esame ed il dolo eventuale. (87) È interessante, a questo proposito, quanto rileva ANGIONI, Il concorso, cit., 69, nota 9, sulla non completa equipollenza dei concetti di colpa « cosciente » e di colpa « con previsione »: « l’uno esprime appunto la coscienza dell’inosservanza di una regola di condotta preventiva, l’altro la seria rappresentazione dell’evento tipico; onde può succedere che nel caso concreto sussista l’uno senza sussistere l’altro, e viceversa. I due fenomeni psicologici andrebbero perciò studiati partitamente, anche in vista dell’eventuale abrogazione o revisione dell’aggravante prevista dall’art. 61, n. 3 ». L’osservazione in esame sottolinea acutamente che la consapevole inosservanza di una regola cautelare e la rappresentazione del fatto colposo sono, appunto, due profili distinti e non sovrapponibili di ciò che oggi viene genericamente denominato come « colpa cosciente ». Essi, anzi, acquistano una valenza autonoma proprio sullo specifico ed arduo terreno della cooperazione colposa. (88) V. supra, n. 3.
— 157 — non rende necessariamente tipica, a livello monosoggettivo, la condotta di partecipazione all’altrui fatto colposo è l’operatività del principio di affidamento ovvero di autoresponsabilità, quale limite alla generalizzata configurabilità di regole cautelari volte all’impedimento del fatto illecito altrui (89). Non può dunque escludersi, rispetto all’accezione del legame psicologico ora in esame, che l’art. 113 c.p. svolga una funzione estensiva della punibilità anche nei confronti dei reati causali puri: può ben darsi che esso estenda la soglia della tipicità fino ad attribuire rilevanza penale a condotte che, di per sé sole, potrebbero non essere autonomamente considerate colpose, dal momento che la previsione dell’altrui negligenza può risultare neutralizzata, sul piano monosoggettivo, dal principio di autoresponsabilità. Resta certamente il fatto che la concezione in parola del collegamento psicologico tra i concorrenti è intrinsecamente riduttiva; come tale essa potrebbe tornare utile nel momento in cui la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. fosse definitivamente accertata e se ne intendesse promuovere una interpretazione comunque restrittiva (90). B) L’orientamento accolto dalla dottrina prevalente ritiene sufficiente, ai fini dell’applicabilità dell’art. 113 c.p., la semplice consapevolezza — anche unilaterale — di cooperare all’altrui fatto materiale, indipendentemente dalla specifica conoscenza del carattere colposo dell’altrui condotta (91). A qualificare la cooperazione colposa basterebbe, in questa prospettiva, la consapevolezza, in capo al partecipe, di tutti quegli elementi fattuali (inerenti alla condotta ed al contesto in cui si svolge l’azione) che costituiscono il substrato materiale della qualifica di negligenza, imprudenza o imperizia. Questa concezione, nella sua linearità, costituisce un valido punto di partenza per una definitiva puntualizzazione del c.d. legame psicologico tra i cooperatori nel delitto colposo (92). C) Un orientamento più recente ha, infine, cercato di ricostruire l’elemento psicologico nella cooperazione colposa alla luce del carattere eminentemente normativo della colpa quale criterio di imputazione soggettiva (93). Se la colpa è, come autorevolmente sostenuto, un criterio og(89)
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 498 e ss. Sul punto, v. diffusamente infra,
n. 6. (90) Infra, n. 7. (91) Secondo GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 113, 10, la consapevolezza del convergere della propria con l’altrui condotta sembra essere un requisito soggettivo minimo comune tanto alle forme concorsuali dolose che a quelle colpose. (92) Infra, nn. 5 e 6. (93) COGNETTA, La cooperazione, cit., 85 e ss., e SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 72.
— 158 — gettivo di imputazione soggettiva (94), vi è azione penalmente rilevante solo finché è possibile muovere un rimprovero per colpa. A fondare allora l’elemento soggettivo nella cooperazione colposa sarebbe sufficiente — allo stesso modo che nelle ipotesi monosoggettive — la semplice prevedibilità dell’altrui condotta concorrente con la propria (95). In particolare, secondo attenta dottrina, la consapevolezza di concorrere all’altrui fatto materiale « in sé e per sé nulla dice ancora sul motivo per il quale il partecipe risponde a titolo di colpa per il fatto realizzato da altri » (96). Così qualificato, l’elemento soggettivo da un lato direbbe « troppo poco in ordine alla rimproverabilità del partecipe » (ben potendo l’adesione psichica riferirsi anche ad una condotta non colposa), dall’altro aggiungerebbe « troppo al requisito soggettivo tipico della colpa » (97). E sarebbero proprio le circostanze aggravanti di cui agli artt. 111 e ai nn. 3 e 4 dell’art. 112 a dimostrare che la consapevolezza di cooperare con altri, lungi dal rappresentare un elemento essenziale, costituisca in realtà un quid pluris meramente eventuale nel c.d. collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti: solo le ipotesi di determinazione a commettere un reato presupporrebbero necessariamente la consapevolezza dell’agire altrui. Ma, in quanto fattispecie circostanziate (e quindi elementi eventuali del reato), esse proverebbero, a contrario, che il sistema normativo non limita la rilevanza della cooperazione colposa alle sole ipotesi in cui ricorra l’elemento psicologico in esame (98). Anche alle qui riferite osservazioni, a ben vedere, è però possibile replicare. In primo luogo, non è affatto vero che la consapevolezza di concorrere all’azione altrui dica « troppo poco » sulla ragione per cui il partecipe risponde a titolo di colpa del fatto cagionato da altri: la consapevolezza di cooperare all’altrui fatto materiale presuppone logicamente che il fatto altrui sia colposo. Se, infatti, per ipotesi, l’adesione psichica si riferisse ad una condotta non colposa, non sarebbe neppure configurabile ab origine una cooperazione colposa! In realtà, l’espressione « consapevo(94) M. GALLO, voce Colpa penale, cit., 624 e ss.; secondo SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 82, la colpa si distacca dal dolo sin dalle connotazioni interne dell’azione tipica. (95) COGNETTA, La cooperazione, cit., 88 e ss., e SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 77 e ss. (96) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 81. L’Autrice ritiene sufficiente, ai fini dell’art. 113 c.p., la semplice rappresentabilità dell’altrui agire, ovvero la prevedibilità di una situazione di pericolo che avrebbe dovuto indurre all’adozione di particolari cautele. Ciò che qualifica come colposa la condotta del concorrente è proprio la prevedibilità dell’evento finale, « mediata attraverso le concrete modalità di verificazione del fatto e la connessa ricostruzione della regola di prevenzione violata ». (97) SEVERINO DI BENEDETTO, loc. ult. cit. Nello stesso senso, COGNETTA, La cooperazione, cit., 85. (98) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 86 ss.
— 159 — lezza di cooperare all’altrui fatto materiale », significa l’esatto contrario. Il fatto altrui deve essere, cioè, intrinsecamente colposo sulla base dei parametri oggettivi di valutazione della responsabilità colposa ex art. 43 c.p.; non se ne richiede, però, una specifica consapevolezza da parte di chi coopera. Allo stesso modo, non sembra possibile affermare che la consapevolezza di cooperare all’altrui fatto materiale « aggiunga troppo » al requisito soggettivo tipico della colpa: detta consapevolezza, infatti, rappresenta il requisito soggettivo tipico delle fattispecie plurisoggettive eventuali, e risulta allora pienamente compatibile con la struttura e con la funzione dell’art. 113. È anzi la consapevolezza di cooperare con altri a far sì che la condotta del partecipe si compenetri con la condotta tipica dell’autore: solo per tal via, infatti, l’ambito del dovere di diligenza viene esteso fino a ricomprendere la prevedibilità delle possibili conseguenze lesive della comune azione delittuosa (99). Per quel che riguarda, poi, il richiamo alle suindicate circostanze aggravanti, esso può essere spiegato in una prospettiva del tutto diversa. La determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile o sottoposta all’altrui direzione o vigilanza, o ancora di persona in stato di infermità o di deficienza psichica qualifica di per sé — per le stesse modalità di realizzazione del fatto — la cooperazione colposa in termini di maggiore gravità oggettiva. Le aggravanti in questione tipizzano in maniera inequivocabile la figura del determinatore (100), di colui, cioé, che fa insorgere in altri un proposito prima inesistente: nelle ipotesi in esame, il determinatore si avvale di persone incapaci o non imputabili o non punibili o a lui sottoposte per commettere il reato. Non si vede, allora, sotto quale profilo le suindicate aggravanti proverebbero il carattere meramente eventuale della consapevolezza di concorrere con altri. Al contrario, la particolare relazione interpersonale qui tipizzata va considerata come una species di un più generale legame soggettivo tra le condotte dei concorrenti, il quale viene così ad essere ribadito piuttosto che escluso nelle ipotesi-base (101). Volendo applicare le suddistinzioni comunemente adottate in tema di rapporto di specialità (posto che le ipotesi aggravate in discorso si pongono (99) Sul punto, v. più approfonditamente infra, nn. 5 e 6. (100) Le summenzionate circostanze costituiscono l’unico riferimento testuale specifico alla figura del determinatore nell’ambito della disciplina accolta dal legislatore del 1930 in tema di concorso di persone nel reato. Normalmente, infatti, il concetto di istigazione di cui all’art. 115 c.p. è ritenuto onnicomprensivo di tutte le forme di concorso morale ed ha, pertanto, valenza generalissima. Cfr., a riguardo, quanto già evidenziato supra, n. 3 e nota 56. (101) V., in proposito, l’esatta osservazione di GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., sub art. 113, 10, secondo cui è proprio il capoverso dell’art. 113 c.p. a dimostrare implicitamente la necessità, anche per l’ipotesi base, dell’effettiva rappresentazione dell’agire altrui concorrente con il proprio.
— 160 — in tale relazione con l’art. 113 c.p.), può dirsi che la consapevolezza del determinatore costituisce elemento specializzante non già per aggiunta, ma per specificazione di un corrispondente generico elemento psicologico comunque necessario nella fattispecie semplice (102). Ma l’obiezione più consistente riguarda, a ben vedere, l’esatto significato dell’espressione « prevedibilità dell’altrui condotta concorrente con la propria ». Essa rafforza il sospetto che, secondo l’impostazione in esame, la cooperazione colposa possa non essere attuale, come nel caso in cui le condotte di cooperazione non siano concomitanti. Tornando, ad esempio, al caso di chi lascia incustodita una pistola carica, che venga poi utilizzata da altri per fare uno scherzo che si riveli tragico, dovremmo ritenere che sia sufficiente la « prevedibilità dell’altrui condotta » (ed, in conseguenza, dell’evento finale), a giustificare tout court l’applicazione dell’art. 113 c.p. (103). In tal caso, però, tanto varrebbe parlare subito di prevedibilità dell’evento lesivo, mediata da un fattore concorrente che consiste in una attività indipendente altrui. Solo che, ad un’analisi più approfondita, in assenza di un collegamento effettivo in termini psicologici tra le condotte, la fattispecie della pistola incustodita è pienamente riconducibile alla disciplina di cui all’art. 41, comma terzo c.p., sempre che sia provata la negligenza, nel caso concreto, di colui che lascia incustodita l’arma (104). Ravvisare l’elemento soggettivo della cooperazione colposa nella semplice rappresentabilità dell’altrui condotta concorrente con la propria equivale allora a rinnegare, nella sostanza, l’autonomia della cooperazione colposa quanto meno sul versante dei reati causali puri: per tal via, infatti, tutte le condotte di partecipazione si trasformano in condotte di per sé colpose, in rapporto alle quali la prevedibilità dell’altrui con(102) Sulle articolazioni del rapporto di specialità nell’ambito del c.d. concorso apparente di norme v. MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, 1966; G.A. DE FRANCESCO, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, 1980 e, da ultimo, CAMAIONI, Errore e dolo nei reati in rapporto di specialità, in questa Rivista, 1995, 437 ss. (103) V. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 81, in merito all’esempio della pistola incustodita. (104) In realtà, anche la fattispecie della pistola incustodita si presta a diverse possibili « variazioni sul tema »: se, infatti, la pistola dimenticata sul tavolo dovesse essere incautamente utilizzata da una persona adulta e perfettamente in grado di rendersi conto della pericolosità dell’arma, la responsabilità di colui che l’ha lasciata incustodita non sarebbe affatto scontata. Tale conclusione si delinea chiaramente nel momento in cui dovessimo accontentarci, ai fini dell’applicabilità dell’art. 113 c.p., della semplice « prevedibilità dell’altrui condotta ».Il principio di affidamento fa sì, infatti, che la semplice prevedibilità di fatti colposi di terzi autoresponsabili non sia, per ciò solo, sufficiente a far sorgere una responsabilità penale. Viceversa, se l’arma incustodita viene dimenticata in una stanza in cui giocano dei bambini — soggetti notoriamente « inaffidabili » — il responsabile dell’omessa custodia dell’arma risponderà direttamente di delitto colposo ex art. 43 c.p. Determinanti, in altri termini, ai fini della valutazione della responsabilità, saranno le circostanze del caso concreto: cfr. quanto si dirà più approfonditamente infra, n. 6.
— 161 — dotta, oltre che dell’evento finale, rappresenta un quid pluris assolutamente inidoneo a giustificare la stessa funzione di disciplina svolta dall’art. 113 c.p.(105). La tesi in esame si espone ad un’ulteriore obiezione. Nella ricostruzione dell’elemento soggettivo nella cooperazione colposa, sarebbe necessario, secondo la dottrina più recente, giungere a conclusioni parzialmente diverse a seconda che venga in considerazione un concorso colposo in fattispecie causalmente orientate, ovvero una cooperazione in fattispecie colpose a forma vincolata (106). Ora, mentre in relazione ai reati causali puri sarebbe sufficiente la semplice prevedibilità dell’altrui condotta concorrente con la propria, nei reati a forma vincolata sarebbe invece necessario che sussistano, in un ruolo costitutivo della nuova incriminazione, tutti i requisiti oggettivi e soggettivi della fattispecie concorsuale (107), al fine di poter incentrare, sul partecipe che realizza un contributo atipico, un autonomo rimprovero di colpa. Sotto il profilo oggettivo, i parametri non differirebbero da quelli elaborati dalla dottrina per il concorso doloso. Sotto il profilo dell’elemento psicologico, invece, « la riconduzione di condotte atipiche alla fattispecie concorsuale colposa in funzione incriminatrice non può non risentire delle peculiari modalità attraverso le quali venga fondato il rimprovero di colpa » (108): sarebbe necessario, in questa prospettiva, poter incentrare direttamente sul partecipe atipico un rimprovero di colpa, sia pure avendo come punto di riferimento l’intera fattispecie concorsuale. La suggestiva interpretazione qui riportata ci indurrebbe a ritenere che l’elemento soggettivo di cui all’art. 113 c.p. possa presentarsi in « gradi » diversi in relazione alle diverse categorie di reati. Esso sarebbe cioè caratterizzato da un « livello minimo », rappresentato dalla mera prevedibilità dell’altrui condotta concorrente con la propria, nei reati a forma libera. La prevedibilità dell’altrui condotta diverrebbe però insufficiente laddove si debba supplire all’eventuale deficit di tipicità della condotta del partecipe, come avviene nei reati colposi a forma vincolata. In questo caso — e solo in questo caso — l’elemento soggettivo dovrebbe acquisire contorni più pregnanti: al partecipe che realizzi una condotta atipica deve potersi muovere direttamente un rimprovero di colpa, che non sia solo mediato dall’atteggiamento colposo dell’esecutore materiale (109). Ora, però, è probabilmente in relazione ai reati colposi di evento a forma vin(105) Contra SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 94, la quale ritiene invece che la funzione di disciplina svolta dall’art. 113 c.p. non rappresenti affatto « una inutile e secondaria appendice della funzione incriminatrice ». V. anche supra, nota 84. (106) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 101. (107) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 118. (108) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 119. (109) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 120.
— 162 — colata che potrebbe invece assumere rilievo prioritario la prevedibilità dell’altrui condotta, in quanto elemento essenziale della fattispecie. In questa categoria di reati, infatti, il disvalore del fatto non si esaurisce nella produzione dell’evento naturalistico, ma ricomprende anche le specifiche modalità di condotta delineate dal legislatore. Il contenuto di colpa in capo al partecipe potrebbe allora legittimamente risolversi nella mera « prevedibilita », accanto all’evento, dell’altrui condotta tipica, in quanto insieme integranti il « complessivo evento » (Gesamterfolg) della figura criminosa in questione. In ogni caso, non si comprende la ragione per cui l’elemento soggettivo nella cooperazione colposa non debba essere ricostruito in termini sostanzialmente unitari, validi sia per il concorso nei reati causali puri che per quello nei reati a forma vincolata. Solo in tal modo riusciremo a comprendere su quali basi si esplichi la ipotizzata funzione estensiva della punibilità propria dell’art 113 c.p. Questa delicata operazione non può non tener conto, oltreché dei principi generali in tema di colpa, soprattutto dei principi generali accolti dal legislatore del 1930 in materia di concorso di persone nel reato. 5. Ricostruire l’elemento soggettivo nella cooperazione colposa significa, in primo luogo, riuscire a comprendere l’esatto significato del termine « cooperazione » nel delitto colposo. Ora, in assenza di specifiche indicazioni legislative di segno opposto, risulta opportuno interpretare in modo sostanzialmente unitario le clausole generali di cui agli artt. 110 e 113 c.p. Ciò trova, del resto, conferma già nella Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del codice penale, laddove si specifica che la scientia maleficii ha un contenuto fondamentale comune ed identico a tutte le forme di partecipazione, consistente appunto nella consapevolezza di concorrere, con la propria azione, all’altrui condotta (110). In questa prospettiva, a giustificare l’applicazione della disciplina concorsuale ex art. 113 c.p. è proprio il collegamento soggettivo tra le condotte di cooperazione. Si è, a riguardo, esattamente osservato che solo tale requisito può giustificare l’applicazione del regime concorsuale a coloro che abbiano contribuito colposamente alla realizzazione di un reato: detta disciplina si rivelerebbe, infatti, priva di senso se a fondare la cooperazione colposa fosse sufficiente « una mera convergenza di condotte diverse al di fuori di qualunque legame subiettivo » (111). In ciò, attraverso il legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, la disposizione in (110) Sul punto, nell’immediatezza dell’entrata in vigore del codice, BATTAGLINI, In tema di concorso, cit., 96 ; di recente, GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 113, 10. (111) GRASSO, loc. ult. cit.: in assenza di un collegamento psicologico tra le condotte
— 163 — tema di cooperazione nel delitto colposo acquista autonomia dogmatica e politico-criminale rispetto all’istituto del concorso di cause colpose indipendenti (112). Ora, sul terreno del reato colposo, il collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti si concreta, come sostenuto dalla dottrina prevalente (113), nella consapevolezza — anche unilaterale — di concorrere all’altrui fatto materiale. Tale elemento, del resto, risulta pienamente compatibile con la cooperazione colposa: la consapevolezza del partecipe, infatti, investe non il carattere colposo dell’altrui condotta, ma il sostrato di fatto che rende possibile qualificare come colposa, ex art. 43 c.p., la condotta dell’autore. A tale elemento sembra riferirsi il termine cooperazione nel delitto colposo: ancora una volta, si rivela di estremo interesse il raffronto con i lavori preparatori del codice penale, laddove si legge testualmente che il Progetto denomina cooperazione la volontà consapevole, in ciascuno dei concorrenti, di contribuire all’azione altrui, « quasi ad indicare il fascio di volontà insieme operanti nel porre in essere quel fatto, che è incriminato dalla legge per il danno o per il pericolo che ebbe a derivarne » (114). Non c’è dunque ragione per orientarsi verso la concezione più rigorosa, che richiede ai fini dell’applicabilità dell’art. 113 c.p. la consapevolezza del carattere specificamente colposo dell’altrui condotta, e che pure, come sopra osservato, è in grado di resistere alle obiezioni che le sono state mosse (115). Per estendere, nell’ambito della fattispecie concorsuale, l’incriminazione dall’autore al partecipe, la presenza del coefficiente psicologico richiesto all’uno nella dimensione monosoggettiva — in termini di rappresentazione del contesto materiale di azione che fonda la valutazione normativa di negligenza — è certo necessaria, ma nello stesso tempo del tutto sufficiente. Beninteso, ribadendo la necessità di un collegamento psicologico tra le condotte di cooperazione non si vuole negare che la colpa sia e rimanga dei concorrenti si rivelerebbe, ad es., priva di senso l’estensione a tutti i concorrenti delle cause di giustificazione. Nello stesso senso ALBEGGIANI, I reati, cit., 198 ss. (112) V. supra, n. 2., ed i Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IV, parte I (relazione introduttiva di S.E. Giovanni Appiani), par. 103, dove si legge che l’elemento discretivo tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti è dato proprio dalla « consapevolezza che ciascuno dei fattori dell’evento dannoso deve avere di contribuire all’azione altrui ». Tale elemento è essenziale « per qualsiasi forma di concorso, e quindi anche in delitti dolosi, o in contravvenzioni », e manca completamente nelle ipotesi di concorso di cause, « contaddistinte dalla concidenza fortuita di azioni colpose nel produrre lo stesso evento di danno senza alcun vincolo di coordinamento tra loro ». (113) V. supra, n. 4, nota 91. (114) Lavori preparatori, cit., par. 103. (115) V. supra, n. 4.
— 164 — soprattutto un criterio obiettivo di imputazione soggettiva: solo che il carattere eminentemente normativo della responsabilità colposa non può trasferirsi nel campo del concorso di persone nel reato senza alcuna considerazione (o quasi con pregiudiziale svalutazione) degli intrinseci connotati strutturali di tale complessa fattispecie (116). È vero che nella maggior parte delle ipotesi di colpa manca un effettivo substrato psicologico nel comportamento dell’agente (almeno in relazione all’evento tipico). Ma è pur vero che « sarebbe eccessivo voler dedurre da ciò un argomento contro la necessità di un requisito psichico quale elemento costitutivo della partecipazione colposa »: esso, anzi, si rivela, ad un’analisi più attenta, come un « contrassegno ‘‘specifico’’ del fatto plurisoggettivo » (117). Se ci si accontentasse della semplice « prevedibilità » dell’altrui condotta concorrente con la propria, in assenza di un effettivo legame psichico, ci si troverebbe di fronte a due possibili alternative, entrambe insoddisfacenti. Se la condotta del partecipe non è di per sé autonomamente colposa, la generica « prevedibilità » dell’altrui condotta concorrente con la propria può non bastare a legittimare una responsabilità a titolo di concorso colposo, posta la generale operatività del principio di affidamento quale limite alla indiscriminata configurazione di obblighi cautelari volti ad impedire fatti colposi di terzi (118). Se invece la condotta di partecipazione è intrinsecamente colposa, essa potrebbe già autonomamente rilevare ai sensi della singola fattispecie incriminatrice di parte speciale: ma, in tal modo, si rivelerebbe superfluo il ricorso all’art. 113 c.p. anche in semplice funzione di disciplina, non bastando la « prevedibilità » dell’altrui condotta a distinguere nella struttura e negli effetti la cooperazione colposa dal concorso di cause colpose indipendenti (119). È insomma l’elemento della consapevolezza di cooperare all’altrui condotta a fare della disposizione di cui all’art. 113 c.p. una fattispecie (116) Contra SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 82. (117) Così, esattamente, ALBEGGIANI, I reati, cit., 190: « solo se tutte le ipotesi di responsabilità colposa fossero necessariamente caratterizzate dall’assenza di contrassegni psichici, potrebbe apparire logicamente giustificato mettere in discussione il requisito della consapevolezza di concorrere con altri. Esistono, però, ipotesi di colpa in cui è indiscutibilmente presente una condotta « cosciente e volontaria » nel senso strettamente psicologico del termine e per le quali è perfettamente configurabile una realizzazione in concorso accompagnata dalla coscienza del concorso stesso ». (118) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 499: « la semplice circostanza di prevedere o poter prevedere che una nostra condotta agevola il comportamento colposo di un’altra persona, non è ancora sufficiente a farci incorrere in responsabilità ». Sul punto, v. quanto più approfonditamente si dirà infra, n. 6, sui rapporti tra art. 113 e principio di affidamento. (119) Proprio sulla base di tali argomentazioni ANGIONI, Il concorso, cit., 67 e ss., auspica de iure condendo l’abrogazione dell’art. 113 c.p. dal nostro sistema penale.
— 165 — concorsuale « propria ». Se così è, però, occorre appurare entro quali limiti la suddetta consapevolezza possa estendere i margini originari di incriminazione delle condotte colpose già punibili ai sensi delle singole norme incriminatrici di parte speciale. Resta cioè da chiarire definitivamente se la funzione estensiva della punibilità ricollegabile alle clausole generali in tema di concorso di persone nel reato sia, a sua volta, compatibile con i principi generali in materia di colpa. Se infatti, nel concorso doloso, il dolo di concorso appare, ad attenta dottrina, come un elemento in grado di supplire alla atipicità di origine del fatto del partecipe, può sembrare — a prima vista — che ciò non debba valere per una corrispondente « colpa di concorso » (120): la condotta colposa atipica, posto il carattere eccezionale della responsabilità colposa, deve normalmente ritenersi lecita. Sorge, di conseguenza, il sospetto che attribuire all’art. 113 c.p. piena efficacia incriminatrice in rapporto a condotte colpose atipiche realizzi un’intollerabile violazione del principio di frammentarietà (121). È giunto il momento di verificare l’esatta portata di tali questioni. 6. Si è visto che, nell’individuare i limiti della funzione estensiva della punibilità ricollegabile all’art. 113 c.p., la dottrina è solita distinguere l’ipotesi del concorso colposo in reati causalmente orientati da quella del concorso in fattispecie colpose a forma vincolata. È opportuno, per ragioni di comodità espositiva, continuare a seguire questo discrimen, per poi verificare, in un secondo momento, se esso sia realmente così netto e radicale come sostenuto dalla dottrina prevalente. Come è ben noto, infatti, una limitata funzione incriminatrice è riconosciuta all’art. 113 c.p. sul solo versante dei reati colposi a forma vincolata, mentre è generalmente negata in relazione ai reati causali puri (122). Si è autorevolmente sostenuto che attribuire una funzione estensiva della punibilità all’art. 113 c.p. sul fronte dei reati causalmente orientati sarebbe incompatibile con la stessa natura dell’imputazione colposa. Nell’ambito di questa categoria di reati, il disvalore penale si incentra tutto nella causazione dell’evento lesivo, mentre risultano indifferenti le modalità di condotta concretamente tenute dall’agente. Ma, sul terreno del reato colposo, la condotta risulterà tipica se, oltre a possedere efficacia causale nei confronti dell’evento, si ponga altresì in contrasto con una regola cautelare. Di conseguenza, nessuno spazio residuerebbe per una funzione estensiva della punibilità dell’art. 113 c.p.: se ciascuna condotta di (120) ANGIONI, op. cit., 75. (121) Infra, n. 7. (122) Secondo parte della dottrina tradizionale, peraltro, l’art. 113 c.p. non possiederebbe alcuna funzione estensiva della punibilità: ciò sul presupposto che tutti i reati colposi siano, in realtà, causalmente orientati. Cfr., sul punto, M.GALLO, Lineamenti, cit., 113.
— 166 — partecipazione è in contrasto col dovere obiettivo di diligenza, essa risulta già autonomamente punibile ai sensi della fattispecie incriminatrice di parte speciale; se, invece, la condotta di partecipazione non è intrinsecamente colposa, essa — per l’operare congiunto dei principi di frammentarietà e di affidamento — deve ritenersi lecita, dovendosi escludere in questo caso, ed a maggior ragione, un intervento della disposizione sulla cooperazione colposa in funzione incriminatrice (123). Questa impostazione, formalmente ineccepibile, merita tuttavia un’analisi più attenta. Essa, infatti, sembra non tener conto del particolare rapporto che intercorre tra la condotta colposa e l’evento lesivo: non qualunque condotta in contrasto con una regola cautelare è causa (colposa) dell’evento. Sul terreno del reato colposo, l’evento deve apparire altresì come la concretizzazione dello specifico rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire (124). Ora, sostenere che, nell’ambito dei reati causali puri, l’art. 113 c.p. svolga una semplice funzione di disciplina può indurre a significare che qualsiasi condotta negligente, anche se priva di una immediata connessione di rischio rispetto all’evento lesivo finale, possa già autonomamente essere riconducibile alla singola fattispecie incriminatrice di parte speciale di volta in volta in questione. Ma tale operazione, come già più volte rilevato in precedenza (125), comporta una indebita anticipazione della tipicità colposa a livello monosoggettivo (126). È stato acutamente sottolineato, a riguardo, come l’espressione « causazione colposa dell’evento » non equivalga affatto a « causazione + colpa »: (123) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 518. Bisogna comunque ricordare, in questa sede, come qualche Autore abbia tentato, in tempi recenti, di recuperare una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. anche in relazione ai reati causali puri. A riguardo, merita particolare attenzione il contributo di COGNETTA, La cooperazione, cit., 85 ss. Secondo l’A., il carattere colposo di un atto atipico di cooperazione non può non discendere che dalla violazione di una regola cautelare. Ora, nel nostro sistema penale, sarebbero individuabili « obblighi di natura cautelare che assumono ad oggetto non il proprio, ma l’altrui comportamento, nel senso che impongono di verificare, controllare, impedire eventuali attività colpose da parte di terzi ». A tale interpretazione si è replicato, pressoché unanimemente, che essa finisce per sovrapporre i profili della cooperazione colposa con i presupposti per l’operatività dell’art. 40 cpv. Essa merita, tuttavia, apprezzamento per aver tentato di individuare nell’art. 113 c.p. un livello di incriminazione di condotte originariamente non colpose, anche se finisce in tal modo per avallare la normale configurabilità di regole cautelari aventi ad oggetto l’impedimento del fatto colposo di terzi, quando in realtà tali norme hanno carattere eccezionale. Come vedremo, è invece la specifica consapevolezza, in capo all’agente, di cooperare all’altrui fatto materiale a giustificare una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p., superando il generale principio di affidamento, anche in assenza di una Garantenstellung. (124) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 501 e, di recente, FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, cit., 418. (125) V. supra, nn. 1 e 3. (126) GIUNTA, Illiceità, cit., 81.
— 167 — siffatta equivalenza, anzi, appartiene di per sé alla logica del versari in re illicita (127). Ora, proprio quest’ultima considerazione ci consente di avviare la comprensione della reale funzione svolta dall’art. 113 c.p. in rapporto ai reati causali puri. Su questo terreno, la ratio essenziale della funzione estensiva della punibilità dell’art. 113 c.p. consiste nella possibilità di superare — e non a spese della fattispecie colposa di base — la rigorosa connessione di rischio richiesta espressamente dall’art. 43 c.p. tra la regola cautelare violata e l’evento lesivo cagionato, sempre che sussista, in colui che coopera, la consapevolezza di concorrere al fatto materiale altrui, che vale appunto a rimuovere le scorie di versari altrimenti incombenti sulla responsabilità colposa. Solo su questa base acquistano rilievo penale condotte dotate di pericolosità ancora astratta ed indeterminata rispetto al fatto colposo realizzato in cooperazione. E su questa base, come abbiamo visto (128), si fonda la distinzione tra le varie forme di partecipazione al delitto colposo. Del resto, è certo un fatto abbastanza singolare, nel dibattito dogmatico intorno all’art. 113 c.p., che si neghi la possibilità di individuare forme di partecipazione penalmente rilevanti nell’ambito dei reati causali puri colposi (dove il disvalore si incentra sul profilo della causazione dell’evento) e si ammetta, d’altro canto, la configurabilità di contributi atipici di partecipazione colposa sul ben più arduo terreno dei reati a forma vincolata (129). Sul versante del concorso colposo in reati causali puri, la condotta di partecipazione si qualifica per essere una condotta pericolosa, la quale aumenta genericamente il rischio della verificazione di eventi lesivi a danno di terze persone. La condotta tipica rappresenta invece la concreta violazione della regola cautelare specificamente diretta ad evitare eventi del medesimo tipo di quello cagionato. È allora tutt’altro che scontato, in questa prospettiva e riprendendo il ben noto esempio dell’incauto affidamento, che — in assenza di una disposizione quale l’art. 113 c.p. — il proprietario dell’autovettura possa essere autonomamente chiamato a rispondere dell’omicidio o delle lesioni cagionate dal guidatore inesperto: il semplice fatto di consegnare le chiavi della propria autovettura a persona che si sa essere priva di patente non è per ciò solo fonte di responsabilità penale (130). Si pensi — a voler ap(127) FORTI, Colpa, cit., 422, in merito alle posizioni della più attenta dottrina d’oltralpe. (128) Supra, n. 3. (129) Cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 170. (130) Particolarmente significativa, a riguardo, appare Cass., Sez. IV, sent. 4873 del 14 aprile 1976, in Giust. pen., cit., 411, dove si afferma che l’affidamento incauto di un veicolo, concretando un reato di mero pericolo, non pone senz’altro in essere una cooperazione
— 168 — profondire la valenza della tralatizia esemplificazione in parola — ad un doppio ed alternativo esito dell’incauto affidamento, nel senso che l’evento lesivo sia cagionato, rispettivamente, da una eclatante imperizia da parte del guidatore non abilitato ovvero da una imprudenza (superamento dei limiti di velocità) in cui sarebbe potuto incorrere anche il più provetto dei piloti: può affermarsi con certezza che l’affidante risponda di delitto colposo ai sensi dell’art. 43 — ed al di fuori di una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. — anche in questa seconda ipotesi, in cui esula una stretta congruità, in termini di prevedibilità dell’evento, tra l’affidamento certamente incauto dell’autovettura e la concreta dinamica del sinistro? Solo riconoscendo, almeno in via di principio e salve eventuali indicazioni restrittive (131), una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p., potrà discutersi di una responsabilità colposa del proprietario dell’auto anche nel secondo esempio, in cui c’è una causazione colposa solo indiretta dell’evento lesivo concretamente verificatosi. A ben vedere, peraltro, già nel caso di evento lesivo che sia conseguenza della evidente imperizia del guidatore, una puntigliosa interpretazione dell’art. 43 potrebbe condurre ad escludere una responsabilità a livello monosoggettivo dell’affidante. La norma cautelare specificamente rilevante nella fattispecie è quella che impone il dovere di astensione a (e solo a) quanti non siano abili alla guida: è indiscutibile che la relativa violazione, anche se « agevolata » dal proprietario dell’autovettura, sia « propria » del solo pilota, la cui « autoresponsabilità » potrebbe tuttora valere come limite alla configurabilità di un distinto ed autonomo dovere di « prevenzione » in capo al primo. Sotto questo angolo prospettico, è dunque possibile cogliere finalmente il significato autentico e determinante della consapevole cooperazione tra più soggetti in vista dell’effetto estensivo dell’imputazione colposa. Il contesto consapevole di azione, che lega tra loro le condotte dei compartecipi, amplia l’ambito del dovere di diligenza fino a ricomprendere la (normalmente irrilevante) prevedibilità delle possibili conseguenze del fatto (non più del terzo ma) comune. Proprio tale prevedibilità è atipica a livello monosoggettivo, perché incontra il limite del Vertrauensgrundsatz: il fatto colposo del terzo, pur se prevedibile, non fonda, in via di principio, una corrispondente norma cautelare (132), né la questione delle eccezioni al principio di affidamento — che consentirebbero la genel fatto colposo eventualmente derivante dalla guida del veicolo affidato. La cooperazione nasce, infatti, solo nel momento in cui si dimostri che l’evento lesivo sia stato provocato esclusivamente dall’imperizia del guidatore inesperto. Si deduce, allora, a contrario, che la responsabilità dell’affidante debba essere comunque esclusa qualora l’incidente sia stato cagionato da una qualsiasi altra causa diversa dall’imperizia nella guida (come, ad es., un banale eccesso di velocità). (131) V. infra, n. 7. (132) Questo è l’equivoco in cui sembra appunto incorrere COGNETTA, La cooperazione, cit., 85 ss: v. supra, nota 123. Sul Vertrauensgrundsatz e sulle sue applicazioni (quali,
— 169 — nesi a livello monosoggettivo di un’autonoma regola diretta a prevenire il fatto altrui — sembra immune da profili di incertezza ed opinabilità (133). Solo la consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti consente all’interprete di superare di slancio e senza residue perplessità il principio di affidamento, solido argine della tipicità colposa monosoggettiva: la consapevolezza di cooperare con altri, ponendosi come indispensabile elemento di coesione del « fascio di volontà insieme operanti » nella produzione dell’evento (134), fa sì che l’intero fatto sia proprio, al tempo stesso, dell’autore e del partecipe e che dunque l’uno non assuma più rispetto all’altro la veste di « terzo » (più o meno « affidabile »). Del sinistro causato dalla totale imperizia del guidatore non abilitato, il proprietario (affidante) dell’auto è responsabile, a titolo di concorso colposo, non tanto per il fatto che le circostanze del caso concreto ribaltassero il principio di affidamento facendo sorgere a suo carico un preciso e distinto dovere di prevenzione, quanto piuttosto perché è come se lui stesso si fosse messo alla guida della propria auto senza essere fornito di patente di guida. In questo senso, è possibile affermare che anche la « colpa di concorso » appare, analogamente al c.d. dolo di concorso, come un dato in grado di supplire all’atipicità originaria del fatto del partecipe. In assenza di « cooperazione », nel senso sopra delineato, l’intervento di terze persone nella produzione dell’evento assume il rilievo di un semplice fattore causale « esterno » ed indipendente: in mancanza del contesto consapevole di interazione, quindi, la condotta dotata di pericolosità astratta ed indeterminata rispetto all’evento concretamente realizzatosi non può considerarsi in via di principio punibile. Solo la cooperazione trasforma il fatto del terzo nel fatto (proprio) del partecipe, fondando e giustificando la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. Così, ad esempio, il passeggero che istiga il conducente ad aumentare la velocità « fa propria » la violazione della regola di prudenza da parte di quest’ultimo; allo stesso modo, l’ingenuo campeggiatore che fornisce la legna perché il compagno accenda il fuoco « fa propria » l’inosservanza della regola di prudenza dell’esecutore materiale (135). Ma conviene ancora sottolineare che siffatta ad es., l’attività medico-chirurgica di èquipe e la circolazione stradale), cfr. CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, cit., sub par. 15, 149 ss. e, di recente, ROXIN, Strafrecht, AT, Band I, München, 1992, par. 24, 21 ss. (133) Il fatto stesso che la configurabilità delle eccezioni al principio di affidamento sia per lo più rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice sulla base delle circostanze del caso concreto rafforza il dubbio che i limiti al Vertauensgrundsatz siano quanto meno « elastici » e necessariamente relativi: cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 499 ss. (134) Lavori preparatori, cit., par. 103. (135) Ad una conclusione analoga non potrebbe certo giungersi nel caso in cui taluno lasci in una radura della legna pronta per ardere che altri, successivamente e del tutto autonomamente, userà per accendere il fuoco provocando un incendio. Per tale ragione ri-
— 170 — funzione incriminatrice non consiste — come pure talora è stato sostenuto (136) — nel promuovere nuove norme cautelari « di secondo grado », volte ad impedire il fatto illecito altrui, già irrilevanti a livello monosoggettivo: essa si esplica piuttosto nel rendere il concorrente, appunto, « partecipe » dell’unica, originaria, persistente regola di diligenza rimarcabile nel caso di specie. L’elemento della consapevolezza di cooperare all’altrui fatto materiale consente inoltre di risolvere, caso per caso, le ipotesi in cui le condotte dei singoli agenti si realizzino in momenti cronologicamente distinti. Torniamo all’ ambiguo caso della pistola incustodita, suscettibile di per sé di una serie di importanti « variazioni sul tema ». Se l’arma dimenticata da Tizio viene, in un secondo momento, maneggiata incautamente da Caio con esito tragico, manca alcun tipo di collegamento psicologico tra le condotte degli agenti e l’applicabilità dell’art. 113 c.p., di conseguenza, è esclusa. A conclusioni diverse deve giungersi qualora invece Tizio consegni a Caio, che vuole ammirarla, una pistola carica, avendo dimenticato che il colpo è in canna e/o omettendo di avvertire a riguardo Caio. Se Caio lascia partire un colpo, è certo responsabile per colpa; ma, nella stessa misura, lo è anche Tizio, il quale non potrebbe invocare alcun tipo di affidamento: in virtù della consapevole cooperazione all’altrui condotta, è come se avesse lui stesso premuto il grilletto con l’imperdonabile imprudenza di non aver prima verificato le condizioni dell’arma. È appena il caso di rilevare che, nelle ipotesi di condotte colpose non concomitanti, la mancata applicazione dell’art. 113 c.p. per difetto di « legame psicologico » non esclude tuttavia un’indagine più approfondita, intesa a verificare se sussistano, in capo ai singoli agenti, gli estremi della tipicità colposa monosoggettiva nella prospettiva del principio di affidamento e dei suoi, sia pur opinabili, limiti. Determinante, a tal fine, sarà la valutazione delle circostanze del caso concreto. Così, ad esempio, se Tizio lascia incustodita la pistola carica a disposizione dei figli piccoli che giocano per casa, risponderà di delitto colposo ex art. 43 c.p. per le lesioni da costoro cagionate nel maneggiare l’arma. Viceversa, se Tizio lascia incustodita la pistola carica essendo i familiari con lui conviventi tutti adulti ed autoresponsabili, può ragionevolmente supporsi che vada esente da responsabilità nelle medesime circostanze. Sul diverso versante dei reati colposi a forma vincolata, l’art. 113 possiede, per riconoscimento pressoché unanime della dottrina, una sua limitata funzione incriminatrice (137). Per mezzo dell’art. 113 c.p., sasulta quanto meno discutibile la già citata Cass., Sez. IV, sent. 8891 del 10 agosto 1987 di cui alla nota 78. (136) V. supra, nota 123. (137) In tal senso ALBEGGIANI, I reati, cit., 180; ANGIONI, Il concorso colposo, cit., 74; COGNETTA, La cooperazione, cit., 85; GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 113, 18;
— 171 — rebbe cioè possibile punire condotte colpose atipiche sulla base di un effettivo collegamento psicologico tra le condotte dei concorrenti. A riguardo, tuttavia, qualche Autore auspica, de iure condendo, l’eliminazione dell’art. 113 c.p. dal nostro sistema penale (138): l’abrogazione della disposizione in esame costituirebbe un’adeguata risposta « alla ratio che presiede alla differenziazione originaria delle fattispecie nelle due categorie dei tipi liberi e vincolati » (139). Secondo questa impostazione, il deficit di tipicità della condotta di partecipazione può essere giustificato, alla luce di valutazioni di opportunità politico-criminale, sul solo versante del concorso doloso in reati a forma vincolata, posta la maggiore pericolosità oggettiva e soggettiva di tale fattispecie. Viceversa, sul fronte del concorso colposo, essa appare intollerabile: in presenza di una tipologia meno grave di illecito, una così evidente violazione del principio di frammentarietà diventa inaccettabile, sia sotto il profilo strettamente dogmatico, sia sotto quello politico-criminale. In tempi recenti, però, si è replicato che, in realtà, siffatta argomentazione può essere condivisa solo a condizione di estendere le medesime considerazioni anche al concorso doloso in fattispecie a forma vincolata (140). Anzi, ad una più attenta analisi delle disposizioni in tema di concorso di persone nel reato, apparirebbe tutt’altro che scontato che il concorso doloso sia sempre dotato di una maggiore pericolosità oggettiva e soggettiva rispetto al concorso colposo, essendo sempre necessaria, piuttosto, una concreta valutazione della singola fattispecie di reato di volta in volta in questione (141). Ciò varrebbe, in primo luogo, se solo si valuta l’effettiva pericolosità oggettiva di talune ipotesi di concorso. Basti pensare, sul versante del concorso doloso, a certe fattispecie di concorso morale, in cui « la ratio dell’incriminazione del fatto concorsuale non consiste nel maggior pericolo concreto suscitato dalla confluenza volontaria dei comportamenti » (142). Sarebbe, d’altro canto, invece possibile rinvenire alcune condotte concorFIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit.,518; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 170 e ss. (138) ANGIONI, Il concorso, cit., 74, e FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit, 519. (139) ANGIONI, Il concorso, cit., 74. (140) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 170. (141) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 171 e 172. (142) SEVERINO DI BENEDETTO, loc. ult. cit.: l’Autrice fa l’esempio della condotta di istigazione che si limiti a fare insorgere in altri un proposito criminoso, senza che ad essa si accompagni alcun contributo materiale alla verificazione dell’evento. In un caso del genere, non potrà certo dirsi « che il combinarsi volontario dell’azione dell’istigatore con quella dell’esecutore renda il comportamento concorsuale oggettivamente più pericoloso di quello ascrivibile ad un solo soggetto ».
— 172 — suali colpose in cui il convergere colposo delle condotte dei concorrenti rafforzi la pericolosità oggettiva del fatto (143). Riflessioni analoghe varrebbero anche in merito alla pericolosità soggettiva della condotta di concorso, soprattutto qualora si ritenga che, nell’ambito della cooperazione colposa, la colpa costituisca un criterio di imputazione soggettiva a tutti gli effetti. Oltretutto, secondo le più recenti acquisizioni dottrinali, a differenza di quanto accade sul versante del concorso in reato doloso, una portata incriminatrice ex novo dell’art. 113 c.p. per condotte colpose originariamente atipiche dovrebbe sempre essere filtrata attraverso i canoni di ricostruzione dell’addebito colposo: per garantire il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale, la condotta colposa atipica dovrebbe possedere un disvalore oggettivo e soggettivo del tutto assimilabile a quello della condotta colposa tipica. In tal modo, allora, la funzione estensiva della punibilità svolta dall’art. 113 in relazione a fattispecie colpose a forma vincolata si rivelerebbe addirittura più rispettosa del principio di frammentarietà rispetto alla portata incriminatrice, ben più ampia ed indiscriminata, dell’art. 110 c.p. sul fronte delle condotte dolose atipiche (144). Queste interessanti riflessioni, pur contribuendo ad una rilettura critica della disposizione sulla cooperazione colposa, sembrano comunque non tener conto del rilievo, probabilmente decisivo, che a livello politicocriminale la deroga al principio di frammentarietà è giustificata, sul versante dell’art. 110 c.p., dal maggior disvalore soggettivo della condotta dolosa rispetto a quella colposa: il dolo di partecipazione consentirebbe, in questa prospettiva, « un maggior coagulo degli indici fattuali da cui dipende la tipicità della condotta concorsuale » (145). Viceversa, sul fronte del concorso in reato colposo a forma vincolata, l’estensione della soglia della tipicità racchiude in sé il rischio dell’incriminazione di condotte sostanzialmente lecite. Rimane da risolvere, allora, un’ultima fondamentale questione: quella relativa al potenziale contrasto tra cooperazione colposa e principio di frammentarietà. Se è vero, infatti, che l’art. 113 c.p. è una clausola dotata di efficacia estensiva della punibilità analogamente all’art. 110 c.p., biso(143) È, questo, a ben vedere, proprio il classico caso della gara automobilistica. Sul punto, v. SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., 171 e ss. Nell’ambito del concorso in fattispecie colpose a forma vincolata, l’Autrice ipotizza, ad es., la colposa distibuzione, capillare e diffusa, ad opera di più soggetti, di medicinali guasti destinati al commercio. (144) SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., 173: mentre la ricostruzione del dolo si modella « su un’immagine astratta, riproducibile in forma identica per tutti i possibili oggetti della volontà e della rappresentazione ed inidonea, di per sé, a supplire alla atipicità originaria della condotta », la ricostruzione del fatto colposo « passa invece sempre attraverso le note caratterizzanti del fatto concreto », dal quale viene tratta la regola cautelare applicabile. (145) GIUNTA, Illiceità, cit., 80.
— 173 — gna chiedersi entro quali limiti la « colpa di concorso » possa valere ad incriminare condotte colpose atipiche senza violare i principi fondamentali della materia penale: problema, questo, che investe in primo luogo, ad onta di quanto sostenuto dalla dottrina più recente (146), proprio il concorso colposo in reati a forma vincolata. 7. La disposizione sulla cooperazione colposa condivide la stessa ratio dell’art. 110 c.p. e possiede pertanto, sul versante del reato colposo, una generale funzione estensiva dei margini originari di tipicità delle condotte punibili analoga a quella svolta dall’art. 110 sul terreno del reato doloso. Prima della sua entrata in vigore, erano allora nel giusto quei criminalisti italiani che ritenevano inammissibile, in assenza di una norma ad hoc, la configurabilità di una partecipazione criminosa nel delitto colposo (147): le condotte di partecipazione materiale o morale all’altrui fatto colposo acquistano rilievo penale solo per il tramite dell’art. 113 c.p., pena l’indebita estensione dell’area della tipicità colposa monosoggettiva. Queste riflessioni meritano un ulteriore approfondimento, soprattutto nella prospettiva della eventuale abrogazione, più volte auspicata in dottrina, della generale previsione in tema di concorso colposo. In assenza di una norma come l’art. 113 c.p., dovremmo « rassegnarci » a ritenere tipiche solo le condotte descritte nelle singole fattispecie incriminatrici di parte speciale, ovvero — nei reati causali puri — soltanto le condotte che si pongano in specifica ed immediata prossimità di rischio rispetto all’evento lesivo finale, tenuto conto dei limiti derivanti dal principio di affidamento. E si dovrebbe evitare, in particolare, di incorrere nella già segnalata tendenza, frequente nella dottrina d’oltralpe, ad anticipare disinvoltamente la portata preventiva della regola cautelare fino a ricomprendervi condotte ritenute irrilevanti dal legislatore storico (148). Per tal via, infatti, come dimostrato dall’elaborazione dogmatica in tema di falso giuramento colposo di cui al par. 163 StGB, il canone della frammentarietà è violato in maniera ancora più insidiosa, visto che autentiche forme di partecipazione atipica all’altrui fatto colposo vengono, da certa dottrina, ritenute punibili sulla sola base della norma incriminatrice in questione (149). Se così stanno le cose, è realmente auspicabile un’abrogazione dell’art. 113 c.p. (o del solo art. 113)? È certo un dato curioso che si solleciti (146) SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 170 ss. (147) Cfr., tra gli altri, FLORIAN, Parte generale del diritto penale, Milano, 1926, vol. II, 48, e PESSINA, Elementi di diritto penale, Napoli, 1882, vol. I, 264. (148) CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, cit., sub par. 25, 59. (149) Cfr. supra, n. 1.
— 174 — insistentemente l’eliminazione dal nostro sistema penale di una norma ritenuta inutile (quanto meno sul versante dei reati causali puri) e pericolosa al tempo stesso (150). Questi due aggettivi sono spesso ricorrenti nei numerosi studi sulla cooperazione colposa: eppure, in un certo senso, rappresentano una contraddizione in termini. Se la previsione di cui all’art. 113 c.p. è realmente « inutile » in rapporto ai reati causalmente orientati, perché sostanzialmente affine all’art. 41, comma terzo c.p., essa è quanto meno « innocua » ed insuscettibile, come tale, di porsi in contrasto con i principi fondamentali della materia penale. Se, viceversa, l’art. 113 c.p. è norma « pericolosa » perché dotata di efficacia estensiva della punibilità, l’atteggiamento della dottrina prevalente risulta altrettanto poco convincente: da un lato, infatti, viene sottolineata l’incompatibilità tra concorso colposo e principio di frammentarietà; dall’altro, invece, l’ambito di operatività della previsione in esame viene comunque valorizzato, ora attraverso il ridimensionamento dell’elemento soggettivo qualificante la cooperazione, ora tramite il riconoscimento di una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. sull’arduo terreno dei reati a forma vincolata, che, a ben guardare, potrebbe essere escluso attraverso una accorta interpretazione restrittiva. Nell’uno e nell’altro caso, resta il dubbio che il concorso colposo rimanga tuttora per la dottrina italiana una sorta di imbarazzante enigma: una disposizione, cioé, che ha comportato una lunga serie di incertezze sul suo significato, sulla sua struttura e sul suo ambito di operatività soprattutto per la mancata disponibilità, per un verso, a riconoscerne apertamente la funzione di clausola incriminatrice e, per altro verso, a promuoverne appunto una attenta interpretazione restrittiva. Estremamente significativo, in proposito, è il fatto che, da parte della giurisprudenza pressoché unanime (151) e della dottrina prevalente (152), l’art. 113 non sia mai stato ritenuto una norma di « sbarramento » contro la configurabilità di un concorso colposo nelle contravvenzioni, che sono per lo più pre(150)
Questo è quanto emerge dall’attenta analisi di ANGIONI, Il concorso, cit., 67
e ss. (151) Per un’accurata rassegna giurisprudenziale in materia, v. ALDOVRANDI, Il concorso, cit., 105 ss. Non manca, in dottrina, chi ha sottolineato come l’orientamento della giurisprudenza sia sì unanime, ma assolutamente scarno di motivazioni: cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 264. (152) Si pronunziano a favore dell’ammissibilità di un concorso colposo nelle contravvenzioni, tra gli altri, ALDOVRANDI, op. cit., 121; CARACCIOLI, Profili del concorso di persone nelle contravvenzioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 949 ss.; COGNETTA, La cooperazione, cit., 83; GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art.113, 25-27 e, in termini più cauti, INSOLERA, voce Concorso, cit., 481. In senso contrario, e con convincenti argomentazioni dogmatico-interpretative e politico-criminali, ALBEGGIANI, I reati, cit., 194 ss.; ALICE, Il concorso, cit., 1038; ANGIONI, Il concorso, cit., 87; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 260 ss.
— 175 — viste tra l’altro in forma vincolata (153), quando pure avrebbe potuto essere valorizzato a contrario il riferimento al delitto colposo in esso contenuto. Si attribuisce, in tal modo, funzione incriminatrice — sul versante delle tipologie meno gravi di illecito — ad una previsione solo deducibile dall’art. 110: la violazione del principio di frammentarietà è qui tanto più grave quanto più si consideri la crescente proliferazione — nella legislazione penale speciale degli ultimi anni — degli illeciti contravvenzionali (basti pensare alla normativa in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro o, ancora, ai reati urbanistici ed a gran parte dei reati tributari) (154). Ora, prima di giungere ad auspicare l’eliminazione de iure condendo della cooperazione nel delitto colposo, è quanto meno opportuno prendere in considerazione almeno tre possibili itinerari da seguire, de iure condito, per una ragionata interpretazione restrittiva dell’art. 113 c.p., volta a scongiurare il pericolo di applicazioni distorte della previsione in esame ed a ridimensionare, al tempo stesso, il contrasto con il canone della frammentarietà. In primo luogo, l’attrito tra cooperazione colposa e principio di frammentarietà potrebbe essere notevolmente contenuto attraverso un’adeguata valorizzazione del c.d. legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, in linea, del resto, con i principi generali che regolano la partecipazione criminosa dolosa e colposa. In questa prospettiva, potrebbe anche richiedersi all’interprete maggior rigore nella determinazione dell’elemento soggettivo qualificante la « cooperazione ». A limitare fortemente l’efficacia incriminatrice dell’art. 113 c.p. sarebbe invero sufficiente richiedere, in capo al partecipe, la consapevolezza del carattere specificamente colposo dell’altrui condotta (155). Certo è, tuttavia, che il rischio sotteso a siffatta operazione, come già accennato in precedenza (156), è quello di realizzare una sorta di interpretatio abrogans della disposizione sul concorso colposo, che ne circoscriva l’applicazione ad un numero assolutamente esiguo di casi. Una strada decisamente più efficace è invece fornita all’interprete da una rilettura dell’art. 113 c.p. che si fondi su di una appropriata valorizzazione del dettato testuale della disposizione. La norma sul concorso colposo fa riferimento ad un evento cagionato dalla cooperazione di più persone. Se per « evento » ci si limitasse ad intendere — sulla falsariga di quanto pressoché unanimemente affermato a proposito della sfera di ope(153) Sottolinea esattamente il contrasto tra l’eventuale configurazione di un concorso colposo nelle contravvenzioni ed il canone della frammentarietà ALBEGGIANI, I reati, cit., 194 ss. (154) ALDOVRANDI, Il concorso, cit., 105. (155) LATAGLIATA, voce Cooperazione, cit., 615, e SPASARI, Profili, cit., 79. (156) Cfr. supra, n. 5.
— 176 — ratività dell’art. 40 cpv. c.p. (157) — l’elemento costitutivo di un reato causalmente orientato e non invece il « termine riassuntivo dell’intero fatto e del suo globale disvalore penale » (158), potremmo escludere l’operatività della clausola di cui all’art. 113 sul problematico versante dei reati a forma vincolata. In tal modo, l’efficacia estensiva della punibilità propria della norma in questione si esplicherebbe solo in rapporto a reati causali puri di evento, attribuendo rilevanza penale — sul presupposto della consapevolezza di concorrere all’altrui fatto materiale — a (normalmente irrilevanti) condotte dotate di un ancor generico grado di pericolosità. Si recupererebbe così, in considerazione del minor disvalore soggettivo di condotta caratterizzante il concorso colposo rispetto a quello doloso, « la ratio che presiede alla differenziazione originaria delle fattispecie nelle due categorie dei tipi liberi e vincolati » (159). Del resto, la scelta di non criminalizzare contributi atipici di partecipazione nei reati a forma vincolata appare pienamente plausibile sia a livello dogmatico-interpretativo che a livello politico-criminale. Nei reati a forma vincolata le modalità di aggressione penalmente rilevanti ad un determinato bene giuridico sono già state selezionate dal legislatore: ne consegue che, in rapporto a questa categoria di illeciti, la condotta colposa atipica ben potrebbe considerarsi irrilevante anche in una manifestazione plurisoggettiva. Un discorso a parte merita infine la complessa querelle, cui si è prima accennato, sulla configurabilità di un concorso colposo nelle contravvenzioni. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti sembrano qui ignorare, ancora una volta, il dettato testuale dell’art. 113 c.p., il quale limita espressamente l’operatività del concorso colposo ai soli delitti, analogamente a quanto disposto dall’art. 56 c.p. per il tentativo. L’orientamento dominante in dottrina ritiene anzi che proprio l’art. 113 c.p. consentirebbe di superare la previsione di cui all’art. 42, comma secondo c.p. in ordine all’elemento psicologico nei delitti. Secondo questa tesi, dato che nei delitti (a differenza che nelle contravvenzioni) la colpa è un criterio di imputazione eccezionale rispetto al dolo, la responsabilità per una condotta di partecipazione ad un delitto colposo non avrebbe potuto essere affermata in assenza della previsione normativa espressa di cui all’art. 113 c.p. (160). Viceversa, per i fatti contravvenzionali, punibili indifferentemente a titolo di dolo o a titolo di colpa, la punibilità di una condotta colposa di partecipazione sarebbe già desumibile dalla omnicomprensiva pre(157) Sia sempre consentito il rinvio a RISICATO, La partecipazione mediante omissione, cit.,1274 ss. (158) Così invece SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 38. (159) ANGIONI, Il concorso, cit., 74. (160) Per tutti GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 113, 25-27.
— 177 — visione di cui all’art. 110, senza dover ricorrere ad un’espressa previsione normativa. La dottrina più sensibile ha, a riguardo, acutamente replicato che siffatta interpretazione produrrebbe il singolare effetto di rendere applicabili al concorso colposo nelle contravvenzioni le aggravanti di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 112, escluse invece dallo stesso art. 113 c.p. per la più grave ipotesi di concorso in delitto colposo (161). A ciò si è ribattuto che le suindicate aggravanti si riferirebbero strutturalmente ai soli delitti dolosi e sarebbero pertanto inapplicabili al concorso colposo nelle contravvenzioni. Tale osservazione, tuttavia, ad un’analisi più attenta, finisce in realtà col ribadire, più che con l’escludere, che l’art. 110 ricomprenda nel suo ambito di operatività soltanto ipotesi di concorso doloso in delitti o in contravvenzioni (162). In ogni caso, al di là di pur stringenti valutazioni dogmatico-interpretative, bisogna chiedersi se sia legittimo attribuire una così ampia efficacia estensiva della punibilità ad una disposizione appena implicita nell’art.110 c.p. Così operando, infatti, « il risultato in termini di incriminazione ex novo di comportamenti, altrimenti atipici, di concorso colposo sarebbe, per le ipotesi contravvenzionali, estremamente più vasto di quello configurabile per i casi di delitto » (163). Non può non notarsi come sia quanto meno anomalo il fatto che da un lato si censuri la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. sul versante dei delitti colposi e si ammetta, dall’altro, la configurabilità del concorso colposo per tipologie meno gravi di illecito, finendo col reprimere contributi di partecipazione dotati di un disvalore penale assolutamente marginale. È allora opportuno, de iure condito, cominciare a recuperare le istanze di frammentarietà attribuendo all’art. 113 c.p. la tanto contestata funzione di « sbarramento » alla indiscriminata configurabilità di un concorso colposo nelle contravvenzioni. Solo su queste basi sarà possibile valutare l’opportunità di abolire, de iure condendo, l’istituto del concorso colposo. Certo è, d’altra parte, che un’eventuale abrogazione del solo art. 113 c.p. si rivelerebbe un intervento settoriale di ben modesta portata: tutte le clausole dotate di efficacia estensiva della punibilità presenti nella parte generale del codice penale presentano, a ben vedere, profili di incompatibilità con i canoni di frammentarietà, proporzione e necessità del controllo penale, spesso ben (161) Cfr., nello stesso senso, ALBEGGIANI, I reati, cit., 194 ss., e ANGIONI, Il concorso, cit., 87. (162) Sul punto, v. anche SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione, cit., 272. (163) Così ALBEGGIANI, I reati, cit., 194 ss.
— 178 — più consistenti di quelli rilevati nel corso della nostra disamina sull’art. 113 c.p. (164), e meriterebbero pertanto un robusto ripensamento critico. Un’eventuale riformulazione (e, al limite, abrogazione) del concorso colposo non può quindi non passare attraverso una globale riconsiderazione delle tecniche normative adottate dal legislatore del 1930 a proposito delle c.d. forme di manifestazione del reato in generale, di cui la norma sulla cooperazione colposa rappresenta forse, a dispetto delle apparenze, la sfaccettatura meno ambigua. LUCIA RISICATO Dottoranda in Diritto penale italiano e comparato presso l’Università di Pavia
(164) Cfr. a riguardo i penetranti rilievi di DE VERO, Le forme di manifestazione del reato, cit., 195.
MALTRATTAMENTI MEDIANTE OMISSIONE?
SOMMARIO: 1. Condotta commissiva tipica e bene giuridico tutelato. — 2. La « ripetizione » degli atti come nota qualificante della fattispecie di maltrattamenti. — 3. La problematica rilevanza penale dei maltrattamenti omissivi. — 4. Sul concorso mediante omissione nel reato di maltrattamenti. — 5. I maltrattamenti omissivi nel vigente sistema penale e nel Progetto di legge-delega di un nuovo codice penale.
1. Condotta commissiva tipica e bene giuridico tutelato. — La condotta tipica del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (1) è descritta mediante l’esclusivo impiego del verbo maltrattare, ritenuto, per lo più, di significato molto incerto (2). (1) Sul reato in esame v., in generale: BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, V, 2a ed., Torino, 1996; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, p.te sp., I, 12a ed., Milano, 1996, 483; COLESANTI-LUNARDI, Il maltrattamento del minore. Aspetti medico-legali, giuridici e sociali, Milano, 1995; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993; SCHIAVANO, Sub art. 572 c.p., in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi, Stella, Zuccalà, Padova, 1992; MAZZA, voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enc. giur., XIX, Roma, 1990; COLACCI, Problemi a proposito del delitto di maltrattamenti, in Nuovo dir., 1989, 391; CORRERA-MARTUCCI, La violenza in famiglia, Padova, 1988; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VII, Torino, 1984; COPPI, Maltrattamenti in famiglia, Perugia, 1979; ID., voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enc. dir., XXV, Milano, 1975; PATERNITI, La famiglia nel diritto penale, Milano, 1970; MANTOVANI, Riflessioni sul reato di maltrattamenti in famiglia, in Studi Antolisei, II, Milano, 1965, 229; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Noviss. dig. it., X, Torino, 1964; PANNAIN A., La condotta nel delitto di maltrattamenti, Napoli, 1964; COLACCI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, Napoli, 1963; PETTENATI, Sulla struttura del delitto di maltrattamenti in famiglia, in questa Rivista, 1961, 1106; PISAPIA G.D., Delitti contro la famiglia, Torino, 1953; GIOFFREDI, voce Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Nuovo dig. it., VIII, Torino, 1939. (2) L’indeterminatezza del termine emerge altresì dalla definizione mantenuta nei dizionari dalla lingua italiana. Nella più recente edizione del Devoto-Oli, Firenze, 1957, si legge, ad esempio: « Maltrattare. Trattare con durezza, rigore eccessivo e ingiustificato o addirittura brutale violenza o crudeltà ». Gli atti attraverso cui può essere realizzato il reato in questione presentano, malgrado la loro omogeneità offensiva, una diversità tale da rendere difficile una puntuale individuazione della norma, per cui ci si rimette « al saggio apprezzamento del giudice, il quale dovrà tener conto anche della condizione sociale e della situazione particolare delle persone »: così ANTOLISEI, Manuale, 486; nello stesso senso MANZINI, Trattato, 931. Per MANTOVANI, Riflessioni, 245, « nella generica nozione di maltrattamenti possono rientrare fatti ontologicamente e offensivamente diversi, allorché ne presentino oggettivamente e soggettivamente i connotati ». La genericità della formula usata nell’art. 572
— 180 — Occorre preliminarmente sgombrare il campo dai possibili equivoci in cui sono incorse talvolta sia la dottrina che la giurisprudenza, oltrepassando i limiti consentiti da una puntuale applicazione della norma: l’elasticità di certe espressioni utilizzate non deve comportare rischi di assoluta indeterminatezza della fattispecie (3). Sono stati, ad esempio, ritenuti integranti l’illecito di cui all’art. 572 c.p., sia pure da una giurisprudenza risalente, anche fatti genericamente lesivi del decoro o dell’integrità morale del soggetto passivo (4). Tuttavia sembra più plausibile ritenere necessario, per la realizzazione del reato in questione, un comportamento « specifico e determinato, tale da provocare una vera e propria degradazione, fisica o morale, della persona offesa » (5). Questa interpretazione sembra oltretutto imposta dai risultati cui si perviene in ordine alla determinazione del bene giuridico protetto dall’art. 572 c.p., attraverso successivi affinamenti delle diverse posizioni assunte dalla dottrina anche in relazione alla « nuova » collocazione codicistica della norma medesima. Rientrando i maltrattamenti nel novero dei reati contro la famic.p. corrisponde ad una precisa scelta legislativa nel senso dell’elaborazione di una norma programmaticamente non-tassativa: la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, 359, manifesta espressamente la volontà di non dare una definizione dei maltrattamenti, « non potendosi contenere in una formula legislativa le varie specie che tali maltrattamenti assumono in pratica ». (3) Sul principio di determinatezza cfr., in generale, PALAZZO, voce Legge penale, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, 355 ss.; ID., Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979; PAGLIARO, Principio di legalità e indeterminatezza della legge penale, in questa Rivista, 1969, 694 ss.; BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 277 ss. « Una tecnica normativa suscettibile d’indurre incertezze sul contenuto del fatto » non corrisponde « alle esigenze del principio di determinatezza »: così, testualmente, una delle rare pronunce di illegittimità costituzionale per violazione del principio di tassatività della fattispecie penale (Sent. n. 282, 11-14 giugno 1990). L’art. 572 c.p., nonostante l’indeterminatezza dell’espressione usata, non è stato ritenuto in contrasto con l’art. 252 Cost., in quanto « la condotta tipica può configurarsi con sufficiente precisione in relazione ad altre norme penali generiche e specifiche »: così Ass. Milano, 16 aprile 1973, in Temi, 1973, 217, con nota di RAMAJOLI, Incostituzionalità del delitto di maltrattamenti in famiglia?. Problemi di incompatibilità col principio di sufficiente determinatezza della fattispecie sono posti altresì dalla mancata indicazione del numero di episodi necessario per integrare la serie minima, la cui individuazione è lasciata al giudice: non condivide del tutto tale obiezione PETRONE M., voce Reato abituale, in Dig. disc. pen., XI, Torino, 1996, 192 e 202 s. (4) Cfr. Cass., 7 giugno 1960, in Riv. pen., 1961, II, 776; Cass., 26 gennaio 1951, ivi, 1951, 543; Cass., 17 gennaio 1930, ivi, 1930, 785. « I semplici diverbi, le mere mancanze di riguardo, e altre manifestazioni di mala educazione, non costituiscono maltrattamenti, nel senso dell’art. 572, perché non è compito della legge penale quello di sanzionare il galateo, bensì soltanto di prevenire e reprimere i fatti che aggrediscano o mènomino notevolmente interessi fondamentali della persona »: così MANZINI, Trattato, 931. (5) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 75.
— 181 — glia (6), si è talora ritenuta la salvaguardia della stessa interesse prevalente e caratteristico della fattispecie (7); mentre l’incolumità fisica e psichica delle persone offese dai maltrattamenti sarebbe il bene giuridico protetto in via subordinata e riflessa (8). La disposizione in esame, se avesse mirato esclusivamente o principalmente alla tutela dell’integrità dei singoli da ingiuste aggressioni, sarebbe stata infatti superflua, posto che il Titolo XII prevede reati contro la persona, alcuni dei quali aggravati quando commessi a danno di individui appartenenti alla famiglia (9). In altri termini, i maltrattamenti non sarebbero puniti per l’offesa direttamente arrecata alla persona in ragione del suo status, ma perché attraverso le sofferenze inflitte ad un membro della famiglia verrebbe lesa la stessa, turbandola nell’ordine e nella saldezza (10). Né l’estensione della fattispecie tipica oltre i confini della famiglia è parsa costituire un ostacolo insuperabile per la coerenza della tesi esposta, sussistendo una palese analogia dei rapporti tra familiari e quelli tra le altre persone menzionate nella norma (11). Siffatta impostazione è parsa tuttavia non condivisibile laddove, dando per scontato che il bene giuridico tutelato sia la famiglia e dilatando oltre misura i limiti di questa, invertirebbe i termini del problema (12). Prendendo invece le mosse, come appare metodologicamente più corretto, dall’analisi dei singoli elementi della fattispecie, emerge, quale dato ricorrente in tutte le relazioni contemplate dalla norma, la condizione di disparità in cui vengono a trovarsi l’agente (soggetto più forte) e la vittima (soggetto più debole). Inoltre, ogni rapporto ipotizzabile in quel contesto assume la medesima finalità etico-sociale e presenta, in capo al soggetto attivo, un largo margine di autonomia, mancando una regolamentazione tassativa delle modalità di realizzazione dell’attività relativa. Ciò indurrebbe a ritenere che l’offesa debba incidere su un bene giuridico col(6) Non è facile individuare quale sia l’oggettività giuridica dell’art. 572, data l’indeterminatezza dell’espressione famiglia usata nel Titolo XI del codice penale, che non consente di dare alla stessa un preciso significato tecnico né una portata uniforme: PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 521. (7) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 521; GIOFFREDI, voce Maltrattamenti, 37; COLACCI, Maltrattamenti, 32. (8) Così MANZINI, Trattato, 926, seppure critico verso il mutamento di collocazione operato dal codice Rocco rispetto al precedente. (9) COLACCI, Maltrattamenti, 26 ss. (10) COLACCI, Maltrattamenti, 28 ss. e 47 ss.; GROSSO C.F., Maltrattamenti di più persone in famiglia: reato unico o pluralità di reati?, in Riv. dir. matr., 1963, 162 ss. (11) COLACCI, Maltrattamenti, 40 ss. (12) COPPI, Maltrattamenti, 229 ss.; PANNAIN A., La condotta, 25.
— 182 — legato ad un concreto rapporto di supremazia-soggezione, postulato dalla norma come presupposto del fatto punibile (13). Oggetto della tutela sarebbe, pertanto, l’interesse del singolo a non essere sottoposto ad un sistema di vessazioni e di violenze scaturenti dalla degenerazione dell’autorità di cui dispone un familiare o una persona preposta alla sua cura o educazione (14). Ma neanche questa tesi risulta persuasiva, stante il suo evidente carattere tautologico. L’individuazione del bene giuridico protetto dalla norma in esame nei termini ora esposti, limitandosi a riproporre con parole diverse lo stesso dato che dovrebbe spiegare, nulla aggiunge alla descrizione della fattispecie effettuata dal legislatore come fondata su una relazione « aggressore-vittima ». L’oggetto giuridico dell’art. 572 c.p. è stato, infine, individuato in un interesse ancor più profondamente collegato alla natura del vincolo e alle qualità personali del soggetto offeso (15). Il deterioramento di uno qualsiasi dei rapporti indicati dalla norma in esame determinerebbe uno stato di menomazione della vittima, che già versa in una situazione di dipendenza, e inciderebbe sull’intera sfera della sua personalità, attraverso la degradazione della sua dignità personale (16). In relazione a ciascuno dei soggetti indicati nell’art. 572 c.p. (persone della famiglia del colpevole, minori di quattordici anni anche non appartenenti alla famiglia del colpevole, o qualsiasi persona sottoposta all’autorità del reo, e a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte) viene in gioco la dignità fisica e morale di un essere umano, che può essere salvata e potenziata da un corretto svolgimento dei singoli rapporti, o svilita e umiliata dalla alterazione degli stessi. Tale interpretazione, da cui emerge il centrale rilievo attribuito alla persona dal vigente ordinamento giuridico, si pone altresì in linea col generale dovere di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost., strumentale al perseguimento del bene-fine ultimo della salvaguardia e sviluppo della persona umana (17). (13) PANNAIN A., La condotta, 40; MANTOVANI, Riflessioni, 246 ss.; RUFFO, I soggetti del reato di maltrattamenti in famiglia, in Giust. pen., 1996, II, 596 ss. (14) PANNAIN A., La condotta, 40; PETTENATI, Sulla struttura, 1109 ss. (15) COPPI, Maltrattamenti, 222 ss.; MANTOVANI, Riflessioni, 267; CORRERA-MARTUCCI, La violenza, 98; FIORE, Diritto penale, p.te gen., I, Torino, 1993, 189. (16) COPPI, Maltrattamenti, 223; CORRERA-MARTUCCI, La violenza, 98; PADOVANI, Codice penale, Milano, 1997, 2085. (17) La « solidarietà », prevalentemente ritenuta semplice dovere morale e solo in rari casi elevata a dovere giuridico, assurge a principio qualificante con la Costituzione repubblicana che, oltre a riconoscere i diritti fondamentali dell’uomo, richiede anche l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2). Sulla importanza e sul ruolo della « solidarietà », nonché sulle violazioni penalmente rilevanti del do-
— 183 — Di fronte ad un soggetto attivo che col suo comportamento violento snatura il significato di un rapporto destinato a conseguire effetti individualmente e socialmente utili, si pone un soggetto passivo in condizioni di prostrazione della propria personalità ed incapace di sottrarsi alle vessazioni (18). Nel quadro di questo orientamento si impone un atteggiamento critico verso la collocazione della norma, che, non realizzando una protezione della famiglia in sé, posto che la condotta attiene anche a rapporti diversi da quelli di famiglia, sembra piuttosto rispondere alla ideologia dell’epoca in cui fu emanato il codice penale, per la quale la famiglia costituiva un istituto dotato di particolare rilevanza pubblicistica meritevole di tutela contro ogni turbamento lesivo della sua integrità ed armonia (19). Sulla base dei risultati conseguiti relativamente alla oggettività giuridica dell’art. 572 c.p., può quindi affermarsi che per l’integrazione della fattispecie di maltrattamenti non è sufficiente una qualsiasi trasgressione dei doveri di assistenza e di solidarietà, ma è necessaria una pregnante offesa della integrità psicofisica della vittima (20). L’individuazione del bene giuridico protetto nei termini ora espressi, come meglio si vedrà nel prosieguo del presente lavoro, porterà ad escludere, insieme ad altre argomentazioni, la rilevanza penale dei maltrattamenti mediante omissione. Tornando adesso al problema iniziale della individuazione della condotta commissiva tipica, occorrerebbe verificare, per definire i confini della incriminazione, il grado di incidenza della condotta medesima sulla normalità dei rapporti familiari, abitualmente caratterizzati da affetto e rispetto, nonché sui riflessi sociali che possono aver pesato sulla parte offesa (21). Non è dubitabile che il concetto di « maltrattamenti » presupponga una molteplicità di fatti e che, pertanto, il delitto si compia unicamente attraverso la ripetizione nel tempo di una serie di comportamenti, ognuno dei quali costituisca per sé maltrattamento (22). Ne consegue che la convere di solidarietà, si rinvia a MANTOVANI, Diritto penale, delitti contro la persona, Padova, 1995, 223 ss. In prospettiva di riforma, cfr. ID., Il principio di offensività nello Schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 91 ss. (18) Pret. Torino, 4 novembre 1991, in Cass. pen., 1992, II, 1648. (19) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 520; COPPI, Maltrattamenti, 107; COLACCI, Maltrattamenti, 5; CORRERA-MARTUCCI, La violenza, 95. (20) BLAIOTTA, Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e dovere costituzionale di solidarietà, in Cass. pen., 1996, 516. (21) BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 513. (22) V., per tutti, ANTOLISEI, Manuale, 486; in giurisprudenza, Cass., 13 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, II, 1487. Questo orientamento è confortato da una lunga tradizione risalente al codice Sardo-italiano del 1859 e fino ad oggi mai posta in discussione. Certamente
— 184 — dotta tipica può assumere le forme più svariate: vi rientrano non solo una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà, dell’onore e del decoro della persona, quali ad esempio le percosse, le minacce, le ingiurie, gli atti di scherno, di vilipendio, la privazione di alimenti e tutte le altre abituali imposizioni che rendono dolorose le relazioni della vittima del reato con il soggetto agente; ma anche gli atti di disprezzo, di umiliazione, di asservimento che cagionano durevole sofferenza morale (23). È evidente, però, che l’eventuale ripetizione di maltrattamenti fra loro autonomi e slegati non integra ancora il delitto in esame (24). Quel che conferisce natura unitaria ai diversi atti è il carattere continuativo e la possibilità di considerarli espressione di un’unica volontà (25). Da ciò può rilevarsi come l’elemento materiale sia qui « non solo impregnato di antigiuridicità, ma anche strettamente legato con l’elemento soggettivo » (26). In quest’ottica non può attribuirsi rilevanza all’alternarsi dei maltrattamenti con periodi di normalità, « quando gli stessi siano avvinti dall’intenzione di ledere fisicamente o moralmente il soggetto passivo » (27). E viceversa, non è ravvisabile il delitto in questione quando i singoli episodi siano espressione di una mera occasionalità con un dolo « d’impeto, isolato e frammentario » (28). L’art. 572 c.p. descrive dunque, secondo la prevalente giurisprudenza la formulazione che aveva la fattispecie nel codice del 1859, ed altresì in quello del 1889, risultava più chiara dell’attuale, in quanto la condotta era descritta con sostantivi declinati al plurale. Il mutamento di terminologia intervenuto nella corrispondente norma del codice Rocco non deriva però dalla volontà legislativa di abolire il requisito della reiterazione degli atti quale connotato essenziale del delitto in questione, sibbene — come emerge dai lavori preparatori — da una esigenza di perfezionamento stilistico. Inoltre, la rubrica dell’art. 572 c.p. usa l’espressione maltrattamenti, a differenza della rubrica dell’art. 727 c.p. che, intitolando « maltrattamento di animali », sta ad evidenziare come la consumazione di questo reato si realizzi con il compimento di un unico atto. Infine, anche dal punto di vista lessicale il verbo trattare esprime normalmente l’idea di un comportamento prolungato nel tempo: così COPPI, voce Maltrattamenti, 248; MANZINI, Trattato, 932; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 75. (23) V. Cass., 16 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, 1575; Cass., 15 marzo 1985, ivi, 1986, 1088; Cass., 20 aprile 1977, in Giust. pen., 1978, II, 103; Cass., 19 dicembre 1960, in Cass. pen., 1961, 465; Cass., 7 marzo 1955, in Riv. pen., 1955, 1092. (24) COPPI, voce Maltrattamenti, 250. (25) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 76; PANNAIN A., La condotta, 78 ss., PADOVANI, Codice, 2087. Sul dolo di maltrattamenti v., da ultimo, ANGELINI, Sul fondamento dell’unità della condotta nei maltrattamenti in famiglia, in questa Rivista, 1994, 1120 ss. (26) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 76; ID., voce Maltrattamenti, 524; MAZZA, voce Maltrattamenti, 6; COPPI, voce Maltrattamenti, 246: l’elemento soggettivo « si incarna » nella condotta. (27) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 524. In giurisprudenza v. Cass., 13 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, 1571. Per un’approfondita analisi della coscienza e volontà di maltrattare cfr. MANTOVANI, Riflessioni, 249 ss. (28) Cass., 16 dicembre 1986, in Cass. pen., 1988, 1865.
— 185 — e dottrina, un reato abituale (29): la condotta deve assurgere a vero e proprio regime di vita (30), con riferimento ad un rapporto personale più o meno continuativo e caratterizzato dalla sopraffazione di un soggetto da parte di un altro (31). Occorre quindi l’accertamento di una serie continua e metodica di comportamenti lesivi della personalità psicofisica della vittima che pongano la stessa in uno stato di soggezione (32). Il legislatore, nel delineare la condotta, ha fatto ricorso ad un termine che esprime significato di durata, di protrazione, di reiterazione nel tempo. Penalmente rilevante è soltanto il comportamento dotato di tale struttura. Pertanto, come in tutti i casi in cui la ripetizione degli episodi è postulata dalla norma di parte speciale come elemento costitutivo della condotta, un solo atto, pur potendo incidere profondamente sul bene giuridico protetto, non integra di per sé la fattispecie tipica dei maltrattamenti in famiglia (33). (29) Sul punto v., infra, par. 2. (30) Così COPPI, voce Maltrattamenti, 251, per il quale il regime di vita, meritevole di autonomo rilievo penale, deriverebbe dall’abitudine costante, cosciente e volontaria, del soggetto attivo di offendere l’altrui personalità e dal costante patimento del soggetto passivo. Nello stesso senso la giurisprudenza: v., per tutte, Cass., 4 marzo 1996, in Cass. pen., 1997, 1005. Il riferimento, nella definizione di reato abituale, che spesso viene fatto al concetto di regime di vita quale « collante » tra una serie di condotte vessatorie, alcune delle quali eventualmente prive di autonoma rilevanza penale, insinua il sospetto che il legislatore abbia voluto punire una sorta di « colpevolezza per la condotta di vita ». Questa tesi, riconducibile alla più ampia teorica della « colpevolezza d’autore », ormai abbandonata dalla stessa dottrina tedesca che l’aveva elaborata (v. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Milano, 1995, 82 s.), prende le mosse dalla considerazione che ogni comportamento umano è collegato a quelli tenuti in passato e al complesso della personalità dell’agente. Il GIOFFREDI, voce Maltrattamenti, 38, ad esempio affermava, in una prospettiva più vicina alla « colpevolezza per il carattere », che la spinta al delitto di maltrattamenti « è nella massima parte dei casi la rozzezza, la insofferenza, la pravità dell’indole del colpevole ». Ciò comporterebbe un ampliamento dell’oggetto del giudizio in contrasto con la Costituzione. La responsabilità penale, personale e quindi colpevole in base all’art. 271 Cost., è — si sa — responsabilità per il fatto commesso (art. 252 Cost. ) e non per i comportamenti ad esso antecedenti. Ancor più evidente sarebbe, poi, la violazione del principio di legalità, più esattamente della riserva di legge, se si considera che, come avviene nel caso dei maltrattamenti in famiglia, attraverso la colpevolezza per la condotta di vita si finisce col punire anche fatti non tipici, valutati dal giudice come elementi negativi della personalità dell’agente. Per un’ampia visione dell’argomento si rinvia, nella letteratura italiana, a DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, 283 ss. (31) Per PATERNITI, La famiglia, 142 ss., la premessa del delitto di maltrattamenti non starebbe in un rapporto di autorità-soggezione, ma in un rapporto psicologico, di varia determinazione, che consente all’agente di sopraffare il succubo: lo stato di soggezione deriverebbe infatti da una degenerazione dell’esercizio dell’autorità. (32) Cass., 20 aprile 1977, cit. Per MANTOVANI, Riflessioni, 246, l’esistenza di una posizione di soggezione del soggetto passivo emerge quale presupposto implicito, essenziale e caratteristico del delitto di maltrattamenti. (33) MANZINI, Trattato, 934 ss.; PISAPIA G.D., Spunti esegetici e dogmatici sull’art. 572 c.p., in questa Rivista, 1960, 577 ss.
— 186 — È pur vero che in alcuni casi il singolo atto non giunge ad offendere il bene giuridico della dignità fisica e morale del soggetto passivo, mentre l’oggetto di tutela viene compromesso solo dalla reiterazione degli atti in quanto tale. In altri casi, però, il singolo atto intacca di per sé il bene giuridico protetto, e nonostante ciò la legge richiede che tale dato di realtà si moltiplichi, serialmente, in più episodi. La nostra fattispecie incriminatrice postula, in altri termini, che il bene giuridico della integrità psicofisica sia tutelato contro la ripetizione dell’aggressione. Il verbo maltrattare implica così la reiterazione dei comportamenti, anche se già ogni singolo atto sia di per sé un maltrattamento (34). È possibile che il compimento di un solo atto nell’ambito di una particolare relazione interpersonale di supremazia-soggezione (35) (familiare, di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, etc.) e nei confronti di un soggetto gravemente debilitato nel fisico e nella mente produca effetti profondi e sconvolgenti, diversi e più gravi di quelli che esso avrebbe causato al di fuori di detto rapporto interpersonale. Ciononostante il codice penale italiano non ha ritenuto che il singolo episodio, ancorché dotato di speciale disvalore etico-sociale, sia sufficiente ad integrare il reato de quo. Tale scelta normativa può trovare una spiegazione nel nuovo ed ulteriore disvalore che l’atto assume a causa dell’unione con altri atti eguali o di eguale significato nei confronti del bene giuridico protetto, consistente — come più volte evidenziato — nell’intera personalità della vittima, vista nel quadro di rapporti caratterizzati da convivenza, coabitazione o, comunque, continuità ed intimità. L’ingiustificata ripetizione di angherie, triboli, tormenti, percosse, ingiurie, lesioni personali rappresenta, ovviamente, l’opposto di una corretta interpretazione della vita in famiglia o di una relazione fondata sull’autorità o sull’affidamento, e si ripercuote negativamente sulla personalità di chi li subisce, provocando una condizione duratura di sofferenza e prostrazione. 2. La « ripetizione » degli atti come nota qualificante della fattispecie di maltrattamenti. — Secondo la prevalente dottrina (36) è connaturale al concetto di maltrattamenti — come già accennato — il carattere (34) MANZINI, Trattato, 934. (35) Così definisce il rapporto tra reo e vittima MANTOVANI., Riflessioni, 247. (36) BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 517 s.; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 1993, 525; ID., voce Maltrattamenti, 1964, 78; ANTOLISEI, Manuale, 486; COPPI, Maltrattamenti, 95; PETTENATI, Sulla struttura, 1110. Sulla natura abituale del reato concorda altresì la giurisprudenza: cfr. Cass., 28 febbraio 1995, in Riv. pen., 1995, 1450; Cass., 17 ottobre 1994, in Dir. pen. e proc., 1995, 204; Cass., 9 gennaio 1992, ivi, 1992, 651; Cass., 2 febbraio 1990, ivi, 1991, 379.
— 187 — abituale della condotta (37), che per taluno deve assurgere a vero e proprio « regime di vita », (38) o per altri, più semplicemente, deve dar luogo ad una serie « di comportamenti e di offese » (39), sulla base di un rapporto personale più o meno continuativo, caratterizzato dalla sopraffazione patita da un soggetto ad opera di un altro. Come ogni reato abituale, più esattamente secondo lo schema del reato necessariamente abituale proprio (40), il delitto di maltrattamenti consiste nella reiterazione nel tempo di più fatti lesivi e omogenei, che iso(37) Non si rinviene nella legge, ma è frutto di elaborazione dottrinale, la definizione di reato abituale come « ripetizione intervallata nel tempo di più condotte tra loro omogenee, le quali in sé prese sono (o possono essere) penalmente irrilevanti (reato abituale proprio), oppure costituiscono già, in sé considerate, un reato diverso (reato abituale improprio) »: così ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., Milano, 1995, 323. In prospettiva di riforma si trova un riferimento esplicito al reato abituale, ma non anche la definizione relativa, solo nello Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, (in Documenti giustizia, n. 3, 1992, art. 5 n. 9, 305); non si rinviene invece alcun accenno a tale figura nel disegno di legge n. 2038 per la riforma del libro primo del codice penale, presentato dai Senatori Riz ed altri nel settembre 1995. Anche la giurisprudenza è per lo più orientata nel senso del carattere abituale del reato di maltrattamenti: v., per tutte, Cass. 3 marzo 1990, in Giust. pen., 1990, II, 622. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, p.te gen., 13a ed., Milano, 1994, 243 s., alla definizione di reato abituale preferisce, per il delitto di cui all’art. 572 c.p., quella di reato a condotta plurima, non ritenendo necessario alla integrazione del medesimo un legame di abitualità tra i vari fatti che lo costituiscono. La qualificazione dei maltrattamenti come reato a condotta plurima, piuttosto che abituale, è accolta anche da COLACCI, Problemi, 392 s. Nello stesso senso Cass., 16 dicembre 1986, cit.; Cass., 16 ottobre 1970, in Cass. pen., 1971, 1624. MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, 507, ritiene « ambigua » la denominazione di reato abituale e insufficiente quella di reato a condotta plurima, e adotta la definizione di reato a condotta reiterata. Contra, PETRONE M., voce Reato, 192, che ribadisce la correttezza dell’espressione reato abituale. Sostanzialmente conforme FIORE, Diritto, I, 190. GIOFFREDI, voce Maltrattamenti, 39, concorda con LEONE, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1933, 156 s., il quale, pur riconoscendo che il concetto di maltrattamenti sottintenda una pluralità di condotte, definisce il reato de quo non abituale, ma complesso. Per una critica a questa impostazione si veda PETTENATI, Sulla struttura, 1110, nt. 14; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 525. Conferisce al reato di maltrattamenti entrambe le qualifiche di abituale e di complesso, ritenendole tra loro compatibili, PANNAIN A., La condotta, 62 ss. e 76 ss. Taluno ha poi considerato l’art. 572 c.p. reato permanente: v. MANZINI, Trattato, 935. Non può tuttavia aderirsi a tale opinione, poiché la fattispecie in questione è caratterizzata da una serie di atti: così PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 525. Sul punto cfr. MANTOVANI, Riflessioni, 246 s., secondo il quale il contrasto tra reato abituale e reato permanente con riguardo all’art. 572 c.p. si ridurrebbe più ad improprietà terminologica che a differenza di sostanza. In giurisprudenza sono poche le sentenze che propendono per la natura permanente del delitto di maltrattamenti: v., per tutte, Cass., 23 febbraio 1984, in Cass. pen., 1985, II, 1829; Cass., 24 giugno 1980, ivi, 1981, I, 258. (38) V. supra, nt. 30. (39) MANTOVANI, Riflessioni, 258. (40) Per una recente ed approfondita disamina del reato abituale si rinvia a PETRONE M., voce Reato, 188 ss. L’A. (pp. 188 e 197 s.) menziona giusto l’art. 572 c.p. come esempio di reato necessariamente abituale proprio.
— 188 — latamente considerati possono anche non costituire reato, ma che, valutati nel loro insieme, determinando uno stato di sofferenza fisica o morale della parte offesa, realizzano la condotta tipica (41). L’espressione maltrattare, indicando un « trattamento », si riferisce inequivocabilmente ad una situazione di durata, integrata dalla ripetizione frequente di più comportamenti (commissivi da intendersi tali secondo l’opinione che si avanzerà in seguito) (42). Più in particolare, la condotta può manifestarsi attraverso il compimento sia di atti già qualificabili come reato (ma per un titolo diverso), che di atti non dotati di autonoma rilevanza penale; ed infine, com’è ovvio, la condotta tipica può essere realizzata mediante atti dell’uno e dell’altra specie (43). È necessario piuttosto che gli atti appaiano fra loro collegati secondo uno svolgimento unitario (44), e che i comportamenti in sé non qualificabili come reato presentino, trattandosi comunque di fatti rivolti contro l’integrità fisica o morale della vittima, carattere di oggettiva gravità (45). Essi, in buona sostanza, potranno essere rappresentati da quelle angherie, da quei triboli e tormenti, che, pur non integrando gli estremi delle ingiurie, né delle percosse o delle lesioni, evidenzino la negazione di una corretta interpretazione della vita familiare o dei rapporti fondati sull’autorità e sull’affidamento, ripercuotendosi negativamente su chi li subisce, con effetti di prostrazione e avvilimento equiparabili a quelli prodotti dagli atti costituenti di per sé illecito penale (46). (41) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 525; BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 512; MANZINI, Trattato, 934; MANTOVANI, Diritto, 506. (42) PADOVANI, Diritto penale, 3a ed., Milano, 1995, 140; PETRONE M., voce Reato, 198. L’A. trova un’ulteriore conferma di tale assunto nel particolare contesto in cui i fatti devono verificarsi: nell’ambito di rapporti di convivenza, come tali di per sé duraturi. (43) BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 512; MANZINI, Trattato, 934; COPPI, voce Maltrattamenti, 248. Contra, PANNAIN A., La condotta, 68 ss., per il quale i singoli atti dovrebbero sempre costituire reato, per non superare il limite del principio di legalità. MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, 599, ritiene che il problema della riconducibilità o meno al reato abituale di fatti in sé non costituenti illecito penale debba essere risolto non in sede di « analisi astatta del reato, ma piuttosto e solamente in sede di analisi delle singole fattispecie incriminatrici ». Per PAGLIARO, Princìpi di diritto penale, p.te gen., 5a ed., Milano, 1996, 511 s., nel reato abituale proprio i singoli fatti non costituiscono di per sé reato. (44) COPPI, voce Maltrattamenti 248 ss. (45) COPPI, voce Maltrattamenti 249; BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 512. Secondo MANZINI, Trattato, 934, « non si esige che i maltrattamenti consistano in sofferenze fisiche o morali particolarmente gravi o dannose ». (46) COPPI, voce Maltrattamenti 249. Nello stesso senso Cass., 28 febbraio 1995, cit., 1450: i fatti che in serie integrano il reato necessariamente abituale di maltrattamenti in famiglia « isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela)... ». Si pensi altresì all’imposizione di digiuno, cattiva alimentazione, rapporti sessuali contro natura, etc.: MANZINI, Trattato, 933 s.
— 189 — È evidente come la particolare struttura del reato necessariamente abituale proprio ponga problemi anche con riguardo al concorso di reati, ove i fatti che lo costituiscono integrino gli estremi di un autonomo crimine. Salvo che non vengano assorbiti dal reato abituale (47), si ritiene che i singoli illeciti concorrano con esso. Ad integrare l’abitualità della condotta non occorre che la stessa sia posta in essere in un arco di tempo prolungato, bastando la ripetizione degli atti vessatori anche per un periodo limitato (48), esclusi soltanto sporadici episodi di violenza del tutto occasionali (49). Non vale ad escludere il requisito in esame una eventuale parentesi di normalità fra una serie e l’altra di azioni lesive (50), quando esse siano espressione dell’intenzione criminosa di offendere fisicamente o moralmente il soggetto passivo (51). Tuttavia, essendo la vicinanza temporale tra gli episodi uno degli indici obiettivi dell’abitualità, impedirebbe di configurare tale elemento un prolungato intervallo di tempo tra il compimento di un atto e la realizzazione del successivo (52) Il c.d. nesso di abitualità, che insieme alla reiterazione di più fatti e alla omogeneità degli stessi caratterizza la struttura oggettiva del reato abituale, consiste infatti nella frequenza (cioè, nella non sporadicità) degli episodi della serie, più precisamente nel rapporto di persistente frequenza tra di essi (53). Da taluno è stata negata la natura abituale del delitto di maltrattamenti, osservando come, a differenza del reato abituale, costituito da più azioni della stessa specie, i singoli comportamenti componenti la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. possono anche essere dissimili gli uni rispetto agli altri (54). Tale obiezione si rivela, a ben vedere, inconsistente. La somiglianza che i singoli fatti delittuosi devono presentare affinché un reato possa qualificarsi abituale non va colta tanto sul piano meramente descrittivo, (47) Così, per esempio, le minacce e le percosse restano assorbite dal delitto di maltrattamenti in quanto possono considerarsi elementi costitutivi della violenza fisica o morale propria di questo reato: MANZINI, Trattato, 934 s.; PETRONE M., voce Reato, 206. (48) Così Cass., 9 gennaio 1992, cit., 651; Cass., 6 novembre 1992, in Riv. pen., 1992, 452. Per PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 526, il reato abituale è « caratterizzato da una molteplicità di fatti reiterati in un tempo apprezzabile ». (49) Cass., 16 dicembre 1986, cit., 1865; Cass., 21 giugno 1984, in Riv. pen., 1985, I, 600. (50) Giurisprudenza costante: Cass., 13 ottobre 1989, cit., 1571; Cass., 25 gennaio 1989, in Cass. pen, 1990, I, 1056; Cass., 23 febbraio 1984, cit., 1829; Cass., 24 giugno 1980, cit., 258. (51) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 524. (52) COPPI, voce Maltrattamenti, 249. (53) PETRONE M., voce Reato, 193. (54) L’obiezione è di LEONE, Del reato, 156; è soprattutto su di essa che l’A. fonda la sua costruzione della fattispecie di maltrattamenti come reato complesso. Nello stesso senso GIOFFREDI, voce Maltrattamenti, 39.
— 190 — quanto piuttosto sul piano dell’omogeneità del contenuto offensivo (55) e, soprattutto, nella circostanza che i fatti presentino oggettivamente e soggettivamente i connotati della generica nozione di maltrattamenti (56): dolo unitario e unità della persona offesa (57). Quel che conferisce ad una pluralità di atti, tra loro simili e/o dissimili, autonomo rilievo penale è, in altri termini, « un regime di vita, in cui l’offesa dell’altrui personalità sia diventata abitudine costante, cosciente e volontaria da parte del soggetto attivo e costante patimento da parte di quello passivo » (58). 3. La problematica rilevanza penale dei maltrattamenti omissivi. — Dopo aver analizzato, seppure sinteticamente, i principali requisiti della condotta di maltrattamenti, occorre ora affrontare il punto focale della presente indagine, al quale la letteratura penalistica ha dedicato prevalentemente affermazioni in verità assai laconiche: i maltrattamenti mediante omissione possono ritenersi tipici ai sensi dell’art. 572 c.p.? In linea di principio risulta una sostanziale concordanza tra la quasi unanime dottrina e una costante giurisprudenza relativamente alla rilevanza penale di condotte omissive nell’ambito del delitto in questione (59). Si sostiene che l’elemento oggettivo del reato possa essere integrato anche da una condotta omissiva, purché « caratterizzata dallo specifico e (55) PETRONE M., voce Reato, 192 s.: l’identità offensiva è, nel reato necessariamente abituale, requisito per la realizzazione del fatto. (56) MANTOVANI, Riflessioni, 245. Così anche PETTENATI, Sulla struttura, 1110, il quale, ripetendo il pensiero del PETROCELLI, Princìpi di diritto penale, 2a ed., 1955, 268 s., sostiene la natura unitaria delle varie condotte « in quanto assunte nel reato sotto il comune carattere di atto di maltrattamento ». (57) COPPI, voce Maltrattamenti, 250. Propende ancora per la necessità di un dolo unitario, quasi a voler fondare il reato abituale su una unità ontologica, la giurisprudenza: cfr. Cass., 16 dicembre 1986, cit., 1865; Cass., 26 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, 161; Cass., 15 dicembre 1982, in Cass. pen., 1984, 547. Contra, ROMANO, Commentario, 324; PETRONE M., voce Reato, 204; MANTOVANI, Diritto, 508, secondo il quale è « sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle precedenti, dando vita con queste ad un sistema di comportamenti offensivi (es.: di vessazioni, nei maltrattamenti) ». (58) COPPI, voce Maltrattamenti, 251. (59) Cfr. BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, 513; ANTOLISEI, Manuale, p.te sp., 486; COLESANTI-LUNARDI, Il maltrattamento, 205; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 1993, 524 s.; ID., voce Maltrattamenti, 1964, 75; SCHIAVANO, Art. 572 c.p., 1239; MANZINI, Trattato, 933; COPPI, voce Maltrattamenti, 248; PETTENATI, Sulla struttura, 1110; MAZZA, voce Maltrattamenti, 6; GIOFFREDI, voce Maltrattamenti, 39. In giurisprudenza v. Cass., 18 marzo 1996, in Giust. pen., 1997, II, 1 ss. e in Cass. pen., 1997, 29 ss. con nota di LARIZZA; Cass., 28 febbraio 1995, cit., 1439; Cass., 17 ottobre 1994, cit., 204; Cass., 30 maggio 1990, in Riv. pen., 1991, 1031; Cass., 16 dicembre 1986, cit., 1865. Tra le rare decisioni in cui si fa riferimento espresso ed esclusivo al concetto di azioni e non anche di omissioni v. Trib. Roma, Sez. pen., 13 gennaio 1972, in Arch. pen., 1974, II, 181; Cass., 3 febbraio 1971, inedita.
— 191 — determinato proposito di maltrattare » (60). Le esemplificazioni cui si ricorre fanno solitamente riferimento ad inattività che provochino una sofferenza soprattutto di natura fisica, come la privazione di cibo o medicinali (61). Preso atto di tale indirizzo interpretativo, sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia in forma omissiva possono però avanzarsi svariate perplessità. È ben vero che, nel particolare contesto cui l’art. 572 c.p. fa riferimento, contegni inattivi sono altresì in grado di produrre sofferenze non inferiori a quelle cagionate da condotte positive, così come il disvalore espresso dagli uni e dalle altre può spesso raggiungere eguale intensità (62). Ciò, tuttavia, non basta a conferire ad un’omissione non tipica la rilevanza, o la stessa rilevanza penale di un’azione tipica. Bisogna evitare il rischio di arbitrarie sovrapposizioni tra il piano della responsabilità penale e quello della responsabilità morale (63). Come la rilevanza penale di un comportamento « positivo » è subordinata alla sua esatta corrispondenza col divieto posto dal legislatore in una norma incriminatrice; così la rilevanza penale di un comportamento « negativo » è condizionata dal mancato compimento di un’azione doverosa o dal mancato impedimento di un evento che si è giuridicamente obbligati ad impedire. È quindi solo la rigorosa individuazione di un obbligo giuridico di attivarsi, e non un qualunque dovere morale, neanche in prospettiva solidaristica, che può rendere punibile un contegno meramente passivo. A sostegno della irrilevanza penale di maltrattamenti omissivi militerebbero molteplici considerazioni. Innanzitutto, come si è in precedenza evidenziato, l’art. 572 c.p. configura un tipico esempio di reato abituale. È questo un tipo delittuoso che non può essere integrato mediante inattività, in quanto presuppone « una determinata condotta di vita risultante da una reiterazione di comportamenti positivi » (64). (60) Così PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 524. (61) PISA, Il commento, nota a Cass., 17 ottobre 1994, cit., 208. (62) BLAIOTTA, Maltrattamenti, 520. (63) GRASSO, II reato omissivo improprio, Milano, 1983, 169 ss.; MANTOVANI, Diritto, 195, nel delineare la sfera di operatività dell’art. 40 cpv. c.p., fa riferimento ai soli doveri giuridici, come previsto d’altronde dalla stessa norma, con esclusione quindi dei doveri soltanto morali « la cui inosservanza, se sovente esprime carente solidarietà umana, non può però dare luogo a responsabilità penale omissiva ». (64) Così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te gen., 3a ed., Bologna, 135, 535. Tale assunto è frutto di attente analisi sul reato omissivo improprio, in particolare sull’ambito di operatività della clausola di equivalenza enunciata dall’art. 40 cpv. c.p.: v. GRASSO, Il reato, 154; FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 34 s.; ROMANO, Commentario, 353; FIORE, Diritto, I, 232. Una conferma indiretta della incompatibilità tra reato abituale e condotta omissiva sembra provenire da GIOFFREDI, voce Maltrattamenti 39,
— 192 — Si tratta di un limite non ontologico, bensì derivante dall’attuale assetto legislativo, superabile quindi ove questo contemplasse esempi di reati abituali costituiti da condotte di non impedimento (65). Se anche si volesse prescindere dalla natura abituale del delitto di maltrattamenti, resterebbe pur sempre una struttura normativa di disvalore designata da un concetto, quale il « trattare male », che pare evocare fatti marcatamente ed unicamente positivi (66). A ciò si aggiunga che, dovendosi eventualmente integrare un reato omissivo improprio (67), sarebbe inevitabile il riferimento al noto meccanismo di imputazione causale previsto dall’art. 40 cpv. c.p., relativo all’omesso impedimento dell’evento in presenza di un obbligo giuridico di impedirlo. Senonché, il tenore letterale della norma citata, così come la sua peculiare collocazione nell’ambito della disciplina del rapporto di causalità, ne evidenziano la fruibilità endosistematica solo in funzione dei reati di evento (68). I c.d. reati abituali sono però costruiti su schemi privi di evento naturalistico (69), il che renderebbe assolutamente impossibile il ricorso al meccanismo di conversione ex art. 40 cpv. c.p. Taluno, poi, considerando il delitto di maltrattamenti non iscrivibile nell’area dei reati a forma libera, evidenzia un ulteriore ostacolo alla opeove esclude la natura di reato abituale dell’art. 572 c.p. anche in quanto i maltrattamenti possono essere costituiti altresì « da un concorso di azioni e di omissioni ». (65) Così FIANDACA, II reato, 35. (66) È quanto sostiene il Trib. Napoli, con ord. 24 maggio 1994, riferita nella motivazione di Cass., 17 ottobre 1994, cit., 204 ss. Contra, Cass., 18 marzo 1996, cit., secondo la quale il delitto di maltrattamenti di minore si consuma anche mediante omissioni « giacché ‘‘trattare’’ un figlio... implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di ‘‘mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli’’ e, per converso, ‘‘maltrattare’’ vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo ». (67) Sul tema v. GRASSO, Il reato; FIANDACA, Il reato; ID., voce Omissione, in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, 546 ss.; SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975; ROMANO, Commentario, 312 ss. e 349 ss. Nella manualistica un’approfondita disamina del reato omissivo improprio è svolta da FIANDACA-MUSCO, Diritto, 532 ss. Cfr., altresì, PAGLIARO, Princìpi, 366 ss.; PADOVANI, Diritto, 143 ss.; MANTOVANI, Diritto, 168 s. e 190 ss.; FIORE, Diritto, I, 227 ss.; MARINI, Lineamenti, 347 ss. (68) Sulla connessione tra regola dell’equivalenza (art. 40 cpv. c.p.) e problema causale si rinvia a GRASSO, Il reato, cap. VI; FIANDACA, Il reato, 37 ss. e 78 s.; ID., voce Omissione, 554 s.; GALIANI, Il problema della condotta nei reati omissivi, Napoli, 1980, 49 ss. e 139 ss.; SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano, 1957, 77 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto, 536; MANTOVANI, Diritto, 190 ss.; PAGLIARO, Princìpi, 366 ss.; PADOVANI, Diritto, 166 ss.; FIORE, Diritto, I, 234 s.; MARINI, Lineamenti, 347 ss. (69) L’affermazione è di ROMANO, Commentario, 353 s.; sostanzialmente conforme GRASSO, Il reato, 155, che sostiene l’inapplicabilità ab origine dell’art. 40 cpv. c.p. ai reati abituali, in quanto reati di mera condotta.
— 193 — ratività dell’art. 40 cpv. c.p. (70), che — è risaputo — non può dispiegarsi sul terreno dei reati a forma vincolata, anche se con evento naturalistico (71). Ma, pur volendo ritenere l’art. 572 c.p. fattispecie causale pura, permarrebbe egualmente la inapplicabilità del meccanismo di conversione se, come confermano la tradizione dottrinale e giurisprudenziale, l’area operativa del reato omissivo improprio è polarizzata sugli illeciti posti a tutela della vita, dell’integrità individuale e dell’incolumità pubblica, e non, dunque, della personalità della vittima, bene giuridico protetto — come visto in precedenza — dall’articolo in questione (72). L’inutilizzabilità della c.d. clausola di equivalenza è comunque confermata dall’assenza di un evento naturalistico, come dimostra altresì la difficoltà di determinazione del momento consumativo del delitto (73). In linea di principio la consumazione viene individuata « allorché vi sia una serie di atti di maltrattamento sufficiente ad integrare l’azione tipica » (74), sorretta da quel particolare elemento soggettivo di cui si è detto (75). È stato di recente affermato che, nonostante la sicura inesistenza di un evento naturalistico unitario, la fattispecie di maltrattamenti conterrebbe una molteplicità di eventi o sub-eventi, non meglio identificati, la presenza dei quali, evidenziando una marcata componente causale, consentirebbe l’applicazione del meccanismo di imputazione di cui all’art. 40 cpv. c.p. (76). Ora, a parte la già rilevata mancanza di ogni specificazione al ri(70) Trib. Napoli, ord. 24 maggio 1994, cit., 204, che tuttavia non esclude la rilevanza penale ex art. 572 c.p. anche di un contegno omissivo, purché venga violato un obbligo gravante sul singolo secondo determinati schemi civilistici (custodia, educazione). (71) ROMANO, Commentario, 354; FIANDACA, Il reato, 39; SGUBBI, Responsabilità, 103; FIANDACA-MUSCO, Diritto, 534 ss.; MANTOVANI, Diritto, 194; FIORE, Diritto, I, 233. (72) Sulla delimitazione così individuata dell’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. v. FIANDACA, Il reato, 41 ss.; GRASSO, Il reato, 168. Non condivide tale orientamento restrittivo ROMANO, Commentario, 355, secondo il quale l’ampia formula utilizzata dall’art. 40 cpv., ponendo una sostanziale equivalenza, sia pure a certe condizioni, tra condotte omissive e condotte attive, non consentirebbe limitazioni particolari in relazione al bene giuridico interessato. Tuttavia, lo stesso A. (p. 364), evidenziando la « precaria » legittimità costituzionale dell’art. 40 cpv., per violazione del principio della riserva di legge, se si ritiene che la posizione di garanzia non è prevista dalla legge; o del principio di determinatezza, se, invece, se ne afferma la previsione « ma con scarsamente tollerabile genericità e approssimazione », implicitamente sembra suggerire una certa prudenza interpretativa. (73) Per MANZINI, Trattato, 935, « il momento consumativo si verifica appena si sia compiuta una serie di fatti, che si ritenga in concreto sufficiente a integrare la nozione di maltrattamenti ». V., altresì, PUNZO, L’attenuante della provocazione in relazione al delitto di maltrattamenti, in Giust. pen., 1953, II, 216; PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti 525; BLAIOTTA, Maltrattamenti, 518 s. (74) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti 526. (75) Ancora PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti 526. (76) Così BLAIOTTA, Maltrattamenti, 519. Di contrario avviso Cass., 17 ottobre
— 194 — guardo, giova sottolineare che l’assenza di un evento naturalistico, unico o plurimo che sia, nell’art. 572 c.p. è circostanza immediatamente percepibile, stante che la norma non fa alcun riferimento ad effetti della condotta né a modificazioni della realtà esterna. È pur vero che i maltrattamenti cagionano sempre di fatto sofferenze fisiche e morali nella vittima; tuttavia il legislatore non ha attribuito ad esse il ruolo di elemento costitutivo di fattispecie, di elemento compositivo del singolo tipo di illecito, aggiuntivo rispetto alla condotta, quale conseguenza naturale della stessa o quale modificazione fenomenica del mondo esterno (77). La sofferenza della vittima come risultato tipico del comportamento incriminato appare un quid trascendente, sì, le singole azioni illecite, ma non integrante al tempo stesso un evento naturalistico a sé stante, accertabile sul piano empirico (78). Tanto che, a rigore, il reato non verrebbe meno se la vittima, per una particolare durezza d’animo, non risultasse turbata dalle altrui angherie (79). Può dirsi così accertata la natura di illecito di pura condotta dell’art. 572 c.p., essendo il reato qui previsto imperniato su una struttura normativa di disvalore designata dal trattare male (80). Ricorre, in altre parole, una delle relativamente poche ipotesi di delitto la cui fattispecie oggettiva si esaurisce nella descrizione del comportamento punito (81). Tali fattispecie criminose, tradizionalmente definite « reati di pura condotta », non sono però prive di evento c.d. lesivo, di un evento cioè considerato sotto il profilo della lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto, non necessariamente coincidente con una modificazione della realtà naturale (82). Sorprende, pertanto, che proprio chi ha riconosciuto, con riferimento 1994, cit., 204, secondo la quale l’evento del delitto di maltrattamenti va individuato nella produzione di durevoli sofferenze fisiche e morali nei confronti della vittima. (77) Sul concetto di evento in questi termini, cfr. ROMANO, Commentario, 295. L’art. 572 c.p. rappresenta un’ipotesi di reato integralmente polarizzato sul disvalore di condotta (= violazione di un obbligo). Tale disvalore, posto in primo piano dalla concezione etico-sociale del diritto penale, nasce dalla constatazione che la tutela dei beni giuridici si ottiene con la richiesta di comportamenti ai singoli. Pertanto non rilevano solo la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico (disvalore di evento), ma anche le modalità della loro realizzazione. Tali disvalori si ritengono entrambi requisiti strutturali del reato, ma non di eguale rango: la priorità e la centralità dell’evento sono fattori garantistici irrinunciabili: così ROMANO, Commentario, 299 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, 168 ss.; MAZZACUVA, voce Evento, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, 448 ss. Sul punto v., altresì, FIORE, Diritto, I, 135, e, in termini diversi, MORSELLI, Disvalore dell’evento e disvalore della condotta nella teoria del reato, in questa Rivista, 1991, 796 ss. (78) BLAIOTTA, Maltrattamenti, 519. (79) BLAIOTTA, Maltrattamenti, 519, definisce l’art. 572 c.p. « reato di offesa presunta ». (80) Così si è espresso Trib. Napoli, ord. 24 maggio 1994, cit., 204 s. (81) Sul punto v. FIORE, Diritto, I, 164 ss.; ROMANO, Commentario, 290 ss. (82) FIORE, Diritto, I, 165. Relativamente alla contrapposizione tra i sostenitori del-
— 195 — all’art. 572 c.p., « il carattere abituale della condotta e la mancanza di un evento naturalisticamente percepibile, distinto dalla condotta stessa » (83), possa poi sostenere la configurabilità di maltrattamenti omissivi penalmente rilevanti nell’ambito della stessa fattispecie incriminatrice. 4. Sul concorso mediante omissione nel reato di maltrattamenti. — L’utilizzazione dello strumento repressivo fornito dall’art. 572 c.p. per le condotte omissive di maltrattamento è invocata nei confronti non solo — come ora visto — di chi tiene direttamente il comportamento illegittimo necessario per la sua configurazione (ipotesi monosoggettiva), ma anche di chi, avendo il dovere di intervenire per impedirne il perdurare, deliberatamente e sistematicamente se ne astenga (fattispecie concorsuale) (84). Su quest’ultimo versante, del concorso di persone, con particolare riguardo al delitto in esame, vengono in rilievo i comportamenti di omesso impedimento, in violazione di un obbligo giuridico di attivarsi connesso ad una c.d. posizione di garanzia (85), di maltrattamenti mediante azione commessi da altri. Nell’ambito del concorso mediante omissione nel delitto di cui all’art. 572 c.p. rientrerebbero sia l’ipotesi del genitore che consenta ad altro familiare di maltrattare il figlio, sia il caso del responsabile di una struttura assistenziale per anziani, malati, minori, minorati o soggetti comunque bisognosi d’aiuto, che consapevolmente e volontariamente si astenga « dall’impedire che persone non autorizzate realizzino condotte integranti l’elemento oggettivo del reato, posto che in tale situazione, stante il dovere funzionale, di natura pubblicistica, di attivarsi, non impedire la verificazione dell’evento, sotto il profilo eziologico, equivale a cagionarlo » (86). Si registra una certa convergenza di opinioni da parte sia della dottrina che della giurisprudenza nell’attribuire alla regola dell’equivalenza di cui all’art. 40 cpv. c.p. una sfera di operatività più ampia quando si tratti l’evento in senso naturalistico e i sostenitori dell’evento in senso giuridico v., per tutti, SANTAMARIA, voce Evento, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 118 ss. Critico sulla validità della previsione di reati di mera condotta MAZZACUVA, voce Evento, 449 ss. (83) Testualmente PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 525. (84) PISAPIA G.D., voce Maltrattamenti, 524; nello stesso senso BLAIOTTA, Maltrattamenti, 520. Risulta sempre più frequente, negli ultimi anni, il ricorso da parte della magistratura all’art. 572 c.p. per incriminare carenze rilevate in strutture sanitarie o assistenziali: cfr. Cass., 17 ottobre 1994, cit.; Cass., 30 maggio 1990, cit. Critico sulla riconducibilità all’art. 572 c.p. delle omissioni relative alla mancata o insufficiente predisposizione di servizi di natura assistenziale o terapeutica, ma certo della rilevanza penale delle stesse in base ad altre disposizioni (per es. artt. 328 o 591 c.p.), PISA, Il commento, 209. Sul concorso omissivo in reato commissivo v., di recente, RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in questa Rivista, 1995, 1267 ss., e bibliografia ivi citata. (85) V. nt. 67. (86) Cass., 30 maggio 1990, cit.
— 196 — di responsabilità omissiva in concorso. A differenza di quanto ammesso sul piano della responsabilità omissiva monosoggettiva, per la quale opera — come in precedenza evidenziato — il limite dell’applicabilità dell’art. 40 cpv. c.p. ai soli reati causali puri; con riguardo alla partecipazione delittuosa, per evento non impedito si intende invece qualsiasi illecito penale, a prescindere dalla presenza in esso di un evento in senso naturalistico (87). Si tratta di una scelta interpretativa dovuta alla preoccupazione tutta politico-criminale secondo la quale la più ampia applicazione dell’art. 40 cpv. sul terreno del concorso criminoso si baserebbe su particolari e pressanti esigenze di tutela, giustificanti « pienamente la configurazione di un concorso nel reato realizzato mediante una condotta omissiva » (88). Tale soluzione, ritenuta in linea con la struttura della fattispecie plurisoggettiva descritta dall’art. 110 c.p., in quanto imperniata sulla c.d. tipicizzazione causale (89), non può trovare adesione. In primo luogo, l’estensione della punibilità, sul piano della compartecipazione omissiva, anche a reati privi di evento in senso naturalistico si scontra col noto principio di frammentarietà del diritto penale (90), che non consente all’interprete deroghe in ossequio a particolari, pur qualificate esigenze di tutela (91). Le riserve espresse sulla punibilità del concorso mediante omissione aumentano, poi, ove si noti come ad un differente ambito di operatività della regola dell’equivalenza contenuta nell’art. 40 cpv. c.p. corrisponda una diversa estensione dei beni giuridici tutelati, con conseguente maggiore complessità del processo di selezione degli obblighi di garanzia e dei rispettivi titolari (92). Inoltre, in assenza di una espressa disciplina legislativa sulla partecipazione negativa nell’altrui reato commissivo, ma in presenza, al tempo stesso, di una disposizione (art. 40 cpv.) che regola il c.d. equivalente normativo della causalità tra omissione ed evento in senso naturalistico, appare più coerente con le caratteristiche e i limiti propri del processo di assimilazione tra il non impedire e il cagionare, per la soluzione del pro(87) Così GRASSO, Il reato, 141 s.; ROMANO, Commentario, 353. In senso critico FIANDACA, Il reato, 181 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto, 538 e 568. (88) GRASSO, Il reato, 142. (89) Ancora GRASSO, Il reato, 139 s., per il quale la riconducibilità al concorso punibile di tutte le condotte dotate di efficacia causale rispetto al reato, insieme alla equiparazione tra non impedire e cagionare, legittimerebbe l’estensione delle ipotesi di partecipazione omissiva anche a fattispecie prive di evento in senso naturalistico, e troverebbe conferma in osservazioni di tipo sistematico (art. 138 c.p.m.p.): sul punto v., in senso critico, RISICATO, La partecipazione, 1276 s. (90) Sul principio di frammentarietà v. FIANDACA-MUSCO, Diritto, 31 ss. (91) In tale prospettiva RISICATO, La partecipazione, 1276. (92) FIANDACA-MUSCO, Diritto, 538 e 568.
— 197 — blema relativo alla rilevanza causale di un’omissione non tipizzata, attenersi alla delimitazione operata dalla norma medesima, piuttosto che dilatarne arbitrariamente la portata (93). In tema di maltrattamenti mediante omissione commessi da soggetti diversi dal titolare di un obbligo giuridico di protezione, e specialmente nel settore sanitario-assistenziale, non sembra potersi pervenire a risultati diversi da quelli ora illustrati in prospettiva monosoggettiva. Ciò non solo su un piano di stretta legalità ed in base ad un criterio logico-sistematico, ma altresì in relazione a quel determinato tipo di omissioni, individuabili nelle dette strutture, consistenti nella mancata o insufficiente predisposizione di servizi di natura assistenziale o terapeutica. Sorgono infatti seri dubbi sulla possibilità di inquadrare nel concetto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. la abituale violazione del dovere di organizzare un servizio di quel tipo. Né pare determinante, de jure condito, il ricorso al principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2), rivolto chiaramente alla tutela dei più deboli, per valorizzare in chiave di tipicità quelle condotte omissive consistenti nella violazione di doveri nei confronti di soggetti inermi. A tale principio si è di recente appellata, sebbene con un accenno fugace, la S.C., ritenendo responsabile del reato di maltrattamenti coloro cui, nell’ambito di una pubblica struttura di assistenza, sono attribuiti oneri di protezione (94). In particolare, il fatto contestato al responsabile del Dipartimento di salute mentale di una U.S.L. consiste nell’omessa predisposizione delle prestazioni assistenziali, terapeutiche e riabilitative necessarie a garantire ai degenti ricoverati presso una struttura psichiatrica livelli di vita decorosi e comunque conformi ai criteri stabiliti dalla normativa vigente, nonché il diritto alla cura dell’infermo, derivandone in tal modo per costoro maltrattamenti sia in senso morale che in senso materiale. La sentenza ora riferita, priva, a quanto pare, di precedenti, mostra tutta la sua originalità nel porre l’art. 572 c.p. fuori dal consueto contenuto applicativo (la famiglia) e utilizzandolo per fronteggiare carenze generali imputabili a strutture sanitarie o assistenziali. In effetti la disposizione in esame menziona tra i presupposti del reato, oltre all’esistenza di un rapporto familiare, anche quella di un rapporto di subordinazione o di affidamento per ragioni, tra le altre, di cura. La norma sembra così abbracciare una categoria estremamente ampia di persone e, paradossalmente risultare meno « familiare » di quanto non fosse in precedenza, quando era inserita nei delitti contro la persona (95). (93) FIANDACA-MUSCO, Diritto, 538; RISICATO, La partecipazione, 1278. (94) V. Cass., 17 ottobre 1994, cit. (95) MANTOVANI, Riflessioni, 264.
— 198 — Ora, sebbene l’oggettività giuridica di categoria esprima una presunzione di omogeneità di contenuto delle ipotesi criminose comprese nella stessa categoria, non può negarsi che alcune delle sottofattispecie legali contemplate dall’art. 572 c.p. realizzino una sfasatura col concetto di famiglia, per quanto appositamente dilatato (96). Tra queste sub-ipotesi tipiche rientra certamente il caso dell’affidamento per ragioni di cura (97). Tuttavia, pur di fronte a questa estensione normativa della soggettività passiva al di là di un contesto esclusivamente familiare; nonostante l’identificata ratio dell’incriminazione nella tutela, innanzitutto, di un interesse individuale — come sopra specificato — e, solo di riflesso, di interessi superiori eventuali e non necessariamente coincidenti con l’interesse familiare (98), non sembra corretto applicare l’art. 572 c.p. a situazioni particolari, mancanti di un rapporto diretto tra autore e vittima del reato, come riconosciuto dalla stessa Corte nel caso di specie, neanche invocando il generale dovere di solidarietà sociale, conseguente al pregnante rilievo attribuito dal nostro ordinamento alla persona umana (99). Oltretutto, consistendo, come a suo luogo si ritiene di aver dimostrato, l’oggettività giuridica tutelata dalla norma in esame nella integrità psicofisica della vittima (100), va qui ribadita l’insufficienza di una pura e semplice trasgressione dei doveri di solidarietà per l’integrazione della fattispecie, e la necessità, viceversa, di una più intensa offesa della personalità psicofisica del soggetto passivo. 5. I maltrattamenti omissivi nel vigente sistema penale e nel Progetto di legge-delega di un nuovo codice penale. — La ritenuta impossibilità di ricondurre all’art. 572 c.p. i maltrattamenti mediante omissione non ne comporta necessariamente l’irrilevanza penale. La sicura « sofferenza » prodotta da determinate condotte passive, sia nel contesto familiare che in quello sanitario e assistenziale, può, alla luce del sistema penale valutato nel suo complesso, egualmente assurgere a fattispecie criminosa, ma in base a disposizioni normative diverse. Innanzitutto, qualora i soggetti obbligati rivestano la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, un’indebita omissione in (96) MANTOVANI, Riflessioni, 265; nello stesso senso COPPI, voce Maltrattamenti, 228 ss. L’esempio più evidente di questa sfasatura è dato dal riferimento al minore di anni quattordici, che — come risulta dalla stessa norma — non deve appartenere alla famiglia del reo, né essere a lui affidato per ragioni di istruzione, vigilanza, ecc., né essere sottoposto alla sua autorità: fuori, quindi, da ogni rapporto familiare o parafamiliare. (97) Concorda con tale posizione BLAIOTTA, Maltrattamenti, 518, per il quale la situazione di responsabilità giuridica gravante su un dirigente di nosocomio può farsi rientrare nel concetto di affidamento per motivi di cura ex art. 572 c.p. (98) MANTOVANI, Riflessioni, 267. (99) MANTOVANI, Diritto penale, delitti, 223 ss. (100) V., supra, par. 1.
— 199 — materia di « sanità » può dar luogo al reato previsto dall’art. 328 c.p. (101). E non v’è dubbio che, tra gli esercenti una professione sanitaria, i medici delle strutture pubbliche nell’esercizio delle loro funzioni siano soggetti pubblici (102). A ben vedere, però, il legislatore del 1990 (103) ha notevolmente ridimensionato l’operatività dell’art. 328 c.p. prevedendo al primo comma l’incriminazione del rifiuto, e non anche dell’omissione, di un atto d’ufficio solo se vi sia urgenza e si tratti di settori ritenuti di particolare importanza (tra questi, la sanità); e al secondo comma un farraginoso meccanismo di messa in mora incentrato su ipotesi di omissione o ritardo dell’atto soltanto se accompagnato da una mancata risposta alla richiesta di esporne le ragioni. Gli effetti di tale riforma si sono, fin’ora, concretizzati in una rara applicazione della norma medesima (104). Un più ampio margine applicativo può comunque ravvisarsi in settori diversi, specie ove l’omittente fosse privo di una qualifica pubblicistica. Potrebbe, ad esempio, configurarsi, ricorrendo certe condizioni, la fattispecie di « abbandono di persone minori o incapaci » descritta dall’art. 591 c.p., la cui oggettività giuridica consiste, appunto, nella violazione di un dovere di assistenza (105). Più in particolare, la fattispecie di cui all’art. 591 sarebbe integrata da qualsiasi azione od omissione contrastante con l’obbligo della custodia o della cura. Verso l’applicazione del reato di abbandono di minori o incapaci è parsa orientata la giurisprudenza più recente, proprio al fine di punire i (101) Così PISA, Il commento, 209. (102) Non sono ritenuti soggetti pubblici i medici liberi professionisti: BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, IV, 294; PAGLIARO, Princìpi di diritto penale, p.te sp., Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, 6a ed., Milano, 1994, 283. Contra, BONINI, Il reato dell’art. 328 c.p. e l’obbligo giuridico dell’esercente una professione sanitaria, in Annali, 1940, 124, il quale ritiene che medico e levatrice liberi professionisti siano incaricati di pubblico servizio. (103) Ci si riferisce alla nota legge di riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, n. 86 del 26 aprile 1990. (104) Per un’attenta disamina della fattispecie si rimanda a FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te sp., I, 2a ed., Bologna, 1997, 259 ss.; PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, II. Delitti contro la pubblica Amministrazione e contro la giustizia, 2a ed., Padova, 1997, 247 ss.; BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, IV, 291 ss.; PAGLIARO, Princìpi, p.te sp., 279 ss.; SEMINARA, Sub art. 328 c.p., in Commentario breve, 746 ss. (105) Sul reato di « abbandono di persone minori o incapaci » v., in generale, MANZINI, Trattato, VIII, 322 ss.; RICCIOTTI, Sub art. 591, in Commentario breve, 1291 ss.; FIERRO CENDERELLI, voce Abbandono di persone minori o incapaci, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, 1 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, delitti, 226 ss. V., altresì, PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, I, Delitti contro la persona e contro il patrimonio, Padova, 1993, 83 ss.; BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, V, 579 s.; PADOVANI, Codice, 2148 ss.; PISAPIA G.D., voce Abbandono di minori, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 34 ss.; PANNAIN, voce Abbandono di persone minori o incapaci, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, 15 ss.
— 200 — disservizi di ospedali psichiatrici e case di ricovero (106). Infatti, per quanto l’applicazione dell’art. 591 c.p. sia condizionata dalla sussistenza di un pericolo per l’incolumità fisica e/o psichica della vittima (107), può ritenersi sufficiente, per la rilevanza penale del comportamento, anche un singolo episodio di abbandono, persino temporaneo (108). Quanto ai soggetti passivi, l’art. 591 c.p. opera una distinzione che ne consente un’estesa applicazione, comprensiva dei casi solitamente ma inopinatamente ricondotti all’art. 572 c.p. Per i minori infraquattordicenni non occorre un obbligo di custodia o di cura; basta un rapporto di dipendenza di fatto, presumendosene l’incapacità in via assoluta (109). Per gli altri incapaci necessita invece la violazione di un dovere di custodia o di cura nascente dalla legge o da un rapporto di diritto privato (110). Inoltre, il concetto di cura nel senso dell’art. 591 c.p. non riguarda solo quella dovuta dal medico, dall’infermiere, ecc., ma « altresì tutte le prestazioni e cautele protettive alle quali una persona può essere obbligata verso un incapace di provvedere a se stesso, e quindi anche le cure che derivano da obblighi di mantenimento, di educazione, istruzione e vigilanza » (111). Se, poi, il fatto di abbandono materiale integra anche gli estremi del reato di « violazione degli obblighi di assistenza familiare » si applicherà, (106) La giurisprudenza della Cassazione ha ravvisato ipotesi di abbandono nell’affidamento di vecchi e minorati psichici a personale insufficiente (Cass., 20 marzo 1990, in Riv. pen., 1990, 929); nel repentino allontanamento di tutte le assistenti infermiere da una casa di ricovero per anziani e menomati psichici, nonostante la presenza nel luogo di inservienti civili idonei, per quantità e qualità, alla necessaria assistenza infermieristico sanitaria (Cass., 14 ottobre 1986, n. 10841); nell’omissione di prestazioni assistenziali e terapeutiche dovute ad anziani ricoverati (Cass., 28 marzo 1990, in Cass. pen., 1992, 614); nel lasciare privi di assistenza gli ospiti di una casa per anziani (Cass., 21 ottobre 1992, in Cass. pen., 1994, 1203); e, in generale, in qualsiasi azione od omissione contrastante con obblighi di custodia o di cura, quando da tale condotta derivi un pericolo anche solo potenziale per l’incolumità dell’incapace (Cass., 1 febbraio 1993, in Riv. pen., 1993, 1131). (107) L’art. 591 non richiede espressamente questo requisito, ma dottrina e giurisprudenza lo considerano generalmente indispensabile: v., per tutti, ANTOLISEI, Manuale, p.te sp., I, 119; Cass., 6 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, 280. (108) PADOVANI, Codice, 2149; MANZINI, Trattato, VIII, 342; BARGIS, Abbandono temporaneo e pericolo per la vita e l’incolumità del minore, in Giur. it., 1974, II, 480 ss.; Cass., 6 maggio 1983, cit. (109) MANZINI, Trattato, VIII, 326. (110) BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, V, 579; RICCIOTTI, Sub art. 591, 1292: si pensi alla l. 23 dicembre 1978 n. 833 per gli ammalati di mente assoggettati a trattamento terapeutico obbligatorio; e all’affidamento di un minore, o di una persona anziana ad un istituto o ad un singolo a fini di assistenza o di custodia, come esempio di dovere di custodia o di cura derivante da contratto. Il Trib. Perugia, 20 ottobre 1986, in Foro it., 1988, II, 108, ha incriminato ex art. 591 c.p. il caso di una famiglia interamente composta da malati psichici, lasciata del tutto priva di assistenza dal medico di un centro di igiene mentale. (111) MANZINI, Trattato, VIII, 333.
— 201 — non l’art. 570 c.p. che lo incrimina, stante la riserva contenuta nell’ultimo capoverso dello stesso, bensì l’art. 591 c.p. (112). Le conseguenze sanzionatorie di una scelta interpretativa che all’art. 5721 c.p. preferisce l’art. 5911 c.p. peraltro non differiscono, essendo la pena da ciascuno prevista identica nel massimo (cinque anni). Qualora, invece, la violazione di obblighi morali o materiali di assistenza familiare, senza integrare gli estremi dell’« abbandono » desse luogo ad una sorta di disinteressamento, consistente nell’inosservanza dei doveri di assistenza inerenti alla potestà di genitori o alla qualità di coniuge e cagionante sofferenza nei soggetti passivi analogamente alle condotte di maltrattamenti, potrebbe ovviarsi alla loro mancata riconducibilità all’art. 572 c.p. facendo ricorso alla fattispecie sussidiaria di cui all’art. 570 c.p., cui altrimenti non rimarrebbero margini di operatività (113). Ci si riferisce in particolare alla seconda ipotesi prevista dall’art. 570, secondo comma, che punisce la privazione dei mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per fatto a lui addebitabile. La dottrina, nel chiarire la portata della generica nozione di mezzi di sussistenza, ha definito tali le cose assolutamente necessarie alla vita, come gli alimenti, i medicinali, ecc. (114). Va inoltre sottolineato come sia l’art. 591 che l’art. 570 c.p. descrivano reati omissivi propri incriminanti l’inosservanza di obblighi solidaristici di garanzia da parte di determinate categorie di soggetti (115), evocati dalla succitata sentenza della S.C. (116). Le fattispecie ora indicate sembrano quindi porsi quale corretta e valida alternativa all’art. 572 c.p. in tutti i casi di condotte di maltrattamento che, in quanto aventi natura omissiva, non sarebbero riconducibili — per le ragioni esposte — a questa disposizione. Può, infine, ravvisarsi in tale interpretazione e nella relativa soluzione il vantaggio sia di evitare uno snaturamento della figura dei maltrattamenti in famiglia attraverso una discutibile dilatazione della condotta da essa incriminata, sia di superare i problemi di accertamento del dolo di (112) Ancora MANZINI, Trattato, VIII, 339. (113) PISA, Il commento, 209. (114) MANZINI, Trattato, VIII, 878 s.; BRICOLA-ZAGREBELSKY, Giurisprudenza, V, 500. Sulla fattispecie in generale v., altresì, ANTOLISEI, Manuale, p.te sp., I, 470 ss.; SCHIAVANO, Sub art. 570 c.p., in Commentario breve, 1232 ss., COSSEDDU, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Noviss. dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, 1137 ss.; MARCUCCI, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975, 860 ss. (115) MANTOVANI, Diritto penale, delitti, 224. (116) Il riferimento è alla sent. 17 ottobre 1994, cit.
— 202 — maltrattamenti, la cui difficoltà finirebbe col privare i soggetti deboli della piu ampia protezione che si vorrebbe loro assicurare (117). L’interpretazione del concetto di maltrattamenti qui preferita troverebbe un avallo, in prospettiva di riforma, nello « Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale » (118). Tale Progetto propone la scissione del reato di maltrattamenti in due titoli differenti del codice. In primo luogo i maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli vengono inclusi nel Titolo « dei reati contro la vita e l’incolumità individuale », quali circostanze aggravanti dell’omicidio colposo e delle lesioni personali colpose (119). In secondo luogo è formulata un’ipotesi autonoma di maltrattamenti, collocata nel Titolo « dei reati contro la famiglia », in particolare nel Capo II, dedicato ai « reati contro la solidarietà familiare« , e indicata col mero nomen juris (art. 90, n. 4), da cui emergerebbe l’intenzione di non modificare la configurazione della forma-base rispetto all’attuale fattispecie (120). Il Capo II del Titolo III, oltre a riprodurre, sia pure parzialmente, figure criminose già esistenti nel codice Rocco, sanziona altresì la violazione di obblighi di assistenza sia economica che fisica (art. 90) « al di fuori di formule che nella loro genericità hanno creato delicati problemi interpretativi » (121). Tra questi obblighi sono indicati quelli di assistenza economica, il cui inadempimento consiste « nel far mancare gli alimenti ai discendenti di età minore o inabili al lavoro o i mezzi di sussistenza agli ascendenti o al coniuge anche se separato o divorziato, che versino in stato di bisogno e non siano in grado di provvedere al proprio mantenimento, (art. 90, n. 1) (122). Viene inoltre prevista la punibilità della « violazione del dovere di assistenza fisica, consistente nel non prestare, senza giustificato motivo, l’elementare assistenza fisica ai discendenti, agli ascendenti o al coniuge separato che versino in uno stato di particolare bisogno per malattia di corpo o di mente, per minore età o vecchiaia o per infermità fisica » (art. 90, n. 2) (123). In altri termini, sembra trattarsi proprio di quelle privazioni di cibo e/o medicinali che integrerebbero le condotte omissive di maltrattamenti (117) PISA, Il commento, 209 s. (118) La riforma del codice penale, in Documenti giustizia, cit. (119) L’introduzione di questa circostanza aggravante rispetto all’omicidio e alle lesioni colpose si inserisce in una generale politica di eliminazione della fattispecie aggravata dall’evento: così PISANI, Per un nuovo codice penale, Padova, 1993, 41 s. (120) PAGLIARO, Disposizioni intorno ai reati in danno di minori contenute nel progetto di legge delega per un nuovo codice penale, in Cass. pen., 1994, 1112. (121) Così testualmente la Relazione alla Parte speciale, in La riforma, 381. V., altresì, PISANI, Per un nuovo, 52. (122) La riforma, 432. (123) La riforma, 432. Cfr. PAGLIARO, Disposizioni, 1114 s.
— 203 — (art. 572 c.p.) secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti e che, invece, secondo l’interpretazione qui esposta, possono ricondursi de jure condito al n. 2 dell’art. 570, secondo comma, c.p. Questa norma incrimina infatti — giova ribadirlo — la condotta di chi fa mancare ai membri della propria famiglia (in senso lato) gli indispensabili mezzi di sussistenza, come gli alimenti, il vestiario, l’abitazione, i medicinali. È innegabile che la rilevanza penale delle condotte omissive di maltrattamento così ricostruita evidenzi una particolare complessità, che, come tale, mal si concilia con le notorie esigenze di certezza poste a fondamento dell’ordinamento giuridico e, soprattutto, con lo specifico canone di determinatezza alla base dell’ambito penalistico: « occorre che tra le tecniche di tutela con le quali sono costruite le fattispecie di reato, e i princìpi consacrati nella parte generale, sussista un rapporto di effettiva corrispondenza strutturale » (124). Può in conclusione formularsi l’auspicio di un rinnovato assetto normativo più adeguatamente formulato (125), in cui anche la valutazione penale dei maltrattamenti mediante omissione trovi un quadro di riferimento non equivoco. TIZIANA VITARELLI Ricercatore di Diritto Penale nell’Università di Messina
(124) Così FIANDACA, La parte speciale tra codificazione e legislazione penale speciale, in AA.VV., Prospettive, 237. (125) PAGLIARO, Disposizioni, 1114, ritiene che la sostituzione del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare con una struttura di incriminazioni particolarmente articolata, volta allo scopo di completare la sfera di tutela e renderla più certa, costituisce la novità maggiore del Progetto nel settore dei reati contro la solidarietà familiare. Da più parti è stato di recente osservato come lo strumento della legge delega, che nella elaborazione della parte speciale si limiti ad enunciare soltanto princìpi e criteri direttivi amettendo quindi l’indicazione del trattamento sanzionatorio per i vari tipi di reato, non appare il sistema ideale per realizzare una compiuta scelta penalizzatrice: v., per tutti, FIANDACA, La parte speciale, 248. Al fine di predisporre modelli di mediazione familiare e strumenti di tutela dei minori e degli altri soggetti deboli è stato insediato un gruppo di lavoro interministeriale: sul punto v. MAGNO, Il « silenzio » sulla giustizia minorile è solo il preludio di riforme più incisive, in Guida al diritto, 1996, 45. Sul tema della tutela penale del minore nei suoi recenti sviluppi si rinvia a PITTARO, Linee di tendenza nella tutela penale del minore, in Dir. pen. e proc., 1997, 72 ss.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
I REATI RELATIVI ALLE MANIPOLAZIONI GENETICHE NEL CODICE PENALE SPAGNOLO DEL 1995
I progressi avutisi nella conoscenza del genoma umano e le possibilità di intervento su di esso per mezzo dell’ingegneria genetica, del DNA ricombinante, hanno portato alla ribalta nuove necessità di protezione legale dei beni giuridici coinvolti, o, in caso di esistenza di tale protezione, di un rafforzamento della stessa. In questo senso, sono immaginabili nell’ambito della genetica diverse vie di regolamentazione scaglionata, intensiva ed estensiva, completamente differenti fra loro, ma probabilmente complementari (1): cominciando dall’autocontrollo individuale, o deontologico, dell’insieme dei ricercatori, passando da garanzie amministrative di carattere procedurale, sino a giungere all’introduzione di tipi di tutela civile — o al rafforzamento di tali strumenti — o addirittura, se necessario, di sanzioni penali. Riteniamo infatti che, sebbene sia vero che anche in altri ambiti dell’attività umana è aperta tale forma di regolamentazione plurima e scaglionata con diversi livelli di intensità, non è meno vero che tale procedimento sia particolarmente indicato nei confronti della Biotecnologia e delle Scienze Biomediche in generale, in modo da elasticizzarne l’attuazione a favore della maggior libertà possibile nella ricerca, e, nel contempo, prevenirne efficacemente anche le conseguenze socialmente indesiderate. 1.
Criteri politico-criminali generali.
1.1. La necessità della vincolatività ai principi di intervento del Diritto Penale contemporaneo. — In una materia così nuova come quella in oggetto, l’intervento del Diritto Penale deve poggiare sui principi basilari tradizionali, ma come vengono concepiti attualmente (2), vale a dire, osservare la funzione del Diritto Penale e i principi di intervento minimo e ultima ratio (3). Tuttavia, nell’ancora scarsa attività legislativa comparata abbon-
(1) Così JEAN L. BAUDOUIN, Límites penales de la experimentación en genética, in Fundación, BBV (ed.), El Derecho ante el Proyecto Genoma Humano, III, Bilbao, 1995, 163 ss.; ALBIN ESER, Genética Humana desde la perspectiva del Derecho alemán (trad. C. M. Romeo Casabona) in Anuario de Derecho Penal y Ciencias Penales, 1985, 363, 364; ALBERTO SILVA FRANCO, Genética Humana e Direito, in Bioética, vol. 4. n. 1, 1996, 23; EMILSSEN GONZALEZ DE CANCINO, Los retos jurídicos de la genética, Universidad Externado de Colombia, Bogotà, 1995, 89; FERRANDO MANTOVANI, Manipolazioni genetiche, in Digesto, vol. VII, Penale, 4a ed., UTET, Torino, 1993, 21 ss.; CARLOS MARÍA ROMEO CASABONA, Límites penales de la manipulación genética, in Fundacion, BBV (ed.), El Derecho ante el Proyecto Genoma Humano, III, Bilbao, 1994, 177. (2) V. su questi argomenti JOSÉ CEREZO MIR, Curso de Derecho Penal Español. I Parte General, 5a ed., Ed. Tecnos, Madrid, 1996, 17 ss. (3) In questo senso, GONZALEZ DE CANCINO, Los retos jurídicos de la genética, cit., 221; RAIMO LAHTI, Criminal Law and Modern Bio-Medical Techniques. General Report, in
— 205 — dano esempi della tendenza contraria (4). Anzi, proprio in questa materia è di somma importanza mantenersi vincolati al principio di continuare ad affidare esclusivamente al Diritto Penale il compito di proteggere i beni giuridici, vale a dire, i valori e gli interessi fondamentali appartenenti all’individuo e alla collettività, nei confronti di condotte che li possano ledere o mettere in pericolo, ogniqualvolta essi possano comportare un’infrazione grave alle norme etico-sociali vigenti nella società in un momento dato. E tuttavia, il ricorso al Diritto Penale deve essere riservato ad agire nei confronti degli attacchi più intollerabili ai beni giuridici di particolare importanza, e soltanto se strettamente necessario per l’insufficienza di altri strumenti giuridici non penali (Diritto Amministrativo, Civile, ecc.). Pertanto, anche per quanto riguarda le attività sul genoma umano, devono essere mantenuti tali criteri, in modo da far sì che, in molti casi, l’intervento del Diritto Penale sia accessorio o inesistente, poiché non si sono presentati motivi sufficienti, specialmente se altri settori dell’ordinamento giuridico sono in grado di soddisfare appieno le necessità di protezione di beni e interessi, o di limitazione delle attività non desiderabili (5). Ciononostante, il ricorso al Diritto Penale sarà inevitabile — ma pur sempre eccezionale — quando si tratterà di condotte particolarmente gravi nei confronti di beni o valori degni di una protezione più consistente. Perciò, come ho indicato in precedenza, il primo filtro limitatore e sanzionante deve essere ottenuto dalle leggi che regolano, limitano e sanzionano le attività legate alla fecondazione artificiale (ma non quest’ultima in sé), l’ingegneria genetica e l’utilizzazione di gameti ed embrioni umani a scopo di ricerca, così come di microorganismi geneticamente alterati; nel caso spagnolo, dalle Leggi sulle Tecniche di Fecondazione artificiale (6) e Donazione, Utilizzazione di Embrioni e Feti Umani o loro cellule, tessuti od organi (7), nonché Utilizzazione limitata, Liberazione Volontaria e Commercializzazione di organismi geneticamente modificati (8). La stessa funzione filtrante corrisponde al risarcimento civile del danno prodotto (9). In ogni caso, nonostante tali criteri siano concettualmente evidenti, nella pratica sono difficili da concretizzare, in quanto devono riflettere le concezioni etico-sociali vigenti nella collettività in merito alle diverse derivazioni e conseguenze delle scoperte e delle attività sul genoma umano, e, per adesso, non è ancora così semplice trovare punti di incontro più o meno comuni. D’altronde, ottiche diverse sulla concezione del Diritto Penale — anche partendo dal nucleo generale comune sopra descritto — ne possono eventualmente posticipare o anticipare l’intervento. Cosicché, se ne viene accentuata la funzione preventiva, in base all’ottica della razionalità del fine (concezione utilitaristica), si potrebbe avere una criminalizzazione delle attività costituenti un pericolo per i beni giuridici da proteggere, anche quando tale pericolo sia meramente potenziale, senza che si sia ancora concretamente verificato (reati di pericolo astratto); mentre l’orientazione alla razionalità dei valori porrà l’accento sui diritti e sui beni dell’individuo e sugli ideali di umanità e giustizia (10), ciò che faciliterà un contenimento della criminalizzazione. Altri settori si appellano alla funzione simbolica Revue Internationale de Droit Pénal, v. 59, 1988, 611; JAIME M. PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, Civitas, Madrid, 1995, 71 ss. (4) V. sul punto la legge tedesca sulla Protezione dell’Embrione (Gesetz zum Schutz von Embryonen - Embryonenschutzgesetz), del 13 dicembre 1990, nonché la legge francese relativa alla Procreazione Assistita e alla Diagnostica Prenatale, del 1994 (Loi n. 94-654 du 29 juillet 1994, relative au don et à l’utilisation des éléments et produits du corps humain, à l’assistance médicale à la procréation et au diagnostic prénatal). (5) MANTOVANI, Manipolazioni genetiche, cit., 21; CARLOS MARIA ROMEO CASABONA, Del Gen al Derecho, Universidad Externado de Colombia, Santafé de Bogotá, 1996, 414 ss. (6) L. n. 35 del 1988, del 22 novembre. (7) L. n. 42 del 1988, del 28 dicembre. (8) L. n. 15 del 1994, del 3 giugno. (9) V. ROMEO CASABONA, Límites penales de la manipulación genética, cit. 183 s. (10) Per le implicazioni di detti principi nelle Science Biomediche, LAHTI, Criminal Law and Modern Bio-Medical Techniques. General Report, cit., 611.
— 206 — del Diritto Penale nei confronti di tali ipotesi, quale rafforzamento morale nei confronti di condotte devianti, o alla funzione di dimostrazione dell’errore morale e di enfatizzazione della sua funzione dichiarativa, affermando i limiti di tolleranza della società (11). Infine, anche per quanto riguarda le Scienze Biomediche, si è voluto porre in risalto la funzione regolatrice del Diritto Penale, anteponendola a quella sanzionatoria (la stessa adempirà alla funzione regolatrice), in modo che determinate condotte non sarebbero direttamente criminalizzate, ma sarebbero autorizzate sotto osservanza di certe condizioni e procedure, la cui infrazione potrebbe dar luogo alla criminalizzazione, in forma simile a quanto accade, in certa misura, con il Diritto Penale economico (12). Le succitate ottiche confermano la complessità e la difficoltà di ricerca di criteri politico-penali adeguati, ma, nel contempo, mettono in evidenza il rischio di espansione del Diritto Penale e deviazione delle sue funzioni essenziali e dei principi di intervento. Tuttavia, questo non dovrebbe discostarsi da essi, così come dall’aspirazione ai suddetti ideali di giustizia e umanità. Pertanto, una volta stabiliti tali margini, per potere procedere abbiamo detto che occorre individuare e delimitare i beni giuridici o gli interessi eventualmente offesi dalle attività sul genoma umano. Soltanto dopo aver raggiunto tale identificazione, sarà possibile analizzare le condotte che possono attentare a tali beni e interessi, rilevarne la gravità e adottare quindi la soluzione politico-penale idonea. In ogni caso, non è possibile aspirare a soluzioni definitive, in primo luogo perché ancora non si conoscono con precisione gli esiti eventualmente derivanti dalle applicazioni pratiche — alcune di esse non ancora attuabili — derivanti dalle cognizioni sul genoma umano; in secondo luogo, perché ciò che attualmente può sembrare indesiderabile e deviante, potrebbe non esserlo nel futuro, in particolare se possono esserne evitati gli effetti indesiderabili. D’altronde, occorre tener conto del fatto che numerose manipolazioni genetiche descritte dalla letteratura scientifica in merito sono ammesse come tecnicamente realizzabili dal punto di vista teorico o ipotetico, il che solleva la questione se la funzione preventiva del Diritto Penale (meritevolezza e necessità della pena) deve anticiparsi addirittura alla stessa manifestazione di tali fatti. 1.2. I beni giuridici coinvolti. — Come abbiamo detto, la questione, a questo punto, è quella di rilevare quali sono i beni giuridici coinvolti dagli interventi sul genoma umano, di che tipo di protezione essi godono nell’ordinamento giuridico, allo scopo di poter segnalare quindi quali sono le carenze, nonché di decidere a quali strumenti giuridici occorre rifarsi per garantirne la protezione adeguata, a seconda dell’importanza e delle forme di aggressione cui eventualmente possano essere soggetti, senza che, come detto in precedenza, il ricorso al Diritto Penale sia altresì necessario. Possono essere interessati beni giuridici, interessi o valori individuali o collettivi. Pertanto, è bene a questo punto citarli brevemente (13). Le correnti umanistiche e neo-personalistiche degli ultimi decenni hanno posto l’accento sul riconoscimento della dignità umana e sul libero sviluppo della personalità, quali valori individuali inalienabili dell’uomo (14), valori che di recente fanno da sfondo in numerosi aspetti riguardanti la genetica umana. La Costituzione spagnola del 1978 li ha espressamente incorporati nell’art. 10.1: « La dignità della persona, i diritti inviolabili ad essa inerenti, il libero sviluppo della personalità, il rispetto della legge e dei diritti altrui sono la base dell’ordinamento politico e della pace sociale ». Il ricorso frequente, indiscriminato e, forse, anche abusivo a tali valori, sommato al generico disinteresse per lo studio dei loro limiti e funzioni esatte nell’insieme del testo costituzionale, non deve farci perdere la prospettiva della loro importanza intrinseca. Basta evidenziarne in questa sede la funzione di proiezione (11) V. LAHTI, op. cit., 612. (12) V. LAHTI, op. cit. (13) V. sul punto, ROMEO CASABONA, Límites penales de la manipulación genética, cit., 187 ss. (14) V. CARLOS MARÍA ROMEO CASABONA, El Derecho y la Bioética ante los límites de la vida humana, Ed. CERA, Madrid, 1994, 44 ss., 67 ss.
— 207 — sugli altri diritti fondamentali e sulle libertà pubbliche che la Costituzione spagnola prevede (in modo analogo a quanto accade per altre Costituzioni con struttura analoga), in modo da far sì che tali diritti consentano di conferire a tali beni un miglior senso interpretativo e coesione, piuttosto che concepirli (la dignità umana e il libero sviluppo della personalità) quali diritti fondamentali autonomi (15). D’altro canto, il principio di uguaglianza di fronte alla legge, ma, soprattutto, la derivante non discriminazione (per ragioni di nascita, razza, sesso, religione, opinione o qualunque altra condizione o circostanza personale o sociale, ai sensi dell’art. 14 della Costituzione spagnola), si elevano anch’essi a un primissimo piano per la potenzialità discriminante che potrebbero sviluppare alcune applicazioni derivanti dalle cognizioni sul genoma umano. La maggioranza dei beni giuridici individuali eventualmente coinvolti dalle attività sul genoma umano ha avuto un riconoscimento espresso da parte delle costituzioni moderne e delle dichiarazioni e convegni internazionali sui diritti umani. Lo stesso Diritto Penale ha tradizionalmente conferito loro una protezione speciale. Lo stesso accade per la vita umana, per l’integrità (fisica e mentale), per la libertà di decisione e autodeterminazione, nonché per l’intimità, beni giuridici che godono di protezione penale diretta nei confronti di quasi tutte, o almeno le principali forme di aggressione degli stessi. Tuttavia, come cercheremo di dimostrare in seguito, non è sempre così. Altri beni giuridici hanno avuto una fluttuazione in quanto alla loro protezione, ma, negli ultimi anni, si pone enfasi sulla necessità di intensificarla, in vista di nuove forme di aggressione, sinora impensabili, o che sembravano di scarso rilievo, come accade per la vita e l’integrità fisica e psichica (futura) del concepito. Accanto ai suddetti beni giuridici individuali, se ne vengono a delineare altri di carattere collettivo, o che almeno presentano tale proiezione sovra-individuale autonoma, che interessa diversi aspetti della specie umana, e, pertanto, differenti dagli interessi individuali concreti coinvolti. Infatti, le azioni che è possibile realizzare sul genoma umano, in base alla conoscenza dello stesso, vale a dire, le manipolazioni genetiche e l’ingegneria genetica sul DNA ricombinante, mettono in rilievo che tali condotte, sebbene possano ricadere su certi individui in particolare, interessandoli in modo diretto, li trascendono, dato che potrebbero eventualmente coinvolgere addirittura la stessa specie umana, la sua integrità, identità, inalterabilità e diversità. Destano perciò apprensione e sono respinte l’eugenetica positiva perfettiva, o di miglioramento di certi tratti genetici, non meramente teraupetica (16), le manipolazioni genetiche a fini razziali o razzisti, nonché quelle che possono in qualche modo degradare la specie umana, come ad esempio l’incrocio con animali (ibridazione). Si vuole evitare il risorgere, in versione moderna — sia per quanto riguarda le possibilità tecniche, sia per quanto riguarda l’ideologia — delle correnti eugenetiche dei primi trent’anni del secolo. Anche gli interventi sui geni umani a fini terapeutici, sebbene la tendenza sia ad accettarne la legittimità, continuano a destare timori e a mettere sul tappeto certi dubbi, nella misura in cui presentano la potenzialità di incidere sulla specie umana, alterandone il genoma al di fuori di (15)
V. per analoghi suggerimenti, JOSÉ M. VALLE MUÑIZ-MARISÉ GONZALEZ GONZA-
LEZ, Utilización abusiva de técnicas genéticas y Derecho Penal, in Poder Judicial, n. 26,
1992, 126 s. V., in senso contrario, FERRANDO MANTOVANI, Manipulaciones genéticas, bienes jurídicos amenazados sistemas de control y técnicas de tutela, in Revista de Derecho y Genoma Humano, n. 1, 1994, 93 ss.; nonchè lo « Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale », del 1992, in Italia (v. L’Indice Penale, n. 3, 1992, 579 ss., 642 s.), dove (nel Titolo IV) la dignità dell’essere umano è prevista come un autonomo bene giuridico, sotto il quale sono collocati i reati « contro l’identità genetica » (art. 65). Per quanto riguarda questo Schema, v. anche PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, cit., 210 ss. V. sul concetto di dignità nel Diritto spagnolo, REGINO MATEO PARDO, La « dignidad de la persona humana » y su significación en la Constitución española de 1978 a través de la jurisprudencia del Tribunal Constitucional, in Escritos Juridicos en memoria de Luis Mateo Rodríguez, Universidad de Cantabria, 1992, 341 ss. (348 ss.). (16) MANTOVANI, Manipolazioni genetiche, cit., 12 s.
— 208 — determinate circostanze; possibilità, quest’ultima, che è aperta per quanto riguarda la terapia o qualsiasi altro intervento genetico sulla linea germinale (cioé, sui gameti femminili o maschili o sullo zigote), che, a sua volta, riporta alla discussione sulla sua utilizzazione quale mezzo preventivo di rafforzamento della razza umana nei confronti di certe malattie, allo scopo di renderla ad esse più resistente (ad esempio, il cancro o altre ancora prodotte da virus); o, ancora, nel suo aspetto di eugenetica negativa, cioè di eliminazione del materiale genetico patologico (17). Nello spirito di attesa, che sembra essere consigliabile in questo momento, sino a conoscere meglio le conseguenze o gli effetti derivanti dagli interventi sulla linea germinale, non è altresì opportuno pronunziarsi in modo definitivo su tale proposta eugenetica, almeno finché non saremo in grado di conoscerne meglio le possibilità e gli effetti, e, nel caso, controllare quelli indesiderati, dato che si tratta di una possibilità che, sul piano puramente speculativo, deve essere valutata, in linea di massima, favorevolmente. Ma la domanda ancora nell’aria è se vi sono in realtà beni collettivi nuovi, oltre a quelli individuali, degni di essere protetti dal Diritto, e, nel caso, meritevoli di pena i comportamenti che vi attentano gravemente. Si potrebbe pensare, come è stato indicato, a certi beni che interessano in modo generico l’umanità (18), in modo simile a come essi sono stati tradizionalmente intesi in rapporto al diritto internazionale e ai delitti di genocidio. Così ritengono anche il Consiglio d’Europa e l’UNESCO, nei rispettivi strumenti internazionali che, nel loro seno, sono in corso di elaborazione, dato che alludono esplicitamente alla specie umana come possibile parte lesa dagli interventi sul genoma umano (19). Di tutti questi beni giuridici, mi sono occupato in altra sede (20), con le varie sfumature da essi richieste, per cui basterà, in questa sede, enumerarli: 1o) l’inalterabilità e intangibilità del patrimonio genetico non patologico dell’essere umano, per garantire l’integrità e la diversità della specie umana; 2o) l’identità e irripetibilità caratteristica di ciascun essere umano, quale garanzia dell’individualità e della condizione di diversità di ciascuno da tutti gli altri; 3o) la dotazione genetica doppia, delle linee genetiche maschile e femminile; 4o) la sopravvivenza stessa del genere umano. Pertanto, con tali beni generici si proteggerebbero sia l’inalterabilità di certe caratteristiche della specie umana, sia la sua pluralità e varietà genetica, nei confronti di pretese eugenetiche o di altro tipo tramite la Biotecnologia o l’ingegneria genetica, compresa, nei casi più gravi, la stessa sopravvivenza del genere umano. In certi casi, tali scelte di tutela possono costituire un mezzo strumentale per proteggere nel contempo valori democratici basati sul plu(17) V. ALBIN ESER, La moderna medicina la reproducción e ingeniería genética. Aspectos legales y sociopolíticos desde el punto de vista alemán, in Ingeniería Genética y Reproducción Asistida (edizione a cura di M. Barbero), Madrid, 1989, 294. (18) NOËLLE LENOIR, Aux frontières de la vie: une éthique biomédicale à la française, T.I., La Documentation Française, Paris, 1991, 81: « il genere umano è in sé un valore ». (19) Così, il Consiglio d’Europa, nella Convenzione del 19 novembre 1996 for the Protection of Human Rights and dignity of the human being with regard to the application of Biology and Medicine: Convention on Human Rights and Biomedicine: « Convinced of the need to respect the human being both as an individual and as a member of the human species and recognising the importance of ensuring the dignity of the human being » (Esposizione dei Motivi). L’UNESCO nello Schema di Dichiarazione Universale on the Human Genome and Human Rights: « The human genome is a fundamental component of the common heritage of humanity » (art. 1o). « Considering that the principles relating to the human genome and to the protection of the individual are all based, in accordance with the Preamble to the Universal Declaration of Human Rights, on recognition of the inherent dignity and of the equal and inalienable rights of all members of the human family (which) is the foundation of freedom, justice and peace in the world » (Esposizione dei Motivi). (20) V. ROMEO CASABONA, Límites penales de la manipulación genética, cit., 203 ss.; ROMEO CASABONA, La persona entre la Biotecnología, la Bioética y el Derecho, in Folia Humanistica, n. 276, 1986, 6. Anche, nello stesso senso, PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, cit., 108. V. anche sul punto, VALLE MUÑIZ-GONZALEZ GONZALEZ, Utilización abusiva de técnicas genéticas y Derecho Penal, cit., 119 ss. (128).
— 209 — ralismo, e impedire il dominio di determinati esseri umani su altri; è da tutti risaputo che la spersonalizzazione, l’omogeneità e la docilità dei cittadini è sempre stata la tentazione di uno stato totalitario. 2.
Il modello spagnolo. Le soluzioni del Codice Penale spagnolo del 1995 (21).
Il c.p. spagnolo del 1995 ha introdotto varie figure delittuose, raggruppate sotto la voce comune di « Delitti relativi alla manipolazione genetica » (22). Il suo precedente diretto e immediato si trova nel Disegno di c.p. del 1992. Esso è stato chiaramente superato dal suo successore — il nuovo codice — nei numerosi difetti tecnici (noncuranza del principio di tassatività e abuso delle norme penali in bianco, con i suoi difetti perniciosi per la sicurezza giuridica) e politico-criminali (trascuratezza nei confronti del principio di minimo intervento del Diritto Penale) che presentava. Ciononostante, il testo approvato incorre anch’esso, come vedremo, in alcuni gravi difetti. Ricordiamo brevemente che il precedente dell’attuale regolamentazione, il Disegno di c.p. del 1992, sotto la voce « Della manipolazione genetica di embrioni e feti umani e dell’inseminazione artificiale non consentita », includeva nuovi reati, con il pretesto di punire alcuni comportamenti particolarmente gravi: 1o) la manipolazione di geni umani in modo da alterarne il tipo costituzionale vitale, con finalità diversa da quella di eliminazione o diminuzione di tare o malattie gravi, sia realizzata con dolo, che per imprudenza grave (art. 167. 1 e 3); 2o) qualsiasi altra manipolazione di geni umani realizzata in violazione di quanto stabilito dalla legge (art. 167.2); 3o) l’applicazione della tecnologia genetica per determinare il sesso di una persona, senza il consenso dei genitori (art. 168); 4o) la donazione, utilizzazione o distruzione di embrioni e feti umani, o delle loro cellule, tessuti od organi, al di fuori dei presupposti autorizzati dalla Legge (art. 169). La maggior parte di tali reati voleva dare copertura penale alle proibizioni stabilite nelle due leggi del 1988, ma non tutti i reati previsti comprendono ipotesi di manipolazioni genetiche, essendone stati inclusi altri più specificamente legati alle tecniche di fecondazione artificiale. L’ipotesi colposa sarebbe applicabile alle manipolazioni su geni umani a qualsiasi fine, compreso quello terapeutico, non essendo specificato altrimenti. Tuttavia, la configurazione dei tipi penali concreti non fu, allora, molto felice. Per citare alcuni esempi rivelatori della leggerezza del legislatore (23), il riferimento al « tipo costituzionale vitale » introduceva un concetto giuridico indeterminato, generante una chiara incertezza giuridica, non essendo possibile dedurne il contenuto né dall’ordinamento giuridico né dalle Scienze Biomediche; pertanto, nel dibattito parlamentare (21) V. sul punto, JOSÉ LUÍS DE LA CUESTA ARZAMENDI, Los llamados delitos de « manipulación genética » en el nuevo Código Penal de 1995, in Revista de Derecho y Genoma Humano, n. 5, 1996; JUAN RAMÓN LACADENA, Delitos relativos a la manipulación genética en el nuevo Código penal español: Un comentario genético, ivi; JOSÉ LUÍS GONZALEZ CUSSAC, in T.S. Vives-J. Boix-E. Orts-J.C. Carbonell-J.L. Gonzalez, Derecho Penal, Parte Especial, 2a ed., Tirant lo Blanch, Valencia, 1996, 137 ss.; FRANCISCO MUÑOZ CONDE, Derecho Penal, Parte Especial, 11a ed., Tirant lo Blanch, Valencia, 1996, 125 ss.; JOAN JOSEP QUERALT JIMENEZ, Derecho Penal Español, Parte Especial, 3a ed., J.M. Bosch, Editor, Barcelona, 1996, 49 ss.; JOSÉ MANUEL VALLE MUÑIZ, in G. Quintero y otros. Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, Ed. Aranzadi, Pamplona, 1996, 117 ss. (22) Titolo V del Libro II (artt. 159-162). (23) V. osservazioni critiche sul Disegno del 1992 in CUERDA RIEZU, Los delitos relativos a la manipulación genética y a la inseminación artificial no consentida en el Proyecto de Código Penal de 1992, cit., 225 ss.; GONZALES CUSSAC, Manipulación genética y reproducción asistida en la reforma penal española, cit., 84, ss.; HIGUERA GUIMERA, El Derecho Penal y la Genética, cit., 221 s., 233 ss.: PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, cit., 141 ss.; ROMEO CASABONA, Límites penales de la manipulación genética, cit., 209 ss.
— 210 — tale cabalistica espressione fu sostituita con quella di « genotipo » (24), che migliorava la formulazione, e che è stata mantenuta nel c.p. del 1995, ragion per cui essa sarà di seguito commentata. Per quanto riguarda il reato sulla determinazione del sesso di una persona senza il consenso dei genitori, ci si riferiva alla fissazione, o selezione, dello stesso, e non al suo accertamento, come si poteva dedurre dall’inappropriata parola « determinazione », e superava già il principio di minimo intervento. In merito alla donazione, utilizzazione o distruzione di embrioni e feti umani, ecc., il richiamo generico alla Legge (a quanto pare la l. n. 42 del 1988), poteva dar luogo all’incriminazione di infrazioni di scarsa entità, senza rilevanza per la protezione degli stessi, e presupponeva un chiaro abuso della tecnica di legge penale in bianco. Il nuovo c.p. ha subito un processo di trasformazione quanto all’inclusione di reati — impropriamente — di « manipolazione genetica ». Il Disegno del 1994, infatti, da cui deriva il c.p. del 1995, prevedeva che i reati configurati fossero incorporati nelle leggi del 1988 (25). Nel corso del dibattito parlamentare (26), si optò tuttavia per mantenerli nel c.p., nel luogo indicato, proprio come era stato proposto nel Disegno del 1992. Come sopra indicato, tale decisione non deve, in sé, essere ragione di critica, ed ha addirittura avuto decise adesioni nella dottrina spagnola, sebbene a mio giudizio continui a sembrare più opportuno che si fosse persistito nel suo mantenimento nelle leggi speciali, dato che la norma non avrebbe subito una riduzione nella sua forza imperativa, né la pena a fini preventivi generali, e, d’altronde, si sarebbe potuto dare una migliore soddisfazione alla necessaria vigilanza politico-criminale da parte del legislatore sull’adeguamento di tali reati alla costante e rapida evoluzione scientifica e sociale derivanti, vale a dire, alla sua eventuale riforma in un termine più breve rispetto a quella di altri reati del c.p. Il trasferimento in blocco del « pacchetto » di figure delittuose sotto uno stesso titolo non sarebbe potuto comunque essere più infelice. Innanzitutto, per ragioni sistematiche, poiché non si è ottenuta un’unità di ottica; sia in merito al bene giuridico protetto, che è plurimo e diverso, sia per quanto riguarda le condotte in esso comprese, anch’esse diverse e non sempre inquadrabili come manipolazione genetica, per quanto ampio possa essere il significato attribuito a tale espressione. In secondo luogo, nel perderne il contesto sistematico inizialmente previsto, vale a dire, quello delle leggi del 1988, l’interpretazione dei tipi può rilevare gravi inconvenienti. Inoltre, la pena della inabilitazione speciale, prevista per tutti i reati — e per tanti altri, data la generosità con la quale è ricorso ad essa il legislatore in questo codice, ciò che meriterebbe un commento a parte — indica che il legislatore sta pensando a destinatari molto concreti, gli stessi delle citate leggi, le quali autorizzano la realizzazione di tali attività solo ai professionisti che adempiono a determinati requisiti in esse stabiliti. Per queste ragioni, sarebbe forse stato più opportuno aver mantenuto il proposito iniziale di incorporare i tipi corrispondenti nelle leggi speciali, in modo da fare scomparire istantaneamente tali disfunzioni; cosicché il legislatore sarebbe stato più diligente nel proprio compito di trasferimento nel c.p. Tuttavia, insisto, non è questa una questione fondamentale, l’inclusione nel codice non è criticabile in sé — nonostante presupponga l’assunzione di una determinata opzione politico-criminale — ma un grossolano trasferimento nello stesso: non si trattava di « tagliare e incollare », procedura più che altro cibernetica, ma piuttosto di adattare e rimodellare, che sembra essere più scientifico e legiferante. Effettivamente, accanto al tipo penale che dà, in senso stretto, nome alla inesatta voce del Titolo che raggruppa le diverse figure in esso incluse, quello della manipolazione gene(24) V. « Boletin oficial de las Cortes Generales », Camera dei Deputati, Serie A. n. 102-10, 536, 623. (25) Secondo le Disposizioni Finali Seconda e Terza. (26) Sessione Plenaria del 27 giugno 1995, « Boletin de las Cortes Generales », n. 158, 8396; v. LÓPEZ GARRIDO-GARCIA ARAN, El Código Penal de 1995 y la voluntad del legislador, cit., 101.
— 211 — tica (art. 159) (27), ne troviamo altri con esso imparentati, quale è la creazione di esseri umani identici per clonazione ed altri procedimenti rivolti alla selezione della razza (art. 161.2); in essi risulta complesso identificare il bene o i beni giuridici protetti, per cui riprenderemo tale incombenza più avanti (28). Troviamo inoltre la fecondazione di ovuli umani con qualsiasi fine diverso da quello della procreazione umana (art. 161.1), rispetto alla quale potremmo affermare la protezione dell’embrione prefecondato — in vitro — in quanto tale come bene giuridico; la pratica della fecondazione artificiale in una donna senza il suo consenso (art. 162), in cui sembra che sia protetta la libertà della donna, o più precisamente la sua libertà riproduttiva. Infine, l’utilizzazione dell’ingegneria genetica per la produzione di armi biologiche e di sterminio della specie umana (art. 160), protegge quest’ultima, ma proprio per questo sarebbe meglio sussumerla nella sicurezza dello Stato, o negli interessi della Comunità Internazionale, e, pertanto, ritengo che sia, fino a un certo punto, secondaria la procedura — l’ingegneria genetica — , di fronte alla sua potenzialità devastatrice, come del resto lo sono altre armi con analoga capacità di distruzione massiccia dell’essere umano, come accade, ad esempio, con le armi nucleari o biochimiche. Riassumendo, senza che sia peraltro ancora opportuna una analisi del nuovo codice nel suo insieme per quanto riguarda tale materia — lo faremo più avanti — si conferma l’impressione di cui sopra, che esso introduce una profonda rottura della pretesa sistematica di integrazione dei reati nei confronti del bene giuridico protetto, come potrebbe essere l’embrione prefecondato, poiché non è sempre questo l’interesse coinvolto; né peraltro si è ottenuta l’unità di ottica attraverso i comportamenti aggressivi, la manipolazione di geni, poiché vi è un reato che non la comporta (fecondazione artificiale non consentita), altri due — quello della clonazione e altre procedure di selezione della razza — secondo lo stato attuale della scienza, non la comporterebbe in ogni caso (29), e, infine, quello della produzione di armi biologiche, o di sterminio della specie umana non richiede necessariamente la manipolazione di geni umani, come sembra esigibile in considerazione della sua ubicazione successivamente ai reati contro la vita e l’integrità umane. Per finire, il nuovo c.p. prevede un nuovo reato che può comportare manipolazioni di geni non umani, ma di organismi viventi, e tuttavia si trova, nonostante la similitudine parziale della forma di commissione, opportunamente in questo caso, altrove (30). Ed anzi, tale pluralità di beni giuridici e di modalità commissive sarebbe stata irrilevante, se fosse stata incorporata nelle leggi speciali, dato che esse sono presiedute da un insieme di attività legate alla riproduzione umana, alla ricerca e all’intervento sul genoma umano, che sono quindi plurioffensive (anche se non necessariamente reati plurioffensivi). Tuttavia, non credo che, in considerazione dei reati introdotti, sia stato vulnerato il principio di minimo intervento, come accadeva con il Disegno del 1992, (27) V. sulle diverse accezioni di questa espressione, MANTOVANI, Manipolazioni genetiche, cit., 5, nonché SILVA FRANCO, Genética Humana e Direito, cit., 18. (28) Dell’identificazione dei beni giuridici protetti in questi reati dal nuovo c.p. mi sono occupato in Límites penales de la manipulación genética, cit., 200 ss. (29) In questo senso, in rapporto alla clonazione, HIGUERA GUIMERA, El Derecho Penal y la Genética, cit., 264 ss. (30) V. il Titolo XVII, « Reati contro la sicurezza della collettività », art. 349: « Los que en la manipulación, transporte o tenencia de organismos contravinieren las normas o medidas de seguridad establecidas, poniendo en concreto peligro la vida, la integridad física, o la salud de las personas, o el medio ambiente, serán castigados con las penas de prisión de seis meses a dos años, multa de seis a doce meses, e inhabilitación especial para el empleo o cargo público, profesión u oficio pro tiempo de tres a seis años ». V. anche l’art. 325 (reato contro l’ambiente) e la L. n. 15 del 1994, del 3 giugno, sull’Utilizzazione limitata, Liberazione Volontaria e Commercializzazione di organismi geneticamente modificati, art. 2o a), dove il termine « organismo » è definito così: « cualquier entidad biológica capaz de reproducirse o de transferir material genético, incluyéndose dentro de este concepto a las entidades microbiológicas, sean o no celulares ».
— 212 — salvo l’enorme ampiezza comprensiva alla quale obbliga la formulazione del reato di manipolazione genetica, come avremo modo di verificare. Vediamo un po’più dettagliatamente i reati introdotti, che ordineremo espositivamente, per quanto possibile, in modo più sistematico e coerente, attenendoci alle voci di ciascuno di essi. 2.1. Manipolazioni genetiche. — Art. 159: « 1. Saranno puniti con la pena detentiva da due a sei anni, nonché l’inabilitazione speciale da pubblico impiego, professione o mestiere da sette a dieci anni, coloro che, a fini diversi dall’eliminazione o diminuzione di tare o malattie gravi, manipolano geni umani in modo da alterare il genotipo. 2. Se l’alterazione del genotipo fosse realizzata con imprudenza grave, la pena sarà della multa da sei a quindici mesi e inabilitazione speciale da impiego o carica pubblica, professione o mestiere da uno a tre anni ». 1. Il bene giuridico protetto in questo reato. — L’azione tipica, consistente nella « manipolazione di geni umani in modo da alterare il genotipo », si riferisce a qualsiasi gene umano, ciò che sembra superare persino il margine di copertura delle leggi del 1988, che comprende unicamente i gameti, embrioni e i feti umani (31). Tuttavia, il bene giuridico protetto da questo reato supera notevolmente tale ambito, cosa che è criticabile. Infatti, si era già rilevata la necessità di delimitare sufficientemente i reati di aborto, lesioni al feto (32) e alcune condotte di manipolazioni genetiche, allo scopo di evitare sovrapposizioni (33). Come cercheremo di dimostrare di seguito, il tipo comprende persino i già nati. Data l’ampiezza della formulazione del tipo, occorrerebbe ammettere varie ipotesi di manipolazione di geni umani: 1o) sull’essere umano già nato (interventi genetici sulla linea somatica), che, se possibili e realizzati a fini diversi da quelli previsti dal codice, dovrebbero essere ricondotti ai reati di lesioni corporali, oppure, se praticati contro un gruppo razziale o etnico, al reato di genocidio; 2o) su parti o elementi di un essere umano che non saranno incorporati allo stesso o a terzi, ad esempio, a fini di ricerca, condotta che sarebbe a priori tipica, ma innecessaria, dato che, come è stato segnalato da Peris Riera (34), il tipo, applicato letteralmente, potrà comprendere persino la manipolazione di cellule prese da qualsiasi parte dell’organismo umano — una cellula epiteliale, porta come esempio della irrilevanza o inoffensività dell’azione — per la mera coltura in laboratorio; 3o) se la manipolazione ricade specificamente su gameti umani (variante del presupposto precedente), ne sarebbe possibile la penalizzazione, in conformità a tale tipo delittuoso, il che è corretto, se essi vengono successivamente utilizzati per la riproduzione umana, ma sarebbe invece eccessivo se si realizza a soli fini di ricerca, senza avere il proposito di utilizzarli in seguito a tale finalità; 4o) per finire, la manipolazione può ricadere su embrioni o feti; in quanto ai primi — gli embrioni — , se essi fossero ancora in vitro e destinati alla riproduzione umana, ne sarebbe ancora giustificata la tipizzazione, ma allo stesso tempo il c.p. starebbe prendendo partito contro la ricerca genetica che comportasse l’alterazione del genotipo, cosa che, tuttavia, non sembrerebbe vietata da nessuna delle due leggi del 1988, almeno quando gli embrioni fossero inservibili; e per quanto riguarda l’embrione impiantato e il feto, la loro integrità è già coperta dal reato di lesioni al feto e, nel caso, dall’aborto, se ne è lesa la vita. Comunque, in questi casi, salvo nel secondo, è possibile trovare un campo specifico per il reato di manipolazione genetica: gli interventi perfettivi o di miglioramento, o di mera selezione di certe caratteristiche fenoti(31) Sul punto, ROMEO CASABONA, Consideraciones jurídicas sobre las técnicas genéticas, cit., 99 ss. (32) Nuovo delitto introdotto dal c.p. negli artt. 157-158; v. ROMEO CASABONA, Del Gen al Derecho, cit., 446 ss. (33) GONZALEZ CUSSAC, Manipulación genética y reproducción asistida en la reforma penal española, cit., 88. (34) V. PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, cit., 174 s.
— 213 — piche (ad esempio, il colore degli occhi o la statura), contemplati dal tipo, dato che, in senso stretto, non presuppongono una manomissione o danno per l’interessato o per il nascituro, e perciò mi sembra dubbio che tali azioni siano contemplate dai tipi di lesioni corporali — al nato — e di lesioni al feto. Pertanto, occorre concludere che sono gli interventi di eugenetica positiva che la Legge (e il legislatore?) ha voluto proibire con tale reato, sia per quanto riguarda l’essere futuribile (i gameti e l’embrione in vitro), futuro (l’embrione inseminato e il feto) o il già nato, lasciando aperta la questione sulla possibilità di tali interventi su ciascuno di essi allo stato attuale della scienza. Devo insistere: se fosse stato contemplato tale reato nella Legge n. 42 del 1988, come era previsto inizialmente, sarebbe stato possibile introdurre qualche criterio restrittivo teleologico, in funzione del bene giuridico protetto, dato che tale legge si occupa di embrioni e feti umani, e solo rispetto alle manipolazioni su di essi sarebbe applicabile il reato. Tuttavia, il vantaggio sarebbe stato esiguo, poiché, ai sensi dell’Esposizione dei Motivi di tale Legge, il suo campo di applicazione è ridotto agli embrioni e feti umani nell’utero della donna, e sarebbe escluso l’embrione prima del suo trasferimento in utero (35). Conseguentemente, il tipo delittuoso avrebbe dovuto fare riferimento al soggetto passivo dell’infrazione penale. Se si accettano i suggerimenti da me precedentemente proposti (36) per l’embrione in vitro, in tale reato dovrebbe essere compresa, invece di « manipolano geni umani », la seguente frase: « manipolano (o, alternativamente, « intervengono su ») geni di un embrione o di un feto umani nel corso della gravidanza, o su gameti umani o su un embrione in vitro, al fine di destinarli alla procreazione », mantenendo o adattando il resto della descrizione tipica. In essi, a differenza dell’essere umano nato — per il quale ho proposto l’esclusione da tale tipo, riconducendolo ai reati di lesioni corporali — le conseguenze per il futuro nuovo essere possono essere molto più gravi, fermo restando che in altra sede ho proposto le mie preferenze alternative per la configurazione di tali reati (37). Concludendo, possiamo sostenere che il bene giuridico protetto da tale reato presenta una doppia ottica: una individuale, concernente l’integrità genetica dell’embrione prima del suo impianto in utero, l’embrione e il feto e l’essere umano nato; l’altra collettiva, concernente l’inalterabilità e intangibilità del patrimonio della specie umana, fatta eccezione per il trattamento di gravi malattie, in coerenza con l’interpretazione sopra sostenuta, per il fatto che la norma vieta anche gli interventi genetici perfettivi, dato che, in senso stretto, non comportano necessariamente una manomissione dell’integrità dell’individuo interessato, né perciò darebbero luogo a un reato di lesioni corporali. Tale non interessamento individuale obbliga a dedurre l’esistenza dell’interesse sovra-individuale proposto. I gameti umani e l’embrione in vitro non sono protetti in sé, ma nella misura in cui, tramite essi, possono interessare futuri esseri umani e la specie umana. Risultante da tale protezione è anche quella della dignità delle persone interessate da tali manipolazioni, senza che essa costituisca, a mio parere, un bene giuridico autonomo e direttamente protetto. Questa doppia ottica del bene giuridico, anch’essa derivante dalla non differenziazione da parte della legge fra interventi — curativi — in linea germinale e in linea somatica, comporta varie conseguenze: il reato possiede, alternativamente, una struttura di reato di risultato e di reato di pericolo (astratto). Insorgeranno anche incidenze di concorso, che saranno di concorso di reati, quando verrà interessato, tramite il reato della manipolazione genetica, il bene giuridico sovra-individuale, ol(35) Secondo l’Esposizione dei Motivi: « En esta Ley se regulan la donación y utilización de los embriones y los fetos humanos, considerando aquéllos desde el momento en que se implantan establemente en el útero y establecen una relación directa, dependiente y vital con la mujer gestante. Por razones prácticas, y para evitar la reiteración, no se hace referencia aquí a la donación y utilización de los gametos o de los óvulos fecundados in vitro y en desarrollo, o embriones preimplantatorios, con fines reproductores u otros, ya que se contienen en la Ley sobre Técnicas de Reproducción Asistida ». (36) V. ROMEO CASABONA, Del Gen al Derecho, cit., 454, 455. (37) ROMEO CASABONA, ivi.
— 214 — tre all’altro individuale protetto da un reato diverso (sebbene non sembri facile che accada: ad esempio, che si alteri la capacità riproduttiva di un individuo mediante una manipolazione genetica sui propri organi riproduttivi). Ciononostante, de lege lata, occorre trovare qualche criterio restrittivo, allo scopo di evitare l’eccessiva ampiezza attuale del tipo, frutto di un così sfrenato impegno del legislatore. 2. Tipicità. Distingueremo gli elementi che riguardano il tipo obbiettivo e il tipo soggettivo, lasciando a margine gli aspetti appena segnalati in merito al bene giuridico che interessano anch’essi il tipo. Tipo obbiettivo. Innanzitutto (38), l’azione consiste nella manipolazione di geni umani, nel senso di intervenire direttamente su di essi, mediante l’eliminazione, sostituzione o modifica di geni umani, indipendentemente dall’impossibilità tecnica attuale di alcuni di tali procedimenti; la sostituzione comprende la dotazione genetica completa (ad esempio, per trapianto degli organi riproduttivi) (39). Dalla parola « manipolare » sembra difficile dedurre l’inclusione di procedimenti esogeni indiretti per incidere sui geni: radiazioni ionizzanti, sostanze biochimiche eteree, ecc. Ma sono invece procedimenti di intervento diretto le manipolazioni in vivo ed ex-vivo, tramite le quali vengono introdotte nell’organismo cellule — anche provenienti dallo stesso recettore — con i propri geni modificati. Tuttavia, vi è un caso problematico in merito a un’ipotesi che è in genere penalmente vietata in diritto comparato, consistente nel fecondare un gamete umano con uno animale; in senso stretto, non si manipola alcun gene, né si altera un genotipo preesistente (come accade anche nella fecondazione fra gameti umani, sia nella riproduzione naturale che nella fecondazione in vitro), ma, partendo da due dotazioni genetiche diverse impari ma complete, sebbene insufficienti per generare vita (poiché la dotazione deve essere pari), se ne forma uno nuovo, anche se ibrido, benché non si possa sviluppare appieno dato che — per adesso — la cosa è geneticamente inattuabile. Vedremo più avanti se, ciononostante, tale azione può rientrare nei tipi relativi alla selezione della razza e alla fecondazione di ovuli umani a fini diversi dalla procreazione umana. Come dicevo poc’anzi, la manipolazione tipica può ricadere inoltre su gameti umani, ma con la restrizione sopra suggerita: solo quando vengono utilizzati per la riproduzione. Il risultato consiste nell’alterazione del genotipo, vale a dire, un’alterazione presuntamente permanente (« altera »). Per genotipo possiamo intendere l’insieme delle caratteristiche ereditarie biologiche di un organismo, che possono o no manifestarsi in esso ed essere trasmesse ai discendenti. Ciononostante, la parola « genotipo » è incompleta, dato che non indica di chi se ne preveda l’alterazione. Pertanto, occorrerebbe intendere, avuto riguardo al bene giuridico da proteggere e alla gravità delle pene stabilitesi — ciò che deve escludere dall’ambito tipico le condotte innocue o insignificanti — che si riferisce al genotipo « di un essere umano », ma, in accordo a quanto suesposto, nato, nascituro ed essere « in gestazione » (in vitro o gameti). La mera manipolazione senza il risultato indicato costituisce tentativo punibile (art. 16 del c.p.). Formalmente, il reato può essere commesso da chiunque. Tuttavia, poiché, sia la finalità di eliminazione o diminuzione di tare o malattie gravi, che esclude il tipo, sia altre che potrebbero essere protette da una causa di giustificazione, richiedono, ai sensi di legge, una autorizzazione per i centri in cui si realizzano, il reato può essere commesso quindi, anche dai professionisti che realizzano l’intervento, sebbene nel primo caso l’inosservanza di tale requisito non interesserebbe la tipicità. Il soggetto passivo potrà essere la persona nata, l’embrione fecondato e il feto. L’oggetto materiale dell’azione sarà il corpo di una persona, l’embrione fecondato o il feto vitali che si trovano nel corpo di una donna, nonché i gameti e l’embrione in vitro vitale utilizzati in laboratorio. (38) V. più ampiamente sui precedenti legislativi il Disegno del 1992, nonché sul Disegno del 1994, PERIS RIERA, La regulación penal de la manipulación genética en España, cit., 143 ss., 174 ss. (39) V. ROMEO CASABONA, La Biotecnología entre la Bioética y el Derecho, cit., 6 ss.
— 215 — Tipo soggettivo. Oltre al dolo, è necessaria la concorrenza dell’elemento soggettivo dell’illiceità, radicato nella finalità non terapeutica perseguita. Pertanto, il tipo non comprende l’alterazione del genotipo a fine terapeutico o preventivo, vale a dire, di eliminare o diminuire tare o malattie gravi, sia se si interviene sulla linea somatica, sia su quella germinale (40). In primo luogo, il riferimento esclusivo a tare o malattie tipizza, a sensu contrario, le pratiche perfettive, di miglioramento o eugenetica positiva: in secondo luogo, la parola « gravi » è un elemento normativo; occorrerà vincolare tale espressione a quanto previsto dalle leggi rispetto a preembrioni in vitro, preembrioni, embrioni e feti nell’utero (41). Ciononostante, non rimettendosi espressamente il c.p. alle leggi in senso rigoroso, il riferimento che può essere tratto dalle stesse — o dai Decreti che eventualmente le sviluppano — ottempera a una funzione orientativa per il giudice (ad esempio, nei casi di dubbio), e dovrà essere determinato tramite assistenza periziale. La modalità colposa (art. 159.2). consiste nella produzione del risultato, vale a dire, l’alterazione del genotipo, per imprudenza grave (42). Tuttavia, esiste la difficoltà di determinare quali condotte — realizzate con imprudenza — possono integrare il tipo: tanto per cominciare, lo sono le manipolazioni o interventi di qualsiasi indole che non abbiano come proposito l’alterazione del genotipo (43). Il dubbio sorge in merito alle manipolazioni genetiche realizzate in modo gravemente negligente, che, considerando la finalità terapeutica ammessa dalla Legge, producono un’alterazione sul genotipo diversa da quella progettata, ed eventualmente dannosa alla salute o all’integrità dell’interessato o del futuro essere. Intendo che tale comportamento è anch’esso tipico, dato che vi concorrono tutti gli elementi richiesti dal tipo: tale risultato concreto di alterazione del genotipo è stata la conseguenza di una condotta imprudente, nonostante la finalità perseguita. Tale conclusione trova la sua giustificazione nel fatto che il tipo imprudente non si rimette al paragrafo precedente per la descrizione della condotta, per cui l’elemento soggettivo dell’ingiusto del tipo doloso non costituisce un ostacolo per costruire il tipo imprudente in modo autonomo. 3. Antigiuridicità. Nonostante le difficoltà esistenti per l’esclusione di qualsiasi altra possibilità che presenti l’elemento soggettivo del tipo (« a fine diverso dall’eliminazione o diminuzione di tare o malattie gravi »), deve ritenersi che alcuni comportamenti tipici con una finalità diversa da quella espressamente esclusa dal reato, possono essere, ciononostante, giustificati, se si agisce nei casi autorizzati dalle leggi (44), ad esempio, a fini di ricerca, sperimentazione o altri fini industriali, operando attraverso la causa di giustificazione del n. 7 dell’art. 20 del nuovo c.p., l’agire nel legittimo esercizio della professione. In caso contrario, dovrebbero intendersi derogati i precetti che regolano e autorizzano le altre finalità previste dalle leggi del 1988, cosa che non rientrava nella volontà della Legge. 4. Concorsi. Abbiamo già anticipato alcune considerazioni su questo particolare. Se l’alterazione del genotipo interessa un essere umano già nato, si potrebbe avere un concorso di norme con i reati di lesioni corporali (artt. 149 o 150), da risolvere mediante il principio di alternatività (art. 8.4 del c.p. del 1995). Allo stesso modo devono essere risolti gli even(40)
Sulla distinzione fra attività terapeutica e sperimentazione terapeutica, v. FER-
RANDO MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero,
CEDAM, Padova, 1974, 10. (41) V. art. 13.3 e la Disposizione Finale Prima, d) della l. n. 35 del 1988, nonchè la Disposizione Addizionale Prima, b), della l. n. 42 del 1988. Per la mancanza di sviluppo regolamentare della legge in questa materia, è il professionista medico-sanitario responsabile della valutazione di detta gravità, in ogni caso subordinata alla decisione giudiziale. (42) Per il GONZALEZ CUSSAC, Manipulación genética y reproducción asistida en la reforma penal española, cit., 85, 88, è discutibile la incriminazione della fattispecie colposa di questo reato, in rapporto al principio di minimo intervento del Diritto Penale. (43) V. LOPEZ GARRIDO-GARCIA ARAN, El Código Penal de 1995 y la voluntad del legislador, cit., 99. (44) Per analoghi suggerimenti, v. artt. 14-16 della L. n. 38 del 1988, e artt. 7 s. della L. n. 42 del 1988.
— 216 — tuali concorsi con il reato di aborto e con quello di lesioni al feto (45). Tuttavia, tali concorsi non devono necessariamente sussistere sempre, dato che è possibile che la manipolazione consista in un miglioramento o perfezionamento fenotipico — sebbene per il momento futuribile — , e, a stretto rigore, non si sarebbe avuto un danno grave nel normale sviluppo del feto o una tara nella sua integrità fisica o psichica, o nell’integrità o salute del già nato. In tal caso, sarebbe applicabile il solo reato di manipolazione genetica; altrimenti, vi sarebbe un concorso di norme, da risolvere in accordo ai criteri proposti. Riassumendo, possiamo concludere che il reato più importante o rappresentativo fra quelli raggruppati sotto lo stesso titolo è, probabilmente, il più imperfetto dal punto di vista tecnico. 2.2. Clonazione e procedimenti per la selezione della razza. — Articolo 161: « 2. Con la stessa pena saranno puniti la creazione di esseri umani identici tramite clonazione o altri procedimenti rivolti alla selezione della razza » (46). La formulazione del tipo è confusa, poiché non risulta chiaro qual è il nucleo dell’azione: se la creazione di esseri identici mediante i due procedimenti indicati dal precetto, o tale condotta e l’utilizzazione di qualsiasi procedimento a fini di selezione della razza. La seconda interpretazione viene indotta dall’impiego del verbo « punire » al plurale (« verranno puniti »), che allude a due condotte diverse, oltre all’omissione della seconda preposizione « tramite », subito prima di « altri procedimenti », che consentirebbe di stabilire meglio un’unità descrittiva dell’azione. Tuttavia, a favore della prima interpretazione entra in ballo l’omissione di un verbo o sostantivo che esprima un’azione differenziata per il secondo inciso (ad esempio, « utilizzare » o « l’utilizzazione »); e la congiunzione « o » suggerisce l’alternatività dei procedimenti per la creazione di esseri identici. E di nuovo criticabile la imperfezione in cui è incorso il legislatore nella configurazione di tali reati già in sé così complessi. Essendo entrambe le interpretazioni ammissibili, inclino per la seconda — due tipi differenziati — che è la più ampia, data la gravità di tali condotte, oltre al fatto che la creazione di esseri identici tramite clonazione non presuppone necessariamente che l’obbiettivo perseguito sia sempre la selezione della razza, fermo restando che, una volta « selezionata » una razza, la clonazione è il procedimento idoneo per la riproduzione in serie della selezione ottenuta. L’aiuto definitivo per il criterio indicato possiamo ottenerlo dalla terza Disposizione finale, che sopprime varie infrazioni amministrative della Legge sulle Tecniche di Fecondazione Artificiale, e in particolare, in merito al caso in esame, quelle contenute sotto le lettere « k » e « l » dell’art. 20. B.2: creare esseri umani identici, tramite clonazione o altri procedimenti rivolti alla selezione della razza; e la creazione di esseri umani tramite clonazione in qualsiasi variante o qualunque altro procedimento in grado di originare vari esseri umani identici. Non è che il legislatore abbia utilizzato una tecnica ricercata e perfezionata nella stesura di tale legge del 1988, i cui livelli di confusione trovano qui uno dei maggiori ma non isolati successi. Ciononostante, cerchiamo di offrire un’interpretazione il meno incoerente possibile. Effettivamente, sulla linea interpretativa proposta, la soppressione di tale seconda infrazione suggerisce che non tutte le clonazioni siano rivolte alla selezione della razza, assumendo a tale scopo che detta soppressione sia giustificata dal fatto che il comportamento viene già integrato in questo tipo penale; altrimenti, lo si sarebbe mantenuto — o lo si sarebbe dovuto mantenere — come infrazione amministrativa nella legge indicata. Pertanto, con la abrogazione di tali infrazioni, il legislatore ha voluto salvaguardare il principio del ne bis in idem, nel senso di sopprimere le infrazioni che sono diventate reato nel codice penale. (45) V. CUERDA RIEZU, Los delitos relativos a la manipulación genética y a la inseminación artificial no consentida en el Proyecto de Código Penal de 1992, cit., 229. (46) Per una proposta similare, v. ROMEO CASABONA, Limites penales de la manipulación genética, cit., 206.
— 217 — Ciò significa, come propongo, che occorre intendere che entrambe le infrazioni, che presentano un contenuto diverso, sebbene prossimo, siano state assorbite dalla figura delittuosa in esame. A mio parere, la prima infrazione amministrativa vieta la creazione di esseri identici tramite clonazione o tramite altri procedimenti a fini di selezione della razza; e la seconda, la creazione di esseri identici tramite procedimenti analoghi (clonazione e « altri ») con qualunque altra finalità. Se sono stati soppressi da tale legge, significa che entrambe devono essere integrate — benché con scarsa riuscita — nel reato. In caso contrario, si dovrebbe concludere che la creazione di esseri identici con una finalità diversa da quella della selezione della razza sia lecita, dato che non sarebbe un reato, né peraltro infrazione amministrativa, ma la gravità del fatto non è biasimata con tale conclusione, che deve essere perciò respinta. In questo modo, il plurale « verranno puniti » acquisisce senso pieno, nonostante la sua imperfezione. In sintesi, sebbene il tipo delittuoso coincida nella sua formulazione con la prima infrazione amministrativa abrogata (salvo un significativo comma, che è stato eliminato), deve intendersi che, da una parte, è contemplata la creazione di esseri identici tramite clonazione a qualsiasi fine (indubbiamente, anche la selezione della razza), fine che non è compreso nel tipo, e, dall’altra, I’utilizzazione di qualsiasi procedimento rivolto alla selezione della razza. Si osservi che l’unico procedimento attualmente conosciuto, come ipotesi, per creare esseri umani identici è la tecnica della clonazione (nella sua variante di divisione di un embrione; la sostituzione del nucleo è ancora in fase sperimentale negli animali), e sebbene la selezione della razza presupponga, in generale, la configurazione di individui con caratteristiche fenotipiche analoghe, il fine di selezione della razza non comprende, nel tipo, che tale risultato giunga a verificarsi (reato di intenzione con esito interrotto): una volta ottenuto un « esemplare » con certe caratteristiche differenziate dagli altri esseri umani (di un’altra « razza ») tramite qualunque procedimento, sarebbe necessaria la clonazione per la ripetizione di altri individui geneticamente identici. Il legislatore dovrebbe rivedere sia le leggi del 1988, sia il c.p., anche solo per migliorarne la formulazione, senza entrare in altre meno importanti considerazioni politico-criminali. Va comunque valutata favorevolmente l’introduzione di tali due tipi delittuosi, per i prevedibili effetti preventivi nei confronti di certe linee di ricerca e sperimentazione, piuttosto che nei confronti di fatti puniti in sé, poco attuabili in un futuro immediato. Il bene giuridico protetto è di carattere collettivo: l’identità e irripetibilità dell’essere umano (47) nel primo caso, e queste e anche la intangibilità del patrimonio genetico, nel secondo. E non va peraltro dimenticata l’importanza della diversità biologica, come garante a lungo termine della sopravvivenza delle specie, in questo caso quella umana. Ciononostante, entrambe presentano una proiezione individuale, in quanto tale lesione comporta allo stesso tempo un attentato alla dignità delle persone interessate, nel caso dovessero nascere. Il primo tipo comprende non le pratiche di clonazione in sé, le quali, se realizzate su un ovulo mediante l’enucleazione e introduzione di un nuovo nucleo di una cellula somatica, potrebbero dar luogo al tipo di manipolazione genetica, ma la creazione di esseri identici tramite clonazione, vale a dire, la nascita di vari esseri umani derivanti da tale tecnica, portatori di una stessa dotazione genetica, o identica a quella di un altro già nato. In conseguenza, non rientra nel tipo l’ottenimento di vari embrioni, partendo da un altro preesistente, per utilizzarli — quando siano state riscontrate difficoltà per l’ottenimento di altri tramite le tecniche di fecondazione di ovuli in vitro, o di stimolazione ovarica — a fini diagnostici, terapeutici o per disporre di taluni di essi, allo scopo di tentare altrettante volte la gravidanza di una donna, sempreché, in quest’ultimo caso, ne derivi soltanto la gestazione e nascita di uno di essi. In base alla proposta fin qui esposta, il tipo non esige la finalità della selezione della razza, né qualunque altra, basta la presenza del dolo. Il tentativo esiste dal momento in cui gli embrioni clonati vengono utilizzati per la riproduzione umana, anche se questa fallisce sin dall’inizio. Non è prevista la commissione colposa. (47) In questo senso, HIGUERA GUIMERA, El Derecho Penal y la Genética, cit., 247, tuttavia come manifestazioni della dignità umana.
— 218 — Nel secondo tipo viene incriminata l’utilizzazione di altri procedimenti rivolti alla selezione della razza. Il legislatore avrebbe dovuto essere più esplicito in merito ai procedimenti compresi nel tipo. Infatti, per cominciare, potrebbero ricadervi le pratiche di sterilizzazione di gruppi di popolazione, già tipizzate, peraltro, nel reato di genocidio (art. 607.1.2o). Situato nel proprio contesto, va limitato a pratiche di selezione positiva per mezzo di procedimenti biologici: selezione di gameti e zigoti senza fini di prevenzione di malattie; formazione di ibridi fra umani e animali mediante la fusione dei rispettivi gameti o la selezione di alcuni dei relativi geni. Se si realizzasse il fatto per mezzo di interventi genetici, entrerebbe in concorso con il reato di manipolazioni genetiche — di applicazione preferenziale — , dato che comprende anche l’elemento soggettivo di selezione della razza, qui presente. La selezione della razza non va intesa, quindi, come il favorire l’estensione o preponderanza biologica di certe razze nei confronti di altre, se tali procedimenti (nel caso, si adeguerebbe probabilmente anche al tipo di creazione di esseri identici tramite clonazione) non vengono utilizzati, ma come la selezione di certe caratteristiche biologiche o la creazione di altre nuove. Come ho indicato in precedenza, il risultato di selezione della razza non è richiesto dal tipo, per cui basta l’utilizzazione di qualsiasi procedimento che possieda in sé tale capacità selettiva. 2.3. Fecondazione di ovuli umani senza fini procreativi. — Articolo 161: « 1. Saranno puniti con la pena detentiva da uno a cinque anni e l’inabilitazione speciale dall’impiego o carica pubblici, professione o mestiere da sei a dieci anni, coloro che fecondano ovuli umani con qualsiasi fine diverso da quello della procreazione umana ». È soddisfacente anche la presenza di tale reato, sebbene presupponga un significativo avanzamento dell’intervento del Diritto Penale, dato che il fatto dal costituire un illecito amministrativo passa ad essere un illecito penale (48). Ciononostante, a mio avviso, non vulnera il principio di minimo intervento, dato che con ciò si vuole evitare una strumentalizzazione e mercificazione di forme di vita umana, come sarebbe il creare embrioni umani o ibridi (da spermatozoide animale e ovulo umano, ma non viceversa) direttamente per la ricerca e sperimentazione, per eventuali terapie su altri esseri umani, per l’industria, ecc., fermo restando che, in certi casi (principalmente preembrioni non vitali o morti, o la fecondazione dell’ovulo del criceto con uno spermatozoide umano: test del criceto), tali scopi siano consentiti dalla Legge sotto certe condizioni (49), ma, comunque, quando si tratti di embrioni in vitro, ottenuti inizialmente per la procreazione umana. Allo stesso tempo, tale reato costituisce un importante procedimento preventivo di alcune delle condotte vietate in altri reati, già commentate. Il bene giuridico protetto è lo stesso embrione, dato che i fini diversi dalla procreazione non sono, per definizione, il favoreggiamento di nuovi esseri umani futuri che si vorrebbero proteggere. Pertanto, essi (l’integrità, dignità, ecc.) non potrebbero essere il bene giuridico protetto (50). L’azione consiste nel fecondare ovuli umani, sia con spermatozoidi umani o animali o altro procedimento. L’ambito dell’azione viene comunque delimitato e ristretto dal tipo soggettivo, configurato, oltreché dal dolo, da un elemento soggettivo dell’ingiusto consistente nel ricercare qualsiasi fine diverso da quello della procreazione umana. Il fine procreativo persiste, sebbene non si giunga a utilizzare per la procreazione tutti gli ovuli fecondati, sia perché è stata ottenuta la gravidanza della donna nei primi tentativi e non sia più necessario perciò ricorrere ai restanti (embrioni eccedenti), sia perché è sopravvenuta la rinuncia alla gravidanza stessa. (48) La redazione di questo articolo è identica alla proibizione contenuta nell’art. 3 e nell’art. 20.2.B.a. della l. n. 35 del 1988 (quest’ultima è stata modificata dal nuovo codice penale, Disposizione Finale Terza, 1.1o). (49) V. artt. 14-17 della l. n. 38 del 1988. (50) V. sul punto, GONZALEZ CUSSAC, Comentarios al Código Penal, art. 161, cit. 831.
— 219 — La consumazione non richiede che si portino a termine, o almeno siano avviati, tali altri obbiettivi, essendo un reato di esito interrotto (51), concretizzato dall’insufficienza di tale elemento soggettivo dell’ingiusto. La remota ipotesi dello sviluppo terminale di un ibrido sarebbe ugualmente inclusa nel tipo, dato che non si tratterebbe del fine di procreazione umana, la quale si caratterizza biologicamente per la presenza di due coppie di cromosomi umani, e potrebbe anche dar luogo al tipo di utilizzazione di procedimenti per la selezione della razza, da risolvere, come concorso di norme, a favore di quest’ultimo tipo (principio della specialità, dato il fine specifico di esso), fermo restando che la pena sarebbe la stessa per entrambi i reati. 2.4. Utilizzazione dell’ingegneria genetica per la produzione di armi biologiche. — Articolo 160: « L’utilizzazione dell’ingegneria genetica per la produzione di armi biologiche o di sterminio della specie umana verrà punita con la pena detentiva da tre a sette anni e l’inabilitazione speciale dall’impiego o carica pubblica, professione o mestiere per un periodo da sette a dieci anni ». Indubbiamente con tale tipo delittuoso si vuole proteggere la sopravvivenza della specie umana dai pericoli derivanti dall’ingegneria genetica come armamento, che è il bene giuridico protetto. D’altronde, come ho anticipato in precedenza, sarebbe stato più conveniente situare tale figura delittuosa insieme ad altri reati analoghi nei confronti della Comunità Internazionale, contemplati dal nuovo C.P. (ad esempio, il reato sui mezzi di combattimento vietati in caso di conflitto armato, dell’art. 610), nel qual caso andrebbe armonizzato con gli altri e si dovrebbe meditare sulla necessità di includere con piena nitidezza le armi biochimiche ottenute tramite altri procedimenti non genetici (sebbene possano intendersi comprese nel tipo dell’art. 610) aventi capacità di produrre mutazioni genetiche gravi persino nelle cellule germinali e, perciò, trasmissibili alla discendenza. L’azione si riferisce all’utilizzazione dell’ingegneria genetica sui geni di qualunque essere vivente, oltre agli esseri umani: animali, vegetali e, soprattutto, microorganismi (batteri e virus). Le tecniche utilizzate devono avere una potenzialità dannosa o distruttiva nei confronti dell’essere umano. Sebbene la produzione di tali sostanze e il procedimento di cui devono avvalersi necessitino di una particolare preparazione, da parte del soggetto attivo del reato, in ingegneria genetica, non si può considerare in senso stretto che si tratti di un reato proprio in sé, dato che il tipo non esige una particolare qualifica dello stesso, per cui soggetto attivo, teoricamente, può essere chiunque (52). Il tipo soggettivo richiede un elemento soggettivo dell’ingiusto, consistente nella finalità di produrre armi biologiche o — armi — di sterminio della specie umana. Pertanto, non è necessaria per la consumazione, la produzione effettiva di tali armi, che rimane fuori dal tipo (reato di esito interrotto). Non è stata inoltre prevista la commissione colposa, previsione fra l’altro incompatibile con l’attuale struttura finalista del tipo doloso. Ciononostante, si sarebbe dovuto pensare alla configurazione di un tipo imprudente, per quanto riguarda il reato dell’art. 349, sulla manipolazione, trasporto o possesso di organismi (con risultato di pericolo reale), data la sua enorme potenzialità lesiva nei confronti dell’essere umano e di altri esseri viventi. Sarebbe stato necessario sostituire le parole « o di sterminio » con « od altri procedimenti di sterminio », dato che non è necessario che abbiano la qualificazione formale di armi, né che la loro destinazione predeterminata sia bellica, sempreché siano elaborate con tale finalità di sterminio. 2.5. Fecondazione artificiale non consentita. — Articolo 162: « 1. Colui che praticherà la fecondazione artificiale su una donna senza il suo consenso, sarà punito con la pena detentiva da due a sei anni e l’inabilitazione speciale dall’impiego o carica pubblica, profes(51) Così GONZALEZ CUSSAC, Comentarios al Código Penal, art. 161, cit. 833. (52) Erroneamente, GONZALEZ CUSSAC, Comentarios al Código Penal, art. 161, cit. 830, per cui soggetto passivo sono « i poteri statali » nonché la totalità della specie umana.
— 220 — sione o mestiere per un periodo da uno a quattro anni. 2. Per procedere contro tale reato sarà d’obbligo la denuncia della persona interessata, o del suo rappresentante legale. In caso di minorenne, incapace o persona invalida, potrà inoltre presentare la denuncia il Pubblico Ministero ». Tale reato ha precedenti nel diritto comparato (53). Il bene giuridico protetto è la libertà della donna che è rimasta incinta senza il suo consenso. Tuttavia, non si tratta solo della libertà volitiva, bene giuridico specificamente protetto dal reato di coazione, con il quale ha un certo rapporto, ma di qualcosa di più grave, come è la libertà procreativa e di assumere i doveri derivanti dalla maternità, che è in realtà il bene giuridico protetto: oppure la donna viene posta nella situazione di dover abortire, se permesso dalla legge, cosa che non lo è direttamente, dato che il legislatore ha optato di regolare tale materia in una legge successiva, a differenza del Disegno del 1992, che regolava e prevedeva tale presupposto (art. 153.1.3o). Tutto ciò spiega perchè la pena sia più grave in questo reato che in quello di coazione (art. 172.1). Comunque, la prossimità a tale reato, nonostante alcune notevoli differenze, nonché la lontananza da quelli che danno ragione d’essere al Titolo in cui esso è stato incluso, ne consigliava l’ubicazione accanto allo stesso. Tuttavia, per quanto suesposto, deve essere considerata adeguata l’inclusione di tale figura delittuosa, dato che il reato di coazione non sempre può contemplare nel proprio tipo tutte le modalità di fecondazione artificiale senza consenso della donna, né, soprattutto, il maggior contenuto di disvalore dello stesso. In conseguenza, si deve escludere che il bene giuridico protetto sia — neanche come uno di essi — l’integrità della madre, poiché se la gravidanza è un fenomeno fisiologico, sebbene in questo caso sia stato provocato da mezzi tecnici, e, se si avessero lesioni nella realizzazione di tale pratica, vi sarebbe un concorso di reati. E nemmeno si può assolutamente accettare che lo sia anche la libertà sessuale della donna come si è giunti a sostenere, per cui basta ricordare che tali tecniche presuppongono un’evidente dissociazione fra l’atto sessuale e la riproduzione (e nemmeno mi sembra immaginabile un concorso di reati) (54). L’azione consiste nel praticare la fecondazione artificiale su una donna senza il suo consenso. È stato modificato il lacunoso riferimento all’inseminazione artificiale del Disegno del 1992, alludendosi adesso a quello più generico di tecniche di fecondazione artificiale (55), dato che queste possono provocare ugualmente la gravidanza non consentita di una donna (ad esempio, il trasferimento di embrioni ottenuti in vitro dalla donna e dalla coppia o da donante/i). La tecnica utilizzata deve ricadere direttamente su una donna, e deve essere atta ad ottenere la gravidanza della stessa. Cosicché, sono atti preparatori impunibili da tale reato l’ottenimento di seme della coppia, l’ottenimento di ovuli dalla donna stessa (fermo restando il reato eventualmente da esso derivante, a mio avviso, di lesioni corporali, se ottenuti mediante puntura o lavaggio uterino) e la sua fertilizzazione in vitro, producendo embrioni. La consumazione si ha nel momento in cui è stata utilizzata la tecnica di fecondazione artificiale su una donna, inseminandola tramite un qualsiasi procedimento o trasferendole embrioni nell’utero. Risulta complesso delimitare i risultati richiesti dal tipo, ma non mi pare indispensabile, per la consumazione, che sia stato effettivamente fecondato qualche ovulo della donna (tecniche di inseminazione, compresa la microiniezione), né che l’embrione o taluni embrioni siano riusciti ad essere inseriti nell’endometrio, né, pertanto, che si sia ottenuto l’inizio della gravidanza, né che ne derivi la nascita di un essere umano. D’altronde, non dovrebbe contemplare le gravidanze derivanti da una fecondazione naturale in seguito a una stimolazione ovarica provocata, ma non consentita, poiché, sebbene faccia parte delle (53) Così il c.p. del Portogallo, art. 214 (v. PAULA MARTINHO DA SILVA, A procriação Artificial. Da Etica do Direito, en Revista de Ciência, Tecnologia e Societade, n. 10, 1989, 130 ss). e il c.p. della Columbia (v. GONZALEZ DE CANCINO, Los retos jurídicos de la genética, cit. 124). (54) Sul punto, HIGUERA GUIMERA, El Derecho Penal y la Genética, cit., 287 ss. (55) Vedi art. 1.1 della l. n. 35 del 1988.
— 221 — tecniche di fecondazione artificiale, non è in sé atta alla riproduzione, attenendo tale scopo al bene giuridico proposto. Non ritengo che sia punibile, come tentativo, data la sua regolamentazione attuale (art. 16.1), e nemmeno quando sia tentata su una minorenne non in età puberale, oppure su una donna adulta non fisiologicamente in grado di portare a termine la gravidanza (ad esempio, per mancanza di utero), una volta praticata la tecnica di fecondazione artificiale corrispondente. Fatta eccezione per questi casi, è indifferente che la donna sia fertile o sterile per la consumazione del reato, e siano configurabili i presupposti di intento. Di nuovo, soggetto attivo può essere chiunque, sebbene per le caratteristiche dell’azione sarà necessario l’intervento di un professionista qualificato, fermo restando che possa incorrere in un reato di abusivismo — se non è un professionista — o in un’infrazione amministrativa — se non autorizzato dalle competenti autorità — (56). Soggetto passivo è la donna pubere, fertile o sterile. Per quanto riguarda la realizzazione « senza il suo consenso » (57) è un’espressione problematica dato che intesa in senso stretto normalmente darebbe luogo a presupposti coercitivi, in genere già contemplati dal tipo del reato di coazione, concorso di norme da risolvere a favore del reato in questione, applicando il principio di specialità. Tuttavia, le ipotesi dubbie problematicamente riconducibili al tipo, sarebbero quelle in cui il soggetto attivo si avvale di un consenso viziato da inganno rilevante ma non essenziale (ad esempio, in merito all’origine genetica del seme — non della coppia — o dell’embrione inserito; anestetizzare la donna con altro fine apparentemente diverso, ma tale ipotesi sì che verrebbe inclusa, dato che non vi è stato consenso per la pratica della tecnica corrispondente), che sono proprio quelle che consigliavano l’introduzione di una figura specifica come quella prevista, ma comprendente tale chiarimento. Per quanto riguarda la capacità di consentire, occorrerà rifarsi alla capacità naturale di giudizio e non alla maggiore età penale, civile o per contrarre matrimonio (compresa l’età per la dispensa), né a quella prescritta dalla Legge sulle Tecniche di Fecondazione Artificiale per l’accesso alle stesse (diciotto anni, art. 6.1). Detta capacità naturale dovrà estendersi alla comprensione della valenza riproduttiva dell’atto al quale si acconsente, vale a dire, la maternità e le sue conseguenze. Per quanto riguarda il tipo soggettivo, basta il dolo che, sebbene infrequente, può eventualmente sussistere. CARLOS MARIA ROMEO CASABONA Professore di Diritto Penale all’Università dei Paesi Baschi (San Sebastian) Direttore della Cattedra di Diritto e Genoma Umano, Fondazione BBV Diputación Foral de Vizcaya Università di Deusto (Bilbao) Spagna
(56) L’art. 20.2.A.a della l. n. 35 del 1988 stabilisce come infrazione grave: « El incumplimiento de los requisitos reglamentarios de funcionamiento de los Centros Sanitarios y Equipos biomédicos ». V. sul punto il Real Decreto n. 413 del 1996, « Por el que se establecen los requisitos técnicos y funcionales precisos para la autorización y homologación de los centros y servicios sanitarios relacionados con las técnicas de reproducción humana asistida ». (57) L’art. 6.1 della l. n. 35 del 1988 richiede un consenso libero, cosciente, espresso e scritto. V. sul punto ROMEO CASABONA, El médico y el Derecho Penal, cit. 297 ss.; JOSÉ HEa NRIQUE PIERANGELI, O consentimiento do ofendido (Na teoria do Delito), 2 ed., Ed. Revista dos Tribunais, Sâo Paulo, 1995, 219 ss.
L’ABUSO RITUALE DEI MINORI: UNA FORMA ESTREMA DI AGGRESSIONE ALL’INTEGRITÀ PSICHICA
SOMMARIO: 1. La legislazione americana sull’abuso rituale. — 2. Nozione dell’abuso rituale sui minori (SRA). — 3. Le modifiche al regime della prova. — 4. La polemica sul satanismo. — 5. Conclusioni e proposte. 1. Un recente caso di cronaca, quello della setta satanista dei Bambini di Satana (1), apre per l’Italia il problema dell’abuso rituale del fanciullo, massima forma di distorta manipolazione della psiche umana. La stampa ha riportato infatti la notizia che, secondo l’accusa, un bimbo sarebbe stato posto in una bara scoperchiata contenente il cadavere o lo scheletro di una donna, a scopo rituale (2). Il fatto costituisce un momento tipico del procedimento del SRA (satanic ritual abuse) (3), secondo quanto esporremo. In tutto il mondo è sentito profondamente il problema della tutela penale dell’infanzia di fronte alle aggressioni che si moltiplicano (4), sia per la diffusione di pratiche immorali e violente che un tempo, almeno negli Stati occidentali, sembravano riservate a pochi viziosi patologici (5), sia per l’accresciuta sensibilità di fronte ai problemi vittimologici. Tali pratiche non si limitano ad attentare alla integrità fisica ma comportano danni, talvolta permanenti, alla salute mentale del fanciullo, specialmente quando si inquadrano in una procedura che tenda al soggiogamento del fanciullo. Nel quadro appunto della tutela dell’integrità psichica — tutela sulla quale si discute in Italia da vent’anni (6), dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 603 c.p. che prevedeva il plagio — alcuni stati americani (in particolare Idaho, Louisiana, Texas e Il(1) È un gruppo satanista di Bologna, guidato da Marco Dimitri, il cui credo ha molti punti di contatto con quello della Chiesa di Satana di ANTON LAVEY, autore della bibbia di Satana molto conosciuto in ambienti satanisti o più in genere esoterici (Cfr. M.C. DEL RE, Riti e crimini del satanismo, Napoli, 1994). (2) La Repubblica, 24 febbraio 1997: secondo il PM Lucia Musti, membri della setta avrebbero fatto entrare in una bara un bambino di tre anni, costringendolo a sdraiarsi accanto allo scheletro, ad assistere agli accoppiamenti tra gli adepti, a bere intrugli a base di sangue umano e altri liquidi organici. (3) La terminologia varia: cult related abuse CRA, etc. Certo più esattamente, l’abuso è satanista, piuttosto che satanico. (4) Numerose associazioni negli U.S.A. si propongono la tutela dei fanciulli; mi limito a ricordare, tra le più attive, la CAPTA (child abuse protection and treatment act), la NCCAN (National center child abuse and neglect). (5) Direi che si sta verificando lo stesso fenomeno che si verificò negli anni cinquanta per l’uso di stupefacenti, quando ci si rese conto che ormai l’uso di sostanze drogastiche non era più prerogativa di ricchi debosciati e degenerati, ma diveniva progressivamente fenomeno di massa. (6) Rinvio, anche per la bibliografia, a M.C. DEL RE, Plagio criminoso e lecita persuasione nei culti emergenti, in Studi Nuvolone, Milano 1991.
— 223 — linois (7)) hanno approvato leggi per prevedere come reato l’abuso sul minore come parte di un rituale religioso o pseudo-religioso. La legge dell’Idaho del 1990, sez. 18/1506 A (le leggi degli altri Stati hanno analoga struttura) recita: ‘‘una persona è colpevole di delitto quando commette uno degli atti sottoelencati con, in presenza di, o su, un bambino quale parte di una cerimonia o di un rito o di pratica similare: a) effettivamente o simulatamente tortura, mutila o sacrifica un animale a sangue caldo o un essere umano; b) impone l’ingestione, l’assorbimento ovvero altra applicazione di narcotici, droghe, allucinogeni o anestetici allo scopo di sopprimere la sensibilità, la cognizione o il ricordo o la resistenza nei confronti di una attività criminosa; c) forza l’ingestione o l’applicazione esterna di urina animale o umana, di feci, di sangue, di carne, di ossa, di secrezioni corporee, di droghe non prescritte o di composti chimici; d) coinvolge un bambino in una fittizia cerimonia nuziale non autorizzata o illegale con altra persona o con la rappresentazione di qualche forza o divinità e a ciò segua il contatto sessuale col bambino; e) pone un bambino vivente in una bara o in una tomba aperta che contenga un cadavere umano o resti di cadaveri; f) rivolge minaccia di morte o di danno grave ad un bambino, ai suoi genitori, ai parenti, ad animali domestici e ad amici, tale da indurre ragionevolmente nel soggetto passivo il timore che la minaccia venga eseguita; g) disseziona, mutila o incenerisce illegalmente un cadavere umano’’. La norma nacque sulla spinta di una esplosione (che si verifico in USA alla fine degli anni ’80 e agli inizi anni ’90) di timori relativi al maltrattamento di bambini a scopo perverso, per motivi religiosi o pseudo-religiosi attraverso le orripilanti attività elencate nell’articolo. Sono state peraltro avanzate negli Stati Uniti critiche alla formulazione della norma perché al punto a) è prevista anche la criminosità del sacrificio di un animale nonostante che in talune religioni praticate e socialmente accettate in America (adesso cominciano ad essere presenti anche in Europa) come la Santeria, siano previsti legittimi sacrifici animali (8). Troppo generica, è stato poi detto, l’espressione mutila un essere umano perché potrebbe comprendere, almeno ad una lettura molto formale, il marchio di fuoco di alcune sette o addirittura la tradizionale circoncisione ebraica, della cui legittimità non si è mai dubitato. Così pure, il punto g) (costringere ad assumere droghe o composti chimici senza prescrizione medica) suona troppo generico (9). Si è criticato anche il riferimento alla urina umana, perché risulta che persone provenienti dall’estremo oriente utilizzino per scopi terapeutici questo liquido, fuori di ogni intento criminoso e senza danno alla persona. Qual è la rilevanza del fenomeno? Esistono casi provati di abuso rituale (10)? (7) Illinois Public Act, 87-1167 del 1o gennaio 1993. (8) Chiesa di Lukumi Babalu Aye, inc./Hialeah, 113 s.c.t. 2217, 1993. (9) Ad esempio, l’uso del pejote (stupefacente) è ammesso per motivi religiosi. [Ariz. Rev. Stat. Ann. §§ 13-3402(B)(1)-(3); Colo. Rev. Stat. § 12-22-317(3); Idaho Code 372732A; Iowa Code § 124.204; Kan. Stat. Ann. § 65-4116(8); Minn. Stat. § 152.02(4); Nev. Rev. Stat. Ann. § 453.541; N.M. Stat. Ann. § 30-31-6(D); S.D. Codified Laws § 34-20B14(17); Tex. Health & Safety Code § 481.111(a); Wis Stat. § 961.115; Wyoming Stat. § 357-1044. Vedi anche People v. Woody, 394 P. 2d 813 (Cal. Sup. Ct. 1964). (10) W. APPEL, Cults in America, in Programmed for Paradise, New York, 1983; B. BARTON, The secret life of a satanist, in The authorized biography of Anton LaVey, Los Angeles, 1990; E. BASSE e L. DAVIS, The courage to heal, in A guide for women survivors of sexual abuse, New York, 1988; BEKYLANE, Where the rivers join, in A personal account of
— 224 — Diciamo che, se la gravità del problema ha determinato l’intervento legislativo, si deve dare atto tuttavia che rare sono state (a quanto mi risulta) le applicazioni giudiziarie della norma stessa; i giudici americani chiamati a giudicare fatti di perverso maltrattamento, sia pure dolosamente orientati a finalità rituali, hanno fatto ricorso alle norme ordinarie relative ai reati contro la persona. Alcune associazioni documentano casi di bambini fisicamente torturati, bambini che hanno assistito a tortura e uccisione di altri bambini (anche allo scopo di intimidirli e di controllarli, ma centrale è l’ansia di coinvolgerli nell’antimorale). I casi elencati nel documento fornito dal Believe the children (11) si riducono ad una quindicina. Tra i casi più noti si può ricordare il caso di Darryl Ball e Charlotte Thraikill (Santa Rosa, California), quello di M. e P. Schmidt (12), quello di Amirault (13) nel Massachusset, quello di Barkmann nel Michigam, quello di Marta Helen Felix nel Nevada (14) e altri nei quali è certamente presente nell’abuso pedofilo o nel maltrattamento di animali un aspetto di ritualità, perché l’abuso di minori avvenne in concomitanza con la tortura e\o l’uccisione di animali e fu posto in essere da healing from ritual abuse, Canada, 1995; M. BITZ, The Impact of Ritualistic Abuse for Sexually Abused Children and Their Adoptive Families, New York, 1990; M. ELLIOT, Female Sexual Abuse of Children, New York, 1994; G.C. FELDMAN, Lesson in Evil, Lesson from the Light, A True Story of Satanic Abuse and Spiritual Healing, New York, 1993; D. FINKLEHOR, L. MEYER WILLIAMS e N. BURNS, Nursery Crimes, Newbury Park, 1988; J.G. FRIESEN, More than survivors, in Conversation with multiple-personality clients, Nashville, 1992; G.B. GREAVES, Alternative hypotheses regarding claims of satanic cult activity, in A critical analysis, New York, 1992; S. HASSAN, Combatting Cult Mind Control, Rochester, 1988; D. HECHLER, The Battle and the Backlash, in The Child Sexual Abuse War, Lexington Books, 1988; P.S. HUDSON, Ritual Child Abuse, in Discovery, Diagnosis and Treatment, Saratoga, 1991; H. KAHNER, Anatomy of a Nightmare, in The Failure of Society in Dealing with Child Abuse, Macmillan, 1988; C.C. KENT, Ritual abuse in Case studies in family violence, New York, 1991; M.D. LANGONE, Recovery from cults, in Help for Victmis of psychological and spiritual abuse, New York, 1993; C. LOCKWOOD, Other Altars, in Roots and realities of cultic and satanic ritual abuse and multiple personality disorder, Minneapolis, 1993; R. MANGEN, Psychological testing and ritual abuse, in Out of darkness, in Exploring satanism and ritual abuse, New York, 1992; R.S. MAYER, Satan’s Children, New York, 1992; J.R. NOBLITT, Cult and Ritual Abuse, in Its History, Anthropology and Recent Discovery in Contemporary America, 1995; D. O’HAGAN, Emotional and psycological abuse of children, Toronto, 1993; C. OKSANA, Safe Passage to Healing, in A Guide for Survivors of Ritual Abuse, New York, 1994; B. PASSATINO, When the devil dares your kids, in Protecting your children from satanism, witchcraft, and the occult, Ann Arbor, 1991; G. REID, Orphans in the Storm, in Male Survivors of Sexual and Ritual Abuse, El Paso, 1995; A. ROGERS, For Survival’s Sake Workbook, Lewiston, 1994; D. RYDDER, Cover-up of the Century, in satanic ritual Crime and Cospiracy, Carmel, 1994; S. JOE, Out of hell again, in satanic ritual abuse and recovery, Carmel, 1991; R. SACHS e J. PETERSON, Processing Memories Retrieved by Trauma Victims and Survivors, in A Primer for Therapists, Tyler, 1994; D. SANFORD, Don’t make me go back, Momy, in A child’s book about satanic ritual abuse, Portland, 1990; M. SMITH, It’s Love and Unity I Want, in A Healing Guide for Ritual Abuse Survivors and the People who Support Them, Woodland; M. SMITH e L. PAZDER, Michelle Remembers, New York, 1980; T. TATE, Children for the Devil, in Ritual Abuse and satanic Crime, London, 1991; W.C. YOUNG, Recognition and treatment of survivors reporting ritual abuse, in Out darkness, in Explining satanism and ritual abuse, New York, 1992. (11) Vedi Believe the children, Conviction list, Ritual child abuse. (12) Invero la condanna fu per maltrattamenti ed abusi sessuali; uno dei bambini offesi descrisse tuttavia fatti satanisti, tra i quali un (reale o simulato) omicidio. (13) Gerald Amirault fu condannato per aver abusato di quindici bambini; nove vittime testimoniarono che le aggressioni avvenivano nella ‘‘magic room’’ e che l’autore dei fatti agiva travestito da clown (A.S. ROSS, Sensational cases across the country, in San Francisco Examiner, settembre 1986. (14) A.S. ROSS, Blame it on the Devil, Redbook, giugno 1994.
— 225 — persone munite di maschera di strega o di mago-orco (15). Forse il caso più tipico è quello di Peter Hugh McGregor Ellis, Christchurch, Nuova Zelanda, condannato nel 1993 a dieci anni di reclusione per abusi commessi all’asilo comunale: le piccole vittime raccontarono di essere stati trasportati in luoghi diversi, come un cimitero ed una loggia pseudomassonica, per essere poi molestati da adulti mascherati, vestiti di cappe bianche e nere; riferirono anche di abusi perpretati all’interno di un circolo, della partecipazione a matrimoni simulati, d’esser stati rinchiusi in casse poste sottoterra, di esser stati penetrati con bastoncelli e mazze, d’aver assistito alla tortura di animali, d’essere stati bagnati con sangue in testa, d’aver mangiato carne che gli adulti dicevano essere umana. 2. L’abuso rituale dei fanciulli è stato definito da Kim Voden, un osservatore specializzato in fatti di satanismo in U.S.A., ‘‘abuso bizzarro, sistematico, continuativo, mentale, fisico e sessuale di fanciulli allo scopo di impiantare entro di loro il male e di offrire un sacrificio ad una forza occulta o a una divinità’’. L. Pazder, psichiatra, definisce invece l’abuso rituale come ‘‘un’aggressione fisica, emozionale, mentale e spirituale ripetuta e reiterata, combinata con un sistematico uso di simboli, cerimonie e macchinazioni designate ed orchestrate per ottenere effetti maligni, cioè per volgere la vittima contro se stessa, contro la società, contro il Dio della tradizione’’ (16). Esaminando il SRA alla stregua del nostro sistema penale, due caratteristiche segnano l’abuso rituale nel quadro dei delitti di maltrattamenti (art. 573 cod. pen.), di incapacitazione mediante suggestione e mezzi ipnotici (art. 613 cod. pen.), degli attentati alla libertà sessuale, di lesioni continuate (artt. 583 segg. cod. pen.), e di corruzione di minori: dal punto di vista oggettivo, la utilizzazione di tecniche di condizionamento fisico e mentale da parte di un gruppo su un bambino; sotto il profilo soggettivo, il fine di ottenere il dominio totale sul fanciullo, per iniziarlo ad un ordine ‘‘altro’’ di fronte a quello tradizionale. Per cogliere la differenza specifica tra questa violenza rituale e la violenza sessuale in genere, si deve tenere conto che l’aggressione libidinosa risponde all’istinto primigenio della sessualità, anche se può prendere forme perverse e contorte; il fine invece dell’aggressione di tipo sessuale sferrata non per gratificazione sessuale, ma per consacrare il fanciullo ai valori demoniaci, è quello di degradare il bambino e produrre in lui un patologico senso di colpa. Il processo di degradazione e di colpevolizzazione esige un’accurata progettazione ed esecuzione da parte di coloro che perpretano il fatto, con un procedimento che richiede un lungo periodo di tempo e deve essere ben calibrato al fine, per staccare il bambino da ogni cosa che è ‘‘buona’’, normale, sana, vicina al Dio tradizionale, per inculcare nel fanciullo le credenze fondamentali del sistema di idee satanico; l’abuso ritualistico dunque è prima di tutto un’aggressione contro la libertà di formarsi nel proprio ambiente e soltanto secondariamente un’aggressione sessuale. Secondo gli osservatori, l’abuso rituale riguarda 2 gruppi di bambini: (1) bambini che frequentano l’asilo, cioè dell’età da 2 a 6 anni; (2) bambini dalla nascita fino a 6 anni. I bambini da 2 a 6 anni più che altro sono ritualmente molestati da satanisti che si aggregano al personale degli asili infantili. I bambini dalla nascita ai 6 anni sono nati invece in famiglie di praticanti di culti satanici il cui rituale prevede appunto l’abuso di bambini al fine di consacrare il fanciullo a Satana. L’abuso di solito in questi casi dura mesi, persino anni, e condiziona fortemente la psiche del bambino: la paura instillata nel bambino, l’isolamento (15) Spesso si leggono particolari truculenti e orribili come la violenza anale con un crocifisso nei confronti di un bambino di sette anni (Caso Fuster, Miami, Florida; cfr. HOLLINGSWORTH, Unspeakable acts, Chicago, 1986). (16) Los Angeles County Commission for Women, Ritual abuse, in Definition Glossary, the Use of Mind Control, Los Angeles; M. SMITH, Ritual Abuse, in What It Is, Why It Happens, How to Help, San Francisco, 1993.
— 226 — psicologico, l’assoluta dipendenza per la sopravvivenza e il benessere dal gruppo, chiudono la piccola vittima in un distorto mondo di fantasia. Dopo un po’ di tempo, i bambini sottoposti a questi abusi tendono a disintonizzarsi dalla società. La manipolazione consta di tre fasi; alienazione e soggiogamento (prima fase). All’età di 4 anni il bambino viene introdotto nelle cerimonie; l’esserino, durante una cerimonia di gruppo, verrà afferrato, fatto voltare e girare rapidamente, sollevato e lanciato in aria, girato a destra e a sinistra, afferrato per l’inguine, afferrato per la gola, passato da persona a persona, all’interno della congrega che forma circolo. Tutto questo, naturalmente, disorienta il bambino nel quale si scatena la paura. Intanto il bambino viene mosso secondo le direzioni rituali (17). I rituali satanici che di solito hanno luogo di notte, sono accompagnati da precoci aggressioni sessuali. L’ingresso nel mondo dei morti (seconda fase). Nei riti successivi si aggiunge orrore all’orrore: carne di morto viene gettata sul bimbo, e viene introdotta in ogni apertura del corpo dei bambino. Il gran sacerdote penetra sessualmente il bambino di fronte a tutti: lo scopo del contatto sessuale non è il piacere, ma l’alterazione dell’orientamento sessuale del bambino. I congiungimenti sono fatti nei modi più strani, in modo da rendere il più distorto possibile il senso erotico del fanciullo stesso; in questo momento, con queste psicotiche perversioni, la congrega procrea un antimessia, un bambino satanico, ‘‘perdendo’’ completamente, per dir così, l’anima del bambino, con questa forzatura e capovolgimento dei valori. Rinascita in Satana (terza fase). Si arriva, finalmente, alla notte tra il 31 ottobre e il 1o novembre, quando il bambino rinasce come figlio di Satana. All’età di 4 anni e 8 mesi, il bambino, precedentemente ‘‘morto’’ nella cerimonia della tomba, è portato in altro luogo dove hanno inizio più importanti cerimonie. Si tratta, a questo punto di cerimonie del potere occulto con scenografia e paramenti molto più impegnativi: addirittura si impressiona il bambino usando illusionismo e prestigiazioni per mostrare come magicamente possa rivivere un cadavere. Il bambino è posto in una bara con un cadavere; talvolta parti del corpo smembrato sono combinate ‘‘miracolosamente’’ e il corpo inizia a muoversi. Di solito questo si ottiene facendo passare una corrente elettrica attraverso i muscoli del morto; comunque il bambino viene convinto che l’illusione è reale e così confonde il mondo del magico irreale col mondo della realtà. Naturalmente l’uso di droghe che alterano lo stato di coscienza (come la metedrina, le anfetamine, il pentatol) aiutano a ottenere questi effetti di illusione. Combinando queste droghe con sedativi si ottiene che il bambino divenga molto vulnerabile a ogni suggestione; anche l’ipnosi puo essere utilizzata. Speciali formule sacre scritte sulla carta sono lette al bambino e poi poste all’interno delle cavità del corpo del bambino. E il bambino vi crede. È questo il momento in cui vengono infissi nella mente del bambino alcuni comandi che scatteranno anche molti anni più tardi, compreso ad esempio l’ordine di autodistruzione per determinate circostanze. Talvolta, quando si interviene a scopo terapeutico sul bambino vittima, si corre il rischio, se si adoperano i mezzi chimici per risolvere i conflitti interni, di far scattare la reazione autodistruttiva predisposta col condizionamento, sicché il terapeuta deve evitare di ‘‘premere il grilletto’’, il trigger, assumendo un atteggiamento estremamente neutrale, limitandosi ad ascoltare e rafforzare le idee positive restate all’interno del fanciullo durante il trattamentc satanico, senza tentare di influenzare in modo diretto il fanciullo stesso. In effetti, per gli psichiatri, il trattamento di condizionamento a Satana non riesce a distruggere il nocciolo di resistenza all’interno del bimbo (18). (17) La ricostruzione è fondata sul notissimo racconto di M. SMITH e L. PAZDER, Michelle remember, N.Y., 1980; storia simile in G.C. FELDMANN, Lessons in evil, etc., cit. (18) Uno dei meccanismi di difesa dello sventurato bambino è quello di regredire all’interno di se stesso, distinguendo il nocciolo della propria individualità da quella che parte-
— 227 — 3. Di fronte alle notizie di così orrende procedure molti Stati americani riformarono le leggi relative alle prove giudiziarie, per rendere più facile ai bambini rilasciare testimonianza (19). In alcuni Stati fu eliminata l’età minima per la testimonianza e si estese la possibilità di utilizzare le testimonianze indirette (il cosiddetto sentito dire) (20). Le testimonianze degli adulti furono ammesse anche se consistenti in dichiarazioni miranti a spiegare i cambiamenti comportamentali dei bambini, dai quali difficilmente si ottiene una lucida narrazione (21). Alla fine degli anni ’80, trentasette Stati U.S.A. hanno legiferato per ammettere testimonianze di bambini su videotape, 24 Stati hanno autorizzato l’uso di televisione a circuito chiuso. Anche in forza della nuova disciplina della prova, nei cinquanta casi di abuso rituale giudicati dalle Corti, circa la metà degli imputati è stata prosciolta, l’altra metà e stata condannata a pena detentiva. Alcuni osservatori hanno criticato l’allentamento dei limiti probatori (22). In non poche testimonianze apparirebbero (almeno secondo quello che scrive Debbie Nathan), troppi elementi fantastici determinati non tanto da malafede quanto piuttosto dalla naturale propensione a proteggere la famiglia contro pericoli di disgregazione, propensione che tende a reinterpretare i fatti. 4. L’allarme per le aggressioni a bambini ha creato un clima di orrore e diffidenza nei confronti di gruppi satanisti che opererebbero abitualmente sequestri a scopo rituale (23). cipa ai perversi e bestiali giochi dei satanisti, ma non è raro che purtroppo coloro che sono stati vittime dei satanisti vengano semplicemente considerati degli infermi di mente, inquantoché non si riesce a giungere al loro sano, interno, ultimo piccolo lume al di là del guscio ove tutto è disordinata distruzione. E.S. BLUME, Secret Survivors, in Uncovering Incest and Its After Effects in Women, New York, 1991; D. BROWN, The Treatmen of Satanic Ritual Abuse Survivors, in A Therapist’s Handbook, Denver, 1991; A.W. BURGESS e C.A. GRANT, Children Traumatized in Sex Rings, Arlington, 1988; S. COBB, Electrical stimulation of the brain, Texass Press, 1961; X. COOK, Understandig Ritual Abuse, in Trough a Study of Thirty-Tree Ritual Abuse Survivors from Thirteen Different States, Sacramento, 1991; P. CROWLEY, Not My Child, New York, 1990; L. DAVIS, Allies in healing, in When the person you love was sexually abused as a child, New York, 1992; J. DELGADO, Physical control of the mind, Harper and Row, 1967; C.W. DUCAN, The Fractured Mirror, in Healing Multiple Personality Disorder, Deerfield Beach, 1994. (19) Whitcomb 1985. (20) P. EBERLE, The Politics of children abuse, Secaycys, 1986; R. KINSHERFF, Child forensic evalution and claim of ritual abuse, in D.K. SAKHEIM, e S.E. DEVINE, Out of Darkness, in Exploring Satanism & Ritual Abuse, New York, 1992. (21) Un bambino in età prescolare si limita (in caso di trattamento satanista o comunque di soggiogamento), a raccontare di giochi con adulti comportanti la perdita del senso dell’orientamento; in tal caso solo la testimonianza degli adulti sul comportamento del bimbo permette di accogliere o escludere l’ipotesi satanista. Il fanciullo-vittima infatti spesso ricorda e racconta soltanto di tali giochi iniziali, senza aver memoria cosciente di ciò che accadde più avanti, durante la cerimonia; i bambini tendono, per difesa, a regredire rapidamente in fantasie di fuga, isolando la coscienza da ciò che accade, per poi, eventualmente, allo scattare di un trigger, di un segnale preordinato, seguire la strada incisa nei solchi inconsci della memoria. (22) R. KINSCHERFF, Child forensic evalution and claims of ritual abuse or satanic cult activity, in A critical analysis, New York, 1992. (23) Per un caso passato al vaglio della magistratura italiana, vedi la perizia medicoipnologica di R. ARONE DI BERTOLINO, in Rass. di psicoter., Ipnosi, 1987; V. MASTRONARDI e S. COSTANZO, L’ipnosi, in F. FERRACUTI, Trattato di crim. e med. forense, Milano 1988.
— 228 — Naturalmente è assai difficile distinguere tra i casi in cui una ideologia satanista sostiene e provoca l’abuso, dai casi nei quali gli autori sono psicopatici sessuali senza motivazioni sataniste, che ritengono di dover utilizzare lo schermo satanista, quasi che la motivazione pseudoreligiosa costituisca se non una causa di giustificazione almeno una circostanza attenuante. Invero molti osservatori sottolineano la rilevanza del fenomeno, mentre altri si mostrano completamente scettici, ritenendo che il fatto traumatico sia poi colorato da sovrapposti ricordi. Diciamo subito che le narrazioni di questi abusi sono compiute da persone che si vantano d’essere scampate a sette sataniste. Gli increduli sono molti (24); P. JENKINS e D. MAYER-KATKIN addirittura intitolano il loro studio I sopravvissuti: la creazione di un mito. Su questo punto, credo, le posizioni radicali in un senso o nell’altro appaiono assai poco ragionevoli. Negli anni ’80 in relazione all’ondata di grave criminalità che percorse l’America moltiplicando il numero dei delitti, spesso si parlò del culto satanista come motivazione dei crimini più gravi, anche se poi questa allegazione è restata in numerosi casi non provata. Il fatto è che centinaia di persone, comunque, oggi sostengono di essere sopravvissute a riti criminosi satanisti, tanto che esiste un gruppo di aiuto « sopravvissuti vittoriosi » (Overcomers victorious) condotto da G. Balodis. Naturalmente questi sopravvissuti partecipano a programmi televisivi o radiofonici, moltiplicando l’interesse pubblico allo strano fenomeno. Il sopravvissuto tipico e una donna tra i 30 e i 40 che svela a sé e agli altri la passata atroce esperienza satanica durante una terapia psichiatrica intensiva. A volte il sopravvissuto parla della propria infanzia, a volte si limita ai fatti più recenti: adorazioni del demonio, bevute di sangue, atti rituali sessuali e talvolta anche assassinio rituale e cannibalismo. Lauren Stratford sconvolse l’opinione pubblica dichiarando che ci sono donne che partoriscono bimbi perché vengano consacrati a Satana. Tre dei suoi figli sarebbero stati appunto destinati a Satana. Così la minacciosa esistenza dell’occulto trova conferma nelle dichiarazioni dei protagonisti. Spesso in tali dichiarazioni si fa riferimento a fatti remoti, difficilmente provabili. Secondo gli osservatori ipercritici, siamo in presenza di una ondata di persecuzioni costruita su fantasie, molto simile alla crociata anticattolica del secolo scorso durante la quale venivano considerati — in certi ambienti protestanti — i conventi cattolici come luoghi di nefandezza e ogni ecclesiastico cattolico come un corruttore. Si tratterebbe di una nuova mitologia costruita intorno a pochi elementi, rafforzata dallo stesso interrogante medico il quale trasferisce le proprie cognizioni al paziente. Ma la critica non convince e sembra legata ad un pregiudizio di incredulità che vuol dissolvere nel mito l’idea satanista: purtroppo esistono fatti innegabili che non sfumano nel vacuo dell’immaginario, qualunque motivazione di follia confabulatoria si cerchi. Insomma, le critiche (generiche e teorizzanti, a nostro avviso) partono da un pregiudizio scettico, che non vuol guardare ai fatti, legato forse al timore che la persecuzione del satanismo possa essere una persecuzione della libertà (25). Piuttosto è necessario sottoporre a critica analisi le storie dei sopravvissuti, prima di prenderle per buone, ma ciò in riferimento al caso singolo, non respingendole in blocco come fantasie (26). 5. Il primo problema che l’esposizione dei fatti propone è naturalmente quello della liceità di un credo religioso o pseudoreligioso che preveda rituali manifestamente criminosi, adducendo a scusa (anzi a giustificazione) la natura religiosa. A mio avviso la nostra costitu(24) J.T. RICHARDSON, J. BEST e D.G. BROMLEY, The satanism scare, New York, 1991. (25) M.C. DEL RE, Le satanisme entre réligion et crime, in Sekten und Okkultismus, Krim. Aspekte, Zurigo 96; J. KELTSCH, Sekten und Justiz, ibid. (26) Le memorie di Laure Stratford sono state sottoposte a critica nel giornale Cornestone e gli investigatori hanno notato alcuni mutamenti nei racconti della Stratford. In particolare sembra che questa sopravvissuta abbia dichiarato a volte di essere sterile, a volte di aver avuto due bambini uccisi e altre volte di aver avuto tre bambini consacrati poi a Satana. Cfr. J.S. VICTOR, Satanic panic, Chicago 1993.
— 229 — zione garantisce un’ampia libertà di pensiero e di religione, beninteso nei limiti del ragionevole e del penalmente lecito; così, in quei limiti, anche il credo satanista è da considerarsi in linea di principio lecito (27), dovendosi colpire con la falce penale ogni estrinsecazione operativa criminosa (superfluo dire che anche l’istigazione al delitto è punibile), qualora l’aggressione ai beni tutelati non rispetti il canone della ragionevolezza. Per quanto riguarda più in particolare l’abuso rituale del fanciullo, ritengo che l’introduzione di una normativa analoga a quella americana (che deve essere presa in considerazione per la sconcertante, attualissima, problematica che pone alla nostra attenzione) non appaia strettamente necessaria in Italia sussistendo idonei mezzi di tutela penale del fanciullo-vittima, tutela rafforzata dalle recentissime iniziative legislative per una rigorosa repressione della pedofilia; forse sarebbe opportuno prevedere come aggravante dei reati a danni dei minori il fine perverso ed abietto del coinvolgimento rituale sopra descritto. Ma il punto rilevante che quella normativa evidenzia, è, a mio avviso, più generale: essa costituisce segnale forte della necessità di una norma che completi la tutela della libertà della persona umana, prevedendo la criminosità degli attentati alla integrità psichica della persona. MICHELE C. DEL RE Associato di Diritto penale nell’Università di Camerino
(27) Rinvio, per un approfondimento e i riferimenti, ancora al mio Riti e crimini, cit.; sul tema dei limiti al principio di libertà religiosa, con riferimento anche alle pronunce giudiziarie americane, rinvio a Culti emergenti e diritto penale, Napoli, 1992. P.T. HAYDEN, Religiously Motivated « Outrageus » conduct: international infliction of emotional distress as a weapon against other’s people faiths, 34 Wm e Mary L. Rev. 579, 598 (1993), evidenzia che l’orientamento della Suprema Corte americana è « antimaggioritario », nel senso che tende a proteggere la minoranza dallo strapotere della maggioranza. L’America ha conosciuto nel ’95 la « reintegrazione del primo emendamento », relativo alla libertà religiosa; attualmente (maggio ’97) la Suprema Corte afferma che soltanto un impelling interest dallo Stato può limitare la libertà di culto. La polemica sui limiti della libertà religiosa è fortemente sentita.
L’INDIPENDENZA DEL PUBBLICO MINISTERO E IL PRINCIPIO DEMOCRATICO DELLA RESPONSABILITÀ IN ITALIA: L’ANALISI DI UN CASO DEVIANTE IN PROSPETTIVA COMPARATA (*)
1. Introduzione. — Ruolo e funzioni del pubblico ministero sono stati spesso oggetto di dibattito e di raccomandazioni nell’ambito di vari Congressi delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Colpevoli. Un tale interesse è certamente giustificato per almeno due ragioni: a) il ruolo cruciale che la magistratura requirente svolge nella repressione della criminalità. I pubblici ministeri sono i « guardiani dei cancelli » della giustizia penale. Senza la loro iniziativa non può esservi un efficace intervento repressivo del giudice che è per sua natura un organo passivo. Il loro ruolo ha, inoltre, acquisito un’importanza via via maggiore per effetto della crescente complessità, pericolosità e diffusione che i fenomeni criminali hanno assunto in tutti i paesi negli ultimi decenni; b) le devastanti conseguenze che un uso indebito, improprio o partigiano, dell’iniziativa penale può avere sulla protezione dei diritti civili, sulla salvaguardia dello status sociale, economico, familiare e politico dei cittadini e sulla loro eguaglianza davanti alla legge penale (come ciascuno di noi sa bene, di per sé l’iniziativa penale spesso genera, di fatto, effetti sanzionatori cui non si rimedia con una sentenza di proscioglimento che giunge a distanza di mesi o di anni). Non può pertanto stupire che i Congressi delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine si siano ricorrentemente occupati del ruolo del pubblico ministero ed abbiano adottato numerose risoluzioni a riguardo. Fra gli altri aspetti considerati, tali risoluzioni prescrivono che devono essere assicurati standards elevati di addestramento professionale, che « la selezione e la carriera (laddove previsti) devono essere basate sul merito e regolate da procedure corrette ed imparziali », che devono essere stabiliti dei codici di deontologia professionale, che « gli uffici del pubblico ministero devono essere rigidamente separati dalle funzioni giudiziarie », che devono essere adottate delle linee guida per regolamentare il loro potere discrezionale, che « deve essere assicurata la cooperazione effettiva con la polizia » (1), e così via. Le linee guida per la discussione del IX Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione (*) Viene qui pubblicata la traduzione in italiano della relazione presentata a nome della International Society of Social Defence nell’ambito del IX Congresso dell’ONU sulla Prevenzione del Crimine ed il Trattamento dei Colpevoli (Cairo, maggio 1995). Il testo in lingua inglese, è stato pubblicato, insieme alle altre relazioni sullo stesso tema, in J. DE FIGUEIREDO DIAS, G. DI FEDERICO, R. OTLENHOF, J.F. RENUCCI, L.C. HENRY, M. SHIKITA, The Role of the Public Prosecutor in Criminal Justice according to the Different Costitutional Systems, Working Papers IRSIG-CNR, Special Issue, Bologna, Editrice Lo Scarabeo, 1986. Al testo originale sono state qui apportate modificazioni solo di natura marginale. L’autore ringrazia la dott. Patrizia Pederzoli che ha effettualo la traduzione dall’inglese in italiano di questo lavoro. (1) Relativamente a queste e ad altre raccomandazioni sullo stesso argomento si veda Seventh United Nations Congress on the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders, Milano, 26 agosto-6 settembre 1985, U.N. Publications, pp. 73-74; Eight United Na-
— 231 — del Crimine (punto 3, temi 76, 77, 78) sottolineano da un lato l’esigenza che i pubblici ministeri siano indipendenti, dall’altro che la loro discrezionalità sia assoggettata al « principio democratico della responsabilità ». Sfortunatamente questi valori, benché entrambi importanti, non possono essere facilmente riconciliati a livello operativo. La mia presentazione si concentrerà pertanto sul difficile rapporto tra indipendenza e responsabilità. In modo molto sintetico, in questa relazione cercherò di: a) richiamare i motivi per cui indipendenza e responsabilità sono entrambi « ingredienti » importanti di un corretto esercizio delle funzioni requirenti; b) fornire alcuni esempi, tra i più rilevanti, dei meccanismi istituzionali attraverso i quali diversi paesi democratici cercano di realizzare un equilibrio operativo tra questi due valori; c) descrivere le caratteristiche peculiari dell’assetto del pubblico ministero in Italia. Affronterò questo argomento non per soddisfare una mia personale inclinazione al provincialismo, ma perché ritengo che il caso italiano sia particolarmente utile per mettere in luce alcuni degli equivoci più frequenti nel dibattito relativo al ruolo del pubblico ministero nei paesi democratici. In particolare la diffusa convinzione — presente non solo nell’Europa continentale, ma anche altrove — che tanto più si rafforza l’indipendenza del pubblico ministero a discapito della sua responsabilità democratica, tanto più si assicura il suo corretto ed efficace funzionamento in un regime democratico, specialmente per quanto concerne la repressione della corruzione politica e amministrativa. Userò il caso italiano come l’esempio che meglio consente — attraverso l’analisi di un « caso deviante » — di illustrare le molteplici conseguenze negative che derivano dal trascurare il valore democratico della responsabilità, privilegiando in via esclusiva il valore dell’indipendenza; d) presentare alcune considerazioni conclusive sulle ragioni per cui questa analisi apporta ulteriori argomenti a supporto delle varie raccomandazioni che i Congressi delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine hanno formulato con riferimento al pubblico ministero. 2. Indipendenza e responsabilità: un equilibrio difficile da realizzare. — Benché il ruolo dei pubblici ministeri non abbia sinora ricevuto la stessa attenzione che gli studiosi hanno dedicato ai giudici, le ricerche in materia mostrano chiaramente che essi dispongono di rilevanti poteri discrezionali nell’esercizio dei loro compiti istituzionali e che partecipano attivamente alla definizione delle politiche pubbliche nel settore penale. Vero è che il loro potere discrezionale può variare da un paese all’altro e con esso anche la rilevanza politica del loro ruolo. Ad esempio, è certamente più ampio laddove i pubblici ministeri dirigono la polizia giudiziaria nel corso delle indagini (come avviene, in varia misura, nei paesi dell’Europa continentale), mentre lo è molto meno nei paesi in cui sono del tutto esclusi dalla fase investigativa (come in Inghilterra e Galles). Che i loro poteri discrezionali siano limitati alla sola iniziativa penale, o che includano invece le decisioni su come condurre le indagini, sono comunque poteri di grande rilievo. Si tratta di un fenomeno che sta diventando sempre più visibile in seguito al drammatico incremento, per quantità e complessità, delle violazioni penali e alle sfide sempre più minacciose e laceranti che esse pongono alle comunità nazionali e locali. Sulla base di quanto abbiamo detto sin qui, non dovrebbe sorprendere che il ruolo del pubblico ministero sia stato ricorrentemente oggetto di dibattito e/o di riforme nei paesi democratici (come Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna e Italia). In realtà, nell’affrontare o nel rivedere la posizione istituzionale del pubblico ministero, i paesi democratici devono cercare di bilanciare a livello operativo due valori confliggenti ma entrambi di grande rilievo. Da un lato la consapevolezza che il pubblico ministero partecipa alla formulazione e attuations Congress on the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders, Havana, 27 agosto-7 settembre 1990, pp. 191-194.
— 232 — zione delle politiche criminali impone l’adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell’ambito del processo democratico. Dall’altro, l’esigenza di garantire che l’azione penale sia esercitata con rigore, uniformità e correttezza impone di evitare un collegamento troppo stretto col potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la condotta (attiva od omissiva) del pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all’obiettivo di assicurare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Diverse sono le soluzioni che vari paesi hanno adottato — soprattutto negli ultimi decenni — per bilanciare queste contrapposte esigenze: a) disposizioni intese ad ovviare all’inazione del pubblico ministero, come ad esempio l’iniziativa popolare in Inghilterra e Spagna o il ricorso al giudice per imporre l’esercizio dell’azione penale in Germania; b) disposizioni che impongono al Ministro della Giustizia di impartire direttive ai pubblici ministeri in forma scritta, come in Francia; c) l’elaborazione di norme scritte volte a fissare le priorità cui i pubblici ministeri devono attenersi per quanto concerne sia la tipologia dei reati da perseguire sia le modalità di indagine, come in Inghilterra e in Olanda; d) disposizioni intese a tutelare i pubblici ministeri da strumenti di pressione politica indiretta, come la partecipazione di loro rappresentanti ai processi decisionali riguardanti le nomine, le promozioni, i trasferimenti e le misure disciplinari; soluzioni di questo tipo sono adottate, seppur con modalità differenti, in Francia, Italia, Portogallo, Spagna e Germania; e) l’istituzione di « procuratori indipendenti » nominati ad hoc per perseguire i più alti gradi del potere esecutivo e gli alti funzionari dell’amministrazione pubblica, come negli Stati Uniti. Se si considerano le modifiche introdotte nell’assetto istituzionale del pubblico ministero in vari paesi ed il perdurante dibattito sul suo ruolo si può certamente dire che i tentativi sinora fatti per bilanciare i due valori dell’indipendenza e della responsabilità assumono le caratteristiche di un « equilibrio instabile » piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti. In particolare, in vari paesi democratici si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza, tuttavia, che non viene mai spinta fino al punto da ignorare del tutto il « valore democratico della responsabilità ». All’interno di questo quadro l’Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è qui data al valore dell’indipendenza. Nessun rilievo viene dato al valore democratico della responsabilità per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali. L’esame dell’assetto istituzionale del pubblico ministero in Italia assume pertanto un rilievo che va ben oltre i confini nazionali, poiché consente di analizzare le possibili conseguenze derivanti da tale assetto sia sul funzionamento del sistema penale sia sulle relazioni tra il sottosistema giudiziario e le altre componenti del sistema politico (naturalmente potrò qui illustrare in modo sintetico solo le principali conseguenze). 3. Il caso italiano: il valore dominante dell’indipendenza e le sue implicazioni negative. — Da un punto di vista formale la « soluzione » adottata in Italia sembra essere non solo la più perfetta ma anche la più auspicabile agli occhi di un osservatore superficiale. Nel predisporre il testo della nostra Costituzione all’indomani della seconda guerra mondiale, il costituente ha posto grande attenzione alle strutture requirenti. Per evitare che i poteri del pubblico ministero fossero usati in modo politicamente distorto, come precedentemente avvenuto sotto il regime fascista, ha ritenuto necessario recidere il tradizionale vincolo che sino a quel momento aveva posto il pubblico ministero alle dipendenze gerarchiche del Ministro della Giustizia. Il costituente non ha tuttavia ritenuto necessario separare giudici e pubblici ministeri in due corpi distinti. Entrambi vengono reclutati con uno stesso concorso pubblico. Di conseguenza, quando il magistrato inizia la propria carriera — generalmente all’età di 26
— 233 — anni circa e senza precedenti esperienze professionali — può essere assegnato a una di queste funzioni indistintamente e nel corso della carriera può passare, anche più volte, dall’una all’altra. Per garantire l’effettiva indipendenza di giudici e pubblici ministeri l’assemblea costituente ha inoltre optato per una forma molto ampia di « autogoverno » della magistratura, disponendo che tutte le decisioni relative allo status dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), dal reclutamento sino al pensionamento, fossero concentrate nelle mani del Consiglio Superiore della magistratura, e che una maggioranza pari a 2/3 dei suoi componenti fosse costituita da magistrati direttamente eletti dai colleghi (tale organo è stato attivato solo alla fine degli anni Cinquanta). L’assemblea costituente ha poi disposto che i pubblici ministeri dovessero avere il monopolio dell’iniziativa penale e nel contempo il potere di dirigere la polizia durante la fase delle indagini. Ed ha inoltre voluto che tale monopolio fosse esercitato in piena indipendenza, vale a dire al di fuori di una qualsiasi delle forme di responsabilità politica, diretta o indiretta, esistenti nelle altre democrazie costituzionali. Onde evitare un uso discrezionale o arbitrario, e quindi politicamente rilevante, del potere requirente, il costituente ha inoltre ritenuto, non senza una certa ingenuità, che bastasse prescrivere l’obbligatorietà dell’azione penale per tutti i reati. Per quanto ci è dato di sapere, nessuno dei padri costituenti dubitava che una simile disposizione potesse di fatto essere applicata; nessuno sembrava dubitare che tutti i reati potessero essere effettivamente ed egualmente perseguiti. Erano inoltre fermamente convinti che indipendenza ed obbligatorietà dell’azione penale — concepite come due facce della stessa medaglia — sarebbero state il miglior presidio del precetto costituzionale che sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Sarebbe difficile cogliere appieno l’assoluta prevalenza accordata in Italia al valore dell’indipendenza, a discapito della responsabilità, senza considerare anche le riforme varate dal Parlamento tra gli anni ’60 e ’80 e giustificate, sotto il profilo formale, come altrettanti passi necessari per dare piena attuazione alle norme costituzionali sull’indipendenza dei pubblici ministeri (e dei giudici). Si tratta di riforme che hanno cioè ulteriormente rafforzato l’indipendenza dei pubblici ministeri e il sistema di autogoverno della magistratura. Tali innovazioni hanno inoltre sensibilmente accresciuto lo scarto esistente tra lo status dei pubblici ministeri italiani e quello dei loro colleghi in altri paesi democratici, particolarmente quelli dei sistemi continentali che, come l’Italia, reclutano i magistrati requirenti tra giovani laureati senza esperienza professionale. In questa sede sarà sufficiente ricordare le conseguenze più rilevanti di tali innovazioni: a) da ormai trenta anni i pubblici ministeri (e i giudici) percorrono le varie tappe della carriera sulla base di automatismi collegati di fatto al solo decorrere della anzianità di servizio. A meno di non incorrere in sanzioni disciplinari di particolare gravità, tutti i magistrati raggiungono l’apice della carriera e il trattamento economico corrispondente dopo 28 anni di servizio. Le riforme relative alle promozioni adottate tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, che pur prevedono vagli di merito, sono state interpretate dall’organo di autogoverno della magistratura in modo da tradursi di fatto nel rifiuto di applicare qualsiasi forma di valutazione professionale (2). Hanno ricorrentemente ottenuto promozioni « per meriti giudiziari » persino pubblici ministeri (e i giudici) che da moltissimi anni non esercitavano le rispettive funzioni perché impegnati permanentemente in attività direttive presso organi dell’esecutivo o perché membri del Parlamento (3). Quanto alle implicazioni di questi provvedi(2) G. DI FEDERICO, The Italian judicial profession and its bureaucratic setting, « The Juridical Review. The Law Journal of Scottish Universities », 1996, Part I, pp. 40-55; G. DI FEDERICO, Le qualificazioni professionali del corpo giudiziario, in G. DI FEDERICO (a cura di), Preparazione professionale degli avvocati e dei magistrati, Padova, Cedam, 1987, pp. 3-47. (3) G. DI FEDERICO, Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, in F. ZANNOTTI, Le attività extragiudiziarie dei magistrati ordinari, Padova, Cedam, 1981, pp. XIII-LXXVI.
— 234 — menti — formalmente adottati proprio al fine di meglio tutelare l’indipendenza di giudici e pubblici ministeri — due sono degne di nota. La prima è che attualmente la sola garanzia di qualificazione professionale dei nostri magistrati nel corso dei 40-45 anni di permanenza in servizio è data dal concorso iniziale che viene sostenuto all’età di 22-24 anni e che consiste in prove volte a valutare il possesso di conoscenze teoriche di varie branche del diritto (si tratta di prove che, per giunta, sono caratterizzate da bassissimi livelli di attendibilità selettiva (4)). La seconda va collegata alla circostanza che, non essendo le valutazioni ai fini della carriera basate sulle prestazioni professionali, i pubblici ministeri (e i giudici) possono con successo ricercare gratificazioni extragiudiziarie che vengono loro offerte da fonti esterne (5). Un fenomeno questo che, tra le altre conseguenze, ha notevolmente contribuito ad offuscare la linea di confine tra magistratura e classe politica. Al riguardo basterà ricordare che alle ultime elezioni nazionali circa 50 fra pubblici ministeri e giudici sono stati candidati a un seggio parlamentare nelle liste di vari partiti politici, che 27 sono stati eletti e sono attualmente fuori ruolo, senza che questo impedisca loro di continuare a percorrere, al contempo, le varie tappe della carriera giudiziaria. Inoltre, uno di loro è stato nominato ministro e due sono sottosegretari (i motivi per cui queste e molte altre ambite posizioni di rilievo politico vengono offerte ai pubblici ministeri diverrà chiaro in seguito, quando si parlerà degli eccezionali poteri di cui dispongono); b) grazie ad una complessa combinazione di iniziative giudiziarie, di sentenze a loro favorevoli e di potenti pressioni sul Parlamento, pubblici ministeri e giudici hanno ripetutamente ottenuto (nel 1979 e nel 1984) una notevole elevazione delle loro retribuzioni, pensioni e indennità di fine servizio. Hanno inoltre ottenuto che gli incrementi nelle retribuzioni, nelle pensioni ed indennità di fine servizio fossero basate su meccanismi automatici di rivalutazione periodica che, anno dopo anno, accrescono a loro vantaggio la differenza fra il trattamento economico di cui godono e quello riconosciuto agli altri settori del pubblico impiego (6). Queste innovazioni sono state, ancora una volta, richieste, giustificate e ottenute quali strumenti per rafforzare ulteriormente l’indipendenza dei pubblici ministeri (e dei giudici) da possibili, anche indirette, pressioni del legislativo e/o dell’esecutivo; c) per l’intero periodo dei 40-45 anni di permanenza in servizio i pubblici ministeri, così come i giudici, non possono essere trasferiti ad altro ufficio giudiziario (giudicante o requirente) a meno che non ne facciano esplicita richiesta. Il principio costituzionale di « inamovibilità », inteso a tutelare l’indipendenza del giudiziario, non solo è stato esteso anche ai pubblici ministeri, ma è anche stato interpretato in termini a tal punto ampi da coprire l’intero arco della loro vita lavorativa. In altre parole, benché i pubblici ministeri siano reclutati per soddisfare le esigenze funzionali dell’intera struttura giurisdizionale, possono rimanere in una sede a loro gradita — qualunque sia la ragione di tale preferenza — sino a quando lo desiderano (sia pure, ovviamente, non oltre l’età del pensionamento, fissata a 72 anni); d) i Pubblici ministeri hanno chiesto e progressivamente ottenuto il pieno controllo sulla polizia giudiziaria nel corso dell’intera fase delle indagini (7). Il codice di procedura penale varato nel 1988 ha infatti esplicitamente affidato ai pubblici ministeri la responsabilità di ogni decisione relativa alle indagini, quale strumento volto ad assicurare che l’incondizio(4) G. DI FEDERICO, Le qualificazioni professionali..., op. cit., pp. 10-14. (5) G. DI FEDERICO, Gli incarichi extragiudiziari..., op. cit. (6) G. DI FEDERICO, Costi e implicazioni istituzionali dei recenti provvedimenti in materia di retribuzioni e pensioni dei magistrati, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2, 1985, pp. 331-373; F. ZANNOTTI, The judicialization of judicial salaries in Italy and in the United States, in C.N. TATE e T. VALLINDER (a cura di), The Global Expansion of Judicial Power, New York, New York University Press, 1995, pp. 181-204; F. ZANNOTTI, La magistratura, un gruppo di pressione istituzionale: l’autodeterminazione delle retribuzioni, Padova, Cedam, 1989. (7) G. DI FEDERICO, The crisis of the justice system and the referendum on the judiciary, in P. CORBETTA e R. LEONARDI (a cura di), Italian Politics: a Review, Vol. III, London, Pintera 1989, pp. 25-49.
— 235 — nata indipendenza dei pubblici ministeri nell’applicare il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale non fosse compromessa da decisioni o iniziative adottate autonomamente dalla polizia. I pubblici ministeri — ciascuno di essi, come vedremo — possono pertanto decidere, in relazione ai singoli casi e secondo le rispettive inclinazioni se ed in che misura esercitare direttamente funzioni di polizia giudiziaria, in che misura utilizzare gli strumenti inviestigativi disponibili e che ampiezza dare alle indagini (e quindi, in buona misura, le sorti del singolo caso). Le ricerche empiriche che abbiamo svolto in Italia sul funzionamento effettivo degli uffici di procura e le ricerche parallele svolte in altri paesi democratici ci hanno ripetutamente portato ad evidenziare le molteplici implicazioni e conseguenze negative di una simile prevalenza accordata all’indipendenza rispetto alla responsabilità, come se l’indipendenza fosse un fine a sé stante e di eguale natura tanto per i giudici quanto per i pubblici ministeri. E queste implicazioni e conseguenze negative incidono inevitabilmente sull’efficace ed efficiente svolgimento delle funzioni requirenti, sull’effettiva tutela dei diritti civili nel processo penale, nonché sul corretto operare dei fondamentali meccanismi di pesi e contrappesi — propri dei sistemi democratici — rispetto a tutte le decisioni relative al settore giudiziario. Passiamo ora a considerare rapidamente alcuni dei molti risultati emersi dalle nostre ricerche, concentrandoci soprattutto su quelli che più direttamente si collegano alla totale mancanza di attenzione per « il valore democratico della responsabilità » nell’assetto delle strutture requirenti in Italia. 3.1. Il primo chiaro elemento che emerge dalle nostre ricerche è che, a dispetto della norma costituzionale che impone ai magistrati di perseguire tutti i reati, l’azione penale è di fatto largamente discrezionale (8), almeno quanto lo è in altri paesi e forse anche di più. Ed è di fatto largamente discrezionale a causa della sfortunata circostanza che neppure un dettato costituzionale — l’obbligatorietà dell’azione penale — può modificare la dura realtà: in Italia, così come in ogni altro paese, le dimensioni assunte dai fenomeni criminali sono tali da impedire che tutti i reati possano essere perseguiti con eguale attenzione ed efficacia. Di conseguenza, come le nostre ricerche chiaramente mostrano, anche in Italia la discrezionalità permea di fatto le decisioni relative a tutte le attività che i pubblici ministeri svolgono (definizione delle priorità quanto ai casi da perseguire, entità e natura delle risorse investigative da utilizzare nei singoli casi, misure restrittive delle libertà personali e patrimoniali da adottare di volta in volta, e così via). Paradossalmente, proprio l’intreccio tra i due precetti costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’indipendenza del pubblico ministero impedisce di conseguire il valore ultimo che il costituente intendeva assicurare attraverso tali precetti, e cioè l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale. In realtà, tali norme hanno di fatto aperto la strada a forme di discrezionalità più ampie e meno vincolate di quelle presenti in altri paesi democratici dove i poteri discrezionali del pubblico ministero sono resi più trasparenti e circoscritti grazie a regolamentazioni esplicite — adottate nell’ambito del processo democratico — delle priorità da seguire, e dove per ciò stesso i pubblici ministeri possono essere chiamati a rispondere per la loro eventuale violazione. In Italia, invece, quando le decisioni dei pubblici ministeri vengono pubblicamente criticate — come spesso succede — per il loro carattere discriminatorio o partigiano nessuna accurata verifica della fondatezza di tali critiche è di fatto possibile. In assenza di regole sull’uso della loro discrezionalità le decisioni possono e sono formalmente quanto efficacemente difese come frutto della mera, dovuta, necessaria ed inevitabile applicazione del principio costituzionale che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Di contro, coloro che sollevano dubbi circa la condotta dei pubblici ministeri vengono invariabilmente accusati di cospirare contro il precetto costituzionale dell’indipendenza dei pubblici ministeri per ragioni personali, parti(8) G. DI FEDERICO, Obbligatorietà dell’azione penale coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in A. GAITO (a cura di), Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Napoli, Jovene, pp. 170-208.
— 236 — colaristiche o politiche. E tuttavia, non sarebbe possibile valutare appieno le implicazioni e le conseguenze negative derivanti dall’assoluta prevalenza accordata al valore dell’indipendenza dei pubblici ministeri a discapito della loro responsabilità senza considerare un ulteriore risvolto derivante dall’assetto delle strutture requirenti in Italia. 3.2. Un secondo e rilevante aspetto emerso dalle nostre ricerche è che nel corso degli ultimi 25 anni l’iniziativa penale è via via divenuta un attributo più del singolo magistrato che dell’ufficio cui questi appartiene, a dispetto del fatto che i poteri gerarchici siano formalmente attribuiti al capo dell’ufficio. Svariati fattori hanno contribuito a questa evoluzione. Fra questi la tendenza del Consiglio Superiore della magistratura a comprimere in maniera molto marcata i poteri gerarchici dei capi degli uffici di procura proprio con l’intento di promuovere la piena ed incondizionata affermazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Questa politica, cui si è dato il nome di « personalizzazione delle funzioni requirenti », pone in evidenza una delle paradossali conseguenze che discendono da una iniziativa penale che è di fatto ampiamente discrezionale e che non può essere regolata secondo politiche di priorità trasparenti e controllabili proprio perché formalmente obbligatoria per dettato costituzionale. In un tale assetto, infatti, ogni scelta del procuratore capo nell’assegnare i casi ai singoli sostituti o nel revocare le assegnazioni fatte, ogni direttiva o ordine che egli dovesse impartire sulle priorità da seguire, sulle modalità di trattazione dei singoli casi, sulle risorse investigative da utilizzare e sul ricorso o meno a misure restrittive a carico degli indagati, può facilmente essere presentata come una maliziosa interferenza nella piena applicazione del dovere costituzionale che impone a tutti i pubblici ministeri di perseguire tutti i reati indistintamente. Ed è proprio su questa base che i poteri gerarchici dei titolari degli uffici sono stati ripetutamente e con successo contrastati dai sostituti procuratori davanti al Consiglio Superiore della magistratura. Di conseguenza i capi degli uffici, per non esporsi alle critiche ed agli interventi sanzionatori più o meno diretti del Consiglio Superiore, hanno usato sempre meno i loro poteri gerarchici, spesso rinunziando, per ciò stesso, ad esercitare quei poteri di coordinamento delle attività di indagine nei casi in cui la collaborazione di più sostituti era funzionalmente necessaria. Il risultato è che ciascun pubblico ministero non solo può gestire in piena autonomia i casi che gli vengono assegnati in base a criteri « automatici » e che traggono origine da denunzie provenienti da attori esterni (polizia, altre autorità pubbliche, privati cittadini, ecc.), ma può porsi lui stesso, di propria iniziativa, alla ricerca dei reati e dei rei da perseguire. In altre parole è considerato pienamente legittimo che ciascuno di essi inizi e conduca, in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino, utilizzando le varie forze di polizia per accertare i reati che essi stessi (più o meno fondatamente) ritengono essere stati commessi. E non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per queste decisioni, nemmeno qualora le accuse — come è di fatto successo — si rivelano, negli anni successivi, del tutto infondate nel corso del dibattimento, cioè quando le molteplici sanzioni sociali e/o politiche e/o economiche e/o familiari che di fatto spesso si collegano alle iniziative penali hanno già prodotto appieno i loro dirompenti effetti. Una ulteriore conseguenza di rilievo è che in nessun modo la coerenza delle iniziative e delle decisioni assunte dai singoli pubblici ministeri può essere sottoposta al vaglio di una pubblica e trasparente verifica. Date queste condizioni, non deve sorprendere che l’indipendenza, intesa come attributo anche dei singoli pubblici ministeri, sia sfociata in un uso di questi amplissimi poteri discrezionali che si differenzia da caso a caso e in base a preferenze o ambizioni personali. Un simile fenomeno — spesso evidenziato dalla stampa negli ultimi 20 anni — emerge in tutta chiarezza dalle nostre interviste con esponenti della magistratura e persino, sia pure in modo episodico, dalle dichiarazioni ufficiali di alcuni dei più qualificati magistrati inquirenti. Tra essi certamente il più noto, anche sul piano internazionale, Giovanni Falcone. In un suo scritto osserva infatti come in assenza di una politica giudiziaria vincolante « tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti ». Ed aggiunge « mi sento di condividere l’analisi secondo cui, in mancanza di
— 237 — controlli istituzionali sull’attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l’esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività » (9). Il tutto con la conseguenza di dare anche una « immagine della giustizia che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema » (10). Una simile « frammentazione » dell’indipendenza dei pubblici ministeri — la totale mancanza cioè di obblighi di rendiconto per l’esercizio personalizzato di un potere discrezionale spesso di notevole ampiezza — ha ulteriormente moltiplicato le occasioni di diseguale trattamento dei cittadini davanti alla legge penale, che derivano comunque dalla mancata regolamentazione della discrezionalità. Ciò ha creato le condizioni più favorevoli per un uso distorto di ciò che il giudice Jackson ha definito come « il potere più pericoloso del pubblico ministero », ossia « ... quello di scegliere le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare... » (11), un’accusa che infatti è stata ripetutamente mossa ai pubblici ministeri più attivi. I nostri dati di ricerca indicano due ulteriori conseguenze disfunzionali connesse alla « personalizzazione delle funzioni requirenti », cui in questa sede posso solo accennare. Da una parte essa ha spesso rappresentato una grave ostacolo nelle indagini che richiedono il coordinamento tra i diversi uffici di procura. Dall’altro ha posto nelle mani dei pubblici ministeri un « potere contrattuale » che certamente è tra le principali cause dei numerosi e gratificanti incarichi extragiudiziari affidati negli ultimi 25 anni ai pubblici ministeri da fonti esterne (un fenomeno che certamente mal si concilia con gli argomenti a sostegno della loro indipendenza). La rilevanza e il diffondersi della « frammentazione » dei poteri inquirenti — requirenti e delle loro numerose implicazioni negative trovano un’ulteriore conferma nelle risposte fornite di recente da un campione di 1.000 avvocati penalisti ad un questionario riguardante la loro quotidiana esperienza professionale: il 7O% circa ha dichiarato che esistono differenze sostanziali nel modo in cui i singoli pubblici ministeri definiscono le priorità nell’esercizio delle loro funzioni; il 55% circa degli avvocati ha inoltre dichiarato che esistono differenze sostanziali nel modo in cui i singoli pubblici ministeri decidono « in casi molto simili » il tipo e l’ampiezza dei mezzi investigativi e dei provvedimenti a loro disposizione durante la fase delle indagini preliminari (12). A questo proposito vale la pena di ricordare che nel condurre (9) G. FALCONE, Interventi e proposte (1982-92), Milano, Sansoni, 1994, pp. 173-74. (10) Ibidem, pp. 180-81. (11) R. JACKSON, The Federal prosecutor, Prolusione alla seconda conferenza annuale degli Attorneys degli Stati Uniti, 1o aprile, 1940. All’epoca Jackson ricopriva la carica di Attorney General degli Stati Uniti. Vale la pena di riportare estensivamente il brano da cui la citazione è tratta per la chiarezza con cui Jackson inquadra il problema: « L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una della maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessun pubblico ministero potrà mai indagare tutti i casi di cui riceve notizia... Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue che può anche scegliersi l’imputato. Qui sta il polere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga le persone da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge a carico praticamente di chiunque. Non si tratta tanto di scoprire che un reato è stato commesso e di cercare poi colui che l’ha commesso, si tratta piuttosto di individuare una persona e poi di cercare nei codici, o di mettere gli investigatori al lavoro, per scoprire qualcosa a suo carico... ». (12) G. DI FEDERICO, I diritti della difesa: la drammatica testimonianza degli avvocati penalisti e le difficili prospettive di riforma, in G. DI FEDERICO, D. GIORI et al., Codice di procedura penale e diritti della difesa, « Working papers IRSIG-CNR », n. 7, 1996.
— 238 — le indagini i pubblici ministeri di fatto dispongono — come già si è detto e come si preciserà meglio in seguito — di una vasta gamma di misure preventive per restringere le libertà personali, il diritto alla riservatezza e l’uso dei beni patrimoniali delle persone sospettate. Ma per meglio illustrare come l’indipendenza dei pubblici ministeri incide nella delicata area della tutela delle libertà civili, è necessario richiamare ancora una volta le risultanze delle nostre ricerche sulle implicazioni e conseguenze di un’altra caratteristica peculiare del sistema giudiziario italiano, ossia il legame organico che unisce giudici e pubblici ministeri in un unico corpo. 3.3. Come si è detto, giudici e pubblici ministeri sono reclutati attraverso uno stesso concorso pubblico subito dopo la conclusione degli studi universitari. Possono essere inizialmente destinati alle funzioni giudicanti o requirenti e passare in seguito, anche ripetutamente, dalle une alle altre. Percorrono la stessa carriera, hanno lo stesso trattamento economico, appartengono alla stessa associazione professionale (molto attiva ed efficace nel tutelare e promuovere i loro comuni interessi). Eleggono congiuntamente i loro rappresentanti nell’organo di autogoverno della magistratura. In somma, grazie ad un prolungato processo di socializzazione, sviluppano un forte senso di appartenenza ad un comune destino. Non meno importante è la circostanza che giudici e pubblici ministeri lavorano negli stessi palazzi di giustizia ed hanno perciò occasioni quotidiane di contatti informali. In altre parole, legami così stretti creano le condizioni più favorevoli affinché coloro che in un dato momento assolvono funzioni giudicanti siano particolarmente sensibili alle aspettative dei colleghi che al momento svolgono funzioni requirenti, soprattutto nel corso della fase investigativa, quando il giudice è chiamato a prendere decisioni sulle richieste del pubblico ministero riguardanti, tra l’altro, le restrizioni alla privacy, le libertà personali e patrimoniali dei sospettati. Le nostre ricerche sul campo confermano l’esistenza di comunicazioni informali ex parte tra giudici e pubblici ministeri con riguardo alle decisioni che i primi devono prendere sulle misure cautelari da adottare nel corso delle indagini preliminari. Abbiamo inoltre raccolto alcune prove documentali riguardanti non solo il favore che i giudici accordano alle aspettative dei « colleghi » pubblici ministeri durante la fase investigativa, ma anche il fatto che un simile fenomeno non è di fatto considerato una violazione dell’etica professionale, come invece avviene in altri paesi (13). Ovviamente, data la natura del tutto informale di questo fenomeno, non siamo in grado di precisare la loro frequenza e diffusione sulla sola base dell’osservazione diretta e di documenti ufficiali. Due elementi tra loro connessi chiaramente indicano, tuttavia, che questi fenomeni sono frequenti e ampiamente diffusi: (13) G. DI FEDERICO, Il pubblico ministero, indipendenza, responsabilità, carriera separata, « L’Indice penale », XXIX, n. 2, 1995, pp. 399-437, in particolare pp. 421-22 e nota 30. Quanto al divieto di comunicazioni ex parte, si può considerare come esempio, l’art. 7, sez. B, n. 7 del Model Code of Judicial Ethics dell’American Bar Association, adottato dalla maggior parte degli stati americani, che dispone « Il giudice non deve assumere l’iniziativa, permettere o comunque considerare comunicazioni ex parte, o considerare comunicazioni a lui rivolte in assenza delle parti interessate e relative ad un procedimento pendente o meno... ». Per quanto attiene ai giudizi disciplinari in cui tale norma ha trovato applicazione, i più autorevoli commentatori del Codice affermano: « Le comunicazioni ex parte deprivano la parte assente del diritto di rispondere e di essere ascoltati. Suggeriscono inoltre pregiudizio o parzialità del giudice. Le conversazioni o la corrispondenza ex parte possono essere fuorvianti; le informazioni fornite al giudice possono essere incomplete o inaccurate, il problema può essere esposto in modo non corretto. In ultima analisi, la partecipazione alle comunicazioni ex parte espone il giudice ad argomenti partigiani, che comportano il rischio di un giudizio erroneo in punto di diritto o di fatto. Nella peggiore delle ipotesi le comunicazioni ex parte sono un invito ad un’influenza impropria, quando non alla corruzione ». Si vedano J. SHAMAN, S. LUBET e J.J. ALFINI, Judicial Conduct and Ethics, Michie Law Publishers, Charlottsville, 1995, pp. 149-150.
— 239 — a) la frequenza eccezionalmente elevata con cui i giudici decidono in conformità alle richieste dei loro « colleghi » pubblici ministeri, sia durante la fase delle indagini preliminari (ivi incluse le richieste relative alle limitazioni delle libertà personali degli inquisiti, come la custodia cautelare) sia al termine di tale fase, quando devono decidere se archiviare il caso o rinviarlo a giudizio; b) la stragrande maggioranza del campione di 1.000 avvocati penalisti da noi intervistati indica che le comunicazioni informali ex parte tra giudici e pubblici ministeri sui singoli casi hanno luogo — ad insaputa della difesa — con frequenza quotidiana, e inoltre che le decisioni dei giudici durante le indagini e al loro termine consistono, con rare eccezioni, in una passiva e quasi supina accettazione delle richieste formulate dai loro colleghi-procuratori (14). Più in generale, gli avvocati affermano che gli ampi margini di discrezionalità non regolamentata esercitata dai pubblici ministeri in piena indipendenza mortificano gravemente il ruolo della difesa e fanno sì che la tutela dei diritti dei loro clienti — durante la prolungata fase che precede il dibattimento — dipenda molto più dalla benevolenza dei pubblici ministeri che dalle capacità professionali degli avvocati di ottenere il rispetto delle norme processuali. Gli avvocati indicano inoltre che l’indipendenza dei magistrati requirenti funziona di fatto come uno scudo utile anche a coprire decisioni motivate dalle ambizioni personali o dagli orientamenti politici, o ancora dal desiderio di acquisire notorietà e tutte le gratificazioni che ne possono derivare (15). In particolare la stragrande maggioranza degli avvocati sostiene, poi, che spesso i pubblici ministeri usano la custodia cautelare quale efficace strumento per ottenere confessioni conformi agli obiettivi investigativi perseguiti o per confermare le proprie ipotesi accusatorie (il 91,5% afferma che la detenzione preventiva è di fatto utilizzata per ragioni distorte, cioè diverse da quelle previste dalla legge) (16). È utile aggiungere che simili accuse sono largamente condivise, sono state spesso al centro di accesi dibattiti sui media e in ambito politico. Hanno trovato ascolto anche presso il Bureau de la Federation Internationale des Droits de l’Homme (17). Gli avvocati hanno organizzato, senza esito alcuno, dimostrazioni e persino prolungati scioperi per protestare contro la progressiva erosione del loro ruolo. Certamente, negli ultimi trenta anni, il livello di discrezionalità che caratterizza le iniziative penali dei pubblici ministeri italiani e le misure coercitive di cui dispongono nel corso delle indagini hanno progressivamente portato i magistrati requirenti ad acquisire di fatto il controllo e la definizione di una rilevantissima parte delle politiche pubbliche nel settore penale e nel contempo ad assumere un ruolo via via più visibile di efficaci risolutori dei più rilevanti problemi sociali, economici e politici del momento: dalla sicurezza sul lavoro all’inquinamento ambientale, dall’evasione fiscale alle frodi bancarie ad altri simili reati economici, dal terrorismo al grande crimine organizzato e alla corruzione politico amministrativa. In effetti, le loro iniziative in quest’ultimo settore hanno determinato trasformazioni sostanziali nella leadership politica del Paese e nella struttura del sistema dei partiti. Hanno per ciò stesso costantemente conquistato, soprattutto negli ultimi 4 anni, le prime pagine della stampa nazionale e dei telegiornali. Tali iniziative hanno inoltre attirato l’attenzione e l’interesse di molti osservatori stranieri e alimentato per molti versi la convinzione che il modello italiano, incentrato sulla più ampia indipendenza dei pubblici ministeri, e sulle eccezionali misure adottate per rafforzarla possano essere ovunque una risposta efficace alla piaga della corruzione politico amministrativa. È indubbio che negli ultimi 4 anni i pubblici ministeri, particolarmente in alcune aree geografiche, abbiano svelato un sistema molto ramificato e diffuso di corruzione politico amministrativa. Una corruzione che, come poi è divenuto evidente, si era sviluppata indisturbata per diversi decenni radicandosi al punto da riuscire ad (14) G. DI FEDERICO, D. GIORI et al., I diritti della difesa..., cit. (15) Ibidem. (16) Ibidem. (17) La Missione della F.I.D.H., Le Nuove Libertà, novembre-dicembre 1992, n. 1112, pp. 3-6.
— 240 — alterare, quando non a sopprimere, i meccanismi basilari di funzionamento di un’economia di mercato nel settore delle opere pubbliche di interesse locale e nazionale. Ció nonostante, sarebbe semplicistico e addirittura fuorviante ricavare dell’esempio italiano la conclusione che quanto maggiore è l’indipendenza dei pubblici ministeri, quanto minore cioè è la loro responsabilità entro il processo democratico, tanto più incisivi saranno i risultati che si ottengono nella repressione della corruzione politico amministrativa. Per suggerire cautela su questa materia e sottolineare la fallacia di assunti così semplicistici mi limiterò ad osservare che nei decenni in cui la corruzione politica e amministrativa si è sviluppata e progressivamente radicata nel sistema, i nostri pubblici ministeri beneficiavano esattamente delle stesse garanzie di indipendenza che hanno ora. Che, per giunta, nessuno può essere considerato istituzionalmente responsabile per quel prolungato periodo di inerzia rispetto a violazioni delle legge penale così diffuse, pervasive e pericolose. È ovvio quindi che il complesso problema della corruzione non può essere affrontato rendendo il pubblico ministero sempre più indipendente e trascurando del tutto « il requisito democratico della responsabilità » rispetto ad una funzione — quella del pubblico ministero — che è invece destinata a svolgere compiti di grande e crescente rilevanza politica. Nel descrivere le principali conseguenze disfunzionali derivanti dalle eccezionali e davvero uniche misure adottate in Italia per tutelare l’indipendenza non solo esterna ma anche interna del pubblico ministero, mi sono sinora limitato a sottolineare solo quelle che più direttamente si collegano al tema della mia relazione, così come indicate all’inizio di questo scritto, ossia quelle che da un canto pregiudicano l’efficacia delle attività inquirenti e dall’altro incidono negativamente sulla tutela delle libertà civili nel processo penale. In realtà, i dati raccolti nel corso di un’esperienza di ricerca ormai trentennale mostrano anche altre implicazioni negative. Una almeno deve essere menzionata prima di passare ad alcune osservazioni conclusive. Il potere contrattuale acquisito dai pubblici ministeri nel nostro sistema politico, il fatto che le loro iniziative e indagini penali, molto pubblicizzate dai media, abbiano troncato definitivamente la carriera politica di un numero considerevole di parlamentari e leaders politici a livello nazionale e locale (ivi inclusi quelli che a distanza di anni, al termine dei relativi processi, sono stati riconosciuti innocenti) hanno alterato il funzionamento dei meccanismi istituzionali di bilanciamento dei poteri: la magistratura nel suo complesso — grazie alle ricorrenti iniziative di un’associazione professionale molto attiva — ha cioè progressivamente acquisito un notevole potere contrattuale nei confronti della classe politica e quindi anche una preponderante influenza sul processo legislativo in materia di giustizia. Si tratta di un’influenza che ha dato prova di grande efficacia nel conseguire non solo vantaggi che i pubblici ministeri di altri paesi non hanno (come, ad esempio, il già menzionato automatismo della carriera o anche i periodici e anch’essi automatici incrementi retributivi e pensionistici), ma anche un infallibile potere di veto su ogni proposta relativa alla magistratura e ai suoi poteri che non sia di loro gradimento (18). 4. Osservazioni conclusive. — La descrizione del « caso italiano » conferma certamente il grande rilievo di uno dei temi portati alla nostra attenzione da questo IX Congresso delle Nazioni Unite, ossia che il pubblico ministero dovrebbe sì essere indipendente ma anche che la sua discrezionalità dovrebbe essere soggetta al « requisito democratico della responsabilità ». In particolare il caso italiano mostra che il totale disconoscimento di questo principio democratico porta con sé una serie di gravi conseguenze che riguardano sia la tutela delle libertà civili sia l’efficace svolgimento delle funzioni inquirenti e requirenti. Esso mostra inoltre che le prescrizioni legislative, anche quelle di rango costituzionale, non hanno il potere di modificare la realtà: una nozione, questa, che certamente non sorprenderà il cit(18) G. DI FEDERICO, I diritti della difesa: la drammatica testimonianza degli avvocati penalisti e le difficili prospettive di riforma, in G. DI FEDERICO, D. GIORI, et al, Codice di procedura penale e diritti della difesa..., cit., pp. 188-211.
— 241 — tadino comune ma che spesso appare di difficile comprensione per molti giuristi. Ne costituisce un esempio la convinzione che tutti i reati possano essere egualmente perseguiti — a dispetto delle inconfutabili prove empiriche che dimostrano il contrario — semplicemente perché così recita la legge. Vero è che l’idea secondo cui l’obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe rappresentare una delle principali implicazioni del cosiddetto « principio di legalità » è coltivata e diffusa non solo fra i giuristi e i magistrati italiani ma anche da molti loro colleghi in altri paesi di civil law. Quando un simile orientamento tende a prevalere, le conseguenze possono però essere alquanto pericolose — come abbiamo visto — per la protezione di valori di fondamentale importanza in una democrazia e possono persino entrare in rotta di collisione con gli stessi intenti di coloro che coltivano questi orientarnenti dottrinali e dogmatici. Il caso italiano illustra questo fenomeno. Nel giustificare la piena indipendenza dei pubblici ministeri con l’assunto empiricamente infondato che l’iniziativa penale possa essere obbligatoria, si è di fatto attribuita in via esclusiva ad un corpo burocratico una vasta gamma di decisioni di natura discrezionale e di grande rilievo politico. Mancando qualsiasi regolazione formale di un potere di questa latitudine — dato che qualsiasi regolamentazione sarebbe comunque in contrasto con il dettato costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale — si è lasciato ai pubblici ministeri stessi il compito di decidere come usarlo nei singoli casi. Ne consegue che questo potere finisce con l’essere usato in modi diversi dai diversi uffici di procura e persino dai singoli sostituti al loro interno. Paradossalmente, quindi, questa versione estrema dell’indipendenza dei magistrati requirenti reca in sé — a livello operativo — la sconfitta stessa dell’obiettivo ultimo che con essa si voleva conseguire, e cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge penale. Del pari, le molte conseguenze negative che, come abbiamo visto, derivano dall’adozione di una visione estrema dell’indipendenza del pubblico ministero sottolineano la necessità — suggerita da questo Congresso delle Nazioni Unite — che tale indipendenza sia sempre bilanciata da misure volte a salvaguardare « il requisito democratico della responsabilità ». La descrizione del caso italiano, benche sommaria e priva delle sfumature che abitualmente caratterizzano gli studi accademici, suggerisce inoltre molta cautela nel definire il senso e le implicazioni del concetto di indipendenza. Davvero tale concetto ha esattamente lo stesso significato e le stesse implicazioni tanto per i giudici quanto per i pubblici ministeri, così come si ritiene in Italia? Davvero gli obiettivi perseguiti sono identici? A riprova del contrario, come semplice esempio di una questione complessa, mi limiterò a ricordare che sarebbe certamente una violazione dell’indipendenza della funzione giudiziaria se un presidente di corte intendesse coordinare sul piano sostanziale, ossia nel merito, le decisioni dei giudici facenti parte di tale corte. Una simile implicazione del concetto di indipendenza è valida anche per gli uffici di procura? O piuttosto — come il caso italiano mostra chiaramente — la mancanza stessa di qualsiasi forma di coordinamento gerarchico dei pubblici ministeri non è altamente disfunzionale per l’appropriato ed efficiente esercizio delle loro funzioni, soprattutto nei paesi in cui i pubblici ministeri assumono la direzione delle indagini di polizia? Consentitemi di aggiungere che non avrei posto un simile interrogativo in questa sede se non avessi constatato, considerando le risoluzioni dei Congressi delle Nazioni Unite sulla Prevenzione della Crimine, che il termine « indipendenza » viene di volta in volta usato con riferimento sia ai giudici che ai pubblici ministeri. Vero è che quelle risoluzioni non dicono mai che il significato di « indipendenza » debba essere lo stesso per entrambe le funzioni. Ciò nonostante, nessun tentativo è stato fatto sinora di precisare le differenze. Ritengo che sarebbe utile considerare questo tema in uno dei prossimi Congressi. All’inizio della mia presentazione ho affermato che la descrizione del caso italiano avrebbe fornito ulteriori argomenti a sostegno anche di altre raccomandazioni sul pubblico ministero discusse e approvate nei precedenti Congressi delle Nazioni Unite sulla prevenzione della criminalità. Consentitemi di spiegare brevemente perché: a) la nostra descrizione certamente conferma l’importanza delle raccomandazioni che suggeriscono l’adozione di direttive per regolamentare i poteri discrezionali dei pubblici ministeri, come uno degli strumenti più rilevanti cui fare ricorso nella difficile ricerca di un bi-
— 242 — lanciamento soddisfacente tra le esigenze di indipendenza e responsabilità. Indubbiamente al perseguimento dello stesso obiettivo possono concorrere anche altre raccomandazioni quale quella con cui si richiede di fissare articolate norme di etica professinale per i pubblici ministeried ed efficaci strumenti per assicurarne il rispetto; b) la nostra descrizione, per quanto concisa ed incompleta, delle gravi limitazioni al ruolo e ai diritti della difesa che derivano da un assetto in cui giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso corpo (19) certamente conferma e convalida la precedente raccomandazione con la quale si richiede che « l’ufficio di procura deve essere rigidamente separato dalle funzioni giudiziarie ». Da ultimo, un breve commento su due altre raccomandazioni approvate nei passati Congressi delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e che sono state disattese in Italia negli ultimi 30 anni, ossia che « la selezione e la carriera (laddove previste) debbono essere basate sul merito » e che « dovrebbero essere assicurati livelli elevati di professionalità ». Nel corso dei 40-45 anni di permanenza in servizio dei pubblici ministeri (e giudici) italiani non viene effettuata nessuna effettiva verifica e valutazione della loro professionalità. Come abbiamo visto, ciò è dovuto al fatto che il Consiglio Superiore della magistratura, anche a causa della sua composizione, di fatto decide le promozioni sulla base della sola anzianità. Questa evoluzione del nostro sistema verso una carriera interamente automatica è stata giustificata come un passo necessario per evitare che le valutazioni di merito potessero limitare, anche solo indirettamente, l’indipendenza dei pubblici ministeri (e dei giudici). Tale orientamento, anche a causa dei vantaggi corporativi che offre, è condiviso da molti pubblici ministeri e giudici di altri paesi che hanno un sistema di carriera simile a quello italiano. Pone, tuttavia, un altro dilemma che chiama in causa ancora una volta il concetto di indipendenza, ossia fino a che punto la protezione dell’indipendenza dovrebbe essere perseguita a detrimento di concrete e sostanziali garanzie di qualificazione professionale. GIUSEPPE DI FEDERICO Ordinario di Ordinamento giudiziario nell’Università di Bologna
(19) Per una descrizione esauriente del fenomeno si veda G. DI FEDERICO, Il pubblico ministero: indipendenza..., cit., in particolare pp. 417-437. Si veda anche G. DI FEDERICO, Italy: a Peculiar Case, in C.N. TATE e T. VALLINDER (a cura di), The Global Expansion of Judicial Power, New York, New York University Press, 1995, pp. 233-243.
LE LIMITAZIONI DEL DIRITTO AL SILENZIO NELLA RIFORMA DEL PROCESSO PENALE INGLESE
SOMMARIO: 1. Significato e portata della normativa introdotta con il Criminal Justice and Public Order Act 1994. — 2. Il diritto al silenzio come garanzia tipica del sistema accusatorio: l’intenso dibattito culturale e parlamentare anteriore al 1994. — 3. La restrizione del diritto al silenzio nella disciplina del Criminal Justice and Public Order Act 1994. - 3.1. (Segue): il silenzio dell’indagato nell’interrogatorio di polizia. - 3.2. (Segue): conseguenze processuali del silenzio dell’imputato nella fase del giudizio. — 4. Diritto al silenzio e diritto di « difendersi non provando »: il problema della ambush defence. — 5. Incidenza del silenzio sui provvedimenti restrittivi della libertà personale. — 6. Conclusioni. Il diritto al silenzio in una prospettiva comparatistica: il Criminal Justice and Public Order Act 1994 e la l. n. 332 del 1995. 1. Significato e portata della normativa introdotta con il Criminal Justice and Public Order Act 1994. — Il clima delle riforme che negli ultimi anni ha profondamente trasformato la fisionomia di alcuni sistemi continentali di giustizia penale, tra cui quello italiano e quello francese, si è manifestato anche nei Paesi di common law e in particolar modo in Inghilterra, dove tra l’aprile e il giugno del 1995 sono entrate in vigore le disposizioni del Criminal Justice and Public Order Act 1994 (1). Il testo legislativo è stato varato dopo un lungo e difficile dibattito parlamentare maturato soprattutto in seguito alla stesura del Criminal Justice Bill, cioè dopo che il progetto di legge era già stato ormai da tempo predisposto. Dal punto di vista della politica criminale, il Bill nasce con lo scopo di fronteggiare un allarme sociale piuttosto intenso che sicuramente ha finito per avere un peso determinante sulla sua formazione. Tuttavia non va dimenticato che molte delle innovazioni contenute nel progetto hanno la loro matrice nelle « raccomandazioni » della Royal Commission on Criminal Justice contenute nel Report del 6 luglio 1993 e che alcune di esse sono state accolte nel testo definitivo del Criminal Justice Act 1994 (2). Le tematiche in cui si snodano le recenti disposizioni dell’Act possono, pertanto, essere (1) Le prime norme sono entrate in vigore il 10 aprile 1995. (2) L’orientamento generale della Runciman Royal Commission on Criminal Justice (dal nome del presidente, Lord Runciman di Doxford) è improntato alla tutela delle garanzie processuali dell’indagato, nella ricerca di un equilibrio nel rapporto tra accusa e difesa. Cfr. M. ZANDER, Cases and Materials on the English Legal System, London, 6a ed., 1993, Royal Commission on Criminal Justice Special Appendix, p. XXXII-XXXIX. V. anche, P. RODGERS, Royal Commission on Criminal Justice, in The Independent, 7 luglio 1993; J.D. JACKSON, The Royal Commission on Criminal Justice, (2) The Evidence Recommendations, in Crim. Law Rev., 1993, p. 817 ss. La data stessa (marzo 1991) in cui viene istituita la Royal Commission ha una valenza simbolica, in quanto coincide con la sentenza con la quale sono stati assolti dalla Court of Appeal i « Sei di Birmingham », condannati in primo grado. Essi, in quanto appartenenti all’Esercito Repubblicano Irlandese (I.R.A.), erano stati accusati di aver depositato in un pub di Birmingham un ordigno la cui esplosione aveva causato morti e feriti.
— 244 — enucleate in due distinti tronconi, a seconda che siano o meno trattate in conformità agli insegnamenti della Runciman Royal Commission on Criminal Justice. Le norme del Criminal Justice Act che si allineano alle direttive della Royal Commission sono indicativamente le meno problematiche dal punto di vista interpretativo, proprio perché devono la loro adozione ad ampie e meditate operazioni di ricerca di soluzioni legislative più adeguate alle esigenze processuali sia dell’accusa che della difesa (3). Queste le riforme realizzate sulla scia della Commissione: profonda ristrutturazione dell’udienza preliminare, con abolizione dei committal proceedings davanti alle Magistrates’ Courts e con introduzione della procedura cartolare del transfer for trial per i reati di competenza della Crown Court (ma ora, dal 1o aprile 1997 il Criminal Procedure and Investigations Act 1996 ha reintrodotto i committal proceedings); previsione di maggiori sconti di pena nella fase del sentencing nel caso di anticipazione del guilty plea; nuove norme sul reclutamento dei giurati e possibilità di interrompere la camera di consiglio della giuria durante la deliberazione del verdetto; attenuazione della portata della corroboration rule, realizzata mediante l’abolizione dell’obbligo formale per il giudice di dare istruzioni alla giuria (corroboration warning) in ordine alla valutazione della testimonianza del coimputato e della vittima di violenze sessuali; attribuzione alla polizia di più ampi poteri nella acquisizione di prelievi organici a fini identificativi; creazione di un D.N.A. database a scopo investigativo e statistico. Al contrario, i settori del Criminal Justice Act caratterizzati da divergenze rispetto al Report della Royal Commission, per lo più riconducibili a scelte conformi al modello nord-irlandese (4) e, quindi, al filone legato alle istanze dell’emergenza, delineano una disciplina di difficile interpretazione e al tempo stesso recepiscono, come si avrà modo di precisare, aspetti contenutistici molto discutibili sul piano dei principi generali. In riferimento a questi settori, la nuova normativa è stata infatti considerata come una delle più controverse di tutta la legislazione processuale inglese degli ultimi tempi. Al riguardo, la discrasia più rimarchevole tra la Royal Commission e il Criminal Justice Act 1994 è rappresentata dalla disciplina del diritto dell’indagato al silenzio. Al fianco della Royal Commission, che aveva concluso per la conferma del right to silence, si erano schierate associazioni di giuristi e di avvocati, come la Criminal Bar Association (5), ma ciò non ha impedito al Parlamento inglese di optare per l’orientamento fortemente restrittivo sostenuto dagli organi del Police Service, dal Crown Prosecution Service e dalla magistratura più conservatrice (6). La normativa sul diritto al silenzio, in effetti, si presenta nel nuovo Act in modo molto articolato e poco lineare, con soluzioni assai vicine a quelle del Northern Ireland Order Act 1988. Sul piano delle riflessioni, alcuni studiosi americani hanno già avuto modo di esprimere un marcato dissenso, intravedendo una scelta congeniale al sistema inquisitorio là dove le nuove norme autorizzano a trarre valutazioni sfavorevoli all’accusato dal suo rifiuto di ri(3) In dottrina, le voci dissenzienti rispetto all’orientamento espresso dalla Royal Commission on Criminal Justice sono piuttosto trascurabili. Vedi, comunque, M. MC CONVILLE, Criminal Justice in Crisis, 1994. (4) Il Parlamento dell’Irlanda del Nord ha approvato nel 1988 il testo della legislazione d’emergenza contro il terrorismo dell’I.R.A. (Criminal Evidence Northern Ireland Order Act). Cfr. S. GREER, The Rise and Fall of the Northen Ireland Supergrass System, in Criminal Law Review, 1987, J.D. JACKSON, Called to Court: a Public View of Criminal Justice, in Northern Ireland, Belfast, S.L.S. Publication, 1991. (5) Si sono pronunciate a favore dei diritti dell’indagato anche The Law Society, The Bar Council, la London Criminal Courts Solicitors’ Association e la Association and the Legal Action Group. (6) Ad esempio, Lord Lane, il Lord Chief Justice, l’ H.M. Council of Circuit Judges.
— 245 — spondere alle domande della polizia o di rendere testimonianza nel dibattimento (7). Quale che sia la correttezza di questo accostamento, è comunque certo che con le recenti modifiche in materia di diritto al silenzio il processo penale inglese rischia di orientarsi progressivamente verso una effettiva limitazione dei diritti della difesa (8). Il nuovo corpus normativo varato nel 1994 dà vita ad una riforma di ampio respiro, articolata in dodici parti, in ognuna delle quali le innovazioni che investono il diritto sostanziale, in materia di prevenzione di gravi delitti legati alle associazioni terroristiche e alla repressione dei reati contro la moralità sessuale, si sovrappongono alle modificazioni attinenti alla procedura penale, che assumono indubbiamente una portata più incisiva. Le investigazioni e il diritto delle prove penali, già regolati dal Police and Criminal Evidence Act del 1984, ricevono ora una disciplina che si inserisce nella struttura del processo con novità ad ampio raggio. Numerose le aree investite dall’Act del 1994: libertà personale, udienza preliminare, corroboration, valore probatorio del diritto al silenzio, poteri della giuria, regime delle impugnazioni. Nell’ambito del processo minorile, oltre a specificare il valore probatorio della testimonianza dei minori, si crea una procedura speciale per i reati commessi dai minori degli anni diciotto punibili con pena detentiva. Vi è poi tutta una parte centrale, la quinta, concernente i poteri della polizia diretti al mantenimento dell’ordine pubblico. Non mancano infine altri ritocchi su aree più periferiche, come ad esempio quelle riguardanti l’ordinamento penitenziario e l’estradizione. Nel presente lavoro, verrà esaminato l’istituto del diritto al silenzio. In particolare, si cercherà di far luce sul retroterra culturale e sulla ratio delle nuove norme della law of evidence per meglio comprendere il significato delle profonde modificazioni introdotte nella disciplina del diritto al silenzio dell’indagato e dell’imputato. L’analisi della attuale normativa sul diritto al silenzio sarà poi completata con alcune riflessioni riguardanti le implicazioni che essa ha avuto sull’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, nonché da un breve esame degli effetti che la scelta della linea difensiva del silenzio può provocare sull’adozione di misure restrittive della libertà personale. 2. Il diritto al silenzio come garanzia tipica del sistema accusatorio: l’intenso dibattito culturale e parlamentare anteriore al 1994. — È noto che gli ordinamenti occidentali di legal tradition si collegano ad una matrice culturale caratterizzata da una identità di obiettivi che, pur articolandosi in strategie ed approcci differenti, trova il suo fondamento nella affermazione di valori giuridici basilari e inderogabili facenti capo alla tutela della persona umana. I sistemi processuali penali, in particolare, rappresentano da sempre il luogo di elezione per la definizione dei principi generali inerenti al rapporto tra individuo e autorità. In una prospettiva storica e comparatistica, non vi è dubbio che il legame imprescindibile esistente tra il contesto ideologico e culturale sotteso alle scelte legislative e il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona nel processo penale abbia favorevolmente contribuito all’emergere del principio secondo cui nessuno può essere costretto a fornire prove contro se stesso (nemo tenetur se detegere) (9). Nelle codificazioni europee dell’ottocento, formatesi sotto l’influenza del pensiero giu(7) G.W. O’REILLY, England Limits the Right to Silence and Moves Towards an Inquisitorial System of Justice, in The Journal of Criminal Law and Criminology, 1995, p. 451. (8) Anche nell’ambiente accademico inglese si riscontrano forti dissensi rispetto al cambiamento apportato alla disciplina del diritto al silenzio: A. ASHWORTH, The Criminal Process, 1994, p. 112; I. DENNIS, The Criminal Justice and Public Order Act 1994, The Evidence Provisions, in Crim. Law Rev., 1995, p. 4; M. WASIK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide to the Criminal Justice and Public Order Act 1994, London, 1995, p. 50 ss.; S. UGLOW, Criminal Justice, London, 1995, p. 86 ss.; P. MIRFIELD, Two Side-Effects of Sections 34 to 37 of the Criminal Justice and Public Order Act 1994, in Crim. Law Rev., 1995, p. 612. (9) Non così nelle civiltà giuridiche dell’estremo oriente, come ad esempio in quella giapponese, ove il riconoscimento delle libertà individuali non fa parte della tradizione cultu-
— 246 — snaturalista e delle idee degli illuministi francesi, si arriva ad abolire la tortura, ma non ancora a recepire la concezione di un diritto al silenzio in sede di interrogatorio. L’affermazione del principio nemo tenetur se ipsum prodere matura, invece, in termini più ampi e con diverse sfaccettature (10), in seno alla tradizione giuridica di common law, a cui, secondo la dottrina inglese prevalente, si dovrebbero far risalire anche le sue più antiche origini (11). Il diritto di tacere si affermerebbe intorno alla metà del XVII secolo (12) in seguito alla polemica sollevata nell’ambiente giuridico inglese contro l’abuso dei poteri inquisitori della Corte di giustizia regia (13), configurandosi come diritto dell’imputato di non collaborare alla propria incriminazione nel corso dell’interrogatorio condotto dal giudice. Più precisamente, l’idea di questo privilege nascerebbe come opposizione alla regola, adottata fino al 1641 dalla High Commission for Ecclesiastical Causes, secondo cui si poteva obbligare l’accusato al « giuramento autoincriminante ». La dizione privilege against self-incrimination si spiegherebbe, dunque, con la abolizione dell’istituto del giuramento ex officio attuata dapprima nel procedimento romano-canonico (14) e poi estesa, per una sorta di trasposizione analogica, al processo penale di common law. Secondo un altro orientamento (15), le radici più profonde del principio in questione sarebbero invece ascrivibili non tanto ad una reazione culturale contro la Star Chamber, né ai casi di conflitto tra gli organi giurisdizionali di common law e le corti ecclesiastiche, quanto piuttosto al riconoscimento del privilege contro l’autoincriminazione come « barale, sebbene la procedura giapponese si sia largamente ispirata ad un modello occidentale, che è quello del codice tedesco. (10) Sono stati individuati in dottrina (vedi, E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974, p. 408 ss., spec. p. 412; A.A. ZUCKERMAN, Trial by Unfair Means. The Report of the Working Group on the Right of Silence, in Criminal Law Review, 1989, p. 855 ss.) tre differenti significati ascrivibili al brocardo latino nemo tenetur se detegere il quale, come espressione polivalente di situazioni soggettive nettamente distinte anche in relazione alle fasi processuali, indicherebbe: il diritto dell’imputato a non essere interrogato dal giudice (right not to be questioned), il diritto del testimone e dell’imputato di non rispondere alle domande autoincriminanti (privilege against self-incrimination) e il diritto al silenzio, come rifiuto volontario dell’interrogatorio da parte dell’indagato (right of silence). (11) V. ad esempio, L.W. LEVY, Origins of the Fifth Amendment, New York, 1968, p. 327. (12) Così, secondo la teoria classica, risalente a Jeremy Bentham e sostenuta anche da Wigmore; si veda, J.H. WIGMORE, A Treatise on Evidence, The Mc Naughton Revision, Boston, 1960, p. 2250. Per un quadro completo delle teorie sulla prova risalenti a Bentham e a Wigmore, si veda W. TWINING, Theories of Evidence: Bentham and Wigmore, London, 1985. (13)La Star Chamber era la Corte di giustizia, allineata alla Corona, competente a pronunciarsi per i reati contro l’autorità dello stato. Nell’espletamento delle sue funzioni, essa non applicava le regole di procedura di common law, ma si avvaleva di un sistema inquisitorio, potendo utilizzare la tortura, avendo la facoltà di disporre la comparizione coatta dell’indagato e di interrogarlo sotto giuramento. L’attività della Corte regia è cessata nel 1641, con la vittoria politica del radicale John Lilburne. Sull’argomento, si vedano gli studi in chiave storica del tedesco J.H. LANGBEIN, Torture and the Law of Proof, Chicago and London, 1977, p. 135. (14) Nel 1641, in concomitanza con il tramonto della Star Chamber, veniva varato lo Statuto di Carlo I Stuart, che oltre ad abolire la High Commission (la Corte competente per le cause di diritto ecclesiastico) conteneva una norma che vietava alle corti ecclesiastiche di sottoporre la persona interrogata al self-incriminatory oath. (15) In questo senso, M.H. MAGUIRE, The Attack of the Common Lawyers on the Oath ex officio as Administered in the Ecclesiastical Courts in England, in Essays in History and Political Theory in Honor of C.H. McIlwain, Cambridge, Mass: Harvard, 1936, p. 220 ss.; L.W. LEVY, Origins of the Fifth Amendment, cit., p. 327.
— 247 — luardo delle libertà » dell’individuo e come peculiare valore incardinato nel quadro delle regole della tradizione politica di common law (16). Secondo una ulteriore e più recente ricostruzione, che offre alcuni spunti innovativi rispetto alla teoria classica, le prime applicazioni processuali del privilege against self-incrimination non sarebbero riscontrabili nell’area di common law, bensì, già dall’inizio del XVII secolo, nella procedura adottata dalle equity courts, che era molto simile a quella romano-canonica (17). Solo più tardi, sul finire dello stesso secolo, la regola sarebbe stata applicata dalle corti di common law, dapprima come eccezione al dovere di verità proprio del testimone (« privilege ») e poi estesa all’imputato nella diversa forma del « right » not to be questioned, di cui si era già avuto, peraltro, un segno prodromico nel 1661 con lo Statuto di Carlo II, che affermava il diritto dell’imputato a rilasciare dichiarazioni senza dover prestare giuramento. A partire da questa normativa, dunque, le regole legali a limitazione del potere del giudice di interrogare l’imputato si consolidano a tal punto che all’inizio del 1700 si può considerare affermato il principio nemo tenetur se detegere dell’imputato, secondo la espressione tipica del processo di common law, e cioè come generale diritto dell’imputato a non essere interrogato dal giudice e a rifiutare di rendere qualsiasi dichiarazione, a prescindere che essa sia o meno autoincriminante (18). Quando poi, con il Criminal Evidence Act del 1898, viene introdotto l’istituto della testimonianza volontaria dell’imputato, in cui egli è competent but not compellable witness, la regola tradizionale del right not to be questioned si colora di contorni meno preclusivi per la difesa, poiché diventa possibile acquisire, attraverso l’esame e il controesame dell’imputato, la prova a discarico di fatti che il più delle volte non avrebbero potuto essere oggetto di cognizione del giudice per la mancanza o l’inidoneità di altri mezzi di prova. Nel contesto delle dichiarazioni giurate dell’imputato e, quindi, intrinsecamente alla struttura dell’atto testimoniale, si colloca il privilege against self-incrimination, il quale acquista una connotazione differente rispetto all’originario privilege, storicamente collegato all’abolizione del giuramento ex officio. Alla base dell’esercizio del privilege against self-incrimination nel processo inglese della fine dell’ottocento sta, dunque, la volontarietà nel rendere la deposizione sotto giuramento. Per quanto concerne la fase anteriore al dibattimento, con particolare riguardo all’interrogatorio di polizia, viene affermato dalle Judges’Rules (19) il diritto al silenzio, che nasce dal contemperamento tra right not to be questioned e privilege against self-incrimination e si (16) Salvo questa fondamentale divergenza sul « luogo di nascita » dell’istituto (secondo Wigmore come associazione di idee mutuate dal processo canonico, secondo Levy squisitamente nell’ambito della common law), entrambe le teorie sopra enunciate ritengono che le prime espressioni del privilege against self-incrimination nell’ambito del processo penale inglese consistono nel diritto dell’imputato a rimanere in silenzio durante il giudizio e che la applicazione del privilege è stata in seguito estesa anche al testimone e alla soluzione delle questioni penali nei processi civili. Tra le opinioni di Wigmore e di Levy vi è anche coincidenza sulla datazione della nascita del privilege, risalente intorno al 1640. Questo dato cronologico è stato tuttavia confutato da Langbein, i cui studi hanno dimostrato che il diritto a non autoincriminarsi sarebbe sorto nel processo penale di common law non prima della metà del XVIII secolo: J.H. LANGBEIN, Shaping the Eighteenth Century Criminal Trial, in U. Chic Law Rev., 1983, vol. 50, p. 132; ID., The Criminal Trial before the Lawyers, in U. Chic Law Rev., 1978, vol. 45, p. 263. (17) M.R. MACNAIR, The Early Development of the Privilege against Self-incrimination, in Oxford Journal of Legal Studies, 1990, vol. 10, p. 66. (18) Per una ampia ricostruzione storica, vedi: V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere ». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972. (19) Le Judges’ Rules sono state pubblicate nel 1912, revisionate nel 1964 e poi abolite nel 1984.
— 248 — configura come un diritto al rifiuto dell’inquisitore (20), nel senso che l’indiziato non solo ha la facoltà di non rispondere perché non è obbligato a collaborare con gli organi di polizia, ma deve anche essere reso consapevole dell’assenza di tale obbligo per la « innaturalità della situazione in cui si trova a causa della mancanza di un giudice (cioè di un organo imparziale) e dell’assunzione di poteri inquisitori da parte del suo contraddittore » (21). Alla luce di quanto rilevato, se si vuole individuare quale delle diverse accezioni del nemo tenetur se detegere potrebbe assurgere a principio cardine del processo penale inglese, la cui struttura accusatoria si caratterizza in modo peculiare nella separazione delle fasi, si potrà senza dubbio considerare come cornerstone (22) dell’intero sistema il right to silence dell’indagato. In un sistema accusatorio, è segnatamente la natura di right e non quella di privilege a poter essere assunta come qualificazione giuridica del silenzio (23). In effetti, la chiave di volta del processo accusatorio non è costituita tanto dal privilege against self-incrimination, che si riduce ad una exclusionary rule afferente alla clausola rifluita nel quinto emendamento della Costituzione americana, quanto dal right to silence dell’indagato davanti alla polizia o ad altra autorità inquirente. Lo ius tacendi sottrae in via preventiva la persona sottoposta alle indagini da qualsiasi costrizione a fornire durante l’interrogatorio dichiarazioni che potrebbero essere utilizzate come prova a carico, configurandosi come un diritto posto a garanzia di una tutela anticipata dell’indagato. Egli, invero, si trova in una posizione più debole, giacché nella fase delle indagini, oltre a non esservi il giudice ad assicurare l’imparzialità, può non trovare piena attuazione il diritto di difesa ove non venga in concreto garantito l’intervento del difensore all’attività d’indagine o non venga autorizzato il colloquio con il difensore in tempo utile prima dell’interrogatorio. Come principio processuale, il right to silence trova dunque applicazione nella fase delle indagini di polizia: la sua ragion d’essere va rintracciata nella maggiore protezione di cui necessita l’indagato rispetto all’imputato che è inserito in un contesto più garantito. Come principio di civiltà, che vede il suo consolidarsi durante il XIX secolo, il diritto al silenzio assume la duplice valenza di diritto a non collaborare spettante all’indagato in sede investigativa e all’imputato in sede processuale, con una sfera di operatività estesa a tutte le fasi del procedimento e, sul piano politico, si ricollega all’idea liberale della affermazione dei diritti individuali dei cittadini nei confronti del potere dello stato. Nel dibattito riguardante, in senso ampio, la portata applicativa attribuibile al diritto al silenzio, si contrappongono tradizionalmente i due filoni dottrinali dei garantisti e dei giustizialisti, caratterizzati da presupposti e finalità che si muovono in direzioni diametralmente opposte. Secondo i libertarians — si è già accennato —, il diritto al silenzio rappresenta una delle garanzie fondamentali poste a salvaguardia di qualsiasi individuo nei suoi rapporti con l’autorità. Pertanto, tutelando la libertà di autodeterminazione e la privacy delle persone indagate e conferendo significato pratico alla presunzione di innocenza, il right of silence assume il rango di elemento portante di tutto il sistema accusatorio inglese (24). Gli utilita(20) Così, E. AMODIO, Diritto al silenzio, cit., p. 412. (21) Così, E. AMODIO, op. cit., p. 413. (22) Il diritto al silenzio viene spesso definito dagli autori inglesi proprio come cornerstone, pietra angolare del sistema processuale inglese: vedi ad esempio, R. CROSS, Right to Silence and the Presumption of Liberty. Sacred Cow of Safeguard of Liberty, 1970, 11 JSPTL 66; J. WOOD and A. CRAWFORD, The Right of Silence: The Case for Retention, London: The Civil Liberties Trust, 1989. (23) Il nemo tenetur se detegere dell’indiziato (right to silence) e dell’imputato (right not to be questioned) assurge, dunque, a right, il quale, a differenza del privilege che costituisce una sorta di concessione particolare a favore di un determinato soggetto, denota un interesse generale protetto come valore fondamentale della persona nei confronti dell’autorità dello stato. Vedi, S. GREER, The Right to Silence: a Review of the Current Debate, in The Modern Law Review, 1990, p.709 ss. (24) D. DIXON, The Right of Silence: Politics and Research, Paper presented at the Conference of the Society for the Reform of the Criminal Law: Investigating Crime and Ap-
— 249 — rians, al contrario, propugnano l’abolizione del diritto al silenzio: non essendo altro che un inutile ostacolo alla repressione del crimine, esso non contribuisce ad accrescere la qualità e l’efficienza del sistema di giustizia penale concepito come strumento per l’accertamento della verità (25) A livello parlamentare, l’eco degli orientamenti basati appunto sulle esigenze della difesa sociale si è avuta nell’Eleventh Report 1972 redatto dal Criminal Law Revision Committee (26). In questa relazione si rilevava che il processo penale inglese, con particolare riferimento al settore delle prove penali, si stava sbilanciando eccessivamente in favore dell’accusato e che, nella ricerca di un equilibrio che contemperasse l’interesse alla salvaguardia dei diritti della difesa con l’interesse pubblico alla condanna dei colpevoli, sarebbe stato opportuno restringere la portata del diritto al silenzio, perché esso dava ai colpevoli vantaggi socialmente riprovevoli e non aiutava la posizione processuale dell’innocente. Questa proposta legislativa, nel concedere al giudice e alla giuria la facoltà di dedurre qualsiasi argomento di prova a carico dell’indagato che si rifiutava di collaborare, ricalcava una concezione del processo penale, già presente nel Trattato sulla prova di Jeremy Bentham, secondo la quale il diritto al silenzio è la prima difesa che ogni criminale si costruirebbe per il suo processo, mentre l’innocente invocherebbe volentieri il diritto di parlare non traendo alcun vantaggio dal silenzio. È evidente che i problemi prospettati nell’Eleventh Report 1972, forse più apparenti che reali, si sarebbero potuti risolvere in modo diverso, senza necessariamente fare ricorso ad una modifica della disciplina concernente il diritto al silenzio (27). D’altra parte, l’assunto benthamiano è stato smentito da dati statistici che dimostrano incontrovertibilmente come la percentuale di coloro che si avvalgono della facoltà di non rispondere sia molto bassa — variabile dal 2% all’8% — ed è quindi impossibile che solo costoro corrispondano ai reali colpevoli. Inoltre, se, per un verso, i benefici derivanti dalla facoltà dell’organo giudicante di trarre interpretazioni sfavorevoli dal silenzio si rivelano illusori, per altro verso, i costi che si legano ad una tale previsione sono elevati (28). Infatti, come si evince dalle direttive della Philips Royal Commission on Criminal Procedure (29) istituita nel 1981, la restrizione nei termini suddetti del diritto di non rispondere alle domande della polizia non si rivela opportuna perché non fa che incrementare il rischio che l’innocente, spesso particolarmente vulnerabile, renda dichiarazioni incriminanti in seguito all’impatto psicologico che scaturisce dal non sapere quale valore probatorio potrà essere attribuito al proprio rifiuto di rispondere. A sostegno di queste argomentazioni, la Philips Royal Commission non mancò di rilevare che il potere di utilizzare il silenzio a fini probatori, sia pur solo come corroboration di altre prove a carico, contrasta con un principio portante del sistema accusatorio, che è quello dell’onere della prova gravante sul prosecutor, il quale deve sostenere l’accusa prehending Suspects: Police Powers and Citizen’ Rights, Sydney, Australia, 19-23 March 1989, p. 12; K. BOTTEMLEY, C. COLEMAN, D. DIXON, M. GILL, D. WALL, Safeguarding the Rights of Suspects in Police Custody, Paper presented to the British Criminology Conference, Bristol Polytechnic, 17-20 July 1989. (25) Gli utilitarians trovano in Jeremy Bentham il più autorevole esponente: A.D. LEWIS, Bentham’s View of the Right to Silence, in Current Legal Problems, 1990, pubblicato dalla facoltà di legge dell’University College of London, p. 135-157; G. WILLIAMS, The Tactic of Silence, in The New Law Journal, 1987, vol. 137, p. 1107 ss. (26) Cfr. A.A. ZUCKERMAN, Reports of Committees (Criminal Law Revision Committee 11th Report), in The Modern Law Review, 1973, p. 509. (27) Per le aspre critiche all’11th Report sollevate in dottrina vedi R. CROSS, The Evidence Report: Sense or Nonsense?, in Crim. Law Rev., 1973, p. 329. (28) In tal senso, G.W. O’REILLY, England Limits the Right to Silence and Moves Towards an Inquisitorial System of Justice, cit., 1994, p. 451. (29) The Royal Commission on Criminal Procedure. « The Prosecution of Criminal Offences in England and Wales: the Law and Procedure ». London: HMSO, 1981. Cmnd 8092.
— 250 — in giudizio senza alcuna collaborazione attuale o pregressa da parte dell’imputato o dell’indagato. Rispetto alle proposte del Criminal Law Revision Committee venne dunque data dalla Royal Commission on Criminal Procedure (1981) una netta prevalenza alle ragioni a favore della conservazione del right to silence e, con l’entrata in vigore del Police and Criminal Evidence Act 1984, si arrivò ad introdurre un regime di maggior tutela dei diritti degli indiziati in sede di interrogatorio. Senonché, il dibattito, che sembrava concluso con l’Act del 1984, tornò a farsi più acceso nel 1988, quando il Ministro dell’Interno Douglas Hurd, ritenendo che il Police and Criminal Evidence Act avesse ostacolato l’operato della polizia nella lotta alla criminalità e partendo dal presupposto che fosse necessario modificare la disciplina del diritto al silenzio, istituì un Home Office Working Group incaricandolo di precisare i mutamenti che si sarebbero dovuti apportare al right to silence (30). Le scelte adottate dalla Commissione ministeriale si posero, per così dire, a metà strada tra quelle del Criminal Evidence Northern Ireland Order Act 1988 (31) e quelle della Philips Royal Commission. Nel Working Group Report 1989 si stabilì che il rifiuto dell’indagato di rispondere o di menzionare durante l’interrogatorio fatti inerenti alla propria difesa in giudizio potesse comportare, come duplice conseguenza, il convincimento che la linea difensiva fondata sui quei fatti fosse falsa, nonché la perdita della sua credibilità come testimone; peraltro, si introdusse come sanzione principale a danno dell’imputato la circostanza che non più solo il judge e la jury, ma anche il prosecutor fosse titolare della facoltà di trarre degli argomenti a carico (adverse comment) dal rifiuto del defendant di fornire prove a suo discarico o di testimoniare in dibattimento. A complemento di queste regole di giudizio, vennero tuttavia introdotte a tutela dell’imputato delle guidelines indicanti i fattori specifici idonei a sostenere una motivazione in ordine alla decisione di adverse comment del giudice o di adverse inference della giuria (32). Le conclusioni a cui era giunto l’Home Office Working Group con il Report del 1989 si sono rivelate decisive perché sono state poi in parte recepite nel Criminal Justice and Public Order Act 1994, acquisendo così forza di legge (33). A impedire l’accoglimento della tesi abolizionista non è valsa nemmeno l’esperienza di eclatanti errori giudiziari quali quelli scaturiti dai casi c.d. Guilford Four, Maguires e Birmingham Six. Il clima politico garantista emerso da queste vicende aveva influenzato l’orientamento della Runciman Royal Commission on Criminal Justice, favorevole a conservare la regola fondamentale del diritto al silenzio (34), ma né l’insegnamento della Commissione né le (30) Home Office. Report of the Working Group on the Right to Silence, Londra: HMSO, 1989. (31) House of Commons, Hansard, vol. 140, 8 novembre 1988; House of Lords, Hansard, vol. 501, 10 novembre 1989. (32) Tra gli interventi dell’Home Office Working Group orientati in senso garantistico emersero, in particolare, la riconferma tanto della garanzia del legal advice del difensore prima dell’inizio dell’interrogatorio, quanto dell’obbligo di rendere note (caution) all’interrogato le possibili conseguenze derivanti dal suo rifiuto di collaborare e, cosa di non poco conto, l’abolizione della regola contenuta nella legislazione nordirlandese secondo cui il silenzio dovrebbe assumere valore di corroboration a riscontro delle prove dell’accusa. (33) La normativa del Criminal Justice Act del 1994 non contiene alcuna guideline idonea a orientare il giudice nell’esercizio del potere discrezionale di formulare deduzioni probatorie dal silenzio. Le sezioni 34-37 dell’Act 1994 ribadiscono la necessità della caution nei confronti dell’interrogato sulle possibili conseguenze probatorie derivanti dal suo contegno negativo, mentre non ripetono la regola nordirlandese secondo cui il silenzio può avere valore di corroboration delle prove prodotte dall’accusa. (34) Royal Commission on Criminal Justice Report, July 1993, Recommendation n. 82. La Royal Commission ha ritenuto di non dover accogliere le istanze di riforma del diritto
— 251 — voci dissenzienti di numerosi giuristi inglesi sono stati sufficienti a far desistere il legislatore dall’intervenire con il bisturi sul corpo di uno dei valori essenziali del rito accusatorio (35). È alla fine prevalsa l’idea che quello del diritto al silenzio, nelle sue diverse manifestazioni, è un problema che va risolto sul piano della valutazione discrezionale del magistrato come giudice del fatto, piuttosto che sul piano legislativo (direbbero gli inglesi: « as a matter of fact, not as a matter of law »). In altri termini, secondo questa impostazione, che trova la sua origine nelle teorie benthamiane sulla prova e che in linea di principio è stata poi seguita nel Criminal Justice and Public Order Act 1994, si vuole conferire al giudice un grado elevato di discrezionalità (common sense reasoning) nella valutazione del silenzio dell’accusato, senza vincoli derivanti dall’applicazione formale delle regole di common law, in ossequio al principio della libertà della prova (free proof) (36) (37). al silenzio e di non ammettere sostanziali deviazioni dal principio generale di common law, per il quale il giudice (e solo il giudice) può « commentare » (e non fare interpretazioni a danno del sospettato), entro limiti ben precisi, in ordine al silenzio tenuto dall’indagato. (35) In difesa dei principi del processo accusatorio si erano pronunciati alcuni studiosi inglesi già anteriormente all’intervento della Royal Commission del 1993. J.D. JACKSON, Inferences from silence: from common law to common sense, in Northern Ireland Legal Quarterly, 1993; ID., The Danger of Discretion, in Legal Action, dicembre 1992, p. 6; R. PATTENDEN, Judicial Discretion and Criminal Litigation, 1990, p. 18 ss.; D. DIXON, Common sense, Legal Advice and the Right of Silence, in Public Law, 1991; M. ZANDER, No case for Destroing the Right to Silence, in The Law Magazine, 22 gennaio 1988; J. WOOD and A. CRAWFORD, The Right of Silence: The Case for Retention, cit.,1989. Per una prospettiva storica, vedi: N. BLAKE, The Right of Silence in English Criminal Law, in The Haldane Society, 1985, p. 7 ss. Questa dottrina non ha mancato di rimarcare le molteplici ragioni che militano a favore del mantenimento del diritto al silenzio: l’esigenza di protezione dell’innocente contro l’autoincriminazione e dell’indagato contro gli abusi della polizia o, comunque, contro gli interrogatori effettuati con metodi illegittimi; inoltre, la presunzione di innocenza come fondamento del modello accusatorio (in proposito, A. ASHWORTH-M. BLAKE, The Presumption of Innocence in English Criminal Law, in Crim. Law Rev., 1996, p. 306), per cui il giudice, dal silenzio dell’indagato, può trarre solo motivi a favore della non colpevolezza dello stesso ed, infine, la mancanza di un obbligo di discovery da parte della difesa nei confronti del proprio avversario. Per una approfondita disamina delle diverse teorie afferenti il dibattito sulla conservazione o sull’abolizione del diritto al silenzio, vedi S. GREER, The Right to Silence: a Review of the Current Debate, in The Modern Law Review, 1990, p.709 ss. Secondo l’Autore, dovrebbe, innanzi tutto, restare in vigore la regola di common law sul diritto al silenzio del cittadino come limite al potere coercitivo dello stato; in secondo luogo, si dovrebbe ripristinare il divieto per il prosecutor di interpretare negativamente il silenzio tenuto davanti agli organi di polizia; in terzo luogo, si dovrebbe maggiormente limitare la discrezionalità del giudice in ordine all’adverse comment sul silenzio, eccetto nel caso della valutazione della ambush defence, ove tale discrezionalità potrebbe essere più ampia. (36) J. BENTHAM, Treatise on Evidence, London, 1825; W. TWINING, Theories of Evidence: Bentham and Wigmore, cit., p. 3; A.A. ZUCKERMAN, The Principles of Criminal Evidence, 1989, pp. 134-140. (37) Una tendenza opposta rispetto a tale orientamento è emersa, invece, nel nuovo codice di procedura penale italiano del 1988, dando vita ad una normativa sulle prove di chiaro stampo accusatorio, ancorata ad un regime di legalità della prova e non ad un regime di ‘prova libera’ quale quello usato, spesso in modo assai dilatato, nella vigenza del vecchio codice del 1930. L’attuale codice di procedura mira, infatti, a circoscrivere la portata del libero convincimento del giudice al solo momento della valutazione della prova (art. 192 primo comma c.p.p.) sottraendone l’estensione alle altre fasi del procedimento probatorio quali la ammissione, la acquisizione e la formazione della prova. Inoltre, il convincimento che si forma sulla base della valutazione del materiale probatorio è soggetto al limite derivante dall’obbligo di motivazione razionale della decisione (art. 192 primo comma c.p.p.: « dando conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati »; art. 546 primo comma lett. e) c.p.p.: « enunciazione delle ragioni »). Cfr. M. NOBILI, Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, vol. II, p. 415 e ss.; A. GIULIANI, Il problema del li-
— 252 — 3. La restrizione del diritto al silenzio nella disciplina del Criminal Justice and Public Order Act 1994. — La modifica legislativa alla tradizionale disciplina del right to silence introdotta dalla riforma inglese del 1994 non ha una portata così ampia da abolire in toto il diritto al silenzio, ma si può agevolmente affermare che la situazione normativa generata da tale modifica risulta connotata da una rilevante restrizione dell’ambito di tutela precedentemente riservato a questo diritto. Vi è da considerare, peraltro, che questo affievolimento si colloca in un contesto normativo in cui rimangono garantite l’affidabilità e la volontarietà delle dichiarazioni, controllabili attraverso la video registrazione degli interrogatori obbligatoriamente prescritta per i procedimenti relativi ai reati più gravi e a quelli triable either way, ed anche attraverso il vaglio discrezionale del giudice che può escludere le dichiarazioni illegittimamente ottenute durante la fase delle indagini. Se non si può prescindere da una attenta osservazione del quadro generale delle garanzie riservate dalla English law alla persona interrogata, non è neppure trascurabile il mutamento di prospettiva operato dal Criminal Justice and Public Order Act 1994 sul contenuto e sulle modalità di attuazione del right to silence nella fase investigativa e in quella dibattimentale. L’attenuazione della portata del diritto al silenzio ha per oggetto specificamente quella accezione più lata dello stesso che consiste nel diritto a non subire conseguenze pregiudizievoli derivanti dal rifiuto di rendere dichiarazioni (freedom not to have adverse conclusions drawn from a refusal to talk) (38). Non si può quindi parlare di abrogazione della garanzia in questione poiché la riforma non investe il significato di right to silence in senso stretto, cioè il diritto a non essere costretto a rendere dichiarazioni (freedom from being coerced into talking) (39). Con l’entrata in vigore del Criminal Justice Act, rimane, pertanto, invariato il nucleo fondamentale del right to silence, inteso come diritto a non essere costretti a rispondere alle domande della polizia o a testimoniare in giudizio e, nel contempo, come facoltà di essere avvertiti dell’assenza di tale obbligo. Se è vero che nella riforma del 1994 il diritto al silenzio non è stato totalmente abolito, nel senso che la persona non può essere obbligata a rispondere alle domande e il rifiuto di rispondere non costituisce reato (40), va tuttavia riconosciuto che l’area operativa del right to silence risulta ampiamente circoscritta con riguardo ad uno dei significati ad esso attribuiti anche dalla Runciman Royal Commission on Criminal Justice (41) (right to silence in senso ampio), vale a dire quello corrispondente al divieto di dare rilevanza probatoria al fatto che l’imputato abbia mantenuto il silenzio durante l’interrogatorio di polizia. 3.1. (Segue): il silenzio dell’indagato nell’interrogatorio di polizia. — Il general right to silence, riconosciuto in capo a qualsiasi cittadino inglese interrogato dalla polizia, era basato, nella tradizione di common law, su due regole ben precise: la prima disponeva che il silenzio non avrebbe mai potuto costituire motivo di ostacolo all’espletamento dei doveri della bero convincimento del giudice. Riflessioni storiche e metodologiche, in La formazione del convincimento: il giudice fra libertà e regola (Trento, 27-29 ottobre 1988). Tra i più rilevanti contributi della dottrina alla formazione della attuale tendenza orientata al principio della legalità della prova, si segnala: E. AMODIO, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in questa Rivista, 1973, p. 310 e ss.; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, 1974, Milano, spec. p. 221 e ss. (38) Così, J. WOOD and A. CRAWFORD, The Right of Silence: the Case for Retention, 1989, cit., p. 3. (39) Così, J. WOOD and A. CRAWFORD, ult. cit., p. 3. (40) Due eccezioni a questa regola sono previste per le Serious Fraud nella section 2 del Criminal Justice Act 1987 (v. Serious Fraud Office e D.T.I.) e per le Traffic Offence (quando si tratti di interrogatorio di identificazione): § 163, Road Traffic Act 1988. (41) Royal Commission on Criminal Justice Report, July 1993, Recommendation n. 82.
— 253 — polizia e quindi che non sarebbe stato idoneo ad integrare una condotta illecita (42), la seconda vietava all’organo dell’accusa di commentare la circostanza del silenzio e al giudice di informare la giuria sul fatto che il silenzio potesse essere valutato come prova a carico (43). Vi era anche una terza rule of law in base alla quale le confessioni ottenute in sede di interrogatorio dovevano essere volontarie (voluntariness rule) e, per essere ammesse come prova, doveva essere dimostrata dal prosecutor la sussistenza di tale requisito. Il fondamento di questi principi, che per decenni ha riempito le pagine dei repertori della giurisprudenza inglese, si ritrova riconfermato nel Criminal Justice and Public Order Act 1994 solo a livello formale (44). In realtà, sotto il profilo sostanziale si viene a creare una incrinatura della dottrina di common law, là dove si consente al giudice di valutare discrezionalmente il rifiuto dell’indagato di rispondere, in sede di interrogatorio, su fatti idonei a discolpare se stesso. Va osservato, peraltro, che il Criminal Justice Act 1994 non contiene alcuna indicazione chiara della volontà del legislatore di abrogare le regole di common law. Pertanto, in mancanza di una deroga espressa in tal senso, si deve ritenere che la disciplina di common law continui ad essere operante nonostante i nuovi contenuti dell’Act del 1994 (45). In relazione alla fase delle investigazioni, il Criminal Justice and Public Order Act prescrive che qualora l’autorità procedente, anteriormente alla contestazione dell’accusa (charge), interroghi l’indagato sui fatti (questioning) rendendogli noti gli elementi di prova a suo carico (46), e questi rifiuti di menzionare un qualsiasi fatto relativo alla sua difesa, il rifiuto costituisce argomento di prova a suo carico (section 34 n. 1 lett. a)). La medesima (42) Questa regola fondamentale era stata autoritativamente disposta dalla Divisional Court nel 1966, in relazione al caso Rice v. Connoly, 1966, 3 W.L.R. 17. (43) Si veda ad esempio: R. v. Naylor (1932), 23 Crim. App. Rep. 177; R. v. Gerard (1948), 32 Crim. App. Rep. 132. È riscontrabile soltanto una situazione in cui la giurisprudenza inglese ha consentito in via d’eccezione al giudice di indicare alla giuria che il silenzio può essere prova di colpevolezza, e cioè nel caso in cui l’accusa proveniva da un privato — on equal terms — che assumeva il ruolo di interrogante e il mancato diniego della contestazione veniva parificato ad una admission (R. v. Chandler, 1976, 1 W.L.R. 585). Sulla ampiezza della facoltà del giudice di trarre argomenti dal silenzio, vedi D. WOLCHOVER, Spiking the Judge’s guns when defendants are silent, in Law Society’s Gazette, 11 novembre 1987, p. 3233. (44) Il progetto di legge (Criminal Justice and Public Order Bill) nel suo testo originario, invece, derogava alle regole di common law col prevedere un generico dovere dell’imputato di fornire prove. La disposizione è poi stata soppressa dal testo in seguito alla opposizione del Lord Chief Justice: « To speak of the defendant beeing called upon to give evidence does not lie easily with the principle still intact... that the defendant has a free choice whether to give evidence ». Vedi J. DENNIS, The Criminal Justice and Public Order Act, The Evidence provisions, in Crim. Law Rev., 1995, p. 17. Per le accese critiche avanzate in dottrina contro il Criminal Justice and Public Order Bill, si veda: J. MACKENZIE, The great fiasco, in New Law Journal, 13 May 1994, p. 631; S. GILCHRIST, Crime reporter, in Solicitors Journal, 14 October 1994, p. 1046. (45) A conferma del principio secondo cui non è possibile, attraverso la legislazione degli statutes, derogare alle regole di common law se non in forma esplicita, si veda: Halsbury’s Laws of England, 4a ed. 1983, vol. 44, par. 904. (46) Il termine questioning corrisponde al nostro istituto dell’interrogatorio (art. 65 c.p.p.) che si colloca nella fase delle indagini di polizia ed è preceduto, come è noto, dall’avviso della facoltà di non rispondere e dalla informale contestazione dell’addebito; esso va distinto dal charge, che si riferisce al momento dell’esercizio dell’azione penale attraverso la formulazione della imputazione da parte del pubblico ministero, contenente l’indicazione specifica dei reati ascritti alla persona, la quale da indagata assume la qualità di imputata (cfr. artt. 405 primo comma, 416 c.p.p.). Per ulteriori precisazioni sul punto, si veda: O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 822, spec. p. 844 e ss.
— 254 — regola si applica al silenzio mantenuto nel momento successivo alla formulazione dell’imputazione (section 34 n. 1 lett. b)). La section 34 n. 2 riconferma implicitamente il divieto per il prosecutor di commentare il silenzio dell’indagato, ma innova nella parte in cui espressamente riconosce al giudice (magistrates’ court, judge, court) e alla giuria la facoltà di trarre, in presenza di determinate circostanze, inferenze probatorie dal silenzio dell’imputato. La norma viene costruita come disposizione di secondo grado di cui è destinatario solo il giudice, che viene autorizzato a valutare nel corso del giudizio la condotta tenuta dall’indagato durante l’interrogatorio di polizia (47). L’inferenza che viene così autorizzata si inquadra nella categoria delle direct inferen(47) Si riporta il testo integrale della section 34 del Criminal Justice and Public Order Act 1994: Effect of accused’s failure to mention facts when questioned or charged. « (1) Where, in any proceedings against a person for an offence, evidence is given that the accused — (a) at any time before he was charged with the offence, on being questioned under caution by a constable trying to discover whether or by whom the offence had been committed, failed to mention any fact relied on in his defence in those proceedings; or (b) on being charged with the offence or officially informed that he might be prosecuted for it, failed to mention any such fact, being a fact which in the circumstances existing at the time the accused could reasonably have been expected to mention when so questioned, charged or informed, as the case may be, subsection (2) below applies. (2) Where this subsection applies (a) a magistrates’ court, in deciding whether to grant an application for dismissal made by the accused under section 6 of the Magistrates’ Courts Act 1980 (application for dismissal of charge in course of proceedings with a view to transfer for trial); (b) a judge, in deciding whether to grant an application made by the accused under (I) section 6 of the Criminal Justice Act 1987 (application for dismissal of charge of serious fraud in respect of which notice of transfer has been given under section 4 of that Act); or (II) paragraph 5 of Schedule 6 to the Criminal Justice Act 1991 (application for dismissal of charge of violent or sexual offence involving child in respect of which notice of transfer has been given under section 53 of that Act); (c) the court, in determining whether there is a case to answer; and (d) the court or jury, in determining whether the accused is guilty of the offence charged, may draw such inferences from the failure as appear proper. (3) Subject to any directions by the court, evidence tending to establish the failure may be given before or after evidence tending to establish the fact which the accused is alleged to have failed to mention. (4) This section applies in relation to questioning by persons (other than constables) charged with the duty of investigating offences or charging offenders as it applies in relation to questioning by constables; and in subsection (1) above « officially informed » means informed by a constable or any such person. (5) This section does not (a) prejudice the admissibility in evidence of the silence or other reaction of the accused in the face of anything said in his presence relating to the conduct in respect of which he is charged, in so far as evidence thereof would be admissible apart from this section; or (b) preclude the drawing of any inference from any such silence or other reaction of the accused which could properly be drawn apart from this section. (6) This section does not apply in relation to a failure to mention a fact if the failure occurred before the commencement of this section. (7) In relation to any time before the commencement of section 44 of this Act, this section shall have effect as if the reference in subsection (2) (a) to the grant of an application for dismissal was a reference to the committal of the accused for trial ».
— 255 — ces, cioè delle « inferenze dirette » ricavate dal silenzio mantenuto in presenza dell’avvertimento circa le conseguenze dell’esercizio del diritto di non rispondere (silence under caution). Il testo della section 34 n. 5, per contro, ribadisce espressamente la vigenza, nella nuova legislazione, delle indirect inferences, cioè delle « inferenze indirette » ricavabili oltre che dal silenzio, anche dal generico comportamento o da particolari reazioni che può presentare l’indagato nei confronti dell’autorità che gli contesta i fatti. Il sindacato « diretto » del giudice, relativo alle modalità di esercizio del diritto al silenzio, può peraltro comportare valutazioni contra reum solo in presenza di determinati presupposti espressamente stabiliti dalla legge. La prima circostanza che viene a delimitare l’ambito di applicazione della norma concerne la necessità che il rifiuto di rispondere da parte dell’indagato all’interrogatorio di polizia si riferisca a fatti posti a fondamento della propria difesa in giudizio (section 34 n. 1 lett. a)). In altri termini, il parametro richiesto è quello della rilevanza del silenzio: occorre che il silenzio riguardi fatti oggetto della difesa in giudizio, limitatamente, cioè, ai fatti a discarico e non a quelli a carico. Nel concetto di rilevanza del silenzio, ai fini delle conseguenze probatorie che il giudice può trarre da esso, non rientra il tacere riguardo a fatti autoincriminanti. Di fondamentale importanza questa condizione, in quanto esclude la rilevanza probatoria del silenzio su altri aspetti legati alla ragionevolezza o alla utilità per le indagini di polizia, della menzione o meno di determinati fatti non favorevoli alla difesa. Inoltre, come conseguenza di questa regola, qualora nel corso dell’interrogatorio la polizia dovesse omettere di rivolgere all’interrogato domande relative alla sua difesa, il silenzio su circostanze che vertano a suo carico non può essere valutato contro di lui. Un secondo parametro previsto dalla section 34 n. 1 lett. b) riguarda la ingiustificata e irrazionale tardività della difesa, dedotta dal quadro degli elementi a carico e a discarico acquisiti nel caso concreto (48). Condizione necessaria affinché il silenzio possa acquistare una qualche rilevanza è l’esistenza di un contesto di circostanze probatorie che faccia presumere la convenienza per l’indagato di una disclosure anticipata dei fatti a discarico. Ciò significa che il fatto taciuto deve essere tale che, « tenuto conto delle circostanze presenti al momento in cui l’interrogatorio si era svolto, era ragionevole aspettarsi che fosse rivelato dall’imputato » (section 34 n. 1 lett. b)). Si tratta di un criterio generale che lascia alla discrezionalità del giudice e della giuria (common sense), senza alcuna direttiva sul punto, la valutazione delle circostanze in cui si è svolto l’interrogatorio e dei motivi che hanno spinto l’imputato a rimanere in silenzio (49). (48) In proposito, osserva G. UBERTIS, Interrogatorio di polizia, diritto al silenzio e diritto all’assistenza difensiva, in Diritto penale e processo, Corte europea dei diritti dell’uomo, 1996, p. 566, che « ...le disposizioni che permettono di apprezzare il silenzio subordinano tale attività ad una serie di garanzie dirette al rispetto della difesa e a limitare il peso stesso delle conclusioni che si possono trarre dal comportamento dell’interrogato. In particolare, è richiesto che le prove d’accusa siano talmente fondate da richiedere una qualche spiegazione da parte dell’imputato, in mancanza della quale è possibile, con un semplice ragionamento di buon senso, concludere nel senso della colpevolezza ». (49) In ordine all’aspetto della « discrezionalità affidata all’autorità giudiziaria nel formulare la deduzione probatoria, ...la riforma del 1994 ...non ha fornito alcuna indicazione »; così rileva C. MAINA, Riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul diritto al silenzio, in Leg. pen., 1997, p. 189. Peraltro, nella sentenza relativa al caso John Murray la Corte europea ha ammesso la possibilità di restrizione del diritto al silenzio soltanto con riferimento a dei parametri di « relativizzazione » desumibili dalle situazioni oggettive e soggettive del caso concreto. Cfr. C. MAINA, ult. cit., pag. 195: « una volta ammessa l’utilizzabilità in chiave inferenziale del silenzio la Corte ha tuttavia relativizzato la possibilità di affievolimento della garanzia alle circostanze del caso, con particolare riguardo alle situazioni che hanno consentito le deduzioni, al peso loro attribuito dal giudice nel pronunciare la condanna e, infine, alla possibile coazione esercitata sulla volontà dell’imputato ». La decisione della Corte europea, che ha rigettato il ricorso dell’impu-
— 256 — Sul piano interpretativo, si deve peraltro ritenere che i giudici possano prendere in considerazione le guidelines già contenute nel Report 1989 dell’Home Office Working Group. A titolo di esempio, la disposizione in esame non sarà applicabile qualora i motivi che hanno indotto l’indagato a tacere o a dichiarare il falso siano legati alla difesa della propria incolumità personale, o siano inerenti alla propria vita privata o professionale, ancorché gli stessi fatti potrebbero essere utilizzati in giudizio come prove a discarico. Sul piano comparativo, è evidente la analogia della ratio di queste linee-guida con la esimente di cui all’art. 384 primo comma c.p., che esclude la punibilità di alcuni specifici reati, compresi quelli di false informazioni od omissioni di fatti al pubblico ministero e di testimonianza falsa o reticente, quando il fatto è commesso per salvare se stessi o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Tale scriminante, dunque, costituisce una riconferma del diritto a non autoincriminarsi di cui agli artt. 198 secondo comma e 63 c.p.p., poiché fa venir meno i limiti sostanziali apportati da alcune fattispecie incriminatrici alla garanzia processuale del nemo tenetur se detegere. È interessante rimarcare che i casi di non punibilità di cui all’art. 384 primo comma c.p. vengono applicati dalla recente giurisprudenza della Corte di cassazione solo in presenza dei presupposti oggettivi dello stato di necessità e non quando i fatti, per soggettivo convincimento della persona interrogata, possano portare ad una sua incriminazione, giacché né la persona informata sui fatti, né l’indagato possono « pretendere che il diritto di non autoaccusarsi sia riconosciuto loro sulla parola » (50). Si potrebbe, allora, ritenere che anche nel processo inglese il « ragionamento di buon senso » dell’autorità giudicante in ordine alla valutazione delle motivazioni del silenzio su determinati fatti debba basarsi su parametri oggettivi e comunque riconducibili all’id quod plerumque accidit, piuttosto che rimanere ancorato a deduzioni soggettive, siano esse di iniziativa del giudice o provocate dall’interrogato. La terza limitazione, posta dalla section 34 n. 2, consiste nel fatto che le deduzioni probatorie devono essere tratte, da parte delle Magistrates’ Courts, delle Crown Courts e della giuria, dal comportamento non collaborativo dell’interrogato, soltanto qualora esse appaiano convincenti e plausibili. La section 34 n. 2 offre un certo margine di discrezionalità (51) all’organo giudiziario nell’ambito dei casi in cui consente di dedurre una inferenza che appaia « giustificata » (as appear proper) e non necessariamente una conseguenza probatoria a contenuto incriminante (non è menzionato l’aggettivo adverse) (52). Più precisamente, la norma pone delle restrizioni alla valutazione discrezionale del giudice sull’attendibilità degli elementi di prova dedotti, sia riguardo al contesto (occasions) e alle motivazioni del caso, sia riguardo al genere (kind) delle inferenze. Secondo l’opinione interpretativa più accreditata (53), il termine « proper » sta a significare « legally proper », con il risultato che il giudice, nonostante deduca le conseguenze probatorie sulla base del common sense e, quindi, secondo un profilo di fatto, trova comunque una limitazione al ragionamento inferenziale legata a canoni di diritto (as a matter of law). Pertanto, egli non può evitare di esaminare il tato, non va interpretata nel senso di un avallo della normativa del Criminal Justice Act 1994, bensì come un intervento « relativizzato » al particolare caso di specie. La disciplina del silenzio dell’Act 1994 potrebbe dunque essere oggetto di disapprovazione da parte di nuovi interventi della Corte europea. (50) Così, Cass. pen. Sez. VI, 11 giugno 1994, Palumbo, in Diritto penale e processo, 1995, n. 1, p. 90, con nota di G. UBERTIS. (51) Il potere discrezionale del giudice consiste in un power of comment sul silenzio, che può e non deve da lui essere esercitato (la norma usa il termine may e non must). Ugualmente, egli può avvertire la giuria di tener conto o di non tener conto del silenzio, ma può anche non dire alcunché. (52) Secondo R. PATTENDEN, Inferences from silence, in Crim. L.R., 1995, p. 602 ss., spec. p. 605, « the inference which is drawn is not necessarily an inference about specific facts asserted in the prosecution or defence case: it may be a general inference of guilt ». (53) J. JACKSON, Inferences from silence: from common law to common sense, cit., p. 107.
— 257 — caso anche sotto il profilo di legittimità per non pronunciarsi in contrasto con disposizioni di legge (54). Infine, una ulteriore limitazione deriva come conseguenza della previsione di cui alla section 34 nn. 1 e 2 e concerne l’obbligo per il giudice di motivare sull’inferenza stessa, obbligo strettamente legato alle ragioni che hanno indotto la persona interrogata a mantenere il silenzio, in mancanza delle quali il giudice potrebbe ritenere che la successiva difesa processuale sia artefatta per essere stata di proposito tenuta nascosta durante tutto il corso delle indagini agli organi inquirenti (ambush defence). In sintesi, si possono enucleare tre principali parametri in presenza dei quali è possibile per l’autorità giudicante esprimere il proprio convincimento nel merito anche tenendo conto del silenzio dell’indagato. In primo luogo, il rifiuto di rispondere su circostanze idonee ad autoincriminare lo stesso indagato o ad accusare terze persone non può formare oggetto di valutazione giudiziale. Il fatto taciuto dall’interrogato è rilevante solo se assume una valenza probatoria a discarico e se l’imputato se ne avvale in dibattimento come argomento a sua difesa. Inoltre, la tardività della difesa è ingiustificata solo nei casi in cui vi sia un quadro probatorio da cui emergano elementi a carico dotati di una forza persuasiva tale da fondare un giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. In terzo luogo, il ragionamento inferenziale di « buon senso » del giudice deve essere sempre ancorato alla valutazione della attendibilità delle stesse conseguenze probatorie tratte dal silenzio. Una struttura normativa analoga alla section 34 nn. 1 e 2 e con le medesime limitazioni ivi rilevate è riscontrabile nelle sections 36 e 37 del Criminal Justice Act 1994, anch’esse autorizzative di valutazioni da parte del giudice a carico dell’indiziato, qualora costui si rifiuti di rendere note determinate circostanze a sua conoscenza. Più specificamente, la section 36 affronta il problema del rifiuto dell’indagato di dare spiegazioni in riferimento a sostanze, tracce od oggetti trovati sulla sua persona o nel luogo in cui egli si trova nel momento dell’arresto. La norma stabilisce che, se l’agente di polizia ha ragione di ritenere che essi siano indicativi di un suo coinvolgimento nel reato, la scelta non collaborativa dell’indagato possa essere intesa come indizio di colpevolezza. La section 37 prevede inoltre che si possa giungere ad una conclusione probatoria sfavorevole all’indagato, in seguito al suo rifiuto di fornire spiegazioni circa la sua presenza in un determinato luogo al momento della commissione del reato, sempre che l’interrogante abbia ragionevole motivo di ritenere che tale presenza possa considerarsi indicativa della sua partecipazione criminosa (55). La natura delle inferenze probatorie che si possono trarre in forza della section 36 e (54) R. PATTENDEN, Inferences from silence, in Crim. L.R., 1995, p. 604. (55) Si riporta il testo integrale delle sections 36 e 37 del Criminal Justice and Public Order Act 1994. Section 36. Effect of accused’s failure or refusal to account for objects, substances or marks. « (1) Where — (a) a person is arrested by a constable, and there is — (I) on his person; or (II) in or on his clothing or footwear; or (III) otherwise in his possession; or (IV) in any place in which he is at the time of his arrest, any object, substance or mark, or there is any mark on any such object; and (b) that or another constable investigating the case reasonably believes that the presence of the object, substance or mark may be attributable to the participation of the person arrested in the commission of an offence specified by the constable; and (c) the constable informs the person arrested that he so believes, and requests him to account for the presence of the object, substance or mark; and (d) the person fails or refuses to do so, then if, in any proceedings against the person for the offence so specified, evidence of those matters is given, subsection (2) below applies. (2) Where this subsection applies —
— 258 — della section 37 è alquanto diversa rispetto al tipo di inferenze di cui alla section 34. Infatti, le prime due norme hanno a che fare con il coinvolgimento dell’indiziato nel reato, inci(a) a magistrates’ court, in deciding whether to grant an application for dismissal made by the accused under section 6 of the Magistrates’ Courts Act 1980 (application for dismissal of charge in course of proceedings with a view to transfer for trial); (b) a judge, in deciding whether to grant an application made by the accused under (I) section 6 of the Criminal Justice Act 1987 (application for dismissal of charge of serious fraud in respect of which notice of transfer has been given under section 4 of that Act); or (II) paragraph 5 of Schedule 6 to the Criminal Justice Act 1991 (application for dismissal of charge of violent or sexual offence involving child in respect of which notice of transfer has been given under section 53 of that Act); (c) the court, in determining whether there is a case to answer; and (d) the court or jury, in determining whether the accused is guilty of the offence charged, may draw such inferences from the failure or refusal as appear proper. (3) Subsections (1) and (2) above apply to the condition of clothing or footwear as they apply to a substance or mark thereon. (4) Subsections (1) and (2) above do not apply unless the accused was told in ordinary language by the constable when making the request mentioned in subsection (1) (c) above what the effect of this section would be if he failed or refused to comply with the request. (5) This section applies in relation to officers of customs and excise as it applies in relation to constables. (6) This section does not preclude the drawing of any inference from a failure or refusal of the accused to account for the presence of an object, substance or mark or from the condition of clothing or footwear which could properly be drawn apart from this section. (7) This section does not apply in relation to a failure or refusal which occurred before the commencement of this section. (8) In relation to any time before the commencement of section 44 of this Act, this section shall have effect as if the reference in subsection (2) (a) to the grant of an application for dismissal was a reference to the committal of the accused for trial ». Section 37. Effect of accused’s failure or refusal to account for presence at a particular place. « (1) Where — (a) a person arrested by a constable was found by him at a place at or about the time the offence for which he was arrested is alleged to have been committed; and (b) that or another constable investigating the offence reasonably believes that the presence of the person at that place and at that time may be attributable to his participation in the commission of the offence; and (c) the constable informs the person arrested that he so believes, and requests him to account for that presence; and (d) the person fails or refuses to do so, then if, in any proceedings against the person for the offence, evidence of those matters is given, subsection (2) below applies. (2) Where this subsection applies — (a) a magistrates’ court, in deciding whether to grant an application for dismissal made by the accused under section 6 of the Magistrates’ Courts Act 1980 (application for dismissal of charge in course of proceedings with a view to transfer for trial); (b) a judge, in deciding whether to grant an application made by the accused under — (I) section 6 of the Criminal Justice Act 1987 (application for dismissal of charge of serious fraud in respect of which notice of transfer has been given under section 4 of that Act); or
— 259 — dendo in maniera più immediata sulla decisione in ordine alla sua colpevolezza (56), mentre la section 34 attiene al profilo delle conseguenze sulla credibilità della linea difensiva adottata dall’indagato. Alla luce dell’intero contesto normativo del Criminal Justice Act 1994 sul diritto al silenzio, ne risulta proficuo il raffronto con il Criminal Evidence Order Act 1988 dell’Irlanda del Nord (57). Una prima differenza, assai sostanziale, concerne l’ambito della rilevanza attribuita al silenzio: nella section 34 del Criminal Justice Act essa investe esclusivamente i fatti a discarico, mentre un simile limite non si riscontra nella legislazione nordirlandese. Inoltre, l’amplissima discrezionalità conferita ai giudici irlandesi fa sì che dal silenzio essi possano dedurre qualsiasi argomento di prova compreso quello della colpevolezza idoneo a fondare anche una decisione di rinvio a giudizio, andandosi ben al di là della regola per cui il silenzio è solo prova corroborativa di altri elementi a carico. Al contrario, una interpretazione letterale del Criminal Justice Act consente di affermare che la possibilità di ricavare inferences dal silenzio non significa che esse abbiano valore di prova a carico, sia perché non è detto che debbano essere sfavorevoli (adverse), sia perché la regola di giudizio relativa all’utilizzabilità delle inferences a titolo di prosecution evidence (section 38 n. 3) (58) non consente di motivare la sentenza di condanna o il rinvio a giudizio solo sulla base del silenzio mantenuto dall’imputato su una circostanza a discarico (59). (II) paragraph 5 of Schedule 6 to the Criminal Justice Act 1991 (application for dismissal of charge of violent or sexual offence involving child in respect of which notice of transfer has been given under section 53 of that Act); (c) the court, in determining whether there is a case to answer; and (d) the court or jury, in determining whether the accused is guilty of the offence charged, may draw such inferences from the failure or refusal as appear proper. Omissis... (56) Sul problema delle conseguenze derivanti, in questi casi, da una scelta di non collaborazione, vedi il commento di M. WASIK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide to the Criminal Justice and Public Order Act 1994, 1995, cit., p. 50 ss. (57) Il Criminal Evidence Northern Ireland Order Act 1988, approvato in tempi brevissimi, senza un adeguato dibattito parlamentare, ha abolito nell’Irlanda del Nord il diritto al silenzio. Modificando la precedente rule of practice di common law secondo la quale il silenzio dell’imputato non poteva essere usato come prova contro di lui, il legislatore nordirlandese attribuisce alla corte e alla giuria, in presenza di determinate circostanze, il potere di considerare il rifiuto di collaborare come una prova positiva di colpevolezza: ciò in base ad una valutazione di common sense. Inoltre, l’Order Act, nel vanificare totalmente il right to silence, non fa più menzione della caution che doveva essere rivolta all’indiziato allo scopo di porlo a conoscenza delle conseguenze legali e processuali delle sue scelte difensive. Indicative al riguardo le osservazioni di J.D. JACKSON, Inferences from silence: from common law to common sense, in Northern Ireland Legal Quarterly, 1993; ID., Curtailing the Right to silence: lessons from Northern Ireland, in Crim. L.R., 1991, p. 409; ID., The Danger of Discretion, in Legal Action, dicembre 1992, p. 6. Vedi anche: A. ASHWORTH-P. CREIGHTON, The right to silence in Northern Ireland, in Lessons from Northern Ireland, 1990, Belfast. (58) Section 38 n. 3: « A person shall not have the proceedings against him transferred to the Crown Court for trial, have a case to answer or be convicted of an offence solely on an inference drawn from such a failure or refusal as is mentioned in section 34(2), 35(3), 36(2) or 37(2) ». (59) Da un punto di vista pratico, la probabilità che il silenzio venga utilizzato da solo od insieme ad altre prove per stabilire l’esistenza di un prima facie case è alquanto scarsa. Infatti, la section 34 prevede che un fatto taciuto in precedenza acquisti una qualche rilevanza solo se ad esso l’imputato faccia riferimento nella propria difesa, la quale, in base al nuovo obbligo di disclosure introdotto dal Criminal Procedure and Investigations Act 1996, section 5, dovrà essere rivelata, quanto alle prove a discarico da presentare in giudizio, solo dopo che l’accusa abbia per prima adempiuto all’obbligo di scoprire gli elementi a
— 260 — Un altro aspetto piuttosto delicato della riforma viene collegato al fatto che la inference è consentita soltanto quando l’indagato sia stato interrogato under caution, cioè solo nell’ipotesi in cui prima dell’inizio della informal interview sia stato reso edotto dall’ufficiale di polizia non solo del suo diritto di non rispondere alle domande che gli vengano rivolte, ma anche, come è previsto dalla nuova legge, del fatto che se farà riferimento in giudizio a fatti taciuti durante l’interrogatorio, il silenzio potrà contribuire a rafforzare il convincimento del giudice e della giuria che la sua linea difensiva è costruita su elementi falsi o comunque poco attendibili. Le critiche sollevate in riferimento alla nuova fisionomia che assume la caution nel Criminal Justice Act sono condivisibili (60). La formula della caution risulta così complicata e intimidatoria da porre totalmente in secondo piano l’avviso del diritto a rimanere in silenzio con cui essa si apre e da suscitare nell’accusato l’impressione che, se egli decide di non rispondere a talune domande, andrà incontro a conseguenze sfavorevoli in sede di giudizio (61). In pratica, la caution, per la sua formulazione letterale, finisce per operare più che come garanzia a tutela dei diritti della difesa, come monito idoneo ad incentivare l’autoincriminazione o quantomeno la estrinsecazione di dichiarazioni che anteriormente alla riforma sarebbero state evitate. La deviazione dalla ratio originaria che caratterizzava l’istituto della caution è, peraltro, mitigata, sotto il profilo pratico, dalla previsione di specifiche ipotesi in cui il silenzio è da ritenersi reasonable e, quindi, tale da impedire ogni utilizzo dello stesso in funzione probatoria. Qualora l’ufficiale di polizia si rifiuti di spiegare all’accusato che lo richieda in che senso una certa domanda sia rilevante o per quale ragione essa gli venga posta, il giudice potrà invitare i giurati a considerare questa come una di quelle circostanze in grado di rendere reasonable il silenzio dell’accusato. E ciò, nonostante che la caution abbia la specifica funzione di rendere noto alla persona di essere indagato di un reato, non quella di obbligare il constable ad indicare le ragioni in base alle quali egli abbia formulato una determinata domanda (62). La section 34 non attribuisce espressamente alcuna rilevanza al silenzio in relazione ad un altro più specifico caso, vale a dire quando il silenzio viene protratto nel periodo intercorrente tra la formulazione dell’imputazione ed il giudizio, poiché la norma fa riferimento solo al momento esatto in cui l’indagato è charged (section 34 (1) (b)). D’altronde in relazione a favore della difesa. Difficilmente, dunque, la possibilità di trarre una qualche deduzione dal precedente silenzio dell’indagato potrà influire sulla decisione relativa all’esistenza di un prima facie case che, al contrario, non potrà che fondarsi esclusivamente sulle prove a carico presentate dall’accusa. D’altronde, il meccanismo della norma di cui alla section 34 è basato su un ragionamento ex post, che non può funzionare per le decisioni (es. prima facie case, release on bail) che normalmente vengono adottate precedentemente ad una allegazione difensiva. (60) M. WASIK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide, cit., p. 54. (61) Prima dell’Act, la caution era volta a rendere l’indagato consapevole dell’esistenza del diritto al silenzio e consisteva in una frase del seguente tenore: « hai il dirittto di non rispondere a meno che tu lo voglia, ma tutto ciò che dici potrà essere usato contro di te »: « you do not have to say anything but what you say may be given in evidence ». Dopo l’Act, la modifica del testo dell’avvertimento è stata prevista al fine di rendere note all’indagato le possibili conseguenze probatorie che possono essere dedotte in seguito alla sua scelta di non collaborazione (R. RICE, Lord Chief Justice backs curb on the right to silence, Financial Times, 4 ottobre 1993). Il testo: « You do not have to say anything. But if you do not mention now something which you later use in your defence, the court may decide that your failure to mention it now strengthens the case against you ». (62) La section 34 (5) ribadisce la dottrina del caso Christie: vedi P. MIRFIELD, Two side effect, cit., p. 615.
— 261 — questa fase l’attenzione del legislatore si rivolge, in una visuale più ampia, verso la previsione dell’obbligo di una disclosure difensiva delle prove a discarico da effettuare in presenza di una precedente disclosure del prosecutore di elementi a favore dell’imputato che possano inficiare la fondatezza dell’accusa (section 5, Criminal Procedure and Investigations Act 1996). Peraltro, la presenza di un lawyer’s advise di non rivelare la linea difensiva fino a che il prosecutor non abbia reso note nell’esposizione introduttiva tutte le prove a carico in suo possesso costituisce una delle circostanze che possono contribuire a far ritenere reasonable il precedente silenzio dell’accusato. Rimane fermo che nel Criminal Justice Act il legal advice non impedisce al giudice e alla giuria di trarre comunque inferenze negative dal silenzio mantenuto durante l’interrogatorio di polizia. In definitiva, con la nuova disciplina introdotta dalla section 34, si crea una situazione in cui l’interrogato non è privato del diritto di sottrarsi al rapporto dialogico con l’autorità, anche perché di tale facoltà deve essere comunque posto a conoscenza, ma la sua effettiva libertà di scelta viene in parte sacrificata in ragione delle pregiudizievoli conseguenze che ne possono derivare. 3.2. (Segue): conseguenze processuali del silenzio dell’imputato nella fase del giudizio. — Fino all’entrata in vigore del Criminal Justice and Public Order Act 1994, l’imputato, in sede processuale, doveva essere informato dal giudice tramite una caution di tre possibili opzioni in ordine all’esercizio della sua difesa: egli poteva scegliere tra la facoltà di sottoporsi all’esame diretto e incrociato dal banco dei testimoni, la dichiarazione spontanea non giurata e la rinuncia a farsi veicolo di prova mantenendo il silenzio nel corso del dibattimento. Il diritto a non collaborare alla propria incriminazione veniva, pertanto, pienamente riconosciuto in capo all’imputato, potendo egli decidere liberamente di conservare un ruolo del tutto passivo senza particolari pregiudizi rispetto alla sua situazione processuale. La presenza di un giudice quale organo imparziale, la facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, la possibilità di conoscere tutte le prove a suo carico costituiscono un insieme di forti garanzie per l’imputato, che differenziano notevolmente la sua posizione da quella dell’indagato durante l’interrogatorio di polizia. Di conseguenza, si è sostenuto che durante il processo verrebbero meno quelle esigenze di tutela che renderebbero necessaria l’attribuzione della facoltà di non rispondere alle singole domande del giudice, facoltà che viene già anticipata dalla garanzia della volontarietà della testimonianza (63). Non deve, quindi, stupire che le proposte legislative di limitare il diritto al silenzio in fase di giudizio abbiano incontrato minori resistenze rispetto a quelle volte ad ottenere il medesimo effetto in fase investigativa (64). La riforma varata in Inghilterra nel 1994 non elimina il tradizionale principio secondo cui l’imputato non ha alcun obbligo di testimoniare, ed, infatti, un suo rifiuto in tal senso non si configura né come comportamento penalmente rilevante, né costituisce un comportamento illecito (contempt of court). Le nuove norme, tuttavia, introducono una attenuazione della portata di tale principio, producendo l’effetto di incentivare l’imputato alla collaborazione. La section 35 dell’Act del 1994 disciplina le conseguenze del silenzio mantenuto dall’imputato nel corso del dibattimento (failure to testify in court) e prevede espressamente che il giudice e la giuria possano trarre le conclusioni che ritengano ragionevoli dalla omissione dell’imputato di fornire prove a discarico attraverso la sua testimonianza o dal suo rifiuto ingiustificato di rispondere alle domande (65). Contrariamente alla legislazione dell’Irlanda del Nord e a differenza del progetto di legge originario, le nuove disposizioni non pre(63) J. GARVIE, In defence of Prosecution, in The Guardian, 31 agosto 1993. (64) Cfr., J. MCEVAN, Evidence and the adversarial process, London, 1992, p. 150. (65) Si riporta di seguito il testo della section 35 del Criminal Justice and Public Order Act 1994: Effect of accused’s silence at trial.
— 262 — vedono, invece, che il giudice richieda formalmente all’imputato di fornire prove a sua discolpa. Per quanto concerne il problema dell’incidenza del silenzio sul convincimento del giudice e della giuria, la case law inglese, prima del Criminal Justice Act stabiliva che fosse non solo ammissibile, ma anche opportuno riconoscere al giudice il potere di esprimere un sia pur limitato sindacato (comment) in relazione alla failure to testify da parte dell’imputato, qualora lo stesso giudice ritenesse che la difesa avrebbe dovuto contrastare le prove fornite dall’accusa. Inoltre, si era stabilita la regola per cui la giuria, in forza di una specifica direction che il giudice doveva rivolgerle non poteva desumere la colpevolezza dell’imputato dalla semplice circostanza che egli avesse deciso di non fornire prove e neppure aveva la facoltà di attribuire valutazioni negative al rifiuto di testimoniare. Quanto ai poteri del prosecutor, gli si era fatto assoluto divieto di trarre argomenti d’accusa dall’esercizio del right not to testify da parte dell’imputato (66). Questo quadro garantistico viene a subire un profondo mutamento con l’emanazione del Criminal Justice Act. Infatti, la section 35 autorizza sia il giudice che la giuria, ma non l’organo dell’accusa (prosecutor), a desumere argomenti di prova dal silenzio dell’imputato quando tale inferenza « (1) At the trial of any person who has attained the age of fourteen years for an offences, subsections (2) and (3) below apply unless — (a) the accused’s guilt is not in issue; or (b) it appears to the court that the physical or mental condition of the accused makes it undesirable for him to give evidence; but subsection (2) below does not apply if, at the conclusion of the evidence for the prosecution, his legal representative informs the court that the accused will give evidence or, where he is unrepresented, the court ascertains from him that he will give evidence. (2) Where this subsection applies, the court shall, at the conclusion of the evidence for the prosecution, satisfy itself (in the case of proceedings on indictment, in the presence of the jury) that the accused is aware that the stage has been reached at which evidence can be given for the defence and that he can, if he wishes, give evidence and that, if he chooses not to give evidence, or having been sworn, without good cause refuse to answer any question, it will be permissible for the court or jury to draw such inferences as appear proper from his failure to give evidence or his refusal, without good cause, to answer any question. (3) Where this subsection applies, the court or jury, in determining whether the accused is guilty of the offence charged, may draw such inferences as appear proper from the failure of the accused to give evidence or his refusal, without good cause, to answer any question. (4) This section does not render the accused compellable to give evidence on his own behalf, and he shall accordingly not be guilty of contempt of court by reason of a failure to do so. (5) For the purposes of this section a person who, having been sworn, refuses to answer any question shall be taken to do so without good cause unless he is entitled to refuse to answer the question by virtue of any enactment, whenever passed or made, or on the ground of privilege; or the court in the exercise of its general discretion excuses him from answering it. (6) Where the age of any person is material for the purposes of subsection (1) above, his age shall for those purposes be taken to be that which appears to the court to be his age. (7) This section applies — (a) in relation to proceedings on indictment for an offence, only if the person charged with the offence is arraigned on or after the commencement of this section; (b) in relation to proceedings in a magistrates’ court, only if the time when the court begins to receive evidence in the proceedings falls after the commencement of this section ». (66) Il leading case in materia è R. v. Bathurst, 1968, 2 QB 99, p. 107. Una serie di principi guida sulla natura ed estensione dei poteri del giudice e della giuria in punto di valutazione probatoria del comportamento processuale dell’imputato è stata recentemente enunciata dalla Corte d’appello nel caso R. v. Martinez-Tobon, 1994, 1 WLR 388.
— 263 — appaia convincente (proper) ed in presenza di determinate condizioni di fatto (67). Presupposto dell’applicazione della nuova disposizione è che il giudice avverta l’imputato della facoltà di presentare le prove a sua difesa e che, qualora non intenda esercitare tale diritto ovvero si rifiuti senza giustificato motivo di rispondere sotto giuramento, sarà possibile per la giuria trarre da tale comportamento, secondo un ragionamento di buon senso (common sense), valutazioni a lui sfavorevoli. In base all’interpretazione prevalente (68), il rifiuto di testimoniare è rilevante in ordine alla determinazione della colpevolezza solo nella misura in cui le prove fornite dall’accusa siano prossime alla soglia necessaria per dimostrare la responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. In tal caso il silenzio non farebbe altro che aggiungersi come riscontro delle prove a carico già disponibili, contribuendo a creare un quadro probatorio sufficiente per giungere ad una decisione di condanna. Infatti, il valore probatorio del silenzio tenuto in giudizio ha rilevanza ai fini specifici del convincimento sul merito della colpevolezza e non può in alcun modo contribuire alla formazione di un case to answer o di un prima facie case, la cui esistenza deve esclusivamente basarsi su prove ottenute aliunde. È evidente, quindi, che se manca un prima facie case, non si può desumere la colpevolezza dell’imputato solo per il fatto che questi si sia rifiutato di testimoniare. L’assenza dell’imputato dal witness box può costituire solo un elemento to reinforce the prosecution case or to undermine the case of defence (69). In definitiva, se è vero che con il Criminal Justice Act 1994 non viene abolito il right not to be compelled to testify, è anche vero che gli effetti che derivano dal rifiuto di testimoniare, in termini di pericolo di indebolimento della tesi difensiva a favore di quella dell’accusa, esercitano una tale pressione psicologica sull’imputato da indurlo quasi sempre a testimoniare, anche quando questo possa essere controproducente. Si può dunque affermare che la caratteristica della volontarietà della testimonianza, tipica del processo di common law, viene ad essere alterata dalla concreta impossibilità per l’imputato di autodeterminarsi liberamente in tale direzione. 4. Diritto al silenzio e diritto di « difendersi non provando »: il problema della ambush defence. — Il diritto al silenzio, che nel processo nordamericano costituisce un interesse di rango costituzionale non solo in forza della self-incrimination clause ma soprattutto per la sua ricomprensione nella clausola residuale del due process (diritto ad un processo equo), è riconducibile, anche nell’ottica del modello inglese, a principi processuali superiori, quali il diritto al fair trial e il diritto di difesa. Si può dunque considerare il right to silence come uno dei corollari in cui si articola il diritto di difesa e, nella specie, come una particolare espressione del « diritto di difendersi provando » (70), nella sua accezione più ampia che comprende anche l’opzione negativa (« diritto di difendersi non provando »). Nella prospettiva di un processo adversary quale quello angloamericano, l’iniziativa delle parti nella ricerca, presentazione ed elaborazione dialettica delle prove si realizza, infatti, non solo mediante l’esercizio del diritto alla controprova, ma anche attraverso l’autonoma allegazione di prove a carico o a discarico. Rientra nel diritto di presentare prove a discarico, da parte della difesa, la facoltà di non portare in giudizio alcuna prova, posto che grava sul prosecutor l’onere di provare la colpevolezza dell’imputato. In base alla logica accusatoria, in definitiva, alla difesa spetta soltanto introdurre quel dubbio (reasonable doubt) che la tesi dell’accusa deve superare; se, viceversa, l’imputato ometta di presentare elementi probatori a discarico, l’ac(67) Cfr. J. DENNIS, The Criminal Justice and Public Order Act, The Evidence provisions, in Crim. L.R., 1995, p. 17; R. PATTENDEN, Inferences from silence, in Crim. L.R., 1995, p. 602 ss., spec. p. 604. (68) V. ad es. M. WASIK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide, cit., p. 54. (69) Così, R. PATTENDEN, Inferences from silence, cit., p. 605. (70) L’espressione risale, come è noto, a G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista., 1968, p. 3.
— 264 — cusa avanzata contro di lui, qualora fosse efficacemente sostenuta dal prosecutor, verrebbe confermata. La limitazione dell’esercizio del diritto al silenzio concernente le diverse fasi processuali del riformato processo penale inglese ha senza dubbio alterato il meccanismo dell’onere della prova, anche se non si può affermare che tale restrizione abbia formalmente causato una inversione dell’onere stesso, come invece è accaduto nell’Irlanda del Nord. Fondamentalmente, la nuova normativa del Criminal Justice Act 1994 non riconosce un diritto al silenzio in senso assoluto, tale per cui dal suo esercizio si può avere la sola conseguenza di una mancanza di elementi a discarico, bensì contempla un diritto al silenzio affievolito, in quanto non libero da forme coercitive della volontà che ne condizionano l’attuazione (71). Tra queste, la più rilevante è la circostanza per cui, in presenza di fondati elementi a carico a fronte dei quali si rende necessaria una spiegazione dei fatti da parte dell’imputato, il silenzio viene valutato come riscontro al fine di apprezzare la forza persuasiva delle prove addotte dall’accusa. Ed è qui che l’equità del processo adversary sembra risultare compromessa: sulla difesa incombe una sorta di onere di controprovare l’innocenza dell’imputato e di dare giustificazione delle ragioni del comportamento processuale tenuto dallo stesso. Peraltro, non bisogna ritenere che il tipo di apprezzamento contra reum del silenzio applicabile nel caso particolare sopra descritto possa avere l’effetto di far venire meno in linea generale il carattere equo del processo e il rispetto della presunzione di innocenza. Volendo individuare quali possano essere le diverse scelte della linea difensiva dalla fase delle indagini a quella del processo e quali le conseguenze processuali di tali scelte, si possono distinguere, in sintesi, tre situazioni che, dal punto di vista della difesa, esprimono anche tre graduazioni in relazione alla gravità del rischio di valutazioni probatorie sfavorevoli. Una prima soluzione difensiva può essere quella di decidere di parlare sin dall’inizio delle indagini preliminari, rispondendo alle domande nell’interrogatorio di polizia, e successivamente, in giudizio, deponendo in qualità di testimone a discarico. La scelta di collaborare, se viene realizzata in modo lineare, chiaro e coerente in tutte le fasi del procedimento, si rivela senza dubbio la migliore, in termini di mancanza di qualsiasi inferenza probatoria a carico e di positiva valutazione della credibilità delle argomentazioni difensive. Tuttavia, è concretamente difficile, se non impossibile, mantenere tale contegno in modo coerente, a causa della introduzione nel processo inglese di un onere di allegazione e di un obbligo di discovery probatorio che ha rafforzato quella presunzione per cui, se non rivelata in tempo opportuno, la difesa è valutata come falsa o inaffidabile (72); quindi il forte condizionamento derivante dal dover decidere in breve tempo la linea difensiva più adeguata comporta, di conseguenza, il rischio per l’imputato di cadere in errori e in contraddizioni. Incoerenze, ritrattazioni, rinunce a testimoni già presentati sono tutti elementi che fanno sì che la opzione collaborativa si possa trasformare nella peggiore delle soluzioni. In secondo luogo, è possibile scegliere il silenzio completo, cioè quello costantemente serbato lungo tutto il procedimento, fino alla fine del dibattimento. Questa strada si può per(71) « The position of the defence is undermined if the accused is under compulsion or has been compelled »: è il principio espresso nel caso Ernest Saunders v. U.K. dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, settembre 1994, citato da S. GILCHRIST, Crime reporter, in Solic. Journ., 14 october 1994. (72) A. TRAVIS, Disclosure: Defence must be revealed, but right to silence stays, in The Guardian, 7 luglio 1993. Peraltro, il sistema inglese, con la nuova previsione dell’obbligo di disclosure of evidence, e col rendere più flessibili le procedure istruttorie nel trial, ha dimostrato di avvicinarsi ai sistemi misti dei paesi scandinavi: a questo proposito si vedano le interessanti osservazioni comparatistiche di J. MCEVAN, Evidence and the adversarial process, cit., 1992, p. 230 ss. Per una analisi e un commento delle nuove disposizioni del Criminal Procedure and Investigations Act 1996 relative al dovere di disclosure (prosecution disclosure, defence disclosure) entrate in vigore il 1o aprile 1997, si veda: J. SPRACK, The Criminal Procedure and Investigations Act 1996: The Duty of Disclosure, in Crim. L.R., 1997, p. 308.
— 265 — correre convenientemente solo se dal contesto probatorio del caso concreto non sia lecito ricavare sufficienti argomenti a carico dell’accusato, ovvero quando le prove prodotte dall’accusa non siano dotate di tale forza persuasiva da convincere presumibilmente il giudice nel senso della colpevolezza (73). Viceversa, nell’ipotesi in cui la prova dell’accusa sia evidente, il giudice e la giuria possono trarre dall’ostentato silenzio non più solo la limitata osservazione che la persona non avesse niente da dire a sua discolpa, ma anche tutte le considerazioni sfavorevoli che, a prescindere dalle possibili ragioni del silenzio (che potrebbero essere di per sé anche giustificate), si collegano alla natura incriminante dei fatti provati dal prosecutor (74). Ancor meno conveniente rispetto al silenzio totale, ed infatti statisticamente meno invocata, sembra essere la terza possibilità, consistente nel mantenere il silenzio nella fase investigativa, per poi sviluppare la propria difesa in contraddittorio nel trial (75). In questo caso, alla circostanza dell’aver taciuto durante le indagini, già valutabile contra reum, si aggiunge un secondo indizio di reità derivante dal fatto che le prove a difesa vengono prodotte troppo tardivamente rispetto a quello che con reasonable foundation ci si poteva aspettare in base alle circostanze del caso. Infatti, qualora l’imputato non riesca a giustificare il ritardo nello svelare la sua tesi difensiva, opera la presunzione che la difesa sia stata artefatta (ambush defence). La cd. ambush defence si configura nell’ipotesi in cui l’imputato, spesso su consiglio del proprio avvocato difensore, adotta la strategia di non rivelare fino al momento del giudizio fatti sui quali intende basare la linea difensiva, rendendo così estremamente difficile per il prosecutor controllarne e dimostrarne l’eventuale infondatezza. Dal punto di vista dell’accusa, la necessità di non incorrere in tali situazioni era stata assunta come una delle motivazioni a favore del progetto di modifica orientato nel senso di una più ampia restrizione del diritto al silenzio. In effetti, la section 34 del Criminal Justice and Public Order Act prevede che il giudice e la giuria possano considerare inaffidabile una difesa sollevata solo in fase processuale e fino a quel momento tenuta nascosta (ambush defence) e la nuova caution mira a rendere consapevole l’indagato della necessità di menzionare tutti i fatti su cui intende fondare la difesa sin dal momento dell’interrogatorio di polizia. Peraltro, forti dubbi sono stati prospettati in ordine alla legittimità di tale norma e alla configurazione della attuale caution, che costituisce una sorta di minaccia volta ad esercitare una pressione psicologica sul detenuto per (73) La case law che si sta formando in applicazione della section 34 del C.J.P.O. Act è orientata nel senso di non dedurre inferenze di colpevolezza dal silenzio dell’imputato qualora la fondatezza dell’accusa dimostri un « little evidential value »: Condron, in Crim. L.R., 1997, p. 215; Argent, in Crim. L.R., 1997, p. 346. (74) È ciò che è avvenuto, ad esempio, nel caso Murray v. U.K., la cui sentenza di condanna è stata oggetto di ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, che però non ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 6 primo e secondo comma, Conv. Eur. Dir. Uomo e quindi non compromessi né il diritto al silenzio, né il principio dell’onere della prova, né l’equità del procedimento. In dottrina, invece, si è rilevato che i giudici europei hanno confermato le deduzioni sfavorevoli tratte dal rifiuto dell’imputato di fornire spiegazioni sulle numerose ed evidenti prove a suo carico, senza peraltro aver valutato l’opportunità delle inferenze stesse in relazione alle situazioni che potevano aver indotto l’imputato a non collaborare. J. JACKSON, Inferences from silence: from common law to common sense, cit., p. 109. In riferimento al caso John Murray, si veda il commento a cura di G. UBERTIS, Interrogatorio di polizia, diritto al silenzio e diritto all’assistenza difensiva, in Diritto penale e processo, 1996, cit., p. 565; ed altresì C. MAINA, Riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul diritto al silenzio, in Leg. pen., 1997, cit., p. 189 ss.. (75) Indicativo al proposito è lo studio condotto da R. LENG, Ambush defence, Royal Commission on Criminal Justice, in The right to silence in police interrogation, 1991. Cfr. C. DYER, Evidence tainted by police behaviour in 500 cases a year, in The Guardian, 9 dicembre 1992, il quale rileva che la ambush defence si presenta nel 2% dei casi.
— 266 — indurlo a collaborare in fase investigativa e a rilasciare false confessioni, piuttosto che essere riconducibile ad una tutela dei diritti della difesa (76). Il quadro della difesa assume connotati ancor più pregiudizievoli se si consideri che anche in sede processuale il principio di « difendersi non provando » subisce una sostanziale attenuazione, anche se è pacifico che viene mantenuto integro il principio della libertà della prova, in quanto non si costringe formalmente l’imputato a deporre a propria difesa. 5. Incidenza del silenzio sui provvedimenti restrittivi della libertà personale. — Le ragioni che inducono a trattare il particolare profilo della rilevanza del silenzio sulle misure coercitive della libertà personale si legano più a una prospettiva comparatistica che non ad una esigenza di analisi del problema esclusivamente in seno alla normativa inglese. La questione, infatti, è stata oggetto, in Italia, di ampi e accesi dibattiti sia nell’ambiente giuridico che in quello politico. La prassi giudiziaria degli ultimi anni ha fatto, peraltro, registrare devianze non irrilevanti dalle garanzie predisposte dal codice di procedura penale del 1988 in materia di libertà personale. Pertanto, per lo meno fino all’entrata in vigore della legge n. 332 del 1995, l’esercizio del diritto al silenzio ha avuto forti incidenze sulla decisione di emanare provvedimenti custodiali in carcere. In particolare, le condotte di non collaborazione sono state ritenute sintomatiche dell’esistenza di un periculum per l’acquisizione della prova rilevante in sede cautelare (77). È stata dunque attribuita all’art. 274 lett. a) c.p.p. una funzione assai più allargata di quella corrispondente alla reale operatività della norma che, secondo l’intento del legislatore, doveva essere ristretta alla utilizzazione di misure cautelari contro il rischio di eventuali interventi soppressivi di fonti di prova già esistenti e non già per ottenere dati probatori dallo stesso indagato. Contro la situazione generata dalla prassi ha dunque reagito lo stesso legislatore con l’intervento dell’agosto 1995, prevedendo nel nuovo testo dell’art. 274 lett. a) c.p.p. il divieto probatorio di subordinare al comportamento non collaborativo dell’indagato la valutazione delle circostanze di concreto ed attuale pericolo di inquinamento della prova (78). Rispetto all’attuale normativa italiana, l’esercizio del right to silence previsto dal Criminal Justice Act 1994 assume solo apparentemente un’estensione minore, in quanto il tacere, in determinati casi, autorizza persino una inferenza probatoria a carico e può costituire elemento utile ai fini del convincimento sul merito. In realtà, ai sensi della section 38 n. 3, il mero silenzio non può costituire la base di una decisione relativa ad un prima facie case, vale a dire, di un provvedimento, quale quello in materia di libertà personale, che si fondi su gravi indizi di colpevolezza. Tuttavia, la section 34 n. 2 lett. b) e c) attribuisce una certa rilevanza al silenzio anche con riferimento alla decisione in ordine all’esistenza di un prima facie case stabilendo che esso possa concorrere con altri elementi nel determinare la fonda(76) In questo senso, D. DIXON, Politics, Research and Symbolism in Criminal Justice: the Right of Silence and the P.a.C.E. Act, in Anglo Amer. Law Rev., 1991, p.36; M. WASICK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide, cit., pp. 54-56. (77) Vedi ad esempio: Cass. pen., Sez. fer., 18 agosto 1991, Schiavone, in Cass. pen., 1993, p. 1507, a tenore della quale, in tema di di giudizio incidentale de libertate è corretto e congruo il riferimento da parte del giudice alla situazione consistente nella negazione degli addebiti, per dare ragione della individuazione di circostanza integrante l’attualità del pericolo per l’acquisizione delle fonti di prova, ai sensi dell’art. 274 primo comma lett. a) c.p.p.; altresì, Cass. pen. 25 gennaio 1993, Damiano, in Cass. pen., 1994, p. 2491. (78) Già da alcune sentenze della Corte di cassazione successive alla riforma del 1995 si può evincere un mutamento di tendenza nella determinazione dei criteri valutativi delle esigenze cautelari legate al pericolo di dispersione o di inquinamento della prova. « ...Non è consentito dedurre dal silenzio serbato dall’interessato la sussistenza di esigenze cautelari concernenti il pericolo di reiterazione dei reati di cui alla lett. c) dell’art. 274 c.p.p., e ciò nonostante che l’espresso divieto di valorizzare ai fini cautelari il rifiuto di rendere dichiarazioni sia contemplato dalla lett. a) dell’art. 274 c.p.p. con esclusivo riferimento al pericolo di inquinamento delle prove »: così, Cass. pen., Sez. II, 16 aprile 1996, n. 1428.
— 267 — tezza dell’accusa. Inoltre, dalla section 34 n. 5 lett. b) viene fatta salva la possibilità di dedurre, dal silenzio o da altre reazioni dell’accusato, qualsiasi inferenza che non rientri specificamente nella attuale normativa. Nel quadro della English law, esiste, in materia, una norma da cui potrebbe implicitamente ricavarsi l’esistenza di effetti pregiudizievoli in ordine a un provvedimento di custody: quella contenuta nella section 37 del Police and Criminal Evidence Act 1984. In base ad essa, il Custody Officer può disporre la detenzione dell’indagato fino ad un massimo di 96 ore, se ciò è necessario to obtain evidence questioning the suspect. Tale facoltà, che innegabilmente contrasta con le esigenze di garanzia del diritto di difesa dell’indagato, è anche da intendersi come possibilità di proseguire l’interrogatorio, anche dopo che il soggetto abbia dichiarato di non voler rispondere alle domande, al solo fine di prolungare i termini di detenzione in carcere (79). Al momento dell’arresto e dell’interrogatorio nella stazione di polizia l’indagato deve essere avvisato circa la sua titolarità di quattro specifici diritti e di tali avvertimenti deve essere fatta menzione nel verbale (80). Per quanto concerne la caution, cioè l’avviso circa le conseguenze desumibili dall’esercizio del diritto al silenzio, occorre distinguere se il provvedimento cautelare, in pendenza del quale l’indagato viene interrogato, sia stato eseguito o debba ancora essere eseguito. Nel caso in cui la misura della custody sia già stata applicata, i termini della attuale formulazione della caution non sono particolarmente confortanti per il detenuto interrogato in stato di custody. La consapevolezza che la decisione di non collaborare con la polizia si ritorcerà a suo svantaggio in fase processuale non può che comportare un indebolimento del privilege against self-incrimination. Altro inconveniente derivante dal nuovo contenuto della caution si collega alla incidenza del silenzio sui provvedimenti restrittivi della libertà personale non ancora eseguiti (81). Nei casi in cui l’agente di polizia rivolga prima dell’arresto all’interrogato l’avvertimento circa le possibili conseguenze derivanti dal suo silenzio, deve anche avvertirlo del fatto che, non essendo ancora stato arrestato, egli non è obbligato a rimanere nella stazione di polizia (Police and Criminal Evidence Act 1984, Code of Practice C, par. 10.2). L’indagato potrebbe, allora, giustificare il proprio allontanamento dichiarando che, nonostante non intenda avvalersi del diritto al silenzio giacché avrebbe molte cose da dire, in quel momento deve rinunciare a rispondere perché non ha possibilità di fermarsi a causa di altri impegni inderogabili. Prima dell’emanazione dell’Act del 1994, gli indagati accettavano comunque di essere interrogati, consci della facoltà di non rispondere. Nel vigore delle nuove norme, po(79) M. MAGUIRE, Effects of the P.A.C.E. Provisions on Detention and Questioning, 1988, 28 BJC 22. (80) I diritti di cui deve essere avvisato l’interrogato sono: il diritto di informare qualcuno della propria detenzione, il diritto alla nomina e alla presenza di un difensore (legal adviser), il diritto di consultare il Code C (Code of practice for the Detention, Treatment and Questioning of persons by police officers) e gli altri Codes of Practice, l’avvertimento in ordine all’esistenza del diritto al silenzio (caution). Altri diritti garantiti: diritto alla verbalizzazione e video registrazione dell’interrogatorio, diritto alla nomina di un custody officer, possibilità che le prove impropriamente ottenute vengano escluse discrezionalmente dal giudice in fase processuale. (81) A livello comparativo, nel nostro paese è invece diffusa la prassi dell’arresto breve o in transitu: la persona viene interrogata prima di essere tradotta definitivamente nella casa circondariale, in uno stato di « forte condizionamento della libertà morale » perché l’esecuzione definitiva della misura dipende dal tenore delle sue dichiarazioni. « Se l’indagato confessa uno o più fatti nuovi, potrà far ritorno a casa evitando il passaggio in carcere; altrimenti il provvedimento cautelare avrà piena esecuzione »: così, Sintesi a cura di L. LAMI della Relazione del Prof. E. AMODIO al Convegno sul tema « Carcerazione, collaborazione, stato di diritto », Palermo, 11 marzo 1995; « Omnis tenetur se detegere: l’abolizione del diritto al silenzio nelle indagini su affari e politica », in Cass. pen., 1995, p. 2437.
— 268 — tendo il silenzio avere conseguenze pregiudizievoli sull’ulteriore corso del processo, aumentano le probabilità che l’indagato decida di non prestare la propria disponibilità alla polizia. Molto dipenderà dal tipo di motivazione che l’indagato riuscirà ad opporre a sostegno della sua determinazione: è chiaro, infatti, che sarà più difficile per le Corti trarre una inferenza nel caso in cui l’indagato si allontani con una buona giustificazione, mentre è probabile che le Corti desumeranno inferenze dotate di maggior rilevanza qualora il pretesto per uscire dalla stazione di polizia sia piuttosto fragile. Ma ciò che più si teme, come conseguenza di questa disciplina, è il possibile instaurarsi di una prassi per cui l’agente di polizia, prevenendo la decisione — del resto, ovvia — dell’indagato di allontanarsi per non rispondere, effettuerà immediatamente l’arresto, anche quando non ricorrano i presupposti che giustifichino tale misura, al solo scopo di assicurarsi la presenza dell’indagato per interrogarlo. È auspicabile che la versione aggiornata dei Codes of Practice, trattando questo tipo di casi, possa risolvere sul piano interpretativo le potenziali contraddizioni relative alla ipotesi prospettata (82). 6. Conclusioni. Il diritto al silenzio in una prospettiva comparatistica: il Criminal Justice and Public Order Act 1994 e la l. n. 332 del 1995. — L’analisi delle norme del Criminal Justice and Public Order Act 1994 offre all’interprete lo spunto per alcune considerazioni conclusive sulla riforma inglese del diritto al silenzio ed anche l’occasione di un raffronto con la evoluzione legislativa avutasi in materia nel sistema italiano. Come è noto, nel nuovo rito penale del 1988, originariamente improntato ai canoni del processo accusatorio, la legislazione dell’emergenza (l. n. 203 del 1991, l. n. 410 del 1991 e l. n. 356 del 1992) e la prassi hanno determinato una regressione verso forme inquisitorie, sacrificando il ruolo della difesa e limitando il diritto alla prova (ad es. con l’art. 190-bis c.p.p.), a fronte di un ampliamento del valore probatorio degli elementi acquisiti dall’organo dell’accusa durante le indagini. In tale mutato contesto, che pur trova fondamento su motivazioni non tanto riconducibili a scelte di tecnica del processo, quanto piuttosto alla tutela dell’interesse pubblico alla repressione dei reati, è intervenuta, a ricostituire l’equilibrio nel rapporto tra accusa e difesa, la legge dell’ 8 agosto 1995 n. 332 sulle misure cautelari e sul diritto di difesa (83). In particolare, la l. n. 332 del 1995 ha rafforzato il diritto al silenzio stabilendo il divieto di motivare un provvedimento cautelare sulla base della non collaborazione della persona indagata (84). Nello stesso anno 1995, nell’ambito del processo inglese, il diritto al silenzio subisce, con l’entrata in vigore del Criminal Justice and Public Order Act 1994, una attenuazione. Ad un primo esame, sembrerebbe che i due interventi legislativi siano caratterizzati da una notevole differenza. Il contrasto è più apparente che reale. Infatti, guardando più a fondo le ragioni che hanno determinato la riforma del processo inglese e le motivazioni che hanno spinto il legislatore a toccare anche la materia del diritto al silenzio, si deve riconoscere che con il Criminal Justice and Public Order Act 1994 non si determina una svolta in senso inquisitorio del sistema processuale penale inglese. In linea generale, le radici della common law inglese rimangono inalterate e l’attuale sistema continua ad essere privo di connotazioni di matrice continentale. È piuttosto difficile pensare che il legislatore inglese del 1994 si sia voluto orientare verso la tradizione proces(82) M. WASICK-R. TAYLOR, Blackstone’s Guide, cit., p. 56. (83) Cfr. E. AMODIO, Primi passi verso un ritorno ai principi garantistici del codice del 1988, in AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di E. AMODIO, Giuffrè, 1996, p. 1 ss.. (84) Nella nuova formulazione dell’art. 274 lett. a) c.p.p. è stabilito espressamente che: « Le situazioni di concreto ed attuale pericolo (di inquinamento probatorio) non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni (sott. autoincriminanti) né nella mancata ammissione degli addebiti ».
— 269 — suale della civil law: una simile retrospettiva, oltre che essere antistorica, sarebbe alquanto dissonante con l’ambiente culturale inglese, fedele alle regole della common law e poco propenso « ad affacciarsi alla finestra dell’Europa continentale » (85). D’altra parte, non si potrebbe neppure affermare che la riforma inglese abbia ricalcato il medesimo fenomeno di arretramento dalle garanzie proprie del processo accusatorio che ha caratterizzato, invece, l’evoluzione legislativa italiana degli ultimi anni, dal 1991 fino al 1994. Piuttosto, quella del Criminal Justice and Public Order Act rimane una scelta funzionale e non di sistema, considerati gli obiettivi che si ricollegano alla nuova disciplina (86). Infatti, sebbene non si possa sottovalutare che il progetto di legge (Bill) del Criminal Justice and Public Order Act del 1994 nasce in un contesto sociale e politico in cui emerge in modo sempre più inquietante nell’opinione pubblica l’esigenza di un sistema di giustizia penale sufficientemente adatto a combattere l’aumento della criminalità, le soluzioni adottate nella stesura definitiva dell’Act rappresentano spesso soluzioni di compromesso nell’ottica di un equilibrio tra esigenze investigative e diritti della difesa. Il rischio di un affievolimento delle garanzie a tutela delle persone indagate rimane comunque dovuto, nel sistema inglese, a ragioni attinenti all’emergenza della criminalità e del terrorismo e non legato alla volontà di introdurre forme inquisitorie (87). Per ciò che concerne più specificamente il punto riguardante il diritto al silenzio, occorre osservare che gli interventi legislativi del 1995 vengono costruiti, rispettivamente in Italia e in Inghilterra, su due diversi terreni di partenza. Con la l. n. 332 del 1995 si è tentato di porre riparo ad una situazione, per lo più determinata dalla prassi, di abuso delle misure cautelari ai fini di ottenere dichiarazioni confessorie o delatorie dall’interrogato. La introduzione di un divieto specifico quale quello contenuto nella lett. a) dell’art. 274 c.p.p., di per sé poco giustificabile a livello sistematico se rapportato al più generale principio del nemo tenetur se detegere, si è reso necessario dopo che nella giurisprudenza si era ormai diffuso il concetto del dovere di collaborazione dell’indagato alla acquisizione degli elementi probatori utili alle indagini (88). Una simile situazione era ben lontana dal delinearsi nel contesto culturale del processo di common law e non costituiva certo un problema che il legislatore inglese era chiamato a risolvere. In Inghilterra, l’obiettivo che si è voluto realizzare con il Criminal Justice and Public Order Act 1994 non è stato quello di evitare che il giudice individui nel rifiuto di collaborare situazioni di pericolo di inquinamento probatorio o che tragga conseguenze probatorie dal rifiuto di rendere dichiarazioni autoincriminanti, bensì, piuttosto, quello di ampliare il sin(85) Così E. AMODIO, La fase anteriore al dibattimento nella esperienza comparativa: modelli e problemi, in Quaderni della Giustizia, 1985, n. 44, p. 58. (86) Rispetto al progetto dell’Home Secretary (Ministero dell’Interno), che contemplava l’introduzione di ventisette ambiti di riforma con lo scopo di debellare la criminalità (« 27-point plan to crack down on crime »), l’Act del 1994 ne ha realizzato diciannove, rappresentando, da questo punto di vista, il momento culminante dello sforzo del governo volto a restituire efficacia al sistema processuale penale inglese. (87) ... anche se, in assenza di un sistema a « doppio binario », lo sfaldamento delle salvaguardie processuali preesistenti alla riforma del Criminal Justice Act 1994 è andato spesso al di là delle motivazioni che la avevano prodotta, estendendosi da alcuni limitati settori caratterizzati da un maggior allarme sociale a gran parte dell’area penalistica. Per gli interventi legislativi in tema di terrorismo, si vedano le disposizioni del Prevention of Terrorism Act, 1989. Il Criminal Justice Act 1987, nella section 2, disciplina particolari poteri investigativi del Serious Fraud Office per i reati più gravi (serious frauds). Altro organo inquirente nei confronti del quale l’indagato ha un dovere di collaborare e di dare informazioni per la prosecuzione delle indagini è rappresentato dagli inspectors del Department of Trade and Industry, competente nel settore societario e delle assicurazioni. (88) Cfr., sul punto, le osservazioni di G. FRIGO, Commento sub art. 3, in La riforma della custodia cautelare, inserto Sole 24 Ore del 4 agosto 1995, p. 6. In senso critico, parla di « manipolazioni additive » G. GIOSTRA, Una prima valutazione della riforma: novità, limiti e prospettive, in Diritto penale e processo, 1996, p. 114.
— 270 — dacato del giudice in relazione alla valutazione del silenzio dell’indagato su fatti utili alla propria difesa, così da consentire al prosecutor di esaminare tempestivamente e di utilizzare gli elementi di prova portati dalla difesa. Il legislatore del 1994, non volendo ancora introdurre un onere formale di allegazione difensiva prima del giudizio, ha creato un « onere di lealtà » della difesa. Pertanto, in base al C.J.P.O. Act 1994, se l’imputato allega in giudizio fatti sui quali nel corso delle indagini ha taciuto e la cui rivelazione poteva giovare a sua discolpa, è legittimato a tale produzione probatoria, ma può non venire « creduto ». La sanzione si pone dunque in termini di credibilità delle allegazioni difensive. Peraltro, la legislazione statutaria del 1996 si è evoluta verso un inasprimento della sanzione fino ad ora esistente. Allo stato attuale, dal 1o aprile 1997, data di entrata in vigore del Criminal Procedure and Investigations Act 1996, l’inosservanza dell’obbligo di disclosure difensiva, imposto dalla section 5 soltanto nel caso di previa disclosure dell’accusa (primary prosecution disclosure), comporta l’applicazione di sanzioni lasciate al potere discrezionale della Corte nel trial on indictment, consistenti nel comment del caso e nella deduzione di argomenti di prova, in ordine alla colpevolezza dell’imputato. Se è vero che la riforma del diritto al silenzio ha comportato in seno al processo inglese una limitazione del diritto di difesa, con la previsione di un obbligo di lealtà difensiva, non bisogna tuttavia credere che la nuova normativa abbia introdotto un obbligo di collaborare in capo all’indagato. Anche se, effettivamente, il Criminal Justice Act 1994 ha allargato i poteri della polizia, ha condizionato i modi e i tempi dell’intervento della difesa e ha attribuito una certa rilevanza probatoria al silenzio dell’indagato nella fase delle indagini, è pure evidente che si è ben lontano dall’aver attribuito al giudice la facoltà di trarre dal rifiuto di collaborare con le autorità inquirenti qualsiasi conseguenza negativa a carico dell’imputato. Un tale regime, basato su una sorta di coercizione morale all’autoincriminazione, si stava invece diffondendo in Italia anteriormente alla riforma della l. n. 332 del 1995, ma non è paragonabile a quello attualmente vigente in Inghilterra. Le inferences menzionate nelle norme dell’Act del 1994 non attengono all’esercizio del diritto di non collaborare, inteso come diritto di non svelare fatti a proprio carico, aventi un contenuto autoincriminante, ovvero a carico di terzi, aventi un contenuto delatorio. Esse attengono, propriamente, all’esercizio del diritto di tacere su fatti a proprio discarico. Lo schema delle conseguenze processuali del silenzio potrebbe essere rapportato all’art. 209 del nostro c.p.p., tenendo conto però che questa norma non è esplicita sulla distinzione delle conseguenze deducibili dalla mancata risposta su un fatto autoincriminante o su un fatto a propria difesa. In ogni caso, del rifiuto dell’imputato di rispondere a una domanda durante l’esame in dibattimento ne è solo fatta menzione nel verbale, per cui tale circostanza non può essere valutata come argomento di prova a carico. Il legislatore inglese, in modo più preciso rispetto al nostro c.p.p., ha riferito la facoltà di valutazione probatoria del giudice esclusivamente al diritto di difendersi tacendo e non già al diritto a non collaborare o a non autoincriminarsi, né al diritto a non ammettere gli addebiti e neppure al diritto a non svelare fatti contro terzi, intendendo così salvaguardare l’integrità di tali interessi. La normativa inglese sul diritto al silenzio non comporta, in definitiva, altre conseguenze se non una limitazione del diritto di difesa. Allo stato attuale, grava sulla difesa un « onere di controprova » tempestivo delle circostanze a carico, introdotto per scongiurare le ambush defences (89). L’allegazione tardiva in giudizio di fatti di cui non si abbia fatto men(89) Questa affermazione si può ritenere tuttora valida, nonostante le nuove previsioni del Criminal Procedure Act 1996. La drasticità della nuova normativa, quanto alla previsione di un termine perentorio entro al quale è obbligatoria l’allegazione difensiva, attiene al caso in cui l’accusa abbia previamente rilevato elementi a favore della difesa e comunque idonei ad indebolire l’assunto accusatorio, e non si applica dunque al caso in cui il prosecutor abbia, invece, sostenuto il suo case avvalendosi di elementi a carico che intenda produrre
— 271 — zione in sede di indagine o dopo il charge comporta la perdita di persuasività della tesi difensiva. Infatti, il Criminal Justice Act 1994 prevede che il giudice e la giuria possano considerare inaffidabile una difesa sollevata solo in fase processuale e fino a quel momento tenuta nascosta senza giutificato motivo (ambush defence); d’altra parte, la nuova caution mira a rendere consapevole l’indagato della necessità di menzionare sin dal momento dell’interrogatorio di polizia tutti i fatti a sua conoscenza su cui intenda basare la propria difesa. La ricostruzione della disciplina inglese sul diritto al silenzio non consente, inoltre, di ritenere che il tacere possa incidere sui provvedimenti restrittivi della libertà personale tanto da attribuire all’autorità giudicante il potere di trarre dal silenzio stesso, in via presuntiva (presunzione di colpevolezza), un giudizio relativo alla personalità dell’indagato (presunzione di appartenenza al mondo criminale), così come invece ricavava in via interpretativa la giurisprudenza italiana dall’art. 274 lett. a) e c) c.p.p. (90). Giova ricordare, in proposito, che il dovere di collaborazione che nasceva da tale interpretazione e che si poneva in acceso contrasto con il principio fondamentale del diritto di difesa (difendersi non provando) risulta ormai superato dalla chiara lettera dell’art. 274 lett. a) c.p.p., modificato dalla l. n. 332 del 1995. In definitiva, si può sostenere che la nuova normativa inglese sul diritto al silenzio richieda all’indagato e all’imputato un maggior impegno nella tempestività e nella lealtà della difesa (onere ormai consolidato con la più recente previsione di un termine di decadenza per la defence disclosure), non sempre consentendo a tali soggetti di avvalersi di una linea autodifensiva autenticamente libera e spontanea, né sotto il profilo dei contenuti delle allegazioni probatorie, né dal punto di vista della tecnica e della strategia di difesa. Peraltro, nel sistema processuale così riformato, già si è visto, non si può parlare di abrogazione del diritto al silenzio tout court, bensì semmai di affievolimento o attenuazione del ius tacendi, giacché, dei vari aspetti che lo compongono, viene abolito il solo diritto dell’indagato a non svelare fatti utili alla propria difesa a fronte di un quadro probatorio in cui emerga l’evidenza della prova della colpevolezza. ANNA MARIA CAPITTA Dottoranda di ricerca in Diritto processuale penale comparato nell’Università di Milano
in giudizio per chiedere la condanna dell’imputato. Per questa seconda eventualità, si ritiene che possano ancora verificarsi fenomeni di ambush defence, cui va ricollegata la disciplina sanzionatoria del Criminal Justice Act 1994 e non quella del Criminal Procedure Act 1996. (90) Finché la persona che si avvaleva di un tal diritto era considerata pericolosa, in quanto si presumeva che continuasse a mantenere un legame con l’ambiente criminale, si costringeva la stessa ad adempiere, prima o poi, al dovere di autoincriminarsi o di accusare terzi. Il contegno omissivo autorizzava, perciò, un giudizio sfavorevole sulla personalità dell’indagato, tanto da costituire motivo per negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p.: cfr. Cass. pen., 18 gennaio 1993, Tufano, in Giust. pen., 1994, II, c. 855.
RIVISTA BIBLIOGRAFICA
M. GELARDI, Il dolo specifico, Cedam, Padova, 1996, pp. X-349. 1. Le notevoli difficoltà di definizione del dolo specifico e della sua armonizzazione con le istanze di offensività costituiscono il motivo del particolare interesse della dottrina più recente per un istituto tradizionalmente negletto e semplicisticamente ricondotto a una forma di dolo. Per cui Gelardi, nell’accostarsi a questa problematica, osserva come « il concetto di ‘‘dolo specifico’’ sia il più controverso e al contempo il più accettato fra tutti i concetti dell’odierna dogmatica penalistica (si potrebbe dire il più controverso fra i concetti tradizionalmente accettati) » (p. 118). In sostanza, come evidenzia l’A. nell’introduzione, le difficoltà che presenta questo istituto deriverebbero dalla crisi dell’astratto modello belinghiano della simmetrica corrispondenza tra elementi oggettivi e soggettivi del reato. Per cui, nella consapevolezza dell’importanza delle istanze di politica criminale che spingono inevitabilmente in qualche misura a soggettivizzare l’illecito, ci si dovrebbe comunque sforzare di salvaguardare la dimensione offensiva del dolo specifico. 2. Ciò premesso, l’A. ricostruisce anzitutto le vicende storiche del dolo specifico, il cui nucleo concettuale risalirebbe essenzialmente all’animus negoziale del diritto romano. Nel secolo scorso i giuristi della scuola classica avrebbero cercato di ricondurre il dolo specifico alla realtà esteriore; mentre i positivisti tendevano a confondere il dolo specifico con i moventi individuali atipici. Sicché per l’A. l’odierna nozione di dolo specifico sarebbe stata per la prima volta chiaramente enunciata dal Manzini, come scopo descritto dalla fattispecie tipica in aggiunta alla volontà del fatto (dolo generico) e il cui effettivo conseguimento da parte del reo è irrilevante. Le incertezze d’inquadramento del dolo specifico nell’elemento soggettivo o oggettivo, sarebbero poi particolarmente evidenti nella moderna letteratura penalistica. Così, allargando lo sguardo alla dottrina tedesca, vengono in rilievo quelle teorie che hanno dato esclusiva rilevanza all’aspetto soggettivo. Come quella che ha inteso il dolo specifico come un « elemento subiettivo dell’antigiuridicità », risultando il fatto realizzato più limitato rispetto a quello voluto ed essendo la contrarietà al diritto condizionata dalla finalità soggettiva. O come la teoria finalistica dell’azione che, portando a estreme conseguenze la concezione soggettivistica del dolo specifico, ha asserito che la volontà è sempre diretta a uno scopo, sia esso tipico o meno. Tali costruzioni producono ancor oggi effetti nella dottrina tedesca dominante, che ritiene il dolo specifico un elemento soggettivo ‘puro’, privo di refluenze offensive. Conclusioni dalle quali non è molto distante la nostra dottrina tradizionale, che si è limitata a inquadrare il dolo specifico come una forma di dolo. Mentre solo più di recente sono state proposte teorie volte ad attrarre in vario modo il dolo specifico nell’elemento oggettivo del reato. Così, dall’excursus storico tracciato l’A. deduce anzitutto l’esigenza di distinguere il dolo specifico, in quanto finalità tipica, dai moventi della condotta e dalle mere manifestazioni sintomatiche della personalità dell’agente. Inoltre il dolo specifico si connoterebbe sia per la sua elettività, venendo assunto discrezionalmente dal legislatore a elemento essenziale della fattispecie; sia per il suo carattere trascendente, occorrendo che la finalità « sia proiettata verso alcunché di esterno e aggiuntivo rispetto alla condotta tipica e all’evento, oggetto del dolo generico » (p. 158).
— 273 — 3. L’A. passa quindi ad analizzare le diverse tipologie di dolo specifico, distinguendo essenzialmente tre situazioni. a) In un primo gruppo di fattispecie il dolo specifico adempirebbe un ruolo restrittivo della punibilità. Così ad es. nei reati di falsità in scrittura privata (art. 485 c.p.), in foglio firmato in bianco (art. 486) e di sostituzione di persona (art. 494), nei quali il fine di trarre vantaggio andrebbe inteso per l’A. secondo un criterio misto ‘‘oggettivo-soggettivo’’. Per cui « si riterrà vantaggioso tutto ciò che il soggetto agente ritiene essergli in qualche modo utile, siccome satisfattivo di un bisogno, fino al limite della rilevante e notevole divergenza fra la considerazione individuale e la considerazione sociale dell’utilità » (p. 171). E ciò a differenza di quanto si verificherebbe nei reati contro il patrimonio, nei quali il fine di trarre profitto andrebbe invece valutato in senso più strettamente economico. In sostanza, in tutte queste ipotesi il dolo specifico svolgerebbe una funzione restrittiva della punibilità perché l’offesa si verificherebbe già con la commissione di una condotta sufficientemente determinata dal legislatore nelle sue modalità di realizzazione. Mentre in quei reati che si consumano solo con l’effettivo conseguimento del profitto da parte dell’agente (come ad es. la truffa), la condotta tipica si caratterizzerebbe per la sua tendenziale genericità. Di conseguenza, in questa prospettiva estremamente problematica si presentava la figura dell’abuso d’ufficio (beninteso, nella formulazione normativa previgente), nella quale a una condotta assai indeterminata corrispondeva una tipizzazione del vantaggio nella forma del dolo specifico. Sicché la realizzazione dell’offesa sembrava restare al livello delle semplici intenzioni dell’agente. b) In altri casi il dolo specifico svolgerebbe la funzione di estendere la sfera dell’intervento penale. Si tratta di fattispecie in cui la condotta non è sufficientemente determinata né è di per sé penalmente rilevante, incentrandosi piuttosto le ragioni dell’incriminazione proprio nelle particolari finalità perseguite dall’agente. Il problema che allora si pone è quello della distinzione tra reati e dolo specifico e di attentato. In proposito la dottrina tradizionale ha affermato che i primi si caratterizzerebbero per il particolare atteggiamento soggettivo, i secondi per l’oggettiva pericolosità degli atti. E il legislatore avrebbe utilizzato determinate locuzioni per indicare il dolo specifico (« al fine di ... », « allo scopo di ... », « per ... », ecc.), altre espressioni per tipizzare i delitti di attentato (atti o fatti « diretti a ... », comportamenti « atti a cagionare ... », ecc.). In senso contrario tuttavia l’A., attraverso l’analisi di varie fattispecie, pone in evidenza la scarsa importanza della diversa terminologia normativa. Per cui in realtà « il legislatore mostra di ritenere indifferente l’uso di una locuzione piuttosto che un’altra, tanto da includerle nel corpo di una stessa norma » (p. 209). In questa prospettiva, allora, l’alternativa che si pone è quella di stabilire se tutti i delitti di attentato siano in realtà a dolo specifico, ovvero se i reati in cui il dolo specifico estende la punibilità non siano altro che delitti di attentato. Ebbene, dinanzi a questa alternativa all’A. è parso preferibile optare per la seconda soluzione, introducendo il requisito dell’idoneità nella struttura del dolo specifico. Quindi, se si prende in considerazione in via esemplificativa la fattispecie di associazione per delinquere, lo scopo di commettere più delitti richiederebbe la predisposizione di un apparato organizzativo adeguato rispetto al programma criminoso che s’intende realizzare. c) In certi casi, infine, il dolo specifico è in realtà ricompreso nel dolo generico, consistendo in una finalità che deve effettivamente verificarsi. In altre ipotesi, poi, lo scopo perseguito dall’agente non solo non avrebbe carattere illecito, ma avrebbe una connotazione eticogiuridica positiva, dando luogo pertanto alla previsione da parte del legislatore di un trattamento punitivo più mite. Orbene, in tutti questi casi il dolo specifico svolgerebbe soltanto una funzione meramente ‘selettiva’ della punibilità, costituendo un elemento tipico che concorre a determinare i limiti della fattispecie. 4.
L’introduzione del requisito dell’idoneità nella struttura del dolo specifico nei casi
— 274 — in cui quest’ultimo estende la soglia della punibilità, servirebbe quindi a dare una certa consistenza offensiva a fattispecie peraltro caratterizzate da uno scarso livello di determinatezza. Anche se l’A. raccomanda al legislatore un uso cauto del dolo specifico, prospettando dei criteri orientativi di tipizzazione. Gelardi conclude il suo lavoro prendendo posizione sul problema della natura giuridica del dolo specifico, che sarebbe strutturalmente identico al dolo generico differendo soltanto per il suo particolare oggetto, l’evento finalistico. Infatti, anche nel caso del dolo specifico vi sarebbe « una sufficiente corrispondenza tra il voluto e il realizzato, almeno nella misura del parzialmente realizzato (...). D’altronde, che l’elemento rappresentativo e volitivo possa eccedere la realizzazione criminosa, senza che venga meno il nesso minimo di corrispondenza tra la soggettività e l’oggettività del reato e con esso la ragion d’essere del dolo, non può essere messo in discussione, perché altrimenti si dovrebbe rivedere da cima a fondo la dogmatica del tentativo e dell’attentato » (p. 347). (Ignazio Giacona)
The International Criminal Court: Observations and Issues before the 1997-98 Preparatory Committee; and Administrative and Financial Implications, Joint Project of: International Association of Penal Law - International Human Rights Law Institute, DePaul University International Institute of Higher Studies in Criminal Sciences - International Law Association, American Branch, Committee on ICC. Erès, Toulouse, 1997, pp. V-290. Della creazione di un meccanismo internazionale a carattere permanente per la repressione dei c.d. delicta iuris gentium, ossia dei crimini lesivi degli interessi della comunità degli Stati, si discute da anni. Numerosi progetti, elaborati già a partire dal primo dopoguerra sia a livello intergovernativo, sotto l’egida della Società delle Nazioni e poi delle Nazioni Unite, sia in ambito non governativo, erano rimasti senza esito. Ora, anche in seguito all’istituzione dei Tribunali penali internazionali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda, il tema è oggetto di un rinnovato interesse. La Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, tornata ad occuparsi dell’argomento dopoché i progetti di articoli redatti nei primi anni cinquanta erano stati accantonati, ha ultimato nel 1994 un nuovo progetto di statuto di una corte penale internazionale. Questo testo è attualmente in discussione di fronte al Comitato preparatorio nominato nel 1996 dall’Assemblea generale in vista di una conferenza diplomatica che dovrebbe tenersi a Roma nel giugno 1998 e condurre all’adozione di una convenzione. Il volume qui considerato raccoglie le osservazioni di vari esperti nel campo del diritto internazionale penale sulle problematiche che la realizzazione di un sistema internazionale di giustizia penale solleva dal punto di vista giuridico, politico e finanziario. L’obiettivo è quello di fornire al Comitato preparatorio dell’ONU spunti e suggerimenti e sotto il profilo metodologico e sul piano del contenuto normativo. Sebbene si tratti di un’opera destinata inevitabilmente a perdere di interesse a causa del rapido progredire dei lavori in seno al Comitato, il quale ha già avuto occasione di riunirsi più volte nel corso del 1997, essa offre una sintetica ed efficace panoramica sui principali temi in discussione. Il testo si apre con i contributi di Bassiouni, già artefice di un progetto di statuto di un tribunale penale internazionale, e di Politi, consigliere giuridico della missione permanente dell’Italia alle Nazioni Unite. I due autori tracciano un quadro d’insieme delle questioni affrontate durante le sessioni tenute dal Comitato nel 1996. Gli aspetti di maggior interesse vengono poi approfonditi in una serie di studi svolti dai membri del « Committee on the International Criminal Court » istituito nell’ambito dell’International Law Association (American Branch). Ad essi è affiancato anche un esame, svolto da Warrick sulla scorta dell’esperienza maturata nell’ambito del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia, dei problemi che si pongono dal lato amministrativo e finanziario. Dall’analisi del progetto della Commissione del diritto internazionale e delle proposte discusse in seno al Comitato preparatorio emerge che due sono essenzialmente le questioni
— 275 — dalla cui soluzione dipenderà l’effettivo funzionamento della futura Corte penale internazionale: 1) la definizione dell’ambito della giurisdizione ratione materiae; 2) l’individuazione delle condizioni per l’esercizio della giurisdizione e dunque la definizione dei rapporti tra la Corte e le giurisdizioni nazionali. Quanto al primo aspetto viene in evidenza come all’interno del Comitato preparatorio si profili una netta distinzione tra gli Stati favorevoli ad estendere la giurisdizione della Corte ai crimini, purché particolarmente gravi, cui è attribuito carattere di « internazionalità » sulla base di convenzioni multilaterali (in modo da ricomprendervi il terrorismo internazionale e gli illeciti legati al traffico di droga) e gli Stati che preferirebbero invece una giurisdizione limitata unicamente ai delicta iuris gentium previsti dal diritto consuetudinario. Come esattamente osserva Politi, se la prima soluzione ha il vantaggio di venire incontro alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo spesso sprovvisti di un sistema giudiziario idoneo a fronteggiare l’offensiva del crimine internazionalmente organizzato, un ampio allargamento dell’ambito della giurisdizione potrebbe rallentare se non impedire il funzionamento della Corte in considerazione della prevedibile gravosità del carico di lavoro. Vi è però chi obietta, come Sadat Wexler, che quest’inconveniente potrebbe risolversi affidando ad una camera speciale la giurisdizione su determinati crimini transnazionali e creando un meccanismo di filtro che eviti che siano portati di fronte alla Corte casi di scarso rilievo. Da più parti è comunque messa in luce l’incertezza che sussiste intorno alla stessa definizione di queste due categorie di crimini, con riguardo e ai cosiddetti treaty crimes e ai delicta iuris gentium. Tra i primi correttamente qualcuno suggerisce che dovrebbe operarsi una scelta in modo da sottrarre alla competenza della giurisdizione internazionale quegli illeciti che risultano meglio perseguibili sul piano interno e per i quali già esiste una cooperazione giudiziaria efficace tra gli Stati. Quanto ai secondi restano da sciogliere i nodi fondamentali relativi all’inclusione o meno nella competenza della Corte dell’aggressione e dei crimini di guerra compiuti nell’ambito di conflitti armati non internazionali, poiché vi è ancora chi dubita che tali atti possano costituire fonte di responsabilità penale individuale sul piano del diritto internazionale generale. Nel volume in esame è espressa l’opinione concorde che entrambe le fattispecie di reato debbano essere ricomprese nella giurisdizione della Corte. In particolare alcuni autori quali Bassiouni e Blakesley sottolineano, con riguardo alle violazioni del diritto umanitario commesse nei conflitti armati interni, come sia preferibile rispetto ad una formula di compromesso, che lasci la questione sostanzialmente impregiudicata delegandone la soluzione alla Corte medesima (come è accaduto nell’art. 3 dello Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia), una definizione precisa dell’ampiezza della giurisdizione su questo punto. Un’importanza decisiva viene attribuita da tutti i commentatori al contenuto delle norme che nel progetto di statuto delineano il rapporto tra l’istituenda Corte penale internazionale e le giurisdizioni nazionali. Secondo l’orientamento che sembra prevalere all’interno del Comitato preparatorio, la Corte è destinata ad operare quale meccanismo per supplire alle deficienze delle giurisdizioni penali nazionali e comunque di fronte a crimini di particolare gravità. Notevoli contrasti sussistono tuttavia in ordine alla definizione della posizione di « complementarità » attribuita alla Corte e cioè circa le condizioni in base alle quali essa potrà esercitare la propria giurisdizione: secondo alcuni Stati la Corte dovrebbe operare solo in casi ben circoscritti e cioè quando i tribunali interni non siano in grado di funzionare o comunque manifestamente si astengano dal perseguire i colpevoli; secondo altri l’istituzione internazionale dovrebbe invece costituire il rimedio ad una più vasta serie di carenze dei sistemi interni, tra cui l’assenza di equità e di imparzialità. In quest’ultimo caso però l’avvio di un procedimento davanti alla Corte necessariamente presupporrebbe la formulazione di un giudizio negativo sull’azione degli organi giudiziari statali. Nessuno dei commentatori in realtà suggerisce una soluzione precisa: ci si limita a sottolineare l’esigenza che sia preservata l’indipendenza di giudizio della Corte quanto alla determinazione della propria competenza ed all’efficacia dell’azione dei tribunali interni, delimitando tuttavia in modo preciso la
— 276 — sua discrezionalità attraverso una definizione puntuale dei casi in cui si può parlare di « inefficacia » delle giurisdizioni nazionali. Un’altra questione decisiva attiene all’esercizio dell’azione penale. Nel progetto elaborato dalla Commissione del diritto internazionale solo con riguardo al crimine di genocidio è consentito ad un qualsiasi Stato parte allo Statuto di dare avvio ad un procedimento di fronte alla Corte. Rispetto agli altri crimini il ricorso alla Corte è permesso solo agli Stati che abbiano accettato la giurisdizione della Corte medesima in relazione al crimine denunciato e tale giurisdizione deve essere stata accettata anche dallo Stato che ha in custodia l’autore del delitto e dallo Stato nel cui territorio è stato commesso il crimine. All’interno del Comitato preparatorio si fronteggiano le posizioni di quanti vedono in questa soluzione l’unico modo per favorire una partecipazione universale allo Statuto, preservando la sovranità degli Stati, e di chi invece vuol restringere questo regime di preventiva accettazione della giurisdizione ai crimini di minore gravità, impedendo così agli Stati interessati di ostacolare l’opera della Corte di fronte ai delitti piu odiosi. In proposito più studiosi affermano l’importanza di un ampliamento delle ipotesi in cui la giurisdizione della Corte non sia condizionata al consenso espresso preventivamente dagli Stati coinvolti, soprattutto quanto ai crimini piu gravi, in particolare i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Essenziale affinché la Corte possa effettivamente svolgere un’azione incisiva è ritenuta anche l’attribuzione all’accusa del potere di avviare il procedimento ex officio, così come è previsto negli Statuti dei Tribunali penali internazionali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda. L’operato della nuova giurisdizione penale internazionale potrebbe inoltre risultare notevolmente compromesso in relazione all’accertamento del crimine di aggressione. Restano infatti da chiarire i rapporti tra la Corte ed il Consiglio di sicurezza con riferimento al potere di quest’ultimo, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, di determinare quando si è in presenza di un atto di aggressione: nell’attuale formulazione del progetto di Statuto un procedimento relativo ad un tale crimine non può prendere avvio di fronte alla Corte se il Consiglio di sicurezza non ha stabilito che lo Stato interessato ha commesso un’aggressione. L’opinione generale è che l’indipendenza della Corte nella determinazione della responsabilità penale degli individui debba essere salvaguardata al fine di evitare che la comprovata riluttanza del Consiglio di sicurezza nel riconoscere uno Stato colpevole di aggressione impedisca alla Corte di operare al riguardo. È infine approfondito da diversi autori l’aspetto relativo alla definizione delle fattispecie di reato e all’enucleazione di principi generali in tema di diritto sostanziale e di procedura. Vi è chi paventa, come Blakesley e Wise, il rischio che si incorra in aperte violazioni del principio di legalità di fronte alla vaghezza con cui risultano definiti gli elementi costitutivi delle fattispecie criminose e alla totale assenza di norme in tema di determinazione delle condizioni della responsabilità. E vi è chi, come Bassiouni, sostiene la necessità di delineare regole di parte generale ed invoca disposizioni specifiche. In tutti sembra prevalere la consapevolezza che difficilmente sarà possibile sottrarsi alla scelta di incorporare nello Statuto le definizioni dei crimini contenute nei diversi testi convenzionali, definizioni prive della puntualità che generalmente si richiede alla legislazione penale negli ordinamenti interni. Nell’impossibilità di raggiungere in via preventiva un accordo sul contenuto di principi che variano notevolmente da un sistema giuridico all’altro, la maggior parte dei commentatori pare rassegnarsi all’idea che spetterà ai giudici della Corte cimentarsi nell’opera di ricostruzione di norme generali. Quanto alle regole in materia di procedura e di prova viene invece prospettata l’individuazione già nello Statuto di una serie di principi ad esempio in tema di diritti della difesa, ne bis in idem, inammissibilità del processo in absentia, relegando la normativa di dettaglio in un allegato suscettibile di successive modifiche suggerite dai giudici e soggette all’approvazione di un Comitato degli Stati parti della convenzione istitutiva della Corte. Comunque l’impressione è che sia sul piano del diritto sostanziale che su quello della procedura sarà in ultima istanza la Corte a dover svolgere una delicata opera di mediazione tra i diversi sistemi giuridici: le norme di parte generale e le norme procedurali prenderanno forma progressivamente in parallelo allo svilupparsi della sua giurisprudenza.
— 277 — Nel suo complesso l’opera in commento si segnala essenzialmente per l’analisi descrittiva dei temi oggetto di studio da parte del Comitato preparatorio. È offerta al lettore una visione d’insieme che consente di valutare le gravi lacune presenti nel progetto di Statuto elaborato dalla Commissione del diritto internazionale e di avere elementi sufficienti per giudicare l’evoluzione futura dei lavori del Comitato preparatorio. Spesso prevale tuttavia un esame critico delle norme del progetto di Statuto attualmente in discussione di fronte al Comitato, mentre non sono offerti suggerimenti precisi circa le modifiche auspicabili; talvolta ci si limita a generiche indicazioni in ordine alla necessità di preservare l’indipendenza della Corte o di assicurare il rispetto del principio di legalità. Ciò è forse in parte dovuto anche all’impossibilità di svolgere un approfondimento dei singoli temi nell’ambito di un testo il cui intento dichiarato è quello di fornire un’istantanea sullo stato di un dibattito, quello legato all’istituzione di una giurisdizione penale internazionale, che è destinato ad evolvere in tempi brevi e ad essere pesantemente condizionato da fattori politici. (Lucia Cavicchioli).
Revista Penal, fasc. n. 1, luglio 1997. A partire dal secondo semestre 1997, gli studiosi e gli operatori del diritto in genere, sensibili all’esigenza di estendere le proprie conoscenze scientifiche e pratiche oltre i confini nazionali, potranno avvalersi di un nuovo ed utile strumento. Nel luglio scorso, infatti, il panorama internazionale delle riviste giuridiche si è arricchito con l’uscita del primo numero della Revista Penal, una pubblicazione semestrale, edita in Barcellona, promossa e realizzata da un comitato scientifico internazionale ed interdisciplinare di tutto rilievo. Il primo numero della rivista costituisce il risultato di uno sforzo editoriale congiunto, realizzato grazie alla collaborazione dell’Università di Huelva; sede, quest’ultima, di recente istituzione, ma molto attiva, alla quale verosimilmente il periodico rimarrà scientificamente legato, soprattutto in considerazione dell’importante contributo apportato dal direttore, Prof. Juan Carlos Ferré Olivé, cattedratico e ‘‘decano’’, appunto, nella Facoltà giuridica di quella Università. L’obiettivo principale della Revista Penal è quello di concorrere alla divulgazione di informazioni e di opinioni che possano, in qualunque modo, interessare il sistema penale nel suo complesso e di contribuire in tal modo alla soluzione di taluni fondamentali problemi rimasti a tutt’oggi insoluti, nonostante i grandi progressi compiuti, soprattutto negli ultimi decenni, dalla scienza penalistica. In particolare, viene manifestata una spiccata sensibilità nei confronti del perenne dibattito, relativo al difficile contemperamento tra l’esigenza di protezione di beni giuridici, che costituisce, come noto, il principale obiettivo del diritto penale, e la necessità di salvaguardare dal diritto penale le libertà del singolo individuo. Si sottolinea, inoltre, l’importanza di guardare al sistema penale nel suo complesso, senza limitarsi a prendere in esame punti di vista parziali o incompleti. Per questo motivo, la Revista Penal assume una veste spiccatamente interdisciplinare, volta alla raccolta di opinioni di penalisti, processualisti, criminologi, nonché di specialisti di altri settori complementari, che possano sinergicamente analizzare i continui mutamenti e progressi del diritto penale, sia sostanziale sia processuale, e avanzare proposte e soluzioni. Per conseguire piu efficacemente i suddetti obiettivi, la Revista Penal è stata strutturata in sezioni distinte; in tal modo, non solo si persegue l’obiettivo di dare un ordine sistematico alle informazioni e alle opinioni di volta in volta prese in esame, ma si realizza, altresì, l’indiscutibile vantaggio di agevolare la consultazione delle stesse. Più precisamente, ogni fascicolo consta di quattro distinte parti, ciascuna dotata di una propria autonomia. Accanto ad una prima sezione dai contenuti più « tradizionali », volta ad ospitare i contributi dottrinali sui problemi di maggiore attualità, la Rivista dedica una specifica ed ampia sezione alle Cronicas Iberoamericanas. L’obiettivo è quello di offrire, in tal modo, informazioni aggiornate sulle principali peculiarità dei sistemi iberoamericani in considerazione, soprattutto, delle affinità che questi ultimi presentano con il sistema spagnolo e,
— 278 — dunque, in vista dell’utilità che può presentare la conoscenza delle soluzioni di problemi affini in altri ordinamenti. Del tutto particolare risulta, peraltro, l’impostazione di tale sezione, dal momento che, allo scopo di agevolare l’opera di comparazione, la cronaca iberoamericana è in ogni fascicolo dedicata ad un tema monografico. In tal modo si contribuisce più efficacemente alla formazione di opinioni consapevoli e documentate sulla situazione reale esistente nei distinti sistemi giuridici presi in esame e messi a confronto in relazione a singoli grandi temi. Il primo numero della Rivista, per esempio, affronta l’argomento specifico relativo alle principali riforme adottate tra il 1995 e il 1997 dai diversi paesi nelle rispettive legislazioni penali e processuali. Uno spiccato grado di originalità connota, del resto, anche le ultime due sezioni della Rivista: la terza, che contiene informazioni bibliografiche su un rilevante numero di pubblicazioni in lingua spagnola e portoghese, ordinate sulla base di un indice tematico, precedute da un elenco delle singole voci, nonché da una lista delle abbreviazioni delle principali pubblicazioni periodiche, e seguite da un indice alfabetico degli autori dei suddetti articoli e monografie; la quarta, che presenta rilevante interesse pratico, essendo dedicata alla presentazione di corsi e seminari organizzati da Università ed Organizzazioni professionali, nella prospettiva della realizzazione di una effettiva ed efficace opera di informazione. (Costanza Bernasconi)
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE — Sez. III — 12 gennaio 1996, n. 300 (ud. 27 ottobre 1995) Pres. Glinni — Est. Savignano P.M. Calderone (conf.) — Ric. Abbate Edilizia e urbanistica — Contravvenzioni — Costruzione abusiva — Assenza di concessione — Comproprietario dell’area — Condizioni e limiti — Estraneità alla realizzazione e commissione dell’opera — Esclusione. Il comproprietario dell’area oggetto della costruzione abusiva non risponde del reato di cui all’art. 20, lett. b), l. 28 febbraio 1985, n. 47 commesso dal contitolare, in assenza di prova della sua partecipazione personale all’esecuzione dell’opera e purché non sia il committente dei lavori assieme al contitolare, non essendo obbligato, per il solo fatto della proprietà, ad impedire la realizzazione sull’area di opere abusive da parte di terzi (1). (Massima redazionale). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Abbate Vincenza ricorre per cassazione avverso la sentenza emessa il 17 aprile 1995 della Corte di appello di Milano a conferma della sentenza 25 gennaio 1994 del Pretore di Milano — Sez. Abbiategrasso, con la quale fu condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di cinque giorni di arresto e lire 10.000.000 di ammenda perché dichiarata colpevole della contravvenzione di cui all’art. 20, lett. b), l. n. 47/85, per avere realizzato in un’area di sua proprietà, in Comune di Corbetta, senza aver ottenuto la concessione edilizia, n. 12 box in cemento, adibito a ricovero per cani, di cui sette già ultimati. Acc. il 28 luglio 1992. Denuncia la ricorrente, con motivo unico, carenza di motivazioni della sentenza impugnata in relazione alla conferma del giudizio di colpevolezza, sulla base della sua qualità di (com)proprietaria del terreno (obbligata, in quanto tale, ad impedire la realizzazione su di esso di opere abusive, da parte di terzi) e del suo rapporto di convivenza con il figlio, autore materiale di dette opere e coerede, con essa imputata, dei beni (ivi compreso il terreno in questione) lasciati, morendo, dal rispettivo coniuge e genitore; rapporto di convivenza che, secondo i giudici di merito, avrebbe comportato la consapevole partecipazione di lei alla realizzazione dei manufatti abusivi.
— 280 — MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il ricorso è fondato. Il concorso dell’imputata nell’illecita attività edilizia, materialmente svolta dal figlio della medesima, viene ravvisato dai giudici di merito in relazione: a) al titolo di comproprietà dell’area, pacificamente riconosciuto all’imputata per la sua qualità di coerede (insieme al figlio) del coniuge, che vi gestiva — così come ora il figlio — l’attività di allevamento di cani; titolo di comproprietà implicante, secondo la sentenza impugnata, il « dovere di impedire qualsiasi realizzazione edilizia ad opera di terzi »; b) alla consapevolezza, da parte della stessa imputata, circa l’attività edilizia illecita, che si svolgeva nell’area in questione e, quindi, alla sua compartecipazione, la cui prova si evincerebbe sia dalla mancata dimostrazione che i lavori si eseguivano a sua insaputa, sia dalla circostanza oggettiva, inerente alle condizioni di convivenza con il figlio, implicanti la sua compartecipazione, quale coerede, all’attività imprenditoriale già svolta dal comune dante causa. Nessuno dei due elementi suindicati appare idoneo a giustificare la costruzione del concorso (art. 110 c.p.), pur in astratto configurabile, trattandosi di contravvenzione c.d. « dolosa ». Il comproprietario di un’area non ha l’obbligo giuridico di impedire (nel senso previsto dall’art. 40, secondo comma, c.p.) la costruzione abusiva sulla stessa da parte di altro comproprietario, poiché la contilolarità del bene non comporta ex se un obbligo di garantirne la protezione contro gli abusi di terzi, anche se trattasi di contitolari del bene. Quanto alla consapevolezza, è, in primo luogo, evidente che, insieme ad essa, è necessario provare la volontà del fatto illecito, che, nel concorso, si configura come volontà di contribuire con altri alla realizzazione dell’illecito, anche con la sola adesione all’azione dell’altro soggetto, che non ne sia informato. Ora tale consapevole e volontaria partecipazione, sul piano processuale della prova, non può evincersi, in generale, dalla mancata dimostrazione di estraneità, da parte dell’imputato, poiché l’applicazione di un tale criterio sovvertirebbe il principio generale dell’ordinamento, che postula a carico dell’accusa la prova del fatto ascritto all’imputato. Neppure può ricavarsi tale consapevole volontà di partecipazione, da elementi non univoci, quali è — con riferimento al caso di specie — il rapporto di convivenza con il soggetto autore dell’illecito. Trattandosi, dunque, di opere eseguite senza concessione edilizia era, nella specie, necessario acquisire la prova che la persona accusata di concorso, avesse, sotto qualsiasi forma, contribuito alla realizzazione dei lavori abusivi, partecipandovi personalmente o commettendone, insieme al contitolare del terreno, l’esecuzione a terzi. Una tale prova non può esaurirsi nella individuazione di fattori ipotetici, qual è, nel caso in esame, la supposta adesione dell’imputata alla consumazione dell’abuso edilizio commesso dal figlio, sulla base dell’altrettanto supposta sua partecipazione all’attività aziendale svolta dal secondo, erede, come lei, del comune dante causa. Da quanto si è fin qui osservato emerge come il giudizio di colpevolezza dell’imputata si fondi sulla valutazione, manifestamente erronea (in quanto contrastante con i principi di diritto in tema di concorso di persone nel reato), degli unici elementi, posti a sostegno dell’ipotesi accusatoria.
— 281 — La decisione impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio, per non avere l’imputata commesso il fatto attribuitole. — (Omissis).
——————— (1)
Osservazioni in tema di concorso dell’extraneus nelle contravvenzioni edilizie proprie.
1. La sentenza in esame ha ad oggetto il problema del concorso dell’estraneo nella contravvenzione di cui all’art. 20, lett. b), l. n. 47/1985, consistente nella esecuzione di lavori edilizi in assenza di concessione. Il reato in parola si definisce « proprio » dal momento che i soggetti attivi devono possedere una determinata qualifica che costituisce il limite esegetico della fattispecie, risultando un presupposto del fatto tipico. Dispone, infatti, l’art. 6, l. n. 47/1985 che sono (penalmente) responsabili della conformità dei manufatti alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano il titolare della concessione, il committente, il costruttore e (in determinati casi specificati dalla legge) il direttore dei lavori. Nonostante, però, emerga chiaramente dalla formulazione della norma una restrizione dei possibili soggetti attivi del reato, la Cassazione, talvolta, opera un’estensione della responsabilità ai terzi privi delle anzidette qualifiche, attraverso l’applicazione dell’art. 110 c.p. È opportuno, fin da ora, precisare che la limitazione della responsabilità dell’estraneo operata nel caso di specie dalla Suprema Corte, appare condivisibile. Tuttavia, sulla materia oggetto della presente analisi, essa segue orientamenti non univoci, non risultando, spesso, facile comprendere le ragioni dogmatiche e i presupposti politico-criminali dell’estensione della responsabilità ex art. 20, l. n. 47/1985 a soggetti diversi da quelli espressamente indicati nella fattispecie propria. La sentenza in esame, ricollegandosi a numerose altre decisioni della Suprema Corte afferma, infatti, che « il comproprietario dell’area oggetto della costruzione abusiva non risponde del reato ex art. 20, l. n. 47/1985 commesso dal contitolare, in assenza di prova della sua partecipazione personale all’esecuzione dell’opera e purché non sia il committente dei lavori assieme al contitolare, non essendo obbligato, per il solo fatto della proprietà, ad impedire la realizzazione sull’area di opere abusive da parte di terzi ». L’affermazione della responsabilità di terzi a titolo di concorso nella contravvenzione propria, determina un’estensione della latitudine applicativa della norma incriminatrice speciale, in linea con la natura dell’art. 110 c.p. (1). Quando, tuttavia, il terzo concorrente sia l’estraneo, si potrebbero sollevare forti dubbi sulla rilevanza del contributo dal momento che, come si è affermato, da certa parte della dottrina più antica (2), l’estraneo non potrebbe mai rispondere del reato proprio neppure a titolo di concorso. Pur non essendo questa la sede per affrontare il tema del fondamento della punibilità del concorso di persone, deve, tuttavia, preliminarmente precisarsi che, (1) Cfr. M. GALLO, Lineamenti di una teoria del concorso di persone nel reato, Milano, 1957, p. 20 ove si precisa che la funzione estensiva deve riferirsi non alla tipicità della norma di parte speciale, bensì all’intero ordinamento che appare ampliato da tutte le fattispecie ottenute attraverso la combinazione tra disposizioni concorsuali e norme di parte speciale. Analog. B. PETROCELLI, Il delitto tentato, Studi, Padova, 1955, p. 43. (2) Cfr. F. GRISPIGNI, Il delitto del non imputabile nel concorso di persone in uno stesso reato, in Scuola positiva, I, 1911, p. 14 ove si esclude che il soggetto privo della qualifica possa assumere il ruolo di concorrente o di autore mediato.
— 282 — in linea di principio, nulla si oppone all’ammissione del concorso dell’estraneo nel reato proprio. Accogliendo la teoria che configura il concorso di persone nel reato come « fattispecie plurisoggettiva eventuale », la tipicità del contributo del terzo deve essere valutata non più alla stregua della norma di parte speciale, bensì con riferimento all’ulteriore fattispecie plurisoggettiva risultante dal combinato disposto tra art. 110 c.p. e norma di parte speciale. Come, però, emerge dal tenore della sentenza in esame, il procedimento per cui il contributo atipico secondo la norma di parte speciale può diventare tipico ex art. 110 c.p. non si attua ad infinitum, potendo trovare dei limiti nella struttura di reato proprio della fattispecie di riferimento e nella carenza di dolo dell’estraneo. I limiti della capacità estensiva della punibilità del concorso non sono, tuttavia, stati fatti oggetto di approfondite analisi da parte della giurisprudenza. Per tali ragioni è possibile ravvisare, nella giurisprudenza della Suprema Corte, una certa disinvoltura nell’ammettere o nel negare, nelle medesime situazioni, la responsabilità dell’estraneo per concorso colposo nelle contravvenzioni proprie (3). È, allora, opportuno procedere, precisata l’ammissibilità generale del concorso dell’estraneo nei reati propri, all’analisi dei modi in cui tale concorso può atteggiarsi, al fine di fissare i limiti nei quali l’attitudine espansiva della punibilità degli artt. 110 ss. può esplicarsi nei reati propri ove, per l’appunto, si richiede che il soggetto agente sia dotato di una determinata qualifica. 2. La contravvenzione oggetto della presente decisione è, dunque, una contravvenzione propria, dal momento che l’art. 6, l. n. 47/1985 impone il rispetto della normativa urbanistica e delle previsioni di piano ad alcuni soggetti determinati, quali il titolare della concessione, il committente, il costruttore e (quando non abbia contestato agli altri la violazione delle prescrizioni della concessione edilizia, fornendo al sindaco contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa) il direttore dei lavori. Essa si inserisce in un sistema sanzionatorio comprensivo di tutte le possibili violazioni della legge e delle prescrizioni comunali che non siano espressamente escluse dall’ambito penale (4). Alla previsione generale dell’art. 20, lett. a), che stabilisce l’applicazione dell’ammenda fino a venti milioni « per l’inosservanza di norme, prescrizioni e modalità esecutive previste » dalla stessa l. n. 47/1985, « dalla l. n. 1150/1942 e successive modificazioni e integrazioni, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione », corrisponde l’indicazione puntuale delle violazioni per le quali è esclusa la sanzione penale, ad es. interventi di manutenzione straordinaria, ordinaria, difformità parziali dalla concessione edilizia, opere interne alle costruzioni nei limiti fissati dall’art. 26 e varianti in corso d’opera ex art. 15. Dalla lettura sistematica delle disposizioni penali contenute nella l. n. 47/1985 e nelle leggi ad essa collegate (ad es. d.l. n. 312/1985 « Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale » convertito in l. (3) Cfr. Cass. 24 agosto 1988, n. 9027, in Riv. pen., 1989, p. 619 e Cass. 10 dicembre 1988, n. 1702, in Giust. pen., 1989, p. 452 che hanno affermato la responsabilità del comproprietario del fondo sul quale era stato realizzato il manufatto abusivo senza la concessione edilizia a titolo di concorso per non aver, colposamente, impedito la realizzazione del reato ex art. 20, l. n. 47/1985. Vi sono tuttavia pronunce contestuali rispetto a quelle appena richiamate che, invece, negano la responsabilità del medesimo soggetto nelle medesime condizioni. Cfr. Cass. 4 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, I, p. 305. (4) È opportuno precisare che è stata, da più parti, sottolineata una sorta di contraddittorietà della legge del 1985. Se, da un lato, essa accresce i poteri e gli strumenti di controllo del giudice penale, ad es. confisca e demolizione dell’opera abusiva, si dimostra, in vari punti, di voler potenziare gli strumenti amministrativi (come si evince dalla sospensione obbligatoria dell’azione penale fino all’esaurimento delle procedure di sanatoria previste dall’art. 22). Cfr. L. BERTOLINI, Reati urbanistici, in Enc. giur., vol. XXVI, Roma, 1991, p. 3; S. BELLOMIA, Urbanistica (sanzioni in materia di), in Enc. dir., vol. XLV, Milano, 1992, p. 883.
— 283 — n. 431/1985) possono desumersi importanti indicazioni in ordine al bene giuridico protetto dalle contravvenzioni edilizie. La chiarificazione del referente obiettivo della tutela consente, poi, di comprendere la ratio dell’indicazione di soggetti attivi qualificati nei reati urbanistici e dei conseguenti limiti dell’estensione della punibilità ai terzi estranei attraverso la clausola generale dell’art. 110 c.p. A ben guardare, le contravvenzioni edilizie non tutelano un bene giuridico determinato e percepibile in termini materiali (ad es. la bellezza paesaggistica dei luoghi o l’ordinata disposizione del territorio) bensì una funzione amministrativa consistente nel monopolio della pianificazione urbanistica del territorio. Il mancato rilascio del titolo abilitativo ovvero la difformità da esso fornisce una presunzione assoluta di contrasto con gli interessi urbanistici. Appare, a tal proposito, significativo che il concetto stesso di « costruzione edilizia » (intesa nel senso tecnico-giuridico di qualsiasi opera stabilmente ancorata al suolo che crei un volume edilizio) non è il referente esclusivo della tutela penale, dovendo, in essa, ricomprendersi « qualsiasi attività comportante la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale ». Emblematica risulta, sotto questo profilo, l’introduzione, nell’art. 18, l. n. 47/1985, accanto alla lottizzazione « materiale », anche la lottizzazione « cartolare » che prescinde dalla realizzazione di opere e consiste nel compimento di « attività di frazionamento, vendita o atti equivalenti del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione (...) denunciano, in modo non equivoco, la destinazione a scopo edificatorio » (5). Nella sistematica dei reati contravvenzionali, gli illeciti urbanistici rientrano, secondo parte della dottrina, nella categoria delle contravvenzioni « amministrative », nelle quali si tutela il potere della PA di contemperare gli opposti interessi precisando i loro limiti rispettivi (6). Se, allora, il polo della tutela pare dover essere costituito dalla funzione amministrativa di bilanciamento degli interessi privati e collettivi potenzialmente confliggenti nell’attività edificatoria, l’illecito penale urbanistico non può che essere formulato in termini di « violazione di un precetto ». La tecnica di tutela della funzione amministrativa cui prima si faceva riferimento, non si esaurisce, però, nella sola incriminazione del danno ma anche nella predisposizione di meccanismi di prevenzione delle violazioni stesse. A tal scopo, (5) L’art. 18 ha recepito l’orientamento espresso dalla Sentenza della Cass., Sez. un., n. 1200/1992 ove si ritenne la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva nella sola progettazione, in zona non urbanizzata lontana dal centro abitato, di un insediamento turistico, come tale idoneo a « pregiudicare la programmazione territoriale da parte del Comune ». Cfr. L. BERTOLINI, Le lottizzazioni abusive, in Giust. pen., 1980, II, p. 431; B. DEL VECCHIO, Urbanistica, contrattazione immobiliare ed invalidità negoziali, Padova, 1989; R.LI VECCHI, Lottizzazione abusiva tramite costituzione di società fittizie e configurabilità del concorso nel reato, in Riv. pen., 1989, p. 838; I. MAZZAROLLI, La lottizzazione e la repressione delle lottizzazioni abusive, in Riv. giur. urban., 1986, II, p. 452. (6) Cfr. per tutti T. PADOVANI, voce Delitti e contravvenzioni, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 330 e ID., Il binomio irriducibile. La distinzione tra delitti e contravvenzioni, in Diritto penale in trasformazione, a cura di G. Marinucci e E. Dolcini, Milano, 1985, p. 421. Deve, tuttavia, precisarsi che parte della dottrina e notevole frangia della giurisprudenza della Cassazione propendono per la tesi secondo la quale, le contravvenzioni urbanistiche tutelerebbero un interesse di carattere sostanziale, identificabile nell’armonioso ed ordinato sviluppo del terreno edificabile. Ne deriva che l’abuso edilizio è solo quello che determina una modificazione naturalistica del suolo. Cfr. per la dottrina G. MARINI, voce Urbanistica (reati in materia di), in Nss. Dig. it., vol. XX, Torino, 1975, p. 152 e A. IANNELLI, Le violazioni edilizie, Milano, 1977, p. 407. Per la giurisprudenza, cfr., invece, Cass. 13 ottobre 1975, in Giust. pen., 1976, I, c. 502; Cass. 17 gennaio 1967, in Giust. pen., 1967, II, c. 804; Cass. 3 giugno 1968, in Giust. pen., 1969, II, 810; Cass. 24 ottobre 1975, in Cass. pen., 1976, m. 133970; Cass. 6 giugno 1980, in Riv. pen., 1981, c. 87. Sotto il profilo dell’interesse tutelato dalle contravvenzioni urbanistiche, la Suprema Corte mantiene, a tutt’oggi, il medesimo orientamento, pur riconoscendo, nella ratio della tutela penale, la necessità di salvaguardare la funzione della P.A. nel controllo del territorio.
— 284 — la legge individua dei « garanti » del rispetto delle previsioni di legge e di piano in funzione della loro posizione nevralgica nell’attuazione delle disposizioni suddette. La legge ha, dunque, voluto porre un legame tra la qualifica e l’interesse protetto, proiettandola sul fatto costitutivo. Nelle contravvenzioni edilizie, il legame tra il soggetto attivo e il fatto si giustifica variamente a seconda che si tratti del direttore dei lavori, da una parte, o del titolare della concessione, del committente o dell’assuntore dei lavori, dall’altra. Per quanto attiene alla posizione del direttore dei lavori, è certamente il possesso di nozioni di carattere tecnico a giustificare la qualifica di intraneo. Tale soggetto, infatti, è dotato delle conoscenze idonee a comprendere il significato delle disposizioni urbanistiche, la cui interpretazione presenta non trascurabili difficoltà. La posizione di garanzia degli altri soggetti indicati dalla norma, si fonda, invece, non tanto su conoscenze tecniche quanto sull’assunzione, a vario titolo, del compito di realizzare un manufatto edilizio. Chiunque, infatti, intraprenda un’attività edificatoria ha l’onere di informarsi sulle regole che la disciplinano e di assicurarne il rispetto direttamente ovvero sottoponendo all’opportuno controllo i comportamenti altrui. L’individuazione dei soggetti qualificati (7) opera, poi, nell’ambito della fattispecie, sia sul versante interno sia su quello esterno. Sul versante interno, la presenza di soggetti qualificati è il limite esegetico stesso della fattispecie. Essendo essa chiaramente modellata sullo schema della violazione delle prescizioni impartite dalla P.A. in materia edilizia, possono commettere il reato solo i soggetti che si trovino coinvolti direttamente nella realizzazione delle attività strumentali all’edificazione del manufatto abusivo. Sul versante esterno, la posizione di garanzia dei soggetti qualificati giustifica la legittimazione dell’affidamento dei terzi estranei che, con loro, instaurino un rapporto connesso all’attività edificatoria, nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche al quale i soggetti indicati nella norma speciale sono direttamente interessati. Si pensi ai fornitori di materiali edilizi o agli operai o ai progettisti non direttori dei lavori. Sarebbe, certamente, irragionevole imporre loro il controllo del rispetto, da parte del soggetto con il quale stipulano un contratto d’opera o di leasing o di fornitura, di tutte le disposizioni normative e regolamentari che disciplinano l’attività edilizia. Tramite la previsione di soggetti garanti pare, allora, che la legge abbia voluto tutelare anche i terzi da un irragionevole addebito colposo della contravvenzione da altri commessa, come si preciserà tra breve. 3. Dopo aver sottolineato il particolare ambito di tutela delle contravvenzioni edilizie e dopo aver fatto cenno ai riflessi, sulla struttura della fattispecie, della presenza di soggetti qualificati, può essere affrontato il tema del concorso dell’estraneo nelle contravvenzioni edilizie proprie. Come si notava poco sopra, attraverso l’estensione della responsabilità ex art. 110, si rischia di snaturare l’essenza dei reati propri. È, allora, opportuno analizzare le varie ipotesi di concorso dell’estraneo, per poter distinguere i casi nei quali, pur allargandosi la responsabilità a soggetti privi della qualifica, rimanga salva la ratio della fattispecie propria, da quelli che, invece, determinando la trasformazione della contravvenzione propria in comune, risultano inammissibili. Può, in generale, aversi concorso nel reato sia a titolo di dolo sia a titolo di colpa (8). Nel settore delle contravvenzioni proprie, tuttavia, è essenziale fare una (7)
Cfr. E. VENAFRO, voce Reato proprio, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, p. 337; G. BET-
TIOL, Sul reato proprio, Milano, 1939, p. 50; G. MAIANI, In tema di reato proprio, Milano, 1965, p. 21.
(8) Parte della dottrina nega la configurabilità del concorso colposo nelle contravvenzioni tout court. Le argomentazioni in base alle quali si nega l’ammissibilità della figura s’incentrano:
— 285 — distinzione tra il caso in cui il terzo partecipi a titolo di dolo e quello in cui contribuisca colposamente all’abuso edilizio dell’intraneo. Se, infatti, il terzo estraneo contribuisce alla realizzazione della contravvenzione con la coscienza e volontà di agevolare l’abuso edilizio, non vi sono problemi di sorta all’affermazione della sua responsabilità concorsuale. Il dolo è, infatti, il coefficiente generale d’imputazione della responsabilità penale anche nei delitti. Di fronte, dunque, a tale atteggiamento psicologico, l’art. 110 c.p. può ben svolgere una funzione di ampliamento della latitudine applicativa della fattispecie di parte speciale (9). Stante il dolo dell’estraneo, il concorso nella contravvenzione propria può diversamente atteggiarsi. Il terzo può, infatti, porre in essere le condotte più varie per contribuire alla realizzazione del manufatto abusivo. Sussisterà, per l’appunto, responsabilità penale a titolo di concorso nella contravvenzione propria a carico di tutti coloro che abbiano prestato la loro opera nella consapevolezza della violazione urbanistica. Coloro che hanno, infatti, prestato la loro opera per l’edificazione della costruzione o fornito i materiali o i macchinari necessari, se hanno contribuito dolosamente alla realizzazione dell’abuso, devono risponderne in concorso con l’intraneo, anche se privi della qualifica. Il contributo da loro prestato, anche se atipico rispetto alla fattispecie di parte speciale, è penalmente rilevante a titolo di concorso. Il dolo di concorso integra la fattispecie pliurisoggettiva eventuale risultante dalla combinazione tra l’art. 110 c.p. e la norma speciale, essendo sufficiente per imputare la violazione altrui anche a chi risulti privo di quelle caratteristiche che la legge ha imposto per selezionare la sfera dei soggetti attivi del reato (10). Responsabilità a titolo di concorso può, ovviamente, essere imputata a coloro che abbiano rivolto un consiglio all’intraneo, ovvero abbiano promesso un aiuto alla realizzazione dell’opera, vale a dire a tutti coloro che, tramite un contributo di carattere psichico, abbiano facilitato o agevolato la commissione del reato, rafforzando il proposito criminoso ovvero sostenendolo efficacemente (11). Il dolo del a) sulla pretesa « funzione di sbarramento dell’art. 113 che fa riferimento solo alla cooperazione nel delitto colposo; b) sul paradosso che verrebbe a determinarsi qualora si ammettesse la configurabilità del concorso colposo nelle contravvenzioni. Ad esso, ipotesi indubbiamente meno grave rispetto al concorso nei delitti colposi, risulterebbero applicabili le circostanze aggravanti inapplicabili al cooperazione nel delitto, vale a dire gli artt. 111 e 112 n. 3 e 4 c.p. Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, p. 376; F. ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Arch. pen., 1983, p. 88; F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984; G. ALICE, Il concorso colposo in fatti contravvenzionali, in questa Rivista, 1983, p. 1027: P. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, p. 259; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1992, p. 259. Nel testo si è ritenuto di dover ammettere il concorso colposo nelle contravvenzioni tout court ex artt. 42 e 110 c.p. La previsione espressa della figura è, infatti, resa inutile dal particolare titolo di imputazione soggettiva delle contravvenzioni. Cfr. T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1993, p. 370; I. CARACCIOLI, Profili del concorso di persone nelle contravvenzioni, in questa Rivista, 1971, p. 959; G. COGNETTA, La cooperazione nel delitto colposo, in questa Rivista, 1980, p. 83; M. GALLO, Lineamenti, cit., p. 115; G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano, 1990, p. 189. Cfr. anche Cass. 7 novembre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 1209 ove si precisa che la previsione espressa della cooperazione nel delitto colposo ha funzione di chiarificazione e non di sbarramento rispetto all’ammissibilità del concorso nelle contravvenzioni. (9) Cfr. Cass. 10 marzo 1978, n. 2616, in Riv. pen., p. 995 con nota di R. Albamonte; Cass. 8 gennaio 1980, in Giust. pen., 1980, II, p. 484; Cass. 21 dicembre 1983, in Giust. pen., 1983, II, 488; Cass. 4 maggio 1988, in Riv. pen., 1989, p. 159 e, da ultimo, Pret. Giarre 21 dicembre 1988, in Riv. pen., 1989, p. 830. (10) Cfr. M. GALLO, Lineamenti di una teoria, cit., p. 11 che, a questo proposito, parla di una vera e propria funzione incriminatrice degli artt. 110 s. c.p. (11) La tematica del contributo rilevante ex art. 110 c.p. ha amplissimo respiro e l’economia del presente lavoro ne impedisce una trattazione esauriente. Nel testo si è ritenuto di dover aderire alla teoria
— 286 — soggetto privo della qualifica giustifica, dunque, l’allargamento della responsabilità per il reato proprio nel rispetto del principio di colpevolezza. Deve, tuttavia, precisarsi che, se sul piano dei principi che regolano l’imputazione soggettiva della responsabilità penale, risultano chiare le ragioni per le quali si ritiene il dolo sufficiente ad imputare la responsabilità penale a titolo di concorso, non devono essere trascurati i problemi connessi all’accertamento di tale atteggiamento psicologico (12). Esso, infatti, deve corrispondere ad un coefficiente psichico reale accertato tramite la considerazione di tutte le circostanze nelle quali si è realizzato il reato. Se esso viene presunto in modo disinvolto, si rischia di aggirare la natura di reato proprio della fattispecie in esame, ravvisando contributo rilevante ex art. 110 negli atti di coloro che, sulla base delle valutazioni del giudice più diverse e spesso fondate sulla considerazione dei rapporti tra i soggetti coinvolti, si trovavano in condizioni tali da non poter non essere a conoscenza dell’abuso (13). 4. I termini della questione variano notevolmente quando si procede all’accertamento della configurabilità di un concorso colposo dell’extraneus nelle contravvenzioni proprie (14). Come si accennava in precedenza, l’imputazione soggettiva delle contravvenzioni può fondarsi indifferentemente sul dolo o sulla colpa. Appare, a questo punto, opportuno, dopo aver esaminato i caratteri del concorso doloso dell’estraneo nella contravvenzione propria, interrogarsi sui modi d’essere e sull’ammissibilità di un suo concorso colposo. L’addebito colposo potrebbe astrattamente consistere: a) nella violazione di obblighi accessori da parte del terzo desumibili dalla norma incriminatrice di parte speciale. Se così fosse, la contravvenzione avrebbe l’attitudine di rendere noto al terzo ciò che è vietato, imponendogli l’astensione da ogni atto che confluisca nella violazione in modo penalmente rilevante. Tale forma di concorso non appare, tuttavia, compatibile con il modello delle contravvenzioni amministrative che si sostanziano nell’imposizione di obblighi determinati a soggetti altrettanto determinati. L’imposizione di un obbligo accessorio di comportamento potrebbe giustificarsi se la ratio dell’incriminazione fosse non la violazione dei precetti della P.A., ma la messa in pericolo di un bene determinato, come avviene nelle contravvenzioni « cautelari » che sono volte alla tutela anticipata, nella forma del pericolo indiretto, di beni giuridici altrimenti tutelati da fattispecie delittuose qualora venga in considerazione un pericolo diretto o un evento di danno (15); b) nell’ignoranza colposa della qualifica del soggetto intraneo(16). Neanche tale forma di concorso pare adattarsi al sistema delle contravvenzioni in esame. Il rimprovero per l’ignoranza colposa della qualifica dell’intraneo consentirebbe l’addebito della responsabilità a titolo di concorso colposo qualora la qualifica per la quale il contributo del concorrente, per essere rilevante, non deve necessariamente risolversi in una condicio sine qua non dell’evento. Tra i vari esponenti della dottrina che hanno ritenuto viziata per difetto la teoria condizionalistica della partecipazione rilevante cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 523; F. ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Ind. pen., 1977, p. 403; L. VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, p. 1358; M. DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, p. 185. (12) Cfr. M. GALLO, Il dolo, oggetto e accertamento, in Studi urbinati, 1951, p. 259 e A. PAGLIARO, Il fatto di reato, Milano, 1960, p. 19. (13) V. retro nota n. 9. (14) A favore dell’ammissibilità cfr. Cass. 21 gennaio 1981, in Giust. pen., 1981, II, 711, 748; Pret. Napoli 10 febbraio 1983, in Giur. merito, 1983, III, p. 465 con nota critica di De Chiara e Pret. Agropoli 16 gennaio 1988, in Giur. merito, 1989, III, p. 440. (15) Cfr. T. PADOVANI, Il binomio, cit., p. 450. (16) Cfr. E. VENAFRO, voce Reato proprio, cit., p. 347 e I. CARACCIOLI, Profili, cit., p. 951.
— 287 — stessa fosse significativa e indicativa dell’incriminazione, tanto da poter dire prevedibile l’evento a seguito della cooperazione con il soggetto avente quelle determinate caratteristiche. Si pensi alle contravvenzioni di cui agli artt. 707 e 708 c.p. (17). La qualifica di condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio è chiaramente significativa, nella struttura della fattispecie, della pericolosità del possesso di strumenti atti a commettere reati contro il patrimonio. Nel caso in parola, al contrario, la consapevolezza della qualifica dell’intraneo, lungi dall’imporre l’astensione dalla cooperazione, crea quel legittimo affidamento dell’estraneo nell’altrui rispetto delle previsioni edilizie che è presupposto per l’instaurazione dei più diversi rapporti giuridici; c) nell’omesso impedimento, a titolo di colpa, dell’altrui violazione edilizia, vale a dire in un illecito concorsuale avente i caratteri del reato omissivo improprio. Tenendo conto dei caratteri del reato in esame, il concorso colposo dell’estraneo non può che atteggiarsi nella forma qui appena descritta. A ben guardare, però, tale forma di responsabilità non appare ammissibile, innanzi tutto per la mancanza di quell’obbligo giuridico d’impedimento dell’evento richiesto dall’art. 40. cpv. c.p. Se, infatti, è necessario individuare una fonte formale (18) dalla quale trarre il dovere d’intervento per imputare la responsabilità penale per omissione, non pare che, nel caso in esame, esista una norma giuridica dalla quale desumere l’obbligo del terzo estraneo che partecipa materialmente alla realizzazione della costruzione, d’impedire l’evento. Essa non può, infatti, essere individuata: a) nello stesso art. 110 c.p., posto che si tratta di una norma « vuota » che rinvia esplicitamente a norme di parte speciale e che, da sola, non è idonea a fondare la responsabilità per la realizzazione di un determinato evento; b) nelle norme che disciplinano, con riguardo ai comproprietari o ai locatori, cui la giurisprudenza della Suprema Corte fa spesso riferimento, i corrispondenti istituti civilistici che, invece, si caratterizzano per l’autonomia reciproca dei soggetti richiamati; c) dallo stesso art. 20, l. n. 47 visto che esso si riferisce a soggetti determinati e che non pare giustificabile che, attraverso la clausola generale del concorso di persone, esso venga trasformato da illecito proprio in illecito comune. Potrebbe, così, giungersi ad una situazione paradossale dal momento che soggetti non meglio identificati sarebbero gravati di un obbligo ben più rilevante di quello imposto ai soggetti ai quali l’art. 6 fa riferimento, imputandosi loro perfino un dovere di controllo degli stessi intranei. (17) La Corte costituzionale è intervenuta con due pronunce che hanno modificato le suddette disposizioni. Con sent. 19 luglio 1968, n. 110, in Giur. it., 1968, I, 1, p. 1444 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 708 c.p. « limitatamente alla parte in cui fa richiamo alle condizioni personali del condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta » in riferimento all’art. 3 Cost. Sulla base delle medesime argomentazioni, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 707 con sent. 2 febbraio 1971, n. 14, in Giust. pen., 1971, I, c. 219. (18) È doveroso precisare che parte della dottrina e della giurisprudenza si orientano verso l’opposta soluzione, adducendo l’insufficienza della concezione formalistica dell’obbligo d’impedimento dell’evento. Cfr. F. SGUBBI, Responsabilità per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, p. 165; G. FIANDACA, Reati commissivi e responsabilità penale per omissione, in Foro it., 1983, V, c. 30 e la giurisprudenza ivi citata alla nota n. 3. Sulla scia dei risultati cui, sul punto, è pervenuta la dottrina tedesca, si assegna all’art. 40 cpv. c.p. non un ruolo costitutivo dell’obbligo ma una funzione di mera dichiarazione del dovere d’intervento da parte del titolare di una « posizione fattuale di garanzia ». Alla concezione « funzionale » dell’obbligo d’impedimento dell’evento si ricollegano idelmente le pronunce di legittimità e di merito che hanno stabilito la responsabilità omissiva del comproprietario o del parente o del locatore per concorso colposo nelle contravvenzioni edilizie realizzate dagli intranei.
— 288 — Sotto il profilo più strettamente riguardante la colpa, è legittimo ritenere che tale allargamento della responsabilità per le contravvenzioni edilizie proprie si ponga in contrasto non solo, come si sottolineava poco sopra, con la natura stessa dei reati propri, ma anche con i principi generali che regolano l’imputazione soggettiva della responsabilità. Se è, infatti, vero che la disposizione generale sulla quale ruota la disciplina dell’elemento soggettivo del concorso è l’art. 42 c.p., tuttavia, la responsabilità ex art. 110 c.p. è caratterizzata da peculiarità che la rendono irriducibile alla imputazione del reato monosoggettivo. Tutte le pronunce che affermano la responsabilità dell’estraneo a titolo di concorso nelle contravvenzioni proprie si fondano sull’affermazione di un preteso obbligo del terzo d’impedire la violazione edilizia da parte dell’intraneo. La responsabilità viene, in questi casi, affermata sulla base della consapevolezza dell’estraneo di collaborare con l’intraneo nel comportamento abusivo e dell’omesso impedimento del fatto incriminato. La ricostruzione della sua colpa viene effettuata con riferimento a presupposti puramente normativi. Non viene, infatti, tanto in considerazione una generica imprudenza dell’estraneo, ma, visto il carattere dell’illecito edilizio, una sua colpa specifica data dall’inadempimento di un obbligo avente ad oggetto il controllo di altri (19). Il procedimento attraverso il quale viene imputata tale forma di responsabilità al soggetto privo della qualifica appare fortemente criticabile. Se, infatti, la colpa consiste nell’inosservanza di una regola di condotta il rispetto della quale era personalmente esigibile da parte del soggetto agente (20), non appare ragionevole imporre al soggetto privo della qualifica un dovere di controllo dell’intraneo. Innanzi tutto, se attraverso la clausola generale dell’art. 110, si imputasse la responsabilità per la contravvenzione propria anche al soggetto privo della qualifica si giungerebbe ad una situazione paradossale. Si potrebbe, infatti, agevolmente ritenere che la logica del reato proprio venga ribaltata. Non solo, infatti, la contravvenzione propria si trasformerebbe in reato comune, ma soggetti non meglio identificati sarebbero chiamati a rispondere senza che all’imputazione della responsabilità stessa corrisponda il necessario potere di impedimento dell’evento. La mancanza di una giustificazione politico-criminale di tale imputazione di responsabilità è evidente. L’imputazione della responsabilità presuppone la titolarità del potere di rispettare o di far rispettare i precetti imposti dalla legge e assistiti da sanzione penale. Fuori dai casi in cui sussista perfino il dolo dell’estraneo, coloro che sono privi della qualifica non solo non hanno alcun dovere di controllo della conformità agli strumenti urbanistici della costruzione alla quale realizzazione partecipano, ma possono anche considerarsi titolari di un legittimo affidamento nell’altrui rispetto delle prescrizioni. In assenza di dolo, dunque, il contributo del terzo estraneo non può che rimanere privo di significato penale, potendo egli contare sulla corrispondenza dell’apparente rispetto delle prescrizioni sanzionate penalmente ad una situazione di reale legalità. In assenza di obblighi giuridici d’impedimento dell’evento, il giudice non è autorizzato a ravvisare una culpa in vigilando a carico di colui che abbia, per avventura, partecipato alla realizzazione del manufatto abusivo. L’indicazione di garanti qualificati da parte dell’art. 6, l. n. 47/1985 impedisce di allargare ai terzi la responsabilità, fuori dai casi in cui sussista un coeffi(19) Cfr. G. BETTIOL, Diritto penale, parte generale, Padova, 1982, p. 449; G. BATTAGLINI, In tema di concorso di più persone nel reato colposo, in Giust. pen., 1931; A.R. LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, 1964, p. 166; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 536. (20) Cfr. per tutti M. GALLO, voce Colpa penale, in Enc. dir., vol. VII, 1960, p. 624.
— 289 — ciente psicologico tale da giustificare il superamento dei limiti imposti dalla fattispecie alla cerchia dei soggetti attivi. Non pare, allora, azzardato ritenere che la responsabilità per concorso colposo dell’estraneo nelle contravvenzioni proprie sia, in realtà, una responsabilità per fatto altrui che non può essere accettata in un ordinamento, come il nostro, ispirato al principio della personalità della responsabilità penale. GAETANA MORGANTE Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento « S. Anna » di Pisa
— 290 — CASSAZIONE PENALE — Sez. II — 24 aprile-23 ottobre 1996 Pres. Longo Dorni — Rel. Sossi — P.M. (concl. conf.) Ric. Proc. Gen. Corte di Appello di Napoli in c. Amendola Procedimento penale — Dibattimento — Istruzione dibattimentale — Esame delle parti — Contestazioni — Lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare — Allegazione di atti al fascicolo per il dibattimento (C.p.p. artt. 503, 513, 515). Gli artt. 503 (che prevede la facoltà delle parti di operare la contestazione del contenuto della deposizione soltanto se sui fatti e le circostanze l’imputato abbia già deposto), 513 (che prevede la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari o nell’udienza preliminare quando l’imputato non consente all’esame) e 515 c.p.p. (che prevede l’allegazione al fascicolo per il dibattimento degli atti di cui è stata data lettura) non trovano applicazione nel caso dell’imputato che, dopo aver accettato l’esame, rifiuti di sottoporsi al controesame poiché, così facendo, esercita il diritto al silenzio, e perché difettano sia il presupposto per procedere alle contestazioni (consistente nella disponibilità dell’imputato a rispondere), sia il presupposto per effettuare la lettura delle dichiarazioni rese precedentemente al dibattimento (consistente nel rifiuto del mezzo di prova e non di una sola fase di esso come il controesame) (1). (Omissis). — A) Questioni pregiudiziali. — Secondo la tesi degli imputati, non avrebbero dovuto essere utilizzate, ovvero avrebbero dovuto ritenersi « nulle » le dichiarazioni rese da Palazzo Carmela al dibattimento di primo grado, avendo l’imputata, ad un certo punto, dopo avere risposto alle domande rivoltele dal P.M., rifiutato di sottoporsi al « controinterrogatorio » dei difensori dei coimputati, nei confronti dei quali aveva reso dichiarazioni il cui contenuto era inequivocabilmente accusatorio. Avendo il P.M., in seguito al rifiuto di proseguire l’interrogatorio della Palazzo, chiesto l’inserimento nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese dalla Palazzo in sede di indagini preliminari, ed avendo i difensori dei coimputati, oppostisi a detto inserimento, eccepito l’incostituzionalità, con riferimento agli artt. 3-24 della Costituzione, delle norme di cui agli artt. 503, 513 e 515 c.p.p., il Tribunale giudicava inconferente la proposta eccezione, non ritenendo applicabili le norme suindicate nell’ipotesi in cui l’imputato si sottoponga all’interrogatorio, peraltro rifiutandosi ad un certo punto di proseguirlo, e rigettava l’eccezione relativa all’inutilizzabilità od alla nullità delle dichiarazioni dibattimentali della Palazzo. La Corte di appello, confermando la decisione dei primi giudici, ha sostenuto la legittimità della mancata allegazione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese dalla Palazzo in sede di indagini preliminari, ed ha affermato che il rifiuto di costei di sottoporsi al controinterrogatorio non aveva leso il diritto della difesa, costituendo la decisione di rispondere alle domande del P.M. un mezzo di difesa della Palazzo ed il rifiuto di sottoporsi al controinterrogatorio l’esercizio di un diritto pacificamente riconosciuto all’imputato. In ordine all’asserita violazione dell’art. 209 cpv. c.p.p. osservava la Corte di merito che i difensori degli imputati, oppostisi all’inserimento delle dichiarazioni
— 291 — relative alla fase delle indagini preliminari, non avevano richiesto l’audizione della Palazzo. Per quanto attiene alle intercettazioni ambientali, i difensori eccepivano la nullità o l’inutilizzabilità delle stesse, per « difetto di motivazione » dei decreti autorizzativi. — (Omissis). MOTIVI DEL RICORSO. — Braccia Giuseppe deduceva violazione di legge e difetto di motivazione; in particolare deduceva la violazione dell’art. 503 c.p.p. perché non era stato possibile procedere al contro-interrogatorio della Palazzo Carmela; osservava che, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata era inadeguata. — (Omissis). MOTIVI DEL RICORSO. — Mariano Ciro, Romano Vincenzo, Ugon Rosario, Ricci Enrico e Palumbo Elvira deducevano violazione di legge, per l’utilizzazione delle dichiarazioni di Palazzo Carmela sostenendo: che, costituendo l’esame dell’imputato un atto complesso ed inscindibile, il « controesame » non poteva essere considerato accessorio e marginale; che conseguentemente l’interrogatorio dibattimentale della Palazzo Carmela doveva ritenersi nullo e comunque non utilizzabile; che l’imputato, operata la « scelta » di rispondere, poteva rifiutarsi di rispondere a singole domande, ma non ad un’intera fase dell’interrogatorio (controesame), come fatto palese dalle parole: « ... se rifiuta di rispondere ad una domanda ne è fatta menzione nel verbale »; — che la domanda doveva essere verbalizzata, sì da consentire di valutare l’attendibilità del mezzo di prova; che ove l’imputato si rifiuti in toto di rendere l’esame vengono acquisite le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, con l’eventuale contestazione delle dichiarazioni predette; che per contro non era stato consentito di porre domande e non si era provveduto alle contestazioni; che il Tribunale avrebbe comunque dovuto assumere le dichiarazioni rese dalla Palazzo nelle indagini preliminari; che immotivatamente era stata respinta l’istanza di rinnovazione del dibattimento; che apoditticamente era stata ritenuta « superflua » l’audizione della Palazzo e che arbitrariamente era stato affermato che la predetta avrebbe persistito nel rifiuto di rispondere; che illogicamente non erano stati acquisiti i precedenti verbali di interrogatorio della Palazzo; che illogicamente non era stata effettuata una perizia sul contenuto dei « totaretti », pur avendo la Corte di merito dato atto della totale ignoranza dell’imputata in materia di sostanze stupefacenti; che pertanto la Palazzo, in ordine alla composizione dei « totaretti » aveva formulato mere congetture, posto che l’unico reperto nulla aveva in comune con i « totaretti » descritti dall’imputata. — (Omissis). 1) Dichiarazioni rese da Palazzo Carmela. — Va rilevato che, contrariamente alle deduzioni dei ricorrenti, non sussistono né l’inutilizzabilità, né la nullità delle predette dichiarazioni dibattimentali della Palazzo. Premesso che l’inutilizzabilità si riferisce specificamente alla violazione del divieto di assunzione di determinati mezzi di prova, mentre la nullità (salvi i casi di « ordine generale » di cui agli artt. 178 sgg. c.p.p.) è tassativamente stabilita (art. 177 c.p.p.) nei casi previsti dalla legge, deve osservarsi che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che l’eccezione proposta dagli imputati era « inconfe-
— 292 — rente », non apparendo applicabili le norme di cui agli artt. 503-513-515 c.p.p. all’ipotesi in cui l’imputato accetti di sottoporsi all’interrogatorio, rifiutandosi ad un certo punto di proseguirlo. Deve affermarsi che, rientrando il predetto rifiuto di sottoporsi al « controinterrogatorio » della Palazzo Carmela null’altro che l’esplicazione di un diritto riconosciuto all’imputato, ogni argomentazione riguardante la dedotta violazione dei diritti dei difensori dei coimputati e la pretesa necessità di « contestazioni » da muovere alla Palazzo sulla base delle dichiarazioni da costei rese nella fase delle indagini preliminari è ultronea. Ed invero, il rifiuto della Palazzo di sottoporsi al « controesame » precludeva sia l’eventualità che i difensori dei coimputati « contestassero » il contenuto delle dichiarazioni dibattimentali rese dall’imputata prima che la stessa deliberasse di interrompere (e di « chiudere ») l’interrogatorio, sia l’eventualità che venisse data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalla Palazzo in sede di indagini preliminari. Quanto alla prima eventualità, infatti, mancava il presupposto della disponibilità dell’imputata a rispondere, sia pure negativamente, alle eventuali contestazioni, considerato il categorico rifiuto di proseguire l’interrogatorio; quanto alla seconda eventualità mancava il presupposto, di cui all’art. 513 c.p.p., del « rifiuto di rispondere all’esame », considerato che la Palazzo si sottopose all’esame, limitandosi a rifiutare il controesame. Deve in ogni caso rilevarsi (trattasi, all’evidenza di argomento decisivo ed assorbente...) che i difensori, nel giudizio di primo grado si opposero alla lettura delle dichiarazioni rese dalla Palazzo in sede di indagini preliminari, richiesta dal P.M., senza che peraltro i difensori degli altri imputati avessero chiesto l’esame della Palazzo. La difesa non può pertanto dolersi di quanto non venne disposto a cagione dell’opposizione della difesa stessa. Si soggiunge che nulla autorizzava a ritenere che vi fosse contrasto fra le dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari e quelle rese al dibattimento. — (Omissis).
——————— (1)
Le contestazioni nell’esame dell’imputato.
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari: il diritto alla controprova. — 2. Il rifiuto del controesame da parte dell’imputato. — 3. La lettura-acquisizione delle precedenti dichiarazioni dell’imputato. — 4. Il silenzio parziale dell’imputato e le contestazioni probatorie.
1. Considerazioni preliminari: il diritto alla controprova. — La seconda sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza in commento (1) affronta il tema del diritto al silenzio esercitato dall’imputato durante l’esame dibattimen(1) Al riguardo v. già le osservazioni di P. GIORDANO, L’opposizione dei difensori di primo grado non consente la richiesta di lettura in appello, in Guida diritto, 1997, fasc. 5, p. 96.
— 293 — tale, con riferimento sia alla disciplina delle contestazioni (art. 503 c.p.p.), sia alla regolamentazione delle letture dibattimentali ex art. 513 comma 1 c.p.p. (2). La questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte è nata dal comportamento processuale di un imputato che, dopo aver accettato l’esame richiesto dal pubblico ministero ed aver risposto rendendo, tra l’altro, dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri coimputati, rifiutò poi di sottoporsi al controesame. Il rappresentante dell’accusa chiese quindi di allegare al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese dall’imputato durante le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 513 comma 1 c.p.p.; a tale inserimento, peraltro, si opposero i difensori degli altri coimputati. Il Tribunale ritenne che nel caso concreto non fosse applicabile la norma sopra indicata e tale provvedimento fu confermato anche dal giudice di secondo grado. Più precisamente la Corte d’appello, di fronte alla richiesta dei difensori dei coimputati di controesaminare l’imputato silente in primo grado, ritenne addirittura si trattasse di istanza superflua, dato che il diritto al silenzio era già stato esercitato (3). La Corte di cassazione, prima di escludere in concreto la possibilità sia di operare le contestazioni, sia di procedere alla lettura delle precedenti dichiarazioni, ha svolto due argomentazioni decisive per il rigetto del ricorso. Innanzitutto l’opposizione sollevata dai difensori dei coimputati alla lettura richiesta dal pubblico ministero ex art. 513 comma 1 c.p.p., avrebbe precluso la possibilità di richiedere nuovamente la lettura delle precedenti dichiarazioni nel giudizio di secondo grado. In altri termini la scelta difensiva operata in primo grado avrebbe impedito di richiedere la lettura ai sensi dell’art. 513 comma 1 c.p.p. alla Corte di appello, previa la proposizione di impugnazione e la richiesta di rinnovazione del dibattimento (4). In secondo luogo la Suprema Corte, qualificato il rifiuto di sottoporsi al « controinterrogatorio » (rectius controesame) quale esplicazione di un diritto riconosciuto all’imputato, ha ritenuto priva di pregio ogni argomentazione difensiva sulla violazione del diritto di operare le contestazioni. Per la verità pare tutt’altro che « ultronea » la considerazione del diritto dei difensori dei coimputati di operare le contestazioni, stante il contenuto accusatorio delle dichiarazioni rese dall’imputato durante l’esame diretto. Desta quindi perplessità l’opinione espressa dalla Corte di cassazione che pare ritenere il diritto di difesa del « coimputato-accusatore » più meritevole di tutela del diritto di difesa del « coimputato-accusato ». Infatti la cassazione omette di prendere in considerazione il diritto dell’imputato a confrontarsi con chi lo accusa (5). Occorre invece evidenziare che proprio dalla tecnica di assunzione dell’esame testimoniale e delle parti (così come disciplinata dagli artt. 498 e 503 c.p.p.) emerge la concezione del (2) La l. 7 agosto 1997, n. 267 recante « Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove » è intervenuta su alcune norme tra cui l’art. 513 c.p.p. In particolare con riguardo al comma 1 le dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare se lette in dibattimento non potranno essere utilizzate contro altri soggetti nel caso in cui questi non vi consentano. Non risultano invece modificati i presupposti di applicabilità delle norma (assenza o contumacia dell’imputato ovvero suo rifiuto di sottoporsi all’esame); la riforma quindi non sposta i termini della questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte. (3) La soluzione per la verità pare non tener conto del fatto che il diritto al silenzio è rinunciabile. Pare quindi apodittica l’affermazione della Cassazione: anche se il mantenimento di una linea difensiva chiusa appare il più probabile, non è comunque scontato. (4) Evidenzia il punto e critica la sentenza in commento P. GIORDANO, L’opposizione dei difensori, cit.: l’Autore sostiene che il diritto di difesa non può essere compresso da precedenti ancorché incoerenti comportamenti difensivi. In generale sulla rinnovazione dibattimentale in secondo grado si rinvia a F. PERONI, L’istruzione dibattimentale nel giudizio d’appello, Cedam, 1995, p. 181 s. (5) In merito, con particolare riguardo alla disciplina dell’esame degli imputati in procedimenti connessi o collegati, si vedano le osservazioni di P. TONINI, Diritto dell’imputato ad interrogare colui che lo accusa e diritto di non rispondere, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 353.
— 294 — controesame come fase funzionalmente e strutturalmente collegata all’esame diretto (6). Nel dibattimento l’abilità e la prontezza dei contraddittori sono caratteristiche determinanti dello scontro tra soggetto esaminato e parte esaminante (7). Il tema merita una riflessione anche in considerazione della rinnovata attenzione per i contenuti garantistici delle Carte internazionali dei diritti dell’uomo (8). Occorre inoltre ricordare il dibattito che ha preceduto la recentissima modifica del testo dell’art. 513 c.p.p., sintomatico, tra l’altro, dell’avvertita esigenza di una maggiore tutela del diritto alla controprova (9). Tale diritto è previsto espressamente dall’art. 495 comma 2 c.p.p. secondo il quale l’imputato ha diritto all’ammissione delle prove a discarico sui fatti oggetto delle prove a carico e, reciprocamente, un eguale diritto è riconosciuto in capo al pubblico ministero (10). Il diritto alla controprova, anzi, è essenziale integrazione dell’art. 190 che positivizza il diritto alla prova delle parti (11), nonché aspetto imprescindibile del contraddittorio (12). L’esplicita garanzia del diritto al controesame dei testimoni a carico si trova sancita all’art. 6 n. 3 lett. d) Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e nell’art. 14 n. 3 lett. b) del Patto internazionale e rafforza il diritto alla prova delle parti (13). Compreso tra i diritti c.d. giudiziari (giusto processo, durata del procedimento, diritti dell’imputato, diritti della difesa) tutelati dalla Convenzione europea, il diritto in questione attiene al tema della formazione della prova e al principio del contraddittorio. Vanno segnalati a questo proposito due princìpi, elaborati con riguardo al diritto alla controprova dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (14). In primo luogo la Corte ha stabilito che per « testimone » si debba intendere qualsiasi persona che renda una dichiarazione utilizzabile dal giudice nella valutazione dell’accusa. In secondo luogo secondo la Corte europea, nei casi in cui sia impossibile assumere la dichiarazione testimoniale in una pubblica udienza per assicurare il contraddittorio alla presenza dell’imputato, l’utilizzazione di dichiarazioni rese in fasi precedenti non è incompatibile con l’art. 6 n. 3 (6) E. LEONE, Sull’ammissibilità del controesame e della controprova nell’ipotesi di rinuncia all’esame principale, in Cass. pen., 1997, p. 1522, 968. (7) P.P. RIVELLO, Commento all’art. 503 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. V, Utet, 1991, p. 336. (8) In tal senso E. MARZADURI, L’identificazione del contenuto del diritto di difesa nell’ambito della previsione dell’art. 6 n. 3 lett. c) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1997, p. 268, 178. (9) La ragione della modifica dell’art. 513 comma 1 c.p.p. cui abbiamo accennato (cfr. nota 2) si rinviene infatti nella tutela del principio del contraddittorio: chi non ha avuto la possibilità di partecipare all’atto con il quale si è assunta la dichiarazione precedente al dibattimento, sottoponendo tale dichiarazione al vaglio dell’esame incrociato, ne subisce le conseguenze solo se vi consente. Sul punto si segnalano i primi commenti di P.P. RIVELLO, Le modifiche all’acquisizione delle prove non mettono riparo ai « guasti » del processo, in Guida diritto, 1997, fasc. 32, p. 67; G. FRIGO, Ritornano l’oralità ed il contraddittorio mentre cresce il rischio di una controriforma, ivi, p. 70 s. (10) Il controesame si caratterizza come espressione del rigth of confrontation (diritto di confrontarsi con i testi a carico) cui si affianca il rigth compulsory process (diritto di ottenere coattivamente la convocazione dei testi a discarico). Tali diritti costituiscono, in una prospettiva garantistica, il fondamento delle modalità di assunzione dell’esame delle parti. Così G. FRIGO, Commento all’art. 503 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento, cit., Vol. V, Utet, 1991, p. 234 s. (11) Per l’esattezza l’art. 495 comma 2 c.p.p. integra l’art. 190 comma 1 ultimo periodo c.p.p. laddove codifica una sorta di presunzione — relativa — di ammissibilità delle richieste probatorie di parte: così M. CHIAVARIO, Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale, in Cass. pen., 1996, p. 2009 s., 1194. (12) Secondo F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 1995, p. 587, il diritto alla prova è codificato non tanto dall’art 190 c.p.p. quanto dall’art. 495 comma 2 c.p.p. in quanto diritto di qualunque parte di interloquire rispetto all’ammissione e formazione della prova. (13) M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, Giuffrè, 1977, pp. 206-207. (14) Sul punto per l’indicazione della giurisprudenza citata, cfr. E. SELVAGGI, Il difficile bilanciamento tra esigenze di difesa della società e diritti della difesa: il teste anonimo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1996, p. 2419 s., 1405.
— 295 — lett. d) Conv. eur., a condizione che il diritto di difesa sia rispettato garantendo all’imputato l’opportunità di controbattere ed esaminare il teste a carico al momento della dichiarazione o, comunque, in un momento successivo. La cassazione ha poi fornito la propria interpretazione dell’art. 513 comma 1 c.p.p e dell’art. 503 c.p.p., per negare l’applicabilità di entrambe le disposizioni al caso concreto. Quanto alla norma disciplinante la lettura a richiesta di parte delle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato che rifiuta « l’esame », si è infatti evidenziata la carenza del presupposto giacché l’imputato nell’ipotesi specifica aveva accettato di sottoporsi all’esame, rifiutando, invece, soltanto il « controesame ». Inoltre con riferimento alla possibilità di operare le contestazioni la Corte di cassazione ha ritenuto inesistente la condizione posta implicitamente dall’art. 503 c.p.p. e cioè la « disponibilità » dell’imputato « a rispondere sia pure negativamente, alle eventuali contestazioni ». L’interpretazione della cassazione lascia non regolamentata l’ipotesi dell’imputato che, accettato l’esame, rifiuta poi di sottoporsi alla fase del controesame. Con una tale condotta l’imputato « dispone » del mezzo di prova e si sottrae al contraddittorio con le altre parti interessate. L’interpretazione strettamente letterale e formalistica operata dalla Suprema Corte non convince. Riteniamo utile dare una valutazione giuridica del « tipo » di comportamento processuale tenuto dall’imputato-accusatore con riferimento al principio del nemo tenetur se detegere, per poi verificare se ad esso possa ritenersi applicabile la disciplina delle letture o delle contestazioni. 2. Il rifiuto del controesame da parte dell’imputato. — Pure se non considerata dalla cassazione torna all’attenzione la distinzione, evidenziata da una parte della dottrina, tra diritto al silenzio « totale » e diritto al silenzio « parziale » (15): occorre riportare a tale distinzione il comportamento processuale dell’imputato che, accettato l’esame e avendo risposto alle domande durante l’esame « diretto », rifiuta poi di sottoporsi al controesame. Val la pena di ricordare, pur trattandosi di nozioni conosciute, che il codice di procedura penale attribuisce all’indagato nell’interrogatorio e all’imputato durante l’esame dibattimentale il diritto di tacere. Quanto all’interrogatorio, a prescindere qui dal problema della sua natura, si tratta di istituto caratterizzato dalla « volontarietà » in quanto l’art. 64 comma 3 c.p.p. prevede il diritto al silenzio dell’indagato o dell’imputato; l’esercizio di tale diritto fa sorgere in capo all’autorità giudiziaria il dovere di non procedere al compimento di tale atto. In ogni caso l’interrogato, che non si sia avvalso del diritto di tacere, può non rispondere ad alcune fra le domande che gli vengono poste. In altri termini, con riguardo all’interrogatorio nel merito, la persona sottoposta alle indagini ha la facoltà di non rispondere a singole domande (art. 65 comma 3 c.p.p.). Al silenzio totale o parziale corrispondono situazioni giuridiche diverse con (15) La distinzione tra diritto al silenzio totale e diritto al silenzio parziale trova corrispondenza anche nel processo penale francese con riguardo all’indagato durante la fase dell’istruzione. Si parla di un diritto al silenzio in senso stretto ex art. 116 comma 3 c.p.p. consistente nella possibilità di sottrarsi all’interrogatorio immediato di fronte al giudice istruttore prima che sia stata discussa una linea difensiva col proprio difensore. Vi è poi il diritto a tacere consistente nella possibilità dell’indagato di non rispondere a singole domande incriminanti durante l’interrogatorio; tale diritto non è codificato ma è dedotto dalla dottrina argomentando a contrario dalle norme (art. 109 c.p.p. per l’istruzione e 326 e 438 c.p.p. per il dibattimento) che puniscono il solo rifiuto di rispondere del testimone. In generale si rinvia a M. DELMAS MARTY, Le droit au silence en procédure pénale, Collection des travaux de la faculté des sciences juridiques, politiques et sociales de Lille, 1977; J. DUMONT, Interrogatoires et confrontations, Editions techniques, Juris Classeurs, 1995, n. 40, pp. 6-8 e n. 56; B. BOULOC, La mise en examen, in AA.VV., La procédure pénale, bilan des réformes depuis 1993, Dalloz, 1995, p. 38 s.
— 296 — differenti conseguenze processuali. La situazione soggettiva descritta dall’art. 64 comma 3 c.p.p. è un diritto cui corrisponde in capo al magistrato un dovere di non procedere a porre domande, mentre l’ipotesi regolata dall’art. 65 comma 3 c.p.p. si qualifica come mera facoltà a fronte della quale non sorge alcun dovere per il magistrato procedente, che potrà legittimamente formulare le domande che ritiene opportune (16). Inoltre nei due casi si diversifica la rilevanza del comportamento dell’imputato ai fini della motivazione della decisione. L’esercizio del diritto al silenzio, come sopra qualificato, non è suscettibile di valutazione alcuna da parte del giudice. Viceversa l’esercizio della facoltà di non rispondere a singole domande può rilevare nel giudizio sulla credibilità dell’interrogato e sull’attendibilità delle dichiarazioni rese (17). Anche rispetto all’esame dell’imputato (e delle altre parti private) pare si possa ripetere la distinzione cui si è accennato (18). In particolare, considerando corretta la tesi di chi vede il diritto al silenzio (totale) dell’imputato assorbito nella volontarietà della sottoposizione all’esame (19), resta da riflettere sull’art. 209 comma 2 c.p.p. che attribuisce un diritto di non rispondere a « singole » domande. La norma, ripetendo quanto previsto dall’art. 65 comma 3 c.p.p., stabilisce che la recusatio respondendi dell’imputato debba essere verbalizzata, con ciò inducendo a chiedersi quale utilizzazione possa essere fatta sul piano probatorio della menzione della mancata risposta (20). A questo proposito la maggioranza della dottrina, forse non dedicando adeguata attenzione alla questione (21) richiama la relazione ministeriale al progetto preliminare del codice di procedura penale (22) secondo la quale il valore squisitamente probatorio dell’esame sta nel fatto che, quando la parte vi si è sottoposta, non può più sottrarsi alle domande che gli vengono rivolte. Conseguentemente ogni rifiuto di rispondere, riportato nel verbale di udienza, « assumerà legittimamente valore di argomento di prova a sfavore della parte » (23). Inoltre, nel caso di mancata risposta ad alcune domande, l’imputato perderà in credibilità sulle altre dichiarazioni rese (24). Resta da chiarire se esistono ulteriori conseguenze processuali per l’imputato che non abbia risposto a talune domande. La questione è stata già segnalata dalla (16)
Per un’ampia distinzione tra le situazioni giuridiche soggettive in generale si veda L. BI-
GLIAZZI GERI, Norme, soggetti e rapporto giuridico, Utet, 1988, p. 253 s.
(17) O. DOMINIONI, L’imputato, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. I, Giuffrè, 1989, p. 385 s. (18) Del silenzio parziale vi è cenno in V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, p. 1172; M. BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., 1992, IV, c. 36; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in G. UBERTIS, La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, 1992, p. 108, p. 909; N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, 1992, p. 335; volendo P. FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimentale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, p. 5, 1; M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento, cit., II aggiornamento, Utet, 1993, p. 436. (19) V. GREVI, Prove, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Cedam, 1996, p. 219. L’Autore sottolinea che la scelta del silenzio (e quindi del rifiuto dell’esame) non è del tutto libera, giacché per l’imputato discendono dall’art. 513 comma 1 c.p.p. conseguenze « potenzialmente svantaggiose ». (20) In generale sull’art. 209 comma 2 c.p.p. si veda R. ORLANDI, Commento all’art. 209 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento, cit., vol. II, Utet, 1991, p. 502. (21) Per una sintesi delle varie posizioni dottrinali si rinvia al recente contributo di S. CIANI, L’esame delle parti: profili strutturali e valenza probatoria, in Cass. pen., 1997, p. 1522 s., 1457. (22) Da ultimo, S. CIANI, L’esame delle parti, cit. (23) Relazione ministeriale al progetto preliminare del codice di procedura penale, p. 64. (24) Per R. ORLANDI, Commento all’art. 209 c.p.p., cit., p. 507, il diritto al silenzio come principio generale sarebbe aggirato se il rifiuto di rispondere alle domande fosse utilizzato contro l’imputato: sarebbe invece prospettabile solo un uso indiretto ed interno all’atto istruttorio, in punto di verifica e controllo dell’attendibilità delle dichiarazioni rese.
— 297 — dottrina (25) all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1988. Particolarmente si è fatto riferimento all’imputato che, tramite un artificio processuale consistente nell’accettare l’esame per poi avvalersi reiteratamente del diritto di non rispondere alle singole domande, eviti sia le letture dibattimentali che le contestazioni. In tal modo l’imputato si difenderebbe dall’utilizzazione delle dichiarazioni improvvidamente rese nella fase preprocessuale, impedendo di fatto il compimento dell’esame o del controesame sui fatti e circostanze che ne sono oggetto. Una situazione del genere si è verificata, del resto, proprio nel caso in esame. Invero pare possibile qualificare l’ipotesi in discorso come esempio di silenzio « parziale » giacché il diniego dell’imputato non riguarda tutto l’esame (ipotesi disciplinata dall’art. 513 comma 1 c.p.p.) ma solo le domande che le parti interessate possono porre nel corso del controesame. A questo punto rimane da determinare se nell’ipotesi di silenzio parziale dell’imputato in dibattimento sia applicabile il regime delle letture ex art. 513 c.p.p. ovvero la disciplina delle contestazioni probatorie. 3. La lettura-acquisizione delle precedenti dichiarazioni dell’imputato. — Per stabilire se sia possibile, in via interpretativa, ricondurre alla disciplina dell’art. 513 comma 1 c.p.p. l’ipotesi del rifiuto di rispondere ad alcune domande, occorre riflettere sull’ambito operativo della norma. L’art. 513 comma 1 c.p.p. coinvolge il vasto tema delle diverse forme di utilizzazione dibattimentale di atti assunti nelle fasi precedenti. Si distinguono diversi tipi di utilizzazione dibattimentale con particolare riferimento a due categorie giuridiche, la lettura-acquisizione (disciplinata dagli artt. 511-515 c.p.p.) e la lettura-contestazione (regolata dagli artt. 500-503 c.p.p.) (26). In relazione alla lettura quale forma di acquisizione probatoria, l’art. 513 si pone accanto all’art. 512 che disciplina la possibilità di lettura degli atti per la sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Si tratta di eccezioni all’oralità ed al contraddittorio piuttosto « forti »: in tali casi la dichiarazione extradibattimentale non si affianca soltanto (così come avviene nel caso di lettura-contestazione), ma addirittura prende il posto di una dichiarazione orale che non è stata resa in dibattimento (27). Questo essendo il quadro generalissimo, l’art. 513 comma 1 c.p.p. viene per lo più visto dalla dottrina nell’ambito di una logica inquisitoria poiché finisce per frustrare il diritto dell’imputato di non collaborare nell’ipotesi, appunto, in cui abbia reso dichiarazioni nelle fasi precedenti al dibattimento (28). Un’interpretazione estensiva dell’art. 513 comma 1 c.p.p. nel senso della sua (25) N. CARULLI, G. ESPOSITO, G. MASSA, G. PALUMBO, Lineamenti del nuovo processo penale, Jovene, 1989, p. 292; P.P. RIVELLO, Commento sub art. 503 c.p.p., cit., p. 325; S. BUZZELLI, Il contributo, cit., p. 108; V. GREVI, Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 c.p.p. e letture dei verbali di precedenti dichiarazioni, in questa Rivista, 1992, p. 1131. (26) M. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 276; ID., Commento all’art. 511 c.p.p. in M. CHIAVARIO, Commento, cit., vol. V, Utet, 1991, p. 423, in cui l’Autore evidenzia come il sistema delle letture dibattimentali sia parametro per stabilire l’effettiva efficacia attribuita ai princìpi di immediatezza, pubblicità e contraddittorio nel processo. (27) P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Studi sul processo penale, Giappichelli, 1990, p. 92 s.; G. LOZZI, Riflessioni sul processo penale, Giappichelli, 1994, p. 265 s. Per una critica alla tradizionale contrapposizione tra letture ed oralità si veda, invece, L. KALB, Il sistema delle letture dibattimentali, in Annali dell’Istituto di diritto e procedura penale di Salerno, 1993, p. 91. In giurisprudenza si segnala Cass., Sez. VI, 20 settembre 1993, in Giust. pen., 1994, III, 483 (s.m.): secondo tale pronuncia la lettura degli atti in dibattimento costituisce una deroga al principio generale della formazione della prova al dibattimento e gli artt. 511, 512 e 513 c.p.p. non sono, quindi, suscettibili di applicazione analogica. (28) P. FERRUA, La formazione, cit., p. 96; C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. I, Giappichelli, 1991, p. 237 s.; G. UBERTIS, Giudizio di primo grado (disciplina del) nel processo penale, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1991, p. 536; M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., cit., p. 437; A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, Giuffrè, 1995, p. 298.
— 298 — applicabilità anche all’ipotesi del silenzio parziale è stata peraltro « suggerita » (29) dalla sentenza della Corte costituzionale n. 254 del 1992 (30). I giudici costituzionali, infatti, hanno equiparato il rifiuto di rispondere dell’imputato nel corso dell’esame — anche con riferimento a singole domande — al rifiuto dell’esame. Si tratterebbe di casi in cui si configura un’indisponibilità dell’imputato rispetto alla formazione della prova: ne deriverebbe un’impossibilità sopravvenuta di ripetere l’atto (31). È stato però evidenziato che un ampliamento applicativo dell’art. 513 comma 1 c.p.p. tramite un’interpretazione adeguatrice (alla luce della sopra citata sentenza costituzionale) avrebbe quale effetto l’incremento delle eccezioni al principio di oralità (32). Alla luce di tale fondata obiezione è preferibile una diversa soluzione ermeneutica, soprattutto dopo l’introduzione dell’art. 500 comma 2-bis c.p.p. ad opera della l. n. 356 del 1992 con cui il legislatore ha assimilato le ipotesi di silenzio parziale al regime delle contestazioni probatorie. 4. Il silenzio parziale dell’imputato e le contestazioni probatorie. — Con riguardo all’esame testimoniale la vigente disciplina consente che si faccia luogo a contestazione anche quando il teste illegittimamente (33) rifiuta od omette in tutto od in parte di rispondere sulle circostanze riferite in dichiarazioni precedenti. L’art. 500 comma 2-bis c.p.p. consente di riportare all’istituto delle contestazioni non solo l’ipotesi di divario contenutistico tra le dichiarazioni della medesima persona, ma anche il caso della difformità tra atteggiamento negativo (silenzio) del soggetto esaminato ed i contributi probatori dallo stesso già forniti (34). La modifica legislativa, in sostanza, consente di configurare anche in riferimento al testimone la distinzione tra silenzio totale e silenzio parziale. La necessità di stabilire se la disciplina « base » delle contestazioni sia applicabile all’esame dell’imputato e delle altre parti private si pone giacché l’art. 503 c.p.p. relativo all’esame di tali soggetti non riproduce una previsione corrispondente al comma 2-bis dell’art. 500 c.p.p. (35). Si potrebbe superare l’obiezione considerando che l’art. 503 fa comunque rinvio all’istituto della contestazione di(29) Sul punto, O. MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica ed efficacia probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 854. (30) Corte cost. n. 254 del 1992, in questa Rivista, 1992, p. 1115 s., con nota di V. GREVI, alle pp. 1123 s.; la pronuncia dichiarò illegittimo l’art. 513 comma 2 c.p.p. che, a differenza del comma 1 non prevedeva, tra i casi che consentivano la lettura, il rifiuto di rispondere opposto dall’imputato in procedimento connesso o collegato. Si veda G. DI CHIARA, Processo penale e giurisprudenza costituzionale — itinerari —, Roma, 1996, p. 330. (31) La tesi è stata sostenuta, anche se in termini diversi, antecedentemente alla pronuncia di illegittimità costituzionale n. 254 del 1992 da E. FASSONE, Il giudizio, in E. FORTUNA ed Altri, Manuale pratico del nuovo processo penale, Cedam, 1991, p. 780 e, volendo, P. FELICIONI, Brevi osservazioni, cit., p. 8. (32) M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., cit., p. 280. L’interpretazione estensiva dell’art. 513 comma 1 c.p.p., peraltro, è tuttora sostenuta da E. FASSONE, Il giudizio, in E. FORTUNA ed Altri, Manuale pratico, cit., 4a ed., 1995, p. 860. (33) Pare corretto sostenere che la disciplina delle contestazioni non opera quando il rifiuto di rispondere opposto dal testimone è legittimo, in quanto si fonda sull’esistenza di un segreto ex art. 199 ss. c.p.p. A tale proposito, si segnala Cass., 16 febbraio 1994, Grandinetti, in C.E.D. Cass., n. 1984769 secondo la quale l’esercizio della facoltà di astensione dal testimoniare da parte del prossimo congiunto dell’imputato preclude l’applicazione degli artt. 500 e 512 in quanto il primo presuppone che le contestazioni si rivolgano ad un teste che abbia deposto senza esercitare la facoltà di astenersi, il secondo che la ripetizione delle precedenti dichiarazioni sia divenuta impossibile per circostanze imprevedibili e non per l’esercizio di una facoltà garantita dalla legge. In senso difforme si veda invece C. cost., 16 maggio 1994, n. 179, Marchesi, in Cass. pen., 1994, 2389. (34) V. GREVI, Facoltà di non rispondere, cit., p. 1130; sulla definizione del nuovo concetto di contestazione si veda anche G. FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, in Giur. it., 1993, IV, c. 312; G. ILLUMINATI, Il giudizio, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice, cit., p. 843. (35) V. GREVI, Facoltà di non rispondere, cit., p. 1130; M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., cit., p. 279.
— 299 — sciplinato dall’art. 500 c.p.p. Resta però da considerare l’esistenza del comma 3 ultimo periodo dell’art. 503 c.p.p. che espressamente riproduce il limite secondo il quale, per operare la contestazione nell’esame delle parti, occorre che l’esaminato abbia già deposto sui fatti e circostanze da contestare. Il testo della norma quindi dovrebbe far propendere per l’inapplicabilità del regime delle contestazioni nell’esame testimoniale (art. 500 comma 2-bis c.p.p.) al caso dell’imputato esaminato che non risponda a talune domande. La dottrina sul punto si è attestata su diverse posizioni. Taluno (36) ha sostenuto l’applicabilità dell’art. 500 comma 2-bis anche all’esame delle parti giacché il rifiuto o l’omissione della risposta da parte di chi ha consentito all’esame, rappresenta una « modalità » della deposizione in contrasto con la dichiarazione precedente al dibattimento. Un altro Autore (37) ha visto nell’applicazione della disciplina delle contestazioni all’esame dell’imputato, scelta congrua anche rispetto al ritmo dialettico dell’esame dibattimentale, una soluzione razionalizzatrice rispetto agli effetti della mancata risposta; altri (38), infine, pur non nascondendo perplessità sul complessivo regime delle letture e contestazioni, ritiene inaccoglibile un’estensione analogica dell’art. 500 comma 2-bis c.p.p. trattandosi di disposizione eccezionale. Per la verità l’applicabilità della nuova disciplina delle contestazioni all’ipotesi di silenzio parziale dell’imputato pare sostenibile sia per via di interpretazione sistematica, sia sul piano dei princìpi del processo penale. Innanzitutto dal combinato disposto degli artt. 500 comma 2-bis e 503 c.p.p. si può sostenere che non occorre, al fine di operare la contestazione, che l’imputato sottopostosi volontariamente all’esame, deponga, né, tantomeno, che sia disponibile a rispondere o a farsi controesaminare. In concreto le parti potranno porre le domande che ritengono opportune e, in caso di silenzio opposto dall’esaminato, sarà possibile operare la contestazione (39). Quanto al limite testuale ex art. 503 comma 3 ultimo periodo, questo pare superabile considerandone la ratio rinvenibile nell’esigenza di evitare acritiche conferme di precedenti dichiarazioni ovvero di suggerire o condizionare le risposte, dandosi in ogni caso precedenza all’escussione orale (40). Occorre infatti evidenziare che anche i rifiuti e i silenzi vengono a far parte della deposizione (testimoniale) (41) per scelta dell’esaminato ed è perciò corretto che si svolga il contraddittorio diretto, in quanto potente strumento gnoseologico, nel corso della deposizione stessa e perciò anche sui silenzi (42). Peraltro sul piano dei princìpi l’istituto delle contestazioni non pare eccezionale rispetto all’oralità del giudizio; piuttosto è qualificabile come « modalità » di assunzione della prova al dibattimento (43). (36) A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 1996, p. 99. (37) V. GREVI, Le « dichiarazioni del coimputato », cit., p. 1151; ID., Facoltà di non rispondere, cit., p. 1131. (38) M. NOBILI, Commento all’art. 513 c.p.p., cit., p. 280. (39) P. GIORDANO, L’opposizione dei difensori, cit., p. 98, parla di contestazione « in supplenza » o « sostitutiva » come prassi consentita dai giudici di merito, quando la parte controesaminante opera la contestazione basandosi su una risposta fornita all’altra parte in sede di esame. (40) A. NAPPI, Considerazioni in tema di contestazioni nel corso dell’esame dei testimoni o delle altre parti private, in Cass. pen., 1992, p. 2485, 1383. (41) G. ILLUMINATI, Il giudizio, cit., p. 584. (42) Con riguardo alle diverse modalità operative delle letture nel giudizio, D. SIRACUSANO, Il giudizio, in D. SIRACUSANO ed Altri, Diritto processuale penale, vol. II, 2a ed., Giuffrè, 1996, p. 294, ribadisce il concetto secondo cui gli atti delle indagini preliminari compiuti in assenza di contraddittorio, possono essere acquisiti al dibattimento e divenire oggetto di lettura, solo attraverso il contraddittorio. (43) In questi termini si veda A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., p. 99, secondo il quale l’istituto delle contestazioni ex artt. 500 e 503 c.p.p. attenua il principio della separazione delle fasi senza derogarvi.
— 300 — Infine sotto il profilo dogmatico l’interpretazione che qui si caldeggia è congrua anche rispetto alla distinzione dottrinale in precedenza riferita tra diritto al silenzio totale (ex art. 64 c.p.p.) e facoltà di non rispondere a singole domande (ex art. 65 c.p.p.). Come abbiamo già chiarito tale distinzione è valida anche con riguardo all’esame dibattimentale dell’imputato. La differenza si apprezza in considerazione delle situazioni giuridiche soggettive dell’interrogante. La « facoltà » di non rispondere, infatti, consente all’autorità procedente di porre egualmente le domande nonostante la reiterazione di mancata risposta alle stesse. Il silenzio parziale deve essere qualificato in termini di facoltà; la facoltà di non rispondere a singole domande, infatti, non fa sorgere nell’interrogante il dovere di astenersi dal porre domande ulteriori nel controesame ed operare eventuali contestazioni in tale sede. Pertanto una volta che l’imputato abbia accettato l’esame, non può opporsi al controesame ad opera della parte interessata: il silenzio di fronte alle singole domande sarà valutabile dal giudice. PAOLA FELICIONI Ricercatore di procedura penale Università di Firenze
— 301 — CASSAZIONE PENALE — Sez. V — 21 gennaio 1998 Pres. Consoli — Rel. Nappi P.M. Palombarini (concl. parz. diff.) — Ric. Cusani Utilizzo extrabilancio di fondi sociali — Non costituisce di per sé appropriazione indebita — Onere della prova su effettiva destinazione — Sussistenza (C.p. art. 646). Fondi extrabilancio — Destinazione al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali — Appropriazione indebita — Insussistenza (C.p. art. 646). Illecito finanziamento dei partiti — Momento consumativo — Depenalizzazione per effetto della l. n. 515 del 1993 — Esclusione (l. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7). Riserva occulta — False comunicazioni sociali — Sussistenza — Condizioni (C.c. art. 2621, n. 1). Falso in bilancio — Inesigibilità dell’autodenuncia — Insussistenza dell’esimente (C.c. art. 2621, n. 1). L’utilizzazione extrabilancio di fondi sociali non è sufficiente a integrare di per sé un’appropriazione indebita, ma il loro occulto gestore deve ritenersi gravato da un rigoroso onere di provarne l’effettiva destinazione (1). Né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrano gli estremi dell’appropriazione indebita (2). Il delitto previsto dall’art. 7 della l. n. 195 del 1974 si consuma già solo con l’erogazione del contributo occulto o vietato e, quindi, ben prima che sorga lo stesso obbligo di informazione la cui violazione è punita come illecito amministrativo dalla l. n. 195 del 1993 (3). La mancata rappresentazione di una riserva occulta e della sua gestione rende falso il bilancio, quand’anche si sia esaurita nel corso di un solo esercizio, qualora detta riserva occulta abbia avuto dimensioni e destinazioni tali da costituire un elemento significativo delle effettive condizioni economiche della società (4). È escluso che il falso in bilancio sia scriminato dall’inesigibilità dagli amministratori di una condotta di autodenuncia in ordine a reati in precedenza commessi (5). (Omissis). — 1. Il 5 settembre 1993 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano accogliendo una richiesta del pubblico ministero, dispose il giudizio immediato nei confronti di Sergio Cusani, consulente finanziario della Montedison s.p.a., imputato di falso in bilancio e di illecito finanziamento a partiti politici, in concorso con gli amministratori della società Raoul Gardini, Giuseppe Garofano e Carlo Sama. Nel corso del dibattimento di primo grado, peraltro, le imputazioni furono corrette, precisate e integrate, in particolare con la contestazione anche del delitto di appropriazione indebita, in relazione ai fondi extrabilancio della società Montedison dei quali non era stata accertata l’utilizzazione per l’illecito finanziamento di
— 302 — partiti politici. Sicché, a conclusione del dibattimento, trasformati una parte degli originari addebiti di illecito finanziamento a partiti politici (capo 3) in addebiti di appropriazione indebita (capo 8 sub C), le imputazioni elevate a carico di Sergio Cusani risultarono così articolate: CAPO 1. False comunicazioni sociali. — Del delitto p. e p. degli artt. 81 n. 2, 91 comma 2, 112 n. 1 c.p., 2621 e 2640 c.c., perché, in concorso con Gardini Raoul (presidente della Montecison), Sama Carlo (consigliere Montedison) e Garofano Giuseppe (consigliere Montedison), nonché in concorso con i legali rappresentanti della società Simmont s.p.a. e delle altre società sotto indicate, fraudolentemente, a partire dal bilancio di esercizio 1990, non indicava nei bilanci e nelle altre comunicazioni sociali della Montedison s.p.a., della Simmont s.p.a. e della Sviluppo Linate s.p.a. degli anni 1990, 1991 e 1992, e comunque non comunicava ai soci la creazione e l’esistenza di disponibilità extracontabili per l’importo complessivo di lire 153.000.000.000 (precisato poi in lire 152.120.000.000). In particolare perché: A) Operazione Sviluppo Linate: 60 miliardi. La Montedison stipulava un accordo con la Invedil s.r.l. (gruppo Bonifaci) per l’acquisizione da parte di quest’ultima della società Sviluppo Linate s.p.a. per un prezzo complessivo di 400 miliardi (comprendente beni immobili, e liquidità di cassa per 60 miliardi); — Cusani, Gardini, Garofano e Sama facevano stipulare alla Sviluppo Linate un generico e strumentale contratto d’appalto (nonostante non esistesse alcun progetto esecutivo) con l’impresa di costruzioni Italvie s.p.a. (gruppo Bonifaci) per la realizzazione del complesso immobiliare Montecity ad un prezzo « chiavi in mano » prefissato di 600 miliardi, consegnando alla Italvie la somma di lire 60 miliardi (proveniente da un finanziamento infruttifero della Montedison alla Sviluppo Linate) a titolo di deposito infruttifero a valere come acconto per l’esecuzione del contratto d’appalto qualora ciò possa avvenire entro un termine prefissato, ovvero a livolo di « danno forfetizzato » (benché inesistente) qualora non si dovesse pervenire alla stipulazione della convenzione urbanistica entro il termine concordato; — contestualmente Bonifaci Domenico consegnava a Cusani Sergio equivalenti titoli di Stato (CCT) per lire 60 miliardi, denaro che, pur essendo di pertinenza della Montedison, Cusani, in accordo con Gardini, Sama e Garofano, non riversava nelle casse Montedison e sue controllate, non faceva registrare nei libri contabili, non comunicava nelle altre scritture sociali obbligatorie, né in alcun modo ai soci, ma occultava parte in Italia, parte all’estero; B) Operazione Plexus-Edilcomp - C.I.E. (93 miliardi, precisati poi in lire 92.120.000.000; — Simmont s.p.a (controllata integralmente dalla Montedison s.p.a.) acquistava le società immobiliari Plexus s.r.l. ed Edilcom s.r.l. (facenti capo al gruppo Bonifaci) per lire 290 miliardi e stipulava un contratto con la C.I.E. s.r.l. (controllata integralmente da gruppo Bonifaci) per l’acquisizione di un complesso immobiliare di lire 270 miliardi; — Simmont stipulava un generico e strumentale contratto d’appalto « chiavi in mano » con la Italvie s.r.l. (gruppo Bonifaci) per la costruzione di complessi edilizi sugli immobili ceduti dal gruppo Bonifaci alla Simmont ad un prezzo prefissato e « chiavi in mano », nonostante non vi fossero progetti esecutivi redatti,
— 303 — consegnando peraltro la somma di almeno 150 miliardi (proveniente da finanziamento infruttifero della Montedison) a titolo di deposito infruttifero; — contestualmente Bonifaci Domenico restituiva parte del denaro ricevuto dalla Simmont per le suddette vendite immobiliari consegnando a Cusani Sergio titoli di Stato (CCT) per lire 89.800.000.000 (precisate poi in lire 88.920.000.000) e contante per lire 3.200.000.000 e così complessivamente lire 93 miliardi (precisate poi in lire 92.120.000.000), somma che, pur essendo di pertinenza della Simmont-Montedison, Cusani, in accordo con Gardini, Sama e Garofano, non riversava nelle casse Simmont, con conseguente falsità delle indicazioni del valore della partecipazione a Simmont nel bilancio Montedison, non faceva registrare nei relativi libri contabili, non comunicava nelle altre scritture sociali obbligatorie, né in alcun modo ai soci, ma occultava parte in Italia, parte all’estero. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con il concorso di persone superiore a quattro, al fine di conseguire il profitto ed assicurarsi l’impunità per i reati di appropriazione indebita di cui appresso, nonché per eseguire il delitto di finanziamento occulto dei partiti politici ed inoltre con l’aggravante dell’aver cagionato alla società Montedison e sue collegate un danno di rilevante entità. In Milano nei bilanci 1990, 1991 e 1992 della Montedison e società controllate. CAPO 2. Alcuni illeciti finanziamenti per la vicenda Enimont. — Del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110, 112 n. 1 c.p., 7 l. 2 maggio 1974, n. 195, 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché, in concorso con Gardini Raoul (presidente della Montedison), Sama Carlo (consigliere della Montedison), Garofano Giuseppe (consigliere della Montedison) e con altre persone, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, a conclusione della vicenda Enimont, erogava quanto meno la somma di lire 27.817.640.000 (precisata poi in lire 22.297.540.000) ai seguenti soggetti politici, senza che il relativo versamento fosse deliberato dall’organo sociale competente e fosse iscritto al bilancio della Montedison o società controllate: A) lire 7.520.100.000 all’on. Bettino Craxi (parlamentare e segretario politico del partito socialista italiano) e all’on. Vincenzo Balzamo (segretario amministrativo del P.S.I. e parlamentare) che ricevevano il denaro per il tramite di Mauro Giallombardo (segretario particolare dell’on. Craxi); detta somma veniva fatta versare da Cusani nel seguente modo: (Omissis). CAPO 3. Ulteriori illeciti finanziamenti nella vicenda Enimont. — Capo questo di cui in sentenza verrà fatto rinvio al capo 8/C. Del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p., 7 l. 2 maggio 1975, n. 195 e 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché in concorso con Gardini, Sama, Garofano ed altri, erogava la rimanente somma di lire 53.606.594.000, oltre interessi sull’intera provvista per circa 22 miliardi e così complessivamente almeno lire 75.606.594.000 Cusani trasferiva in banche estere (tra cui 63 miliardi a Montecarlo) a favore di esponenti politici, di cui allo stato non è accertata l’identità, che li ricevevano senza che il relativo contributo fosse deliberato dall’organo sociale competente e fosse iscritto a binancio della Montedison e delle società da essa controllate. In Milano ed all’estero a partire dalla fine del 1990. Con l’aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante entità
— 304 — e dell’aver commesso il fatto con il concorso di oltre quattro persone, con abuso di prestazione d’opera. CAPO 4. Gli illeciti finanziamenti per le elezioni politiche del 1992. — Del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p., 7 l. 2 maggio 1974, n. 195 e 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, in concorso con Carlo Sama (amministratore delegato della Montedison; e Garofano Giuseppe (presidente della Montedison) ed altri, tra cui Portesi e Bisignani, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1992, erogava quanto meno la somma di lire 6.441.000.000 ai seguenti soggetti politici, senza che ii relativo versamento fosse deliberato dall’organo sociale e fosse iscritto al bilancio della Montedison e delle società da essa controllate: (Omissis). CAPO 5. Illecito finanziamento P.C.I. - Defiscalizzazione. — Del delitto p. e p. dagli artt. 110 c.p., 7 l. 2 maggio 1974, n. 195 e 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché, in concorso con Raoul Gardini (presidente della Montedison), in relazione alla vicenda della defiscalizzazione degli oneri sociali conseguenti alla joint-venture Enimont, erogava quanto meno la somma di lire 1.000.000.000 al partito comunista italiano, senza che il relativo versamento fosse deliberato dall’organo sociale competente e fosse iscritto al bilancio della Montedison e della società da essa controllate nonché del partito ricevente. In Milano e Roma in epoca successiva al 6 novembre 1989 ed entro il dicembre dello stesso anno. CAPO 6. Ulteriori illeciti finanziamenti per defiscalizzazione. — Del delitto p. e p. dagli artt. 110 c.p., 7 l. 2 maggio 1974, n. 195 e 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché, in concorso con Raoul Gardini (presidente della Montedison), in relazione alla vicenda della defiscalizzazione degli oneri sociali conseguenti alla joint-venture Enimont, erogava in epoca successiva alla data sotto indicata, le ulteriori somme alla Democrazia cristiana ed al partito socialista italiano, senza che il relativo versamento fosse deliberato dall’organo sociale competente e fosse iscritto al bilancio della Montedison e delle società da essa controllate nonché del partito ricevente: (Omissis). CAPO 7. Gli illeciti finanziamenti del 1993. — Del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p., 7 l. 2 maggio 1974, n. 195 e 4 l. 18 novembre 1981, n. 659, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, in concorso con Gardini Raoul, erogava la somma di lire 1.600.389.000 (proveniente da fondi Montedison a seguito dalle compravendite immobiliari con ii gruppo Bonifaci) ad esponenti romani della Democrazia cristiana facenti riferimento all’on. Giulio Andreotti, ma di cui allo stato non è accertata l’identità; denaro che veniva versato nell’anno 1993 in due rate (29 gennaio 1993 - 11 febbraio 1993) con bonifico di Cusani a favore del conto FF 2927, acceso presso la Trade Development Bank di Ginevra da fiduciari dei predetti esponenti politici, che lo ricevevano senza che il relativo contributo fosse deliberato dall’organo sociale competente e fosse iscritto al bilancio della Montedison e delle società da essa controllate. In Milano ed all’estero tra gennaio e febbraio 1993.
— 305 — CAPO 8. Le appropriazioni indebite nella vicenda Enimont. — Del delitto p. e p. dagli artt. 61 nn. 7 e 11, 112 n. 1, 646 c.p., perché, in concorso con Gardini Raoul (presidente della Montedison), Sama Carlo (consigliere della Montedison), Garofano Giuseppe (consigliere della Montedison) ed altri, a conclusione della vicenda Enimont, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropriava o comunque concorreva con Gardini Raoul ed altri all’appropriazione della somma di lire 69.575.766.000 (specificata poi in lire 129.822.460.000) di proprietà della Montedison s.p.a. di cui aveva il possesso. In particolare perché dapprima organizzava e promuoveva la distrazione dalle casse della Montedison della somma di lire 153.000.000.000 (precisata poi in lire 152.120.000.000), di cui lire 149.800.000.000 (precisate poi in lire 148.920.000.000) in CCT e lire 3.200.000.000 in contanti, in occasione delle compravendite immobiliari intervenute tra il gruppo Bonifaci e la Montedison (secondo le modalità meglio descritte nel capo 1 di imputazione), ricevendo da Bonifaci Domenico la somma sopra indicata, denaro che non veniva riversato nelle casse della Montedison ma in parte (e precisamente per lire 29.817.640.000, poi precisate in lire 22.297.540.000) utilizzato per finanziare gli esponenti politici meglio precisati nel capo di imputazione n. 2, parte (e precisamente per lire 53.606.594.000 oltre interessi e cedole per 22 miliardi) per finanziare esponenti politici di cui allo stato non si conosce l’identità e per la restante parte e cioè lire 69.575.766.000 (il tutto poi quantificato in lire 129.822.460.000) utilizzato per procurare i seguenti ingenti profitti: (Omissis). CAPO 9. Le appropriazioni indebite del 1992. — Del delitto p. e p. dagli artt. 61 nn. 7 e 11, 112 n. 2, 646 c.p., perché, in concorso con Sama Carlo (amministratore delegato della Montedison) e Garofano Giuseppe (presidente della Montedison), per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropriava la somma di lire 8.759.000.000 di proprietà della Montedison s.p.a. di cui aveva il possesso; in particolare perché dapprima promuoveva ed organizzava unitamente a Garofano e Sama l’emissione da parte della società Simden Ltd. di Dublino delle seguenti fatture per operazioni inesistenti a carico della ME.I.C.-Montedison International N.V. di Viganello: n. 51/92 del 7 marzo 1992 dollari 7.500.000; n. 53/92 del 9 marzo 1992 dollari 5.000.000 e successivamente riceveva da parte della ME.I.C. (in persona di Emilio Binda) la somma di 12.000.000 dollari pari a lire 15.200.000.000, tramite bonifico bancario sul conto Teal 964041 acceso presso la B.I.L. di Lussemburgo da Jean Faber e Croce Carlo in nome e per conto dello stesso Cusani; somma che Cusani in parte, e per lire 6.441.000.000, utilizzava per finanziare illecitamente esponenti politici in occasione della campagna elettorale del 1992 (di cui lire 3.550.000.000 versati da Sama, lire 741.000.000 versati da Portesi e lire 2.150.000.000 versati dallo stesso Cusani) ed in parte (e cioè appunto per lire 8.759.000.000) utilizzava per procurare i seguenti ingiusti profitti: (Omissis). Con sentenza resa il 28 aprile 1994 il Tribunale di Milano dichiarò Cusani colpevole di tutti i reati ascrittigli, ad eccezione di quello di cui al capo 6), in parte perché estinto per amnistia e in parte perché insussistente, e di quello di cui al capo 7), perché depenalizzato dall’art. 32 della l. n. 689 del 1981 in quanto finan-
— 306 — ziamento alla politica non erogato da una società ma da una persona fisica, riconducibile alla previsione dell’art. 4 comma 6 della l. n. 659 del 1981. Condannò, quindi, l’imputato alla pena principale di otto anni di reclusione e di sedici milioni di lire di multa. Contro la decisione interposero appello sia il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, che peraltro si limitò a denunciare l’esiguità della pena inflitta, sia l’imputato, che ne dedusse invece la nullità per molteplici profili e ne chiese, comunque, l’integrale riforma. Con sentenza resa l’1 dicembre 1995 la Corte d’appello di Milano, dichiarata insussistente l’ipotesi di finanziamento illecito di cui al capo 5) dell’imputazione e ridotta la pena a sei anni di reclusione e trenta milioni di multa, confermò per il resto, e qulndi pressoché integralmente, la decisione di primo grado, sebbene sulla base di una valutazione radicalmente diversa dei rapporti tra i delitti contestati. (Omissis). 6. Sei motivi del ricorso censurano la decisione impugnata nella parte relativa alle due imputazioni di appropriazione indebita contestate ai capi 8) e 9). 6.1. Come s’è detto, le imputazioni di appropriazione indebita non erano state contestate a Cusani quando fu richiesto e ammesso il giudizio immediato; gli vennero contestate nel corso del dibattimento di primo grado, quando risultò che solo una parte delle disponibilità finanziarie extrabilancio del gruppo Montedison era stata utilizzata per finanziare partiti politici. Dai capi d’imputazione risulta che la pubblica accusa contestò le condotte di appropriazione indebita come consumate ai danni della Montedison s.p.a. e limitatamente ai fondi non impiegati per il finanziamento di partiti politici. Per le condotte contestate al capo 8) il tribunale non mise in discussione l’appartenenza alla Montedison del danaro e dei titoli oggetto dell’appropriazione, benché risultasse che una parte dei fondi extrabilancio fosse stata creata con somme formalmente provenienti dalle società Sviluppo Linate e Simmont, controllate dalla Montedison, perché ritenne determinante il fatto che le erogazioni delle società controllate avevano gravato in definitiva sul patrimonio della società controllante, a causa di fittizie anticipazioni su contratti d’appalto o di esagerate valutazioni di partecipazioni immobiliari. Ritenne altresì il tribunale che la contestazione dell’appropriazione indebita fosse stata correttamente limitata alle somme non erogate a partiti politici, perché tale erogazione, comportando necessariamente un’illecita appropriazione, deve qualificarsi come ipotesi delittuosa speciale rispetto a quella di appropriazione indebita punita dall’art. 646 c.p. La Corte d’appello dissentì da questa impostazione. Ritenne innanzitutto che le argomentazioni del tribunale fossero insufficienti a contrastare la tesi difensiva dell’appartenenza personale a Gardini dei fondi extrabilancio costituiti tra il 1990 e il 1991, le cosiddette provviste Berlini e Bonifaci. Quanto alla provvista Berlini, precisò che il costo dell’operazione, pur formalmete imputato alle disponibilità estere del gruppo Ferruzzi, fu in realtà sopportato dalla struttura societaria estera della Montedison, che, peraltro, ne fu quasi integralmente ristorata per mezzo della successiva provvista Bonifaci. Sicché non si può dubitare che il danaro era di pertinenza della Montedison s.p.a. Infatti, secondo la Corte milanese, la provvista Bonifaci fu erogata dal gruppo
— 307 — del costruttore romano per compensare la Montedison dell’attività di mediazione svolta, tramite il falsus procurator Cusani, al fine di favorire la conclusione della trattativa tra le società rispettivamente controllate dei due gruppi. Fu quindi lecitamente traslativa della proprietà del danaro l’erogazione del compenso di mediazione in favore della Montedison s.p.a., che provvide poi a ratificare l’operato di Cusani, pagandogli un compenso specificamente riferito a tale attività. Ed erroneamente il tribunale ha ritenuto inattendibili le univoche dichiarazioni in tal senso dello stesso Bonifaci, attribuendo a indimostrate sopravvalutazioni di immobili l’origine della provvista, pur senza disporre una perizia estimativa. La realtà è che Bonifaci trovò coveniente pagare un sovrapprezzo per la conclusione dell’affare e che questo sovrapprezzo era destinato alla Montedison, nel cui interesse agivano Cusani e Gardini. E, comunque, una volta superato, con la revoca delle costituzioni di parti civili, il problema della titolarità del diritto alle restituzioni, ciò che rileva è che il danaro, come si desume dalle attendibili dichiarazioni di Bonifaci, era di proprietà delle società del gruppo Montedison, non certo degli amministratori. Tuttavia, aggiungono i giudici d’appello, la successiva attività di Cusani, in concorso con Gardini e altri, integrò gli estremi dell’appropriazione indebita in danno della Montedison, perché determinò un’interversione nel titolo del possesso dei fondi, che, detenuti non più nomine alieno ma nomine proprio, furono sottratti alle casse sociali e al controllo dell’intero consiglio di amministrazione della società, mediante arbitrarie trasformazioni e passaggi sui più diversi conti correnti. Né la possibilità che da taluni dei successivi impieghi del danaro derivasse un vantaggio di fatto per la società esclude la configurabilità dell’appropriazione, perché le finalità dell’oggetto sociale non possono essere perseguite a ogni costo e con ogni mezzo, anche illecito, sicché non si possono considerare commesse nell’interesse della società azioni illecite, quali l’occulto e illegale finanziamento di partiti politici o di giornalisti. Si sarebbe dovuta, quindi, contestare l’appropriazione indebita anche delle somme di danaro destinate all’illecito finanziamento dei partiti politici; e si sarebbero dovute contestare tante ipotesi di appropriazione, in continuazione, quante furono le rimesse di danaro via via pervenute da Berlini e da Bonifaci, sempre sottratte alle casse sociali. Pertanto, pur non potendo riformare in peius la sentenza del tribunale in mancanza di specifica impugnazione del pubblico ministero al riguardo, i giudici di secondo grado disattesero la tesi difensiva di una riferibilità del finanziamento alle persone che avevano commesso la contestata appropriazione anziché alla società. Per quanto attiene più specificamente alle condotte di appropriazione indebita contestate al capo 9), la Corte d’appello ribadisce, in conformità alla ricostruzione del tribunale, che i reati furono commessi per ottenere fondi da destinare all’accreditamento del nuovo staff dirigenziale della Montedison presso i partiti politici, in prossimità della campagna elettorale del 1992, e presso la stampa d’opinione. Secondo i giudici d’appello, il danaro, proveniente dai fondi esteri della Montedison, « fu prelevato brutalmente dalle casse sociali e, con interversione del titolo, immediatamente movimentato, mediante transito su conto » sottratto alla gestione e al controllo degli organi societari; sicché la consumazione del delitto fu immediata e risale al momento stesso in cui il danaro fu versato in conti estranei alla società. Correttamente, d’altro canto, conclude la Corte milanese, le ipotesi di appro-
— 308 — priazione sono state contestate come aggravate a norma dell’art. 61 n. 7 c.p., attesa l’entità delle somme sottratte; e a norma dell’art. 61 n. 11 c.p., sia in considerazione del rapporto di rappresentanza di fatto instauratosi tra Cusani e la Montedison, di cui l’imputato abusò, sia per il suo concorso con gli amministratori della Montedison, Gardini, Garofano e Sama, il cui rapporto con la società era idoneo a configurare l’aggravante. (Omissis). Accertato, così, che in entrambe le ipotesi di appropriazione i fondi di cui si discute erano di pertinenza della Montedison s.p.a., si pone il problema della configurabilità e del momento consumativo dei delitti, perché la natura occulta delle riserve finanziarie impedisce di assegnare significato probatorio al solo fatto che esse siano versate su conti non riconducibili ufficialmente alla società. Infatti non potrebbe essere considerato idoneo atto di interversione del titolo del loro possesso la gestione dei fondi fatta da una parte soltanto del consiglio di amministrazione, se comunque finalizzata al perseguimento degli scopi sociali, perché mancherebbe della necessaria negazione dei diritti del proprietario (Cass., sez. II, 15 giugno 1986, Pallone, m. 174174). Sicché non è corretta l’argomentazione dei giudici d’appello, che a questi soli fatti ricollegano la configurabilità di una condotta appropriativa. Tuttavia, se è vero che l’utilizzazione extrabilancio di fondi sociali non è sufficiente a integrare di per sé un’appropriazione indebita, è anche vero che il loro occulto gestore deve ritenersi gravato da un rigoroso onere di provarne l’effettiva destinazione. Mentre i giudici del merito hanno plausibilmente ritenuto che, per le provviste Berlini e Bonifaci, nessuna delle destinazioni contestate al capo 8) delle imputazioni fosse riconducibile all’interesse della società. In realtà la Corte d’appello ha sostenuto, con riferimento al capo 8) delle imputazioni, che configuri appropriazione la stessa pluralità e incontrollabilità delle destinazioni assegnate alla provvista Bonifaci, attraverso transiti, versamenti, trasformazioni le più varie e inspiegabili. Ma, pur dovendo escludersi la correttezza di questa impostazione con riferimento alle somme destinate al finanziamento pubblico dei partiti politici, peraltro escluse dalla contestazione di cui al capo 8) delle imputazioni, le argomentazioni dei giudici di secondo grado rimangono valide e incensurabili rispetto alla parte rimanente dei fondi, per i quali i giudici di primo grado avevano analiticamente accertato la mancanza di una qualsiasi destinazione a fini sociali. Deve, pertanto, escludersi che abbiano fondamento i motivi di ricorso tendenti a negare la configurabilità dell’appropriazione indebita di cui al capo 8) o la congruità della giustificazione del giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine a questo reato. Correttamente contestate risultano anche le aggravanti addebitate a Cusani per questa imputazione. Quanto all’art. 61 n. 11 c.p., invero, esclusa la qualifica di falsus procurator attribuita al ricorrente dalla Corte d’appello, risulta correttamente configurato, in fatto, il suo rapporto fiduciario con la Montedison s.p.a., certamente idoneo alla configurabilità dell’aggravante, come riconosce lo stesso ricorrente. Quanto all’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p., non sussiste la dedotta violazione del principio ne bis in idem, perché l’aggravante di cui all’art. 2640 c.c. è autonomamente riferibile alla parte di danno conseguente all’occultamento dell’illecito finanziamento di partiti politici, di per sé ingente. Comunque, sia l’aggra-
— 309 — vante prevista dall’art. 61 n. 7 c.p. sia quella prevista dall’art. 2640 c.c. furono elise dalla comparazione con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, a seguito di un giudizio che non potrebbe mutare in conseguenza della previa esclusione di una delle due circostanze, se fosse vero che, come sostiene il ricorrente, unico era l’elemento di fatto giustificativo di entrambe. Più complesso discorso occorre per l’appropriazione indebita contestata al capo 9) delle imputazioni, perché i giudici del merito hanno potuto ricostruire pienamente la contabilità della provvista extrabilancio del 1992 e l’imputato Cusani, che ne fu ancora una volta il gestore occulto per conto degli amministratori della Montedisom, ha restituito al tribunale la somma residua di sei miliardi e cinquecento milioni di lire, detratti gli importi versati a Carlo Sama e quelli erogati a partiti politici e a giornalisti per accreditare lo staff dirigenziale della società succeduto a Gardini. La Corte d’appello ha ritenuto che la gestione di questi fondi debba essere qualificata come distrazione appropriativa, non solo perché il danaro fu versato su conti non ufficiali della società, ma anche perché fu destinato a fini illeciti, quali il finanziamento occulto di partiti politici e di giornalisti, necessariamente estranei all’oggetto sociale appunto in ragione della loro illiceità. E un’analoga impostazione è stata espressa in una recente sentenza di questa Corte che, considerata appunto distrattiva qualsiasi destinazione illecita di fondi sociali extrabilancio, sostiene doversi qualificare come appropriativa, e quindi punibile a norma dell’art. 646 c.p., qualsiasi condotta di distrazione di beni dalle finalità riconducibili all’oggetto sociale (Cass., sez. II, 4 aprile 1997, Bussei, m. 208059). Queste impostazioni non sono condivisibili. È innanzitutto da escludere che debba essere necessariamente considerata estranea all’oggetto sociale l’elargizione di fondi sociali a terzi senza un corrispettivo. La giurisprudenza civile di questa Corte, infatti, è ormai concordemente orientata nel senso che anche atti formalmente gratuiti possono essere considerati pertinenti all’oggetto di una società avente scopo di lucro, perché il significato economico di ciascun atto va desunto da una valutazione complessiva del contesto di rapporti e di vantaggi anche indiretti e mediati che alla società possono derivarne (Cass. civ., sez. I, 13 febbraio 1992, n. 1759, m. 475702; Cass. civ., sez. I, 11 marzo 1996, n. 2001, m. 496284). D’altro canto l’imputabilità alle società e più in generale alle persone giuridiche di comportamenti anche illeciti di soggetti a esse legati da un rapporto organico, purché non dettati da scopi puramente personali, è indiscussa nella giurisprudenza e nella dottrina civili, quale presupposto, tra l’altro, della diretta responsabilità civile dello Stato per comportamenti illeciti dei pubblici dipendenti, prevista dall’art. 28 Cost. (Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 1986, n. 7631, m. 449639; Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 1996, n. 341, m. 495460). Sicché la finalità illecita non esclude di per sé la riconducibilità all’oggetto sociale dell’attività dell’amministratore di una società di capitali (Cass. civ., sez III, 9 giugno 1981, n. 3719, m. 414356; Cass. civ., sez. I, 3 dicembre 1984, n. 6300, m. 437922). E poiché è indiscusso che la distrazione richiede la destinazione di un bene a uno scopo diverso da quello precostituito, deve escludersi che possa essere qualificata come distrattiva, e tantomeno come appropriativa, un’erogazione di danaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda a un interesse riconducibile anche indirettamente all’oggetto sociale. Deve ritenersi, infatti,
— 310 — che, per aversi appropriazione, sia necessaria una condotta che non risulti giustificata o giustificabile come pertinente all’azione o all’interesse della società, in quanto pùò accadere che una persona giuridica, attraverso i suoi organi, persegua i propri scopi con mezzi illeciti, senza che ciò comporti di per sé l’interruzione del rapporto organico. E, contrariamente a quanto si afferma, questa impostazione non è affatto in contrasto con la giurisprudenza che considera appropriativa l’abusiva erogazione di danari a terzi da parte di funzionari bancari, perché quella giurisprudenza richiede che l’erogazione dipenda da una collusione a danno dell’istituto di credito idonea, appunto, a interromperne il rapporto organico con il funzionario (Cass., sez. un., 28 febbraio 1989, Vita, m. 181789). Si deve, pertanto, concludere che né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla societa né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrino gli estremi dell’appropriazione indebita. Ciò comporta che la sentenza impugnata deve essere annullata per insussistenza del fatto limitatamente all’imputazione di cui al capo 9), nella parte in cui vi risulta contestata come appropriativa appunto anche l’erogazione del finanziamento illecito a giornalisti per un miliardo di lire. È incensurabile, invece, la decisione relativa al capo 9), nella parte in cui ritiene appropriativa sia l’erogazione di lire 1.259.000.000 in favore di Carlo Sama sia la tardiva restituzione da parte di Cusani della rimanenza di sei miliardi e cinquecento milioni di lire. L’annullamento, peraltro, può essere disposto senza rinvio, a norma dell’art. 620 lett. l) c.p.p., essendo possibile imputare all’insussistente appropriazione una parte, pari a mesi due di reclusione e lire 1.000.000 di multa, della pena di sei mesi di reclusione e di lire 4.000.00o di multa complessivamente irrogata per l’intero capo 9) dai giudici d’appello. 7. Due motivi del ricorso sono riferiti alle imputazioni di finanziamento illecito di partiti politici. 7.1. Interpretando giuridicamente la definitiva contestazione degli addebiti, il tribunale considerò corretta l’esclusione della configurabilità del delitto di appropriazione indebita in relazione alle somme destinate a illecito finanziamento di partiti politici, ritenendo che una tale destinazione di beni della società ne comporti sempre e necessariamente una distrazione dalle finalità indivlduate nell’oggetto sociale; sicché, essendo sovrapponibili le condotte dei due delitti, vi sarebbe un concorso apparente di norme e, per il principio di specialità, risulterebbe applicabile solo la pena prevista dall’art. 7 della l. n. 195 del 1974. La Corte d’appello dissentì da questa impostazione. Ritenne, infatti, che l’appropriazione indebita deve considerarsi già consumata sin dal momento in cui viene attuata un’incontrollata gestione di fondi sociali; ma, aggiunse, ciò non esclude la configurabilità e il concorso del successivo finanziamento illecito di partiti politici, che rimane punibile a norma dell’art. 7 della l. n. 195 del 1974, perché l’appropriazione indebita non determina il trasferimento della proprietà dei fondi e, quindi, il finanziamento deve considerarsi pur sempre proveniente dalla società. Quanto al finanziamento illecito di cui al capo 4) delle imputazioni, escluse, altresì, che esso potesse considerarsi depenalizzato
— 311 — in conseguenza della l. n. 515 del 1993, richiamando, tra l’altro, l’uniforme giurisprudenza anche di questa Corte in tal senso. 7.2. Con il quattordicesimo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione degli artt. 646 c.p., 7 l. n. 195 del 1974, 4 l. n. 659 del 1981 e 32 l. n. 689 del 1981, nonché vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine al capo 2) delle imputazioni. Sostiene il ricorrente che la provvista Bonifaci non fu utilizzata per costituire una riserva extrabilancio della Montedison, bensì per incrementare il patrimonio personale di Gardini, che la destinò in parte al finanziamento di alcuni partiti politici. Ne consegue che questo fiananziamento, provenendo da una persona fisica e non da una società, costituisce illecito amministrativo, essendo stata depenalizzata dall’art. 32 della l. n. 689 del 1981 l’ipotesi criminosa già prevista dall’art. 4 comma 6 della l. n. 659 del 1981. Aggiunge che erroneamente la Corte d’appello ha ammesso il concorso materiale tra appropriazione indebita e finanziamento illecito di partiti politici, tantopiù perché ha ritenuto che le somme già oggetto di appropriazione indebita da parte degli amministratori possano essere considerate oggetto di un finanziamento politico proveniente dalla società. È vero, infatti, che l’appropriazione indebita, come del resto il furto o la rapina, non sono idonei al trasferimento della proprietà, neppure quando riguardino beni fungibili. Ma è anche vero che in tal caso il permanente vincolo di destinazione non grava sulle singole specie, ma sulla quantità astrattamente considerata di cose fungibili. Sicché non si può sostenere che quelle singole specie di cose fungibili rimangano del proprietario; altrimenti dovrebbe assurdamente sostenersi che provenga da una società anche il finanziamento politico erogato da un ladro con parte dei danari provento di un furto. La Corte d’appello avrebbe dovuto, pertanto, scegliere tra appropriazione indebita e finanziamento illecito, non essendo possibile, nel caso in esame, il concorso tra i due reati, pur possibile in astratto quando l’amministratore utilizzi fondi sociali per finanziare un partito politico nell’interesse suo personale e non nell’interesse della società. Con il diciottesimo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 7 della l. n. 195 del 1974, ribadendo che il reato è stato depenalizzato dall’art. 7 della l. n. 515 del 1993, istitutiva di nuove forme di pubblicità di tutti i contributi privati di cui siano beneficiari i singoli candidati durante la campagna elettorale, destinate a sostituire, anche per la sanzione applicabile, le regole di trasparenza dettate in generale dalle leggi precedenti. Sarebbe irrazionale, infatti, e, quindi, costituzionalmente illegittima, un’interpretazione che ammettesse l’applicazione della sanzione penale al candidato che, pur avendo regolarmente pubblicizzato un finanziamento ricevuto a seguito di una valida delibera, fosse chiamato a rispondere del successivo incontrollabile occultamento in bilancio della somma erogatagli. Né appare plausibile la tesi della Corte d’appello, che, per superare le obiezioni della difesa, attribuisce alla l. n. 195 del 1974 lo scopo di tutelare, oltre alla trasparenza dei finanziamenti alla politica, anche il patrimonio e l’organizzazione delle società. Come infondata è l’affermazione dei giudici del merito, secondo i quali non sarebbe sanzionata l’omessa registrazione dei contributi percepiti dal candidato senza il tramite del mandatario elettorale, perché l’art. 7 della l. n. 515 del 1993 sanziona anche tali condotte. 7.3.
Le contrastanti soluzioni offerte dal tribunale e dalla Corte d’appello al
— 312 — problema della configurabilita di un concorso tra appropriazione indebita e finanziamento illecito di partiti politici sono entrambe infondate, perché si basano sulla comune premessa che non siano riconducibili all’oggetto sociale, in quanto illeciti, gli occulti finanziamenti erogati da una società privata in favore di un partito politico. Questa premessa, infatti, è erronea, perché, come s’è visto, la finalità illecita dell’erogazione non esclude la sua riferibilità alla società e al suo oggetto. Sicché, come correttamente sostiene anche la difesa, è possibile un concorso formale tra l’appropriazione indebita e l’illecito finanziamento di partiti politici erogato nell’interesse personale ed esclusivo dell’amministratore, ma non è vero che l’amministratore commetta anche appropriazione indebita quando eroghi con fondi sociali un finanziamento occulto a un partito nell’interesse della società. Risulta, quindi, corretta l’impostazione dell’accusa, perché trova fondamento in questa ricostruzione la mancata contestazione dell’appropriazione indebita rispetto ai fondi extrabilancio della Montedison destinati all’illecito finanziamento di partiti politici; e la provenienza del finanziamento dalla società rende applicabile la sanzione penale prevista dall’art. 7 della l. n. 195 del 1974. È infondata, d’altro canto, la tesi di una depenalizzazione delle ipotesi di illecito finanziamento della campagna elettorare, sostenuta dal ricorrente nel diciottesimo motivo in contrasto con una costante giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. III, 5 luglio 1994, Vizzini, m. 199511; Cass., sez. VI, 17 ottobre 1994, Armanini, m. 199996; Cass., sez. VI, 16 dicembre 1994, Seri, m. 201950; Cass., sez. III, 24 febbraio 1995, Buffoni, m. 202222; Cass., sez. III, 13 novembre 1995, Saporetti, m. 203203). Occorre, infatti, rilevare, con riferimento alle specifiche argomentazioni del ricorrente, che il delitto previsto dall’art. 7 della l. n. 195 del 1974 si consuma già solo con l’erogazione del contributo occulto o vietato e, quindi, ben prima che sorga lo stesso obbligo di informazione la cui violazione è punita come illecito amministrativo dalla l. n. 515 del 1993. Né sembra possa sostenersi che una depenalizzazione del delitto previsto dalla l. n. 195 del 1974 derivi dal fatto che la nuova legge punisce come illecito amministrativo la violazione del limite posto all’entità dei finanziamenti privati ai candidati. Rimangono ben distinti, infatti, l’obbligo, sanzionato in via amministrativa, di non corrispondere o ricevere finanziamenti eccedenti quel limite e l’obbligo, sanzionato penalmente, di non corrispondere o ricevere finanziamenti non iscritti nel bilancio delle società che li erogano. Quanto alla questione di legittimità costituzionale prospettata, essa è manifestamente irrilevante, perché si riferisce a un caso, la mancata indicazione in bilancio di un finanziamento regolarmente contabilizzato e pubblicizzato, del tutto estraneo alla vicenda in esame. 8. Al primo capo di imputazione è contestato il delitto di false comunicazioni sociali, in particolare con riferimento alle operazioni destinate alla costituzione dei fondi extrabilancio della Montedison derivati dalle provviste Berlini e Bonifaci. Ben tredici motivi del ricorso si riferiscono a questa imputazione. 8.1. Secondo il tribunale la contestata falsità dei bilanci delle società interessate derivava dal fatto che, al fine di costituire le riserve occulte, vi erano state esposte indicazioni non corrispondenti al vero in ordine all’effettivo valore dei beni oggetto delle transazioni intercorse tra il gruppo Montedison e il gruppo Bonifaci. Sicché una sottovalutazione dei beni ceduti dal gruppo Montedison e una
— 313 — sopravvalutazione dei beni ceduti dal gruppo Bonifaci aveva consentito di versare o restituire « in nero » una parte dei corrispettivi, confluiti poi nella riserva extrabilancio di circa 152 miliardi di lire. La Corte d’appello escluse qualsiasi falsa indicazione circa il valore effettivo dei beni, negando così la necessità di una perizia estimativa, ma ritenne che, comunque, erano stati integrati gli estremi del falso in bilancio, perché era stata omessa la contabilizzazione e l’esposizione nel bilancio e in altre comunicazioni sociali sia della ricezione sia delle successive erogazioni della provvigione di mediazione versata alla Montedison, per un’entità tale da incidere significativamente sulla rappresentazione delle condizioni economiche della società. Aggiunsero, poi, i giudici d’appello che, d’altro canto, le false indicazioni circa le entrate di una società non possono essere certamente elise da altre false indicazioni circa le uscite, tali da pareggiarne gli importi; e che, comunque, nel caso in esame le omesse indicazioni circa le destinazioni dei fondi extrabilancio finivano per occultare i crediti vantati dalla società per il diritto alla restituzione delle somme illecitamente erogate. Quanto all’elemento psicologico del delitto, i giudici d’appello ritennero sussistente il necessario intento di frode e di ingiusto profitto, perché le false comunicazioni sociali erano state destinate alla consumazione dei delitti di appropriazione indebita e di illecito finanziamento di partiti politici, aggiungendo che Cusani e i suoi complici erano stati certamente consapevoli anche di arrecare un danno alla Montedison, sia in relazione alle somme sottratte alla società sia in relazione ai finanziamenti ai partiti politici, destinati soprattutto a favorire personalmente Gardini, espostosi nel rastrellamento del capitale flottante di Enimont e interessato a ottenere un elevato prezzo di rivendita delle azioni da altri in precedenza acquistate per suo conto. Sicché sussistono indiscutibilmente sia l’aggravante contestata a norma dell’art. 2640 c.c., in relazione alla notevole entità del danno consapevolmente arrecato alla società Montedison, proprietaria effettiva dei fondi extrabilancio; sia l’aggravante contestata a norma dell’art. 61 n. 2 c.p., per la destinazione dei falsi a procurare profitto e immunità in relazione alle appropriazioni indebite e agli illeciti finanziamenti di partiti politici. Secondo la Corte d’appello, inoltre, il reato, pur essendo proprio degli amministratori, deve ritenersi correttamente addebitato anche a Cusani, quale concorrente almeno morale di Sama e di Garofano, dei quali rafforzò e agevolò gli intenti criminosi, con un’azione che, pur essendosi espressa soprattutto nella fase di costituzione della provvista extracontabile, era sin dall’inizio necessariamente e consapevolmente preordinata anche alla falsa rappresentazione delle condizioni economiche della società nelle successive comunicazioni sociali e, in particolare, nel bilancio, come del resto riconosciuto dallo stesso Cusani, che dinanzi al giudice per le indagini preliminari ammise la materialità dei fatti contestatigli e in un suo successivo memoriale sottolineò la particolare riservatezza di tutta l’operazione Bonifaci, evidentemente destinata a essere taciuta nelle comunicazioni sociali. Sicché può ben dirsi che Cusani, pur non essendo personalmente autore di alcuna comunicazione sociale, contribuì tuttavia a formare, fraudolentemente, i dati contabili simulati sulla cui base le false comunizazioni furono poi redatte. E il ruolo determinante di Cusani esclude che possa essergli riconosciuta la circostanza attenuante prevista dall’art. 117 c.p., configurabile, peraltro, solo quando la parteci-
— 314 — pazione del soggetto qualificato comporti un mutamento del titolo del reato, non quando senza tale partecipazione la condotta non sarebbe penalmente rilevante. I giudici del merito, infine, esclusero che esista nel nostro ordinamento una scriminante riconducibile al principio nemo tenetur se detegere, che, come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, opera solo sul piano processuale; sicché è infondata la tesi del ricorrente che nega la punibilità del falso in bilancio in quanto necessaria ad evitare la confessione dei delitti di appropriazione indebita e di illecito finanziamento di partiti politici. 8.2. Con il ventesimo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 2621 c.c. e manifesta illogicità della motivazione della decisione impugnata nella parte in cui riconosce la falsità del bilancio Montedison, pur escludendo la presenza di false indicazioni relative ai valori dei beni oggetto delle transazioni con il gruppo Bonifaci. In realtà, sostiene il ricorrente, una volta accertato che furono veridiche le indicazioni dei costi e dei ricavi delle operazioni, non può considerarsi rilevante l’eventuale falsità della causale dell’iscrizione, che non attiene certo alle condizioni economiche della società. E lamenta che la Corte milanese cada più volte in contraddizione circa la natura della provvista Bonifaci, ora qualificata provvigione ora « surplus di prezzo », mentre in realtà si trattava di un fondo costituito esclusivamente, in favore di Gardini e nella sua personale e piena disponibilità; sicché altri reati potevano forse essere ipotizzati, ma non certo il falso in bilancio. Con il ventunesimo motivo il ricorrente deduce ancora violazione dell’art. 2621 c.c. e manifesta illogicità della motivazione, sostenendo che, anche a voler considerare di proprietà Montedison la provvista Bonifaci, dovrebbe egualmente escludersi la contestata falsità in bilancio, perché, secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, i fondi furono ricevuti ed erogati nell’ambito dello stesso esercizio, sicché la complessiva operazione non incise sulle condizioni economiche della società e l’omessa sua rappresentazione nel bilancio non costituisce reato. Né è ipotizzabile che la falsità derivi dall’omessa iscrizione del credito di restituzione delle somme erogate, perché gli amministratori non hanno l’obbligo di esigere la restituzione di somme dalla cui erogazione la società abbia tratto un vantaggio né potrebbero pretendere la restituzione del prezzo di una corruzione commessa per conto della società; e, quindi, non hanno l’obbligo di iscrivere in bilancio il relativo credito. (Omissis). Una questione preliminare pone anche il ventitreesimo motivo del ricorso, con il quale si lamenta che non sia stata applicata l’amnistia di cui all’art. 1 d.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23. Occorre premettere che, come precisa lo stesso ricorrente, solo in questo grado del giudizio è stata prodotta la documentazione relativa alla dichiarazione integrativa dei redditi necessaria per l’applicazione dell’invocata amnistia. Sicché è questa Corte che, a norma dell’art. 129 c.p.p., è tenuta a verificare la postulata estinzione del reato. La tesi difensiva è, peraltro, infondata. Come si è già detto a proposito delle imputazioni di appropriazione indebita, lo stesso capo 1) delle imputazioni chiarisce che la costituzione della riserva extracontabile in favore della Montedison fu ottenuta previe sue anticipazioni infruttifere in favore delle società controllate Sviluppo Linate e Simmont. Sicché l’operazione non determinò alcuna effettiva plusvalenza per la società controllante riferi-
— 315 — bile all’esercizio 1990 e, nell’incensurabile ricostruzione prospettatane dai giudici del merito, non fu certo diretta alla finalità di evasione fiscale, necessaria per la configurabilità del delitto previsto dall’art. 4 della l. n. 516 del 1982, la cui estinzione, nella prospettazione della difesa, dovrebbe coinvolgere anche il contestato delitto di false comunicazioni sociali. In realtà, quand’anche volesse ipotizzarsi che una plusvalenza occulta si ebbe nell’esercizio 1990 della società già prima della restituzione delle sue strumentali anticipazioni, non potrebbe egualmente ritenersi che essa fu sufficiente a integrare un reato tributario. Il reato ipotizzabile nel caso in esame, infatti, sarebbe appunto la frode fiscale prevista dall’art. 4 lett. f) della l. n. 516 cit., non di certo la contravvenzione di omessa annotazione di corrispettivi prevista dall’art. 1 comma 2 della stessa legge, perché, come s’è detto a proposito delle imputazioni di appropriazione indebita e in contrasto con quanto la Corte d’appello poco plausibilmente ipotizza, il fondo occulto non fu, comunque, costituito con una somma erogata in favore di Montedison quale corrispettivo della prestazione di beni o di servizi da parte della società. E a integrare la frode fiscale non sarebbe sufficiente la semplice accettazione della possibilità di un evento di evasione come conseguenza dell’azione diretta alla costituzione della riserva extracontabile, perché il dolo specifico richiesto per la punibilità di questo delitto è incompatibile con il dolo eventuale. Sicché, quand’anche vi fosse stata evasione, non sarebbe egualmente configurabile un reato tributario; e di conseguenza non può l’amnistia applicarsi al delitto di false comunicazioni sociali. Gli altri motivi del ricorso relativi all’imputazione di false comunicazioni sociali pongono innanzitutto in discussione, per molteplici aspetti, la configurabilità dello stesso elemento oggettivo del reato. Occorre in proposito premettere che l’art. 2621 c.c. punisce, tra l’altro, la falsa rappregentazione delle « condizioni economiche della società » nel bilancio di esercizio o in altre comunicazioni sociali. Come ben rileva la difesa, quella punita dall’art. 2621 c.c. è, quindi, una falsità ideologica; e perché il reato sia configurabile è necessario un enunciato descrittivo non corrispondente ai fatti che pretende di rappresentare. Tuttavia il bilancio di esercizio e spesso anche le altre comunicazioni sociali, in particolare quelle che lo accompagnano, sono atti estremamente complessi, perché consistono di una grande quantità e varietà di enunciati descrittivi e valutativi, collegati tra loro in una sorta di articolatissima argomentazione contabile, la cui conclusione offre indicazioni sui risultati dell’esercizio e sulla consistenza complessiva del patrimonio sociale. Ma è evidente che ai soci, ai creditori e al mercato non interessano solo le conclusioni di questa complessa argomentazione, bensì soprattutto i passaggi in cui essa si articola: sia perché solo l’integrale esibizione dello sviluppo argomentativo permette di verificarne l’effettiva attendibilità intrinseca sia perché l’affidabilità di un operatore economico dipende soprattutto dal modo in cui ha raggiunto determinati risultati e dall’effettiva composizione del suo patrimonio. E infatti il codice civile si è andato via via arricchendo di prescrizioni sempre più analitiche sui contenuti del bilancio di esercizio e delle altre comunicazioni sociali che devono accompagnarlo. È vero, quindi, che la norma incriminatrice punisce solo la falsa rappresentazione delle « condizioni economiche della società », non di qualsiasi fatto connesso alla vita della società. Ma è anche vero che non solo i saldi dei conti assu-
— 316 — mono un significato descrittivo delle condizioni economiche della società, bensì anche gli elementi dalla cui combinazione essi risultano. Ed è anche vero che la rilevanza ai fini della descrizione di tali condizioni non dipende soltanto dall’importo contabile di una determinata operazione e dalla sua incidenza percentuale sui conti, bensì anche dal significato che quell’operazione può assumere per ricostruire la rete dei rapporti sociali ed economici in cui l’impresa e il suo management si inseriscono. Oggi, infatti, i fattori della ricchezza, intesa come capacità ed efficienza, produttiva, sono sempre meno « pesanti » e dipendono in misura sempre crescente dalle conoscenze, dalle attitudini, dai rapporti, dall’affidabilità degli uomini della cui opera l’impresa vive. Insomma le condizioni economiche di un’impresa dipendono significativamente dalla sua identità, che è definita da una quantità di elementi ben più estesa e complessa del semplice saldo dei suoi conti o dell’incidenza che una singola operazione può avere su di essi. Come espressamente prevede l’art. 2621 c.c., d’altro canto, la falsità può essere commessa non solo mediante un’esposizione non veridica ma anche mediante l’occultamento di fatti rilevanti. Sicché l’omessa esposizione di un fatto assume il significato della negazione della sua esistenza quando la sua rilevanza ne avrebbe imposto la manifestazione ai fini della rappresentazione delle effettive condizioni economiche della società. Nel caso in esame, secondo la ricostruzione dei giudici d’appello, la falsità addebitata al ricorrente in concorso con gli amministratori della Montedison s.p.a. consisté nella formazione di una riserva occulta di circa centocinquantadue miliardi di lire. Come s’è già detto a proposito dell’imputazione di appropriazione indebita, è incensurabile in questa sede il convincimento argomentatamente espresso dai giudici del merito circa l’appartenenza alla società, e non a Gardini, di tale riserva occulta. E la mancata rappresentazione di una tale riserva e della sua gestione rende comunque falso il bilancio, perché, quand’anche si fosse esaurita nel corso di un solo esercizio, come talora sostiene il ricorrente, essa ebbe dimensioni e destinazioni tali da costituire un elemento significativo delle effettive condizioni economiche della società, nel senso già chiarito. D’altro canto non è contraddittoria la ricostruzione dei giudici d’appello dell’origine del fondo extracontabile, perché è plausibile il pagamento effettivo da parte di Bonifaci di un prezzo superiore al valore di mercato dei singoli immobili, connesso all’importanza complessiva dell’affare; come è plausibile la destinazione di tale sovrapprezzo alla società controllante del gruppo con il quale l’affare venne concluso. Sicché risultano infondati il ventesimo e il ventunesimo motivo del ricorso, oltre che le deduzioni relative all’elemento oggettivo del reato inserite nel venticinquesimo motivo. Quanto all’elemento psicologico del reato, la giurisprudenza è incerta sull’esigenza di un dolo, anche eventuale, di danno, mentre non discute l’esigenza di un dolo specifico di inganno e di ingiusto profitto. Tuttavia la Corte d’appello ha correttamente ritenuto di aderire all’orientamento interpretativo che richiede anche un dolo di danno, peraltro prevalente in dottrina, e ha sostenuto che Cusani e i suoi complici, non solo ebbero una finalità di frode e di ingiusto profitto, ma erano stati certamente consapevoli anche di arrecare un danno alla Montedison,
— 317 — sia in relazione alle somme sottratte alla società sia in relazione ai finanziamenti ai partiti politici, destinati soprattutto a favorire personalmente Gardini. In realtà non pare possa discutersi la configurabilità di un dolo di danno per la società, non solo per la parte della riserva occulta che fu oggetto di appropriazione indebita ma anche per la parte che fu destinata al finanziamento dei partiti politici e dei giornalisti. Come dimostra la vicenda degli sgravi fiscali, che la Montedison non riuscì ad ottenere nonostante cospicue elargizioni, il finanziamento dei partiti politici, come le elargizioni ai giornalisti, non garantisce sui risultati sperati, perché non si inserisce in un contratto di cui possa pretendersi l’adempimento. Sicché l’amministratore che decide di perseguire gli scopi sociali mediante l’illecito finanziamento di partiti politici accetta il rischio che alla società ne derivi solo un danno; come accetta il rischio che, dall’occultamento di questi rapporti anomali, derivi un danno sia ai terzi contraenti, che ne possono risultare abusivamente discriminati, sia agli operatori del mercato azionario, che vedono falsati i fattori di calcolo del valore effettivo delle azioni. In definitiva, se la gestione del patrimonio sociale viola le regole del mercato, il suo occultamento nelle comunicazioni sociali accolla alla società e ai terzi il rischio del danno che può derivare dall’affidamento del risultato economico dell’impresa a fattori incontrollabili. E l’accettazione di questo rischio, da parte degli amministratori e per conto della società, è sufficiente ad integrare gli estremi del dolo, posto che è certa e indiscussa la finalità di inganno e di ingiusto profitto nella destinazione di una riserva occulta alla consumazione di un reato. Non sono, pertanto, censurabili le valutazioni espresse al riguardo dai giudici del merito. Ne risulta fondata la censura con la quale il ricorrente tende ad escludere la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 2640 c.c., quantomeno con riferimento all’esercizio 1990 nel quale furono utilizzate solo le prime tranche della provvista Berlini. Come risulta dalla sentenza di primo grado, infatti, l’operazione descritta al capo 1) sub B), che procurò novantadue dei centocinquantadue miliardi di lire di cui la provvista consisteva, si concluse integralmente nel corso dell’anno 1990; e doveva essere rappresentata nel relativo bilancio di esercizio anche se le erogazioni non erano ancora intervenute. Anche il ventiquattresimo e il venticinquesimo motivo del ricorso vanno, quindi, disattesi. Particolarmente diffuse e approfondite sono le censure che il ricorrente muove alla sentenza impugnata con riferimento al riconoscimento della sua pertecipazione come estraneo nel reato proprio di false comunicazioni sociali, addebitatogli in concorso morale con gli amministratori della Montedison. In realtà la Corte d’appello riconosce che Cusani non partecipò alla redazione dei bilanci, ma sostiene che egli partecipò, invece, alla decisione di costituire la riserva occulta, cui necessariamente dovevano seguire false comunicazioni sociali, contribuendo, così, alla formazione dei dati contabili simulati in base ai quali il falso bilancio fu redatto. A questa costruzione il ricorrente obietta che il concorso morale non può esprimersi solo sul piano psicologico, ma esige una condotta materiale che dia un contributo causale mediante determinazione, rafforzamento o agevolazione del proposito criminoso altrui; e sostiene di aver contribuito alla formazione dei dati contabili simulati, non alla loro rappresentazione nel bilancio. Le censure non sono fondate.
— 318 — Come s’è visto, ciò che è oggetto di falsa rappresentazione nel delitto previsto dall’art. 2621 c.c. è la realtà economica della società, non la rappresentazione che possa averne già dato la contabilità aziendale. Certo, quando l’addebito di false comunicazioni sociali si riferisce, come nel caso in esame, alla costituzione di una riserva occulta, accade di regola che la documentazione contabile dell’azienda sia stata già redatta in modo da non permettere la ricostruzione della realtà ecomomica che si vuole nascondere. Ma ciò comporta solo che la falsa contabilità serve di supporto alla falsa rappresentazione della realtà sociale offerta dal bilancio, non che sia essa stessa l’oggetto della falsa rappresentazione. Ne consegue che spesso la possibilità di realizzare complessi artifici contabili, idonei a un’efficace dissimulazione della realtà, è condizione indispensabile della successiva condotta di false comunicazioni sociali, perché tende a garantire che la menzogna non verrà smascherata. E non pare possa dubitarsi che chi contribuisca a tali artifici contabili, nella prospettiva della futura dissimulazione di una riserva occulta nei bilanci di esercizio di una società, offra un contributo causale determinante alla condotta criminosa punita dall’art. 2621 c.c., soprattutto quando le sue capacità tecniche professionali siano tali da rassicurare l’amministratore sull’efficacia del risultato dissimulatorio. Sicché non sono censurabili le argomentazioni con le quali i giudici del merito hanno riconosciuto il concorso di Cusani nel falso in bilancio, nel presupposto che proprio la sua notevole capacità tecnica poté rendere attuabile il proposito criminoso degli amministratori, offrendo loro i sofisticati strumenti contabili necessari agli occultamenti realizzati nei tre bilanci oggetto delle contestazioni. Ne v’è contraddizione nelle argomentazioni dei giudici d’appello, perché l’affermazione che la riserva occulta fu creata con parte del corrispettivo effettivamente versato da Bonifaci nelle note transazioni e pienamente compatibile con l’ulteriore affermazione che il versamento di una parte di tale corrispettivo fu dissimulato appunto per rendere possibile la costituzione della riserva occulta in favore della Montedison. Contraddittoria è, invece, la difesa del ricorrente, che nel venticinquesimo motivo imputa all’esercizio 1991 la costituzione della maggior parte della riserva occulta, mentre nel ventinovesimo motivo sostiene di aver potuto contribuire solo alla falsità del bilancio 1990, non a quella relativa al bilancio successivo. In realtà, come si desume dalla ricostruzione dei fatti prospettata dai giudici del merito, la provvista Bonifaci, con la quale fu costituita la prima riserva occulta, venne formata e gestita a cavallo tra il 1990 e il 1991, e interessò entrambi gli esercizi, mentre la seconda riserva occulta fu costituita nel 1992, anch’essa con il determinante contributo di Cusani. Risultano così infondati anche i motivi dal ventisettesimo al trentunesimo, relativi al concorso di persone nel reato societario. Consistenza non maggiore hanno i successivi due motivi, con i quali si lamenta il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 117 c.p. e dell’esimente desumibile dall’applicazione del principio nemo tenetur se detegere. Quanto all’art. 117 c.p., correttamente la Corte d’appello, in conformità alla dottrina e alla giurisprudenza prevalenti, ne ha escluso l’applicabilità nel caso in esame. La tesi posta a fondamento del trentaduesimo motivo d’impugnazione è, infatti, isolata in dottrina ed è contraddetta da una giurisprudenza consolidata, secondo la quale è vero che « l’ipotesi prevista dall’art. 117 c.p. è solo quella in cui il fatto commesso dall’estraneo costituirebbe comunque reato anche in mancanza
— 319 — della qualifica di pubblico ufficiale, rivestita dall’autore principale »; ma è anche vero che quando « l’azione del concorrente è di per sé lecita e l’illiceità dipende dalla qualità personale di altro concorrente trova applicazione la norma generale di cui all’art. 110 c.p. » (Cass., sez. V, 25 novembre 1980, Turrini, m. 147726; Cass., sez. V, 11 maggio 1983, Pagani, m. 160970; Cass., sez. VI, 22 aprile 1989, Morelli, m. 182580). In realtà l’art. 117 c.p. è una norma che, derogando all’art. 110 c.p., prevede una forma di respwnsabilità oggettiva, perché estende la punibilità secondo il titolo del reato proprio anche all’extraneus che non abbia conoscenza della qualifica dell’intraneus da cui deriva il mutamento del titolo del reato. Per questa ragione limita la responsabilità al solo caso in cui il comportamento dell’extraneus costituisca di per sé reato; e consente al giudice di riconoscergli anche una riduzione della pena. Ma quando l’extraneus sia consapevole della qualità dell’intraneus, egli risponde comunque del reato proprio, anche se la sua condotta non costituirebbe di per sé reato; e, non essendo applicabile l’art. 117 c.p., non ha diritto riduzione di pena ivi prevista. Quanto alla possibilità che il falso in bilancio sia scriminato dall’inesigibilità dagli amministratori di una condotta di autodenuncia in ordine al delitto di appropriazione indebita o di illecito finanziamento già commesso, essa può essere esclusa in base a due argomenti decisivi, uno di carattere generale, l’altro specificamente relativo ai reati societari. Sul piano generale occorre considerare, infatti, che l’art. 61 n. 2 c.p. prevede come circostanza aggravante la destinazione di un delitto all’occultamento di un altro, rendendo così palese l’eccezionalità dell’art. 384 c.p., che esime da pena alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia, se commessi per salvare se o un prossimo congiunto da un grave pregiudizio alla libertà o all’onore. Sul piano proprio dei reati societari occorre rilevare che l’obbligo di veridicità del bilancio e delle altre comunicazioni sociali è inteso anche a prevenire scorrettezze nella gestione delle società; sicché sarebbe davvero irragionevole un’interpretazione che privasse di sanzione la violazione di tale obbligo proprio quando fosse destinato a coprire le scorrettezze più gravi (Cass., sez. V., 5 dicembre 1995, Bianchini, m. 203960). Sin dal momento dell’appropriazione o comunque dell’illecita gestione, infatti, l’infedele amministratore di una società si trova nella situazione soggettiva che lo vincola alla veridicità nella redazione del bilancio; sicché egli preordina e programma sin dall’inizio la falsità, della cui necessità è già consapevole (Omissis).
——————— (1-2) Merita una sollecita segnalazione questa pronuncia che ripristina la corretta interpretazione dell’art. 646 c.p., rettificando gli eccessi della sentenza Bussei (Cass., 4 aprile 1997, in questa Rivista, 1997, p. 1435, con nostra nota). Una sola riserva ci suggerisce la motivazione: non condividiamo il « test » della riconducibilità all’oggetto sociale, che la decisione in esame sembra considerare decisivo. Esso vale, a nostro avviso, come indice di regolarità societaria, non di fedeltà patrimoniale: non è quindi pertinente alla tematica dell’appropriazione indebita. Un’operazione può risultare giovevole agli interessi patrimoniali della società sebbene estranea all’oggetto sociale, non caratterizzandosi di conseguenza come
— 320 — appropriativa (salvo ricadere nelle previsioni dell’art. 2630, co. 2o, n. 3 c.c., se consistente nell’assunzione di partecipazioni esorbitanti). Per converso possono ledere il patrimonio sociale e presentare le stigmate dell’appropriazione anche operazioni rientranti nell’attività economica statutariamente programmata (si pensi alla svendita sotto costo di prodotti sociali allo scopo di locupletare l’acquirente). (4) Di notevole interesse e degne di piu ampia riflessione anche le affermazioni di principio in tema di false comunicazioni sociali. Non si dubita che la gestione di una riserva occulta di cospicuo ammontare possa falsare il bilancio ancorché la costituzione e l’utilizzo si siano esauriti nel corso di un solo esercizio. L’occultamento in tal caso, se lascia inalterato lo stato patrimoniale, incide sui valori del conto economico, essi pure significativi. Infatti le « condizioni economiche della società », tema obbligato del falso ideologico, non vanno intese in senso soltanto statico, con riguardo alla situazione di chiusura, ma ricomprendono la dinamica dell’esercizio: significativa, per l’appunto, tanto per la giustificazione del risultato di utile o di perdita, quanto ai fini di un’anticipazione prospettica dell’evoluzione prevedibile della gestione (da illustrare nella relazione sulla gestione, a norma dell’art. 2428, co. 2o, n. 6 c.c.). In quest’ordine di idee può accettarsi l’affermazione della sentenza che « l’affidabilità di un operatore economico dipende soprattutto dal modo in cui ha raggiunto determinati risultati ». Ciò non tanto in funzione di un giudizio di correttezza e professionalità delle persone, estraneo al linguaggio dei bilanci e rimesso all’apprezzamento degli analisti, quanto alla luce delle indicazioni oggettive che l’andamento qualitativo e quantitativo dei costi e dei ricavi puo fornire circa le potenzialità di reddito futuro. Ovviamente il falso sulle condizioni economiche della società veicolato dal bilancio (c.d. falso in bilancio) deve in ogni caso trovare adeguati agganci (per alterazione o per omissione) nella ricca gamma di contenuti informativi (contabili ed extracontabili) propri, per volontà di legge, dei vari documenti che compongono i conti annuali: non solo lo stato patrimoniale (art. 2424 c.c.), ma anche il conto economico (art. 2425), la nota integrativa (art. 2427), nonché la relazione sulla gestione (art. 2428). (C.P.).
DOTTRINA
PROSPETTIVE NEGOZIALI DEL DELITTO DI TRUFFA
SOMMARIO: 1. Il delitto di truffa. Forma vincolata della fattispecie e concatenazione causale inganno, errore, danno. Il requisito tacito dell’atto di disposizione. Soggetto indotto in errore, soggetto dell’atto di disposizione e titolare dell’interesse offeso. — 2. L’atto di disposizione come atto carpito foriero del danno. Atti della pubblica amministrazione. L’atto di disposizione nella prospettiva negoziale. Riserva mentale di non adempiere, dolo concomitante e delitto di truffa, validità ed efficacia del negozio. — 3. L’inganno nella formazione del negozio. Truffa e dolo quale vizio del consenso. Inganno ed errore quale condotta di stampo attivo. L’ipotesi omissiva nella prospettiva negoziale. — 4. Le alternative degli artt. 1439 e 1440 c.c. e la previsione dell’art. 640 c.p. La prospettiva della truffa contrattuale. — 5. Il delitto di truffa nella prospettiva dell’invalidità od inefficacia del negozio. — 6. L’offesa tipica del delitto di truffa. Il riferimento normativo al profitto. Danno e profitto nei termini dell’iniuria. — 7. Libertà di obbligarsi ed offesa patrimoniale quale tipica del delitto di truffa. La prospettiva del negozio patrimoniale. Il danno nella prospettiva dell’esecuzione del negozio. Le deroghe nelle ipotesi del contratto con effetti reali e del contratto reale. — 8. Inganno ed errore nelle diverse fasi negoziali. L’atto di disposizione, consegna e trasferimento patrimoniale. — 9. La prospettiva del negozio unilaterale. L’atto di disposizione quale condotta omissiva. — 10. Il soggetto passivo del delitto di truffa. L’essenza obiettiva del danno patrimoniale. Danno e condizioni personali. Il danno nei confronti dell’ente pubblico. Un riferimento alle ipotesi di cui agli artt. 252 e 356 c.p. — 11. Atto di disposizione ed immanenza dell’errore. L’ipotesi del tentativo. Il giudizio di idoneità in merito alla produzione del danno. Idoneità in astratto ed inidoneità in astratto. Idoneità causale e pericolo quali astrazioni. Giudizio causale e giudizio di pericolo. La fattispecie di cui agli artt. 56 e 640 c.p. — 12. Pericolo da accertarsi in concreto e pericolo presunto. Distinzione probatoria ed essenza costante del pericolo. Contenuto e limiti della presunzione del pericolo. La statuizione normativa del grado di pericolo rilevante. La fattispecie di cui agli artt. 56 e 640 c.p. quale ipotesi di pericolo da accertarsi in concreto. — 13. Problemi di essenza e di accertamento dell’iter esecutivo del delitto di truffa nell’ipotesi della consumazione ed in quella del tentativo. Produzione dell’errore e conoscenze del soggetto passivo. — 14. La frode nel susseguirsi delle fasi negoziali. L’ipotesi del reato impossibile. La cosiddetta truffa processuale. — 15. La punibilità a querela del delitto di truffa. L’attualità dell’intervento penale. Scambi economici ed impiego di apparati. L’ipotesi di cui all’art. 640-ter c.p. — 16. La ricerca della ratio della punibilità a querela del delitto di truffa. La centralità giuridico-economica del contratto e l’insidia della truffa.
1. L’art. 640 c.p. descrive il delitto di truffa nel fatto di chi, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. L’iter criminoso è dunque tracciato in forma vincolata, secondo una concatenazione causale che va dalla condotta esecutiva del delitto costituita dall’artifizio o raggiro — falsa apparenza o menzogna, in sintesi l’inganno — alla produzione del danno con la cui verificazione il delitto si
— 322 — consuma, tramite un effetto psichico intermedio: l’errore del soggetto ingannato. L’induzione in errore in sé e per sé non è giuridicamente rilevante alla stregua di fatto illecito (1). Lo diviene, in particolare anche nella sede penale, se assurge a mezzo di offesa di determinati interessi, presi ad oggetto di tutela. In altri termini, muovendo dalla norma anziché dalla sua violazione, l’ordinamento in genere ed il diritto penale in ispecie non accordano una protezione in astratto della rappresentazione del vero rispetto al falso, bensì apprestano la tutela di determinati interessi che siano, o possano essere pregiudicati dal falso in quanto causa di induzione in errore (2). Il che rimane vero sebbene detta tutela frequentemente si attesti già a fronte di un’offesa di pericolo, in molti casi insita, o concepita come insita nella stessa predisposizione o nell’uso della cosa nella quale si incorpora il falso. L’errore nella previsione dell’art. 640 c.p. è per l’appunto contemplato in rapporto all’offesa di danno (patrimoniale) con la cui verificazione il reato si consuma (3). L’errore, tuttavia, è fenomeno meramente psichico. Il rapporto errore-danno postula pertanto un fenomeno esterno che saldi il nesso eziologico, riannodando i due termini. Quale effetto dell’errore, tale fenomeno non può consistere che in un atto suo malgrado deliberato e compiuto dal soggetto ingannato. Ecco dunque l’atto di disposizione carpito mediante l’inganno e foriero del (1) Sul tema, PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, p. 202. In ordine agli elementi dell’inganno e dell’errore ed al loro rapporto nella previsione dell’art. 640 c.p., nonché con riguardo alla linea di confine che separa la frode dal costringimento, CRESPI, Il comportamento fraudolento e l’incusso timore di un pericolo immaginario, in Riv. it. dir. pen., 1948, pp. 360 ss. (2) Si delinea, in proposito, la contrapposizione sistematica tra induzione in errore, da un lato e violenza o minaccia, dall’altro lato. È vero che sia l’una che le altre entrano a fare parte di talune fattispecie criminose come modalità dell’azione per offendere determinati interessi (cfr., ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, II, Torino, 1995, p. 61); le due ultime, tuttavia, costituiscono di per se stesse reato, già alla stregua della previsione degli artt. 581, 635 e 612 c.p. Avendo riguardo al concetto di fede pubblica, la Relazione illustrativa del Progetto del codice vigente (vol. II, p. 242) ne fornisce la definizione quale ‘‘fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi, documenti), ai quali l’ordinamento giuridico attribuisce un valore importante’’. Sull’assunzione di contenuti concreti del concetto in relazione a specifiche esigenze e certezze, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, I, Bologna, 1997, p. 536. (3) Si veda, in merito all’estremo del danno quale elemento caratteristico dell’inganno rilevante nell’ordine della fattispecie di truffa, PEDRAZZI, op. cit., pp. 14 ss. Quanto si osserva nel testo evidentemente non significa che l’illiceità del falso abbia a conseguire esclusivamente alla produzione di un’offesa di danno patrimoniale. L’esempio di scindibilità dell’illiceità dell’inganno da un risultato dannoso, colto nella figura del dolo come vizio del consenso (PEDRAZZI, op. cit., p. 203), denota non già l’illiceità dell’inganno in se stesso considerato; bensì che l’inganno può assurgere ad illecito anche se il pregiudizio che ne consegue non è di indole stricto sensu patrimoniale, ma come si verifica nell’esempio portato attiene essenzialmente alla libertà di obbligarsi.
— 323 — danno, quale elemento tacito ma indefettibile alla cui stregua si costruisce, nell’ordine logico-sistematico della frode, la fattispecie della truffa (4). Ed è precisamente l’atto di disposizione del soggetto indotto in errore che contrassegna la fattispecie, avendone presente la struttura indipendentemente dalla relativa dichiarazione di punibilità, cui è viceversa inscindibile il concetto di reato, quale necessariamente plurisoggettiva (5) e ne costituisce in pari tempo la nota distintiva, in contrapposto alle usurpazioni, od aggressioni unilaterali, quali ad esempio sono il furto e l’appropriazione indebita (6). Il significato peculiare che l’atto di disposizione assume nella raffigurazione della truffa sta, come si può dire, nella rilevanza che l’ordinamento gli assegna: la verificazione dell’offesa con la quale si consuma il reato, in quanto danno insito nell’atto medesimo, in ultima analisi ne riflette l’efficacia giuridica (7). L’atto di disposizione, nella struttura della truffa — come del resto nel quadro della frode in genere — postula pertanto l’identità del suo autore, per un verso, con il soggetto indotto in errore; per altro verso, con il titolare dell’interesse che ne forma pregiudizievolmente l’oggetto. Le eccezioni, al riguardo, sono soltanto apparenti (8). In relazione al binomio soggetto indotto in errore-autore dell’atto di disposizione, esse si risolvono nell’ipotesi del cosiddetto inganno mediato, che pur presentando la particolarità della riproduzione dell’errore quale modalità dell’esecuzione in concreto del reato, rientra nella previsione generale dell’art. 48 c.p. L’esempio ricorrente è quello dell’ausiliare, non munito di poteri di disposizione, che trasmette l’errore, in cui è indotto dal soggetto attivo, al soggetto passivo del reato che di conseguenza dispone in maniera per sé pregiudizievole. In relazione poi al binomio autore dell’atto di disposizione(4) Incisamente: ‘‘La ‘truffa’ non è altro che un caso, penalmente rilevante, di atto viziato da errore compiuto da un soggetto. In sostanza, nella truffa vi è una cooperazione necessaria tra soggetto attivo e soggetto passivo: quest’ultimo si spoglia volontariamente (ma in base ad un’erronea rappresentazione causata da artifici e raggiri) di un suo bene patrimoniale’’ (NUVOLONE, Truffa in materia fiscale, in Ultimi scritti (a cura di M. Pisani), Padova, 1987, p. 264). La dottrina, ad eccezione di poche voci discordi (PECORELLA, voce Patrimonio (delitti contro il), in Noviss. Dig. it., XII, Torino, 1965, p. 634; MANGANO, Frode e truffa nel processo, Milano, 1976, pp. 101 ss.), è concorde sulla costruzione del reato di truffa quale caratterizzato dall’atto di disposizione del soggetto passivo. (5) Si parla in dottrina di ‘‘fattispecie a cooperazione artificiosa’’, avendo per l’appunto riguardo all’atto di disposizione del soggetto passivo del reato (ZANNOTTI, La truffa, Milano, 1993, p. 11). (6) Si avverte, per l’appunto, come l’atto di disposizione contrassegni la fattispecie della truffa quale causa immediata dell’evento di danno, senza che sia necessaria un’ulteriore attività del reo (PEDRAZZI, op. cit., p. 62). (7) PEDRAZZI, op. pag. ult. cit. (8) In argomento, tra gli altri, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Torino, 1996, pp. 342 s.; CORTESE, La struttura della truffa, Napoli, 1968, pp. 88 ss.; MARINI, voce Truffa (diritto penale), in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, pp. 870 ss.; PEDRAZZI, op. cit., p. 98; ZANNOTTI, La truffa, cit., pp. 85 ss.
— 324 — titolare dell’interesse offeso, le apparenti eccezioni si stemperano nella stessa dialettica della contrapposizione tra frode ed usurpazione unilaterale: perché si verta nei termini della prima e non si cada in un illecito del secondo tipo, il soggetto non titolare dell’interesse offeso che compie l’atto di disposizione deve essere legittimato a disporre in vece di chi ne ha la titolarità. La stessa rilevanza giuridica dell’atto di disposizione esige che esso promani, come sostanzialmente si dice, dal lato del soggetto passivo del reato. È, per l’appunto, il caso della rappresentanza negoziale: ad esempio, del preposto che, consegnando perché indotto in errore la cosa, o pagandone il supposto prezzo, agisce nell’ambito del proprio incarico (9). 2. Il concetto di atto di disposizione del soggetto passivo quale momento cui corrisponde l’offesa con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa non è di per se stesso pregnante di specifiche qualificazioni giuridiche (10). È concetto generico che sta ad indicare ogni tipo di atto carpito mediante l’inganno dal soggetto attivo al soggetto passivo indotto in errore, foriero del danno (11). Esso può ricomprendere, in particolare, anche gli atti della pubblica amministrazione, quale soggetto passivo del reato, non solo se compiuti nell’avvalersi dei poteri di stampo privatistico, stricto sensu dispositivi, ma anche in quanto esercizio della pubblica potestà. Entrambe le ipotesi appaiono per l’appunto presenti nella previsione della prima parte del n. 1 del comma secondo dell’art. 640 c.p. in forza del quale il reato è aggravato se commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (12). Ma non vi è dubbio che la costruzione della fattispecie di truffa quale (9) Sui temi sopra svolti, PEDRAZZI, op. cit., pp. 97 ss.; ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., pp. 342 s.; AZZALI, Profitto e punibilità nella teoria del reato, in questa Rivista, 1989, p. 1413; ID., Inadempimento e frode nelle pubbliche forniture, Padova, 1984, pp. 159 ss. (10) Sul tema, anche in chiave critica rispetto all’impiego della stessa dizione di ‘atto di disposizione’, MARINI, Profili della truffa nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1970, pp. 173 ss. (11) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, I delitti contro il patrimonio, II, Bologna, 1996, p. 173. Si porta anche l’esempio della distruzione di un proprio francobollo, cui induca l’inganno esercitato dal possessore del residuo esemplare, che ne vede pertanto incrementato il valore (MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 34 ss.; MARINI, voce Truffa, cit., p. 881). (12) Si avverte, in dottrina, il problema, anche probatorio, dell’idoneità causale dell’inganno del privato a trarre in errore gli organi della pubblica amministrazione stante l’obbligo di controllo dell’ente pubblico sulla genuinità e veridicità dei dati che fungono da presupposto delle prestazioni pubbliche (FIANDACA, Frode valutaria e truffa a danno dello Stato, in Foro it., 1981, pp. 428 ss.; MARINI, voce Truffa, cit., p. 878; SELLAROLI, Aspetti problematici dell’idoneità del raggiro e dell’errore su legge extrapenale in tema di truffa del ‘‘presalario’’, in questa Rivista, 1979, p. 1173; ZANNOTTI, La truffa, cit., pp. 122 ss.).
— 325 — caratterizzata dall’atto di disposizione del soggetto passivo ne suggerisce fondamentalmente una collocazione nella prospettiva negoziale, con riguardo alla categoria del contratto, ovvero anche a quella dell’atto unilaterale (13). La prospettiva non è contraddetta, avendo in particolare presente il contratto, dall’intento che muove il soggetto attivo del reato, il più delle volte rivolto non a contenuti negoziali, ma a mettere a segno la frode. Si verte in tema di riserva mentale, sostanzialmente quella di non adempiere, in tutto o in parte, alla propria obbligazione: ad esempio, di non consegnare alla controparte la cosa che forma oggetto della compravendita. La riserva o più esattamente il suo contrapposto, nell’esempio costituito dall’intento di spogliare fraudolentemente la controparte del prezzo stabilito come corrispettivo, risponde al dolo concomitante, talvolta cosiddetto iniziale — nella sostanza concepito in conformità alla regola secondo la quale il dolo cade sull’intero fatto del reato, se non è eccezionalmente disposto in senso diverso — che qualifica come tale, sotto il profilo soggettivo, il delitto di truffa. Essa non infirma, peraltro, la validità, od efficacia del contratto: né escludendo o viziando l’accordo manifestato tra le parti, quale causa di nullità o di annullabilità, né paralizzandone gli effetti, giusta la sua qualità di atteggiamento psichico unilaterale e consapevole, non riducibile neppure analogicamente ad alcuna delle cause di invalidità, o di inefficacia del contratto. All’opposto, l’irrilevanza della riserva mentale di non adempiere rispecchia, a contrario, il principio di affidamento cui si uniforma la disciplina dei rapporti tra i contraenti, al quale fa luogo il vigente codice civile (14). 3. Si supponga dunque che l’inganno si insinui nella formazione del negozio, carpendo il consenso del soggetto ingannato (15): ad esempio, quale artificiosa apparenza che l’oggetto della compravendita possegga qualità che non ha. (13) Valga riportare un passo, in tema di truffa contrattuale, non privo di suggestioni: ‘‘Intento negoziale, capacità creativa e condotta fraudolenta, seppure individuano entità distinte e concetti diversi, altrimenti oggetto di autonome elaborazioni, qui rientrano invece in una prospettiva unitaria che li vede intrecciarsi, vicendevolmente condizionati, nello svolgersi dello specifico processo causale’’ (SAMMARCO, La truffa contrattuale, Milano, 1988, p. 5). Sul tema si veda anche LANZETTA, Il tentativo di truffa in materia di ‘‘assicurazione contro il furto’’, in Foro pen., 1964, p. 426. (14) Già il dogma della volontà, nel senso dell’identificazione di consenso e volontà, incontrava il suo limite in tema di riserva mentale. Cfr., con la bibliografia citata, SACCO, Il contratto, Torino, 1975, pp. 265 e 368 ss. Sulla distinzione fra volontà interna e volontà dichiarata cui propriamente si riferisce il concetto di riserva mentale e dichiarazione mancante per inidoneità del comportamento, SACCO-DE NOVA, Il contratto, Torino, 1993, pp. 321 ss. (15) È l’ipotesi cui si ha solitamente riguardo in tema di truffa contrattuale. Si veda, con la copiosa giurisprudenza citata, MAGGINI, La truffa, Padova, 1988, p. 60. Più recentemente, Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 1995, in Cass. pen., 1997, p. 424, n. 252.
— 326 — Punto di riferimento, in tale prospettiva negoziale della truffa, divengono gli artt. 1439 e 1440 c.c., concernenti il dolo quale vizio del consenso. L’art. 640 c.p. designa l’inganno alla stregua dell’artifizio o raggiro. Gli artt. 1439 e 1440 c.c. recano esclusivamente di raggiri, ma non sembra che ciò ne possa determinare un’interpretazione restrittiva. Piuttosto, il principio di stretta legalità cui è soggetta la norma incriminatrice, in contrapposto all’applicazione analogica cui si presta la disciplina civilistica, potrebbe suffragare un’interpretazione dell’inganno tipico del delitto, auspice l’induzione che ne consegue, nei termini di una condotta di stampo attivo, che genera e non semplicemente mantiene l’errore (16). In tale senso, la condotta esecutiva propria della truffa non coinciderebbe con quella costitutiva del dolo, di cui agli artt. 1439 e 1440 c.c.; tuttavia, ne sarebbe compresa e pertanto il disposto di tali due norme rimarrebbe, al riguardo, comunque attuale. Il tema che si è venuto affacciando merita, nondimeno, una più approfondita considerazione. Mantenere in errore, si deve premettere, è ipotesi di azione, non diversamente dall’indurre in errore. L’estensione della previsione dell’art. 640 c.p. anche a tale ipotesi risponde, pertanto, all’utilizzo del corrispondente criterio ermeneutico e non già ad un’applicazione analogica della norma (17). Il problema della configurabilità del delitto di truffa anche in chiave omissiva, muove invece da un’opposta premessa: il soggetto passivo del reato sta per versare, o versa nell’errore cui consegua l’atto di disposizione per una causa che non consiste nell’inganno ordito dal soggetto attivo, ad esempio per spontanea fiducia. L’omissione nella quale si colga la modalità esecutiva del reato verrebbe dunque a concernere un facere che, se non mancasse, impedirebbe che il soggetto passivo cada o rimanga nell’errore e quindi compia l’atto di disposizione (18). Il punto per così dire pregiudiziale rispetto alla configurabilità della truffa (anche) quale fattispecie omissiva si pone così come quello, giusta il comma secondo dell’art. 40 c.p., dell’esistenza di un obbligo giuridico del (16)
Si dice, in effetti, che l’inganno ‘‘deve generare come risultato l’errore’’ (FIAN-
DACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 171), ovvero anche deter-
minare o cagionare l’errore (ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., pp. 340 s.). (17) Cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, IX, Torino, 1984, p. 713, nota 83. (18) Per l’appunto, si osserva: ‘‘Alla produzione attiva dell’errore non dobbiamo dunque contrapporre il silenzio, ma il mancato impedimento, o la mancata rettificazione di un errore sorto indipendentemente da un influsso del soggetto sui processi intellettivi dell’errante’’ (PEDRAZZI, op. cit., p. 183). Sul tema si veda anche MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 86 ss.; SAMMARCO, La truffa contrattuale, cit., pp. 156 ss.; ZANNOTTI, La truffa, cit., pp. 33 ss.
— 327 — soggetto attivo del reato di prevenire l’errore del soggetto passivo, ovvero di toglierlo dall’errore nel quale egli versi (19). In linea generale, anche prendendo spunto dalla disciplina riservata dal n. 3 del comma primo dell’art. 647 c.p. all’appropriazione di cosa della quale si venga in possesso per errore altrui, parrebbe che s’imponga una soluzione negativa (20). Tuttavia, avendo presente la collocazione negoziale del delitto, vi è da chiedersi se l’obbligo del quale si sta dicendo non sia forse già contenuto in quello generico di correttezza o buona fede imposto alle parti dagli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., oltre che da talune disposizioni di specie: precisamente, inteso alla stregua dell’obbligo della parte di informare la controparte dell’errore nel quale essa sta per incorrere od è incorsa (21). Ma, con tutto ciò, il problema si ripropone nel senso di stabilire se la violazione di tale obbligo, ossia la mancata informazione, abbia in effetti a rappresentare l’equipollente dell’azione costitutiva dell’artifizio o raggiro: ossia, a rappresentare anch’essa la condotta tipica del delitto di truffa — l’inganno — per mezzo del quale, tramite l’errore, si carpisce l’atto di disposizione del soggetto passivo (22). La disciplina dei vizi del consenso cui fanno luogo gli artt. 1427 e ss. c.c. distingue, come è noto, tra dolo ed errore. Quest’ultimo, se non è effetto di raggiro, è rilevante al fine dell’annullamento del contratto soltanto se, oltre che essenziale, è riconoscibile dall’altro contraente; ma, sebbene tale ed anzi seppure riconosciuto, nell’ordine del sistema l’errore rimane causa per cui è dato e non carpito il consenso. Non vi è inganno, cioè, se esso non incide, nella maniera che si definisce concludente in relazione all’errore, sulla sfera rappresentativa del soggetto cui è rivolto, che solo per tanto ne è vittima. L’obbligo di informazione che gravi sulla parte ne può essere, pertanto, il presupposto; l’inganno si perpetra, però, a paragone dell’attesa della controparte, quale effettiva e non soltanto potenziale, che l’obbligo sia osservato (23). L’irrilevanza rispetto alla configurazione della modalità esecutiva del delitto di truffa dell’obbligo generico di correttezza, o buona fede dei contraenti, in se stesso considerato, in definitiva rispecchia la sua istituzionale inidoneità — cui la dicotomia dolo ed errore, in confronto al disposto dell’art. 1337 c.c., fa per così dire da contrappunto — ad ingenerare nella (19) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 170. (20) Cfr. MANTOVANI, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 161. (21) Sul tema, PEDRAZZI, op. cit., pp. 198 ss. (22) Sul tema, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 171; MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 69 ss.; SAMMARCO, La truffa contrattuale, cit., pp. 184 ss.; LANZETTA, Il tentativo di truffa, cit., pp. 438 ss. (23) Cfr., in merito al significato concludente che può assumere il silenzio, MARINI, Profili della truffa, cit., p. 88.
— 328 — parte che sta per incorrere od è incorsa in errore la fiducia di essere informata. A contrario, la rilevanza al riguardo di un obbligo specifico di informazione che sia stabilito per legge o per accordo delle parti, sta nella sua propria attitudine, in quanto tale, ad indurre la parte a confidare di essere informata e distolta dall’errore (24). Ma, se così è, l’omissione dell’informazione, ossia il silenzio, ritrae dallo stesso contenuto specifico dell’obbligo consensualmente recepito o costituito ed unilateralmente violato il significato concreto di una tacita, contrapposta comunicazione che non tanto non previene o non sventa, ma essa medesima genera o conserva l’errore. 4. Gli artt. 1439 e 1440 c.c., peraltro, distinguono a seconda che il dolo abbia propiziato un contratto che la controparte non avrebbe concluso, ovvero che avrebbe concluso a condizioni diverse (dolo incidente). Nella prima alternativa (art. 1439, comma primo, c.c.) il contratto è invalido in quanto annullabile, se non nel caso che l’inganno sia stato esercitato da un terzo e non fosse noto al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439, comma secondo, c.c.), cui nella previsione dell’art. 640 c.p. tende a corrispondere l’ipotesi che il soggetto attivo del reato agisca a profitto altrui. Nella seconda alternativa (art. 1440 c.c.) il contraente in mala fede risponde dei danni, ma il contratto è valido. L’art. 640 c.p. viceversa non fa distinzioni: ai suoi propri effetti, l’inganno è ugualmente rilevante sia che induca ad un atto di disposizione che altrimenti non sarebbe stato compiuto, sia che induca ad un atto di disposizione altrimenti diverso. Si delinea, con tutto ciò, il campo nel quale la prospettiva negoziale della truffa, avendo sempre presente inganno ed errore a fronte della prestazione del consenso negoziale, è propriamente quella di un negozio valido, cui fanno per l’appunto spazio il comma secondo dell’art. 1439 e l’art. 1440 c.c. Diversamente, se il contratto è invalido in quanto annullabile a norma del comma primo dell’art. 1439 c.c., tale dato evidentemente non muta soltanto perché la causa dell’invalidità è obiettivamente intrinseca (24) Si scrive, appunto: ‘‘fuori dalla garanzia di un obbligo di verità, nessuna interpretazione dell’altrui comportamento può aspirare a venir tutelata: solo chi ha il diritto di pretendere la verità può lamentarsi di essere stato ingannato’’ (PEDRAZZI, op. cit., p. 202). Sul tema si veda anche BERTOLINO, Frodi valutarie e delitto di truffa, in questa Rivista, 1982, pp. 351 ss.; CESARIS, In tema di condotta e danno nel reato di truffa, in L’Indice pen., 1977, p. 119; CESQUI, Il rapporto tra truffa aggravata e legislazione speciale nelle frodi ai danni del Feoga, in Cass. pen., 1996, p. 2913; SAMMARCO, La truffa contrattuale, cit., p. 224; ID., voce Truffa, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, pp. 3 ss. In giurisprudenza, recentemente, Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 1995, cit.
— 329 — alla struttura della fattispecie criminosa. La tendenza a denominare contrattuale la truffa se il contratto è viziato per dolo (25), ma non è invalido od inefficace per altra causa, vale dunque non più che ad esprimere un siffatto stato di cose. Essa coglie, se mai e per un certo aspetto, un requisito, del quale si avrà occasione di dire, attinente al tema dell’(in)validità od (in)efficacia del contratto con effetti reali in relazione alla configurabilità del delitto. Si può nondimeno osservare che la riserva della denominazione di truffa contrattuale alla sola ipotesi che il negozio cui essa afferisce sia viziato dal dolo, pecca in ultima analisi per difetto se si considera che la prospettiva del negozio, nella quale si colloca il delitto, ne coinvolga, in genere, anche gli aspetti patologici dell’invalidità od inefficacia. 5. Si supponga che l’invalidità, od inefficacia del negozio in effetti consegua ad una causa diversa dal dolo, estranea alla struttura della fattispecie criminosa. È il caso, ad esempio, della nullità del contratto (o di una sua singola clausola) perché contrario a norme imperative in forza del comma primo dell’art. 1418 c.c. (ovvero del successivo art. 1419 c.c.) nel quale la truffa si configura commessa in re illicita (26). Sovviene, in proposito, la parte seconda del n. 1 del comma secondo dell’art. 640 c.p., che punisce quale ipotesi aggravata la truffa commessa con il pretesto di fare esonerare taluno dal servizio militare (27). La suddetta causa estranea, quantomeno se determina la nullità o l’inefficacia del negozio, previene la rilevanza della causa di annullabilità (come tale considerata) o comunque del vizio del consenso intrinseco nella struttura del delitto, costituito dal dolo. Tuttavia, causa di invalidità, o di inefficacia del negozio estrinseca alla struttura della truffa ed inganno, errore ed atto di disposizione tipici del delitto possono convergere intorno al medesimo oggetto. Valga richiamare, in proposito, l’esempio di poco sopra nella supposizione che il soggetto attivo del reato induca il soggetto passivo a confidare erroneamente che il contratto pertanto stipulato non è contrario a norme imperative; ma, con un esempio più nitido, si ponga mente alla causa di nullità rappresentata dalla mancanza dell’oggetto del contratto o dei suoi requisiti (artt. 1325 n. 3, 1346 e 1418, comma secondo, c.c.) nell’ipotesi che il soggetto passivo sia indotto nell’erronea contrapposta rappresentazione. Causa di inefficacia estrinseca alla struttura del delitto ed elementi strutturali di tale ultimo in determinate altre ipotesi tra loro viceversa di(25) Cfr., in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 1982, in Giust. pen., 1983, II, c. 168, n. 210; Cass. pen., Sez. II, 27 ottobre 1986, in Cass. pen., 1988, p. 871, n. 732. (26) Sulla configurabilità della truffa in atti illeciti, oggi comunemente condivisa, in passato non sono mancati i contrasti. Si veda, in argomento, MANZINI, op. cit., pp. 741 ss.; TOLOMEI, Della truffa e di altre frodi, Roma, 1915, pp. 370 ss. (27) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 184.
— 330 — vergono. Si abbia riguardo all’ipotesi della simulazione. Essa è causa di inefficacia tra le parti del contratto (art. 1414, comma primo, c.c.) se è loro comune. È dunque escluso che su di essa abbiano a convergere l’inganno e l’errore tipici della truffa. Il delitto si potrà se mai raffigurare su di un piano divergente: in quanto inganno che induce alla simulazione del contratto, generando l’erronea rappresentazione che il bene simulatamente alienato sarà restituito. 6. L’offesa con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa è tuttavia offesa di danno, propriamente di indole patrimoniale giusta la collocazione della relativa norma incriminatrice nel titolo XIII del libro secondo del codice penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio (28). L’intrusione nella composizione della fattispecie del profitto, proprio del soggetto attivo del reato o di altri, è soltanto nominale. Il profitto, cui l’art. 640 c.p. ha riguardo quale ingiusto, non si aggiunge affatto, come autonomo requisito, all’offesa di danno, ma ne costituisce, visto dal lato del soggetto attivo, il risvolto. Si tratta, come si suol dire, delle due facce di una stessa medaglia, qui rappresentata dall’iniuria (29). (28) Si osserva nondimeno che l’offesa tipica del delitto di truffa nella prassi giurisprudenziale è soggetta ad un processo di progressiva trasformazione e va sempre più spesso perdendo il suo connotato economico-patrimoniale per assumere di volta in volta natura e caratteristiche diverse. (Con la giurisprudenza citata, ZANNOTTI, La truffa, cit., pp. 91 ss. ed anche, sempre con la giurisprudenza citata, MAGGINI, La truffa, cit., p. 26). In particolare con riguardo alla truffa negoziale, si addita l’indirizzo giurisprudenziale formatosi secondo la premessa che mediante l’incriminazione della truffa il legislatore avrebbe inteso tutelare non solo il patrimonio ma anche la libertà del consenso dei contraenti. In verità, non sembra che la giurisprudenza abbia maturato un chiaro orientamento sull’argomento, mentre più di una decisione appare caratterizzata da particolarità del caso concreto che ne influenzano la massima. Tuttavia, si reitera, con ricorrente insistenza, il principio che coglie l’offesa con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa nell’effettivo danno economico-patrimoniale, già affermato con sentenza delle Sezioni unite penali, in data 30 novembre 1974, in Giust. pen., 1975, II, c. 392, n. 417. Si veda in particolare Cass. pen., Sez. V, 30 marzo 1992, in Cass. pen., 1993, p. 2545, n. 1526; Cass. pen., Sez. II, 3 aprile 1986, in Cass. pen., 1987, p. 2137, n. 1790. Giusta una consolidata giurisprudenza, nel senso che, quando oggetto materiale della truffa sia un titolo di credito, ‘‘il reato si consuma nel momento e nel luogo in cui, attraverso la riscossione dello stesso, si verifica l’arricchimento dell’agente, con il correlativo danno patrimoniale altrui’’, Cass. pen., Sez. V, 7 aprile 1995, in Cass. pen., 1996, p. 3668, n. 2048; Cass. pen., Sez. V, 20 settembre 1989, in Giust. pen., 1990, II, 438; Cass. pen., Sez. V, 2 maggio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 1970, n. 1350. Con specifico riferimento alla truffa contrattuale, Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 1981, in Giust. pen., 1982, II, c. 233, n. 280. Anche per ulteriori riferimenti in argomento, Giurisprudenza sistematica di diritto penale (diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky), Codice penale - parte speciale, VI, Torino, 1996, pp. 240 s. e pp. 253 s. Si veda infine, sempre nel senso sopra indicato, con specifico riferimento ad un caso di truffa commessa in danno dell’AIMA, Cass. pen., Sez. un., 24 gennaio 1996, in Cass. pen., 1996, p. 2892, n. 1609. L’orientamento espresso nel testo è dominante in dottrina. Tuttavia, nel senso che l’incriminazione della truffa avrebbe come scopo ‘‘anche la tutela della libertà del consenso nei negozi patrimoniali’’, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 344. (29) La dottrina è tendenzialmente orientata in senso contrario, assegnando al requi-
— 331 — Il dato di specie ripropone, del resto, un principio di ordine generale. La ratio della norma incriminatrice sta nella tutela di un certo interesse, o bene giuridico. Il reato, quale violazione della norma, è pertanto offesa di tale interesse, con la cui verificazione esso si consuma. Il profitto, conseguito o perseguito dal soggetto attivo del reato, è dunque estraneo ai contorni del fatto tipico ovvero della relativa qualificazione soggettiva, la cui essenza ne rifiuta, per incompatibilità logica, il carattere di requisito (essenziale) costitutivo, se non in quanto stia a significare, visto a contrario, il momento dell’offesa, o del corrispondente giudizio di colpevolezza (30). L’attributo dell’ingiustizia secondo il quale l’art. 640 c.p. menziona il profitto sottolinea, se mai, gli estremi dell’iniuria proprio in quanto rappresentata dalla produzione del danno. Si faccia il caso del creditore che ottenga il pagamento del suo credito inducendo in errore il debitore sul futuro impiego anche a di lui favore della somma (31). Non occorre mettere capo all’art. 51 c.p. nella ricerca di un quantomeno discutibile diritto in procedendo del creditore, mediante l’inganno, al fine di ottenere il pagamento. L’insussistenza del delitto di truffa rispecchia il limite intrinseco, alla stregua del quale si determina la fattispecie criminosa già nell’esegesi dell’art. 640 c.p., per l’appunto costituito dall’ingiustizia nella quale si risolve l’inganno (32). sito del profitto una sua propria autonomia. Sul tema, ampiamente, MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 221 ss. L’A., al riguardo, considera il delitto di truffa ‘‘come ipotesi di arricchimento senza causa conseguito mediante l’inganno e con altrui nocumento’’. Per la verità, si tratta di un’inversione di concetti: il delitto di truffa è ipotesi di altrui depauperamento provocato mediante l’inganno cui corrisponde, nei termini dell’iniuria, l’arricchimento del reo. Si veda altresì, secondo il predetto orientamento, LA CUTE, voce Truffa, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, p. 263. Anche la più recente dottrina, particolarmente attenta all’essenza del reato in quanto offesa, pur nella premessa che ‘‘il profitto del soggetto attivo rappresenta il rovescio o l’altra faccia del danno subito dal soggetto passivo’’ concede tuttavia al requisito del profitto un’autonomia sufficiente, si direbbe, perché esso sia arbitro, pur nel verificarsi del danno, dell’esistenza del reato (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 180). Secondo una particolare angolazione, sulla correlazione tra danno e profitto ingiusto nella fattispecie della truffa, NUVOLONE, L’illecito sportivo nella prospettiva dell’art. 640 c.p., in Il diritto penale degli anni settanta, Padova, 1982, p. 559. In argomento, da un punto di vista generale, si veda anche CORTESE, La struttura della truffa, cit., pp . 281 ss. In giurisprudenza, nel senso che danno e profitto costituiscono ‘‘due aspetti di un’unica realtà’’, Cass. pen., Sez. II, 12 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, c. 590, n. 658. (30) AZZALI, Offesa e profitto nella teoria del reato, in questa Rivista, 1988, pp. 470 ss. e pp. 821 ss.; ID., Profitto e punibilità nella teoria del reato, ivi, 1989, pp. 1408 ss.; ID., Scritti di teoria generale del reato, Milano, 1995, pp. 20 ss., 69 ss., 76 s., 124 ss., 130 ss., 162 ss. e 169 ss. (31) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 181. In argomento, si veda anche GRECO, Obbligazioni naturali ed ingiusto profitto nei reati contro il patrimonio, in Giust. pen., 1973, c. 500. (32) Si veda, tuttavia nella prospettiva della causa di giustificazione, seppure considerata nell’ipotesi di cui all’ultimo comma dell’art. 59 c.p., MANZINI, Trattato, cit., pp. 732 s.
— 332 — 7. Il danno patrimoniale tipico del delitto di truffa — riepilogandone in sintesi il corso eziologico — è insito nell’atto di disposizione carpito al soggetto indotto in errore dall’inganno ordito dal soggetto attivo del reato. Ma, già con questo, emerge la distinzione tra il delitto di truffa e la figura del dolo, di cui agli artt. 1439 e 1440 c.c. (33). Il dolo opera quale vizio del consenso, in quanto inganno che induce mediante l’errore a concludere il contratto, ovvero a concluderlo a condizioni diverse. Ossia, il dolo incide sulla formazione del contratto carpendone il consenso ed è per ciò stesso rilevante come causa di annullamento (art. 1439, comma primo, c.c.) ovvero di risarcimento del danno (art. 1440 c.c.). Si è più sopra tenuta presente l’ipotesi che l’inganno esecutivo della truffa spieghi una parallela incidenza: l’atto di disposizione che ne consegue comporta la (carpita) formazione del contratto. L’offesa di danno con la cui verificazione si consuma il reato peraltro non si rispecchia nella mera costituzione di un rapporto obbligatorio (34). L’art. 640 c.p. non è dettato già a tutela della libertà di obbligarsi di fronte all’inganno. Ed anzi, la norma non si appaga del compimento di un atto che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso — come ad esempio reca la discussa dizione dell’art. 643 c.p. — ossia di un danno sotto il profilo patrimoniale anche soltanto potenziale, o comunque non ricorrente come attuale in concreto. La ratio medesima dell’intervento penalistico, quale si riflette nella lettera e nella collocazione dell’art. 640 c.p., vuole che l’atto di disposizione tenuto presente si manifesti come foriero di un danno di indole patrimoniale effettivamente ricorrente, ossia di un effettivo depauperamento economico-patrimoniale del soggetto passivo del reato, tendenzialmente nella forma del danno emergente, ma eventualmente anche in quella del lucro cessante (35). (33) È ormai da tempo superata la distinzione fra frode civile, appagantesi della semplice menzogna e frode penale quale caratterizzata da una più insidiosa messa in scena. Sul punto, tra gli altri, PEDRAZZI, op. cit., pp. 220 ss.; ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 337; MANZINI, Trattato, cit., pp. 669 ss. (34) Sul tema e con riguardo alla ‘‘effettività’’ del danno patrimoniale con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa, si vedano le illuminanti osservazioni di BETTIOL, Concetto penalistico di patrimonio e momento consumativo della truffa, in Scritti giuridici, II, Padova, 1966, p. 716. Si veda anche, sulla natura patrimoniale del danno tipico della truffa, sia pure incidentalmente, NUVOLONE, I problemi del concorso e della connessione nella truffa commessa mediante falso in scrittura privata, in Trent’anni di diritto e procedura penale, II, Padova, 1969, p. 807. (35) Si veda sulla nozione di danno quale offesa con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa, tendenzialmente nel senso di cui sopra, seppure con talune concessioni alla dematerializzazione cui la nozione è andata soggetta, in particolare con riguardo alla truffa contrattuale, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., pp. 176 ss. Sul tema, ampiamente, secondo la conclusione che il danno, nella previsione dell’art. 640 c.p. ‘‘è quello, risarcibile patrimonialmente, effettivo e non quello, potenziale, ma non an-
— 333 — La prospettiva negoziale del delitto di truffa è, pertanto, quella del negozio avente carattere patrimoniale, quale è per definizione il contratto (art. 1321 c.c.) ma può essere anche l’atto unilaterale (art. 1324 c.c.). Tuttavia, non è comunque campo di consumazione del delitto il contratto preliminare, quale fonte esclusivamente di un obbligo di concludere il contratto definitivo e non, per ciò stesso, di un danno concreto di indole patrimoniale (36). Inganno ed errore, nondimeno, possono insinuarsi non soltanto nella fase di formazione del negozio, come poco sopra si teneva presente, ma anche in quelle precedenti delle trattative e del contratto preliminare (37): avendo per oggetto, come si supponeva nell’esempio sopra portato, qualità della cosa compravenduta che essa non ha. Il danno patrimoniale con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa nella prospettiva del contratto sta, peraltro, nell’alterazione a scapito del soggetto passivo del relativo sinallagma. Il postulato perché un’offesa siffatta — sempre nell’esempio addotto — si profili come insita nel carpito atto di disposizione è dunque che dette qualità rappresentino un pregio cui si commisuri la congruità del prezzo stabilito. In linea generale, tuttavia, è solo con l’esecuzione del contratto e più propriamente con l’esecuzione della prestazione del soggetto passivo che il danno patrimoniale diviene attuale: riprendendo il consueto esempio, il danno si verifica ed il delitto si consuma con il pagamento del prezzo stabilito da parte del soggetto passivo, in veste di compratore, come se la cosa possedesse mentre non possiede il pregio che ne determinerebbe la congruità. All’esempio, può a maggior ragione affiancarsi quello dell’inganno e dell’errore che cadono, anziché sulla qualità, sull’esistenza stessa, o sulla disponibilità della cosa presa ad oggetto del contratto. La collocazione della consumazione del reato nella fase dell’esecuzione del contratto va nondimeno soggetta a due ampie deroghe. La prima è rappresentata dalla categoria dei contratti con effetti reali (art. 1376 c.c.). Se il negozio ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale, ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono o si acquistano per effetto del consenso legittimamente manifestato dalle parti. Vale a dire, se la prestazione del soggetto cora verificatosi in concreto’’, MARINI, Profili della truffa, cit., p. 202; ID., Nota a sentenza, in Cass. pen., 1970, pp. 1202 s. Si veda inoltre, anche per ulteriori richiami bibliografici e giurisprudenziali, CESARIS, In tema di condotta e danno nel reato di truffa, cit., pp. 121 ss. (36) Cfr., nel senso che risponde di truffa tentata e non consumata colui che, mediante artifici o raggiri, induca taluno a sottoscrivere una promessa di vendita, successivamente non eseguita, Cass. pen., Sez. II, 28 aprile 1975, in Giust. pen., 1976, II, c. 3. (37) Sul tema, PETTINATI, Atto di disposizione e momento consumativo della truffa, in questa Rivista, 1962, pp. 527 ss.; SAMMARCO, La truffa contrattuale, cit., pp. 80 ss.; VIOLANTE, L’atto di disposizione nella truffa e la frode fiscale, in L’Indice pen., 1980, p. 562.
— 334 — passivo consiste in tale trasferimento o costituzione il danno si verifica ed il reato si consuma già nell’atto della formazione del negozio, indipendentemente da un’attività, a tale riguardo, di ordine esecutivo (38). Contratto con effetti reali, nel senso suddetto, è per l’appunto la compravendita (art. 1470 c.c.). Ritorna dunque attuale l’esempio ripetutamente tenuto presente, nel mutare dell’oggetto dell’inganno e dell’errore, non più la cosa ma il prezzo od il suo pagamento e della veste del soggetto passivo, da compratore a venditore. La seconda deroga è a sua volta rappresentata dalla categoria dei contratti cosiddetti reali — quali si considerano essere il riporto, il deposito, il comodato, il mutuo, il pegno, la donazione di modico valore — la cui formazione si perfeziona, come a consacrarne il consenso, con la consegna della cosa che ne forma oggetto. Anche qui, supponendo a sua volta che in tale consegna consista la prestazione del soggetto passivo, è dunque già nella formazione del negozio che il danno si verifica ed il reato si consuma. 8. I precedenti rilievi concernenti il rapporto tra danno tipico della truffa e, alternamente, formazione ed esecuzione del negozio ovviamente non risentono dell’eventualità che le due fasi siano di fatto coeve e pertanto sede comune di inganno ed errore. Quando poi non lo siano, non necessariamente inganno ed errore prendono origine dalla fase di formazione del negozio, od ancor prima dalla fase della trattativa o del contratto preliminare. L’iter del delitto di truffa può anche accentrarsi — vale a dire — nella fase esecutiva del negozio (39). La sua formazione non è intaccata dall’inganno: l’oggetto cui si riferisce il consenso, ad esempio, possiede le qualità decantate; si consegna, tuttavia, ottenendone con l’inganno l’accettazione e con essa il pagamento del prezzo stabilito, un oggetto diverso, che non possiede tali qualità (40). Ovviamente, sempre in presenza del requisito — che sul piano dell’offesa distingue la truffa dalla frode nell’esercizio del commercio prevista dall’art. 515 c.p. — che ne derivi un danno di carattere patrimoniale: rappresentato, nell’esempio, dal pagamento del prezzo stabilito per la prestazione dovuta, a fronte del minor valore di quella truffaldinamente eseguita. Ma è anche chiaro come l’ipotesi della truffa che si accentra nella (38) La dottrina avverte, peraltro, che la regola enunciata dall’art. 1376 c.c. incontra determinati limiti che riguardano il tipo di contratto, di diritto o cosa trasferita, ovvero anche di effetto del trasferimento. Sul tema, in particolare, SACCO, op. cit., pp. 626 ss. (39) In tema di truffa nell’adempimento del contratto, PEDRAZZI, op. cit., p. 292; ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 340. (40) Si veda, nel senso che nella consegna di una cosa a titolo di adempimento è insita l’affermazione tacita che la cosa è conforme alla pattuizione, PEDRAZZI, op. cit., p 298.
— 335 — fase esecutiva del negozio riproponga il tema dei rapporti tra tale ultimo ed il reato: la prospettiva negoziale nella quale si colloca la truffa, se non ricorre una causa di invalidità, o di inefficacia estrinseca alla struttura della fattispecie criminosa, è quella di un negozio valido ed efficace, sebbene eventualmente risolubile per inadempimento. Il rilievo, si può notare, non è poi destinato a mutare avendo presente la cosiddetta teoria negoziale dell’adempimento, per la verità minoritaria, che in ultima analisi non va oltre ad una qualificazione dell’attività del debitore per negarne, in quanto sorretta da un supposto animus solvendi, la natura di semplice atto dovuto (41). Il tema della (in)validità od (in)efficacia del negozio nella cui prospettiva si colloca il delitto di truffa nondimeno suggerisce ancora un rilievo. L’atto di disposizione del soggetto ingannato, che consti nella consegna con la quale si perfeziona il contratto reale o, in genere, nell’esecuzione della prestazione negoziale, attua il trasferimento patrimoniale cui corrisponde il danno tipico del delitto quale suo contenuto immediato, pertanto non subordinato alla validità od efficacia del negozio. Viceversa, nella prospettiva del contratto con effetti reali, secondo la quale si guardi alla configurabilità del delitto, l’atto di disposizione, mentre si identifica con la formazione del negozio, attua tale trasferimento quale suo effetto giuridico, pertanto subordinato all’assenza di cause di nullità o di inefficacia che ne escludano o paralizzino la verificazione e con essa quella del danno tipico della truffa (42). 9. Le osservazioni che precedono in merito alla verificazione del danno e così alla consumazione del delitto di truffa nella prospettiva delle diverse fasi negoziali e dei differenti tipi di negozio, svolte con precipuo riguardo al contratto, si ripropongono, debitamente adattate, anche in relazione all’atto unilaterale, del resto di regola assoggettato, avendo contenuto patrimoniale, alle norme che regolano la materia contrattuale (art. 1324 c.c.). Si menziona sovente quale possibile campo di truffa la carpita rinun(41) Cfr. AZZALI, Inadempimento e frode, cit., pp. 156 ss. Anche in considerazione della natura non in se stessa negoziale dell’esecuzione del negozio si critica, come già si è accennato in una precedente nota, l’impiego della dizione di ‘atto di disposizione’ per indicare il comportamento tenuto dal soggetto passivo del delitto di truffa (MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 174 s.). Si è anche detto, peraltro, che la dizione non intende essere pregnante di specifiche qualificazioni giuridiche, mentre la prospettiva contrattuale del delitto, quale attinente al contratto, ovviamente si estende anche alla fase dell’esecuzione del negozio. (42) Il trasferimento non è viceversa subordinato all’assenza di cause di annullamento, quale è il dolo in quanto vizio del consenso. Sul tema, MESSINEO, Trattato di diritto civile e commerciale, III, Milano, 1959, p. 644.
— 336 — cia ad un diritto di contenuto patrimoniale (43), produttiva di effetto, ossia del danno nella visuale della truffa, nel momento in cui perviene a conoscenza della persona cui l’atto è destinato, giusta la regola enunciata dall’art. 1334 c.c. Ma si può fare anche l’esempio di specie, colto nella rinuncia all’eredità da parte del coerede indotto in errore sulla consistenza delle passività ereditarie, supposte tali da superare il valore dei beni pervenuti e pertanto destinate a gravare sui successori. Il danno patrimoniale conseguente alla rinuncia, nella forma del lucro cessante, si concreta nel momento in cui il negozio produce il duplice effetto di esclusione del rinunciante dalla successione e di accrescimento del coerede (fatti ovviamente salvi gli eventuali diritti di terzi). E tale effetto — per il combinato disposto degli artt. 519, comma primo, 521, 522, 523 e 525 c.c. — è coevo alla rinuncia se il coerede ha già accettato l’eredità, ovvero alla sua accettazione se successiva. La materia successoria tuttavia suggerisce, forse più facilmente di altre, l’ipotesi che l’atto di disposizione cui è indotto il soggetto passivo del reato consista in una condotta omissiva (44): il presunto erede è indotto dal coerede, cui se ne accresce la parte o se ne devolve la porzione, mediante un inganno consimile a quello supposto nell’esempio che precede, a non accettare l’eredità nei termini prescritti (artt. 459, 474, 475, 476, 480, 481, 675, 676, 677 c.c.). La prospettiva non è di ordine negoziale, se non potenzialmente, con riguardo al negozio di accettazione dell’eredità, dal cui compimento il soggetto ingannato viene distolto. Ma non sembra che possa dubitarsi, nell’ipotesi, della verificazione dell’effettivo danno patrimoniale, anche qui nella forma del lucro cessante, tipico del delitto di truffa. 10. Individuata l’offesa tipica del reato, se ne individua di pari passo il soggetto passivo, titolare del diritto di querela a norma dell’art. 120 c.p. Questi è chi subisce il danno economico-patrimoniale in cui tale offesa consiste; non mai, nell’ipotesi che con lui non si identifichi, il soggetto indotto in errore che agisca in sua vece (45). Il punto è già venuto sostanzialmente in luce nel delinearsi del ruolo che tale soggetto ricopre nella struttura medesima della fattispecie criminosa. L’essenza obiettiva del danno patrimoniale nel quale consiste l’offesa (43) Cfr. ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 342. L’A., peraltro, considera la rinuncia alla stregua del mancato esercizio di un diritto, avente come tale carattere omissivo. (44) Sul punto: PEDRAZZI, op. cit., p. 65; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 173. (45) Cfr., in merito alla distinzione tra soggetto indotto in errore quale soggetto passivo dell’azione e soggetto che subisce l’offesa patrimoniale quale soggetto passivo del reato, PEDRAZZI, op. cit., pp. 33, 93 s. Analogamente, MANZINI, op. cit., pp. 714 e 739.
— 337 — con la cui verificazione si consuma la truffa — si deve aggiungere — può nondimeno rispondere ad un dato, o condizione personale: a fronte della prestazione del soggetto passivo, sta una controprestazione che, pur rappresentando obiettivamente un valore patrimoniale proporzionato, è per lui, di fatto, in parte o del tutto inutilizzabile (46). Nel risaputo esempio, si fornisce alla massaia un quantitativo enorme di detersivo utilizzabile soltanto su scala industriale o commerciale. Si rende nondimeno attuale anche il tema del danno con la cui verificazione si consuma il delitto, se commesso nei confronti dello Stato o di altro ente pubblico. Il requisito che si tratti di danno effettivo, di indole economico-patrimoniale, quale insito nella ratio dell’incriminazione, appare inderogabile. La domanda è tuttavia se un danno di tale indole già non si raffiguri in una mancanza di correlazione tra funzione pubblica e spesa pubblica (47), in ispecie se l’ente opera nell’esercizio di una pubblica potestà. Una risposta in assoluto affermativa minaccia di dirottare i contenuti della tutela disposta dall’art. 640 c.p. verso interessi di stampo generale attinenti al buon andamento della pubblica amministrazione, ossia di alterare l’oggettività giuridica del delitto di truffa. Si tenga presente, d’altro canto, che in numerose ipotesi di frode pur caratterizzate da un’offesa di stampo economico-patrimoniale, essendone soggetto passivo lo Stato od altro ente pubblico, l’art. 640 c.p. cede il campo a norme incriminatrici di tipo speciale, giusta l’art. 15 c.p., riguardanti l’ipotesi della frode in molteplici materie, che vanno dall’imposizione fiscale alle pubbliche forniture. Un rapido confronto, a tale ultimo proposito, con i delitti previsti dagli artt. 252 e 356 c.p. La frode nelle pubbliche forniture è letteralmente indicata come quella che si commette nell’esecuzione, o nell’adempimento del contratto. Non sembra, tuttavia, che l’incriminazione si circoscriva alla frode che si accentri in tale fase del negozio, essendo invece sufficiente che in essa si concluda l’atto di disposizione, non diversamente da quanto può concernere l’ipotesi della truffa. Gli artt. 252 e 356 c.p. non esigono, peraltro, che la frode comporti un danno concreto di stampo stricto sensu patrimoniale. L’offesa secondo la quale viene in considerazione la frode nella sua concorrente incidenza economica, si plasma, per così dire, in armonia con l’offesa che afferisce agli interessi fondamentalmente protetti: la capacità di resistenza dello Stato belligerante, nella pre(46) Sul tema, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 306; CORTESE, La struttura della truffa, cit., p. 266; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., pp. 177 s.; PAGLIARO, Truffa e danno patrimoniale, in questa Rivista, 1963, pp. 1202 ss.; PEDRAZZI, op. cit., p. 23; SPAGNOLO, Un nuovo caso di pretesa ‘‘omnicomprensività’’ della fattispecie di truffa, in questa Rivista, 1982, pp. 1638 ss. (47) Sul tema, in particolare, FIANDACA, Frode valutaria e truffa, cit.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 186.
— 338 — visione dell’art. 252 c.p.; il buon andamento della pubblica amministrazione, in quella dell’art. 356 c.p. A ben guardare, essa è già presente, fosse pure nello stadio del pericolo, nell’atto di disposizione costituito dall’accettazione della prestazione difforme da quella dovuta, nell’erronea rappresentazione che la fornitura sia esattamente adempiuta (48). 11. La concatenazione causale che nella previsione dell’art. 640 c.p. conduce dall’inganno all’offesa insita nell’atto di disposizione, postula che tale ultimo sopravvenga nell’immanenza dell’errore del soggetto ingannato che ne funge da tramite (49). In particolare, se l’inganno si esercita in una fase anteriore del negozio — ad esempio, della sua formazione — l’iter del delitto vuole che l’errore si rifletta come attuale anche nella fase successiva — ad esempio, dell’esecuzione del negozio — cui corrisponda, nel suo momento conclusivo dell’offesa, l’atto di disposizione del soggetto ingannato. L’eventualità che il soggetto cui — sempre ad esempio — sia carpita la formazione del negozio si avveda dell’inganno ed esca dall’errore prima di eseguire la propria prestazione, esclude dunque la consumazione del delitto: anche se il soggetto, cosa in verità poco probabile, eseguisse la propria prestazione. La mancata consumazione può, tuttavia, lasciare il posto al tentativo. È il caso, nella fase più remota dell’iter criminoso, che l’inganno non vada a segno, ossia non cagioni l’errore pur essendo idoneo a produrlo, quale a sua volta idoneo a determinare l’atto di disposizione; ma è a maggior ragione il caso, nella fase più avanzata dell’iter criminoso, che l’inganno in effetti cagioni l’errore idoneo a determinare l’atto di disposizione, nel quale tuttavia esso non sfoci perché il soggetto ingannato esce tempestivamente dalla falsa rappresentazione in cui è stato indotto, ovvero anche per altra causa (50). Ed inganno ed errore possono spiegare tale loro idoneità insinuandosi sia nella fase del negozio in cui fosse destinato a sopravvenire nel suo momento conclusivo del danno il mancato atto di disposizione, sia in una fase anteriore (51). Si muove, evidentemente, nell’ordine del giudizio di idoneità secondo il quale si pone l’art. 56 c.p.: giudizio, vale a dire, di idoneità in astratto, ossia di pericolo, non essendosi in concreto verificato il danno. Mutato l’angolo visuale, il giudizio cade su una causa potenziale, mancando una causa effettiva. Giudizio, nondimeno, che si contrappone all’ipotesi del (48) Sul tema, AZZALI, Inadempimento e frode, cit., pp. 168 ss. (49) Il criterio, in ultima analisi, si riflette in quello della capacità dell’atto di disposizione del soggetto passivo di produrre il trasferimento patrimoniale senza che debba intervenire un’usurpazione unilaterale del colpevole (PEDRAZZI, op. cit., p. 67). (50) Sul tema, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., pp. 346 s.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 183; MANZINI, op. cit., p. 763. (51) Sul tema, seppure in una differente prospettiva, PEDRAZZI, op. cit., p. 289.
— 339 — comma secondo dell’art. 49 c.p. nella quale l’idoneità dell’azione e con essa il pericolo manca anche in astratto. Il concetto di idoneità causale, ovvero di pericolo rispetto ad un danno che non si verifica è per ciò stesso un’astrazione rispetto alla realtà sensibile, o come si può anche dire un concetto controfattuale (52). Esso utilizza il medesimo ordine logico dell’idea di causa e pur tuttavia offre un diverso quadro eziologico. Almeno tendenzialmente, la diversità si rivela nella mancanza di una o più condizioni in presenza delle quali la causa produce l’effetto, qui rappresentato dal danno, ma potrebbe anche raffigurarsi nella presenza di una o più condizioni impeditive. Giusta una certa regola scientifica, ovvero anche secondo un dato semplicemente sperimentale, in un certo contesto fenomenico, tali condizioni nondimeno potrebbero rispettivamente sussistere, o mancare trasformando una causa per ciò stesso potenziale in una causa effettiva. E, più o meno elevate appaiono le probabilità che tali condizioni possano rispettivamente sussistere, o mancare, più o meno intenso si rivela il pericolo di danno (53). Si comprende, già pertanto, come il concetto di pericolo, al pari dell’idea di causa, sia legato alle nozioni di tempo e di spazio: la maggiore o minore intensità del pericolo in ultima analisi riflette la maggiore o minore prossimità o vicinanza dei fenomeni per effetto della cui (mancante od impedita) combinazione eziologica la causa del danno, anziché potenziale, potrebbe essere effettiva: direttamente, o tramite una concatenazione od una convergenza di cause (o concause) (54). Il cosiddetto pericolo di un pericolo — nella fattispecie della tentata truffa, il pericolo che l’inganno generi l’errore a sua volta costitutivo del pericolo che ne consegua l’atto di (52) Il tema dell’idoneità della condotta e dell’offesa di pericolo sussunta a suo punto di riferimento forma oggetto di un’ampia trattazione in dottrina, sia nella prospettiva del delitto tentato che in quella del reato che prende per l’appunto il nome da tale tipo di offesa. Oltre ai manuali, tra le opere più recenti, si veda ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Sassari, 1981; FIANDACA, Note sui reati di pericolo, ne Il Tommaso Natale, 1977, pp. 175 ss.; GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, pp. 689 ss. Le dizioni ‘idoneità in astratto’ ed ‘inidoneità in astratto’ sono sovente sostituite da quelle ‘idoneità in concreto’ ed ‘inidoneità assoluta’. La scelta operata nel testo intende, come accennato, tenere in evidenza la mancanza di una causa effettiva, ossia la mancanza della verificazione di un effetto. (53) La concezione cosiddetta oggettiva di pericolo si regge non più che sul riscontro della possibilità o probabilità di trasformazione della causa potenziale in causa effettiva. La concezione, tuttavia, si esaurisce a fronte del fatto che la trasformazione non si verifica e pertanto il pericolo rimane un’immagine ideale. In altri termini, il pericolo si esprime nel giudizio che si potrebbe verificare (giudizio ex ante), ovvero si sarebbe potuto verificare (giudizio ex post) l’effetto che peraltro non si verifica, ovvero che non si è verificato. Cfr., sul punto, BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1986, pp. 348 s. (54) Si direbbe che per l’appunto si verte in tale ordine concettuale allorquando si distingue tra pericolo più concreto e pericolo meno concreto a seconda delle ‘‘situazioni di fatto’’ che ne determinano l’accertamento (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1995, p. 175).
— 340 — disposizione — altro non è che un pericolo (più) remoto o lontano di verificazione del danno. Naturalmente, il progredire delle conoscenze e delle scoperte scientifiche amplia i confini cui si spinge l’idea di causa e, parimenti, dell’idea di pericolo. Entrambe, per loro intrinseca essenza, sono idee relative legate al sapere, presso una certa società, in un determinato momento storico. Essendo l’idea di pericolo un’astrazione, non può che essere tale anche l’idea di offesa di pericolo. Ne rappresenta l’enunciazione la formula che definisce il reato di pericolo — senza che al presente proposito abbia ad incidere la particolarità che esso sia qualificato da un dolo di danno — quale reato a consumazione anticipata rispetto all’offesa di danno, alla cui prevenzione è pur sempre rivolta la norma incriminatrice. Si avverte, in pari tempo, come la funzione di tutela propria di tale ultima risulti o possa risultare attuale già nei confronti dell’offesa di pericolo, data per l’appunto la possibilità, o probabilità del danno secondo la quale essa si raffigura. Il rilievo, se è calzante rispetto alle singole disposizioni le cui fattispecie sono concepite in termini di pericolo, egualmente lo è con riguardo all’ipotesi estensiva di anticipazione della tutela — oltretutto contrassegnata dal dolo di danno — cui fa luogo l’art. 56 c.p. contemplando il delitto tentato e così con riguardo al combinato disposto dello stesso art. 56 e dell’art. 640 c.p. concernente la tentata truffa. 12. Muove secondo una sua propria tematica, di ordine probatorio, la distinzione tra reato di pericolo da accertarsi in concreto e reato di pericolo presunto. La distinzione rispecchia il contenuto descrittivo della norma incriminatrice a seconda che esso ricomprenda o non ricomprenda tra gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa il requisito dell’idoneità della condotta esecutiva del reato in ordine alla produzione del (mancato) danno, a fronte della regola processuale in forza della quale il fatto del reato, in tutte le sue componenti, forma oggetto di prova (art. 187, comma primo e 530, commi primo e secondo, c.p.p.). In entrambi i casi il giudice è chiamato ad accertare in concreto la sussistenza della condotta esecutiva del reato, nonché dei suoi presupposti ed effetti (intermedi) eventualmente descritti dalla norma incriminatrice. Soltanto nel primo caso, però, il giudice è chiamato ad accertare in concreto, nel quadro fenomenico in atto, se potessero sussistere, quali possibili o probabili, anche le ulteriori condizioni, mancanti, date le quali la condotta esecutiva del reato sarebbe stata causa non semplicemente potenziale ma effettiva del danno, ovvero se potessero mancare le condizioni, presenti, a tale riguardo impeditive. In sintesi, è chiamato ad accertare in concreto l’idoneità (astratta) di tale condotta a produrre il (mancato) danno, cui corrisponde l’idea di pericolo. Siffatto criterio probatorio
— 341 — di concretezza evidentemente non ne tocca l’essenza: il pericolo sta sempre nel giudizio di possibilità o probabilità che si verifichino le condizioni in realtà mancanti per la verificazione del (mancato) danno ovvero che manchino quelle impeditive presenti e pertanto rimane un’astrazione. Tuttavia, il giudizio segue i suoi termini logico-probatori alla volta di un risultato di possibilità o probabilità rispetto alla produzione di un danno che non si è verificato, a similianza seppure anche a differenza del giudizio di causalità che persegue un risultato di certezza rispetto alla produzione di un effetto — nella predetta visuale, un danno — che si è verificato. Nel secondo caso, invece, la possibilità o probabilità che sussistessero, essendo in concreto accertata l’esistenza degli elementi descritti dalla norma incriminatrice, anche le ulteriori condizioni, mancanti, date le quali la condotta esecutiva del reato sarebbe stata causa non semplicemente potenziale ma effettiva del danno, ovvero che mancassero quelle impeditive, presenti, è dalla legge presunta, in senso assoluto o relativo; ossia, è legislativamente presunto il pericolo (55). Più o meno significativi e numerosi sono i connotati della condotta ed i suoi presupposti od effetti da accertarsi in concreto sui quali si fonda la presunzione di pericolo, più o meno aderente alla realtà sarà la presunzione medesima e più o meno osservato il principio di effettività dell’offesa secondo il quale si concepisce il diritto penale (56). Si è pur sempre in presenza, nell’ipotesi di pericolo presunto, di una soluzione politico-legislativa diretta a risolvere, od aggirare un problema probatorio. Il confine ultimo di siffatta soluzione, se ad essa non è dato rinunciare, è o dovrebbe essere tuttavia segnato da una linea logicamente e giuridicamente invalicabile, sebbene non facile a tracciarsi: quella che separa la presunzione, in particolare in quanto assoluta, dalla finzione con la quale altra si passa dall’ambito dell’idoneità seppure in astratto della supposta causa a quello della sua inidoneità anche in astratto a produrre il mancato effetto (di danno) (57). (55) La distinzione probatoria è fatta frequentemente ricadere sulla nozione di pericolo, distinto esso stesso in concreto o effettivo ed astratto. Non si manca, tuttavia, di avere chiaramente presente l’origine e la natura probatoria della distinzione (MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Milano, 1995, p. 199). Si veda anche, sulla dizione ‘‘pericolo astratto’’ quale in realtà allusiva ad una ‘‘presunzione di pericolo’’, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994, p. 260. Per una distinzione tra reati di pericolo concreto, reati di pericolo astratto e reati di pericolo presunto, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 225. (56) È sostanzialmente con riguardo al grado di aderenza alla realtà della presunzione che si coglie l’ipotesi contrassegnata da ‘‘un’attitudine lesiva prodromica rispetto al pericolo effettivo’’, PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1995, p. 171. (57) In ordine ad un criterio-limite della presunzione, tratto dal comma secondo dell’art. 49 c.p., FIORE, Diritto penale, parte generale, I, Torino, 1993, p. 185. Nella visuale dell’ammissibilità della prova contraria alla presunzione, CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989, pp. 24 s.; AA.VV. Introduzione al sistema penale, I, Torino, 1997, VALENTI, p. 251. La proposizione in termini sostanziali (pericolo concreto e pericolo astratto) della di-
— 342 — Le regole generali del sistema, con le quali il caso di pericolo presunto comunque confligge, chiamano ad ogni buon conto l’interprete non solo a contenere la presunzione nei suoi effettivi confini, ma ancor prima a sondarne la presenza. Non è aprioristicamente escluso che il requisito dell’idoneità della condotta a produrre il danno oltre che in quanto espresso, possa cogliersi quale tacito nella complessiva descrizione cui fa luogo la norma incriminatrice, avendone presente la collocazione sistematica e la ratio: in sintesi, il requisito, piuttosto che non presunto, può anche rivelarsi come implicito nella finalità di prevenire il danno cui è rivolta, nell’ordine dei principi generali del sistema, la norma incriminatrice (58). Una soluzione politico-legislativa, per altro aspetto, può riguardare anche il grado del pericolo cui corrisponde l’intervento penale: all’interno dei limiti radicati nelle idee di tempo e di spazio, la norma incriminatrice opta secondo il criterio dell’intensità del pericolo, in rapporto ai caratteri della singola fattispecie. E, se questo è vero, è consentita una deduzione. La singola norma di specie che punisce l’offesa già nei termini della messa in pericolo adempie essa stessa alla funzione, generalmente affidata all’art. 56 c.p., di costituire una più avanzata linea di difesa dell’interesse che ne forma oggetto. Nel medesimo tempo, essa fissa anche il grado, lungo l’iter dell’offesa, nel quale considera opportuno l’intervento penale. stinzione probatoria tra pericolo da accertarsi in concreto e pericolo legislativamente presunto, parrebbe che stia alla base di una formula rivolta a conferire concretezza anche al pericolo astratto: ‘‘Mentre è vero che non si può avere reato, dove non sia offeso (leso o posto in pericolo) il bene protetto dalla legge, è anche vero che del verificarsi di questa offesa si deve giudicare dal punto di vista del legislatore’’ (PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1996, p. 244). Ma è piuttosto nell’ordine della presunzione che si ricompone la contrapposizione tra i due tipi di pericolo: ‘‘il pericolo ‘presunto’ altro non è che il pericolo concreto ritenuto dal legislatore’’ (NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 239). (58) Si avverte che ‘‘la categoria dei reati di pericolo astratto è molto più ristretta di quanto si sostiene comunemente in dottrina e, ciò che più conta, in giurisprudenza’’. Pur nel silenzio della norma può essere egualmente consentito ricostruirne i contenuti ‘‘così da limitarne l’ambito applicativo ai soli comportamenti concretamente pericolosi’’ (MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 200). Sul tema, tendenzialmente nel senso della ‘‘inaccettabilità della categoria del c.d. pericolo presunto’’, in quanto frutto esclusivo di una ‘‘contaminatio tra esigenze processuali di accertamento ed esigenze sostanziali di ricostruzione della fattispecie e dei suoi significati’’, MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 329. Certamente, può ripetersi anche con particolare riguardo al campo dei reati di pericolo presunto l’avvertimento di quanto il sistema vigente, « dominato dalle cosiddette emergenze criminali », possa concedere, « attraverso la formulazione di fattispecie legali latissime e indeterminate », ad interventi e soluzioni che non rispondono, sul piano sia sostanziale che dell’accertamento, a quelle che ne sono, o dovrebbero essere le regole fondamentali informatrici, quantomeno ove non ci si attenga, come più sopra si accennava, ad un rigoroso criterio ermeneutico dominato dal principio di stretta legalità. In argomento, sia pure sullo spunto e nell’ordine di una differente disamina, VASSALLI, Il modello penale di Ugo Spirito e la realtà odierna, in L’indice pen., 1996, p. 42.
— 343 — In breve, nei confronti dell’art. 56 c.p., essa è norma speciale che, giusta l’art. 15 c.p., avoca a sé l’intera disciplina della ‘‘stessa materia’’, così come ad esempio lo è, in caso di apparente concorso, la norma che contempla il reato necessariamente plurisoggettivo rispetto agli artt. 110 e ss. c.p. (59). L’art. 56 c.p. e, quindi, anche la fattispecie di tentata truffa non derogano ai principi generali, considerati come tali nel loro ordine logico. Il requisito dell’idoneità della condotta a commettere il reato e con esso il relativo pericolo è espressamente contemplato dall’art. 56 c.p. quale componente del fatto del tentativo e pertanto esso forma oggetto di accertamento in concreto, giusta il comma primo dell’art. 187 ed i commi primo e secondo dell’art. 530 c.p.p. L’art. 640 c.p., d’altro canto, non incide sulla determinazione della rilevanza del pericolo se non in combinazione con l’art. 56 c.p. e così in ragione del criterio generale dell’idoneità in astratto della condotta a cagionare il danno che non si è verificato. 13. L’iter esecutivo della truffa, cui si confrontano il giudizio di causalità nell’ipotesi del delitto consumato ed il giudizio di idoneità (o pericolo) nell’ipotesi del delitto tentato, tuttavia presenta, quale proprio anello di congiunzione, un effetto psichico — l’errore cui induce l’inganno — a sua volta causa dell’atto di disposizione cui presiede l’ulteriore fenomeno psichico costituito dalla relativa deliberazione. Non vi è dubbio che anche con riguardo all’effetto psichico i due giudizi seguono i rispettivi criteri generali, ai quali comunemente si ispirano (60). Più gravi, nondimeno, sono o possono essere, ratione materiae, le difficoltà di accertamento, soprattutto nell’ipotesi del delitto tentato dove il giudizio è di tipo controfattuale non soltanto sotto il profilo della sua riprova costituita dalla soppressione ideale della (supposta) causa secondo il metodo della conditio sine qua non per saggiare la (possibile) verificazione dell’effetto; ma anche sotto il profilo della costruzione ideale di una realtà che non si è verificata. Il parallelo, sotto tale aspetto, può essere quello della ricerca in merito alla rilevanza impeditiva che, se eseguita, spiegherebbe l’azione dovuta e viceversa omessa. Ovviamente, l’accertamento risente delle particolarità del caso all’esame, nell’ordine logico-giuridico della prova con l’inevitabile ricorso, formandone oggetto un fenomeno psichico, alla presuntio hominis. Il quesito (59) Sul punto, AZZALI, Inadempimento e frode, pp. 216, 218. Nel senso dell’incompatibilità della figura del tentativo, peraltro con limitato riguardo ai reati di pericolo concreto, atteso che, in proposito, ‘‘l’idoneità degli atti a mettere in pericolo il bene protetto è sufficiente per la consumazione’’, RAMACCI, Corso di diritto penale, II, Torino, 1993, p. 192. (60) Cfr., con particolare riferimento all’ipotesi della consumazione, MARINI, voce Truffa, cit., p. 877. In argomento, si veda anche DEL TUFO, Profili critici della vittimo-dommatica. Comportamento della vittima e delitto di truffa, Napoli, 1990, pp. 223 ss.
— 344 — è tuttavia se, dovendosi cogliere la suggestionabilità nella quale fa od avrebbe potuto fare breccia l’inganno, il metro di giudizio sia il senso critico generalmente comune, riferibile al soggetto medio, oppure quello proprio del singolo soggetto passivo. Il cogente ricorso alla prova presuntiva od indiziaria implica necessariamente riferimenti di stampo comune: nella supposizione, si può aggiungere, che essi siano per l’appunto tali. Nondimeno, l’esigenza sistematica che l’accertamento sia condotto in concreto vuole che precipuo punto di valutazione siano le singole capacità personali (61). E, poiché tali capacità sono quelle proprie del soggetto passivo del reato, nei cui confronti certamente non si tratta di formulare un giudizio di colpa, si terrà conto non di quanto egli avrebbe potuto o dovuto sapere più di quanto sappia, ma di quanto effettivamente sa (62). Se mai, la convinzione che egli sappia più di quanto sa e pertanto non abbia a cadere nell’inganno sarà tema di accertamento dell’errore sul fatto del reato, rilevante a norma dell’art. 47 c.p., nel giudizio di colpevolezza, sub specie doli, nei confronti del soggetto attivo. 14. L’inganno esercitato nella fase della formazione del negozio, ovvero anche in una sua fase precedente — come si è già sopra tenuto presente — può condurre ad un atto di disposizione il cui momento conclusivo, foriero dell’offesa con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa, attiene all’esecuzione del negozio. In simmetria, se a quell’inganno non segue l’atto di disposizione, si delinea un’ipotesi, nell’ordine del relativo giudizio di idoneità, di delitto tentato. È l’ipotesi nella quale anche il tentativo di truffa si colloca in una prospettiva negoziale — l’avvenuta formazione del negozio — altrimenti incompiuta. L’anello che congiunge inganno ed atto di disposizione, in senso effettivo nell’ipotesi del delitto consumato ed in senso potenziale in quella (61) Cfr., con riferimento alla ‘‘levatura intellettuale del soggetto passivo’’, MANZINI, op. cit., p. 763. Sulla rilevanza in concreto dell’inganno, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 167. (62) Si veda tuttavia, nel senso che fuori dei casi in cui la ‘‘fiducia della vittima’’ sia ‘‘fondata’’ o ‘‘necessitata’’, la stessa è ‘‘mal riposta e l’errore in cui (il soggetto) eventualmente cade è conseguenza, più che della pericolosità dell’inganno della controparte, dell’irragionevolezza del proprio affidamento: l’errore avrebbe potuto essere evitato adottando una misura di avvedutezza adeguata al ‘principio di autoresponsabilità’, che costituisce l’altra faccia del principio dell’affidamento’’, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 169. Il principio di affidamento, così come viene tenuto presente, peraltro non opera, nell’ipotesi del raggiro (artt. 1439 e 1440 c.c.), già nella sede civile, fatto ovviamente salvo quanto attiene al tema della rilevanza causale tra il raggiro medesimo e l’errore. Nel senso che è ‘‘irrilevante che l’ignoranza o la leggerezza dell’ingannato abbiano agevolato l’errore’’, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 341. Conf., Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 1988, in Cass. pen., 1990, p. 1946, n. 1552; Cass. pen., Sez. II, 26 aprile 1993, in Giust. pen., 1994, II, c. 42, n. 57.
— 345 — del delitto tentato, è in ogni caso l’errore del soggetto vittima del primo ed autore del secondo. Ma è proprio fissando l’attenzione su tale consequenzialità e, quindi, sull’immanenza dell’errore causato dall’inganno allorquando il soggetto compie l’atto di disposizione che, avendo sempre riguardo all’eventualità che la condotta esecutiva del reato già si insinui nella formazione del negozio, può a sua volta raffigurarsi con particolare evidenza, sotto il corrispondente risvolto, l’ipotesi del reato impossibile prevista dal comma secondo dell’art. 49 c.p. (63). Il tema si propone come quello della resistenza della frode di fronte al passaggio da una fase all’altra del negozio, in particolare da quella della formazione a quella dell’esecuzione. In breve, l’ipotesi del reato impossibile è per l’appunto che detto passaggio porti necessariamente, prima che sia compiuto l’atto di disposizione, alla scoperta dell’inganno ed alla rimozione dell’errore. Ad esempio, mediante l’inganno si carpisce al soggetto indotto in errore la formazione di una scrittura di compravendita nella quale è indicato a suo debito un prezzo superiore a quello (congruo e) in realtà dichiarato e convenuto. Inganno ed errore cadranno non appena di tale maggior prezzo sarà preteso il pagamento, la cui esecuzione presupporrebbe un ulteriore ed autonomo atto di disposizione, ormai scevro dall’errore. E se il preteso creditore, non avendo il presunto debitore eseguito spontaneamente il pagamento, facesse valere in giudizio la carpita scrittura al fine di ottenerne l’esecuzione coatta? Il tema che si viene a proporre, come si comprende, è quello della cosiddetta truffa processuale, quale inganno teso al giudice per carpirne una pronuncia (di contenuto patrimoniale) per se ingiustamente favorevole e dannosa per la controparte. Dottrina e giurisprudenza avvertono come la frode commessa nel corso del processo esaurisca la propria rilevanza penale entro i confini dell’art. 374 c.p., secondo le ipotesi specifiche in esso descritte cui non è consentito affiancare, giusta il principio di stretta legalità che governa la materia penale, la più generale previsione dell’art. 640 c.p. (64). Previ(63) In tema di inidoneità della condotta in ordine al delitto di truffa, da un punto di vista generale, MARINI, voce Truffa, cit., pp. 875 s. (64) Cfr. CORTESE, La struttura della truffa, cit., pp. 385 ss.; DE VERO, Truffa processuale, atto di disposizione, potere di disposizione: residui profili di una vexata quaestio, in questa Rivista, 1979, pp. 664 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 182; GIULIANI, È punibile la truffa processuale?, in Giur. it., 1958, II, c. 177; LA CUTE, voce Truffa, cit., pp. 273 ss.; MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 50 ss.; ID., voce Truffa, cit., p. 871; PEDRAZZI, op. cit., p. 108. Contra, nel senso della configurabilità della truffa processuale, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 340; BATTAGLINI, Frode processuale e truffa processuale, in Giust. pen., 1957, pp. 164 ss.; BOSCARELLI, Sulla responsabilità penale per l’evento cagionato mediante l’inganno al giudice, in Arch. pen., 1952, pp. 304 ss.; MANGANO, op. cit., passim. La giurisprudenza è ormai costantemente
— 346 — sione, tale ultima, al tempo stesso diversa. Se è vero, come si è constatato e solitamente non si dubita, che la fattispecie di truffa, sulla cui trama si modella a sua volta il corrispondente delitto tentato, è caratterizzata dall’atto di disposizione suo malgrado compiuto dal soggetto passivo del reato (o di chi ne fa le veci) l’eventuale pur deviato intervento del giudice è già pertanto fuori causa: il giudice non sta dal lato di una parte, ma è super partes; non dispone in vece delle parti, ma pronuncia un provvedimento; non svolge un’attività negoziale, ma amministra la giustizia. I limiti dell’art. 374 c.p., d’altro canto, non sono casuali. L’incriminazione cade sui casi più insidiosi di frode. Dove l’insidia è minore si suppone che a sventarla valga il doveroso sospetto nell’accertamento del vero che accompagna l’amministrazione della giustizia. 15. L’art. 98 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione, ha aggiunto un terzo comma all’art. 640 c.p.: il delitto di truffa ‘‘è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante’’. La degradazione, vista talvolta e non del tutto a torto come una sorta di depenalizzazione rimessa al soggetto passivo (65), non può non lasciare perplessi, specie se si considera il rilevante aumento, ricordato in dottrina (66), del numero dei procedimenti penali per truffa dagli anni ottanta agli anni novanta. La rilevanza giuridico-sociale di un determinato interesse quale meritevole della tutela penale, precipuamente accordata secondo il principio della procedibilità d’ufficio dell’azione, riflette anche la frequenza dell’aggressione ad esso portata (67) già di per sé verosimile indice dell’inadeguatezza, od insufficienza dell’intervento di un meno severo criterio sanzionatorio. Non sfugga, al tempo stesso, la maggior insidia che in molti casi è venuta a connotare l’inganno, sia da un punto di vista generale, per la necessità di improntare gli scambi economici all’interno di una moderna società, forse soprattutto quelli più consueti, ad un rapporto fiduciario; sia, orientata nel senso di escludere la configurabilità della cosiddetta truffa processuale. Si veda, con le decisioni rispettivamente citate, MAGGINI, La truffa, cit., pp. 68 ss.; ZANNOTTI, La truffa, cit., pp. 63 ss.; Giurisprudenza sistematica di diritto penale, cit., pp. 238 s. Più recentemente, Cass. pen., Sez. V, 6 giugno 1996, in Giust. pen., 1997, II, c. 396. (65) Cfr. PIOLETTI, voce Truffa, in Noviss. Dig. it. Appendice, VII, Torino, 1987, p. 910). (66) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 163. (67) Si tratta, ovviamente, di uno dei criteri concorrenti in merito al giudizio sulla necessità dell’intervento penalistico, che di per se solo potrebbe anche condurre a risultati opposti, secondo la formula criminalità di massa sinonimo di criminalità bagatellare (cfr., in chiave critica, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, Padova, 1985, pp. 637 ss.). Ma, evidentemente, non è tale ultimo il caso del delitto di truffa.
— 347 — da un punto di vista più particolare, in seguito al sempre più diffuso impiego di mezzi di comunicazione di massa e di apparati, o strumenti nel quale si può annidare l’artificio o il raggiro (68). A tale ultimo proposito, non si è mancato di soffermarsi sul caso della captazione patrimoniale commessa alterando il funzionamento di un sistema informatico o telematico, peraltro non pertinente (69). Sebbene il funzionamento del sistema riproduca la volontà del programmatore, l’alterazione non incide sull’ideazione che presiede alla formazione di tale volontà e, quindi, sulla disposizione del programma. Si è pertanto fuori dall’iter causale che, passando attraverso l’errore del soggetto ingannato, contraddistingue nella sua forma vincolata il delitto di truffa. La frode si atteggia, se mai, nel senso improprio tradizionalmente tenuto presente in tema di elusione di un sistema, o mezzo di sicurezza: l’esempio si rinviene nella seconda parte del n. 2 del comma primo dell’art. 625 c.p., ove si prevede quale circostanza aggravante speciale del furto che il soggetto si valga ‘‘di un qualsiasi mezzo fraudolento’’. La supposta buona fede del programmatore violata dalla condotta del soggetto attivo, a sua volta altro non è che una precostituita (generale) fiducia che non siano impiegati mezzi di tale fatta e non già una (specifica) falsa rappresentazione carpita mediante l’inganno: e, qui, l’esempio è fornito dalla seconda parte del n. 7 della norma succitata, che annovera tra le circostanze aggravanti speciali del furto l’esposizione alla pubblica fede della cosa che forma oggetto del reato. L’art. 640-ter c.p., aggiunto dall’art. 10 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, è comunque sopravvenuto a fugare ogni dubbio. La frode informatica — come è definita nell’epigrafe della norma e per ciò stesso anche nominalmente distinta dalla truffa — è per l’appunto concepita come un’usurpazione, od aggressione unilaterale, la cui modalità esecutiva cade direttamente ed esclusivamente sulla cosa: il sistema telematico od informatico, ovvero il suo funzionamento (70). Ma, come si teneva presente, in altri casi l’apparato o strumento può essere preso propriamente a mezzo per esercitare l’inganno e carpire, con l’induzione in errore, l’atto di disposizione foriero dell’offesa con la cui verificazione il delitto di truffa si consuma (o con il cui pericolo di verificazione se ne configura il tentativo). Si ponga mente — per citare un caso che ha avuto più di un riscontro concreto — al mendacio in merito al lavoro prestato che il lavoratore trasmetta all’imprenditore abusando di mano propria (alterazione) o di mano altrui (sostituzione nell’operazione) (68) Sul tema, ANTOLISEI, Manuale, parte speciale, I, cit., p. 338; MARINI, Profili della truffa, cit., pp. 28 ss. (69) Si veda, PIOLETTI, voce Truffa, cit., p. 912. (70) In tema di frode informatica, PECORELLA, Il diritto penale dell’informatica, Milano, 1994, pp. 47 ss.
— 348 — dell’apparecchio di timbratura automatica del cartellino orario cui segua (o possa seguire) il pagamento di una retribuzione non dovuta. 16. L’ordine dei tempi di promulgazione delle norme non consente l’ipotesi che la degradazione della truffa a reato punibile a querela di parte rifletta la sottrazione all’ambito della condizione di procedibilità della più severamente punita figura, aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, introdotta dall’art. 640-bis c.p., aggiunto dall’art. 10 della legge 19 marzo l990, n. 55. Volendo ricercare una ratio della degradazione, ammesso che un fondamento razionale o ritenuto tale effettivamente si dia (71), possono sovvenire talune enunciazioni sulle quali la dottrina si intrattiene negli anni che seguono la riforma. In breve: la riforma stessa sottolinea ed acuisce i contenuti individuali dell’oggettività giuridica del delitto di truffa, considerato nella sua stessa prospettiva negoziale; l’affievolirsi sul piano dei valori sociali degli interessi che compongono tale oggettività seguirebbe nel contempo la decadenza dell’istituto privatistico del contratto nell’attuale sistema economico, a fronte di altri meccanismi di distribuzione e trasferimento della ricchezza, mossi dai pubblici poteri (72). I tempi storici, dalla comparsa del terzo comma dell’art. 640 c.p. e dagli enunciati sopra concisamente riferiti ad oggi, sono tuttavia corsi rapidi e densi di avvenimenti che hanno segnato, anche in maniera vistosa, un’inversione di tendenza. Ancora in breve, gli istituti pubblici hanno lasciato od è in programma che lascino almeno in gran parte il campo economico — ed è questo il primo punto — all’iniziativa privata. Il contratto, dunque, riprende — ma è forse meglio dire conserva — la sua centralità giuridico-economica nel sistema sociale. L’iniziativa privata — ed è questo il secondo punto — si concepisce, a livello della legge sia costituzionale che ordinaria, nell’ordine di controlli pubblicistici rivolti a garantire l’interesse comune: primo fra tutti, da un punto di vista per così dire interno, quello destinato ad assicurare la libera concorrenza, dalla quale l’iniziativa privata trae alimento ed il suo essenziale connotato. Una tutela penale del contratto nell’insieme delle sue fasi e dei suoi contenuti non è pensabile. L’episodicità, o frammentarietà nel diritto penale risponde allo stesso tipo di sanzione che lo caratterizza, secondo note intrinsecamente afflittive nonostante la funzione rieducatrice perseguita. L’intervento penalistico è per sua propria essenza vincolato ad un valore degli interessi in gioco che ne determini, in ultima analisi, la necessità. E, come in ogni altra materia, ciò è ovviamente vero anche quando si muova (71) In effetti, della procedibilità a querela di parte, si scrive quale ‘‘introdotta’’ — omissis — ‘‘per ragioni di deflazione del carico giudiziario’’ (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I delitti contro il patrimonio, cit., p. 184). (72) In tale senso, PIOLETTI, voce Truffa, cit., pp. 909 ss.
— 349 — su di uno sfondo avente carattere negoziale. In effetti, si è in ispecie veduto il differente ambito di applicazione degli artt. 1439 e 1440 c.c. da un lato e dell’art. 640 c.p. dall’altro lato e si è colto nel danno effettivo di carattere economico-patrimoniale l’offesa con la cui verificazione (o pericolo di verificazione) si consuma il delitto di truffa (ovvero si configura la relativa ipotesi di delitto tentato) con la corrispondente delimitazione della fattispecie criminosa secondo una casistica in cui la frode contrattuale tocca il suo acme. Tutto ciò certamente non significa che il delitto di truffa, pur all’interno della classe dei reati contro il patrimonio, quantomeno nell’attuale previsione dell’art. 640 a confronto dell’art. 640-bis c.p., sia delitto di eccezionale gravità. Nondimeno, la sua modalità esecutiva è l’inganno che si incunea nel comune e ricorrente strumento giuridico — il negozio — cui si affidano i traffici economici in un ordinamento improntato a criteri di libertà e per ciò stesso anche di sicurezza nella produzione, nella circolazione e nel consumo dei beni e che di tale strumento sovverte, nel momento cruciale in cui se ne verificano gli effetti, il sinallagma e la funzione. GIAMPIERO AZZALI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Pavia
OFFENSIVITÀ E RAGIONEVOLEZZA NEL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ SUL CONTENUTO DELLE LEGGI PENALI (*)
SOMMARIO: 1. Principio di offensività del reato e controllo di costituzionalità. — 2. La duplice dimensione del principio di offensività e gli equivoci della Corte costituzionale. — 3. Dall’offensività alla ragionevolezza nel controllo sul contenuto delle norme penali. — 4. La prima fase del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali: l’espunzione delle norme incriminatrici ‘‘illiberali’’. — 5. La seconda fase del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali: la razionalità politico-criminale delle norme incriminatrici. — 6. Le più recenti tendenze evolutive della giurisprudenza costituzionale sulla ‘‘ragionevolezza’’ delle leggi penali.
1. Principio di offensività del reato e controllo di costituzionalità. — Principio democratico e garanzia possono forse dirsi i due poli di un rapporto pendolare e, ad un tempo, evolutivo (1). Se nella storia del moderno costituzionalismo, soprattutto continentale, è la fondazione del potere pubblico sulla sovranità popolare a costituirne il punto d’avvio, l’evoluzione più recente e imponente è segnata dalla continua ricerca di limiti sempre più penetranti ed invalicabili al potere legislativo, che pure di quel principio democratico è l’incarnazione istituzionale. Le convenzioni internazionali con il loro nucleo forte dei diritti individuali, da un lato, e la diffusione del controllo di costituzionalità delle leggi, dall’altro, sono l’espressione più chiara e significativa del processo di potenziamento delle garanzie fondamentali, specie dal secondo dopoguerra in poi. Ma, a ben vedere, tanto il principio democratico quanto le garanzie fondamentali hanno un obiettivo finale sostanzialmente comune, che — per quanto riguarda in particolare l’orizzonte giuridico — è quello di assicurare che la produzione normativa non si riduca a sopraffattorio strumento della ragion di Stato ma si mantenga rispettosa degli interessi sociali ed individuali della comunità. E, mentre il principio democratico persegue questo (*) È il testo, ampliato e corredato delle indispensabili indicazioni giurisprudenziali nonché di una bibliografia essenziale, della relazione svolta al Convegno su ‘‘Costituzione, diritto e processo penale: i quarant’anni della Corte costituzionale’’, svoltosi all’Università di Macerata nei giorni 28-29 gennaio 1997. (1) Per un tentativo di conciliare l’antinomia tra garanzia costituzionale e sovranità democratica, v. recentemente PALOMBELLA, Costituzione e sovranità. Il senso della democrazia costituzionale, Bari, 1997.
— 351 — obiettivo ultimo e sostanziale attraverso la concentrazione del potere normativo nell’organo e secondo meccanismi di esercizio (la rappresentanza, il procedimento legislativo, gli strumenti di democrazia diretta, ecc.) che sono ritenuti in un certo momento storico i più idonei all’obiettivo finale, il sistema delle garanzie ha un carattere decisamente più ‘‘contenutistico’’, in quanto pone dei limiti, negativi o addirittura positivi, non già semplicemente al procedimento di produzione normativa ma allo stesso prodotto legislativo. Ma poiché il rispetto di questi limiti — ‘‘costituzionali’’ — non può che essere fatto valere da organi diversi da quelli del potere legislativo, è chiaro che la coesistenza del principio democratico e delle garanzie fondamentali implica conseguentemente una potenziale tensione all’interno dei moderni sistemi costituzionali e impone un necessario equilibrio tra gli organi titolari delle diverse funzioni. I grandi princìpi del diritto penale riflettono in modo particolarmente evidente la duplice dimensione dei moderni Stati di diritto, rappresentata dal principio democratico da un lato, e dalle garanzie fondamentali dall’altro: se, invero, la legalità — non a caso il più risalente dei princìpi penali costituzionali — trova la sua radice profonda ed originaria nel principio democratico, la colpevolezza ad esempio si pone come espressione netta di un’esigenza di garanzia individuale. Peraltro, è chiaro che anche all’interno di uno stesso principio fondamentale, una volta che esso abbia acquisito rango costituzionale e divenga dunque parametro del controllo di costituzionalità delle leggi, si riproduce quella dialettica tra democrazia e garanzia che più in generale è comunque ìnsita nel sindacato di conformità delle leggi a Costituzione (2). Ma l’intensità di questa tensione è variabile, e il suo grado dipende dalle caratteristiche interne del principio che funge da parametro di costituzionalità. Sono almeno tre le variabili che influenzano il grado di tensione tra democrazia e garanzia nell’utilizzazione del parametro o principio costituzionale di giudizio. Innanzitutto, è chiaro che quanto più il principio si presenta rigido e definito nei suoi contenuti, tanto più stretto risulterà il vincolo per il legislatore ma anche tanto più certo e netto il confine all’intervento demolitorio della Corte costituzionale; al contrario, quanto più elastico sarà il contenuto del principio tanto più numerose e acute saranno le occasioni di possibile ‘‘contenzioso’’ tra legislatore e Corte costituzionale. In secondo luogo, quanto più la natura del parametro di costituzionalità consenta di spingere il controllo dentro il contenuto sostanziale e specifico della legge piuttosto che di limitarlo ai suoi aspetti procedimentali o estrinseci e generali, tanto più intensa sarà la tensione che ne risulta tra scelte legislative e controllo di costituzionalità. Infine, una terza variabile è data questa volta non già dalle caratteristiche intrinseche del (2)
V. particolarmente CHELI, Il giudice delle leggi, Bologna, 1996.
— 352 — parametro di costituzionalità quanto piuttosto dalla situazione politico-legislativa in cui esso viene a trovarsi: se, cioè, il principio costituzionale non riesce a riscuotere un’eco positiva nella prassi legislativa, è chiaro che il rischio di una tensione polemica tra Corte costituzionale e legislatore, dunque tra garanzia e principio democratico, diventa più elevato. Ebbene, ora a me sembra che il cd. principio di offensività in materia penale (3) sia, tra i grandi princìpi penalistici, quello che più di ogni altro pone la Corte costituzionale di fronte alla tensione tra garanzia e democrazia: nessun altro ‘‘campo’’ o spazio si presta a verificare, appunto sul campo, il ruolo assunto dalla Corte negli attuali equilibri od assetti istituzionali, come quello costituito dalla giurisprudenza sul principio di offensività. Rispetto agli altri princìpi penalistici, quello di offensività può dirsi contrassegnato da uno spiccato carattere ‘‘contenutistico’’, essendo inoltre principio destinato ad operare essenzialmente sulla parte speciale del diritto penale (4). Mentre i princìpi, ad esempio, di legalità e di colpevolezza, ma anche di rieducazione, delineano i caratteri essenziali, talvolta addirittura ‘‘formali’’ come fa la legalità, ma in ogni caso relativi allo strumento della tutela, quello di offensività concerne gli oggetti della tutela e dunque i contenuti della norma incriminatrice. Mentre, cioè, legalità, colpevolezza, finalità rieducativa della pena, contribuiscono a delineare il modello costituzionale dello strumento di tutela costituito dalla responsabilità penale, un modello generale che è — per così dire — sempre eguale a se stesso, almeno tendenzialmente, quale che sia la ‘‘materia’’, l’‘‘oggetto’’ della tutela, il principio di offensività dispone invece sul contenuto materiale della tutela. Un contenuto che non può che essere vario e mutevole così come varia e mutevole è la parte speciale del diritto penale. E il principio di offensività, detto in estrema sintesi, ha il compito di selezionare gli oggetti destinati a divenire contenuti delle norme penali. (3) Nell’impossibilità di dare una completa informazione bibliografica sul punto, ci limitiamo a ricordare prima di tutto MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 49 ss. V. precedentemente, MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti Mortati, IV, Milano, 1977, 477; VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti Pioletti, Milano, 1982, 651; ZUCCALÀ, Sul preteso principio di necessaria offensività del reato, in Studi Delitala, III, Milano, 1984, 1700. Per una più recente messa a punto del principio, si vedano i contributi di ANGIONI, FIORE, MANTOVANI, PALAZZO, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 61 ss. (4) Lo stesso parametro della ‘‘ragionevolezza’’ reagisce in modo molto diverso a seconda che operi sulla parte generale ovvero speciale del diritto penale. Invero, mentre le numerose sentenze che in nome della ragionevolezza hanno inciso sulla parte generale, e segnatamente sul sistema sanzionatorio e penitenziario, hanno operato un controllo in definitiva ‘‘interno’’ al sistema stesso, le pronunce chiamate a sindacare la legittimità contenutistica delle norme incriminatrici hanno dovuto necessariamente far riferimento a valori per nulla esclusivi del diritto penale, ma inerenti piuttosto alla trama complessiva dell’intero ordinamento.
— 353 — Ora, mentre il giudizio di costituzionalità concernente la legalità o la colpevolezza o la finalità rieducativa, pur rinnovandosi ogni volta a contatto con la singola norma sub iudice, si avvale però comunque di un parametro sufficientemente predeterminato e soprattutto immutevole nei suoi contenuti fondamentali, il parametro dell’offensività è privo di un reale contenuto predeterminato una volta per tutte e capace quindi di definire tutti i giudizi in cui opera. Certamente, il principio di offensività nel suo contenuto essenziale dice che ‘‘sono penalmente tutelabili solo gli interessi meritevoli’’, ma questo schema o parametro di giudizio non può concretamente operare senza la previa individuazione, volta per volta, dell’interesse per l’appunto meritevole. In sostanza, il vero contenuto materiale del parametro di costituzionalità viene forgiato di volta in volta dalla Corte, con riferimento non già ad una stessa norma costituzionale ma a norme diverse a seconda dell’interesse della cui ‘‘meritevolezza’’ si dibatte. Mentre, dunque, per gli altri princìpi il giudizio di costituzionalità può contare su un contenuto materiale predeterminato del parametro e dunque si risolve in un accertamento di conformità o meno della norma impugnata, per l’offensività il controllo di conformità al principio presuppone la ricerca e l’individuazione da parte della Corte del parametro (l’‘‘interesse meritevole’’) di riferimento. Dunque, si può concludere sul punto parlando di una sorta di paradosso metodologico che contrassegna il principio di offensività e il suo funzionamento nel giudizio di costituzionalità. Da un lato, si tratta di un principio contenutistico, nel senso sopra precisato di canone attinente al piano dell’oggetto della tutela; dall’altro, però, esso è privo di un contenuto prescrittivo realmente predeterminato al giudizio di costituzionalità da parte della Corte. Ad accrescere la potenziale tensione tra istanza democratica e istanza di garanzia contribuisce, in secondo luogo, la conformazione che il principio di offensività è venuto assumendo nell’esperienza giuridica italiana. A questo proposito è, però, necessario intendersi con chiarezza. Al rigore concettuale, tale da rasentare talvolta l’astrattismo, con cui la dottrina ha elaborato significato e portata garantista del principio di offensività non corrisponde di certo né altrettanta rigidità nell’uso che ne ha fatto la giurisprudenza costituzionale, né un elevato grado di effettività nell’osservanza di quel principio da parte del legislatore. L’intento garantista della migliore dottrina che si è occupata dell’argomento, anche prescindendo dalle posizioni un poco antistoriche di un improbabile ‘‘diritto penale minimo’’, l’ha spinta verso l’ideale di un catalogo tendenzialmente chiuso di beni giuridici, al quale dovrebbe competere il còmpito di una delimitazione sufficientemente netta e rigida dello ‘‘spazio penalistico’’, delle ‘‘materie’’ e degli ‘‘oggetti’’ cui concedere la tutela penale (5). Così inteso, e ormai (5)
Dopo aver ricordato l’ancora fondamentale opera di BRICOLA, Teoria generale del
— 354 — già tramandato nell’insegnamento universitario, il principio di offensività viene ad assumere un rigore teorico e concettuale inversamente proporzionale al suo grado di effettività storica e legislativa. Invero, sul piano della concreta esperienza legislativa, ancora oggi inflazione penale, bagattellizzazione e ‘‘amministrativizzazione’’ del diritto penale, formalizzazione dell’illecito, anticipazione della tutela, e così via enumerando, sono tutti fenomeni che, lungi dal costituire relitti del passato, sono sotto gli occhi di tutti per contraddire platealmente l’ideale affermato nelle enunciazioni del principio di offensività. Orbene, in questa siderale distanza tra formulazione teorico-dottrinale ed esperienza legislativa del principio di offensività si colloca l’opera della Corte costituzionale, alla quale conviene subito riconoscere indubbi e grandi meriti, rinviando all’analisi successiva la più puntuale motivazione dell’assunto. La Corte ha, infatti, saputo trarre ispirazione dal principio di offensività, mutuandolo certo — e non poteva essere altrimenti — dall’elaborazione dottrinale (6), ma senza ignorare tutta la straordinaria ricchezza e complessità dei criteri di criminalizzazione e dei giudizi di valore che presiedono alle scelte di penalizzazione effettuate dal legislatore (7). In questo senso la Corte ha attenuato la rigidità, più che altro apparente, del principio di offensività, introducendo un linguaggio più consono alla complessità del momento legislativo di criminalizzazione e, dunque, conseguentemente spingendo il suo sindacato su un terreno dove è innegabile una certa omogeneità tra funzione legislativa e funzione di controllo. Così che, indubbiamente, ne risulta accentuata quella potenziale tensione tra l’istanza democratica che spinge verso l’esclusività della funzione legislativa nelle scelte di criminalizzazione e l’istanza di garanzia, che le vuole ampiamente soggette alla funzione di controllo della Corte (8). La conformazione assunta dal principio di offensività nella concreta esperienza della giurisprudenza costituzionale e della prassi legislativa è dunque tale da escludere una netta delimitazione reciproca delle contrapposte istanze democratica e garantista nel controllo sui contenuti della legge penale. Il che, ammesso e non concesso che in tale campo sia possibile un controllo more geometrico, non determina uno scandalo istireato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 7 ss., si veda ora la puntuale messa a punto della questione effettuata da MAZZACUVA, Modello costituzionale di reato. Le ‘‘definizioni’’ del reato e la struttura dell’illecito penale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, Torino, 1997, 75 ss. (6) Per una rassegna, v. VALENTI, Principi di materialità e di offensività, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, cit., 252 ss. (7) Sul punto, v. PALAZZO, Principi costituzionali, bene giuridico e scelte di criminalizzazione, in Studi in memoria di P. Nuvolone, I, Milano, 1991, 369 ss. (8) Preoccupazione, questa, sottolineata da INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, cit., 288.
— 355 — tuzionale ma pone piuttosto un’esigenza politica di grande equilibrio nell’attività della Corte. 2. La duplice dimensione del principio di offensività e gli equivoci della Corte costituzionale. — È ormai affermazione diffusa, e indubbiamente esatta, che la Corte costituzionale ha fatto proprio il principio di offensività nella strutturazione concettuale che esso ha assunto nella elaborazione dottrinale. Come ho anticipato poco fa e come cercherò di dimostrare più dettagliatamente tra poco, la mia convinzione è che la Corte sia andata oltre i termini della teorica del bene giuridico e dei limiti costituzionali alla penalizzazione, soprattutto quando ha spinto il suo sindacato sul contenuto di disvalore del reato lungo i sentieri aperti dal controllo di ragionevolezza e dal principio di proporzione. Ma ciò non esclude, naturalmente, che la mutuazione dalla scienza penale sia evidente per quanto riguarda in modo particolare il duplice piano nel quale è stato recepito il principio di offensività. Non solo, cioè, come canone di legislazione, rivolto dunque al legislatore nel momento di formulazione della fattispecie, per costringerlo alla costruzione di fattispecie criminose dotate di un reale contenuto offensivo di beni giuridici socialmente apprezzabili; ma anche come canone di interpretazione, rivolto dunque al giudice e all’interprete, per esortarlo ad accertare in concreto l’esistenza nel fatto storico della sua ‘‘necessaria lesività’’ del bene giuridico, sulla base di una clausola generale che sarebbe desumibile dall’art. 49 c.p. (9). Orbene, se per quanto riguarda l’offensività come canone di formulazione legislativa la Corte — come già ripetutamente anticipato — ha sviluppato una ‘‘criteriologia’’ assai più varia e duttile delle elaborazioni teoriche, che le consente un sindacato assai penetrante, per quanto riguarda invece l’offensività come canone interpretativo mi pare che la Corte l’abbia recepito in una prospettiva strumentale e in un certo senso riduttiva, quale mezzo teorico che le consente di evitare il controllo di costituzionalità della norma impugnata. In effetti, il principio di necessaria lesività del fatto storico, di cui va inoltre sottolineata la recezione significativamente più tardiva da parte della Corte, viene spesso utilizzato per rimettere sostanzialmente al giudice ordinario un’applicazione della norma incriminatrice contestata che sia tale da escluderne il contrasto col principio di offensività. Più precisamente, la Corte rifiuta il controllo su struttura e contenuto significativo della fattispecie astratta ritenendo che tocchi al giudice, in base al principio costituzionale di cui all’art. 49 c.p., negarne l’applicazione ai fatti concretamente inoffensivi del bene tutelato (10). (9) Per questa duplice dimensione del principio, e per un ‘‘ridimensionamento’’ delle sue virtù, si può vedere PALAZZO, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, cit., 75 ss. (10) Si tratta di una serie di sentenze che si apre nel 1986, con una pronuncia (n. 62)
— 356 — Un siffatto modo di argomentare, nell’arbitrario passaggio dall’‘‘astratto’’ al ‘‘concreto’’, mi sembra che nasconda un equivoco. In vero, l’osservanza da parte del giudice del principio di necessaria lesività del fatto storico si gioca interamente sul piano concreto della manifestazione ‘‘naturalistica’’ del reato, escludendo dall’ambito applicativo della norma quei fatti che per avventura siano appunto concretamente privi di lesività. Ma tale possibilità applicativa presuppone una norma incriminatrice che sia, nella sua dimensione astratta e legislativa, già dotata di un contenuto di disvalore concepibile in termini di offesa ad un bene giuridico (11). Rimanendo, peraltro, indifferente che la fattispecie sia tale nella sua originaria strutturazione legislativa o, quantomeno, nel suo contenuto normativo risultante da una manipolazione interpretativa condotta — in nome della conservazione dei valori giuridici — in adeguamento al canone legislativo di offensività (12). Allorché non sia data né l’una né l’altra eventualità, e quindi si tratti di una fattispecie incriminatrice ‘‘necessariamente inoffensiva’’, il giudice si troverà le mani legate per ricorrere al canone applicativo della necessaria lesività del fatto (storico). E, in materia di detenzione di esplosivo: ‘‘spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell’offensività dei beni in discussione, è fuori dal penalmente rilevante’’; aggiungendo poi la Corte che ‘‘l’art. 49, comma 2, c.p. non può non giovare all’interprete al fine di determinare in concreto la soglia del penalmente rilevante. È appunto compito del giudice e non del legislatore stabilire se una minima quantità di esplosivo sia, nella concreta fattispecie, inidonea ad offendere i beni tutelati dalle normative in discussione’’. L’orientamento è stato poi confermato da successive pronunce, come la sentenza n. 957/1988 sull’art. 573 c.p. (‘‘il giudice di merito ben potrà valutare, volta per volta, se, in relazione alle capacità che il minore aveva acquisito e alle aspirazioni nutrite [...], il fatto commesso fosse o non ‘‘offensivo’’ del bene giuridico tutelato, nell’area del principio di cui all’art. 49, comma 2, c.p.’’); l’ordinanza n. 437/1989 sull’art. 1, comma 6, l. 7 agosto 1982, n. 516 (il legislatore non è ‘‘obbligato a prevedere in ogni norma la soglia del penalmente rilevante [...] potendo invece tale limite essere individuato in via interpretativa dal giudice di merito in base al principio di offensività’’); la sentenza n. 144/1991 sull’omessa regolarizzazione di acquisti senza fattura, per la quale la legge non prevede una soglia minima di punibilità; le sentenze nn. 331/1991, 133/1992, 369/1995, 296/1996, concernenti tutte la disciplina degli stupefacenti. (11) V. per tutti, FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A. Stile, Napoli, 1991, 63 ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale, cit., 101 ss. (12) È questo ad esempio il caso della sentenza n. 24/1989, con la quale la Corte ha inserito un requisito di offensività nella fattispecie astratta della ‘‘arbitraria adunanza militare’’ (‘‘Non può esservi [...] alcun dubbio che, nel pensiero del legislatore, la giustificazione della repressione penale delle ‘‘arbitrarie adunanze militari’’ previste dal comma 2 dell’art. 184 c.p.m.p. risiede proprio nel loro carattere ostile e sedizioso che, mentre rappresenta di per se stesso una lesione della disciplina, realizza al contempo una situazione di concreto pericolo nei confronti dell’efficienza dell’Istituzione in funzione dei fini costituzionali’’).
— 357 — per la verità, nella giurisprudenza della Corte non mancano invece alcune sentenze in cui l’invito al giudice a fare della norma impugnata un’applicazione conforme al principio di necessaria lesività del fatto concerne fattispecie prive — nella loro struttura legislativa o nei loro esiti interpretativi — di un contenuto realmente offensivo: almeno di quel bene giuridico rispetto al quale è stata eccepita la loro — incostituzionale — inoffensività (13). In questi casi, che per ora non sono poi moltissimi, il richiamo al principio di offensività nella sua dimensione di canone applicativo rivolto al giudice non appare teoricamente del tutto corretto; e soprattutto non sembra rispondere alla reale sostanza concettuale e garantista del principio di offensività che è quella della delimitazione dell’area penalmente rilevante a fatti — astratti e concreti — davvero offensivi di beni giuridici ‘‘meritevoli’’ di tutela penale. In presenza di fattispecie astratte ‘‘necessariamente inoffensive’’ quel canone applicativo può semmai essere considerato come espressione di un più generale criterio di irrilevanza del fatto concretamente non significativo, la cui portata non soffre limiti a seconda della tipologia delle fattispecie, di offesa, di offesa presunta, di mero scopo, ecc. (14). In conclusione, questa clausola di rinvio all’opera concretizzatrice del giudice, se assunta nel suo più pregnante significato allusivo alle ipotesi di concreta sfasatura tra tipicità ed offesa, appare davvero altamente problematica, tanto più nella attuale presenza di una previsione espressa della clausola di irrilevanza del fatto limitatamente però all’esclusivo settore del (13) Il che sembra per l’appunto essere il caso della detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale, ricostruibili al più come reati di pericolo presunto in relazione al risultato di accumulo della droga; più in generale, la stessa cosa va detta per tutti i reati che, consistendo nella mera detenzione di cose di cui il legislatore vuole impedire la circolazione, non hanno un intrinseco contenuto offensivo ma rispetto ai quali è forte l’esigenza di individuare una soglia minima di rilevanza. (14) Nei lavori della ‘‘Commissione Bicamerale’’ per le riforme istituzionali, il principio di necessaria lesività del reato ha fatto la sua comparsa nel testo approvato il 4 novembre 1997. Si legge infatti nel secondo comma dell’art. 129, contenuto nella Sezione II (Norme sulla giurisdizione), che ‘‘non sono punibili fatti previsti come reato nei casi in cui non determinano una concreta offensività’’. L’inserimento in Costituzione di un siffatto principio non sembra del tutto opportuno, non solo perché non esiste una completa unanimità di vedute in dottrina sul punto, ma anche e soprattutto per la ragioni addotte nel testo, concernenti l’esistenza nell’ordinamento di una quantità enorme di reati privi di offesa e ai quali non sembra possibile elargire un’offesa in via interpretativo-applicativa se non a rischio di una consistente sovrapposizione del giudice alle opzioni legislative. Inoltre, non è nemmeno trascurabile il fatto che, proprio in quanto canone interpretativo, suo destinatario è il giudice e non già il legislatore: il che ne rende grandemente anomala la sua previsione in Costituzione. Anche perché contro la sua violazione non sarebbe configurabile alcun rimedio costituzionale, che non fosse il ricorso individuale alla Corte costituzionale, con quali conseguenze per le condizioni di lavoro di quest’ultima è facile intuire.
— 358 — diritto penale minorile (15). Se assunta, invece, nella sua più plausibile natura di generalissimo canone ermeneutico ed applicativo riferibile a qualsivoglia norma incriminatrice, esso risulterebbe comunque logicamente estraneo al nucleo concettuale più autenticamente proprio del principio di offensività. In ogni caso, visto e considerato lo ‘‘strappo’’ che tale criterio generale implica per la legalità rigorosamente intesa, il self-restraint della Corte che rifiuta il controllo sull’offensività della fattispecie astratta rimettendosi alla correttezza interpretativa ed applicativa del giudice, finisce per spostare sul potere giudiziario gran parte dell’effettività di un principio che ha invece una innegabile vocazione a operare prioritariamente sul piano legislativo. Conclusivamente, dunque, non appare azzardato confermare l’ipotesi che la recente comparsa nella giurisprudenza della Corte del principio di necessaria lesività del fatto concreto — quale componente ‘‘giudiziale’’ dell’offensività — si riveli più che altro uno strumento per rifiutare quel controllo sul contenuto di disvalore della norma impugnata, che altre volte invece la Corte effettua per mezzo di criteri addirittura più penetranti di quelli tratteggiati dalla dottrina. Ulteriore conferma di questa impressione si può forse trarre infine dalla constatazione che le sentenze ove il principio di necessaria lesività del fatto è stato evocato meno propriamente riguardano norme, come in specie quelle in materia di stupefacenti, ove il controllo di costituzionalità sul reale contenuto offensivo della fattispecie sarebbe stato politicamente quanto mai imbarazzante. 3. Dall’offensività alla ragionevolezza nel controllo sul contenuto delle norme penali. — Chiusa questa lunga parentesi sul principio di necessaria lesività del fatto concreto, e sull’uso che ne ha fatto la più recente giurisprudenza della Corte, è giunto ora il momento di passare all’analisi degli schemi argomentativi utilizzati nel controllo di costituzionalità sul contenuto offensivo — e più in generale di disvalore — del reato. Val la pena di osservare sùbito che questa esigenza di sottoporre a sindacato di costituzionalità il contenuto di disvalore delle fattispecie penali si manifesta, nella sensibilità dei giudici ordinari che rinviano la questione alla Corte e nei giudici costituzionali, già prima che la riflessione teorico-dottrinale pervenga a quelle compiute elaborazioni concettuali che ci sono (15) L’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 488, Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, subordina la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, non solo alla ‘‘tenuità’’ di quest’ultimo, ma anche alla occasionalità del comportamento e al pregiudizio verosimilmente derivante alle esigenze educative dalla prosecuzione del procedimento. Sarebbe dunque assai strano che il requisito della concreta lesività in aggiunta agli elementi strutturali della fattispecie tipica dovesse essere accertato dal giudice senza l’esistenza di una norma espressa autorizzante siffatta impegnativa operazione correttiva del testo legislativo.
— 359 — note. Fino dagli anni Sessanta, infatti, è rintracciabile un filone giurisprudenziale, di sentenze sia di rigetto che di accoglimento ma anche addirittura manipolative, che hanno inserito nella trama degli elementi costitutivi di fattispecie per lo più espressive del regime fascista un requisito di pericolo concreto per il bene giuridico tutelato (16); senza dire, poi, che talvolta ci si è spinti fino ad un’operazione di contestuale trasformazione del bene giuridico protetto, sostituendo quello originario con altro maggiormente compatibile col nuovo assetto costituzionale (17). La rassegna della giurisprudenza mostra inoltre come questa operazione trasformativa di non poche fattispecie, indubbiamente anticipatrice di acquisizioni teoriche destinate a successive consolidazioni, riguarda per lo più norme penali limitatrici dei nuovi diritti di libertà: un terreno, dunque, dove è perfettamente comprensibile lo ‘‘slancio’’ anticipatore della Corte. Per concludere sul punto, si può infine osservare una certa evoluzione nella giurisprudenza della Corte, la quale, se nei primi anni sembra più incline all’aggiunzione del pericolo concreto in via interpretativa, successivamente non esita ad adottare sentenze di accoglimento che operano dunque un inserimento sostanzialmente testuale del nuovo requisito strut(16) Tra le numerose pronunce si possono segnalare: la sentenza n. 19/1962 (‘‘l’art. 656 c.p. punisce [...] la pubblicazione e diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, solo in quanto idonee a turbare l’ordine pubblico’’); la sentenza n. 84/1969 (‘‘la propaganda [di cui all’art. 507 c.p. che punisce il boicottaggio] per essere punibile deve assumere dimesioni tali e raggiungere un grado tale di intensità e di efficacia da risultare veramente notevole’’); la sentenza n. 65/1970 (‘‘l’apologia punibile ex art. 414, ultimo comma, c.p. non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che, per la sue modalità integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti’’); la sentenza n. 108/1974 (che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 415 c.p. ‘‘nella parte in cui non specifica che l’istigazione all’odio fra le classi sociali deve essere attuata in modo pericoloso per la tranquillità pubblica’’). Le ultime tre sono tutte pronunce di accoglimento, ancorché per violazione della libertà di manifestazione del pensiero. (17) V. ad esempio, la sentenza n. 9/1965, secondo la quale l’art. 553 c.p. (poi abrogato dalla l. n. 194/1978) ‘‘non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell’utilità o necessità in un determinato momento storico e in un particolare contesto economico-sociale, di limitare le nascite e di porre regole al ritmo della vita; o che propugni una politica di controllo dell’aumento della popolazione...’’, così che ‘‘non è dubbio che l’art. 553 c.p., interpretato nell’ambito del sistema giuridico vigente, abbia ad oggetto la tutela del buon costume’’. Lo stesso bene del buon costume ha poi subìto una trasformazione adeguatrice ad opera della sentenza n. 368/1992, che, muovendo dalla premessa che ‘‘la ‘pubblicità’ — intesa come reale o potenziale percezione da parte della collettività, o comunque di terzi non consenzienti, del messaggio trasmesso per mezzo di scritti, disegni, immagini o rappresentazioni — si configura come un requisito essenziale della nozione del ‘buon costume’ ’’, ha concluso che il bene protetto è venuto a configurarsi in termini sostanzialmente di riservatezza sessuale rispetto alle arbitrarie intrusioni altrui. Si può anche considerare la sentenza n. 523/1987, ove la legittimità dell’art. 523/2 c.p. [ratto di donna coniugata a fine di libidine], oggi abrogato (ex l. n. 66/1996) è stata ritenuta sul presupposto che la circostanza aggravante consistente nella qualità di donna coniugata della vittima trova il suo fondamento non già nella tutela della potestas maritalis, bensì nell’interesse della famiglia.
— 360 — turale (18). Sono note, oltre a non interessarci in questa sede, le questioni e le difficoltà connesse a questa tipologia di sentenze, che intervengono sulla struttura stessa della fattispecie incriminatrice: se interpretative di rigetto, esse scontano l’incertezza derivante dalla mancanza di efficacia erga omnes e dunque dalla ‘‘libertà’’ dei giudici di uniformarvisi o meno; se di accoglimento, l’incertezza si radica nella vera e propria indeterminatezza derivante dalla manipolazione della fattispecie che, per il fatto di essere operata col linguaggio discorsivo della motivazione, non può solitamente raggiungere il maggiore rigore (che dovrebbe essere proprio) della formulazione legislativa (19). Passando ora all’evoluzione più recente della giurisprudenza della Corte, mi preme formulare subito due considerazioni generali. In primo luogo, nonostante il formale accoglimento del principio di offensività (ancorché talvolta in forma dubitativa) (20), la Corte non indulge così tanto come fa invece la dottrina nella ricostruzione delle varie ‘‘soglie’’ di tutela, e soprattutto non ne fa derivare conseguenze automatiche e necessarie. Non che, naturalmente, la Corte ignori le categorie dell’offesa di lesione, di pericolo, di pericolo concreto, astratto o presunto, ma non mi sembra che ne desuma conseguenze stringenti sul piano della legittimità della norma impugnata. Anzi, nonostante una netta tendenza della Corte a espungere le presunzioni concernenti le qualità e gli status soggettivi dell’autore, ed in particolare la sua pericolosità, il pericolo presunto di lesione per il bene giuridico è stato invece ripetutamente ammesso dalla Corte in sede di controllo del contenuto di disvalore del reato (21). (18) In ordine alla contravvenzione di grida e manifestazioni sediziose (art. 654), la Corte ha adottato la prima soluzione con la sentenza n. 120/1957 (‘‘le grida e le manifestazioni sediziose implicano sempre eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni e pericolo per l’ordine pubblico’’), per pervenire poi alla seconda soluzione con la sentenza n. 15/1973 (‘‘atteggiamento sedizioso penalmente rilevante è soltanto quello che implica ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni e che risulti in concreto idoneo a produrre un evento pericoloso per l’ordine pubblico’’). Peraltro, si è trattato in entrambi i casi di sentenze di rigetto. (19) V., per tutti sul punto, PEDRAZZI, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, in questa Rivista, 1975, 646 ss. (20) Sentenza n. 62/1986: ‘‘può certo discutersi sulla costituzionalizzazione o meno del principio di offensività: ma che lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali è ormai canone unanimemente accettato’’. (21) Cfr. TANFERNA, Principio di offensività, reati di pericolo presunto e razionalità della norma incriminatrice, in Giur. it., 1995, I, 121. Nella giurisprudenza della Corte, v. ad esempio le sentenze nn. 286/1974, 58/1977 e 71/1979, tutte sulla disparità di disciplina tra l’incendio di cosa propria, ove è richiesto un evento di pericolo concreto per la pubblica incolumità, e l’incendio di cosa altrui, ove invece tale risultato non è richiesto (art. 423 c.p.): ebbene, la Corte, seppure attraverso un’argomentazione fondata sul bilanciamento dei beni in gioco (v., infra § 6), ha concluso per la legittimità della seconda fattispecie, di cui ha peraltro riconosciuto il sostanziale ravvicinamento — se non proprio identificazione — con l’incendio di cosa propria operato dal ‘‘diritto vivente’’. A proposito dell’art. 530 c.p. [corru-
— 361 — Orbene, probabilmente è ravvisabile una certa contraddizione nella legittimazione di una soglia di tutela, quella appunto del pericolo presunto, che la dottrina ritiene incompatibile con quel principio di offensività cui la Corte dichiara di ispirarsi. Ma ciò nonostante, l’atteggiamento della Corte non mi parrebbe censurabile più di tanto se è vero, come è vero, che l’esatta individuazione della soglia di tutela sulla quale si attesta una determinata fattispecie è relativa, dipendendo ovviamente essa dal bene giuridico di riferimento che si assume tutelato dalla norma. Ed è noto come purtroppo l’identificazione del bene giuridico sia operazione fatalmente caratterizzata da un ampio margine di incertezza se non di arbitrarietà: la stessa fattispecie che, assunto per ipotesi un determinato bene ad oggetto di tutela, risulta essere di pericolo presunto, può diventare addirittura di lesione se si assume un diverso bene. È chiaro, dunque, che far dipendere la costituzionalità delle fattispecie incriminatrici meccanicamente del tipo di ‘‘soglia’’ di tutela avrebbe significato introdurre tutta la aleatorietà insita nel preliminare processo di individuazione del bene giuridico di riferimento. In secondo luogo, vorrei mostrare con due notazioni sintetiche come zione di minorenne], oggi abrogato dalla l. n. 66/1966, la sentenza n. 422/1987 ebbe ad affermare che ‘‘il legislatore ha costruito la tutela incriminando direttamente quegli atti [di libidine] quando siano compiuti con il consenso del minore di quell’età [minore di sedici ma maggiore di quattordici anni], senza accennare nel testo della norma alla corruzione, che è lasciata soltanto alla rubrica dell’articolo. Ne è così risultata una fattispecie di pericolo presunto — o come pure suol dirsi — di condotta pericolosa, dove la punibilità non è subordinata al concreto verificarsi di una contaminazione spirituale, essendo sufficiente il presentarsi del comportamento, che il legislatore presume iuris et de iure carico di pericolo, e la sua contemporanea incidenza sul piano dei valori’’. Con la sentenza n. 333/1991, in materia di stupefacenti, la Corte ha testualmente affermato che ‘‘le incriminazioni di pericolo presunto non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale’’; ed ‘‘è riservata al legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale fare riferimento, purché, peraltro, l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit’’ (ove è davvero evidente per tabulas quel superamento dell’offensività verso la ragionevolezza, che dà il titolo al nostro paragrafo). Con la sentenza n. 269/1993 — a proposito del reato di cui all’art. 1-sexies, l. n. 431/1985 — la Corte ha affermato che ‘‘non può ritenersi irrazionale che vengano sottoposte a sanzione penale tutte le modifiche e alterazioni attuate mediante opere non autorizzate, indipendentemente dalla presenza e dalla entità di un danno paesistico concretamente sussistente nel caso specifico. Infatti, come viene affermato dalla giurisprudenza ordinaria, il reato previsto dall’art. 1-sexies ha carattere formale e di pericolo, proprio perché il vincolo posto su certi parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al suo governo’’. Infine, val la pena ricordare come talune pronunce, certo risalenti, sembrino aver avallato anche presunzioni soggettive di pericolosità: così la sentenza n. 236/1975 (confermata dall’ordinanza n. 270/1984) ha affermato la legittimità dell’art. 707 c.p. [possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli] perché ‘‘è logico ed è razionale che la legge penale tenga conto della eventualità che stia per commettere un reato chi, colto in possesso di grimaldelli, chiavi, ecc., sia già stato condannato per i reati specificati nell’art. 707 c.p.’’.
— 362 — la Corte costituzionale — certo sotto l’impulso dei giudici a quibus — abbia dilatato l’orizzonte del suo controllo sul contenuto di disvalore della fattispecie incriminatrice ben al di là dei confini propri del principio di offensività (22). Da un lato, infatti, la Corte ha dato prova di comprendere come qualunque valutazione del contenuto offensivo di qualunque reato non può esaurirsi nel riferimento esclusivo al bene giuridico assunto come riferimento. Poiché, in effetti, la costruzione legislativa della fattispecie è sempre il risultato di una considerazione e ponderazione anche di tutto un fascio di ulteriori interessi concorrenti o addirittura confliggenti con quello principale tutelato, è chiaro che la valutazione del contenuto di disvalore del reato tende necessariamente a dilatarsi dal bene giuridico verso gli scopi e gli obiettivi della scelta politica, la loro intrinseca legittimità e quella del mezzo prescelto. Questo processo di dilatazione del contesto di riferimento, ma anche degli stessi parametri valutativi, del giudizio di costituzionalità sul contenuto offensivo del reato è tanto più evidente e necessario quanto più si tratti di fattispecie a tutela dei ‘‘nuovi’’ interessi (economici, finanziari, produttivi, ecc.), intorno ai quali si concentrano posizioni soggettive molteplici e diverse (23). Dall’altro lato, mi pare altamente significativo che, dopo un lungo periodo in cui la Corte sembrava opporre una fin de non recevoir, oggi il controllo di costituzionalità viene svolto anche sulla misura e sulla proporzionalità della pena. Osservato che si tratta di un terreno, questo della legittimità costituzionale del quantum di pena, tanto poco coltivato dalla (22) Una sorte analoga è toccata al principio di determinatezza, principio di natura apparentemente ‘‘formale’’ ma necessariamente implicante valutazioni contenutistiche sul disvalore della fattispecie (LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri di determinatezza della norma penale, Milano, 1989, 53 ss.). La Corte costituzionale ha, da un lato, sterilizzato le potenzialità del controllo di determinatezza su un piano strettamente linguistico, trascendendolo però, dall’altro, attraverso la progressiva affermazione del controllo di ragionevolezza. (23) Molto espressiva è la già ricordata sentenza n. 62/1986 sulla disciplina degli esplosivi: ‘‘le opzioni legislative, in sede di configurazione delle fattispecie tipiche, devono tener conto non soltanto del bene o dei beni giuridici tutelati attraverso l’incriminazione delle fattispecie stesse, ma anche delle finalità immediate che il legislatore persegue nonché degli effetti indiretti che i fatti incriminati vanno a produrre nell’ambiente sociale in cui si realizzano. Necessità di prevenzione generale e di riduzione dell’allarme sociale cagionato dai reati convergono, insieme alle ragioni innanzi indicate, a motivare le opzioni legislative nella determinazione delle ipotesi criminose tipiche’’. V. altresì, per esempio, anche la sentenza n. 127/1990, ove, a séguito di una complessa operazione interpretativa adeguatrice su norme contro l’inquinamento atmosferico, la Corte conclude che ‘‘il condizionamento al costo non eccessivo [per l’imprenditore] dell’uso della migliore tecnologia disponibile [per ridurre l’inquinamento] va riferito al raggiungimento di livelli inferiori a quelli compatibili con la tutela della salute umana’’; in sostanza, ‘‘il limite del costo eccessivo viene in causa soltanto quando quel limite sia stato rispettato: nel senso, cioè, che l’autorità non potrebbe imporre nuove tecnologie disponibili, capaci di ridurre ulteriormente il livello di inquinamento, se queste risultino eccessivamente costose per la categoria cui l’impresa appartiene’’.
— 363 — dottrina quanto ormai ampiamente percorso dalla giurisprudenza (24), mi preme precisare piuttosto come esso sia direttamente collegato col controllo sul contenuto di disvalore del reato e come, probabilmente, i suoi sviluppi siano stati possibili proprio a seguito dell’accresciuta sensibilità costituzionale verso i contenuti sostanziali del reato. È indubbio, infatti, che qualunque giudizio sulla misura della pena, soprattutto se condotto alla stregua del criterio della proporzione, presuppone necessariamente l’accertamento dell’intrinseco disvalore del reato, se non addirittura la ricostruzione concettuale della ratio legis e degli scopi della disciplina (25). È il disvalore del reato che costituisce invero il parametro di valutazione della proporzionalità della pena, così come sono gli scopi assunti dal legislatore i parametri per valutarne l’‘‘adeguatezza’’. È certamente vero che non poche delle sentenze sulla misura della pena, e in particolare sulla proporzione, hanno utilizzato il parametro costituito dalla finalità rieducativa della pena (art. 27/3 Cost.), valutando cioè la misura della pena in rapporto alla sua congruenza rispetto alla (necessaria) idoneità rieducativa (26). Ma dietro questo schema argomenta(24) In argomento, si veda per tutti — anche per la bibliografia e la rassegna giurisprudenziale — la recente messa a punto della questione effettuata da CORBETTA, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 1997, 134 ss. (25) V., a puro titolo esemplificativo, senza pretesa di completezza, tra le più recenti: ordinanza n. 368/1995, per la quale il minimo edittale per l’estorsione (a confronto di quello per la rapina) si giustifica con l’esigenza che possano irrogarsi pene che, con il concorso delle circostanze attenuanti, si mantengano nei limiti della sospensione condizionale della pena; ordinanza n. 332/1995, secondo la quale il minimo edittale per l’allontanamento dagli arresti domiciliari bene eguaglia quello per l’evasione dal carcere (art. 385/3 c.p.) ‘‘tanto più che l’osservanza del dovere di non allontanarsi, nel caso degli arresti domiciliari, è in maggior misura affidata al responsabile comportamento di chi vi è sottoposto’’. (26) Val forse la pena di ricordare talune di quelle poche pronunce che non hanno potuto fare riferimento anche all’art. 27/3 in quanto evidentemente non richiamato dal giudice remittente: sentenza n. 67/1992, sulla tutela paesaggistica (di rigetto); sentenza n. 409/1989, che ha invece dichiarato l’incostituzionalità della pena prevista per il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza perché sproporzionata per eccesso rispetto a quella del reato di mancanza alla chiamata (la pronuncia è interessante anche perché, mentre contesta la scelta legislativa in ordine al quantum di pena, conferma quella in ordine all’an della criminalizzazione); sentenza n. 139/1989, con cui è stata dichiarata la illegittimità parziale della pena prevista dall’art. 266 c.p. (istigazione di militari a disobbedire alle leggi); sentenza n. 49/1989, che ha dichiarato l’illegittimità della pena prevista per il reato di possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio in quanto più elevata di quella prevista per il più grave reato di procacciamento e rivelazione di notizie segrete; sentenza n. 173/1984, che ha dichiarato l’illegittimità — derivante altresì da una pregressa vicenda di incostituzionalità di norma contigua — della pena prevista per il reato militare di violenza del superiore nei confronti dell’inferiore in quanto sproporzionata per eccesso rispetto a quella dei delitti di lesioni personali e percosse previsti dal codice penale; la sentenza n. 103/1982 che ancora una volta ha dichiarato l’illegittimità di alcune previsioni sanzionatorie di reati militari per sproporzione rispetto alle omologhe fattispecie del codice penale; la sentenza n. 84/1997, in materia di reati elettorali, ha esaminato separatamente prima la questione della pretesa spropor-
— 364 — tivo che, almeno apparentemente, colloca il controllo di costituzionalità della (misura della) pena all’interno di una logica ‘‘funzionalista’’, è implicito un preliminare momento di accertamento del contenuto di disvalore del reato. Se, infatti, la pena inidonea alla rieducazione è prima di tutto quella sproporzionata per eccesso, ne viene che in ogni caso il controllo sulla misura della pena, sebbene terminante nel giudizio tecnico-funzionalistico condotto alla stregua dell’art. 27/3 Cost., non può tuttavia fare a meno di ripercorrere le valutazioni legislative — caratterizzate da un alto tasso di discrezionalità — concernenti l’intrinseco disvalore del fatto criminoso. Dovendosi, inoltre, aggiungere che proprio il collegamento tra proporzione e finalità rieducativa comporta che la valutazione del disvalore del reato si apra a criteri di ‘‘attualità sociale’’ indispensabili in una prospettiva di recupero sociale. 4. La prima fase del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali: l’espunzione delle norme incriminatrici ‘‘illiberali’’. — È giunto finalmente il momento di tornare ora a quella tensione dialettica tra principio democratico e principio di garanzia indubbiamente prodotta dalla dilatazione del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali ben al di là degli schemi teorici (e apparentemente rigidi) del principio di offensività. Pur non mancando alcune sentenze in cui il controllo sulle scelte legislative di criminalizzazione si limita ad una censura di grossolana irrazionalità (27), il più delle volte derivante da una sorta di errore materiale del legislatore o da incontrollate stratificazioni normative, sono largamente maggioritarie le sentenze in cui il controllo è realmente contenutistico. E la significatività del fenomeno non può essere certo ridimensionata più di tanto per il fatto che la percentuale delle sentenze di accoglimento si mantiene in limiti in definitiva modesti e marginali: ciò che rileva, infatti, non è tanto il numero finale delle norme colpite da censura di costituzionalità quanto piuttosto lo strumentario degli zione tra disvalore del reato e sanzione comminata e poi quella del rapporto tra la comminatoria edittale e il fine rieducativo. (27) A questo gruppo debbono in verità ascriversi, nonostante l’incisività del risultato ottenuto, la sentenza n. 52/1996, che ha dichiarato incostituzionale l’ ‘‘omessa depenalizzazione’’ di un reato elettorale a fronte del più generale intervento depenalizzatore operato con la l. n. 515/1993 (ferma restando l’importanza del mònito generale ricavabile dalla sentenza, che il legislatore proceda cioè con l’indispensabile coerenza sistematica nei sempre più frequenti suoi interventi di depenalizzazione per settori, come non hanno mancato di sottolineare BUTTARELLI e FIDELBO, Nuove prospettive per una decriminalizzazione organica e per una razionalizzazione del sistema penale, in Cass. pen., 1996, 2073 ss.); sentenza n. 3/1997, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 116, comma 13, cod. della strada ‘‘nella parte in cui punisce con la sanzione penale [anziché amministrativa] colui che, munito di patente di categoria B, C o D, guida un veicolo per il quale e richiesta patente di categoria A’’, sul riflesso che costituisce invece infrazione amministrativa la guida di veicolo con patente di categoria diversa da quella richiesta.
— 365 — schemi e moduli argomentativi che la Corte continua a forgiarsi in questa sua attività di controllo contenutistico di norme che, per il fatto di essere ‘‘coperte’’ dalla riserva assoluta di legge, dovrebbero realizzare in modo particolarmente intenso l’istanza democratica (28). Orbene, se — come abbiamo già detto — tutti i princìpi di garanzia implicano una tensione con l’istanza democratica nella misura in cui essi si pongono quali limiti al potere legislativo, è solo quello di offensività — e soprattutto lo sviluppo giurisprudenziale da esso subìto nel senso del controllo contenutistico delle scelte di criminalizzazione — che può porre il problema di un eventuale squilibrio istituzionale. Ma su questo delicato terreno conviene procedere per gradi. L’origine liberale del principio di offensività ne palesa subito e chiaramente la sua indubbia ratio garantista: ma forse non vi è altrettanta chiarezza sul contenuto specifico di questa funzione di garanzia, la quale inoltre è — come sempre — soggetta a mutare fisionomia col variare delle condizioni storico-istituzionali nelle quali è chiamata ad operare. Un primo aspetto del principio di offensività, e più in generale di qualunque controllo garantistico del contenuto delle leggi penali, è quello diretto ad impedire l’arbitrio prevaricatore del potere punitivo. È un’esigenza che si può evidentemente manifestare in quegli ordinamenti in cui siffatta degenerazione del diritto penale è reale o almeno potenziale, in definitiva in quegli ordinamenti caratterizzati da un regime politico autoritario. In una consimile situazione il controllo di garanzia sul contenuto delle leggi penali realizza contemporaneamente anche l’istanza democratica, contribuendo — nei limiti del possibile — ad impedire che lo strumento punitivo divenga mezzo di autotutela della ragion di Stato, del potere politico, piuttosto che degli interessi sociali, comunitari o individuali. In questa prospettiva, insomma, lungi dall’esservi conflitto tra istanza di garanzia e istanza democratica, il principio di offensività e il conseguente controllo sul contenuto delle norme incriminatrici si pongono piuttosto come strumenti di salvaguardia — indiretta o ‘‘successiva’’, se si vuole dire così — ma pur sempre di salvaguardia degli stessi valori democratici. Ma non può essere questo il piano, il contesto in cui si pongono oggi realisticamente il principio di offensività e il controllo di costituzionalità delle scelte di criminalizzazione nell’attuale realtà italiana, e in cui si dispiegano tutte le sue crescenti potenzialità. In primo luogo perché, in tale (28) Osservazione questa formulata da BARILE, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Milano, 1994, 31; INSOLERA, Principio di eguaglianza, cit., 275. In argomento, a proposito della sentenza n. 341/1994 sull’oltraggio, v. altresì CURI, L’attività ‘‘paralegislativa’’ della Corte costituzionale in ambito penale: cambia la pena dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur. cost., 1995, 1091 ss.
— 366 — prospettiva, la garanzia contro l’arbitrio prevaricatore del potere punitivo si risolve in una garanzia di tipo negativo, consistente cioè nel divieto di spingere il diritto penale negli illiberali territori della tutela dell’ideologia di regime e dell’obbedienza statolatrica incondizionata. Un’accezione, dunque, tutt’affatto diversa da quella di tipo positivo proposta dall’attuale pensiero penalistico, e secondo la quale si manifesta la tendenza ad indicazioni di ‘‘meritevolezza’’ di tutela penale. Ma che non possa essere questa, di garanzia contro le degenerazioni antidemocratiche ed autoritarie del potere punitivo, la ratio del controllo sulle scelte di criminalizzazione, deriva soprattutto dal fatto che lo ius puniendi è oggi retto dal principio della riserva assoluta di legge. Voglio cioè dire che la garanzia prima contro le involuzioni autoritarie e degenerative del diritto penale sta nel suo stesso modo di produzione: in un non casuale gioco delle parti, in un ordinamento costituzionale liberal-democratico, è il principio democratico che si assume per primo e soprattutto il compito della garanzia dei contenuti del diritto penale, così come in un ordinamento autoritario può toccare al controllo (ad esempio giudiziario) sul contenuto delle leggi garantire la sopravvivenza di un minimo di democrazia. Certamente, anche in un regime liberal-democratico la garanzia non può risiedere interamente in quella procedimentale della riserva di legge: è ovvio che essa non garantisce, infatti, dal rischio che una maggioranza parlamentare adotti scelte di criminalizzazione antidemocratiche e illiberali. Ma in una simile ed estrema evenienza, il controllo di garanzia svolto dalla Corte sui contenuti della legge penale riassume le caratteristiche originarie di una garanzia in negativo, diretta ad impedire la degenerazione del potere punitivo ed in cui istanza garantista ed istanza democratica tornano a coniugarsi nell’‘‘essenzialità’’ di un consimile intervento. Anche se non può essere questa — per così dire — ‘‘estrema’’ e ‘‘negativa’’ la dimensione attuale del controllo di costituzionalità sulle scelte di criminalizzazione, tuttavia è dato rintracciare un filone giurisprudenziale sostanzialmente riconducibile a quelle caratteristiche. Per quanto abbiamo detto, è facile capire le ragioni per cui si tratta, in primo luogo, di un trend abbastanza risalente nel tempo. Altrettanto facile è, inoltre, comprendere come esso abbia prevalentemente ad oggetto norme di origine pre-repubblicana per lo più incriminatrici di comportamenti costituenti esercizio dei diritti di libertà riconosciuti dalla Costituzione. E non può stupire, infine, che proprio lungo questo filone si incontri probabilmente il maggior numero di sentenze di accoglimento. Non può essere questa la sede per passare in rassegna questa giurisprudenza che, pur non potendosi dire definitivamente conclusa, può però ritenersi appartenere ad un’esperienza incontestabilmente acquisita della Corte costituzionale (29). Mi limiterei piuttosto a due sintetiche osservazioni. (29)
V. in argomento, per tutti, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 113;
— 367 — In primo luogo, è chiaro che la pronuncia della Corte corre su binari obbligati solo là dove si tratti di espungere norme incriminatrici che aggiungono limiti ulteriori a quelli già tassativamente indicati dalla Costituzione per l’esercizio del diritto di libertà (come ad esempio per quello di riunione); mentre, allorquando si tratti di valutare la legittimità di un limite implicitamente derivante dalle esigenze di tutela di un altro interesse costituzionale, il discorso della Corte si fa necessariamente più valutativo nell’individuazione prima e nel bilanciamento poi degli interessi contrapposti (come ad esempio è avvenuto in tema di libertà di manifestazione del pensiero o di sciopero). In secondo luogo, val la pena di sottolineare come siano ascrivibili a questo filone, non solo tutte quelle sentenze che hanno variamente rimodellato la disciplina penale dei limiti alle libertà di manifestazione del pensiero, di riunione, di associazione, di sciopero; ma anche quelle che hanno espunto dall’area del penalmente tutelato — o che ne hanno comunque circoscritto i limiti di tutela — quei valori troppo connotati conformemente ai postulati ideologici del regime fascista. Si può fare riferimento esemplificativo all’eliminazione dei reati di adulterio e concubinato, all’imponente revisione di molti reati militari, al ridimensionamento della pena per l’oltraggio, al singolare e tortuoso percorso che è approdato all’eliminazione del privilegio accordato alla religione cattolica per mezzo di una discutibile estensione di tutela della religione. Tutte vicende sulle quali dovremo tornare perché caratterizzate da un penetrante controllo sul contenuto offensivo delle fattispecie, ma che — oltre e prima di ciò — paiono accomunate da una certa estraneità o quantomeno distanza dei valori tutelati rispetto al nuovo quadro costituzionale, più che dalla ‘‘irragionevolezza’’ della scelta di criminalizzazione. 5. La seconda fase del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali: la razionalità politico-criminale delle norme incriminatrici. — Vi è una seconda dimensione garantista del principio di offensività, che appare sicuramente più consona alla realtà storica attuale: più consona sia al carattere liberal-democratico dei moderni ordinamenti con la loro dotazione di garanzie istituzionali e procedimentali, sia alle esigenze e tendenze del diritto penale delle attuali società tecnologiche. Intendo alludere a quel ruolo garantista che il principio di offensività svolge non tanto contro il rischio di un arbitrio punitivo prevaricatore degli stessi valori democratici e delle libertà fondamentali, quanto contro il rischio di un’espansione onnipervasiva del diritto penale. Si tratta di una garanzia connotata — si potrebbe dire — da una certa ‘‘genericità’’, ma certamente importante in un universo sociale ove le crescenti esigenze di tutela inneMAZZACUVA, Modello costituzionale di reato, cit., 77 ss., ove è anche possibile rintracciare la puntuale indicazione delle sentenze che costituiscono questo trend.
— 368 — scano un processo di progressiva erosione delle sfere di libertà individuale: una garanzia, insomma, che risponde meno ad un obiettivo specificamente politico che ad una generale esigenza di razionalità legislativa. Ma è proprio per questa sua dimensione garantista così generica che il principio di offensività finisce per incontrare sulla sua strada il principio democratico, con la presunzione di legittimazione democratica delle scelte di criminalizzazione in quanto effettuate dal parlamento. Ed infatti, in che modo è possibile concretizzare questa generica garanzia di contenimento dell’onnipervasività penalistica? Dove sarà possibile, e legittimo, tracciare il limite al legislatore, ai suoi intendimenti — non già prevaricatorii, ma — di tutela? Quale criterio o parametro di garanzia sarà tale da escludere che il controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi non violi il principio democratico? Si profilano qui due possibilità. Da un lato, v’è la soluzione del catalogo chiuso dei beni costituzionali: postulata, cioè, la possibilità di individuare un numerus clausus di beni, valori o interessi di rango costituzionale, solo questi sarebbero ‘‘meritevoli’’ della tutela penale (30). Tesi che, pur nella sua ineccepibilità concettuale e — soprattutto — nel suo alto valore storico (in quanto costituì il più forte richiamo all’esigenza di uniformare l’ordinamento penale al nuovo ordine costituzionale), ha però progressivamente perduto terreno (31). E in effetti, se praticata col rigore della sua impostazione teorica, la tesi in esame rivelava più di un limite. Innanzitutto, il rischio di estraniare il diritto penale, le sue scelte contenutistiche, dalla sfera della politica e dal gioco democratico, pietrificandolo nell’originaria trama di valori tessuta dal costituente (32). Certamente, questa presunta ‘‘rigidità costituzionale’’ del diritto penale avrebbe potuto trovare razionale giustificazione nella più intensa — anzi massima — esigenza garantistica derivante dalla intrinseca natura della sanzione criminale; ma sul piano storico-politico non sarebbe certamente realistico immobilizzare i contenuti (30) BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., 7 ss.; successivamente la tesi del catalogo dei beni costituzionali fu in un certo senso perfezionata attraverso la sua dilatazione ai beni di ‘‘rilevanza costituzionale implicita’’: ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 202; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1995, 14. (31) V. la recente ed efficace sintesi di MAZZACUVA, Modello costituzionale, cit., 85. Condivisibile, dunque, la conclusione di MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 127: « la Costituzione non pone un limite generale al legislatore ordinario nella scelta discrezionale dei beni da tutelare penalmente: il legislatore non è vincolato in questa scelta alla cerchia dei beni costituzionalmente rilevanti ». (32) Cfr. PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, a cura di A. Pizzorusso e V. Varano, I, Milano, 1985, 578 ss.; PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1985, 131 ss.
— 369 — di un’area dell’ordinamento che appare invece vieppiù dinamica. In secondo luogo, come abbiamo avuto già occasione di accennare, le scelte di criminalizzazione non possono obbedire esclusivamente al criterio della ‘‘meritevolezza’’ del bene, essendo esse il risultato di ulteriori variabili tra le quali soprattutto le conseguenze indotte dall’opzione di criminalizzazione sul rapporto di equilibrio, concorrenza, confliggenza con gli altri interessi coinvolti. Infine, la soluzione del catalogo chiuso dei beni costituzionali lascia fatalmente in ombra un profilo del controllo di costituzionalità sulle scelte di criminalizzazione, qual è quello della misura della pena, che invece la Corte sta cominciando a sviluppare. Se, infatti, è già arduo individuare i beni di sicuro rango costituzionale, ancor più improbabile risulta collocarli in una sorta di rigida gerarchia costituzionale capace di fungere da parametro esclusivo di determinazione del quantum di tutela. Dall’altro lato, profondamente diversa è, invece, la via imboccata dalla Corte costituzionale che, lungi dal far proprio il catalogo chiuso dei beni giuridici (33), adotta uno schema di giudizio decisamente aperto per controllare la legittimità delle scelte di criminalizzazione. Nella giurisprudenza della Corte il principio di offensività è solo uno dei moduli di giudizio e probabilmente nemmeno il più utilizzato: non solo, infatti, la Corte, nonostante la ripetuta dichiarata incompetenza a sindacare la misura della pena, non ha mancato di modificare le cornici edittali di talune fattispecie risultanti oggi particolarmente lontane dalla nostra sensibilità (34), ma soprattutto non ha rinunciato ad avvalersi del modulo di giudizio della ‘‘ragionevolezza’’ anche nella materia penale (35). Cercheremo tra poco di descrivere più dettagliatamente con qualche esempio significativo questo importante filone giurisprudenziale, ma vale la pena di segnalare fin d’ora sinteticamente il significato per così dire ‘‘istituzionale’’ di questo orientamento della nostra Corte. Se il principio di offensività, specie nella sua più rigorosa formulazione del catalogo chiuso dei beni costituzionali, avrebbe costituito uno strumento d’impronta univocamente garantista, nell’orientamento della Corte esso diviene uno solamente dei molteplici canoni di una razionalità politico-criminale assunta come parametro del controllo sui contenuti della legge penale. Con ciò indubbiamente la Corte si spinge nei vasti spazi dominati del principio democratico e percorsi dalla politica criminale. Vero tutto ciò, è anche vero però che il carattere duttile e aperto del controllo di costituzionalità così assunto dalla Consulta è ben lontano da quella sorta di automatismo e quasi schematismo (33) V. ad esempio la sentenza n. 71/1978, secondo la quale ‘‘non si può in nessun modo ritenere vincolato il legislatore al perseguimento di specifici interessi’’. (34) V. retro le note 24 e 25. Da aggiungere, da ultima, la sentenza n. 329/1997, che ha equiparato la pena prevista per il vilipendio della religione cattolica (art. 404 c.p.) a quella prevista per il vilipendio dei « culti ammessi nello Stato » (art. 406 c.p.). (35) V. il già ricordato saggio di INSOLERA, Principio di eguaglianza, cit., 271 ss.
— 370 — di giudizio che, conseguente alle più rigorose formulazioni del principio di offensività, avrebbero davvero segnato una drastica sovrapposizione del controllo di costituzionalità sulla dinamica democratica delle opzioni di criminalizzazione. La posizione che è venuta in tal modo assumendo la Corte costituzionale risulta davvero di grande interesse. Se, da un lato, il sostanziale rifiuto del catalogo chiuso dei beni costituzionali ha impedito una pioggia di pronunce di incostituzionalità che avrebbe posto la Corte in un ruolo di assoluto protagonista della politica criminale italiana; dall’altro, l’adozione di moduli di giudizio duttili, a carattere sempre più spiccatamente ‘‘aperto’’ e valutativo e anche complesso, ha finito per collocare la Corte in un fecondo rapporto dialogico col legislatore avente ad oggetto svariati canoni di razionalità politico-criminale (36). Certamente, questo sviluppo giurisprudenziale, che ha inverato il principio di offensività nella concretezza dei canoni di politica criminale, porta con sé il rischio di uno sbilanciamento dell’attività della Corte a danno del principio democratico. Non è dunque fuor di luogo preoccuparsi dell’esigenza di un contenimento del controllo di costituzionalità davvero alla razionalità delle scelte legislative politico-criminali (37). Ma sarebbe illusorio pensare di identificare questa razionalità con i canoni, ad esempio della extrema ratio delle tutela penale (38) oppure — all’estremo (36) Nel testo di riforma della Costituzione approvato dalla Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali il 4 novembre 1997, si legge — art. 129 — che « Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale ». Viene così assunta a dignità costituzionale una tesi che, come diciamo nel testo, sembrava incontrare negli ultimi anni un crescente disincanto nella dottrina. Ma soprattutto viene consegnata nelle mani di un organo, la Corte costituzionale, che, se non ha natura giurisdizionale, certo è privo di diretta legittimazione democratica, l’intera politica criminale degli oggetti di tutela. Verosimilmente, la Corte, che comunque potrà essere inondata di ricorsi per violazione di questo principio, assumerà un atteggiamento di self-restraint valorizzando l’argomento della ‘‘rilevanza implicita’’ o della ‘‘presupposizione necessaria’’ del bene tutelato. Tuttavia, la ‘‘spada di Damocle’’ della natura non costituzionale del bene penderà sulla maggior parte delle norme incriminatrici, che potranno virtualmente essere espunte dall’ordinamento con uno stile argomentativo assai più tranciante di oggi. Senza cioè che la Corte si senta impegnata ed obbligata a quelle analisi di razionalità politico-criminale che, se la portano a un confronto più diretto col legislatore, sono però garanzia di trasparenza e in fondo di maggiore cautela e sensibilità democratica. In sostanza, la previsione di quel primo comma dell’art. 130-bis della ‘‘nuova’’ Costituzione corrisponde ad un’immagine integralmente razionalistica del diritto, secondo la quale le costituzioni vengono pensate nei termini di un ‘‘cerchio’’ della razionalità che include ogni evento, una regolamentazione onniveggente della realtà (cfr. PALOMBELLA, Costituzione e sovranità, cit., 103; VOLPE, Considerazioni inattuali sulla costituzione, in AA.VV., Cambiare Costituzione o modificare la Costituzione, Torino, 1995, 107). (37) V. sul punto ROMANO, ‘‘Meritevolezza di pena’’, ‘‘bisogno di pena’’ e teoria del reato, in questa Rivista, 1992, 39; MARINUCCI-DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, ivi, 1994, 333. (38) Non sono peraltro mancate sentenze, certo tra le più ‘‘dotte’’, in cui la Corte ha enunciato nei suoi passaggi argomentativi il principio di extrema ratio: v. la sentenza n. 364/1988, in tema di ignorantia legis, che afferma la ‘‘necessità che il diritto penale costitui-
— 371 — opposto — della assenza di grossolani errori di legiferazione (39). Controllo di razionalità legislativa significa necessariamente ed immancabilmente valutazioni contenutistiche. In conclusione, sembra quasi che la tematica del controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali sia stretta come in una specie di contraddizione o di paradosso. Da un lato, il principio di offensività, con tutti i suoi derivati del catalogo chiuso dei beni ‘‘meritevoli’’ nonché dell’extrema ratio e del requisito almeno di pericolo della fattispecie, sembra costituire più un principio ispiratore della legislazione penale, un orientamento di politica criminale che non un parametro di legittimità costituzionalità (40), nonostante il rigore concettuale e garantista dei suoi contenuti. Dall’altro, il giudizio di costituzionalità si snoda — al contrario — lungo i meandri e le sfumature di valutazioni contenutistiche, certo tipiche del discorso legislativo ma altrettanto indubbiamente consentite dal parametro della ‘‘ragionevolezza’’ (41). 6. Le più recenti tendenze evolutive della giurisprudenza costituzionale sulla ‘‘ragionevolezza’’ delle leggi penali. — Dunque, nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, la Corte s’ispira assai più a canoni di razionalità politico-criminale che a rigidi modelli precostituiti. E, in effetti, come abbiamo già notato, il principio di offensività, pur sca davvero la extrema ratio di tutela della società e sia costituito da norme non numerose o eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla ‘tutela di valori almeno di rilievo costituzionale’ e tali da essere recepite in funzione anche di norme extrapenali, di civiltà effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare’’; la sentenza n. 409/1989, in tema di obiezione di coscienza, ha avuto occasione di affermare che ‘‘il legislatore [... ] deve [...] circoscrivere, per quanto possibile tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale, l’ambito del penalmente rilevante’’, anche se il principio è circondato da un’ulteriore precisazione diretta a ridimensionarne la portata quale parametro di controllo del contenuto delle leggi penali (v. infra, subito dopo nel testo e nota 41). (39) V. retro la nota 27. (40) Cfr. VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991, 735. (41) Particolarmente significativa, a questo proposito, la più volte ricordata sentenza n. 409/1989, che dopo aver affermato il principio di extrema ratio, continua dicendo che è ‘‘indubbio che le valutazioni, dalle quali dipende la riduzione del numero delle incriminazioni, attengono a considerazioni generali (sulla funzione dello Stato, sul sistema penale, sulle sanzioni penali) e particolari (sui danni sociali contingentemente provocati dalla stessa esistenza delle incriminazioni, dal concreto svolgimento dei processi e dal modo d’applicazione delle sanzioni penali) che, per loro natura, sono autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili in questa sede. La non applicazione, da parte del legislatore ordinario, dei criteri informatori di politica criminale (quale quello di ‘‘sussidiarietà’’ del diritto penale) costituzionalmente sanciti, possono, infatti, essere censurati da questa Corte solo per violazione del criterio di ragionevolezza e per indebita compressione del diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto’’.
— 372 — senza dubbio ampiamente circolante nella giurisprudenza della Corte, non ha finora assunto quell’ampiezza di utilizzazione che contrassegna invece i parametri di ‘‘ragionevolezza’’ (42). Se non mancano sentenze che, allo scopo più che altro di ‘‘salvare’’ la norma, affermano il principio di necessaria lesività in concreto del reato, non sono per contro certo numerose le pronunce in cui la rilevanza costituzionale del bene giuridico protetto viene assunta a esclusiva e determinante condizione di legittimità della incriminazione: anzi, per la verità, non è dato riscontrare nemmeno una sentenza di accoglimento fondata sulla natura non costituzionale del bene protetto (43). Peraltro, non mancano da un lato pronunce che prendono in considerazione la natura costituzionale del bene, ma solitamente quale elemento che entra nel giudizio sulla correttezza del bilanciamento tra beni, dunque come uno dei molteplici indici caratteristici di una valutazione di ‘‘ragionevolezza’’ della legge. Dall’altro lato, va però sottolineato come talvolta la Corte sia potuta giungere all’affermazione della costituzionalità della norma incriminatrice dopo aver compiuto un’operazione di trasformazione del bene giuridico originario in altro conforme a Costituzione (44). Operazione, quest’ultima, sempre ‘‘a rischio’’ in quanto affidata a sentenze di rigetto, ma che lo diviene ancora di più quando la conversione del bene giuridico implichi — ed avvenga per mezzo di — una trasformazione strutturale della (42) In argomento, cfr. CERRI, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. Treccani, vol. XXV, Roma, 1994; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., vol. I Agg., Milano, 1997, 899 ss.; MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino, 1996. (43) Peraltro, è stata sufficiente un’ordinanza per dichiarare la manifesta infondatezza di una questione concernente il minimo edittale previsto dall’art. 278 c.p. (offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica), sulla base del fatto che la norma impugnata ‘‘mira a preservare un valore di rango costituzionale, [...] sicché ben si giustifica la previsione di un trattamento sanzionatorio che adeguatamente scolpisca, anche nel minimo edittale, il particolare disvalore’’ del fatto. Al contrario, la sentenza n. 269/1986, pur dopo aver affermato che la ‘‘ratio e il bene giuridico tutelato (l’interesse dello Stato a che il cittadino non sia indotto ad emigrare dalla propaganda realizzata con i mezzi pubblicitari) [art. 5, comma 1, della l. 24 luglio 1930, n. 1278] non sono oggi in alcun modo compatibili con le visioni ideologiche poste a fondamento della vigente Costituzione’’, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma per contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero e di emigrazione. Inoltre, anche la sentenza n. 189/1987, pur affermando la incostituzionalità degli artt. 1 e 3 della l. 24 giugno 1929, n. 1085 che incriminavano l’esposizione di bandiere straniere senza autorizzazione, lo ha fatto sulla base di una irragionevolezza della norma in quanto priva di oggetto e scopo di tutela, e non già di una irrilevanza costituzionale del bene. (44) L’operazione è abbastanza frequente quando si tratta dei limiti alle libertà, i quali — com’è noto — possono trovare un fondamento di costituzionalità quando siano preordinati alla salvaguardia di un bene pure di rango costituzionale: v. ad esempio la sentenza n. 9/1965, con la quale la Corte, dopo aver negato che gli artt. 553 c.p. e 112 t.u.l.p.s. avessero ad oggetto il bene dell’interesse dello Stato al controllo delle nascite, ha individuato nel buon costume il bene protetto.
— 373 — fattispecie, quale potrebbe essere ad esempio l’aggiunta o l’eliminazione di un elemento costitutivo, come è avvenuto in materia di pubblicazioni oscene. A meno che, naturalmente, questo intervento di ortopedia strutturale non sia già stato effettuato dalla giurisprudenza dei giudici comuni, come avvenne proprio per le pubblicazioni pornografiche: in tale ipotesi l’intervento meramente ‘‘ratificatore’’ della Corte pone semmai un ordine diverso di problemi, qual è quello della dignità così riconosciuta al ‘‘diritto vivente’’ in un campo retto dalla riserva assoluta di legge come è quello penale. Non meno consolidata è poi la giurisprudenza della Corte nell’escludere che l’assenza nella struttura della fattispecie di una componente concretamente offensiva, in termini di lesione o di pericolo del bene comunque tutelato dalla norma, possa costituire motivo di illegittimità della stessa. Anche se, d’altra parte, non mancano però talune sentenze — che si collocano stranamente negli anni più risalenti — con le quali la Corte ha richiesto un requisito di effettiva offensività al bene giuridico tutelato dalla norma, per lo più rigettando la questione dopo aver così reinterpretato la norma, ma talora pervenendo anche a sentenze di accoglimento (45). Ma è tempo ormai di passare piuttosto al vasto e complesso armamentario costituito dai canoni di razionalità politico-criminale cui la Corte ricorre sempre più a piene mani nel giudizio di ‘‘ragionevolezza’’ delle leggi penali (46). A questo proposito va premesso che il tentativo — che anche qui sarà effettuato — di porre in bell’ordine la serie degli argomenti utilizzati dalla Corte nel controllo sul contenuto delle leggi penali, ha un obiettivo puramente didascalico e chiarificatore. Risulta, infatti, sostanzialmente impossibile catalogare le sentenze in ragione del tipo di argomento utilizzato, visto e considerato che sovente i diversi parametri di giudizio si intersecano e anche si confondono tra loro nella stessa pronuncia: il che, peraltro, nulla toglie alla forza persuasiva della sentenza, dato che l’alta componente valutativa di questo tipo di scrutinio di legittimità conduce necessariamente a considerare l’opzione di tutela assunta dal legislatore da una pluralità di punti di vista tutti congiuntamente condizionanti la scelta ma non sempre facilmente districabili nella loro analitica consistenza ed influenza. I canoni della razionalità politico-criminale cui s’ispira la Corte nel giudizio di ragionevolezza, sebbene molteplici e non facilmente distinguibili, sono sostanzialmente gli stessi tanto nel giudizio sul contenuto della norma incriminatrice (sull’an e sulla ampiezza della tutela) quanto nel (45) V. retro, note 16 e 17. (46) Sulla impossibilità di ricondurre ad unità le decisioni concernenti la ragionevolezza delle scelte legislative, v. PALADIN, op. cit., 902.
— 374 — giudizio sulla misura della pena. Certamente, è vero però che il controllo di costituzionalità sulla misura della pena presenta una sua peculiare natura, tale da giustificare in effetti quell’apparente fin de non recevoir opposta a lungo dalla Corte e, comunque, il rigore (almeno apparente) di quella condizione del sindacato individuata nella manifesta, abnorme, crassa irragionevolezza della previsione sanzionatoria. La Corte afferma sovente che il momento della comminatoria legislativa della pena, di quantificazione della sanzione, è quello che più di ogni altro pertiene alla discrezionalità legislativa (47). Orbene, la ragione per cui proprio nella comminatoria della pena si concentrerebbe questo maggiore tasso di discrezionalità legislativa non dipende tanto da una più estesa, particolare o addirittura esclusiva ‘‘competenza’’ del legislatore a procedere all’operazione di quantificazione sanzionatoria (48). Dipende piuttosto dalla difficoltà di razionalizzare il passaggio dal piano qualitativo delle valutazioni sull’an e sull’ampiezza della tutela al piano quantitativo della misura della pena ottimale alla realizzazione di quella tutela. La Corte può individuare tutti i fattori che hanno concorso all’opzione legislativa sulla misura della pena, e può altresì ridisegnare il loro intreccio e la ponderazione della loro diversa e reciproca incidenza, ma non potrà mai razionalizzare in termini rigidi la loro ‘‘traduzione quantitativa’’, l’espressione numerica che essi assumono nel quantum di pena comminato. E anche quando il giudizio sulla misura della pena viene circoscritto al pur centrale parametro della proporzione tra disvalore del bene e del fatto ed entità della risposta sanzionatoria (49), l’eterogeneità delle grandezze a confronto rende pressoché indispensabile cercare di razionalizzare il giudizio attraverso l’uso del tertium comparationis. In sostanza il giudizio di proporzione sulla misura della pena è un giudizio per forza di cose relativo e non già assoluto. Vogliamo dire cioè che, se sostanzialmente impossibile è instaurare una corrispondenza biunivocamente necessaria (‘‘giusta’’, ‘‘esatta’’, ‘‘costituzionalmente obbligata’’) tra un certo fatto criminoso ed una determinata misura di pena, è invece possibile verificare se quel rapporto reato/pena sia (47) ‘‘Rientra nel potere discrezionale del legislatore la determinazione della entità della pena edittale [...]; né il relativo apprezzamento di politica legislativa può formare oggetto di censura da parte di questa Corte’’ (sentenza n. 18/1973), ‘‘all’infuori dell’eventualità [...] che la sperequazione assuma dimensioni tali da non riuscire sorretta da ogni, benché minima, giustificazione’’ (sentenza n. 109/1968). (48) CORBETTA, op. cit., 136, con ampie indicazioni di dottrina e dell’evoluzione giurisprudenziale. (49) Non a caso INSOLERA, Principio di eguaglianza, cit., 282, individua un momento di svolta nella giurisprudenza della Corte nella sentenza n. 26/1979 sull’art. 186 c.p.m.p., ove l’asse portante della declaratoria di incostituzionalità è costituito proprio dal valore che nell’ordinamento militare assumono i beni della vita e dalla incolumità personale. È chiaro, infatti, che quanto più si allarga l’orizzonte a fattori ulteriori — rispetto alla proporzione col disvalore del fatto — incidenti sulla determinazione della pena, tanto più cresce l’eterogeneità delle grandezze a confronto e, dunque, la componente ‘‘discrezionale’’ del legislatore.
— 375 — proporzionato non in sé ma alla stregua, a confronto di un altro rapporto reato/pena che (implicitamente) si assume invece come proporzionato (‘‘giusto’’, ‘‘esatto’’). Da quanto detto fin qui discendono alcuni corollari. In primo luogo, è facilmente comprensibile come nel giudizio sulla misura della pena l’utilizzazione del tertium comparationis discenda tanto dall’esigenza di cercare di razionalizzare una verifica che sconta l’incertezza insita nella conversione in termini quantitativi di valutazioni qualitative, quanto dalla impossibilità di accertare la proporzione tra i disvalori del reato e della pena se non mediante un giudizio relativo. Ciò significa, in secondo luogo, che il giudizio di proporzione sulla misura della pena trova un punto di riferimento obbligato nel tertium comparationis costituito dalla previsione edittale di altra fattispecie (50): col che viene assicurato il carattere ‘‘endo-normativo’’, addirittura ‘‘endo-ordinamentale’’ del giudizio. Ma ciò significa anche la conseguente impossibilità di uscire dalla logica sanzionatoria che ha presieduto alla ‘‘dosiometria’’ legislativa di un determinato ordinamento: il che può diventare particolarmente indesiderabile quando si tratta di sistemi sanzionatori molto risalenti nel tempo o ispirati a ideologie di repressivismo autoritario o addirittura di terrorismo sanzionatorio. Nel giudizio sulla misura della pena non è davvero facile liberarsi del tertium comparationis, in specie quando si opera col parametro della proporzione che in questo campo è sicuramente il più diffuso. Per poter fare a meno del tertium comparationis si deve ipotizzare il ricorso a parametri costituzionali diversi dalla ragionevolezza e dalla proporzione ma parimenti capaci di incidere sulla legittimità della previsione edittale. Vengono alla mente quello ovviamente della legalità, peraltro sotto il circoscritto profilo di una eventuale indeterminatezza conseguente ad una forbice edittale eccessivamente divaricata; e quello dalla funzione rieducativa della pena, ma ovviamente nella remota ipotesi in cui esso venga assunto in un suo contenuto immediatamente incidente sulla misura della pena, senza cioè passare per il tramite della proporzione, che è invece la via ad oggi solitamente percorsa (51). Per attenuare le rigidità provenienti dal tertium comparationis nel giudizio sulla misura della pena, l’espediente argomantativo talvolta se(50) E in effetti non risultano sentenze di accoglimento in tema di previsione edittale della pena che abbiano fatto a meno del tertium comparationis, salvo quelle che hanno colpito la pena edittale per la sua incapacità di adeguarsi alla gravità in concreto del fatto (v. ad esempio la sentenza n. 971/1988, che ha dichiarato l’illegittimità della previsione della destituzione di diritto invece che del procedimento disciplinare, quale conseguenza della condanna per determinati reati). (51) Questo è il caso della declaratoria di incostituzionalità dell’ergastolo per i minori imputabili (sentenza n. 168/1994), ove in effetti è colpito l’ambito soggettivo di applicazione della pena perpetua e non già la sua comminatoria rispetto ad un determinato reato o classe di reati.
— 376 — guìto dalla Corte consiste nell’accentuare la distanza esistente tra la previsione sanzionatoria sub iudice e il tertium comparationis (52). In tal modo la Corte riesce a conquistarsi lo spazio per la rideterminazione della previsione sanzionatoria in modo sostanzialmente autonomo dal tertium comparationis. Così facendo vengono introdotti nel sistema sanzionatorio degli elementi innovativi e in pratica di incoerenza rispetto alla dosiometria sanzionatoria originaria, che possono evidentemente indurre i giudici comuni ad assumere come tertium comparationis la previsione edittale risultante dalla declaratoria di incostituzionalità, al fine di rinnovare zone contigue ma sempre più vaste del sistema. In un processo di accelerazione che potrebbe sfuggire di mano alla Corte dando luogo ad una vicenda di sostanziale, e probabilmente senza fine, riscrittura delle cornici edittali (53). Se ora si passa a considerare la giurisprudenza sulla ragionevolezza, non già della misura della pena, ma dell’an e del quomodo della tutela penale, si noterà che, a fronte della persistente affermazione sulla indispensabilità del tertium comparationis, sono sempre meno isolate le sentenze che nella sostanza ne fanno a meno (54). E, dinanzi a questa tendenza, non saremmo propensi a gridare allo scandalo. In effetti a noi pare che la maggiore indeterminatezza, la più alta componente di ‘‘discrezionalità’’, che caratterizzerebbero un controllo di ragionevolezza privo del riferimento al tertium comparationis, siano più apparenti che reali. Cominciamo col dire che la presenza della fattispecie di comparazione consente alla Corte di evitare di impegnarsi nel giudizio contenutistico-valutativo (52) Questa ‘‘distanza’’, tra tertium comparationis e previsione edittale sub iudice, può essere dilatata o sottolineando la eterogeneità dei valori rispettivamente tutelati dalle norme a confronto, oppure sottolineando la incongruenza razionale della previsione contestata rispetto a quella del tertium comparationis. Particolarmente interessante è a questo proposito la vicenda del diritto penale militare, a proposito della quale esattamente si è notato che le numerose sentenze di accoglimento sulla misura della pena (v. tra le altre il ‘‘gruppo dell’89’’: le sentenze nn. 49, 139, 273, 409, tutte appunto del 1989) si sono collocate significativamente nella prima prospettiva di giudizio (ROSSETTI, Controllo di ragionevolezza e oggettività giuridica dei reati di insubordinazione, in questa Rivista, 1980, 200; INSOLERA, op. cit., 282). Senza però che possa escludersi come in talune pronunce le due prospettive fossero fortemente intersecate: anzi, l’impressione sembra essere che la Corte abbia talvolta meno esitato a motivare sul piano della irrazionalità in considerazione dello sfondo valutativo, particolarmente ‘‘compromesso’’, che ispira le norme militari. (53) È il caso per esempio del sistema dei delitti a tutela dei pubblici ufficiali dopo la sentenza n. 341/1994 che dichiarò l’incostituzionalità del minimo edittale dell’oltraggio: la sentenza n. 313/1995 ebbe ad affrontare il problema della coerenza con le altre fattispecie di oltraggio, mentre la sentenza n. 314/1995 dovette spingere il confronto fino alle fattispecie di violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Nella sentenza n. 84/1997, che pure è di infondatezza (in materia di reati elettorali), la Corte ha avuto occasione di affermare che « il canone della ragionevolezza deve trovare applicazione non solo all’interno dei singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all’intero sistema ». (54) L’osservazione è anche di INSOLERA, op. cit., 285.
— 377 — permettendole invece decisioni in cui in modo sostanzialmente apodittico vengono affermate ovvero negate quelle differenze strutturali, invocate dai giudici remittenti per lamentare rispettivamente un’ingiustificata eguaglianza o diseguaglianza di trattamento, così da rendere incomparabili le due fattispecie a confronto (55). E poiché è evidente che tra le due fattispecie messe a confronto dal giudice a quo non vi sarà mai né un’eguaglianza perfetta né un’eterogeneità assoluta, ne viene che — a ben vedere — l’irrinunciabilità del tertium comparationis (56) finisce per esser un elemento che introduce un fattore di incertezza più che di rigore nel giudizio. Quell’incertezza che è direttamente proporzionale alla scarsa trasparenza con cui la Corte può decidere di ‘‘uscire’’ dal giudizio negandone in limine i termini: possibilità che, proprio per il fatto di essere sempre dato ravvisare differenze o analogie strutturali delle fattispecie, si risolve in fattore di incertezza. Tanto più, poi, se si considera il fatto che altre volte la Corte è ben lontana dal sottrarsi ad un giudizio condotto interamente anche sul piano valutativo per negare la simiglianza o addirittura la confrontabilità tra le due fattispecie poste in comparazione dal giudice remittente (57). E se, dunque, è già stato compiuto il passo verso una comparazione non più fra elementi strutturali e morfologici di fattispecie ma anche — come è del resto fatale — fra contenuti di disvalore, è aperta la strada per una valutazione della ragionevolezza della norma condotta su un piano totalmente ‘‘interno’’ alla fattispecie contestata. (55) Gli esempi potrebbero essere davvero numerosi. Tra le più recenti si può vedere la sentenza n. 360/1995, che in materia di stupefacenti ha escluso la comparabilità della condotta di coltivazione con quelle di importazione, acquisto e detenzione; la sentenza n. 405/1994, che ha escluso la comparabilità tra le fattispecie dell’art. 196, comma 1, c.p.m.p. e dell’art. 336, comma 1, c.p.; la sentenza n. 290/1985 in materia di illeciti alimentari. (56) Che pure continua ad essere espressamente richiesto dalla Corte: v. la sentenza n. 497/1991, con cui la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione concernente disposizioni in materia di frodi nel settore degli oli minerali, ‘‘per non aver individuato il giudice a quo un preciso e pertinente tertium comparationis’’. Cfr. altresì la sentenza n. 217/1996, in tema di blocco stradale. (57) V. ad esempio la sentenza n. 296/1996: ‘‘il trattamento differenziato tra cessione [a titolo gratuito di modesti quantitativi di droga per uso personale del cessionario] e detenzione [allo stesso fine] [...] non è irragionevole perché [...] non c’è immediatezza tra la condotta del cedente e la destinazione della sostanza all’uso personale del cessionario, immediatezza che è invece sottesa alle ragioni della depenalizzazione [della detenzione per uso personale]’’. Con la conseguenza che ‘‘la cessione gratuita della droga può non implausibilmente essere valutata come particolarmente pericolosa’’. V. altresì la sentenza n. 148/1994, che non ha ritenuto ingiustificata la mancata previsione della causa estintiva della successiva autorizzazione per il reato di lottizzazione abusiva negoziale, a differenza dell’efficacia estintiva dispiegata invece dalla successiva sanatoria intervenuta per l’esecuzione di opere realizzate in assenza di concessione, in ragione della ‘‘diversa entità degli interessi urbanistici compromessi nei due casi’’, di tal che ‘‘si spiega che il legislatore abbia voluto riservare alle due situazioni un diverso trattamento anche dal punto di vista delle cause di estinzione del reato’’.
— 378 — Ma anche per un’ulteriore ragione il tertium comparationis si rivela in fondo un fattore di aleatorietà del giudizio di costituzionalità. In fondo, quasi paradossalmente, il giudizio sulla ragionevolezza di una determinata norma viene a dipendere non solo dal suo confronto con una diversa fattispecie, ma ancor prima la stessa possibilità di instaurare il giudizio viene a dipendere dalla scelta della norma di comparazione: con la conseguenza che, quale che sia la ragionevolezza o la irragionevolezza della norma impugnata, l’esito del giudizio, anzi la sua stessa ammissibilità, viene a dipendere dalla scelta più o meno felice del tertium comparationis e, dunque in definitiva dall’abilità del giudice a quo nel saper individuare il termine di comparazione più adatto a far risaltare i difetti della norma impugnata. Ma in aggiunta a tutto ciò vi è — mi pare — un limite per così dire intrinseco al requisito del tertium comparationis. L’individuazione del tertium comparationis presuppone sempre necessariamente un’operazione valutativa della fattispecie impugnata, poiché solo alla stregua di un determinato parametro valutativo gli elementi differenziali propri di quella fattispecie possono apparire tali da imporre ad esempio un diverso trattamento rispetto al tertium comparationis. La comparazione certamente agevola il giudizio in virtù proprio del carattere analogico dei processi valutativi. Ma in fondo i giudizi valutativi che si effettuano dopo l’individuazione del tertium sono sostanzialmente identici a quelli che si effettuano prima per l’individuazione stessa della fattispecie di riferimento. La possibilità che ha la Corte di dichiarare la inconferenza del tertium comparationis sottolineando le (immancabili) differenze strutturali tra le fattispecie, le consente di respingere le ragioni (sostanziali-valutative) del giudice a quo senza apparentemente entrare nel merito. Il ruolo del tertium comparationis dunque è soprattutto di semplificazione del giudizio di ragionevolezza, di espressione sintetica e quasi schematica piuttosto che argomentativa e discorsiva delle valutazioni sostanziali che soggiacciono alla (presunta) irragionevolezza e di cui si sostanzia il relativo giudizio. Il tertium comparationis non si configura cioè come un requisito logico intrinseco del giudizio di ragionevolezza né in fondo come un elemento di maggiore garanzia (58). Vero ciò, è anche vero però che vi sono casi in cui l’utilità del tertium comparationis diviene massima, finendo per essere almeno praticamente necessario. Si tratta delle questioni in cui la scelta legislativa effettuata dalla norma impugnata non viene contestata in sé, come tale, ma solamente in rapporto al tertium comparationis. Si tratta cioè di fattispecie che, dal punto di vista sostan(58) Diversamente, v. CERRI, Ragionevolezza delle leggi, cit., 15, ove peraltro non si esclude che esista un ‘‘un criterio di ragionevolezza più generale anche oltre il richiamo dell’art. 3 Cost.’’.
— 379 — ziale-valutativo possono essere disciplinate in un modo o nell’altro, ma che esigono in ogni caso, quale che sia l’opzione sostanziale adottata, che la disciplina sia uniforme rispetto a uno o più termini di riferimento (59). Poiché però, da un punto di vista rigorosamente logico, questa ‘‘esigenza di uniformità di disciplina’’ è comunque e sempre il risultato di una valutazione delle (diverse) fattispecie, è chiaro che queste ipotesi coincidono in realtà con un’area in cui questa valutazione di necessaria uniformità è talmente pacifica da risultare scontata, da rendere superfluo l’andamento discorsivo-argomentativo della questione, che si può dunque riassumere nella mera prospettazione del tertium comparationis. Ipotesi in cui, per concludere, la necessaria uniformità valutativa delle fattispecie a confronto è talmente scontata da far apparire la disparità di trattamento quasi più come un errore di legiferazione che come una contestabile opzione legislativa. In fondo, un tipo di questione che esige un controllo di razionalità del sistema più che di ragionevolezza dell’opzione legislativa (60). Come si vede, dunque, il ruolo del tertium comparationis si colloca in una sorta di scala variabile, ove esso decresce in importanza via via che dalle questioni di mera ‘‘correttezza’’ logica e sistematica della disciplina legislativa si va a quelle di valutazione sostanziale dell’opzione legislativa alla stregua di molteplici parametri. Che il tertium comparationis sia presente o meno nello schema di giudizio seguìto dalla Corte, ciò non toglie che gli argomenti utilizzati al fine di controllare la ‘‘ragionevolezza’’ contenutistica delle leggi penali assumano vieppiù la natura di veri e propri canoni razionali di politica criminale. In estrema sintesi, e senza pretesa certamente di completezza, i canoni di giudizio forse più ricorrenti nella giurisprudenza recente sono quelli del corretto bilanciamento tra beni espresso dalla fattispecie, della proporzione tra costi e benefici della tutela, dell’adeguatezza del mezzo allo scopo, della meritevolezza dell’interesse in sé. E dalla breve analisi che ora seguirà, apparirà abbastanza evidente come vi sia — per così dire — una certa progressione crescente nel tasso di ‘‘politicità’’ ìnsito in questa serie di canoni. A proposito del criterio del bilanciamento tra beni e anche di quello della proporzione, occorre qui precisare nettamente che intendiamo allu(59) Stringente è la motivazione ad esempio con cui la Corte, nella sentenza n. 416/1996, ha dichiarato l’illegittimità della mancata previsione della causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. per le ipotesi di false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, rispetto a quelle rese al pubblico ministero e all’autorità giudiziaria, osservando che ‘‘soprattutto conduce a ritenere irrazionale l’anzidetta disparità di trattamento la scelta operata dal legislatore processuale [...] di attribuire rilevanza ai rapporti interpersonali ivi indicati [cioè nell’art. 384 c.p.] in tutte le circostanze in cui il soggetto sia chiamato a rendere informazioni, quale che sia l’autorità che deve raccoglierle e senza distinzioni di fasi processuali’’. (60) Sulla distinzione, v. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 147.
— 380 — dere, non già al rapporto — di bilanciamento o di proporzione, appunto — tra il bene o i beni tutelati con l’incriminazione, da un lato, e quello della libertà personale coinvolta dalla sanzione criminale, dall’altro. Questo schema di rapporto, che vede fisso ed invariabile uno dei suoi termini, e cioè quello della libertà personale, è propriamente tipico della più classica formulazione del principio di offensività. E sebbene non manchi qualche sentenza in cui la legittimità della norma contestata è valutata (anche) a questa stregua (61), tuttavia quello che a noi interessa mettere in luce è un criterio di valutazione assai più penetrante, proprio perché non legato ad uno schema fisso. Per un lato, il canone del bilanciamento tra i beni considera interessi tutti interni — per così dire — all’obiettivo di tutela, cioè quella costellazione di interessi che necessariamente circondano il bene principale oggetto di tutela, e le cui ‘‘sorti’’ sono condizionate in modo più o meno diretto dalla struttura che assume la fattispecie. Nel presupposto, dunque, che qualunque configurazione legislativa della fattispecie significhi un’opzione sulle ‘‘sorti’’ anche degli interessi che circondano quello principale, la ragionevolezza della norma incriminatrice dipende anche dal loro bilanciamento (62); dalla circostanza, ad esempio, (61) Cfr. essenzialmente la fondamentale sentenza n. 341/1994, in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, ove si legge come ‘‘la rigidità e severità del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 e ancora vigente sia frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell’amministrazione) anche nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente’’. Un accenno alla necessaria proporzione tra contenuti delle norme incriminatrici e libertà personale si trova anche nella già citata sentenza n. 409/1989: il legislatore deve ‘‘circoscrivere, per quanto possibile tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale, l’ambito del penalmente rilevante’’. (62) È facile comprendere come le sentenze che utilizzano l’argomento del bilanciamento tra beni, nel senso sia della legittimità che dell’illegittimità della norma impugnata, siano molto numerose, rimanendo relativamente indifferente il fatto che i beni in gioco siano di rango costituzionale oppure no: anche se, ovviamente, lo schema di giudizio del bilanciamento è particolarmente utilizzato in tema di libertà. Tra le più significative ed espressive pronunce si possono ricordare la sentenza n. 27/1975 che, in tema di aborto, dopo aver rilevato che ‘‘la scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza’’ dei beni in conflitto, concluse che ‘‘non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare’’; la sentenza n. 4/1997, in tema di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), ha concluso che ‘‘viene [...] a realizzarsi, nella previsione legislativa, un bilanciamento non privo di ragionevolezza tra libertà di movimento e di autodeterminazione dei singoli e l’effettività dell’istituzione militare’’. Fra le tante ulteriori si possono anche considerare: la sentenza n. 126/1985, che ha ritenuto che l’art. 180, comma 1, c.p.m.p. (che punisce il reclamo collettivo da parte di militari) ‘‘rappresenta un eccesso di tutela della disciplina militare’’ rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero; la sentenza n. 31/1982, che ha invece ritenuto che l’art. 184, comma 2, c.p.m.p. (adunanza arbitraria) non viola gli artt. 17 e 21 Cost. in quanto risponde all’esigenza di salvaguardare altri beni costituzionali tutelati dall’art. 52 Cost.; l’ordinanza n. 68/1997, ove nel negare la presunta disparità di trattamento tra la detenzione di armi comuni o sportive a fine di collezione e la detenzione di armi da
— 381 — che la tutela del bene principale non sia così tanto ‘‘sbilanciata’’ da comportare il totale sacrificio di un interesse confliggente. Per un altro verso, il canone della proporzione tra costi e benefici della tutela, pur caratterizzato da un’evidente omogeneità col precedente, si presenta come un giudizio totalmente esterno alla fattispecie: nel senso, cioè, che la ponderazione si estende qui alle conseguenze probabili od accertate della tutela (63). Peraltro, a proposito di questo secondo canone di giudizio, debbono essere ben sottolineate due circostanze peculiari. In primo luogo che, al di là di un’enunciazione generale e di principio di quel canone, non è facile rintracciare sentenze che ne facciano poi una specifica e concreta applicazione. In secondo luogo, sembra di poter notare che, mentre il criterio del bilanciamento — proprio perché interno all’asse della tutela — prende in considerazione anche beni privi di rilevanza costituzionale purché ‘‘coinvolti’’ dalla fattispecie, il criterio della proporzione tra costi e benefici risulta essere decisamente ridimensionato nella sua enorme potenzialità espansiva dal fatto che le conseguenze assunte come rilevanti sono poi solo quelle incidenti su interessi costituzionali se non addirittura quelle incidenti sui soli diritti individuali. Il canone dell’adeguatezza del mezzo allo scopo di tutela (64) non caccia (di cui solo la prima è soggetta a limitazioni), la Corte tiene conto dell’‘‘esigenza di consentire ai cacciatori di poter cacciare diversi tipi di selvaggina’’, e dunque di un interesse collegato ma confliggente con quelli pregiudicati dalla pericolosità del fatto. Anche la sentenza n. 13/1996 effettua un bilanciamento quando afferma che, ‘‘stanti le finalità di pubblica sicurezza poste a fondamento della norma’’ impugnata [commercio abusivo di cose antiche o usate], ‘‘non risulta irragionevole un sistema di controlli diretti a prevenire la commissione di reati contro il patrimonio’’, in rapporto alla libertà di cui all’art. 41 Cost. (v. anche sentenza n. 121/1963). (63) V. la fondamentale sentenza n. 409/1989, nella parte già riportata retro, alla nota 41. (64) La sentenza n. 308/1992 ritenne che la ratio dell’assoggettamento a pena della detenzione per uso personale di stupefacente in quantità superiore alla dose media giornaliera ‘‘è quella di combattere attraverso il divieto di accumulo (pur se finalizzato al proprio consumo ‘differito’) il mercato della droga in entrambi i momenti in cui esso si articola: per un verso, contrastando il pericolo che una parte della sostanza detenuta possa essere ceduta a terzi; per altro verso costringendo l’offerta a modellarsi sulla domanda indotta alla parcellizzazione, e così rendendo più difficile lo spaccio’’; la sentenza n. 269/1996 ha ritenuto non irragionevole la punibilità della cessione gratuita di modiche quantità di ‘droghe leggere’ in quanto condotta ‘‘che alimenta e realizza la circolazione della droga e il suo mercato’’, ‘‘non senza considerare che la cessione gratuita della droga può non implausibilmente essere valutata come particolarmente pericolosa (per il più elevato rischio di iniziazione di soggetti che altrimenti non verrebbero in contatto con il mercato clandestino della droga) ed insidiosa (per il carattere più invitante ed accattivante di un’offerta senza richiesta di controprestazione)’’. Ma soprattutto si consideri la sentenza n. 370/1996 che, in tema di possesso ingiustificato di valori (art. 708 c.p.), ha ritenuto che il riferimento alla categoria dei soggetti pregiudicati per reati contro il patrimonio ‘‘si palesa [...] non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall’osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni’’, essendo ‘‘questo strumento ottocentesco [l’art. 708 c.p.] di difesa so-
— 382 — mette in discussione l’obiettivo di tutela, il suo assetto interno o le sue conseguenze esterne, ma concentra invece il controllo sullo strumento, cioè sull’idoneità della fattispecie e dell’apparato sanzionatorio a perseguire quel risultato di tutela assunto come legittimo. L’impressione è senz’altro quella di un controllo caratterizzato in termini di ‘‘razionalità strumentale’’ più che di ‘‘discrezionalità finalistica’’; di un controllo, inoltre, potenzialmente idoneo a contrastare la piaga della legislazione penale ‘‘simbolica’’, ove — com’è noto — il ricorso alla sanzione criminale si giustifica per il prevalente intento di esibire una volontà di mera riconferma ideale degli interessi tutelati (65). Senonché, il tasso di intrinseca ‘‘politicità’’ presente in questo canone di giudizio deriva non solo dall’incertezza di identificazione dell’obiettivo di tutela: e variando quest’ultimo, varia conseguentemente l’adeguatezza strumentale della disciplina. Ma soprattutto deriva dall’incertezza empirica e tecnico-scientifica dello stesso giudizio di adeguatezza strumentale. Senza il richiamo ad altri canoni di ragionevolezza (che possono essere proprio quelli del bilanciamento o della proporzione) il criterio dell’adeguatezza del mezzo allo scopo di tutela rischia di essere naturalmente confinato alle zone estreme di vere e proprie incongruenze legislative oppure di norme totalmente sorpassate dai tempi (66). Il che, peraltro, non esclude l’evidente potenziale espansivo di questo criterio. Il canone dell’intrinseca meritevolezza dell’interesse tutelato (67), inciale del tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della criminalità’’. Cfr. anche la sentenza n. 236/1975, in tema di possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli, secondo la quale ‘‘è logico ed è razionale che la legge penale tenga conto della eventualità che stia per commettere un reato chi, colto in possesso di grimaldelli, chiavi, ecc., sia stato già condannato per i reati specificati nell’art. 707 c.p.’’. (65) E non è dunque un caso che un consistente numero di recenti pronunce utilizzanti il canone dell’adeguatezza del mezzo allo scopo siano state sollecitate da eccezioni concernente la legislazione sugli stupefacenti. (66) Molto significativa da questo punto di vista è la già citata (supra, nota 63) sentenza n. 370/1996. (67) Fondamentale è la recente sentenza n. 519/1995 in tema di mendicità cd. non invasiva (art. 670, comma 1, c.p.): ‘‘gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che — senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo — non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a ‘nascondere’ la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose o colpevoli’’; ‘‘la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile — consapevole dell’insufficienza dell’azione dello Stato — ha attivato autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d’essere, e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà’’; ‘‘in questo quadro, la figura criminosa della mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull’ordine pubblico [...], può
— 383 — fine, si presenta sostanzialmente vuoto di contenuto se non vengono identificati i parametri alla cui stregua decidere della meritevolezza, appunto, dell’interesse. Con la conseguenza che quest’ultimo ora in esame si pone come il canone a più alto tasso di politicità. E se, invece, si affronta il tentativo di identificare i parametri del giudizio di meritevolezza, assai difficilmente si potrà trovare qualcosa di diverso dai noti criteri della ‘‘rilevanza costituzionale’’ del bene tutelato ovvero della ‘‘proporzione’’ tra quest’ultimo e la libertà personale. Due espressioni, dunque, tipiche del principio di offensività. Quasi che, in un’ideale chiusura del cerchio, il più dirompente e rivoluzionario dei canoni razionali di politica criminale rimandasse al più tradizionale contenuto del principio di offensività. E, indubbiamente, in un certo qual senso il cerchio si chiude. Nel senso, cioè, della sostanziale insufficienza del principio di offensività a costituire rigido parametro per un controllo asetticamente garantista della Corte: l’esperienza ha infatti ampiamente mostrato come né il criterio della rilevanza costituzionale né quello della proporzione siano praticabili senza colossali aperture al terreno delle valutazioni altamente discrezionali. La ‘‘rilevanza costituzionale’’, da un lato, ha rivelato la sua sostanziale incapacità selettiva, per le ragioni concettuali e politiche che abbiamo a suo tempo sottolineato; la ‘‘proporzione’’ si rivela in fondo uno strumento tanto logicamente ineccepibile quanto concretamente insufficiente per l’estrema difficoltà di razionalizzare — senza subire i condizionamenti di fattori valutativi storico, sociali, politici — un’equivalenza qualitativa tra due valori. Ecco che allora, sì, il cerchio si chiude: quel percorso idealmente iniziato dall’istanza così limpidamente garantista dell’offensività giunge ben presto e quasi ‘‘naturalmente’’ alla destinazione finale di un controllo sui contenuti delle leggi penali che fa della Corte un interlocutore paritario del legislatore. Ne risulta forse così vulnerato il principio democratico, e la sua più forte concretizzazione nel diritto penale? Qui il mio discorso deve necessariamente arrestarsi, perché forse sarebbe necessario preliminarmente interrogarsi sui reali contenuti dell’odierno principio democratico, chiedersi in particolare se esso si esaurisca in sostanza nel principio della rappresentanza parlamentare e in quello maggioritario (68), oppure se in apicibus istanza democratica significhi anche qualche cosa d’altro. dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto’’. Per incidens, si può notare che la Corte è pervenuta alla dichiarazione di incostituzionalità per irragionevolezza della fattispecie sostanzialmente senza ricorso ad alcun tertium comparationis. V. anche la sentenza n. 269/1986, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’eccitazione pubblica all’emigrazione senza fine di lucro, sottolineando fra l’altro l’assoluta immeritevolezza dell’interesse originariamente protetto, quel era quello dello stato fascista ad avere il monopolio del fenomeno migratorio: ‘‘Importante è, nel 1930, che lo Stato e soltanto lo Stato, diriga, orienti, determini l’emigrazione di massa’’. (68) BARILE, Il principio di ragionevolezza, cit., 42, non enfatizza la mancanza di le-
— 384 — Per esempio, e per intendersi, potrebbe significare il vincolo dell’opzione legislativa ad un contesto di riferimento generale, fatto di razionalità strumentale delle soluzioni, di loro coerenza con una più ampia comunità internazionale ideologicamente omogenea, di loro radicamento storico lungo l’evoluzione dei valori socio-culturali. E, sotto questo profilo, non è certo casuale che i veri argomenti di fondo, che sostengono le valutazioni effettuate dalla Corte entro gli schemi logici che abbiamo prima riassunto, sono ormai argomenti che attingono a considerazioni empirco-razionali, a controlli storico-sociali, a conferme comparatistiche (69). Forse, verrebbe da dire conclusivamente che è più conforme all’istanza democratica un controllo ancorché penetrante sulle opzioni politico-criminali del legislatore, ma fondato su canoni razionali apertamente e chiaramente ‘‘riempiti’’ di argomenti scientifici, storici e comparatistici, piuttosto che un sindacato apparentemente di rigorosa garanzia ma celante dietro l’apoditticità di motivazioni apparenti valutazioni dotate di un tasso di ‘‘discrezionalità’’ probabilmente più elevato. FRANCESCO PALAZZO
gittimazione democratica della Corte, pur mostrando cautela a proposito dell’espansione del controllo di ragionevolezza. (69) Lo nota, con qualche accento critico, FIANDACA, in Foro it., 1994, I, 2588. Particolarmente significative, sotto questo profilo, la sentenza sull’oltraggio (n. 341/1994), ove sono sviluppati ampiamente argomenti storici e comparatistici, così come le pronunce sulla disciplina degli stupefacenti (nn. 308/1992 e 296/1996), ove sono sviluppate argomentazioni empirico-fattuali-razionali; argomenti storico-sociali sono sviluppati nella sentenza sulla mendicità (n. 519/1995) e in altra interessante sul reato di blocco stradale (n. 217/1996), nella quale ultima c’è un riferimento essenziale alle valutazioni sociali correnti. Argomenti empirico-razionali-criminologici e comparatistici sono presenti nella sentenza sul possesso ingiustificato di valori (n. 370/1996). E l’esemplificazione potrebbe ancora continuare.
I REATI ASSOCIATIVI NELL’ODIERNO SISTEMA PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Il duplice livello di tipicità del reato associativo. Le previsioni dell’art. 18 Cost. come criterio ordinatore della materia. — 2. Determinatezza e materialità nei reati di associazione delittuosa: centralità del requisito implicito della organizzazione. - 2.1. Il contenuto offensivo dei reati di associazione delittuosa nell’ottica dell’anticipazione di tutela. — 3. L’alternativa politico-legislativa della circostanza aggravante accessoria ai delitti-scopo. — 4. Prospettive di evoluzione normativa dell’associazione per delinquere. — 5. I reati di associazione non (formalmente) delittuosa: uno schema di ricognizione sistematica. — 6. (Segue): l’instabile profilo descrittivo ed offensivo dell’associazione di tipo mafioso. — 7. I contributi individuali al vaglio dei principi di determinatezza e di personalità della responsabilità penale: i nessi con la controversa natura giuridica del reato associativo. - 7.1. (Segue): le condotte qualificate e di semplice partecipazione. — 8. Spunti di riflessione sul concorso c.d. esterno nel reato associativo.
1. Una definizione immediata del reato associativo (1), che sia sufficientemente ampia per ricomprenderne le molteplici sfaccettature osservabili ad una considerazione più approfondita, deve limitarsi a rilevare l’esistenza all’interno del sistema penale di fattispecie caratterizzate da un duplice livello di determinazione della struttura materiale dell’illecito: in esse il legislatore segnala innanzitutto la presenza di un’associazione formata da una pluralità di persone e rivolta al perseguimento di varie finalità, di natura talora intrinsecamente criminosa; su questa base comune vengono quindi disegnate una serie di condotte individuali, che definiscono altrettanti ruoli ascrivibili ai soggetti coinvolti nella genesi e nella vita del sodalizio (2). (*) Questo scritto riproduce, con l’aggiunta delle note, la relazione svolta al XXI Convegno Enrico de Nicola su « I reati associativi », organizzato dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale e tenutosi a Courmayeur Monte Bianco dal 10 al 12 ottobre 1997. (1) Per un primo inquadramento della materia, con corredo di adeguata bibliografia, è qui sufficiente il rinvio a SPAGNOLO, voce Reati associativi, in Enc. giur. Treccani, XXVI, 1996. (2) Per la considerazione delle due fondamentali questioni dogmatico-interpretative suscitate da questa complessa configurazione del reato associativo, in ordine rispettivamente alla natura giuridica della (o delle) fattispecie incriminatrici così risultanti e alla pertinenza o meno a ciascuna di esse del momento perfezionativo del sodalizio, v. infra, n. 7.
— 386 — Questa connotazione, al di là della scontata genericità di contenuto informativo, si rivela particolarmente adatta ad impostare un discorso sistematico sui reati associativi. È per tutti evidente come il fondamentale profilo problematico di tale categoria giuridico-penale, preliminare ad ogni approfondimento di tipo dogmatico-interpretativo, attiene ai dubbi di legittimità prospettabili a fronte di una serie cospicua di norme costituzionali. Viene in considerazione innanzitutto la libertà di associazione sancita nell’art. 18 Cost.; ma reclamano altresì attenzione altri principi di sicuro rilievo costituzionale, specificamente attinenti alla « materia » penalistica, quali la sufficiente determinatezza della fattispecie, i connotati di materialità ed offensività del fatto incriminato e la personalità della responsabilità penale (3). Non risulta probabilmente altrettanto manifesta la necessità di sviluppare questa complessa verifica di legittimità costituzionale ad un doppio livello, corrispondente appunto ai due distinti piani utilizzati dalla tecnica di tipizzazione della fattispecie. È innanzitutto il « fatto » associativo come tale, nella sua compiuta dimensione collettiva, che va esaminato in ordine alla compatibilità dapprima con la libertà di associazione e quindi con i principi di determinatezza, materialità ed offensività. Una volta superata questa soglia di controllo, essenziale ma in gran parte ancora interlocutorio, occorre poi sottoporre a prova le distinte tipologie di condotta, che nell’economia del reato associativo sono chiamate ad assolvere l’irrinunciabile funzione di plausibili canali di imputazione del « fatto » dell’associazione ai singoli soggetti attivi del reato. Ormai definitivamente accertata la salvaguardia dell’art. 18 Cost., si tratta qui di riproporre la verifica di materialità ed offensività in rapporto al ruolo assunto dai vari associati, non potendosi escludere, nell’ambito di una accertata proiezione lesiva dell’associazione come tale, corrispondenti deficit in capo ai contributi tipici individuali. In questa prospettiva assume anzi distinto rilievo il principio di personalità della responsabilità penale, già nella sua accezione minima di collegamento causale tra il fatto e chi ne viene indicato come autore, essendo incombente il rischio che almeno taluno dei ruoli associativi configuri una sorta di responsabilità per fatto altrui (4). Il primo momento di tale complessa verifica di legittimità costituzionale, relativo al riconoscimento della libertà di associazione nell’art. 18 Cost., oltre ad imporsi come necessariamente preliminare su di un piano (3) Cfr., per tutti, la chiara impostazione di FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale. Studi in onore di Giuliano Vassalli, II, 1991, p. 48 ss. (4) L’eventualità « che ciascun associato venga chiamato a rispondere di risultati addebitabili, più che al suo personale contributo, all’operato dell’associazione complessivamente considerata » è ben delineata da FIANDACA, Criminalità, cit., p. 49.
— 387 — assiologico, manifesta altresì una precisa valenza di ordine sistematico nella materia in esame. Chi proietti uno sguardo d’insieme sia pure superficiale sui reati associativi presenti nel nostro ordinamento giuridico-penale vedrà subito profilarsi un principio di distinzione attinente alla presenza o meno di una precisa qualificazione sul piano di illiceità penale delle finalità in vista delle quali l’associazione è costituita ed opera, e ciò in termini generali o limitati a determinate fattispecie di delitti-scopo (5); laddove questa esplicita caratterizzazione è assente, subentra una connotazione degli obiettivi del sodalizio che degrada da profili di antigiuridicità per così dire obiettiva e/o materiale (6) a lineamenti di sostanziale liceità (7). Esistono d’altro canto altri indici differenziali tra i reati associativi che potrebbero pretendere priorità di valorizzazione sistematica. Basti pensare, per un verso, alle fattispecie la cui tipicità si esaurisce in una dimensione associativa non altrimenti qualificata ed in un progetto d’azione per così dire monolitico (8); mentre, per altro verso, si riscontrano modelli legali caratterizzati da ulteriori momenti di disvalore — incidenti (5) Fattispecie di associazione per delinquere di portata generale sono quella di cui all’art. 416 c.p. e la stessa associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p., limitatamente alla prima delle molteplici finalità associative ivi delineate. Associazioni criminose con programma limitato a determinate tipologie delittuose si trovano, nel codice penale, tra i delitti politici (cospirazione politica mediante associazione e banda armata di cui agli artt. 305 e 306); nella legislazione complementare assume rilievo essenzialmente l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope ex art. 74, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. Va peraltro osservato che le associazioni previste dagli artt. 305 e 306 c.p. concentrano il loro obiettivo su di « uno dei delitti indicati nell’art. 302 », di modo che potrebbe dubitarsi della loro riferibilità alla categoria stessa dell’associazione per delinquere da parte di chi ritiene essenziale al profilo di questa il carattere indeterminato del programma delittuoso (in questo senso, per tutti, DE FRANCESCO G.A., Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. Disc. Pen., I, 1987, p. 295 s.; per la compatibilità dell’associazione per delinquere con un programma delittuoso definito cfr. invece DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, 1988, p. 263 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., 1995, p. 728). (6) È questo il caso dell’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, prevista dall’art. 270-bis c.p., il cui programma, sia finale (eversione) che strumentale (compimento di atti di violenza), esprime chiari connotati di illiceità pur in assenza del riferimento a precise fattispecie criminose. Analogo discorso può farsi a proposito dell’associazione segreta, di cui agli artt. 1 e 2, l. 25 gennaio 1982, n. 17, laddove l’attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di enti pubblici configura un grave pregiudizio di rilevanti interessi pubblici di natura politica ed amministrativa (sulla dimensione più « materiale » che « finalistica » di tale programma associativo v. peraltro infra n. 5). (7) È il caso di talune delle finalità perseguite dall’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p., come la gestione o il controllo di attività economiche o il procurare voti in occasione di consultazioni elettorali. (8) Esprime questa fisionomia la fattispecie generale di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.
— 388 — sulla struttura dell’associazione o sull’attività degli associati — o quanto meno da una più complessa articolazione delle finalità perseguite in un programma strumentale e in uno o più obiettivi finali (9). Ora, la netta separazione rinvenibile nei due commi dell’art. 18 Cost. — tra illiceità penale dei fini perseguiti quale limite interno della libertà di associazione e peculiarità organizzative e/o progettuali come fondamento di particolari divieti di associarsi pur in vista di programmi non intrinsecamente criminosi — permette, se non addirittura impone di assumere questo principio di distinzione come criterio ordinatore della materia. Conviene tuttavia avvertire sin d’ora che lo sviluppo dell’analisi porterà a riscontrare una sostanziale confluenza, sul piano dei risultati classificatori, dell’altro criterio, sopra accennato, attinente alla maggiore ricchezza di connotati tipici del fatto associativo (10). 2. Il riferimento negativo ai fini vietati ai singoli dalla legge penale, contenuto nella prima parte dell’art. 18 Cost., in veste di unico limite intrinseco al diritto ivi sancito, rappresenta la sintesi probabilmente più elevata del fondamento liberaldemocratico della libertà di associazione. Lungi dal guardare con sospetto all’integrazione ed al potenziamento di intenti ed energie, che caratterizza il passaggio dalla dimensione individuale a quella associata dell’agire umano, il legislatore costituente conferma quanto già risulta dall’art. 2 della carta fondamentale: le formazioni sociali sono considerate momenti di naturale ed insopprimibile svolgimento della personalità del singolo, di modo che esse non possono essere soggette a limiti ulteriori rispetto a quelli già inerenti all’agire individuale su quel piano di extrema ratio proprio della disciplina penale. Scontata dunque la compatibilità con la libertà di associazione dell’incriminazione di sodalizi che perseguono finalità delittuose, il discorso si apre subito alla verifica del grado di adempimento dei canoni di determinatezza, materialità ed offensività ad opera delle corrispondenti fattispecie. L’esigenza in parola appare tanto più urgente, se si considera che il legislatore ordinario costruisce la gran parte delle figure di associazione (9) Corrispondono a questi requisiti, tra gli altri, i reati di associazione terroristicoeversiva e di tipo mafioso, sui quali v. infra n. 5 e 6. (10) Per solito i due ordini di distinzione risultano compatibili, essendo le fattispecie di associazione per delinquere in senso stretto costruite per lo più su di una dimensione associativa del tutto neutra, mentre per converso i particolari connotati di struttura o di metodo di azione assumono significato tipico in rapporto ai sodalizi che non perseguono fini di stretta (o esplicita) rilevanza giuridico-penale. Talora invece i due criteri distintivi si intersecano. Ciò accade, in particolare, nell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p., almeno in rapporto alla finalità di commettere delitti in quanto perseguita attraverso il « metodo » mafioso; parimenti, nella banda armata ex art. 306 c.p., la disponibilità di armi assurge ad elemento costitutivo caratterizzante il fatto associativo diretto a commettere delitti contro la personalità dello Stato.
— 389 — criminosa in senso stretto in modo assolutamente speculare al limite intrinseco ex art. 18 primo comma Cost., dimostrando così scarsa sensibilità nei confronti di quel filtro selettivo di fatti già di per sé illeciti, che dovrebbe costantemente accompagnare il magistero legislativo penale e che si riassume a sua volta nel principio di frammentarietà: tanto nella configurazione « universale » di cui all’art. 416 c.p., quanto nelle specifiche forme tipizzate nello stesso codice penale o nella legislazione complementare, l’associazione per delinquere si risolve nella giustapposizione della dimensione finalistica intrinsecamente criminosa al dato materiale « neutro » dell’esistenza del sodalizio, in assenza di ulteriori elementi che stabiliscano un più significativo raccordo tra le due polarità o arricchiscano comunque il profilo di tipicità della fattispecie. Per quanto riguarda il rispetto dei principi di determinatezza e materialità, occorre per la verità subito sottolineare che la pur scarna descrizione in sede penale del fenomeno associativo non avrebbe dovuto di per sé suscitare troppo consistenti riserve: anche con il prezioso ausilio dell’esegesi condotta nel frattempo dai costituzionalisti sull’art. 18 Cost., doveva risultare immediatamente chiaro che l’associazione consiste in « una organizzazione avente il carattere della stabilità » (11), articolata in una serie di ruoli sufficientemente riconoscibili, attraverso cui sono esplicate le essenziali funzioni dirette prima alla costituzione ed al consolidamento e quindi al mantenimento in vita ed al rafforzamento dell’ente come tale. Eppure un atteggiamento a lungo prevalente nella giurisprudenza, ma al quale non è rimasta estranea la dottrina (12), ha determinato lo spostamento del baricentro della fattispecie dal polo materiale, dato dalla stessa consistenza del sodalizio organizzato, alla dimensione finalistica intrinsecamente illecita, finendo per configurare l’associazione per delinquere come un forma di accordo criminoso qualificato. Alcune ragioni di tale orientamento ermeneutico sono agevolmente rintracciabili. In esso va probabilmente ravvisato il riflesso della progressiva astrazione generalizzatrice che ha caratterizzato l’evoluzione legislativa della fattispecie di associazione criminosa a partire dai codici preunitari (13), nel senso della dispersione di quei connotati di tipicità atti a suggerirne un’autonoma proiezione offensiva in rapporto alla tranquillità e sicurezza pubblica (14), con conseguente risalto dell’anticipazione di tu(11) Per tutti, MARTINES, Diritto costituzionale, 7a ed., 1992, p. 660. Sottolinea da ultimo, tra i penalisti, come l’esigenza di una struttura organizzativa duratura e stabile sia chiaramente implicita nel concetto di associazione SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 11. (12) Cfr., per più puntuali richiami, DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 58 ss.; DE VERO, Tutela penale, cit., p. 258 ss. (13) Per tutti, FIANDACA, Criminalità, cit., p. 50. (14) Per indicazioni più precise a riguardo, sia consentito rinviare a DE VERO, Tutela penale, cit., p. 79, nt. 93.
— 390 — tela dei medesimi beni aggrediti dai delitti-scopo. Significativa di tale impostazione, che ravvisa nell’associazione per delinquere una forma particolarmente raffinata di anticipazione dell’intervento repressivo in deroga all’ordinaria non punibilità degli atti preparatori, è del resto la « esemplare » sequenza di fattispecie autonome di istigazione (privata e pubblica), di accordo ed associazione diretti a commettere delitti contro la personalità dello Stato, contenuta negli artt. da 302 a 306 del c.p.. C’è anche da dire che la scarsa consistenza (o forse meglio la ridotta « visibilità ») a livello empirico-sociale dei fenomeni di associazione criminosa, prima che si delineassero le emergenze della criminalità organizzata politica e comune, non ha certo favorito l’affermarsi di una precisa sensibilità nei confronti dell’autonomo disvalore penale che possa essere insito nel fatto stesso dell’esistenza di una struttura organizzata con finalità delittuose. Solo così possono spiegarsi le misere sorti processuali cui per solito è andata incontro la contestazione del delitto ex art. 416 c.p., soggetta ad un uso sicuramente improprio, quale che sia la specifica lettura che di questo si voglia suggerire (15). Come che sia, il dato certo è che la giurisprudenza della corte regolatrice, sollecitata in particolare a rispondere al quesito circa l’ammissibilità del nesso di continuazione tra i delitti-scopo commessi, nonché tra di questi e lo stesso reato associativo, ha tradizionalmente tracciato i confini tra associazione per delinquere e concorso di persone in reato continuato non già sul piano materiale dell’esistenza di uno stabile ed efficiente apparato organizzativo, ma piuttosto in rapporto alla diversa tipologia di accordo intercorso tra i rei: l’uno, avente per oggetto un programma criminoso di carattere generale ed indefinito; l’altro, inteso alla commissione di una pluralità di delitti pur sempre determinata e dislocata in un circoscritto arco temporale (16). Anche la dottrina, pur se in via di principio meno avara di riferimenti al requisito della organizzazione, non ha nel complesso fornito vigorosi spunti di approfondimento in tale direzione. I contributi più puntuali a riguardo sono peraltro venuti da parte dei fautori sotto varie forme della natura cosiddetta « istituzionale » dell’associazione per delinquere, quale ordinamento giuridico autonomo ovvero « contropotere criminale » che si contrappone all’ordinamento statuale e che meriterebbe per ciò solo adeguata repressione (17). Senonché l’inevitabile richiamo di tali imposta(15) Sul punto v. meglio infra, n. 4. (16) Riferimenti recenti — oltre quelli rinvenibili supra, nt. 12 — in Codice penale, a cura di Padovani, 1997, p. 1565 ss. (17) Sono le posizioni a suo tempo sostenute, per un verso, da PATALANO, L’associazione per delinquere, 1971, specie p. 18, e per l’altro verso da NEPPI MODONA, Criminalità organizzata e reati associativi, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice a cura del CRS, 1987, p. 116 ss.; ID., Criminalità organizzata e pro-
— 391 — zioni ad un oggetto di tutela del reato associativo in termini di ordine pubblico « ideale » (18) — entità comunque screditata quale bene giuridico, anche se rivestita dei panni di ordine pubblico « costituzionale » — non ha certo favorito una più diffusa sensibilità alla valorizzazione del momento organizzativo come elemento essenziale di un’associazione criminosa penalmente rilevante. Solo in tempi più recenti la dottrina si è impegnata in uno sforzo inteso ad affrancare pienamente la configurazione strutturale del reato di associazione criminosa dalle problematiche propriamente inerenti all’accordo criminoso o comunque alla punibilità degli atti preparatori dei delitti-scopo. Un’attenta e sagace ricostruzione — le cui cadenze argomentative non è possibile in questa sede ripercorrere compiutamente (19) — sfocia nell’affermazione che la sostanza criminosa dell’associazione per delinquere prescinde totalmente dalle attività preparatorie rivolte alla perpetrazione dei reati-fine, e si risolve nella stessa esistenza di uno stabile apparato organizzativo suscettibile di essere ripetutamente utilizzato per la commissione di un numero indefinito di delitti (20), una vera e propria « macchina » criminosa che funge da polo di aggregazione di potenzialità delittuose altrimenti diffuse e destinate probabilmente a disperdersi nel contesto sociale di riferimento (21). In questi termini la determinatezza e la materialità della fattispecie, in rapporto al « fatto » dell’associazione, sembra essere sufficientemente assicurata; e la stessa finalità delittuosa, pur conservando un margine di rilevanza sul piano del dolo specifico, assume innanzitutto una valenza obiettiva come proiezione dinamica della struttura organizzata (22). 2.1. Occorre a questo punto sottoporre le fattispecie di associazione criminosa al vaglio del principio di offensività, al fine di riscontrare se ricorre in esse un (grado di) pregiudizio di interessi socialmente apprezzabili — anche se non di necessaria rilevanza costituzionale — tale da giuspettive di riforma dei delitti contro la personalità dello Stato, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, 1984, p. 366 ss. (18) Per una recente messa a punto dei vari possibili, e tutti problematici, profili di tutela penale dell’ordine pubblico, sia consentito rinviare a DE VERO, voce Ordine pubblico (delitti contro), in Dig. disc. pen., IX, 1995, p. 72 ss. (19) Alludo ai molteplici e significativi contributi in materia di DE FRANCESCO G.A., tra i quali, soprattutto, Associazione, cit., p. 293 ss., e Societas, cit., p. 105 ss. (20) Cfr. supra, nt. 19. (21) DE VERO, Tutela penale, cit., p. 261, in sintonia con l’impostazione di cui supra, nt. 19. (22) In generale, sui rapporti, nei reati a dolo specifico, tra elementi soggettivi della fattispecie ed oggettività e offensività del fatto tipico, v. PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘elementi finalistici’ delle fattispecie penali, 1993, p. 532 ss. (in particolare, con riferimento ai reati associativi, p. 560 ss.).
— 392 — stificare il ricorso alla sanzione penale sulla base di valutazioni di proporzione e di finalismo rieducativo della pena (23). A riguardo conviene tenere distinte, da un lato, le ipotesi di associazioni dirette a commettere determinati tipi delittuosi e, dall’altro, la figura generale di associazione per delinquere: nelle prime il riferimento al medesimo oggetto giuridico dei delitti-scopo appare immediato; la seconda rivendica invece in partenza, sulla base dell’intitolato codicistico, un’autonoma proiezione offensiva nei confronti dell’ordine pubblico. In rapporto alla prima specie è in effetti fuori discussione che il legislatore ha adottato un modulo di anticipazione della tutela del medesimo bene offeso dai reati-fine: il significato offensivo dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309) ovvero della cospirazione politica mediante associazione e della banda armata (artt. 305 e 306 c.p.) non può che consistere in una qualche forma di esposizione a pericolo dell’interesse protetto dalle norme incriminatrici di riferimento finale (24). Per quanto attiene all’art. 416 c.p., ho in altre sedi cercato di dimostrare che l’attuale configurazione dell’associazione per delinquere è del tutto inadeguata ad esprimere un significato offensivo nei confronti della tranquillità e sicurezza pubbliche, quali componenti dell’ordine pubblico cosiddetto materiale, che abbia una consistenza empirico-criminosa e non puramente retorica; mentre eventuali (e di per sé probabilmente non inverosimili) riflessi sull’ordine pubblico ideale sarebbero destinati ad essere travolti dall’improponibilità di un tale oggetto di tutela a fronte di fatti che rappresentano l’esercizio di libertà costituzionali (25). Anche l’associazione per delinquere in senso stretto è dunque intesa a realizzare l’anticipazione di tutela dei beni giuridici di volta in volta interessati dai delittiscopo (26). (23) Sulla dimensione costituzionale del principio di offensività v., per tutti, la felice sintesi di MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 1995, p. 75 ss. (24) Cfr., anche per ulteriori richiami, INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, 1996, p. 90 s. (25) DE VERO, Tutela penale, cit., p. 75 ss., 147 ss. e 242 ss; ID., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista, 1993, p. 98 ss.; ID., voce Ordine pubblico, cit., p. 80 s. (26) La preoccupazione, di per sé del tutto plausibile, di assicurare la piena autonomia strutturale del reato associativo rispetto alle attività preparatorie dei delitti-scopo trattiene DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 111, dal risolvere la dimensione offensiva del sodalizio criminoso interamente nel pericolo per i beni giuridici protetti dalle norme sui reatifine: l’associazione, ad avviso dell’A., « non può tecnicamente configurarsi , né come attività preparatoria dei singoli reati, né come « pericolo » per gli interessi tutelati dalle norme sui delitti-scopo, né, infine, come un fatto lesivo di un bene giuridico del tutto autonomo, come l’« ordine pubblico »; essa tende, piuttosto, a « cumulare » alcuni aspetti propri di ciascuno di questi profili di qualificazione, senza tuttavia risolversi integralmente in nessuno di essi ». Non mi sembra condivisibile questo tendenziale agnosticismo circa il preciso significato of-
— 393 — È necessario tuttavia mettere in evidenza che l’anticipazione di tutela realizzata attraverso i reati di associazione criminosa è di natura nettamente diversa da quella, per così dire ordinaria, sottesa alla fattispecie di delitto tentato ed alla stessa incriminazione autonoma, in deroga all’art. 115 c.p., di particolari ipotesi di accordo criminoso, come la cospirazione politica mediante accordo di cui all’art. 304 c.p. Per convincersene, occorre sottoporre ad attenta analisi comparativa le due contrapposte clausole figuranti nell’uno e nell’altro gruppo di fattispecie: l’una, che ribadisce la sufficienza ai fini dell’incriminazione del « solo fatto dell’associazione »; l’altra, che subordina invece la punibilità alla mancata realizzazione del delitto-scopo. Questa seconda clausola scolpisce l’essenziale carattere di sussidiarietà proprio delle forme ordinarie di anticipazione della tutela: la realizzazione del delitto-scopo esaurisce il potenziale di pericolo nei confronti del bene protetto espresso dagli atti preparatori, in quanto per definizione indirizzati all’offesa di un determinato « esemplare » di categoria, e pertanto ne neutralizza l’autonomo rilievo penale. Quando invece il legislatore costruisce la fattispecie incriminatrice sul « solo fatto » dell’esistenza dell’associazione, manifestando indifferenza rispetto ad una concorrente responsabilità per i reati-fine che vengano commessi dagli associati, ciò non realizza una sorta di inconsulta deviazione dal canone del ne bis in idem sostanziale, ma sottintende piuttosto una precisa presa di posizione riguardo al significato offensivo della fattispecie, del tutto coerente con la sua dimensione strutturale sopra ricostruita: la compagine organizzativa criminosa proietta un pericolo « diffuso » nei confronti di una serie indefinita di esemplari di un medesimo bene giuridico, la cui estensione tendenzialmente compensa il carattere certamente meno diretto ed immediato che tale pericolo esprime nei confronti di un oggetto giuridico e di un soggetto passivo individuabili hic et nunc (27). In tali condizioni la realizzazione anche plurima dei delittiscopo non riesce a « consumare » il potenziale offensivo del fatto associativo, che è destinato a sopravvanzare gli uni fintantoché l’organizzazione criminosa permane: questo incolmabile intervallo di dislocazione lesiva rifensivo dell’associazione per delinquere (più di recente, DE FRANCESCO G.A., Gli artt. 416, 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, I, 1995, p. 23, accenna alla « disputa, rivelatasi sostanzialmente infeconda, in merito alla natura dell’oggetto giuridico tutelato »), soprattutto perchè, nei termini chiariti più avanti nel testo e su cui v. anche infra nt. 27 e 28, considero pienamente compatibili, da un lato, l’autonomia strutturale del fatto associativo rispetto alle concrete vicende di esecuzione dei singoli delittiscopo e, dall’altro lato, una permanente proiezione offensiva sugli interessi a questi sottesi. Inclina a ravvisare nell’associazione per delinquere un autonomo profilo di offensività, riguardante l’ordine pubblico in senso materiale, INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 58 ss. (27) Sia ancora consentito il rinvio a DE VERO, Tutela dell’ordine pubblico, cit., p. 107 s.
— 394 — spetto ai delitti-scopo costituisce appunto la giustificazione dell’incriminazione autonoma e non sussidiaria delle associazioni per delinquere. La peculiarità del pericolo e della corrispondente anticipazione di tutela così evidenziata (28) dovrebbe peraltro indurre gli interpreti — piuttosto che a rinnegare la stessa ravvisabilità nella specie di una nozione di pericolo penalmente rilevante (29), con conseguente delegittimazione definitiva del reato di associazione criminosa rispetto al principio di offensività — ad avviarne un’ultima verifica di plausibilità giuridico-costituzionale e politico-criminale, questa volta in rapporto al principio di proporzione e/o di frammentarietà della tutela penale. Proprio in quanto l’esposizione a pericolo sopra delineata individua probabilmente il margine estremo della capacità di prestazione del principio di offensività, occorre seriamente domandarsi se davvero la totalità dei beni giuridici offesi da fatti delittuosi meritino e siano bisognevoli di questa forma di anticipazione di tutela così dilatata, raccomandabile (o non censurabile) in via di principio solo di fronte ad interessi di particolare dignità: si pone in altre parole la questione della legittimità di permanenza nel sistema di una fattispecie di associazione criminosa così monolitica ed onnicomprensiva come l’art. 416 c.p., applicabile nella sua formulazione letterale a qualsiasi tipologia delittuosa anche di tipo bagatellare (30). La mia risposta è fermamente negativa. Né avrebbe particolare pregio di obiezione la prevedibile, ed in sé fondata osservazione che la realtà empirico-criminosa e la prassi giudiziaria si incaricherebbero di sfrondare in concreto la fattispecie di associazione per delinquere dalle ramificazioni meno plausibili: a parte i pericoli sempre incombenti di uso improprio della fattispecie giusto sul piano processuale (31), non si vede perché, in prospettiva de lege ferenda, non debbano responsabilmente escludersi in partenza spazi applicativi dotati quanto meno di deteriore valenza simbolica. 3. Esaurita con esito sufficientemente positivo, salve le riserve in ultimo avanzate, la verifica di legittimità costituzionale dei reati di associazione criminosa in senso stretto in rapporto al primo livello di tipi(28) In altra sede ho suggerito a riguardo, coinvolgendo altresì l’analoga problematica dell’istigazione a delinquere, la formula della « anticipazione differenziata di tutela »: DE VERO, Tutela penale, cit., p. 257 e 219 ss. (29) Esclude che in rapporto alle varie ipotesi di associazione criminosa possa configurarsi una qualche specie di pericolo, ancorché astratto, rispetto ai beni inerenti ai reati programmati MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1992, p. 234. (30) Sottolinea da ultimo gli inconvenienti connessi alla portata generale della fattispecie di associazione per delinquere SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 11. (31) V. infra, n. 4.
— 395 — cità (32), occorre dar conto di un risalente eppure sempre attuale orientamento inteso a proporre un diverso strumento politico-legislativo di controllo penale della criminalità associata: la creazione di una corrispondente circostanza aggravante, speciale o addirittura comune, che acceda ai (ovvero al concorso nei) delitti-scopo, analogamente a quanto già avviene per le aggravanti speciali della compartecipazione criminosa di cui all’art. 112 c.p. nn. 1 e 2 (33). A ben vedere una tale risposta repressiva al fenomeno della criminalità organizzata non è del tutto estranea al vigente ordinamento penale: basti pensare che l’art. 295, secondo comma, lett. d) d.p.r. 23 gennaio 1973, n. 43, contenente il testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, prevede come circostanza aggravante dei delitti di contrabbando il fatto che il colpevole sia un associato per commettere tali delitti e che il delitto commesso sia tra quelli per cui l’associazione è stata costituita (34). Ciò che specificamente caratterizza l’orientamento in parola è piuttosto la prospettazione del carattere di alternatività di tale intervento legislativo rispetto alla configurazione del reato associativo, sul presupposto che la previsione dell’aggravante basterebbe ad esaurire il disvalore penale del fenomeno della criminalità organizzata contenendolo nei termini del maggiore allarme sociale suscitato dal delitto-scopo e della più spiccata pericolosità manifestata dall’autore. Questo indirizzo politico-criminale non può essere accettato. (32) Cfr. supra, n. 1. (33) « La creazione di una figura associativa di parte generale: un concorso qualificato dalla stabilità dell’organizzazione e del vincolo associativo, che... renderebbe oltremodo plausibile e legittima la più severa punizione di un fatto commesso in associazione » viene di recente auspicato da MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 1995, p. 42. Per riferimenti all’orientamento in questione v. anche, in posizione critica, DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 84 s. (34) È sufficiente in questa sede il rinvio a FLORA, voce Contrabbando doganale, in Dig. disc. pen., III, 1989, p. 132. L’aggravante in esame si segnala per un rigore sanzionatorio che appare straordinario anche per una circostanza autonoma, come tale deputata a dare ingresso ad una diversa specie di pena: qui alla multa si aggiunge una pena detentiva (la reclusione da tre a cinque anni) addirittura superiore nel minimo al livello edittale della partecipazione ad associazione per delinquere ex art. 416, secondo comma, c.p. Si pone poi un complesso problema di concorso apparente o reale di norme, rispetto alla fattispecie associativa generale ed ai vari ruoli in questa tipicizzati (FLORA, lc. cit.), che costituisce probabilmente la più consistente controindicazione sul piano politico-legislativo all’adozione cumulativa del modello del reato associativo autonomo e della associazione come circostanza aggravante dei delitti-scopo. Per le rilevanti questioni di coordinamento sistematico che in altro analogo ambito si pongono tra il delitto di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p. ed il delitto aggravato dall’uso del « metodo » o dalla finalità di agevolazione mafiosi ex art. 7, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, si rinvia a DE VERO, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in questa Rivista, 1997, p. 42 ss.
— 396 — È stato già osservato in dottrina come esso condurrebbe in particolare alla paradossale conseguenza di punire esclusivamente quegli associati che svolgono un ruolo minore all’interno del sodalizio criminoso, dal momento che i soggetti investiti delle più elevate funzioni di direzione e di organizzazione rimangono di solito estranei sotto il profilo rigorosamente causale e psicologico alla realizzazione di buona parte dei delittiscopo (35). Ma va più in generale ribadito che, una volta accertata la compatibilità del reato associativo con il principio di offensività e di proporzione, in rapporto a beni giuridici di rango elevato, non c’è motivo di astenersi dall’incriminare (almeno) le condotte di quanti costituiscono e/o mantengono in vita con apporto qualificato un sodalizio concretante l’esposizione a pericolo diffusa e permanente — anche se non di immediata evidenza in rapporto ad un determinato esemplare — di una pluralità di oggetti di tutela. Una cauta apertura rispetto alla prospettiva abolizionista del reato associativo, con eventuale favore nei confronti della corrispondente aggravante, può poi implicitamente cogliersi nella posizione di chi osserva che la funzione di protezione anticipata dei beni, ascrivibile alla fattispecie di associazione criminosa, risulta ridimensionata nei contesti processuali in cui è già disponibile la prova dei delitti-scopo, la repressione dei quali potrebbe allora assumere rilievo principale ed esclusivo di un’autonoma consistenza del reato associativo (36). In questa osservazione è agevolmente ravvisabile il limite proprio della tradizionale configurazione dell’anticipazione di tutela sottesa al reato associativo, nei termini ordinari di sussidiarietà, che ho sopra sottoposto a critica. La realizzazione o meno dei delitti-scopo, e quindi la maggiore o minore evidenza processuale degli stessi, non tocca invero in alcun modo la funzione di tutela dell’associazione per delinquere, che resta pur sempre dislocata su quel potenziale di pericolo diffuso che sopravvanza di continuo ogni parziale realizzazione del programma criminoso. Va anzi detto a questo punto a più chiare lettere, e senza timore di avvalorare in tal modo l’argomento qui criticato, che l’attualità di convergenza del reato associativo e dei reati-fine è da considerare tutt’altro che una mera eventualità. È al contrario poco realistico accreditare a livello empirico-criminoso una configurazione dell’associazione per delinquere quale fenomeno che la norma incriminatrice intende fissare, e di conseguenza il giudice debba perseguire, « prima » e « indipendentemente » dalla realizzazione dei delitti-scopo: lo stesso legislatore, nello attribuire alla fattispecie attraverso la clausola del « solo fatto dell’associazione » l’autonomia di significato offensivo più volte accennata, ha probabilmente inteso anch’egli (35) DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 84 s.; ID., Gli artt. 416, 416-bis, cit., p. 12. (36) FIANDACA, Criminalità, cit., p. 46 s.
— 397 — come più verosimile l’ipotesi di una realizzazione del programma delittuoso progressiva e parallela al radicarsi del sodalizio criminoso nel contesto sociale di riferimento (37). 4. È possibile a questo punto tirare le fila del discorso sviluppato sui reati associativi orientati, per ribadire il preliminare riferimento costituzionale, a « fini che sono vietati ai singoli dalla legge penale ». L’analisi condotta ha confermato l’impressione originaria, nel senso che il deficit di adeguatezza costituzionale — rispetto a quello che ho indicato come il primo livello di tipicità della categoria in esame, coinvolgente l’intero fatto associativo come tale — riguarda essenzialmente una scarsa sensibilità nei confronti del principio di frammentarietà della tutela penale. Una volta individuata la consistenza lesiva dell’associazione per delinquere sul piano di una peculiare e straordinaria protezione anticipata dei beni coinvolti dal programma criminoso, appare subito eccessiva l’attuale configurazione onnicomprensiva dell’art. 416 c.p., che non sembra poter essere giustificata neanche da più o meno recenti tentativi di riaccreditarne un’autonoma proiezione offensiva nei confronti di un ordine pubblico inteso in senso materiale (38). Sarebbe allora quanto mai opportuno de lege ferenda infrangere questo ingombrante monolito, sottoporne i frammenti ad attento vaglio selettivo e ricostruire infine distinte e limitate tipologie ritagliate sulla tutela (37) Da questo punto di vista va dunque sottolineato che la distinzione tra reati « meramente associativi » e « a struttura mista » (su cui infra, n. 4), caratterizzati gli uni dalla tipicizzazione esclusiva del « fatto » associativo di per sé e gli altri dalla inclusione nel modello legale di attività preparatorie e/o esecutive del programma criminoso, esprime soltanto distinte tecniche legislative di tutela, ma non pretende certo di riflettere una varietà di fenomeni empirico-criminosi. Su questo secondo piano, la realizzazione dei delitti-scopo non è mai agevolmente scindibile dal concreto quadro di vita del sodalizio; risulta allora plausibile sostenere l’opportunità de lege ferenda di una trasformazione dei reati meramente associativi e di una loro sostanziale assimilazione a quelli a struttura mista, allo scopo di riaffermare irrinunciabili esigenze di garanzia del cittadino che sembrano attualmente compromesse dalle ampie possibilità di intervento « inquisitorio » del potere giudiziario connesse con la scarna struttura tipica dei reati meramente associativi: cfr. SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 10 s. Per uno stimolante inquadramento dei delitti di criminalità organizzata nella problematica storico-dogmatica del potere di inchiesta del pubblico ministero cfr. di recente ORLANDI, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis?, in questa Rivista, 1996, p. 568 ss. (38) Per tutti, INSOLERA, Diritto penale, cit., p. 58 ss. Anche il c.d. Progetto 1992 (lo schema di disegno di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale predisposto da una commissione di giuristi di nomina ministeriale, in Doc. giust., 1992, c. 385 s. e 436) non rinuncia a prospettare un’ipotesi-base di associazione per delinquere onnicomprensiva, pur muovendo dall’identificazione dell’oggetto di tutela nella « sicurezza collettiva », di cui si sottolinea in particolare l’aspetto della sicurezza « fisica » della collettività: non si comprende tuttavia come tale (opportunamente) ristretto bene collettivo possa essere pregiudicato da associazioni che perseguono un qualsivoglia programma delittuoso.
— 398 — anticipata di beni di riferimento finale di particolare pregio, come già avviene a proposito dei delitti politici per il tramite degli artt. 305 e 306 c.p. (39). Per quegli interessi ritenuti non meritevoli del surplus di tutela apprestata attraverso la previsione del reato associativo, potrebbe poi riemergere l’opzione politico-legislativa della circostanza aggravante accessoria ai delitti-scopo, ove di questi si voglia comunque sottolineare il maggior disvalore oggettivo e soggettivo espresso dalla forma associata di realizzazione. Questa proposta, oltre ad essere conseguenziale alla ricostruzione del profilo offensivo dei reati di associazione criminosa in senso stretto, sembra presentare ulteriori vantaggi sul piano politico-legislativo. Si è visto sopra come l’essenziale requisito strutturale dell’organizzazione può ritenersi implicito nella stessa nozione di associazione; eppure è fuor di dubbio che sarebbe particolarmente auspicabile una sua esplicitazione da parte del legislatore in vista di un più avanzato grado di determinatezza della fattispecie. In questa prospettiva la costruzione di distinte (seppur limitate) figure di associazione criminosa è idonea a promuovere ulteriori progressi, poiché il riferimento a precise tipologie di delitti-scopo potrebbe invogliare il legislatore ad una descrizione differenziata dello stesso apparato organizzativo, coerente con precisi riferimenti di tipo empirico-criminoso (40). Per altro verso, si è già accennato alle tendenze ad un uso « improprio » sul piano processuale della contestazione del delitto ex art. 416 c.p. ravvisate nella prassi giudiziaria risalente, vuoi nel senso di precostituire « scorciatoie probatorie » rispetto ad un più problematico accertamento (39) Un interessante esempio di incriminazione selettiva di associazioni criminose si rinviene nella associazione per delinquere a danno del bilancio comunitario, prevista dall’art. 8 del Corpus Juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea: si tratta di un articolato, proposto da una commissione di giuristi dei paesi della Comunità Europea a conclusione di una ricerca dedicata allo « spazio giudiziario europeo » realizzata sotto gli auspici della Commissione europea, che dovrebbe costituire l’embrione di un futuro sistema penale sovrannazionale: v. a riguardo Verso uno spazio giudiziario europeo. Corpus juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, pref. di G. Grasso, 1997, p. 62 s. (40) Questa proposta, da me avanzata con le motivazioni riassunte nel testo già in varie occasioni (cfr., anche per l’esame dei rilievi critici di parte della dottrina, DE VERO, Tutela penale, cit., p. 275 ss.; ID., Tutela dell’ordine pubblico, cit., p. 111 ss.; ID., Ordine pubblico, cit., p. 95 s.) e sulla quale converge da ultimo SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 11, non dovrebbe suscitare eccessive preoccupazioni in ordine a difficoltà di persecuzione giudiziale connesse con la necessità di accertare di volta in volta il tipo di reato oggetto del programma criminoso (così PAGLIARO, Relazione di sintesi, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, 1993, p. 518): non bisogna invero perdere di vista che un’associazione con programma genericamente delittuoso resterebbe comunque presente nel nostro sistema penale, in rapporto alla prima delle finalità tipiche dell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.
— 399 — dei delitti-scopo (41), vuoi « al solo fine, accortamente dissimulato, di consentire talune indagini (come le intercettazioni telefoniche), altrimenti inammissibili » (42). Se a ciò si aggiungono le condivisibili perplessità suscitate di recente e di contro dalla mancata contestazione dell’addebito di associazione per delinquere in contesti processuali in cui tale iniziativa appariva doverosa seppur foriera di devastanti riflessi sul tessuto politico-sociale (43), risulta chiaro che neanche a livello di plausibilità processuale la rinuncia al « contenitore » dell’art. 416 c.p. dovrebbe suscitare eccessivi rimpianti. 5. A questo punto occorre spostare il fuoco dell’indagine sulla variegata costellazione di reati associativi che, almeno ictu oculi, prescindono da una qualificazione delittuosa dei fini perseguiti dagli associati. Per queste fattispecie la preliminare verifica di legittimità costituzionale, riguardante la libertà di associazione, si presenta come più complessa e problematica rispetto alla sottospecie fin qui esaminata delle associazioni criminose in senso stretto. Decisiva in proposito è la possibilità di ricondurre le figure legali ai tassativi divieti contenuti nella seconda parte dell’art. 18 o nella dodicesima disposizione finale della carta costituzionale; ma non va esclusa l’eventualità di un ulteriore ricorso all’art. 18, primo comma, Cost., ove un’attenta operazione ermeneutica conduca a ravvisare una sostanza intrinsecamente criminosa del programma associativo al di là della squama del linguaggio legislativo. I reati associativi con finalità non (di immediata evidenza) criminosa sono tutti caratterizzati da quella più ricca articolazione del momento progettuale, talora accompagnata dalla tipizzazione di specifiche modalità organizzative e/o di comportamenti materiali distinti dalle mere condotte associative, cui si faceva cenno in apertura in contrapposizione ai modelli incentrati invece su di una struttura associativa neutra orientata verso un’unica ed elementare finalità. Conviene allora impostare la ricognizione sistematica delle fattispecie ora in discorso secondo uno schema ragionato, che dia conto del progressivo emergere di questi più complessi connotati di tipicità, in vista dei (41) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, 2a ed., 1997, p. 32 nt. 2. (42) D. SIRACUSANO, Relazione introduttiva, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, 1995, p.15. (43) Alludo alla serie di procedimenti per diffusi fatti di corruzione politico-amministrativa (inchieste c.d. di « mani pulite » o di « tangentopoli »), laddove l’eventuale contestazione agli imputati (anche) dell’associazione per delinquere avrebbe comportato — come perspicuamente osservato da C.F. GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, in questa Rivista, 1996, p. 422 — il rischio « di innescare meccanismi di criminalizzazione in sé dei partiti politici e di loro identificazione con le associazioni di malfattori, con contraccolpi gravissimi sulla immagine e sulla conseguente tenuta delle istituzioni ».
— 400 — quali si è affermata in dottrina la formula definitoria dei reati associativi a struttura mista (44). Alla base di questa scala si colloca un reato associativo che presenta profili di equivocità in ordine alla sua ascrizione alle due fondamentali sottospecie qui delineate: alludo alla « organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi », incriminati ai sensi dell’art. 3 terzo comma, l. 13 ottobre 1975, n. 654 (45). Da un lato sembrerebbe potervisi ravvisare una autentica associazione criminosa, riferibile all’art. 18 primo comma, Cost., per il fatto che le lett. a) e b) dello stesso art. 3, primo comma, puniscono già a livello individuale l’incitare a commettere, rispettivamente, atti di discriminazione e di violenza per i medesimi motivi. Ma dall’altro lato non può trascurarsi di osservare come, nel trapasso dalla dimensione del « singolo » a quella dell’associazione, la condotta di incitamento — che già di per sé esprime un sensibile grado di protezione anticipata — perde la concretezza del riferimento ad atti che stiano per essere commessi: si affaccia allora il sospetto che il punto di sbocco di questo doppio finalismo (scopo di incitare alla discriminazione o alla violenza) sia in definitiva, piuttosto che la commissione di autentici delitti, la diffusione di contenuti di pensiero certamente incompatibili con i valori fondamentali del nostro ordinamento, ma che non per questo possono giustificare a livello costituzionale l’incriminazione delle associazioni rivolte a diffonderli (46). Senza dire che, anche a voler insistere nella configurazione di tale figura legale quale autentica associazione per delinquere, susciterebbe comunque perplessità l’incriminazione dei semplici movimenti o gruppi, per definizione alieni da quell’apparato organizzativo stabile che dovrebbe costituire il requisito minimo di tipicità anche del reato di associazione strettamente criminosa. I primi segni di una « struttura mista », comprensiva cioè di comportamenti materiali che si aggiungono alle condotte propriamente associative, si colgono invece in una fattispecie che sarebbe stata comunque esente da dubbi di legittimità costituzionale, almeno sotto il profilo dei limiti della libertà di associazione: la riorganizzazione del disciolto partito fascista prevista e punita dagli artt. 1 e 2, l. 20 giugno 1952, n. 645 in at(44) Per tutti, SPAGNOLO, Reati associativi, cit. p. 2. (45) L’art. 3, l. 13 ottobre 1975, n. 654 è stato di recente sostituito ad opera dell’art. 1, primo comma, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni dalla l. 25 giugno 1993, n. 205: v. in proposito l’approfondito commento di DE FRANCESCO G.A., in Legisl. pen., 1994, p. 174 ss. (46) Coglie le peculiarità di struttura del reato associativo in esame rispetto al modello generale dell’art. 416 c.p., sia pure nell’ambito di un diverso contesto argomentativo e valutativo, DE FRANCESCO G.A., op. ult. cit., specie p. 181 e 189.
— 401 — tuazione della XII disposizione finale della costituzione (47). Il perseguimento delle finalità antidemocratiche del disciolto partito fascista viene precisato e corredato da un insieme di comportamenti attuali, la gran parte dei quali si risolvono inevitabilmente in manifestazioni, sia pure « dinamiche », di pensiero, ma a cui non sono estranee condotte portatrici di un autentico disvalore di evento quali la minaccia o addirittura l’uso della violenza come metodo di lotta politica (48). Un’analoga commendevole sensibilità, rispetto all’esigenza di adeguata tipizzazione dei profili strutturali ed organizzativi del sodalizio incriminato, il legislatore ha dimostrato nei confronti dell’associazione di carattere militare perseguente anche indirettamente fini politici, punita dall’art. 1 d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 43, in stretto collegamento con l’art. 18 cpv., Cost. Il riferimento finale e riassuntivo al fatto che l’organizzazione debba essere « atta anche all’impiego collettivo in azioni di violenza o di minaccia » sottolinea la pericolosità espressa dal sodalizio nei confronti di beni giuridici nello stesso tempo « comuni » e di pregio elevato; mentre già la sottolineatura dei vari aspetti dell’organizzazione militare, di indubbia rilevanza esteriore, poteva bastare a radicare un attuale contenuto offensivo della fattispecie nei confronti della tranquillità pubblica (49). A questo punto è d’obbligo spostarsi a considerare i delitti politici di associazione previsti nel codice penale, la cui legittimità non è altrettanto evidente quanto quella dei reati in ultimo esaminati, che godono di una esplicita « copertura » a livello costituzionale. Si tratta essenzialmente delle figure di associazione sovversiva e terroristico-eversiva, previste rispettivamente dagli artt. 270 e 270-bis c.p. (50), dal momento che le distinte ipotesi di cui agli artt. 305 e 306 c.p. hanno trovato posto, nell’in(47) V. in proposito, anche per ulteriori riferimenti, MANNA, voce Fascismo (sanzioni contro il), in Dig. disc. pen., V, 1991, p. 142 ss. (48) Esprime riserve sull’opportunità di inserimento di tali condotte nel reato di associazione fascista, nel quadro di una più generale critica del ricorso alla tecnica della struttura mista in rapporto a sodalizi che perseguono finalità associative intrinsecamente criminose DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris, p. 85 ss. e 89. (49) È in rapporto a questo bene collettivo « sociale », piuttosto che a quello squisitamente « politico » dell’esclusiva pertinenza allo Stato dei poteri di coazione, che mi sembra vada apprezzata la « plurioffensività » del reato di associazione politico-militare, al di là del primario pregiudizio incidente sul metodo democratico e pacifico di azione politica (cfr. a riguardo, anche per richiami alla dottrina costituzionalistica, DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris, cit. p. 96): l’esistenza di corpi e reparti organizzati in guisa militare e dotati addirittura, come si esprime l’art. 1, terzo comma, d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 3, « di gradi o di uniformi » può interessare il diritto penale, ancora una volta, non già per il significato « ideale » di usurpazione del monopolio statuale della forza, ma per il turbamento « materiale » che ne risulta a carico della tranquillità dei cittadini. (50) Per una aggiornata ricognizione della vasta letteratura in argomento si rinvia a Codice penale, cit., p. 1061 e 1075.
— 402 — quadramento sistematico qui prescelto, nella prima sottospecie di reati associativi presa in esame. L’associazione sovversiva, contenuta già nell’impianto originario del codice, può considerarsi in un certo senso speculare all’associazione di tipo fascista, tanto nei presupposti di dichiarata valenza ideologica quanto nella conseguente tecnica di tipizzazione. Il perseguimento delle finalità politiche vietate si estrinseca anche qui soprattutto in attività di propaganda e di proselitismo fautrici di un determinato assetto politico, eppure non può escludersi un margine di rilevanza della fattispecie in cui trovi posto una sorta di programma criminoso « intermedio » e « comune », orientato al compimento di atti di violenza anticipatori dell’evento « finale » dell’instaurazione violenta della dittatura o della soppressione violenta di una classe sociale. Ciò comporta, da un lato, la sicura illegittimità costituzionale di gran parte dell’ambito di estensione della fattispecie — in assenza della « copertura » rappresentata da un esplicito divieto costituzionale — e dall’altro lato che il residuo margine di legittima valenza è ormai sostanzialmente occupato dalla più matura formulazione legislativa ravvisabile nell’art. 270-bis c.p. Nell’ambito dell’associazione terroristicoeversiva assume invero evidenza piena quel programma strumentale di azione che, se ha consistenza provvisoria ed « imperfetta » rispetto all’ambizioso obiettivo eversivo pure tipicizzato, svolge un’essenziale funzione legittimatrice rispetto ad un reato associativo non immediatamente riferibile all’art. 18 cpv. Cost.: il proposito comune di compiere atti di violenza scolpisce nella sostanza, pur al di fuori di formali qualificazioni giuridicopenali, un autentico programma criminoso, idoneo ad attribuire alla fattispecie i connotati di una particolare associazione per delinquere politicamente qualificata ed a porla dunque definitivamente al riparo da dubbi di legittimità costituzionale. Il decisivo passo verso la configurazione di reati associativi a struttura mista è stato compiuto nel nostro sistema penale mediante l’introduzione dell’associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p. Secondo l’orientamento ermeneutico che può allo stato considerarsi probabilmente prevalente — e che è stato in varie sedi sostenuto con piena convinzione da chi scrive (51) — il requisito dello avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo non va risolto in un programma delittuoso intermedio, regredendosi così al livello sistematico su cui già si attesta l’art. 270-bis c.p.; in esso va letta piuttosto la necessità di riscontrare una serie ripetuta di attuali fatti di minaccia e di violenza personale e reale, il cui ventaglio di estrinsecazione sembra purtroppo destinato ad arricchirsi (51) Sia consentito rinviare, anche per i necessari ulteriori richiami, a DE VERO, Tutela penale, cit., p. 286 ss.; ID., Tutela dell’ordine pubblico, cit., p. 115; ID., Ordine pubblico, cit., p. 80 s.
— 403 — continuamente di inedite varianti sul piano empirico-criminoso (52). In questo quadro il sodalizio mafioso si presenta non tanto come una associazione per delinquere, ma addirittura come un’associazione che delinque: il deficit di legittimità ascrivibile alla natura non intrinsecamente criminosa della gran parte delle finalità associative tipicizzate nell’art. 416bis c.p. risulta dunque abbondantemente compensato da una dimensione di materialità ed offensività quanto mai corposa. Il culmine del processo di « materializzazione » dei reati associativi viene raggiunto nel nostro ordinamento penale con l’incriminazione delle associazioni segrete ai sensi degli artt. 1 e 2, l. 25 gennaio 1982, n. 17 (53). Anche qui la struttura della fattispecie si articola, da un lato, su requisiti attinenti al metodo organizzativo e, dall’altro lato, su di una dimensione almeno apparentemente finalistica. Senonché, a ben guardare, il momento progettuale non ha qui quasi alcuna valenza prospettica, risolvendosi a sua volta pressoché totalmente in una dimensione materiale: a differenza dell’associazione di tipo mafioso, l’attualità di comportamenti non riguarda soltanto il « metodo », ma investe gli stessi obiettivi di fondo delle associazioni segrete, dal momento che le stesse vengono in definitiva incriminate in quanto « svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale ». Chiaramente questo potenziamento della consistenza materiale dell’illecito associativo si traduce in un corrispondente arricchimento della sua proiezione lesiva. L’associazione segreta non offende solo il pur rilevante interesse pubblico alla trasparenza di identità, finalità ed attività dei componenti di qualsiasi sodalizio, interesse il cui soddisfacimento può a buon diritto considerarsi come una sorta di corrispettivo minimo dovuto dai soci ad una comunità statuale che riconosce e promuove la libertà di associazione in termini probabilmente ineguagliati in ordinamenti altrettanto liberaldemocratici; l’associazione segreta si configura altresì come un ente che pregiudica con comportamenti concreti i fondamentali beni pubblici della libertà di esercizio delle funzioni costituzionali e dell’imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione. Conviene allora una volta tanto plaudire all’intervento legislativo in materia del 1982. Resistendo alla tentazione di far coincidere per intero (52) Basti pensare ai gravissimi attentati a beni artistici e culturali verificatisi alcuni anni fa, che, secondo accreditate ipotesi investigative, andrebbero letti come manifestazione di una inaudita pressione intimidatoria della criminalità organizzata direttamente rivolta contro le istituzioni statuali. (53) Cfr., per un limpido inquadramento della fattispecie nel sistema dei reati associativi e per i necessari riferimenti bibliografici, DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris, cit., p. 88 s. e 92 ss.
— 404 — l’area dell’illecito penale con la generica indicazione di « segretezza » che sostanzia il divieto costituzionale (54), il legislatore ha dato prova « sul campo » di una precisa anche se purtroppo non frequente sensibilità nei confronti dei principi specificamente penalistici di materialità, offensività e frammentarietà; ed ha con ciò configurato un modello di reato associativo che può tornare utile de lege ferenda in ordine ad altre figure legali, il cui consolidamento nel sistema possa considerarsi come non ancora definitivo. 6. Quest’ultima osservazione porta dritto a riprendere in considerazione la fattispecie associativa rispetto alla quale, e più che per ogni altra, può dirsi sempre aperto il dibattito intorno a pretesi limiti ed insufficienze di formulazione e comunque intorno alle prospettive di ulteriore evoluzione normativa, che siano meglio rispondenti alle esigenze repressive segnalate dalla realtà empirico-criminosa: l’associazione di tipo mafioso. Ho sopra accennato all’opportunità di risolvere sul piano interpretativo il « metodo » mafioso nella commissione ripetuta di atti criminosi di varia natura, purché accomunati dal fatto di essere, rispettivamente, « presentati » dagli esponenti del sodalizio e « vissuti » da chi ne patisce le conseguenze come espressione di una forza di intimidazione protervamente rivolta nei confronti della collettività. Questa posizione dovrebbe rassicurare quanti hanno talora ravvisato nella formula legislativa vaghe connotazioni sociologiche atte a compromettere l’irrinunciabile profilo di determinatezza della fattispecie penale (55): la realtà empirico-criminosa evocata con sufficiente chiarezza dall’art. 416-bis, terzo comma c.p., è a ben vedere tanto poco contingente e sfuggente da rivendicare addirittura un’inopinata ascendenza « classica » nel razionale nitore giusnaturalistico del Programma carrariano, laddove trova un plausibile aggancio nel delitto di violenza pubblica (56); mentre il riferimento alla forza di intimidazione del vincolo associativo è tanto poco inedito nel linguaggio giuridico(54) Osserva « come il divieto di segretezza costituzionalmente rilevante non implichi, in linea generale, la necessità ...che l’ordinamento debba reagire comunque con una risposta di carattere penale » DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris, cit., p. 92 s. (55) Queste preoccupazioni sono affiorate soprattutto nei primi anni di vigenza della nuova disposizione incriminatrice: v., tra gli altri, MUSCO, Luci ed ombre della legge « Rognoni-La Torre », in MUSCO-BERTONI-GERACI, La legislazione antimafia al vaglio dell’esperienza, in Legisl. pen., 1986, p. 558; ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, p. 427 s., che denuncia il difetto di determinatezza dell’art. 416-bis terzo comma c.p., con particolare riguardo alle finalità perseguite dall’associazione. (56) Questa fattispecie, annoverata tra i delitti contro la pubblica tranquillità, viene ravvisata in « una serie di atti esteriori assunti al fine d’imporre mediante intimidazione la volontà propria ad un numero indefinito di cittadini o ad un rappresentante della pubblica autorità, e capace di produrre simile effetto »: CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, VI, 10a ed., 1926, p. 200: l’attualità di tale formulazione appare davvero impressionante se raffrontata con quanto osservato supra, n. 5 e nt. 52.
— 405 — penale da trovare un puntuale e significativo precedente già nell’art. 339, primo comma, c.p., in tema di circostanze aggravanti dei delitti di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale. Beninteso, la preoccupazione che l’attuale formulazione della fattispecie possa convenientemente adattarsi solo alla mafia « classica », caratterizzata da una precisa e limitata dislocazione territoriale, non lascia indifferenti: in particolare può condividersi il dubbio che il complesso paradigma definitorio di cui all’art. 416-bis, terzo comma, c.p., si attagli in particolare ai sodalizi che già dispongano di una forza intimidatrice preesistente e consolidata, con tendenziale esclusione di quelli che inaugurano prassi di uso sistematico della violenza fisica e morale di nuovo conio nel contesto sociale di riferimento (57). Senonché proprio tale osservazione dovrebbe ulteriormente corroborare l’opzione ermeneutica, sopra ribadita, in favore della necessità della pratica attuale e seriale dell’intimidazione: se si valorizza in questi termini il metodo mafioso, passa chiaramente in secondo piano, se addirittura non fuoriesce dall’orizzonte della fattispecie, la circostanza che l’associazione sia dotata o meno di un patrimonio di « fama » intimidatrice acquisito attraverso comportamenti pregressi. È d’altra parte certamente innegabile l’opportunità de lege ferenda di procedere a taluni ritocchi dell’art. 416-bis, terzo comma, c.p. A riguardo non ho motivo di discostarmi da quanto già proposto in altra sede, nel senso, per un verso, di sfrondare l’attuale definizione normativa del sodalizio mafioso del più datato profilo della condizione di assoggettamento e di omertà e, per altro verso, di inserire nella figura legale un più esplicito ed univoco riferimento all’uso concreto ed attuale della forza di intimidazione (58). Un ultimo ordine di considerazioni, mirato sulla questione sempre dibattuta della precisa dimensione offensiva del reato associativo in parola (59). In presenza di innegabili margini di legittima oscillazione interpretativa, avevo anni fa espresso l’avviso che dovesse privilegiarsi un dimensionamento di tipo « comune » dell’associazione mafiosa, vista come sodalizio che offende la tranquillità e la libertà morale di un numero indeterminato, ma pur sempre territorialmente circoscrivibile di consociati; ed in tal senso la fattispecie rappresenta una delle pochissime tipologie criminose rispetto alle quali si giustifica la configurazione dell’ordine pubblico materiale come oggetto specifico di tutela penale. L’opposta tendenza ad enfatizzare la c.d. « valenza politica » delle associazioni mafiose, come contro(57) Cfr. FIANDACA, Criminalità, cit., p. 60 s. (58) Cfr. DE VERO, Tutela dell’ordine pubblico, cit., p. 116. (59) Cfr., di recente, l’approfondita disamina di TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, 1995, p. 265 ss.
— 406 — potere che minaccia direttamente le istituzioni statuali, e a valorizzare come ulteriori beni offesi l’ordine economico e il buon andamento della pubblica amministrazione, mi sembrava destinata a suscitare aspettative repressive così ambiziose da dover necessariamente sfociare, da un lato, in un accentramento di funzioni all’interno dell’ufficio del pubblico ministero, e dall’altro lato in un regime processuale differenziato rispetto al modello accusatorio di fresca introduzione nel nostro ordinamento (60). È quanto si è puntualmente verificato, tanto in sede legislativa quanto negli orientamenti della Corte costituzionale, in coincidenza con una inaudita recrudescenza delle manifestazioni della criminalità mafiosa (61). Se dunque l’esigenza di perseguire la criminalità mafiosa ad ogni livello, nelle sue interconnessioni ed influenze dirette sul tessuto istituzionale e politico-amministrativo, può dirsi acquisita all’odierno milieu politico-legislativo e politico-giudiziario, resta da verificare se non occorra adeguare la formulazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., al di là delle finalità associative « elettorali » di recente introduzione (62), in modo da fugare ogni dubbio circa la consistenza e la trasparenza di tale scelta sul piano del principio di legalità. Ritengo opportuno che si imbocchi tale strada, costruendo una nuova fattispecie associativa mafiosa, in aggiunta a quella che, già presente nel nostro ordinamento, può restare destinata a presidio dei beni della tranquillità pubblica e della libertà morale dei consociati. La ricognizione sistematica già compiuta sull’insieme dei reati associativi consente di suggerire un paradigma normativo che appare particolarmente adatto a scolpire i connotati della mafia cosiddetta « politica » in termini di piena determinatezza e indiscutibile « materialità ». Si tratta semplicemente di coniugare con il « metodo » mafioso quelle attività di interferenza a livello istituzionale e politico-amministrativo che già gli artt. 1 e 2. l. 25 gennaio 1982, n. 17 abbinano al « metodo » della segretezza, promuovendo, come sopra visto, il massimo grado di maturazione del reato associativo a struttura mista. Connesse con ogni probabilità già sul piano empirico-crimi(60) Sia ancora consentito il rinvio a DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, cit., p. 113 s. (61) Alludo chiaramente alla nuova fase di legislazione di emergenza, e a talune importanti sentenze in materia processualpenale della Corte costituzionale, che hanno caratterizzato lo scorcio del 1991 e buona parte del 1992: per una considerazione articolata e completa del quadro normativo risultatone è molto utile la lettura di AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, 1993. (62) Il « fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali » è stato inserito nel disposto dell’art.416-bis, terzo comma, c.p., ad opera dell’art. 11-bis, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dall’art. 1, primo comma, l. 7 agosto 1992, n. 356: v., in proposito, il commento di DE FRANCESCO G.A., in Legisl. pen., 1993, p. 122 ss.
— 407 — noso (63), le associazioni segrete e le associazioni mafiose politicamente caratterizzate sarebbero così accomunate sul piano normativo nella tecnica repressiva e nel quadro dei riferimenti costituzionali. Le seconde, in particolare, godrebbero del singolare « privilegio », meritevole di essere sanzionato con i più rigorosi livelli di pena edittale, di riassumere la totalità dei momenti di disvalore segnalati dall’art. 18 Cost. in rapporto al fenomeno associativo: associazioni che non soltanto delinquono, ma che attraverso la pratica seriale del delitto devastano il tessuto istituzionale, politico e sociale, rischiando di rendere sostanzialmente inagibile il quadro dei rapporti civili, economici e politici tra i cittadini complessivamente delineato dal costituente. 7. Giunti a questo punto, si rende necessario procedere alla seconda verifica di corrispondenza ai principi penali di rilevanza costituzionale della tecnica di tutela propria del reato associativo, esaminando più da presso le condotte individuali in cui esso si articola. L’impegno, spesso sofferto, di legittimare sotto i vari profili passati in rassegna l’incriminazione dell’in sé dell’associazione non deve far perdere di vista che essa rappresenta soltanto una sorta di evento nell’economia della corrispondente fattispecie — talora dislocato su grandezze di scala estranee o almeno non familiari ad un diritto penale « classico » — evento rispetto al quale l’idoneità delle condotte tipizzate a fungere da plausibili canali di imputazione alla persona è tutt’altro che scontata. Questa riflessione aiuta subito ad orientarsi nella giusta direzione in una questione preliminare all’approfondimento dei connotati delle varie condotte afferenti al sodalizio: stabilire se il perfezionamento della compagine associativa costituisca coefficiente necessario e costante di rilevanza penale delle singole tipologie ovvero se talune condotte risultino incriminate anche in assenza di tale presupposto, configurando così altrettante forme di consumazione anticipata (64). Questo profilo interferisce, anche se non si sovrappone, con altro spunto squisitamente dogmatico attinente alla natura giuridica del reato associativo, se cioè esso costituisca un’unica fattispecie plurisoggettiva necessaria ovvero si scinda in altrettante fattispecie (monosoggettive, e secondo un certo orientamento addirittura in rapporto di reato semplice e circostanziato) quante sono le condotte tipicizzate (65). Ora, l’argomento decisivo in favore dell’esclusione di varianti all’in(63) Sui rapporti fra associazionismo mafioso e associazionismo segreto si rinvia alle condivisibili osservazioni di TURONE, Il delitto, cit., p. 278 ss. (64) Cfr., con diversità di soluzioni, DE FRANCESCO G.A., Associazione, cit., p. 298; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, 5a ed., 1997, p. 81 ss.; TURONE, Il delitto, cit., p. 309 ss. (65) Cfr., anche per ulteriori richiami di dottrina e giurisprudenza, DE FRANCESCO
— 408 — segna della consumazione anticipata sta nell’evidente opportunità di non disperdere il patrimonio di legittimazione del reato associativo così faticosamente acquisito nella prima fase dell’indagine in rapporto al fatto dell’associazione: in modo più evidente nei reati di associazione per delinquere — laddove l’opposta opinione avallerebbe in sostanza una doppia e consecutiva anticipazione di tutela — ma in maniera non meno significativa nell’altra sottospecie di reati associativi, si finirebbe per rendere quanto mai evanescente la pregnanza offensiva della condotta individuale, se la si privasse dell’essenziale collegamento con il disvalore di evento caratteristico del reato associativo. Se poi si pensa che la tesi criticata è stata in particolare sostenuta in rapporto alla condotta di « promozione » (66), punita altrettanto o più gravemente di altre, del cui necessario raccordo con un sodalizio effettivamente esistente non si dubita, risulta ancora più chiara la necessità di considerare quest’ultimo come nucleo essenziale comune di tutte le condotte associative (67). Con riferimento alla seconda questione, va per gli stessi motivi preferita la tesi della natura plurisoggettiva unitaria del reato associativo, sia pure con distinte cornici edittali per i vari coautori: pur non essendo rilevabile una corrispondenza biunivoca tra le soluzioni rappresentate in dottrina in rapporto alle due problematiche (68), è chiaro come la tesi delle distinte fattispecie monosoggettive possa invogliare più dell’altra a ravvisare, tra le varie articolazioni del reato associativo, differenze strutturali così marcate come quella sopra respinta. 7.1. La struttura del reato associativo va dunque definitivamente puntualizzata nei termini di un’unitaria fattispecie plurisoggettiva, che si articola in una pluralità di condotte dotate di efficienza causale variamente connotata rispetto al prodursi del Gesamterfolg del sodalizio criminale. Quel che occorre infine stabilire è se tutte le condotte individuali tipizzate adempiano il canone di sufficiente determinatezza e se soprattutto riflettano un significativo ed empiricamente verificabile contributo personale dei soggetti coinvolti, di modo che il fatto dell’esistenza e del rafforzamento dell’associazione possa realmente considerarsi proprio di ciascuno di essi, sia pure ai diversi livelli segnalati dalle distinte cornici edittali di pena. G.A., Gli artt. 416, 416-bis, cit., p. 39 s.; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 88 ss.; TURONE, Il delitto, cit., p. 289 ss. (66) SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 83. (67) In questi termini DE FRANCESCO G.A., Gli artt. 416, 416-bis, cit., p. 26. Nello stesso senso, TURONE, Il delitto, cit., p. 310. (68) SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 83 e 90 s., afferma, da un lato, la natura di reato a consumazione anticipata dell’attività di promozione di associazione di tipo mafioso e ribadisce, dall’altro lato, il carattere plurisoggettivo unitario dell’intero reato associativo « con sanzioni diverse rigidamente prefissate a seconda dei ruoli svolti dai singoli soggetti durante la vita dell’associazione ».
— 409 — Non dovrebbero nutrirsi in proposito dubbi consistenti con riguardo alle condotte cosiddette qualificate. La promozione, costituzione, organizzazione, talora il finanziamento (69) e la direzione dell’associazione individuano altrettanti ruoli definiti e per lo più altamente pregnanti all’interno del fenomeno associativo: si tratta di condotte i cui profili concettuali e corrispondenti referenti empirici sono agevolmente descrivibili, come dimostra l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, alla quale può in questa sede essere fatto integrale rinvio (70). Conviene forse solo osservare come le condotte più propriamente concernenti la fase genetica del sodalizio, quali la costituzione e la promozione, siano probabilmente destinate ad essere emarginate a fronte di un indirizzo interpretativo che sempre più consapevolmente pone al centro della fattispecie — e non solo nei reati a struttura mista — l’esistenza di una consolidata compagine organizzata, la cui origine puntuale e connesse responsabilità inevitabilmente sfumano al cospetto della pienezza di maturità operativa espressa in atto dall’associazione. In questa prospettiva (71) sembrano destinate ad acquisire più realistica evidenza da un lato le condotte degli organizzatori, capi e dirigenti, dall’altro quelle dei semplici partecipi. Ora, è proprio la condotta di partecipazione ad esporsi ai dubbi di sufficiente determinatezza e di adeguatezza del contributo arrecato dal socio all’evento lesivo in termini di personalità della responsabilità penale, al punto che non sono mancate prese di posizione intese a raccomandarne de lege ferenda l’espunzione dal novero delle condotte associative penalmente rilevanti (72). Tale drastica soluzione godrebbe in via di principio di validissime indicazioni. Sarebbe invero un significativo tributo al principio di frammentarietà quello di riservare l’incriminazione alle sole condotte qualificate, che sono dotate di indubbio ed assorbente significato lesivo all’interno del reato associativo. L’abrogazione dell’incriminazione della semplice partecipazione determinerebbe poi, con particolare riferimento all’art. 416-bis c.p., il recupero di una netta e sicura dimensione delle misure di preven(69) Questa modalità di condotta tipica è prevista in particolare a proposito dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, ai sensi dell’art. 74, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. (70) Per i necessari riferimenti v., con particolare riguardo all’associazione mafiosa, SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 79 ss.; TURONE, Il delitto, cit., p. 289 ss.; in una più ampia prospettiva sistematica, DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris, cit., p. 137 ss. (71) Che lo stesso legislatore ha in un certo senso inaugurato, nel momento in cui ha omesso di tipicizzare, all’interno dell’associazione mafiosa, la condotta di « costituzione ». Sulla nuova dimensione dell’art. 416-bis c.p., rispetto ai tradizionali reati associativi, che privilegia il momento dinamico del fenomeno a scapito della fase genetica, cfr. TURONE, Il delitto, cit., p. 290 ss. (72) Cfr., per i relativi riferimenti, DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 79, nt. 46 e p. 140 ss.
— 410 — zione: l’appartenenza al sodalizio mafioso, ricondotta esclusivamente all’ambito della fattispecie soggettiva di pericolosità ex art. 1, l. 31 maggio 1965, n. 575, si sottrarrebbe a quella duplicazione di qualificazioni ed al conseguente doppio regime di accertamento su cui da sempre si appuntano riserve e perplessità (73). Senonché non bisogna perdere di vista che una delle caratteristiche sicuramente deteriori del nostro sistema penale è data dal carattere solo apparentemente definitivo delle scelte di criminalizzazione effettuate dal legislatore nelle norme incriminatrici di base: per quanto meditate e sofferte queste possano essere state, si incaricano poi le norme generali sulla compartecipazione criminosa di scompaginarle, con la loro incontenibile pretesa di rifornire condotte originariamente ritenute penalmente irrilevanti di una spesso discutibile tipicità di risulta. In altre parole: conviene, in sede politico-legislativa, rinunciare a fissare sul piano della norma incriminatrice di parte speciale i possibili connotati di accettabile tipicità della condotta di semplice partecipazione, se il rischio è di fornire in tal modo ulteriore alimento agli appetiti del concorso di persone, che sembrano non arrestarsi neanche al cospetto del reato associativo (74)? Certo, non si farebbero comunque passi in avanti apprezzabili, se si dovesse aderire all’orientamento, talora emerso specie in giurisprudenza, secondo cui la partecipazione « interna » al reato associativo potrebbe risolversi anche in una mera adesione psicologica, ovvero in una pura affectio societatis manifestata dal partecipe e recepita come tale dai membri del sodalizio, ma che non si estrinsecherebbe (nell’assunzione e) nell’effettivo esercizio di un ruolo rilevante nell’economia dell’apparato organizzativo (75). Discende per contro direttamente dalla caratterizzazione prima valorizzata della struttura dell’associazione, che non può riconoscersi la qualità di partecipe se non a chi, oltreché impegnarsi (76), abbia poi svolto materialmente un’attività continuativa in vario modo funzionale alle esigenze di conservazione e di sviluppo del sodalizio (77), anche se non necessariamente attinente di per sé alla esecuzione dei delitti-scopo ovvero agli altri profili comportamentali che definiscono la fisionomia dei reati associativi a struttura mista. Una volta ribaditi questi irrinunciabili (73) Per tutti, FIANDACA, voce Misure di prevenzione, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, p. 121 s. (74) In proposito v. infra, n. 8. (75) Riferimenti ed approfondimenti in DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 140 ss.; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 85 ss.; TURONE, Il delitto, cit., p. 300 ss. (76) Questa sembra essere la soglia minima sufficiente di rilevanza della partecipazione per DE FRANCESCO G.A., Societas, cit., p. 148; SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 86; TURONE, Il delitto, cit., p. 301 ss. (77) « Correttamente intesa, la condotta di partecipazione implica la realizzazione di attività materiali, di ordine esecutivo, finalizzata alla sopravvivenza dell’associazione e/o al perseguimento degli scopi sociali »: così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 36.
— 411 — connotati di determinatezza e materialità della condotta di partecipazione, può anche concordarsi nella rivendicazione della affectio societatis come ulteriore, ma mai esclusivo requisito di tipicità. 8. Non rientra nell’economia di questa indagine una trattazione diretta della problematica del concorso c.d. esterno nel reato associativo (78), per la quale è stata opportunamente programmata una distinta relazione. Eppure, giunto alla fine delle presenti riflessioni, tutte intese a verificare la compatibilità del reato associativo con i fondamenti costituzionali del sistema penale, mi sembrerebbe singolare astenermi da alcune considerazioni su di un aspetto che forse più di ogni altro chiama in causa — in maniera oserei dire urticante — il principio di legalità, nella sua essenziale e riassuntiva funzione di sicuro discrimine, ad uso del cittadino, tra ciò che è o meno penalmente illecito. Sotto questo profilo colpisce, in particolare, come nei riferimenti ormai consueti di dottrina e giurisprudenza ai possibili ambiti di rilevanza di un concorso esterno, comprensivi dell’esercizio di attività professionali, economico-imprenditoriali e di rappresentanza politica, residui spesso un margine di ambiguità circa la qualificazione intrinseca del contributo in questione, se cioè si tratti, al di là della ipotizzata influenza agevolatrice, di comportamenti di per sé illeciti ovvero costituenti autentico esercizio della legittima attività in parola. Le perplessità crescono quando dalle esemplificazioni addotte risulta chiaramente, quale che sia la risposta infine fornita al quesito sull’ammissibilità del concorso esterno, la « fungibilità » delle diverse situazioni ipotizzate (79): a proposito dell’attività che possa essere svolta « in favore » del sodalizio criminale da parte, ad esem(78) La letteratura in argomento è ormai molto vasta; in questa sede ci si può limitare a richiamare i contributi più recenti: DE FRANCESCO G.A., Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, 1995, p. 54 ss.; DE LIGUORI, Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, 1996; INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., 1995, II, p. 429 ss.; MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, 1995; VISCONTI, Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, in questa Rivista, 1995, p. 1308 ss. Da ultimo, con particolare riguardo ai rapporti con la circostanza aggravante del fine di agevolazione delle associazioni mafiose, DE VERO, La circostanza aggravante, cit., p. 50 ss. (79) Di grande interesse sotto questo aspetto appare l’attenta ed articolata disamina delle varie forme di « contiguità » politica, imprenditoriale e professionale effettuata da GROSSO C.F., Le contiguità alla mafia, tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in questa Rivista, 1993, p. 1192 ss. L’A. avverte invero l’esigenza di prospettare criteri differenziali in rapporto alla varietà della casistica, ma questi si rivelano troppo elastici per poter assicurare, de jure condito, un sufficiente rispetto del principio di legalità. Talune indicazioni appaiono peraltro non condivisibili: come il ritenere, ad esempio, che il solo fatto di accettare voti mafiosi possa essere fonte di responsabilità a titolo di concorso esterno (p. 1193 ss.), nonostante il chiaro segnale riduttivo (in sé probabilmente cen-
— 412 — pio, dell’esercente la professione forense, vengono disinvoltamente poste sullo stesso piano la prestazione continuativa di consulenza legale ed il concorso in corruzione in atti giudiziari (ciò che volgarmente si definisce « aggiustamento » dei processi). Vero è che taluni orientamenti più sensibili alle ragioni della certezza delle qualificazioni giuridico-penali si sforzano di dimostrare, attraverso vari argomenti interpretativi di tipo sistematico, come il concorso esterno non sia configurabile in rapporto alle condotte non intrinsecamente delittuose (80); ma il punto è un altro. Più che mostrare ritegno ad ammettere la riferibilità al concorso esterno in reato associativo di attività di per sé costituenti esercizio di facoltà legittime, bisognerebbe prendere atto di tale eventualità e denunciare quindi il profilarsi di un lacerante conflitto di norme, da risolvere con assoluta chiarezza ed immediatezza sulla base dei criteri rinvenibili nell’ordinamento giuridico. Se poi residuassero margini di incertezza a riguardo — essendo noto che l’applicazione dell’art. 51 c.p. è talora più problematica di quanto non lasci trasparire l’assolutezza del suo tenore — dovrebbe invocarsi un chiarimento legislativo, assolutamente improcrastinabile per ristabilire in tale delicata materia un sufficiente riguardo per le ragioni della legalità. Assumendosi la diretta e chiara responsabilità di sancire che la perdurante emergenza della criminalità organizzata impone ai cittadini uno straordinario contributo solidaristico, nel senso di rinunciare sotto minaccia di pena a spazi altrimenti leciti di esercizio delle proprie attività, il legislatore potrebbe introdurre nel sistema una sorta di fattispecie autonoma di agevolazione dolosa, che incrimini chi contribuisca al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni criminali « anche nell’esercizio legittimo di attività economico-imprenditoriali, professionali e di rappresentanza politica » (81). surabile dal punto di vista politico-criminale) lanciato dal legislatore attraverso il nuovo art. 416-ter c.p., in tema di rilevanza penale dei contatti tra politici ed associazioni criminali; ovvero l’escludere la responsabilità del professionista per concorso in reato associativo, in via di principio, nei soli casi in cui ricorra un preciso « dovere di prestazione » e non anche in ogni altra ipotesi di esercizio legittimo, seppure « facoltativo », della corrispondente attività professionale (p. 1203 ss.). Per una chiara denuncia della violazione del principio di stretta legalità, conseguente alla contestazione di concorso esterno in reato associativo in ipotesi di accordo politico-mafioso estranee al paradigma dell’art. 416-ter c.p., cfr. FIANDACA, Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa. Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro it., 1996, V, c. 127 ss. (80) Cfr. SIRACUSANO F., Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1876. (81) Una conformazione analoga, sia pure sul distinto piano delle fattispecie soggettive di pericolosità, è dato rinvenire nell’art. 3-quater, secondo comma, l. 31 maggio 1965, n. 575, che collega la misura di prevenzione patrimoniale della sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni alla eventualità che il « libero esercizio » di attività economiche e imprenditoriali « agevoli l’attività » di persone indiziate di appartenere ad associazioni di
— 413 — Un’adeguata differenziazione della cornice edittale di pena, rispetto ai livelli comminati per gli autori in senso stretto del reato associativo, comporterebbe poi ulteriori vantaggi in termini di prevenzione generale positiva, non essendo da escludere che la piena equiparazione sul piano della fattispecie e del trattamento sanzionatorio, attualmente promossa dall’applicazione indiscriminata dell’art. 110 c.p., abbia provocato taluni momenti di disorientamento nella coscienza collettiva, che è probabilmente più adusa a valutazioni di proporzione ed equilibrio di quanto non sia disposto ad accreditarle il legislatore delle varie « emergenze ». Infine un intervento legislativo di questo tipo (82) varrebbe soprattutto ad inaugurare una significativa inversione di tendenza rispetto alla prassi, tante volte a ragione deprecata, della cosiddetta legislazione simbolica (83): invece di perseverare nel tacito patto di barattare facile consenso con norme destinate a suscitare spesso non più che l’illusione della sicurezza collettiva, i detentori del potere politico-legislativo proporrebbero questa volta ai cittadini una chiara ed impegnativa assunzione di reciproca responsabilità, nel segno del sacrificio, consapevolmente richiesto ed accettato, di spazi di libertà che dovrebbero in via di principio ed in situazioni ordinarie restare impermeabili al magistero penale. GIANCARLO DE VERO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Messina
tipo mafioso ovvero sottoposte a procedimento penale per taluni tipici delitti afferenti al mondo della criminalità organizzata. L’adozione di una fattispecie ad hoc di agevolazione dolosa arrecherebbe altresì il vantaggio più generale di emancipare l’incriminazione dei soggetti estranei al sodalizio criminale dai formidabili problemi di accertamento di un contributo autenticamente causale alle « fortune » dell’associazione, che una corretta valorizzazione dell’art. 110 c.p. in rapporto al reato associativo altrimenti imporrebbe (su questa problematica si rinvia al lucido e stimolante studio di DE FRANCESCO G.A., Dogmatica e politica criminale, cit.). (82) L’esigenza di una chiara scelta del legislatore in ordine alla responsabilità penale di soggetti estranei al sodalizio è avvertita anche da SPAGNOLO, Reati associativi, cit., p. 12, il quale pure propone una soluzione « di parte speciale »: l’introduzione all’interno della fattispecie di reato associativo dell’ulteriore condotta di « sostegno » — ritenuta sostanzialmente equivalente al c.d. concorso esterno — da punire con pena ridotta rispetto a quella prevista per l’affiliato. (83) Per tutti, PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 891 ss.
L’EFFETTIVITÀ DELLA PENA NELL’EPOCA DEL DISSOLVIMENTO DEL SISTEMA SANZIONATORIO (*)
SOMMARIO: 1. La crisi del sistema sanzionatorio e l’istanza di effettività della pena. — 2. L’effettività come certezza. — 2.1. La certezza sotto il profilo dell’an della pena. Ovvero: la sicurezza della risposta sanzionatoria. — 2.2. La certezza sotto il profilo del quantum e del quomodo della pena. Ovvero: la predeterminabilità della risposta sanzionatoria. — 2.3. La certezza della pena tra indefettibilità e proporzione. Le riemergenti tendenze retribuzionistiche. — 3. L’effettività come efficacia del sistema repressivo. — 3.1. L’efficacia come «normalizzazione» dei bisogni di pena. Le degenerazioni delle concezioni sistemiche. — 3.2. L’efficacia nel contesto di una razionale concezione funzionalistica della pena. — 4. L’effettività come direttrice de lege ferenda. La dialettica tra certezza ed efficacia nelle fasi della pena. — 4.1. La comminazione. — 4.2. La commisurazione. — 4.3. L’esecuzione. — 5. I valori dell’umanizzazione e della risocializzazione come limiti all’effettività.
1. Il nostro sistema sanzionatorio attraversa oggi una crisi tanto evidente quanto grave. I suoi punti di emersione sono oltremodo noti: la fuga dalla pena detentiva — il leit-motiv politico-criminale degli ultimi trent’anni — si risolve sempre più spesso in una fuga dalla sanzione tout court (1); il potenziamento della discrezionalità giudiziale, da rimedio al rigore delle comminatorie edittali ha finito per trasformarsi in un fattore di erosione della stessa legalità della pena (2); la flessibilità della risposta sanzionatoria, affermatasi come strumento di ammodernamento dell’intervento punitivo, tende a disperdere la perseguita polifunzionalità della (*) È il testo della relazione svolta al Convegno di studi sul tema: « L’effettività della sanzione penale » (Trieste, 7 maggio 1997). (1) Questo epilogo richiama alla mente il lapidario ammonimento a non confondere la ricerca di una (possibile) alternativa alla pena detentiva, quale tipologia storica di sanzione punitiva, con l’idea (illusoria e utopica) di un’alternativa alla pena intesa come categoria logica; così: P. NUVOLONE, Relazione introduttiva, in Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, Milano, 1977, p. 3 s. nonché Pena, in Enc. dir., vol. XXXII, 1982, p. 789, con particolare riferimento alla distinzione tra dimensione logica e dimensione storica della nozione di pena. (2) Sul punto, per tutti, v.: T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 423; G. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, ivi, 1995, p. 323 s.
— 415 — pena in un clemenzialismo penalistico (3), cui fa riscontro, per converso, il drammatico sovraffollamento delle carceri (4). A ragione, pertanto, si è parlato di disintegrazione del sistema sanzionatorio (5). Il potenziamento delle funzioni della pena, l’arricchimento della tipologia sanzionatoria e gli sforzi della dottrina verso la razionalizzazione della commisurazione giudiziale si dissolvono di fatto nelle maglie di una disciplina positiva che, nel tentativo (o, più verosimilmente, col pretesto) di servire una pluralità di logiche settoriali, sembra non averne più alcuna. Un epilogo, questo, esiziale per il sistema delle sanzioni, bisognoso, per definizione, di quella chiarezza di fini e di quell’adeguatezza di mezzi, che possono provenire solo da una visione unitaria e coerente dell’intervento penalistico. Non meraviglia, dunque, che sempre più spesso il sapere scientifico e il senso comune convergano nell’invocare una maggiore effettività della pena, quale obiettivo da perseguire — o più semplicemente da recuperare — con assoluta priorità. Il piano dell’effettività diventa così il punto di osservazione privilegiato dell’attuale crisi della pena e, ad un tempo, il fulcro ricostruttivo di quello che dovrebbe essere il nuovo volto del sistema sanzionatorio (6). È difficile negare, tuttavia, che l’odierna convergenza sull’istanza di effettività della pena si deve anche alla forza di suggestione che tale espressione è in grado di esercitare sul comune immaginario penalistico, anche a causa della polivalenza dei suoi significati. Premesso che nessuno aspira a un sistema sanzionatorio ineffettivo, nemmeno gli abolizionisti, il cui orizzonte è, come noto, più radicale (7), non tutti riconoscono al concetto di effettività lo stesso contenuto e la stessa portata operativa. Anche per questa ragione, e in via preliminare, può essere utile tentare di chiarirne i principali significati e le possibili implicazioni. (3) Si tratta di un rischio segnalato da tempo e con particolare vigore da F. MANTOSanzioni alternative alla pena detentiva e prevenzione generale, in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di M. Romano e F. Stella, Bologna, 1980, p. 85 e p. 92 s. nonché Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, p. 760 s. (4) Cfr. G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 328. (5) Cfr.: T. PADOVANI, op. cit., p. 419 s.; C.E. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 525 s.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, ivi, 1994, p. 31; dall’angolazione del sistema delle circostanze, v. G. DE VERO, Le circostanze del reato al bivio tra reintegrazione e disintegrazione sistematica. I riflessi delle novelle del 1984, ivi, 1986, p. 49 s.; con riferimento specifico all’esecuzione della pena detentiva, cfr. M. PAVARINI, «L’inferno esiste anche se all’inferno non c’è nessuno», in Questione giustizia, 1987, p. 805 nonché Introduzione al sistema sanzionatorio, in Introduzione al sistema penale, vol. I, a cura di G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti, Torino, 1997, p. 318. (6) Amplius C.E. PALIERO, op. cit., p. 523 s. e spec. p. 546 s. Più sinteticamente, v. anche P. PISA, Effettività della pena: una ipotesi, in Dir. pen. proc., 1996, p. 667 s. (7) V. soprattutto: T. MATHIESEN, Die Politics of Abolition, Oslo, 1974, passim; N. CHRISTIE, Limits to Pain, Oxford, 1981, trad. it. di G. URZÌ, Abolire la pena? Il paradosso del sistema penale, Torino, 1985, passim; L. HULSMAN, Abolire il sistema penale?, intervista in Dei delitti e delle pene, 1983, p. 71 s.; S. SCHEERE, Die abolitionistiche Perspektive, in VANI,
— 416 — 2. Il punto di partenza di questa riflessione è agevolmente individuabile nella più immediata e ristretta accezione, secondo cui l’effettività della pena viene intesa come sinonimo di certezza sotto il duplice profilo sia dell’an, sia del quantum e del quomodo della pena. 2.1. Ed invero, sotto il profilo dell’an, la certezza della pena esprime l’istanza che la sanzione venga concretamente applicata, una volta che si realizzi il reato per cui essa è stata comminata (8). Qui, dunque, effettività sta specificamente per sicurezza della risposta sanzionatoria. Si tratta di un’esigenza più che mai fondata e divenuta urgente nel momento in cui alla stagione, che sembra oramai conclusa, delle amnistie cadenzate, segue quella — si spera breve — dei condoni in materia fiscale, previdenziale e urbanistica (9), nonché degli indulti progettati (e ancora al centro di un noto e tormentato dibattito) nel campo dei reati a sfondo politico e contro la pubblica amministrazione. Ma attraverso l’invocata sicurezza della pena non si intende reagire solo ai mali di stagione, bensì anche a quelli oramai endemici. Il riferimento va soprattutto ai guasti provocati dall’attuale disciplina della sospensione condizionale e dell’affidamento in prova al servizio sociale, che ha introdotto una fascia di sostanziale franchigia sanzionatoria, dannosa sul piano della prevenzione generale e notoriamente sfornita di autentici contenuti specialpreventivi. Il fenomeno non ha bisogno di particolari illustrazioni. È sufficiente ricordare che per i reati puniti in concreto con una pena detentiva fino a due anni, la risposta dell’ordinamento risiede nella sostanziale impunità del colpevole (10). Com’è risaputo, infatti, la disciplina della sospensione condizionale è stata rimaneggiata a più riprese in modo da permetterne una scriteriata iterazione e, per converso, da rendere solo virtuale la possibilità della revoca della sospensione precedentemente concessa (11). Kriminologisches Journal, 1984, p. 91 s. Nella nostra letteratura, con accenti per lo più critici sulle tesi abolizioniste, v. anche: L. FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, in Il diritto penale minimo, a cura di A. Baratta, fascicolo speciale della rivista Dei delitti e delle pene, 1985, p. 514 s.; E.G. MENDEZ, La dimensione politica dell’abolizionismo. Un punto di vista periferico, ivi, p. 555 s.; M. PAVARINI, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo e abolizionismo, ivi, p. 525 s. Dall’angolazione di una più generale critica ai profili illiberali del potere di punire, cfr. altresì E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute. Delegittimazione e dogmatica giuridico-penale, Napoli, 1994, p. 110 s. (8) Cfr. per tutti T. PADOVANI, op. cit., p. 420. (9) Per una valutazione complessiva del fenomeno, v. G. INSOLERA, I «moderni condoni» tra prassi legislative e codificazioni, in questa Rivista, 1994, p. 1304 s. Con accenti particolarmente critici, v. T. PADOVANI, Il traffico delle indulgenze. «Premio» e «corrispettivo» nella dinamica della punibilità, ivi, 1986, p. 425 s. (10) Si tratta di un rilievo ricorrente; da ultimo, cfr. A. MARTINI, in Codice penale, a cura di T. Padovani, Milano, 1997, p. 746. (11) Sul punto, v. F. GIUNTA, Sospensione condizionale della pena, in Enc. dir., vol. XLIII, 1990, p. 97 s. e p. 114 s.
— 417 — Per converso, a seguito della l. 10 ottobre 1986, n. 663, l’affidamento in prova al servizio sociale, potendo essere concesso dall’inizio dell’esecuzione, finisce per funzionare come un’ulteriore sospensione dell’esecuzione penale, destinata a intervenire là dove non può più operare la sospensione giudiziale (12). In altre parole: anche l’ultimo sbarramento legislativo che continua a caratterizzare formalmente la sospensione condizionale — ci si riferisce al divieto di concessione per più di due volte, di cui all’art. 164, comma 4, c.p. — è di fatto aggirabile dalla «nuova» versione dell’affidamento in prova (13), che si atteggia come una terza (ma anche l’ennesima) sospensione condizionale, operante, in fase di esecuzione, rispetto alle pene detentive non superiori a tre anni (14). Per il resto, entrambi gli istituti sospensivi si connotano per l’esiguità dei contenuti specialpreventivi. Con riguardo alla sospensione condizionale, pressoché unanimi sono le critiche mosse alla sua versione c.d. secca, ovvero disgiunta da oneri con valenze trattamentali-riabilitative (15). Prendendo inopinatamente le distanze dagli istituti stranieri del probation e del sursi avec mise à l’epreuve, che costituiscono le matrici storiche della nostra sospensione condizionale, il modello sospensivo italiano resiste pervicacemente all’accentuazione della propria valenza specialpreventiva. L’unica e peraltro modesta concessione legislativa in tal senso è rappresentata — come noto — dalla subordinazione della sospensione condizionale alla riparazione del danno (mediante il risarcimento e le restituzioni) nonché all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose (art. 165, comma 1, c.p.). Onere, questo, blando sul piano dell’efficacia specialpreventiva, e per di più obbligatorio solamente nel caso di seconda concessione del beneficio (art. 165, comma 2, c.p.). Non meraviglia dunque che, per fortuna in modo isolato ed episodico, nella prassi si sia cercato di potenziare de facto la valenza specialpreventiva della sospensione condizionale, arricchendola con oneri fantasiosi e atipici, in ogni caso in aperta violazione dell’istanza di legalità (16). (12) Sull’evoluzione legislativa dell’istituto, anche alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, v. di recente G. CASAROLI, Misure alternative alla detenzione, in Dig. disc. pen., vol. VIII, 1994, p. 22 s. Per una critica alla concedibilità dell’affidamento in prova a prescindere dall’osservazione del condannato nell’istituto penitenziario, v. amplius F. GIUNTA, Attenuazione del custodialismo carcerario e tutela della collettività: note sulla recente riforma penitenziaria, in questa Rivista, 1988, p. 602 s. (13) Cfr. F. GIUNTA, op. ult. cit., p. 605. (14) Per analoghi rilievi, v. T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 426. Sulla disfunzionale sovrapposizione operativa tra affidamento in prova e sospensione condizionale, v. anche F. GIUNTA, Sospensione condizionale, cit., p. 104. (15) Per tutti: G. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 450 s.; F. MANTOVANI, Sanzioni alternative, cit., p. 90 s.; T. PADOVANI, La sospensione condizionale oltre l’orizzonte delle «modifiche al sistema penale», in questa Rivista, 1983, p. 1251 s. (16) V., ad esempio, Pretura di Genova, 12 novembre 1993, Donovaro, in Giur. me-
— 418 — Quanto all’affidamento in prova la sua configurazione legislativa sembra inadeguata alla perseguita finalità di trattamento extramurario. In particolare, il ruolo — peraltro centrale (17) — assegnato al servizio sociale è indicato con tale genericità da renderlo di fatto poco incisivo e orientato più alla funzione di controllo che a quella di assistenza (18), con la conseguenza che la principale caratteristica dell’affidamento in prova finisce per risiedere in un sostanziale vuoto di contenuti. Non può meravigliare dunque che, deludendo le aspettative di parte della dottrina, anche il «fiore all’occhiello» della riforma penitenziaria del 1975 è presto appassito nell’impatto con la realtà applicativa. 2.2. Sotto il profilo del quantum e del quomodo, la certezza della pena viene invocata nella prospettiva di una maggiore predeterminabilità sia della misura, sia dei contenuti della risposta sanzionatoria in concreto (19). Qui la crisi del sistema sanzionatorio non è meno profonda, posto che non è dato ad alcuno di dire — certamente in linea teorica, ma forse anche dal punto di vista empirico — se esiste un rapporto di proporzione tra la pena comminata dal legislatore e quella irrogata dal giudice, e tra queste ultime e la sanzione realmente scontata dal colpevole (20). Le cause del fenomeno risultano molteplici e tra loro interagenti. Alla base, però, vi sono soprattutto i guasti provocati dalla dilatazione della commisurazione giudiziale e dall’emersione dell’odierna pluralità di momenti commisurativi (21), spesso autarchici, ancorché non privi di una razionalità interna, in ogni caso capaci di amplificare quelle disfunzioni del rito, 1995, p. 105 s., che ha subordinato la concessione della sospensione condizionale della pena all’imposizione, al condannato per il danneggiamento di un cassonetto della nettezza urbana, dell’obbligo di accompagnare l’autocarro e il personale della nettezza urbana ad esso addetto, per quindici giorni nell’area dove era stato commesso il reato. Per un commento critico, v. G.B. BERTOLINI, ivi, p. 107 s. (17) Per una disamina, v. S. PIETRALUNGA, L’affidamento in prova al servizio sociale, Padova, 1990, p. 125 s. Più in generale, sul ruolo del servizio sociale nel sistema penitenziario, v.: F. BRICOLA, L’affidamento in prova al servizio sociale: ‘‘fiore all’occhiello’’ della riforma penitenziaria, in Quest. crim., 1976, p. 401 s.; G. FLORA, Misure alternative alla pena detentiva, in Nss.D.I., App., vol. V, 1984, p. 101; L. EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio: il ruolo del servizio sociale, in questa Rivista, 1993, p. 493 s.; G. CERTONA, Il servizio sociale penitenziario tra involuzione e progettualità, Roma, 1995, p. 27 s. (18) Cfr. F. BRICOLA, op. ult. cit., p. 403. (19) Con riferimento particolare alla pena detentiva, v. sul punto G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 315. Per analoghe osservazioni, v. anche A. PAGLIARO, Verso un nuovo codice penale? Itinerari - Problemi - Prospettive, in Indice pen., 1992, p. 21. (20) Sulla discrasia tra pena comminata, pena irrogata e pena effettivamente scontata, v. anche G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 325 s. (21) In argomento, v. di recente L. MONACO, C.E. PALIERO, Variazioni in tema di «crisi della sanzione»: la diaspora del sistema commisurativo, in questa Rivista, 1994, p. 430.
— 419 — sistema, che si devono alla mancanza di una visione d’insieme del problema sanzionatorio. Quanto al primo fenomeno, è noto che, con la l. 7 giugno 1974 n. 220, la commisurazione infraedittale ha finito per saldarsi con quella extraedittale, creando un unico grande ambito di discrezionalità giudiziale, «in un’ottica in cui — è stato osservato (22) — la supplenza giudiziaria in chiave indulgenziale-paternalistica si è sostituita all’inerzia legislativa» sul terreno della revisione delle «tariffe edittali delle sanzioni». Il punto di emersione più significativo del fenomeno è certamente costituito dall’allargamento del giudizio di bilanciamento alle circostanze ad efficacia speciale (art. 69, comma 4, c.p.) (23). Ma vanno pure considerate l’estensione della continuazione — con complicazioni di calcolo, che, nel silenzio della legge, risultano talora insuperabili (24) — e la stessa discrezionalità della recidiva. Una modifica, quest’ultima, che ha reso ibrida e dibattuta la natura dell’istituto (25), con conseguenti incertezze sul piano della disciplina (anzitutto per quel che attiene alla sua bilanciabilità con eventuali attenuanti concorrenti). Infine, la già dilatata cornice edittale viene ulteriormente deformata dalle riduzioni di pena previste dal nuovo codice di rito come incentivazione ai procedimenti speciali del giudizio abbreviato (art. 442, comma 2), dell’applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444) e del procedimento per decreto (art. 460, comma 2) (26). Non può negarsi che, seppure attraverso la mediazione delle parti processuali, è nelle mani del giudice che viene affidata un’altra fetta di discrezionalità funzionale a incidere sulla misura della pena. In particolare, il patteggiamento ha finito per operare come strumento di ridefinizione della cornice edittale (27). Per non dire poi delle ulteriori distorsioni sostanziali che si riconnettono a interpretazioni, dichiaratamente finalizzate (22) Cfr. G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 323. V. anche T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 425, là dove si osserva che la «supplenza giudiziaria non è più una stagione storica, ma una categoria dello spirito legislativo». (23) Cfr. T. PADOVANI, Circostanze, in Dig. disc. pen., vol. II, 1988, p. 212 s. (24) È sufficiente richiamare il problema della continuazione tra reati puniti con pene detentive e pecuniarie; sul punto, cfr.: V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, in Enc. dir., vol. XXXVIII, 1987, p. 848; F. COPPI, Reato continuato, in Dig. disc. pen., vol. XI, 1996, p. 231 s. (25) Per un sintetico quadro del problema, v. F. GIUNTA, Questione n. 149, Se la recidiva abbia natura circostanziale, in Studium iuris, 1997, p. 1322. (26) In argomento, v.: F. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice pen., 1989, p. 326 s.; T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, p. 931 s.; A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, ivi, 1990, p. 42 s.; E. VENAFRO, Natura giuridica ed effetti della diminuzione della pena disposta in sede di giudizio abbreviato e di patteggiamento, ivi, 1993, p. 1107 s.; G. MANNOZZI, Razionalità e ‘‘giustizia’’ nella commisurazione della pena. Il Just Desert Model e la riforma del Sentencing nordamericano, Padova, 1996, p. 14 s. (27) Cfr. E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo an-
— 420 — ad incentivare il ricorso al rito semplificato. Invero, la ritenuta natura «non di condanna» della sentenza di patteggiamento fa sì che quest’ultima non operi come causa di revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa (28), non possa considerarsi ai fini della recidiva e conseguentemente non ostacoli l’oblazione discrezionale anche nel caso in cui, per via del reato patteggiato, scatti la recidiva iterata (29). In relazione al secondo fenomeno, non può farsi a meno di notare che nell’arco di un ventennio si è passati da un sistema di commisurazione sostanzialmente monistico, nel quale la modulazione della pena era prerogativa del solo giudice della cognizione e operava sulla base del fatto, ovvero in funzione prevalentemente retrospettiva, a un sistema di commisurazione pluralistico. Invero, l’attuazione del principio di rieducazione ha fatto sì che anche la fase dell’esecuzione reclamasse (e ottenesse) i suoi momenti di commisurazione, incentrati sulla personalità dell’autore del reato, ma ad un tempo attenti all’esigenza di possibili correzioni della commisurazione giudiziale. A quest’ultimo proposito, infatti, il nuovo codice di procedura penale consente che, prima dell’inizio dell’esecuzione, il giudice dell’esecuzione applichi la disciplina del concorso formale e del reato continuato in relazione a reati giudicati con procedimenti distinti, e alla sola condizione che tale disciplina non sia stata esclusa dal giudice della cognizione (art. 671 c.p.p.). Ebbene, non si tratta di un’operazione puramente aritmetica: nonostante il giudice dell’esecuzione sia vincolato dalle sentenze di merito in ordine all’individuazione del reato più grave tra quelli che sono stati giudicati con procedimenti distinti (30), è pur vero che l’art. 671 c.p.p. gli consente di effettuare un nuovo cumulo giuridico, determinando l’aumento fino al triplo e ridefinendo la misura della pena (31). Com’è evicora attuale? Note a margine dell’art. 444 c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 801 s.; L. MONACO, C.E. PALIERO, op. cit., p. 444 s.; E. MARZADURI, Poteri delle parti e disponibilità del rito nella giustizia negoziata, relazione al Convegno di studi su «Costituzione, diritto e processo penale: i quarant’anni della Corte costituzionale» (Macerata, 28-29 gennaio, 1997), p. 6 s. del dattiloscritto. Denunciano che i riti alternativi producono effetti di destabilizzazione nel rapporto di proporzione tra gravità del reato e pena, G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 34. Per una proposta di riforma intesa a formalizzare il doppio ambito edittale di pena, v. A. PAGLIARO, Doppio ambito edittale della pena e riforma del patteggiamento, in Dir. pen. proc., 1995, p. 110 s. (28) V. Cass. pen., sez. un., 5 maggio 1996, De Leo, in Studium iuris, 1996, p. 1064 (con scheda di D. MICHELETTI); ID., sez. un., 18 aprile 1997, Pahrouni, ivi, 1997, p. 844 (con scheda di A. MARANDOLA). Per una critica, v. F. GIUNTA, Questione n. 23, Se la sentenza emessa su richiesta delle parti possa operare come causa di revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa, ivi, 1997, p. 168 s. (29) V. Cass. pen., sez. IV, 23 settembre 1996, Gnutti, in Studium iuris, 1997, p. 88 (con scheda di D. MICHELETTI). (30) Cfr. F. COPPI, op. cit., p. 232. (31) Non va trascurato poi che tale ridefinizione del cumulo giuridico può interessare
— 421 — dente, ci si trova in presenza di un ulteriore momento di commisurazione, cui si accompagna il riconoscimento al giudice dell’esecuzione di altri poteri tipici del giudice della cognizione, come la facoltà di concedere in tali casi la sospensione condizionale e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 671, comma 3, c.p.p.). Anzi, con riguardo alla sospensione condizionale della pena, in giurisprudenza si è ritenuto che il giudice dell’esecuzione possa concederla anche per un reato, in relazione al quale, in sede di cognizione, l’operatività del beneficio era ostacolata dalla sua duplice precedente fruizione da parte del colpevole (32), ovvero quando la sospensione condizionale non sia stata concessa dal giudice della cognizione per ragioni di merito, collegate alla mancanza di un simultaneus processus (33). Quanto al potere discrezionale del giudice dell’esecuzione nel variare i contenuti afflittivi della pena detentiva (34) e la sua stessa durata (35), esso si riconnette ai presupposti applicativi dei benefici penitenziari, la cui operatività è collegata soprattutto a giudizi prognostici concernenti il futuro comportamento del detenuto, così come la loro revoca si riconnette a un giudizio sul fallimento dell’esperimento rieducativo. In entrambi i casi, l’accertamento giudiziale delle condizioni di ammissibilità (o di proseguibilità) del trattamento risocializzativo predomina rispetto al ruolo delle presunzioni legislative di pericolosità (36). Vale a dire che tanto la meritevolezza, quanto l’immeritevolezza del detenuto dipendono soprattutto da valutazioni discrezionali, se non opinabili (37), del giudice dell’esecuzione, con la conseguenza di possibili oscillazioni prasseologiche in ragione non solo delle diverse aree geografiche, ma degli stessi frangenti storici. Non meraviglia così che nei momenti di recrudescenza della criminalità, il giudice dell’esecuzione si senta di dover interpretare il bisogno di sicurezza della società libera contenendo l’operatività degli istituti penitenziari a base premiale. E lo stesso può avvenire allorché i mass media diano risalto, con enfasi forse eccessiva, al mancato rientro in istituto del anche pene applicate su richiesta delle parti (sul punto v. F. COPPI, op. loc. cit.), e dunque già più basse rispetto all’originaria cornice edittale. (32) Cfr. Cass. pen., sez. V, 7 novembre 1994, Masso, in Cass. pen., 1996, p. 148, dove si osserva che il giudice dell’esecuzione può estendere la sospensione condizionale al complesso delle sanzioni inflitte con le diverse sentenze, purché in almeno una di esse tale beneficio sia stato concesso dal giudice della cognizione. (33) Cfr. Cass. pen., sez. I, 8 luglio 1993, Rossetti, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 741, con commento di P. SILVA, La sospensione condizionale della pena ex art. 671, comma 3, c.p.p.: primi orientamenti della Suprema corte, ivi, p. 742 s. (34) Si pensi soprattutto all’ammissione del detenuto al regime di semilibertà e al lavoro all’esterno (artt. 21 e 50 l. 354 del 1975). (35) Il riferimento è in particolare all’operatività della liberazione anticipata (art. 54 l. 354 del 1975). (36) Con riferimento alla dialettica tra prognosi giudiziale e presupposti diagnostici fissati dalla legge, v. F. GIUNTA, Attenuazione, cit., p. 597. (37) Così, G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 326.
— 422 — detenuto ammesso al trattamento extramurario o più semplicemente ad assaggi di libertà, come nel caso dei permessi-premio e delle licenze (artt. 30-ter e 52 l. 26 luglio 1975, n. 354). La flessibilità del sistema fa sì che, in tali frangenti, esso torni a irrigidirsi, ancora una volta a causa della mancanza di una visione legislativa d’insieme che stabilisca gli obiettivi da perseguire, i rischi da sopportare e si addossi così il dovere di una scelta. Attraverso gli ampi margini di commisurazione in fase esecutiva, il sistema delega in larga misura il potere e la responsabilità del trattamento penitenziario al giudice dell’esecuzione e agli umori della prassi. In breve: la crisi della predeterminabilità della pena si manifesta nell’impossibilità di stabilire se e quali modificazioni saranno apportate ai contenuti e alla durata della pena in concreto dal complesso dei meccanismi commisurativi, che vanno dal momento giudiziale a quello dei benefici penitenziari (38). Com’è intuitivo, si tratta di una crisi che colpisce la certezza della pena sia sul piano dell’uguaglianza di trattamento (39), sia su quello del rispetto delle valutazioni espresse nelle comminatorie edittali, che possono vantare oggi un significato al più tendenziale (40), alterate come sono da una «perenne incertezza commisurativa» (41). 2.3. Si comprende dunque che, intesa come certezza della risposta sanzionatoria nei significati che si sono tratteggiati sopra, l’effettività interpreti l’istanza di una più spiccata indefettibilità della pena e di una maggiore proporzione della sanzione applicata in concreto rispetto alla comminatoria legale. Muovendo da tale angolazione l’effettività incarna un’aspirazione sostanzialmente retribuzionista. Non a caso nelle concezioni retributive, e massimamente in quelle assolute, l’effettività della pena (id est: la certezza della pena) assume la massima rigidità: anche se lo Stato stesse per dissolversi — affermava Kant in un celeberrimo esempio (42) — l’assassino che si trovasse in prigione andrebbe ugualmente giustiziato. (38) Denuncia che «la pena è ‘‘precaria’’, perché sfuma in un labirinto di alternative, giudiziali ed esecutive, che riducono la condanna giudiziale a ‘‘pena teorica’’, rispetto alla quale la ‘‘pena effettiva’’ è, al massimo, una semplice frazione, spesso modesta, e comunque soggetta a variabili di ogni tipo», T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 420. (39) Sul punto v.: L. FERRAJOLI, Per un programma di diritto penale minimo, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di L. Pepino, Milano, 1993, p. 67; G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 322. Con riferimento al sistema penitenziario, v. di recente M. PAVARINI, Bilancio dell’esperienza italiana di riformismo penitenziario, in Questione giustizia, 1997, p. 56 s., che sottolinea come il riformismo penitenziario dell’ultimo decennio abbia trasfigurato il volto del diritto penale in un sistema di giustizia disuguale e speciale. (40) Parla «di generico, quanto improbabile catalogo sanzionatorio, destinato a esaurire la sua funzione più nell’ambito dei manuali di diritto penale che nelle aule giudiziarie», G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 323 s. (41) Cfr. L. MONACO, C.E. PALIERO, op. cit., p. 445. (42) E. KANT, Metafisica dei costumi, trad. it. a cura di G. Vidari, 2 ed., Milano,
— 423 — Naturalmente, la certezza della pena, propugnata dalle riemergenti correnti retribuzioniste (43), non ha ascendenze metagiuridiche, né coloriture etiche, stante l’oramai acquisita secolarizzazione del diritto penale. L’istanza dell’effettività viene riaffermata in una dimensione pur sempre utilitaristica dell’intervento punitivo, dalle chiare matrici illuministiche (44). Non può non richiamarsi al riguardo la notissima intuizione di Beccaria, che indicava nella infallibilità e nella proporzione della pena due delle condizioni che, insieme alla prontezza, devono caratterizzare l’intervento punitivo in nome dell’utile sociale (45). Va da sé allora che, in questa prospettiva, il rimedio alla crisi del sistema è rappresentato dal recupero dell’indissolubilità tra reato e pena (46) e, per altro verso, dal contenimento dei momenti commisurativi, in modo da assicurare un autentico significato alle scelte contenute nelle comminatorie legislative. Il sistema — si osserva (47) — deve valorizzare la pena edittale, rapportando ad essa i giudizi di giustizia-proporzione e utilità-dissuasione: è la pena edittale che deve risultare proporzionata alla gravità (oggettiva e soggettiva) del reato, poiché è la sanzione minacciata che, nella rappresentazione anticipata della sua applicazione, deve superare il vantaggio del reato. Ne consegue che il contenimento del potere discrezionale del giudice si impone con assoluta priorità, affinché nelle fasi della commisurazione e dell’esecuzione venga rispettato il catalogo delle valutazioni legislative, che, pertanto, potrà realmente operare come tariffario sanzionatorio vincolante. In tal modo, il quadro sanzionatorio ritroverebbe la necessaria funzionalità, nei termini, coerenti e lineari, che possono così sintetizzarsi: l’efficacia di ogni singola pena comminata è insita nella sua certezza, così come l’efficacia del sistema è la somma di una pluralità di pene certe. 1923, p. 175 s. Le pagine dedicate alla pena possono leggersi anche in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, Milano, 1989, p. 219. (43) Il ritorno di interesse per l’idea retributiva è da più parti segnalato; tra gli altri, di recente, v.: L. EUSEBI, La pena «in crisi». Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1989, pp. 12, 17 e 37 s.; G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 327; E.R. ZAFFARONI, op. cit., p. 94 s., che parla di fuga verso il retribuzionismo. (44) Sul retroterra utilitaristico che, a partire da Beccaria, ha caratterizzato la costruzione concettuale dei moderni sistemi di diritto penale, v. E. RESTA, La dismisura dei sistemi penali, in Il diritto penale minimo, cit., p. 486. (45) C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, ristampa a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1965, § XX, p. 286; non diversamente, v. P.J.A. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen Peinlichen Rechts, Giessen, 1847, § 13, p. 38. Sulla certezza della risposta sanzionatoria, quale condizione di serietà della funzione deterrente, nella letteratura recente, v. tra i tanti: F. MANTOVANI, op. ult. cit., p. 75; M. ROMANO, Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice penale italiano, in Teoria e prassi, cit., p. 158; A. PAGLIARO, Correlazioni tra il livello delle sanzioni penali, la struttura del processo e gli atteggiamenti della prassi, in Indice pen., 1981, p. 220 s. e p. 229 s.; D. PULITANÒ, Politica criminale, in Enc. dir., vol. XXXIV, 1985, p. 83 s.; C.E. PALIERO, op. cit., p. 516. (46) Di recente, dall’angolo visuale della sospensione condizionale, ripropone tale istanza come regola generale A. MARTINI, op. cit., p. 746. (47) Cfr. T. PADOVANI, op. ult. cit., p. 437 s. e p. 443 s.
— 424 — Quanto alle funzioni della pena, non par dubbio che l’istanza di effettività privilegia la prevenzione generale e, se del caso, il primato della pena detentiva, la cui accettabilità finisce per dipendere dall’effettività dei diritti dei detenuti e dal rispetto del divieto di pene disumane (48). Per converso, l’influenza della finalità riabilitativa tende a essere circoscritta alla fase dell’esecuzione della pena. Tramontata come mito e ideologia, la rieducazione rimane, da tale angolazione, una prospettiva eventuale, praticabile attraverso il trattamento in libertà del detenuto vicino al finepena, ma coincidente di regola con un trattamento intramurario, inteso più ad impedire il deterioramento morale e professionale del detenuto, che a prepararne e favorirne il ritorno in libertà. Per quel che concerne, infine, i rapporti con il processo, la certezza della pena consente di incentivare i riti semplificati, alla condizione che la riduzione della sanzione sia contenuta nel quantum e non interferisca sull’an della pena, come — si è visto — accade invece con l’attuale patteggiamento. Evidenti tracce di una visione, per così dire, neoclassica dell’effettività della pena possono rintracciarsi nel Progetto di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (49), che àncora espressamente la risposta sanzionatoria ai canoni della certezza e proporzionalità (art. 58, comma 1) (50). In effetti, il Progetto si caratterizza per il contenimento della commisurazione giudiziale (51), sottoposta all’onere aggiuntivo di una motivazione particolarmente specifica nel caso in cui la pena venga modulata in misura vicina al minimo o al massimo edittale (art. 3 disp. attuaz.) (52). Anche la fase della commisurazione extraedittale subisce del resto una significativa compressione, perseguita attraverso l’eliminazione sia del bilanciamento delle circostanze (art. 25, comma 1), sia delle attenuanti generiche (53). Quanto alla tipologia sanzionatoria, la prospettiva è quella della semplificazione e dello sfoltimento delle attuali alternative alla pena detentiva (54), con conseguente riaffermazione della (48) Di recente, v. sul punto M. PAVARINI, op. ult. cit., p. 62. (49) Il testo del Progetto e la Relazione introduttiva possono leggersi in Indice pen., 1992, p. 579 s. (50) Cfr. A. PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 379 s. V. anche G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 329. (51) Per un apprezzamento della scelta, v. G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 330; in senso critico, v. invece L. MONACO, C.E. PALIERO, op. cit., p. 446 s. (52) V. sul punto G. NEPPI MODONA, op. loc. cit. (53) Il Progetto accoglie infatti il principio della tassatività delle ipotesi circostanziali (art. 20, comma 1), precisando che il divieto di circostanze indefinite vale anche in rapporto alle attenuanti (v. Relazione, cit., p. 587). (54) Il Progetto, infatti, oltre a sopprimere, peraltro opportunamente, l’affidamento in prova al servizio sociale, abroga espressamente la semilibertà (art. 6 disp. attuaz.; sul
— 425 — centralità del carcere (55); una scelta, questa, confermata oltre tutto dalla lunghezza massima della pena detentiva (che raggiunge i trent’anni in caso di cumulo) (56) e dal discusso mantenimento dell’ergastolo (57), non immune, come noto, da sospetti di incostituzionalità (58). 3. Ma di effettività della pena si può parlare anche in un’altra accezione: come espressione riassuntiva delle condizioni da cui dipende l’efficacia della pena. L’effettività viene intesa, cioè, quale predicato, non già dei contenuti afflittivi di ogni singola risposta punitiva prevista dall’ordinamento, ma del sistema sanzionatorio nel suo complesso (59). Ne consegue che, da questa angolazione, l’effettività non può esaurirsi nel requisito della certezza della singola pena (che a determinate condizioni, anzi, può venir meno senza che ne risenta la credibilità del sistema repressivo). Anche altre devono essere le basi del giudizio di efficacia, che viene riferito al funzionamento dell’apparato repressivo allestito dall’ordinamento, inteso, non tanto (o non soltanto) quale strumento di tutela di beni giuridici, quanto e soprattutto come meccanismo di controllo sociale (60). In punto v. anche Relazione, cit., p. 595). Va detto per converso che, eliminati come istituti autonomi, sia l’affidamento in prova, sia la semilibertà vengono accolti come possibili contenuti della liberazione condizionale (art. 44). (55) Cfr. anche L. MONACO, C.E. PALIERO, op. cit., p. 448. (56) In senso critico, v. G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 332. (57) Il Progetto ha fatto propria la convinzione che nell’attuale momento storico «non sembra possibile rinunciare all’impatto psicologico dell’ergastolo»; così M. ROMANO, op. cit., p. 169 e, analogamente, A. PAGLIARO, Verso un nuovo codice penale?, cit., p. 25, dove si afferma che «dire, in un disegno di legge governativo, al legislatore: ‘‘escludi l’ergastolo’’, sarebbe, per ciò stesso, nel momento attuale, distruggere la riforma, poiché il Parlamento non sarebbe assolutamente disposto a cancellare l’ergastolo». Anche questa preoccupazione, però, sembra oggi infondata, come dimostra la recente pronuncia della Commissione Giustizia del Senato per l’abrogazione dell’ergastolo (per ulteriori ragguagli, v. Il sole24 ore, 17 luglio 1997, p. 18). (58) Per un’ampia trattazione, da ultimo, v. E. GALLO, Significato della pena dell’ergastolo. Aspetti costituzionali, in Dei delitti e delle pene, 1992, p. 68 s.; in argomento, cfr. anche A. BERNARDI, Verso un’effettiva «pluridimensionalità» della pena perpetua, in Arch. giur., 1983, p. 391 s. (59) V. anche G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 45. (60) Sul punto, v. W. HASSEMER, Strafziele im sozialwissenschaftlich orientierten Strafrecht, in Fortschritte im Strafrecht durch die Sozialwissenschaften?, a cura di W. Hassemer, K. Lüderssen, W. Nauke, Heidelberg, 1983, p. 52 s.; ID., La prevenzione nel diritto penale, in Dei delitti e delle pene, 1986, p. 439 s.; da altra angolazione, v. pure G. JAKOBS, Strafrecht, 2 ed., Berlin, New York, 1991, pp. 9-10 e p. 37 s. Come noto, parte della dottrina recente ha colto nel fenomeno segnalato nel testo uno dei tratti caratteristici del c.d. diritto penale «moderno», quale modello di diritto penale orientato verso la prevenzione e, come tale, contrapponibile al modello «classico» caratterizzato, tra l’altro, dall’idea dell’essenza retributiva della pena; cfr. per tutti W. HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, p. 378 s.; ID., La prevenzione, cit., 438 s. Per ulteriori considerazioni in argomento, v.: G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 34; C.E. PALIERO, L’autunno del
— 426 — particolare, l’efficacia della risposta sanzionatoria risulta correlata in modo decisivo alle capacità della pena sul versante della stabilizzazione sociale e del rafforzamento del senso di sicurezza collettivo (61); obiettivo, questo, che la pena persegue convalidando l’obbligatorietà della norma penale infranta (62) e rinvigorendo la fiducia dei consociati nel diritto (63). Per altro verso, si sottolinea che, ai fini dell’efficacia, una condizione fondamentale è costituita dalla sopportabilità dei costi della sanzione, oltre che sotto il profilo delle garanzie individuali (64), sul piano strettamente economico (65). In questa prospettiva, dunque, il principio di effettività della pena incarna il valore di un nuovo manifesto metodologico, che intende superare il diffuso scetticismo in cui si imbatte ogni progetto di razionalizzazione del sistema punitivo, che non si esaurisca in un retribuzionismo di ritorno, e al contempo assicuri contro i rischi di un ottimismo utopistico: sia di quello che enfatizza il ruolo della prevenzione generale fino alla retorica della legislazione simbolica (66), sia di quello che ha alimentato il mito della rieducazione, anche a dispetto dei risultati (67). Di fronte a tali eccessi, l’effettività si propone come l’habitus mentale di chi voglia assumere un atteggiamento anti-ideologico, e affrontare il patriarca. Rinnovamento o trasmigrazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1225 s. (61) Si tratta, come noto, delle conclusioni cui perviene la dottrina della prevenzione generale «positiva», altrimenti detta della «prevenzione-integrazione» (v. H. MÜLLER DIETZ, Integrationsprävention und Strafrecht. Zum positiven Aspekt der Generalprävention, in Festschrift für H.H. Jescheck, Berlin, 1985, p. 816 s.). Tra le diverse interpretazioni, v.: C. ROXIN, Die jüngsten Diskussion über Schuld, Prävention und Verantwortlichkeit im Strafrecht, in Festschrift für P. Bockelmann, München, 1979, p. 306; ID., Risarcimento dei danni e fini della pena, in questa Rivista, 1987, p. 17. Per un suo sviluppo nella prospettiva della teoria sociologica dei sistemi (elaborata da N. LUHMANN, Sociologia del diritto, trad. it. di A. Febbrajo, Bari, 1977, passim), v. soprattutto G. JAKOBS, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976, p. 8 s.; ID., Strafrecht, cit., p. 6 s. Sulla variante di orientamento psicoanalitico, v. per tutti F. STRENG, Schuld, Vergeltung und Generalprävention, in ZStW, 1980, (92), p. 642 s. (62) Cfr. G. JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 13 s.; ID., Der strafrechtliche Handlungsbegriff., Kleine Studie, München, 1992, p. 41. (63) Cfr. G. JAKOBS, Schuld, cit., 8 s.; ID., Strafrecht, cit., p. 13; C. ROXIN, op. cit., p. 16. (64) Sulla necessità di un siffatto bilanciamento, cfr. W. HASSEMER, Strafziele, cit., p. 39 s. (65) Di recente v. C.E. PALIERO, op. cit., p. 549. (66) Per una critica della vocazione simbolica della nostra recente legislazione penale, v. E. MUSCO, A proposito del diritto penale «comunque» ridotto, in La riforma del diritto penale, cit., p. 179; v. anche C.E. PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 537, che considera la legislazione simbolica un autentico paradigma di ineffettività. In argomento amplius M. VOß, Symbolische Gesetzgebung, Ebelsbach, 1989, passim. (67) Non manca chi parla di autentico fallimento della riforma penitenziaria; così, di recente G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 320.
— 427 — problema dell’efficaca della risposta sanzionatoria in una prospettiva, pur sempre fedele al paradigma relativo (68), ma autenticamente funzionalistica (69). Una prospettiva, cioè, ancorata a un’idea di scopo, non astratto, semplicemente postulato come implicito nella certezza della singola pena, bensì calato nella prassi, verificato sotto il profilo della sua conseguibilità, supportato dalle necessarie conoscenze empiriche dello strumento punitivo prescelto e della sua adeguatezza (70). In ogni caso — ed è questo il dato maggiormente significativo — lo spostamento dell’accento sull’efficacia determina un corrispondente spostamento dell’attenzione dalla pena comminata a quella reale (71). Se, nell’accezione ristretta dell’effettività, il fulcro ricostruttivo del sistema è la pena in astratto, nella sua accezione ampia il punto di irradiazione dell’effettività è costituito dalla sanzione applicata e scontata, nella concretezza della sua durata e dei suoi contenuti. Nella nostra recente letteratura, quest’ordine di idee è stato posto alla base di un’originale metodologia de lege ferenda: muovendo induttivamente dall’effettività-efficacia della pena in concreto, quale reale unità di sofferenza (72), si è delineato, infatti, un quadro d’intervento improntato alla formula del minimalismo realistico (73). In tale prospettiva, cioè, si propone di orientare la riforma partendo dalle possibilità-effettive (ovvero le sanzioni efficaci, come tali, beni che attualmente scarseggiano) e non dai precetti («di per sé moltiplicabili ad libitum») (74). E ciò nella premessa — certamente condivisibile — che la funzione di orientamento comportamentale dipende per l’appunto dalla pena effettivamente applicata e scontata, non da quella astrattamente minacciata dal legislatore. Così facendo, espunti dal sistema le sanzioni e gli istituti che la prassi taccia di ineffettività (come, ad esempio, la libertà controllata e la semidetenzione, la sospensione condizionale e l’affidamento in prova) (75), il maggior costo anche economico, della pena detentiva ne consiglierebbe l’impiego nei «limiti delle sole esigenze irrinunciabili di prevenzione generale» (76). All’estremo opposto si colloca, quale sanzione meno costosa, la pena pecuniaria, lasciando che tra le due fasce intervenga una risposta (68) Per questa precisazione, v. C.E. PALIERO, Metodologie, cit., p. 513. (69) In argomento, v. K. LÜDERSSEN, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und «alteuropäischem» Prinzipiendenken, in ZStW, 1995, (107), p. 877 s. (70) Cfr. C.E. PALIERO, Il principio, cit., p. 517 s. (71) Cfr. C.E. PALIERO, Metodologie, cit., p. 517 s.; G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 323. Più in generale, v. anche: L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 34. (72) Cfr. C.E. PALIERO, op. loc. ult. cit. (73) Così, C.E. PALIERO, op. ult. cit., p. 513 s. e p. 560. (74) C.E. PALIERO, op. ult. cit., p. 560. (75) C.E. PALIERO, op. ult. cit., p. 537. (76) C.E. PALIERO, op. ult. cit., p. 560.
— 428 — sanzionatoria concepita sul modello del «regime di sorveglianza intensivo» e del «servizio di pubblica utilità» (77). L’attenzione alla pena reale non può non convergere, infine, sulla necessità di recuperare l’uguaglianza di trattamento in sede di commisurazione. Obiettivo, questo, che si affianca a quello, per così dire connaturato alle impostazioni funzionalistiche, di assicurare una reale tutela della vittima (78), in parte sacrificata invece dal nostro codice di rito. 3.1. La prospettiva del funzionalismo presenta tuttavia le sue degenerazioni (79). Specie nel contesto delle concezioni sistemiche, l’istanza di effettività della pena finisce per identificarsi con la capacità della risposta sanzionatoria di «normalizzare» i bisogni di pena dei consociati (80). Ne consegue che la necessaria correlazione tra efficacia della pena e consenso sociale assume un rilievo preminente, se non addirittura assorbente, a scapito di altri fondamentali parametri di raffronto tra costi e benefici della repressione penale. Il perseguimento dell’effettività rischia cioè di risolversi nella descrizione, accettazione e legittimazione della «realtà operativa del potere» (81): in una visione pragmatica del sistema repressivo, appiattita sulla premessa, per così dire «apologetica» (82), del «valore in ogni caso positivo del sistema sociale» (83). Com’è intuitivo, spinto all’estremo, il perseguimento dell’effettività mostra i suoi insostenibili costi segnatamente sul piano delle garanzie individuali (84), come confermano, da un lato, le erosioni cui viene sottoposta la funzione garantista del bene giuridico (85), dall’altro lato i tentativi (77) C.E. PALIERO, op. loc. ult. cit. (78) In termini generali, v. K. LÜDERSSEN, Die Krise des öffentlichen Strafanspruchs, Frankfurt am Main, 1989, p. 38; ID., Alternativen zum Strafen, in Festschrift für Arthur Kaufmann, Heidelberg, 1993, p. 492 s. (79) Sui principali equivoci e le conseguenti distorsioni del concetto, v. K. LÜDERSSEN, Das Strafrecht, cit., p. 879 s. V. anche E.R. ZAFFARONI, op. cit., p. 101, che, al riguardo, parla di grave decadenza del pensiero. (80) Cfr. G. JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 13 s. Considera la funzione di stabilizzazione una formula vuota, K. LÜDERSSEN, op. ult. cit., p. 885. Per l’accusa di formalismo dell’impostazione, v. H.J. HIRSCH, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in ZStW, 1994, (106), p. 753. (81) E.R. ZAFFARONI, op. cit., p. 100. (82) Cfr.: B. SCHÜNEMANN, Die Funktion des Schuldprinzips im Präventionsstrafrecht, in Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, a cura di B. Schünemann, Berlin, New York, 1984, p. 181; G. FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, p. 863. (83) E.R. ZAFFARONI, op. loc. cit. (84) Cfr. K. LÜDERSSEN, op. ult. cit., p. 884 s. Osservano che, nell’attuale momento storico, le «diffuse aspettative di sicurezza collettiva rendono la pubblica opinione sensibile soprattutto agli aspetti pratici di efficacia ed efficienza dell’intervento penale, con conseguente svalutazione dei profili di garanzia», G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 25. (85) In argomento, v. H. MÜLLER DIETZ, op. cit., p. 824.
— 429 — di legittimare l’incidenza dell’istanza generalpreventiva sulla commisurazione giudiziale (86). In un contesto meramente funzionalistico, dove il bisogno di pena è destinato a prevalere sul principio di giustizia espresso nella colpevolezza (87), il reo che subisce la sanzione diventa «una sorta di ‘capro espiatorio’, attraverso il cui sacrificio si celebra la rappresentazione dell’ordine esistente ed il ristabilimento della sicurezza di tutti i consociati» (88). Per altro verso, non possono sottacersi i rischi di iper-effettività della pena, specialmente di quella detentiva. L’attualità ne offre diversi esempi. Si pensi, anzitutto, che, in mancanza di valide alternative, il carcere corrisponde oggi all’esigenza di contenere la devianza e la microcriminalità degli spacciatori tossicodipendenti e degli stranieri extracomunitari (89), che costituiscono significativamente alcune delle poche categorie di soggetti per i quali il carcere è altamente probabile. In secondo luogo, è nota l’iper-effettività che caratterizza la custodia cautelare, considerata oggi il vero rischio penale, ma proprio per questo accompagnata talvolta da un plauso sociale che legittima l’anticipazione nel mezzo processuale del fine punitivo (90). In terzo luogo, almeno un accenno meritano i riflessi del consensualismo sull’effettività di talune modalità esecutive della pena, come il regime di sorveglianza particolare di cui al controverso art. 41-bis ord. pen., che incarna e consacra l’effettività dell’inesistente (rectius: del non più esistente): se ne continua a parlare e lo si continua ad applicare, nonostante che molte delle caratteristiche, da cui dipendeva la sua origi(86) Cfr. A. PAGLIARO, Commisurazione della pena e prevenzione generale, in questa Rivista, 1981, p. 26 s.; V. MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Milano, 1982, passim. In senso critico, v. per tutti E. DOLCINI, C.E. PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, 1989, p. 231 (con ulteriori indicazioni bibliografiche). (87) Cfr. H.J. HIRSCH, op. cit., p. 752 s., che rimprovera a Jakobs di aver ridotto la colpevolezza a «mero derivato della prevenzione generale» e di averne obliterato la fondamentale funzione di garanzia. (88) Così G. FIANDACA, op. cit., p. 862. Analogamente, v.: A. BARATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Il diritto penale minimo, cit., p. 456; L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 39, dove si denuncia la subordinazione del cittadino «alle esigenze della società», in nome della «simbologia rassicuratrice legata al rito della pena». (89) V. per tutti G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 328. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, forniti dal ministro Flick in occasione di una recente interrogazione parlamentare (v. Carceri: Flick dà le cifre, in Il sole-24 ore, 24 luglio 1997, p. 22), al 31 dicembre 1996 il numero dei tossicodipendenti detenuti ammonta a 13.859, pari al 29,25% della popolazione carceraria. (90) Nell’ambito di una più ampia disamina, dedicata alla degenerazione degli atti processuali utilizzati come mezzo di controllo sociale, cfr. M. NOBILI, Principio di legalità e processo penale (In ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, p. 659. Sulle cause del fenomeno, v. anche F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 760 s.; da ultimo, cfr. M. PAVARINI, Introduzione, cit., p. 323.
— 430 — naria efficacia, siano state espunte dalla Corte costituzionale in nome dei principi di rieducazione e umanizzazione (91). Mutatis mutandis, gli stessi rilievi possono estendersi a talune tipologie sanzionatorie, quali l’ergastolo e la stessa pena di morte: il primo, confermato, da noi, da un referendum popolare e mantenuto, proprio sulla base di tale argomento, nel citato Progetto di legge delega (92); la seconda, restituita negli USA all’effettività della prassi in ragione di un’asserita aspettativa sociale in tal senso. 3.2. Le indubbie esasperazioni, che affliggono le concezioni funzionalistiche della pena, non devono portare però a sottacerne i punti di forza o, se si preferisce, gli aspetti di plausibilità. Per via della sua delicatezza, la questione merita una breve precisazione. È il caso di ricordare, infatti, che, a differenza delle dottrine assolute della pena, le teorie relative, proprio in quanto espressioni di un diritto penale moderno, ambiscono ad avere un fondamento giustificativo di tipo scientistico (93), e finanche tecnocratico (94). Le funzioni della pena vengono cioè legittimate, non già su basi ideologiche per di più esterne all’ordinamento giuridico, ma nella misura in cui la sanzione è capace di perseguire gli obiettivi di prevenzione e di controllo delle condotte umane, che le vengono assegnati (95). Da tale angolazione, occorre prendere atto, dunque, che, sopratutto in relazione alla prevenzione generale, l’effettività della pena rimane tuttora una realtà indimostrata, a causa dei risultati, per lo più modesti, ottenuti dalle ricerche empiriche che sono state finora condotte (96). In dottrina, non mancano anzi voci ancora più scettiche e «deboliste», che avanzano perplessità sulla dimostrabilità della efficacia (91) Sul punto si rinvia a F. GIUNTA, Commento all’art. 1 l. 16 febbraio 1995, n. 36. Proroga delle disposizioni di cui all’art. 41-bis l. 26 luglio 1975, n. 354, in Lp, 1996, p. 51 s. (92) G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 332, nota n. 36. (93) Cfr. H.L. PACKER, I limiti della sanzione penale, Standford, 1968, trad. it. di F. Ferracuti, M. Ferracuti Garutti, e G. Scardaccione, Milano, 1978, p. 67. Più analiticamente, v. W. HASSEMER, La prevenzione, cit., p. 339 s. Da noi, in argomento v. anche L. FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, cit., p. 494 s. nonché, in termini più generali, Diritto e ragione. Teoria del garantismo, Bari, 1989, p. 198 s. (94) Con riferimento non esclusivo al diritto penale, v. K.L. KUNZ, Einige Gedanken über Rationalität und Effizienz des Rechts, in Festschrift für Arthur Kaufmann, cit., p. 189 s. (95) Cfr. ancora W. HASSEMER, op. loc. ult. cit. (96) V.: G. FIANDACA, op. cit., p. 846; L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 13 e p. 22 s. In termini parzialmente diversi, v. D. DÖLLING, Generalprävention durch Strafrecht: Realität oder Illusion?, in ZStW, 1990, (102), p. 2 s.; in argomento. cfr. anche: H. SCHÖCH, Empirische Grundlagen der Generalprävention, in Festschrift für H.H. Jescheck, cit., p. 1081 s.; F. STRENG, Strafrechtliche Sanktionen. Grundlagen und Anwendung, Stuttgart, Berlin, Köhl, 1991, p. 22 s. La questione si pone in termini parzialmente diversi con riguardo alla funzione specialpreventiva della pena, dato che, attraverso le indagini statistiche sulla recidiva, le conoscenze
— 431 — dissuasiva della pena (97). In particolare, muovendo dalla premessa che il diritto penale opera come meccanismo di conferma dell’identità sociale (98), si nega recisamente che l’effettività di tale funzione sia empiricamente afferrabile: si possono accertare empiricamente i fatti di reato e i relativi processi, non anche la conferma dell’identità sociale, dato che — si osserva (99) — essa non è una conseguenza del suo processo di affermazione, bensì il suo significato. In breve: nell’ambito del paradigma relativo, il problema della funzione generalpreventiva della pena — ma il rilievo vale ovviamente anche per il profilo dell’effettività — rimane impostato in termini principalmente speculativi (100); nei termini cioè di una scientificità ancora oggi non verificabile prasseologicamente, ma non per questo non verificabile, più realisticamente, sul piano della razionalità e plausibilità delle ipotesi esplicative. In tale prospettiva, è difficile negare allora che la sanzione penale svolga una funzione di stabilizzazione sociale e di rafforzamento collettivo del senso di fiducia nel diritto. L’irrogazione della pena — si osserva, del resto, sempre più spesso — persegue anche la minimalizzazione della violenza di quelle sanzioni informali, che opererebbero in luogo della punizione ordinamentale (101). Né deve sopravvalutarsi la funzione «autoreferenziante» di un diritto penale che, chiedendo alla pena di confermare la validità del precetto violato, mirerebbe in definitiva a tutelare se stesso (102). È questa una critica che, condivisibile se rivolta alla patologia di un diritto penale che eleva a reato fatti inoffensivi, risulta eccessiva se intesa a negare la fisiologia della funzione conservativa del diritto penale. In relazione a questa funzione da tempo riconosciuta come latente, il merito della dottrina della prevenzione-integrazione è dunque quello di averla resa palese (103); il difetto, di averla sviluppata in assenza dei neempiriche vengono considerate più attendibili; per considerazioni non dissimili, v. H.L. PACKER, op. cit., p. 64. (97) Di recente, v. C. ROXIN, Strafrecht, Bd I, 2a ed., München, 1994, p. 50. Sul punto, v. altresì i rilievi di A. BARATTA, Vecchie e nuove strategie di legittimazione del diritto penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, pp. 257-258. (98) Cfr. G. JAKOBS, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und «alteuropäischem» Prinzipiendenken, in ZStW, 1995, (107), p. 844. (99) V. ancora G. JAKOBS, op. ult. cit., pp. 844-845. (100) Cfr. anche G. FIANDACA, op. loc. cit. (101) V. ad esempio L. FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, cit., p. 510; ID., Per un programma, cit., p. 58 s. (102) Per questa critica v. G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 43. (103) Non a caso, proprio sotto questo profilo, il novum caratteristico della teoria della prevenzione-integrazione viene da più parti negato. Cfr. ad esempio: A. BARATTA, Vecchie e nuove strategie nella legittimazione del diritto penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 255 (secondo cui la teoria della prevenzione-integrazione trova un classico antecedente nella teoria durkheimiana); L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 36 (che sottolinea le connessioni
— 432 — cessari contrappesi garantistici (104), rappresentati dalla funzione del bene giuridico, sul versante oggettivo, e da quella della colpevolezza, sul versante soggettivo. Da qui, la necessità che l’istanza dell’effettività comprenda «pure la propria delimitazione normativa» (105). La ricerca della stabilizzazione — per riprendere un felice spunto (106) — deve mantenersi cioè all’interno di un’equilibrata dialettica tra le ragioni dell’individuo e quelle della società. Diversamente, le spinte funzionalistiche possono facilmente identificare, nella già criticata visione giustificazionistica dell’intervento punitivo, i bisogni di pena della collettività con quelli dello Stato espressi nel diritto penale. 4. Alle condizioni e nei limiti che si è avuto modo di precisare, non sembra seriamente contestabile che l’effettività della pena incarni un profilo di analisi, da cui non può prescindersi soprattutto nella prospettiva, oramai improrogabile, di una riforma del sistema sanzionatorio. Le pur diverse interpretazioni del concetto di effettività presentano intanto significativi punti di convergenza, confermando l’irreversibile presa di distanza da quegli approcci al sistema delle sanzioni, che, desumendo da pregiudiziali metagiuridiche il fondamento giustificativo della pena, finiscono per condividere le distorsioni che storicamente esse hanno generato. Stante la ritrovata validità dello schema relativo-preventivo, anche nel contesto delle teoriche «deboliste» e della loro critica ai tentativi di giustificazione empirica della pena, il sistema sanzionatorio non può che rimanere saldamente ancorato alla concezione della pena quale strumento di orientamento comportamentale, con il conseguente primato della funzione di prevenzione generale. Destinata a tramontare risulta invece l’idea di pene ab origine rieducative: l’orizzonte dell’effettività limita la fantasia creatrice e invita alla prudenza legislativa, ammettendo, al più, sanzioni dotate di valenza specialpreventiva in termini di non desocializzazione, sul modello — per intendersi — delle nostre sanzioni sostitutive (107). Ma la convergenza si estende al contenimento della discrezionalità giudiziale, attraverso il prosciugamento delle sacche commisurative con il pensiero di U. KLUG, Die zentrale Bedeutung des Schutzgedankens für den Zweck der Strafe, Berlin, 1938). Ulteriori analogie si possono cogliere leggendo F. EXNER, La funzione di tutela e la funzione retributiva della pena, in La funzione della pena, cit., p. 26 s. Più in generale, sulla scarsa originalità della dottrina della prevenzione-integrazione, v.: H. MÜLLER DIETZ, op. cit., p. 824; G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 45. (104) Sulla possibilità di una conciliazione tra la teoria della prevenzione positiva e le istanze di garanzia individuali affermatesi nel contesto del diritto penale liberale, cfr. sostanzialmente S. MOCCIA, Principi normativi di riferimento per un sistema penale teleologicamente orientato, in questa Rivista, 1989, p. 1015, nota 27. (105) Così W. HASSEMER, op. ult. cit., p. 443. (106) Il riferimento è a K. LÜDERSSEN, op. ult. cit., p. 892. (107) Sul punto v. per tutti: E. DOLCINI, Le «sanzioni sostitutive» applicate in sede di
— 433 — in esubero e la ricomposizione del compasso edittale (108). Infine, un sicuro campo di intervento dovrebbe essere quello della semplificazione dell’armamentario sanzionatorio e la potatura degli istituti degenerati in un irriducibile clemenzialismo. Il riferimento è per un verso alla libertà controllata e, per l’altro, all’attuale configurazione degli istituti sospensivi e segnatamente dell’affidamento in prova al servizio sociale. Per converso, singolarmente considerate, nessuna delle interpretazioni dell’effettività sopra tratteggiate è in grado di guidare con mano sicura una moderna riforma del sistema. Entrambe peccano di unilateralità. Valorizzando la funzione e l’importanza della pena comminata, l’effettività-certezza conduce all’irrigidimento del sistema intorno alle valutazioni legislative, con la conseguenza di un’eccessiva svalutazione dei momenti della commisurazione e dell’esecuzione, che diventano presupposti fattuali della validità della comminatoria edittale. Esaltando il ruolo della pena reale, l’effettività-efficacia favorisce invece la crisi di alcune fondamentali garanzie: da quella della legalità delle pene a quella della uguaglianza di trattamento. Senza contare le segnalate deformazioni che la ricerca dell’efficacia subisce dalla sua attrazione in un contesto consensualistico. Ma il riconoscimento che certezza ed efficacia incarnano due aspetti dell’effettività tra loro distinti, non significa che essi siano inconciliabili. La ricerca di un loro punto di equilibrio, anzi, è utile a un approccio alla teoria della pena che — secondo uno schema di analisi largamente condiviso (109) — miri ad assegnare ruoli differenziati alle fasi rispettivamente della comminazione, della commisurazione e dell’esecuzione. Seppure in modo rapsodico, le notazioni che seguono cercheranno conclusivamente di precisare questi concetti. 4.1. Iniziando dalla fase della comminatoria edittale, non foss’altro l’estensione che ha raggiunto oggi la giungla dei divieti penali rende del tutto inverosimile un insegnamento oramai tralatizio e meritevole di revisione. Il riferimento è all’idea che, esercitando un controstimolo motivazionale alla commissione di reati, ogni previsione legislativa di pena operi in termini di coercizione psicologica e dunque di dissuasione-ammonimento, secondo il modello feuerbachiano (110). Che la comminatoria condanna, in questa Rivista, 1982, p. 1400; F.C. PALAZZO, Pene sostitutive: nuove sanzioni autonome o benefici con contenuto sanzionatorio?, ivi, 1983, p. 841. (108) Cfr. T. PADOVANI, op. ult. cit., p. 451; L. FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 67. (109) Cfr. H.J. RUDOLPHI, Der Zweck staatlichen Strafrechts und die strafrechtlichen Zurechnungsformen, in Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, cit., p. 71. Da noi, v. T. PADOVANI, Diritto penale, 3a ed., Milano, 1995, p. 397 s. (110) P.J.A. FEUERBACH, Anti-Hobbes oder über die Grenzen der höchsten Gewalt und das Zwangsrecht der Bürger gegen den Oberherrn, Giessen, 1797, rist. Darmstadt, 1967, p. 203 s.; ID., Lehrbuch, cit., § 13, p. 38. Sulla concezione feuerbachiana della preven-
— 434 — edittale funzioni come messaggio diretto a tutti i consociati indistintamente, ovvero come appello alle singole volontà individuali, è un assioma che sottende una visione antropomorfica dei rapporti di comunicazione tra legislatore e consociati, non immune oltre tutto da pregiudiziali imperativistiche. La spiegazione illuministica della prevenzione generale evoca cioè l’immagine irreale di una norma penale che si dirige a ciascun cittadino, considerandolo edonista razionale, capace cioè di fare (e non fare) qualsiasi cosa al fine di accrescere il benessere personale (111). Anche alla luce dell’esperienza comune, è assai più plausibile che la prevenzione generale origini dall’applicazione concreta della pena e operi rispetto a tutti i soggetti diversi dall’autore del reato (112), attraverso complessi meccanismi di comunicazione sociale, che non importa qui approfondire (113), ma il cui effetto è quello di confermare la validità della norma violata e il suo contenuto precettivo. Orbene, la presa d’atto che la funzione di orientamento comportamentale è affidata alla pena reale, ancor più che a quella edittale, fa sì che alla comminatoria legale vada riconosciuta soprattutto una funzione di certezza. In altre parole: attraverso la fissazione della forbice edittale, la fase della comminazione deve contemperare i principi individualistici del favor libertatis e della colpevolezza con la dimensione solidaristica dell’intervento punitivo, insita nella tutela del bene giuridico e nel perseguimento della stabilizzazione sociale. In questa prospettiva, invero, il minimo edittale costituisce la garanzia del bene tutelato, ovvero la misura di sanzione necessaria e proporzionata alla sua protezione (114); il minimo edittale incarna in definitiva la dialettica tra favor libertatis e istanza di tutela. Il massimo edittale, invece, costituisce la garanzia della colpevolezza, ovvero la misura estrema del sacrificio che si può infliggere all’autore del reato affinché altri non seguano l’esempio negativo del reato; il massimo edittale incarna cioè la dialettica tra istanza di stabilizzazione e principio di colpevolezza. 4.2. Passando alla fase della commisurazione, non può non condividersi la larga convergenza della dottrina sull’opportunità di un contenimento della discrezionalità giudiziale. Premesso che l’istanza di una tutela proporzionata del bene giuridico è compiutamente compresa nel minimo edittale, si potrebbe ritenere che l’applicazione della pena nella misura mizione generale come intimidazione, v. M.A. CATTANEO, Anselm Feuerbach filosofo e giurista liberale, Milano, 1970, p. 207 s.; di recente, cfr. anche M. RONCO, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Torino, 1996, p. 58 s. (111) Così, H.L. PACKER, op. cit., p. 65. V. anche G. RADBRUCH, Propedeutica alla filosofia del diritto, a cura di D. Pasini, Torino, 1959, p. 216. (112) Cfr. H.L. PACKER, op. cit., p. 70. (113) Per una recente analisi v. G. JAKOBS, op. ult. cit., p. 859 s. e spec. p. 867 s. (114) Cfr. T. PADOVANI, op. ult. cit., p. 445 s. e p. 451.
— 435 — nima non richieda particolari oneri di motivazione da parte del giudice. Diversamente deve dirsi per la determinazione della pena in misura differente, e segnatamente in corrispondenza del massimo edittale, che andrebbe ammessa solo sulla base di una maggiore colpevolezza dell’agente, quale può desumersi da una pluralità di indici, tra cui, ad esempio, i motivi che hanno determinato l’agente alla commissione del fatto, l’intensità del dolo e il grado della colpa, la particolare antidoverosità del comportamento illecito e le modalità esecutive del reato. Per evitare che la dialettica tra principio di colpevolezza e istanza di stabilizzazione sociale si risolva in favore della seconda e nella strumentalizzazione del colpevole, nessuno spazio commisurativo autonomo dovrebbe assumere il criterio del bisogno sociale di pena. Al contempo, se si vuole evitare che il principio di colpevolezza soccomba di fronte all’istanza di sicurezza sociale, può risultare opportuna la formalizzazione del divieto di utilizzare la capacità criminale come criterio di commisurazione giudiziale, idoneo a fondare una maggiorazione di pena in ragione della particolare pericolosità individuale del reo. Com’è intuitivo, è questa un’esigenza avvertita soprattutto in relazione alla pena detentiva, il cui contenuto afflittivo consente di perseguire anche l’incapacitazione del colpevole. Per converso, il rilievo (115), di per sé corretto, che la pena comminata è pensata come irrogata non esclude che, a determinate condizioni, alla commissione del reato possa non seguire l’inflizione della pena, senza che ne risenta l’effettività del sistema repressivo. Invero, uno schema di riflessione, attento al rapporto tra costi e benefici, non può non tener conto che per il reo la pena deve essere più svantaggiosa del reato, non anche per la società, soprattutto se il medesimo effetto perseguito dalla sanzione in concreto può essere conseguito con sistemi di ricomposizione del conflitto tra colpevole e vittima, meno costosi e al contempo idonei a evitare il ricorso spontaneo a sanzioni informali. Così, in relazione ai reati in cui la tutela penale è al servizio di interessi privati, a rinforzo delle tecniche di deflazione processuale, qual è ad esempio la perseguibilità a querela (116), può essere sperimentata la proposta di ricorrere al risarcimento del danno come sanzione alternativa alla pena (117). (115) V. per tutti M. ROMANO, op. cit., p. 159. (116) Cfr. F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993, p. 197 s. (117) Amplius C. ROXIN, Risarcimento, cit., p. 17 s.; ID., Strafrecht, p. 64 s. V. anche K. LÜDERSSEN, Alternativen, cit., p. 493, che accenna anche a risarcimenti non necessariamente pecuniari, ma connessi allo svolgimento di attività, lavoro, ecc. Per ulteriori rilievi, v. nella nostra recente letteratura: F.C. PALAZZO, Bene giuridico e tipi di sanzione, in Indice pen., 1992, p. 226 s.; A. MANNA, Le nuove prospettive sanzionatorie a tutela della vittima nel diritto penale, in Studi in memoria di R. Dell’Andro, vol. I, Bari, 1994, p. 511 s.; con accenti critici, M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 873 s.
— 436 — Ma la rinuncia alla pena in concreto può avvenire anche in altre due prospettive. La prima è collegata all’operatività di istituti sospensivi, che andrebbe rigorosamente circoscritta ai c.d. delinquenti primari, colpevoli di reati non gravi. Per non perpetuare le disfunzioni dell’attuale sospensione condizionale della pena, la disciplina della «nuova» sospensione condizionale dovrebbe rispettare la struttura logica dei modelli sospensivi, vale a dire una corretta interpretazione dei tre momenti della prognosi, della messa alla prova e della revoca (118). Invero, contenuta nell’ambito di adeguate presunzioni legislative di immeritevolezza del colpevole, la prognosi dovrebbe operare in modo da riservare la sospensione della pena solamente (ed eccezionalmente) ai soggetti bisognosi di una risposta sanzionatoria di tipo meramente specialpreventivo. Per converso, la revoca dovrebbe realmente sanzionare il fallimento dell’esperimento sospensivo, il cui contenuto probatorio andrebbe orientato anche verso la rimozione delle cause che hanno favorito la commissione del reato. La seconda prospettiva in cui può ammettersi la dissociazione tra accertamento della sussistenza del reato e concreta irrogazione della sanzione è quella della c.d. astensione dalla pena ad opera del giudice della cognizione, secondo il modello dell’Absehen von Strafe di cui al § 60 StGB, accolto, con alcuni aspetti di originalità, anche dal Progetto di legge delega (119). Invero, a differenza del modello tedesco, che, secondo l’interpretazione prevalente, muove dalla superfluità della pena nel complesso delle sue funzioni, il Progetto consente al giudice di «astenersi dall’infliggere la pena, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del reato in misura e forma tale che l’applicazione della pena risulterebbe ingiustificata sia in rapporto alla colpevolezza che alle esigenze di prevenzione speciale» (120). Com’è evidente, la proposta italiana giustifica la rinuncia alla pena in una prospettiva ontologicamente retributiva: essendo il colpevole già afflitto dalla poena naturalis, del tutto superflua risulta l’«ulteriore» irrogazione della pena statuale. La soluzione proposta potrebbe però migliorarsi ammettendo l’operatività dell’istituto, anche nei casi che non presentano alcun bisogno di pena in concreto, in quanto la loro impunità non indebolisce la validità della norma violata e il senso di sicurezza collettiva. Così concepito, l’istituto dovrebbe poter operare in (118) Cfr. F. GIUNTA, Sospensione condizionale, cit., p. 96 s. (119) Di recente, v. ampiamente G. CASAROLI, Novità e realtà di un originale istituto: l’astenzione dalla pena nelle attuali linee di tendenza della codificazione, in Nomos, 1996, pp. 3 ss. (dell’estratto), cui si rimanda anche per un raffronto dell’istituto tedesco con la dispense de peine prevista dagli artt. 132-58 e 132-59. Sull’istituto disciplinato dal § 60 StGB, v. pure C.E. PALIERO, «Minima non curat praetor». Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 431 s. (120) Così l’art. 40, comma, 1, del Progetto.
— 437 — relazione, non solo ai reati colposi, ma anche a quelli dolosi, che hanno prodotto danni a terzi non particolarmente gravi. 4.3. Passando infine alla fase dell’esecuzione, è chiaro che la sua disciplina è strettamente legata ai contenuti e alla caratteristiche di ogni singola tipologia sanzionatoria. Per quel che concerne la pena detentiva, un approccio realistico non può che muovere dalla sua irrinunciabilità per un considerevole numero di reati. Se sul punto vi è larga convergenza di opinioni, sensibili disparità di vedute si registrano sulla durata massima della pena detentiva. Il problema, com’è intuitivo, è tutt’altro che secondario, dato che esso si riconnette direttamente alla possibilità di una progressiva modulazione dei contenuti afflittivi della sanzione. La soluzione va ricercata all’interno di due modelli estremi. Il primo contiene sia la durata massima della pena, sia la sua modificabilità, con il conseguente recupero di identità tra la pena irrogata e quella eseguita sotto il profilo dei contenuti afflittivi (121). Il secondo modello, cui può ricondursi il sistema sanzionatorio attuale, mantiene elevato il massimo di pena detentiva, lasciando spazio in fase esecutiva alla congerie delle misure alternative. Ebbene, preferibile sembra la soluzione intermedia, che, da un lato, contenga la durata massima della pena detentiva in modo da assicurare al condannato una ragionevole speranza di ritorno alla libertà, dall’altro, dia spazio alle misure alternative in modo differenziato a seconda della quantità di pena irrogata. In questa prospettiva, l’esecuzione delle pene detentive potrebbe articolarsi in ideali frazioni temporali, differenziate per contenuto e ordinate per decrescente afflittività. Nella prima frazione, dovrebbero potersi concedere al detenuto, che ne risulta meritevole per la partecipazione alle attività intramurarie e per la condotta positivamente valutabile, solo benefici la cui fruizione è differita alla fine della pena, sul modello — per intendersi — della liberazione condizionale (art. 54 ord. pen.). Nella seconda frazione, potrebbe altresì prevedersi la concessione di «assaggi di libertà», sulla falsariga degli attuali permessi-premio (art. 30-bis ord. pen.). Nella terza frazione, e sulla base di una valutazione diagnostica fondata anche sull’esito dei benefici già concessi nelle prime due frazioni di pena, potrebbe ammettersi il detenuto a un regime semidetentivo, per un numero di ore al giorno progressivamente crescente. Proprio perché concepito come modalità esecutiva della pena del tutto equivalente alla detenzione, tale regime dovrebbe caratterizzarsi per un meccanismo di revoca tendenzialmente automatico, che, da un lato, sanzioni i comportamenti in(121) In tal senso v. G. NEPPI MODONA, op. cit., p. 341. In senso critico, di recente, v. invece A. MARGARA, Ancora sulla pena e la sua funzione: le parole e le cose e le pietose bugie, in Questione giustizia, 1997, p. 76, che si schiera a favore del mantenimento di una flessibilità — si potrebbe dire — razionale della pena.
— 438 — compatibili con la prosecuzione dell’esperimento extrapenitenziario, dall’altro lato, precluda per il futuro la concedibilità di benefici in libertà. Nella quarta e ultima frazione di pena, ricorrendone i presupposti di meritevolezza, il detenuto potrebbe essere ammesso a un regime sospensivo in libertà, assistito dai centri di servizio sociale. Allo scopo di bilanciare il deficit di controllo penitenziario con la necessaria responsabilizzazione del detenuto, il fallimento dell’esperimeno sospensivo dovrebbe comportare la non scomputabilità dal fine-pena del tempo trascorso in libertà. Per i reati meno gravi, invece, la previsione, da tempo auspicata (122), di una pena semidetentiva come autonoma sanzione edittale sembra incontrare oggi crescenti consensi (123), come dimostra anche l’adozione di tale soluzione nel citato Progetto di legge delega, seppure limitatamente ai reati contravvenzionali (art. 37). Quanto alle pene pecuniarie, è fin troppo intuitivo che la loro effettività coincide del tutto con la loro indefettibilità (124). Non risulta condivisibile, pertanto, la sospendibilità condizionale della pena pecuniaria proposta dal Progetto di legge delega (art. 42 n. 2). Come si è detto, infatti, la sospensione condizionale della pena può giustificarsi solo nel caso in cui, per le caratteristiche dell’agente concreto, all’intervento punitivo risulti preferibile una risposta in termini specialpreventivi. Ma è questa una situazione difficilmente verificabile ove si ritenga che la pena pecuniaria sia destinata a colpire o reati di modesta gravità, che facciano presumere un’altrettanto modesta inclinazione a delinquere dell’autore, o fatti anche più gravi, ma, per la natura degli interessi tutelati, più efficacemente disincentivabili proprio attraverso l’indefettibilità del contenuto patrimoniale della sanzione. 5. Il quadro che è stato tratteggiato — va da sé — non ha pretese di completezza. In modo cursorio si è cercato soltanto di rappresentare una possibile interpretazione dell’effettività come criterio-guida verso un sistema sanzionatorio che, secondo la comune aspirazione, sia credibile e praticabile. Com’era inevitabile, nello svolgimento del compito non si è potuto fare a meno di alcune scelte di valore, tra cui quella insita nella temporaneità della pena detentiva e, per converso, nella contrarietà all’ergastolo, che pure può incrementare l’efficacia della risposta sanzionatoria. (122) Cfr. A. PAGLIARO, Prospettive di riforma, in Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, cit., p. 425; con riferimento alle sanzioni sostitutive, v. F. GIUNTA, Sanzioni sostitutive, in Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano, 1986, p. 877. (123) Cfr. per tutti L. MONACO, C.E. PALIERO, op. cit., p. 452, che si mostrano favorevoli a un modello sostitutivo con contenuto sanzionatorio non detentivo, inserito direttamente nelle comminatorie di parte speciale. (124) Cfr. T. PADOVANI, La pena pecuniaria nel progetto di «modifiche al sistema penale», in questa Rivista, 1980, p. 1185.
— 439 — Si tratta di una scelta ispirata al principio di umanizzazione della pena, che, facendo appello al sentimento della ragione, ammette inevitabili variabili ricostruttive. Quanto all’opzione per pene detentive compatibili con un trattamento risocializzativo, essa riproprone una ideologia della pena, imposta dal dettato costituzionale, ma non per questo meno bisognosa di essere riaffermata, specie di fronte alla difficoltà, troppo spesso lamentata, di coniugarla con l’efficacia del sistema repressivo. In realtà, non sembra che l’effettività possa esaurire l’orizzonte della pena, che è anche riproposizione di valori. FAUSTO GIUNTA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Ferrara
PROFILI DI TIPICITÀ DEL CONCORSO: CAUSALITÀ, COLPEVOLEZZA E QUALIFICHE SOGGETTIVE NELLA CONDOTTA DI PARTECIPAZIONE (*)
1. Il titolo che mi è stato assegnato può facilmente essere modificato, dando luogo quasi ad un gioco di parole. I profili sarebbero in realtà di atipicità, mentre dovrebbe parlarsi di problemi di tipicità nel concorso. Nella letteratura penalistica è ormai opinione diffusa che la vigente disciplina del concorso di persone contrasti con il canone della tipicità dell’illecito penale, fino a configurare, secondo alcuni, un conflitto con il principio costituzionale di determinatezza/tassatività (1). È noto come questo vizio sia fatto risalire prevalentemente alla scelta del legislatore del 1930 di adottare un modello unitario di tipicizzazione della fattispecie concorsuale, con la conseguente assenza di parametri normativi che fissino precisamente i contorni delle condotte di partecipazione, quanto meno determinando la soglia minima di rilevanza penale; connesso a questo aspetto quello della parificazione sanzionatoria stabilita dall’art. 110, che rimette al momento applicativo, solo in parte guidato dalle aggravanti e attenuanti previste dagli artt. 112 e 114, la graduazione della responsabilità dei concorrenti. Altrettanto ricorrente è quindi l’affermazione che la diversa tecnica normativa di tipicizzazione delle differenti forme di partecipazione meglio darebbe soddisfazione all’esigenza di tipicità, orientando il giudice (2). Ma è opportuno non sopravalutare il significato di quest’ultima scelta (3). Si può in proposito notare come, sia l’esperienza storica (quella del (*) Relazione tenuta al seminario su « CONCORSO DI PERSONE NEL REATO E REATI ASSOCIATIVI (Frascati 18-20 settembre 1997) organizzato dal Consiglio superiore della magistratura (nona commissione - tirocinio e formazione professionale) ». (1) Cfr. gli autori richiamati da DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, 175, n. 1; GRASSO, Disciplina normativa della compartecipazione criminosa e principio di tassatività della fattispecie, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale (a cura di A. Stile), Napoli 1991, 131. (2) GRASSO, op. cit., 143. (3) L’indicazione, da un punto di vista comparato, è di PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, 274.
— 441 — codice Zanardelli (4)), sia quella comparatistica (ci riferiamo in particolare al codice tedesco (5)), dimostrino il carattere solo apparente della maggiore determinatezza di definizioni differenziate basate su clausole generali (autore, complice, istigatore...), che altro non riproducono se non quelle tipologie di concorso mai abbandonate da dottrina e giurisprudenza, anche nel contesto di sistemi indifferenziati. Questo tipo di soluzione, infatti, se può delimitare l’arbitrium judicis nell’individuazione della sanzione, non risolve il problema della identificazione della soglia minima di partecipazione, riproponendolo, in modo invariato, nei criteri di identificazione della complicità e dell’istigazione. A riprova di quanto affermato la circostanza che vede una sostanziale corrispondenza, su questi ultimi argomenti, tra gli orientamenti giurisprudenziali in ordinamenti caratterizzati da scelte apparentemente opposte. Per quel che concerne la Germania, ad esempio, « si è ritenuta sussistente una forma di complicità (Beihilfe) nel comportamento di chi con la sua presenza ha dato all’esecutore un ‘‘accresciuto sentimento di sicurezza’’ ovvero di chi, conoscendo un piano delittuoso e non rivelandolo, assiste alla sua esecuzione; si è inoltre affermata una complicità in omicidio a carico di chi continui una relazione amorosa, pur sapendo che il proprio partner ha intenzione di uccidere il coniuge » (6). Ciò porta, da un lato, a non sopravalutare la contrapposizione tra scelta unitaria e scelta differenziata per clausole generali (7), dall’altro, a porre in evidenza la tensione tra principio di difesa sociale contro la criminalità collettiva e quello, basilare, di garanzia, incarnato dalla tipicità, che finisce con l’accomunare, su questo tema, tutti i sistemi normativi (8). Questa constatazione non implica, tuttavia, che i profili di atipicità, indiscutibilmente caratterizzanti il nostro sistema, non abbiano spinto la dottrina penalistica a prospettare soluzioni. In particolare quella che, proprio alla luce delle considerazioni che precedono, individua nella definizione normativa delle modalità di concorso, ed in particolare di quelle minime, il modo per contenere estensioni giurisprudenziali eccessive della compartecipazione criminosa (9). Una connotazione relativa dell’atte(4) INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Digesto disc. pen., vol. II, Torino, 1988, 440. (5) FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova 1993, 421 ss. (6) GRASSO, op. cit., 144. (7) Significativo come nel lavoro che, in termini più approfonditi da un punto di vista storico e comparatistico, ha affrontato il tema delle tecniche normative di definizione del concorso (SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano 1987) l’autore, pur manifestando la propria preferenza per un ritorno al sistema differenziato, non ritenga ancora maturi i tempi per una riforma degli artt. 110 e ss. in quella direzione. (8) PRADEL, op. cit., 278 ss. (9) GRASSO, op. cit., 143 ss. che tuttavia, per evitare possibili aggiramenti giurisprudenziali, anche in questi casi suggerisce di arricchire le definizioni oggettive, con il riferi-
— 442 — nuante prevista dall’art. 114, 1o comma, varrebbe inoltre a superare lo stallo nella sua applicazione e a vincolare la giurisprudenza nella graduazione delle pene (10). Ispirazione in parte recepita dallo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (11): l’art. 26 stabilisce che concorre nel reato « chi, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva, dà un contributo necessario, o quanto meno agevolatore, alla realizzazione dell’evento offensivo ». È inoltre definito il concorso per agevolazione nel fatto di chi « con la sua condotta ha reso più probabile o più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo ». Si mantiene un unitario quadro sanzionatorio, corretto tuttavia dalla previsione di una graduazione della sanzione « in dipendenza del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa » (art. 28) e da un’attenuante, obbligatoria, per l’agevolatore. Soppressa la previsione dell’attuale art. 117, mentre il nodo dell’art. 116 è sciolto tentando di adeguarne la disciplina al principio di colpevolezza (art. 29) (12). Questa, in estrema sintesi, la prospettiva in cui si è mossa la letteratura penalistica. Un indirizzo in gran parte recepito dal progetto di riforma del 1992. A questo generalizzato approccio critico non ha corrisposto un analogo atteggiamento da parte della giurisprudenza. Si è così affermato che « la giurisprudenza non ha impiegato il margine di discrezionalità che le è stato attibuito per ridurre l’alone di indeterminatezza della fattispecie concorsuale, ma anzi ha contribuito ad estendere l’area del penalmente rilevante fino a ricomprendere comportamenti che esprimono una generica solidarietà o adesione al fatto realizzato dall’esecutore, al di fuori di qualunque contributo obiettivo alla sua realizzazione » (13). A proposito della causalità Padovani notava come la vigente disciplina del concorso conduca le prassi applicative ad una nozione estensiva di autore di tipo sintomatico: questo avviene con uno scambio tra due piani di valutazione che dovrebbero restare distinti. Quello sostanziale e mento al carattere di antecedente indispensabile della condotta rispetto alla realizzazione concorsuale. (10) GRASSO, op. cit., 145. Secondo Donini (op. cit., 242 ss.) l’art. 114, 1o comma, insieme all’art. 110, violerebbe gli artt. 3, 1o comma e 27, 1o comma Cost. « imputando al fatto proprio un disvalore che non gli compete, stante la diversità delle situazioni previste, che richiedono una diversa regolamentazione astratta, e in questo senso imputando il fatto altrui ». (11) In Documenti giustizia, 1992, 306 ss. (12) INSOLERA, Un dibattito sulla riforma del codice penale, resoconto del convegno Il concorso di persone ed il tentativo nello schema di legge delega per il nuovo codice penale in Studi senesi, 1995, 508 ss. (13) GRASSO, op. cit., 143.
— 443 — quello processuale. Così la valorizzazione di condotte neutre ed inefficienti sotto il profilo causale — ad esempio, la mera presenza sul luogo del reato — può avvenire solo in quanto si tratta di comportamenti di personale adesione all’altrui azione delittuosa. Ciò rende evidente come, nell’interscambio dei piani di valutazione, il mezzo di prova — la condotta sulla base della quale dimostrare una concreta adesione — si trasformi in sintomo del profilo soggettivo, per poi essere apprezzato come condotta di concorso tout court (14). Sul problema della tipicità del concorso si può quindi cogliere una discrasia tra i percorsi della dottrina e quelli della giurisprudenza, in un contesto di inerzia legislativa purtroppo confermata dalla caduta di attenzione nei confronti della ipotesi riformista culminata nel progetto della cd. commissione Pagliaro. A ben vedere tuttavia i profili di indeterminatezza e, quindi, gli eccessi di discrezionalità, non sembrano da inscrivere nell’ambito di un mutato equilibrio tra definizione legislativa, apporti dottrinali e cd. diritto penale giurisprudenziale, che caratterizzerebbe l’odierna realtà della giustizia penale (15). Già si è segnalato come la questione si ponesse fin dall’adozione della laconica (e tautologica) locuzione dell’art. 110, in un contesto, quello del codice Rocco, che era, per altri versi, caratterizzato invece da diffidenza rispetto agli spazi di discrezionalità giudiziale. Nè poteva assegnarsi troppo credito alle semplicistiche ed ottimistiche affermazioni sulle capacità risolutrici del ricorso al paradigma dell’equivalenza delle condizioni per identificare la soglia del contributo punibile (16). Ecco che allora, nella strutturale carenza di tipicità del concorso, può cogliersi una sorta di vicenda parallela a quella propria dell’illecito monosoggettivo. Vicenda parallela connotata, e pour cause, da un allentamento dei parametri di garanzia di carattere sia dogmatico, sia costituzionale. La valutazione in termini di maggiore temibilità della criminalità collettiva che ispirò, anche in base ad indicazioni della Scuola positiva, il rigorismo del codice del 1930 (17), continua ad esprimersi nella flessibilità delle categorie penalistiche (causalità, colpevolezza, tipicità della condotta nel reato proprio), quando l’illecito sia frutto di realizzazione concorsuale. È così affidato ad enunciati giurisprudenziali il compito di piegare alla concretezza del caso, alle istanze di difesa sociale che esso sollecita, la rigidità di categorie e principi. Si tratta quindi di un’atipicità veramente strutturale, che determina (14) PADOVANI, relazione inedita al convegno Il concorso di persone ed il tentativo etc., cit. (15) In argomento gli interessanti atti del convegno su Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, sopra ricordati. (16) Diffusamente DONINI, op. cit., 180 ss. (17) DONINI, op. cit., 184.
— 444 — una sorta di « supplenza », capace di esprimersi in tendenze e revirement giurisprudenziali, in taluni casi, di non difficile lettura rispetto a contingenti ragioni di politica criminale. Esse percorrono il campo del concorso, e quello contiguo dei delitti associativi, disimpegnando il legislatore da scelte sul piano dei principi (basti pensare alla punibilità del cd. tentativo di concorso, a quella della conspiracy, alla responsabilità oggettiva per i reati scopo di capi ed organizzatori delle associazioni criminali, alla esplicita previsione del concorso esterno nei reati associativi). 2. È con questa chiave di lettura che proverò ad esaminare i profili di tipicità della causalità. È noto come la convinzione, nel regime indifferenziato, della possibilità di tipicizzare il contributo concorsuale attraverso il paradigma della condicio sine qua non, abbia dimostrato immediatamente di essere infondata. In estrema sintesi questi i suoi punti critici: a) l’interpretazione dominante, per altro imposta dal dato testuale, dell’art. 114, 1o comma (contributo di minima importanza come contributo non necessario e, quindi, estraneo al paradigma di equivalenza delle condizioni); b) le ipotesi di concorso in cui accanto a comportamenti indispensabili per la realizzazione del reato è dato cogliere condotte che senza il requisito della indefettibilità, si limitano a favorire il raggiungimento del risultato, come tali apparendo, comunque, meritevoli di pena (casi della fornitura del mezzo non necessario o, in concreto, non utilizzato, ovvero del contributo rivelatosi ex post superfluo) (18); c) il carattere fittizio della causalità nelle ipotesi di concorso morale, dove, per superare la probatio diabolica dell’effettiva efficacia determinatrice o rafforzatrice della condotta, si abbandona lo schema condizionalistico, in favore di giudizi di carattere meramente prognostico-probabilistico. Un varco che tende ad ampliarsi con l’inquadramento nel concorso morale per rafforzamento di contributi materiali non necessari (19). Non è questa la sede per ripercorrere le varie ipotesi prospettate dalla letteratura penalistica per superare questa impasse (20): con grande approssimazione possiamo distinguere gli approcci che non rinunciano al paradigma causale nella tipicizzazione del contributo punibile, cogliendone l’irrinunciabile valore di garanzia, da quelli che, invece, se ne allontanano. Per la prima tendenza resta fermo il ricorso alla causalità, ma si trat(18) INSOLERA, voce Concorso cit., 222 ss. (19) Ibidem, 16. (20) Ibidem, 47 ss.
— 445 — terà di apprezzare i singoli contributi alla luce delle concrete modalità del fatto (21) ed escludendo i decorsi ipotetici (22). Si discosta da questo impianto la teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo capace di intervenire in tutte quelle ipotesi in cui la formula della condicio manifesta i propri limiti (23). Prospettiva questa recepita dalla definizione dell’agevolazione fatta propria dal citato Schema di delega legislativa. Essa, se da un lato limita la discrezionalità sul piano sanzionatorio, imponendo una differenziazione, dall’altro, non mi sembra risolutiva quanto alla funzione tipicizzante della causalità. Ed è muovendo da questa osservazione che la critica più ricorrente a questa teoria (24), vi coglie l’apertura a quelle concezioni che rinunciano definitivamente ad apprezzare la condotta concorsuale in base alla sussistenza di un legame eziologico con il risultato criminoso, ritenendo sufficiente una valutazione ex ante della sua idoneità ad aumentare le probabilità di realizzazione del reato (25). Le concezioni cd. prognostiche hanno una discreta fortuna giurisprudenziale e influenzano anche taluni autori (26), soprattutto attraverso il concetto di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, capace, ad esempio, di dare rilievo concorsuale alla mera presenza sul luogo del reato sintomatica di un incoraggiamento all’azione delittuosa dell’autore o, addirittura, di una chiara adesione ad essa (27). La portata di questi enunciati è inoltre ampliata, mascherando assai spesso il concorso morale per rafforzamento i casi di contributi materiali superflui. Evidente come in questo modo vi sia una carenza di tipicità, mancando un legame causale effettivo, ma, soprattutto, è altrettanto evidente come così si finisca col punire un tentativo di partecipazione (28), ipotesi apparentemente esclusa dall’art. 115 (29). (21) PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo 1952, 48; STORTONI, Agevolazione e concorso di persone nel reato, Padova 1981; GRASSO, op. cit., 136 ss. (22) Chiaramente in DONINI, attraverso la distinzione tra condizionalità e causalità, op. cit., 205 ss. (23) PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano 1996, 561; MANTOVANI, Diritto penale, Padova 1992, 526; ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura oggettiva della partecipazione, in Indice pen., 1977, 626 ss. (24) GRASSO, op. cit., 134 ss.; DONINI, op. cit., 227 ss. (25) GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano 1990, 154 ss. (26) Come nota GRASSO, Disciplina normativa cit., 133. (27) Cfr. la giurisprudenza richiamata da GRASSO, Commentario cit., 159. (28) Ibidem, 154. (29) Né potrà escludersi la configurabilità dell’art. 115 perché un reato comunque è stato commesso: l’esclusione di un effettivo legame causale implica infatti l’estraneità del rafforzatore, rispetto alla realizzazione del reato. Istigazione o adesione all’altrui proposito criminoso vengono quindi punite di per sé, senza collegamento con il reato da altri realizzato.
— 446 — Ma, come anticipato, proprio questo può essere l’arcano della inafferrabile tipicità della compartecipazione criminosa. A differenza di quanto previsto da altri ordinamenti (30), questa anticipazione della punibilità non trova esplicita previsione normativa, ma viene affidata alla decisione del caso concreto, a cui contribuiranno criteri, difficilmente ricavabili dalla massime giurisprudenziali, capaci di valorizzare il livello di allarme sociale destato dal singolo accadimento, i sintomi di appartenenza al tessuto organizzativo del reato realizzato, fino ad elementi strettamente pertinenti alla fisionomia personale dell’agente, con quella confusione tra piano sostanziale e probatorio messo bene in evidenza da Padovani. Non diversamente interpretabile è la vicenda del cd. concorso esterno nei delitti associativi, se in essa si coglie un ulteriore vulnus al principio di tipicità (31). Alla giurisprudenza si lascia il compito di utilizzare lo spazio « vago » offerto dall’art. 110 e, in questo caso, dalla stessa condotta di partecipazione al delitto associativo, per dare corpo ad istanze politico criminali repressive nei confronti di soggetti contigui alle organizzazioni criminali. A ciò corrisponde una deresponsabilizzazione del legislatore che ben potrebbe invece tipicizzare specifiche forme di agevolazione esterna (32), soluzione questa certo preferibile sotto il profilo della tipicità, ovvero, con almeno una più precisa assunzione di responsabilità politica, esplicitamente dilatare la previsione del reato associativo (33). (30) Sulla figura della conspiracy, GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, Padova 1993; sulla punibilità del tentativo di concorso nel codice tedesco, FORNASARI, op. cit., 451 ss. e SPASARI, Ragione e prevaricazione nella seconda legge di riforma del codice penale tedesco, in questa Rivista, 1979; la cospirazione e la proposta di delinquere sono puniti, dall’art. 17 del nuovo codice spagnolo, ma solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Il nuovo codice penale francese esclude la punibilità del tentativo di concorso (PRADEL, Droit pénal, Paris 1995, 440 ss.), essa può tuttavia passare attraverso la previsione dell’associazione di malfattori (art. 450-1). Se pura la nuova previsione appare fortemente riduttiva rispetto al precedente testo, resta la punibilità anche del mero accordo stabilito in vista della preparazione di uno o più crimini o delitti. (31) CONTENTO, Il concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, ricerca Cnpds-Cnr sulla riforma della parte generale del codice, 1983 dattiloscritto; F. SIRACUSANO, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, 1879; INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna 1996, 105. Per un esame della giurisprudenza in argomento VISCONTI, Il tormentato cammino del concorso esterno nel reato associativo, in Foro it., II, 1994. (32) In tal senso DE FRANCESCO, Commento agli art. 11-bis e 11-ter D.L. 8/6/92 n. 306 (antimafia) in Leg. pen., 1993, 132; MANNA, L’ammissibilità di un cd. concorso esterno nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in questa Rivista, 1994, 1199 ss. (33) È l’esempio di recente offerto dalla previsione del reato di organizzazione criminale, introdotto nel codice elvetico. L’art. 260-ter accanto alla condotta di partecipazione prevede quella di chi sostiene l’organizzazione nell’attività criminale. In questo modo, per al-
— 447 — Ma, anche in questo caso, come espressamente teorizzato, l’utilizzo di rigidi criteri normativi « potrebbe costituire un ostacolo a risposte adeguate alla varietà, ed alla variabilità, delle situazioni che si possono presentare in concreto, ed alle diverse sfumature che possono caratterizzare di volta in volta le singole situazioni » (34). Ecco che allora la carenza di tipicità non costituisce più un effetto indesiderato, ma un modo per trasferire sul giudice scelte assai impegnative di politica criminale, confliggenti con il quadro di principi che restano apparentemente intangibili. Ma un’ulteriore conferma dei supposti « pregi » di questa duttilità, la troviamo soffermandoci su altro punctum dolens della tipicità concorsuale. Penso al tema della responsabilità di capi ed organizzatori per i cd. delitti scopo delle associazioni criminali. La questione della responsabilità di posizione di questi soggetti, se, come vedremo, investe in modo evidente il profilo della colpevolezza, con il suo automatismo non può non riguardare anche quello della causalità. Nel tempo le soluzioni giurisprudenziali appaiono decisivamente condizionate dalle emergenze di lotta a particolari forme di criminalità associata. Così alla ricorrente tendenza della giurisprudenza di merito a configurare una responsabilità per concorso morale dei capi, di natura presunta ed oggettiva, hanno corrisposto, in sintomatica coincidenza con l’attenuarsi delle « ragioni » dell’emergenza di turno, interventi della Cassazione volti a riaffermare il vigore delle ordinarie regole della compartecipazione (35). 3. L’ultimo argomento trattato si ripropone occupandosi dei profili di tipicità della colpevolezza. L’automatica responsabilità dei capi ed organizzatori travolge infatti la necessaria configurazione dolosa della fattispecie concorsuale, approdando ad una vera e propria responsabilità per fatto altrui (36). Anche a questo proposito, ad una, certo non condivisibile, ma, quanto meno, determinata (e censurabile dalla Corte costituzionale) opzione legislativa (37), si preferisce il procedere ondivago della giurisprutro, non si è certamente realizzata una tipicizzazione frammentaria dei contributi esterni, bensì la definizione normativa di un concetto allargato di partecipazione. (34) GROSSO, La contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in questa Rivista, 1993, 1190. (35) INSOLERA, Diritto penale cit., 1996, 116. (36) E. GALLO, Concorso di persone nel reato e reati associativi, in Rass. Giust. milit., 1983, 1 ss.; GAMBERINI, Responsabilità per reato associativo e concorso nei reati fine, in Foro it., 1986, II, 150 ss.; GRASSO, Concorso di persone cit., 156. Per una impostazione, ameno in parte, adesiva DE MAGLIE, Teoria e prassi dei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati fine, in questa Rivista, 1987, 951. (37) Ciò che avviene, ad esempio, negli Stati Uniti con la Pinkerton rule, addossando
— 448 — denza a cui è affidata la gestione dell’alternarsi di fasi di emergenza, a fasi caratterizzate, invece, dalla riaffermazione dei principi. Ma il campo in cui, tradizionalmente, hanno dominato approcci indeterminati alla fisionomia soggettiva della compartecipazione, è quello occupato dall’art. 116 c.p. È noto come, fin dalla sua entrata in vigore, la norma abbia avuto sia in dottrina, sia in giurisprudenza, letture diverse. Da una configurazione a dolo eventuale, al dolus generalis, alla responsabilità oggettiva pura del versari in re illicita, alla responsabilità da rischio illecito (38). Già questo ondeggiamento, nelle sue traduzioni giurisprudenziali, dà la misura del grande margine di elasticità in cui si è mossa l’applicazione dei criteri di responsabilità per il reato diverso da quello voluto. Ma la deviazione più significativa dai canoni di individuazione tipica del profilo soggettivo di questa fattispecie concorsuale, crediamo che sia stata indotta dalla nota pronuncia della Corte costituzionale del 1965 (n. 42). Il riferimento alla prevedibilità logica, da un lato, ha dato luogo ad un dominante utilizzo in astratto del criterio, che ha finito con il costituire un mero camouflage della responsabilità oggettiva, dall’altro, soprattutto, ha comportato esiti di applicazione non tassativa della fattispecie, delineandone il profilo soggettivo in termini non riconducibile alle previsioni dell’art. 43 c.p. (39). « Una sorta di ‘‘colpa dimezzata’’, a mezza via tra i canoni della causalità umana e la colpa vera e propria » (40). Nonostante ragionevoli aspettative di un intervento su questo nodo veramente cruciale della compartecipazione (41), dopo la sentenza costituzionale n. 364 del 1988, il quadro di incertezza non mi pare affatto cambiato. Ancora, nella più recente giurisprudenza della Cassazione, si ricorre sovente al criterio della prevedibilità in astratto, « secondo l’id quod plerumque accidit » (così, ad esempio, Cass. sez. I, 28 giugno 1995, Cocuzza, in Giust. pen., 1996, II, 335; analogamente, Cass. sez. I, 14 marzo 1996, Caccavo, in Ced. Cass. rv. 204665). Una tendenza, minoritaria, cerca, invece, di salvare la previsione, rena ciascun cospiratore, per il solo fatto della conspiracy, la responsabilità per ogni fatto realizzato in esecuzione del programma comune. Cfr. GRANDE, op. cit., 313 ss. (38) INSOLERA, voce Concorso cit. 262 ss.; GRASSO, Concorso cit., 202. (39) INSOLERA, Tentativo di una diversa lettura costituzionale dell’art. 116, in questa Rivista, 1978, 1489 ss. (40) BRICOLA, citato da INSOLERA in Un dibattito sulla riforma cit., 509. (41) Aspettative rinvenibili in molte delle relazioni e degli interventi al convegno su « Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza » svoltosi a Siracusa per iniziativa dell’ISISC poco dopo la pronuncia della sentenza n. 364 del 1988. Gli atti sono pubblicati in Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, (a cura di A. Stile), Napoli 1989.
— 449 — dendola coerente alle indicazioni della Corte costituzionale, e prospetta un’attribuzione a titolo di colpa dell’evento diverso (così ad esempio, Cass. sez. I, 1 novembre 1995, Fortebraccio, in Giust. pen. 1996, II, 324). Soluzione insoddisfacente, tuttavia, posto che al problema di costituzionalità dell’art. 116 contribuisce in modo decisivo il livello sanzionatorio agganciato comunque all’ipotesi dolosa. Occorre a questo punto chiedersi perché la giurisprudenza abbia preferito continuare a percorrere la strada dell’incertezza, anziché, dopo gli obiter dicta della Corte sulla responsabilità oggettiva nella sentenza n. 364, proporre direttamente la questione di costituzionalità dell’art. 116. La risposta risiede forse, ancora una volta, nella preferenza accordata allo strumento proprio in quanto carente di tipicità, in questo caso sul versante della colpevolezza: non dimentichiamoci, inoltre, come la previsione dell’art. 116 rappresenti il momento di massima espansione del paradigma di attribuzione della responsabilità disegnato dalla struttura causale dell’art. 110. Vero e proprio « fiore all’occhiello » del rigorismo nei confronti della esecuzione concorsuale dell’illecito. 4. L’argomento del concorso nel reato proprio pone in ulteriore evidenza i problemi di tipicità della compartecipazione criminosa. E ciò in termini generali. È infatti evidente come nella dimensione monosoggettiva il tipo non permetta di definire autore un soggetto privo della qualifica soggettiva richiesta. Quest’ultima, infatti, esprimendo un particolare rapporto con l’interesse tutelato, ne circoscrive la possibilità di lesione alla sola condotta dell’intraneus. È indiscusso per altro che questo limite non concerna l’eventualità di una esecuzione concorsuale in cui un soggetto qualificato potrà essere affiancato da un estraneo, parimenti punibile (42). Argomento controverso è invece quello riguardante la sfera di applicazione dell’art. 117. In contrasto con l’orientamento assolutamente dominante una recente decisione della Cassazione ha ritenuto che la fattispecie disciplini la materia del concorso nel reato proprio e trovi, quindi, applicazione anche nel caso di consapevolezza da parte dell’extraneus dell’altrui qualifica soggettiva che implichi il mutamento del titolo di reato (43). Questa soluzione appare difficilmente compatibile con un’interpreta(42) Pur con diverse posizioni per quanto riguarda il ruolo del soggetto qualificato, cfr. per tutti GRASSO, Il concorso cit., 208 ss., di recente PELISSERO, Consapevolezza della qualifica dell’intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento del titolo di reato, in questa Rivista, 1996, 328 ss. (43) Cass. sez. II, 19 marzo 1992, Merli, in questa Rivista, 1996, 322, con nota di PELISSERO, cit.
— 450 — zione sistematica secondo la quale invece « l’art. 117 non disciplina i casi in cui l’extraneus è a conoscenza della qualifica soggettiva del concorrente (ipotesi compresa nella disciplina generale dell’art. 110), ma i casi in cui tale conoscenza manchi: anche in tal caso l’extraneus risponde del reato proprio a condizione che si abbia non un’incriminazione ex novo per effetto della qualifica, ma solamente il mutamento del titolo di reato » (44). Essa, tuttavia, esprime il disagio verso un evidente caso di responsabilità oggettiva: anche a questo proposito si può rilevare come in giurisprudenza si ricorra ad una interpretazione non tassativa, piuttosto che alla sottoposizione della questione alla Corte costituzionale. Vorrei concludere soffermandomi su un interessante caso in tema di concorso nel reato proprio (si tratta del cd. processo Enimont), che mi pare dimostri, ancora una volta, il congegnarsi degli spazi consentiti dalla strutturale carenza di tipicità, con le emergenze politico-criminali. Ragionando del concorso dell’extraneus nel reato proprio di false comunicazioni sociali, il Tribunale di Milano (45), da un lato, escludeva che Cusani, soggetto privo di qualifica, avesse, anche di fatto, svolto i ruoli previsti dall’art. 2621 c.c. o che, comunque, si fosse occupato dei bilanci della Montedison e di altre società del gruppo, dall’altro, come è noto, configurava il concorso dello stesso, oltre che nei reati « presupposti » (illecito finanziamento ai partiti e appropriazione indebita), anche in quello di falso in bilancio per concorso morale. L’argomentazione, incentrata sul profilo della causalità, dava rilievo alla centralità della condotta dell’imputato nella creazione e nell’utilizzo riservato della « provvista » illecita, « pertanto il falso in bilancio si presentava come la necessaria conclusione di questa condotta. Cusani accettando l’incarico, doveva sapere o quanto meno prevedere che Montedison avrebbe poi falsificato i bilanci servendosi delle sue strutture tecniche; lo aveva previsto e se ne è assunto il rischio ». Non è difficile accorgersi come in questo modo si sia elusa completamente la stessa necessità di individuare la condotta concorsuale punibile in relazione al fatto descritto dall’art. 2621 c.c. — è il Tribunale ad escludere espressamente un concorso tramite cd. consiglio di ordine tecnico — sostituita da un mero connotato soggettivo: la previsione del comportamento illecito dei soggetti qualificati. A ben vedere non ci discostiamo da artifici, già esaminati parlando della causalità, che, nell’ambito del concorso morale, valorizzano il profilo soggettivo a scapito della oggettiva definizione del contributo concorsuale (si pensi alla presenza nel luogo del reato espressiva dell’adesione all’al(44) PELISSERO, op. cit., 332 ss. (45) Sentenza 28 aprile 1994, Cusani, in Foro. It., 1995, II, 24 ss. con nota di F.M. AMATO.
— 451 — trui proposito criminoso): in questo caso gli esiti di indeterminatezza sono ulteriormente enfatizzati dalla connotazione propria del reato, che già comporta, nella configurazione del concorso dell’extraneus, una forzatura della tipicità monosoggettiva. GAETANO INSOLERA Associato di Diritto penale nell’Università di Macerata
L’ATTIVITÀ ARGOMENTATIVA DELLE PARTI NEL DIBATTIMENTO PENALE (*)
SOMMARIO: SEZIONE PRIMA: Profili generali. — 1. L’argomentazione delle parti come attività processuale. — 2. Riscontri normativi nella riforma del 1988. — 3. Il giudice come destinatario dell’attività argomentativa. — 4. Sequenze dell’attività argomentativa. — 5. Breve digressione sulle funzioni del presidente e del collegio. — 6. Patologie dell’attività argomentativa. — SEZIONE SECONDA: Le singole attività. — 7. Esposizione introduttiva. — 8. (Segue): patologie e rimedi. — 9. Istruzione dibattimentale. — 10. (Segue): patologie e rimedi. — 11. Discussione conclusiva. — 12. (Segue): patologie e rimedi. — 13. Dichiarazioni spontanee. — 14. Cenni al problema della argomentazione in iure.
SEZIONE PRIMA PROFILI GENERALI
1. L’argomentazione delle parti come attività processuale. — L’atto del ‘‘provare’’ contiene una componente argomentativa che lo rende omogeneo all’atto del ‘‘giudicare’’ (1). È una diretta conseguenza di quest’assunto il rilievo che le argomentazioni poste in essere dalle parti allo scopo di influire sull’esito del giudizio, si traducono in vere e proprie attività processuali (2): come tali meritano di essere considerate e analizzate (3). (*) Il presente studio è parte di una ricerca sulla ‘‘Prova penale’’, finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica (fondi 40%). (1) Notava CARNELUTTI, Diritto e processo, 127, che ‘‘provare un fatto’’ è espressione impropria; si dovrebbe dire ‘‘provare un giudizio’’ perché è quest’ultimo che si mette alla prova; e aggiungeva che un giudizio viene ‘‘provato’’ (verificato) per mezzo di un altro giudizio, così come l’esattezza di un’operazione matematica viene ‘‘provata’’ attraverso un’altra operazione matematica. (2) L’opportunità di analizzare separatamente il complesso delle attività volte a persuadere il giudice (distinguendole da quelle che invece mirano a produrre le situazioni giuridiche, nel susseguirsi delle quali si risolve la sequenza procedurale destinata a sfociare nella sentenza) è stata affermata, in termini che risultano tuttora attuali e fecondi, da J. GOLDSCHMIDT, Prozeß als Rechtslage, 364. L’utilità della distinzione si collega soprattutto alle diverse valutazioni giuridico-processuali cui conviene assoggettare i due tipi di attività. Quelle dirette a ottenere dal giudice una pronuncia di contenuto determinato (Erwirkungshandlungen) sono valutate — a seconda della situazione processuale — in base alle coppie ammissibile/inammissibile (zulässig/unzulässig), fondato/infondato (begründet/unbegründet), efficace/inefficace o utilizzabile/inutilizzabile (wirksam/unwirksam), ibidem, 368); le altre atti-
— 453 — A dispetto della sua importanza nell’economia del giudizio, il tema è trascurato pressoché totalmente dalla dottrina, evidentemente non avvezza a considerare le argomentazioni di parte come attività processuali meritevoli di un esame a sé stante. Del resto non sono difficili da individuare le plausibili ragioni (soprattutto culturali) che hanno finora giustificato questo disinteresse. Da un lato, l’opinione che l’attività argomentativa è fenomeno pre- o extragiuridico, appartenente al mondo della psicologia o della logica raziocinativa, sicché il giurista se ne potrebbe occupare solo marginalmente e non da un punto di vista tecnico. D’altro lato, l’idea che le argomentazioni delle parti sono destinate a svolgere un ruolo tutto sommato secondario nei modelli processuali imperniati su un’ampia e penetrante iniziativa probatoria del giudice: quest’ultimo, se può acquisire da sé i mezzi conoscitivi che lo porteranno alla decisione, sarà altresì e a maggior ragione portato a condurre in proprio la critica delle prove assunte; sarà conseguentemente indotto a considerare gli argomenti svolti dalle parti come attività eventuali nella sequenza procedurale e, comunque, non essenziali alla formazione del proprio convincimento (4). Per chi vità (Bewirkungshandlungen), volte essenzialmente a creare situazioni processuali nell’ambito delle quali sia possibile compiere attività del primo tipo, si prestano invece ad essere valutate alla stregua della coppia beachtlich/unbeachtlich (ibidem, 371 e 457), che — tradotta nel nostro lessico processuale — corrisponde all’alternativa valido/nullo. La distinzione fra Erwirkungs- e Bewirkungshandlungen, pur guardata con diffidenza dalla dottrina italiana (cfr. E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, 477-479) ha finito con l’influenzare il dibattito processualpenalistico, soprattutto attraverso gli studi di F. CORDERO, Le situazioni soggettive, 231-235. Può considerarsi un indiretto risultato della dottrina goldschmidtiana la creazione della specifica sanzione processuale (l’inutilizzabilità: art. 191 c.p.p.), adeguata a quella Erwirkungshandlung per eccellenza che è la formazione del mezzo di prova. Il drastico rifiuto della ‘‘inutilizzabilità’’ da parte di F. CORDERO, Procedura penale, 1038, investe non la categoria concettuale, ma la soluzione terminologica escogitata dal legislatore. La distinzione fra Erwirkungs- e Bewirkungshandlungen è stata riabilitata anche dalla recente dottrina tedesca: cfr. per tutti K. SCHÄFER, Die Prozeßhandlungen, 168 ss. (3) Stando alla partizione goldschmidtiana, le argomentazioni di parte (Beweisausführungen) appartengono naturalmente alle attività volte a ottenere una determinata pronuncia: pur estranee, a rigore, alle attività di deduzione della prova (Beweisführungen), esse consistono in comunicazioni di carattere rappresentativo (Vorstellungsmitteilungen, come le definisce GOLDSCHMIDT, Prozeß als Rechtslage, 425 e 444). Sono, insomma, attività probatorie in senso ampio (Erwirkungshandlungen im weiteren Sinn, ibidem, 425). In quanto critica di esiti probatori acquisiti, esse trovano inoltre corrispondenza nella valutazione giudiziale della prova: sono, cioè, per la parte, quel che per il giudice sono i motivi di convincimento (così già J. GLASER, Handbuch des Strafprozesses, 373-374, in ciò seguìto da J. GOLDSCHMIDT, Der Prozeß als Rechtslage, 444 e, successivamente, nella dottrina italiana, da G. FOSCHINI, La struttura logica della decisione, 214). (4) Fa da contrappunto a questa tendenza dottrinale la letteratura sulle arringhe difensive (ENRICO FERRI, GENUZIO BENTINI, DE MARSICO), la quale conosce una singolare fortuna proprio tra la fine del XIX e la prima parte del XX secolo, quando domina pressoché incontrastata l’idea che l’argomentazione delle parti sia essenzialmente estranea alla forma-
— 454 — ritiene che la prova sia ‘‘un fatto, del quale si suppone la verità, e che serve da motivo per asserire l’esistenza o inesistenza di un altro fatto’’ (5), va da sé che il giudice possa stabilirne il significato in base a canoni logici e massime di esperienze accettati e convalidati dalla cultura ufficiale, al di là delle rappresentazioni o delle diverse opinioni al riguardo espresse dalle parti. In definitiva, dal rilievo — in sé ovvio e certo meritevole di essere condiviso — che l’attività giudiziale di valutazione rientri nell’ambito della decisione (6), si è a lungo tratta la discutibile conclusione che le attività argomentative di parte sono elementi per così dire accidentali, non essenziali, del fenomeno probatorio. Facendone un correlato soltanto eventuale della motivazione giudiziale (7), li si è relegati in uno spazio privo di pregnanza giuridico-processuale: semplice ausilio offerto dalle parti (certo, nel proprio interesse) all’attività di giudizio; non già elemento costitutivo ed indefettibile dell’accertamento penale. La ragione del fraintendimento sembra risiedere in quella analisi del concetto di prova giudiziaria, impostasi soprattutto in epoca positivistica, il cui nucleo pre-giuridico è rappresentato dall’esperienza sensoriale. Si postula che la ‘‘prova’’ si risolva essenzialmente nella percezione di un fatto ad opera del giudice. Il fatto da accertare appartiene al passato e — stante l’incompatibilità fra l’ufficio di testimone e quello di giudice che da tempo caratterizza il nostro sistema giudiziario (8) — non può essere percepito direttamente, nella sua interezza, da chi deve decidere. Per conoscere il fatto occorre che il giudice risalga la corrente del tempo, avvalendosi dell’interposizione verbale di chi ha percepito il fatto stesso; a ciò si aggiunge la possibilità, per il giudice, di ispezionare personalmente le tracce che la condotta criminosa ha lasciato sopravvivere nel tempo presente. Da questa constatazione pregiuridica si traeva spunto per disciplinare distintamente l’esperienza percettiva del giudicante, secondo che cadesse direttamente sulle tracce materiali del reato (prova ispettiva in senso lato), oppure risalisse al fatto di reato per vie indirette, grazie a un atto di zione della prova. Ma la circostanza non deve sorprendere, né contrasta con il rilievo espresso nel testo: l’attenzione all’attività argomentativa delle parti e, in particolare, all’arringa del difensore è oggetto di un genere letterario (che sconfina nel narrativo) più che di una analisi dogmatica degli atti processuali. (5) È la nota formula, cara ai positivisti, con la quale BENTHAM definiva la prova in apertura del suo Traité, 249. (6) Il rilievo è elementare: portata a termine l’opera di assunzione dei mezzi di prova, si apre la possibilità di una loro valutazione in vista del giudizio di fatto. (7) Secondo quanto sosteneva già GLASER, citato supra, nt. 3. (8) Come affermato anche dalla nostra Corte costituzionale nella sent. n. 215/1997: ‘‘la conoscenza diretta dei fatti di causa priverebbe il giudice dei requisiti di imparzialità e terzietà coessenziali alla sua funzione...’’.
— 455 — fiducia nei confronti di chi aveva assistito, in tutto o in parte, all’episodio criminoso (prova testimoniale in senso lato) (9). Un simile approccio ha finora pesantemente influenzato il modo di intendere la prova, non solo nella dottrina, ma anche nella giurisprudenza e nella legislazione: di questa sono enfatizzati gli aspetti fisici o materiali che cadono per l’appunto sotto la percezione sensoriale, mentre vengono progressivamente emarginati gli aspetti argomentativi. Il giudice, come ogni uomo dotato di raziocinio è in grado di compiere in proprio l’operazione consistente nell’attribuire al ‘‘mezzo’’ (id est, medium) di prova il significato che logica impone. Quando poi viene a contatto diretto con il fatto, ovvero con una traccia o un frammento del fatto da accertare, come accade nelle prove a carattere, per così dire, ispettivo (10), il giudice è chiamato ad una operazione prevalentemente logica, di tipo induttivo o deduttivo. Se opportuno, si avvarrà dell’aiuto di un esperto (perito), in possesso dei canoni conoscitivi (massime di esperienza specialistiche) necessari a impostare e concludere un ragionamento corretto sul piano logico-scientifico più che giuridico (11). I presupposti culturali di una simile concezione (affermatasi — vale la pena ricordarlo — soprattutto nella seconda metà del secolo XIX) appaiono oggi superati. Questa poggia infatti sull’idea — tipica dell’atteggiamento inquisitorio incoraggiato dalla temperie positivista — che il giudizio di fatto si riduca essenzialmente alla corretta applicazione di un me(9) Rientra in questa problematica la distinzione fra prova diretta e indiretta elaborata dalla dottrina tedesca già agli inizi dell’Ottocento (cfr. GENSLER, Über die Begriffe, 35, nt. 3). In termini analoghi essa è stata divulgata nella dottrina italiana da CARNELUTTI (La prova civile, 63 ss.) e figura anche in svolgimenti recenti della letteratura sia processualcivilistica (M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 426 ss.), sia processualpenalistica (CORDERO, Procedura penale, 932). Di quest’ultimo Autore si vedano tuttavia le importanti precisazioni contenute nel precedente saggio Il procedimento probatorio, p. 6, nt. 10 e p. 8. (10) Quelle, cioè, in cui chi giudica percepisce con i propri sensi il corpo o le tracce del reato. (11) Da parte di qualche autore addirittura si negava che le prove di carattere ispettivo rientrassero nel novero delle prove giudiziarie. Che l’esito di una ispezione giudiziale non sia precisamente un mezzo di prova (come già sosteneva M. PESCATORE, La logica del diritto, 68: ‘‘... non si prova ciò che sia visibile od evidente per se medesimo.’’) è affermazione sulla quale, tutto sommato, si potrebbe convenire anche oggi. Ma la dottrina ottocentesca si spingeva ben più in là quando negava la natura di mezzi di prova anche ad attività — come la perizia — spuntata dal tronco della prova ispettiva: il perito era concepito come una mero ausiliario dell’ufficio giudiziario, una sorta di ‘‘protesi intellettuale’’ (‘‘eine Erweiterung des gerichtlichen Gehirns’’, come la definiva GLASER...), della quale il giudice era costretto a servirsi per sopperire all’ignoranza di certe massime di esperienza. Una simile tesi è rintracciabile nello studio di A. HEUSLER, Die Grundlagen des Beweisrechtes, in Archiv für die civilistische Praxis, LXII (1879), 241. La dottrina di HEUSLER sulla natura giuridica della perizia è stata oggetto di articolata discussione e confutazione da parte di F. CARNELUTTI ne La prova civile, (1915) Roma 1947, 53 nt. 1, nonché 70 ss.
— 456 — todo ricostruttivo ad opera del giudice: come soggetto conoscente, quest’ultimo non differisce, ad esempio, dall’archeologo o dal fisico e fonda dunque il proprio sapere sulle esperienze sensoriali, oltre che sulla sua personale attitudine raziocinante (di per sé refrattaria a una regolamentazione normativa), usando la quale egli è in grado di risalire a fatti non percepiti personalmente, muovendo da quelli che hanno direttamente colpito i suoi sensi. Rivisto oggi, l’assunto tradiva un eccesso di ottimismo nelle umane facoltà, quasi che il giusto metodo per ricostruire i fatti del passato si imponesse a ogni intelletto con evidenza cartesiana. In realtà la percezione sensoriale si è rivelata essere ben altro di quel fenomeno incondizionato che ingenuamente si riteneva. Già nella prima metà del XX secolo si fece largo l’idea che ogni esperienza percettiva è condizionata e influenzata da fattori soggettivi. La nozione positivista di percezione entrò in crisi persino nelle scienze cosiddette esatte, quando si scoprì che nemmeno la fisica e la matematica poggiavano su assiomi indiscutibili (12). Ancor più nel campo delle scienze umane, l’avanzamento degli studi psicologici e psicoanalitici, il coevo interrogarsi del pensiero filosofico sui fondamenti extra-razionali della conoscenza (13), erodevano le fondamenta di quella concezione della prova giudiziaria basata su una nozione ingenua e non problematizzata di percezione sensoriale. La conclusione è presto tratta: per quanto paludato sotto il profilo scientifico, nessun metodo appare idoneo a garantire l’oggettiva veridicità dell’accertamento, finché resta affidato a un unico soggetto conoscente; in altre parole, il giudice non può essere considerato un’entità che trascende il procedimento probatorio, un osservatore spassionato messo di fronte ai nudi fatti. Tutt’altro: nel partecipare alla ricostruzione processuale dell’addebito descritto nell’imputazione, egli finisce inevitabilmente col condizionare l’esito dell’accertamento (14). (12) Nel campo della fisica, il principio di indeterminazione di HEISENBERG ha evidenziato come l’operazione del percepire influisca sull’oggetto percepito alterandone la posizione. In ambito matematico, la prova di GÖDEL ha chiarito che talune conclusioni aritmetiche non poggiano su proposizioni dimostrabili. Per ulteriori osservazioni e informazioni circa i nessi fra evoluzione del pensiero scientifico e cultura della prova giudiziaria si rinvia a G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Milano 1992, 2-3. (13) Il pensiero va soprattutto alle correnti esistenzialiste e fenomenologiche sviluppatesi in Germania e Francia nel primo scorcio di questo secolo, ma anche alle coeve impostazioni pragmatiche (chiara espressione di un approccio irrazionale alla conoscenza) molto diffuse nella letteratura filosofica statunitense di questo secolo. (14) Un simile assunto trova riscontro in una varietà di riflessioni che hanno caratterizzato in senso marcatamente antipositivistico il dibattito filosofico, a partire della prima metà del XX secolo: si va — per stare alle manifestazioni più note — dal pragmatismo (W. JAMES, C. MORRIS) alla fenomenologia (E. HUSSERL), dall’esistenzialismo (M. HEIDEGGER) all’ermeneutica (H.G. GADAMER), dalla teoria del consenso (J. HABERMAS) alla teoria dell’argo-
— 457 — Proprio questa convinzione ha contribuito a esaltare gli aspetti argomentativi del fenomeno probatorio (15), accentuandone l’importanza, e ha conseguentemente posto il problema di una normativa adeguata del procedimento di formazione della prova (16). Se l’accertamento non ha solo implicazioni logiche, né può essere il risultato di un’avventura solitaria condotta all’insegna del mito razionalistico, il giudice dovrà pervenirvi secondo un metodo tradotto in regole (norme legali) fissate in anticipo, così da assicurare la partecipazione dei diversi interessati; e si dovrà altresì accettare l’idea che, alcune di queste regole, in quanto volte a salvaguardare valori etici (si pensi ai diritti fondamentali della persona) finiscano con l’imporsi sulle esigenze puramente logiche fino a sacrificarle. Inoltre, se si ammette che il giudice non può essere ingenuamente considerato come ‘‘ideale soggetto conoscente’’ o come ‘‘soggetto esterno’’ a una verità oggettiva che attende di essere afferrata, occorre altresì ammettere che le regole probatorie debbono essere congegnate in modo da prevenire possibili debolezze e parzialità dell’organo giurisdizionale, onde assicurare un accertamento del fatto che appaia accettabile, quindi, ‘‘giusto’’ alla luce di questa nuova consapevolezza (17). Il contraddittorio fra le parti — pur nei molteplici aspetti e nelle diverse modalità di attuazione normativa — offre lo schema tecnico per neutralizzare il pericolo insito in ogni giudizio: la inevitabile soggettività del giudicante. Nessuna investitura di funzione assicura, di per sé, l’imparzialità del giudice. La vera garanzia risiede nelle regole processuali che mentazione (Ch. PERELMAN), dalla teoria degli atti linguistici (J.L. AUSTIN, J.R. SEARLE) alla teoria dei sistemi (N. LUHMANN). Comune a queste ed altre correnti del pensiero contemporaneo è l’affermazione che la verità di un fatto è più il risultato di una ‘‘costruzione’’ del soggetto conoscente che il frutto di un’asettica adequatio rei ad intellectum. Per le implicazioni dei suddetti orientamenti filosofici sulla juristische Methodenlehre si veda lo studio di R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation, 51 ss. (15) Espressione di questo rinnovato interesse per l’argomentazione nell’accertamento giudiziario è il fondamentale studio di A. GIULIANI, Il concetto di prova, risalente all’inizio degli anni Sessanta. (16) Di questa esigenza si faceva propugnatore già F. CARNELUTTI, nel già citato studio su La prova civile: si veda in particolare il § 9 del 1o capitolo dedicato per l’appunto al concetto giuridico di prova (ivi, p. 48 ss.). (17) È tuttavia dura a morire la convinzione che il giudice possa giungere alla decisione grazie alla padronanza e alla scrupolosa applicazione di regole logiche. Un simile atteggiamento sembra caratterizzare, ad esempio, lo scritto di E. FASSONE, Dalla ‘‘certezza’’ all’‘‘ipotesi preferibile’’, 1104 ss. nonché i saggi raccolti in GÄRDENFORS P., HANSSON B., SAHLIN N.E., Evidentiary Value: Philosophical, Judicial and Psychological Aspects of a Theory. È certo pregevole l’intento di arricchire lo strumentario logico del giudice, evidenziando i possibili errori nei quali egli può incorrere e indicando i mezzi per prevenirli, anche con l’ausilio di formule matematiche ed equazioni logiche. Bisogna però far attenzione a non riporre eccessiva fiducia in questi metodi solipsistici: si rischia altrimenti di accreditare l’idea che basti una corretta applicazione della formuletta per assicurare la bontà della decisione giudiziale.
— 458 — collocano il giudice in posizione di eguale distanza fra le parti. Conseguentemente, il contraddittorio realizza qualcosa più che un diritto di queste ultime di essere interpellate e di perseguire con proprie iniziative l’accertamento del fatto: vi si deve cogliere l’espressione di un principio metodologico volto a realizzare l’imparzialità del giudicante, non solo di una regola che attribuisce particolari facoltà e diritti alle parti (18). In sintonia con questa impostazione la dottrina appare propensa a includere nel campo della disciplina probatoria l’attività argomentativa delle parti. Al riguardo, sembra decisivo il rilievo che, persino di fronte all’oggetto di un’ispezione o all’esito di una perquisizione, il giudice trae certe conclusioni, non già seguendo un itinerario logico obbligato, ma in base a una sequenza più o meno complessa di ragionamenti, suscettibili di sortire esiti variabili, a seconda delle premesse poste e del modo di svolgerle (19). La ‘‘percezione del fatto’’ non è attività neutrale, e, pertanto, non è opportuno che la legge processuale lasci al giudice il potere di esperirla de plano, alla luce di criteri logici di per sé insufficienti a garantire la bontà del risultato. Tant’è vero che ogni sistema processuale moderno avverte l’esigenza di fornire alle parti idonei strumenti per ‘‘controllare’’ l’attività conoscitiva del giudice: nella sua versione più ridotta e limitata, tale controllo è ammesso solo successivamente alla decisione, attraverso la critica dei motivi sui quali si fonda il giudizio di fatto (20); ma sarebbe francamente preferibile che esso (controllo) potesse esplicarsi già in via preventiva, attraverso la predisposizione normativa di strumenti di intervento, che consentano alle parti di svolgere una critica del materiale probatorio già nel giudizio di prima istanza, prima che il giudice decida. Si capisce perché quest’ultima soluzione sia tenacemente perseguita da chi — avversando la teoria che risolve il fenomeno probatorio nella ‘‘percezione di un fatto’’ ad opera del giudice — afferma che la prova consiste nella verifica di ‘‘enunciati fattuali’’ proposti dalle parti. Non è il (18) Che il contraddittorio sia il metodo preferibile per l’accertamento giudiziario è assunto che si riallaccia inizialmente a un’opzione politica: ‘‘... il processo accusatorio trova il suo fondamento in una costituzione democratica...’’ sosteneva J. GOLDSCHMIDT, Die Kritiker des Strafprozeßentwurfes, 593, a difesa del suo progetto di riforma del sistema giudiziario penale tedesco (1919). Lo stesso spirito animava un autore come F. CORDERO nell’elaborare le sue Linee direttive di un processo accusatorio, 64-65. Oggi si può dire che alla ragione politico-ideologica se ne è aggiunta un’altra, di carattere lato sensu culturale o filosofico, che fa leva sul contraddittorio come mezzo euristico, vale a dire come ideale metodo di ricerca della verità: inclinano verso questa posizione gli autori più recenti, fra i quali, FERRUA P., Contraddittorio e verità, 47 ss., GIOSTRA G., Valori ideali, 17 ss. e UBERTIS G., La ricerca della verità giudiziale, 8 ss. (19) Per considerazioni in tal senso cfr. già CORDERO F., Procedimento probatorio, 6-7. (20) Vale a dire, attraverso i mezzi di gravame.
— 459 — caso di andare oltre nella illustrazione di questo approccio (21). Ai fini del presente studio è sufficiente notare come lo spostamento d’accento dalla ‘‘percezione sensoriale’’ all’‘‘enunciato fattuale’’ ha conseguenze di considerevole importanza sulla struttura dell’accertamento giudiziale e sulla relativa disciplina. 2. Riscontri normativi nella riforma del 1988. — Sarebbe certo un azzardo e per certi versi, come si dirà, addirittura un errore affermare che l’attuale codice di rito penale abbia innovato la disciplina della prova aderendo a una concezione argomentativa, ispirata ai più aggiornati criteri epistemologici. Sotto questo profilo, l’attuale legge processuale è tutt’altro che un sistema di regole e principi armoniosamente coordinati: essa appare piuttosto un coacervo di norme che si snoda lungo una linea zigzagante, dove interessanti aperture verso talune consapevolezze del pensiero contemporaneo si alternano a regole che confermano prassi giudiziarie fondate su assunti culturali decisamente superati. Da un lato è agevole constatare che il codice non tratta le argomentazioni delle parti alla stregua di vere attività processuali: basti rilevare come esse non siano oggetto di esplicite previsioni che sanciscano forme di invalidità in caso di inosservanza; inoltre, la loro regolamentazione è attribuita in via pressoché esclusiva al presidente del collegio, quasi si trattasse di attività soggette al potere di direzione meramente formale del dibattimento (22). D’altro canto bisogna riconoscere che la riforma del 1988 ha sensibilmente ampliato gli spazi di argomentazione delle parti, facendone l’oggetto di alcune, inedite previsioni normative. Il rilievo vale anche dopo i noti provvedimenti del 1992 che hanno sensibilmente attenuato l’attuazione del contraddittorio e dell’oralità (23). In particolare, se si guarda alla disciplina del dibattimento (24), si nota che l’attività di assunzione della prova è regolata come porzione di una più ampia e comprensiva attività argomentativa. (21) Anche perché il tema è già stato affrontato in alcuni pregevoli saggi ai quali conviene far rinvio: si vedano in particolare gli autori citati supra nella parte finale di nt. 18, cui adde M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 91 ss. (22) Si vedano, tuttavia, le osservazioni svolte infra, § 5. (23) Principalmente Corte cost. sent. nn. 24, 254 e 255/1992, nonché d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (conv. in l. 8 agosto 1992, n. 356). (24) Le attività argomentative non sono ovviamente un’esclusiva del dibattimento, anche se è all’interno di questa fase che trovano la massima possibilità di realizzazione e, conseguentemente, la più compiuta regolamentazione normativa. Attività argomentative si svolgono in tutte quelle situazioni processuali nelle quali la legge prevede che una certa decisione sia adottata previo contraddittorio (orale o cartolare) fra le parti. Si pensi ai numerosi casi nei quali il giudice deve provvedere in camera di consiglio con l’intervento delle parti (art. 127).
— 460 — Con l’approssimazione tipica degli slogans, si può affermare che la riforma processuale ha segnato il passaggio da una gnoseologia giudiziaria impostata prevalentemente sulla ‘‘prova argomentata’’, vale a dire, sulla prova intesa come ‘‘fatto sensibile’’ separata dalla argomentazione che vi si riferisce, a una diversa metodologia basata sulla ‘‘argomentazione provata’’; vale a dire sulla prova intesa come ‘‘ragionamento’’ o ‘‘argomento’’ che include il mezzo (ad esempio, la dichiarazione testimoniale, il resoconto peritale, il documento), usato come strumento dalle parti per dimostrare la fondatezza delle rispettive tesi. È certo possibile usare indifferentemente le espressioni ‘‘prova’’ e ‘‘mezzo di prova’’: soprattutto nei sistemi dove sono ampiamente ammesse iniziative d’ufficio del giudice nella raccolta del materiale probatorio esse finiscono, in pratica, con l’equivalere. Anche nella nostra, attuale normativa processuale, il termine ‘‘prova’’ sembra designare niente più che il ‘‘mezzo di prova’’ come, ad esempio, accade nell’art. 526. Eppure sarebbe sbagliato considerare l’attività argomentativa che le parti svolgono nel corso dell’udienza dibattimentale come del tutto separata dall’attività stricto sensu probatoria. È vero che quest’ultima ha una propria autonomia in considerazione delle specifiche regole e dei criteri di qualificazione normativa che la legge processuale prevede con riguardo ai soli mezzi di prova. Non bisogna però dimenticare che l’attività argomentativa della parte, in quanto volta a influenzare la decisione di merito del giudice dibattimentale, punta in pratica allo stesso fine cui è preordinato il mezzo di prova: essa non è attività probatoria in senso stretto, ma attività prossima, accessoria alla prova, della quale — come si dirà — condivide talune qualificazioni normative. Del resto, è facile constatare che, in un sistema dove le parti hanno facoltà di iniziativa probatoria, il ‘‘medium di prova’’ è, prima di tutto, un strumento in mano alle parti stesse le quali — con l’uso di adeguati argomenti — sapranno poi farne il sostegno delle proprie opinioni. Uno stesso mezzo di prova (ad esempio, una stessa dichiarazione testimoniale) si presta ad essere ‘‘argomentato’’ in modo difforme da parti con interessi contrapposti, sicché — mettendosi nei panni del giudice — si ha l’impressione che quell’unico ‘‘mezzo di prova’’ produca una pluralità di ‘‘prove’’. Ciò si spiega col fatto che l’argomentazione è dotata di un’attitudine integrativa rispetto al nudo ‘‘mezzo di prova": attitudine che si fa tanto più evidente, quanto più la legge processuale impone al giudice un ruolo recettivo. Essenziale appare, a questo proposito, la circostanza che, all’inizio dell’udienza dibattimentale il giudice ignori — in larga parte — il materiale di indagine acquisito dal pubblico ministero. Anche se in forma assai più attenuata che nella versione originaria del codice 1988, sussiste tuttora una tendenziale separatezza tra fase preliminare del processo e fase del giudizio. Basti pensare alle regole che impediscono al giudice dibattimentale di compulsare direttamente il fascicolo del pubblico ministero.
— 461 — Vale la pena ricordare, che gli atti di indagine non sono accessibili al giudice dibattimentale per vie interne alla dinamica processuale, se non eccezionalmente, in quanto se ne prospetti la verosimile utilizzabilità come prove in vista della decisione conclusiva del giudizio (art. 431); gli sono inaccessibili anche per vie esterne, dal momento che la legge vieta di pubblicare gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, durante l’intera durata del giudizio di merito (art. 114, comma 1), proprio al fine di assicurare quella ideale situazione di ‘‘ignoranza’’ (assenza di pre-giudizi), nella quale si dovrebbe trovare colui che deve formarsi un convincimento in condizioni di imparzialità (25); si aggiunga che il provvedimento di rinvio a giudizio ha la forma del decreto non motivato (art. 429), proprio al fine di evitare che il giudice del dibattimento resti condizionato dagli esiti dell’indagine preliminare. Allo stesso scopo, infine, appare preordinata la disciplina delle incompatibilità che pone limiti all’esercizio della funzione di giudice dibattimentale per quei soggetti che hanno svolto certe funzioni nell’indagine preliminare (26). Quel che si è appena detto non contrasta con la constatazione — universalmente condivisa — che la controriforma del 1992 ha ridimensionato l’originario carattere accusatorio del codice di rito penale, proprio col favorire il flusso degli atti indagine preliminare verso il dibattimento. Innegabilmente — bisogna riconoscerlo come un’ovvietà — la separazione fra le due fasi è assai meno rigorosa oggi rispetto al periodo in cui il codice è entrato in vigore. C’è tuttavia un aspetto del nostro sistema processuale rimasto pressoché inalterato a partire dall’ottobre 1989 e sul quale conviene qui particolarmente insistere: si tratta dell’‘‘agnosticismo’’ del giudice dibattimentale di fronte agli atti di indagine. Per quanto estesa sia l’utilizzabilità di questi ultimi come possibili surrogati di prove non ripetibili in dibattimento, resta pur sempre il fatto che il giudice deve attendere la fine dell’istruzione dibattimentale, per farsi un’idea compiuta dei fatti da giudicare. Di qui l’inevitabile primato dell’iniziativa di parte nella formazione della prova e, in particolare, nella conduzione dell’esame incrociato (27). Non solo. Anche una volta giunte al termine della istruzione dibattimentale, le parti avranno — rispetto al giudice — una più ampia e (25) Come ammette implicitamente Corte cost. sent. n. 59/1995. (26) Art. 34, comma 2 (con la ricca aggiunta di correzioni ad opera della Corte costituzionale) e comma 3. (27) L’assunto sembra trovare conferma in quella giurisprudenza che considera superfluo applicare nel giudizio di appello le regole sull’esame incrociato, dal momento che, in tale fase, il giudice ha una conoscenza integrale del fascicolo processuale usato per la decisione di prima istanza, ed è quindi in grado di condurre da solo l’eventuale esame dei testi e delle parti: cfr. Cass., Sez. I, 30 aprile 1992, IDDA, in CED Cass., n. 190564, nonché Id. 29 maggio 1992, Del Conte, ivi, n. 191340. Orientamento discutibile perché muove da una premessa sbagliata: anche il giudice di appello, infatti, è ignaro del materiale probatorio rimasto nel fascicolo del pubblico ministero.
— 462 — completa cognizione dei fatti di causa, visto che conoscono nella loro integralità gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, ancora inaccessibili all’organo giurisdizionale. Le regole dell’attuale ordinamento processuale costringono insomma il giudice del dibattimento in un ruolo sconosciuto al previgente sistema: ignaro di numerosi atti di indagine, egli dovrà ricavare la materia del proprio convincimento soprattutto dalle argomentazioni delle parti (28). A queste ultime la legge offre molte occasioni per ‘‘impressionare’’ la psiche del giudice e, quindi, per influire sul contenuto della decisione. Bisogna peraltro riconoscere che solo formalmente le parti argomentano in condizioni di parità. Nella maggior parte dei casi, il giudizio penale sconta una inevitabile asimmetria di posizioni nello svolgimento delle varie attività argomentative, giacché l’accusatore interviene nell’‘‘interesse della legge’’ ed è perciò in grado di esprimersi con quel disinteresse personale alla causa che fa apparir più fondata l’argomentazione; per la stessa ragione il pubblico ministero può spesso permettersi toni aggressivi o perentori dai quali debbono ragionevolmente astenersi le altre parti, impegnate nella difesa di interessi personali. Questa differenza di posizioni, connaturata al giudizio penale, è un dato di fatto pressoché ininfluente sul piano giuridico, ma del quale occorre essere consapevoli quando si analizzano le singole attività argomentative. Quanto alla individuazione di queste ultime, l’elenco sarà fatto non già con riferimento a tutte le ipotizzabili situazioni in cui la parte è messa in grado di svolgere un argomento rilevante per la decisione di merito, bensì con riguardo alla triplice divisione nella quale si suole scandire il dibattimento. Esso si apre con l’esposizione introduttiva finalizzata alle richieste di prova (art. 493), tramite le quali le parti individuano i fatti che saranno oggetto delle proprie argomentazioni, fornendo contemporaneamente una prima, approssimativa versione delle loro tesi: già in questo momento, insomma, le parti sono in grado di svolgere una attività argomentativa volta — sia pur via collaterale — a influenzare la decisione di merito. La successiva istruzione dibattimentale si snoda all’insegna di iniziative tendenti a fornire al giudice le ‘‘prove’’ degli assunti accusatori o, rispettivamente, difensivi. La stessa formazione della prova orale — modellata com’è sul contrasto che anima l’esame incrociato — presuppone a sua volta una strategia argomentativa, senza la quale le domande poste dalle parti risulterebbero prive della loro principale finalità. Ma anche le prove scritte, eventualmente assunte tramite lettura, sono spesso oggetto di ragionamenti e deduzioni, vale a dire di argomentazioni. (28) Che la riforma processuale comporti una nuova idea della conoscenza giudiziale è stato prontamente rilevato in dottrina (cfr. soprattutto E. AMODIO, Il modello accusatorio, XLIII ss.) con osservazioni valide anche alla luce dell’attuale (1997) contesto normativo.
— 463 — In questo quadro, infine, la discussione finale si configura non semplicemente come occasione per esprimere opinioni sulla res iudicanda prima che sia presa la decisione di merito, ma, ben di più, come lo svolgimento di una ‘‘critica dei mezzi di prova’’, che rappresenta l’autentico completamento dell’attività probatoria; critica dalla quale il giudice dovrà trarre spunti per formarsi un proprio convincimento e alla quale potrà utilmente ispirarsi per redigere i motivi della sentenza (art. 546, lett. e). 3. Il giudice come destinatario dell’attività argomentativa. — Un modello di accertamento concepito in termini di ‘‘argomentazione da provare’’ presuppone scelte normative che assegnano al giudice di merito una funzione prevalentemente recettiva. Quest’ultimo figura cioè quale destinatario degli argomenti che le parti — dall’esposizione introduttiva alla discussione finale — ritengono di svolgere a sostegno delle proprie tesi. Dal che discendono taluni corollari. È necessario innanzitutto che il giudice sia predisposto all’ascolto e che presti la dovuta attenzione agli interventi delle parti (29); che faccia un uso legittimo del potere di disciplinare l’agone dialettico; che si mantenga estraneo alla contesa e che non mortifichi con atti improvvidi il diritto alla prova delle parti. Eventuali iniziative d’ufficio nella selezione e nella assunzione di prove debbono comprensibilmente avere carattere eccezionale. Non solo. Tali iniziative vanno altresì contenute entro i limiti tracciati dall’accusa e dalla difesa nelle rispettive esposizioni introduttive, onde assicurare il rispetto del diritto alla prova. Un giudice che muovesse spontaneamente alla ricerca dell’‘‘argomento decisivo’’, o che disconoscesse i diritti di argomentazione delle parti, impedendoli (30), ignorandoli (31), supplen(29) Benché sia difficile provare la disattenzione del giudice, in qualche caso il suo contegno può tradire l’assoluto distacco dalla dialettica dibattimentale. Si pone allora il problema se in ciò siano ravvisabili inosservanze tali da comportare invalidità di taluni atti processuali. Il problema sarà ripreso infra, § 8. (30) Ad esempio, quando il giudice rigetta una richiesta di prova, sul presupposto che la circostanza da provare risulti già sufficientemente chiarita in base a precedenti acquisizioni. Eccettuato il caso di prove ridondanti, ci troveremmo qui di fronte a una discutibile anticipazione del convincimento giudiziale, peraltro difficilmente rimediabile sul piano processuale, a meno che non si risolva in una inosservanza ricorribile per cassazione a norma dell’art. 606, lett. d. (31) Ciò che potrebbe emergere dal testo della sentenza, qualora la motivazione non desse conto delle ragioni dedotte negli argomenti svolti dalla parte (art. 546, comma 1, lett. e). Anche questa situazione appare difficilmente rimediabile sul piano processuale; essa non si configurerebbe nemmeno come inosservanza, considerato che il giudice deve indicare le ‘‘prove’’ poste a base della decisione ed enunciare le ‘‘ragioni’’ per le quali ritiene inattendibili le prove contrarie, ma non è tenuto a confutare gli argomenti svolti dalle parti a completamento delle loro iniziative probatorie.
— 464 — dovi senza ragione (32) o con eccesso di tempestività (33), finirebbe infatti con l’esorbitare dal ruolo che la legge processuale attualmente gli assegna. Era tutto sommato facile prevedere che l’art. 507 — norma subito segnalatasi come luogo di tensioni irrisolte fra diritto delle parti alla prova e iniziativa del giudice nell’accertamento del fatto — sarebbe diventata occasione di scontro fra due opposte concezioni della prova penale o, addirittura, della finalità cognitiva del processo penale. Sono del resto ben conosciute le controversie interpretative che hanno avuto ad oggetto il citato art. 507 e gli esiti pressoché uniformi cui alla fine sono approdate le decisioni più autorevoli sullo stesso (34). Qui non interessa tanto analizzare o sottoporre all’ennesima critica quegli assunti giurisprudenziali. Va piuttosto richiamata l’attenzione sul senso che una norma come l’art. 507 — anche per la sua collocazione topografica — assume nel quadro dei diritti argomentativi delle parti. Appare infatti densa di significato la circostanza che esso sia collocato proprio nel mezzo delle regole concernenti l’istruzione dibattimentale, dopo gli articoli dedicati all’assunzione delle prove orali. V’è in questo, a ben vedere, una certa qual ambiguità. Da un lato, si alimenta l’impressione che la norma in parola sia chiaramente concepita come residuale e, quindi, eccezionale (35): ciò che conferma il ruolo recettivo del giudice di fronte all’attività probatoria delle parti. D’altro lato, però, essa sembra poggiare sul tradizionale presupposto che l’assunzione della prova sia attività distinta e separata dalle argomentazioni di parte, tese a esplicitare il valore da attribuire alla prova stessa. Si può dire, in altre parole, che l’art. 507 — col permettere l’iniziativa del giudice prima (o indipendentemente dalla circostanza) che le parti conducano la critica sulle prove formate a loro richiesta nel dibattimento — concepisce tuttora l’attività probatoria come ‘‘prova da argomentare’’. Infatti, se si fosse ragionato in termini di ‘‘argomentazione da provare’’, il momento applicativo dell’art. 507 avrebbe trovato miglior collocazione (32) Qui l’abuso si realizza ogniqualvolta il giudice applichi l’art. 507 al di là dello stretto necessario. Quale sia la misura dello ‘‘stretto necessario’’ è ovviamente questione tuttora aperta (nonostante le note prese di posizione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità), sulla quale sarebbe illusorio voler trovare un accordo univoco. Conviene tuttavia tentare una individuazione dei limiti di applicabilità del citato art. 507 alla stregua dei chiarimenti che seguiranno sulle attività argomentative delle parti. (33) Come, ad esempio, nel caso risolto (nel senso della legittimità) da Cass., Sez. IV, 13 settembre 1996, Serluca, in Dir. pen. proc., 1996, 1207, dove il giudice dibattimentale aveva disposto l’esame della persona offesa prima che fosse terminata l’assunzione delle prove chieste dalle parti. (34) Si allude a Cass. sez. un. 6 novembre 1992, Martin, in Cass. pen., 1993, 280 e alla (di poco successiva) Corte cost. sent. n. 111/1993. Per una ampia e documentata riflessione sulle due pronunce si rinvia a FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, 1065 ss. (35) In base al disposto dell’art. 190, comma 2, c.p.p.
— 465 — non già nell’ambito della istruzione dibattimentale, bensì al termine della discussione. Una simile scelta normativa, pur non comportando riduzione dei poteri ex officio del giudice nel campo dell’iniziativa probatoria, avrebbe senza dubbio coordinato in maniera più coerente diritto di argomentazione e diritto alla prova: la critica dei mezzi di prova condotta dalle parti nella discussione finale e gli eventuali argomenti addotti a chiarimento della istruzione dibattimentale, avrebbero consentito al giudice di stabilire con miglior cognizione di causa quando fosse ‘‘assolutamente necessario’’ un suo intervento a norma dell’art. 507 (36). È verosimile che le incertezze interpretative nelle prime applicazioni della norma in questione siano state favorite da questa netta ambivalenza del nostro sistema processuale. A disposizioni (come quelle riguardanti l’esposizione introduttiva, l’esame incrociato, la discussione) le quali sembrano presupporre un concetto di prova definibile in termini di ‘‘argomentazione da provare’’, fa riscontro una norma come l’art. 507, che — vale la pena ribadire — soprattutto per la scelta del momento applicativo, lascia trasparire una diversa concezione dell’accertamento giudiziario, dove la prova si configura come fatto sensibile, elemento a sé stante, separato dalla rispettiva argomentazione. Ciò non toglie tuttavia che, nel promuovere la raccolta di mezzi di prova ex art. 507, il giudice si trovi di fronte a limiti che derivano proprio dai diritti di argomentazione delle parti. Anche chi condivide la lettura che di tale norma si è imposta in giurisprudenza (37), non dovrebbe avere difficoltà ad ammettere che l’iniziativa ufficiale del giudice va mantenuta all’interno dei temi di prova esplicitamente evocati da accusa e difesa nelle rispettive esposizioni introduttive o in successive argomentazioni svolte nel dibattimento. In altre parole, il giudice non può avvalersi dell’art. 507 per individuare temi di prova ulteriori rispetto a quelli indicati dalle parti (38). La ‘‘assoluta necessarietà’’ che la norma in parola assume a premessa della propria applicazione trova un limite nell’attività delle (36) È vero che la sentenza può essere pronunciata anche in totale assenza di prove, o in presenza di una situazione di incertezza (art. 530, commi 2 e 3); ma una simile regola di giudizio si applica dopo che il giudice ha inutilmente esperito tutti i mezzi offerti dall’ordinamento per raggiungere un convincimento positivo o negativo sul merito dell’imputazione. L’interesse pubblico all’accertamento dei reati e il carattere indisponibile dell’azione penale, giustificano senz’altro l’iniziativa ufficiale dell’organo giurisdizionale nell’assunzione della prova. Quel che si vuol mettere in evidenza nel testo è che vi sono diversi modi per rendere possibile tale iniziativa e che quello prescelto dal legislatore tradisce una nozione della prova (quale mezzo di prova separato dalla relativa critica argomentata delle parti) non dissimile da quella sottesa alle norme della codificazione previgente. (37) Si vedano le decisioni citate supra nt. 34. (38) Nello stesso senso appare del resto orientata Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., quando afferma che ‘‘... in tanto può dirsi esistente l’assoluta necessità richiesta dall’art. 507, in quanto il mezzo di prova risulti dagli atti del giudizio’’.
— 466 — parti. Più precisamente, il giudice acquisisce d’ufficio il mezzo di prova, qualora ravvisi una incompletezza nella attività argomentativa delle parti. Il che può accadere per due ordini di motivi: o perché la parte ha illustrato un argomento (ad esempio, nell’esposizione introduttiva) senza sostenerlo con adeguati mezzi di prova, oppure perché ha promosso l’assunzione di mezzi di prova, senza chiarirne il significato con adeguate argomentazioni. In entrambi i casi emerge una incompletezza della prova, talché la legge permette al giudice di portare a termine motu proprio il cammino che le parti hanno intrapreso senza concludere. Non è errato affermare che l’art. 507 conferisce al giudice un potere di intervento soltanto suppletivo rispetto a un’incompleta iniziativa probatoria della parte: purché però l’inerzia delle parti sia intesa come mancata richiesta di ‘‘mezzi di prova’’. In questo equivoco sembra essere incorsa la giurisprudenza che riteneva inapplicabile il citato art. 507 a fronte della inattività delle parti. A ben vedere, una totale inerzia di queste ultime può verificarsi con riferimento all’assunzione dei mezzi di prova, ma non con riguardo al diverso fenomeno della argomentazione, quale si manifesta già nell’esposizione introduttiva (in particolare, ma non solo, del pubblico ministero) e che già rappresenta un inizio di attività lato sensu probatoria, suscettibile di essere completata dal giudice a norma dell’art. 507. Priva dei mezzi di prova atti a sostenerne la fondatezza, l’argomentazione funge qui da possibile presupposto per l’iniziativa probatoria d’ufficio e, al contempo, contribuisce (assieme con l’imputazione) a tracciare il limite oltre il quale il giudice non può spingersi nella ricerca della verità (39). Si può trarre una provvisoria conclusione, osservando che il ruolo ambiguo del giudice partecipa di una complessiva ambivalenza, caratterizzante l’intera regolamentazione della prova nel nostro ordinamento processuale. Sia i fautori sia i detrattori del sistema accusatorio troverebbero infatti saldi punti di appoggio, in diverse norme del codice, per sostenere, da opposti punti di vista, le loro tesi preferite. Sarebbe certo illusorio — sullo sfondo nebbioso di un simile quadro — voler disegnare con tratti netti e precisi quella particolare sfaccettatura della prova penale rappresentata dall’attività argomentativa delle parti. È però opportuno che il tema venga finalmente problematizzato, non fosse altro perché la sua trattazione — come si vedrà — evidenzia aspetti dell’attività dibattimentale rimasti finora in ombra. (39) Il riferimento all’attività argomentativa (soprattutto quella svolta nella esposizione introduttiva) come limite all’iniziativa probatoria ex officio rende più preciso l’esatto (ma generico) rilievo di Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., secondo il quale il giudice non potrebbe avvalersi dell’art. 507 per verificare una ‘‘propria ipotesi ricostruttiva sulla base di mezzi di prova non dotati di sicura concludenza...’’. Oltre all’addebito descritto nell’imputazione, poprio le argomentazioni delle parti forniscono al giudice utili informazioni per stabilire se l’assunzione di un determinato mezzo di prova risulti ‘‘necessaria’’ e ‘‘concludente’’.
— 467 — 4. Sequenze dell’attività argomentativa. — Si è fin qui parlato in termini molto vaghi di argomentazione e ci si è limitati a indicare, con un rapido cenno, quali siano le attività argomentative interne al dibattimento. Del resto, al fine di introdurre il tema era pressoché inevitabile partire da una nozione generica, nell’intento di cogliere il fenomeno nel suo insieme e, per così dire, da lontano. Ora però conviene avvicinare lo sguardo alle singole manifestazioni di attività argomentativa e — pur restando sul piano delle considerazione generali — cominciare a individuarne i riferimenti normativi, la dinamica e le rispettive modalità di realizzazione. L’insieme delle attività argomentative dibattimentali si articola — come già accennato — in una sequenza procedurale scandita in tre fasi, ciascuna delle quali è contraddistinta da finalità particolari, sicché se ne giustifica la regolamentazione separata in tre distinti capi del libro (VII) sul Giudizio: preordinata a provocare una decisione processuale sulla ammissibilità dei mezzi di prova è l’esposizione introduttiva (Capo II, nel quale rientra l’art. 493); volta a render possibile la formazione e l’acquisizione dei mezzi di prova è l’istruzione dibattimentale (alla quale è intitolato il Capo III); finalizzate a fornire gli argomenti per la deliberazione conclusiva al giudice della discussione finale (cui è dedicato il capo V). Benché risulti affidato al potere direttivo del presidente (art. 470), e non sia sancito da atti o dichiarazioni formali (40), il passaggio dall’una all’altra di tali fasi è soggetto al generale principio di non regressione, in forza del quale, l’approdo a una fase successiva preclude gli atti al cui compimento era preordinata la fase precedente: in altre parole, l’esaurimento di una fase procedimentale impedisce, di regola, che venga nuovamente perseguito il fine particolare in vista del quale la fase stessa è stata istituita. Di ciò si ha conferma, per l’appunto, nella regola che subordina l’ordine di regressione alla declaratoria di nullità (41), vale a dire, alla constatazione che l’atto propulsivo non ha sortito l’effetto di far avanzare la sequenza procedurale. Solo eccezionalmente, in presenza di ragionevoli condizioni giustificative, la legge ammette che attività tipiche di una fase siano compiute nella successiva: ciò accade, ad esempio e per restare nell’ambito del nostro discorso, con le richieste e le eccezioni riguardanti l’ammissibilità dei mezzi di prova — atti tipici dell’esposizione introduttiva — che possono essere presentate anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, qualora non sia stato possibile effettuarle a tempo debito (artt. 493, comma 3 e 495, comma 4); e lo stesso vale per la acquisizione della prova — atto tipico dell’istruzione dibattimentale — che può essere (40) Come, ad esempio, quelle che aprono (art. 492) o chiudono (art. 524) il dibattimento. (41) Art. 185, comma 3: in tale norma, l’espressione ‘‘stato del procedimento’’ designa proprio una tappa dello svolgimento procedurale, nel passaggio tra fasi interne a un determinato ‘‘grado del procedimento’’.
— 468 — disposta nel corso della discussione finale, se assolutamente necessaria per la decisione (art. 523, comma 6). Inoltre, se ogni segmento della sequenza procedurale deve mirare al proprio fine particolare, non solo la regressione, ma anche l’anticipazione di una fase rispetto all’altra deve ritenersi esclusa. Ad esempio, sarebbero incompatibili con l’esposizione introduttiva attività caratteristiche dell’istruzione dibattimentale o interventi tipici della discussione conclusiva. Del resto non è difficile comprendere il significato pratico o, se si preferisce, la ragion d’essere di tali regole: quell’ordine sequenziale punta a soddisfare contemporaneamente una molteplicità di esigenze. In primo luogo, un’esigenza di razionalità pratica, basata sull’elementare rilievo che l’ammissione della prova è problema preliminare all’acquisizione della stessa, la quale, a sua volta, deve logicamente precedere la discussione finale. In secondo luogo, un’esigenza di economia processuale, poiché, il raggruppare le questioni e l’affrontarle per aree di omogeneità riguardanti rispettivamente l’ammissione, l’acquisizione e la critica della prova, facendone oggetto di tre momenti distinti dà un ordine alla disputa, consentendo così un miglior impiego di tempi ed energie. Infine, un’esigenza di correttezza processuale, legata alle legittime aspettative coltivate dalla parte circa i comportamenti della controparte nello svolgersi della dialettica dibattimentale: dalle regole che vietano colpi a sorpresa, interventi tardivi o eccessi di argomentazione sorgono — in capo alle parti — diritti la cui lesione turberebbe il delicato equilibrio di posizioni fra accusa e difesa. Tale ultimo aspetto è molto importante e merita di essere brevemente commentato. Un sistema processuale che attribuisce la facoltà di formare la prova in via principale alle parti, finisce col rendere le attività di queste ultime strettamente interdipendenti e tali da condizionarsi reciprocamente: ciò significa che il corretto comportamento di una parte diventa il presupposto per un effettivo e rituale esercizio del diritto alla prova e all’argomentazione dell’altra parte. Così, le iniziative probatorie del pubblico ministero influenzano l’attività dell’imputato, in quanto mettono quest’ultimo nella situazione di dover neutralizzare l’aggressione proveniente dall’impostazione probatoria dell’accusa. Analogamente e per contro, le iniziative dell’imputato pongono al pubblico ministero il problema di assumere iniziative ed elaborare argomenti che valgano a salvare la propria versione dei fatti di fronte al giudice dibattimentale. In un sistema accusatorio, la regolarità della contesa presuppone la lealtà dei contendenti. E la lealtà va intesa innanzitutto come conformità del comportamento delle parti alle previsioni normative fissate, in via generale, nella legge processuale o adattate al caso concreto nei provvedimenti del presidente e del collegio. Quand’anche non si risolvesse in un immediato svantaggio per l’avversario, il comportamento contra ius di una parte realizzerebbe
— 469 — uno sbilanciamento di posizioni che ‘‘inquinerebbe’’ l’ulteriore corso della procedura e renderebbe quindi ingiusta la decisione che ne scaturisse. L’attività argomentativa scorretta o svolta nel momento sbagliato sarebbe irregolare: tale da comportare talvolta invalidità e, in ogni caso, un diritto di reclamo della parte che ne subisce le conseguenze svantaggiose (42). Al segnalato dovere di lealtà corrisponde il diritto di ciascuna parte di provocare l’intervento del presidente o del collegio per far cessare la situazione di irregolarità. Esposizione introduttiva con annessa richiesta di prova, istruzione dibattimentale e discussione finale sono, dunque, i tre segmenti interni al dibattimento, all’interno dei quali trovano spazio le singole attività argomentative delle parti (43). Tali segmenti saranno analizzati uno per volta, nell’intento di stabilire, innanzitutto, quali siano le regole che governano lo svolgimento delle suddette attività; inoltre, quali siano le valutazioni (valido/nullo; utilizzabile/inutilizzabile; ammissibile/inammissibile) delle quali le stesse possono essere fatte oggetto e, dunque, quali siano le conseguenze processuali di fronte all’eventuale inosservanza delle suddette regole. In due casi, l’analisi si appunterà, anziché su uno dei tre accennati segmenti che compongono la sequenza dibattimentale, su una ben definita attività argomentativa, che, in ragione di certe peculiarità, è parsa meritevole di approfondimento autonomo. L’eccezione si giustifica, da un lato, per le dichiarazioni spontanee dell’imputato (art. 494), che — potendo essere rese ‘‘in ogni stato del dibattimento’’ — non sono legate a una specifica fase dello stesso; dall’altro, per le argomentazioni in iure, che — non riguardando, se non indirettamente, il problema della prova — presentano problemi affatto diversi dalle attività argomentative concernenti la questione di fatto. Con le premesse sin qui esplicitate si sono poste solo in parte le basi per un’analisi (pur breve e sommaria) delle attività argomentative dibattimentali. Altre due importanti questioni, di carattere generale, vanno affrontate e chiarite prima di avventurarsi in quell’analisi. Una riguarda il tipo di regole che presiedono alle attività argomentative. Queste non coincidono esclusivamente con norme generali ed (42) Quali siano le conseguenze di una irregolare attività argomentativa è questione che sarà in termini generali infra § 6, nonché nella Sez. II, con riferimento alle singole figure di argomentazione dibattimentale. Per il momento è sufficiente rilevare che, in un contesto accusatorio, l’ordinata sequenza argomentativa costituisce un valore da tutelare in sede processuale. (43) Pur nella consapevolezza che ciascuno dei ricordati segmenti può essere a sua volta scomposto in ulteriori sottofasi e che la casistica delle singole attività argomentative è ben più ricca delle esemplificazioni illustrate nella seconda sezione della ricerca, si ritiene la tripartizione proposta nel testo la più idonea (in un breve saggio come questo) a sintetizzare i tipi fondamentali di attività argomentativa delle parti.
— 470 — astratte, fissate in articoli di legge; talvolta assumono la forma di comandi particolari e concreti, provenienti dall’organo giurisdizionale e, spesso, dal presidente del collegio, il quale, per la sua funzione di principale arbitro della contesa dialettica nel corso dell’intero dibattimento, merita di essere fatto oggetto di una riflessione preliminare. L’altra osservazione concerne gli aspetti patologici dell’argomentazione di parte, vale a dire le conseguenze della mancata osservanza delle suddette regole legali e giudiziali: se e in che misura le inosservanze in parola producano effetti invalidanti sulla prova o, addirittura, sulla decisione conclusiva del giudizio; quali siano le forme di invalidità adeguate a questo tipo di attività e quali i rimedi opportunamente esperibili, son tutti problemi ai quali converrà dedicare qualche riflessione di carattere generale, ma che saranno poi affrontati volta per volta con riferimento a ogni singola attività argomentativa. C’è poi un ulteriore nodo problematico che va sciolto preliminarmente: si tratta di stabilire se le invalidità e i rimedi di cui si è appena detto possano essere invocati solo di fronte all’inosservanza di norme legali o anche quando l’inottemperanza riguarda una norma (provvedimento) di origine giudiziale. 5. Breve digressione sulle funzioni del presidente e del collegio. — Il controllo sulla correttezza delle parti nello svolgimento di attività argomentative e sul rispetto della sopra ricordata sequenza procedurale è affidato, almeno in prima battuta, al presidente del collegio. Tale organo può intervenire nei momenti cruciali dell’argomentazione: in particolare, nell’esposizione introduttiva (art. 493, comma 4); mentre l’imputato rende dichiarazioni spontanee (art. 494); quando si tratta di autorizzare l’esame incrociato del teste minorenne (art. 498, comma 4) e quando le parti formulano domande o contestazioni nell’esame testimoniale (art. 499, comma 6 e art. 504) (44); infine, durante la discussione conclusiva (art. 523, comma 3). Nell’espletare simili funzioni, il presidente finisce necessariamente col condizionare l’attività argomentativa e i relativi esiti. Mai, in simili contesti, il suo ruolo si limita a quella direzione meramente formale del dibattimento cui allude, in via generale, l’art. 470 e che si esprime, ad esempio, nei provvedimenti adottati per la disciplina dell’udienza. Si intuisce che c’è qualcosa di più e di diverso nel potere di impedire eccessi di argomentazione durante l’esposizione introduttiva, nel non ammettere contestazioni e domande in sede di esame testimoniale, ovvero nel provvedimento che espone il teste minorenne all’esame incrociato. Quel che (44) Come si dirà infra § 9, anche le attività di formazione della prova orale hanno spesso un contenuto argomentativo che le parti sfruttano anche per persuadere il giudice in relazione al fatto oggetto di prova.
— 471 — residua, rispetto al potere di direzione formale, è, precisamente, il potere di influire sull’andamento dell’attività argomentativa e, quindi, di contribuir a determinare l’esito del giudizio. Il presidente interagisce con le attività di parte segnalando limiti o impedendo taluni eccessi e, così facendo, enuncia la norma del caso concreto: il suo intervento è, al contempo, attuazione della norma legale e regola di comportamento per la parte. Ciò pone due ordini di problemi, entrambi rilevanti per la nostra ricerca. Da un lato, l’atto presidenziale potrebbe essere contra legem così da ledere le parti nel loro diritto di partecipazione al processo e nel diritto alla prova. L’attività direttiva del presidente si esprime, solitamente, con decisioni informali (45), di per sé insuscettibili di impugnazione. L’eventuale illegittimità dell’atto sarebbe tuttavia rimediabile dal collegio, di fronte al quale ciascuna delle parti può, in ogni caso, sollevare incidente (art. 478) (46). Inoltre, supponendo che siano in gioco diritti delle parti (principalmente diritto alla prova e, con riferimento all’imputato, diritto di difesa) l’ordine illegittimo del presidente potrebbe pregiudicare la valida formazione del mezzo di prova (47). Certo, non sarà sempre facile riconoscere l’influenza dell’atto presidenziale sull’attività probatoria. E, quand’anche ciò fosse possibile, non sarebbero evitabili i concreti effetti (45) Delle quali resta comunque traccia nel verbale di udienza (art. 481, comma 2). Sono eccezionali i casi in cui il Presidente decide con ordinanza: un esempio (forse l’unico) è rintracciabile nell’art. 498, comma 4, quando si provvede ad autorizzare l’esame incrociato di un teste minorenne. (46) Interessante il raffronto con l’ordinamento processuale tedesco che, pur assoggettando ad impugnazione l’atto presidenziale, adotta una soluzione per certi versi analoga a quella imperniata sull’art. 478 del nostro codice. La StPO distingue fra attività di direzione materiale (cioè idonea a influire sull’esito della causa) e attività di direzione formale del dibattimento. Con la prima (Sachleitung) il presidente pone in essere atti suscettibili di reclamo davanti al collegio, cui spetta quindi l’ultima parola in caso di controversia (§ 238, comma 2, StPO). Sono invece insindacabili gli atti di direzione meramente formale (formelle Verhandlungsleitung). La distinzione è peraltro oggetto di critiche nella dottrina più recente, la quale ritiene discutibile precludere tout court la sindacabilità degli atti di direzione formale, non essendo possibile escludere a priori una loro influenza sul giudizio di merito. H. SCHÖCH, Kommentar sub § 238, 154 fa l’esempio della dislocazione delle parti nell’aula di udienza: atto indubbiamente di direzione formale, nel quale si potrebbe tuttavia ravvisare un ostacolo all’esplicazione del diritto di difesa, se la collocazione dell’imputato fosse tale da rendere difficoltoso il contatto con il difensore. Anziché sull’astratto scopo dell’atto (come nel citato § 238) la distinzione dovrebbe basarsi sul reale effetto che l’atto stesso è idoneo a produrre sul giudizio. Alla luce di queste critiche appare più efficace il rimedio offerto dal nostro art. 478, esperibile contro tutti gli atti presidenziali. (47) Se, ad esempio, il presidente ammettesse una domanda suggestiva formulata dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone, unico rimedio contro l’inosservanza del divieto (art. 499, comma 2) sarebbe la deduzione o rilevazione di inutilizzabilità della testimonianza (art. 526).
— 472 — che l’atto illegittimo può, nel frattempo, aver sortito in relazione alla successiva attività probatoria (48). D’altro canto — lo si è già rilevato — l’atto giudiziale vale come norma e costringe le parti a uniformarvisi. Emerge qui un problema di valutazione processuale che riguarda, in generale, l’attività di parte. La questione è se si possa ravvisare nella inottemperanza all’ordine giudiziale una causa di invalidità della prova cui l’argomentazione si riferisce. La risposta è positiva, ma va precisata. L’illegittimità che è motivo di inutilizzabilità della prova — nel senso dell’art. 526 — è sì, principalmente, contrarietà a disposizioni di legge processuale. Tuttavia — occorre ammetterlo — è contraria al diritto anche la condotta in contrasto con una regola posta dall’organo giudiziario (il presidente o il collegio, secondo le occasioni e le competenze) al quale la legge attribuisce un potere normativo. Non varrebbe obiettare che simili inosservanze sono in ogni caso rimediabili al momento del loro verificarsi, essendo il presidente del collegio dotato di poteri coercitivi, solitamente idonei a far rispettare i propri ordini (o quelli del collegio) (49). Tali poteri coercitivi possono infatti essere impiegati anche per scongiurare attività probatorie contrarie alla legge processuale, magari tali da ricevere la qualifica di inutilizzabili, qualora fossero poste in essere con modalità illegittime dalla parte (50). Inoltre, non è detto che il rimedio istantaneo, consistente nel costringere la parte a cambiare condotta, sia destinato a funzionare in ogni caso. Può accadere, ad esempio, che il presidente enunci una regola, ma sia poi riluttante o poco tempestivo nel richiamare all’ordine la parte che non vi si attiene. Con questo non si vuol sostenere che l’attività argomentativa contraria a un ordine giudiziale determini sempre situazioni di invalidità. Al più si potrà sostenere che vizi del tipo qui considerato sono motivo di illegittimità e quindi di inutilizzabilità, quando l’argomentazione è elemento costitutivo del mezzo di prova (51). Se, invece, l’argomentazione si risol(48) Chi muove da una concezione argomentativa concepisce l’attività probatoria come un complesso di atti interdipendenti che, insieme, concorrono a formare gradualmente il convincimento giudiziale. In una realtà così interrelata e intrecciata, è difficile che l’atto presidenziale pregiudichi la legittimità di un unico mezzo di prova, senza turbare il resto dell’attività probatoria. Il rimedio dovrebbe quindi essere preventivo (come accade nel citato § 238 StPO: V. supra nt. 46), tale cioè da bloccare l’atto presidenziale prima che il suo effetto lesivo arrivi a compimento. (49) Basti pensare — con riferimento alle attività argomentative — ai già citati poteri di intervento nel corso dell’esposizione introduttiva (art. 494, comma 4), dell’istruzione dibattimentale (ad esempio, art. 499, comma 6) e della discussione (art. 523, comma 3). (50) Ad esempio, la parte che ponesse al testimone domande sulla moralità dell’imputato violerebbe una norma di legge (art. 194, comma 1), tutelata da una sanzione di inutilizzabilità, sulla cui osservanza dovrebbe vigilare il presidente del collegio. (51) Ciò che — come si vedrà — può verificarsi nella formazione di prove orali: cfr. infra, § 9.
— 473 — vesse in una attività ‘‘esterna’’ al mezzo di prova (52), l’inosservanza dell’ordine giudiziale non comporterebbe alcuna invalidità: in tali casi, unica forma di tutela sarebbe l’intervento tempestivo del presidente o del collegio, volto a far rispettare l’ordine impartito. 6. Patologie dell’attività argomentativa. — Vale la pena indugiare sui problemi di invalidità già emersi nel paragrafo precedente. Ripartiamo dal rilievo che l’agone dialettico avente per posta il convincimento del giudice esige atteggiamenti leali e corretti da parte dei contendenti. Non è solo una questione di fair play. Intesa nel senso di argomentazione che attende di essere dimostrata con mezzi obiettivi, la prova di un fatto si presenta come un insieme di atti od operazioni interdipendenti. Argomenti efficacemente svolti dal pubblico ministero nell’esposizione introduttiva gravano, di fatto, il difensore dell’onere di presentare controargomenti altrettanto efficaci; domande poste nel corso dell’esame testimoniale, eventuali affermazioni implicitamente contenute nelle domande stesse, condizionano l’andamento del controesame; ragionamenti svolti da una parte nella discussione finale pongono un onere di confutazione: in breve, è facile constatare che l’attività argomentativa di una parte si svolge in stretta correlazione con le mosse della controparte. Comprensibilmente — occorre ribadire — la correttezza delle parti è essenziale per una regolare formazione della attività probatoria, intesa nel senso ampio che qui le si vuol assegnare. Cosa accade, tuttavia, quando la parte agisce scorrettamente? E, prima ancora, quali sono, nello specifico contesto argomentativo, i doveri di correttezza? Quanto al novero dei doveri, va rilevato che tutte le parti del processo sono obbligate ad agire con ‘‘lealtà e probità’’. Per i difensori delle parti private l’obbligo risulta dall’art. 105, comma 4, la cui formulazione testuale si riallaccia alla più completa previsione contenuta nell’art. 88 c.p.c. Per il pubblico ministero quell’obbligo può considerarsi implicito nel generale dovere di osservare le norme processuali stabilito nell’art. 124. ‘‘Lealtà e probità’’ è clausola generale che va riempita di significato in relazione alle diverse e concrete situazioni processuali. Con riferimento alle attività argomentative, essa esige che le parti rispettino l’ordinata sequenza procedurale; si conformino agli ordini del giudice (Presidente o Tribunale, secondo le competenze); evitino atteggiamenti aggressivi nei confronti di testimoni in apparente contraddizione (53), mosse dilatorie nonché tese a sabotare l’argomentazione della controparte, come, ad (52) Il che accade regolarmente nella esposizione introduttiva, nella discussione finale e, più in generale, in tutte le occasioni in cui la parte svolge una critica del mezzo di prova già costituito in altro prcedimento o nella fase preliminare dello stesso processo. (53) Un dovere di ‘‘correttezza’’ è significativamente evocato dall’art. 499, comma 6,
— 474 — esempio, eccezioni infondate, ripetute interruzioni o, addirittura, espressioni offensive. L’inosservanza degli obblighi in questione sarebbe certamente perseguibile come illecito disciplinare (54). Più arduo è il discorso con riguardo alle possibili conseguenze processuali. L’inutilizzabilità è sanzione che appare inadeguata a rimediare le patologie dell’attività argomentativa. L’art. 191 comma 1, facendo leva sul concetto di ‘‘acquisizione’’, lascia intendere che l’inosservanza del divieto probatorio sia comunque da ricondurre a un soggetto investito di un potere istruttorio: giudice o pubblico ministero e relativi ausiliari. Si ritiene comunemente che le parti, quando argomentano nel corso del dibattimento, non ‘‘acquisiscono’’ la prova: piuttosto contribuiscono a formarla davanti al soggetto (il giudice) legittimato ad acquisirla. Questo è il consueto valore lessicale del termine ‘‘acquisizione’’, fondato sul tradizionale concetto della prova come ‘‘fatto’’, ‘‘elemento materiale’’ che il giudice fa suo per decidere. Se però si concepisce la prova come argomentazione da convalidare con altri ‘‘fatti’’ o ‘‘elementi materiali’’ il discorso cambia. In questa prospettiva, l’acquisizione non è più soltanto opera dell’organo giurisdizionale, ma è il risultato di un’attività combinata delle parti e del giudice. Conseguentemente, non è detto che l’inutilizzabilità debba necessariamente discendere da una inosservanza del magistrato penale o della polizia giudiziaria: anche uno scorretto comportamento della parte privata potrebbe costituire violazione di un divieto probatorio. È vero — lo si è già rilevato — che, quando la parte conduce illegittimamente (55) la propria attività argomentativa (ad esempio, col porre domande vietate nel corso dell’esame testimoniale), il giudice deve intervenire riportando nell’ambito della legalità processuale il comportamento deviante, prima che questo possa pregiudicare le successive iniziative della controparte. Ma se tale intervento in funzione preventiva non avesse luogo, l’atto illegittimo della parte finirebbe col condizionare il seguito della procedura dibattimentale. In quanto illegittima (contra legem scriptam o contra ius iudicis) e — con riferimento alle contestazioni nell’esame testimoniale: norma ovviamente estesa ad altre prove orali, come attesta l’art. 209, comma 1. (54) Vale la pena ricordare che l’art. 105, comma 5 impone all’autorità giudiziaria di segnalare al ‘‘consiglio dell’ordine i casi... di violazione dei difensori nel procedimento dei doveri di lealtà e probità’’. Quanto al pubblico ministero, ogni comportamento che integri violazione dell’art. 124 è passibile di sanzione disciplinare. (55) È il caso di ribadire quanto già asserito nel paragrafo precedente: l’avverbio ‘‘illegittimamente’’ si riferisce non solo alle condotte contra legem (vale a dire, contrarie alla legge processuale), ma altresì a comportamenti contra ius, contrari cioè ad eventuali ordini del giudice dibattimentale, impartiti a completamento di una generica previsione legale.
— 475 — come si dirà — purché ‘‘intrinseca’’ alla formazione del mezzo di prova, anche l’attività argomentativa è idonea a produrre invalidità (56). Se, invece, l’illegittima condotta della parte risultasse esterna al contesto di formazione di un determinato mezzo di prova (ad esempio, se si verificasse nell’esposizione introduttiva o nella discussione finale), ne seguirebbe non l’invalidità della prova, ma semmai la possibilità, per l’organo giudiziario, di intervenire, anche d’ufficio, al fine di riportare sui binari della correttezza il comportamento della parte inottemperante. Interventi di questo tipo spettano, di regola, al presidente del collegio (57); non è però da escludere che del problema si occupi lo stesso collegio, quando la parte abbia inutilmente sollecitato un provvedimento presidenziale o abbia ottenuto una ‘‘risposta’’ a suo avviso inadeguata a tutelare i propri interessi processuali: l’art. 478 offre infatti alle parti ampie facoltà di sollevare ‘‘questioni incidentali’’ di fronte al collegio ed è ragionevole ritenere che, fra tali questioni, rientrino le doglianze contro provvedimenti del presidente, idonei a influire sulla decisione conclusiva del giudizio: quindi, contro tutti i provvedimenti che riguardano l’attività argomentativa delle parti (58). Vale la pena insistere su quest’ultimo rilievo. Pur non rientrando nel concetto normativo di prova, l’argomentazione di parte è tuttavia prossima all’attività probatoria, soprattutto perché — come già rilevato — condivide con questa il fine di influire sul convincimento giudiziale. In altre parole, quando espone propri argomenti nelle diverse situazioni del dibattimento, la parte esercita un vero diritto (in senso processuale), la tutela del quale non può esser lasciata alla decisione insindacabile del presidente del collegio, se non a prezzo di una palese incongruenza con le norme che assegnano, di regola, al collegio, il potere di risolvere controversie aventi ad oggetto diritti processuali. Accade così, ad esempio, per tutte le questioni preliminari (art. 491), nonché per quelle concernenti l’ammissione della prova (art. 190, comma 1 e art. 495), dove addirittura il potere di decidere spetta in via esclusiva al ‘‘giudice’’, vale a dire, al collegio. Quanto alle questioni che dovessero sorgere per l’asserita condotta illegittima di una parte nell’ambito di attività argomentative la legge prevede invece interventi tempestivi del presidente, almeno in prima battuta: ciò allo scopo di favorire uno decorso fluido delle attività stesse, limitando al minimo quelle discontinuità e interruzioni che — se dovessero essere disposte ogni volta dal collegio, con ordinanza camerale — comportereb(56) Cfr. infra § 10. (57) Si vedano, principalmente, l’art. 493, comma 4 e l’art. 523, comma 3. (58) Si è già rilevato che la generica formulazione dell’art. 478 consente di attuare anche nel nostro sistema la regola accolta nel § 238, comma 2, StPO, secondo la quale ogni provvedimento presidenziale è reclamabile davanti al collegio, quando tocca questioni la cui soluzione potrebbe influire sul giudizio di merito.
— 476 — bero stasi eccessive dello scontro dialettico. Questo non vuol però dire che arbitro esclusivo ed insindacabile del diritto di argomentare delle parti sia il presidente. In un sistema dove l’argomentazione si salda, fin quasi a confondersi, con l’attività probatoria, dovrebbe spettare all’intero collegio l’ultima parola in caso di controversie vertenti sul diritto della parte di illustrare ragionamenti o deduzioni. Vero è che, col riconoscere alle parti un generalizzato diritto di contestare, davanti al collegio, i provvedimenti del presidente, si favoriscono chicanes e tattiche dilatorie. Ma il timore di simili inconvenienti non è ragione sufficiente per sostenere che il presidente possa regolare insindacabilmente un’attività che — come quella argomentativa — appare idonea a influire sul convincimento giudiziale in maniera non dissimile dalla attività probatoria stricto sensu intesa. Va comunque chiarito che il collegio non deve vagliare la fondatezza di ogni contestazione contro un provvedimento del presidente: reclami manifestamente infondati, questioni sollevate con intenti ostruzionistici dovrebbero essere dichiarati inammissibili, sia pur con provvedimento formale (ordinanza). Nell’analizzare le singole attività argomentative si vedrà quali siano, più precisamente, le patologie e i possibili rimedi di eventuali inosservanze. SEZIONE SECONDA LE SINGOLE ATTIVITÀ
7. Esposizione introduttiva. — L’accusa ha il dovere del primo intervento. È logico che sia così, tanto più di fronte a un giudice dibattimentale essenzialmente ignaro dei fatti. La parte pubblica ha il compito di porre il tema del giudizio in modo non assertorio ma argomentato, come si conviene a chi rappresenta un’opinione. Il giudice — tramite un proprio ausiliario — si limita a leggere l’atto di accusa, così come riprodotto nel provvedimento di rinvio a giudizio. Subito dopo spetta al pubblico ministero ‘‘esporre concisamente i fatti oggetto dell’imputazione’’ (art. 493, comma 1). L’attività in questione ha almeno una duplice ragion d’essere; da un lato, serve a promuovere la dialettica processuale: l’imputato e le altre parti private eventualmente costituite — che pur già conoscono i termini dell’addebito sommariamente descritto nel provvedimento di rinvio a giudizio e sono al corrente degli esiti dell’indagine (59) — hanno diritto di (59) Non è peraltro escluso che l’imputato ignori taluni risultati cui è approdata l’indagine pubblica. Infatti, stando all’interpretazione della giurisprudenza più recente, l’art. 430 consente al pubblico ministero di svolgere e di avvalersi dell’attività integrativa di indagine anche a dibattimento iniziato (cfr. Cass., Sez. V, 7 agosto 1996, Muto, in C.E.D., n.
— 477 — conoscere, per così dire ufficialmente, davanti al giudice e nei dettagli, i fatti dedotti nel giudizio che costituiranno l’oggetto dei rispettivi interventi difensivi; d’altro lato, quell’attività appare indispensabile allo svolgimento procedurale: per poter decidere sulle richieste di ammissione della prova, è infatti necessario che il giudice sia adeguatamente informato dei ‘‘fatti che si riferiscono all’imputazione’’. Dal canto loro, le parti private partecipano alla contesa dialettica illustrando, dai rispettivi punti di vista, i fatti che intendono provare. Si parla, a questo proposito, di ‘‘indicazione’’ anziché di ‘‘esposizione’’ (art. 493, comma 2), ma la diversa terminologia designa attività che mirano a un medesimo risultato. È vero che il pubblico ministero, protagonista dell’indagine preliminare, nonché gravato dell’onere (anzi del dovere) di provare l’accusa, si trova in una situazione diversa rispetto alla parte privata. Ciò potrebbe far credere che i termini in questione rinviino ad attività distinte anche sotto il profilo qualitativo: complessa ed articolata, prossima alla sintassi narrativa, l’‘‘esposizione’’; più stringata ed essenziale, connotata in senso paratattico, l’‘‘indicazione’’ dei fatti. Simili illazioni appaiono però infondate: che ‘‘esponga’’ o che ‘‘indichi’’, la parte punta principalmente a un vantaggio processuale: punta cioé ad ottenere un’ordinanza ammissiva delle prove richieste, attraverso argomentazioni che debbono risultare convincenti per il giudice. Entrambe le parti hanno l’opportunità di esporre, in sintesi, un proprio ‘‘progetto probatorio’’. Può darsi che l’ufficio del pubblico ministero — soprattutto quando è rappresentato nel dibattimento dallo stesso magistrato che ha condotto l’indagine preliminare — sia in grado di argomentare in maniera più estesa ed efficace le proprie richieste di prova: la differenza è però solo quantitativa rispetto alle argomentazioni delle parti private (60); e se queste ultime tendono ad avvalersi della chance offerta dall’art. 493 in misura minore rispetto alla parte pubblica, ciò è dovuto anche alla scarsa consapevolezza che molti difensori hanno di questo nuovo istituto e degli importanti effetti pratici ad esso connessi. Quale che sia la parte interveniente, il rischio è che chi prende la parola all’inizio del dibattimento (ma, comprensibilmente e in linea statistica, il discorso vale soprattutto per il pubblico ministero) indugi eccessivamente nell’esporre i fatti e finisca col fornire al giudice informazioni ol205555; parzialmente diversa Cass., Sez. VI, 29 luglio 1996, Aragozzini, in C.E.D., n. 205886, che, pur ammettendo lo svolgimento di indagine integrativa durante il dibattimento, esclude l’uso a fini di contestazione nell’esame testimoniale dei relativi esiti); considerato che l’informativa ai difensori del nuovo atto di indagine compiuto va data senza ritardo (art. 18 reg. esec. c.p.p.), può ben darsi che l’interessato ne prenda conoscenza per la prima volta durante l’esposizione introduttiva. (60) In tal senso anche A. AVANZINI, Le parti nell’esposizione introduttiva, 360 e A. NAPPI, Guida al nuovo codice, 373-374.
— 478 — tre il dovuto e al di là del consentito. È fisiologico, e per certi versi inevitabile, che la parte approfitti già di questo primo contatto con il giudice per ipotecarne, a proprio vantaggio, il convincimento in vista della decisione di merito: infatti, l’argomento sul quale la parte fonda la richiesta di prova può, al contempo, propiziare un orientamento favorevole del giudice, contribuendo così a formare quel primo grumo di convincimento destinato a maturare nella decisione di merito. Ben informata sui risultati dell’indagine preliminare, la parte arriva di solito all’appuntamento dibattimentale già con una propria ricostruzione della vicenda descritta nell’imputazione. Istintivamente tenderà a esporre come già provati fatti che attendono di essere dimostrati nel corso del giudizio; oppure fornirà anzitempo indicazioni sulla fondatezza della propria ricostruzione, svolgendo così una sorta di requisitoria o arringa impropria, oppure riassumendo il contenuto delle indagini, quasi ad anticipare porzioni di istruttoria dibattimentale. Che il rischio sia reale lo confermano recenti vicende pratiche, dove i magistrati del pubblico ministero hanno illustrato i fatti da provare, mescolandovi dichiarazioni e apprezzamenti risultanti dal procedimento preliminare. A ragione, l’eccesso argomentativo è stato censurato dal giudice, il quale ha ravvisato nel comportamento dell’accusa un contrasto con la normativa processuale (61). In casi del genere, è difficile dire quale sia la norma violata. Non rintracciabile in una singola disposizione della nostra legge processuale, essa risulta piuttosto da una considerazione complessiva delle regole che disciplinano la fase dibattimentale. Si allude principalmente alle già citate norme che — attuando la separazione tra indagine preliminare e dibattimento — sono volte ad assicurare l’imparzialità del giudice di merito: basti pensare alle numerose incompatibilità, in forza delle quali non può fungere da giudice del dibattimento chi ha già conosciuto il merito della causa nella fase preliminare (art. 34, comma 2, con le molte aggiunte della Corte costituzionale); al divieto di pubblicare gli atti di indagine, finché sia in corso il giudizio di merito (art. 114); al divieto di motivare il decreto di rinvio a giudizio (arg. ex art. 429); al divieto di rendere accessibile al giudice del dibattimento il materiale di indagine preliminare (art. 431); al divieto, salvo eccezioni, di utilizzare ai fini della deliberazione (61) Si vedano le tre ordinanze (due del 18 e una del 31 ottobre 1995) con le quali il Tribunale di Palermo ha preso posizione sui limiti dell’esposizione introduttiva. Le ordinanze sono pubblicate in Dir. pen. proc., 1996, 359, con nota di A. AVANZINI, Le parti nell’esposizione introduttiva, 360, nonché in Giur. merito, 1996, II, 727 con nota di C. RAIMONDI, Contenuto e limiti dell’esposizione introduttiva. Diversa e più permissiva (in favore del pubblico ministero) la decisione della Corte di Assise di Caltanissetta, ord. 12 giugno 1995, Aglieri, pubblicata in Ind. pen., 1995, 758, nonché in Cass pen., 1997, 372 con nota di C. TONNARELLI, Esposizione introduttiva e rispetto dell’integrità gnoseologica del giudice dibattimentale.
— 479 — conclusiva, mezzi di prova formati fuori del dibattimento (artt. 511 ss. nonché art. 526): tutte regole che sarebbero troppo facilmente aggirabili o che, quanto meno, perderebbero di efficacia, se la parte potesse infarcire questo suo iniziale intervento con riferimenti circostanziati alle conoscenze acquisite nell’indagine e alla loro valutazione (62). Inoltre, quando simili comportamenti sono assunti dalla parte pubblica, l’effetto è quello di un ulteriore rafforzamento della sua superiorità sulla difesa dell’imputato, con ripercussioni negative su quella condizione di parità che alle parti dovrebbe essere assicurata almeno nella fase del giudizio (63). Del resto è significativo che in limine all’udienza preliminare, in una situazione esteriormente analoga a quella qui considerata, ma essenzialmente diversa, non essendovi avvertita l’esigenza di evitare che l’attività decisoria del giudice sia contaminata dal contatto col materiale probatorio raccolto nell’indagine preliminare, il pubblico ministero possa, anzi debba, esporre gli esiti del proprio lavoro investigativo: la parte pubblica, prende spunto dall’indagine svolta per illustrare i motivi della richiesta di rinvio (64), al fine di ottenere dal giudice un provvedimento che dia accesso alla fase successiva. Qui, la posta in gioco è meramente processuale (disputandosi l’alternativa tra rinvio a giudizio e non luogo a procedere), e così, fra l’altro, si giustifica la circostanza che la parte privata non abbia facoltà di contrastare immediatamente l’argomentazione del pubblico ministero esponendo il proprio punto di vista sui risultati della fase preliminare; e si capisce altresì perché il giudice possa servirsi del fascicolo di indagine. L’imparzialità dell’organo giurisdizionale è tutelata con diversa intensità a seconda del tipo di decisione che si tratta di prendere: la sentenza dibattimentale di merito esige un giudice pressoché ignaro dei risultati dell’indagine preliminare ed è chiaro che, se l’intervento delle parti ex art. 493 colmasse quell’ignoranza, l’imparzialità del giudice stesso ne uscirebbe intaccata. (62) Sulla necessità che sia assicurata la ‘‘verginità’’ conoscitiva del giudice impedendo al contempo che gli atti di indagine preliminare siano immessi di soppiatto nel dibattimento si sofferma A. AVANZINI, Le parti nell’esposizione introduttiva, 361 ss. Censurabile, alla stessa maniera dell’eccesso di informazione nell’esposizione introduttiva, è l’atto di allegare all’intervento ex art. 493 una memoria scritta (artt. 121 e 482 comma 1 seconda parte), nella quale l’estensore riassume in maniera più o meno analitica le conoscenze che gli derivano dalla precedente fase processuale: così Trib. Torino, ord. 20 dicembre 1990, in Dif. pen., 1991, nr. 31, p. 89. Anche una simile prassi si configurerebbe come aggiramento del complesso di norme preordinate alla separazione delle fasi processuali. Sul punto cfr. C. TONNARELLI, Esposizione introduttiva, 575. (63) Come sancito, forse con enfasi eccessiva, nella dir. n. 3 della legge delega (l. 16 febbraio 1987, n. 81) per l’emanazione del codice di procedura penale. (64) Art. 421, comma 2: ‘‘Il pubblico ministero espone sinteticamente i risultati delle indagini preliminari e gli elementi di prova che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio’’. Stando al tenore testuale della norma, non è qui consentito al titolare dell’azione di esporre argomenti per chiedere il non luogo a procedere.
— 480 — Tuttavia non è solo il rapporto con l’indagine preliminare a porsi quale limite dell’esposizione introduttiva: quand’anche la parte riferisse il contenuto di mezzi di prova già predisposti per la decisione di merito (ad esempio, dichiarazioni riprodotte in un documento proveniente dall’imputato o dichiarazioni testimoniali rese in incidente probatorio), il suo comportamento sarebbe parimenti censurabile, in quanto risulterebbe in contrasto con l’ordinata sequenza di atti che deve caratterizzare il dibattimento. Nell’attuale contesto normativo, il rispetto della sequenza dibattimentale — lo si è già rilevato — assurge a condizione di regolarità del giudizio. Esposizione introduttiva, acquisizione dei mezzi di prova e discussione sono le tre fasi che compongono la sequenza: eventuali anticipazioni o interferenze dell’una rispetto all’altra (65) pregiudicherebbero la dialettica dibattimentale e, con essa, la correttezza stessa dell’accertamento, giacché l’atteggiamento sleale di una parte, la quale approfittasse oltre il lecito dello spazio argomentativo offertole dall’art. 493, comma 1, sarebbe idonea a pregiudicare la situazione della controparte, qualificandosi come patologico di per sé e come fonte di altre patologie: chi ha subìto la scorrettezza sarà indotto a fare altrettanto, se solo ne avrà la materiale possibilità, scompaginando così ulteriormente l’ordine normativo (legale o giudiziale) per lo svolgimento dell’argomentazione; oppure si troverà a dover affrontare una situazione falsata dalla intempestiva iniziativa della controparte. Si pone qui il problema dei rimedi: se ne esistano ed eventualmente quali siano. Prima però di affrontare tale questione conviene soffermarsi ancora un po’ sui limiti che le parti debbono rispettare nel condurre l’esposizione introduttiva. Determinare con precisione tali limiti è impresa ardua e, forse, illusoria: vale la pena tuttavia tentare una ricognizione almeno approssimativa. Si è detto e ripetuto che l’esposizione introduttiva è strumentale principalmente alla ammissione di determinati mezzi di prova. Per ottenere questo risultato, la parte deve illustrare i fatti oggetto di prova con adeguati argomenti e, soprattutto, elaborando una ‘‘storia’’ dove sia riconoscibile il filo che attraversa i fatti stessi componendoli in unità narrativa (66). In effetti, al fine di decidere se ammettere le testimonianze o i documenti dei quali (65) Le interferenze ammesse sono eccezionali e, quindi, tassativamente previste: artt. 493, comma 3, 495, comma 4, 506 e 507 (possibilità di sollevare questioni attinenti all’ammissibilità dei mezzi di prova o all’estensione del tema di prova nel corso dell’istruzione dibattimentale), nonché art. 523, comma 6 (possibilità di interrompere la discussione per acquisire nuove prove necessarie per il giudizio). (66) Ciò risulterà difficile — ma non impossibile — per le parti private, considerati i limiti imposti a una loro investigazione autonoma (art. 38 disp. att.). È ben possibile tuttavia che una narrazione dei fatti di causa, alternativa a quella fornita dall’accusa, si appoggi sugli esiti dell’indagine condotta dal pubblico ministero.
— 481 — le parti chiedono l’acquisizione (art. 495), il giudice ha bisogno di sapere quale sia il nesso logico che lega i mezzi di prova ai fatti da provare. Per appurarne la pertinenza rispetto all’imputazione, egli ha bisogno, in altre parole, di inquadrare quei fatti nella ‘‘storia’’ o, se si preferisce, nel ‘‘racconto’’ che ciascuna parte propone. Una scheletrica rassegna di fatti non servirebbe allo scopo, poiché impedirebbe al giudice di risolvere a ragion veduta il problema dell’ammissione probatoria. Quel che si è appena osservato lascia già intuire una paradossale implicazione. Sappiamo che sulla correttezza dell’argomentazione di parte vigila il presidente del tribunale (art. 493, comma 4); quest’ultimo, tuttavia, non ha sott’occhio tutte le informazioni di cui dispongono i controllati (pubblico ministero e difensore), i quali hanno invece una conoscenza completa dei fascicoli processuali e possono perciò giustificare con facilità il riferimento a dati e informazioni tratti dal materiale di indagine. Accade dunque che chi è incaricato del controllo (presidente del tribunale) si trovi, di fatto, in posizione subalterna al controllato (la parte). È il prezzo che, nel nostro sistema, si deve pagare per assicurare l’imparzialità del giudice: per decidere la questione processuale (ammissibilità della prova), egli avrebbe bisogno di conoscere l’intero incartamento; ma, se ciò accadesse, la decisione di merito sarebbe inevitabilmente contaminata dall’attività di indagine preliminare (67). Che la parte cerchi di guadagnare la fiducia del giudice sin dall’esordio dell’udienza dibattimentale non è di per sé illegittimo. Lo si è già detto: è normale che accusa e difesa profittino già dell’esposizione introduttiva per acquisire credito presso l’organo giudicante. Vietato è anticipare a questo momento modalità argomentative e comportamenti tipici dell’istruzione dibattimentale o della discussione. Ma quali modalità argomentative? e quali comportamenti? A ben vedere, quando la parte ordina in un ‘‘racconto’’ i fatti da provare, per attestarne il nesso di pertinenza (67) Il paradosso segnalato nel testo è una peculiarità del sistema processuale italiano, dove, competente a pronunciarsi sull’ammissione della prova, è lo stesso giudice che dovrà deliberare sul merito dell’accusa. Il cumulo di funzioni (processuali e decisorie) ha imposto una scelta: l’esigenza di garantire la terzietà del giudice, come giudice di merito, sottraendogli la conoscenza degli atti di indagine, è reputata prioritaria rispetto all’esigenza di far conoscere allo stesso giudice, come organo che controlla lo svolgimento procedurale, quegli stessi atti ai fini di una ponderata pronuncia sull’ammissione della prova. Unica (già accennata) eccezione alla regola, la disposizione dell’art. 495 comma 1 seconda parte. L’inconveniente non sorge nei sistemi di common law, per la semplice ragione che lì le competenze sono ripartite: alla giuria l’accertamento del fatto; al giudice la soluzione delle questioni giuridiche e procedurali, ivi comprese quelle riguardanti l’ammissione della prova. Che questa distinzione di funzioni dovesse caratterizzare anche l’ordinamento processuale italiano è stato auspicato in dottrina già alcuni decenni orsono: G. FOSCHINI, Il presidente di Corte d’Assise, 19, proponeva di attribuire al presidente del collegio l’esclusivo compito di ‘‘governare’’ il dibattimento, togliendogli quello di contribuire alla decisione di merito; ai (restanti) giudici sarebbe dovuto spettare l’esclusivo compito di deliberare la sentenza.
— 482 — con l’imputazione, è pressoché inevitabile che il suo argomentare si spinga fino al punto di riassumere il contenuto di taluni atti di indagine. Nel caso concreto, non può che essere il giudice (più precisamente, il presidente del tribunale), a stabilire cosa appartenga legittimamente al ‘‘racconto’’ e cosa debba starne fuori. Un (pur generale) criterio obbiettivo che serva da guida a chi ha la responsabilità di vigilare sulla correttezza dell’esposizione introduttiva può essere tratto dall’idea di ‘‘sequenza procedurale’’ esposta nel paragrafo precedente. Ciascuna delle tre fasi che compongono la sequenza è la sede tendenzialmente esclusiva di certe ‘‘modalità argomentative’’, sicché si può in generale asserire che sussiste un divieto di svolgere argomenti tipici di una fase oltre i fini della fase stessa, salvo che la legge disponga diversamente. Tale rilievo ha una duplice riflesso sull’applicazione dell’art. 493. Innanzitutto è vietato associare agli argomenti dell’esposizione introduttiva atti e operazioni tipiche dell’istruzione dibattimentale. Sotto il divieto non cadono eventuali cenni al contenuto di atti processuali o di documenti, che potrebbero in effetti essere richiesti dalle esigenze narrative connesse all’incipit argomentativo delle parti; vietata deve piuttosto considerarsi la lettura (68) di atti o di stralci di atti (persino se contenuti nel fascicolo formato a norma dell’art. 431): lettura che può aver luogo solo nell’istruzione dibattimentale, secondo le regole imposte dagli artt. 511 ss. (69). L’uso di mezzi tecnici audiovisivi non è di per sé interdetto, purché anch’esso non trasmodi nell’ostensione anticipata del mezzo di prova (70). Inoltre, l’esposizione introduttiva non deve anticipare le modalità argomentative della discussione finale. Questa ha luogo quando le prove sono già state acquisite davanti al (o dal) giudice. È quindi normale (anzi raccomandabile) che, in sede di conclusioni, le parti usino il tono assertorio di chi ritiene di aver già dimostrato la fondatezza delle proprie affermazioni sulla questione di merito. Diversamente, nell’esposizione introduttiva, occorre innanzitutto dimostrare che un determinato mezzo di prova merita di essere ammesso, perché pertinente e rilevante. La parte, che di solito già sa quale sarà il contenuto della futura, eventuale acquisi(68) Qui intesa ovviamente nel suo significato fenomenico, privo cioè di quella connotazione giuridica che inerisce al termine quando con esso si intende designare una specifica modalità acquisitiva della prova (artt. 511 ss.). (69) Invece nella prassi (soprattutto da parte dei pubblici ministeri) si indulge spesso ad accompagnare le richieste di prova in sede di esposizione introduttiva, con citazioni tratte dagli atti dei fascicoli processuali quali, ad esempio, verbali di deposizioni testimoniali, sentenze di altri procedimenti, atti di autorità pubbliche, stralci di intercettazioni telefoniche. Al riguardo, un orientamento largamente permissivo emerge da Ass. Caltanissetta, ord. 12 giugno 1995, Aglieri, in Ind. pen., 1995, 758. (70) Come è invece accaduto nel dibattimento cui si riferisce l’ordinanza citata alla nota precedente.
— 483 — zione probatoria, avrà spesso l’impulso di affermare fatti che attendono di essere provati, magari per trarne deduzioni capaci di suggestionare il giudice. Svolti prima del consentito, gli apprezzamenti sui fatti oggetto di prova, tipici della discussione finale, rappresentano una indebita anticipazione della sequenza argomentativa caratteristica della fase dibattimentale. Durante l’esposizione introduttiva, ci si potrà dunque riferire sommariamente al contenuto dei futuri mezzi di prova. Tuttavia, la parte, sotto la vigilanza del presidente del tribunale, dovrebbe usare l’accortezza di precisare, con opportune formule verbali, il carattere provvisorio e ancora incompleto della propria versione dei fatti (71). 8. (Segue): patologie e rimedi. — Gli sconfinamenti nell’istruzione dibattimentale e nella discussione finale — vale la pena ribadirlo — minacciano al contempo la situazione processuale della controparte e la posizione di imparzialità del giudice. Si pone dunque il problema dei rimedi esperibili contro i segnalati eccessi nel corso dell’esposizione introduttiva. Va ricordato innanzitutto il rimedio preventivo affidato al presidente del tribunale dal comma 4 dell’art. 493. Rimedio particolarmente incisivo, perché comprende il potere di ‘‘regolare’’ l’attività argomentativa delle parti. ‘‘Regolare’’ ha un significato più preciso del semplice ‘‘moderare’’ (72): il termine evoca l’idea di un potere ordinatorio che — nell’impossibilità pratica di formulare previsioni per il caso concreto — la legge demanda a chi dirige il dibattimento. Si deve dunque ritenere che, di fronte ad eventuali sconfinamenti delle parti, il presidente possa non solo censurare l’eccesso di argomentazione, ma altresì adottare uno specifico provvedimento, col quale fissare le direttive per il prosieguo dell’esposizione introduttiva. Al riguardo egli dovrà ispirarsi ai criteri generali ricavabili dalle disposizioni che la legge dedica all’attività argomentativa e da considerazioni sistematiche, sul tipo di quelle svolte nel paragrafo precedente. Il potere presidenziale di regolamentazione, pone il problema del corrispondente atto che contiene la ‘‘regola’’. Di quale atto si tratta? Che non sia un provvedimento formale (ordinanza o decreto) lo si capisce da una serie di rilievi: dall’art. 493, comma 4, innanzitutto, dove non si menziona alcun tipo di provvedimento; e ancora dall’art. 470, stando al quale le decisioni presidenziali hanno la caratteristica di essere prese ‘‘senza formalità’’; dall’art. 125, infine, che, configurando come tassative le previsioni legali sugli atti processuali, impedisce applicazioni analogiche in questo campo. La risposta all’interrogativo appare dunque obbligata: nella circo(71) Basterebbe, ad esempio, volgere la narrazione al condizionale, oppure intercalarla con espressioni del tipo ‘‘si intende dimostrare che...’’, ‘‘sarà possibile constatare che...’’. (72) Come mostra di ritenere G. AMBROSINI, Commento all’art. 493, 183. Si veda tuttavia la precisazione subito di seguito nel testo.
— 484 — stanza considerata, il presidente dà oralmente il proprio provvedimento, il cui testo dovrà essere riprodotto per intero nel verbale (art. 481, comma 2). Se questo potere normativo sia esercitabile dal collegio, anziché dal suo presidente, è questione controversa. La specifica disposizione contenuta nell’art. 493, comma 4 sembra a prima vista risolutiva e tale da individuare nell’organo monocratico il soggetto competente a porre la regola (73). Una riflessione più attenta svela tuttavia un’altra possibilità interpretativa, forse più coerente con il sistema. Se è vero che l’esposizione introduttiva rappresenta già un esordio di attività probatoria, sia pur in senso ampio; se è vero che l’eccesso di argomentazione e la scorrettezza di una parte rischiano di produrre situazioni sfavorevoli per la parte avversa, bisogna riconoscere che eventuali doglianze riguardanti quegli eccessi e quelle scorrettezze toccano in realtà un diritto in senso processuale: precisamente quel diritto prossimo e preliminare al diritto alla prova, che si esprime nella facoltà delle parti di argomentare secundum ius le proprie richieste e il cui esercizio già contribuisce a formare il convincimento del giudice in vista della decisione di merito. Stando così le cose, le controversie sull’esposizione introduttiva non rientrano nella competenza esclusiva del presidente, ma piuttosto in quella del collegio, davanti al quale dovrebbero esser, per così dire, reclamabili i provvedimenti presidenziali che decidessero provvisoriamente sulla questione insorta (74). Torna qui utile riferirsi all’art. 478, nella lettura sopra proposta, secondo la quale il collegio può pronunciarsi sul reclamo contro il provvedimento presidenziale, risolvendolo come questione incidentale. Alla luce di questa interpretazione, quel comma 4 dell’art. 493 assume comprensibilmente un significato assai più ridotto di quel che parrebbe a prima lettura. Al fine di evitare sovrapposizioni e bisticci di competenze fra presidente e collegio, il compito di ‘‘regolare l’esposizione introduttiva’’ va inteso nell’accezione ridotta (75) di un semplice intervento moderatore. Esso potrà assumere anche l’aspetto di un intervento normativo, contro il quale però le parti (o una fra loro) avranno facoltà di sollevare incidente, chiamando in causa il collegio (art. 478). Ad ogni modo, quale che sia l’organo competente a regolamentare questo inizio di attività probatoria, il provvedimento (presidenziale o col(73) In tal senso A. AVANZINI, Le parti nell’esposizione introduttiva, 364. (74) Nella pratica si è andati ben oltre la tesi esposta nel testo, quando il collegio è intervenuto a regolamentare l’esposizione introduttiva sostituendosi al presidente. È accaduto nel cosiddetto ‘‘processo Andreotti’’, con le tre ordinanze emesse dal tribunale di Palermo e citate supra, nt. 61. Una di queste è stata emessa sulla base (anche) dell’art. 190, a conferma della stretta connessione fra diritto all’argomentazione introduttiva e diritto alla prova. (75) Già affacciata in dottrina: cfr. G. AMBROSINI, Commento all’art. 493, 183.
— 485 — legiale) vale come norma per il caso concreto nei confronti delle parti. Eventuali inosservanze non renderebbero tuttavia invalidi i successivi atti della sequenza dibattimentale, dal momento che l’attività argomentativa svolta in sede di esposizione introduttiva non è suscettibile di valutazioni in termini di nullità o di inutilizzabilità; l’unica tutela che la parte ha contro le intemperanze dell’altra parte è data dalla facoltà di eccepire davanti al giudice dibattimentale la trasgressione dell’ordine impartito dal presidente o dal collegio. Stessa sorte subiscono le inosservanze delle parti che trovano direttamente nella legge la fonte del divieto: è il caso, ad esempio, della anticipata lettura di atti processuali, che sarebbe illegittima perché in contrasto con le previsioni legali sull’istruzione dibattimentale (in particolare, artt. 500, 503, 511-513). Nemmeno qui la situazione di illegittimità è tale da ricadere sotto sanzioni processuali (di inutilizzabilità o di nullità) per la ragione ripetutamente esposta: che le attività argomentative esterne alla formazione del mezzo di prova non sono assoggettabili a sanzioni processuali. Anche qui, dunque, la parte interessata dovrà tutelarsi contro le intemperanze dialettiche della parte avversa provocando un intervento censorio del presidente a seguito e nei confronti del quale potrà essere sollevata questione incidentale davanti al collegio. Un cenno a parte meritano le inosservanze del giudice, le quali sono invece idonee a interferire con le attività argomentative delle parti, determinando situazioni di invalidità o di inefficacia. Si è già osservato che lo svolgimento di attività argomentative presuppone un giudice attento, ben disposto all’ascolto, presente all’udienza non solo fisicamente ma, per così dire, anche in spiritu. Basterebbe l’‘‘assenza mentale’’ anche di un solo membro per rendere sostanzialmente irregolare la composizione del collegio. La presenza effettiva del giudice è imposta per l’intera udienza dibattimentale, ivi comprese quelle porzioni della stessa che le parti dedicano all’illustrazione di propri argomenti. Adeguatamente documentate (76), (76) Bisogna ammettere che per le parti non è facile ‘‘provare’’ la ‘‘assenza mentale’’ di uno o più membri del collegio. Non sarà tuttavia impossibile documentarne talune manifestazioni evidenti. Si pensi, per esempio, a un dibattimento videoregistrato, dove un membro del collegio appare appisolato, totalmente deconcentrato o intento a sbrigare altri lavori, con atteggiamenti che tradiscono inequivoco disinteresse per l’argomentazione della parte. Vigente il c.p.p. 1930, qualcuno sosteneva che il sonno e la disattenzione del giudice, risolvendosi in ‘‘mancata partecipazione spirituale al dibattimento’’ rientrava fra i casi di nullità assoluta: cfr. C. MASSA, Il principio della immutabilità fisica del giudice, 338-342. Ma la dottrina prevalente era di diversa opinione: si vedano V. MANZINI, Trattato, IV, 324-325, nonché V. ACCATTATIS, È a pena di nullità assoluta che il magistrato non può appisolarsi durante il dibattimento?, 174 ss. Il problema non risulta essere mai stato affrontato nella giurisprudenza italiana, benché nella prassi si riscontrino frequenti esempi di disattenzione nell’ascolto da parte del giudice. Interessanti prese di posizione sono invece riscontrabili in alcune pronunce della giuri-
— 486 — simili inosservanze integrerebbero praticamente un caso di imperfetta costituzione numerica del collegio e si configurerebbero pertanto come nullità riconducibili all’art. 178, comma 1, lett. a. Se invece il presidente manifestasse eccessiva attenzione per l’attività argomentativa della parte e intervenisse per ostacolarla o corroborarla, manifestando in anticipo il proprio convincimento, il rimedio dovrebbe consistere in una richiesta di ricusazione (art. 37, comma 1, lett. b), il cui accoglimento renderebbe pressoché inevitabile ripetere l’esposizione introduttiva svolta davanti al giudice ricusato (77). 9. Istruzione dibattimentale. — L’attività argomentativa prosegue nella fase centrale del dibattimento: quella dedicata alla acquisizione dei mezzi di prova. Questa affermazione va intesa in un duplice significato. Per un verso, l’argomentazione della parte continua a caratterizzarsi per il suo rapporto strumentale col mezzo di prova: si allude con questo al fenomeno per cui il complesso di affermazioni, ragionamenti, deduzioni di cui si compone l’argomentare, cerca nel mezzo di prova la conferma del proprio fondamento persuasivo. L’argomentazione appare qui come elemento esterno al ‘‘mezzo’’ che serve per provare: vi si appoggia per sostenersi (78). Per altro verso, l’argomentazione può venir in considerazione come uno degli ingredienti del mezzo di prova. Nelle prove orali la parte interviene spesso con propri ragionamenti, asserzioni, deduzioni per plasmare quel mezzo, quello strumento (ad esempio, una dichiarazione testimosprudenza tedesca, dove, pur affermandosi che, in linea di principio, la disattenzione di un membro del collegio è motivo di annullamento della sentenza, si ammette però che, in pratica, è difficile provarla: così, ad esempio, Bundesgerichtshof 7 settembre 1962, in Neue Juristische Wochenschrift, 1962, 2212. Contro l’eccessivo permissivismo di questa giurisprudenza si è espressa la dottrina, con rilievi che risultano calzanti anche per la nostra attuale normativa: si veda E. SCHMIDT, § 261 StPO in der neueren höchstrichterlichen Rechtsprechung, 340. (77) Dipende dal giudice che decide sulla ricusazione stabilire quali, fra gli atti compiuti dall’organo ricusato, mantengano efficacia (art. 42, comma 2). Per verità, la norma parla solo degli ‘‘atti compiuti dal giudice’’ e non menziona le attività di parte. Queste ultime, tuttavia, come accade nell’esposizione introduttiva, sono finalizzate a un provvedimento processuale (l’ordinanza di ammissione della prova), del quale è ragionevole ritenere che condividano le sorti in caso di ricusazione. Pertanto, se l’ordinanza ex art. 495 non fosse stata adottata o se fosse dichiarata inefficace, il nuovo giudice avrebbe bisogno di una nuova esposizione introduttiva per prendere la propria decisione. Se, invece, quell’ordinanza fosse considerata efficace (nonostante la scorrettezza segnalata nel testo), una nuova esposizione introduttiva risulterebbe superflua. (78) L’espressione ‘‘mezzo di prova’’, evocando l’idea di uno ‘‘strumento’’ (il mezzo, per l’appunto) volto a un fine (la prova), lascia intuire la natura complessa dell’attività probatoria, la quale risulta composta da elementi obiettivi o materiali (i ‘‘mezzi’’) e da elementi valutativi o discorsivi, fra i quali rientrano le argomentazioni.
— 487 — niale) che sarà poi idoneo ad avallare precedenti o ulteriori argomentazioni. In ogni caso, lo scopo perseguito è il convincimento del giudice. Ma, siccome l’attività argomentativa ‘‘esterna’’ al mezzo di prova pone problemi giuridici diversi rispetto a quella testé definita ‘‘interna’’, si impone un esame separato dei due fenomeni processuali (79). L’argomentazione cosiddetta esterna si manifesta in una sorta di critica dei mezzi di prova già formati e in una illustrazione del significato che le parti intendono attribuirvi. Essa trova nell’esposizione introduttiva (80) e, soprattutto, nella discussione finale i momenti di massima espressione; è però presente pure nella istruzione dibattimentale, ma in via, per così dire, occasionale e non per esplicita previsione legale. Si può tutt’al più affermare che talune norme riconoscono implicitamente alle parti la facoltà di svolgere argomentazioni esterne ai mezzi di prova già nel corso dell’istruzione dibattimentale. Prescindendo qui dall’art. 494 che sarà oggetto di separato approfondimento (81), va segnalata innanzitutto la disposizione dell’art. 511, comma 5, terza e quarta parte. Quando l’atto probatorio ha contenuto lato sensu testimoniale, oppure quando ne appare controverso il significato, la parte può esigere che la sua acquisizione avvenga con le modalità di una lettura effettiva (integrale o parziale) del testo, anziché tramite il più celere equivalente dell’indicazione (cosiddetto ‘‘dar per letto’’). È utile qui chiedersi quale sia lo scopo di simile regola. Esso si spiega, verosimilmente, in base all’esigenza di esporre il ‘‘mezzo’’ di prova alla dialettica dibattimentale, favorendo al contempo brevi osservazioni, critiche o precisazioni ad opera delle parti sul suo contenuto (82). Dove (79) La distinzione qui proposta fra argomentazione ‘‘esterna’’ ed ‘‘interna’’ è parallela e complementare a quella affacciata in dottrina fra contraddittorio ‘‘sulla’’ prova e contraddittorio ‘‘per’’ la prova; anche qui, la ragione del distinguere risiede nella constatazione che, in certi casi (prove scritte) il contraddittorio è esterno al mezzo di prova, mentre in altri casi (prove orali) è elemento interno alla formazione del mezzo di prova. Sulla distinzione testé richiamata cfr. D. SIRACUSANO, Le prove, il procedimento probatorio e il processo, 350. (80) Con riferimento a prove precostituite. Per le prove documentali si è posto il problema se il contraddittorio dibattimentale debba essere preceduto da una discovery come quella prevista per le prove orali. Investita della questione sotto il profilo di un’asserita irragionevolezza dell’art. 468, la Corte costituzionale (sent. n. 284/1994) ha escluso qualsiasi illegittimità al riguardo, ritenendo sufficiente il contraddittorio ‘‘improvvisato’’ in dibattimento sul mezzo di prova. (81) Cfr. infra § 13. (82) Il discorso vale pure per gli atti di altri procedimenti, dei quali può essere disposta (anche d’ufficio) la lettura a norma dell’art. 511-bis. Tale norma si limita a richiamare il comma 2 dell’art. 511. La circostanza che non si faccia alcun cenno al ‘‘dar per letto’’ né direttamente, né con un rinvio al comma 5 dell’art. 511, induce a ritenere che, per gli atti di altri procedimenti, la lettura non possa essere surrogata dalla mera indicazione dell’atto. La lettura non è invece espressamente prevista per le sentenze acquisibili a norma del-
— 488 — non si è potuta garantire una argomentazione ‘‘interna’’ al mezzo di prova, essendo il contenuto materiale di questo già, per così dire, racchiuso nel relativo verbale, si è ritenuto di dover assicurare almeno una immediata possibilità di argomentazione ‘‘esterna’’, onde permettere alla parte di ‘‘chiosare’’ la lettura dell’atto in modo da rafforzare la propria tesi (83). L’art. 482, comma 1 — l’applicabilità del quale non ha ragione di essere esclusa nell’istruzione dibattimentale — offre poi l’opportunità di far inserire nel verbale ‘‘ogni dichiarazione a cui (le parti) abbiano interesse’’, ivi compresi i rilievi e le osservazioni svolti contestualmente alla lettura dell’atto (84): grazie al verbale, l’argomentazione sul mezzo di prova si prolunga fino alla camera di consiglio, dove — chiusa l’udienza dibattimentale — il convincimento del giudice sta per tradursi in decisione. Quanto all’attività argomentativa cosiddetta ‘‘interna’’, essa compare di regola — lo si è già accennato — nell’acquisizione delle prove orali, il cui prototipo è rappresentato dalla testimonianza (85). Interessa qui evidenziare in che misura la parte, nel condurre l’esame, abbia facoltà di proporre al giudice rilievi, osservazioni, deduzioni, in una parola, argomenti a supporto delle proprie tesi, durante la formazione del mezzo di prova. Alcune premesse, forse ovvie, si impongono. Innanzitutto, vale anche con riferimento a questa fase qualcosa di analogo a ciò che s’è detto per l’esposizione introduttiva, e cioè che il giudice del dibattimento, conoscendo solo gli atti di indagine inseriti nel fascicolo a norma dell’art. 431, non sarebbe in grado di condurre l’esame testimoniale con la stessa efficacia delle parti (86). A ben vedere, la formulazione di domande o contestazioni al testimone offre alla parte la possibilità di perseguire, ad un tempo, l’art. 238-bis e, più in generale, per i documenti diversi da quelli indicati nell’art. 238 che siano acquisibili d’ufficio. Tuttavia, se l’esigenza che sta alla base dell’art. 511, comma 5 seconda parte è quella segnalata nel testo, non dovrebbero esservi difficoltà a concludere che pure questi documenti meritano di essere inseriti, tramite lettura effettiva, nella dialettica dibattimentale. In tale senso e per ulteriori osservazioni sul punto si rinvia al precedente studio, R. ORLANDI, Atti e informazioni amministrative nel processo penale, 205 ss. (83) Anche gli atti indicati dagli artt. 512, 512-bis e 513 debbono essere effettivamente letti, considerato che nemmeno tali norme prevedono modalità di ‘‘indicazione’’ sostitutive della lettura. (84) Il discorso non vale per le memorie scritte che — stando all’art. 482, comma 1, seconda parte — possono essere presentate a sostegno di ‘‘richieste e conclusioni’’, vale a dire in sede di esposizione introduttiva e, rispettivamente, di discussione finale. (85) Fatte le debite distinzioni, quel che si dirà della prova testimoniale varrà anche per l’esame del coimputato, del perito e delle parti. (86) Qui risiede verosimilmente la ragione del ‘‘successo’’ che l’esame incrociato conosce nella prassi processuale italiana. È interessante notare che, in un sistema dove il giudice dibattimentale conosce gli atti della fase preliminare (è il caso dell’ordinamento processuale tedesco), l’esame incrociato — consentito sia pure previa autorizzazione presidenziale (§ 239 StPO) — risulta pressoché sconosciuto nella pratica: al riguardo cfr. C. ROXIN, Strafverfahrensrecht, 311, il quale auspica una riforma che metta in primo piano la cross exami-
— 489 — un duplice scopo: principalmente ‘‘costruire’’ la prova testimoniale, provocando quelle dichiarazioni che appaiono idonee a sostenere la propria tesi; in secondo luogo e in via per così dire collaterale, offrire subito al giudice informazioni utili per interpretare il senso delle dichiarazioni rese. Che le risposte vadano interpretate e comprese partendo dalle sollecitazioni che le hanno provocate, è assunto suggerito già dal buon senso, che ora trova significativo riscontro nell’ordinamento processuale: l’art. 510, comma 2 impone di riprodurre ‘‘integralmente in forma diretta le domande’’ rivolte al testimone, affinché il giudice se ne possa avvalere anche in camera di consiglio prima di emettere la sentenza. Il citato art. 510 non menziona le contestazioni rivolte al testimone, che tuttavia dovrebbero ricevere lo stesso trattamento delle domande. In relazione ad esse, la verbalizzazione potrebbe forse essere ritenuta superflua, soprattutto da quando l’art. 500 prevede che tutte le dichiarazioni usate a fini di contestazione siano rese accessibili al giudice, tramite allegazione del relativo verbale al fascicolo dibattimentale. Un tal modo di ragionare sarebbe tuttavia discutibile, perché confonde la contestazione con il suo oggetto (la dichiarazione precedentemente resa). Ciò che andrebbe documentato a norma dell’art. 510 è la contestazione in quanto tale, vale a dire l’espressione verbale del rilevato contrasto con una precedente dichiarazione e che solitamente precede la lettura della dichiarazione stessa (87). Si consideri inoltre che il novero delle possibili contestazioni non si limita a quelle fondate su dichiarazioni precedentemente rese dall’esaminato. La pratica conosce forme di contestazione atipiche, aventi ad oggetto, ad esempio, fatti notori o rilievi basati su massime di esperienza: contestazioni, cioè, che tendono a mettere in dubbio la veridicità o persuasività della dichiarazione in sé più che la credibilità del dichiarante (88). Orbene, sia le domande, nelle quali l’esame si articola, sia le varie forme di contestazione sono possibili contenitori di attività argomentative nel senso che qui interessa. Inoltre, nella pratica accade spesso che chi pone la domanda chiosi le risposte ottenute, sottolineando con espressioni nation prevedendola come regola e lasci però al giudice del dibattimento piena conoscenza degli atti processuali (loc. cit., 322); una soluzione discutibilmente compromissoria, che lascerebbe pressoché intatta l’attuale posizione del presidente del collegio. (87) Il dovere di verbalizzare le contestazioni si deve comunque intendere ricompreso nella parte dell’art. 510, comma 2 che impone di documentare lo svolgimento dell’esame. Quel che si vuol sostenere nel testo è l’opportunità di una verbalizzazione integrale dello spunto contestativo, soprattutto quando questo si appoggia su premesse argomentative utili a comprendere il tenore della replica da parte del teste. L’assunto è condiviso in dottrina da G. UBERTIS, La disciplina del giudizio di primo grado, 203, nt. 73. (88) Gli esempi sono molteplici: testi che collocano i fatti narrati in date od orari inverosimili; oppure espongono la dinamica degli eventi fornendo ricostruzioni in contrasto con elementari massime di esperienza.
— 490 — di approvazione, disapprovazione, sorpresa, incredulità o ironia quanto il teste riferisce (89). Si tratta di stabilire entro che limiti siano ammesse forme di argomentazione ‘‘interna’’ alla prova orale. Quanto alle domande, le parti possono formularle premettendo affermazioni, rilievi, constatazioni nell’intento — oltre che di farne meglio comprendere il senso alla persona esaminata — di attrarre il giudice nell’orbita della propria versione dei fatti. All’esercizio di simile attività argomentativa la legge pone limiti piuttosto vaghi: la tecnica dell’esame incrociato lascia ampi margini di iniziativa all’esaminatore. Sono comunque vietate le domande ‘‘che possono nuocere alla sincerità delle risposte’’ (art. 499, comma 2), vale a dire quelle la cui premessa appare idonea ad indurre il teste alla menzogna. Sono inoltre vietate le domande suggestive, in particolare quelle che tendono a suggerire le risposte (90), solo però se provengono dalla parte che ha chiesto la citazione del teste, o da quella che condivide, con la stessa, un interesse comune (art. 499, comma 3). La parte che conduce il controesame ha quindi ha disposizione un più ampio spazio argomentativo, che potrà essere utilizzato tanto per ‘‘mettere alle corde’’ il teste, quanto per ‘‘sensibilizzare’’ il giudice agli argomenti esposti nella formulazione delle domande. Per quel che riguarda invece le contestazioni, in quelle tipiche (art. 500) la componente argomentativa si riduce alla constatazione del contrasto fra dichiarazione resa in dibattimento e altra precedente dichiarazione dello stesso teste. Spesso il contrasto sarà evidente e basterà, per l’appunto, constatarlo affinché l’art. 500 (o l’art. 503, comma 3, se l’esame riguardasse la parte) trovi pronta applicazione. Qualora però il contrasto non apparisse ictu oculi, potrebbe rendersi necessaria una argomentazione supplementare per stabilire l’esatto significato delle dichiarazioni rese nei diversi ambiti procedimentali, anche per consentire al giudice di verificare se la difformità continui a sussistere dopo la contestazione, in vista dell’utilizzazione probatoria prevista dall’art. 500, comma 4. Natura essenzialmente argomentativa hanno poi le contestazioni atipiche, consistenti — come già accennato — in rilievi critici, che la parte dirige contro dichiarazioni reputate inverosimili, perché in contrasto con fatti notori o con elementari massime di esperienza. Qui, assai più che nelle contestazioni tipiche, l’argomentazione della parte svela il suo duplice carattere: tesa, da un lato, a modellare la prova testimoniale secondo (89) Un interessante campionario di interventi delle parti, nell’ambito dell’esame testimoniale, con marcate finalità argomentative, è offerto dall’analisi del ‘‘processo Cusani’’ condotta da G. FELE, Strategie discorsive della degradazione pubblica in tribunale, 148 ss. (90) Abilmente formulate combinando asserzioni e interrogazioni, certe domande mettono il teste in condizione di confermare implicitamente e talvolta inconsapevolmente la componente assertiva del quesito.
— 491 — i propri interessi; d’altro lato, a influire direttamente sul convincimento giudiziale. 10. (Segue): patologie e rimedi. — Vanno esaminate separatamente le inosservanze collegate ad attività argomentative, secondo che queste siano ‘‘esterne’’ ovvero ‘‘interne’’ alla formazione del mezzo di prova. Si è già accennato al limite che caratterizza l’argomentazione cosiddetta esterna: osservazioni e rilievi, consentiti durante o dopo la lettura di un atto o di un documento, essenzialmente allo scopo di introdurlo nel vivo contesto dibattimentale, non possono trasmodare né in una narrazione sul tipo di quella ammessa nell’esposizione introduttiva, né in un anticipo di discussione sul significato e sulla valutazione della prova scritta. Il limite, non rintracciabile in una precisa disposizione di legge, è desumibile dalla struttura della sequenza dibattimentale, il cui ordine — conviene ribadire — non può essere sconvolto da iniziative intempestive delle parti. Su ciò vigila il presidente del collegio, il quale — in forza del generale potere direttivo affidatogli dall’art. 470 — impedirà alle parti di esorbitare dai limiti di sintesi e brevità ritenuti compatibili con l’acquisizione della prova. L’eccesso di argomentazione non sembra tuttavia tale da produrre conseguenze invalidanti: al più si renderà necessario un intervento autoritativo del presidente, volto ad interrompere lo scorretto comportamento della parte. E potrà altresì essere chiamato in causa il collegio, a norma dell’art. 478, qualora sorgessero controversie sul provvedimento presidenziale. Diverso il discorso per le attività argomentative ‘‘interne’’ alla formazione della prova. Il divieto di domande nocive e suggestive apre la possibilità di un controllo al quale cooperano — nei rispettivi ruoli — parti e presidente del collegio. Quest’ultimo può intervenire d’ufficio (art. 499, comma 6) o su sollecitazione della parte interessata (art. 504) con provvedimento informale, che tuttavia influisce direttamente sulla formazione della prova. Il potere normativo del presidente non è peraltro insindacabile, come già ripetutamente osservato. Essendo in gioco il diritto alla prova, a maggior ragione, occorre assicurare alle parti la facoltà di eccepirne l’eventuale illegittimità. Ciò non deve portare a interruzioni, che rischierebbero di esporre l’esame testimoniale alla chicane della parte controinteressata. L’esame va quindi portato a termine conformemente alle direttive presidenziali. La parte potrà riservarsi di eccepire il provvedimento del Presidente, sollevando incidente davanti al collegio, il quale deciderà della sua legittimità (art. 478), ordinando, se del caso, la ripetizione dell’atto probatorio. L’ordinanza collegiale sarebbe poi impugnabile insieme con la sentenza, qualora l’effetto inibitorio della direttiva impar-
— 492 — tita nel corso dell’esame limitasse in misura significativa la sua partecipazione alla formazione della prova (91). Se la parte non ottemperasse alle direttive impartite e la persona esaminata rispondesse alle domande vietate, la conseguenza sarebbe l’inutilizzabilità delle dichiarazioni corrispondenti a quelle domande (art. 191 e art. 526). Il divieto in questione — pur radicato in una previsione generale ed astratta della legge processuale (art. 499) — scaturisce, in concreto, dal provvedimento presidenziale (eventualmente confermato dal collegio chiamato a pronunciarsi sull’incidente promosso a norma dell’art. 478). Non esistono infatti domande di per sé suggestive o di per sé idonee a provocare risposte menzognere, tali da poter essere individuate in via generale ed astratta dalla legge: solo il provvedimento giudiziale può qualificarle in quei termini e porsi, in questo modo, come norma del caso concreto cui commisurare la legittimità dell’atto probatorio. Occorre tuttavia guardarsi da un possibile equivoco concernente gli effetti invalidanti di questa singolare manifestazione del divieto probatorio. L’ordine del presidente (o del collegio) è una specificazione del comando legale: esso non istituisce il divieto, bensì lo rende operativo nel caso particolare. Ne segue che l’invalidità delle domande (e relative risposte) non potrebbe essere dedotta o rilevata prima del provvedimento presidenziale (o collegiale); potrebbe però estendersi anche alle domande anteriori che risultassero in contrasto con l’ordine impartito. Il divieto probatorio, in altre parole, parrebbe dotato di effetto retroattivo: ma è solo un’impressione fallace, poiché bisogna ammettere che — per effetto di quel comando giudiziale — è pur sempre il divieto probatorio legale che opera e tale divieto vale per l’intero dibattimento. 11. Discussione conclusiva. — L’ultima porzione dell’udienza dibattimentale è dedicata pressoché interamente all’argomentazione. Quanto a struttura, la discussione rivela una articolazione corrispondente a quella della sentenza: le argomentazioni delle parti aspirano a farsi motivazione (92); le conclusioni preconizzano il dispositivo. Della discussione interessa qui, in particolare, la componente argomentativa, la quale si caratterizza come attività lato sensu probatoria, benché esterna alla formazione del mezzo di prova. Un simile assunto sarebbe stato insostenibile all’epoca dei previgenti (91) Così anche G. FRIGO, Commento all’art. 498, 245. (92) È degno di nota che — nei motivi della sentenza — il giudice debba enunciare tanto le ‘‘ragioni’’ del proprio convincimento, quanto le ‘‘ragioni’’ che non l’hanno convinto (art. 546, comma 1, lett. e): si riflette nella struttura della motivazione la dinamica delle attività argomentative nella discussione conclusiva. Per interessanti rilievi circa il carattere ‘‘binario’’ della motivazione cfr. F.M. IACOVIELLO, Il controllo della Cassazione sulle prove, 1247.
— 493 — ordinamenti processuali. Quando il fenomeno probatorio si identificava essenzialmente col mezzo di prova, la discussione finale figurava come attività tutto sommato marginale, quasi esterna al fenomeno probatorio. L’argomentazione sul mezzo di prova poteva certo offrire alle parti l’occasione per formare il convincimento del giudice. Quest’ultimo, tuttavia, conosceva per intero gli esiti della fase istruttoria, era dotato di penetranti poteri d’ufficio nel campo dell’acquisizione probatoria e — stando al modello di epistemologia giudizaria allora imperante — era in grado di comprendere da solo il significato dei mezzi di prova acquisiti, senza passare per le opinioni del pubblico ministero e dell’imputato. Del resto, dal rilievo che l’intervento in sede di discussione rispondeva alla minimale esigenza di suffragare le conclusioni delle parti, era facile trarre la conclusione che l’attività in parola non fosse proprio indispensabile per la validità del giudizio (93). Il discorso valeva a maggior ragione con riferimento all’imputato, il quale — ad esempio con la codificazione del 1865 — poteva addirittura tralasciare le proprie conclusioni rimettendosi alla giustizia della Corte (94): chi meglio del giudice era in grado di controllare le premesse del sillogismo decisionale, traendone le necessarie conclusioni? Si spiega così un certo atteggiamento di sfavore e diffidenza nei confronti delle argomentazioni difensive. Atteggiamento che — con riguardo alla discussione — tocca il culmine nel codice del 1930, versione originaria: il tempo dell’arringa era prefissato dal presidente (95); il difensore era tenuto ad esaurire le proprie argomentazioni nello stesso giorno in cui aveva preso la parola e doveva per forza intervenire (pena l’impossibilità di farlo successivamente) quando mancavano almeno due ore alla fine dell’udienza (96). Qui si vede come l’argomentazione costituiva una sorta di appendice dell’attività probatoria, la quale avrebbe potuto esaurirsi nella semplice acquisizione dei mezzi di prova. Diversamente stanno le cose nel sistema vigente, dove l’attività argomentativa (anche quella svolta in sede di discussione finale) è componente essenziale dell’attività probatoria, intesa, in senso ampio, come attività volta a formare il convincimento giudiziale: non prova da argomentare — (93) Istruttivo l’esempio dell’art. 150 c.p.p. 1930 che, a pena di nullità, imponeva a pubblico ministero e imputato di formulare le proprie conclusioni, ma non prevedeva che l’imputato le illustrasse con argomenti. Un tale dovere incombeva invece sul titolare dell’accusa, tenuto in ogni caso a motivare le proprie richieste (art. 76, comma 2, c.p.p. 1930). (94) In tal senso disponeva espressamente l’art. 281 n. 11o c.p.p. 1865. Nelle codificazioni del 1913 la regola poteva considerarsi implicita. Delle regole adottate al riguardo con la codificazione del 1930 si è già detto alla nt. precedente. (95) Art. 468, comma 3, c.p.p. 1930. (96) Art. 468, comma 4, c.p.p. 1930. Vale la pena ricordare che queste regole, così palesemente fobiche nei confronti della difesa, furono tra le prime ad essere soppresse dopo la caduta del regime fascista: l’art. 468 fu infatti modificato dall’art. 7, d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288.
— 494 — è il caso di ribadire — bensì argomentazione da provare; non semplice esposizione di argomenti tesi ad illustrare le conclusioni, ma spiegazione offerta dalle parti al giudice, nell’intento di chiarire il significato da attribuire ai mezzi di prova acquisiti. Si può dire che la discussione porta a compimento quella stessa attività argomentativa iniziata in sede di esposizione introduttiva e destinata, come si è visto, a prolungarsi nell’istruzione dibattimentale. Esiste una dinamica dell’argomentazione che percorre l’intero giudizio, ma si esprime in modi diversi nei vari stadi del dibattimento. Svolta in termini ipotetici nell’esposizione introduttiva, poiché il giudice ancora non conosce i mezzi di prova che ne costituiscono il supporto, essa viene invece esposta ‘‘a ragion veduta’’ nella discussione finale, dove si presenta come critica e valutazione della parte ai mezzi di prova acquisiti. Si potrebbe cogliere in questa opera di critica e valutazione un fenomeno esterno alla attività probatoria. Se però si concorda nel ritenere che al campo della prova appartiene ogni attività posta in essere dalla parte per convincere il giudice, al fine di ottenere una pronuncia di contenuto determinato (97), occorre ammettere che l’argomentazione rientra a pieno titolo in questo campo. Non bisogna confondere la ‘‘prova’’ con il ‘‘mezzo di prova’’. È sufficiente ritornare brevemente su una riflessione già svolta in apertura per cogliere la fondamentale differenza fra questi due concetti. A un medesimo ‘‘mezzo’’ può infatti corrispondere una pluralità di ‘‘prove’’: può accadere, ad esempio, che una stessa dichiarazione testimoniale si presti a diverse riletture, interpretazioni, attribuzioni di significato, variabili secondo le soggettive valutazioni delle parti; queste ultime, combinandosi con quella singola entità oggettiva che è la dichiarazione documentata nel verbale (il ‘‘mezzo di prova’’, per l’appunto), producono una molteplicità di ‘‘prove’’, nel senso di ‘‘argomentazioni provate’’. Il fatto che la discussione sia così intimamente legata a precedenti attività argomentative non deve far dimenticare che essa costituisce uno stadio del dibattimento, con una propria, pur relativa autonomia e separatezza rispetto alle fasi precedenti (esposizione introduttiva e istruzione dibattimentale). Conviene ribadire che, nell’ambito della discussione finale, l’attività argomentativa appare preordinata a un duplice scopo: da un lato, in quanto chiarisce il significato dei mezzi di prova acquisiti, essa si rivolge per così dire all’indietro e completa la attività di istruzione dibattimentale; dall’altro, in quanto precede le conclusioni della parte, è protesa in avanti verso la decisione di merito. Le modalità dell’argomentazione debbono essere compatibili con le suddette finalità, sicché non sono ammesse attività tipiche delle prece(97) Secondo la premessa enunciata in apertura del lavoro e suffragata dalle categorie dottrinali illustrate supra nt. 2.
— 495 — denti fasi di produzione della prova (lato sensu intesa). Va esclusa, in particolare, una regressione all’istruzione dibattimentale, con l’unica eccezione del caso in cui si renda assolutamente necessario assumere un nuovo mezzo di prova (art. 523, comma 6). Un problema pratico è se — durante la discussione — le parti abbiano facoltà di inserire nei loro interventi porzioni più o meno ampie di istruzione dibattimentale, ad esempio, attraverso la lettura di dichiarazioni testimoniali oppure la riproduzione in udienza di registrazioni audio o video. La questione può essere variamente risolta. Diamo pur per scontato che, per essere efficace, l’argomentazione sul mezzo di prova ha spesso bisogno di riferirsi da vicino al proprio oggetto, anche attraverso ‘‘citazioni tra virgolette’’ tratte da verbali o documenti redatti o esibiti nella precedente istruzione dibattimentale. Occorre stabilire quale sia il limite all’uso di queste ‘‘citazioni’’ interne all’argomentazione. Al riguardo, due sembrano le tesi seriamente enunciabili, le quali rinviano a diverse concezioni dell’attività argomentativa. Se si ritiene che il limite vada commisurato esclusivamente alla funzione decidente del giudice dibattimentale, si consentirà alle parti di riprodurre (tramite lettura o registrazione) tutto il materiale probatorio ufficialmente documentato nell’udienza (98). Se invece — come sembra preferibile ritenere in base alle premesse di questo studio — si deve tener conto altresì della sequenza procedurale lungo la quale si snoda l’attività probatoria, nonché dei diritti e delle aspettative che contrassegnano la situazione delle parti in questo particolare stadio del dibattimento, quel limite va concepito in termini più restrittivi e rigorosi. La discussione finale è la sede per argomentare sui mezzi di prova, oltre che per illustrare le conclusioni delle parti; non per riproporre a piacimento stralci di istruzione dibattimentale, necessariamente avulsi dall’apposito spazio che la legge ha istituito per la formazione e acquisizione dei mezzi di prova. Una simile prassi turberebbe l’ordine predisposto dal legislatore (99). Applicata su larga scala, la riproduzione di mezzi di (98) Questo è il criterio prescelto da Trib. Milano, ord. 19 aprile 1994, Cusani, inedita: in quel caso il pubblico ministero aveva deciso di condurre la propria requisitoria avvalendosi di supporti audio-video gestiti da un computer, tramite il quale era possibile reperire con estrema rapidità i passi di istruzione dibattimentale che il pubblico ministero intendeva riproporre al giudice, per rendere più completa ed efficace la propria argomentazione. Su eccezione dell’imputato, il Tribunale escluse la video riproduzione e permise invece la audio riproduzione, appunto sul presupposto che solo quest’ultima rientrava fra i mezzi di documentazione ufficiale di quel dibattimento. (99) E si risolverebbe in una disparità di trattamento quasi sempre a svantaggio della difesa, giacché l’ufficio dell’accusa dispone solitamente di cospicue informazioni anche su fatti connessi rispetto a quello per cui si sta procedendo e può spesso avvalersi di attrezzature informatiche solo astrattamente accessibili alle parti private. Questa sproporzione di
— 496 — prova nell’ambito della discussione finale finirebbe col sovrapporre a quella reale una istruzione dibattimentale ‘‘virtuale’’, in una versione per di più ‘‘filtrata’’ dalla parte interessata. Soprattutto se attuata con strumenti audio-video, atti a simulare le performances dei soggetti esaminati, con buona approssimazione — quanto ad effetto psichico sul giudice — alla originaria acquisizione probatoria, la riproduzione in copia del mezzo di prova si risolverebbe comprensibilmente in una parziale reiterazione dell’istruzione dibattimentale: una reiterazione arbitraria, attuata per stralci, secondo le convenienze argomentative della parte che assume l’iniziativa e che finirebbe, quindi, col comprimere le legittime aspettative dell’altra parte. C’è un unico modo per evitare simili abusi: vietare che la discussione sia ingiustificatamente ‘‘interrotta’’ per far ascoltare o per far vedere al giudice voci o immagini tratte dalla precedente istruzione dibattimentale. Non c’è dichiarazione o evento che, con un po’ di pazienza e di abilità narrativa, non possa essere tradotto in parole o parafrasato da chi interviene nella discussione. Al più il presidente potrà permettere che sia letto uno stralcio del verbale di assunzione della prova, che sia ascoltato un brano di testimonianza o visionata la prova videoregistrata, quando l’argomentazione esige un riferimento preciso all’espressione effettivamente usata dal dichiarante o alle circostanze della dichiarazione: vale a dire, quando le parole proferite da quest’ultimo, la particolare inflessione della voce o l’espressione del volto (sempre che il dibattimento sia documentato con il sistema della video registrazione) diventano l’oggetto di un’operazione metalinguistica, vale a dire quando costituiscono di per sé una sorta di ‘‘evento’’ che la parte intende chiosare con particolari rilievi, ragionamenti o deduzioni. Per il resto e, comunque, di regola la discussione dovrebbe consistere dei soli argomenti delle parti sui mezzi di prova in precedenza acquisiti. Quanto all’ordine di intervento nella discussione, la legge lo fissa tenendo conto del diverso ruolo delle parti. Il primo a prendere la parola è il pubblico ministero, sul quale grava l’onere di provare l’accusa. Seguono (se costituite) le parti private eventuali (parte civile (100), responsabile mezzi è apparsa in tutta la sua evidenza, ad esempio, nel ‘‘processo Cusani’’ celebratosi a Milano nella primavera del 1994. (100) Nei codici previgenti, era la parte civile ad intervenire per prima: si riteneva opportuno far seguire alle argomentazioni appassionate del danneggiato la ‘‘parola calma e disinteressata dell’ufficiale dell’accusa’’ (così G. BORSANI-L. CASORATI, Codice di procedura penale, 278). La normativa attuale si è orientata in senso opposto, conformandosi alla scelta già suggerita dal Progetto preliminare di nuovo c.p.p. del 1978: scelta fondata sul duplice rilievo dell’accessorietà della pretesa risarcitoria rispetto all’azione penale e della conseguente opportunità di evitare che il pubblico ministero vada al traino della parte civile, limitandosi a far proprie le conclusioni di quest’ultima (cfr. MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA, Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, 1978, 422).
— 497 — civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria), collocate fra le parti principali in considerazione della loro posizione accessoria rispetto all’accusa. La difesa interviene per ultima (art. 523, comma 1) anche per una giustificata particolarità di trattamento in favore dell’imputato, fondata sul rilievo che l’ultima parola resta di solito impressa nell’animo del giudice meglio degli argomenti svolti in precedenza dalle altre parti. Repliche sono ammesse purché servano a confutare argomentazioni sfavorevoli al parlante (art. 523, comma 4) e, in ogni caso, l’ultima parola spetta all’imputato e al suo difensore, i quali debbono essere sentiti a pena di nullità, se solo lo richiedono (art. 523, comma 5). 12. (Segue): patologie e rimedi. — La legge stabilisce che le parti formulino e illustrino le loro conclusioni (101) (art. 523, comma 1), ma non si cura poi di tutelare tale previsione con una specifica sanzione. Diversamente — lo si è già ricordato — il codice previgente imponeva a tutte le parti di presentare proprie conclusioni a pena di nullità (art. 130 c.p.p. 1930). Ciò non significa che, nell’attuale ordinamento processuale, questa attività di parte sia meno importante che nell’ordinamento previgente. Al contrario, proprio quel difetto di specifica sanzione sembra confermare che, in un processo di parti, la discussione sia considerata una sorta di attributo naturale del contraddittorio. A garantirla non occorrono disposizioni processuali rafforzate; sarà sufficiente far leva sull’interesse delle parti, le quali sanno benissimo che il contenuto della decisione dipende essenzialmente dall’impegno profuso nell’argomentare i mezzi di prova acquisiti e nel farne discendere coerenti conclusioni in iure. Per questo, la legge processuale non si cura di imporre all’imputato un dovere di conclusione. Poco importa che questi si rimetta ‘‘alla giustizia’’ o che si rifiuti semplicemente di concludere: il giudice potrà comunque decidere legittimamente la questione. Il rilievo appena svolto ha peraltro le sue eccezioni. Innanzitutto non vale per la parte chiamata a rappresentare l’interesse pubblico. Nel ‘‘formulare e illustrare’’ (102) le proprie conclusioni prima della deliberazione dibattimentale (art. 523, comma 1) l’ufficio dell’accusa adempie un dovere la cui inosservanza ricadrebbe nella previsione dell’art. 178, lett. b, seconda parte, qualificandosi come nullità a regime intermedio (art. 180). (101) Termine generico che riunisce due significati dell’attività di parte: l’argomentazione e la richiesta; si veda la precisazione alla nt. successiva. (102) I due verbi alludono ad attività diverse: ‘‘formulare la conclusione’’ significa chiedere al giudice una decisione di un determinato contenuto; ‘‘illustrare la conclusione’’ sta invece per presentare gli argomenti idonei a suffragare la conclusione formulata. In altri termini, l’art. 523, comma 1 impone al pubblico ministero sia di presentare la propria richiesta, sia di motivarla (analogamente a quanto prevedeva l’art. 76, comma 2, c.p.p. 1930, con riferimento a tutte le richieste provenienti dalla parte pubblica).
— 498 — Inoltre bisogna tener conto della regola particolare prevista per la parte civile la quale, se non presenta le proprie conclusioni, finisce con l’autoescludersi dal processo (art. 82, comma 2). Per le parti private, il ‘‘concludere’’ è un diritto più che un dovere. Precisamente un diritto protetto dall’art. 178, lett. c. Oltre a questo, la legge assicura all’imputato e al suo difensore la facoltà di parlare per ultimi, tutelando il corrispondente diritto con la già ricordata sanzione di nullità (103). Anche qui spetta, in prima battuta, al presidente il potere di disciplinare l’attività argomentativa nonché l’illustrazione delle conclusioni: egli dirige la discussione, impedendo ogni divagazione, ripetizione e interruzione. Dotato di potere di interdizione, il presidente può quindi togliere la parola a chi ne abusa (104), ma, inizialmente, si limiterà ad ammonire il parlante per indurlo ad astenersi dall’abuso. In simile contesto, l’uso della forza pubblica si giustificherebbe solo di fronte a casi estremi e, segnatamente, quando la discussione degenerasse nella commissione di un illecito penale, che il presidente avrebbe il dovere di impedire (art. 470, comma 2). Per il resto, tutto è affidato all’efficacia del divieto scaturente dal provvedimento presidenziale: se — non ostante quel divieto — la parte proseguisse pervicacemente nelle proprie divagazioni o ripetizioni, il suo intervento andrebbe considerato dal giudice come estraneo allo svolgimento argomentativo (105); sarebbe anzi opportuno segnalarlo come ininfluente ai fini della sentenza, con apposita annotazione nel verbale d’udienza (art. 481). L’argomentazione contraria all’ordine impartito va semplicemente ignorata. Non sarebbe quindi da escludere, in tali casi, che il collegio dichiarasse chiuso il dibattimento e si ritirasse per deliberare sul merito, anche prima che l’imputato inottemperante avesse concluso il proprio intervento (106). Al presidente non spetta tuttavia un potere di decisione insindacabile. I suoi ordini hanno sì valore normativo, ma le parti li possono contestare con una sorta di reclamo al collegio, il quale dovrebbe pronunciarsi con ordinanza (art. 478). In tal caso, sarebbe quest’ultima a valere come (103) Art. 523, comma 5: nullità a sua volta inquadrabile nell’art. 178, lett. c e, benchè speciale, da considerare a regime intermedio, stante il disposto dell’art. 181, comma 1. (104) Come prevedeva espressamente l’art. 470 c.p.p. 1930. (105) Tale si ritiene debba essere la conseguenza dell’illegittimo comportamento della parte in sede di discussione. La concezione argomentativa della prova o, se si preferisce, l’asserita unità del fenomeno probatorio sotto il segno della argomentazione (‘‘argomentazione provata’’) non può spingersi sino al punto di affermare che una illegittima discussione finisca addirittura col rendere invalido il mezzo di prova cui accede. Quest’ultimo, nel nostro sistema processuale mantiene una sua autonomia, talché il giudice potrebbe valutarlo anche se difettassero le conclusioni delle parti. (106) Tale regola, espressamente prevista nel codice previgente (art. 470 c.p.p. 1930), può essere ricostruita in via interpretativa con riferimento al sistema attuale.
— 499 — norma per la successiva discussione, e le parti dovrebbero uniformarvisi, pena l’irrilevanza del loro intervento. 13. Dichiarazioni spontanee. — L’imputato può intervenire presentando direttamente al giudice propri argomenti e opinioni. La facoltà di fornire dichiarazioni spontanee è espressione di un principio di autodifesa che trova attuazione praticamente lungo tutto l’arco del procedimento penale: si può dire che, in ogni momento, l’imputato è in grado di far pervenire la propria voce alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria (107). Tuttavia, oltre che occasione di difesa, le dichiarazioni spontanee costituiscono un efficace atto probatorio, soprattutto quando vengono rese nel dibattimento: in quanto tali meritano di essere qui considerate (108). Si legge nell’art. 494, comma 1 che l’imputato può ‘‘rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune’’. È anzi un dovere del presidente avvertire l’interessato di questa facoltà. Ciò che però — ai fini del presente studio — va particolarmente sottolineato è l’ampio margine lasciato all’imputato nella scelta del momento in cui rendere proprie dichiarazioni. Questa sorta di ubiquità temporale tradisce la struttura complessa dell’atto, nel quale sembra sopravvivere l’essenziale unità del fenomeno probatorio: una commistione di ‘‘elementi obiettivi’’ (enunciati fattuali) e di ‘‘argomenti’’ (ragionamenti e deduzioni vertenti su enunciati fattuali). Le dichiarazioni spontanee possono contenere infatti, ad un tempo, informazioni su un fatto (e come tali sono affini ai ‘‘mezzi di prova’’) nonché argomenti esplicativi di quelle o di altre informazioni tratte dai mezzi di prova acquisiti. Per questo — concluse le esposizioni introduttive — l’imputato può renderle nel corso dell’intero dibattimento. In quanto ‘‘enunciati fattuali", le dichiarazioni spontanee sono elementi obiettivi offerti alla valutazione delle parti e del giudice: la loro sede naturale sarebbe quindi l’istruzione dibattimentale. In quanto ‘‘ragionamenti o deduzioni su enunciati fattuali’’ esse rientrano invece nell’attività strettamente argomentativa e la loro sede naturale sarebbe la discussione finale. Tuttavia, essendo la componente informativo-probatoria strettamente connessa con quella argomentativa, si capisce come l’atto si presti ad essere compiuto in ogni stato del dibattimento. Resta esclusa soltanto la fase dell’esposizione introduttiva (art. 494, comma 1) che, essendo principalmente fina(107) Rilevano, a questo riguardo, l’art. 141 (dichiarazioni spontanee in ogni stato e grado del processo); l’art. 350, comma 7 (dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria); l’art. 374 (dichiarazioni spontanee al pubblico ministero); e, finalmente, l’art. 494 (dichiarazioni spontanee in ogni stato del dibattimento). (108) Benché le dichiarazioni spontanee non figurino nel catalogo dei mezzi di prova, appare fuor di dubbio la loro attitudine a formare il convincimento giudiziale e tanto basta a considerarle manifestazione di attività argomentativa.
— 500 — lizzata alla questione processuale di ammissibilità della prova, è parsa evidentemente inidonea ad accogliere un atto preordinato a influire esclusivamente sulla decisione di merito. Alla luce di tali rilievi è difficile concordare con l’opinione che esclude dalla discussione finale le dichiarazioni spontanee. Si muove dalla premessa che la discussione può essere interrotta solo per assumere nuove prove (art. 523, comma 6). Non essendo le spontanee dichiarazioni assimilabili a ‘‘nuove prove’’, l’imputato non può più renderle dopo che si è chiusa l’istruzione dibattimentale: egli ha certamente il diritto di avere la parola per ultimo, se ne fa richiesta (art. 523, comma 5), ma non quello di inserirsi nella discussione con proprie dichiarazioni (109). Il lato discutibile di questa tesi giurisprudenziale sta nel trascurare la componente argomentativa della dichiarazione spontanea: se questa si presenta come prova (nel senso complessivo di argomentazione puntellata da dati di fatto), appare scontata la sua legittima inclusione nella fase conclusiva del dibattimento. Un simile assunto è del resto confermato dal tenore letterale della norma che — lo si è già rilevato — consente all’imputato di rendere spontanee dichiarazioni ‘‘in ogni stato’’ del dibattimento (art. 494, comma 1): se si fosse inteso restringere l’esercizio di questo diritto alla fase di assunzione dei mezzi di prova, si sarebbe fatto riferimento alla sola istruzione dibattimentale; non si sarebbe usata un’espressione (‘‘ogni stato’’), atta a ricomprendere le diverse partizioni interne al dibattimento, successive all’esposizione introduttiva. Un’ulteriore conferma — quasi un’interpretazione autentica del citato art. 494 — viene dalla normativa in tema di contumacia. L’imputato che compare prima della decisione può chiedere di essere sottoposto ad esame a norma dell’art. 503, se la discussione non è ancora iniziata; altrimenti può rendere dichiarazioni spontanee. Qui è chiaro che la legge distingue l’esame dell’imputato (semplice mezzo di prova) esperibile solo nel corso dell’istruzione dibattimentale, dalle dichiarazioni spontanee (prova complessa, comprensiva della componente argomentativa) le quali possono certamente trovare spazio nella discussione conclusiva. Come già accennato, l’imputato ha diritto di essere personalmente informato della facoltà di rendere dichiarazioni spontanee (art. 494, comma 1, prima parte). A ciò provvede il presidente del tribunale, con un avvertimento che deve risultare dal verbale di udienza e che va dato a pena di nullità: un’eventuale omissione realizzerebbe infatti una lesione del diritto di intervento dell’imputato, senz’altro deducibile o rilevabile a norma dell’art. 178, lett. c (110). (109) Così Cass. sez. I, 23 novembre 1993, Morgante, in C.E.D. Cass., n. 196401. (110) Ovviamente sanata dall’eventuale, successivo esercizio del diritto (art. 183, lett. b).
— 501 — Che le dichiarazioni spontanee siano dalla legge trattate come manifestazioni di attività argomentativa (e non come mezzi di prova) lo si arguisce anche dalle modalità previste per il loro svolgimento (111). Regolarle è compito del presidente (art. 494, comma 1), non del collegio, come invece accade per i mezzi di prova (art. 495, comma 1). I criteri di ammissione sono qui ridotti a due. Da un lato, la dichiarazione deve risultare pertinente al tema dell’accusa. Dall’altro dev’essere resa in modo da non ‘‘intralciare l’istruzione dibattimentale’’: col che si vuol forse intendere che l’imputato può sempre prendere la parola nel breve intervallo che separa l’assunzione di una prova dall’altra, mentre non potrebbe, col proprio intervento, interrompere l’acquisizione di un mezzo di prova. Ma le dichiarazioni spontanee restano pur sempre — secondo l’impostazione del presente studio — un atto processuale rientrante nella più ampia nozione di prova (una Erwirkungshandlung in senso lato), sicché i rimedi ad eventuali inosservanze che ne caratterizzano lo svolgimento rientrano nello schema già indicato sopra, in sede di considerazioni generali. Il controllo del presidente sulla loro legittimità può culminare in un provvedimento col quale viene tolta la parola a chi ne abusa (art. 494, comma 1, seconda parte). Nei casi più gravi, può essere addirittura ordinato l’allontanamento dell’imputato dall’aula di udienza (art. 475, comma 1). Nemmeno qui, tuttavia, il potere presidenziale è insindacabile. L’imputato avrebbe infatti facoltà di eccepire l’illegittimità dell’intervento censorio appellandosi al collegio, il quale dovrebbe risolvere la questione con ordinanza (art. 478). Quest’ultima, a sua volta, sarebbe suscettibile di essere contestata in sede di impugnazione (art. 586) (112), giacché una ingiustificata interruzione delle dichiarazioni spontanee costituirebbe lesione del diritto di intervento dell’imputato (art. 178, lett. c): vale a dire, un motivo di nullità idoneo a pregiudicare la validità della sentenza conclusiva del dibattimento. 14. Cenni al problema della argomentazione in iure. — Dell’attività argomentativa si è sin qui parlato con riferimento pressoché esclusivo (come per lo più accade) al problema della prova: vale a dire, in relazione alla quaestio facti. Non c’è dubbio tuttavia che anche la quaestio iuris è oggetto di controversie e discussioni, tali da impegnare una porzione consistente delle attività argomentative delle parti. L’assunto che il giudice conosce il diritto applicabile al caso concreto (111) Oltre che dalla già segnalata circostanza del loro mancato inserimento nell’elenco dei mezzi di prova. (112) Anche l’ordinanza presidenziale emessa a norma dell’art. 475, comma 1 può essere impugnata contestualmente alla sentenza conclusiva del dibattimento, in base all’art. 586.
— 502 — (iura novit curia) ha contribuito finora a lasciare in ombra il ruolo spesso decisivo dell’argomentazione di parte su questo particolare versante della regiudicanda. Da mihi factum è espressione che presuppone uno stato di ignoranza del giudice, superabile grazie ai contributi probatori delle parti. Dabo tibi ius è espressione che presuppone nel giudice uno stato di perfetta conoscenza della norma sostantiva, rispetto alla cui individuazione nessun decisivo contributo parrebbe poter venire dalle parti. In realtà, la separazione tra factum e ius è assai più sfumata di quanto le citate formule lascino intendere. Già da tempo si è posto l’accento sulla relazione di strutturale e reciproca dipendenza che intercorre fra quaestio iuris e quaestio facti. È merito dell’ermeneutica giuridica aver richiamato l’attenzione sul carattere ‘‘circolare’’ dell’accertamento giudiziale (113). La tradizionale figura del sillogismo appare inadeguata a dar conto del complesso lavoro che il giudice deve compiere ogni volta che è chiamato a decidere (114). Il giudizio non è un percorso lineare che dalla premessa maggiore, certa e condivisa (vale a dire, la norma generale ed astratta) perviene alla conclusione (sentenza) passando per il termine intermedio (il fatto). Esso viene piuttosto concepito come il risultato di un progressivo raffronto fra il termine superiore e quello intermedio, un procedere per tentativi dove il fatto e la norma sono pensati insieme e si delimitano vicendevolmente; una sorta di trial and error dove la norma, almeno in prima battuta, è posta ipoteticamente per evidenziare gli aspetti rilevanti del fatto, mentre le conoscenze fattuali sono dal giudice impiegate per ‘‘trovare’’ — magari fra molte possibili — la ‘‘giusta’’ soluzione normativa (115). Inoltre, anche a prescindere dai rilievi appena svolti, occorre ammettere che lo straordinario susseguirsi di leggi penali, il continuo proliferare di fattispecie criminose, la difficile delimitazione e le parziali sovrapposizioni dell’ambito di operatività di molte fra queste, rende spesso ardua e incerta la scelta della norma da applicare. Ne è sintomo e conferma, tra l’altro, la nota pronuncia con la quale la nostra Corte costituzionale ha ridefinito il rapporto fra cittadino e legge penale, circoscrivendo l’area di inescusabilità dell’ignoranza dei precetti (sent. n. 364/1988). In definitiva, l’argomentazione in iure pone problemi pratici non (113) Si veda, in particolare, l’ormai classico studio di J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, Frankfurt a. M. 1972 (trad. it. Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli 1983). (114) Colpisce l’onestà intellettuale di un grande processualista come PIERO CALAMANDREI, il quale — avendo a lungo considerato la forma sillogistica una sorta di postulato per lo studio della sentenza — confessava, al termine della propria esperienza pratica e scientifica, che ‘‘chi si immagina la sentenza come un sillogismo, non vede la sentenza viva; vede la sua spoglia, il suo scheletro, la sua mummia’’ (Processo e democrazia, 646). (115) Per una aggiornata rassegna di posizioni dottrinali (sul giudizio) orientate all’ermeneutica giuridica cfr. B. PASTORE, Giudizio, prova, 114 ss.
— 503 — molto dissimili dall’argomentazione in facto. Il giudice penale non tanto ‘‘sa’’ il diritto, quanto piuttosto lo deve ‘‘trovare’’, dopo aver diligentemente ascoltato le ragioni delle parti (116). È vero che nessuno impedisce a queste ultime di svolgere argomenti sull’interpretazione e sull’ambito applicativo delle norme penali. Anzi, come già rilevato, accade spesso che buona parte della discussione finale verta proprio sulla quaestio iuris. Nel nostro sistema — come si sa — il giudice può ‘‘dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione’’ (art. 521, comma 1). In altre parole, il semplice mutamento del valore giuridico del fatto non impone previi avvertimenti o contestazioni suppletive. L’imputato potrebbe esser preso alla sprovvista. Se avesse saputo che il giudice, nella sentenza, avrebbe qualificato il fatto diversamente da come il pubblico ministero lo aveva definito nell’atto di accusa, avrebbe magari esercitato in altro modo le proprie facoltà di intervento e di assistenza difensiva. Di ciò la legge processuale si disinteressa o, per meglio dire, si interessa in misura limitata: il diritto delle parti di svolgere argomentazioni a sostegno delle proprie tesi è assicurato e protetto da apposita sanzione processuale, solo se la modifica del nomen iuris si accompagna a una diversità del fatto (art. 516 e art. 521, comma 2). Non c’è, insomma, un diritto dell’imputato di argomentare su una qualifica giuridica preventivamente individuata nell’imputazione. E — bisogna ammettere — questo diritto è difficile da attuare in un sistema processuale come il nostro. Il problema ha molte sfaccettature e meriterebbe di essere analizzato in uno studio apposito. Non sarebbe nemmeno il caso di accennarne in questa sede, se non per segnalarne l’importanza (117) e per avanzare una proposta che — lungi dal voler essere risolutiva — potrebbe comunque costituire un contributo, anche pratico, alla discussione. Le brevi osservazioni sopra svolte mostrano quanto sarebbe opportuno estendere al mutamento anche della sola qualificazione giuridica il diritto (almeno dell’imputato) di difendersi argomentando. Alla pratica attuazione di tale diritto si dovrebbe provvedere con apposita disposizione legale che imponesse al presidente del collegio il dovere di informare l’imputato (118) — anche d’ufficio — del diverso no(116) Questa componente euristica dell’attività giudiziale ha un significativo riscontro terminologico nel lessico processuale tedesco, dove giudicare viene di solito reso con rechtsfinden cioè ‘‘trovare il diritto’’, evidentemente dopo che lo si è cercato fra diverse, possibili soluzioni normative. (117) Già P. FERRUA, Difesa, 470 e, con riferimento al giudizio civile, L.P. COMOGLIO, Il diritto di difesa, 58 ss. hanno richiamato l’attenzione sul diritto a difendersi in ordine al profilo giuridico della res iudicanda. Più recentemente, auspica un’estensione del diritto al contraddittorio aulla quaestio iuris T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano 1996, 301 ss. (118) Tale avvertimento, concernente esclusivamente la diversa qualifica giuridica del fatto, tende ad ampliare le facoltà di assistenza e intervento difensivi; esso non va assolu-
— 504 — men iuris sotto il quale potrebbe essere sussunto il fatto descritto nell’imputazione (119). Tale dovere andrebbe imposto a pena di nullità, anche perché si caratterizzerebbe come strumento per attuare il diritto di intervento e di assistenza difensiva (art. 178, lett. c) (120). Quanto alle modalità dell’avvertimento, sarebbe necessario distinguere a seconda del momento in cui i soggetti processuali (il giudice o ciascuna delle parti) acquistano consapevolezza della diversa qualifica giuridica. Se la situazione si verificasse a dibattimento ancora aperto, l’avvertimento presidenziale dovrebbe essere seguito — se l’imputato ne facesse richiesta — da una sospensione dell’udienza, con assegnazione di un breve termine a difesa. Altro sarebbe il caso se il giudizio fosse già approdato alla fase postdibattimentale, senza che la diversa qualifica giuridica sia potuta essere oggetto di apposito avvertimento all’imputato. In vista di tale eventualità, la legge dovrebbe predisporre uno strumento per fornire successivamente quella stessa chance difensiva di cui l’imputato si sarebbe potuto giovare, se l’avvertimento fosse stato dato durante l’udienza dibattimentale. Per soddisfare una simile esigenza sembrano astrattamente ipotizzabili due soluzioni. La prima consisterebbe nell’imporre una regressione del giudizio alla fase dibattimentale. Il presidente del collegio dovrebbe avvertire l’imputato della diversa qualifica giuridica, ordinando una nuova citazione a comparire (121). Occorrerebbe convocare una udienza per così dire suppletiva (122), nella quale l’imputato dovrebbe esser messo in grado di proporre nuove argomentazioni e ottenere l’acquisizione di quei mezzi di tamente confuso con il dovere di contestare fatti nuovi e diversi che gli artt. 516-518 impongono al pubblico ministero: la cd. contestazione suppletiva — benché implichi, talvolta, un mutamento della qualifica giuridica — rientra nella tematica dell’azione penale e, pertanto, coinvolge i rapporti fra accusatore e giudice, oltre che i rapporti fra ufficio giudiziario e difesa. (119) La proposta si ispira alla soluzione accolta nel § 265 della StPO germanica: in base a tale norma, l’imputato non può essere condannato per un reato diverso da quello indicato nell’atto di accusa, se prima non è stato specificamente informato della mutata qualificazione giuridica e non gli è stata data facoltà di difendersi in ordine alla diversa configurazione giuridica dell’addebito. (120) L’inosservanza del dovere coinciderebbe con l’omissione dell’avvertimento da parte del presidente del collegio: basterebbe dunque rilevare la differenza fra la qualifica giuridica assunta nell’imputazione e quella dedotta nella sentenza per constatare la sussistenza della causa di nullità. (121) Non, quindi, una trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinché sia contestata una nuova accusa, come prevede l’art. 521, comma 2: il mutamento del solo profilo giuridico della regiudicanda dibattimentale non rientrerebbe fra i doveri di contestazione del titolare dell’accusa, bensì fra i doveri di avvertimento dell’organo giudiziario. (122) Una udienza che si aggiunga alle (e non che sostituisca le) udienze dibattimenti già svolte, i cui atti resterebbero dunque validi ed efficaci.
— 505 — prova la cui ammissione non si sarebbe giustificata — sotto il profilo della pertinenza — alla luce della qualifica giuridica contenuta nell’originario provvedimento di rinvio a giudizio. Una simile proposta appare tuttavia poco raccomandabile. Non tanto per le anomalie rappresentate da quella singolare rinnovazione di un atto valido (il provvedimento di rinvio a giudizio) (123) e dalla connessa regressione del processo non preceduta da una declaratoria di nullità, quanto piuttosto per le difficoltà pratiche nelle quali la sua attuazione resterebbe sicuramente impigliata. La segnalata distinzione fra udienze ‘‘suppletive’’ e precedenti udienze dibattimentali sarebbe pressoché impossibile da cogliere nella quotidianità giudiziaria. La ipotizzata riapertura del dibattimento comporterebbe la necessità, in pratica, di rifare ab imis l’intero dibattimento, talché molti giudici sarebbero spinti a confermare la qualifica giuridica prospettata nell’atto di accusa, onde evitare un surplus di lavoro oltre che un allungamento dei tempi processuali. Molto meno costosa, più agevole da realizzare sotto il profilo tecnico, e, in fin dei conti, più adatta alla realtà del nostro sistema giudiziario penale appare l’altra soluzione: quella che attua tardivamente, nel giudizio di appello, il diritto dell’imputato di difendersi in ordine alla nuova qualifica giuridica. Comprensibilmente, non sarebbe qui necessario alcun ‘‘avvertimento’’ da parte del giudice di primo grado. Già la vigente disciplina consente, in effetti, all’imputato di ridiscutere nel dibattimento di appello il giudizio giuridico contenuto nella sentenza di primo grado. Il quadro delle garanzie potrebbe essere completato con una specifica previsione normativa che configurasse come nulla la sentenza (anche soltanto quella di condanna (124)), emessa per un fatto qualificato diversamente rispetto al precedente atto di imputazione. Il giudice d’appello sarebbe tenuto a rilevare la causa nullità; ma, anziché rinviare gli atti al giudice di primo grado (come imporrebbe l’art. 604, comma 4), dovrebbe trattenere presso di sé gli atti (come accade nella situazione prevista dall’art. 604, comma 2) e provvedere lui stesso a rinnovare gli atti suscettibili di fornire ‘‘elementi necessari al giudizio’’ (art. 604, comma 5): fra questi atti potrebbero essere ricomprese tanto le argomentazioni in iure, quanto le assunzioni di prove che si rendessero ne(123) La nostra normativa conosce già — e proprio con riguardo al rinvio a giudizio — una eccezione alla regola generale ricavabile dall’art. 185, comma 3, stante la quale l’attività processuale validamente compiuta non ha bisogno di essere rinnovata: si vedano i commi 1 e 2 dell’art. 486. (124) Non sarebbe certo irragionevole limitare alle sole sentenze di condanna il diritto dell’imputato ad essere previamente avvertito della diversa qualificazione giuridica del fatto. Entro gli stessi limiti funziona — vale la pena ribadirlo — l’analoga garanzia predisposta dall’ordinamento processuale germanico, come risulta dal rapido cenno svolto supra nt. 119.
— 506 — cessarie alla luce della nuova qualificazione giuridica attribuita al fatto nella sentenza appellata. È chiaro che il giudice di appello non sarebbe tenuto a condividere l’opinio iuris del giudice di primo grado e potrebbe, quindi, elaborare una propria qualifica giuridica del fatto. Ma, se così fosse, egli sarebbe a sua volta tenuto, sotto pena di nullità, ad avvertire l’imputato della diversa ipotesi criminosa che potrebbe fungere da premessa della propria decisione. Se poi la nullità fosse dedotta o rilevata davanti alla Corte di cassazione, quest’ultima — accogliendo il ricorso — dovrebbe individuare, in via definitiva, la qualificazione giuridica corretta e rinviare quindi gli atti al giudice di merito per un nuovo giudizio. Bibliografia. AA.VV., Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Bologna 1997. ACCATTATIS V., È a pena di nullità assoluta che il magistrato non può appisolarsi durante il dibattimento?, in Giust. pen., 1996, III, 174. ALEXY R., Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie der rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begründung, Frankfurt a. M. 1991, 2a ed. ALLORIO E., Diritto processuale tributario, 5a ed., Torino 1969. AMBROSINI G., Commento all’art. 493, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, Torino 1991, vol. V, 180. AMODIO E., Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. AMODIO e O. DOMINIONI, Milano 1989, vol. I, XXV ss. AVANZINI A., Le parti nell’esposizione introduttiva, in Dir. pen. proc., 1996, 360. BENTHAM J., Traité de preuves judiciaires, in Oeuvres de J. Bentham, vol. II, 2a parte, Bruxelles 1830. BORSANI G.-CASORATI L., Codice di procedura penale italiano, Milano 1879, vol. IV. CALAMANDREI P., Processo e democrazia, in Opere complete a cura di M. Cappelletti, Napoli 1965, 618 ss. CARNELUTTI F., La prova civile, (1915) Roma 1947. —, Diritto e processo, Napoli 1958. CAROFIGLIO G., La tecnica del controesame (Metodo ed implicazioni), in Questione giustizia, 1996, 122. CAVICCHIOLI S., Processi in televisione, in AA.VV., Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Bologna 1997, 75. CORDERO F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino 1956. —, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano 1963. —, Linee di un processo accusatorio, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano 1965, 61. —, Procedura penale, 7a ed., Milano 1983. —, Procedura penale, 3a ed., Milano 1995.
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RENZO ORLANDI Associato di Procedura penale nell’Università di Ferrara
LA ‘‘PREGIUDIZIALITÀ’’ PENALE NEI PROCESSI CIVILI
SOMMARIO: 1. I rapporti tra processo penale e processo civile per le restituzioni e il risarcimento del danno nel nuovo codice di procedura penale: la regola del simultaneus processus. — 2. Le eccezioni alla regola del simultaneus processus: l’art. 75, 3o comma, c.p.p. — 3. La sospensione per ‘‘pregiudizialità’’ penale degli ‘‘altri’’ processi civili. — 4. L’àmbito di applicazione dell’art. 654 c.p.p.
1. I rapporti tra processo penale e processo civile per le restituzioni e il risarcimento del danno nel nuovo codice di procedura penale: la regola del simultaneus processus. — Il codice del 1988, nel disciplinare i rapporti tra l’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno e il processo penale ha accolto la regola dell’autonoma prosecuzione dei giudizi, lasciando allo stesso danneggiato la facoltà di scelta in ordine alla sede in cui esercitare l’azione riparatoria e sancendo che, qualora egli ritenga di adìre il giudice civile, il relativo giudizio proseguirà senza che al danneggiato possa opporsi l’eventuale sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice penale (1). (1) Sulla regola, introdotta dal nuovo codice di procedura penale, dell’autonoma prosecuzione dei giudizi la bibliografia è molto vasta. Ex plurimis, si segnalano B. CAPPONI, A proposito di nuovo processo penale e sospensione del processo civile, in Foro it., 1991, V, 348 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993; M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per c.d. ‘‘pregiudizialità’’ penale, in Foro it., 1991, V, 364 ss., C. CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale. Atti del Convegno di studio. Trento 18 e 19 giugno 1993, Milano, 1995, 77 ss.; A. GHIARA, sub art. 75, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), vol. I, 1989, 367; C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, in Riv. trim dir. proc. civ., 1992, 408 ss.; S. GUARINO, Sospensione del processo civile e nuovo codice di procedura penale, in Giur. merito, 1990, IV, 1146 ss.; G. ICHINO, sub artt. 74-75, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, Milano, 1989, 439 ss.; F. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 3 ss.; G. TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo civile e processo penale, in Nuove leggi civ. comm., 1990, 896 ss.; ID., Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, in Riv. dir. proc., 1990, 528 ss.; ID., Sull’abrogazione della sospensione del processo per ‘‘pregiudizialità’’ penale, in Foro it., 1997, I, 1762 ss.; G. SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra pro-
— 510 — È stata, dunque, capovolta la regola della sospensione necessaria per ‘‘pregiudizialità’’ penale di cui agli artt. 3 e 24 c.p.p. 1930 e 295 c.p.c. Ciò implica — come è stato osservato (2) — che la costituzione di parte civile non è più, come nel codice Rocco, un mezzo per evitare la sospensione necessaria del processo civile in attesa della definizione del processo penale, ma una scelta liberamente attribuita alla parte di affidarsi al giudice penale anche per gli interessi civili. Il nuovo sistema si fonda, infatti, su valori diversi rispetto al precedente: non più il valore della uniformità tra giudicati da raggiungersi ad ogni costo (3), ma il valore del ‘‘giusto processo’’, in ragione del quale in tanto la sentenza è giusta in quanto l’applicazione della legge sia avvenuta nell’àmbito di un procedimento in cui è stato pienamente attuato il diritto di difesa. Il giudicato penale, allora, potrà avere efficacia anche nei giudizi civili (o amministrativi) solo se questi si svolgono tra soggetti che hanno partecipato o hanno avuto la possibilità di partecipare al giudizio penale (cfr. artt. 651-654 c.p.p.) (4). Va poi rilevato che nel codice Rocco l’assetto dei rapporti tra azione per danni da reato ed azione penale risentiva fortemente della funzione generalmente attribuita al processo inquisitorio di ricercare ed accertare la verità ‘‘materiale’’ ed ‘‘oggettiva’’, indipendentemente dalle iniziative delle parti, ‘‘verità oggettiva’’ che, una volta accertata pure d’ufficio, non poteva non valere erga omnes, anche a prescindere dalla partecipazione al cesso civile e processo penale, cit., 31; M. VELLANI, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo codice di procedura penale e dei provvedimenti urgenti per il processo civile, in Riv trim. dir. proc. civ., 1991, 770 ss. (2) F. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 13. (3) L’importanza, anche sotto il profilo etico, che il principio dell’uniformità dei giudicati rivestiva per il legislatore del 1930 emerge con chiarezza dalla Relazione al progetto preliminare del codice Rocco (Relazione ai lavori preparatori di un nuovo codice di procedura penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, VII, Roma, 1929). ‘‘Esclusa la revisione penale dei giudicati di proscioglimento’’ — si legge nella Relazione — deve ritenersi inammissibile che ‘‘si possa per analoghi motivi consentire la revisione dei giudicati stessi sia pure ai soli fini civilistici. Se l’imputato assolto confessa successivamente il suo delitto è certo che il fatto offende profondamente il senso morale; ma se questo non basta per ammettere la revisione penale, non si vede perché dovrebbe essere sufficiente per consentire la revisione solo ai fini civili. Anzi, in molti casi, il contrasto tra i due giudicati renderebbe più grave il conflitto etico, avendosi non solo il sospetto, ma addirittura la certezza giudiziale della colpevolezza dell’individuo, contro un giudicato che invece lo proclama innocente’’ (corsivo nostro). (4) È questo il principio espresso dalla Corte costituzionale nelle note sentenze 22 marzo 1971, n. 55 (in Giur. cost., 1972, 131), 23 giugno 1973, n. 99, (ibidem, 1973, 1003), 26 giugno 1975, n. 165 (ibidem, 1975, 1439), che dichiararono l’incostituzionalità, rispettivamente, degli artt. 28, 27, 25 del codice di procedura penale Rocco, nella parte in cui queste prevedevano l’efficacia della sentenza penale nei giudizi civili o amministrativi anche nei confronti dei soggetti rimasti estranei al processo penale, perché non posti in grado di parteciparvi.
— 511 — processo dei soggetti interessati e, in particolare, non poteva non valere nel giudizio civile. In un processo di tipo accusatorio, al contrario, l’accertamento giudiziale dipende soprattutto dalle iniziative delle parti (5). Ciò comporta che la ‘‘verità processuale’’ accertata in sentenza è destinata, in via di principio, a valere soltanto nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al processo penale, che con le loro iniziative o con la mancanza di iniziative nel dedurre prove, eccepire nullità, proporre impugnazioni, hanno contribuito a tale accertamento ponendo le premesse della decisione (6). Di conseguenza, viene meno la necessità di utilizzare lo strumento della sospensione necessaria del processo civile che, vigente il codice abrogato, consentiva di attuare la prevalenza del processo penale favorendo, cessata la causa sospensiva, la coerenza logica e pratica tra i giudicati. La regola del simultaneus processus risponde poi al ‘‘preciso intento di non incoraggiare la costituzione di parte civile e di incentivare la possibilità di un suo volontario esodo dal processo penale’’ (7). La presenza della parte civile, infatti, mal si concilia con un sistema di tipo accusatorio, qual è quello vigente. Innanzitutto, perché l’adversary system postula una contrapposizione paritaria tra accusa e difesa che è al(5) L’art. 190 c.p.p. stabilisce che ‘‘le prove sono ammesse a richiesta di parte’’ (comma 1o) e, solo nei casi previsti dalla legge, sono ammesse d’ufficio dal giudice (comma 2o). (6) Cfr. Relazione al progetto preliminare del 1978, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. I, La legge delega del 1974 e il progetto preliminare del 1978, Padova, 1989, 331. (7) Relazione al progetto preliminare del 1988, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, Il progetto preliminare del 1988, Padova, 1989, 357. Il legislatore non ha recepito le critiche che — soprattutto con riferimento all’analoga scelta compiuta nel progetto preliminare del 1978 (cfr. art. 81 del progetto del 1978) — erano state mosse alla regola del simultaneus processus. Rispetto allo schema del 1978, le più decise obiezioni furono sollevate dalla Commissione consultiva, dall’Avvocatura dello Stato e dalla Procura generale presso la Corte di cassazione (tutte in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Dalle leggi delega ai decreti delegati, cit., 344-347), che ravvisarono la necessità di imporre la sospensione non solo quando l’azione riparatoria fosse stata esercitata in sede civile dopo la costituzione di parte civile (era questo l’unico caso di sospensione previsto dal progetto preliminare del 1978), ma anche nelle ipotesi di azione civile proposta dopo l’inizio del processo penale ovvero non trasferita in sede penale, il che, in definitiva, significava sopprimere la regola dell’autonoma prosecuzione dei giudizi. In senso critico rispetto alla scelta fatta dal progetto del 1988, v. il Parere del Presidente della terza sezione civile del Tribunale di Genova (in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, cit., 357-358), per il quale il sistema introdotto sarebbe inopportuno (in quanto la possibilità di un giudizio civile indipendente e svincolato da quello penale suonerebbe quale sfiducia in partenza nella tempestività e attendibilità del processo penale), in contrasto con i princìpi dogmatici informatori dell’attività giurisdizionale, nonché foriero di inconvenienti pratici non trascurabili, quali la possibilità di contrasto tra giudicati e l’evidente spreco di attività processuale.
— 512 — terata quando intorno ad uno dei poli contrapposti si concentra una forza numericamente superiore all’altra (8). La parte civile, invero, anche se depurata da quei profili di accusa privata che la connotavano nel sistema precedente, rappresenta pur sempre una forza antagonista rispetto all’imputato, una ‘‘alleata’’ del p.m. Inoltre, l’inserimento dell’azione civile nel processo penale, introducendo un nuovo thema decidendum e, correlativamente, ampliando l’àmbito delle prove, delle notifiche, degli avvisi, ostacola l’attuazione di quei caratteri di celerità e concentrazione che sono tipici del rito accusatorio e a cui il delegante ha dato tanta importanza da dedicare ad essi la prima direttiva della legge delega (cfr. art. 2, n. 1, l. n. 81 del 1987) (9). Consapevole delle difficoltà di conciliare la presenza della parte civile con i caratteri salienti del nuovo sistema accusatorio, il legislatore del 1988, per un verso, ha conservato al danneggiato dal reato la possibilità di far valere la pretesa risarcitoria nel processo penale (10), ma, per un altro, ha disincentivato tale scelta, mostrando, in tal modo, un chiaro favor per la separazione dei giudizi. La linea di tendenza volta a scoraggiare l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, dichiarata più volte nella Relazione al progetto preli(8) In questi termini E. AMODIO, Premessa al Titolo V del Libro I, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, Milano, 1989, 437, nota 7. (9) Sulla difficoltà di conciliare la costituzione di parte civile con le esigenze di semplificazione e celerità e, in genere, con i caratteri del sistema accusatorio cfr., tra gli altri, E. AMODIO, Premessa al Titolo V del Libro I, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, cit., 433 ss.; F. CARNELUTTI, Princìpi del processo penale, Napoli, 1960, 53 ss., il quale, dopo aver osservato che il rito accusatorio mal si concilia con l’esercizio dell’azione civile in sede penale per il peso eccessivo che la presenza della parte civile può avere nel processo penale, fino ad assumere la veste di una vera e propria accusa privata turbando il normale equilibrio delle parti, sottolinea che — data la profonda differenza strutturale tra processo civile e processo penale — la presenza della parte civile nel processo penale dà vita ad un ibrido, in cui i vantaggi sono minori degli svantaggi, imponendo accanto al problema dell’essere quello dell’avere; G. CONSO, Introduzione, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., XIV-XV, il quale rileva che la ‘‘semplificazione avrebbe dovuto passare anche attraverso l’esclusione dell’azione civile nel processo penale, mentre ciò è avvenuto solo in qualche rito alternativo’’; A. GHIARA, sub art. 74, in Commento al nuovo codice di procedura penale (a cura di M. CHIAVARIO), vol. I, cit., 362; A. MALINVERNI, Princìpi del processo penale, Torino, 1972, che ricorda come l’istituto della parte civile è sorto quando si è sviluppato il procedimento inquisitorio trovando in questo legittimazione e ragioni di conferma. (10) Come già veniva rilevato nella Relazione al progetto preliminare del 1978 (in G. CONSO-V. GREVI-G, NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. I, cit., 331), la decisione di consentire l’esercizio dell’azione riparatoria nel processo penale non si fonda più sulla considerazione tradizionale secondo cui deve consentirsi la partecipazione al processo della persona nei cui confronti l’accertamento è destinato a valere come verità oggettiva con forza di giudicato, ma sulla base di considerazioni di ordine meramente pratico ispirate ad una più rapida tutela degli interessi del danneggiato.
— 513 — minare (11), emerge frequentemente dalla normativa del codice. Gli elementi che con maggiore chiarezza evidenziano questa volontà di dissuadere la costituzione di parte civile possono essere così individuati: a) il danneggiato che agisce di fronte al giudice civile ex art. 75, 2o comma, c.p.p. si avvantaggia del giudicato penale di condanna, ma non subisce gli effetti pregiudizievoli del giudicato assolutorio (cfr. artt. 651 e 652 c.p.p.); b) la parte civile può essere estromessa dal giudizio ove si pervenga al ‘‘patteggiamento’’, con conseguente vanificazione dell’attività processuale sino a quel momento svolta (cfr. artt. 444, 2o comma, ultimo periodo, e 445, 2o comma, secondo periodo) e può trovarsi, ove si pervenga al giudizio abbreviato, di fronte all’alternativa tra accettare un ‘‘giudizio’’ senza la pienezza dell’accertamento dibattimentale o trasmigrare dal processo penale per agire in sede civile (cfr. artt. 441, 3o comma, 651, 2o comma, 652, 2o comma, c.p.p.); c) il danneggiato, in quanto tale, non ha diritto di ricevere l’informazione di garanzia, che, in base all’art. 369 c.p.p., deve essere inviata solo alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, e ciò rende più difficile la costituzione di parte civile del soggetto che non sia anche offeso dal reato (12); (11) I passi della Relazione al progetto preliminare da cui emerge il favor separationis sono richiamati in maniera puntuale da C. GRAZIOSI, Osservazioni alla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 419, nota 32. In particolare, si segnalano all’attenzione del lettore i seguenti brani: ‘‘i principi del processo accusatorio [...] impongono di ravvisare nell’efficacia vincolante del giudicato penale in altri giudizi un fenomeno assolutamente marginale, da giustificare solo in vista di una sua ineluttabile necessità’’ (Relazione al progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, ll nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, cit., 350); ‘‘Muovendosi dall’esigenza di privilegiare una disciplina fondata sul principio della separazione dei giudizi, si è ritenuto di dare soluzione ai problemi [...] con il preciso intento di non incoraggiare comunque la costituzione di parte civile e di incentivare la possibilità di un suo volontario ‘esodo’ dal processo penale’’ (ibidem, 355-356); l’attuale art. 82, 4o comma, ‘‘con lo stabilire che la revoca non preclude il successivo esercizio dell’azione civile è diretto a favorire [...] l’esodo della parte civile dal processo penale, così conformandosi alla tendenza seguita in via generale’’ (ibidem, 372). Da segnalare anche un brano della Relazione al testo definitivo (in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. V, Il progetto definitivo. Il testo definitivo del codice, Padova, 1990, 583-584) che, ricapitolate le critiche subite dal progetto preliminare, ribadisce che questo ‘‘ha seguito il preciso intento, desumibile da numerosi suoi precetti, di favorire [...] la linea della separazione del giudizio civile dal giudizio penale’’, mantenuta nel testo definitivo, sia pur con alcune modifiche anche ‘‘sostanziali’’. (12) Nel vecchio codice, invece, anche il danneggiato era destinatario della comunicazione giudiziaria: cfr. art. 304 c.p.p. abrogato che prevedeva, al 1o comma, l’invio della comunicazione giudiziaria a tutti coloro che potevano avervi interesse come parti private e, al 2o comma, che la stessa comunicazione fosse inviata anche a coloro che potevano assumere la qualità di parti private ‘‘se per gli atti da compiere la legge riconosce alle medesime un determinato diritto’’.
— 514 — d) è stato abolito il principio electa una via non datur recursus ad alteram. A differenza di quanto accadeva nel vigore del codice Rocco, nel nuovo sistema non solo è consentita la presentazione della querela nonostante l’avvenuto esercizio dell’azione civile in sede propria (13), ma viene meno anche la regola secondo cui la revoca espressa della costituzione di parte civile determina la perdita del potere di agire giudizialmente a tutela del proprio diritto (14); e) mentre l’art. 282 c.p.c., come modificato dalla l. n. 353 del 1990, fissa la regola della provvisoria esecutività della sentenza civile di primo grado, l’art. 540 c.p.p. prevede che la condanna dell’imputato e del responsabile civile non è immediatamente esecutiva, ma lo più diventare solo su richiesta della parte civile ove il giudice accerti che ricorrono giusti motivi (15). Deve, però, rilevarsi che, se è vero che il nuovo codice di procedura penale mira con diversi accorgimenti a scoraggiare la costituzione di parte civile, è altrettanto vero che, nonostante gli intenti più volte dichiarati (13) L’art. 12 c.p.p. 1930 sanciva l’inammissibilità della querela se chi avrebbe avuto diritto di presentarla proponeva l’azione risarcitoria di fronte al giudice civile o faceva transazioni sul danno. Su questa norma v., A. GAITO, Electa una via non datur recursus ad alteram. I rapporti tra azione civile e azione penale nei reati perseguibili a querela, Milano, 1984. A giustificazione della mancata riproposizione nel nuovo codice di una regola corrispondente a quella contenuta nell’art. 12 c.p.p. 1930, nella Relazione al progetto preliminare del 1988 (in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, cit., 354-355) si evidenziano i risultati iniqui che una simile disposizione avrebbe potuto determinare qualora il danneggiato non avesse avuto una piena conoscenza di tutti gli elementi del fatto costituente reato, nonché nelle ipotesi in cui la dimensione penalmente rilevante dell’illecito fosse emersa per la prima volta nel corso di un procedimento civile. Si rileva, inoltre, come in una sede che attiene esclusivamente all’esercizio della potestà punitiva, la perseguibilità a querela di parte, invece che ex officio, non dovrebbe comportare una diversa rilevanza processuale di fatti giuridici estranei alla dimensione penalistica dell’illecito, quali sono quelli diretti al ristoro del danno. (14) L’art. 103 c.p.p. abrogato stabiliva, invece, che la parte civile che revocava espressamente la propria costituzione non poteva proporre azione civile neppure per la rifusione delle spese processuali, salvo che ne avesse fatto espressa riserva nell’atto di revoca. (15) Va ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza 3 aprile 1996, n. 94, (in Cass. pen., 1996, 2463, con nota di A. CICCIA, Strada in salita per la parte civile nel processo penale, nonché in Corr. giur., 1996, 778, con nota di C. CONSOLO, Sulla provvisoria esecutorietà della condanna penale di primo grado ai danni e restituzioni a favore della parte civile) ha rigettato la questione di legittimità dell’art. 540, 1o comma, c.p.p. e 600, 2o comma, c.p.p. nella parte in cui, rispettivamente, non prevedono l’esecutività ex lege delle disposizioni civili della sentenza penale e consentono la revoca e non solo la sospensione, della provvisoria esecuzione. La Corte, in particolare, ha affermato l’inidoneità dell’art. 282 c.p.c. a fungere da tertium comparationis, in quanto si tratta di una norma volta ‘‘a scoraggiare attraverso l’eliminazione dell’effetto sospensivo dell’appello, impugnazioni meramente dilatorie. Finalità questa estranea al gravame del processo penale, dove assai improbabile si rivela nella realtà effettuale una limitazione dell’appello dell’imputato al solo capo di condanna concernente il risarcimento del danno’’.
— 515 — nella Relazione al progetto preliminare (16), non ne favorisce l’esodo dal giudizio penale. Basti pensare che, una volta scelta la via del processo penale, il danneggiato che trasferisca l’azione in sede civile dovrà subire l’esito del giudizio penale, rimanendo il processo civile sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile (art. 75, 3o comma, c.p.p.). 2. Le eccezioni alla regola del simultaneus processus: l’art. 75, 3o comma, c.p.p. — Il 3o comma dell’art. 75 prevede due eccezioni alla regola dell’autonoma prosecuzione dei giudizi, prevedendo la sospensione del processo civile nel caso in cui questo è iniziato: a) dopo la costituzione di parte civile nel processo penale; b) dopo che sia stata pronunciata sentenza penale di primo grado. La prima ipotesi — che era anche l’unica prevista nel progetto preliminare del 1988 (art. 74, 3o comma) e nel precedente progetto del 1978 (art. 81, 3o comma) — è giustificata, alla luce di quanto emerge dalla Relazione al progetto preliminare, dall’efficacia vincolante che il giudicato penale ha nel giudizio civile di danno quando vi è stata costituzione di parte civile (cfr. art. 652 c.p.p.) (17). Parte della dottrina (18) ritiene che la norma svolga anche una funzione sanzionatoria nei confronti del danneggiato tardivamente indottosi a scegliere la sede naturale per l’esercizio dell’azione civile, il che può trovare conferma nelle eccezioni al regime della sospensione, tutte riguardanti ipotesi in cui l’esodo della parte civile dal processo risulta necessitato (19). Come abbiamo già anticipato, però, tale ipotesi di sospensione si pone in stridente contrasto con quegli intenti di autonomia e di separa(16) V. nota 11. (17) Cfr. Relazione al progetto preliminare del 1988, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, cit., 353, che, richiamando la Relazione al progetto preliminare del 1978, afferma: ‘‘il principio ispiratore di tale prescrizione venne individuato nell’efficacia vincolante assegnata nel processo civile di danno, anche in pregiudizio del danneggiato, al giudicato penale’’. (18) G. DE ROBERTO, Responsabile civile e processo penale, Milano, 1990, 101, nota 4; C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 410. (19) Le ipotesi in cui, pur in presenza delle condizioni previste dall’art. 75, 3o comma, il legislatore prevede che la sospensione non operi sono le seguenti: sospensione del procedimento penale per incapacità dell’imputato (art. 71, 6o comma, c.p.p.); esclusione della parte civile (art. 88, 3o comma, c.p.p.); rifiuto della parte civile di accettare il rito abbreviato (art. 441, 3o comma, c.p.p.); pronuncia di sentenza con la quale si applica la pena su richiesta delle parti (art. 444, 2o comma, c.p.p.). Ad esse, per effetto della sentenza della Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 354 (in Dir. pen. proc., 1997, n. 2, 135, con osservazione di C. QUAGLIERINI, Processo penale sospeso per malattia irreversibile: riverberi sull’azione per danni), si aggiunge quella di accertato impedimento fisico permanente che non permetta all’imputato di comparire in udienza, ove questi non consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza.
— 516 — zione, sovente dichiarati dai compilatori del codice (20). È evidente, infatti, che il danneggiato non avrà alcun interesse a trasferire l’azione civile in sede propria in quanto, se lo facesse, perderebbe la possibilità di far valere le sue ragioni nel processo penale, subendo, comunque, nel giudizio civile gli effetti di una eventuale sentenza di assoluzione (cfr. art. 652 c.p.p.) (21) Emerge, allora, l’ambiguità di una normativa che, da una parte, è volta a liberare il processo da questioni riguardanti il danno civile, ma che, dall’altra, attraverso questo meccanismo di sospensione rende fortemente svantaggioso l’esodo della parte civile. Il processo civile è sospeso anche quando viene instaurato dopo che sia stata pronunciata sentenza penale di primo grado. Si tratta di una deroga al principio del simultaneus processus che non compariva nel progetto preliminare, ma che è stata aggiunta al momento della stesura del testo definitivo, perché, come si legge nelle osservazioni del Governo al progetto definitivo, si ritenne ‘‘opportuna la previsione del medesimo — ed eccezionale — effetto sospensivo dell’azione civile anche dopo la pronuncia della sentenza penale di primo grado’’ (22). (20) Sulla difficoltà di giustificare, nell’ottica separatista, la sospensione prevista dall’art. 75, 3o comma, c.p.p. in caso di revoca della costituzione di parte civile, v. F. BRIZIO, Revoca della costituzione di parte civile: dubbi sulla funzionalità e costituzionalità del nuovo regime, in Cass. pen., 1990, 1414, C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 1992, 410; G. DE ROBERTO, Responsabile civile e processo penale, cit., 100; G. ICHINO, sub art. 75, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, cit., 453; G. TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 898. (21) Cfr. F. BRIZIO, Revoca della costituzione di parte civile: dubbi sulla funzionalità e costituzionalità del nuovo regime, cit., 1414, il quale ritiene che la posizione della parte civile che revoca la propria costituzione sia irragionevolmente deteriore rispetto a quella della parte civile esclusa, che in base all’art. 88, 2o comma, può agire in sede civile: in tal modo — afferma l’Autore — ‘‘chi ripensa alla propria scelta ed, eventualmente, previene un provvedimento di esclusione, è penalizzato nei confronti di chi non lo fa e con tale provvedimento finisce con il provocare un maggiore dispendio di attività processuale’’. V., però, G. DE ROBERTO, Responsabilità civile e processo penale, cit., 100, il quale ritiene che la parte civile non subisce gli effetti pregiudizievoli di un eventuale giudicato assolutorio ‘‘e ciò perché, anche se il processo civile rimane sospeso, la sentenza penale di cui all’art. 75, 3o comma, non potrà essere fatta valere nei confronti della parte civile essendo stata la costituzione ormai revocata in conseguenza dell’esercizio dell’azione civile in sede propria’’. Tale tesi, anche se ha il merito di rendere al danneggiato meno gravosa la revoca della costituzione di parte civile, appare contraddetta dal tenore letterale dell’art. 652 c.p.p., in forza del quale la sentenza di assoluzione ha efficacia nei confronti della parte civile che si sia costituita o sia stata posta in condizione di costituirsi parte civile. Lo stesso Autore, d’altra parte, alla nota 4 a pag. 101 riconosce che l’interpretazione secondo cui la parte civile che revoca la costituzione subisce gli effetti del giudicato assolutorio assegna ‘‘una maggiore trasparenza ai rapporti tra l’art. 75, 3o comma, e l’art. 652, 1o comma, altrimenti privati di quel nesso di strumentalità in grado di giustificare il perché della sospensione del processo civile’’. (22) Osservazioni governative al progetto definitivo, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI
— 517 — Questa ipotesi di sospensione, anche se si presenta circoscritta temporalmente (al massimo può protrarsi per la durata dei giudizi di impugnazione) e anche se nella pratica può essere facilmente evitata iniziando tempestivamente il giudizio civile, pone dei problemi di coordinamento con la norma contenuta nell’art. 652, 1o comma, c.p.p. In base a quest’ultima disposizione, il danneggiato si sottrae agli effetti del giudicato assolutorio se: a) non è stato in grado di costituirsi parte civile; b) ha esercitato l’azione civile in sede propria ai sensi dell’art. 75, 2o comma. Ci si chiede, allora, se la sospensione del processo civile operi anche nell’ipotesi in cui il danneggiato agisce in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado, ma senza essere stato posto in condizione di far valere la sua pretesa nel processo penale (23). In tal caso, la lettera dell’art. 75, 3o comma, che depone per la sospensione, si scontra con la constatazione che il processo civile si fermerebbe in attesa di una sentenza che, se di assoluzione, non avrebbe alcuna efficacia nei confronti del danneggiato (cfr. art. 652, 1o comma, c.p.p.). La dottrina prevalente (24) ritiene che in presenza di una simile siMODONA, Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. V, Il progetto definitivo. Il testo definitivo del codice, Padova, 1990, 121. (23) Secondo la dottrina prevalente (A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., 568-569; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1991, 741; P.M. CORSO, Azione civile e processo penale, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 303; A. GHIARA, sub art. 652, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), cit., 460) il danneggiato può considerarsi ‘‘posto in condizione di costituirsi parte civile’’ solo quando gli sia stata ritualmente notificata la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, 1o comma) o il decreto che dispone il giudizio ordinario (art. 429, 4o comma) o quello che dispone il giudizio immediato (art. 456, 4o comma): si ritiene, invece, non sufficiente la citazione della persona offesa come teste o la citazione per il giudizio direttissimo (art. 451, 2o comma), trattandosi di atti che non contengono la formulazione dell’imputazione. Parimenti, si afferma l’irrilevanza di ogni altra modalità di informazione non formale e, a fortiori, la conoscenza meramente di fatto. Considerando che titolare del diritto alla notifica dell’avviso per l’udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio è la persona offesa, e non il danneggiato in quanto tale, di regola dovrà escludersi che quest’ultimo, quando non sia anche offeso, possa essere considerato in grado di costituirsi parte civile e, quindi, che possa risentire del giudicato assolutorio. (24) Cfr., tra gli altri, E. AMODIO, Premessa al Titolo V del Libro I, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. I, cit., 437; A. GHIARA, sub art. 75, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), cit, 370; ID., sub art. 211 disp. coord., in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), La normativa complementare, vol. II, Norme di coordinamento e transitorie, Torino, 1992, 53; S. GUARINO, Sospensione del processo civile e nuovo codice di procedura penale, cit., 1151; G. ICHINO, sub art. 211 disp. coord., in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale. Appendice. Norme di coordinamento e transitorie, Milano, 1990, 38; S. MENCHINI, Sospensione del processo civile di cognizione, in Enc. del dir., vol. XLIII, Milano, 1990, 47; G. TRISORIO LIUZZI, Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, cit., 546; ID., Disposizioni in
— 518 — tuazione non si debba disporre la sospensione del processo civile. Diverse sono le argomentazioni addotte a sostegno di questa affermazione. Secondo una prima tesi, se l’azione riparatoria viene esercitata nel processo civile dopo la sentenza penale di primo grado, ma senza che vi sia stata la costituzione di parte civile, la sospensione non opera perché si rientrerebbe nel 2o comma dell’art. 75 c.p.p. (‘‘azione civile iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile’’) (25). Accogliendo questa impostazione si finirebbe, però, per neutralizzare l’autonomia della seconda ipotesi dell’art. 75, 3o comma, c.p.p., che sarebbe, di fatto, completamente assorbita dalla prima (26). Deve, pertanto, ritenersi che l’art. 75, 2o comma, nel prevedere l’autonoma prosecuzione del processo civile iniziato quando non è più ammessa la costituzione di parte civile, abbia voluto far riferimento all’azione promossa nel periodo intercorrente tra la scadenza del termine di cui all’art. 79 c.p.p. e la conclusione del primo grado di giudizio penale (27). Un’altra posizione prospetta la possibilità di applicare analogicamente quelle norme che, derogando all’art. 75, 3o comma, escludono l’effetto sospensivo. ln particolare, si afferma che la soprassessoria dovrebbe essere negata ‘‘quando il danneggiato non sia stato posto in grado di costituirsi parte civile nel processo penale dato che, in tal caso, anche se sia già intervenuta sentenza penale di primo grado prima del promovimento del giudizio civile, la sentenza penale non esplicherà alcuna efficacia e, pertanto, la sospensione del giudizio sarebbe a tale effetto del tutto inutile’’ (28). Anche questo tentativo di razionalizzazione del sistema non aptema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, cit., 899. Contra, vedi però C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 422 ss., la quale ritiene che la sospensione operi anche se il danneggiato non è stato posto in grado di costituirsi parte civile. L’Autrice, peraltro, dubita della legittimità costituzionale della norma, ipotizzando una violazione del principio di uguaglianza per l’uniformità di trattamento riservata a situazioni difformi e il cui tratto differenziante il legislatore ha dimostrato di ritenere significativo proprio nella disciplina del giudicato. (25) È questa la tesi di G. GIANNINI, L’azione civile per il risarcimento del danno e il nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 61. (26) Per questo rilievo cfr. C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 420. (27) In tal senso è orientata la dottrina prevalente: cfr., tra gli altri, E. AMODIO, Premessa al Titolo V del Libro I, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. I, cit., 438, nota 9; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., 88; C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 421; G. TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile, cit., 898. (28) Così A. GHIARA, sub art. 75, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), cit., 370. Evidenziano l’inutilità di una sospensione non coordinata con l’efficacia extrapenale del giudicato assolutorio: S. MENCHINI, Sospensione del processo civile di cognizione, cit., 47; G. SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo
— 519 — pare del tutto convincente dato che si fonda sulla applicazione analogica di disposizioni chiaramente qualificate come eccezionali. La strada più percorsa per negare la sospensione del processo civile instaurato dopo la sentenza penale di primo grado, ma senza che il danneggiato sia stato in grado di costituirsi parte civile, è, comunque, quella che passa attraverso l’art. 211 disp. coord. c.p.p. Si dice, infatti: poiché in base all’art. 652 c.p.p. la sentenza penale di assoluzione non ha efficacia nel giudizio civile (o amministrativo) promosso da chi non è stato in grado di partecipare al processo penale, ne deriva che viene a mancare, affinché si possa sospendere il processo civile, una della condizioni poste dall’art. 211 disp. coord., norma che integrerebbe la disciplina della ‘‘pregiudizialità’’ penale — solo parzialmente sancita dall’art. 75, 3o comma — subordinando alle sue condizioni l’an della sospensione (29). Questo ragionamento è stato criticato sulla base della considerazione che nel caso di specie le condizioni poste dall’art. 211 disp. coord. sarebbero entrambe verificate. Si è osservato, invero, che non può escludersi a priori che il processo penale si concluda con un giudicato di condanna, e quest’ultimo, in base all’art. 651 c.p.p., spiega sempre effetti nel giudizio civile di danno (30). Tale obiezione, tuttavia, appare superabile: proprio perché nei giudizi civili di danno la sentenza penale di condanna ha sempre efficacia di giudicato nei confronti del condannato, deve ritenersi che l’art. 211 disp. coord. si riferisca solo al giudicato assolutorio, in quanto, altrimenti, la condizione posta da tale disposizione (‘‘se il processo penale può dar luogo ad una sentenza penale che abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile’’) risulterebbe sempre realizzata e, pertanto, si rivelerebbe priva di senso (31). Ci si può, comunque, chiedere se sia condivisibile il presupposto da cui muove l’interpretazione in questione, ossia che una norma di coordicivile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 54. (29) Per questa interpretazione C. CONSOLO, Nuovo processo penale, procedimenti tributari e rapporti tra giudicati, in Giur. it., 1990, IV, 313 ss.; ID., Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 77; A. CORTESE, La sospensione del giudizio civile in pendenza del processo penale alla luce del nuovo codice di procedura penale, in Dir. giur., 1989, 38 ss.; S. GUARINO, Sospensione del processo civile e nuovo codice di procedura penale, cit., 1151; G. ICHINO, sub art. 211 disp. coord., in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale. Appendice. Norme di coordinamento e transitorie, cit., 38; G. TRISORIO LIUZZI, Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, cit., 546. (30) Per questa critica v. le osservazioni svolte da C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale, cit., 425-427. (31) In tal senso v. A. GHIARA, sub art. 211 disp. coord., in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), La normativa complementare, vol. II, Norme di coordinamento e transitorie, Torino, 1992, 53.
— 520 — namento del codice riguardi non (o non solo) il rapporto dei suoi istituti con le norme extracodicistiche, bensì quello (o anche quello) interno tra le sue disposizioni. In altri termini, se sia ammissibile che ‘‘una norma di coordinamento valga [...] come norma del codice, non svolgendo (almeno in alcune delle sue fattispecie d’applicazione) coordinamento ‘esterno’, né ponendosi come norma integrativa nel senso di disposizione d’attuazione o di dettaglio. Non, dunque, una norma ‘accanto’, bensì una norma ‘contro’ e ‘sopra’ che limita l’applicabilità dell’art. 75, 3o comma, non rispetto a normative speciali e/o preesistenti, bensì in assoluto, in rapporto ad altri istituti codicistici, costituendo, insomma, la prima correzione del codice operata dal legislatore’’ (32). 3. La sospensione per ‘‘pregiudizialità’’ penale degli ‘‘altri’’ processi civili. — L’art. 211 disp. coord. c.p.p. viene in considerazione anche in ordine al rapporto tra processo penale e giudizi civili non aventi ad oggetto le restituzioni o il risarcimento del danno. Proprio sulla base di questa norma, una recente decisione della Corte di cassazione (33) ha affermato che negli ‘‘altri’’ giudizi civili non vale il principio di autonomia delle giurisdizioni, ma quello opposto della uniformità dei giudicati, con conseguente sospensione obbligatoria del processo civile in attesa della definizione del processo penale. Gli argomenti posti a fondamento di questa interpretazione possono essere così sintetizzati: a) l’art. 331, 4o comma, c.p.p. (in forza del quale se nel corso di un procedimento civile o amministrativo emerge un fatto nel quale possa ravvisarsi un reato perseguibile d’ufficio, l’autorità procedente deve redigere e trasmettere senza ritardo una denuncia al p.m.) e la corrispondente norma d’attuazione, l’art. 106 disp. att. c.p.p., (che stabilisce che il procuratore della Repubblica deve informare il giudice civile o amministrativo delle richieste da lui formulate all’esito delle indagini preliminari) presuppongono la sospensione del giudizio civile in attesa della defini(32) C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale, cit., 425. (33) Cass. 13 maggio 1997, n. 4179, in Foro it., 1997, I, 1757, con nota di G. TRISORIO LIUZZI, Sulla abrogazione della sospensione del processo per ‘‘pregiudizialità’’ penale. Nel senso che ‘‘la sospensione necessaria del processo civile ai sensi dell’art. 295 c.p.c. per pendenza di un processo penale, oltre che nelle ipotesi espressamente indicate nel 3o comma dell’art. 75 c.p.p., deve essere dichiarata quando ricorrono i presupposti richiesti dall’art. 211 disp. coord. codice di procedura penale, ossia quando la cognizione dei fatti configurabili come reato nel processo penale ha influenza sulla decisione della controversia civile, quando l’azione penale è stata esercitata dal p.m. ai sensi dell’art. 50 c.p.p. e quando la sentenza penale ha efficacia di giudicato nel processo civile », v., anche, Pret. Sassari, 9 maggio 1990, in Foro it., 1992, I, 972, con osservazione di G. TRISORIO LIUZZI.
— 521 — zione di quello penale, in quanto, se così non fosse, non si comprenderebbe la funzione dell’informativa di cui all’art. 106 disp. att. c.p.p. (34); b) la scelta del legislatore della riforma del processo penale di disciplinare compiutamente la materia dell’efficacia extrapenale del giudicato penale sia nei giudizi civili o amministrativi di danno (art. 2, 1o comma, nn. 22 e 23 l. n. 81 del 1987 e artt. 651 e 652 c.p.p.), sia negli ‘‘altri’’ giudizi (art. 2, 1o comma, n. 24 l. n. 81 del 1987 e art. 654 c.p.p.) induce a ritenere che si debba disporre la sospensione dei giudizi nei quali gli effetti della sentenza penale sono destinati a prodursi. Altrimenti opinando, l’efficacia extrapenale del giudicato penale dipenderebbe dalla circostanza meramente casuale della previa definizione del giudizio ‘‘pregiudiziale’’ rispetto a quello ‘‘pregiudicato’’ (35); c) il travagliato iter che ha portato alla stesura definitiva dell’art. 211 disp. coord. c.p.p. non solo esclude una sua efficacia meramente abrogativa di ogni ipotesi di ‘‘pregiudizialità’’ penale, ma evidenzia l’in(34) Nel senso che l’art. 331, 4o comma, c.p.p. andrebbe inteso, in relazione ai limiti posti dall’art. 211 disp. coord. c.p.p., come funzionale al fine di consentire la sospensione necessaria del processo civile v. G. SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 54. (35) Come evidenziato da G. CONSO (Introduzione, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., XIV) non pochi commentatori hanno colto una sostanziale diversità di impostazione, tra il libro I, tendente a sancire una reciproca autonomia tra i giudizi, e il libro X, volto a ribadire la risalente efficacia forte del giudicato penale, ‘‘tanto che ci si domanda se l’autonomia fra le giurisdizioni sia stata o no raggiunta, se sia stata o no abbandonata la prevalenza della giurisdizione penale su quella civile’’. Sul tema cfr. B. CAPPONI, La ‘‘nuova’’ pregiudizialità penale tra esercizio dell’azione civile e vincoli del giudicato, in Corr. giur., 1989, 74 ss., il quale afferma che ‘‘la disciplina della ‘pregiudizialità’ non si esaurisce in quella della parte civile, ma si sostanzia [...] della normativa del giudicato penale, che implicitamente afferma tante cause ‘di pregiudizialità’ quante volte vincola agli accertamenti compiuti dal giudice penale’’ e che ‘‘non può non colpire che, mentre da un lato si incoraggia l’esercizio dell’azione civile in modo autonomo, dall’altro si detta una disciplina del giudicato non dissimile da quella precedente (emendata dagli interventi costituzionali), la quale tuttavia presupponeva la prevalenza della giurisdizione penale; M. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, 52, 179, 207, che, a proposito degli artt. 651-654, parla di una ‘‘linea di non piccolo contrasto con le nuove scelte rappresentate dagli artt. 2 e 3’’; R. POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, in Riv. dir. proc., 1993, 524, che osserva come ‘‘il nuovo assetto dei rapporti tra processo penale e civile non risulta di agevole definizione, giacché alla rinuncia dei princìpi che fondavano il sistema previgente, non è seguita la totale soppressione delle norme che di quei princìpi costituivano il coerente svolgimento a livello positivo. In particolare gli artt. 651-654 c.p.p. riesumano, con alcuni ritocchi, l’efficacia vincolante del giudicato penale nei giudizi extrapenali’’; M. VELLANI, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo codice di procedura penale e dei provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 761, per il quale ‘‘una limitazione al sistema adottato nel nuovo codice di procedura penale è riscontrabile in quelle norme del codice di procedura penale poste nel libro X dedicato alla ‘esecuzione’ sotto il titolo (il primo) del ‘giudicato’ che si occupano dell’efficacia del giudicato penale fissandone però i limiti oggettivi e soggettivi’’.
— 522 — tento del legislatore di introdurre una nuova forma di ‘‘pregiudizialità’’ penale (36); d) nei lavori preparatori del novellato art. 295 c.p.c. e, in particolare, negli interventi dei sen. Gallo, Coco, Lipari, vengono espressamente ipotizzate, con riferimento al nuovo testo della norma, fattispecie di sospensione necessaria del processo civile per ‘‘pregiudizialità’’ penale (37). Questa posizione della Suprema Corte suscita alcune perplessità. In primo luogo, va evidenziato che l’art. 331, 4o comma, c.p.p., pur prevedendo che il giudice civile deve fare denuncia al p.m., non dice che egli continuerà a procedere solo a condizione che il procuratore della Repubblica, nell’informativa di cui all’art. 106 disp. att. c.p.p., non gli comunichi l’avvenuto esercizio dell’azione penale (38). La mancata espressa previsione dell’effetto sospensivo porta, allora, a ritenere — soprattutto in un sistema, qual è quello vigente, in cui la sospensione del processo è un istituto di carattere eccezionale — che il giudizio prosegua il suo corso (39). Anche il riferimento all’art. 654 c.p.p. e alla necessità di un coordinamento tra l’efficacia extrapenale del giudicato e la sospensione del giudizio ‘‘pregiudicato’’ non può condividersi. (36) Volendo ripercorrere l’iter che ha portato alla stesura definitiva dell’art. 211 disp. coord., occorre partire dall’art. 5 del progetto preliminare delle norme di coordinamento, che così disponeva: ‘‘Sono abrogate le disposizioni che prevedono la sospensione obbligatoria quando nel corso di un processo civile o amministrativo emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile d’ufficio’’. La norma era in linea con gli intenti separatisti perseguiti dal legislatore della riforma. Nella Nota illustrativa (in G. CONSO-V. GREVI- G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. VI, Le norme di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, tomo II, Le norme di coordinamento e le norme transitorie, Padova, 1990, 45) si legge che ‘‘l’art. 5 si colloca nella prospettiva tracciata dall’art. 2, 1o comma, del codice di di procedura penale ispirata al principio dell’autonomia delle giurisdizioni [...]. Conseguentemente la previsione dell’art. 295 c.p.c. deve intendersi abrogata nella parte in cui dispone che il processo civile sia sospeso nei casi di rinvio dell’azione penale’’. Nel progetto definitivo questa norma venne completamente modificata, fino ad esprimere un principio opposto (‘‘Salvo quanto disposto dall’art. 75, 2o comma, c.p.p., continuano ad osservarsi le disposizioni che prevedono la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale, sempre che questo possa dar luogo ad una sentenza che abbia efficacia di giudicato nel processo civile o amministrativo’’). Il testo definitivo ricalca quello del progetto definitivo, salvo l’inserimento di un ulteriore limite alla sospensione, quello concernente l’avvenuto esercizio dell’azione penale. Sull’iter di formazione dell’art. 211 disp. coord. c.p.p. v., amplius, C. CONSOLO, Nuovo processo penale, procedimenti tributari e rapporti tra giudicati, cit., 315 ss., spec. nota 4; M. VELLANI, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo codice di procedura penale e dei provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 765 ss. (37) I testi di questi interventi si possono leggere in R. VACCARELLA-B. CAPPONI-C. CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 168 ss. (38) In questi termini cfr. C. CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, cit., 89. (39) Così G. TRISORIO LIUZZI, Sulla abrogazione della sospensione del processo per ‘‘pregiudizialità’’ penale, cit., 1767.
— 523 — Vi sono, infatti, dei casi in cui l’ordinamento prevede l’efficacia extra moenia della sentenza penale senza imporre la sospensione necessaria del processo nel quale questi effetti dovranno prodursi (40). In materia di azione civile per danni da reato, ad esempio, il giudicato penale di condanna, in base all’art. 651, 1o comma, c.p.p., ha sempre efficacia di giudicato nel processo civile, anche quando questo prosegue autonomamente a norma dell’art. 75, 2o comma, c.p.p. Così, in materia tributaria, l’art. 12, 1o comma, d.l. 10 luglio 1982, n. 429, (conv. in l. 7 agosto 1982, n. 516) (41), da un lato, ha riconosciuto alla sentenza penale (di condanna o di assoluzione) autorità di giudicato nel giudizio tributario, ma, dall’altro, ha escluso la sospensione del giudizio tributario a norma dell’allora vigente art. 3 c.p.p. 1930 (42). Pure l’affermazione secondo cui l’art. 211 disp. coord. avrebbe reintrodotto una nuova forma di ‘‘pregiudizialità’’ penale appare incompatibile con il tenore letterale della disposizione (‘‘quando disposizioni di legge prevedono la sospensione del processo civile’’), dal quale, al contrario, emerge con chiarezza il carattere meramente ricognitivo della norma. Deve, allora, condividersi l’interpretazione (43) che ritiene che l’art. 211 (40) Cfr. G. TRISORIO LIUZZI, Sulla abrogazione della sospensione del processo per ‘‘pregiudizialità’’ penale, cit., 1767. (41) Secondo parte della dottrina (G. CASTELLANI-S. CAPOLUPO, I riflessi sostanziali e processualtributari del nuovo codice di procedura penale, in Fisco, 1990, 1610; P. CASULA, Processo penale e processo tributario separati dal nuovo codice di procedura penale, ibidem, 1989, 6215, G. GIULIANI, Uno sguardo al nuovo codice di procedura penale con l’ottica del tributarista, in Boll. trib., 1988, 1843 ss.), l’art. 12 l. n. 516 del 1982 sarebbe stato tacitamente abrogato dal nuovo codice di procedura penale. Tale posizione è stata sostenuta sulla base dell’art. 207 disp. coord. c.p.p. che rende applicabili le disposizioni del nuovo codice nei procedimenti relativi a tutti i reati anche se previsti da leggi speciali, salvo quanto diversamente stabilito nel codice. Poiché l’art. 12 l. n. 516 del 1982 non è espressamente previsto, esso dovrebbe ritenersi abrogato. Accogliendo questa impostazione, il giudicato penale non avrebbe mai efficacia nel processo tributario dato che nei processi tributari vigono limitazioni alla prova tali da escludere l’applicazione dell’art. 654 c.p.p. Contra, sulla base della considerazione che l’art. 207 disp. coord. c.p.p. si riferisce agli atti del procedimento e non pure all’esecuzione della sentenza, cfr. C. CONSOLO, Nuovo processo penale, procedimenti tributari e rapporti fra giudicati, cit., 321; A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1991, 494 ss.; F. HINNA DANESI, Rapporti tra il processo penale e il contenzioso fiscale, in Fisco, 1989, 1254, e, in termini più generali, F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., 744. (42) In senso critico verso le ipotesi di mancato coordinamento tra efficacia extrapenale del giudicato penale e mancata sospensione del processo ‘‘pregiudicato’’, v. A. GHIARA, sub art. 651, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. CHIAVARIO), vol. VI, Torino, 1991, 445, il quale mette in evidenza come in queste ipotesi c’è il rischio che l’efficacia extra moenia del giudicato penale venga a dipendere da maliziosi espedienti delle parti influenti sullo svolgimento dei due giudizi, volti ad accelerare o ritardare la conclusione dell’uno o dell’altro a seconda degli orientamenti emergenti. (43) C. CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 77; C. GRAZIOSI, Osser-
— 524 — disp. coord., lungi dal prendere, seppur con alcuni temperamenti, il posto dell’art. 3 c.p.p. 1930, si limita a subordinare l’applicabilità della sospensione necessaria — quando essa è oggetto di specifica previsione legislativa, come nelle due ipotesi dell’art. 75, 3o comma — all’avvenuto esercizio dell’azione penale e alla possibilità che il futuro giudicato penale possa produrre effetti nel giudizio che deve sospendersi. Per quanto riguarda, infine, il riferimento ai lavori preparatori del novellato art. 295 c.p.p., sembrano opportune due considerazioni. Innanzitutto — come viene sottolineato anche dalla sentenza in epigrafe — negli atti parlamentari, a giustificazione della modifica del testo originario dell’art. 295 c.p.c, mediante l’eliminazione del rinvio all’art. 3 c.p.p. abrogato, si fa espresso riferimento alla necessità di adeguare ‘‘tecnicamente’’ l’istituto della sospensione necessaria all’entrata in vigore del nuovo codice di rito penale e ‘‘al venir meno della pregiudizialità penale’’ (44). In secondo luogo, il ruolo dei lavori preparatori nell’interpretazione della legge non va enfatizzato. Essi, pur rappresentando un mezzo dal quale ricavare indicazioni circa l’intenzione del legislatore, non possono rappresentare l’unico sostegno su cui fondare l’esegesi. L’art. 12 disp. prel. al codice civile stabilisce che ‘‘nell’applicare la legge non si può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e l’intenzione del legislatore’’. Occorre, quindi, procedere innanzitutto ad un’interpretazione letterale, a cui va affiancata un’interpretazione logico-sistematica che tenga conto della collocazione della norma nel contesto dell’ordinamento positivo e ne individui la ratio attraverso i collegamenti storici e sistematici. L’intenzione del legislatore, a sua volta, costituisce un elemento obiettivo, rappresenta la mens legis e non la volontà di coloro che hanno formulato il testo, così come risulta espressa dai lavori preparatori. La norma, dopo che è stata approvata, si stacca dal suo autore e vive di vita propria, come entità oggettiva dell’ordinamento sensibile alle vicende delle altre norme con essa connesse o che su di essa incidono (45). Alla luce delle considerazioni svolte finora, riteniamo, di dover adevazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale a processo civile, cit., 434 ss.; F. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 24 ss. (44) V. Camera dei deputati, X legislatura, II commissione, seduta del 26 settembre 1990, resoconto stenografico, p. 34. Sui lavori preparatori dell’art. 35 l. n. 353 del 1990 che ha novellato l’art. 295 c.p.p. v. C. CONSOLO, in C. CONSOLO- F. LUISO-B. SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Padova, 1993, 283 ss. (45) Sull’interpretazione della legge, cfr. G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980; V. FROSINI, Prolegomeni all’interpretazione giuridica, in Nomos, 1988, n. 1, 39 ss.; ID., Lezioni di teoria dell’interpretazione giuridica, Roma, 1991.
— 525 — rire alla tesi, prevalente in dottrina (46) e in giurisprudenza (47), che afferma che, in seguito all’entrata in vigore del nuovo c.p.p., le uniche ipotesi di sospensione del processo civile a causa della pendenza di un processo penale ‘‘rilevante’’ sono quelle previste nell’art. 75, 3o comma, (46) V., fra gli altri, A. ATTARDI, Le nuove disposizioni del processo civile, Padova, 1991, 117 ss.; M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per c.d. ‘‘pregiudizialità’’ penale: questioni teoriche e riflessi pratici, in Foro it., 1991, V, 372; C. GRAZIOSI, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, cit., 435 ss.; S. GUARINO, Sospensione del processo civile e nuovo codice di procedura penale, cit., 1151; S. MENCHINI, Sospensione del processo civile di cognizione, cit., 46; B. RAVENNNA, La sospensione necessaria del processo civile e le questioni pregiudiziali alla luce della riforma del 1990, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, 1003; G. TRISORIO LIUZZI, Sulla abrogazione della sospensione del processo per ‘‘pregiudizialità’’ penale, cit., 1763 ss.; ID., Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, cit., 529; ID., Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, cit., 393; F. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 24 ss. Nel senso che con l’art. 211 disp. coord. c.p.p. si sia voluto provvedere ad una ‘‘modifica dell’art. 295 c.p.c. nella parte in cui prevede la sospensione del processo civile in attesa della pronuncia penale sul fatto costituente reato oggetto del rapporto ex art. 3 c.p.p. 1930’’ v. E. LEMMO, Introduzione alle norme di coordinamento e transitorie, in G. CONSO-V. GREVI-V. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. VI, cit., 16 ss.; ID., in G. CONSO V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, 736. Secondo questo Autore la ‘‘sospensione sarà ammessa o quando espressamente prevista dal codice (art. 75, 3o comma) o quando, ai sensi dell’art. 651 del medesimo codice, il processo penale può essere definito con una sentenza avente efficacia nel processo civile o amministrativo e sia stata esercitata l’azione penale ». Su una posizione intermedia si pone, invece, quella dottrina (C. CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 78 ss.; E. MERLIN, Sospensione per pregiudizialità ed effetti punitivi dipendenti dalla pretesa punitiva dello Stato, ibidem, 155 ss.) che ritiene che la sospensione del processo civile debba essere disposta — oltre che nei due casi indicati dall’art. 75, 3o comma, c.p.p. — anche in quelle ipotesi in cui l’effetto civilistico dipende dall’accertamento, non semplicemente del reato, ma della pretesa punitiva dello Stato (ad es.: applicazione del più lungo termine di prescrizione di cui all’art. 2947, 3o comma, c.c.; risarcibilità del danno morale ex artt. 185 c.p. e 2043 c.c.; responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro ex artt. 10 e 11 t.u. n. 1124 del 1965). In questi casi la condanna penale verrebbe in considerazione non come atto giurisdizionale di accertamento di una situazione sostanziale accertabile anche in sede civile, ma come fatto giuridico in senso stretto che costituisce la fattispecie, o parte della fattispecie, di una norma sostanziale. Contra, nel senso che l’art. 211 disp. coord. abbia reintrodotto nei rapporti tra processo civile e processo penale la regola della sospensione, cfr. B. CAPPONI, A proposito di nuovo processo penale e sospensione del processo civile, in Foro it., 1991, V, 348 ss.; ID., in R. VACCARELLA-B. CAPPONI-C. CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, cit., 144 ss., SORRENTINO, Brevi note sui rapporti tra giudizio penale e giudizio di responsabilità amministrativa in margine a Corte cost. n. 773 del 1988: una chiarificazione definitiva?, in Cass. pen., 1989, 531 ss.; M. VELLANI, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo codice di procedura penale e dei provvedimenti urgenti per il processo civile, 1991, 770 ss. (47) Cfr. Cass. 7 maggio 1997, n. 3992, in Foro it., 1997, I, 1758, nella quale si afferma, che in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del processo penale su quello civile e che, tranne le ipotesi di cui all’art. 75, 3o comma, c.p.p., il
— 526 — c.p.p. Questa interpretazione, infatti, non solo appare l’unica coerente con il nuovo assetto dei rapporti tra processo penale e processo civile, fondato sulla separatezza e sull’autonomia dei giudizi, ma, riducendo al minimo l’operatività della sospensione, risulta in linea con quegli obiettivi di speditezza ed economicità che — a fronte dei tempi esasperanti dei processi (specialmente civili) — dovrebbero essere tenuti nella massima considerazione proprio in sede di interpretazione ed applicazione del diritto. 4. L’àmbito di applicazione dell’art. 654 c.p.p. — Si è visto come, in base alla tesi recentemente accolta dalla Corte di cassazione (48), i giudizi civili non aventi ad oggetto l’azione riparatoria da reato dovrebbero essere sospesi, ex artt. 295 c.p.c. e 211 disp. coord. c.p.p., qualora ricorra la duplice condizione dell’avvenuto esercizio dell’azione penale e della rilevanza e dell’opponibilità del giudicato penale formatosi a seguito di dibattimento ex art. 654 c.p.p. Pertanto, secondo questa impostazione, per individuare in concreto le ipotesi di sospensione diventa necessario stabilire in quali casi la sentenza penale ha efficacia di giudicato negli ‘‘altri’’ giudizi civili, il che significa determinare l’àmbito di applicazione dell’art. 654 c.p.p. Una parte della dottrina (49) fornisce un’interpretazione dell’art. 654 c.p.p. alquanto riduttiva, circoscrivendo, in tal modo, il campo di applicazione della sospensione per ‘‘pregiudizialità’’ penale ad ipotesi estremamente limitate. Secondo questo orientamento, la disposizione in esame — richiedendo che il danneggiato si sia costituito parte civile — postula, affinché la sentenza penale possa produrre effetti nel processo civile, che vi sia un diritto di natura restitutoria o risarcitoria nascente da reato, che questo diritto sia stato fatto valere all’interno del processo penale, che fra gli stessi soggetti intercorra un’altra situazione sostanziale — connessa con il diritto risarcitorio — che viene fatta valere in sede civile. Le uniche ipoprocesso civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile dedotti in giudizio; Cass. 1o ottobre 1996) n. 8595; Cass. 27 febbraio 1996, n. 1501, in Mass. Giur. lav., 1996, 404. Nella giurisprudenza di merito cfr. Pret. Savona, 20 maggio 1992, in Nuovo dir., 1995, 193, con nota di VINCIGUERRA, Brevi note sui rapporti di pregiudizialità tra il processo civile e quello penale; Trib. Milano, 14 maggio 1992, in Foro it., 1992, 1, 2829, secondo cui ‘‘dopo l’abrogazione, da parte del nuovo codice di procedura penale, del vecchio art. 3, nei rapporti tra processo civile e processo penale vale la regola dell’autonomia e dell’indipendenza tra i due giudizi. L’art. 295 c.p.c. può trovare applicazione solo nei limiti fissati dall’art. 75, 3o comma, c.p.p.’’. (48) Cass. 13 maggio 1997, n. 4179, cit. (49) M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per ‘‘pregiudizialità’’ penale: questioni teoriche e riflessi pratici, cit., 369; F. LUISO, I rapporti tra processo civile e processo penale, in AA.VV., I rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 96-97.
— 527 — tesi di sospensione potrebbero, allora, verificarsi quando un soggetto decida di agire in sede penale per ottenere il risarcimento del danno da reato e in sede civile per ottenere utilità ulteriori, deducendo una fattispecie di cui il fatto di reato rappresenta una componente materiale. Ciò accade — si avverte (50) — solo nei casi di reato collegato a un contratto (51) e di assunzione nel processo civile di una prova falsa. Questa ricostruzione, pur avendo il merito di ridurre al minimo le ipotesi di sospensione per ‘‘pregiudizialità’’ penale dei giudizi civili diversi da quello di danno, suscita alcune perplessità. Essa, invero, non sembra tener conto del fatto che l’art. 654 c.p.p. menziona come possibili destinatari dell’efficacia extra moenia della sentenza penale non solo la parte civile, ma anche l’imputato (oltre che il responsabile civile intervenuto o costituito). Di conseguenza, la parte di un processo civile che sia al tempo stesso imputato in un processo penale c.d. ‘‘rilevante’’ (avente cioè ad oggetto fatti materiali dal cui accertamento dipende il riconoscimento dei diritti oggetto del giudizio civile: cfr. art. 654 c.p.p.) rischia sempre di essere pregiudicata dagli effetti extra moenia di una eventuale condanna penale. Da ciò deriva che le condizioni richieste dall’art. 211 disp. coord. per la sospensione (esercizio dell’azione penale e possibilità che il processo penale si concluda con una sentenza avente efficacia di giudicato nel giudizio da sospendere) sussistono non solo quando il danneggiato dal reato propone in sede penale l’azione volta ad ottenere il risarcimento e in sede civile l’azione volta ad ottenere altre utilità, ma anche quando: — l’azione in sede civile è proposta da chi è imputato in un processo penale c.d. ‘‘rilevante’’ (si pensi al lavoratore imputato di un reato che impugna in sede civile il licenziamento motivato in relazione allo stesso fatto); — l’azione in sede civile è proposta contro l’imputato da chi non ha partecipato al processo penale in veste di parte civile (può trattarsi sia di un soggetto che, non avendo subìto un danno diretto dal reato, non è legittimato a costituirsi parte civile, sia di un soggetto che, pur essendo danneggiato dal reato, ha preferito cumulare le due azioni nel processo civile). In queste due ultime ipotesi, infatti, anche se l’imputato non potrà invocare in sede civile una eventuale assoluzione (dato che l’altra parte non ha partecipato al processo penale), la sentenza di condanna, in forza del(50) Cfr., in tal senso, le brillanti osservazioni di M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per ‘‘pregiudizialità’’ penale: questioni teoriche e riflessi pratici, cit., 369. (51) Si tratta delle ipotesi di c.d. reati contratto (in cui il legislatore incrimina la stessa conclusione del contrato) e di c.d. reati in contratto (che sono commessi nella conclusione di un contratto e mediante i quali il legislatore incrimina non la conclusione in sé del contratto, ma il comportamento tenuto durante la medesima). Sul tema vedi I. LEONCINI, I rapporti tra contratto, reati-contratto e reati in contratto, in questa Rivista, 1990, 997 ss.
— 528 — l’art. 654 c.p.p., farà stato contro di lui nel giudizio civile. Si avrà, quindi, un processo penale che, come richiesto dall’art. 211 disp. coord., può concludersi con una sentenza avente efficacia di giudicato nel processo civile. A diverse conclusioni si dovrebbe giungere ove si ritenesse che l’efficacia di giudicato di cui all’art. 654 c.p.p. debba essere circoscritta inter partes, cioè limitata ai giudizi civili (o amministrativi) che si svolgono tra coloro che hanno partecipato al processo penale, non potendo essere fatta valere nei confronti di costoro da parte di ‘‘terzi’’ estranei al processo penale. Partendo da tale premessa, risulterebbe fondata la tesi secondo cui la norma è destinata a trovare applicazione nei soli casi in cui il soggetto danneggiato dal reato decida di agire in sede penale per conseguire il risarcimento e in sede civile per ottenere un’utilità ulteriore mediante deducendo una fattispecie di cui il reato rappresenta un elemento materiale (52). La formulazione dell’art. 654 c.p.p. (‘‘nei confronti dell’imputato... ha efficacia...’’) induce, tuttavia, a privilegiare la soluzione che consente a qualsiasi soggetto, anche se estraneo al processo penale, di far valere il giudicato (53). DOTT. ROBERTO GIOVAGNOLI
(52) Oltre che in questa ipotesi, i presupposti per la sospensione potrebbero verificarsi nel caso di azione civile proposta dall’imputato contro il danneggiato costituitosi parte civile. Ad esempio, se il lavoratore imputato di un reato ricorre in sede civile contro il licenziamento motivato in relazione allo stesso fatto, il processo civile verrà sospeso solo se il datore di lavoro, assumendo di essere stato danneggiato dal reato, si costituisce parte civile nel processo penale. In tal senso, v. M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per ‘‘pregiudizialità’’ penale: questioni teoriche e riflessi pratici, cit., 370. (53) In senso conforme, cfr.. A. GHIARA, sub art. 654, in Commento al nuovo codice di procedura penale (a cura di M. CHIAVARIO) vol. VI, cit., 470.
« ABUSO DI MAGGIORANZA » ED « ABUSO D’AUTORITÀ » NELLA GESTIONE D’IMPRESA: DOGMATICA ED ERMENEUTICA NELL’APPLICAZIONE DELL’ART. 61, N. 11 C.P.
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La natura dell’« autorità » fra diritto e sociologia. Per un approccio giuridico-formale. — 3. Eguaglianza ed « autorità »: nei rapporti di famiglia. — 4. (Segue): nei rapporti economici. — 5. « Autorità » e rapporto di subordinazione. — 6. « Autorità » ed organi societari: l’amministratore. — 7. (Segue): il direttore generale. — 8. (Segue): la maggioranza sociale. — 9. Le ipotesi di cui all’art. 61, n. 11 c.p. fra « comunità domestica » e « comunità di lavoro ». — 10. Alcune precisazioni sul concetto di « abuso ». — 11. Considerazioni finali.
1. Introduzione. — Nella variegata e ricca fenomenologia degli abusi del patrimonio sociale ad opera degli amministratori di società di capitali (1), si pone all’attenzione un recente indirizzo giurisprudenziale — formatosi in seno alla medesima vicenda giudiziaria — che ha trovato convinta ed argomentata conferma nella sentenza della Cassazione, 30 settembre 1996, n. 1885 (2). La vicenda sottoposta all’esame dei giudici solo in apparenza si presentava ‘di routine’: l’amministratore di una so(1) Sull’infedeltà patrimoniale e sulle problematiche connesse resta sempre fondamentale il classico studio di PEDRAZZI, Gli abusi del patrimonio sociale ad opera degli amministratori, in Riv. it. dir. pen., 1953, 543 s. Più da recente, cfr. FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto di interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, Milano, (ed. provv.), 1996; MILITELLO, Gli abusi nel patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e distrazione, in questa Rivista, 1991, 275 s.; ID., Aspetti penalistici dell’abusiva gestione nei gruppi societari: tra appropriazione indebita ed infedeltà patrimoniale, in Foro it., 1989, II, 421 s.; ZUCCALÀ, Dei delitti di infedeltà degli organi verso la società: problemi attuali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, 161 s.; NUVOLONE, voce Infedeltà patrimoniale, in Enc. giur., XXI, Milano, 1971, 440 s.; MARINUCCI-ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, Milano, 1971, 114 s. Sull’appropriazione indebita in particolare, v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Delitti contro il patrimonio, p. spec., II, t. 2o, Bologna, 1996, 97 s.; PAGLIARO, voce Appropriazione indebita, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, 225 s.; PISAPIA, voce Appropriazione indebita (dir. pen.), in Noviss. dig. it., I, Torino, 1964, 789 s.; PEDRAZZI, voce Appropriazione indebita, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 833 s. (2) Tale decisione conferma l’impostazione precedentemente adottata, in sede di annullamento con rinvio, da Cass., 2 febbraio 1995, n. 197 e recepita da App. Bologna, 6 febbraio 1996, n. 266. Diversamente si erano orientate Pret. Bologna, 28 novembre 1992, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, 1077 e App. Bologna, 13 luglio 1994, in Foro it., 1995, II, 248 s.
— 530 — cietà per azioni aveva indebitamente fotocopiato i disegni industriali di proprietà di quest’ultima trasferendo tale know how ad altra società concorrente, di cui era indirettamente il vero proprietario. Il fatto in esame, dopo un tormentato iter giudiziario, ha trovato il suo epilogo nella qualificazione in termini di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 11 c.p. Ad una più attenta lettura delle decisioni rese, tuttavia, emergono una serie di questioni che forniscono lo spunto per alcune riflessioni che, incentrate su « autorità private » ed organi societari, finiscono col coinvolgere i rapporti fra le certezze della dogmatica e il dinamismo dell’ermeneutica giuridica. Il primo piano d’indagine che, con maggior evidenza, il segnalato indirizzo pone all’attenzione del teorico è, probabilmente, quello relativo alla plausibilità del ricorso alla fattispecie dell’appropriazione indebita in merito al semplice « uso », tramite fotocopie, del contenuto dei disegni industriali. Più sottile e dal rilievo più teorico che pratico, invece, appare essere l’altro tema giuridico affrontato, quello cioè legato al profilo circostanziale del reato: i giudici, sul presupposto che gli amministratori ed i soci di maggioranza siano delle autorità, applicano l’aggravante dell’« abuso d’autorità » e non già — come in precedenza era sempre avvenuto — quella dell’« abuso di relazione d’ufficio » o di « prestazione d’opera », tutte previste dall’art. 61, n. 11 c.p. Pur potendo prima facie apparire dal tono marginale, su quest’ultimo versante gravitano problematiche di teoria generale di significativa complessità dogmatica, la cui profondità risulta altresì comprovata dal necessario coinvolgimento di istituti e tematiche extra-penalistiche, elaborate e dibattute in seno al diritto delle società. Peraltro, la sottovalutazione di tale profilo si riflette inevitabilmente in un’inappropriata comprensione del ‘caso concreto’, contribuendo per quest’aspetto ad alimentare le ormai note difficoltà di comunicazione fra il mondo della teoria e quello della prassi. A tal ultimo riguardo, si è da più parti sottolineato come fra le molteplici cause delle discrasie fra dottrina e giurisprudenza, un peso non indifferente debba attribuirsi alla tendenziale sopravvalutazione della massima sulla motivazione, nonostante il più delle volte sia quest’ultima e non la prima ad esprimere compiutamente il caso e la ratio decidendi (3). Un esempio paradigmatico può, in tal direzione, trarsi proprio dalla vicenda in esame: nel pubblicare Cass., 2 febbraio 1995, n. 197 (4) — il cui dictum è da Cass., 30 settembre 1996, n. 1885 integralmente recepito — (3) In questi termini cfr. CADOPPI, Dalla judge-made law al criminal code, in questa Rivista, 1992, 928 s.; GORLA, voce Giurisprudenza, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 508 s. Per l’esperienza anglosassone v. LEE, Bridging the Gap Between Theory and Practice, in Law Quart. Rev., CII, (1986), 492 s. Più di recente, AA.VV., Le discrasie fra dottrina e giurisprudenza, Napoli, 1991. (4) In Giust. pen., II, 1996, 642.
— 531 — la massima redazionale è esclusivamente incentrata sul rapporto « uso/appropriazione », laddove nessun accenno viene riservato al profilo coinvolgente l’« abuso d’autorità », al quale la motivazione aveva pur dedicato una qual certa attenzione. Al di là di tale specifico profilo, per quel che riguarda da vicino le patologie dell’attività d’impresa, è dato osservare che l’approccio giurisprudenziale pare caratterizzarsi da qualche tempo a questa parte, da un canto, per l’accentuato rigorismo delle sue prese di posizione e, dall’altro, per la progressiva insensibilità alle istanze critiche provenienti dalla dottrina. Probabilmente, in tutto ciò v’è anche un’inevitabile reazione ad un ‘lassismo’ radicatosi negli ultimi decenni e che è cresciuto esponenzialmente col dilagare del malcostume politico-economico, sino a raggiungere quel ‘point of no return’ insostenibile per ogni sistema (5). Fra l’altro, la ‘riscoperta’ delle norme penali poste a presidio delle società ha quale inconsapevole merito quello di contribuire ad « illuminare » un tipo di criminalità che, per consolidata tradizione, ha goduto di scarsa « visibilità sociale » (6). Tale attenzione, tuttavia, appare non di rado caratterizzata da valutazioni che, a fronte della complessità della normativa di settore, non mancano di rivelarsi sin troppo semplicistiche. Inoltre, il rigore che informa alcune soluzioni applicative finisce, alle volte, col coniugarsi con un uso alquanto disinvolto delle categorie e dei concetti penalistici. Come si suol dire, la ‘prassi’ tende insomma a fare a meno della ‘teoria’, irrigidendosi nelle proprie posizioni ed acuendo il solco che separa la law in action dalla law in books. Nel contesto conflittuale così delineato si inserisce dunque l’indirizzo giurisprudenziale in parola. Infatti, come si avrà modo di vedere, le argomentazioni adottate denotano un’incomprensione di fondo degli esatti termini e dei contenuti da attribuire alle distinte figure codificate dall’art. 61, n. 11 c.p. Il presente studio, pertanto, si propone di vagliare la fondatezza (5)
Sul fenomeno della corruzione e sui relativi costi sociali ed economici, v. ERCorporate and Governmental Deviance. Problems of Organizational Behavior in Contemporary Society, New York, 1996; AA.VV., Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994; DELLA PORTA-VANNUCCI, Corruzione politica e amministrazione pubblica, Bologna, 1994; SAPELLI, Cleptocrazia. Il « meccanismo unico » della corruzione tra economia e politica, Milano, 1994. Sui rapporti fra corruzione, finanziamento illecito ai partiti e mala gestio dell’impresa, v. FLICK, Responsabilità penali dell’imprenditore indagato per tangenti, nell’ottica dei reati societari e fallimentari, in questa Rivista, 1994, 1449 s. (6) Per quest’aspetto vedi PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, 915, nonché la classica opera di SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi, trad. it. (della versione integrale), Milano, 1987, 70. Più di recente, su delitto ed economia cfr. FISHER, Systemtransformation und Wirtschaftskriminalität, Berlin, 1996; FRIEDRICHS, Trusted criminals: White Collar Crime in Contemporary Society, Belmont, 1996; PUNCH, Dirty Business: Exploring Corporate Misconduct. Analysis and Cases, London, 1996; POVEDA, Rethinking White Collar Crime, Westport, 1994. MANN-LUNDMANN,
— 532 — di questa nuova impostazione, analizzando in primo luogo il procedimento ermeneutico seguito dai giudici e quindi le ragioni e le ‘scelte di valore’ ivi sottese. In secondo luogo, pare opportuno sottoporre al controllo della dogmatica giuridica i risultati dell’interpretazione, in particolare nei loro contenuti teoretici, affinché se ne verifichi il grado di compatibilità con la razionalità del sistema giuridico (7). Tutto ciò, però, senza perdere di vista il ‘caso concreto’ onde non « sottovalutare l’importanza teoricodogmatica delle sentenze nell’ambito del sistema penale » (8), ed accertare se le « ragioni della teoria », innanzi al « quotidiano confronto fra giudice e fatto storico », debbano soccombere alla « forza soggiogante » di quest’ultimo (9). 2. La natura dell’autorità fra diritto e sociologia. Per un approccio giuridico-formale. — Quello di autorità, a ben vedere, è un concetto semanticamente « sovradeterminato », il cui ‘senso’ cioè varia — per quantità e qualità — a seconda dell’approccio prescelto: giuridico, morale, filosofico, sociologico, antropologico, politico ed economico (10). La molteplicità dei piani di indagine, peraltro, non deve né sorprendere né disorientare: il concetto in esame, infatti, si lega intimamente alle strutture ed ai modelli organizzativi che l’uomo ha, nel tempo e nello spazio, adottato. È inevitabile quindi che il tema assuma una coloritura multidisciplinare difficilmente riconducibile ad un paradigma esplicativo unitario (11). Ciò (7) Al riguardo, MENGONI, Dogmatica giuridica, in Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, 48 s. (8) CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 927. (9) PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in questa Rivista, 1991, 336. (10) Nella letteratura italiana cfr. SACCONI, Economia, etica, organizzazione, Bari, 1996, spec. 79 s.; STOPPINI, voce Autorità, in Dig. disc. priv., I, Torino, 1987, 523 s.; ID., Le forme del potere, Napoli, 1974; LAVAGNA, voce Autorità (dir. pubb.), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 477 s.; VITTA, voce Autorità, in Noviss. dig. it., I, t. 2o, Torino, 1958, 1564; ALFIERI, Autorità e libertà nelle moderne teorie della politica, Milano, 1947; QUADRI, Il problema dell’autorità, Firenze, 1940; PANUNZIO, Il diritto e l’autorità, Roma, 1920. Fra gli studiosi stranieri v. KREPS, Corporate Culture and Economic Theory, in AA.VV., Perspectives on Positive Political Economy, Cambridge, 1990; SENNETT, Autorità, trad. it., Milano, 1981; COLEMAN, Authority Systems, in Pub. Opinion Quart., XLIV, (1980), 143 s.; WILLHOITE jr., Primates and Political Authority: A Bioebehavioral Perspective, in American Pol. Science Rev., LXX, (1976), 1110 s.; ECKSTEIN, Authority Patterns: a Structural Basis for Political Inquiry, ivi, LXVII, (1973), 1142 s.; ETZIONI, A Comparative Analysis of Complex Organizations, New York, 1961; SCHELER, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Bern, 1954, 141. (11) Non solo, ma anche all’interno di un approccio esclusivamente giuridico emerge una pluralità di direttive d’analisi. L’autorità infatti può rilevare: a) come elemento presupposto dal diritto; b) come fonte del diritto; c) come elemento indipendente dal diritto. Ma v’è di più: l’autorità esprime realtà e significati differenti a seconda che rilevi in via oggettiva — riferendosi cioè alle potestà ovvero all’efficacia di atti — oppure in via soggettiva — rife-
— 533 — nondimeno, è indispensabile sforzarsi di tenere distinti tutti quegli aspetti del fenomeno che, più che del diritto, costituiscono materia di studio di altre scienze sociali. Al giurista, allora, non rimane che lasciarsi guidare da un’attenta analisi del dato normativo, la quale, pur senza disconoscere le forme fenomenologiche dell’autorità, sappia mantenersi scevra da fuorvianti stereotipi assumendo altresì un atteggiamento critico verso gli inevitabili condizionamenti latu sensu socio-culturali (12). La prima questione sulla quale occorre soffermarsi è quella della natura giuridica dell’« autorità » di cui al n. 11 dell’art. 61 c.p. In proposito, l’opinione dominante ritiene che l’autorità — nonché l’ufficio — abbiano natura privatistica (13). Tale tesi trova fondamento nella necessità logica di distinguere l’aggravante in parola da quella di cui al n. 9 del medesimo articolo. Se entrambe le circostanze presuppongono che l’abuso non sia elemento costitutivo dell’illecito, quella di cui al n. 9 invero prende in considerazione l’« abuso dei poteri » o la « violazione dei doveri » legati ad una « pubblica funzione o a un pubblico servizio ». L’abuso in tal caso trova la propria ‘ragione’ ed il proprio ‘limite’ nel possesso della qualità soggettiva pubblicistica, di tal che quest’ultima deve in qualche modo aver agevolato la commissione del reato. Pertanto, v’è una relazione di strumentalità che intercorre fra due poli ben precisi: l’abuso, da un lato, e l’esercizio non funzionale del complesso di attribuzioni connesse alla qualifica pubblica ricoperta dall’agente, dall’altro lato. Di contro, l’aggravante di cui al n. 11, è riferita agli abusi emergenti in un contesto di disciplina necessariamente privatistico, perché se così non fosse le due fattispecie si sovrapporrebbero l’un con l’altra. Del resto, la specifica collocazione all’interno del medesimo articolo ma con un’autonoma numerazione, ha senso solo sul presupposto della diversità di piani delle circostanze in esame (14). rendosi alle soggettività istituzionalmente titolari di poteri. Inoltre, sia nella legislazione sia nella dottrina, il termine viene spesso assunto con significati ambivalenti e non di rado impropri. Tutto ciò, a tacer d’altro, rende evidente la necessità, in una prospettiva strettamente penalistica, di una puntuale actio finium regundorum. (12) Sulla « precomprensione » nell’ermeneutica, per tutti si rinvia al noto saggio di ESSER, Precomprensione e scelta nel metodo di individuazione del diritto, trad. it., Napoli, 1983. Da ultimo, per il punto di vista della common law sul ruolo e sul peso che le « convinzioni, gli ideali e i modi di pensare » socialmente diffusi esercitano nell’elaborazione e nella pratica del diritto, si possono leggere le belle pagine di CALABRESI, Il dono dello spirito maligno, trad. it., Milano, 1996. (13) Così ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, p. gen., Milano, 1994, 413; MANTOVANI, Diritto penale, p. gen., Padova, 1992, 410; PADOVANI, voce Circostanze del reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, 220; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, II, Torino, 1981, 225; BETTIOL G., Diritto penale, Padova, 1978, 519; RANIERI, Manuale di diritto penale, p. gen., I, 1968, 372; MUSOTTO, Corso di diritto penale, I, 1964, 205; GUADAGNO, Manuale di diritto penale, Roma, 1962, 186; BATTAGLINI, Diritto penale, Padova, 1949, 397; MAGGIORE, Principi di diritto penale, p. gen., I, Bologna, 1943, 463. (14) Una dottrina minoritaria, tuttavia, non esclude che l’aggravante dell’abuso d’au-
— 534 — La natura privatistica dell’autorità in esame comporta che l’analisi del suo contenuto debba effettuarsi nell’ambito del diritto privato. In esso, infatti, trova espressione il concetto e la figura dell’autorità (per l’appunto detta) privata (15). Contestualmente, l’indagine deve altresì chiarire quello che, a ben vedere, è il vero punctum crucis della problematica, ed implicitamente dato per risolto dalla teorica in analisi: l’autorità può essere tale in via di fatto, o piuttosto deve ricevere espressa qualificazione dall’ordinamento giuridico? In altri termini, l’autorità giuridicamente rilevante è ‘fattuale’ o ‘formale’? Se l’orientamento segnalato propende per un approccio fattuale, la dottrina dominante — sia civilistica che penalistica — si orienta in direzione radicalmente opposta: l’autorità giuridicamente rilevante è solo quella formalizzata dalla legge (16). Tale conclusione, oltre che sui principi costituzionali, trova fondamento — per il diritto penale — nell’esigenza del pieno rispetto del principio di legalità. Ed invero, tutte le ricostruzioni in chiave fattuale che le scienze sociali hanno fornito risultano così generiche ed opinabili da essere palesemente inconciliabili con i più elementari canoni penalistici. Definizioni quali quelle che colgono l’autorità in un « potere stabile, continuativo nel tempo, al quale i sottoposti prestano, almeno entro certi limiti, un’obbedienza incondizionata », sono parse eccessivamente generiche persino fra torità possa riguardare anche uffici pubblici, così SANTORO, Le circostanze del reato, Torino, 1952, 284; PANNAIN, Manuale di diritto penale, I, Torino, 1950, 407; LEVI, in Codice penale illustrato, I, diretto da Conti, 272. Si sostiene, in particolare, che l’abuso dell’« autorità » possa essere scisso dall’abuso del « potere », sicché il primo possa non coinvolgere i poteri e le funzioni dell’ufficio pubblico. A sostegno, si fa l’esempio dell’impiegato pubblico che s’impossessa di un oggetto di proprietà di un collega, inavvertitamente lasciato incustodito sulla scrivania: in tal caso, si afferma, non sussisterebbe alcun abuso di potere. Tuttavia, è agevole replicare che in tal caso non sussisterebbe neppure l’abuso d’autorità (semmai l’unico abuso sarebbe della relazione d’ufficio, che è circostanza autonoma e distinta da quella in oggetto). In effetti, anche a voler tralasciare il legame tassativo che la norma di cui al n. 9 pone fra le coppie ‘abuso-potere’/‘pubblica funzione-pubblico servizio’, è evidente che l’impossessamento non verrebbe in alcun modo agevolato dal referente ‘autorità’; non s’instaura cioè alcuna relazione tra l’appropriazione, l’abuso e il potere (o l’autorità). Infine, anche il subalterno potrebbe commetterlo ai danni del dirigente dell’ufficio: sicuramente non abuserebbe di alcuna autorità, che tra l’altro non possederebbe neppure! (15) In argomento, BIANCA, Le autorità private, Napoli, 1977; LOMBARDI, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1974. (16) Espressamente, MANTOVANI, Diritto penale, cit., 411; ROMANO, M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, 579; GUADAGNO, Manuale, cit., 186; RANIERI, Manuale, cit., 371; LEVI, Codice penale, cit., 272. L’opinione prevalente circoscrive la possibile rilevanza di fatto soltanto alla circostanza dell’abuso di « prestazione d’opera », così vedi MANZINI, Trattato, cit., 227 s.; BETTIOL G., Diritto penale, cit., 519; MUSOTTO, Corso, cit., 205; SANTORO, Le circostanze, cit., 284; PANNAIN, Manuale, cit., 409; BATTAGLINI, Diritto penale, cit., 398. Minoritaria è l’opinione che ammette un rilievo fattuale a tutte le situazioni codificate dall’art. 61, n. 11 c.p., così MARINI, G., Elementi di diritto penale, p. gen., I, Torino, 1978, 258.
— 535 — gli stessi politologi e sociologi (17). Né d’altronde si guadagna qualcosa in termini di afferrabilità concettuale, laddove si puntualizzi che l’obbedienza debba fondarsi sulla « credenza della legittimità del potere », espressione di un « giudizio di valore », il quale a sua volta necessita di « continue conferme » (18). Una simile concezione, applicata alle dinamiche d’impresa può soltanto tradurre, con diverso linguaggio, ciò che costituisce l’ovvio rapporto di fiducia che lega fisiologicamente il management alla proprietà aziendale. Ma di per sé non fonda poteri di gestione né legittima poteri di sanzione. Qualora tale paradigma esplicativo fattuale lo si applichi alle relazioni industriali, e precisamente ai rapporti fra datore e prestatore di lavoro — le uniche in cui, come si vedrà oltre, sussiste un’autorità giuridica — difficilmente potrebbe funzionare: è altamente artificiosa, se non irreale, una spiegazione di simili relazioni in termini di « accettazione frutto di un giudizio di valore » della legittimità di un potere e di un corrispettivo dovere di obbedienza (19). Le più significative concezioni fattuali dell’autorità, come succintamente esposte, appaiono connotate da elementi strutturali generici e, nei loro contenuti, votate alla soggettività. L’opinabilità del « giudizio di valore » — cui esse sono costrette a rimandare per giustificare l’autorità coi principi democratici —, si riflette sull’orizzonte semantico della fattispecie penale; la dimensione di precarietà da cui questa sarebbe avvinta renderebbe irrimediabilmente incerto il precetto, influendo finanche sulla sua conoscibilità. In questo contesto, la discrezionalità giudiziaria non incontrerebbe alcun limite giacché, sulla base di mere ‘precomprensioni’ ovvero (17) In senso critico, STOPPINI, voce cit., 524. (18) KREPS, Corporate Culture, cit., passim, il quale, in seno alla cd. « teoria dei giochi », costituisce l’autorità su strategie di ‘reciproca convenienza’, le quali fornirebbero una giustificazione in termini di razionalità alla scelta di un soggetto economico volta a delegare ad altri il potere decisionale sulle proprie azioni. Per ulteriori approfondimenti in tal direzione, v. HART-MOORE, Property Rights and the Nature of the Firm, in Journal of Pol. Econ., 98, (1990), 1119 s.; GROSSMAN-HART, The Costs and Benefits of Ownership: A Theory of Vertical and Lateral Integration, ivi, 94, (1986), 691 s.; WILLIAMSON, Market and Hierarchies, New York, 1975. (19) Altresì inaccettabile è la pur raffinata impostazione di chi concepisce l’autorità come una « particolare qualità delle comunicazioni » (comandi, consigli od opinioni) riconosciuta ed accettata come tale dai destinatari della medesima (Friedrich C.J.). Questa lettura, infatti, ove intesa in senso oggettivo indicherebbe una qualità dell’atto in quanto tale; ove intesa in senso soggettivo, invece, esprimerebbe soltanto quelle condizioni personali che determinano una leadership. Parimenti non condivisibile risulta la concezione elaborata dalle cd. teorie « neoistituzionaliste » dell’impresa, secondo la quale l’autorità ed il relativo esercizio si giustificano con e nella sussistenza del diritto di proprietà. L’identità cui tale tesi conduce, ‘proprietario = autorità’, oltre a rimandare a concezioni vetero borghesi prive di ogni cittadinanza nelle moderne democrazie capitalistiche, finisce coll’avere un’applicazione talmente vasta e generalizzata da perdere ogni utilità sul piano pratico ancor prima che teorico. In tema, cfr. SACCONI, Economia, etica, organizzazione, cit., 81 s.
— 536 — delle contingenti esigenze repressive, chiunque si trovi in una data relazione infrasoggettiva potrebbe scoprirsi, ex art. 61, n. 11 c.p., un’« autorità »: financo l’amministratore di una società, nonché la relativa maggioranza sociale. 3. Eguaglianza ed « autorità »: nei rapporti di famiglia. — La figura giuridica dell’autorità è frutto di un’astrazione dogmatica operata dalla dottrina sulla base di alcuni istituti tipici del diritto privato: la potestà maritale (ormai scomparsa a seguito della riforma del diritto di famiglia), la potestà parentale, la tutela e curatela, il rapporto di subordinazione, e la contrattazione collettiva. Sotto il profilo contenutistico, queste figure giuridiche sono caratterizzate dal fatto che l’ordinamento, in una data relazione intersoggettiva, attribuisce all’uno un ventaglio di diritti e di poteri — di rappresentanza, sorveglianza, assistenza, custodia e disciplina — confinando l’altro in una posizione di soggezione. Alla base di ciò v’è una « valutazione di opportunità » formalizzata in precise norme legittimanti, la quale si fonda — sul piano sostanziale — sul principio di eguaglianza (20). In particolare, nella tutela, nella curatela e nella potestà dei genitori l’ordinamento reputa opportuno che, a determinate condizioni — attinenti le qualità del ‘sottoposto’ — i poteri per attuare e realizzare gli interessi di quest’ultimo vengano affidati ad un altro individuo, che viene pertanto a porsi in una situazione di preminenza (21). La posizione di autorità, quindi, viene riconosciuta dall’ordinamento esclusivamente per attuare e realizzare gli interessi del soggetto passivo, assunto come incapace di attendere con sufficiente avvedutezza e maturità ai propri affari. La limitazione della libertà del soggetto è solo apparente, giacché l’autorità si rivela strumento indispensabile per la sua stessa realizzazione. Tale riconoscimento è formalizzato espressamente in (20) Sul principio di eguaglianza nel nostro ordinamento e per i suoi riflessi sulle componenti sociali, v. per tutti CABIDDU, Maggioranza. Minoranza. Eguaglianza, Padova, 1997; PIZZORUSSO, Minoranze e maggioranze, Torino, 1993, 77 s. In particolare, per quel che concerne da vicino l’istituzione familiare, cfr. BIAGI GUERINI, Famiglia e Costituzione, Milano, 1989. (21) Al riguardo, FERRI L., Potestà dei genitori, in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, (a cura di Galgano), Bologna-Roma, 1988; DE CUPIS, Il diritto di famiglia, Padova, 1988; BIANCA, Le autorità private, cit., 10 s.; GIORGIANNI, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, t. 2o, Padova, 1977, 742 s.; BRANCA, Autoritarismo, spirito punitivo e diritto di famiglia, in Foro it., 1973, V, 197 s.; BUCCIANTE, La patria potestà nei suoi profili attuali, Milano, 1971, 20 s.; PELOSI, La patria potestà, Milano, 1964, 51 ss. Nella letteratura d’oltralpe cfr. SIMITIS, Zur Situation der elterlichen Gewalt, in AA.VV., Familie und Familienrecht, II, Frankfurt a.M., 1975, 66 s.; TERRÉ, A propos de l’autorité parentale, in Réformes du droit de la famille (Archives de philosophie du droit), Paris, 1975, 45 s. Per la dottrina penalistica, vedi PADOVANI, voce cit., 220.
— 537 — apposite norme giuridiche, le quali definiscono i contenuti e i limiti di siffatti poteri. In tutti questi casi è la legge che pone direttamente il titolo legittimante l’autorità: l’interesse del sottoposto è al contempo la « ragione » ed il « limite » della posizione di autorità privata cui è affidato (22). Si delinea dunque la ratio della posizione di un’autorità: è un mezzo per ‘recuperare’ il gap di eguaglianza e quindi di libertà in cui si trova l’incapace che, a causa della propria condizione di inferiorità, si colloca in una situazione di sostanziale disuguaglianza sociale. È cioè un problema di garanzia dell’incapace, al quale l’ordinamento consente attraverso l’autorità del genitore o del tutore di recuperare, in una dimensione solidaristica, quella tavola delle ‘pari opportunità’ che fa da sfondo al secondo comma dell’art. 3 Cost. (23). In definitiva, la legittimazione di un’autorità privata è funzionale all’attuazione di precisi valori costituzionali: sopperire ad una situazione di disuguaglianza sociale (art. 3, comma 2o Cost.), consentendo il pieno sviluppo della personalità (art. 2 Cost.). 4. (Segue): nei rapporti economici. — Anche nei rapporti sociali ed economici si riscontrano delle situazioni che presentano condizioni di preminenza infraindividuali. In breve, e volendo citare soltanto quelle che presentano maggior interesse in questa sede, si tratta: a) della posizione del datore di lavoro verso il dipendente; b) nonché dei poteri che gli amministratori, i direttori generali o i soci di maggioranza di una società posseggono verso la compagine sociale. Il panorama, pur apparendo alquanto disomogeneo, presenta un significativo comun denominatore: il titolo di legittimazione dei poteri di supremazia è nel contratto, o comunque in una manifestazione di autonomia di soggetti assunti liberi nelle loro scelte ed operanti su una base di parità iniziale. Anche su questo versante, quello della libertà negoziale, la tematica dell’autorità rimanda ai valori espressi in Costituzione. Vero è che nell’attuale momento di transizione si assiste all’abbandono dei vecchi modelli socio-economici, e ciò pone un problema di legittimazione sul terreno co(22) Ciò si desume agevolmente dalla lettura delle disposizioni di cui al Titolo IX (della potestà dei genitori) del Libro I del codice civile, nonché dall’art. 147 c.c. che condiziona il potere educativo dei genitori alle capacità, inclinazioni ed aspirazioni dei figli; potere educativo che, com’è noto, può esigere l’uso della vis, ma ciò nonostante dev’essere sempre improntato all’interesse del minore. Tant’è che l’abuso del potere educativo risulta sanzionato dall’ordinamento, sia civile (artt. 316 commi 5o e 6o, 333 e 334 c.c.) sia penale (artt. 571, 572 c.p.). Sui profili penalistici del diritto di famiglia, v. SCORDAMAGLIA, Prospettive di nuova tutela penale della famiglia, in questa Rivista, 1991, 366 s.; UCCELLA, La tutela penale della famiglia, Padova, 1984; PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953. (23) In tale direzione BIANCA, Le autorità private, cit., 14 s.; SCORDAMAGLIA, Prospettive di nuova tutela penale, cit., 367.
— 538 — stituzionale dei nuovi assetti, politici ed economici. Ciò nondimeno, le implicazioni e le valutazioni che da questa prospettiva si continuano a trarre, risultano radicalmente incompatibili con l’ammissibilità di un’autorità giuridica. In proposito, non si è mancato di chiarire che dagli artt. 41 e 42 Cost. si evince un riconoscimento della libertà di contratto solo indiretto, cioè in quanto strumento di esercizio dell’iniziativa economica e del diritto di proprietà (24). Un rilievo centrale piuttosto è attribuito, da un canto, al profilo del rispetto dei « limiti » e cioè dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana; dall’altro, alle possibilità di coordinamento ed indirizzo a finalità sociali (25). Se, come da più parti si viene ormai evidenziando, lo Stato sociale pare ovunque ‘in crisi di legittimazione’ (26), la rilettura della costituzione economica delinea un quadro in cui l’interventismo sembra — più riduttivamente e con maggior disincanto — risolversi nella mera rimozione degli ostacoli al funzionamento ottimale del mercato (27). Alla funzione programmatoria dell’intervento pubblico nell’economia si sostituisce così un diverso paradigma: la valorizzazione delle attitudini del mercato, più che alla produzione del benessere (Welfare State), risulta finalisticamente orientata all’allocazione della forza lavoro (Workfare State). In siffatto contesto, la correzione delle esternalità, una volta indefettibile e contestuale imperativo della politica economica, sembra doversi accontentare di uno spazio residuale ed eventuale. Tuttavia e nonostante la ‘crisi’, la Costituzione continua ad imporre la rimozione « con misure appropriate delle disparità di potere contrattuale pregiudizievoli alla libertà e alla razionalità delle scelte individuali » (28). Se così è, il principio di eguaglianza si mantiene come il ‘punto focale’ anche di tale prospettiva (29): per un verso, garantisce la parità giuridica delle persone di fronte alla legge e nei reciproci rapporti; (24) Per tutti, MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e tit. cred., 1997, 2 s. (25) Cfr. GALGANO, Sub Art. 41, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, Bologna, 1982; BALDASSARRE, voce Iniziativa economica privata, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 592 s. (26) Cfr. PAPPAS, Welfare Reform: Child Welfare or Rethoric of Responsability?, in Duke Law J., 45, (1996), 1301 s. (27) Vedi MENGONI, Autonomia privata, cit., 3 s.; AMATO, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, 8 s.; GUARINO, Pubblico e privato nell’economia, ivi, 1992, 21 s. (28) MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, loc. cit. (29) Nel nostro ordinamento, com’è noto, non vige la Drittwirkung delle norme costituzionali, cfr. Cass., Sez. un. civ., 17 maggio 1996, in Foro it., 1996, I, 1990; MARINI A., Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 288. Pertanto, in seno al diritto dei contratti, il principio di eguaglianza può trovare concreta applicazione solo in via mediata quale principio incluso nell’« ordine pubblico », svolgendo in definitiva un ruolo limitativo dell’autonomia negoziale.
— 539 — per altro verso, impone l’adozione di quelle misure, in positivo o in negativo, atte a rimuovere le situazioni di disuguaglianza sostanziale. In quest’ambito, non può consentirsi al privato di creare posizioni di autorità al di fuori dei casi previsti espressamente dalla legge. Ad opinar diversamente, la posizione dell’autorità diverrebbe funzionale alla realizzazione degli interessi dell’autorità medesima, e non più alla realizzazione degli interessi del sottoposto. Ove ammessa, garantirebbe una posizione di vantaggio dell’uno rispetto all’altro: lungi dall’essere attuazione del principio di eguaglianza, all’inverso sarebbe un comodo quanto pericoloso mezzo atto a lederla ed a pregiudicarne la sfera di libertà. 5. « Autorità » e rapporto di subordinazione. — Dopo aver messo a fuoco il fondamento ed i limiti che il nostro sistema costituzionale riconosce all’autorità privata, è necessario esaminare da vicino alcune figure particolari: il datore di lavoro/imprenditore, i soci ed il management aziendale. Su questi versanti tematici l’autorità, entro certi limiti, può trovare spazio e riconoscimento. La disciplina del rapporto di lavoro riconosce in capo all’imprenditore una posizione di chiara supremazia (30). Molteplici sono le norme da cui si evince l’autorità del datore: l’art. 2094 c.c. impone al lavoratore di eseguire la prestazione alle « dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore »; questi è dall’art. 2086 c.c. definito il « capo dell’impresa » da cui « dipendono gerarchicamente » i lavoratori. Costoro in base all’art. 2104 c.c. debbono inoltre osservare le « disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo », senza peraltro contravvenire all’« obbligo di fedeltà » imposto dall’art. 2105 c.c. (31) Siffatta posizione di supremazia, trova il decisivo riconoscimento normativo nella sussistenza, fino a qualche decennio addietro, del potere di recesso unilaterale ad nutum del datore dal rapporto, nonché nel potere di irrogare sanzioni disciplinari (art. 2106 c.c.). I poteri di direzione, controllo e disciplina sono funzionali al necessario coordinamento dei fattori della produzione. Essi richiedono, quale necessario presupposto, un rapporto ben preciso e peculiare: quello di subordinazione (32); ove difetti, l’intensità del legame si attenua sensibilmente e viene meno il potere disciplinare. Il rapporto di subordinazione si fonda su un preciso contratto, il quale — non è un caso — contempla aspetti di pubblicità nella disciplina (30) In una prospettiva socio-economica v. SIMON, A Formal Theory of Ownership Relationships, in Econometrica, 19, (1951), 293 s. (31) Sul punto, TRIONI, L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, Milano, 1982. (32) In generale, AA.VV., Il rapporto di lavoro: subordinazione e costituzione, Torino, 1993; CARINCI-DE LUCA TAMAJO-TOSI-TREU, Diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1985.
— 540 — che costituisce e regola. Inoltre, la posizione di preminenza trova il suo riconoscimento esplicito (rectius: il suo titolo di legittimazione) nel codice civile e — per quel che concerne le garanzie dei prestatori — nello statuto dei lavoratori: l’autorità del datore è quindi formalizzata dalla legge (33). È questo l’unico caso in cui l’ordinamento legittima un’autorità privata per la realizzazione di un interesse non riconducibile al sottoposto. Tuttavia, la peculiarità della posizione del datore si spiega alla luce della collocazione ideologica che il legislatore fascista intese dare all’impresa ed al lavoro in particolare (34). L’ordinamento corporativo, infatti, definiva l’impresa « funzione di interesse nazionale », e finalizzava la produzione alle ragioni superiori della collettività, eticamente sintetizzata nello Stato (cd. ‘dirigismo economico’). In attuazione al « principio di autorità » che informava le istituzioni — al triplice livello politico, economico e sociale — l’imprenditore era definito il « capo gerarchico » dell’impresa ed era responsabile verso lo Stato degli indirizzi della produzione e dell’erogazione, potendo persino essere sospeso dall’esercizio dell’impresa (artt. 2088-2092 c.c.). In quell’ottica, era perfettamente ragionevole che alla responsabilità dell’imprenditore verso l’alto (sospensione), corrispondesse verso il basso una responsabilità del lavoratore (sanzioni disciplinari) (35). Il mutato quadro degli assetti sociali ed economici, in uno con la diversa sensibilità costituzionale, rendono fortemente sospetta di illegittimità la permanenza di siffatti poteri disciplinari in capo al datore di lavoro, e quindi la sua qualificazione formale di autorità privata (36). (33)
Così fra gli altri, LEGA, Il potere disciplinare del datore di lavoro, Milano, 1956,
155. (34) Per approfondimenti v. TETI, Codice civile e regime fascista. Sull’unificazione del diritto privato, Milano, 1990. (35) Un’ulteriore connotazione dell’autorità del datore di lavoro emerge normativamente dall’art. 196 c.p. che, nel prefigurare in capo a quest’ultimo una responsabilità sussidiaria ed eventuale per il reato commesso dal sottoposto, la àncora al mancato esercizio di quei poteri di vigilanza che avrebbero garantito l’osservanza delle disposizioni violate dal sottoposto. In proposito, vedi ROMANO M., in ROMANO M.-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1994, III, 329 s. (36) La dottrina, per vero, si è sforzata di giustificare il potere disciplinare dell’imprenditore rendendolo compatibile con i nuovi valori costituzionali. In un primo tempo, è prevalso un orientamento volto ad ancorare il fenomeno nel diritto dei contratti, riconducendolo in particolare ora alla clausola penale ex art. 1382 c.c. ora alla pena privata, ovvero ai tradizionali rimedi legali contro l’inadempimento del debitore; rispettivamente vedi BARASSI, Il diritto del lavoro, Milano, II, 1949, 323; ASSANTI, Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, Milano, 1963, 110. Dopo aver tentato, senza successo, di ricondurlo alla contrattazione collettiva, più di recente si è fatto leva sui limiti di esercizio e sui controlli introdotti dallo Statuto dei lavoratori — diretti a garantire la posizione del prestatore alterando le relazioni di supremazia e soggezione fra le parti — al fine di rendere il potere disciplinare conforme alla logica egualitaria del contratto. In tal direzione, MONTUSCHI, Potere disciplinare e
— 541 — 6. « Autorità » ed organi societari: l’amministratore. — In seno all’orientamento in parola soltanto in apparenza sussistono delle divergenze. Infatti, se la Corte d’Appello di Bologna, nella decisione n. 266 del 6 febbraio 1996, sembra dar rilievo determinante alla sussistenza di una maggioranza sociale — « ... è appunto il fatto di far parte di questa maggioranza che ha consentito ... di fare abuso della maggioranza stessa... » (37) —, la Cassazione, nella sentenza n. 1885 del 30 settembre 1996, invece sposta l’accento sulla qualifica di amministratore rivestita dall’agente: « ... era membro del consiglio di amministrazione ... elemento di fatto, questo, fondamentale, perché su di esso, anzitutto e soprattutto ... poggia la contestata aggravante di cui all’art. 61, n. 11 c.p. ». Ma, come si diceva, il contrasto è solo formale perché lo stesso giudice di legittimità si affretta a chiarire che, comunque sia, « nulla osta concettualmente a che possa parlarsi di rapporti di autorità anche fra maggioranze e minoranze societarie ». Il ragionamento seguito dai giudici non s’incentra su una logica « selettiva » — del genere ‘aut-aut’ —, ma all’inverso, e più superficialmente, lo schema adottato è quello dell’« indifferenza »: in entrambe le situazioni sussiste un’autorità. Tuttavia, simile conclusione si appalesa euristicamente vuota, poiché lungi dall’impegnarsi in una seria disamina dei contenuti e delle posizioni che il diritto riserva a tali organi sociali, l’orientamento in analisi si limita a far leva sui generali poteri di « direzione, vigilanza e controllo » che incombono sugli amministratori e, in altra misura, sui soci. In altre parole, la generica e — si potrebbe dire — scontata sussistenza di poteri di gestione dell’impresa sociale in capo ai soggetti indicati, sarebbe sufficiente per l’attribuzione della qualifica dell’autorità. Un maggior rispetto della disciplina legislativa, la quale non pour cause si sforza di delineare lo statuto giuridico dell’amministratore e del socio, avrebbe dovuto suggerire l’adozione di un differente modello ermeneutico, atto a risolvere il problema: in quale rapporto si collocano gli amministratori ed i soci, siano essi di maggioranza o di minoranza? È possibile al riguardo delineare i contorni di un’autorità degli uni sugli altri, o viceversa? A questi interrogativi la tesi giurisprudenziale non riserva, al di là di scontate petizioni di principio, probanti considerazioni di ordine logicogiuridico. Tant’è che sul piano dogmatico, come si vedrà, l’avvenuta qualificazione di soci ed amministratori quali « autorità » risulta priva di giustificazione. Il che pone, quantomeno, un duplice ordine di perplessità. In primo luogo, va ricordato che la funzione di « nomofilachìa » che rapporto di lavoro, Milano, 1973, 109; CARINCI-DE LUCA TAMAJO-TOSI-TREU, Diritto del lavoro, II, cit., 173. (37) Corsivo aggiunto.
— 542 — l’art. 65 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 attribuisce alla Corte di Cassazione, le impone il dovere funzionale di non mutare la propria giurisprudenza se non per gravi e congrue ragioni (38). Ragioni di certezza e garanzia, oltre che di razionalità sistematica, impongono che nel modificare il proprio ‘punto di vista’, la Cassazione — e sinanche i giudici di merito — adempiano al cd. « onere di argomentazione » posto a presidio dell’autorità e della stabilità del precedente, e quindi dell’ordinamento nel suo complesso. Il rispetto di siffatto onere pretende che l’abbandono di una soluzione già stabilizzata nell’esperienza giuridica sia giustificata da circostanze nuove, espressione di istanze sociali e valutative di segno radicalmente differente. Successivamente, anche per tale novum va condotta la verifica, per mezzo della dogmatica, del margine di compatibilità che denota in rapporto alla razionalità del sistema giuridico. Fatto è che la Cassazione, nel cambiare la propria opinione — cioè dall’« abuso di prestazione d’opera » all’« abuso d’autorità » — non pare affatto preoccuparsi del segnalato onere di argomentazione. Non viene spiegato infatti quali siano le nuove esigenze, né dove stia il mutamento nelle percezioni sociali, economiche e financo etiche che avrebbero fatto da ‘inputs extrasistematici’ all’elaborazione della nuova soluzione giuridica. Né, tantomeno, ci si preoccupa di verificare l’impatto che tale prodotto ermeneutico avrebbe avuto con l’apparato concettuale della dogmatica penalistica. In secondo luogo, se è realistico e persino legittimo che qualunque interpretazione sia anche condizionata storicamente e culturalmente dalla « precomprensione » del soggetto, è doveroso pretendere che il sostrato giuridico di quest’ultima sia formato dalla dogmatica, intesa come insieme sistematico di concetti e strumenti teorici elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Per tal via, invero, la dogmatica svolge una funzione euristica introducendo nelle pieghe della riflessione dell’interprete quei ‘punti di vista’ già stabilizzati nel sistema, al fine di consentire che il circolo ermeneutico, sotto i nuovi e diversi inputs, proceda senza rotture della propria razionalità (39). Il punctum dolens, per quel che riguarda la tesi in questione, risiede nel fatto che di una simile — e solo in questi termini legittima — « pre(38) Sull’« onere di argomentazione », v. SICCHERO, Il principio di effettività ed il diritto vivente, in Giur. it., 1995, IV, 267; TARUFFO, La Corte di cassazione e la legge, in Studi Canova, II, Bologna, 1992, 951. In relazione al valore del « precedente » e sulla sua influenza nell’evoluzione del diritto, ormai sempre meno vincolante anche nei paesi di common law, v. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation, Frankfurt a.M., 1991, 334 s.; MATTEI, Stare decisis, Milano, 1988; GALGANO, L’interpretazione del precedente giudiziario, in Contr. e impresa, 1985, 701 s.; CAPPELLETTI, The Doctrine of Stare Decisis and the Civil Law: A Fundamental Difference — or no Difference at all?, in FS Zweighert, Tübingen, 1981, 381 s.; CARDOZO, Il giudice e il diritto, trad. it., Firenze, 1961, 14 s. (39) MENGONI, Dogmatica giuridica, cit., 51 e letteratura ivi citata.
— 543 — comprensione » non risulta esservi traccia. I suoi sostenitori, piuttosto, si basano su una lettura fattuale, mostrando però un’approssimazione concettuale ed una scarsa consapevolezza dell’alto grado di opinabilità che, sul piano sociologico ancor prima che giuridico, affligge simili concezioni. In una prospettiva teoretica, pertanto, una tesi così progettata appare votata all’effimero giacché difetta delle condizioni di razionalità che ne garantiscono scientificamente l’idoneità a stabilizzarsi. I nodi della questio iuris, purtuttavia, reclamano di essere sciolti; e ciò non può che avvenire sul tappeto delle relazioni giuridiche sussistenti fra i predetti organi sociali. Pertanto, è opportuno concentrare l’attenzione dapprima sul potere d’amministrazione, sul suo fondamento e sulla relativa disciplina, e successivamente sui profili inerenti la sussistenza di una maggioranza sociale. Nessuno dubita sul fatto che il potere punitivo — ancor più dei poteri di rappresentanza, assistenza e tutela —, costituisce l’elemento determinante ai fini dell’individuazione di un’autorità (40). Ed in tal direzione, si potrebbe sostenere che siffatta qualificazione trovi un significativo riconoscimento giuridico nell’attribuzione all’organo amministrativo del potere di escludere i soci (41). In generale, l’esclusione viene disposta dal consiglio di amministrazione (o dalla maggioranza dei soci nelle società di persone) a carico del socio per morosità nei versamenti laddove non sia stata possibile la vendita coatta delle quote o delle azioni, o per il venir meno dei requisiti di ammissione alla medesima società, o ancora per l’intervenuto fallimento o per la liquidazione della sua quota ad opera dei creditori (esclusione di diritto); ovvero per l’assunzione di comportamenti pregiudizievoli per l’attuazione dei fini sociali e comunque per violazione delle norme statutarie, nonché laddove venga dichiarato interdetto o inabilitato. Il riconoscimento di siffatto potere, in chiave di legittimazione di un’autorità, implica che l’esclusione del socio abbia la natura di pena privata (42). (40) Per tutti, VITTA, voce Autorità, cit., 1564. Peraltro, a differenza che nei rapporti di famiglia, non possono questa volta assumere un valore determinante i poteri rappresentativi pur esistenti in capo agli amministratori e, a seconda del tipo di società, in capo ai soci. Infatti, il potere di rappresentanza in questione costituisce lo strumento indispensabile per il funzionamento dell’ente giuridico. (41) Tale potere trova la sua legittimazione nel codice civile e precisamente: negli artt. 2286 e 2288 per la società semplice; negli artt. 2293 e 2301 per la società in nome collettivo; nell’art. 2320 per l’accomandita semplice; nell’art. 2344 per la società per azioni; nell’art. 2477 per la società a responsabilità limitata; negli artt. 2527, 2529 e 2530 per la società cooperativa. Al riguardo, PERRINO, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997; WEIGMANN, Il procedimento di esclusione del socio nelle società di persone: profili di incostituzionalità, in Giur. comm., 1996, I, 539 s. In giurisprudenza, v. Cass., 26 marzo 1996, in Giur. comm., 1996, II, 736, con nota di COLELLI. (42) In argomento cfr. BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994,
— 544 — Tale impostazione non è però condivisibile per svariate e fondate ragioni. Pur distinguendo fra condizioni che determinano un grave inadempimento alle obbligazioni legali o contrattuali (43), condizioni che inerendo alle qualità personali del socio rendono incompatibile o privo di causa il mantenimento del rapporto (44) e, infine, condizioni che producono l’impossibilità per il socio di eseguire i conferimenti promessi (45), non si riscontra alcuna traccia di un potere punitivo. All’inverso, si è in presenza di forme di autotutela dell’interesse sociale a fronte di situazioni che, verificatesi nell’economia del socio, possono rendere dannosa o svantaggiosa per la società la prosecuzione del rapporto. In alcuni casi, peraltro, si potrà trattare di reazioni a tutela del credito e quindi di forme peculiari di risoluzione di quei contratti fondati sulla comunione di scopo per inadempimento dei relativi obblighi (46). Non v’è nulla da punire; piuttosto, la specificità del contratto di società impone la cessazione di un rapporto che, per determinate ragioni, non reggendosi più sull’affectio societatis, appare ormai palesemente incompatibile con l’attuazione dei fini sociali. In quest’ambito va, altresì, inquadrato l’art. 2345 comma 1o c.c., che, nel prevedere la possibilità che lo statuto imponga ai soci prestazioni accessorie diverse dal versamento in denaro, consente che in caso d’inadempimento si possano applicare « particolari sanzioni » tipizzate dallo statuto. Nonostante la lettera della norma possa, prima facie, trarre in inganno, è necessario precisare che non si tratta di un potere punitivo rimesso statutariamente (e quindi legittimato dal contratto e dalla legge) 253 s.; ZOPPINI, La pena contrattuale, Milano, 1991; AA.VV., Dalla pena privata alle sanzioni civili punitive, Pisa, 1986; AA.VV., Le pene private, Milano, 1985; MOSCATI, voce Pena (dir. priv.), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 770 s. Per la dottrina d’oltralpe v. CREMIUX, Réflexions sur la peine privée moderne, in Études off. à Kayser, I, Aix-Marseille, 1979, 261; WIETNAUER, Vereinsstrafe, Vertragsstrafe und Betriebsstrafe, in FS Reinhardt, Köln-Marienburg, 1972; GROSSFELD, Die Privatstrafe, Frankfurt a.M.-Berlin, 1961. (43) Ad esempio, ex art. 2320 c.c. in tema di società in accomandita semplice, l’ingerenza dell’accomandante nell’amministrazione dell’impresa sociale, riservata per legge agli accomandatari, rappresenta un inadempimento alle correlative obbligazioni. Ovvero, in tema di società per azioni, si pensi all’inadempimento dell’obbligo di eseguire i versamenti. (44) È il caso del fallimento del socio, della sua interdizione ovvero della perdita di credibilità personale e patrimoniale di cui in precedenza godeva e che, nella sostanza, aveva costituito oggetto del conferimento. (45) Si pensi al perimento senza colpa del bene da conferire, ovvero alla perdita delle abilità personali del socio d’industria. (46) Così infatti per la vendita coatta delle azioni, la quale si pone come una forma di esecuzione coattiva privata che l’ordinamento consente al creditore, senza che sia necessario rivolgersi all’autorità giudiziaria. Per tal via si offre al creditore — che non è un creditore qualunque ma un’impresa sociale, con esigenze e interessi peculiari —, un rimedio celere ed efficace a fronte della morosità del socio-debitore.
— 545 — agli amministratori a carico dei soci, quanto più semplicemente di rimedi contro l’inadempimento a tutela del credito. Per comprendere l’esatta portata della norma, è opportuno chiarire che la società per azioni si caratterizza per una peculiarità d’organizzazione. Essa infatti appare basata sulla predeterminazione di partecipazioni tipiche — le azioni — le quali, a prescindere da ogni considerazione di tipo personalistico, conferiscono a ciascun socio il medesimo pacchetto di diritti e doveri (art. 2348 c.c.) (47). Gli eventuali ‘elementi personalistici’ sussistenti in capo a taluni soci possono venir presi in considerazione, nell’interesse sociale, per via statutaria. L’art. 2345 c.c., quindi, consente la creazione di azioni con prestazioni accessorie — le quali non vanno ricondotte come detto alla categoria di cui all’art. 2348 c.c. — ed i cui specifici diritti e doveri risultano strettamente legati a qualità personali del socio che, di per sé, non potrebbero rientrare in quelle azioni previste dall’art. 2348 c.c. (48). La prestazione accessoria, che tra l’altro è remunerata, data l’infungibilità del suo oggetto corrisponde ad un interesse rilevante della società. In suo difetto l’impresa sociale patisce un danno le cui componenti non sono facilmente monetizzabili, potendo tradursi persino in una perdita o diminuzione di chances di attuazione dei propri fini istituzionali. Ciò posto, si tratta di una normale obbligazione accessoria assoggettata alla disciplina comune e che richiama le tradizionali reazioni istituzionalizzate contro l’inadempimento. Essendo un inadempimento ad un’obbligazione nascente da un contratto con comunione di scopo, le « particolari sanzioni » potrebbero persino culminare nell’esclusione del socio. Anche per quest’aspetto, dunque, deve escludersi che gli amministratori siano titolari di un potere punitivo che, come è stato puntualizzato, « non trova riscontro nell’esperienza dei gruppi economici » (49). Quanto sin qui detto, tuttavia, non preclude che in condizioni particolari gli amministratori di società possano qualificarsi delle autorità giuridicamente rilevanti; infatti, assumendo la gestione dell’impresa sociale rappresentano il datore di lavoro (50). Essi acquisiscono la titolarità dei (47) ROBIGLIO, Sul raggruppamento delle azioni, in Riv. soc., 1987, 837; JAEGER, Il voto « divergente », Milano, 1976, 74 s. e spec. 86; PORTALE, I conferimenti in natura « atipici » nella società per azioni, Milano, 1974, 30 s. (48) SACCHI, Sulla delega agli amministratori di società a responsabilità limitata della facoltà prevista dall’art. 2441 c.c., in Riv. soc., 1984, 852. Cfr. altresì D’ALESSANDRO, I titoli di partecipazione, Milano, 1968; RIVOLTA, La partecipazione sociale, Milano, 1964; BUONOCORE, Le situazioni soggettive dell’azionista, Napoli, 1960. (49) BIANCA, Diritto civile, V, cit., 237. (50) L’art. 2 lett. b) del d.lgs. n. 626/94 (così come modificato dal d.lgs. n. 242/96) in tema di sicurezza nel lavoro, definisce il ‘datore di lavoro’ come « il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore, o comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva ...
— 546 — relativi poteri, fra cui quello disciplinare nei confronti del personale dipendente. Nell’esercizio della titolarità del rapporto di subordinazione, quindi, gli amministratori ben costituiscono un’autorità ed il fatto da loro commesso, ove connotato da modalità abusive, va senz’altro ricondotto entro la fattispecie di cui all’art. 61, n. 11 c.p. È evidente però che tale condotta abusiva deve realizzarsi nell’esercizio della titolarità del rapporto di subordinazione; e cioè a dire nei confronti dei soggetti passivi di tale relazione: il personale dipendente. Ma nelle vicende sub iudice, non si rientra affatto in quest’ipotesi. Il preteso « abuso d’autorità », infatti, è stato commesso ai danni della minoranza sociale. Nel contesto di ricerca così delineato, l’analisi dei rapporti fra organo amministrativo e assemblea sociale risulta necessario al fine di comprendere se ed in che termini vi sia una posizione di preminenza dell’uno sull’altra, o viceversa. In proposito, è ancor oggi discussa la natura giuridica degli amministratori, ed in particolare del negozio in base al quale prestano la loro opera per la società (51). La dottrina appare inoltre divisa fra coloro che ritengono dotato di competenza generale l’organo amministrativo, il quale assumerebbe per tal verso una posizione di spicco (52); e coloro che, all’opposto, tendono ad attribuire maggior peso all’assemblea dei soci (53). Se, secondo gli uni, la competenza esclusiva degli amministratori, inavoin quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa ». Al riguardo, AA.VV., Le innovazioni legislative in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Bari, 1997; CULOTTA, Il nuovo sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e le responsabilità penali in caso di attività date in appalto, in questa Rivista, 1996, 957. (51) Abbandonata la tesi della subordinazione — sulla quale v. MONTUSCHI, Socio, amministratore di società e rapporto di lavoro subordinato, in Dir. econ., 1963, 501 s. — ai sostenitori della tesi del contratto di mandato si è obiettato che questo vincolerebbe il mandatario al mandante in termini incompatibili con l’autonomia gestionale che è invece caratteristica dell’organo di amministrazione; sul punto vedi BONELLI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985. Autorevole dottrina ha avanzato la tesi del contratto di amministrazione, in cui l’attività giuridica non sarebbe inquadrabile né in seno al mandato né in seno al contratto di lavoro subordinato, così MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956. Altri, invece, facendo leva sulla peculiarità dei tratti di disciplina legale e sulla terminologia adottata dal codice — « ufficio », « carica » — optano per la qualifica di funzionari privati dell’ente, così FERRARA jr.-CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, 504. Altri ancora, più in radice negando il presupposto di fondo degli orientamenti esposti — in base al quale conviverebbero due contratti separati, quello di società cui sarebbero estranei gli amministratori e quello che li legherebbe alla società —, sostengono che in realtà la nomina degli amministratori sarebbe mera esecuzione del contratto di società, non essendo pertanto necessario far ricorso ad un secondo negozio giuridico, così GALGANO, Diritto civile e commerciale, III, t. 2o, Padova, 1990, 225. (52) Così BORGIOLI, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982, 38. Vedi pure GALGANO, Diritto civile e commerciale, cit., 215 s.; ID., Degli amministratori di società personali, Padova, 1963, 138, 158. (53) FERRARA jr.-CORSI, Gli imprenditori e le società, cit., 451 s., 505 s.; CALANDRA
— 547 — cabile dall’assemblea, si giustificherebbe proprio sulla sussistenza del principio di autorità (54); secondo gli altri, invece, tale principio sarebbe escluso dalla generale revocabilità degli amministratori da parte dell’assemblea, dovendosi piuttosto affermare un fenomeno di delega di poteri decisionali (55). Entrambe le teoriche, nondimeno, posseggono un nucleo di verità. In effetti, un’analisi dell’assetto dei rapporti fra i due organi societari che si mantenga scevra da aprioristiche prese di posizione, rivela piuttosto un complicato intreccio di poteri e responsabilità reciproche che si bilanciano l’un l’altra. Ed infatti, se è vero che l’assemblea nomina e revoca gli amministratori (56), determinandone altresì il compenso, e se è vero che delibera su temi di estrema importanza (quali bilancio, modificazioni statutarie e fusioni o trasformazioni, aumenti e riduzioni di capitale, emissione di obbligazioni e non emissione di titoli azionari, etc.); è anche vero che l’unico gestore dell’impresa sociale è l’organo di amministrazione, il quale non è vincolabile in tal ambito dall’assemblea (57), assommando piuttosto poteri di propulsione dell’attività dell’assemblea e poteri di decisione ed esecuzione. In compenso, costoro sono direttamente responsabili verso la società, verso i singoli soci e verso i terzi (58). Il riparto di competenze sembra escludere una posizione di supremazia e quindi di autorità, dell’uno verso l’altro (59). Sicché pare a dir poco BUONAURA, Gestione dell’impresa e competenze dell’assemblea, Milano, 1985; ABBADESSA, La gestione dell’impresa nella società per azioni, Milano, 1975. (54) Peraltro in quest’impostazione, il principio d’autorità attribuirebbe una posizione di preminenza all’organo collegiale e solo di riflesso agli amministratori uti singuli; il che giustificherebbe la formale sottoposizione del singolo consigliere ai poteri direttivi del collegio. (55) Cfr. BIANCA, Le autorità private, cit., 26 s. Di recente, CALANDRA BUONAURA, Potere di gestione e potere di rappresentanza degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, IV, Torino, 1991, 235 s. (56) In ciò senza essere tenuta a motivare la revoca, salvo il diritto al risarcimento del danno subito dal revocato, laddove si accerti in giudizio l’assenza di giusta causa, cfr. Trib. Torino, 6 ottobre 1980, in Giur. comm., 1981, II, 635. (57) Invero, solo per quel che concerne le associazioni sembra doversi ammettere, in capo all’assemblea, un penetrante potere di indirizzo e programmazione dell’attività degli amministratori. All’inverso, in tema di società di capitali, all’assemblea si riconoscono poteri di indirizzo solo su questioni di carattere generale, giammai sui singoli affari o atti di gestione, cfr. FERRI G., Le società, Torino, 1971, 412 s.; MINERVINI, Gli amministratori, cit., 222 s. (58) Al riguardo, BONELLI, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Milano, 1992; ALLEGRI, Contributo allo studio della responsabilità civile degli amministratori, Milano, 1979; WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974. (59) Né d’altronde l’assemblea risulta depositaria di poteri disciplinari nei confronti degli amministratori. Infatti, il potere di vigilanza e controllo che l’assemblea ed il collegio
— 548 — arbitrario, dopo aver escluso la sussistenza di qualsivoglia potere punitivo degli amministratori nei confronti dei soci, dover dedurre la sussistenza di una posizione di preminenza giuridica sulla base dei soli poteri di gestione dell’impresa sociale. La conclusione non muta neppure facendo leva sull’esistenza di un fenomeno di controllo fra società (60). Ebbene, se in teoria l’influenza dominante che la controllante può esercitare sulla controllata vale a porre la prima in posizione di preminenza nei confronti della seconda (61), è pur vero che questa posizione si esplica nell’ambito di un contesto di gestione imprenditoriale, la quale risponde e si attua sempre in virtù dei poteri direttivi formalizzati dalla legge in capo agli organi sociali. La base di disciplina normativa che delinea il contenuto dei poteri di gestione non appare sostanzialmente differente; e sicuramente — ciò che più conta — il contesto del gruppo non genera poteri di disciplina e sanzione nei confronti delle controllate e dei rispettivi membri. Variano le dimensioni quantitative e qualitative dell’impresa sociale che, a fronte di una pluralità di società diventa economicamente unitaria (62), e ciò inevitabilmente si riflette, per un verso, sulle dimensioni dell’« interesse sociale », determinato con riferimento al gruppo (63) e, per altro verso, sull’esindacale esercitano sugli amministratori non giunge a configurare la complessa fattispecie della titolarità della subordinazione; sul punto per tutti, MINERVINI, Gli amministratori, cit., 69 s. Peraltro, sia la revoca dell’amministratore sia il meccanismo di cui all’art. 2392 c.c., si pongono come rimedi contrattuali atti a far valere una peculiare forma di responsabilità per inadempimento agli obblighi ed ai doveri che delineano lo statuto giuridico dell’amministratore. (60) Impossibile citare tutta la letteratura sull’argomento. Per i profili penalistici, sia consentito il limitato rinvio a PEDRAZZI, Dal diritto penale delle società al diritto penale dei gruppi: un difficile percorso, in AA.VV., I gruppi di società, (Atti del Convegno int. di Venezia, 16-18 novembre 1995), III, Milano, 1996, 1775 s.; CONTI, Responsabilità penale degli amministratori e politiche di gruppo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 454 s.; MILITELLO, Gruppi di società e diritto penale nell’esperienza francese, in Riv. soc., 1989, 729 s.; FLICK, Gruppi e monopolio nelle nuove prospettive del diritto penale, ivi, 1988, 471 s.; PEDRAZZI, Gruppo di imprese e responsabilità penale, in AA.VV., Disciplina giuridica del gruppo di imprese. Esperienze e proposte, Milano, 1982, 157 s. Per una visione d’insieme delle problematiche emergenti, oltre al citato AA.VV., I gruppi di società, 3 voll., Milano, 1996, si veda JAEGER, Considerazioni parasistematiche sui controlli e sui gruppi, in Giur. comm., 1994, I, 476 s.; PAVONE LA ROSA, Le società controllate. I gruppi, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, II, t. 2o, Torino, 1991, 596 s. (61) Tant’è che in dottrina — in una prospettiva de lege ferenda — tale problema viene affrontato auspicando la previsione ad hoc di un riferimento all’« abuso del potere di direzione unitaria » in seno alla generale tematica dell’infedeltà patrimoniale. Per tutti, FOFFANI, Infedeltà patrimoniale, cit., 387-88. (62) Per tutti, GALGANO, L’oggetto della holding è dunque, l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, in Contr. e impresa, 1990, 401 s. (63) SPADA, L’amministrazione della società per azioni tra interesse sociale e interesse di gruppo, in Riv. dir. civ., 1989, I, 243 s.; MIGNOLI, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in Contr. e impresa, 1986, 729 s.
— 549 — sercizio imprenditoriale, attuato attraverso la « direzione unitaria » del gruppo (64). Alla luce del dato positivo, in definitiva, non emerge nulla che possa dar adito alla qualificazione dell’amministratore di una società di capitali in termini di autorità. Lo statuto giuridico che l’ordinamento delinea è in tal senso incompatibile, salvo il caso in cui questi venga in considerazione quale titolare del rapporto di subordinazione nei confronti dei dipendenti. D’altra parte ed al di là del dato formale di disciplina, non sussiste neppure la ratio sostanziale che si è visto presiedere all’attribuzione di una situazione giuridica di preminenza soggettiva. 7. (Segue): il direttore generale. — Nei fatti la distinzione fra i direttori generali e gli amministratori non è sempre agevole, anche perché — specie nella grande impresa — le due cariche talvolta si cumulano (65). Inoltre, le mansioni di ‘alta gestione’ di cui sono affidatari, comportano la titolarità di poteri dai contenuti non indifferenti. Tali considerazioni, quindi, suggeriscono di affrontare brevemente il tema dell’autorità anche in relazione al direttore generale. Il direttore generale è un dipendente della società. Giuridicamente sembra assimilabile alla figura dell’institore ed è sottoposto alle direttive del consiglio di amministrazione, cui è dunque funzionalmente subordinato: ciò già esclude che i direttori generali possano avere poteri punitivi. Alle volte possono svolgere ruoli di iniziativa ed indagine nei procedimenti disciplinari a carico del personale dipendente; ma le relative sanzioni, ed in particolare il licenziamento, vengono sempre imputati al consiglio di amministrazione: sono quindi privi di alcuna autonomia decisionale. Né, tantomeno, può riconoscersi loro un generale potere rappresentativo verso i terzi. La prevalente dottrina infatti lo esclude — salvo il caso di cui tra poco si dirà —, giacché di norma siffatto potere spetta agli amministratori (o ad uno di essi), essendo affidato ai direttori il compito di ‘direzione interna’ (66). Di fatto, però, può accadere che l’elevata competenza e professionalità manifestata dal direttore generale finisca col fargli assumere una posizione di spicco, alle volte superiore a quella dei consiglieri di amministrazione. Tuttavia, occorre precisare che si tratta di mero (64) HOMMELHOFF, Società holding e direzione del gruppo, in AA.VV., I gruppi di società, cit., II, 1407 s.; BORGIOLI, Direzione unitaria e responsabilità, in Riv. soc., 1982, 41 s. (65) SALAFIA, Il direttore generale e il direttore amministrativo. Funzioni e ruolo, in Società, 1997, 625 s.; ABBADESSA, Il direttore generale, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, IV, Torino, 1991, 463 s.; BORGIOLI, I direttori generali di società per azioni, Milano, 1975. (66) GALGANO, Diritto civile e commerciale, cit., 235 s.
— 550 — prestigio, il quale, pur potendo influire sulle strategie imprenditoriali, rileva in via puramente fattuale e non giuridica. Soltanto nell’ipotesi in cui vengano nominati dall’assemblea, ovvero dal consiglio ma su indicazione statutaria, i direttori generali assumono una posizione di formale autonomia decisionale, paragonabile a quella di un amministratore delegato, e per la quale ex art. 2396 c.c. rispondono — al pari di quest’ultimo — verso la società, verso i singoli soci e verso i terzi. In tale evenienza non ricorre certamente un rapporto di subordinazione. Pur tuttavia, le medesime ragioni che ostano alla qualificazione di autorità privata in capo agli amministratori, si impongono anche in questa sede ed escludono quindi la sussistenza di un’« autorità » formale. 8. (Segue): la maggioranza sociale. — Avendo già escluso che l’organo esecutivo e quello assembleare rivestano una posizione di inequivocabile supremazia in seno alla società, risulterebbe logico negare la qualificazione di « autorità » ai soci (seppur) di maggioranza. Tale soluzione tuttavia più che discendere da mere ragioni di simmetria, trova fondamento nella disciplina normativa. Innanzi tutto è doverosa una precisazione di fondo. Preme ribadire che nonostante la tesi giurisprudenziale si esprima in termini di « abuso di maggioranza sociale », il diritto delle società non conosce affatto una simile nozione. A livello di disciplina positiva cioè non esiste alcun divieto di abuso, sia da parte del singolo socio sia da parte della maggioranza sociale (67). Il codice civile, infatti, incentra la disciplina sulla singola posizione (67) Diversa è invece la disciplina francese, la quale, agli artt. 425, n. 5 (per le società a responsabilità limitata) e 437, n. 4 (per le società anonime ed in accomandita semplice) della legge n. 66-537 del 24 luglio 1996 — che non immuta, per quest’aspetto, la vecchia disciplina —, prevede l’apposita fattispecie dell’abuso dei poteri sociali. La norma s’incentra sull’abuso funzionale delle situazioni soggettive attive inerenti alle posizioni di vertice assunte in seno all’impresa sociale. Il che consente di reprimere sia l’abuso dell’insieme dei poteri di gestione che la legge e gli statuti conferiscono al management aziendale, sia l’abuso del voto di cui tali soggetti siano titolari. In proposito, cfr. LARGUIER, Droit pénal des affaires, Paris, 1992, 307 s.; DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, II, Paris, 1990, 286 s. Il vuoto legislativo che, sul punto, caratterizza la disciplina italiana, parrebbe aver trovato una risposta nel recente schema di legge delega per l’elaborazione di un nuovo codice penale (pubblicato in Documenti Giustizia, 1992, 335 s.). In particolare, all’art. 112, n. 2, si prevede l’introduzione di una fattispecie di infedeltà patrimoniale, la quale — per quel che concerne i profili che qui rilevano — viene configurata sull’abuso dei poteri o sulla violazione dei doveri inerenti le funzioni esercitate nell’impresa. A prescindere dalle obiezioni di indeterminatezza che simile modello presenterebbe — sulle quali v. FOFFANI, L’infedeltà patrimoniale, cit., 307 —, non può non osservarsi che essa pare in grado di coprire quei medesimi fatti per i quali la giurisprudenza penale ricorre agli artt. 61, n. 11 e 646 c.p. Invero, il nucleo dell’incriminazione risiede, per un verso — ed analogamente alla normativa francese —, nell’esercizio abusivo della vasta gamma di poteri che l’ordinamento societario riconnette
— 551 — del socio. Anche perché, ‘maggioranza’ e ‘minoranza’ sono delle figure di sintesi, la cui valenza è meramente descrittiva di un complesso di realtà individuali. A ben vedere, la ‘maggioranza’ non è che una somma di voti, la quale si forma in assemblea al momento della deliberazione e rivela una natura precaria e contingente. Vero è che vi è sempre una maggioranza ed una minoranza, ma ancor più vero è che la relativa composizione sociale è sovente instabile. Ciò per la considerazione sin quasi banale che le concentrazioni, maggioritarie o minoritarie che siano, sono il frutto di contrattazioni e accordi fra gruppi di interesse e come tali posseggono una stabilità minima, legata a piattaforme economico-finanziarie mutevoli (68). In questo senso — l’unico che in verità possa avere un ‘senso’ per il diritto — se ne coglie l’essenza di strumento operativo indispensabile per il funzionamento dell’ente giuridico. ‘Maggioranza’ e ‘minoranza’ null’altro sono che dei « criteri regolativi » che concretizzano, in ossequio al ai titolari delle qualifiche aziendali; per altro verso, nella verificazione dell’evento di danno, quale prodotto causale dell’abusiva gestione. Appare, quindi, evidente che la fattispecie in progetto assorbirebbe interamente i fatti di appropriazione indebita aggravata dall’abuso dei poteri riconnessi alla qualifica dell’agente: non sussisterebbe più alcuno spazio per l’applicazione dell’art. 61, n. 11 c.p. e, per tal via, cesserebbero le problematiche connesse all’uso di quest’aggravante nei rapporti societari. Il vuoto normativo permane nonostante il recente decreto Eurosim (D.lgs. n. 415/1996) abbia introdotto (art. 38) una fattispecie di ‘gestione infedele’: essa, oltre ad essere genericamente incentrata sul conflitto di interessi, è limitata alla gestione « di portafogli di investimento », non assumendo pertanto una portata paragonabile all’Untreue di cui al § 266 del cod. pen. tedesco. Al riguardo v. ZANOTTI, La tutela penale del mercato finanziario, Torino, 1997, 79 s. (68) Tant’è che i sindacati di voto nascono proprio al fine di assicurare che su determinate questioni, i voti, in ipotesi liberi, si compattino in un’unica direzione. Il sindacato di voto, per l’appunto, trova la sua ragion d’essere nell’indiscussa libertà che caratterizza ogni singolo socio nella gestione della sua quota, in primis all’atto del voto. Tale patto serve dunque a realizzare una maggioranza su alcuni specifici affari sociali; ciò sino al punto da determinare al momento del voto una maggioranza esclusivamente assembleare che tuttavia è, in rapporto all’intero capitale sociale, al contempo stesso una minoranza. Anche alla luce di quest’ultima considerazione, infelice appare il pensiero espresso da Cass., 30 settembre 1996, n. 1885 — « nulla osta concettualmente a che possa parlarsi di rapporti di autorità anche fra maggioranze e minoranze societarie » — per le mirabilia cui conduce: una minoranza sociale, che in quanto tale potrebbe non avere alcun peso nel consiglio di amministrazione e quindi nella gestione dell’impresa, nel momento in cui si affermi quale maggioranza assembleare potrebbe assurgere al rango di « autorità »! Non sembra che tutto ciò rispecchi la logica giuridica, né le relazioni di potere che si instaurano nelle dinamiche societarie. Sui sindacati di voto, RESCIO, I sindacati di voto, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, III, t. 2o, Torino, 1994, 485 s.; COTTINO, Le convenzioni di voto nelle società commerciali, Milano, 1958. Per la giurisprudenza v. Cass., 23 aprile 1975, in Giur. comm., 1975, II, 575; Cass., Sez. un. civ., 24 luglio 1962, in Foro it., 1962, I, 1888. Più di recente, Cass., 20 settembre 1995, in Giur. comm., 1997, II, 50 s., con osservazioni di BUONOCORE, CALANDRA BUONAURA, CORSI, COSTI, GAMBINO, JAEGER.
— 552 — principio democratico, la volontà dell’ente (69). Il principio maggioritario è, in altre parole, un criterio di determinazione di preferenze, siano esse assiologiche, economiche o politiche. Anche in una visione prettamente teoretica, l’opinione della maggioranza — depurata ormai dalla sapientia che informava l’éndoxon aristotelico — può trovare una legittimazione solo quale criterio regolativo dell’agire umano, non avendo più — dopo Locke — alcuna pretesa euristica. Ma quel che rileva in questa sede è che ‘maggioranza’ e ‘minoranza’ non sono delle « soggettività » rilevanti, né per il diritto commerciale né per il diritto penale. A tal ultimo proposito, una riprova può trarsi dall’art. 2630, co. 1o, n. 3 c.c., che reprime l’illecita influenza degli amministratori nella formazione della maggioranza assembleare. Infatti, tanto che si acceda alla tesi che ne individua la ratio nella tutela di un mero procedimento basato sul principio maggioritario (70); tanto che si acceda alla tesi che ne coglie la ratio nell’effettiva formazione di una maggioranza che, altrimenti, senza quell’influenza non si sarebbe formata (71), rimane l’indiscutibile constatazione che il legislatore, ponendo l’accento sul criterio maggioritario, ha voluto mirare alla salvaguardia dell’interesse sociale al corretto funzionamento degli organi. Alla luce di queste necessarie precisazioni, dovrebbe esser chiaro che il diritto delle società concentra ed istituzionalizza esclusivamente nel voto l’estrinsecazione dei diritti e dei poteri che si riconnettono alla qualità di socio. Pertanto, « abuso di maggioranza » non può che voler dire « abuso della regola di maggioranza » (72). Eppure la giurisprudenza penale in esame, con un disinvolto fraintendimento concettuale, trasforma (l’abuso di) una « regola » in un qualcosa di profondamente diverso, e cioè in (abuso di) una « soggettività ». (69) Sui rapporti fra « principio di maggioranza » e democrazia vedi CABIDDU, Maggioranza, cit., passim; PIZZORUSSO, Minoranze e maggioranze, cit., passim; GIERKE, Sulla storia del principio di maggioranza, in Riv. soc., 1961, 1118 s. (70) In questa direzione è orientata la dottrina prevalente, v. CONTI, Diritto penale commerciale, I, Torino, 1980, 370 s.; PROSDOCIMI, In tema di illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare: l’oggetto della tutela, in questa Rivista, 1977, 600 ss.; STELLA, Elementi costitutivi del delitto di illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare, in Arch. pen., 1960, II, 129 s.; PEDRAZZI, Osservazioni a Cass., 21 febbraio 1958, in questa Rivista, 1958, 1289. (71) MUSCO, La società per azioni nella disciplina penalistica, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, IX, Torino, 1994, 320. (72) Vedi PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, III, t. 1o, Torino, 1993, 3 s.; ID., L’« abuso » della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992; ANGELICI, Rapporti sociali e regole di correttezza, in Giur. comm., 1992, I, 1013 s.; CASSOTTANA, L’abuso di potere a danno della minoranza assembleare, Milano, 1991; GAMBINO, Il principio di correttezza nell’assemblea delle società per azioni, Milano, 1987.
— 553 — Ma anche da quest’ultimo angolo la visuale non muta affatto. Vero è che il titolare del pacchetto di maggioranza finisce di fatto col gestire l’impresa comune: esprime gli amministratori e può quindi determinare le strategie imprenditoriali. Ciò nondimeno, è anche vero che, per un verso, i diritti individuali del singolo socio — pur essendone controverso il contenuto — rappresentano uno zoccolo intangibile anche per la maggioranza; per altro verso, occorre ricordare come al potere di fatto della maggioranza sociale si opponga quale limite legale l’interesse sociale. Quest’ultimo, nel suo ‘contenuto minimo’ — sia che si accolgano le teorie « istituzionaliste » che quelle « contrattualiste » (73) — pone un limite assoluto al potere di gestione, che risulta per tal modo vincolato nelle sue scelte d’azione. Il codice civile, all’art. 2348 co. 1o, disciplina la singola posizione del socio, conferendo a ciascuno i medesimi diritti ed i medesimi obblighi (74). Del resto, non potrebbe esser diversamente perché se è vero che il contratto sociale rientra nell’ambito del più generale principio dell’autonomia negoziale, è ancor più vero che tale libertà trova gli insuperabili limiti nel rispetto delle posizioni di parità ed uguaglianza reciproca iniziali, ex artt. 2 e 3 Cost. In proposito, non sembrano sussistere più dubbi sulla vigenza, nel sistema societario, del principio alla parità di trattamento dei soci, intesa sia come diritto alla « proporzionalità » nella modifica dei diritti relativi alle azioni di tipo cumulabile, sia come diritto all’« impersonalità » nella modifica di quelle posizioni per le quali la proporzionalità non può trovare spazio (75). (73) Per un’analisi delle teorie ‘contrattualiste’ e ‘istituzionaliste’ dell’« interesse sociale », si rinvia a JAEGER, L’interesse sociale, Milano, 1963; nonché più da recente, PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi, cit., 7 s. (74) La visione solipsistica informa, entro certi limiti, anche la positivizzazione dei « poteri della minoranza sociale ». Questi per l’appunto sono egalitariamente garantiti e riconnessi alla titolarità della posizione di socio e la loro indisponibilità si giustifica nella ratio di tutela dei singoli soci. Tuttavia, l’interesse all’efficienza dell’impresa postula che l’esercizio di alcuni poteri di controllo e denuncia sia attivabile non più dal singolo bensì da determinate frazioni del capitale, ciò al fine di evitare possibili abusi, questa volta, da parte della minoranza. (75) Il diritto alla ‘parità di trattamento’ delle azioni viene tratto in dottrina da diverse prospettive. In particolare, alcuni lo desumono dal carattere comunitario della società, così RESCIGNO, Il principio di eguaglianza in diritto privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 351 s.; altri lo ricavano dalla norma generale di cui all’art. 2348 c.c., così D’ALESSANDRO, La Seconda direttiva e la parità di trattamento degli azionisti, in Riv. soc., 1987, 3 s.; altri ancora pongono l’accento sulla logica egalitaria del contratto, in tal senso OPPO, Eguaglianza e contratto nella società per azioni, in Riv. dir. civ., 1974, 651 s. Infine, non manca chi ricava il principio in parola dalla necessità, interna alla struttura organizzativa della società, per cui rispetto ad ogni decisione assunta dai soci la soddisfazione dell’interesse dell’uno sia strumentale a quella dell’altro. Peraltro, occorre puntualizzare che la previsione di cui al comma 2o dell’art. 2348 c.c., pur consentendo la creazione di categorie di azioni con diritti diversi, non si pone in antitesi
— 554 — D’altra parte, se di ‘abuso’ si parla in proposito al socio, lo si fa con riferimento all’esercizio del voto ed in particolare alla violazione della regola di maggioranza. Pur controvertendosi sia sul fondamento giuridico della correlativa responsabilità civile (76), sia sull’ammissibilità e sulla titolarità di un’azione di risarcimento danni (77), sia infine sulle specifiche sorti della deliberazione (78), non v’è dubbio alcuno sul fatto che il punto focale della questione è — e rimane — sempre circoscritto fra i due poli del « voto » e dell’« interesse sociale ». Quel che appare decisivo, quindi, è che il problema dell’abuso (della regola) di maggioranza trova la sua soluzione nei rimedi legali previsti a tutela della società. L’improprietà del ricorso all’abuso di maggioranza da parte dell’orientamento giurisprudenziale di cui si discute non è limitato al terreno della dogmatica, trovando l’ennesima riprova anche sul piano della prassi. Al riguardo, un rapido confronto condotto, da un lato, fra i casi che danno luogo ad abuso della regola di maggioranza — e per i quali sarebbe stata quantomeno plausibile la terminologia adottata dai giudici penali — e, dall’altro, fra i casi per i quali si è pervenuti all’applicazione dell’« abuso d’autorità » di cui al n. 11 dell’art. 61 c.p., denota una significativa disomogeneità. In particolare, la casistica emergente dal diritto commerciale segnala come l’abuso della regola di maggioranza si leghi a fenomeni di conflitto di interessi in cui è predominante la violazione del principio di parità: a) operazioni sul capitale, quali aumenti e riduzioni, fusioni, leveraged buy-out, acquisto e vendita di azioni proprie; b) deliberazioni relative alcol principio di parità. Com’è stato chiarito, essa rappresenta « una deroga al principio di parità di diritti (Gleichberechtigung) e non certo a quello di parità di trattamento, che deve essere invece rispettato tra le azioni della medesima categoria. Lo stesso art. 2376 c.c. limita le possibilità di deroga alla parità di trattamento nei rapporti tra categorie, alla previa approvazione da parte della maggioranza della categoria pregiudicata », così PREITE, Abuso di maggioranza, cit., 38, in nota 12. Contra, PASETTI, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970, 66 s. (76) È discusso infatti se vada fondato sull’eccesso di potere, sull’illiceità della causa o del motivo ovvero sulla lesione della correttezza e buona fede. Su tale dibattito e per l’analisi delle varie posizioni dottrinali si rinvia a PREITE, Abuso di maggioranza, cit., 45 s., 59 s., 74 s.; nonché a COTTINO, Diritto commerciale, I, t. 2o, Padova, 1987, 437; MAISANO, L’eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari di società per azioni, Milano, 1968. Per la giurisprudenza, fra le tante, cfr. Trib. Milano, 12 settembre 1991, in Società, 1992, 93; Trib. Milano, 13 dicembre 1990, ivi, 1991, 677; Trib. Milano, 14 luglio 1989, ivi, 1990, 315; Cass., 29 maggio 1986, ivi, 1986, 1087. (77) Sia pure da premesse non omogenee, sulla configurabilità di un’azione risarcitoria cfr. MAISANO, L’eccesso di potere, cit., 157; CHIOMENTI, La revoca delle deliberazioni assembleari, Milano, 1969, 202; ASCARELLI, Interesse sociale ed interesse comune nel voto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 1165 s. (78) Prevalente è la tesi dell’invalidità, fra i tanti v. FERRI G., Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. dir. comm., 1963, I, 412 s.; ASQUINI, I battelli del Reno, in Riv. soc., 1959, 629 s. Contra CHIOMENTI, La revoca, cit., 211.
— 555 — l’organizzazione interna ed alla gestione della società, quali mancata distribuzione di dividendi, prestiti e garanzie ai soci o a società controllate, deliberazioni assunte col voto decisivo di soci in conflitto d’interesse ovvero assunte per mezzo di sindacati di voto, deliberazioni di cessazione della quotazione in borsa o finalizzate a provocarne l’esclusione; c) deliberazioni in tema di amministratori, quali revoche o compensi; d) deliberazioni in materia di scioglimento; e) deliberazioni abusive; f) particolari tattiche avverso scalate societarie; g) clausole di gradimento e di prelazione (79). Questo gruppo di ipotesi circoscrive l’ambito in cui è concettualmente ammissibile un discorso sull’« abuso di maggioranza ». Pertanto, un’operazione ermeneutica volta all’applicazione a tali fatti della circostanza dell’« abuso d’autorità » — nel concorso delle ulteriori condizioni previste affinché si dia luogo a responsabilità penale —, avrebbe avuto senz’altro migliore sorte. Infatti, avrebbe potuto, a monte, far leva su un’indiscutibile base dogmatica: la corretta individuazione di un fenomeno giuridico di « abuso di maggioranza ». Per cui, il grado di tollerabilità di un’interpretazione finalizzata, sul terreno penale, ad una qualificazione in termini di « abuso d’autorità » sarebbe stato decisamente maggiore anche se non del tutto condivisibile (80). Comunque sia, permane il fatto che tale aggravante è stata applicata a tutt’altro genere di casi, molto più banali se si vuole: la prassi penale è per l’appunto interamente dominata da appropriazioni indebite commesse ai danni del patrimonio sociale da parte di amministratori e soci. E tali condotte, all’evidenza, non sono riconducibili neppure in via sistematica alla complessa fattispecie dell’« abuso di maggioranza ». Fuori luogo e privo di giustificazione appare dunque il tentativo di assimilazione fra le due categorie di ‘fatti’. Ed invero, analizzando il relativo procedimento ermeneutico emerge una struttura argomentativa caratterizzata da carenze ed ingenuità. Simile constatazione — in aggiunta alle improprietà ed alle sviste concettuali cui la tesi va incontro nell’individua(79) Per un’analisi dettagliata, cfr. PREITE, Abuso di maggioranza, cit., 148 s. Per i profili di illiceità penale delle condotte elencate, v. MUSCO, La disciplina penalistica, cit., passim. (80) Le uniche remore, invero difficilmente superabili, si sarebbero appuntate sul processo di « soggettivizzazione » della regola di maggioranza cui, nell’applicazione alle ipotesi elencate della circostanza dell’« abuso d’autorità », l’eventuale proposta andrebbe incontro. Un’operazione ermeneutica che mirasse a trasformare un « criterio regolativo » (la maggioranza sociale) in una « soggettività giuridica », finirebbe col farsi carico di un tasso di artificialità così elevato che il costo da pagare, in termini di razionalità, sarebbe senz’altro inammissibile. Infatti, l’ermeneutica perderebbe il contatto con la realtà fenomenica delle cose, laddove la dogmatica scadrebbe a mero dogmatismo. Su tal ultimo aspetto vedi PETTOELLO MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica. 1961-1983 Contro dogmi ed empirismi, Milano, 1983, 91 s.
— 556 — zione delle categorie dogmatiche — rende la soluzione così elaborata non integrabile in seno al sistema giuridico. Infatti, un progetto di soluzione che venga argomentato da ‘punti di vista extrasistematici’, i quali, oltre ad essere privi di reale legittimazione nel campo d’emersione non trovano adeguato supporto logico-dogmatico, finiscono col generare una « condizione oggettiva d’incertezza », con la quale il giudice — chiamato a decidere in futuro su casi analoghi — dovrà purtroppo fare i conti (81). 9. Le ipotesi di cui all’art. 61, n. 11 c.p. fra « comunità domestica » e « comunità di lavoro ». — L’assenza di ogni consapevolezza concettuale che l’orientamento giurisprudenziale denota circa le problematiche coinvolte, ha quale suo ulteriore effetto quello di stravolgere la razionalità complessiva dell’art. 61, n. 11 c.p. e di comprimere l’ambito di operatività delle altre figure limitrofe all’« abuso d’autorità ». Una corretta metodologia esegetica piuttosto impone che, nell’analisi di una norma, gli elementi che ne compongono la struttura vengano indagati non già isolatamente, bensì nella loro interazione reciproca: ciascuno di essi, invero, contribuisce a chiarire il senso e la dimensione reale degli altri (82). Nel qual caso, non può interpretarsi l’aggravante in parola se non chiarendo, da un lato, il rapporto fra « autorità » ed « abuso » e, dall’altro, il rapporto con le altre circostanze che convivono nella medesima disposizione. Cominciando da quest’ultimo punto, v’è da dire che già l’analisi letterale del testo della norma sembra poter fornire significativi ‘lumi’ all’interprete. Invero, è da premettere che in seno alla medesima disposizione il codice menziona più ipotesi fra loro concettualmente distinte ed autonome (83), ma contrassegnate dall’abuso: oltre all’autorità, le relazioni (81) Sull’Entscheidigung unter Unsicherheit v. STEGMÜLLER, Probleme und Resultate der Wissenschaftstheorie und analytischen Philosophie, I, Berlin-Heidelberg-New York, 1969, 389 s. (82) Ciò vale a fortiori nelle ipotesi, come quella dell’art. 61, n. 11 c.p., in cui i lavori preparatori non forniscono all’interprete alcun ausilio. Vedi Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, t. 1o, Atti della Commissione ministeriale incaricata di dare un parere sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, Relazione introduttiva di S.E. Appiani, Roma, 1929, 65 s.; Lavori preparatori, cit., IV, t. 2o, Verbali delle sedute della Commissione, 210 s.; Lavori preparatori, cit., V, t. 1o, Relazione sul Libro I del Progetto, 103 s.; Lavori preparatori, cit., III, t. 1o, Osservazioni e proposte sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, Roma, 1928, 467 s. (83) Nessun dubbio pare sussistere sul fatto che il legislatore abbia delineato una circostanza a fattispecie alternative. Quindi, in caso di fatto commesso con abuso di più d’una relazione, e nonostante l’autonomia concettuale e funzionale delle ipotesi codificate nel n. 11 dell’art. 61 c.p., si avrà l’applicazione di un solo aumento di pena. L’aggravio è imputabile indifferentemente all’una o all’altra relazione, mentre il maggior disvalore complessivo del fatto viene pienamente reso, in sede di commisurazione della quantità di pena, dal potere discrezionale del giudice. In tal senso, ROMANO M., Commentario sistematico, cit., 613; MAN-
— 557 — domestiche e quelle d’ufficio, nonché le prestazioni d’opera, di coabitazione e di ospitalità. Orbene, le molteplici circostanze sembrano esposte secondo una sequenza che non è casuale, ma che all’inverso pare sottintendere un ordine sistematico. Da un lato, infatti, v’è a) l’abuso d’autorità o di relazioni domestiche e, dall’altro lato, v’è b) l’abuso delle altre circostanze. Tra gli elementi in a) e quelli in b) si frappone una separazione sintattica: la « virgola » e l’« ovvero », che indiziano per un’omogeneità di contenuto degli elementi collocati entro i due gruppi. Per quel che concerne quelli in a), il termine « domestiche » — oltre il quale c’è la separazione sintattica di cui sopra — pare riferito sia alle « relazioni » sia all’« autorità ». La costruzione della norma, quindi, lascerebbe intendere che si sia avuto come punto di riferimento il complesso dei rapporti di famiglia in cui — nell’ideologia del tempo, e comunque anteriormente alla riforma del ‘75 — v’era un’unica ed indiscussa « autorità »: quella del marito sulla moglie e che, al contempo, era patriarcale sui figli. Conseguenzialmente, la « relazione » andrebbe riferita ai rapporti fra i rimanenti componenti della famiglia, fra coloro che cioè non costituivano per l’appunto un’« autorità ». Il quadro di tutela viene poi completato col separato riferimento alla « coabitazione » od « ospitalità » nella comunità domestica e, oltre questa e quindi nella comunità di lavoro, con la previsione delle « relazioni d’ufficio » e di « prestazione d’opera ». Breve. Le fattispecie di cui al numero 11 dell’art. 61 c.p., denotano un’omogeneità di fondo che consente di pervenire ad una peculiare classificazione: l’« autorità », le « relazioni domestiche », di « ospitalità » e di « coabitazione » possono ricondursi in seno alla comunità domestica; le « relazioni d’ufficio » e le « prestazioni d’opera » vanno ricondotte nell’ambito della comunità di lavoro. Determinante risulta dunque la definizione dei contenuti delle due categorie generali. Per quel che riguarda la prima, può solo accennarsi al fatto che non v’è questione su parenti e affini, se non per quel che riguarda i membri della famiglia di fatto, tradizionalmente ricompresi nella « relazione di coabitazione ». Tuttavia, in conformità alla crescente sensibilizzazione anche giuridica sui rapporti more uxorio, e sulle relazioni nascenti, appare preferibile inquadrare tali situazioni nelle « relazioni domestiche » (84). Ciò posto, non può invece condividersi l’ampia accezione proposta ZINI, Trattato, cit., 224. Per un’analisi della funzione di individuazione della concreta misura
di pena svolta dalle circostanze, vedi DE VERO, Circostanze del reato e commisurazione della pena, Milano, 1983. (84) Contra, MALINVERNI, voce Circostanze del reato, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 85.
— 558 — da autorevole dottrina, la quale ricomprende nella relazione domestica « i concubinari, i servi, i camerieri (anche d’albergo, di nave, d’aeromobile o di vetture-letti), i commessi, gli istitutori, i ripetitori, i medici, ecc. e così pure gli amici di casa » (85). Oltre ad essere socialmente e giuridicamente datata, l’estrema ampiezza dell’interpretazione proposta svuota di ogni significato ed utilità le rimanenti ipotesi codificate. Tralasciando per intuitive ragioni il riferimento a servi e concubinari, si deve precisare che il fatto commesso dagli amici rientra senza difficoltà nelle « relazioni di ospitalità » ovvero, nell’ipotesi di soggiorno stabile e continuativo — sia pur senza alcuna predeterminazione di tempo — nella medesima dimora, nelle « relazioni di coabitazione » (86). Invece, il fatto commesso dalla colf, dal precettore e dal medico si sovrappone all’esistenza attuale di un rapporto di lavoro, sia pur speciale. In realtà, la comunità familiare in tutte queste ipotesi rileva semplicemente come il luogo richiesto per l’adempimento di specifiche obbligazioni. Tale peculiarità, a rigore, non può valere a far considerare « relazioni domestiche » o di « ospitalità » (87) delle prestazioni lavorative. È infatti la natura della prestazione a condurre la colf, il precettore ed il medico nell’abitazione: essa e solo essa — e non certamente un malinteso profilo di ospitalità — è quindi il mezzo che vi consente l’accesso necessario per l’espletamento dell’attività richiesta (88). Appare più aderente ai valori dell’ordinamento ed alla disciplina normativa del rapporto di lavoro, inquadrare tali fattispecie entro la categoria della comunità lavorativa e, per quel che riguarda la specifica aggravante, nell’alveo della « prestazione d’opera » (89). Del resto, quest’ultima ha, per unanime interpretazione, un contenuto molto più ampio della civilistica locazione d’opera, abbracciando « oltre all’ipotesi di un contratto di lavoro, tutti i rapporti giuridici che comportano l’obbligo di un facere » (90). (85) MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., 225-26. (86) In dottrina, NUVOLONE, Coabitazione, convivenza e relazioni domestiche, in Riv. it. dir. pen., 1940, 304. (87) Per tale tesi, v. MALINVERNI, voce Circostanze del reato, cit., 86; Cass., 8 aprile 1954, in Giust. pen., 1954, II, 919. (88) Correttamente quindi Cass., 29 gennaio 1960, in Giust. pen., 1960, II, 773, qualifica il furto commesso dal cameriere d’albergo ai danni di un cliente, aggravato dall’« abuso di prestazione d’opera ». (89) In dottrina, GARAVELLI, Abuso di prestazione d’opera, in Giust. pen., 1976, II, 272 s.; ZUCCALÀ, Truffa, appropriazione indebita ed abuso di prestazione d’opera, in Riv. it. dir. pen., 1951, 454 s.; FOSCHINI, Rapporto giuridico, rapporto di mero fatto e abuso di prestazione d’opera, ivi, 1950, 786; GRANATA, Le operazioni di borsa e l’abuso delle relazioni di prestazione d’opera, in Giust. pen., 1950, II, 508. (90) Cass., 11 dicembre 1995, in Giust. pen., 1996, II, 715. Giurisprudenza pacifica, fra le tante v. Cass., 6 maggio 1988, ivi, 1989, II, 219; Cass., 9 gennaio 1984, ivi, 1985, II, 89; Cass., 31 maggio 1978, ivi, 1979, II, 272. La prestazione può essere esecuzione di un
— 559 — Per quel che concerne la comunità di lavoro, essa deve intendersi in termini tali da racchiudere tutte le attività lavorative che non trovino la loro ‘causa’ nell’adempimento di doveri nascenti dall’ambiente domestico, come sopra inteso. Non è necessario che vi sia l’onerosità dell’attività quale suo elemento indefettibile, potendo piuttosto affermarsi che la sua presenza rappresenti il più comune indice sintomatico della categoria. In realtà, più che nella semplice onerosità della prestazione, l’elemento discriminante va colto nella ‘patrimonialità’ ex art. 1174 c.c.; cioè a dire nella valutabilità economica della prestazione: sia essa soggettiva, in base al valore attribuitole dalle parti; sia essa oggettiva, quale requisito intrinseco obiettivamente accertabile (91). All’interno della categoria in esame è necessario distinguere l’« ufficio » dalla « prestazione d’opera ». Nonostante l’ampia connotazione che la giurisprudenza è venuta attribuendo alla seconda circostanza, il dato forse maggiormente incisivo ai fini di una chiara actio finium regundorum è costituito dalla natura esclusivamente o prevalentemente intellettuale dell’attività svolta in seno all’ufficio. Pertanto, ogni qual volta la prestazione resa denoti in prevalenza caratteri di materialità, appare corretto qualificarla penalmente nella « prestazione d’opera »; all’inverso, in presenza di attività intellettiva si ricade nella « relazione d’ufficio » (92). Il disvalore che giustifica l’aggravamento di pena per le ipotesi previste sotto il numero 11, viene comunemente colto nell’abuso della fiducia o del dovere di lealtà che intercorre fra i soggetti della relazione o della prestazione (93). A ben vedere, si tratta di un rilievo prettamente sociale e non già normativo, giacché nulla autorizza a ritenere tale elemento indefettibilmente presente nelle circostanze in esame (94). Il disvalore del fatto, più che sulla lealtà o sulla fiducia, sembra piuttosto risiedere nell’« abuso » di una situazione che ha reso possibile l’esecuzione di ‘quel’ reato. Il sintomo forse più evidente della tendenza estensiva che contrassequalunque rapporto di lavoro, occasionale o continuativo: Cass., 28 gennaio 1976, in Giust. pen., 1976, II, 675; Cass., 7 marzo 1959, ivi, 1959, II, 1092; gratuito o retribuito: Cass., 5 luglio 1977, in Giust. pen., 1978, II, 93. (91) Pertanto, vanno ad esempio esclusi tutti quei rapporti esecutivi di obblighi familiari. Al riguardo v. BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, 77 s. e spec. 79; GALGANO, Diritto civile e commerciale, cit., II, t. 1o, 5 s. (92) Per il criterio della natura dell’attività, MANZINI, Trattato, cit., 226. (93) Sul ruolo e sulla posizione del « disvalore » in seno alla dogmatica del reato, sia pur da prospettive diverse, v. MORSELLI, Disvalore dell’evento e disvalore della condotta nella teoria del reato, in questa Rivista, 1991, 796 s.; MAZZACUVA, Il disvalore d’evento nell’illecito penale, Milano, 1983. (94) Peraltro, ai fini della sussistenza dell’aggravante, non se ne richiede la prova. Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., Bologna, 1995, 392; MANZINI, Trattato, cit., 223.
— 560 — gna la giurisprudenza penale è rappresentato — come si è avuto modo di accennare in precedenza — dal costante rilievo attribuito alle relazioni di fatto. Invero, tale propensione all’estensione appare influenzata dall’esigenza di non impegnarsi in difficoltose disamine sulla natura giuridica e sulla disciplina di ogni rapporto giuridico che caratterizza il fatto: le problematiche civilistiche ivi sottese vengono, in sede penale, disattese d’un sol colpo affermando che è sufficiente l’esistenza anche di fatto del rapporto giuridico. Prescindendo per adesso da valutazioni critiche sulla portata teorica e pratica di simile opzione interpretativa, occorre chiarire che il problema delle relazioni di fatto può, ove si acceda ad un’impostazione ben nota nella dogmatica civilistica, essere notevolmente ridimensionato. Si vuol far riferimento a quella tesi che, innanzi alle prestazioni rese senza la stipula di alcun previo contratto, depone ugualmente per la configurazione di un rapporto contrattuale a condizione che, però, il significato socialmente tipico della condotta delle parti riveli una relazione di corrispettività (95). Aderendo alla teoria indicata, la ‘fattualità’ delle prestazioni inquadrabili nell’art. 61, n. 11 c.p., si rivela solo apparente. Anch’esse trovano infatti fondamento nel contratto, sicché il relativo titolo di legittimazione risulta ‘formale’ e non già ‘fattuale’. L’adozione dello schema classificatorio proposto sembra possedere quantomeno un vantaggio. Esso in effetti, pur essendo restrittivamente orientato, consente di cogliere appieno la ricchezza di sfumature che, in seno al diritto dei privati, accompagna e caratterizza le diverse prestazioni lavorative. Inoltre, ben si coniuga con una visione dei rapporti fra il diritto penale e le altre branche dell’ordinamento giuridico che, da un canto, rispetti e garantisca la reciproca autonomia concettuale e funzionale, e, dall’altro, riconosca gli inevitabili condizionamenti che si creano nei settori di confine, qual è ad esempio quello dell’impresa. Infine, per quanto concerne gli organi societari, la tesi adottata consente di tener nel debito conto, per un verso, le peculiarità che la partecipazione sociale può assumere a seconda del tipo di società, se di capitali o di persone; per altro verso, a seconda della ricostruzione dogmatica prescelta, si trova sempre una collocazione — fra « relazione d’ufficio » e « prestazione d’opera » — all’attività dell’organo di amministrazione dell’impresa. La razionalità dell’assetto legislativo è stata ben presto sconvolta dalla giurisprudenza penale, la quale sull’onda di non sempre giustificate esigenze repressive ha dilatato il contenuto dell’« autorità » sino a farvi rientrare l’abuso commesso da soci e amministratori di società. Così in un primo tempo, l’« abuso dell’autorità » era correttamente riservato ai rap(95) Cfr. RICCA, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, Milano, 1965; SIEBERT, Faktische Vertragsverhältnisse, Karlsruhe, 1958.
— 561 — porti familiari o di tutela e curatela (96), mentre il fatto degli amministratori veniva ricondotto nella « relazione d’ufficio » (97) o nella « prestazione d’opera » (98). Successivamente, dopo aver sottolineato che il substrato sostanziale dell’abuso di « autorità », di « relazione d’ufficio » e di « prestazione d’opera » sta in un rapporto di fiducia (99), i giudici sonopervenuti all’applicazione dell’« abuso d’autorità » all’amministratore ed al socio (100). 10. Alcune precisazioni sul concetto di « abuso ». — Il concetto di abuso, nonostante venga preso in considerazione dal diritto penale in numerose disposizioni, appare da sempre problematico. Basti, per rendersene conto, sfogliare le rassegne di giurisprudenza o gli studi dottrinali che, a seconda delle figure penalistiche, sono dedicati all’abuso. Non è dunque possibile, per intuitive ragioni, soffermarsi con attenzione nell’approfondimento di un concetto così complesso. Piuttosto, si possono solo indicare — con i limiti di ogni schematizzazione e premettendo che nella quasi totalità dei casi l’abuso è normativamente riferito al potere, alla funzione, all’ufficio, alla qualità (rarissimamente all’autorità) — almeno quattro significati con cui è preso in considerazione dal diritto penale: a) usurpazione di un diritto o di un potere di cui il soggetto non è titolare; b) approfittamento o sfruttamento di una situazione a proprio vantaggio; c) esercizio con modalità difformi da quanto stabilito dalla legge; d) deviazione finalistica, sviamento funzionale dalla causa tipica. L’adozione di uno di questi significati dipende evidentemente dal termine di riferimento dell’abuso: nel nostro caso da ciò che si intende per autorità. È proprio in questa fase che si rivela determinante lo studio condotto sull’alternativa ‘approccio giuridico-formale’/‘approccio socio-fattuale’ al tema dell’autorità. Ed invero, per coloro che propendono per l’approccio da ultimo indicato, l’autorità si atteggia in termini simili ad una qualità soggettiva, ad una sorta di status. Al contrario, per chi propende per quello formale, l’autorità è una summa di poteri ed assume una dimensione prettamente normativa. Dall’adesione all’una piuttosto che all’altra opzione discendono, sia sul terreno della teoria che su quello della prassi, conseguenze sensibil(96) Cass., 8 marzo 1974, in Giust. pen., 1975, II, 45; Cass., 9 febbraio 1939, ivi, 1939, II, 569. (97) App. Torino, 11 luglio 1979, Gambon; Cass., 26 maggio 1939, in Mass. Riv. pen., 1939, 979. (98) Cass., 4 dicembre 1981, n. 1844; Trib. Torino, 18 gennaio 1979, Gambon; Cass., 14 gennaio 1974, n. 50; App. Bologna, 16 marzo 1973, Gamberi; Cass., 10 maggio 1940, in Mass. Riv. pen., 1940, 626. Di recente, Cass., 12 dicembre 1994, n. 12367. (99) Cass., 31 maggio 1978, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, 1494; Cass., 7 settembre 1989, n. 1181; Cass., 6 luglio 1992, n. 7638. (100) Cass., 2 febbraio 1995, n. 197, cit.; Cass., 3 dicembre 1992, n. 979.
— 562 — mente diverse. Nell’approccio socio-fattuale, l’abuso viene costantemente inteso dalla giurisprudenza in termini di « relazione, anche di fatto, tra l’agente e la persona offesa che agevoli la commissione del delitto » (101), ovvero in termini di approfittamento della particolare fiducia, la quale pone il soggetto in condizioni di commettere più agevolmente il reato (102). I poli concettuali su cui ruota la concretizzazione della norma operata dai giudici sono quindi la « fiducia », l’« approfittamento » e l’« agevolazione » nella commissione dell’illecito. La tesi non può essere condivisa. Innanzi tutto, oltre a non esprimere adeguatamente il contenuto dell’autorità, non consente di cogliere nel suo esatto significato né il concetto di abuso né il disvalore del fatto commesso. Si è già avuto modo di osservare che il rapporto di « fiducia » non è elemento di fattispecie, né tantomeno può costituire la ratio dell’aggravamento in quanto tale fiducia può ben essere assente nelle relazioni di cui si abusa, senza che per ciò solo debba venir meno il disvalore del fatto. Parimenti incongruo risulta il ricorso al concetto di « approfittamento ». Com’è agevole desumere dalle formulazioni codicistiche che vi fanno riferimento, il « trarre profitto » da una data situazione esprime una modalità di condotta, e quindi un disvalore penale, del tutto distinta da una situazione di « abuso ». Profitto ed abuso non sono infatti delle realtà dall’identico contenuto: si può trarre profitto senza abusare di alcunché (103). D’altra parte, neppure il riferimento al concetto di « agevolazione » risulta soddisfacente. Esso è infatti intrinsecamente problematico, tant’è che lascia aperte sul tappeto più questioni di quante ne riesca a risolvere (104). Anche a voler intendere l’agevolazione quale fattore di aumento delle probabilità di verificazione del fatto (105), il disvalore penale tenderebbe a gravitare, più che sull’abuso, sulla qualità o sulla situazione preesistenti (106). Peraltro, l’agevolazione presuppone una lettura necessariamente fattuale dell’autorità, in quanto incentrata sul profitto e sulla (101) In tal senso pure Cass., 11 dicembre 1995, cit.: « rapporto di fiducia dal quale possa essere agevolata la commissione del fatto ». (102) Fra le tante, Cass., 9 gennaio 1984, in Riv. pen., 1985, 384; Cass., 31 maggio 1978, in Cass. pen. Mass., 1978, 1494; Cass., 29 novembre 1976, ivi, 1977, 1100. Per la dottrina v. MALINVERNI, voce Circostanze, cit., 86. (103) Così PADOVANI (a cura di), Codice penale, Milano, 1997, 337. (104) Pur nella diversità delle problematiche indagate, una diffusa indagine sul concetto di « agevolazione » è svolta da ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, 19 s. e spec. 31 s., cui si rinvia anche per ulteriore bibliografia. Atteggiamento critico verso il ricorso al concetto di agevolazione è altresì assunto da MANZINI, Trattato, cit., 223. (105) La giurisprudenza, in sede d’applicazione dell’art. 61, n. 11 c.p., è orientata in questi medesimi termini. (106) DE VERO, Circostanze del reato, cit., 99.
— 563 — fiducia: elementi — giuridico il primo, sociologico il secondo — comunque estranei all’autorità giuridica. Nell’impostazione giuridico-formale, invece, l’abuso viene riferito all’esercizio dei poteri che connotano l’autorità (107): l’attenzione, pertanto, torna sui contenuti e sulla disciplina dei poteri dell’amministratore e del socio. L’abuso si materializza quindi con riferimento al singolo e specifico potere o diritto in concreto rilevante, potendo dar luogo ad un’usurpazione, ad un uso oltre i limiti consentiti ovvero al perseguimento di un fine non riconducibile, neppure indirettamente, all’interesse sociale. Inoltre, è da condividere la tesi — già accolta dal Guardasigilli — per la quale al concetto di abuso è strutturalmente estranea la violazione dei doveri pertinenti, di volta in volta, all’autorità, all’ufficio etc. (108) La distinzione fra « abuso dei poteri » e « violazione dei doveri » risulta, infatti, normativamente ribadita, in sede di infedeltà patrimoniale, dal § 266 co. 1 del codice penale tedesco. Analoga distinzione era inoltre prevista nella proposta di untreue formulata nel corso dei lavori preparatori della legge sulle sim. parimenti, infine, come detto l’art. 112, n. 2 dello schema di legge delega per un nuovo codice penale del 1992, distinge l’abuso dei poteri dalla violazione dei doveri inerenti alle funzioni esercitate in seno all’impresa. Se per tal modo si restringe la sfera applicativa dell’aggravante, tuttavia si evita che la genericità e l’ampiezza semantica degli elementi strutturali abbiano a subire, sotto le pressioni della prassi, una incontrollabile ed irrazionale dilatazione (109). In definitiva, l’unico significato cui rimane estraneo l’« abuso dell’autorità » è proprio quello costantemente adottato dalla giurisprudenza: l’approfittamento di una situazione preesistente. L’abuso, così come inteso, si configura quale il mezzo che ha prodotto ‘quell’evento’, considerato non già in astratto bensì in concreto hic (107) In generale, per quel che riguarda la dialettica ‘abuso’/‘situazioni giuridiche attive’ v. STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976; RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 256 s.; ROMANO, S., voce Abuso del diritto, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 166 s. Più in particolare, cfr. SEMINARA, Commento agli artt. 323-324, in AA.VV., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 1996, 223 s., spec. 234 s.; CONTENTO, Commento agli artt. 317-317 bis, ivi, spec. 62 s., 67 s.; SCORDAMAGLIA, L’abuso d’ufficio, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 1993, 255 s. (108) La distinzione tra « abuso dei poteri » e « violazione dei doveri » risulta, infatti, normativamente ribadita, in sede di infedeltà patrimoniale, dal § 266 co. 1 del codice penale tedesco. Analoga distinzione era inoltre prevista nella proposta di Untreue formulata nel corso dei lavori preparatori della legge sulle SIM. Parimenti, infine, come detto, l’art. 112, n. 2 dello Schema di legge delega per un nuovo codice penale del 1992, distingue l’abuso dei poteri dalla violazione dei doveri inerenti alle funzioni esercitate in seno all’impresa. (109) Cfr. Relazione, cit., 114: « Aderendo ad autorevoli ciritiche, ho soppressa l’ipotesi della violazione dei doveri inerenti allo stato, ufficio o professione del colpevole: invero tale aggravante, perché generica, avrebbe, in pratica, avuto un’applicazione eccessivamente estesa, e forse non sempre giustificabile ».
— 564 — et nunc. La connotazione modale dell’abuso compenetra intimamente il fatto dandogli il proprio ‘volto’, onde senza quell’abuso esso non si sarebbe verificato in quei concreti termini, assumendo piuttosto una fisionomia circostanziante senz’altro diversa. Inoltre, la funzione tipizzatrice dell’elemento accidentale del reato, per tal via, trova il giusto risalto sistematico redistribuendo il disvalore penale sulla modalità « abusiva » della condotta (110). Infine, se si volge l’attenzione al caso concreto da cui muove la problematica in esame — caratterizzato, come detto, dall’uso indebito, da parte dell’amministratore, di disegni industriali di proprietà della società gestita — si rileva l’insussistenza di qualunque abusività della condotta sub iudice. Ciò in quanto la condotta, così come accertata, non si lega all’esercizio dei poteri di gestione dell’impresa sociale, i quali le restano del tutto estranei. Tali fatti, invero, avrebbero potuto essere commessi anche da un semplice impiegato dell’azienda, senza che fosse necessario l’esercizio di alcun potere di « direzione, vigilanza e controllo ». 11. Considerazioni finali. — Sul piano ermeneutico, l’elemento qualificante di questa concezione si coglie nell’« approccio fattuale » adottato dalla giurisprudenza. A ben vedere, tale scelta sembra dettata dall’adesione ad una visione di fondo del ruolo e della funzione da assegnare al diritto penale (111): enfatizzandone l’autonomia funzionale e concettuale, si è voluto con tutta probabilità disancorare il giudizio penale dalle strettoie del diritto delle società, nella convinzione che per tal via si sarebbe rifuggiti da sterili ed imbarazzanti formalismi. Ma ciò che imbarazza è, ancor più del risultato, la stessa ‘scelta di metodo’ — per la verità non nuova nel diritto penale societario (112) — in quanto rivela qualcosa di più profondo che si nasconde dietro lo sban(110) Su disvalore e circostanze del reato, vedi DOLCINI-MARINUCCI, Corso di diritto penale, I, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 171. (111) Per un’analisi delle problematiche dibattute, vedi DONINI, Selettività e paradigmi della teoria del reato, in questa Rivista, 1997, 338 s., e spec. 348 s.; MUSCO, Funzioni e limiti del sistema penale, in Riv. guardia fin., 1996, 35 s.; FIANDACA, Relazione introduttiva, in AA.VV., Valori e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 23 s.; PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, ivi, 1994, 1220 s.; DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, trad. it., Milano, 1992; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990. (112) Si allude in particolare alla concezione, dominante in giurisprudenza e recepita, sia pur con autorevoli dissensi, dalla prevalente dottrina, che ammette la responsabilità penale per i reati societari anche se commessi da soggetti non investiti delle qualifiche normative richieste. Sull’« amministratore di fatto », vedi MUSCO, La società per azioni nella disciplina penalistica, cit., 228 s.; MUCCIARELLI, Responsabilità penale dell’amministratore di fatto, in Società, 1989, 121 s.
— 565 — dierato « primato della prassi »; rivela il dominio di una ‘ragion pratica’ che pare aver soppiantato la ‘ragione scientifica’ (113). Puntuale riprova di quanto si viene dicendo si trae proprio dal leading case posto in Cass., 30 settembre 1996, n. 1885. La correttezza logico-giuridica del ricorso, nel caso di specie, al delitto di appropriazione indebita suscita fondate riserve. Infatti, la configurazione nei termini di cui all’art. 646 c.p. di una condotta volta ad « usare » indebitamente il know how industriale, più che ad appropriarsene, appare per molti versi in conflitto con la struttura logico formale della norma, tant’è che la prevalente giurisprudenza sinora tendeva ad escludere la sussistenza del reato (114). Piuttosto, la vicenda avrebbe dovuto sin dall’inizio viaggiare lungo i binari della tutela penale del segreto industriale. Ed infatti, stabilire — come pur fa la Cassazione nelle sentenze n. 197/95 e n. 1885/96 — che la fotocopia è un mezzo equipollente al conseguimento materiale del possesso dell’originale, il quale per tal via risulta svuotato di ogni valore finanziario, appare un comodo escamotage per giungere ad un’affermazione di responsabilità penale che altrimenti, per contingenti ragioni di natura processuale, sarebbe stato estremamente arduo conseguire. Il rispetto del principio di legalità avrebbe dovuto indurre la Cassazione alla presa d’atto dell’esistenza di una lacuna nel sistema normativo, come tale non colmabile attraverso pericolose scorciatoie ermeneutiche. Per vero, l’« approccio fattuale » ivi sotteso può dirsi sintomatico di un ‘atteggiamento culturale’ che intende il diritto penale quale strumento di governo orientato alle conseguenze, in cui il parametro guida della decisione diviene l’« utilità pratica » (115). In questo quadro ‘teoretico’ caratterizzato da una prospettiva funzionalistica, la complessità (frammista a non poche lacune) delle discipline di settore, molto elevata e strutturata in termini di formalismo e garanzie, finisce col rendere difficoltosa e non priva di ostacoli la celerità ed univocità dei processi decisionali (116). L’esigenza di « semplificazione » sembra andare di pari passo con la fisiolo(113) VIOLA, Il diritto come pratica sociale, Milano, 1990, 60. Il fenomeno è invero particolarmente complesso, anche perché il dominio della ‘ragion pratica’ non è limitato al solo momento dell’applicazione del diritto. Esso infatti caratterizza sempre più in profondità la produzione legislativa in materia penale, sino a trasformarne la funzione da prevenzione di un pericolo di lesione del bene giuridico a prevenzione di perturbamenti dell’ordine sociale, economico e amministrativo già stabilizzati o, addirittura, in via di stabilizzazione. Sul punto cfr. gli Autori già citati nella nota 111. (114) Cass., 22 febbraio 1983, in Giust. pen., 1984, II, 413; Cass., 24 novembre 1970, ivi, 1972, II, 169. (115) Con dovizia di approfondimenti, FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., 29 s. e spec. 34 s.; nonché PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, 430. (116) Per una lettura ‘sistemica’, v. LUHMANN, La differenziazione del diritto, trad. it., Bologna, 1990, 180.
— 566 — gica resistenza del ‘fatto storico’ innanzi a previsioni legislative, spesso inadeguate ad adempiere alla funzione ordinatoria della realtà. Simili concezioni, come si vede, e soprattutto le correlative interpretazioni della realtà normativa appaiono dunque non condivisibili. Il « predominio della prassi », infatti, porta con sé latente il rischio di ritorni ed irrigidimenti illiberali del sistema penale (117). Non è difficile coglierne le avvisaglie. In primo luogo, i margini di discrezionalità, fisiologici nell’interpretazione e strettamente legati alle innumerevoli lacune presenti nell’ordinamento, vengono con sempre maggiore disinvoltura travalicati (118). In secondo luogo — e conseguenzialmente —, l’ingerenza nel monopolio statale delle fonti del diritto si risolve in una verticosa caduta del tasso di legalità, già di per sè non particolarmente garantito dagli attuali standard normativi (119). Non solo, ma il substrato garantistico che fa da sfondo al principio di legalità risulta ulteriormente disatteso dal fatto che i criteri guida con cui i giudici orientano le decisioni, riflettono l’adesione ad opzioni di politica criminale legittimate esclusivamente dalle esigenze e necessità della prassi giudiziaria (120). Infine, come da più parti si avverte, tale « primato della prassi » conduce ad una progressiva emarginazione della dottrina, la quale appare incapace di proporsi sia nei circuiti decisionali della politica (121), sia nei confronti dell’elaborazione della prassi (122). Tant’è che, il diritto così prodotto pare, da un lato, caratterizzarsi per una progressiva resistenza al « controllo di falsificabilità » svolto dalla dogmatica intesa quale istanza critica (123) e, dall’altro, imporsi come l’unica vera fonte delle regole di condotta sociale (124). La tenuta del principio di legalità è dunque sottoposta a continue (117) Per tutti, FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1996. (118) Sul tema, BARAK, La discrezionalità del giudice, trad. it., Milano, 1995; CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano, 1984; LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967; TORRENTE, Il giudice e il diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, 1261 s.; RADULESCU, La giurisprudenza quale fonte del diritto, in Riv. int. fil. dir., 1933, 469 s. (119) PALAZZO, Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale, cit., 327 s.; CONTENTO, Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale, in Foro it., 1988, V, 484 s.; PETTOELLO MANTOVANI, Il valore problematico della scienza penalistica, cit., 31. Nella manualistica, per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., cit., 98 s. e spec. 109 s. (120) Sul ruolo e sul concetto di « politica criminale », v. ZIPF, Politica criminale, trad. it., Milano, 1989; BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3 s.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 73 s.; VASSALLI, Politica criminale e sistema penale, in Il Tommaso Natale, 1978, 1023. (121) Cfr. AMODIO, Affermazioni e sconfitte della cultura dei giuristi nella elaborazione del nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1996, 899 s., spec. 914; MUSCO, Diritto penale e politica: conflitto, coesistenza o cooperazione?, in Nomos, 1989, 73 s. (122) FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, cit., 41; PALAZZO, Orientamenti, cit., 336. (123) Cfr. in tal senso pure BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 93 s. (124) Peraltro, non sono mancati tentativi di legittimazione teorica del nuovo ruolo
— 567 — tensioni, alcune delle quali fisiologiche ad ogni sistema. Nell’attuale crisi che affligge le democrazie complesse, può apparire persino comprensibile che la giurisprudenza si sia attestata a rappresentare ‘il luogo’ par excellence in cui si riversano e risolvono gli innumerevoli conflitti sociali (125). D’altra parte, nella contemporanea esperienza giuridica tale principio cardine dev’essere realisticamente assunto « non come un dato, ma come un problema » (126). Invero, la moderna ermeneutica giuridica ha acquisito ormai piena consapevolezza della complessità e della imprescindibilità dei ‘punti di vista extrasistematici’, sino a metabolizzarne funzioni e ruolo. Tant’è che nessuno si sognerebbe di relegare l’opera « concretizzatrice » della giurisprudenza nell’angusto ed inanimato spazio — l’« être inanimé » — che l’illuministico mito del giudice quale « bouche qui pronunce les paroles de la loi » le riservava. Ciò nondimeno, la legalità nell’interpretazione del diritto è una delle più pregnanti e significative ‘condizioni di tenuta’ del principio di legalità, cui pertanto non è possibile rinunciare. La sua salvaguardia, se fondata attraverso una adeguata razionalità discorsiva, può infatti consentire la fruizione di un livello di certezza giuridica che, non potendo realisticamente essere assoluta, sappia quantomeno attestarsi su un’accettabile margine di « stabilità relativa » (127). ANGELO MANGIONE Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Roma ‘Tor Vergata’ assunto dal diritto giurisprudenziale, v. ZAGREBELSKY G., La dottrina del diritto vivente, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 97 s. Occorre precisare, però, che tale tematica non è del tutto nuova, essendo oggetto di dibattito già sin dall’antichità: dal nomos émpsychos aristotelico alla lex loquens ciceroniana, essa era già abbozzata nei suoi elementi essenziali, anche se è solo con Cicerone, nel De legibus, che si coglie con sufficiente consapevolezza l’aspetto vivificante e centrale dell’« interpretazione ». In merito cfr. RITTER, Naturrecht bei Aristoteles. Zum Problem einer Erneuerung des Naturrechts, in Metaphisik und Politik, Frankfurt a.M., 1969; GIGANTE, Nomos basileus, Napoli, 1956. (125) Per le pecualirità del ‘caso italiano’, cfr. PIZZORUSSO, La Magistratura nella situazione politica italiana, in Foro it., 1997, V, 113 s.; GAMBERINI-INSOLERA-MAZZACUVASTORTONI-ZANOTTI, Il dibattito sul ruolo della magistratura. Prospettive di ricerca nel settore penale, ivi, 1987, V, 433 s.; PULITANÒ, Supplenza giudiziaria e poteri dello Stato, in Quad. cost., 1982, 93 s. Più in generale, si veda DAMASKA, I volti della giustizia e del potere, trad. it., Bologna, 1991, 158 s. (126) PULITANÒ, La giustizia penale alla prova del fuoco, in questa Rivista, 1997, 15. (127) In tema, cfr. AA.VV., La certezza del diritto. Un valore da ritrovare, Milano, 1993; LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, trad. it., Milano, 1968. La « socialità » del diritto, infatti, comporta necessariamente una certa instabilità della dogmatica, le cui acquisizioni rappresentano solamente degli ‘starting points’ per l’elaborazione successiva. I dogmi giuridici non sono delle entità intangibili e sottratte al vaglio della ragione critica; all’inverso, forniscono un margine di stabilità all’analisi giuridica che può essere solamente relativo, ben potendo, e talvolta dovendo, essere modificati o persino sostituiti.
COMMENTI E DIBATTITI
IN TEMA DI ATTENTATO ALLA SICUREZZA DEI TRASPORTI: LIMITI DELLA DISCIPLINA ATTUALE E PROSPETTIVE DI RIFORMA
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’attentato alla sicurezza dei trasporti privati nel diritto vigente: alla ricerca della fattispecie applicabile. — 3. La qualificazione dell’illecito in esame nella sistematica dei reati di pericolo. — 4. Le attuali prospettive di riforma tra esigenze di prevenzione generale e di garanzia del reo. 1. Recenti fatti di cronaca, riguardanti episodi di lancio di sassi dai cavalcavia contro veicoli in movimento destinati a trasporti privati, hanno sollecitato l’attenzione della giurisprudenza e del legislatore. Il principale problema sollevato dall’ipotesi in parola è dato dalla difficoltà di individuare, nel sistema del diritto vigente, norme che disciplinino adeguatamente le condotte in esame quando ad esse non segue la verificazione di un danno, e cioé la morte o le lesioni personali di alcuno. La disposizione che maggiormente parrebbe avvicinarsi al caso in esame, l’art. 432 c.p. (1) presenta infatti un notevole limite applicativo determinato dal requisito della pubblicità dei trasporti posti in pericolo. Secondo quanto affermato nella Relazione al Progetto del Codice Penale 1930, i trasporti pubblici sono ‘‘quelli di cui il pubblico può profittare direttamente, condizionatamente o incondizionatamente, siano essi esercitati dallo Stato o da altro ente pubblico ovvero da un’impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità o anche da un privato concessionario o autorizzato’’ (2). L’obiettiva difficoltà d’individuare le fattispecie applicabili è ravvisabile in recenti pronunce che si sono caratterizzate o per la declaratoria d’irrilevanza penale del fatto o per la costruzione di incriminazioni di dubbia coerenza sistematica (3). L’inadeguatezza del diritto vigente a rispondere alle esigenze di prevenzione generale dell’attentato alla sicurezza dei trasporti privati (4) ha quindi sollecitato l’elaborazione di due disegni di legge, volti a disciplinare la materia, che sono già stati discussi nella Commissione Giustizia del Senato. Si tratta del disegno di legge n. 1960 ‘‘Nuova (1) L’attentato descritto dall’art. 432 non ha mai costituito, nel passato, oggetto di specifico studio da parte della dottrina né di frequente applicazione da parte della giurisprudenza. Il precedente giurisprudenziale più recente è dato da Cass. 2 maggio 1990, in Cass. pen., 1991, p. 1961. Cfr. anche Cass. 2 ottobre 1984, in Cass. pen., 1986, p. 237 e Cass. 17 marzo 1981, in Giust. pen., 1982, II, 218. Tutte le altre decisioni non vanno oltre il 1965. (2) Cfr. Relazione Ministeriale sul progetto del Codice Penale, II, p. 223. (3) Mentre cinque soggetti imputati di aver lanciato corpi contundenti contro la metropolitana di Roma sono stati assolti non avendo retto l’imputazione ex art. 432 c.p., una recente sentenza della Cassazione configura, per il caso in esame, un tentativo di violenza privata argomentando in modo insoddisfacente sul rapporto tra la forma di dolo e il tentativo, nell’urgenza di dare una rilevanza penale a fatti di risonanza indubbiamente negativa nella comunità. Cfr. Cass. 26 gennaio 1995, n. 1628, in Giust. pen., 1995, II, c. 275, m. 375. (4) Cfr. Guida al diritto del 19 ottobre 1996, n. 41, p. 75 e idem 8 febbraio 1997, n. 5, p. 124.
— 569 — disciplina del reato di attentato alla sicurezza dei trasporti’’ e del disegno n. 2134 ‘‘Norme per la repressione di atti vandalici contro mezzi di trasporto in movimento’’. Entrambe le proposte partono dall’idea che sia necessario colmare una lacuna di tutela. In realtà, a ben guardare, il presupposto in base al quale si parla di lacuna di tutela è diametralmente opposto a quello che ha ispirato la fondamentale riforma illuministica del diritto penale, vale a dire il principio dell’eccezionalità della previsione della sanzione penale. Per prospettare un vuoto normativo è infatti necessario presupporre un sistema di beni giuridici di tale importanza da imporre al legislatore un vero e proprio obbligo di tutela penale (5). Al sistema di quei beni giuridici dovrebbe quindi corrispondere un parallelo sistema di reati che consistono nell’offesa di quegli interessi. Tale teoria dell’obbligo del legislatore di presidiare con sanzione penale i beni giuridici costituzionalmente rilevanti appare fondata su ragioni insufficienti. È ben vero che una delle condizioni del ricorso alla sanzione penale è la meritevolezza di tutela del bene, ma è altresì vero che il ricorso alla pena deve anche essere giustificato dalla necessità della sanzione, essendo tutte le altre misure previste dall’ordinamento incapaci di assicurare una tutela adeguata. È allora sotto il profilo della sussidiarietà della sanzione penale che non può parlarsi di obbligo di tutela penale, essendo la scelta dell’incriminazione rimessa al giudizio discrezionale del legislatore censurabile non sotto il profilo dell’an ma sotto quello del quomodo (6). Se, dunque, appare criticabile una nozione di obbligo di tutela penale da parte del legislatore, è ben possibile riscontrare, nel sistema delle incriminazioni, degli elementi d’irragionevolezza. Se infatti è vero che il diritto penale deve essere l’ultima ratio, esso deve anche essere dotato di una sua ratio (7). Per quanto attiene al caso in esame, risulterebbe, allora, fortemente in contrasto con il principio di uguaglianza che la vita e l’incolumità delle persone, che si servono di mezzi di trasporto privati, non fossero tutelate dagli stessi pericoli dai quali sarebbero salvaguardate se venissero in considerazione mezzi di trasporto pubblici, essendo, in questo caso, applicabile l’art. 432 c.p. (8). Il fatto che, nel tempo in cui fu emanato il Codice Rocco, i trasporti privati non avessero raggiunto un alto livello di diffusione, non legittima tale disparità di trattamento. L’avvalersi di un mezzo di trasporto pubblico o privato è una circostanza occasionale che non giustifica diverse ipotesi di tutela se al medesimo pericolo sono esposti i medesimi beni giuridici. Se allora non vi sono dubbi sull’an della tutela della sicurezza dei trasporti privati, problema ulteriore è dato dal quomodo e dal quantum della tutela che dipendono dal parametro della sussidiarietà e della proporzione della tutela penale. (5) Il tema del presunto obbligo di tutela penale dei beni costituzionalmente rilevanti è stato esaminato anche dal Bundesverfassungsgericht (VGH, 11 ottobre 1974, in Jur. Blätter, 1975, p. 310 s.) che, sollecitata da una questione di legittimità di una norma in materia di aborto, con sent. 11 ottobre 1974 ha individuato ‘‘un’obbligazione relativa del legislatore all’uso della minaccia penale derivante dalla considerazione dell’inadeguatezza di tutti gli altri strumenti di tutela a disposizione. Tale obbligo trova il proprio oggetto di tutela nella Wertordnung costituzionale’’. Sul punto cfr. D. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484 e ID., La teoria del bene giuridico tra Codice e Costituzione, in Questione criminale, 1981, I, p. 111; P. NUVOLONE, L’opzione penale, in Ind. pen., 1985, p. 244; G. FIANDACA, Il bene giuridico come problema tecnico e come criterio di politica criminale, in questa Rivista, 1982, p. 42; G. MARINUCCI, Relazione di sintesi, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A. STILE, Napoli, 1985, p. 327. Sui termini generali della questione cfr. F. BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, p. 7. (6) Cfr. G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 136 ove si richiama la più significativa giurisprudenza costituzionale in materia. (7) Cfr. D. PULITANÒ, La teoria del bene giuridico, cit., p. 118. (8) Cfr. G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, p. 680 e T. PADOVANI, Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, ivi, 1995, p. 638.
— 570 — Per confermare la presenza di una lacuna di tutela si esaminerà, nella prima parte del lavoro, il complesso delle fattispecie di diritto vigente che più si avvicinano al caso in parola, per concludere sull’inadeguatezza dello stato del ius conditum. Nella seconda parte, invece, si prenderà in considerazione, all’interno delle prospettive di riforma poco sopra richiamate, il problema della qualificazione della fattispecie futura deputata ad accogliere i fatti attualmente privi di adeguata sanzione. 2. Come si accennava, prima di parlare di lacuna di tutela, è necessario analizzare brevemente le disposizioni attualmente vigenti alle quali può essere ipoteticamente riferito il fatto in esame. Il limite superiore di tale operazione è dato dal divieto fatto al giudice di oltrepassare i confini delle norme, al fine non di interpretarle ma di utilizzarle per creare nuove fattispecie. La tecnica di c.d. ‘‘supplenza giudiziaria’’ non è ignota alla prassi sebbene debba essere accuratamente evitata costituendo una palese violazione del principio della riserva di legge (9). Le fattispecie che si possono prendere in considerazione sono: a) Art. 432 c.p. ‘‘Attentato alla sicurezza dei trasporti’’. La disposizione prevede che ‘‘chiunque (...) pone in pericolo la sicurezza dei trasporti per terra, per acqua o per aria è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni. Si applica la reclusione da tre mesi a due anni a chi lancia corpi contundenti o proiettili contro veicoli in movimento destinati ai pubblici trasporti per terra, per acqua o per aria’’. Il chiaro limite applicativo della fattispecie è costituito dal requisito della pubblicità dei trasporti. È allora necessario accertare se tale nozione sia suscettibile di ricomprendere anche i trasporti di privati ma in una pubblica via. Se così fosse, l’applicazione della fattispecie in parola ai recenti fatti di cronaca sarebbe consentita da una legittima interpretazione estensiva che non ricadrebbe nell’analogia in malam partem essendo rispettati i confini della norma (10). Per chiarire il significato della pubblicità dei trasporti nell’art. 432 c.p. può essere opportuno fare riferimento al precedente storico della disposizione, vale a dire l’art. 312 Codice Zanardelli. Esso prevedeva il reato di pericolo di disastro per ‘‘convogli in corso e navi in navigazione’’. Con l’art. 432 il legislatore del 1930 decise di estendere la tutela a tutti gli ‘‘altri mezzi di trasporto destinati alla fruizione del pubblico’’, senza comprendere nella fattispecie i trasporti tout court, dal momento che, nei confronti di quest’ultimi, risultava difficile immaginare atti che potessero porre in pericolo la pubblica incolumità (11). Non si può allora che escludere la possibilità di ricomprendere i mezzi di trasporto privati nella suddetta nozione di pubblico trasporto in quanto incentrata non sulle modalità e i luoghi di transito, ma sulla fruizione da parte di un numero indeterminato di soggetti. Il fatto poi che, per il periodo in cui la norma venne elaborata, i trasporti privati non avessero raggiunto l’attuale diffusione non autorizza ad applicare analogicamente la norma, ma chiarisce soltanto la diversa origine storica del limite. b) Art. 434 c.p.: ‘‘Crollo di costruzioni e altri disastri dolosi’’. La norma stabilisce che ‘‘chiunque (...) commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di parte di essa ovvero altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni’’. Questa disposizione presenta aspetti di forte diversità rispetto ai precedenti contenuti nei Codici preunitari. In quest’ultimi, infatti, si prevedeva la sola ipotesi di ‘‘crollo di costruzioni’’ tra i modi di di(9) Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Terza Edizione, Padova, 1992, p. 108, ove si fa riferimento al procedimento di supplenza giudiziaria che coinvolse l’art. 640 c.p., con riferimento a chi sfrutta la preesistente situazione di errore in cui versa la vittima, e l’art. 501-bis per le manovre speculative sulle case. (10) Contra A. PAGLIARO, Principi di Diritto Penale, Milano, 1987, p. 96, ove si differenzia l’analogia dall’interpretazione estensiva a seconda che il risultato del procedimento logico sia più o meno sfavorevole al reo. (11) Cfr. Relazione Ministeriale al Progetto del Codice Penale 1930, II, p. 223.
— 571 — struzione, guasto e deterioramento della proprietà tanto che, se fosse stata mantenuta la medesima collocazione nel Codice 1930, il crollo di costruzioni avrebbe dovuto essere inserito nel titolo dedicato ai delitti contro il patrimonio come species del danneggiamento (12). Nell’art. 434 c.p. è stata inoltre inserita l’ipotesi del compimento di fatti diretti alla realizzazione di ‘‘un altro disastro’’ con funzione di clausola di salvaguardia dalle eventuali lacune presenti nel titolo dei delitti contro la pubblica incolumità. La genericità della formulazione della fattispecie permette tuttavia di dubitare del rispetto del principio di tassatività, essendo completamente rimessa al giudice la determinazione dei requisiti del disastro stesso, non essendo la norma in grado di delimitarne il significato. Analizzando la struttura della norma si può inoltre, notare che il disvalore della fattispecie è focalizzato sulla creazione di un pericolo per la pubblica incolumità. Scompare dunque il riferimento al pregiudizio patrimoniale, nonché alla particolare qualità del mezzo utilizzato per realizzare i fatti, privilegiandosi una nozione modale dell’illecito (13). Inoltre, nonostante la formula ‘‘se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità’’ riecheggi il tenore delle condizioni obiettive di punibilità, ritiene la dottrina che il pericolo suddetto debba intendersi come evento della fattispecie. L’uso della subordinata ipotetica sarebbe dovuto alla particolarità dell’elemento soggettivo della fattispecie che si presenta come un mixtum compositum tra dolo intenzionale (fatti diretti a cagionare) e dolo eventuale (se dal fatto deriva) (14). È stato allora proposto, vista la genericità del requisito di disastro, di far rientrare i fatti di lancio di sassi dai cavalcavia nella commissione di fatti diretti a realizzare quel disastro. Per giungere, tuttavia, all’applicazione dell’art. 434 è necessario accertare se il disastro ivi menzionato possa anche ricomprendere la lesione di mezzi di trasporto privati. Il disastro indicato dalla norma è qualificato con l’attributo ‘‘altro’’ e da ciò deriva la necessaria comu(12) Cfr. G. MARINUCCI, voce Crollo di costruzioni, in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962, p. 412. (13) Anche F. CARRARA sottolineò, vigente l’antica norma sul crollo di costruzioni, l’inserimento tra i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice de ‘‘il diritto di conservazione spettante ad un numero indeterminato di persone’’ poiché, nel caso di specie, ‘‘tutti i cittadini avrebbero potuto dire che, se fossero passati di là, sarebbero rimasti uccisi o feriti’’. (14) Cfr. G. MARINUCCI, op. loc. cit. L’opinione, pur autorevole, non appare del tutto condivisibile. Essa prende le mosse dallo scopo di far rientrare il pericolo comune nell’oggetto del dolo evitando l’imputazione obiettiva a norma dell’art. 44 c.p. Tuttavia, ritenere che l’elemento soggettivo della fattispecie abbia tale caratteristica, comporta un ritorno all’antica collocazione sistematica del crollo di costruzioni e cioè all’idea per cui tra i beni giuridici protetti vi sia anche la proprietà con conseguente plurioffensività della condotta descritta. Essendo, invece, più corretto ravvisare la pubblica incolumità come bene giuridico protetto, dovrebbe richiedersi, da parte dell’agente, la consapevolezza del pericolo comune secondo le direttive delle sent. C. Cost. n. 364/1988, in Foro it., 1988, c. 1389 che impone, per gli elementi più significativi della fattispecie, il dolo o la colpa e n. 1085/1988, in questa Rivista, 1990, p. 289 che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 626, n. 1 c.p. per violazione dell’art. 27 Cost., ha imposto che ‘‘ai fini dell’incriminabilità sussista un collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto, risultando altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento’’. Contra G. VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti in memoria di Ugo Pioletti, Milano, 1982, p. 676 ove si sottolinea l’opportunità di ricondurre il pericolo ad una condizione obiettiva di punibilità al fine di divaricare tra effettiva offensività della fattispecie e rilevanza dell’errore sul fatto. L’A. manifesta un certo favore per l’attribuzione della rilevanza dell’offesa al solo piano oggettivo della fattispecie per allineare il diritto penale ad esigenze effettive di intervento e di tutela. Analog. cfr. T. PADOVANI, in Giur. it., 1977, II, c. 519 che però attribuisce al pericolo d’incendio di cui all’art. 424 c.p. il carattere di condizione obiettiva di punibilità per ragioni connesse al raffronto sistematico con l’art. 423.
— 572 — nanza di natura con le altre ipotesi di offesa alla pubblica incolumità previste nel capo in parola (15). Il chiaro riferimento al pregiudizio della pubblica incolumità viene peraltro contermato dalla lettura della Relazione ministeriale al Codice ove si giustificò l’introduzione di tale norma sussidiaria al fine di potervi ricomprendere tutti i possibili danni derivanti dallo sviluppo delle attività industriali e commerciali. Il disastro in parola potrebbe quindi ricomprendere, tra i suoi possibili oggetti, i mezzi di trasporto privati solo nel caso in cui fosse coinvolto un tale numero di veicoli da realizzare una macrolesione suscettibile di offendere la pubblica incolumità (16). C’è inoltre da precisare che, se è presente nella condotta di chi lancia corpi contundenti contro veicoli privati in movimento un profilo di pericolo per la pubblica incolumità, il risultato della condotta non è sempre rapportabile ad un ‘‘disastro che coinvolga la comunità’’, se non nei casi in cui possa perfino parlarsi di strage ex art. 422 c.p. (17). Prova ne è che dalla condotta in parola deriva generalmente la lesione o la morte di una persona ovvero il danneggiamento di un veicolo, non essendo allora applicabile una norma del titolo VI ma la disposizione che prevede le lesioni personali o l’omicidio o il danneggiamento, vale a dire un’ipotesi di delitto contro la persona o il suo patrimonio. Se dunque il possibile epilogo del lancio dei sassi non può sempre definirsi ‘‘disastro’’ ai fini dell’art. 434, ne deriva che la norma non risulta idonea ad essere applicata ai fatti considerati se non in quei rari casi in cui vengano realizzati danni catastrofici. c) Art. 1 d.lgs. 22 gennaio 1948 n. 1966, ‘‘Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione’’: ‘‘Blocco stradale’’. La disposizione prevede la pena della reclusione da uno a sei anni per ‘‘chiunque, al fine di impedire o ostacolare la libera circolazione, depone od abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ferrata o ordinaria o comunque ostruisce o ingombra, allo stesso fine, la strada stessa. La pena è raddoppiata se il reato è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza alle cose’’. La disposizione presenta dei forti limiti applicativi al lancio dei sassi non solo sul piano obiettivo ma anche su quello subiettivo. I fatti in questione non potrebbero essere facilmente considerati ‘‘deposizione di oggetti nelle strade ordinarie’’ visto che il lancio differisce dalla mera deposizione, consistendo in comportamento potenzialmente più lesivo e più difficilmente evitabile dal conducente del veicolo. Inoltre, in coloro che pongono in essere la condotta, non appare ravvisabile il dolo specifico di limitare o impedire la libera circolazione che appare invece il principium individuationis della disposizione (18). Il comportamento di questi soggetti si caratterizza, anzi, proprio per la presenza di fini che potrebbero integrare gli estremi della circostanza aggravante comune dell’art. 61 n. 1 (15) Cfr. S. ARDIZZONE, La fattispecie obiettiva del crollo colposo di costruzioni, in questa Rivista, 1970, p. 793 ove si identifica il disastro con il pericolo per la pubblica incolumità non necessariamente in una situazione di ampia portata, riguardando questo invece ipotesi di danni diffusivi e tali da sconvolgere la sicurezza della comunità. (16) Cfr. Cass. 17 marzo 1981, in Giust. pen., 1982, II, p. 218 ove si dice che ‘‘deve intendersi per disastro un evento di danno che espone a pericolo collettivamente, con effetti gravi, complessi ed estesi un numero indeterminato di persone, generando pubblica commozione’’. (17) Tra le limitatissime applicazioni giurisprudenziali della norma in esame cfr. Cass. 6 maggio 1955, in Riv. it. dir. pen., 1955, p. 677 e Cass. 8 giugno 1954, in Giust. pen., 1954, II, c. 997 ove il disastro era stato identificato nel rovesciamento di una corriera da cui era derivato il ferimento di numerosi passeggeri. (18) Cfr. E. CONTIERI, voce Blocco stradale, in Enc. dir., Milano, 1959, vol. V, p. 491. La giurisprudenza ha poi precisato che è sufficiente il dolo specifico di impedire o ostacolare la circolazione di alcuni soltanto di coloro che potrebbero transitare. Cfr. Cass. 25 gennaio 1956, in Giust. pen., 1957, II, c. 104.
— 573 — c.p. ‘‘aver agito per motivi abietti o futili’’ in quanto, il soggetto agente, tende a colpire la vittima solo per divertirsi. Se deve escludersi che il soggetto agente abbia realizzato il fatto allo scopo di ostacolare la libera circolazione (rectius: con il dolo intenzionale di ostacolare la libera circolazione), è ben possibile che questi abbia accettato il rischio della verificazione del suddetto evento. Forte limite a considerare integrato il dolo specifico in presenza di un mero dolo eventuale è però dato dall’incompatibilità tra le due figure. Le fattispecie a dolo specifico si caratterizzano per la necessaria presenza di un fine ulteriore, rispetto a quello della realizzazione dell’evento tipico, il cui raggiungimento è, per la legge, assolutamente indifferente. Tale indifferenza alla realizzazione dell’evento determina importanti conseguenze sia sul piano obiettivo sia sul piano soggettivo del reato. Sul piano obiettivo, la presenza del dolo specifico impone un collegamento intenso tra fatto base e raggiungimento del risultato finale. La condotta deve cioé essere idonea al raggiungimento del risultato ulteriore (19). Sul piano subiettivo, l’irrilevanza della verificazione dell’evento e la speciale connessione strumentale tra la condotta e il fine ulteriore comportano la necessità della configurazione, nella psiche dell’agente, di una precisa volontà di realizzazione di quest’ultimo. Il soggetto deve cioé aver agito per realizzare l’evento ulteriore. Ciò equivale a dire che, rispetto all’evento ulteriore, può ammettersi solo la forma del dolo intenzionale o diretto, secondo un principio che è assimilabile a quello che regge la selezione delle forme di dolo rilevanti nelle fattispecie di attentato e di tentativo che, come quelle in esame, prescindono dalla realizzazione di un evento (20). Ultima conferma dell’assoluta eterogeneità delle fattispecie è data dal fatto che dottrina unanime ravvisa, nel caso in cui dal blocco stradale derivi un delitto contro la pubblica incolumità, non un concorso apparente di norme ma un concorso formale di reati ‘‘essendo diversi gli oggetti giuridici tutelati’’ (21). Bisogna, tuttavia, precisare che, nonostante la soluzione del concorso formale di reati sia accoglibile, la giustificazione non appare correttamente individuata nella diversità dei beni giuridici tutelati. Se, infatti, così fosse, l’ipotesi emblematica di concorso apparente di norme tra l’art. 341 e l’art. 594 c.p. dovrebbe risolversi in un concorso formale di reati. La sussistenza di un concorso formale dipende, invece, dal rapporto strutturale tra le fattispecie (22). d) Art. 674 c.p.: ‘‘Getto pericoloso di cose’’. La disposizione prevede alternativamente la pena dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda fino a lire 400.000 per ‘‘chiunque getta o versa in luogo di pubblico transito (...) cose atte a offendere le persone’’. A differenza delle ipotesi esaminate in precedenza, in questo caso non vi sono ostacoli di sorta all’applicazione della presente fattispecie contravvenzio(19) Cfr. T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1993, p. 355 ove si suggerisce l’impiego dell’art. 49 c.p. quando tale obiettivo sia in concreto irrealizzabile. (20) Cfr. L. PICOTTI, Il dolo specifico, un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 608; S. PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1988, p. 248; N. MAZZACUVA, Il disvalore d’evento nell’illecito penale, Milano, 1983, p. 219. Il legame tra dolo intenzionale e dolo specifico è tale che, la dottrina più risalente che si è occupata del tema si preoccupò in primis di distinguere la figura dal dolo intenzionale o diretto. Cfr. A. MALINVERNI, Scopo e movente nel diritto penale, Torino, 1955, p. 129; A. PECORARO-ALBANI, Il dolo, Milano, 1955, p. 523. Analog. Cass. 29 gennaio 1990, in Giust. pen., 1991, II, p. 55; Cass. 5 luglio 1988, in Cass. pen., 1989, p. 2206, 1763. Problema distinto è poi quello della possibile coesistenza tra dolo eventuale e dolo specifico quando il dolo eventuale non ha ad oggetto il fine ulteriore ma gli elementi del fatto nonché quello della rappresentazione in termini possibilistici della realizzazione del fine ulteriore quando, comunque, questo abbia motivato l’azione. Per tutti cfr. M. ROMANO, Commentario sistematicio del Codice Penale, vol. I, Milano, 1990, art. 43. (21) Cfr. E. CONTIERI, op. cit., p. 493 e A. TANAS, I reati contro la libera circolazione, in Giust. pen., 1949, II, c. 390. (22) Cfr. per tutti G.A. DE FRANCESCO, voce Concorso apparente di norme, in Dig. disc. pen., Torino, 1988, vol. II, p. 416 e ID., Lex specialis, Milano, 1980.
— 574 — nale al lancio dei sassi, come è stato sottolineato nella stessa discussione parlamentare da parte di coloro che si dimostrano contrari all’introduzione di una nuova fattispecie (23). È opportuno tuttavia sottolineare che la disposizione appare fortemente sproporzionata per difetto rispetto alle esigenze di prevenzione generale, dal momento che la comminatoria edittale è talmente esigua da consentire l’oblazione discrezionale. Pur potendo tale oblazione essere rifiutata per ragioni retributive attinenti alla ‘‘gravità del fatto’’ (non potendo venire in considerazione, a quei fini, l’esame del grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente), una risposta sanzionatoria di tal genere sarebbe inadeguata. A ben guardare, infatti, il reato di cui all’art. 674 c.p. si caratterizza per il divieto di molestia alle persone senza che venga in considerazione, se non in modo piuttosto remoto e contenuto, il pregiudizio per la salute pubblica. La suddetta contravvenzione appare dunque ascrivibile alla categoria dei ‘‘delitti nani’’ cioé di quella serie di illeciti ov’é evidenziabile un profilo di tutela residuale d’interessi autonomamente protetti da fattispecie delittuose nei casi più gravi (24). Una tutela penale sproporzionata al ribasso frustrerebbe qualunque efficacia generalpreventiva con la conseguenza che deve negarsi la possibilità di ricondurre i fatti in esame alla disposizione appena analizzata. e) Artt. 56, 575, 583, 610 c.p.: ‘‘Omicidio, lesioni personali, violenza privata tentati’’. Deve ora essere vagliata la possibilità di ricondurre la condotta in esame al tentativo dei delitti di omicidio, lesione e violenza privata. I fatti richiamati potrebbero infatti essere qualificati come atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare la morte o l’offesa all’incolumità delle persone. Non trascurabile ostacolo è tuttavia costituito dal fatto che, nel caso di specie, pare certamente da escludersi un dolo intenzionale in senso proprio, con la conseguenza che, essendo il dolo eventuale, secondo la maggior parte della dottrina e della più recente giurisprudenza, incompatibile con il tentativo, verrebbe meno la punibilità a questo titolo (25). La formulazione letterale dell’art. 56 imporrebbe infatti, richiedendosi il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione dell’evento, che il soggetto abbia agito allo scopo di consumare il delitto (e quindi con dolo intenzionale), non essendo sufficiente che egli abbia semplicemente accettato il rischio della verificazione dell’evento. È ben vero d’altronde che, pur non essendo questa la sede per affrontare ex professo il complesso tema dei rapporti tra dolo e tentativo, è doveroso precisare che certa dottrina ammette la compatibilità tra dolo eventuale e tentativo e che la giurisprudenza presenta, sul tema, orientamenti non concordi (26). (23) In sede di discussione la senatrice Salvato ha fatto riferimento alla disposizione menzionata per insistere sull’opportunità di prevedere per il fenomeno in esame non nuovi delitti ma misure formative ed educative a scopo di prevenzione. Appare tuttavia fortemente dubbia la praticabilità di una tale soluzione che postulerebbe una sorta di indottrinamento dei giovani ai valori della convivenza civile in contrasto con i fondamentali principi di libertà personale. Basti pensare che, anche nei confronti di persona condannata, la funzione rieducativa della pena deve essere intesa come offerta solidaristica e non imposizione dei valori di civiltà violati con il reato. (24) Cfr. T. PADOVANI, voce Delitti e contravvenzioni, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 329 e, per la giurisprudenza, Cass. 7 aprile 1994, in Riv. pol., 1996, p. 32; Cass. 15 novembre 1994, in Cass. pen., 1996, p. 1161; Cass. 25 ottobre 1994, in Cass. pen., 1995, 3346. (25) Cfr. M. GALLO, voce Dolo, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 796; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 430; S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, il dolo nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 141; R. LI VECCHI, Delitto tentato e compatibilità con il dolo eventuale, in Riv. pen., 1991, p. 433; G.A. DE FRANCESCO, Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, in questa Rivista, 1988, p. 968; ID., Fatto e colpevolezza nel tentativo, in questa Rivista, 1992, p. 703; R. GUARALDO, Dolo eventuale: e delitto tentato: profili di un’incompatibilità, in Cass. pen., 1984, p. 1515; M. FILIÈ, Delitto tentato e dolo eventuale, in questa Rivista, 1983, p. 744. (26) Nonostante nel 1983 (sent. 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1984, p. 493) fossero
— 575 — Resta, tuttavia, il fatto che la compatibilità tra la forma di manifestazione del reato in esame e il dolo eventuale non appare così sicura ed incontrovertibile, se è vero, come si è ricordato poco prima, che la dottrina e la giurisprudenza più recenti tendono ad orientarsi a favore dell’opposta soluzione. Da un primo angolo visuale si è cercato di far leva sull’elemento obiettivo del delitto tentato, rappresentato dal compimento di atti ‘‘univocamente’’ diretti alla realizzazione dell’evento, per sostenere che ciò non potrebbe mai avvenire se il soggetto non ha agito con l’intenzione di consumare il delitto. L’univocità degli atti viene, infatti, considerata come mera prova dell’intenzione con la conseguenza che il tentativo a titolo di dolo eventuale mancherebbe della stessa tipicità ex art. 56 c.p. Così procedendo, tuttavia, si opera un’indebita commistione tra elemento oggettivo ed elemento soggettivo della fattispecie tentata, in contrasto con quanto sostenuto dalla migliore dottrina che insiste sulla valutazione autonoma degli elementi della fattispecie ex art. 56 c.p. Appare, invece, più corretto valutare obiettivamente il requisito dell’univocità, identificando quest’ultimo con la direzione esteriore della condotta nei confronti dell’evento tipico, quale che sia l’atteggiamento psicologico che il soggetto venga a presentare nella realizzazione del comportamento incriminato, se di vera e propria intenzione o anche soltanto di pura e semplice rappresentazione in concreto del suo verificarsi. In questa prospettiva, è ben possibile che il soggetto abbia diretto la condotta verso un risultato ritenuto solo possibile; l’importante è, comunque, che, rispetto all’atto preventivato, i comportamenti posti in essere non manchino di esprimere un congruo nesso di correlazione, esteriormente percepibile, e, per l’appunto, oggettivamente qualificabile come non incerto ed equivoco. In realtà, le ragioni per le quali dovrà negarsi la compatibilità tra dolo eventuale e tentativo paiono di altra e ben diversa natura. Ciò che impedisce di punire un tentativo a titolo di dolo eventuale è, piuttosto, la circostanza che, così facendo, si rischierebbe di andare a colpire un atteggiamento meramente interiore costituito dal solo fatto di aver accettato la verificazione di un evento, che poi non si è realizzato, per raggiungere scopi che potrebbero anche essere rivelarsi privi di rilevanza penale. Tale affermazione appare confermata dalla stessa genesi storica del dolo eventuale, non lontana, in questa prospettiva, dalla terra d’origine del noto brocardo latino per cui ‘‘dointervenute le Sezioni Unite al fine di affermare definitivamente la compatibilità tra dolo eventuale e delitto tentato, la giurisprudenza successiva ha presentato anche tendenze difformi tanto che, più recentemente risulta indirizzata a negare la configurabilità di un tentativo a titolo di dolo eventuale (cfr. Cass. 17 marzo 1995, in Mass. Cass. pen., 1995, f. 7, m. 45.). Nel 1983 la Corte aveva sostenuto l’identità tra dolo di consumazione e dolo di tentativo, differenziando le due ipotesi in esame solo per la minor ampiezza dell’elemento soggettivo del tentativo. Su tale base ammetteva, per il tentativo, tutte le forme di dolo ammissibili nel delitto consumato, e anche il dolo eventuale. Prima di tale pronuncia si erano espresse conformemente all’orientamento delle Sezioni Unite: Cass. 5 febbraio 1973, in Giust. pen., 1974, II, c. 263; Cass. 6 dicembre 1972, in Mass. uff., 1973, 570, n. 124070; Cass. 5 ottobre 1966, in Giust. pen., 1968, II, c. 664; Cass. 12 giugno 1981, in questa Rivista, 1983, p. 744. La pronuncia del 1983 è stata poi seguita da Cass. 6 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, p. 1031; Cass. 11 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, p. 233; Cass. 23 marzo 1987, in Riv. pen., 1988, II, p. 226; Cass. 30 marzo 1987, in Riv. pen., 1987, c. 106. Per la dottrina cfr. E. MORSELLI, Il dolo eventuale nel delitto tentato, in Ind. pen., 1978, p. 36; S. RANIERI, Manuale di diritto penale, vol. I, 1968, p. 404; B. PETROCELLI, Il delitto tentato, Padova, 1955, p. 36; G. DE FENU, Idoneità dell’azione e volontà omicida nell’omicidio tentato, in Giust. pen., 1968, II, c. 664; A. PECORARO-ALBANI, Il dolo, Padova, 1955, p. 285; G. ALIBRANDI, Delitto tentato e dolo eventuale, in Riv. pen., 1990, p. 1017. Singolare la posizione di A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano, 1980, p. 507 che, pur partendo dall’argomento in base al quale il dolo nel tentativo equivale a quello del delitto consumato, finisce poi per negare la compatibilità tra dolo eventuale e tentativo per evitare di incorrere in un’analogia in malam partem.
— 576 — lus indeterminatus determinatur ab exitu’’ (27). Una forma di dolo che, per l’appunto, veniva ad assumere concreta rilevanza soltanto laddove il risultato offensivo, del quale l’agente aveva accettato il rischio, si fosse effettivamente realizzato. Soltanto in quest’ottica poteva, invero, evitarsi il rischio che, essendo la previsione ipotetica dell’evento rimasta priva del riscontro della realizzazione concreta del risultato, l’atteggiamento soggettivo dell’autore finisse con il retrocedere ad una pura e semplice cogitatio. Ne deriva allora che, nel rispetto del principio di necessaria offensività della fattispecie e di colpevolezza, se l’evento non si verifica, bisognerà richiedere un coefficiente psicologico più intenso e pregnante, e cioè il dolo diretto o intenzionale, perché il disvalore del delitto tentato risulta soprattutto dall’esistenza di una volontà che, essendosi a tal punto focalizzata sulla realizzazione dell’evento dall’aver determinato il soggetto ad agire, risulta significativa nei confronti dell’offesa (28). Posto allora che il dolo eventuale è incompatibile con il tentativo, è opportuno, con riferimento alla condotta del lancio di sassi dal cavalcavia, valutare se, pur in assenza di un dolo eventuale di omicidio o di lesioni personali, sia comunque presente un dolo diretto. Parte della dottrina e della giurisprudenza più recente della Cassazione ha sottolineato la stretta connessione tra quantum di previsione della verificazione dell’evento e forma di dolo. Se, infatti, l’agente si è rappresentato come certa o altamente probabile la verificazione dell’evento, appare ben difficile negare l’esistenza di un dolo diretto (29). La conseguenza è che, ritenendo che, nel caso di lancio di sassi da un cavalcavia, sia ragionevole ipotizzare che l’agente si sia rappresentato l’alta probabilità di verificazione dell’evento, i fatti in esame potrebbero essere definiti un tentativo di delitto. Il dolo dell’agente, pur non essendo tale da integrare la struttura del dolo intenzionale, potrebbe ben dirsi diretto. Tale soluzione non appare tuttavia del tutto condivisibile sul piano politico-criminale. L’interesse coinvolto è, infatti, di rilevanza pubblicistica, trattandosi di un bene che fa capo alla collettività. Incriminare i comportamenti in parola a titolo di tentativo di delitto contro la persona finirebbe per svalutarne la natura. Se il bene giuridico protetto presenta tali peculiarità, il modello di tutela più adatto appare quello del reato di pericolo comune piuttosto che quello riferibile alla fattispecie di cui all’art. 56 c.p. 3. Nonostante, come appena visto, il diritto vigente non consenta di individuare una fattispecie applicabile al fenomeno del lancio di corpi contundenti contro veicoli privati in movimento, esiste una fattispecie che prende in considerazione un fatto molto simile, vale a dire l’art. 432 cpv. c.p. Non appare allora inopportuno prendere le mosse da tale norma al fine di vagliare la praticabilità di una riforma che, lasciando intatta la struttura dell’incriminazione, si limiti solo ad eliminare il requisito della pubblicità dei trasporti, al fine di superare la disparità di trattamento la cui mancata giustificazione è stata in precedenza sottolineata. Nella Relazione al Progetto del Codice Penale del 1930 si giustificò la previsione di una sanzione più lieve per l’ipotesi del secondo comma dell’art. 432 sulla base della presenza di (27) Cfr. E. DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravatore, un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 509. (28) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, opp. citt. Tali conclusioni sono ravvisabili in una sorta di obiter dictum in Cass. 20 ottobre 1986, in Foro it., 1987, c. 509. (29) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, Fatto e colpevolezza, cit., p. 715 e analog. Cass., SS.UU., 12 ottobre 1993, in Foro it., 1994, c. 437. Con tale argomento la Corte ha peraltro evitato di riprendere la vexata quaestio della compatibilità tra dolo eventuale e tentativo. Cfr. anche Cass. 17 marzo 1995, in Cass. pen., 1996, p. 1219 e, da ultimo, Cass., SS.UU., 12 aprile 1996, in Diritto penale e processo, 1997, f. 1, p. 55 ove si denuncia l’utilizzazione della figura del dolo eventuale come strumento di semplificazione probatoria e si sottolinea la necessità di distinguere le forme di dolo a seconda dei vari livelli crescenti d’intensità della volontà.
— 577 — un pericolo solo presunto, a differenza del pericolo concreto richiamato nella prima parte della disposizione (30). Mentre infatti il pericolo concreto integra un contenuto di maggior disvalore essendo connesso alla creazione di una situazione di effettiva potenzialità lesiva per il bene protetto, il pericolo presunto è il risultato di una progressiva volatilizzazione dell’offensività in considerazione della quale anche la pena deve, per il noto principio di proporzione, essere diminuita. Il problema che si pone in prospettiva di riforma è se sia legittimo mantenere la qualificazione di delitto a pericolo presunto e di pura condotta per il lancio di corpi contundenti contro veicoli privati in movimento. Innanzi tutto, l’illecito in esame è chiaramente caratterizzato da un’anticipazione della tutela penale allo stadio del pericolo realizzata attraverso l’utilizzazione di un modello d’incriminazione che, a parere di taluno, arretrerebbe la punibilità ad uno stadio ancora precedente a quello del tentativo, e cioè l’attentato (31). Nonostante infatti sia principalmente la formulazione del primo comma a richiamare la figura dell’attentato, anche il secondo comma integra un’ipotesi di attentato, come dimostrato dal tenore della rubrica dell’art. 432 c.p. L’ipotesi prevista dal Codice Rocco a proposito del lancio di corpi contundenti contro veicoli in movimento è dunque caratterizzata dalla forte stigmatizzazione di una condotta dalla quale la legge presume iuris et de iure la possibilità di un danno alle persone. Secondo la definizione data nella Relazione al progetto di Codice Penale del pericolo presunto, esso non determinebbe l’incriminazione di un comportamento privo di contenuto offensivo, dal momento che il pericolo presunto non è altro che ‘‘la probabilità della verificazione dell’evento dannoso ritenuta dal legislatore in base ad un calcolo delle possibilità logicamente e manifestamente accertato’’ (32). In realtà tale ragionamento appare, se pur formalmente corretto, fondato su una ‘‘truffa delle etichette’’. Se infatti la regola in base alla quale il legislatore ritiene e presume la pericolosità è imposta unilateralmente all’interprete ed è insuscettibile di verifica nella realtà concreta, si rende possibile anche l’incriminazione di fatti che non presentano alcun contenuto di offensività (33). A ben guardare dunque, nelle fattispecie di pericolo presunto, il le(30) Cfr. Relazione al Progetto del Codice Penale 1930, II, p. 223. Il Codice Zanardelli non prevedeva questa distinzione. Secondo Cass. 2 maggio 1990, in Cass. pen., 1991, I, p. 1991 il giudizio di pericolo concreto si risolve in un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione e immune da vizi logici e giuridici, sfugge al sindacato di legittimità. (31) Gran parte della dottrina è tuttavia indirizzata ad equiparare la struttura dell’attentato a quella del tentativo punibile al fine di rispettare il principio di necessaria offensività del reato. Cfr. E. GALLO, voce Attentato, in Dig. disc. pen., 1988, vol. I, Torino, p. 342; P. CURATOLA, voce Attentato, in Enc. dir., Milano, 1958, p. 968. Per una posizione diversa da quella tradizionale e protesa al mantenimento dell’autonomia del delitto di attentato rispetto al tentativo pur in prospettiva critica nei confronti della figura stessa cfr. T. PADOVANI, La tipicità inafferrabile, in AA.VV., Il delitto politico, 1984, p. 169 e G.A. DE FRANCESCO, I reati di associazione politica, Milano, 1985, p. 80. Il legame tra attentato e delitto politico è tale che un esponente della dottrina (ma la posizione è rimasta sostanzialmente isolata) sostiene che l’art. 432 non farebbe riferimento ad una vera e propria ipotesi di attentato essendovi coincidenza tra elemento oggettivo della fattispecie e oggetto del dolo (cfr. R. BETTIOL, Osservazioni in tema di delitto di attentato, in Ind. pen., 1975, p. 30). Nel delitto d’attentato invece i fatti compiuti hanno un ambito molto inferiore rispetto all’oggetto del dolo. Contro la tendenza all’equiparazione dell’attentato al tentativo cfr. G. ZUCCALÀ, Profili del delitto d’attentato, in questa Rivista, 1977, p. 1254. (32) Cfr. A. ROCCO, L’oggetto del reato, Milano, 1913, p. 306, nota n. 77, ove si distingue tra la presunzione del pericolo e la finzione del pericolo che è sfornita di qualunque base di fatto e risponde ad una pura e semplica causa utilitatis. (33) Cfr. M. PARODI-GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 283, ove si precisa che la presunzione di pericolo è una finzione di pericolo a differenza del procedimento di astrazione del pericolo che si risolve non in uno scollamento del giudizio di pericolo dalla realtà ma in una restrizione delle circostanze da tenere
— 578 — gislatore persegue fini che sono estranei al fondamento giustificativo dell’incriminazione del pericolo. Con la previsione di un reato di pericolo il legislatore intende prevenire la probabilità di danni a beni giuridici dotati di particolare importanza. Ne consegue che il modello che meglio si avvicina a tale scopo è quello del pericolo concreto che, essendo elemento della fattispecie oggettiva, deve essere oggetto di accertamento puntuale da parte del giudice secondo il criterio della prognosi postuma. Il pericolo concreto è dunque la specie di pericolo che più facilmente consente di ravvisare l’offensività della condotta (34). Nella sistematica dei reati di pericolo, la scelta di un pericolo che si allontani dal modello appena descritto necessita di una giustificazione rafforzata, perché è necessario non solo dimostrare la meritevolezza dell’anticipazione della tutela penale del bene giuridico ma anche l’impraticabilità del pericolo concreto. Il caso in cui è possibile giustificare sul piano della politica criminale la scelta del pericolo astratto è quello in cui vengono in considerazione beni giuridici immateriali e insuscettibili di essere lesi in senso naturalistico, anche se tali da costituire presupposto per la tutela di fondamentali beni individuali (35). Tale affermazione è confermata anche dalla dottrina più critica nei confronti del pericolo concreto (36). Volendo, a questo punto, analizzare le ragioni che possono aver indotto il legislatore a scegliere il modello del pericolo presunto nell’ipotesi dell’art. 432 cpv., deve anzitutto essere notato che tale scelta non appare giustificabile sulla base del fatto che, prevedendosi un caso di ‘‘comune pericolo’’, esso non può essere concreto. Tale affermazione entrerebbe, in primo luogo, in contraddizione con la previsione del primo comma della medesima disposizione che incrimina il pericolo concreto per la sicurezza dei trasporti. Tuttavia, secondo parte della dottrina, quando una fattispecie protegge un bene giuridico di genere, l’offesa è destinata a subire un processo di ‘‘volatilizzazione’’ trattandosi di beni che non possono essere lesi naturalisticamente (37). In presenza di beni giuridici quali la pubblica incolumità, la base del giudizio sarebbe ristretta dovendosi astrarre dall’individuazione dei soggetti passivi e quindi allontanarsi dal modello del pericolo concreto. presenti da parte del giudice. Non di pericolo presunto ma di pericolo astratto parla F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie oggettiva, Milano, 1994, p. 210 che, in ossequio al criterio della base ontologica totale ex ante, classifica le fattispecie di pericolo secondo il criterio della concretezza decrescente dell’offesa affermando che è solo la base ontologica del giudizio a poter subire restrizione e non quella nomologica. Cfr. anche S. CANESTRARI, voce Reati di pericolo, in Enc. giur., Roma, 1991, vol. XXVI, p. 6. (34) Cfr. G. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Il Tommaso Natale, Scritti in memoria di Girolamo Bellavista, vol. I, 1977, Palermo, 1977 ove si richiama la necessità di impiegare il concetto penalistico di pericolo con riguardo a quelle sole ipotesi in cui sussiste una possibilità seriamente apprezzabile di pericolo di verificazione di eventi dannosi. L’A. tuttavia sottopone a critica la tendenza a privilegiare il modello del pericolo concreto, al fine di rivalutare il ruolo politico criminale del pericolo astratto. L’idea per cui il pericolo concreto deve essere il modello di riferimento nella sistematica dei reati di pericolo viene imputata ad una Weltanschouung vetero-liberale. (35) Cfr. G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 691. L’elaborazione teorica della categoria dei Zwischenrechtsgüten è dovuta a K. TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, I, Reinbek bei Hamburg, 1976, p. 83 ss. (36) Cfr. G. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, cit., p. 185 ove peraltro si sottopone a revisione critica la tecnica di ricostruzione della fattispecie di pericolo secondo il modello dei reati causalmente orientati e cioé incentrando il disvalore della fattispecie sull’evento di pericolo. (37) Cfr. le posizioni di W. GALLAS, Abstrakte und konkrete Gefährdung, in Festschrift für Ernst Heinitz, Berlin, 1972, p. 180; F.C. SCHÖEDER, Die Gefährdungsdelikte im Strafrecht, in Zwt, 1969, p. 175. Contra F. ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., p. 217; GRASSO, op. cit., p. 699 e 715; G. FIANDACA, Il bene giuridico, cit., p. 67; F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del bene giuridico, Milano, 1983, p. 187; M. PARODI-GIUSINO, op. cit., p. 257 ss. ove si specifica che il livello di concretezza del pericolo non dipende dalla tipologia del bene giuridico ma dalla struttura della fattispecie.
— 579 — A questa posizione può tuttavia obiettarsi che l’astrazione del bene giuridico non comporta necessariamente la costruzione di fattispecie che non presentano alcun contenuto offensivo percepibile in termini ‘‘reali’’, in conformità alla concezione metodologica dell’oggetto della tutela penale (38). Il fatto che si prescinda dalla concreta individualità dei soggetti passivi e dalla loro presenza nel raggio di azione della condotta dell’agente non vale ad giustificare la creazione di una fattispecie di pericolo presunto (39), visto che il riferimento ad un bene giuridico di genere non è d’ostacolo all’individuazione di un referente obiettivo e concreto della tutela. Pur dovendosi, infatti, ammettere che il bene dell’incolumità pubblica e della sicurezza dei trasporti presentano un certo grado di astrazione, bisogna precisare che, al di là della formulazione letterale, il riferimento alla pubblica incolumità non impedisce di individuare concretamente il bene giuridico protetto nella vita e nell’incolumità di un numero indeterminato di persone (40). Lo scopo del concetto di pubblica incolumità, è, infatti, apprezzabile proprio in quelle ipotesi ove si prescinde dalla verificazione di un evento dannoso, per incriminare una condotta dotata di potenzialità dannosa diffusiva e incontrollabile. Tali considerazioni appaiono confermate proprio dall’origine storica dei reati di pericolo comune, i quali vennero elaborati sul modello dell’incendio, che si caratterizza per lo scatenamento da parte dell’agente di forze naturali da lui poi non più controllabili (41). Posto, allora, che il pericolo per la sicurezza dei trasporti creato dal lancio dei corpi contundenti non ha ragione di essere formulato in termini di pericolo presunto, non può che concludersi che la disposizione attuale incrimina un ‘‘non pericolo’’. Se infatti, tramite tale fattispecie, si rende possibile incriminare anche comportamenti privi di qualunque offensività, non viene più in considerazione un pericolo ma una pericolosità sociale dell’autore. Alla pena viene quindi assegnata la funzione di una misura di sicurezza con funzione di neutralizzazione dell’agente (42). (38) In realtà se si procede ad una costruzione del bene giuridico inteso come ratio dell’incriminazione, viene meno la funzione di controllo politico-garantista del bene giuridico, potendosi concepire solo violazione di doveri (Pflichtverleztung). Cfr. H.J. RUDOLPHI, Die verschiedenen Aspekte des Rechtsgutsbegriffs, in Vestschrift für Richard Honig, Göttingen, 1970, p. 151; K. AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt, 1972, che sono i principali sostenitori della concezione metodologica del bene giuridico. Per la critica alla concezione metodologica del bene giuridico cfr. F. ANGIONI, op. cit., p. 97. (39) Il Gemeine Gefahr venne introdotto per la prima volta in Germania nel 1794 e venne definito come il pericolo insito nei fatti che ‘‘mehrere Bürger des Staates, oder gar das Publikum überkaupt, in Schaden oder gefahr setzen’’. Per la dottrina italiana cfr. S. ARDIZZONE, voce Comune pericolo (reati colposi di), in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 390; G. SAMMARCO, voce Incolumità pubblica (reati contro la), in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, p. 29; B. BATTAGLINI, voce Incolumità pubblica (delitti contro la), in Nss. Dig. it., vol. VIII, Torino, 1968, p. 544; A. ZERBOGLIO, Delitti contro l’incolumità pubblica, Milano, 1935, p. 85. (40) Cfr. F. ANGIONI, Concetto e funzioni, cit., p. 150, ove si auspica un procedimento di concretizzazione del bene giuridico della pubblica incolumità intendendolo o come somma di beni individuali o come strumento per il soddisfacimento di beni individuali. (41) Analog. G. FIANDACA, La tipizzazione, cit., p. 462, ove si definisce l’incolumità pubblica come una semplice astrazione concettuale direttamente comprensiva delle singole vite di soggetti concreti. (42) Contra, G. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, cit., p. 190 e E. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974. Gli autori negano la rilevanza costituzionale della distinzione funzionale tra pena e misura di sicurezza, partendo dall’assunto per cui il testo costituzionale si limita solo ad imporre una riserva di legge sulle conseguenze penali del reato. Funzione precipua della pena è anzi quella rieducativa che non determina l’incriminazione della mera disobbedienza ma implica l’offesa ad un bene giuridico. L’incriminazione della mera disobbedienza è invece il rischio di una tecnica di tipizzazione del pericolo tale da non rendere agevole la deduzione delle note tipiche di offensività della condotta.
— 580 — Se, quindi, il lancio di sassi produce un pericolo concreto per la sicurezza del trasporto dovrebbe risultare applicabile il solo primo comma. La conseguenza è allora che, l’art. 432 cpv., anche eliminando il requisito della pubblicità attualmente presente, risulterebbe inutile ed inapplicabile. Il problema che, a questo punto, potrebbe porsi è quello del trattamento del lancio di corpi contundenti contro veicoli in movimento che non si risolva nel pericolo per la pubblica incolumità com’è stata appena descritta. Un’eventuale lacuna di tutela non parrebbe accettabile dal momento che, la condotta appena descritta è suscettibile di creare un allarme per un numero indefinito di soggetti. In particolare, l’interesse che appare leso è quello al pacifico e regolare svolgimento dei trasporti che, solo nelle più gravi ipotesi, può divenire anche pericolo per la sicurezza. Non può, infatti, negarsi l’importanza che, nella società attuale, assume il regolare svolgimento del traffico sia perché coinvolge un gran numero di soggetti sia perché è parte della vita della comunità civile. Quando taluno lancia corpi contundenti contro mezzi di trasporto, si alterano le condizioni normali in cui ha luogo la circolazione dal momento che il transito dei veicoli si realizza in situazioni di rischio di gravi danni alla persona. Le condotte in esame si caratterizzano infatti per l’assoluta casualità della vittima, per l’imprevedibilità dell’offesa e per la totale mancanza di mezzi di difesa. Volendo allora mantenere un senso nell’art. 432 cpv., si potrebbe assegnare alla fattispecie del lancio di corpi contundenti ivi descritta una funzione autonoma rispetto all’ipotesi del primo comma facendo variare il bene giuridico protetto: non la sicurezza ma la regolarità e la pacificità dei trasporti. Quest’ultime risultano tuttavia specificazioni del concetto di ordine pubblico più che di quello di pubblica incolumità. La sorte dell’art. 432 cpv. potrebbe essere quella della trasmigrazione nel titolo dei delitti contro l’ordine pubblico (43) con una formulazione forse utilmente desumibile, mutatis mutandis, dall’art. 634 c.p. intitolato alla ‘‘turbativa violenta del possesso di cose immobili’’ che prevede che ‘‘chiunque (...) turba, con violenza alle persone o minaccia, l’altrui pacifico possesso di cose immobili è punito (...)’’ (44). L’ordine pubblico corrisponde al senso della tranquillità e della sicurezza dei cittadini che devono poter contare sull’assenza di pericoli nello svolgimento delle loro occupazioni quotidiane. Tale ‘‘sentimento’’ non deve tuttavia essere inteso come affidamento nel rispetto, da parte della generalità dei consociati, dei valori indicati dal potere politico perché, se così fosse, il bene giuridico protetto sarebbe talmente vago da confondersi con la ratio di tutte le fattispecie di reato cioé di un ideale concetto di ordine dei rapporti sociali (45). Il bene giuridico ‘‘ordine pubblico’’ è un bene giuridico di genere che deve essere sufficientemente specificato per poter svolgere, nell’ambito della fattispecie, una funzione di referente obiettivo della tutela. Nel caso di specie ciò che risulta meritevole di tutela è la salvaguardia delle condizioni materiali nelle quali il trasporto deve svolgersi per consentire a tutti di circolare liberamente. Se, infatti, è opportuno che vengano incriminate le condotte che determinano un concreto pericolo per la sicurezza dei trasporti, è altrettanto importante tutelare le condizioni per la praticabilità stessa della circolazione su strada. Il coinvolgimento, inoltre, di importanti interessi della comunità nel quadro della tutela delle persone impedisce che tale illecito possa costituire una contravvenzione. Adottando la soluzione del delitto contro il regolare svolgimento del trasporto, potrebbe, pur differenziandosi le fattispecie di riferimento, giungersi ad una completa tutela della circolazione sia sotto (43) Per tutti cfr. L. DE VERO, voce Ordine pubblico, in Dig. disc. pen., vol. IX, 1995, Torino, p. 82. (44) Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 135 e G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. II, tomo II, Torino, 1996, p. 257. (45) Dottrina prevalente esclude che l’oggetto della tutela possa essere l’ordine pubblico ‘‘ideale’’ inteso come insieme dei valori e principi immanenti all’ordinamento giuridico. Cfr. tra gli altri L. PALADIN, voce Ordine pubblico, in Nss. Dig. it., vol. XII, Torino, 1965, p. 130 ss.
— 581 — il profilo dei rischi per l’incolumità delle persone, sia sotto il profilo del regolare svolgimento dei traffici. La tutela penale verrebbe così indirizzata non solo al quomodo dei trasporti ma anche all’an. La distinzione tra sicurezza e regolarità dei trasporti consente di costruire fattispecie che risultano, tra loro, in rapporto d’incompatibilità. Se, infatti, il soggetto ha attentato alla sicurezza dei trasporti ha necessariamente determinato una situazione disfunzionale alla regolarità del traffico. Se, tuttavia, ha posto in essere solo atti idonei a turbare la pacificità dei trasporti, la fattispecie di riferimento non potrebbe essere quella del delitto contro la pubblica incolumità. Sarebbe dunque da escludere un concorso formale o materiale di reati. In settori come quelli in esame, ove è materialmente percepibile la potenzialità lesiva della condotta, la fattispecie può ben svolgere una funzione specialpreventiva strutturandosi sul modello del reato di comune pericolo concreto o di lesione. I beni giuridici appena richiamati non sono insuscettibili di essere lesi naturalisticamente dal momento che, nonostante la formulazione letterale (sicurezza e pacifico svolgimento dei trasporti) il polo della tutela è comunque costituito dalla tutela delle persone che usano mezzi di trasporto e percorrono vie di pubblico transito. La sicurezza dei trasporti corrisponde alla vita e all’incolumità di un numero indeterminato di persone mentre la regolarità dei trasporti all’assenza di turbative obiettivamente percepibili che ne compromettano le condizioni di ordine materiale. Appare infine opportuno fare qualche ulteriore osservazione in ordine alla possibile collocazione sistematica del pericolo per la sicurezza e l’ordine dei trasporti. Ci si potrebbe, infatti, domandare se, al fine di impedire che la tutela del bene giuridico predetto finisca con il risultare condizionata ad un difficile accertamento sotto il profilo del dolo dell’atteggiamento rappresentativo dell’agente riguardo al pericolo, non si riveli maggiormente opportuno configurare quest’ultimo nei termini di una condizione (obiettiva) di punibilità (46). L’idea, tuttavia, per la quale il pericolo per la sicurezza o per la regolarità dei trasporti dovrebbe essere espunto dall’oggetto del dolo avvalendosi dello strumento delle condizioni di punibilità, appare scarsamente significativa in considerazione dei risultati cui la Corte costituzionale è pervenuta con riguardo alle stesse (47). In particolare, muovendo dal presupposto sottolineato dalla stessa Corte, secondo cui siffatta categoria di condizioni non potrebbe comunque porsi al di fuori di una verifica in termini di colpevolezza, è facile avvedersi come la rilevanza pratica della questione finirebbe con lo ‘‘stemperarsi’’ nell’applicazione concreta, quantomeno sotto il profilo dell’effettiva rappresentabilità del risultato della condotta (48). 4. All’esame della Commissione Giustizia del Senato sono stati recentemente presentati due disegni di legge finalizzati alla repressione del lancio di corpi contundenti contro vei(46) Cfr. retro nota n. 15 e la dottrina ivi citata. Favorevole all’inserimento del pericolo nelle condizioni di punibilità G. VASSALLI, Considerazioni sul principio d’offensività, in Studi in onore di Ugo Pioletti, Milano, 1982, p. 619. Per un’interpretazione delle condizioni di punibilità in conformità con il principio di colpevolezza cfr. F. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1440. (47) Cfr. C. Cost. n. 1085/1988, in Foro it., 1989, I, c. 1378, con nota di A. INGROIA. Sul punto cfr. anche D. BARTOLETTI, Furto d’uso e principio di colpevolezza, in Legisl. pen., 1989, p. 415. (48) Nella sent. n. 1085, cit., la Consulta ha infatti espressamente stabilito che ‘‘soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27 Cost.’’. È, a questo punto, opportuno precisare che il richiamo al principio di colpevolezza, anche riguardo alle condizioni obiettive di punibilità c.d. intrinseche, dovrebbe comportare, quantomeno, la rappresentabilità, da parte dell’agente, dell’evento nel quale la condizione viene, volta per volta, ad esprimersi. Ragion per cui, anche a voler distinguere tra elementi costitutivi e condizioni, risultando necessaria (in mancanza di diverse indicazioni) l’esistenza di un atteggiamento doloso, la questione, sul pian pratico e applicativo, appare destinata comunque a stemperarsi, essendo ben noto come la stessa figura del dolo eventuale venga desunta proprio da un quadro prognostico incentrato nelle concreta prevedibilità di un evento ulteriore derivante da una condotta illecitamente intrapresa. Cfr. a favore della tesi della necessaria prevedibilità in
— 582 — coli in movimento destinati ai trasporti privati. Si tratta del disegno di legge n. 1960 e del progetto n. 2134 (49). Le due proposte si differenziano notevolmente sia sul piano della formulazione sia sul piano sanzionatorio. Il primo disegno di legge prevede che ‘‘Chiunque pone in pericolo la sicurezza dei mezzi di trasporto in movimento per terra, per acqua o per aria mediante lancio di corpi contundenti o in altro modo è punito con la pena della reclusione da due a sette anni’’. Sono inoltre previste circostanze aggravanti qualora il mezzo di trasporto sia pubblico e qualora dalla condotta derivi un disastro. La fattispecie di nuova formulazione prevede l’unificazione del delitto di messa in pericolo della sicurezza dei trasporti e di lancio di corpi contundenti attualmente distinte. Il pericolo viene inoltre posto come risultato della condotta configurandosi dunque un vero e proprio evento di pericolo e imponendosi al giudice l’accertamento sulla concreta idoneità lesiva della condotta. Rientrando nella fattispecie obiettiva il pericolo per la pubblica incolumità deve dunque essere ricompreso nell’oggetto del dolo con conseguente negazione della punibilità ove siano intervenuti fattori imprevedibili per il soggetto agente (50). Particolare attenzione è stata poi dedicata al minimo edittale della fattispecie che, alzato da tre mesi a due anni, consentirebbe di disporre il fermo degli indiziati di delitto da parte della polizia giudiziaria ex art. 384 c.p. Tale minimo edittale appare però sproporzionato per eccesso se si raffronta l’ipotesi in esame con corrispondenti fattispecie di pericolo per il medesimo bene giuridico. La disposizione sulla rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.) prevede un minimo edittale di sei mesi con la conseguenza che per due ipotesi di pericolo per la vita e l’incolumità delle persone si prevederebbe una sanzione profondamente diversa. Se allora la sanzione non viene ridimensionata v’è la probabilità che la nuova norma non raggiunga lo scopo per il quale era stata formulata, essendo il giudice portato a disapplicarla nei casi concreti cercando delle alternative più ragionevoli e proporzionate. Se la normativa progettuale descritta dal disegno di legge appena ricordato non appare, salvo quanto si dirà tra breve, del tutto priva di coerenza sistematica, ben maggiori perplessità suscita l’altro progetto di legge attualmente in discussione. Il disegno di legge n. 2134 prevede la pena della reclusione fino a quattro anni per concreto dell’evento condizionale da parte dell’agente F. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1441. (49) Il problema dominante esaminato durante la discussione sui disegni di legge è stato quello della necessità di colmare una lacuna di tutela. Nel corso del dibattito si sono però sviluppati anche orientamenti critici nei confronti dell’opportunità di rispondere ai fatti in esame con una sanzione penale. I senatori Pellicini, Salvato e Preioni hanno proposto l’adozione di misure di tipo educativo (anche se non meglio specificate) o di maggiori controlli di polizia. Entrambi i disegni di legge sono tuttavia espressione di forti esigenze generalpreventive ravvisabili nell’inasprimento sanzionatorio e nella descrizione in termini generici delle condotte. La disposizione di riferimento, nel sistema del diritto penale attuale, è stata considerata quella dell’art. 432 c.p. Entrambe le proposte risultano orientate a connotare di forte disvalore le condotte, con una conseguente riduzione dell’importanza del dolo, come è ravvisabile nel disegno n. 2134 ove si costruisce una vera e propria responsabilità oggettiva per l’evento più grave. (50) II tema dell’elemento soggettivo nei reati di pericolo è caratterizzato da due posizioni differenti nella dottrina. M. PARODI-GIUSINO, op. loc. cit., sostiene infatti che il rilievo dell’elemento della prevedibilità dell’evento lesivo da parte di chi realizza la condotta deve essere apprezzato anche nella determinazione della base del giudizio. Il giudice cioé non potrebbe formulare un giudizio di pericolo in base a circostanze non conoscibili da parte dell’agente. Ciò infatti determinerebbe la frustrazione del principio di personalità della responsabilità penale nonché del principio d’irretroattività della norma penale. Contra ANGIONI, che invece, separando il problema della determinazione della base del giudizio da quello del dolo di pericolo, afferma che la base del giudizio attinente al pericolo concreto deve ricomprendere tutte le circostanze esistenti nel momento che risulta più favorevole alla prognosi del pericolo a prescindere dalla loro conoscibilità da parte dell’agente.
— 583 — ‘‘chiunque lancia corpi contundenti o qualsiasi altro oggetto contro mezzi di trasporto in movimento per terra, per acqua o per aria. Se dal fatto derivano la morte o le lesioni personali si applicano le pene previste dal Codice per le lesioni o l’omicidio volontario’’. Lo schema prescelto dal legislatore è quello del delitto aggravato dall’evento di tipo preterintenzionale ove però la fattispecie di base non si caratterizza per la volontà dell’evento meno grave dal quale poi deriva un evento più grave non voluto conseguenza della condotta, venendo, piuttosto, in considerazione una fattispecie a pericolo presunto iuris et de iure ove anche il dolo si pone come mera volontarietà della condotta. Ne deriva che la norma in esame non punisce una reale messa in pericolo ma, allo scopo di raggiungere il massimo dell’efficacia dissuasiva, descrive una situazione dalla quale può essere tratta una presunzione di pericolosità sociale dell’agente. L’intento, peraltro non celato dagli stessi autori del progetto, è quello di assegnare alla norma penale compiti che sono propri della politica sociale cioè la formazione dei cittadini al rispetto dei valori della convivenza. Il sistema della presunzione del pericolo e l’attribuzione della morte o delle lesioni cagionate alle persone a titolo di dolo determinano un uso della pena distonico rispetto ai suoi postulati costituzionali. Si incrimina qui non tanto una violazione di un dovere di obbedienza, posto che non è ravvisabile uno specifico divieto posto a tutela di un interesse, ma una propensione al delitto desunta da un comportamento che può anche essere privo di qualunque significato offensivo. All’irrazionalità della formulazione della fattispecie si affianca un’eccessiva ampiezza dei limiti edittali che determinano due conseguenze negative: a) l’attribuzione al giudice di un potere assoluto di determinazione della pena, e b) la frustrazione dell’efficacia generalpreventiva di una norma che, prevedendo un limite edittale così basso non è idonea a fornire un messaggio chiaro sul grado d’importanza che l’interesse della sicurezza dei trasporti assume secondo il legislatore. In tali condizioni saranno le multiformi considerazioni del giudice a dare un senso alla norma avendo inteso il legislatore semplicemente dar vita ad una ‘‘norma manifesto’’ (51). Tutto ciò considerato, sarebbe tuttavia eccessivo esprimere un’opzione del tutto incondizionata a favore del progetto di legge per primo esaminato. Resta, invero, da domandarsi, sulla scia di quanto si notava in precedenza, se non sarebbe stato più opportuno attuare una suddivisione di modelli di tutela, riservando il primo all’individuazione di fatti pericolosi per la sicurezza collettiva, ed il secondo, invece, alla repressione di comportamenti che, pur non risultando immediatamente pericolosi nei confronti della pubblica incolumità, si rivelino tuttavia idonei a compromettere quella regolarità della circolazione e dei trasporti in cui si coglie il particolare profilo di tutela dell’ordine pubblico sul quale si è avuto più volte occasione di porre l’accento. GAETANA MORGANTE Perfezionanda in Diritto penale presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento ‘‘S. Anna’’ di Pisa
(51) È ravvisabile, in questo caso, un’ipotesi di anticipazione della tutela penale con scopi meramente simbolici quando non addirittura di semplica prova della lesione. Cfr. T. PADOVANI, Diritto penale della prevenzione, cit., p. 638, ove si individua, nelle ipotesi di pericolo presunto una cristallizzazione del pericolo astratto. Contrariamente ritiene M. PARODI GIUSINO (I reati di pericolo, cit., p. 402 s.) che il pericolo astratto si differenzi da quello presunto dal momento che restringe la base ontologica del giudizio pur non esonerando il giudice da una verifica concreta. Ne deriva che, se le circostanze dalle quali è necessario astrarre non sono rilevanti, il pericolo astratto si avvicina proprio al giudizio di pericolo concreto.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
UNA SVOLTA STORICA NEL DIRITTO PENALE CINESE: L’INTRODUZIONE DI UN NUOVO CODICE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La necessità di una modifica totale del codice del 1979. — 3. La modifica della parte generale del codice penale. — 3.1. I limiti d’applicazione della legge penale cinese nello spazio. — 4. Il soggetto attivo del reato. — 4.1. L’imputabilità. — 4.2. La responsabilità penale delle persone giuridiche. — 5. La difesa legittima. — 6. Il sistema delle sanzioni. — 6.1. La pena di morte. — 6.2. La commisurazione giudiziale della pena. — 6.3. Le misure alternative all’esecuzione penitenziaria. — 7. La modifica della parte speciale. — 8. Conclusioni. 1. Premessa. — Dal primo ottobre 1997 è entrata in vigore la « Legge Penale della Repubblica Popolare Cinese », in seguito all’approvazione, in data 14 marzo 1997, di una legge di modifica del codice del 1979 da parte del Congresso Popolare Nazionale Cinese (CPN). Bisogna preliminarmente precisare che, nonostante con il provvedimento normativo appena richiamato non si fosse inteso introdurre, stricto sensu, un nuovo codice penale con conseguente abrogazione di quello del 1979, la novellazione del testo previgente è stata così radicale, sia con riguardo al numero delle disposizioni (da 192 a 452) sia con riguardo al fatto che tutte le norme contenute nel codice del 1979 sono state modificate, che non parrebbe fuori luogo parlarne nei suddetti termini. 2. La necessità di una modifica totale del codice del 1979. — Il codice penale del 1979 (entrato in vigore nel 1980) fu il primo codice della Repubblica Popolare Cinese. Sebbene, tuttavia, i profondi cambiamenti economici, politici e sociali intervenuti a partire dal 1980 inducessero parte della dottrina a ritenere necessaria una riforma integrale del testo, tale orientamento non poteva considerarsi affatto unanime dal momento che taluno dubitava che esistessero le condizioni per una modifica di così ampie proporzioni. La ragione di tale perplessità era sostanzialmente duplice. Per certi versi, infatti, si sottolineava che la Cina si trovava, dal punto di vista economico, in un momento transitorio in conseguenza del mancato consolidamento delle strutture del libero mercato. Sarebbe, dunque, stato estremamente difficile, in un momento in cui i nuovi valori non erano perfettamente assorbiti nella coscienza sociale, individuare gli interessi meritevoli di tutela penale. Sotto un altro angolo visuale, si richiamava la necessità di una maggiore meditazione sull’opportunità di incidere in modo eccessivamente rilevante proprio in un settore, quale quello penale, ove sarebbe auspicabile un atteggiamento di maggiore prudenza. Il legislatore, in contrasto con le argomentazioni appena richiamate, ritenne, tuttavia, la necessità di modificare il codice previgente aderendo all’orientamento dottrinario e giurisprudenziale che si è per primo ricordato. Per quanto, allora, attiene alla fase transitoria vissuta dalla Cina a partire dal 1980, è necessario precisare che, sebbene gli osservatori stranieri tendano ad enfatizzarne gli aspetti (*) Si ringrazia il prof. TULLIO PADOVANI per aver guidato e curato la redazione di questo saggio.
— 585 — economici a scapito di quelli politici, anche l’assetto dei rapporti tra Stato e cittadini è molto cambiato. Trascurare, inoltre, le questioni politiche non pare corretto neppure sotto il profilo logico dal momento che è innanzi tutto il cambiamento politico-istituzionale a creare le premesse per le modificazioni di un certo assetto dell’economia. I primi segnali di rinnovamento istituzionale in Cina si ebbero tra il 1978 e il 1982. Originariamente si sviluppò una corrente fortemente connotata ideologicamente e volta a liberarsi dalle sovrastrutture marxiste e maoiste. Solo nel 1982 tali orientamenti di pensiero furono fatti propri dallo stesso Governo del Paese che decise di allargare gli orizzonti delle proprie scelte strategiche, specie nel campo economico, oltre gli angusti confini derivanti dal rispetto delle dottrine totalitarie appena richiamate. Avviato poi lo sviluppo dell’economia di mercato, era interesse degli stessi operatori promuovere il consolidamento dei valori della democrazia, del rispetto dei diritti umani e, in generale, di uno Stato di Diritto. Sul piano più strettamente legislativo, poi, è possibile individuare dei segnali di cambiamento coerenti con la progressiva accettazione dei valori democratici. Nel 1989, ad esempio, una riforma della Legge Processuale Amministrativa previde che un cittadino potesse fare ricorso ad una corte popolare per impugnare un atto amministrativo. Nel 1993, inoltre, venne introdotta nella Costituzione della Repubblica Popolare una disposizione volta a riconoscere e salvaguardare l’economia di mercato e la democrazia socialista. Il 17 marzo scorso, infine, il CNP ha approvato la nuova Legge Processuale Penale della Repubblica Popolare Cinese (o Codice di procedura penale) che ha riconosciuto alcuni principi fondamentali per uno Stato di Diritto, quali la presunzione di non colpevolezza finché non sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna, la libertà della professione d’avvocato, prima appiattita, come quella del giudice, sullo svolgimento di un mero impiego statale e il divieto, per la polizia giudiziaria, di arrestare una persona, privandola della libertà, senza un’imputazione formale. Anche la disciplina d’applicazione delle sanzioni amministrative è stata fortemente modificata, essendosi stabilito che nessuno vi possa essere sottoposto se non in forza di una previsione di legge o di regolamento o di norme disciplinari scritte, nonché dopo un processo (art. 3) ove ciascuno, sia esso persona fisica o giuridica, abbia avuto il diritto di difendersi e di proporre appello contro l’eventuale sentenza di condanna. Il 27 ottobre scorso, inoltre, il governo cinese dichiarava di aderire al Patto Internazionale per i diritti civili e politici. Secondo la mia opinione, il vero cambiamento sul quale sarebbe opportuno soffermare l’attenzione è quello che riguarda il ruolo del Congresso Popolare Cinese. Nel corso di questi anni, infatti, esso ha perso la veste di mero simbolo che aveva assunto nel passato, per svolgere, spesso, una funzione di tipo legislativo anche in contrasto con le direttive governative. Può dirsi, rebus sic stantibus, che nessun provvedimento di legge d’iniziativa governativa è approvato senza modifiche del Congresso. In campo penale, la progressiva presa di coscienza dell’importanza del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo rendeva evidente la necessità di una riforma, come era agevole desumere dalla quantità di leggi speciali intervenute in funzione di modifica della legge penale del 1979, non solo con riferimento alle fattispecie della parte speciale ma anche con riguardo ai principi generali. La legge doganale approvata il 1o luglio 1987, ad esempio, prevede che soggetti attivi di determinati reati in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope, di corruzione o di produzione o vendita di merci contraffatte potessero essere non solo le persone fisiche ma anche quelle giuridiche. Non avendo, tuttavia, tali interventi un carattere sistematico, si creavano non facili problemi interpretativi. In primo luogo, talune disposizioni della Legge Penale si ponevano in contrasto con le leggi speciali regolanti la stessa materia, con conseguente problema di individuazione di casi di vera e propria abrogazione tacita.
— 586 — In secondo luogo, si potevano ravvisare forti sperequazioni sanzionatorie, come nel caso del reato di organizzazione della prostituzione punito con una pena (la reclusione non inferiore ad anni dieci) molto più grave di quella prevista per i delitti di omicidio doloso o di rapina (tre anni di reclusione). In terzo luogo, nella legislazione speciale non mancavano disposizioni emergenziali caratterizzate dal fatto di derogare a principi fondamentali già previsti dalla legge del 1979. Per contrastare, ad esempio, le più gravi forme di criminalità si ammetteva in casi determinati, con due leggi rispettivamente approvate dal Comitato Permanente del CNP l’8 marzo 1982 e il 2 settembre 1983, l’applicazione retroattiva della legge sfavorevole al reo. La procedura così seguita era, tuttavia, chiaramente incostituzionale dal momento che solo il Congresso Nazionale del Popolo (art. 62 cost.) può modificare i principi fondamentali del diritto penale, potendo il Comitato solo interpretare, modificare ovvero integrare la legge penale (art. 67). Nonostante tutto, però, il Comitato nazionale aveva proceduto alla modifica di diversi principi fondamentali, quali l’irretroattività della legge penale sfavorevole al reo, l’attribuzione di una responsabilità penale anche alle persone giuridiche, l’introduzione del principio d’universalità della legge penale cinese per taluni reati e la possibilità dell’irrogazione della pena di morte da parte della Corte Suprema per taluni gravi reati. 3. La modifica della parte generale del Codice Penale. — Come quella del 1979, la nuova legge penale cinese distingue una parte generale e una parte speciale. La parte generale si divide in cinque titoli costituiti, rispettivamente, dal « Compito, i principi fondamentali e i limiti dell’applicazione della legge penale », dal « Reato e dalla responsabilità penale », dalle « Pene », da « L’applicazione della pena » e, infine, dalle « Altre disposizioni ». Sebbene le formulazione dei suddetti titoli non si discosti, in modo rilevante, dal tenore delle disposizioni previgenti, il contenuto è profondamente mutato (1). La differenza più significativa tra il codice del 1979 e quello vigente consiste nell’espressa previsione, ad opera di quest’ultimo, dei principi generali valevoli in materia penale. Durante la discussione del progetto preliminare della Legge Penale Cinese si discusse animatamente sull’opportunità di prevedere l’inserimento di un capo dedicato ai principi generali nonché sull’identità di tali principi. Nel Titolo primo, ad esempio, si fa espressamente riferimento al principio di legalità, di uguaglianza, di proporzionalità della pena al fatto commesso. Per quanto attiene al principio di legalità (zui xing fa ding ovvero il reato e la pena devono essere determinati dalla legge), il suo riconoscimento formale permetteva di considerare illegittime le leggi che prevedevano l’applicazione analogica (2) o la retroattività (3) delle norme penali sfavorevoli al reo, come già la dottrina aveva sottolineato da lungo tempo. Si prendeva, dunque, piena coscienza della funzione di garanzia del principio di legalità, specie con riguardo alla limitazione della discrezionalità del potere giudiziario e alla tassatività e determinatezza della fattispecie incriminatrice. L’art. 3, infatti, prevede che « i reati sono previsti espressamente dalla legge e puniti con le sanzioni da questa stabilite ». Nella parte generale, il nuovo codice ha, inoltre, previsto espressamente il divieto di ap(1) Si precisa che il nuovo codice ha aggiunto i c.d. Reati di Ente al Titolo Secondo ed ha modificato la formulazione del Titolo Primo (in precedenza dedicato alla « Teoria direttrice, il compito il limite dell’applicazione della legge penale ») e del terzo capo del Titolo Quarto (avente originariamente ad oggetto solo « La resa volontaria » e non ricomprendendo anche « le condotte meritevoli »). (2) Emblematici i casi di toujidaoba, vale a dire operazione speculativa, di lumang (condotta teppista), di wanhuzhishon (condotta contro il proprio dovere d’ufficio). (3) Con una legge del 1983 si previde, ad esempio, che le circostanze aggravanti di determinati reati potessero essere applicate anche retroattivamente.
— 587 — plicare analogicamente le norme penali, il divieto di retroattività delle disposizioni sfavorevoli al reo (4), la limitazione del potere discrezionale del giudice (5). Nella parte speciale, invece, è ravvisabile un maggiore sforzo di tassativizzazione delle fattispecie incriminatrici, con conseguente abrogazione di tutte quelle disposizioni che presentavano un precetto primario assolutamente vago (c.d. « reati di sacco », ad esempio il reato di teppismo definito come « condotta che disturba l’ordine sociale » o di manovre speculative sulle merci, atto a ricomprendere tutte le condotte di natura economica volte ad ottenere un profitto illegale). 3.1. I limiti d’applicazione della legge penale cinese nello spazio. — Le due principali modifiche intervenute nella suddetta materia riguardano l’introduzione del principio della personalità attiva, secondo il quale la legge penale cinese è applicabile ai reati commessi, anche all’estero, dai cittadini cinesi e, per taluni reati, di quello d’universalità. Il codice del 1979 prevedeva che, salvi i casi di delitti di controrivoluzione, di falsità in monete o in carte di pubblico credito, di corruzione di pubblici ufficiali, di rivelazione dei segreti dello Stato, di falsità personali, in atti o documenti o sigilli, al cittadino cinese che avesse commesso un reato all’estero avrebbe potuto essere applicata la legge penale cinese solo se il fatto fosse stato previsto come reato anche dalla legge del Paese del locus commissi delicti e se, dalla legge cinese, fosse stato punito con una pena edittale non inferiore, nel minimo, a tre anni. Prevede, invece, l’art. 7 della legge penale cinese appena entrata in vigore che il cittadino cinese che abbia commesso un reato all’estero può essere punito in forza della legge nazionale indipendentemente dalla circostanza che, nel paese ove esso è stato posto in essere, il fatto non sia previsto come reato. Se, tuttavia, la pena prevista dalla legge penale cinese è inferiore, nel massimo, a tre anni, il Giudice ha il potere discrezionale di non procedere, tranne che il fatto sia stato realizzato da un pubblico ufficiale o da un militare. La ragione dell’estensione dei limiti della punibilità dei fatti commessi dal cittadino cinese all’estero può essere individuata nell’opportunità di salvaguardare i rapporti con gli altri Stati dal deterioramento che potrebbe derivarne in caso di impunità dei fatti di reato realizzati all’estero dagli stessi cittadini cinesi. Per quanto riguarda il principio d’universalità, bisogna precisare che, nonostante la Cina fosse dotata di strumenti idonei a punire i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (il tribunale per i crimini di guerra era, infatti, stato istituito immediatamente dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese), non pochi ostacoli si frapponevano all’adempimento degli obblighi assunti anche in sede internazionale dallo Stato in conseguenza della ratifica di numerose convenzioni) internazionali aventi ad oggetto la repressione dei c.d. crimina iuris gentium. In primo luogo, la Cina non aveva provveduto ad approvare leggi interne per l’adempimento degli obblighi internazionali di cui si è appena detto. In secondo luogo, con riferimento ai crimini contro l’umanità, il codice cinese non aveva adottato il principio d’universalità. Il codice, infatti, ancorava l’applicazione della (4) Prevede, infatti, l’art. 9 che « i fatti posti in essere dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese e prima dell’entrata in vigore della presente legge, non possono essere puniti se, per la legge del tempo in cui furono commessi, non costituivano reato. Se, invece, erano previsti come reato si applicheranno le disposizioni incriminatrici previgenti tranne che la nuova legge penale risulti più favorevole al reo. In tale ultimo caso, si applica retroattivamente la norma più favorevole ». (5) Prevedeva, infatti, l’art. 59 del codice penale del 1979 che, nei casi in cui l’avesse ritenuto necessario, il Comitato di giudizio di qualsiasi Corte Popolare avrebbe potuto applicare una circostanza attenuante anche non prevista dalla legge. Tale potere è, oggi, invece, attribuito alla sola Corte Suprema.
— 588 — legge penale al rispetto del principio di territorialità temperato dall’eventuale applicazione del principio della difesa e della personalità attiva. Il 23 giugno 1987, tuttavia, il Comitato Permanente del CNP ha approvato un provvedimento di modifica della legge penale cinese che stabiliva che « per i reati previsti dalle convenzioni internazionali ratificate dalla Repubblica Popolare cinese, lo Stato esercita il proprio potere giurisdizionale nei limiti degli obblighi assunti ». Il principio d’universalità veniva altresì applicato ai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. In forza di una legge approvata il 28 dicembre 1990, si stabiliva, infatti, che « la legge penale cinese si applica anche agli stranieri che, pur avendo commesso tali delitti all’estero, si trovino nel territorio dello Stato, salvo il caso in cui sia concessa, conformemente alle convenzioni internazionali, l’estradizione ». L’art. 9 del nuovo codice prevede espressamente l’applicazione del principio d’universalità per i crimini di guerra. 4. Il soggetto attivo del reato. — La disciplina del soggetto attivo del reato comprende, oltre che la trattazione della capacità penale e dell’imputabilità, anche del ruolo della qualifica nei reati propri. 4.1. L’imputabilità. — Per quanto riguarda l’imputabilità, si prevede che: a) fino al raggiungimento del quattordicesimo anno di età, il soggetto non può essere considerato imputabile; b) tra i quattordici e i sedici anni, il soggetto è considerato, nei casi previsti dalla legge, imputabile, anche se le pene previste sono diminuite; c) il soggetto avente un’età compresa tra i sedici e i diciotto anni è sempre considerato imputabile ma, come nel caso precedente, le pene sono attenuate; d) a partire dal diciottesimo anno di età il soggetto è considerato pienamente imputabile. Il nuovo codice non ha modificato tale assetto normativo, sebbene abbia chiarito l’interpretazione della disposizione che disciplinava il periodo di parziale imputabilità che aveva suscitato diverse controversie in dottrina e in giurisprudenza. Prevedeva, infatti, l’art. 14 del codice del 1979 che « chi aveva compiuto gli anni quattordici ma non ancora i sedici, nel momento in cui aveva commesso i reati di omicidio, lesioni personali gravi, rapina, incendio, furto abituale o altri reati gravemente lesivi dell’ordine sociale, si sarebbe dovuto considerare pienamente imputabile ». Non risultavano, per l’appunto, chiari i caratteri dei reati contro l’ordine sociale e non si specificava se dovesse trattarsi necessariamente di reati dolosi o se si potesse ricomprendere nella suddetta elencazione anche l’ipotesi di una responsabilità per colpa. La Corte Suprema aveva ricondotto alla categoria dei reati contro l’ordine sociale taluni gravi reati, quali quelli di violenza carnale o concernenti il traffico degli stupefacenti. Il nuovo codice ha, invece, previsto, all’art. 17, che « il soggetto che si trovi in età ricompresa tra i quattordici e i sedici anni deve essere considerato pienamente responsabile qualora abbia commesso i reati di omicidio e lesioni personali volontarie, violenza carnale, traffico di stupefacenti, incendio, esplosione ». Dal testo della nuova norma è stato espunto il riferimento all’incerta categoria dei reati contro l’ordine sociale. Con riferimento, poi, alle cause che attenuano la capacità d’intendere e di volere, a differenza del codice previgente, la nuova legge penale cinese prevede espressamente il vizio parziale di mente. In presenza di tale infermità, il soggetto ha diritto ad una diminuzione di pena. 4.2. La responsabilità penale delle persone giuridiche. — Il codice penale del 1979 non avrebbe mai potuto prevedere la responsabilità delle persone giuridiche dal momento che il sistema economico cinese non prevedeva la possibilità di costituire enti collettivi diversi dallo Stato. Quando, però, a partire dal 1980 cominciarono a sorgere imprese collettive pubbliche e private, il fenomeno della criminalità societaria ha assunto vaste proporzioni.
— 589 — La responsabilità penale delle persone giuridiche venne per la prima volta riconosciuta dalla legge doganale del 22 gennaio 1987. Prevedeva, infatti, l’art. 47 che « se un’impresa privata o pubblica pone in essere il delitto di contrabbando, deve essere considerato penalmente responsabile il dirigente e tutti coloro che hanno preso parte alla realizzazione del reato. Le persona giuridica è, poi, tenuta al pagamento di una multa nonché alla confisca della merce contrabbandata, dei mezzi di trasporto utilizzati, e del profitto del reato ». Dopo l’emanazione della suddetta legge, anche altri provvedimenti normativi, in materia di corruzione, di pornografia, di stupefacenti, di diritto d’autore e di illeciti di carattere economico o finanziario, hanno previsto casi di responsabilità penale delle persone giuridiche. Il nuovo codice ha previsto i c.d. danwei fanzui o reati d’ente al capo IV del Titolo II della Parte Generale (artt. 30 e 31). Stabilisce, infatti, l’art. 30 che « quando una compagnia, un’azienda, un ente pubblico (6) o un’associazione pone in essere un fatto previsto dalla legge come reato, deve soggiacere alla pena per questo prevista ». Prevede, invece, l’art. 31 che « quando un ente collettivo realizza un fatto di reato, esso è punito con la multa insieme ai dirigenti e agli altri soggetti direttamente responsabili ai quali sono applicate le pene previste dalla legge, salvi i casi previsti da leggi speciali. » La disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche presenta, tuttavia, degli aspetti problematici che è opportuno chiarire. In primo luogo, nonostante il nuovo codice abbia ammesso in via generale tale forma di responsabilità, la persona giuridica può essere incriminata nei soli casi previsti dalla legge, con la conseguenza che possono esservi settori ove si rileva un vuoto di tutela nel caso in cui il fatto sia commesso nell’ambito di una persona giuridica (si pensi al settore dei delitti contro la persona). Il legislatore non ha, inoltre, utilizzato il termine « persona giuridica », essendosi volta per volta riferito ad aziende ovvero a organizzazioni di vario genere. La conseguenza è che possono essere considerate penalmente responsabili anche enti collettivi privi di personalità giuridica, ad esempio un istituto sotto la direzione dell’Università. In terzo luogo, si deve precisare che la responsabilità della persona giuridica è sempre una responsabilità sussidiaria rispetto a quella dei dirigenti che, peraltro, sono talvolta considerati soggetti attivi di reati propri nella parte speciale (artt. 137, 162, 244). 5. La difesa legittima. — Nel diritto penale cinese grande importanza è attribuita alla difesa legittima. Essa, infatti, non si riduce ad una mera causa di giustificazione ma costituisce uno strumento sussidiario di lotta alla criminalità e, con riferimento al soccorso difensivo, un dovere morale-sociale del cittadino (7). Rispetto al codice del 1979, la nuova legge penale ha non solo introdotto una definizione, in precedenza mancante, della difesa legittima ma ne ha anche ampliato i confini. Prevede, infatti, l’art. 20 che « non è punibile colui che ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato per evitare l’aggressione di interessi sia pubblici sia privati, propri o altrui, personali o patrimoniali ». Nel codice previgente, infatti, non si prevedeva la possibilità d’invocare la legittima difesa in caso di aggressione d’interessi patrimoniali o statali. Inoltre, la legge penale del 1979 stabiliva che la reazione all’altrui aggressione fosse legittima solo se (6) Per ente pubblico o, in cinese, shiye danwei, s’intende una persona giuridica che non esercita attività aventi scopo di lucro e si avvale dei capitali provenienti dalle Finanze dello Stato per l’attuazione del proprio oggetto sociale (ad esempio scuole pubbliche, istituzioni di ricerca scientifica, ospedali pubblici). (7) Cfr. X. YANG, Nuovo diritto penale cinese, p. 130; G. MINGXUAN, Diritto Penale, p. 163; S. HUIYU, Diritto Penale, p. 176.
— 590 — proporzionata all’offesa, dovendo il soggetto considerarsi responsabile nei casi in cui avesse oltrepassato i limiti della scriminante cagionando un danno non necessario. In dottrina ed in giurisprudenza si potevano distinguere tre diversi indirizzi interpretativi sulle condizioni d’esistenza di una difesa legittima: a) secondo alcuni si sarebbe dovuto utilizzare lo stesso mezzo lesivo al quale aveva fatto ricorso l’aggressore e si sarebbe dovuta cagionare offesa allo stesso interesse leso o posto in pericolo dall’agente; b) secondo altri avrebbe dovuto essere scriminato il soggetto che avesse realizzato, nei confronti dell’aggressore, un’offesa necessaria, anche fuori dal rispetto dei criteri di proporzionalità appena richiamati; c) secondo, infine, i sostenitori della concezione mista il soggetto aggredito avrebbe potuto porre in essere una reazione legittima solo se questa fosse stata, ad un tempo, necessaria e proporzionata. Tale orientamento interpretativo era considerato prevalente ed è, a ben vedere, anche quello adottato dalla nuova legge penale cinese. Prevede, infatti, il nuovo codice che « quando la difesa legittima oltrepassa chiaramente il limite necessario e cagiona un danno grave, il soggetto aggredito è considerato penalmente responsabile per il fatto commesso ». Tale soluzione, tuttavia, non ha risolto i problemi interpretativi sollevati dalla disciplina previgente, dal momento che, ad esempio, parte della dottrina considera proporzionata la difesa necessaria e che risulta difficile decifrare il significato delle locuzioni « oltrepassa chiaramente » ovvero « danno grave ». La più rilevante modifica intervenuta in materia di difesa legittima è quella che riguarda la c.d. difesa legittima illimitata. Stabilisce, infatti, l’art. 20 c. 3 che « non è responsabile chi abbia ecceduto dai limiti della difesa legittima cagionando la morte o le lesioni dell’aggressore per impedire uno xingxiong (vale a dire una violenza contro un’altra persona), come nei casi di omicidio, rapina, violenza carnale, sequestro di persona o altri atti di violenza o di minaccia nei confronti dell’incolumità personale ». Chiara è, dunque, la ratio dell’ampliamento dei confini della difesa legittima a scopi di contrasto delle più gravi forme di criminalità. Ulteriore problema è, poi, quello della possibilità d’invocare la difesa legittima per la tutela degli interessi legittimi del cittadino. 6. Il sistema delle sanzioni. — Il Titolo terzo e il Titolo quarto della parte generale del Codice penale si occupano della disciplina della « Pena » e della sua « Applicazione concreta » attraverso la previsione dei criteri per la commisurazione giudiziale e dei vari tipi di misure alternative all’esecuzione penitenziaria. Nel diritto penale cinese si distinguono pene principali, pene accessorie e misure extrapenali. Le pene principali sono la libertà controllata, la detenzione penale (una sorta di arresto), la reclusione, l’ergastolo e la pena di morte. Sono accessorie le pene della multa, della privazione dei diritti politici, la confisca, l’espulsione dallo Stato (per lo straniero). Sono, invece, extrapenali la repressione pubblica, il pubblico pentimento, il risarcimento del danno o le sanzioni amministrative. Durante la fase preparatoria della nuova legge si era proposto di intervenire in modo radicale sul sistema delle pene, abolendo la detenzione e la libertà controllata, introducendo le misure di sicurezza e riformando le altre pene principali ed accessorie. Il legislatore decise, tuttavia, di mantenere l’assetto sanzionatorio preesistente, senza introdurre rilevanti modifiche. Nel complesso della nuova disciplina vale, allora, la pena di soffermare l’attenzione sul problema della pena di morte, della commisurazione giudiziaria della pena e delle misure alternative all’esecuzione penitenziaria. 6.1. La pena di morte. — Negli ultimi anni la pena di morte è uno degli argomenti di più accesa discussione in dottrina. Durante gli anni ottanta l’applicazione della pena di
— 591 — morte era stata ispirata alla massima prudenza prevedendo, per l’appunto, la legge del 1979 condizioni sostanziali e processuali estremamente restrittive per la sua applicazione e introducendo un’ipotesi di sospensione della stessa (8). Nella parte speciale, la pena di morte era prevista solo in sette ipotesi e mai come sanzione autonoma. Tuttavia, l’aumento crescente, durante gli anni ottanta, delle più gravi forme di criminalità aveva progressivamente consolidato l’opinione tradizionale in base alla quale zhi luanshi yong zhongdian (vale a dire, per governare una società disordinata bisogna usare la pena pesante), con la conseguenza che non solo aumentarono i casi di reati puniti con la pena di morte (da sette a sessanta, cioè un terzo delle fattispecie incriminatrici previste dal Codice del 1979) ma vennero attenuate le garanzie processuali preesistenti. Mentre, infatti, nel codice del 1979 si prevedeva che solo la Corte Suprema potesse irrogare la pena di morte, nel 1985 venne approvata una legge che consentiva alla stessa di autorizzare le Corti Superiori all’irrogazione della sanzione capitale nei casi di fatti gravemente offensivi dell’incolumità pubblica e dell’ordinamento sociale. Prima dell’entrata in vigore della nuova legge penale cinese, si prevedeva l’applicabilità della pena di morte a più di settanta reati. Essa veniva, inoltre, stabilita come pena unica per i reati di dirottamento di aeromobili e dei casi più gravi di organizzazione della prostituzione. L’opinione attualmente corrente in Cina è che non siano ancora maturate le condizioni per un’abolizione della pena di morte, anche se ci si auspica una restrizione dei suoi casi applicativi (9). Dal canto suo, il nuovo Codice non ha abolito la pena di morte anche se ne ha ristretto l’applicazione. La parte generale prevede, infatti, che la pena di morte può essere applicata nei casi più gravi, che la revoca della sospensione della pena possa intervenire solo in caso di commissione, da parte del reo, di un nuovo reato doloso (artt. 48 e 50), che essa non possa mai essere applicata ai minori degli anni diciotto (contrariamente a quanto previsto dal codice del 1979 che ne prevedeva l’applicazione nei confronti dei minori di anni sedici) e alle donne in stato di gravidanza. Nella parte speciale, inoltre, si sono abrogate le norme che prevedevano l’applicazione della pena di morte come pena unica e, salvi i casi in cui sia realizzato in banca ovvero abbia ad oggetto preziosi beni d’interesse storico-artistico, quelle che ne prevedevano l’irrogazione in caso di furto (10). 6.2. La commisurazione giudiziale della pena. — Per quanto attiene al problema della commisurazione giudiziale della pena, il nuovo codice ha ristretto lo spazio del potere discrezionale del giudice. a) « la recidiva ». Sotto il titolo « Applicazione concreta della pena », il codice del 1979 prevedeva una circostanza aggravante (la recidiva) ed una circostanza attenuante (la resa volontaria). II nuovo codice ha fortemente modificato il tenore di tali circostanze. Disponeva, infatti, l’art. 61 del codice 1979 che « è recidivo chi, essendo stato condannato alla pena della reclusione, ha commesso, nei tre anni successivi all’esecuzione della precedente condanna ovvero all’applicazione dell’amnistia, un nuovo reato non colposo per il quale ha subito l’ap(8) Cfr. C. ZHONGLIN, Profili storici e problemi contemporanei del diritto penale cinese, in questa Rivista, 1992, 654. (9) La dottrina cinese fa essenzialmente riferimento, da un lato, alla gravissima situazione della criminalità (negli ultimi cinque anni si è rilevato che almeno un poliziotto al giorno muore durante la lotta alla criminalità) e, dall’altro, alla proliferazione della criminalità economica in assenza di controlli adeguati sul funzionamento del mercato. (10) Prima dell’entrata in vigore della nuova legge i casi di applicazione della pena di morte per furto costituivano il 30% del totale delle esecuzioni capitali.
— 592 — plicazione di una pena superiore a quella già irrogata ». L’art. 65 del nuovo codice ha previsto che il periodo triennale sia ampliato a cinque. b) « la resa volontaria ». Il codice del 1979 non ne prevedeva alcuna definizione, prevedendo una diminuzione della pena « per chi si costituisce dopo aver commesso un reato ». Pur nell’assenza di una definizione legislativa, dottrina e giurisprudenza avevano individuato tre elementi costitutivi della resa volontaria: la presentazione all’Autorità; la confessione del reato; la sottoposizione a giudizio. Al fine, tuttavia, di promuovere il ravvedimento e la risocializzazione del reo, la giurisprudenza aveva assimilato alla figura della resa volontaria anche la confessione di un reato del quale l’Autorità giudiziaria non aveva conoscenza. Il nuovo codice penale ha integralmente recepito tali orientamenti interpretativi all’art. 67. Si è, inoltre, previsto che, in caso di resa volontaria, la pena possa essere estinta e non solo diminuita. c) « la condotta meritevole ». Nel codice del 1979, tale forma di collaborazione con l’Autorità era ricompresa nella resa volontaria. La nuova legge penale ha, invece, previsto che tale condotta integri un’autonoma circostanza attenuante. Secondo quanto stabilito dall’art. 68, la condotta meritoria consiste nella rivelazione dell’identità del colpevole di un reato per il quale procede l’Autorità ovvero nella fornitura di notizie di rilievo ed importanza tali da permettere la risoluzione dei casi. Il giudice può, nell’esercizio del suo potere discrezionale, scegliere, in base all’importanza del contributo fornito, se diminuire o, addirittura, dichiarare l’estinzione della pena. d) « la sospensione condizionale della pena ». Si tratta di una causa d’estinzione del reato che la legge penale cinese ha recepito dagli ordinamenti continentali. Per l’applicazione della sospensione condizionale, è necessario il rispetto di taluni requisiti obiettivi e subiettivi. È, infatti, necessario che il soggetto sia stato condannato alla pena della reclusione non superiore a tre anni e che, tenuto conto della gravità del reato e della pericolosità del reo, sia possibile presumere che, nel futuro, il condannato si asterrà da nuove azioni criminali. Il codice del 1979 vietava l’applicazione della sospensione condizionale della pena a coloro che fossero stati dichiarati recidivi e ai delinquenti controrivoluzionari. Il nuovo codice ha, invece, previsto il mantenimento del limite solo nel primo caso. Si prevede, inoltre, che il condannato debba osservare talune prescrizioni il rispetto delle quali debba essere controllato dalla polizia. Il cambiamento più significativo riguarda, tuttavia, le condizioni per la revoca dal momento che si è stabilito che debba venir meno il beneficio della sospensione condizionale non solo, come prevedeva il codice previgente, in caso di commissione di un nuovo reato, ma anche nei casi in cui venga accertato un delitto anteriormente commesso, anche se non è intervenuta una sentenza di condanna, ovvero il condannato violi la legge, o regolamenti amministrativi o le prescrizioni imposte al momento della concessione della sospensione condizionale. 6.3. Le misure alternative all’esecuzione penitenziaria. — Nel diritto penale cinese si distinguono essenzialmente due misure alternative: la diminuzione della pena e la liberazione condizionale. Nella legge processuale penale si prevede, altresì, eccezionalmente che i condannati gravemente ammalati e le donne in gravidanza possano essere ammesse a forme d’esecuzione extrapenitenziaria della pena. La liberazione condizionale è molto simile al corrispondente istituto degli ordinamenti dell’Europa continentale. a) « la diminuzione della pena ». Prevedeva l’art. 79 del codice del 1979 che il condannato alla libertà controllata, alla detenzione, alla reclusione o all’ergastolo potesse essere ammesso alla diminuzione della pena da scontare in caso di ravvedimento o di condotta meritoria. L’entità della diminuzione non poteva, comunque, superare la metà della pena inflitta in caso di libertà controllata, detenzione o reclusione e 10 anni per l’ergastolo. Sebbene parte della dottrina avesse suggerito una modificazione della disciplina dell’i-
— 593 — stituto (11), il nuovo codice ha solo previsto che si debba distinguere tra diminuzione obbligatoria e diminuzione facoltativa della pena. Si ha diminuzione obbligatoria quando ricorra una delle condizioni previste dall’art. 78, vale a dire l’aver impedito la realizzazione di un grave reato, l’aver denunciato un grave reato, l’aver salvato la vita altrui con proprio pericolo, l’aver tenuto un comportamento meritorio in casi di disastri naturali o infortuni, l’aver prestato un contributo di grande importanza per la società e lo Stato. La diminuzione di pena è, invece, facoltativa quando, fuori dai casi appena descritti, il condannato abbia avuto un vero ravvedimento e abbia osservato i regolamenti penitenziari, mostrando concreti segnali di ravvedimento e risocializzazione. b) « la liberazione condizionale ». Il nuovo codice è intervenuto al fine di specificare il contenuto di un istituto disciplinato dal codice del 1979 in modo eccessivamente vago. Secondo la legge penale previgente poteva presentare domanda di liberazione condizionale qualunque condannato alla pena della reclusione o dell’ergastolo che « avesse mostrato un sicuro ravvedimento nel caso in cui si potesse presumere che tale soggetto non avrebbe potuto cagionare danni alla società, purché avesse scontato metà della pena inflitta ovvero dieci anni di reclusione in caso di ergastolo ». L’art. 81 del nuovo codice prevede che la liberazione condizionale non possa essere disposta ai recidivi, a coloro che sono stati condannati alla pena della reclusione non inferiore ad anni dieci ovvero alla pena dell’ergastolo per reati a base violenta come l’omicidio, l’esplosione, la rapina, la violenza carnale o il sequestro di persona. Il nuovo codice prevede, inoltre, un’estensione al presente istituto delle cause di revoca della sospensione condizionale della pena. Per evitare, inoltre, che il suddetto beneficio sia concesso con eccessiva facilità, si è prevista la predisposizione di un rito speciale per la sua applicazione e una autonoma fattispecie di parte speciale consistente nell’abuso penitenziario (punito con la pena della reclusione da tre a sei anni nei casi più gravi), del quale si rende responsabile il pubblico ufficiale che, per interessi privati, ammetta alla liberazione condizionale o alla diminuzione di pena un condannato, al di fuori dei casi previsti dalla legge. Oscuro rimane, infine, il contenuto della disposizione di cui all’art. 73 dal momento che la norma prevede che « in particolari casi, il condannato possa fruire, previa approvazione della Corte Suprema, del beneficio anche prescindendo dal limite della pena scontata ». Non si chiarisce, infatti, in cosa consistano tali casi particolari. 7. La modifica della parte speciale. — Le modificazioni intervenute nella parte speciale riguardano, essenzialmente, due profili: uno di carattere strettamente formale (ad esempio problemi di classificazione delle disposizioni ovvero di intitolazione delle varie parti) ed uno di tipo sostanziale (scelte di criminalizzazione e tecniche di costruzione delle fattispecie). Dal punto di vista formale, può notarsi che il numero delle disposizioni che compongono la parte speciale è fortemente aumentato (da circa 103 articoli a 380). Quanto alla classificazione dei reati, parte della dottrina suggeriva di non modificare l’assetto previgente. Il Codice del 1979 prevedeva, infatti, otto titoli quali: i reati controrivoluzionari, i reati contro la pubblica incolumità, i reati contro l’ordine dell’economia socialista, i reati contro i diritti civili e politici del cittadino, i reati contro il patrimonio, i reati contro l’amministrazione sociale, i reati contro il matrimonio e la famiglia, i reati consistenti nella violazione dei doveri d’ufficio da parte dei pubblici ufficiali. Altra parte della dottrina, invece, proponeva di suddividere la parte speciale in diversi titoli di ridotta estensione (ora 24, ora 26, ora 28). (11) Si proponeva, ad esempio, di applicare una sola volta la diminuzione di pena nei soli casi di reclusione o ergastolo e in presenza di una condotta meritoria.
— 594 — Il nuovo codice ha, invece, adottato una soluzione intermedia inserendo nella parte speciale dieci titoli di reato: reati contro la sicurezza dello Stato, reati contro la pubblica incolumità, reati contro l’economia socialista e di mercato, reati contro i diritti civili e politici del cittadino, reati contro il patrimonio, reati contro gli interessi della difesa nazionale, reati di peculato e corruzione, reati contro l’ordine dell’amministrazione sociale, reati dei pubblici ufficiali commessi con violazione dei loro doveri, reati dei militari contro i doveri imposti dalla disciplina delle armi. Rispetto alla formulazione previgente, il nuovo codice ha abolito il titolo dei delitti controrivoluzionari sostituendolo con il titolo dei delitti contro la sicurezza dello Stato, ha inserito un autonomo titolo di delitti contro l’economia di mercato, i reati originariamente ricompresi nel titolo dei delitti contro il matrimonio e la famiglia sono trasmigrati nel titolo dei delitti contro la persona e sono stati inseriti ex novo i reati contro gli interessi della difesa nazionale, i reati di corruzione e di peculato (prima previsti dal titolo dei delitti contro il patrimonio) e i delitti dei militari contro i propri doveri (prima previsti da talune leggi speciali). Mentre, inoltre, il vecchio codice non prevedeva una suddivisione in capi, nella nuova legge si prevede che il titolo terzo sia suddiviso in otto capi e il titolo sesto in nove. Rispetto al codice previgente, il nuovo codice presenta una maggiore tassativizzazione delle fattispecie e una maggiore perequazione sanzionatoria. Nel codice del 1979, infatti, abbondavano le norme penali in bianco e le norme generiche, in conformità al principio per cui yi chu bu yi xi (ovvero meglio generico che concreto) facendosi frequentemente uso di elementi descrittivi elastici e di clausole generali (ad esempio « casi più gravi »). Nella nuova legge penale è, invece, ravvisabile un maggiore sforzo di tassativizzazione. Sotto il profilo della perequazione delle pene edittali, il legislatore del 1997 ha reso più lieve la pena prevista per il delitto d’omicidio passando dalla reclusione da 6 mesi a 15 anni alla reclusione da 6 mesi a 7 anni e quella prevista per il reato di organizzazione della prostituzione, originariamente punita con la reclusione non inferiore a dieci anni e ora sanzionata con la pena della reclusione non inferiore a cinque anni. Per taluni reati, poi, si è anche prevista una graduazione (come nel caso del peculato) della pena dalla detenzione alla pena di morte. La pena della multa era originariamente prevista come pena accessoria e, quindi, poteva essere applicata congiuntamente alla pena detentiva o, nei casi meno gravi, da sola. A ben guardare, tale ultima possibilità era piuttosto rara prima che si prevedesse la responsabilità penale delle persone giuridiche, dal momento che si considerava eccessivo cumulare la pena pecuniaria con quella detentiva e che il giudice aveva il potere discrezionale di non irrogarla. II regime d’applicazione della pena della multa è molto cambiato dopo l’entrata in vigore della legge 21 gennaio 1988, « Norme complementari per la punizione dei Reati di peculato e di corruzione ». Gli artt. 6 e 9 della presente legge hanno, infatti, previsto che la multa debba essere applicata obbligatoriamente nei casi di corruzione e istigazione alla corruzione commessi da enti aziendali, organi statali o altri enti collettivi. Con la legge 28 dicembre 1990 « Decisione sulla proibizione degli stupefacenti » si previde, per la prima volta, l’applicazione della multa a soggetti diversi dalle persone giuridiche. Fino al 1991, inoltre, la quantificazione della multa era assolutamente discrezionale, prevedendosene una misura tassativa solo nei casi previsti dalla « Decisione sulla proibizione della Prostituzione » approvata il 4 settembre 1991 (10.000 Rmb. per il reato di organizzazione della prostituzione e 5.000 Rmb. per l’istigazione). Inoltre, la « Decisione sulla repressione delle violazioni tributarie » approvata il 4 settembre 1992, ha previsto l’applicazione, agli evasori, di una multa pari ad una somma fino al quintuplo degli importi non pagati. Nel codice vigente la multa può essere fissa, proporzionale (specie nei reati economici) ovvero discrezionale (nei casi di reati contro la persona) e viene applicata da sola o congiuntamente alla pena detentiva. Sul piano sostanziale, il cambiamento più importante della parte speciale riguarda l’abo-
— 595 — lizione dei delitti controrivoluzionari. Fin dai primi anni ottanta la dottrina ne aveva proposto l’abrogazione sia per ragioni di carattere politico sia per la vaghezza dello stesso contenuto delle disposizioni. Recependo tali orientamenti dottrinari, il nuovo codice ha previsto un titolo autonomo per i delitti contro la sicurezza dello Stato, trasferendo le disposizioni non strettamente connesse alla materia politico istituzionale in altri titoli, come nel caso dei reati contro la pubblica incolumità (esplosione o dirottamento di aeromobili) o contro la persona (omicidio o rapina controrivoluzionari) o contro l’ordine sociale amministrativo (istigazione controrivoluzionaria che diventa istigazione a disobbedire alle leggi). Su un piano più generale, può dirsi che il nuovo codice ha dato spazio, nella parte speciale anche a nuove fattispecie di reato, prevedendo talvolta l’anticipazione della tutela penale a scopo di prevenzione, anche fuori da un previo esame, prima considerato necessario per le scelte di criminalizzazione, sulla frequenza statistica delle condotte (si pensi ai reati informatici o al riciclaggio o al contrabbando di materie nucleari). 8. Conclusioni. — Dopo la modifica intervenuta, la nuova legge penale cinese è il corpus normativo più ricco dell’ordinamento giuridico cinese. Sebbene non possa dirsi perfetto, esso risponde alle reali esigenze della Cina, con particolare riguardo alla crescente sensibilità maturata sulla necessità del rispetto dei diritti umani fondamentali. CHEN ZHONGLIN Professore di Diritto penale e vicedirettore del Centro di Ricerca Giuridico China Southwest University of Political Sciences and Law — Chongqing (Cina)
LA TUTELA PENALE DEL MARE CONTRO L’INQUINAMENTO NELL’ORDINAMENTO INGLESE
SOMMARIO: 1. Premessa. — PARTE PRIMA. L’inquinamento di origine terrestre. — 1. Introduzione. — 2.1. Gli scarichi diretti in mare. - 2.2. (Segue): A) il reato di immissione di sostanze inquinanti nelle acque inglesi (mare incluso). - 2.3. (Segue): B) il reato di scarico di effluenti industriali e fognari e di altre sostanze in mare. — 3. Gli scarichi di olii da terra direttamente in mare. — 4.1. Il deposito in mare di rifiuti terrestri tramite navi (Dumping at sea). - 4.2. La regolamentazione internazionale. - 4.3. Il deposito in mare nella legislazione inglese. - 4.4. (Segue): differenze con la nostra legislazione. — PARTE SECONDA. L’inquinamento marino cagionato dalle navi. — 1. Introduzione. — Capo I. L’inquinamento derivante da sversamento in mare di idrocarburi da parte di navi. — 1. Il problema dell’inquinamento da idrocarburi. — 2.1. La tutela internazionale nei casi di inquinamento da idrocarburi conseguente a sinistri marittimi. - 2.2. La tutela apprestata dall’ordinamento inglese contro l’inquinamento da idrocarburi conseguente a sinistri marittimi. - 2.3. (Segue): differenze rispetto alla disciplina italiana. — 3.1. La regolamentazione internazionale degli scarichi di idrocarburi da parte di navi. - 3.2. La regolamentazione inglese degli scarichi di idrocarburi. - 3.3. (Segue): differenze con la nostra normativa. — Capo II. L’inquinamento derivante da sversamento in mare di altre sostanze nocive. — 1. La disciplina internazionale. — 2. La regolamentazione inglese del trasporto di sostanze nocive. — 3. Differenze con la regolamentazione italiana. — Capo III. L’inquinamento derivante dallo scarico in mare da parte di navi dei propri rifiuti e liquami. — 1. Premessa. — 2. La regolamentazione internazionale dello smaltimento di rifiuti e dello scarico di liquami provenienti da navi. — 3.1. La regolamentazione britannica. A) Lo smaltimento di rifiuti. - 3.2. (Segue): B) Lo scarico di liquami. — 4.1. La regolamentazione italiana. A) Lo smaltimento di rifiuti. - 4.2. (Segue): B) Lo scarico di liquami. 1. Di particolare rilievo nell’ambito del patrimonio idrico, e più in generale dell’ambiente — lo si potrà facilmente inferire dalla complessità ed ampiezza della normativa a tutela di esso, che sarà oggetto di analisi del presente lavoro — è il mare. Questo, infatti, copre i due terzi della superficie terrestre e rappresenta, pertanto, la parte più estesa del patrimonio ambientale. Il problema dell’inquinamento del mare può essere affrontato da tre diverse angolazioni: quella delle fonti di esso, quella delle cause, e infine quella della natura delle sostanze inquinanti (1). Sotto il primo profilo, l’inquinamento del mare può provenire da terra; dai natanti; dall’esplorazione e dallo sfruttamento dei fondali marini; dall’atmosfera. Tralasciando gli ultimi due — il primo perché ci allontanerebbe troppo dal nostro scopo, il secondo perché riguardante l’inquinamento atmosferico — è opportuno stabilire in che modo la terra e i natanti siano fonte dell’inquinamento marino. Per quanto concerne la terra, l’inquinamento si può verificare in due modi: attraverso il riversamento in mare di sostanze inquinanti, di effluenti industriali, commerciali o fognari e (1)
G.J. TIMAGENIS, International control of marine pollution, 1980, vol. I, p. 16.
— 597 — in generale di rifiuti provenienti da terra (2), in modo incontrollato (vale a dire, come vedremo, senza autorizzazione o in modo difforme da questa); ovvero attraverso il deposito in mare dei rifiuti di origine terrestre da parte di navi impiegate appositamente per il trasporto e lo scarico degli stessi. Per quanto concerne i natanti, l’inquinamento può essere cagionato dallo scarico in mare di idrocarburi, di altre sostanze inquinanti, ovvero dei propri rifiuti. Dal punto di vista delle cause, la dottrina inglese (3) distingue tre forme di inquinamento: una accidentale, una incidentale, una volontaria. Le prime due sono entrambe caratterizzate dal fatto di essere fortuite — non imputabili cioè a colpa delle persone responsabili del natante — e si differenziano sul piano dell’estensione delle conseguenze dannose o pericolose per l’ambiente marino: si dice infatti che è accidentale quella forma di inquinamento marino che abbia un effetto molto esteso e disastroso (4); incidentale quella che comporta soltanto una turbativa all’ambiente marino. La terza forma si ha quando l’inquinamento deriva dalla consapevole attività di scarico in mare di rifiuti nella convinzione di arrecare minor danno che effettuando lo scarico altrove. Infine, dal punto di vista della natura delle sostanze inquinanti si suole distinguere tra sostanze radioattive, idrocarburi e altre sostanze liquide nocive per l’ambiente marino trasportate da navi. La legislazione inglese sull’inquinamento marino verrà analizzata principalmente in base al criterio delle fonti dell’inquinamento stesso, in certi casi in combinazione con gli altri due criteri.
PARTE PRIMA 1. È stato rilevato (5) che tra l’80 e il 95% dell’inquinamento del mare ha origine terrestre. Come si è poc’anzi osservato, esso è provocato in parte dal riversamento in mare — diretto o tramite la confluenza delle acque interne — di rifiuti e di sostanze in vario modo inquinanti di origine terrestre, senza autorizzazione amministrativa o in modo difforme da questa; in parte dal trasporto e deposito in mare di rifiuti terrestri da parte di natanti. Nel primo caso, la tutela del mare contro l’inquinamento è apprestata dal Water resources act 1991, una legge che disciplina gli scarichi in tutte le acque inglesi. Tuttavia, il legislatore inglese ha preferito sottrarre a questa disciplina gli scarichi da terra di una particolare categoria di sostanze inquinanti, gli olii, dato che per essi esisteva già una normativa speciale dettata dal Prevention of oil pollution act 1971 (6). Nel caso di deposito in mare di rifiuti terrestri tramite navi la tutela è apprestata, invece, dal Food and environment protection act 1985, una legge che ha dato attuazione ad una serie di principi pattizi internazionali. (2) Questo tipo di inquinamento (riversamento in mare di rifiuti terrestri) può essere cagionato tanto attraverso l’immissione diretta delle sostanze inquinanti in mare, quanto attraverso la confluenza in mare delle acque interne (fluviali e lacustri), quando queste siano state a loro volta inquinate dall’immissione e dallo scarico di detti rifiuti e sostanze inquinanti. (3) G.J. TIMAGENIS, International control, cit., p. 18. (4) Cfr. ad esempio Esso petroleum v. Southport Corporation, 1955, 3 All. E.R., p. 864. (5) D.A. BIGHAM, The law and administration relating to protection of the environment, 1973, p. 203. (6) In questo caso, l’analisi della legislazione britannica viene effettuata dal punto di vista delle sostanze (idrocarburi) anziché delle fonti dell’inquinamento.
— 598 — 2.1. Gli scarichi nelle acque inglesi (7) sono regolati dal Water resources act del 1991, che stabilisce il principio generale secondo il quale sia gli scarichi sia le immissioni di qualunque sostanza nelle acque devono avvenire sempre nei limiti e secondo le modalità fissati da un’autorità amministrativa statale, la National rivers authority (8), tramite il rilascio di una licenza, in modo tale che la qualità delle acque non venga degradata (9). A tutela di questo sistema sono previsti alcuni reati di inquinamento, che in realtà erano già presenti nell’ordinamento inglese, in quanto previsti, seppure con alcune differenze, dal Control of pollution act del 1974 (10), una legge che tutela l’ambiente (sia terrestre, sia idrico, sia atmosferico) la quale, pur ancora parzialmente in vigore, è stata abrogata e sostituita dal Water act del 1989 nella parte relativa alla tutela dell’ambiente idrico (11). Tralasciando alcune ipotesi minori (vale a dire i reati di pulitura del letto dei corsi d’acqua, e di taglio della vegetazione) — che oltrettutto non ci riguardano in quanto tutelano specificamente le acque interne —, fondamentalmente la tutela penale è basata su due fattispecie incriminatrici, previste dall’art. 85 del Water resources act. Esse consistono nel reato di immissione e nel reato di scarico di sostanze inquinanti in tutte le acque inglesi (quindi, ed è per questo che ne trattiamo, anche marine). Attraverso queste due incriminazioni si coprono tutte le possibili forme di inquinamento, vale a dire sia quelle derivanti da comportamenti sporadici, accidentali o volontari, (reato di immissione), sia quelle derivanti da attività sistematiche come, ad esempio, quelle industriali (reato di scarico) (12). 2.2. Ai sensi dell’art. 85, primo comma, commette un reato « chiunque cagiona o consapevolmente permette l’immissione nelle acque controllate (vale a dire soggette alla giurisdizione inglese, e quindi anche nel mare territoriale) di sostanze velenose, nocive o inquinanti, ovvero di rifiuti solidi » (13). Il reato in parola non si configura quando l’immissione avvenga col consenso (quindi a seguito di rilascio di una licenza) da parte della National rivers authority, ovvero in base ad (7) La legge del 1991 tutela tutte le acque britanniche (che essa chiama col termine omnicomprensivo di ‘‘acque controllate’’), vale a dire le acque superficiali, sotterranee, interne (acque dolci), marine (costiere e territoriali). (8) La National rivers authority, organo amministrativo istituito dal Water act del 1989, ha sostituito le preesistenti 10 water authorities, che erano organi amministrativi regionali ai quali era attribuita sia la gestione del servizio pubblico di erogazione dell’acqua — che il Water act del 1989 ha, invece, trasferito a società private — sia il controllo e la tutela delle acque britanniche (interne e marine) realizzato mediante il potere di concessione della licenza per gli scarichi (che ora spetta, appunto, alla National rivers authority). (9) L’obiettivo della legge, infatti, è che la qualità delle acque si mantenga conforme a determinati standards, fissati dalla National rivers authority sulla base di criteri attinenti alle caratteristiche fisiche, chimiche, e biologiche dell’acqua (come per esempio in riferimento alla presenza o assenza di determinati composti o di una certa concentrazione di sostanze nell’acqua). Gli standards variano, poi, a seconda del tipo di acqua. (10) I reati previsti dal Control of pollution act sono a loro volta formulati alla stregua di quelli previsti da una precedente legge, il Rivers (prevention of pollution) act del 1951, che, però, aveva ad oggetto soltanto la tutela delle acque interne, e non di quelle marine. Pertanto potrà capitare più avanti di far riferimento ad alcune decisioni famose espresse dalle Corti sui reati previsti dal Rivers (prevention of pollution) act, in quanto esse costituiscono leading cases anche per i corrispondenti reati successivamente previsti dal Control of pollution act, e, allo stato attuale, dal Water resources act. (11) Il Water act del 1989 è stato a sua volta sostituito dal Water resources act del 1991, che è la legge attualmente in vigore e alla quale, quindi, facciamo riferimento. (12) W. HOWARTH, Water pollution law, Londra, 1988, p. 123. (13) Il reato previsto dall’art. 85, primo comma, riproduce quello già previsto dall’art. 31, primo comma, del Control of pollution act. Pertanto, i principi e le interpretazioni date dalle Corti, cui faremo cenno, si riferiscono in realtà all’art. 31.
— 599 — altra licenza o autorizzazione concessa ai sensi di qualche legge, e sempre che avvenga nei modi e secondo le condizioni stabilite nell’autorizzazione o nella licenza. Il reato di immissione può essere realizzato con due condotte alternative, una consistente nel cagionare, l’altra nel permettere l’immissione nelle acque inglesi (14) di sostanze inquinanti, ciascuna delle quali dà origine in realtà ad un distinto reato (15). Si tratta, in altri termini, di una norma mista cumulativa, vale a dire di una norma che prevede non uno ma più reati, ciascuno dei quali si realizza con il compimento di una delle condotte previste dalla norma stessa (16). Da ciò consegue che l’analisi di queste due ipotesi (cagionare e permettere) va effettuata in modo distinto. Per quanto concerne il reato di cagionare l’immissione di sostanze inquinanti la giurisprudenza ha sempre affermato che la condotta di « cagionare » deve essere intesa in senso attivo. Essa implica necessariamente il compimento di almeno un atto positivo, non essendo sufficiente ad integrarla un comportamento meramente omissivo (17). È principio altrettanto consolidato (18) che, qualora nella serie degli atti e dei fatti che concorrono alla causazione dell’evento inquinante ve ne sia uno oggettivamente imprevedibile e prevalente nella causazione dell’inquinamento rispetto alla condotta umana, tale fattore annulla il nesso causale tra la condotta stessa e l’evento inquinante e quindi fa venir meno la responsabilità penale di chi ha cagionato l’immissione (19). Per quanto concerne l’elemento soggettivo, fin dalla vigenza del Rivers (prevention of pollution) act del 1951 è stato affermato che per il reato di cagionare l’immissione non è necessario che la condotta sia sorretta da un atteggiamento colpevole (di dolo o di colpa), ma è sufficiente che essa sia causalmente collegata all’evento inquinante (20). In altri termini, si tratta di un reato a responsabilità oggettiva. Per quanto concerne l’ipotesi di permettere l’immissione, la giurisprudenza afferma che la condotta incriminata si debba realizzare tramite un’omissione. Permettere significa omettere di prevenire l’inquinamento (21). Sul piano dell’elemento soggettivo è il legislatore stesso a richiedere che la condotta sia (14) D’ora in poi, anziché di « acque controllate », come dice il legislatore, parleremo — con un’accezione, per la verità, ben più circoscritta rispetto a quella legislativa — di « mare » (inteso come acque costiere e territoriali), dato che questo è l’oggetto specifico della nostra trattazione. (15) Tale interpretazione è molto risalente nella giurisprudenza britannica, in quanto fu enunciata per la prima volta nel caso Mc Leod v. Buchanan (1940, 2 All. E.R., p. 187), in riferimento al reato di immissione allora previsto dal Rivers pollution prevention act del 1876. (16) La norma mista cumulativa (o disposizione a più norme) si contrappone alla norma mista alternativa (o norma a più fattispecie) che si caratterizza per la previsione di più fattispecie che, però, rappresentano semplici modalità di un unico tipo di reato con la conseguenza che, sia che venga realizzata una sola sia che venga realizzata una pluralità di fattispecie, il reato è applicabile sempre una volta sola. Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1988, 2a ed., p. 44. (17) Vedi Price v. Cromack, 1975, 2 All. E.R., p. 113. (18) Cfr. Impress (Worcester) Ltd. v. Rees, 1971, 2 All. E.R., p. 357. (19) Il principio in questione corrisponde a quello stabilito dall’art. 41, secondo comma, del nostro codice penale, secondo il quale « le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento ». La nostra disposizione legislativa, in realtà, limita l’effetto recidente il nesso causale alle sole concause sopravvenute. Tuttavia la dottrina, con vari tipi di argomentazioni, estende alle concause antecedenti e concomitanti questo effetto. (20) Il leading case su questo punto è rappresentato dalla decisione Alphacell Ltd. v. Woodward, 1972, 2 All. E.R., p. 475. Il principio in essa espresso è stato ribadito anche per il reato di cagionare l’immissione previsto dal Control of pollution act. Cfr. Wrothwell Ltd. v. Yorkshire water authority, Crim. L.R., 1984, p. 43. (21) Cfr. Alphacell Ltd. v. Woodward, cit., p. 479.
— 600 — sorretta da un atteggiamento di consapevolezza che essa ha un effetto inquinante sul mare (e sulle acque in generale) (22). La commissione del reato di immissione (sia nella forma di cagionare sia di permettere) comporta l’applicazione di una pena detentiva non superiore a tre mesi, alternativa o cumulativa — a seconda della gravità del fatto — con una pena pecuniaria non superiore a 20.000 sterline, in caso di summary conviction; di una pena detentiva non superiore a due anni, alternativa o cumulativa con una pena pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment (23). Il fatto non è punibile — oltre che quando l’immissione sia autorizzata e sia effettuata conformemente all’autorizzazione o licenza — nel caso di emergency, vale a dire quando l’immissione di sostanze inquinanti in mare sia cagionata o permessa per prevenire un pericolo per la vita umana o per la salute, purché l’agente abbia adottato tutte le misure possibili per contenere l’estensione dell’immissione e l’effetto inquinante di essa sul mare, ed abbia immediatamente informato del fatto la National rivers authority. Non è punibile, inoltre, nel caso in cui l’immissione in mare abbia ad oggetto acqua (ovviamente sporca di residui sedimentosi) proveniente da una miniera abbandonata. 2.3. Il reato di scarico, previsto dall’art. 85, terzo comma, si realizza quando una persona « cagiona o consapevolmente permette che qualunque sostanza che non sia effluente industriale o fognario sia scaricata nelle acque controllate (incluso, quindi, il mare) attraverso canali di scolo » ovvero « cagiona o consapevolmente permette che effluenti industriali o fognari siano scaricati nelle acque controllate o nelle acque marine esterne al limite territoriale », in mancanza o in difformità da un’autorizzazione o da una licenza rilasciata in base alla legge, nonché in violazione di uno specifico divieto di effettuare o di continuare lo scarico, imposto dalla National rivers authority (24). La differenza tra i reati di immissione e di scarico sta, quindi, nel modo in cui le sostanze inquinanti si riversano in mare (in modo diretto nell’immissione; attraverso canali di scolo, condotti, o fogne nello scarico). Come logica conseguenza del diverso modo di sversamento, si rileva un’altra differenza in ordine al tipo di sostanze inquinanti oggetto dei due reati. Mentre alcune possono essere sia scaricate sia immesse in mare (ad esempio, una sostanza nociva), altre possono soltanto essere scaricate (così, ad esempio, un effluente, industriale o fognario che sia). Vi è poi una differenza sul piano della portata delle due norme incriminatrici. Il reato di scarico, infatti, si applica alle condotte che determinano un inquinamento (oltre che delle acque interne) delle acque marine sia all’interno del limite territoriale, sia all’esterno di esso. Il reato di immissione, invece, riguarda solo le acque inglesi (quindi, interne e marine, ma queste ultime solo entro il limite territoriale). Il reato di scarico può essere realizzato alternativamente con due condotte, ciascuna delle quali — come si è visto anche per il reato di immissione — dà origine ad un reato autonomo. Una consiste nel cagionare, l’altra nel consapevolmente permettere lo scarico. Sul significato attribuito a queste condotte dalla giurisprudenza, nonché sul tipo di imputazione — oggettiva o soggettiva — vale quanto precedentemente illustrato a proposito del reato di immissione. Soggetto attivo del reato è colui che cagiona o consapevolmente permette lo scarico. (22) Vedi Impress (Worcester) Ltd. v. Rees, cit. (23) Per summary conviction si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante senza giuria; per conviction on indictment si intende la condanna pronunciata da un organo giudicante con giuria. (24) Il divieto può essere assoluto o condizionato: in quest’ultimo caso, significa che lo scarico è ammesso purché avvenga secondo le condizioni e le modalità stabilite dalla National rivers authority, cosicché anche la violazione di queste determina la commissione del reato di scarico.
— 601 — Tuttavia, nel caso in cui lo scarico abbia ad oggetto effluente fognario e provenga dalla rete fognaria pubblica — che dal 1989 non è più gestita dalle water authorities ma da società private di gestione — del reato è considerata responsabile la società anziché il soggetto che ha effettuato lo scarico, sempre che essa sia tenuta incondizionatamente a ricevere l’effluente o a condizioni che siano state rispettate (altrimenti resta ferma la responsabilità del terzo che ha agito) (25). Per il reato di scarico il legislatore riserva lo stesso trattamento sanzionatorio e prevede le stesse cause di non punibilità sancite per il reato di immissione. In conclusione, i reati di scarico e di immissione sono strutturati in modo simile (possono essere realizzati, infatti, con due condotte alternative, cagionare e permettere) e sottoposti allo stesso tipo di trattamento sanzionatorio (26). Ciò in quanto realizzano lo stesso tipo di offesa, anche se attraverso modalità diverse. Il legislatore, nel prevederli entrambi, ha inteso tutelare le acque contro tutte le possibili forme di inquinamento (cioè di offesa al mare e alle acque interne), ritenendo che lo scarico, di gran lunga la più frequente e diffusa di esse, non sia l’unica causa dell’inquinamento. Limitando ad esso l’ambito dell’incriminazione egli avrebbe, quindi, attuato una tutela incompleta e parziale. Sotto questo aspetto si deve rilevare una sensibile differenza con la nostra normativa posta a tutela delle acque. La disciplina prevista dalla legge n. 319/1976 e successive modifiche (detta comunemente legge Merli), pur simile a quella del Water resources act per altri versi (27), differisce da essa per il fatto di limitare il proprio ambito di applicazione agli scarichi (28) e di non prevedere una tutela contro le condotte inquinanti che si estrinsecano in una immissione diretta di sostanze nocive nel mare e nelle altre acque. A tutela dell’ambiente idrico (comprendente sia le acque interne sia le acque marine) la nostra legge, infatti, configura come reato solo la condotta di scarico, che può essere realiz(25) La responsabilità delle società che gestiscono la rete pubblica fognaria è una sorta di responsabilità di posizione, dato che prescinde da una loro condotta colpevole: la ratio di tale scelta legislativa sta nel voler ottenere da quelle un controllo scrupoloso sulle fogne di cui sono responsabili al fine di prevenire i fenomeni di inquinamento del mare e delle acque interne. (26) I reati di scarico e di immissione sono, tra l’altro, previsti e disciplinati in un’unica disposizione, l’art. 85. (27) La legge Merli, come il Water resources act, fissa un’unitaria disciplina degli scarichi, basata sul principio dell’autorizzazione: tutti gli scarichi, sia che recapitino sul suolo, o nel sottosuolo o nelle acque (interne, marine, superficiali, sotterranee), devono essere autorizzati e devono avvenire secondo le condizioni stabilite dall’autorizzazione, la quale deve essere rilasciata in conformità alle prescrizioni e ai limiti di accettabilità fissati dalla legge stessa. Gli scarichi diretti in mare, pur essendo assoggettati come tutti gli altri scarichi al principio generale dell’autorizzazione (rientrano infatti nell’ipotesi di scarico in acque superficiali), sono presi in considerazione specificamente dall’art. 11, primo comma, il quale ribadendo una regola valida per tutti gli scarichi, sancisce che gli scarichi diretti nelle acque del mare sono subordinati al rilascio da parte dell’autorità designata dalla regione territorialmente competente dell’autorizzazione e all’osservanaza da parte del richiedente delle prescrizioni, dei limiti e degli indici di accettabilità previsti dalla legge n. 319/1976. Per un’analisi della legge Merli, cfr. G. AMENDOLA, La tutela penale dall’inquinamento idrico, Milano, 1996, 3a ed.; F. e P. GIAMPIETRO, Commento alla legge sull’inquinamento delle acque e del suolo, Milano, 1981. (28) La legge n. 319/1976, addirittura, non regola neppure tutti i tipi di scarico — a differenza della legge britannica —, ma soltanto gli scarichi provenienti da insediamenti civili e produttivi, ovvero da fognatura (nella quale, peraltro, confluiscono entrambi i tipi di scarichi): in altri termini, è disciplinato dalla legge Merli solo lo scarico qualificato dalla sua provenienza da insediamento produttivo o civile e ne restano esclusi tutti gli scarichi provenienti da altre fonti.
— 602 — zata sia in mancanza di autorizzazione (29), sia con superamento dei limiti di accettabilità stabiliti dalla legge. Lo scarico senza autorizzazione è punito, ai sensi dell’art. 21, primo e secondo comma, con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da lire 500.000 a lire 10.000.000. Lo scarico con superamento dei limiti di accettabilità è punito, ai sensi dell’art. 21, terzo comma, con l’ammenda da quindici a centocinquanta milioni o con l’arresto fino a un anno (30). Entrambi i reati sono di pura condotta, e possono essere realizzati sia con colpa sia con dolo (31). Come la maggior parte dei reati ambientali, sono reati di pericolo presunto (32). Ciò in quanto il legislatore, nel punire l’esercizio non autorizzato — o al di là dei limiti in cui è autorizzato — di attività di scarico, ha inteso reprimere non la mera disubbidienza ma il prodursi, tramite la disubbidienza, di condotte ritenute in sé astrattamente idonee a pregiudicare l’ambiente idrico (33). Anche se la legge n. 319/1976 non prevede una tutela del mare e delle acque in generale contro altre forme comportamentali inquinanti come quella di diretta immissione, una lieve e circoscritta — in quanto limitata alle acque del porto — tutela penale è apprestata dal codice della navigazione. L’art. 71 c. nav. sancisce, infatti, il divieto di gettare nei porti materiali di qualsiasi specie e l’art. 1166 ne punisce la violazione con l’ammenda fino a lire 200.000. 3. Gli scarichi in mare di olii provenienti da terra sono regolati dal Prevention of oil pollution act 1971, che detta in proposito due principi. Il primo, sancito dall’art. 2, consiste nel vietare, a pena di commettere un reato, « lo scarico di olii nelle acque territoriali inglesi e in tutte le altre acque (incluse quelle interne) navigabili comprese nei limiti territoriali, da un luogo sito sulla terraferma ». Il divieto è imposto a colui che ha il possesso del luogo da cui proviene lo scarico, salvo che lo scarico sia stato conseguenza della condotta di un terzo che si trovava in detto luogo senza il permesso espresso o implicito del possessore, nel qual caso il divieto si considera rivolto nei confronti di questo. Il possessore ovvero il terzo sono, pertanto, i soggetti attivi del reato di violazione del suddetto divieto. Esso è punito, ai sensi dell’art. 2, ultimo comma, con una pena pecuniaria (29) La mancanza di un’autorizzazione può dipendere dal fatto che non ne sia stata fatta richiesta da parte dell’interessato, ovvero che essa sia stata negata o revocata da parte dell’autorità competente. (30) La condanna per lo scarico con superamento dei limiti di accettabilità comporta anche l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. (31) Ciò in quanto sono reati contravvenzionali, i quali in base all’art. 42, quarto comma, possono essere imputati indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, salvo i casi in cui la legge imponga esclusivamente uno dei due titoli di responsabilità. (32) I reati di pericolo presunto si caratterizzano per il fatto che il legislatore seleziona, sulla base di regole di esperienza, forme comportamentali tipicamente pericolose per un bene giuridico, per cui il pericolo non è un elemento della fattispecie e non deve essere accertato dal giudice, ma costituisce la ratio dell’incriminazione. Essi si contrappongono ai reati di pericolo concreto, che sono quelli in cui la messa in pericolo di un bene giuridico determinato costituisce un espresso elemento della fattispecie che deve essere volta per volta accertato dal giudice (G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista, 1986, p. 697). Nei reati di pericolo presunto, quindi, si presume che al compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo; ciò può comportare il rischio che si verifichino delle ipotesi in cui, per le circostanze del caso concreto, il pericolo non si verifichi e quindi la responsabilità venga fondata non su un’offesa realmente arrecata, ma su una mera disubbidienza ad una norma penale. (33) M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996, p. 146.
— 603 — fino a 50.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita — vale a dire lasciata alla libera determinazione da parte del giudice —, in caso di conviction on indictment. Il reato di scarico indebito di olii in mare è un reato proprio, in quanto soggetto attivo può essere soltanto una persona che ricopra una particolare qualifica giuridica (possessore del luogo da cui proviene lo scarico), ovvero che sia in una determinata situazione di fatto (terzo estraneo che si trova, contro la volontà del possessore, nel luogo da cui proviene lo scarico). Da tale limitazione soggettiva deve dedursi che, se lo scarico è effettuato da un terzo estraneo, che si trovi nel luogo da cui esso proviene con il permesso — esplicito o implicito — del possessore di detto luogo, soggetto attivo del reato si considera quest’ultimo (34). Lo scarico indebito di olii è un reato di pura condotta, che si realizza con la violazione del divieto di scaricare olii. È, inoltre, di pericolo presunto (35). Ciò significa che l’offesa — consistente nel pericolo di inquinamento delle acque nelle quali è effettuato lo scarico — non deve essere accertata in concreto, caso per caso, dal giudice, ma si presume sempre verificata in concomitanza con la realizzazione della condotta violatrice, in quanto questa è ritenuta dal legislatore di per sé — per sua natura — pericolosa (36). Detto reato, pertanto, non esaurendosi nella sola violazione di un divieto, ma realizzando sempre un’offesa, non può essere considerato un reato di mera disubbidienza. La giurisprudenza (37) ha sempre affermato che lo scarico indebito di olii costituisce un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la legge non richiede un atteggiamento doloso o colposo da parte del possessore del luogo (38). Tuttavia, nel caso in cui questi riesca a dimostrare che lo scarico è stato cagionato dalla condotta di un terzo che si trovava in quel luogo senza il suo permesso, la responsabilità — anche in questo caso oggettiva, in quanto, si è detto, non è richiesto dalla legge che la condotta sia sorretta da un atteggiamento doloso o colposo — si configura nei confronti del terzo. Il principio del divieto di scaricare in mare olii provenienti da terra ha una portata molto ampia, che si desume non soltanto dal fatto che la sua violazione è penalmente punita a titolo di responsabilità oggettiva, ma anche da altri dati. In primo luogo, si deve tener conto che esso si applica non solo agli scarichi in senso stretto ma, come specifica l’art. 29, anche alle perdite di olio. In secondo luogo, il divieto di scarico concerne qualsiasi tipo di olio, sia minerale sia vegetale (39), come per esempio l’olio di balena, e tutte le altre sostanze, compresa l’acqua, che contengano olio. Infine, riguarda gli scarichi non solo nelle acque territoriali del mare, ma anche nelle altre acque navigabili, incluse quelle interne, che si trovino al di qua del limite territoriale. (34) La ratio sta nel fatto che il possessore del luogo è, in quanto tale, responsabile di esso e quindi di tutti i fatti che su di esso si verificano. Si tratta, in pratica, di una responsabilità penale per le proprie cose. Resta fermo, comunque, che il terzo che ha effettuato lo scarico risponde pure del reato, ma in qualità di partecipe e non di autore. (35) Si avrà modo di notare, analizzando gli altri reati di inquinamento, sia nell’ordinamento inglese che in quello italiano, che quasi sempre essi sono di pura condotta — per lo più consistente nel trasgredire obblighi o divieti — e di pericolo presunto. Sulla definizione di reati di pericolo presunto, vedi nota 31. (36) Ciò dipende dal fatto che lo scarico ha ad oggetto olii, vale a dire sostanze che, se versate nell’acqua, inevitabilmente ne alterano la qualità, inquinandola. (37) Per tutti, Federal steam navigation co. ltd. v. department of trade and industry, 1974, 2 All. E.R., p. 97. (38) Si pensi che, addirittura, il possessore del luogo da cui proviene lo scarico è ritenuto soggetto attivo del reato anche quando lo scarico è effettuato da un terzo, a condizione che quest’ultimo si trovi in detto luogo con il permesso del possessore. (39) Vedi Cosh v. Larsen, 1971, 1 Lloyd’s Rep., p. 557.
— 604 — Sullo scarico in mare di olii si deve, infine, osservare che ad esso sembrerebbero applicabili a prima vista sia il reato di cui all’art. 2 del Prevention of oil pollution act sia il più generale reato di scarico di sostanze inquinanti nelle acque controllate di cui all’art. 85 del Water resources act 1991. Si tratta in realtà di un concorso apparente di norme, in quanto tra le due norme intercorre un rapporto di specialità, nel quale prevale la norma speciale sul divieto di scarichi di olii, che prevede, coerentemente al carattere speciale, un trattamento sanzionatorio più severo (40). Il secondo principio enunciato dalla legge del 1971 consiste nel sottrarre alcune ipotesi al suddetto divieto di scarico, prevedendo per esse delle cause di non punibilità. In base all’art. 6, infatti, il possessore del luogo da cui provenga una « perdita » — e non uno scarico — di olio o di miscela di olio non è punibile per il reato di cui all’art. 2, se è in grado di provare che « né la perdita né il ritardo nella scoperta di essa fu imputabile alla mancanza di ragionevole diligenza, e che appena fu possibile, subito dopo la scoperta, vennero prese tutte le misure del caso per arrestare o ridurre la perdita ». Si tratta di un’esimente che opera con limiti ben precisi. Essa è applicabile non a qualsiasi tipo di scarico ma solo ad una « perdita » di olio. Inoltre, si richiede da parte del soggetto agente un atteggiamento assolutamente incolpevole nei confronti della perdita e del ritardo nella scoperta, nonché un comportamento attivo e, nei limiti del posssibile, tempestivo, rivolto a limitare i danni di detta perdita (41). Vi è poi un’altra causa di non punibilità che copre, però, soltanto le condotte di scarico di miscele di olio (restano pertanto escluse le ipotesi di scarico di olii puri). Condizioni per la sua applicabilità sono: che l’olio sia contenuto in un effluente prodotto nell’attività di raffinazione; che non sia stato possibile smaltire tale effluente in altro modo; che siano state prese tutte le misure possibili per depurare l’effluente dall’olio. Quest’esimente non può, tuttavia, essere invocata dal soggetto agente nel caso in cui sia provato che al momento della contestazione del reato la superficie delle acque in cui è avvenuto lo scarico del composto oleoso era già intorbidata da olii, salvo che tale stato di intorbidamento non si sia verificato in conseguenza di altri scarichi di effluenti oleosi da quello stesso luogo, non sia stato cioè cagionato in tutto o in parte dallo stesso soggetto. 4.1. Non sempre i materiali e le sostanze di rifiuto prodotti sulla terra — ad esempio nell’esercizio di attività industriali e commerciali — vengono scaricati direttamente in mare. Spesso, infatti, essi vengono trasportati su navi per essere poi depositati in mare (42). Il deposito in mare può avvenire in tre differenti modi: o attraverso un processo di dispersione, vale a dire di immissione diretta dei rifiuti in mare aperto o in aree circoscritte di mare, nelle quali però le correnti determinano comunque una diffusione a largo raggio dei rifiuti stessi; o attraverso un processo di « stoccaggio », consistente nell’incapsulare le sostanze inquinanti prima di depositarle, per evitare la loro dispersione nell’ambiente marino (43); o ancora attraverso un processo che è, come nel primo caso, di dispersione, ma (40) Vedi Rankin De Coster, 1975, 2 All. E.R., p. 303. Nella specie, in realtà, il problema era stato sollevato in ordine all’art. 31 del Control of pollution act 1974, il quale prevedeva un reato sostanzialmente identico a quello che gli è subentrato e che è previsto dall’art. 85 del Water resources act 1991: la soluzione a favore del concorso apparente resta, pertanto, valida anche nei confronti dell’art. 85. (41) Vedremo che spesso il legislatore inglese prevede questa figura dell’uso della doverosa diligenza — interpretata, peraltro, in modo restrittivo dalle Corti — come esimente per i reati di inquinamento. (42) Si tratta di un fenomeno che gli inglesi chiamano dumping at sea. (43) Questo metodo è utilizzato soprattutto per quelle sostanze che sono particolarmente nocive per l’ambiente marino.
— 605 — che viene preceduto da un processo di trattamento dei rifiuti, quale ad esempio l’incenerimento (44). I principali tipi di rifiuti depositati in mare sono: gli effluenti di fogna, gli effluenti industriali ed i depositi arenari derivanti dalle attività estrattive. Il sistema del deposito in mare tramite navi di rifiuti prodotti sulla terra si è talmente diffuso sia in Gran Bretagna che nelle altre nazioni a partire dagli anni cinquanta che, non essendo in alcun modo sottoposto a controlli pubblici, ha determinato gravi danni all’equilibrio ambientale del mare. Si è pertanto sentita l’esigenza sia a livello internazionale sia a livello nazionale di sottoporre tale pratica ad una disciplina speciale che realizzasse una adeguata tutela dell’ambiente marino contro questa forma di inquinamento. 4.2. Il più importante intervento normativo internazionale a tutela del mare è rappresentato dalla « Convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie » del 1972, detta anche Convenzione di Londra (45). Essa sancisce l’impegno tra le parti contraenti (tra le quali la Gran Bretagna) di prevenire l’inquinamento cagionato dallo scarico di rifiuti o di altri materiali suscettibili di mettere in pericolo la salute dell’uomo, di nuocere alle risorse biologiche, alla fauna e alla flora marina, di pregiudicare le zone di interesse turistico o di ostacolare altro uso legittimo del mare (art. 1). A tal fine la Convenzione individua tutte le sostanze in qualche modo inquinanti distinguendole in due categorie (previste dagli Allegati 1 e 2) a seconda del grado di dannosità o pericolosità delle stesse (46) e ne determina la disciplina. Lo scarico delle sostanze elencate nell’Allegato 1 è vietato, salvo quando queste vengano rapidamente rese innocue in mare da processi fisici, chimici o biologici, sempre che non alterino il gusto degli organismi marini commestibili e non presentino alcun pericolo per la vita dell’uomo né degli animali domestici; e salvo, inoltre, lo stato di emergenza (47). Lo scarico delle sostanze elencate nell’Allegato 2 è subordinato al preventivo rilascio da parte dell’autorità amministrativa competente di un’autorizzazione specifica, vale a dire concessa per ogni singolo caso su preventiva richiesta. Lo scarico di ogni altro rifiuto o materiale non inclusi negli elenchi degli Allegati 1 e 2 è subordinato al rilascio di un’autorizzazione generale, vale a dire concessa preventivamente (44) TIMAGENIS, International control, cit., p. 109. (45) La Convenzione di Londra è la più importante in questa materia in quanto è applicabile a tutti i mari del mondo. Esistono, infatti, altre convenzioni internazionali per la prevenzione dell’inquinamento del mare da scarichi di rifiuti terrestri, ma hanno carattere regionale in quanto hanno un’applicazione territorialmente limitata. Così, la Convenzione di Oslo, cui la Gran Bretagna ha aderito, è applicabile soltanto al Mare del Nord e all’Oceano Atlantico nord-est: essa, peraltro, fissa principi analoghi a quelli sanciti nella Convenzione di Londra. (46) L’Allegato 1 contiene un elenco delle sostanze in assoluto più pericolose, tra le quali sono individuati i composti organo-allogenici, il mercurio e i suoi composti, il cadmio e i suoi composti, le plastiche e gli altri materiali sintetici non biodegradabili. L’Allegato 2 elenca le sostanze che, in quantità notevoli, possono essere pericolose, tra le quali si può ricordare l’arsenico, lo zinco, il rame, il piombo e loro composti, i composti organo-silicei, i fluoruri. (47) Ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di Londra si ha stato di emergenza quando si renda necessario assicurare la tutela della vita umana o la sicurezza di navi, aeronavi, piattaforme o altre strutture situate in mare nei casi di forza maggiore dovuti ad intemperie o a qualunque altra causa che mettano in pericolo vite umane o che costituiscono una diretta minaccia per i suddetti mezzi, sempre che lo scarico sia il solo modo per fronteggiare il pericolo in quanto comporti, con ogni probabilità, danni inferiori a quelli che si verificherebbero se non si effettuasse lo scarico.
— 606 — per gli scarichi aventi determinate caratteristiche che devono essere indicate dall’autorità concedente nell’autorizzazione stessa (art. 4). Inoltre, l’Allegato 3 della Convenzione individua i criteri guida cui le autorità nazionali competenti devono attenersi nel concedere le suddette autorizzazioni. In particolare, le suddette autorità dovranno tenere conto delle caratteristiche e della composizione del materiale da scaricare (quantità, forma, proprietà fisiche, tossicità, persistenza, ecc.); delle caratteristiche dei luoghi di scarico e dei modi di scarico (luogo, frequenza dello scarico, metodi di imballaggio, caratteristiche di dispersione, ecc.). Dovranno, inoltre, prendere in considerazione le eventuali conseguenze sulle zone di interesse turistico, sulla fauna e sulla flora marina, sulla piscicoltura e sugli altri usi del mare. La Gran Bretagna ha dato esecuzione alla Convenzione di Londra con una legge del 1974, il Dumping at sea act che, a seguito di alcuni emendamenti apportati alla Convenzione nel 1978 (consistenti essenzialmente nell’aggiornamento delle sostanze inquinanti elencate negli Allegati 1 e 2), è stata abrogata e sostituita dal Food and environment protection act 1985. 4.3. La Gran Bretagna, in considerazione della particolare diffusione della pratica del deposito in mare tramite navi di rifiuti terrestri e quindi dell’aggravarsi dell’inquinamento marino conseguente ad essa, ha adottato la soluzione di regolamentare questo fenomeno in modo autonomo rispetto agli scarichi effettuati direttamente da terra. Questi ultimi, si è visto, sono disciplinati dal Water resources act 1991 e, quando hanno ad oggetto olii, dal Prevention of pollution act (48). La disciplina del dumping at sea è contenuta nella seconda parte del Food and environment protection act, intitolata « Depositi in mare », che ha dato attuazione alla Convenzione di Londra del 1972 (49). Essa si fonda sul principio secondo il quale le attività di deposito in mare di sostanze inquinanti (50) e le operazioni prodromiche a queste — quali il carico delle sostanze sulle navi e l’incenerimento delle stesse sulle navi — possono avvenire soltanto quando non siano praticabili metodi alternativi di smaltimento delle suddette sostanze, e previa autorizzazione da parte dell’autorità amministrativa tramite il rilascio di una licenza (51). Questa deve fissare le modalità ed eventualmente le condizioni alle quali il deposito può essere effettuato (52). A garanzia del regolare svolgimento delle operazioni di carico, di incenerimento, e di (48) L’Italia, invece, come si vedrà in seguito, ha scelto una soluzione intermedia, in quanto ha assoggettato tutte le ipotesi di inquinamento del mare provocate dallo scarico di rifiuti e di altre sostanze inquinanti prodotti sulla terra — quindi sia gli scarichi diretti in mare sia il deposito in mare tramite navi — alla disciplina generale sugli scarichi prevista dalla legge Merli e successive modifiche. (49) Alla Convenzione di Londra la Gran Bretagna aveva, in realtà, già dato attuazione con una legge del 1974, il Dumping at sea act. Tuttavia, dato che nel 1978 sono stati apportati alcuni emendamenti alla Convenzione di Londra (consistenti essenzialmente nell’aggiornamento delle sostanze inquinanti elencate negli Allegati 1 e 2), il Dumping at sea act è stato abrogato e sostituito dal Food and environment act del 1985 (più precisamente dalla parte seconda di esso, che riguarda proprio i depositi in mare di rifiuti terrestri). (50) Le sostanze inquinanti, elencate nella legge, sono quelle indicate dagli allegati della Convenzione di Londra. (51) Questa regola vale per tutte le navi, di qualunque nazionalità, quando il deposito o le altre operazioni prodromiche debbano avvenire nelle acque territoriali britanniche; per le sole navi britanniche, quando dette attività vengano compiute al di fuori delle acque territoriali britanniche. (52) Modalità e condizioni sono determinate dall’autorità amministrativa in relazione alla duplice finalità di tutelare l’ambiente marino con tutte le sue risorse biologiche e la salute dell’uomo, e di prevenire interferenze con gli usi legittimi del mare. Queste finalità stanno alla base anche di eventuali modifiche ovvero della revoca della licenza da parte dell’autorità amministrativa.
— 607 — deposito in mare delle sostanze inquinanti, l’Allegato 2 del Food and environment protection act attribuisce agli organi amministrativi competenti in questo settore una serie di poteri sia investigativi sia coercitivi. Così, ad esempio, il potere di chiedere informazioni sulle sostanze e sui materiali che si trovano a bordo di una nave, o che sono stati persi da questa; o ancora, il potere di ordinare al comandante di dirigere la nave con l’equipaggio verso il porto più vicino per effettuare controlli; o ancora, il potere di ordinare il fermo ovvero il sequestro di una nave per compiere rilievi e accertamenti. L’operato delle autorità amministrative è a sua volta tutelato attraverso la previsione da parte dell’allegato sia di un’esimente a favore di esse, sia di tre reati configurabili a loro danno. Da un lato, l’art. 9, Allegato 2, sancisce che l’autorità amministrativa non è civilmente e penalmente responsabile per gli atti compiuti nel presunto espletamento delle proprie funzioni, qualora la Corte ritenga che gli atti siano stati compiuti in buona fede e che esistessero ragionevoli motivi per agire. Si tratta di un’esimente — che tra l’altro ha delle analogie col nostro adempimento del dovere erroneamente supposto (art. 51, terzo comma, c.p.) — in quanto la condotta dell’ufficiale è oggettivamente illecita ma non viene punita per la mancanza di colpevolezza dell’agente (buona fede), che deve essere accertata in base all’esistenza di ragionevoli motivi per agire. Dall’altro lato, l’art. 10, Allegato 2, prevede tre reati, tutti accomunati dal fatto di offendere l’interesse al corretto espletamento delle proprie funzioni da parte dell’autorità amministrativa. Il primo consiste nel fatto di chi intenzionalmente ostacola la suddetta autorità nell’adempimento delle proprie funzioni. Trattasi di reato doloso. Per espressa volontà legislativa è necessario il dolo intenzionale. È di pura condotta, la quale si realizza con un ostruzionismo, che può avvenire in qualunque modo. Il legislatore, infatti, non richiede modalità violente o minacciose. Da ciò può dedursi che anche una resistenza passiva all’operato dell’autorità costituisce reato. Il reato in parola si avvicina al nostro di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), che punisce chiunque « usa violenza o minaccia per opporsi ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio mentre compie un atto di ufficio o di servizio ». Questo, come il reato inglese, incrimina una condotta di ostruzionismo nei confronti di un’autorità amministrativa al fine di tutelare il regolare operato della pubblica amministrazione contro ingerenze esterne, nella fase di esecuzione dell’attività pubblica (53). A differenza del reato inglese, però, l’art. 337 richiede espressamente che l’ostruzionismo sia realizzato con modalità violente o minacciose (54). Un’altra ipotesi di ostruzionismo presente nel nostro codice è rappresentata dall’interruzione di un ufficio o servizio pubblico, prevista dall’art. 340 c.p., che consiste nel cagionare un’interruzione o nel turbare la regolarità di un ufficio o servizio pubblico (55). La condotta di turbamento della regolarità del pubblico ufficio, infatti, realizza un ostacolamento all’adempimento di una funzione o di un servizio pubblico. Pur avendo delle analogie con il reato inglese di ostruzionismo, i nostri reati di resistenza e di interruzione di un pubblico ufficio hanno una portata diversa — vale a dire più (53) Il momento in cui l’attività pubblica è tutelata — vale a dire quello della sua esecuzione — rappresenta l’elemento che distingue il reato di resistenza a pubblico ufficiale da quello di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, previsto dall’art. 336 c.p., e che al tempo stesso lo accomuna a quello inglese. (54) Si deve, tuttavia segnalare che la giurisprudenza tende a ricomprendere nel concetto di « resistenza » di cui alla rubrica dell’art. 337 c.p. anche la resistenza passiva, quando questa avvenga in modo tale da ostacolare l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio. (55) L’art. 340, a differenza dell’art. 337, non richiede l’uso di violenza o minaccia: ha quindi una portata più ampia, così come il reato inglese di ostruzionismo.
— 608 — ampia — in quanto tutelano tutta l’attività della pubblica amministrazione, mentre quello inglese è posto a garanzia del regolare svolgimento della specifica attività amministrativa di tutela dell’ambiente. Il secondo reato previsto dall’art. 10, Allegato 2, consiste nel fatto di chi senza una ragionevole giustificazione manca di soddisfare ad una richiesta ovvero di conformarsi ad un’istruzione data dall’autorità amministrativa nell’adempimento delle proprie funzioni. Trattasi di reato omissivo proprio, che si perfeziona con l’inosservanza dell’ordine o della direttiva pubblica, che può avvenire tanto con una semplice inerzia, quanto con la realizzazione di una condotta contraria e incompatibile con quella richiesta. Esso ha delle analogie con la nostra contravvenzione di « inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità » prevista dall’art. 650 c.p., la quale, pur avendo un ambito di applicazione circoscritto — il provvedimento disatteso deve essere stato emesso per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o di igiene — può trovare applicazione anche nel nostro caso in quanto le richieste fatte e le istruzioni date dalla pubblica autorità rientrano in senso lato nell’esigenza di sicurezza pubblica (56). L’ultimo reato può essere realizzato con tre tipi di condotta — che hanno in comune il presupposto di dare informazioni all’autorità amministrativa che ne abbia fatto richiesta nell’esercizio delle proprie funzioni — che consistono nel: a) fare un’asserzione che si sa falsa su un dato essenziale; b) fare colposamente un’asserzione falsa su un dato essenziale; c) omettere intenzionalmente di svelare un dato essenziale (57). In realtà, più che di un solo reato realizzabile con modalità differenti, ci sembra più giusto parlare di due reati distinti. Uno di falsità dolosa, che può essere realizzato in due modi, vale a dire sia con una condotta attiva (ipotesi sub a)), sia con una condotta omissiva (ipotesi sub c)); uno di falsità colposa (ipotesi sub b)) (58). Anche rispetto a questo reato è possibile rinvenire nel nostro ordinamento alcune norme incriminatrici analoghe, vale a dire i reati di falsità materiale ed ideologica commessi dal privato (artt. 482 e 483 c.p.), seppure, come nei casi precedenti, con le dovute distinzioni in ordine al tipo di interesse tutelato (ambiente, nel reato inglese di false informazioni, fede pubblica nei nostri reati di falsità). Il motivo per il quale il parallelismo rispetto ai reati previsti dal Food and environment protection act è stato fatto con riferimento a nostri reati che non sono posti a tutela dell’ambiente ma di altri interessi (pubblica amministrazione e fede pubblica) è da ricercarsi nel fatto che la nostra legge sugli scarichi nelle acque (incluso il mare), legge Merli, non prevede reati analoghi a quelli inglesi di ostruzionismo, di inosservanza delle direttive dell’autorità e di falsità essenziali. La legge Merli non contempla né fattispecie penali né misure extrapenali per garantire la regolarità dell’attività amministrativa concernente la concessione delle autorizzazioni. Essa appresta una tutela penale soltanto in relazione al momento successivo alla concessione o al diniego dell’autorizzazione, vale a dire quello dell’effettuazione degli scarichi, affinché questi avvengano in presenza e in conformità dell’autorizzazione (59). (56) La salvaguardia dell’ambiente marino, infatti, indirettamente realizza anche la sicurezza pubblica, vale a dire dei consociati che con detto ambiente convivono. (57) Il Food and environment protection act prevede un altro reato realizzabile alternativamente con queste stesse tre condotte di falsità, all’art. 9, che si distingue da questo per il fatto di essere realizzato non su impulso dell’autorità amministrativa, vale a dire a seguito di richiesta di informazioni, ma su iniziativa dello stesso privato, vale a dire al fine di ottenere ingiustamente il rilascio di una licenza. (58) Ci troviamo di fronte ad una norma mista cumulativa. Sul punto vedi nota 16. (59) La legge Merli, infatti, sanziona penalmente soltanto la violazione delle norme che impongono divieti di scarichi o che sottopongono gli scarichi ad autorizzazione; ma nulla prevede a tutela dell’operato dell’autorità amministrativa competente in questo settore nelle fasi prodromiche al controllo sugli scarichi, vale a dire nella fase di concessione dell’au-
— 609 — Tornando alla tutela penale apprestata dal Food and environment protection act, oltre alle norme incriminatrici poste a garanzia dell’attività di controllo da parte dell’autorità amministrativa competente sul regolare svolgimento delle operazioni di deposito di rifiuti in mare, nonché di quelle prodromiche di carico e di incenerimento dei rifiuti stessi sulla nave, il legislatore inglese prevede il reato di compimento delle suddette operazioni (carico, incenerimento e deposito in mare di rifiuti terrestri) senza o in difformità da una licenza (60). Si tratta — come è caratteristica di quasi tutti i reati ambientali — di un reato di pura condotta. È, inoltre, di pericolo presunto. L’offesa (pericolo di inquinamento delle acque del mare) non va, cioè, accertata di volta in volta, in quanto ritenuta necessariamente insita nella condotta stessa. Per quanto concerne la condotta, si deve rilevare come il legislatore inglese, per apprestare una tutela completa, ha scelto di incriminare, da un lato, non solo il deposito in mare di rifiuti (non autorizzato, o al di là dei limiti della licenza) — come si limita a fare, invece, il legislatore italiano — ma anche le operazioni prodromiche di carico e di incenerimento degli stessi sulla nave; dall’altro, di punire anche le condotte di agevolazione e di istigazione a compiere le suddette operazioni. Il reato consiste nel realizzare le condotte summenzionate senza una licenza o in difformità da essa. Il primo caso si può verificare non solo quando la licenza non sia stata mai richiesta dall’interessato ovvero non sia stata rilasciata dall’autorità competente, ma anche quando sia stata originariamente rilasciata e successivamente (ma prima del compimento dell’atto in questione) revocata dall’autorità amministrativa competente. Il secondo caso — che corrisponde, come vedremo, al nostro superamento dei limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate alla legge Merli — si verifica quando le operazioni di deposito e quelle prodromiche vengono compiute in modo difforme da quello imposto dalla licenza, ovvero superando i limiti da essa fissati (ad esempio i limiti quantitativi massimi di rifiuti scaricabili). Come è tipico dei reati ambientali, sono previsti due livelli sanzionatori, a seconda che si abbia una summary conviction o una conviction on indictment. Nel primo caso è prevista una pena pecuniaria fino a 2.000 sterline; nel secondo, una pena pecuniaria indefinita — lasciata cioè alla libera determinazione del giudice — alternativa o cumulativa, a seconda della gravità del fatto, con una pena detentiva non superiore a due anni. La responsabilità è estesa dall’art. 21 al direttore, all’amministratore, al segretario o ad altra persona che abbia la rappresentanza di un ente, il quale sia consenziente, connivente o negligente rispetto alla commissione del fatto da parte dell’ente stesso (61). In questo caso si ha una responsabilità concorsuale tra l’ente e il soggetto suddetto. Si deve, tuttavia, rilevare che la responsabilità dell’ente non è esattamente uguale a quella della persona fisica che ha commesso il reato, in quanto sul piano sanzionatorio l’ente, data la sua esistenza fittizia, non può ovviamente essere condannato a pena detentiva torizzazione, nonché in quella di controllo sulla regolarità delle operazioni compiute dalle navi. (60) L’art. 9 del Food and environment protection act, infatti, punisce « chiunque, senza una licenza o in difformità da essa, compie qualsiasi atto per il quale è necessaria la licenza, ovvero permette o determina altri a compierlo ». (61) La norma di cui all’art. 21, sesto comma, ha una formulazione standard che il legislatore inglese suole usare ogni qualvolta un reato sia commesso nell’interesse di una persona giuridica: in questi casi la responsabilità è attribuita tanto al soggetto che rappresenta l’ente, quanto all’ente stesso. Ciò a differenza del nostro ordinamento, nel quale non si ammette la possibilità che un ente sia soggetto attivo del reato, ma soltanto che sia titolare di un’obbligazione civile di risarcimento in solido con la persona che rappresenta l’ente e che ha commesso il fatto nell’interesse dello stesso.
— 610 — nei casi in cui la legge ne prevede l’applicabilità in alternativa o in aggiunta alla pena pecuniaria, ma può essere condannato soltanto a pagare una pena pecuniaria. La legge prevede alcune situazioni nelle quali il reato di compimento dell’operazione di carico, di incenerimento, o di deposito in mare di rifiuti terrestri senza o in difformità dalla licenza non è punibile. La prima, prevista dal terzo comma dell’art. 9, si verifica quando il soggetto provi di aver compiuto l’operazione costretto dalla necessità di salvare il natante o la vita di qualcuno e di avere entro un ragionevole arco di tempo preso l’iniziativa di informare il Ministro dell’agricoltura, pesca e alimentazione o il Segretario di Stato dell’operazione, del luogo e circostanze in cui questa è avvenuta, e delle sostanze oggetto dell’operazione. Qualora il soggetto non riesca a provare entrambe le condizioni ovvero, pur provate, risulti che la necessità di salvamento sia stata determinata da una condotta colposa del soggetto stesso, la causa di non punibilità non potrà essere invocata. Si tratta di un’ipotesi molto vicina al nostro stato di necessità col quale ha in comune la situazione necessitata di compiere il reato per salvare la vita umana e il presupposto che detta situazione non sia stata determinata da una condotta colpevole del soggetto agente. La seconda causa di non punibilità ha una portata più circoscritta in quanto è applicabile soltanto ad alcune operazioni compiute senza la necessaria licenza da natanti di nazionalità inglese in acque extraterritoriali appartenenti ad uno Stato aderente alla Convenzione di Londra, purché tali operazioni siano autorizzate dal diritto interno dello Stato in questione (62). La ragione della rinuncia a punire sta, da un lato, nel fatto che la condotta si verifica, ed esplica pertanto i suoi effetti, in un altro Stato; dall’altro, nel fatto che detto Stato, al pari della Gran Bretagna, è aderente alla Convenzione di Londra, il che garantisce una certa uniformità di disciplina in materia di tutela dell’ambiente marino; e, in stretto collegamento con ciò, nel fatto che detta condotta sia considerata lecita in tale Stato. Vi è infine una causa di non punibilità prevista dall’art. 22, chiamata « uso della doverosa diligenza », che si è già incontrata e si avrà modo di ritrovare più avanti nell’analisi degli altri reati in quanto il legislatore inglese spesso la utilizza per limitare la responsabilità penale per la commissione di reati ambientali. Essa si verifica quando la persona imputata del reato di compimento delle operazioni di carico, incenerimento o deposito di rifiuti terrestri senza o in difformità dalla licenza provi di aver adottato tutte le ragionevoli precauzioni e di aver agito con tutta la doverosa diligenza per evitare di commettere il reato. Data la potenziale ampiezza di tale esimente, il legislatore si è preoccupato di specificare in modo tassativo i presupposti necessari per invocarla a propria scusa da parte dell’imputato. Il soggetto, infatti, deve sempre provare di aver agito in base ad istruzioni ricevute dal suo datore di lavoro o superiore; ovvero facendo affidamento su informazioni fornite da un terzo, senza avere la possibilità di rilevare la falsità o ingannevolezza di esse; e di avere, in entrambe le ipotesi, preso tutte le iniziative da lui esigibili per evitare di commettere un reato. In altre parole, la scusante della doverosa diligenza opera quando il reato sia imputabile esclusivamente alla colpa di un terzo, vale a dire, non sia altresì ravvisabile colpa nel soggetto agente. 4.4. La legge Merli che, come si è già avuto modo di dire, disciplina tutti gli scarichi nelle acque — comprese quelle marine — regola il deposito di rifiuti terrestri in mare tramite navi in modo parzialmente differente rispetto agli scarichi effettuati direttamente da terra. Il deposito in mare tramite navi, pur essendo infatti sottoposto al pari dello scarico di(62) Si tratta delle operazioni di deposito in mare o nei fondali di sostanze inquinanti caricate in uno Stato contraente o nelle acque territoriali di questo; di incenerimento delle suddette sostanze, sempre che caricate nello Stato contraente o nelle acque territoriali di questo; di affondamento di un natante.
— 611 — retto da terra al regime autorizzatorio (63), è diversamente disciplinato sul piano formale della competenza a rilasciare l’autorizzazione (64), sul piano sostanziale dei presupposti (65) (66), nonché — ed è l’aspetto che più ci interessa — sul piano sanzionatorio. Per quanto concerne la responsabilità penale, infatti, anche se il deposito in mare di rifiuti terrestri tramite navi può essere legittimamente autorizzato soltanto quando compatibile non solo con le norme internazionali ma anche con quelle della legge n. 319/1976, ed in particolare con i limiti tabellari, il superamento di questi ultimi non costituisce in quest’ipotesi di per sé reato ai sensi dell’art. 21, terzo comma, a differenza di quanto è previsto per gli scarichi diretti da terra e per gli altri tipi di scarichi. Ciò non significa, comunque, che vi sia un vuoto di tutela, in quanto la legge Merli prevede un altro reato all’art. 24-bis (67) che si configura quando il deposito in mare di rifiuti tramite navi ha ad oggetto sostanze per le quali le convenzioni internazionali impongono il divieto assoluto di sversamento, salvo che queste siano in quantità tali da essere rese rapidamente innocue dai processi fisici, chimici e biologici che si verificano naturalmente in mare. Resta fermo, in quest’ultimo caso, l’obbligo della preventiva autorizzazione. (63) Ciò significa che, salvo per alcune sostanze ritenute dannose per l’ambiente marino per le quali il deposito in mare è assolutamente vietato, per gli altri rifiuti esso può avvenire soltanto quando vi sia l’autorizzazione e nei limiti da questa fissati. (64) La competenza a rilasciare l’autorizzazione, infatti, in questo caso è attribuita non ad autorità regionali ma alla autorità statale per eccellenza in questo settore, il Ministero dell’ambiente, il quale agisce su proposta del capo del compartimento marittimo nella cui zona di competenza si trova il porto da cui parte la nave con il carico dei materiali da scaricare, ovvero il porto più vicino al luogo di discarica, se effettuata da aeromobili (art. 11, quarto comma). (65) Il rilascio dell’autorizzazione deve avvenire, infatti, « in conformità alle disposizioni stabilite dalle convenzioni internazionali vigenti in materia e ratificate dall’Italia, secondo le direttive stabilite dal Comitato interministeriale di cui all’art. 3, in armonia con quelle della presente legge » (art. 11, terzo comma), anziché, come è previsto per lo scarico diretto in mare di rifiuti terrestri, in conformità ai limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate alla legge n. 319/1976. Per quanto concerne le direttive del Comitato interministeriale (oggi Ministero dell’ambiente, in base all’art. 2, lett. a), legge n. 349/1986), esse sono state emanate con delibera del 26 luglio 1978, modificata in seguito con una delibera del 27 agosto 1984, la quale ultima rende ammissibili gli scarichi in mare libero « nei casi in cui non esistano alternative di smaltimento, trattamento o utilizzazione dei medesimi, tecnicamente attuabili e tali da comportare minori rischi ambientali ». (66) La differenza di parametri per il rilascio dell’autorizzazione in realtà è meno incisiva di quanto sostiene una parte della dottrina (cfr. R. FUZIO, Gli scarichi in mare territoriale tra la legge Merli, la legge speciale n. 953/1965 e il reato di danneggiamento, in Giur. merito, 1983, II, p. 169), in quanto è stato osservato (G. AMENDOLA, La tutela penale, cit., p. 257) che se da un lato è vero che le autorizzazioni per tali scarichi non sono rigidamente soggette, come quelle per gli scarichi diretti in mare, « alle prescrizioni, ai limiti ed agli indici di accettabilità della legge n. 319 », dall’altro è anche vero che tali autorizzazioni devono essere rilasciate (oltre che in conformità alle convenzioni internazionali ed oltre che secondo le direttive del comitato interministeriale) anche « in armonia con quelle della presente legge » (cioè della legge n. 319/1976) e, quindi, in armonia anche con quanto disposto dalle prescrizioni, dai limiti e dagli indici di accettabilità della legge n. 319/1976 e delle tabelle ad essa allegate. In questo senso, quindi, il legislatore, lasciando al Ministero dell’ambiente la possibilità di rilasciare autorizzazioni per lo scarico in mare tramite navi non rigidamente ancorate ai limiti tabellari, lo avrebbe tuttavia richiamato all’obbligo di tenerli sempre presenti onde restare in un quadro armonico di riferimento (e non di contrasto). Ciò ovviamente varrebbe sia per prescrizioni più permissive che per prescrizioni più restrittive rispetto ai limiti tabellari. (67) L’art. 24-bis è stato introdotto dall’art. 3 della legge n. 305/1983, che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione di Londra del 1972, che è la convenzione di cui si è parlato in sede di trattazione della regolamentazione internazionale degli scarichi di rifiuti terrestri in mare e della quale oltre all’Italia anche la Gran Bretagna è firmataria.
— 612 — Secondo la dottrina (68), infatti, questo reato corrisponderebbe, con gli opportuni aggiustamenti, alla fattispecie di superamento dei limiti tabellari di cui all’art. 21, terzo comma. Il reato di cui all’art. 24-bis si applica sia nei casi di deposito senza autorizzazione di sostanze per le quali è imposto il divieto assoluto di sversamento da parte delle convenzioni internazionali; sia nei casi in cui, pur essendo il deposito di tali sostanze autorizzato (data l’esigua quantità), vengano superati i limiti di accettabilità fissati dall’autorizzazione o indicati nelle convenzioni internazionali. La previsione di una norma incriminatrice autonoma rispetto a quella per gli scarichi diretti con superamento dei limiti tabellari si spiega col fatto che il legislatore ha voluto sottoporla ad un regime sanzionatorio più severo (69), fondato sull’applicabilità della sola pena detentiva, a fronte dell’alternativa tra pena pecuniaria e pena detentiva prevista dall’art. 21, terzo comma (70). Qualora non ricorra l’ipotesi di cui all’art. 24-bis — in quanto lo scarico non abbia ad oggetto sostanze o materiali per i quali sia imposto il divieto assoluto di sversamento dalle convenzioni internazionali — il deposito in mare di rifiuti terrestri è sottoposto alla stessa disciplina penale degli scarichi diretti da terra. Pertanto è applicabile il reato di cui all’art. 21, primo comma (71), se il deposito in mare tramite navi di sostanze inquinanti avviene senza autorizzazione; e il reato di cui all’art. 21, terzo comma (72), se il deposito, pur autorizzato, superi i limiti di accettabilità fissati dall’autorizzazione o indicati dalle convenzioni internazionali o dal comitato interministeriale in armonia con quelli contenuti nella legge n. 319/1976. Tutti i reati summenzionati sono di pura condotta, la quale si realizza con la violazione di un obbligo imposto dalla legge, che in un caso consiste nell’effettuare il deposito nonostante il divieto assoluto, in un altro nell’effettuarlo in modo non autorizzato, nell’altro ancora nel superare i limiti in cui esso è ammesso. Sono di pericolo presunto, nel senso che la loro imputazione al soggetto agente prescinde dall’accertamento in concreto del verificarsi di un’offesa al bene ambientale tutelato. Ciò in quanto il legislatore, nel punire tali fatti, ha ritenuto che il tipo stesso di condotta (scarico di sostanze vietate; scarico di sostanze non vietate, ma effettuato al di là dei limiti o delle modalità imposti dalla legge o dall’autorizzazione) è intrinsecamente pericolosa. Non si possono, pertanto, qualificare come reati di mera disubbidienza (73). Sono punibili sia a titolo di colpa sia di dolo, cosa che si deduce non da un’espressa in(68) Cfr. G. AMENDOLA, La tutela penale, cit., p. 259, il quale afferma che « la terminologia adottata (che richiama quella dell’art. 21, terzo comma, relativo al superamento delle tabelle) e il contenuto della nuova norma inducono a ritenere che per gli scarichi in mare tramite navi il divieto di superamento dei limiti tabellari sia stato sostituito dal divieto di sversamento di sostanze e materiali vietato dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia ». (69) L’art. 24-bis prevede, infatti, sempre l’arresto da due mesi a due anni; l’art. 21, terzo comma, invece, prevede l’ammenda da 15.000.000 a 150.000.000 o l’arresto fino ad un anno. Si deve, tuttavia, rilevare che, in contraddizione con il fine di punire più severamente lo scarico di sostanze vietate rispetto a quello delle altre sostanze, il legislatore prevede per quest’ultimo anche la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la p.a., mentre non la contempla per il più grave reato di scarico di sostanze vietate. (70) Il terzo e quarto comma dell’art. 21 attualmente vigenti sono stati introdotti dall’art. 3, primo comma, della legge n. 172/1995. (71) L’art. 21, primo comma, punisce l’effettuazione di scarichi in qualunque tipo di acqua senza autorizzazione o dopo che questa sia stata negata o revocata, con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da lire 500.000 a 10.000.000. (72) L’art. 21, terzo comma, punisce il reato di scarico autorizzato ma con superamento dei limiti tabellari con l’ammenda da 15.000.000 a 150.000.000 o con l’arresto fino ad un anno. (73) Sul punto, per una più ampia disamina cfr. M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996, p. 140 ss.
— 613 — dicazione legislativa, ma dal fatto che sono tutti reati contravvenzionali, il che comporta l’applicabilità del principio sancito dall’art. 42, quarto comma, secondo il quale le contravvenzioni sono punibili indifferentemente sia per dolo sia per colpa. I reati di scarico di sostanze non vietate, ma senza autorizzazione (art. 21, primo comma), e di scarico autorizzato, ma con superamento dei limiti tabellari (art. 21, terzo comma), essendo due contravvenzioni punibili alternativamente con l’ammenda o l’arresto, possono godere del beneficio dell’oblazione facoltativa, vale a dire dell’estinzione del reato. Il reato di scarico di sostanze vietate, invece, essendo punito per la sua maggiore offensività sempre con l’arresto, non può beneficiare dell’oblazione. Esso rientra, comunque, nei limiti di pena che consentono l’applicazione di un’altra causa di estinzione del reato, vale a dire la sospensione condizionale della pena. Tutti questi reati rientrerebbero, inoltre, nei limiti di pena che consentono, in via subordinata, vale a dire quando per le circostanze del caso concreto non siano applicabili l’oblazione e la sospensione condizionale, di far ricorso alle pene sostitutive delle pene detentive brevi. In proposito si deve, però, segnalare che fino al 1994 ciò non era possibile in quanto la legge n. 689/1981, che ha introdotto le pene sostitutive, escludeva all’art. 60 la loro applicazione nei confronti di una serie di reati, tra i quali quelli previsti dagli articoli 21 e 22 della legge n. 319/1976, vale a dire lo scarico non autorizzato e quello autorizzato ma con superamento dei limiti tabellari di sostanze non vietate. Nel 1994 la Corte Costituzionale (74) ha dichiarato l’art. 60 incostituzionale per contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., nella parte in cui esclude che le pene sostitutive si applichino ai reati previsti dagli artt. 21 e 22 della legge n. 319/1976. Ciò in quanto successivamente alla legge n. 689/1981 sono state emanate leggi a tutela dell’ambiente (quali il d.P.R. n. 915/1982 sulla disciplina dei rifiuti) che prevedono reati anche più gravi rispetto a quelli di cui agli artt. 21 e 22, che possono beneficiare delle pene sostitutive, dato che l’art. 60 della legge n. 689/1981 non è mai stato aggiornato in relazione all’entrata in vigore di questi reati. La perdurante immobilità del regime delle pene sostitutive dall’entrata in vigore della legge n. 689/1981 ha comportato, in altri termini,un’incoerenza e irragionevolezza del sistema penale a tutela dell’ambiente che ha spinto la Corte Costituzionale a espungere dall’elenco dei reati per i quali è esclusa l’applicabilità delle pene sostitutive quelli previsti dagli artt. 21 e 22 della legge n. 319/1976, cosicché ora il beneficio è esteso a tutti i reati ambientali (75). Dalle considerazioni suesposte si può giungere alla conclusione che la tutela penale apprestata dal nostro ordinamento al bene ambientale marino contro gli scarichi di rifiuti terrestri effettuati a mezzo di navi è, sul piano sanzionatorio, equivalente a quella inglese. In entrambe le legislazioni, infatti, è prevista come strumento repressivo per i reati ambientali di scarico l’alternativa, a seconda della gravità del fatto, tra pena detentiva e pena pecuniaria. Il fatto che il legislatore inglese non stabilisca, nei casi più gravi, l’ammontare della pena pecuniaria, lasciandolo alla libera determinazione del giudice, non rappresenta una divergenza sostanziale di grande peso, tenuto conto che la legge n. 172/1995 ha fortemente inasprito le pene dei reati previsti dall’art. 21. Si deve, tuttavia, rilevare — come si era già messo in evidenza in precedenza — che la tutela del mare apprestata dal legislatore inglese è più ampia e completa rispetto a quella ita(74) Corte Cost. 23 giugno 1994, n. 254, in Giur. cost., 1994, p. 2061. (75) In questo modo si è eliminata soprattutto l’incoerenza che nasceva dal fatto che per il reato di scarico di sostanze vietate era possibile applicare le pene sostitutive — nonostante la sua maggiore gravità rispetto a quello di scarico non autorizzato o con superamento dei limiti tabellari (previsti dagli artt. 21 e 22 della legge n. 319/1976) — in quanto esso è stato aggiunto alla legge n. 319/1976 da una legge successiva alla legge n. 689/1981, vale a dire dalla legge n. 305/1983.
— 614 — liana, in quanto realizzata attraverso l’incriminazione non soltanto delle condotte di scarico, ma anche di altre attività prodromiche allo scarico (vale a dire, carico e incenerimento su una nave di rifiuti per i quali è vietato lo scarico) che comportano anch’esse, seppure in misura inferiore, un pericolo di inquinamento per l’ambiente marino.
PARTE SECONDA 1. La seconda fonte dell’inquinamento del mare è rappresentata dalle navi. Queste, oltre ad essere indirettamente coinvolte nell’inquinamento di origine terrestre, in quanto impiegate nel trasporto e nel deposito in mare dei rifiuti terrestri, contribuiscono in modo diretto e in misura determinante al degrado marino principalmente attraverso lo sversamento di idrocarburi (che può essere volontario ovvero accidentale, vale a dire conseguente ad un’avaria alla nave o ad un incidente navale); inoltre, attraverso lo sversamento di altre sostanze nocive; infine, attraverso lo scarico in mare dei propri rifiuti. Per ciascuna delle suddette forme di inquinamento l’ordinamento inglese prevede una specifica disciplina legislativa. È pertanto opportuno procedere ad un’analisi distinta di esse.
Capo I 1. L’immissione in mare di idrocarburi rappresenta per l’ambiente marino una delle maggiori fonti di inquinamento a causa sia della particolare facilità di propagazione e di dispersione di tali sostanze nelle acque, sia della estrema difficoltà di depurare le acque da esse contaminate. È stato rilevato dalla Commissione reale sull’inquinamento ambientale (76) che circa il 60% degli idrocarburi che raggiungono il mare ha origine terrestre (e può consistere o nei gas di scarico dei veicoli che, inquinando l’atmosfera, ricadono poi nelle acque del mare, o in effluenti scaricati nei fiumi). Un 20% consiste in scarichi, accidentali o volontari, da parte delle navi. Il rimanente 20% è rappresentato dal « naturale gocciolamento » e dalle perdite che si verificano durante le generali operazioni navali. Di questi tre modi di insediamento il più pericoloso, sia per la particolare capacità di propagazione, sia per la copiosità dello scarico, è rappresentato dagli scarichi delle navi. Queste caratteristiche, inoltre, fanno sì che, quando si verifica uno scarico di questo tipo, vengano generalmente coinvolti gli interessi di più Stati. Ciò spiega il motivo per il quale si è sviluppata in questo settore, innanzittutto, una legislazione internazionale, che è stata poi recepita a livello interno dai vari ordinamenti interessati. La legislazione internazionale mira sia a prevenire l’inquinamento attraverso l’imposizione agli Stati dell’obbligo di far conformare le proprie navi ad una serie di requisiti e di adempimenti finalizzati a prevenire sversamenti di idrocarburi; sia a contenerlo nei casi di sinistri marittimi, attraverso la previsione della possibilità per i governi interessati dal sinistro di intervenire con misure di contenimento. 2.1. Il primo intervento internazionale a tutela del mare contro l’inquinamento da idrocarburi conseguente ad un sinistro marittimo è rappresentato dalla « Convenzione sull’intervento » del 1969, stipulata da vari Stati europei — tra i quali la Gran Bretagna e l’Italia — dopo il famoso e disastroso incidente occorso nel 1967 alla petroliera Torrey Canyon (77). (76) 8o Report, 1981, par. 11.3. (77) Questa si era incagliata vicino alle isole Scilly — fuori dalle acque territoriali
— 615 — Questa Convenzione fissa per la prima volta una regola di diritto internazionale — in deroga a quella da sempre applicata della libertà in alto mare — secondo la quale gli Stati aderenti ad essa possono adottare in alto mare le misure necessarie per prevenire, ridurre o eliminare i gravi e imminenti rischi che possono derivare ai loro litorali o ad interessi connessi dall’inquinamento delle acque del mare da idrocarburi conseguente ad un sinistro marittimo o a fatti connessi ad esso che appaiano suscettibili di avere gravi e dannose conseguenze (art. 1). Le misure adottate dallo Stato costiero devono essere proporzionate ai danni subiti o minacciati; non devono superare quelle ritenute ragionevolmente necessarie per raggiungere gli scopi indicati nell’art. 1 e devono cessare non appena tali scopi siano stati raggiunti. Non devono, inoltre, ove non sia assolutamente necessario, interferire con i diritti e gli interessi dello Stato di bandiera, di Stati terzi o di qualsiasi altra persona fisica o giuridica interessata (78). L’adozione di misure contrastanti con le disposizioni della Convenzione determina l’obbligo di pagamento di un indennizzo per i danni causati. Ad integrazione della disciplina prevista dalla Convenzione sull’intervento, un’altra convenzione, la Marpol del 1973 e il suo Protocollo I aggiunto nel 1978 disciplinano un aspetto tecnico particolare dell’intervento in alto mare, vale a dire i rapporti che determinati soggetti sono tenuti a fare sugli incidenti in conseguenza dei quali si sia verificato uno sversamento di idrocarburi o di altre sostanze nocive con conseguente pericolo di inquinamento. Più precisamente, il Protocollo I impone al comandante (o al responsabile) della nave accidentata o comunque coinvolta in un sinistro l’obbligo di redigere senza indugio un rapporto con indicazione di tutti i dati relativi all’incidente e alle sostanze sversate, mediante il quale deve essere informata l’autorità marittima più vicina al luogo dell’incidente (79). Lo Stato che riceve il suddetto rapporto (tramite l’autorità marittima vicina al luogo del sinistro) ha l’obbligo,a sua volta, di trasmettere senza indugio il rapporto stesso ad ogni Stato interessato (80). I suddetti obblighi di informazione rappresentano un aspetto molto importante della disciplina dell’intervento in alto mare. Essi sono, infatti, lo strumento prioritario e indispensabile affinché si possa concretamente realizzare l’intervento a prevenzione o contenimento dell’inquinamento provocato dal sinistro da parte di tutti gli Stati i cui litorali o interessi connessi siano stati in qualche misura coinvolti; e affinché detto intervento non sia lasciato della Gran Bretagna — con un carico di 117.000 tonnellate di petrolio. In conseguenza dell’urto, le cisterne furono danneggiate, così da determinare uno sversamento immediato in mare di circa 30.000 tonnellate di petrolio, e di altre 30.000 tonnellate qualche giorno più tardi, a causa della distruzione della prua. Per evitare un serio inquinamento della costa della Cornovaglia, il governo inglese prese l’iniziativa — che, in base al diritto internazionale dell’epoca, non sarebbe stato legittimato a fare, in quanto l’incidente non era avvenuto nelle sue acque territoriali — di bombardare il relitto in modo da bruciare il rimanente petrolio a bordo ed evitarne pertanto la dispersione in mare. Tale condotta, pur definita da alcuni come un atto di pirateria, ebbe l’effetto di far riflettere a livello internazionale sul problema dell’ammissibilità o meno di un intervento, in caso di sinistri marittimi in alto mare, da parte di Stati i cui interessi costieri venissero minacciati di inquinamento, indipendentemente dal fatto che la nave accidentata battesse bandiera propria o di altro Stato; e portò alla stipulazione della Convenzione sull’intervento due anni dopo l’incidente della Torrey Canyon. (78) Per valutare se le misure siano proporzionate al danno, si deve tener conto della portata e della probabilità di danni imminenti, ove tali misure non siano adottate; della probabile efficacia di tali misure; dell’estensione dei danni che possono essere causati da tali misure. (79) Un ulteriore obbligo di rapporto è previsto dall’art. 5, Protocollo I, nel caso eventuale che successivamente al primo rapporto vengano scoperti nuovi elementi sul sinistro o sullo sversamento rilevanti per l’intervento (rapporto suppletivo). (80) Art. 8, terzo comma, lett. b), Conv. Marpol.
— 616 — all’iniziativa di una parte sola, ma venga realizzato con la partecipazione di tutti gli Stati coinvolti, in collaborazione tra loro. Recentemente, nel maggio 1995, è entrata in vigore un’altra Convenzione in questo settore, la « Convenzione sulla preparazione, risposta e cooperazione in caso di inquinamento da idrocarburi » (OPRC), adottata a Londra il 30 novembre 1990 e della quale anche la Gran Bretagna è firmataria. Essa, a differenza della Convenzione sull’intervento, si applica a sinistri ovunque verificatisi, vale a dire non solo in alto mare ma anche in acque territoriali o perfino interne, e in modo indipendente dall’entità del pericolo di inquinamento (si richiede, infatti, che i sinistri « determinino una minaccia per l’ambiente marino », anziché, come stabilisce la Convenzione sull’intervento, « un grave ed imminente pericolo »). Scopo della Convenzione OPRC è di migliorare il livello di preparazione e di intervento in caso di sinistri marittimi cui consegua un inquinamento da idrocarburi e di promuovere a tal fine la cooperazione internazionale (81). Gli Stati contraenti si impegnano ad adottare misure appropriate per rispondere ai sinistri cui consegua un inquinamento da idrocarburi (art. 1). Detto impegno non altera diritti e doveri degli stessi Stati derivanti da altri patti internazionali (art. 11). A tal fine essi sono tenuti ad assicurare che tutte le navi dispongano di un piano di emergenza per l’inquinamento da idrocarburi (82). La Convenzione prevede, inoltre, l’obbligo per il comandante della nave di effettuare senza indugio rapporto su qualunque evento verificatosi sulla nave ovvero che sia stato rilevato in mare, il quale abbia determinato uno sversamento di idrocarburi o comunque la presenza di essi in mare — a pena di commettere un reato — nei confronti del più vicino Stato costiero. 2.2. La prevenzione e il contenimento dell’inquinamento da idrocarburi cagionato dalle navi accidentalmente (vale a dire in conseguenza di avaria, collisione, incaglio e così via) sono disciplinati da due leggi. Il Merchant shipping act 1995 (83) — che è subentrato, senza apportare peraltro modifiche, al Prevention of oil pollution act 1971, il quale aveva dato attuazione, oltre che alla Convenzione Oilpol, alla Convenzione sull’intervento del 1969 — e il Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations del 1987 (84), che ha dato attuazione all’art. 8 della Convenzione Marpol nonché al Protocollo I. L’intervento da parte del Governo inglese (precisamente del Segretario di Stato per i trasporti) è ammissibile in presenza dei seguenti presupposti: a) che si sia verificato un sini(81) L’obiettivo della Convenzione OPRC (migliorare la qualità dell’intervento in alto mare da parte degli Stati interessati in caso di sinistro marittimo, in particolare sotto il profilo della cooperazione tra gli stessi) si pone in linea di continuità con quello della Convenzione Marpol e del suo Protocollo I (un intervento realizzato con la collaborazione di tutti gli Stati interessati in modo coordinato). (82) I piani di emergenza devono essere coordinati col sistema nazionale di pronto intervento per l’inquinamento che gli Stati contraenti si impegnano a istituire. (83) L’inquinamento conseguente a sinistri è disciplinato specificamente agli artt. 137-141 della parte VI, la quale è dedicata alla prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi provocato sia accidentalmente sia volontariamente da navi. Il Merchant shipping act del 1995 ha infatti dato esecuzione, tra le altre, alla Convenzione OPRC e al Protocollo I del 1978 della Marpol. (84) Il Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations in realtà non è una legge ma un regolamento delegato del Segretario di Stato per i trasporti. Si tratta cioè di una fonte sublegislativa. È interessante in proposito notare come nell’ordinamento inglese sia considerata fonte del diritto in materia penale non solo la legge (statutes) ma anche gli atti dell’esecutivo (statutory instruments), come appunto i regolamenti dei Segretari di Stato che, come vedremo analizzando la disciplina del Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations, prevedono anche reati.
— 617 — stro marittimo (85), o nelle acque territoriali inglesi e abbia coinvolto una nave registrata in Gran Bretagna, o in alto mare ed abbia coinvolto una nave battente bandiera straniera, purché in quest’ultimo caso vi sia la necessità di proteggere il litorale o le acque territoriali dal grave ed imminente pericolo di inquinamento da idrocarburi o da altre sostanze nocive; b) che il Segretario di Stato ritenga che gli idrocarburi a bordo della nave possano determinare un inquinamento su larga scala in Gran Bretagna o nelle acque territoriali; c) che egli ritenga che l’uso di tale potere sia necessario ed urgente. Verificandosi questi presupposti, il Segretario può, al fine di prevenire o di ridurre l’inquinamento o la minaccia di inquinamento, dare direttive (86), riguardo alla nave o al suo carico, al proprietario della nave o ad altra persona che abbia il possesso di essa; ovvero al comandante della nave; ovvero al soccorritore che abbia il possesso della nave, o a qualunque persona che aiuti o assista questo e sia incaricato dell’operazione di salvataggio (87). A tutela del buon andamento delle operazioni compiute in esecuzione delle direttive del Segretario di Stato sono previsti dal Merchant shipping act due reati. Il primo consiste nel fatto di colui il quale, essendo destinatario di una direttiva, viola ovvero omette di adempiere qualunque ordine della direttiva stessa. Il secondo consiste nel fatto di chi intenzionalmente ostacola una persona che: a) impartisce per conto del Segretario di Stato le direttive per l’intervento ovvero dà la propria assistenza nello svolgimento delle operazioni; b) ovvero agisce in esecuzione di una direttiva; c) o agisce sotto le direttive ovvero per conto del Segretario di Stato per l’affondamento o la distruzione della nave. Entrambi i reati sono punibili con una pena pecuniaria fino a 50.000 sterline, in caso di summary conviction; con una pena pecuniaria indefinita, cioè lasciata alla libera determinazione da parte del giudice, in caso di conviction on indictment. In ordine alla struttura del primo, si può osservare che è un reato proprio, in quanto può essere commesso soltanto da una persona che si trova in una particolare posizione, più precisamente di destinatario di una direttiva per l’intervento. È di pura condotta. Questa può essere tanto attiva (violazione di qualunque ordine della direttiva), quanto omissiva (mancato adempimento del suddetto ordine). Nel primo caso, il soggetto tiene una condotta contraria a quella richiesta, nel secondo si limita a non fare quanto richiesto. Oggetto della condotta in senso lato trasgressiva può essere anche un solo ordine: il legislatore usa infatti l’aggettivo indefinito « qualunque ». Analogamente a tanti altri reati ambientali, è un reato di pericolo presunto. In esso, infatti, si prescinde dall’accertamento di un’offesa in concreto, in quanto il legislatore ha ritenuto che il tipo stesso di condotta incriminata sia di per se stessa pericolosa per l’interesse protetto; quindi , non va considerato come reato di mera disubbidienza. Può essere commesso sia con dolo che con colpa. Ciò, anche se non è stabilito espressamente, lo possiamo inferire da due dati legislativi. In primo luogo, dal fatto che il legislatore, quando vuole limitare la responsabilità penale alle sole ipotesi dolose, in genere lo dice espressamente: così, per l’altro reato, che di seguito analizzeremo, si richiede che il soggetto attivo agisca intenzionalmente. (85) Per sinistro si intende la collisione con altra nave, l’incaglio, l’arenamento, il naufragio, un’avaria o un danneggiamento alla nave. (86) Le direttive possono avere qualsiasi contenuto ed in particolare possono consistere nell’ordine di muovere o lasciare ferma la nave, ovvero di dirigerla verso un determinato punto o di allontanarla da una determinata area o località; o ancora nell’interdire alla nave di dirigersi verso un determinato luogo o area ovvero su una certa rotta; di scaricare o sversare gli idrocarburi o le altre sostanze imbarcate; o ancora nell’ordinare l’affondamento o la distruzione della nave o di parte di essa. (87) La persona cui le direttive sono rivolte deve adottare tutte le misure possibili per salvaguardare le vite umane.
— 618 — In secondo luogo, dal fatto che il legislatore considera causa di non punibilità per questo reato il fatto che il soggetto agente provi di aver usato tutta la doverosa diligenza per assicurare l’osservanza della direttiva, ovvero che aveva ragionevole motivo per credere che tale osservanza avrebbe comportato un serio rischio per la vita umana; vale a dire considera non punibile il fatto quando non sorretto da colpa. Infatti queste due esimenti, l’uso della doverosa diligenza e quello che potremmo chiamare uno stato di necessità putativo — che abbiamo peraltro già incontrato in riferimento ad altri reati ambientali — si caratterizzano per l’assenza di colpa nel soggetto attivo. Il reato di ostacolo, a differenza del precedente, è un reato comune, in quanto può essere commesso da chiunque. In questo caso, però, è qualificato il soggetto passivo, il quale deve trovarsi nella situazione di esecuzione ovvero di impartizione per conto del Segretario di Stato delle direttive per l’intervento o delle operazioni per l’affondamento o la distruzione della nave. La condotta, descritta dal legislatore come ostacolo (obstruct), consiste in una sorta di ostruzionismo. Non si richiede l’uso di violenza o minaccia (88). L’ostacolo può, quindi, essere realizzato anche con una resistenza passiva, purché questa sia tale di impedire o ritardare in qualche modo l’esecuzione delle suddette operazioni. In ordine all’elemento soggettivo, la norma richiede espressamente che il soggetto attivo agisca « wilfully » (intenzionalmente); in altri termini, limita l’imputazione al solo dolo intenzionale, escludendo le altre forme dolose (recklessness). A differenza che per il primo reato non è prevista per i fatti di ostruzionismo alcuna causa di non punibilità. Il legislatore inglese evidentemente ha ritenuto che situazioni di giustificazione siano più facilmente ipotizzabili rispetto a condotte di violazione delle direttive per l’intervento piuttosto che a quelle di ostacolo intenzionale delle operazioni di intervento nei confronti di una nave accidentata. Tuttavia, a noi pare che anche in quest’ultimo caso si potrebbero configurare ragioni giustificatrici di una condotta di ostacolo, come ad esempio quando questa costituisca opposizione ad un comportamento illegittimo o arbitrario di colui che esegue le direttive per l’intervento. Passando all’analisi della disciplina di attuazione dell’art. 8 della Marpol e del suo Protocollo I (che, si è visto, regolano l’obbligo di rapporto sul sinistro), il Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations sancisce l’obbligo per il comandante o altro responsabile della nave (89) di fare un rapporto immediatamente dopo il sinistro e di trasmetterlo con i mezzi di comunicazione più immediati possibili all’autorità marittima più vicina al luogo del sinistro, indicando tutta una serie di dati relativi all’incidente e alle sostanze sversate; nonché, eventualmente, un rapporto suppletivo, qualora siano stati rilevati successivamente al primo rapporto ulteriori dati sul sinistro importanti per l’intervento. La violazione dell’obbligo di fare rapporto costituisce reato: il comandante o il responsabile della nave che ometta di fare immediato rapporto o il rapporto suppletivo è punibile con una pena pecuniaria fino a 1.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment. Si tratta di reato proprio, in quanto può essere commesso solo dal comandante o da altro responsabile della nave. È inoltre reato omissivo proprio, dal momento che si perfeziona con la semplice omissione, vale a dire con il mancato adempimento del dovere di fare rapporto. (88) Un reato di ostruzionismo simile a questo lo avevamo incontrato nel Food and environment protection act a proposito dell’attività di controllo delle autorità amministrative competenti a concedere le licenze per i depositi di rifiuti terrestri in mare. Vale, pertanto, quanto detto in quella sede in ordine alla comparazione col nostro reato di resistenza a pubblico ufficiale. (89) L’obbligo è imposto ai comandanti di tutte le navi britanniche, ovunque si trovino, nonché delle navi straniere quando si trovino nelle acque territoriali britanniche.
— 619 — Si può presumere che sia imputabile sia a titolo di dolo che di colpa, dato che è prevista per esso la solita esimente della doverosa diligenza che implica l’assenza di colpevolezza. Si deve rilevare una carenza nella tutela penale apprestata da questo regolamento. La reg. 7, sancendo letteralmente che costituisce reato la violazione della reg. 3 (90) e della reg. 5 (91) e non anche della reg. 4 (92), punisce soltanto le condotte di omissione o di ritardo nel rapporto sul sinistro, e non quelle consistenti nel redigere un rapporto incompleto e/o insufficiente rispetto a quanto richiesto dalla reg. 4. Ciò nonostante queste ultime possano avere sostanzialmente la stessa o addirittura una maggiore offensività rispetto all’omissione e al ritardo. Infatti, un rapporto, se non contiene precise indicazioni sulle caratteristiche del sinistro e delle sostanze sversate, perde in parte la sua funzione di mezzo necessario ed essenziale per l’autorità marittima più vicina al luogo del sinistro, per valutare le modalità di intervento più adatte al caso. 2.3. La prevenzione e il controllo dell’inquinamento da idrocarburi o da altre sostanze nocive provocato da un incidente sono disciplinati nel nostro ordinamento essenzialmente da due corpi normativi: il d.P.R. 27 maggio 1978, n. 504 e la legge 31 dicembre 1982, n. 979, recante « disposizioni per la difesa del mare ». Il primo contiene le norme di attuazione della Convenzione sull’intervento; la seconda ha come obiettivo principale l’elaborazione di un piano generale di difesa del mare e delle coste marine dall’inquinamento da idrocarburi e da altre sostanze nocive, che tenga conto anche degli indirizzi comunitari e degli impegni internazionali (93). Tra i due complessi normativi intercorre un rapporto di specialità. La legge n. 979/1982, infatti, ha una portata generale, in quanto regola la prevenzione e il controllo del pericolo di inquinamento del mare e delle coste marine italiane derivante dall’immissione in mare, anche accidentale, di idrocarburi o di altre sostanze nocive, indipendentemente dalla fonte dell’immissione (nave, isola artificiale, condotta sottomarina o terrestre, ecc.) e dalla natura della situazione pericolosa (affondamento o urto della nave, scarichi volontari o involontari, rottura delle tubazioni, ecc.) (94). Il d.P.R. n. 504/1978 ha, invece, una portata più circoscritta, in quanto disciplina una specifica ipotesi di pericolo di inquinamento da idrocarburi e da altre sostanze nocive, vale a dire quello derivante da sinistro a nave battente bandiera straniera in alto mare (95). Il d.P.R. n. 504/1978 è, pertanto, legge speciale rispetto alla legge n. 979/1982 (96). (90) La reg. 3 prevede nei confronti del comandante o di altra persona responsabile della nave l’obbligo di redigere senza indugio rapporto sul sinistro. (91) La reg. 5 prevede l’obbligo eventuale di rapporto suppletivo. (92) La reg. 4 elenca i dati da indicare nel rapporto sul sinistro e sulle sostanze sversate. (93) Art. 1, primo comma. (94) Sul punto, cfr. T. SCOVAZZI, L’intervento per la difesa del mare secondo la legge n. 979/1982 e secondo il diritto internazionale, in Dir. mar., 1983, p. 676. (95) Si è detto, infatti, che il d.P.R. n. 504/1978 contiene le norme di attuazione della Convenzione internazionale sull’intervento che disciplina proprio l’intervento in alto mare in caso di sinistro ad una nave da cui derivi il pericolo di inquinamento del mare in conseguenza dello sversamento di idrocarburi o di altre sostanze nocive, da parte di Stati diversi da quello cui la nave accidentata appartiene, purché siano minacciati da tale sversamento il litorale, le coste o gli interessi connessi di detti Stati. (96) Il rapporto di specialità tra questi due testi legislativi è incontrovertibile, in quanto la stessa legge n. 979/1982 lo riconosce espressamente nell’art. 11, ultimo comma, (l’art. 11 — si vedrà in seguito — disciplina proprio l’intervento in caso di inquinamento o pericolo di inquinamento del mare causato da immissioni, anche accidentali, in mare di idrocarburi o di altre sostanze nocive, ed è contenuto nel Titolo III relativo al « Pronto intervento per la difesa del mare e delle zone costiere dagli inquinamenti causati da incidenti ») dove viene specificato che « restano ferme le norme contenute nel d.P.R. 27 maggio 1978, n. 504, per l’intervento in alto mare in caso di sinistri ed avarie a navi battenti bandiera stra-
— 620 — Il d.P.R. n. 504/1978, in quanto attuativo della Convenzione sull’intervento, si pone in parallelismo con il Merchant shipping act inglese, anche se rispetto a questo stabilisce una disciplina molto più generica, quasi a carattere programmatico. Esso stabilisce, infatti, che, ai fini dell’adozione delle misure necessarie per prevenire o ridurre l’inquinamento o il pericolo di inquinamento da idrocarburi o da altre sostanze nocive conseguente a sinistro marittimo, il Ministro della Marina Mercantile, previa intesa coi Ministri degli affari esteri e della difesa e sentito il Ministro dell’industria, dispone l’intervento in alto mare da effettuarsi con il concorso delle altre amministrazioni dello Stato civili e militari, assumendo la direzione di tutte le attività svolte durante l’emergenza. Per l’adozione delle misure più appropriate e per il coordinamento delle operazioni di emergenza il Ministro della Marina Mercantile viene coadiuvato da un comitato permanente interministeriale di pronto intervento con funzione di organo tecnico-scientifico di consulenza, istituito presso il Ministero (97). Il d.P.R. n. 504 non prevede alcuna forma di tutela — penale o extrapenale — a garanzia del buon andamento delle operazioni e delle attività svolte durante lo stato di emergenza, sorto in conseguenza del sinistro, al fine di contenere e minimizzare l’inquinamento del mare provocato dallo sversamento accidentale di idrocarburi. Ciò a differenza del Merchant shipping act inglese che, come si è visto, predispone una tutela penale ad hoc attraverso la previsione di due reati, uno di inosservanza delle direttive per l’intervento, e uno di intenzionale ostacolo dell’operato delle persone impegnate nelle operazioni di salvataggio e di contenimento dell’inquinamento. Per quanto concerne la legge n. 979/1982, essa dedica il titolo terzo al pronto intervento per la difesa del mare e delle zone costiere dall’inquinamento, sia quando venga provocato dalle navi accidentalmente sia quando volontariamente. Nel primo caso — sversamento accidentale — tale legge si sovrappone al d.P.R. n. 504, rispetto al quale però ha una portata più ampia, in quanto copre non solo i casi in cui il sinistro si sia verificato in alto mare (purché abbia determinato un pericolo per il nostro mare, per i nostri litorali e per gli interessi connessi), ma anche quelli in cui si sia verificato nelle acque costiere o territoriali (98). La disciplina prevista dal titolo III della legge n. 979/1982 è, tra l’altro, più vicina a quella inglese di cui al Merchant shipping act e al Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations rispetto a quanto non lo sia quella di cui al d.P.R. n. 504, nonostante sia stato quest’ultimo a dare attuazione nel nostro ordinamento alla Convenzione sull’intervento. Ciò si spiega col fatto che la legge n. 979/1982 ha come obiettivo — come si diceva all’inizio del paragrafo — l’elaborazione di un piano di difesa del mare dall’inquinamento da idrocarburi che tenga conto anche degli impegni internazionali, compresi quindi quelli asniera che possano causare inquinamento o pericolo di inquinamento all’ambiente marino o al litorale ». (97) Il comitato definisce le procedure di intervento sulla base del piano operativo di pronto intervento contro gli inquinamenti accidentali del mare da idrocarburi, predisposto dal Ministero della marina mercantile. Con la legge 28 febbraio 1992, n. 220, che prevede « interventi per la difesa del mare », è stata, inoltre, istituita nell’ambito del comitato permanente interministeriale di pronto intervento un’unità di crisi. A questa è attribuita la competenza di emanare direttive ai comandi marittimi periferici per la messa ed il mantenimento in sicurezza di navi e relitti che possano essere causa di incidenti in mare e per la rimozione di situazioni di pericolo di cui agli artt. 11 e 12 della legge n. 979/1982 (vale a dire situazioni di pericolo di inquinamento delle acque del mare provocato da immissioni, anche accidentali, di idrocarburi o di altre sostanze nocive suscettibili di arrecare danni all’ambiente marino). (98) Il pronto intervento previsto dalla legge n. 979/1982 è stato, ad esempio, messo in atto quando si è verificato l’affondamento della petroliera cipriota Haven nelle acque liguri di Arenzano nel 1991.
— 621 — sunti con l’adesione alla Convenzione sull’intervento nonché alla Marpol e al suo Protocollo I. Presupposto per l’intervento è che si sia verificato un inquinamento o un imminente pericolo di inquinamento delle acque del mare causato da immissioni, anche accidentali, di idrocarburi o di altre sostanze nocive, provenienti da qualsiasi fonte o suscettibili di arrecare danni all’ambiente marino, al litorale e agli interessi connessi (99). L’organizzazione del pronto intervento spetta al Ministero della Marina Mercantile, nel quadro del servizio nazionale di protezione civile, d’intesa con le altre amministrazioni civili e militari dello Stato, mediante il concorso degli enti pubblici territoriali (100). Nei casi estremi non fronteggiabili da quello viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale ed il Ministro della protezione civile assume la direzione di tutte le operazioni sulla base del piano di pronto intervento nazionale adottato dagli organi del servizio nazionale per la protezione civile. Nelle situazioni in cui l’inquinamento è territorialmente circoscritto, è l’autorità marittima nella cui area di competenza si sia verificato l’inquinamento o il pericolo di inquinamento a disporre tutte le misure necessarie (comprese quelle per la rimozione del carico o del natante), al fine di prevenire od eliminare gli effetti inquinanti ovvero attenuarli qualora risultasse tecnicamente impossibile eliminarli. Qualora, invece, si sia determinata una situazione di emergenza locale, è il capo del compartimento marittimo competente per territorio ad assumere la direzione di tutte le operazioni sulla base del piano operativo di pronto intervento locale. Analogamente a quanto previsto dalla legislazione inglese, il pronto intervento presuppone, oltre al sinistro che ha provocato il pericolo di inquinamento per le nostre acque, che il comandante, l’armatore, o il proprietario della nave, ovvero il responsabile del mezzo od impianto situato sulla piattaforma continentale o sulla terraferma, in caso di avarie od incidenti agli stessi, suscettibili di arrecare, attraverso il versamento di idrocarburi, danni all’ambiente marino, al litorale o agli interessi connessi, informino senza indugio l’autorità marittima più vicina al luogo del sinistro. L’obbligo di informazione — che, si è detto, è fondamentale in quanto strumento necessario per permettere l’intervento statale — corrisponde all’obbligo di rapporto previsto dal Merchant shipping (reporting of incidents) regulations, peraltro con due differenze fondamentali. La legge n. 979/1982, infatti, non impone che con l’informazione vengano comunicati dati specifici in ordine alle caratteristiche dell’incidente e delle sostanze sversate (101). (99) Si è già sottolineato come non abbia rilevanza né il luogo del sinistro e quindi dell’immissione, né la fonte di questa — fermo restando che, se la fonte è una nave straniera in alto mare, si applica non l’art. 11 ma il d.P.R. n. 504/1978 — bensì soltanto la conseguenza dell’immissione, consistente nel fatto che derivi un inquinamento o pericolo di inquinamento al litorale, al mare (quello soggetto alla giurisdizione italiana) o agli interessi connessi. (100) Il Ministero della marina mercantile, cui è conferita la direzione del pronto intervento, così come accade nei casi disciplinati dal d.P.R. n. 504/1978, può avvalersi anche della consulenza del comitato interministeriale di pronto intervento di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 504/1978 (cfr. art. 13 legge n. 979/1982). (101) L’art. 12, infatti, si limita ad affermare che il comandante o altro responsabile della nave sono tenuti « ad informare senza indugio l’autorità marittima più vicina al luogo del sinistro ». Non impone, invece, un vero e proprio obbligo di rapporto, che sia il più completo possibile e che contenga determinate informazioni sul sinistro e sulle sostanze sversate, come vorrebbe la Convenzione Marpol e come prevede in attuazione di quest’ultima il Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations. Questo aspetto, prima ancora che motivo di critica nei confronti dell’ordinamento inglese, è innanzittutto segno che il legislatore italiano non ha tenuto fede sufficientemente all’impegno internazionale derivante dall’adesione alla Convenzione Marpol e al Protocollo I. Su questo punto, cfr. T. SCOVAZZI, L’intervento per la tutela, cit., p. 675.
— 622 — Inoltre, e in stretta connessione con la suddetta genericità dell’obbligo di informazione, essa non tutela in alcun modo l’osservanza di questo obbligo attraverso la previsione di un reato (come fa, invece, il regolamento inglese) o di qualche altro strumento extrapenale. Anche nella fase di esecuzione del pronto intervento la tutela apprestata dalla legge n. 979/1982 a garanzia del buon esito di questo è meno incisiva di quella inglese. Infatti, nel caso in cui la diffida rivolta dall’autorità marittima al comandante o ad altro responsabile della nave ad adottare tutte le misure ritenute necessarie per prevenire il pericolo di inquinamento o per eliminare gli effetti già prodotti, non venga osservata o non produca gli effetti sperati nel periodo di tempo assegnato, l’unica conseguenza prevista a danno del responsabile della nave inadempiente è che l’autorità marittima fa adottare le suddette misure per conto e a spese di quello. Non è configurabile, invece, in aggiunta a carico dell’inadempiente né una responsabilità penale (come, invece, prevede il Merchant shipping (reporting of pollution incidents) regulations, ai sensi del quale l’inosservanza delle direttive per l’intervento costituisce reato), né un’obbligazione civile di risarcimento dei danni provocati dalla ritardata esecuzione delle misure preventive o contenitive in conseguenza dell’inadempimento del responsabile della nave. 3.1. Lo sversamento di idrocarburi in mare conseguente a sinistri marittimi costituisce un’ipotesi abbastanza rara, fortunatamente, anche se, quando si verifica, rappresenta spesso una delle forme più catastrofiche di inquinamento marino, a causa della massiccia quantità di idrocarburi che viene rapidamente a diffondersi nelle acque del mare. Più frequente, anche se di per sé quantitativamente meno incisivo, è, invece, l’inquinamento dovuto allo sversamento di idrocarburi da parte delle navi durante il compimento delle operazioni di dezavorramento e di lavaggio delle tanche. Nelle navi cisterna (petroliere, gasiere ecc.), infatti, quando non sono trasportati idrocarburi, si sogliono riempire le tanche con acqua di mare, detta acqua di zavorra proprio perché ha la funzione di zavorramento della nave. Tale acqua viene così a mischiarsi con i residui untuosi del precedente carico. Quando poi le tanche vengono svuotate per dezavorrare la nave, le acque di zavorra scaricate in mare determinano l’inquinamento di questo a causa della loro impurità. L’altra operazione che ha pure un effetto inquinante sul mare consiste nel lavaggio delle tanche. Prima di iniziare il trasporto di un carico di idrocarburi, infatti, si suole lavare le tanche con acqua per evitare che tali idrocarburi si contaminino con i residui del precedente carico. Terminata tale operazione, le acque di lavaggio, che come quelle di zavorra sono contaminate dai suddetti residui, vengono scaricate in mare con inevitabile effetto inquinante. Diversi sono i metodi che gli Stati possono imporre alle proprie navi per evitare lo scarico in mare — e l’inevitabile effetto inquinante — delle acque di zavorra e di lavaggio contaminate dai residui di idrocarburi. La Convenzione internazionale Marpol del 1973 con emendamenti apportati dal Protocollo I del 1978, al fine di ridurre al minimo l’inquinamento volontario o accidentale da idrocarburi e da altre sostanze nocive cagionato dalle navi prevede per gli Stati contraenti una serie di obblighi. Innanzittutto, impone ad essi l’obbligo di creare appositi impianti di raccolta delle morchie e delle acque di zavorra e di lavaggio delle petroliere presso i propri porti. In secondo luogo, impone che le nuove navi cisterna — quelle cioè il cui contratto di costruzione sia successivo al primo giugno 1979 — vengano dotate di una tanca ulteriore rispetto a quelle adibite al trasporto degli idrocarburi, da utilizzare unicamente per lo zavorramento della nave così da evitare la commistione dell’acqua di zavorra con i residui di idrocarburi. Tutte le navi, petroliere e non, devono, inoltre, essere munite di un certificato di prevenzione inquinamento da idrocarburi, che viene rilasciato soltanto se la nave è conforme alle caratteristiche strutturali e di equipaggiamento richieste dalla Convenzione al fine di prevenire sversamenti di idrocarburi.
— 623 — Esse devono anche disporre a bordo del Piano di emergenza anti-inquinamento finalizzato ad assistere il personale di bordo nel fronteggiare le emergenze derivanti da inaspettate perdite di olio e ad attivare le procedure di risposta e tutte le azioni necessarie a minimizzare la discarica e a mitigarne gli effetti (102). Infine, la Convenzione fa divieto alle petroliere di scaricare in mare idrocarburi o loro miscele, salvo che siano soddisfatte alcune condizioni. 3.2. Il primo intervento legislativo inglese a prevenzione dell’inquinamento derivante dagli scarichi di idrocarburi in mare da parte di navi è rappresentato dal Prevention of oil pollution act 1971 che, oltre ai principi della Convenzione internazionale sull’intervento del 1969, ha recepito e dato attuazione anche a quelli della prima Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento del mare da parte di idrocarburi, detta Oilpol, del 1954. In seguito alla ratifica da parte della Gran Bretagna della seconda Convenzione per la prevenzione dell’inquinamento del mare da parte di idrocarburi del 1973, la Marpol, che ha sostituito la Oilpol (103), si è resa necessaria da parte del legislatore una riforma della disciplina prevista dal Prevention of oil pollution act. A tal fine è stato emanato nel 1983 un decreto, il Merchant shipping (prevention of oil pollution) order, il quale ha abrogato le disposizioni del Prevention of pollution act incompatibili con i principi espressi dalla Convenzione Marpol, ed ha conferito delega al Segretario di Stato per i trasporti ad emanare un regolamento di attuazione della normativa della Marpol. Nello stesso anno, pertanto, il Segretario di Stato ha emanato il Merchant shipping (prevention of oil pollution) regulations, che è appunto il regolamento di attuazione delle disposizioni della Marpol relative alla prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi. Le disposizioni del Prevention of oil pollution act non incompatibili sono state invece sostituite, senza peraltro sostanziali modifiche, dagli artt. 131-136 e 142-150 del Merchant shipping act 1995. Pertanto, la prevenzione degli scarichi di idrocarburi in mare da parte delle navi è disciplinata attualmente dal Merchant shipping (prevention of oil pollution) regulations e dal Merchant shipping act (104). In attuazione delle disposizioni della Marpol, il regolamento prevede, al fine di prevenire sversamenti di idrocarburi da parte di navi, petroliere e non, innanzittutto una serie di obblighi a carico dell’armatore sia documentari sia di adeguamento della nave agli standards strutturali e di equipaggiamento da esso stabiliti. L’armatore è tenuto a far sottoporre la propria nave a perizia prima della messa in servizio, ovvero prima della richiesta del certificato IOPP o UKOPP (105). La perizia è finalizzata a verificare che la struttura, l’equipaggiamento, i sistemi, gli impianti, i dispositivi e i (102) L’obbligo di tenere il piano di emergenza antinquinamento è imposto dalla reg. 26 dell’Allegato 1 della Convenzione Marpol, che è stata introdotta dalla risoluzione 47 (31) del MEPC (Commissione per la protezione dell’ambiente marino, che è un organo dell’IMO, vale a dire dell’Organizzazione marittima internazionale). La reg. 26 è entrata in vigore a livello internazionale il 4 aprile 1993. (103) La Convenzione Oilpol, in realtà, continua ad avere efficacia nei confronti di quegli Stati contraenti che non hanno aderito alla Marpol. Non è questo il caso, comunque, né della Gran Bretagna né dell’Italia. (104) La disciplina prevista dal Merchant shipping (prevention of oil pollution) regulations e dal Merchant shipping act è applicabile a tutte le navi registrate nel Regno Unito, alle navi di uso governativo registrate o meno che siano nel Regno Unito, alle navi straniere che si trovino nel Regno Unito o nelle sue acque territoriali; non invece alle navi da guerra, a quelle ausiliarie e a quelle in possesso o in uso da parte di uno Stato a fini governativi non commerciali. (105) Con la sigla IOPP (International oil pollution prevention) si indica il certificato internazionale di prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi; con la sigla UKOPP (United
— 624 — materiali della nave siano conformi a quelli richiesti dalle disposizioni regolamentari. La perizia deve essere rinnovata periodicamente per verificare che lo stato della nave si mantenga nelle condizioni strutturali e di equipaggiamento iniziali (106). Successivamente alla perizia, l’armatore deve richiedere il certificato di prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi, senza il quale le petroliere e le altre navi di grossa stazza non possono lecitamente navigare, e il cui rilascio è subordinato al fatto che la nave, in base alla perizia, risulti conforme ai requisiti strutturali e di equipaggiamento richiesti dal regolamento (107). Tutte le navi, petroliere e non, devono tenere a bordo un registro degli idrocarburi sul quale il comandante deve annotare tutte le c.d. « operazioni di macchina », quali quelle di lavaggio e di zavorramento delle tanche contenenti carburante, quelle di scarico della zavorra o dell’acqua di lavaggio, quelle di scarico in mare dei residui untuosi di idrocarburi (c.d. morchie). In caso di petroliera, il comandante deve anche annotare le c.d. « operazioni di carico », quali il carico e lo scarico di idrocarburi, il trasferimento interno del carico durante il viaggio, la chiusura di tutte le valvole e dei dispositivi di sicurezza dopo le operazioni di scarico dalle tanche di acqua sporca ed altre operazioni ancora. Qualora si verifichi uno sversamento accidentale (vale a dire, dovuto a stato di necessità o a caso fortuito (108)) di idrocarburi o di miscele di idrocarburi, devono essere annotate sul registro le circostanze e le ragioni di detto sversamento in mare. Il regolamento, dopo aver stabilito questi obblighi finalizzati a garantire una sicura navigazione e a prevenire sversamenti di idrocarburi dalle navi, fissa una disciplina per gli scarichi in mare di idrocarburi, sempre in attuazione delle prescrizioni della Marpol. In primo luogo, sancisce il principio base secondo il quale è vietato a tutte le navi scaricare in mare libero qualunque tipo di idrocarburi (petrolio, sia greggio che raffinato, olio combustibile, residui e derivati dei suddetti olii, miscele di olio), salvo che lo scarico venga effettuato a determinate condizioni, che variano a seconda che si tratti di petroliere o di altre navi, e che riguardano il flusso, la quantità istantanea e la distanza da terra alla quale lo scarico avviene. Il divieto è, inoltre, derogato in tre casi eccezionali, cui si era già fatto cenno in precedenza, in quanto devono essere annotati sul registro degli idrocarburi. Lo scarico è ammesso quando ricorra la necessità di salvare vite umane o di garantire la sicurezza della nave (emergency). Inoltre, quando consegua ad un danneggiamento alla nave o alle sue attrezzature, Kingdom oil pollution prevention) il cerificato inglese di prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi. (106) Nel caso in cui la nave, a causa di un’avaria, di un incidente o per altro motivo, non sia più conforme agli standards regolamentari, l’armatore ovvero, per suo conto, il comandante, ha l’obbligo di ripristinare lo status quo ante ordinando le riparazioni o le sostituzioni necessarie. (107) Tra i requisiti richiesti si ricorda: la predisposizione di tanche da zavorra distinte da quelle da carico, imposta alle grosse petroliere (per quelle di piccola stazza e per le altre navi è imposto, invece, il divieto di usare le tanche da carburante per zavorrare la nave, salvo situazioni eccezionali); nonché di una o più tanche per la raccolta delle morchie (vale a dire, dei residui untuosi), in considerazione del fatto che esse non possono venire liberate in mare (altrimenti inquinerebbero il mare) ma devono essere scaricate negli appositi impianti di raccolta che gli Stati aderenti alla Marpol hanno, in attuazione di questa, predisposto presso i propri porti e terminali. (108) L’ipotesi di stato di necessità si verifica quando lo sversamento di idrocarburi sia effettuato per salvare la nave o vite umane; il caso fortuito quando lo sversamento consegua ad un guasto alla nave o alle sue attrezzature, ovvero sia effettuato volontariamente, con approvazione dell’autorità amministrativa, al fine di prevenire o attenuare l’inquinamento del mare. Queste situazioni, come vedremo, costituiscono scriminanti nei confronti del reato di sversamento in mare di idrocarburi: esse sono previste dalla Marpol — lo vedremo più avanti — anche nei confronti di scarichi di altri tipi di sostanze inquinanti.
— 625 — purché dopo il verificarsi di esso o della sua scoperta, vengano adottate tutte le misure ragionevolmente possibili per prevenire o limitare lo scarico e sempre che il danneggiamento non sia conseguenza di una condotta dell’armatore o del comandante rivolta a provocare il danneggiamento con intenzione o con recklessness (vale a dire con consapevolezza che il danneggiamento si sarebbe probabilmente verificato). Infine, quando lo scarico sia intenzionalmente compiuto allo scopo di limitare i danni derivanti dall’inquinamento provocato da un incidente marittimo, sempre che esso venga approvato dal Governo nella cui giurisdizione si prevede che lo scarico debba avvenire. Quando non si verifichino le condizioni per il lecito scarico e non si versi in una delle tre situazioni eccezionali, gli idrocarburi e in generale tutte le sostanze e i residui untuosi non possono in alcun modo essere scaricati in mare, ma devono essere trattenuti a bordo fino a che non sia possibile scaricarli negli appositi impianti di raccolta situati nei porti e nei terminali. L’osservanza sia delle regole che impongono i summenzionati obblighi, sia delle regole che disciplinano gli scarichi di idrocarburi in mare, è garantito attraverso la predisposizione di una tutela penale. In relazione alle prime la reg. 34, primo comma, stabilisce che « il mancato adeguamento di una nave a qualunque prescrizione regolamentare costituisce reato ed è punito con una pena pecuniaria fino a 1.000 sterline , in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment », salvi alcuni casi in cui la violazione costituisce altro specifico e più grave reato (109). La reg. 34, primo comma, è una norma penale in bianco, in quanto il precetto è genericamente individuato nella violazione di qualunque prescrizione. Per stabilire qual è la condotta incriminatrice, si deve, pertanto, fare rinvio alle singole disposizioni regolamentari che impongono determinati obblighi o divieti. Queste, combinate con la clausola generale di cui alla reg. 34, danno origine ad altrettanti reati. Esemplificando, commette un reato ed è punito secondo le pene stabilite dalla reg. 34 l’armatore che faccia navigare la propria nave senza averla prima sottoposta a perizia, ovvero senza essere munita di un valido certificato di prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi. Il mancato adeguamento di una nave ad una o più prescrizioni regolamentari è reato proprio, commesso dall’armatore e dal comandante in concorso tra loro, in quanto entrambi responsabili della nave, salvo che il fatto sia attribuibile a colpa esclusiva di uno dei due. Il reato in questione, infatti, è imputabile soggettivamente e non oggettivamente, come si può inferire, in mancanza di un’espressa previsione in tal senso, dal fatto che per esso è prevista l’esimente dell’uso di tutta la doverosa diligenza da parte dell’armatore e/o del comandante per prevenire l’omissione o la violazione, che è una causa di esclusione della colpevolezza. Per quanto concerne le regole sugli scarichi, la violazione di esse è sottratta alla generica previsione della reg. 34 e costituisce un reato a parte, più grave. (109) Così, non rientra nella previsione della reg. 34 ma è autonomo e più grave reato la falsa o ingannevole annotazione sul registro degli idrocarburi, che è punita con una pena pecuniaria fino a 2.000 sterline in alternativa o in aggiunta ad una pena detentiva fino a sei mesi, in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita in alternativa o in aggiunta ad una pena detentiva fino a due anni, in caso di conviction on indictment. Anche l’allontanamento dal porto, prima che sia stata data l’autorizzazione dalla competente autorità amministrativa, da parte di una nave che si trovi in stato di sequestro — provvedimento che può essere disposto quando la nave sia sospettata di aver trasgredito alcune prescrizioni regolamentari, ovvero quando debba su di essa essere compiuta un’azione correttiva per ripristinare la conformità agli standards strutturali fissati dal regolamento — costituisce reato a parte più grave rispetto a quello genericamente previsto dalla reg. 34, punito con una pena pecuniaria fino a 50.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment.
>— 626 — Lo sversamento in mare di idrocarburi senza il rispetto delle condizioni di liceità fissate dal regolamento è punito con una pena pecuniaria fino a 50.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero con una pena pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment. Il concetto di sversamento ha una portata più ampia rispetto a quello di scarico, in quanto ricomprende sia le immissioni tramite condotti, sia le immissioni dirette in mare (110); ciò in conformità alla definizione data dalla Convenzione Marpol. L’incriminazione della condotta di sversamento, inoltre, prescinde, a differenza dei reati previsti dal Water resources act, dalla mancanza di una licenza o dall’inottemperanza delle prescrizioni in essa contenute. È, tuttavia, condizionata dal fatto che lo sversamento avvenga in modo contrario alle modalità imposte dal regolamento in ordine al flusso, alla quantità e alla distanza da terra in cui avviene lo sversamento. Da ciò si può desumere un’altra differenza rispetto agli altri reati posti a tutela delle acque, vale a dire che si tratta di un reato di pericolo concreto e non presunto. La punibilità dello sversamento, infatti, è subordinata al fatto che esso abbia ad oggetto un certo quantitativo di idrocarburi e avvenga con un determinato flusso e ad una certa distanza da terra, il che significa subordinarlo ad un reale e concreto pericolo di inquinamento per il mare (111). Ciò, come avremo modo di meglio sottolineare, rappresenta un punto fondamentale di differenza, oltre che con gli altri reati ambientali, anche con il corrispondente reato di sversamento previsto dalla nostra legge di attuazione della Marpol, la legge n. 979/1982. Lo sversamento è reato proprio, che può essere commesso dall’armatore e dal comandante in concorso tra loro, salvo quando sia imputabile a colpa esclusiva di uno dei due. Ciò perché anche per questo reato, pur mancando un’espressa previsione, si può desumere che l’imputazione è soggettiva dall’esistenza dell’esimente dell’uso di tutta la doverosa diligenza. Si è detto che scopo dell’autonoma previsione come reato dello sversamento rispetto alle altre violazioni regolamentari è di riservare ad esso un trattamento sanzionatorio più severo in ragione della sua maggiore offensività nei confronti dell’ambiente marino. Tuttavia, non ci sembra che tale scopo sia stato completamente realizzato, in quanto lo sversamento illecito dà origine all’applicazione della sola pena pecuniaria, alla stessa stregua delle altre violazioni regolamentari (anche se di ammontare sensibilmente maggiore). Ci si sarebbe aspettati, invece, — come accade per altri reati ambientali e come ha scelto il nostro legislatore — la previsione di una pena detentiva in alternativa o in aggiunta a quella pecuniaria, a seconda della gravità del fatto. Lo sversamento effettuato in stato di necessità (per salvare la nave o vite umane) ovvero a causa di un’avaria alla nave non dà origine a responsabilità penale per il fatto che è scriminato da queste situazioni, ma comporta comunque un obbligo da parte del comandante di fare un dettagliato rapporto — previo immediato avviso alle autorità costiere — la cui osservanza è penalmente garantita. L’omissione di rapporto, infatti, costituisce reato ed è punito, solo con summary conviction, con una pena pecuniaria fino a 2.000 sterline (112). Si tratta di un reato proprio, commissibile esclusivamente da parte del comandante della nave. È omissivo proprio, in quanto si perfeziona con la semplice omissione di rapporto; e, (110) Il reato di sversamento, in altri termini, riunisce in un’unica fattispecie le ipotesi che il Water resources act disciplina distintamente attraverso i reati di scarico e di immissione. Esso si differenzia da questi, però, per il fatto di essere svincolato dal sistema autorizzatorio. (111) Lo sversamento di esigue quantità di idrocarburi, se effettuato con un certo tipo di flusso e ad una distanza minima da terra stabilita dal regolamento, non costituisce reato. (112) Questo reato è sottratto alla previsione generale della reg. 34, in ragione della sua particolare offensività e per punirlo un po’ più severamente (pena pecuniaria fino a 2.000 sterline anziché fino a 1.000 sterline).
— 627 — come la maggior parte dei reati ambientali caratterizzati da una condotta di violazione di un obbligo o di un divieto ovvero di inadempimento od omissione di un obbligo. È reato di pericolo presunto. L’offesa non va accertata nel caso concreto ma si presume, in quanto il legislatore ha ritenuto che la condotta sia intrinsecamente pericolosa. 3.3. Nell’ordinamento italiano la tutela dell’ambiente marino contro l’inquinamento da idrocarburi o da altre sostanze nocive cagionato da navi non è stata specificamente ed organicamente attuata dalla legge n. 319/1976. Questa, infatti, come abbiamo visto, disciplina gli scarichi provenienti da terra in tutte le acque (incluse quelle marine), salvo che in una disposizione, l’art. 11, nella quale viene tutelato specificamente il mare contro l’inquinamento cagionato da navi, attraverso la previsione dell’obbligo per tutte le navi di effettuare scarichi solo a seguito di autorizzazione amministrativa regionale. La previsione dell’art. 11 non era sufficiente, però, a tutelare il mare contro tutte le possibili forme di inquinamento. Basti pensare al fatto che esso si riferisce soltanto alle condotte di scarico, lasciando impunite tutte le ipotesi di immissione diretta, volontaria o accidentale, da parte di navi di sostanze inquinanti in mare (113). A colmare la lacuna lasciata dalla legge n. 319/1976 è intervenuta la legge 31 dicembre 1982, n. 979 recante « disposizioni per la difesa del mare », la quale, introducendo una disciplina specifica delle immissioni in mare da parte di navi di idrocarburi e di altre sostanze nocive, ha reso possibile una tutela del mare in senso proprio, inteso come bene ambientale in sé considerato, e non semplicemente come risorsa da sfruttare a fini commerciali. La legge n. 979/1982 ha dato attuazione alla Convenzione Marpol e al suo Protocollo I; attuazione in realtà anticipata, in quanto la legge di ratifica della convenzione, pur essendo stata emanata prima (114), è entrata in vigore nel nostro ordinamento il 2 ottobre 1983, vale a dire successivamente rispetto alla legge per la difesa del mare (115). Le disposizioni di attuazione sono contenute nel Titolo IV della legge (« norme penali per la discarica di sostanze vietate »), che prevede uno specifico sistema penale volto a coprire le violazioni della normativa internazionale esistente in materia. Le prescrizioni che si rinvengono sono analoghe a quelle inglesi poc’anzi analizzate: divieto assoluto di sversamento di idrocarburi, di miscele di idrocarburi e di altre sotanze nocive elencate nell’allegato della legge stessa (116), valido per tutte le navi senza alcuna discriminazione di nazionalità nelle acque territoriali e marittime interne, e per le sole navi battenti bandiera italiana fuori delle acque territoriali (art. 16); deroga del divieto nei casi eccezionali di sversamento effettuato per la necessità di salvare la nave o le vite umane ovvero dovuto ad avaria o danneggiamento alla nave; obbligo per le navi italiane di tenere il registro degli idrocarburi, sul quale vanno effettuate le prescritte annotazioni (art. 19, primo comma); obbligo per il comandante della nave, in tutti i casi di sversamento accidentale o di perdita di idrocarburi, di farne annotazione sul registro degli idrocarburi, con l’indicazione delle circostanze e delle cause di tale versamento o perdita, nonché di farne denuncia al comandante del porto più vicino (art. 19, secondo comma). (113) In casi di questo tipo l’unica disposizione applicabile era l’art. 15, lett. e) della legge n. 963/1965 sulla disciplina della pesca che imponeva il generico divieto di immissione di qualsiasi sostanza inquinante atta a danneggiare le risorse biologiche del mare. (114) Legge 29 settembre 1980, n. 662. (115) La legge n. 979/1982 è, infatti, entrata in vigore il 2 febbraio 1983. (116) L’assolutezza del divieto di sversamento, in realtà, non è conforme alle prescrizioni della Marpol, né di conseguenza alla disciplina inglese. La Marpol, infatti, non pone un divieto assoluto di sversamento, ma consente lo scarico di idrocarburi e di miscele di idrocarburi (quali le acque di lavaggio e quelle di zavorra) a determinate condizioni relative al flusso dello scarico, alla concentrazione degli idrocarburi scaricati, alla distanza da terra e alla profondità marina alla quale lo scarico è effettuato. In altri termini, essa consente quegli scarichi che non comportino un reale e rilevante pericolo di inquinamento per il mare.
— 628 — L’osservanza degli obblighi e il rispetto dei divieti è garantito attraverso la previsione di una tutela penale, la quale, rispetto a quella apprestata dal regolamento inglese è più circoscritta. La violazione di qualunque prescrizione di quest’ultimo costituisce, infatti, reato. Ciò, come abbiamo visto, attraverso la previsione di una norma penale in bianco. Per la legge n. 979/1982, invece, assurgono a figura di reato soltanto quelle condotte che il legislatore ha ritenuto sufficientemente pericolose da giustificare l’applicazione della pena, che nel nostro ordinamento è utilizzata come extrema ratio. Più precisamente sono sanzionati penalmente lo sversamento di idrocarburi o di altre sostanze nocive in mare e l’omessa tenuta o annotazione del registro degli idrocarburi. Il reato di sversamento si configura ogni qualvolta vengano scaricati in mare idrocarburi, miscele di idrocarburi o altre sostanze nocive, indipendentemente dalle condizioni in cui si verifichi lo scarico, vale a dire indipendentemente dal quantitativo, dalla concentrazione, dal flusso, dal luogo dello scarico. Ciò in quanto il divieto di sversamento è previsto dalla legge n. 979/1982 in modo assoluto. Esso, inoltre, ha una portata diversa a seconda che avvenga nelle acque territoriali o al di fuori di esse. Nel primo caso è configurabile nei confronti di tutte le navi, indipendentemente dalla loro nazionalità; nel secondo caso soltanto nei confronti delle navi battenti bandiera italiana. Il divieto assoluto di sversamento di idrocarburi, quando concerne le acque extraterritoriali, sembra porsi in contrasto col principio di ragionevolezza sancito dalla nostra Costituzione. In conseguenza della sua previsione, infatti, si determina « l’irragionevole situazione per cui solo le navi battenti bandiera italiana si trovano soggette a detto divieto » (117), mentre le altre navi sottostanno alla disciplina meno rigorosa della Marpol (118). Sarebbe, pertanto, auspicabile una riforma della legge n. 979/1982 nel senso di una sua armonizzazione con le meno restrittive prescrizioni della Marpol sugli scarichi di idrocarburi in mare. Lo sversamento è reato proprio del comandante della nave (119), nonché del proprietario o dell’armatore della nave, qualora esso sia avvenuto con il loro concorso (120). L’incriminazione dello sversamento implica la scelta da parte del legislatore di colpire non semplicemente le condotte di scarico, come fa la legge n. 319/1976, ma più ampiamente tutte le forme di immissione, diretta o indiretta, di sostanze inquinanti in mare (121). L’im(117) In questi termini si è espressa la Pretura di Genova (12 maggio 1995, inedita) in un caso di sversamento di acque di lavaggio da parte di una nave italiana (la « Acrux ») in acque extraterritoriali. Nella specie lo sversamento era avvenuto nel rispetto delle condizioni fissate dalla Marpol. Al tempo stesso, essendo stato effettuato da nave italiana, violava il divieto assoluto sancito dall’art. 16 della legge n. 979/1982. La Pretura ha ritenuto che nel contrasto tra la disciplina della Marpol e quella della legge n. 979/1982 debba prevalere la prima, sia perché successiva nel tempo (essendo entrata in vigore il 2 ottobre 1983) sia perché contenente una disciplina meno rigorosa. (118) Ciò spiega il fenomeno sempre più diffuso nel nostro Paese del cambio, più o meno artificioso, di bandiera da parte delle petroliere. (119) Soggetto attivo può essere tanto il comandante di una nave battente bandiera italiana quanto il comandante di una nave battente bandiera straniera, purché in quest’ultimo caso lo sversamento avvenga nelle acque marittime interne o nelle acque territoriali. (120) La specificazione che anche il proprietario o l’armatore rispondono del reato di sversamento se hanno concorso a determinarlo è, in realtà, superflua perché tale regola è già sancita in via generale dal codice penale all’art. 110, in base al quale coloro che hanno concorso alla realizzazione di un reato sono tutti chiamati a risponderne, indipendentemente dal tipo di apporto dato. (121) Scopo della legge n. 979/1982 è, infatti, come si è detto all’inizio del paragrafo, colmare la lacuna lasciata dalla legge n. 319/1976 in relazione alla tutela del mare contro l’inquinamento provocato dalle navi.
— 629 — missione, infatti, comprende, oltre allo scarico, « ogni evacuazione, versamento, fuga, scarico mediante pompaggio, emanazione o spurgo » (122). Lo sversamento è punito sia quando è doloso sia quando è colposo (in quest’ultimo caso, però, le pene sono dimezzate). Non è punibile quando accidentale, vale a dire quando è effettuato in stato di necessità (per la sicurezza della propria o di altra nave), di caso fortuito o di forza maggiore (immissione causata da un’avaria alla nave o da una perdita inevitabile, purché ogni ragionevole precauzione sia stata adottata dopo l’avaria o dopo la scoperta della perdita per impedire o ridurre il versamento delle sostanze stesse in mare). In questi casi, tuttavia, sussiste un obbligo solidale in capo al comandante e al proprietario o all’armatore della nave di rifondere allo Stato le spese sostenute per la pulizia delle acque e degli arenili nonché di risarcire i danni arrecati alle risorse marine. A differenza dei reati previsti dalla legge n. 319/1976 e della maggior parte dei reati ambientali in generale, quello di sversamento non si configura in mancanza o inosservanza di un’autorizzazione, ma è svincolato completamente dal momento autorizzativo. Ciò suona come una novità della legge n. 979/1982 rispetto alle altre leggi a tutela dell’ambiente. Novità, in realtà, più formale che sostanziale in quanto anche lo sversamento è strutturato, al pari degli altri reati ambientali, come reato di pericolo presunto. Esso, infatti, punisce l’immissione di sostanze inquinanti in mare indipendentemente dalla quantità e dalla persistenza di esse, prescindendo dall’accertamento in concreto della pericolosità di detta condotta per l’ambiente marino, con il rischio, quindi — insito in tutti i reati di pericolo presunto — di sanzionare anche comportamenti inoffensivi, come il gocciolamento da una nave di un’esigua quantità di idrocarburi. È vero che le direttive imposte dalla Marpol (tutela immediata del mare, come bene giuridico autonomo, e uso di sanzioni di entità tale da scoraggiare i trasgressori) condizionano il legislatore interno che vi deve dare attuazione. Al tempo stesso, però, la stessa Marpol, come si è detto poc’anzi, consente lo scarico di idrocarburi a certe condizioni, attinenti anche al quantitativo, alla concentrazione, al flusso dello scarico. Quindi il legislatore italiano avrebbe potuto, anzi dovuto, per conformarsi alle suddette prescrizioni, strutturare lo sversamento come reato di pericolo concreto, subordinando la punibilità al fatto che esso abbia ad oggetto un quantitativo minimo di sostanze e che avvenga con una certa persistenza e ad una certa distanza da terra, così come ha fatto il legislatore inglese. Dal punto di vista sanzionatorio, il legislatore ha ritenuto opportuno uniformare la pena del reato di sversamento a quella prevista dalla legge n. 319/1976 per lo scarico non autorizzato, in ragione dell’unitarietà del bene giuridico (ambiente marino) tutelato da entrambe le leggi (123). Lo sversamento, pertanto, è punito con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da lire 500.000 a lire 10.000.000 (124). In ciò si può rilevare la fondamentale differenza con la disciplina inglese, la quale prevede per questo tipo di reato la sola pena pecuniaria (anche se di ammontare maggiore rispetto alla nostra ammenda). Si è già messo in evidenza come l’uso esclusivo della pena pecuniaria da parte del legi(122) Definizione data dall’art. 2, terzo comma, lett. a), della convenzione Marpol. (123) L’uniformità, in realtà, è parziale, in quanto le pene summenzionate, mentre nella legge n. 319/1976 sono applicabili tanto allo scarico doloso quanto a quello colposo, nella legge n. 979/1982 si riferiscono al solo sversamento doloso mentre per quello colposo sono dimezzate. (124) Per il comandante di nazionalità italiana della nave la condanna comporta, inoltre, l’applicazione della pena accessoria della sospensione del titolo professionale, la cui durata è determinata ai sensi dell’art. 1083 del codice della navigazione; mentre per il comandante di nazionalità non italiana il divieto di attraccare a porti italiani per un periodo variabile, da determinarsi con decreto del Ministro della marina mercantile, commisurato alla gravità del reato commesso ed alla condanna comminata.
— 630 — slatore inglese non ci sembra proporzionale alla particolare pericolosità per l’ambiente marino delle condotte di sversamento — tenuto conto oltrettutto che lo stesso tipo di pena è previsto anche per le altre violazioni, in genere meno offensive, del regolamento inglese. L’uso alternativo ad essa della pena detentiva, scelto dal legislatore italiano, offre, invece, maggiori possibilità di graduazione sanzionatoria in relazione alla diversa offensività che possono avere in concreto le condotte di sversamento (125). Il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 16 della legge n. 979/1982 per il reato di sversamento in mare di idrocarburi o di altre sostanze nocive è stato esteso dalla legge 28 febbraio 1992, n. 220, recante « interventi per la difesa del mare » ad un nuovo reato da questa introdotto, vale a dire la violazione da parte di navi battenti bandiera nazionale del divieto — anch’esso introdotto da questa legge — di trasferire nelle acque territoriali le morchie e le acque di zavorra e di lavaggio a bordo di navi non specializzate e non costruite ed attrezzate per la raccolta delle stesse. Il divieto in questione è finalizzato a prevenire il pericolo di inquinamento del mare derivante dal fatto che durante le operazioni di trasferimento possono verificarsi perdite o gocciolamenti. Il reato posto a tutela del rispetto di questo divieto ci sembra, tuttavia, superfluo in quanto il pericolo insito nella condotta incriminata di trasferimento — che è il pericolo di inquinamento del mare conseguente all’eventuale perdita o gocciolamento che si verifichi durante il trasferimento — è già assorbito dal reato di sversamento di idrocarburi, che verrebbe pure realizzato nel caso di tale perdita o gocciolamento (126). In altri termini, il reato di sversamento, pur non avendo ad oggetto la condotta di trasferimento, sicuramente copre anche le potenziali conseguenze dannose o pericolose di essa, vale a dire le perdite, i gocciolamenti e le fuoriuscite dei residui untuosi che si possono verificare durante il trasferimento e che la norma sul divieto mira a prevenire. La legge n. 979/1982, oltre allo sversamento, prevede — come si accennava all’inizio del paragrafo — un altro reato, il cui precetto non è molto facilmente individuabile a causa della confusa e asistematica tecnica di formulazione usata dal legislatore. L’art. 17, infatti, punisce il comandante della nave italiana che violi le disposizioni di cui all’art. 19 (127). Pertanto, il precetto va desunto da quest’ultima norma, la quale prevede l’obbligo per tutte le navi italiane di tenere il registro degli idrocarburi sul quale vanno effettuate le prescritte annotazioni; nonché, in tutti i casi di versamento o di perdita di idrocarburi, l’obbligo per il comandante di farne annotazione sul registro con l’indicazione delle circostanze e delle cause di essi e di farne denuncia al comandante del porto più vicino. Il reato di cui all’art.17 si configura sia quando sulla nave non sia tenuto il registro degli idrocarburi, sia quando vengano omesse le annotazioni prescritte dal codice della navigazione, sia quando venga specificamente omessa l’annotazione relativa al versamento o alla perdita di idrocarburi ovvero venga omessa la denuncia di questi. In tutte le ipotesi incriminate la condotta è omissiva, in quanto consiste nell’inosservanza di un obbligo imposto dall’art. 19 (omessa tenuta del registro, omessa annotazione, omessa denuncia) ed è propria del comandante della nave (128). Essendo contravvenzioni, sono punibili indifferentemente sia per dolo sia per colpa. (125) L’unico neo del regime sanzionatorio previsto dall’art. 16 della legge n. 979/1982 è che, essendo previsto l’arresto in alternativa all’ammenda, anziché in via esclusiva, permette al contravventore di beneficiare dell’oblazione facoltativa ex art. 162-bis c.p. (126) Nell’ipotesi di trasferimento di idrocarburi durante il quale si verifichi una perdita o un gocciolamento si ha, infatti, un concorso apparente tra il reato di trasferimento e quello di sversamento. (127) L’art. 17 contiene, quindi, una norma penale in bianco con rinvio, per la determinazione del precetto, all’art. 19. (128) In questo caso la legge non prevede la possibilità del concorso del proprietario o dell’armatore della nave.
— 631 — È previsto per essi così come per il reato di sversamento il regime sanzionatorio alternativo tra pena detentiva e pecuniaria, vale a dire l’arresto fino a sei mesi ovvero l’ammenda fino a 10.000.000. Tutte e tre le ipotesi omissive sono reati di pericolo presunto, in quanto il legislatore punisce queste condotte in ragione della loro intrinseca pericolosità, indipendentemente dall’accertamento del verificarsi in concreto di un’offesa.
Capo II 1. L’inquinamento cagionato dallo scarico di idrocarburi è sicuramente una delle forme più dannose per l’ambiente marino — sia, come si è già avuto modo di sottolineare, per la nocività delle suddette sostanze, sia per la grande capacità di propagazione delle stesse — ma non l’unica. Ve ne è un’altra, infatti, con analoghi, se non addirittura più devastanti effetti sull’ambiente, che è rappresentata dallo sversamento di sostanze nocive diverse dagli idrocarburi. Per « sostanza nociva » si intende ogni sostanza la cui introduzione in mare è suscettibile di mettere in pericolo la salute umana, di nuocere alle risorse biologiche, alla fauna ed alla flora marina, di recar pregiudizio alle attrattive del paesaggio o di ostacolare ogni altra legittima utilizzazione del mare (129). La dannosità di dette sostanze per l’ambiente marino ha determinato gli Stati a fissare una disciplina internazionale sugli scarichi delle stesse in mare, in modo analogo a quanto era già stato fatto per gli scarichi di idrocarburi. Sono stati pertanto aggiunti alla Convenzione Marpol del 1973, con il Protocollo I del 1978 — che ha peraltro anche modificato l’originario Allegato 1 recante prescrizioni in ordine allo scarico di idrocarburi — , gli Allegati 2 e 3. Questi, sulla falsariga di quanto stabilito dalla Marpol e dall’Allegato 1 in ordine allo sversamento in mare di idrocarburi, regolano lo sversamento delle altre sostanze nocive, sia quando queste siano liquide e trasportate alla rinfusa (Allegato 2), sia quando, siano esse liquide o solide, vengano trasportate per mare in colli, contenitori, o cisterne (Allegato 3) (130). L’Allegato 2 fissa una disciplina per le sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa che copre tutti gli aspetti attinenti a questo settore, vale a dire costruzione ed attrezzature delle navi che le trasportano, operazioni di carico, scarico, pulitura e zavorramento delle cisterne, operazioni di scarico dei residui, in modo da minimizzare l’inquinamento che deriverebbe dallo sversamento in mare delle suddette sostanze. A tal fine distingue le sostanze liquide nocive in quattro categorie — A, B, C, D — a seconda del grado di pericolosità delle stesse per la vita umana, per la vita acquatica, per gli usi legittimi del mare. Esso stabilisce che le navi impiegate per il loro trasporto devono avere particolari caratteristiche di costruzione e di equipaggiamento al fine di minimizzare scarichi e perdite, la cui determinazione dettagliata è delegata a due codici internazionali per la costruzione e l’equipaggiamento delle navi che trasportano alla rinfusa sostanze pericolose, — comunemente in(129) Al di là di questa ampia definizione data dalla reg. 1 della Convenzione Marpol, gli allegati precisano quali sono in concreto le sostanze sottoposte a controllo in base alla convenzione. (130) L’Allegato 2 è obbligatorio, al pari dell’Allegato 1, mentre l’Allegato 3 è facoltativo. Completano il quadro del sistema Marpol gli Allegati 4 e 5, di adozione facoltativa, che disciplinano rispettivamente le acque di scarico e i rifiuti delle navi.
— 632 — dividuati con le sigle IBC e BCH (131) — il primo applicabile alle navi costruite dopo il 1986, il secondo a quelle di data anteriore. Il principio base su cui si fondano i due codici è quello secondo cui a seconda del tipo di sostanza — vale a dire del grado di pericolosità di essa — deve essere utilizzato per il trasporto un determinato tipo di nave, che abbia caratteristiche di struttura e di equipaggiamento che consentano di prevenire e controllare la fuoriuscita delle sostanze stesse (132). Pur essendo previste delle varianti in relazione al tipo cui una nave appartiene, i codici fissano una serie di requisiti omogenei per tutte le navi che trasportano alla rinfusa sostanze liquide nocive, affinché, in caso di danneggiamento della nave, non si verifichino sversamenti in mare delle suddette sostanze e la nave non affondi (133). L’Allegato 2 stabilisce per tutte le navi che trasportano alla rinfusa sostanze liquide nocive una serie di obblighi analoghi a quelli che l’Allegato 1 prevede per le navi che trasportano idrocarburi. Così, l’obbligo di sottoposizione della nave ad una perizia iniziale prima che la stessa venga messa in servizio ed a perizie periodiche successive per verificare che la nave sia e continui ad essere conforme ai requisiti richiesti dai codici. Inoltre, l’obbligo di avere un certificato di idoneità per il trasporto alla rinfusa di sostanze liquide pericolose (134), che viene rilasciato solo in seguito a perizia positiva e senza il quale la navigazione non è lecita. Infine, l’obbligo di tenere un registro del carico, sul quale devono essere annotati tutti i dati rilevanti attinenti alla nave e al carico, tutte le operazioni relative alle sostanze nocive trasportate (carico, trasferimento interno del carico, scarico, pulizia delle cisterne da carico, zavorramento delle stesse, ecc.), nonché gli eventuali incidenti che abbiano determinato la fuoriuscita delle sostanze liquide nocive trasportate, e gli sversamenti in mare delle stesse effettuati per motivi di sicurezza ovvero verificatisi in seguito ad un danneggiamento alla nave. Agli Stati aderenti ad esso l’Allegato 2 impone di predisporre presso i propri porti e terminali impianti di raccolta dove le navi che trasportano sostanze liquide nocive possano depositare i residui delle suddette sostanze contenuti nelle acque di lavaggio delle cisterne da carico, al fine di minimizzare l’inquinamento del mare (135). Per quanto concerne il regime degli scarichi delle sostanze liquide nocive in mare, l’Allegato 2 sancisce come regola generale che le sostanze appartenenti alle categorie A, B, C, D, e le acque di lavaggio o di zavorra che contengano residui delle stesse in determinate concentrazioni non possono essere sversate in mare ma devono essere scaricate negli appositi (131) International bulk chemical code, adottato con risoluzione 19 (22) del MEPC; Bulk chemical code, adottato con risoluzione 20 (22) del MEPC. (132) I codici prevedono tre tipi di navi a seconda che le sostanze trasportate, per il loro grado di pericolosità, richiedano il livello massimo di misure poste a prevenzione di fuoriuscite (nave di tipo 1), ovvero un livello medio (nave di tipo 2), ovvero un livello minimo (nave di tipo 3). (133) Ad esempio, le cisterne che contengono il carico delle sostanze liquide nocive devono essere indipendenti dallo scafo della nave in modo che eventuali danneggiamenti allo scafo dovuti a collisioni, arenamenti o ad altre cause, non intacchino le cisterne da carico e non determinino fuoriuscite delle sostanze; il carico deve essere collocato in una parte della nave distante da quella destinata agli alloggiamenti; le tubature delle cisterne da carico devono essere dotate di particolari sistemi di protezione per evitarne il danneggiamento in caso di urto. (134) In luogo del certificato di idoneità le navi impiegate in viaggi internazionali aventi come destinazione porti o terminali soggetti alla giurisdizione di Stati parti alla Convenzione possono richiedere un certificato internazionale di prevenzione inquinamento per il trasporto alla rinfusa di sostanze liquide nocive, sempre con validità quinquennale. (135) Le cisterne da carico, infatti, prima di essere riempite con nuove sostanze, devono essere lavate per evitare una commistione tra i residui delle sostanze del precedente carico e le nuove sostanze, salvo che queste ultime siano uguali o comunque compatibili con le precedenti, ovvero che i residui del precedente carico siano stati rimossi mediante il procedimento di ventilazione.
— 633 — impianti di raccolta. Esse possono, tuttavia, essere scaricate in mare quando siano in quantità e in concentrazioni nonché vengano scaricate ad una distanza da terra, ad una profondità e ad una velocità di rotta non superiori a certi standards fissati dalla risoluzione 18 (22) del MEPC, integrativa dell’Allegato 2. Il loro sversamento è, inoltre, eccezionalmente ammesso quando effettuato in stato di emergenza, vale a dire per salvare la nave o vite umane; ovvero in conseguenza di un danneggiamento alla nave o alle sue attrezzature, purché dopo la scoperta di questo siano state adottate tutte le misure necessarie a prevenire o attenuare lo scarico (ferma restando la responsabilità del proprietario o del comandante che abbia agito con intenzione, recklessness, o colpa). Inoltre, quando è effettuato per una finalità antinquinamento, nel qual caso però deve essere preventivamente autorizzato dal governo dello Stato nelle cui acque le sostanze devono essere liberate (136). L’Allegato 3 della Marpol disciplina il trasporto in colli, contenitori o cisterne di sostanze pericolose. Al fine di minimizzare il rischio di inquinamento che deriverebbe da una dispersione delle stesse in mare esso impone una serie di obblighi in ordine alle modalità di imballaggio e di stivaggio delle sostanze pericolose, nonché all’etichettatura e documentazione delle stesse (137). In particolare, il tipo di imballaggio (collo, contenitore cisterna) deve essere scelto in relazione al tipo di sostanza pericolosa contenuta in modo da minimizzare il pericolo di inquinamento che deriverebbe in caso di fuoriuscita delle sostanze stesse dall’imballaggio e della loro dispersione in mare. Sull’imballaggio deve essere segnato il corretto nome tecnico della sostanza pericolosa contenuta ed essere apposta l’etichetta che identifica la suddetta sostanza come inquinante il mare (marine pollutant) (138). In tutti i documenti relativi al carico di sostanze pericolose deve sempre essere usato il nome tecnico corretto della sostanza e messo in evidenza il carattere inquinante della stessa. Il proprietario delle sostanze pericolose trasportate è tenuto a fornire tra la documentazione della merce un certificato o una dichiarazione che il carico è in condizioni tali da rendere minimo il pericolo di inquinamento del mare ed è imballato a regola, con apposizione delle regolari etichette che indicano il nome tecnico delle sostanze e il carattere inquinante delle stesse. A bordo della nave deve essere tenuto — fino a quando la merce pericolosa non venga scaricata — un dettagliato piano di stivaggio con l’esatta indicazione della collocazione sulla nave delle sostanze pericolose. Lo stivaggio di queste deve essere effettuato in modo da minimizzare il pericolo per le vite umane a bordo, per la sicurezza della nave e per l’ambiente marino. Infine, è vietato liberare in mare le sostanze pericolose imballate, salvo quando sia necessario per salvare la nave e le vite in mare 2. L’ordinamento inglese ha dato attuazione all’Allegato 2 della Marpol nonché ai codici internazionali per la costruzione e l’equipaggiamento delle navi che trasportano alla rin(136) In ciascuna di queste ipotesi eccezionali è obbligatorio effettuare la relativa annotazione sul registro del carico. (137) I suddetti obblighi sono stati elaborati sulla falsariga di quelli previsti dal Capitolo VII della Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974, detta anche SOLAS, attinenti al trasporto di merci pericolose. (138) L’etichetta che indica il nome tecnico della sostanza e quella che ne evidenzia il carattere inquinante devono essere di un materiale che resista all’acqua per almeno tre mesi. In questo modo, in caso di affondamento della nave o di caduta in mare dei colli che contengono sostanze pericolose, il riconoscimento e il recupero di questi ultimi non verrà vanificato dall’acqua del mare, tenuto conto che le operazioni di salvataggio e di recupero spesso non possono esaurirsi nell’immediato, ma richiedono un certo tempo.
— 634 — fusa sostanze liquide nocive con una serie di regolamenti delegati del Segretario di Stato per i trasporti, tutti del 1987 (139). I regolamenti — che si applicano a tutte le navi inglesi, ovunque si trovino, nonché alle navi straniere che si trovino nelle acque territoriali inglesi — prevedono per le navi che trasportano alla rinfusa sostanze liquide nocive gli obblighi fissati dall’Allegato 2 di sottoposizione a perizia, di avere a bordo un valido certificato di idoneità o di prevenzione inquinamento, nonché di tenere il registro del carico. Riproducono, inoltre, le regole relative agli scarichi in mare delle sostanze nocive e delle acque di zavorra e di lavaggio (140). L’osservanza degli obblighi regolamentari e il rispetto del divieto di scarico delle sostanze nocive sono penalmente tutelati. Sulla falsariga del regolamento a tutela del mare contro l’inquinamento da idrocarburi, il regolamento di attuazione dell’Allegato 2 prevede una sola fattispecie incriminatrice, che contiene il precetto generico secondo il quale costituisce reato ed è punita con una pena pecuniaria fino a 1.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero di ammontare indefinito, in caso di conviction on indictment, la violazione di qualunque disposizione regolamentare (141). Si tratta, quindi, di una norma penale in bianco, caratterizzata dalla previsione di una sanzione comminata per un fatto la cui individuazione specifica richiede il rinvio alle altre disposizioni regolamentari extrapenali. Valgono, pertanto, le osservazioni fatte in sede di analisi del reato contro l’inquinamento da idrocarburi, che è pure strutturato in forma di norma penale in bianco. Con la precisazione, però, che la tutela penale contro l’inquinamento da idrocarburi è più articolata, in quanto sono previsti anche altri reati, sempre realizzanti violazioni di particolari disposizioni regolamentari, che costituiscono figure autonome di reato e sono puniti in misura maggiore rispetto a quello di generica violazione, in ragione della loro maggiore offensività, fra i quali il più grave è rappresentato dallo sversamento di idrocarburi senza il rispetto delle condizioni di liceità e al di fuori delle situazioni eccezionali in cui è ammesso. La tutela penale contro l’inquinamento da sostanze nocive, così come è, incentrata su un’unica fattispecie incriminatrice, indipendentemente dal tipo di disposizione violata, ci sembra inadeguata, in quanto pone sullo stesso piano fatti di diversa offensività, rispetto ai quali neppure la previsione di due livelli sanzionatori è sufficiente a realizzare una reale proporzione tra offesa arrecata e pena inflitta. Soprattutto tenuto conto che — come nei reati contro l’inquinamento da idrocarburi —non è prevista l’applicabilità, in alternativa o in aggiunta alla pena pecuniaria, della pena detentiva. Il reato di violazione delle disposizioni regolamentari è proprio del proprietario e del comandante della nave, che ne rispondono in concorso tra loro. Manca un’espressa previsione del titolo di imputazione. Si può, tuttavia, dedurre che i soggetti attivi siano punibili tanto sia per dolo che per colpa dal fatto che è prevista come (139) Si tratta del Merchant shipping (control of pollution by noxious liquid substances in bulk) regulations, che ha dato attuazione a tutte le regole dell’Allegato 2, salvo la reg. 7 (che impone agli Stati di predisporre impianti di raccolta per lo smaltimento di residui delle sostanze nocive) cui è stata data attuazione tramite il Prevention of pollution (reception facilities) order, nonché del Merchant shipping (IBC code) regulations e del Merchant shipping (BCH code) regulations che hanno dato attuazione ai due codici internazionali. (140) Queste devono essere scaricate negli impianti di raccolta predisposti obbligatoriamente presso porti e terminali dagli Stati aderenti all’Allegato 2, salvo quando la quantità e la concentrazione delle sostanze nocive da scaricare non superino una certa percentuale e vi siano particolari condizioni di navigazione, nel qual caso è ammesso il loro libero riversamento in mare, e salvi i casi eccezionali di emergenza, di avaria o di danneggiamento alla nave, di necessità di compiere operazioni antinquinamento. (141) Il mancato adeguamento alle prescrizioni regolamentari da parte di una nave determina, inoltre, il suo sequestro fino a quando il proprietario della nave non provveda al suddetto adeguamento.
— 635 — esimente che il soggetto agente dimostri di aver fatto tutto il possibile per assicurare l’osservanza delle prescrizioni regolamentari (quindi, quando non sia rinvenibile alcuna colpa). È, inoltre, come la maggior parte dei reati di inquinamento, reato di pericolo presunto, in quanto viene punita la violazione di una disposizione che impone un obbligo o un divieto per la sua intrinseca pericolosità, indipendentemente dall’accertamento del verificarsi in concreto di un’offesa (142). Il trasporto di sostanze pericolose, solide o liquide, in colli, contenitori o cisterne è disciplinato da un regolamento del Segretario di Stato per i trasporti del 1990 — il Merchant shipping (dangerous goods and marine pollutants) regulations 1990 — che ha dato attuazione all’Allegato 3 della Marpol. Esso riproduce le prescrizioni da questo sancite in ordine agli obblighi di imballaggio e di etichettatura delle sostanze pericolose, nonché di documentazione che deve sempre accompagnare le suddette sostanze durante il trasporto sulla nave (143). Anche l’osservanza di questi obblighi è garantita penalmente attraverso la previsione di un unico reato strutturato come norma penale in bianco che rinvia alle singole disposizioni regolamentari per l’individuazione del precetto. La violazione di prescrizioni regolamentari è punibile con una pena pecuniaria fino a 2.000 sterline, in caso di summary conviction — vale a dire per le violazioni di lieve entità — e con una pena detentiva non superiore a due anni alternativa o cumulativa ad una pena pecuniaria indeterminata, in caso di conviction on indictment, cioè per le violazioni più gravi. La peculiarità di questo reato, che la distingue sia dal reato di inosservanza previsto dal regolamento sul trasporto alla rinfusa di sostanze liquide nocive, sia dai reati contro l’inquinamento da idrocarburi, è nel regime sanzionatorio, vale a dire nel fatto che per le violazioni più gravi — tra le quali lo sversamento in mare di sostanze nocive imballate — alla pena pecuniaria è aggiunta ovvero sostituita, a seconda dei casi, la pena detentiva. Questa scelta, che significa punire in modo decisamente più afflittivo lo sversamento di sostanze nocive imballate rispetto allo sversamento di sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa ovvero di idrocarburi, non ci sembra giustificabile. L’immissione di sostanze sfuse comporta, infatti, un maggior danno per l’ambiente marino in quanto determina una contaminazione diretta e immediata delle acque, a differenza dell’immissione di sostanze nocive imballate che, essendo isolate nel loro involucro, non vengono a mischiarsi e quindi a contaminare le acque del mare, almeno in via immediata. Ci vuole del tempo, infatti, prima che il mare con la sua azione corrosiva riesca a disintegrare l’imballaggio. Il reato di inosservanza di prescrizioni regolamentari è sempre proprio, in quanto gli obblighi — la cui violazione determina la configurazione del reato in parola — sono sempre previsti a carico di soggetti qualificati: in alcuni casi nei confronti del proprietario della nave o del comandante, in altri di colui che è responsabile del trasporto, in altri ancora del proprietario delle merci trasportate (144). Si tratta di reato a imputazione soggettiva, in quanto il regolamento prevede due esi(142) Anche su questo punto si deve rilevare la maggiore incisività della tutela contro l’inquinamento da idrocarburi, in quanto, come si è visto, il reato di sversamento in mare di idrocarburi, che è il più offensivo per l’ambiente marino, è strutturato come reato di pericolo concreto. (143) Gli obblighi previsti dal Merchant shipping (dangerous goods and marine pollutants) regulations 1990 sono applicabili nei confronti di tutte le navi (inglesi o straniere), quando queste si trovino nelle acque territoriali inglesi; e alle sole navi inglesi, quando si trovino al di fuori delle acque territoriali inglesi. (144) Ad es. la reg. 7 stabilisce che il proprietario di merci pericolose trasportate in colli ha l’obbligo di rilasciare al proprietario della nave o al comandante una dichiarazione o un certificato dal quale risulti l’esatto nome tecnico delle merci e l’eventuale nomenclatura di « sostanza inquinante il mare ». L’eventuale violazione di quest’obbligo determina, in base alla norma penale in bianco incriminatrice, la configurazione di un reato in capo al proprietario delle merci pericolose.
— 636 — menti, vale a dire due situazioni in cui il soggetto attivo non è punibile per mancanza di colpevolezza. Una si verifica quando egli ha fatto tutto il possibile per assicurare l’osservanza degli obblighi regolamentari, scusante dello stesso tenore di quella dell’uso della doverosa diligenza. L’altra quando egli non era a conoscenza, né avrebbe potuto esserlo, né esistevano elementi ragionevoli per sospettare che le merci erano pericolose o inquinanti. L’inosservanza, al pari di quella prevista per il trasporto alla rinfusa di sostanze liquide nocive, determina il sequestro della nave fino a quando il proprietario non provveda all’adeguamento della stessa alle prescrizioni violate. 3. Il titolo IV della legge n. 979/1982, contenente norme penali per la discarica di sostanze vietate, riunisce in un’unica disciplina la tutela del mare contro l’inquinamento derivante dallo sversamento sia di idrocarburi sia di altre sostanze nocive. Esso, pertanto, dà attuazione ai precetti non solo della Marpol e del Protocollo I ma, in senso lato, anche degli Allegati 2 e 3. Ciò in modo diverso da quanto ha fatto il legislatore inglese. Quest’ultimo, come si è visto, ha emanato regolamenti ad hoc attuativi degli Allegati 2 e 3 che riproducono tutte le regole da questi stabilite, tutelando penalmente il loro rispetto con lo strumento della norma penale in bianco incriminatrice, adottato già per la tutela del mare contro l’inquinamento da idrocarburi. Il legislatore italiano, invece, ha realizzato un’attuazione più generica degli Allegati nel senso che, essendo questi ispirati a principi di fondo identici a quelli che stanno alla base della prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi — anche se la normativa di dettaglio se ne differenzia in parte in relazione alla diversità di oggetto (145) — ha scelto di fissare una sola ed uguale disciplina di tutela del mare contro l’inquinamento sia da idrocarburi sia da sostanze nocive (146), incentrata su detti principi comuni. Pertanto, vale il divieto di immissione in mare di sostanze nocive, assoluto per le navi italiane, limitato al mare territoriale per le navi straniere. È prevista la responsabilità penale per il comandante (in concorso eventuale col proprietario della nave o con l’armatore) che dolosamente o colposamente cagioni l’immissione in mare delle sostanze nocive. È esclusa la responsabilità penale in caso di immissione accidentale (causata cioè da un’avaria o da una perdita inevitabile, sempre che sia stata adottata ogni misura per impedire o ridurre lo sversamento) o necessitata (vale a dire effettuata a salvaguardia della propria o di altra nave o delle vite umane a bordo), ma sussiste l’obbligo solidale di risarcimento del danno a carico del comandante e del proprietario della nave (o dell’armatore). Infine, è previsto l’obbligo, penalmente sanzionato, di tenere un registro sul quale annotare tutti i dati relativi alle sostanze nocive trasportate e agli eventuali incidenti che abbiano provocato uno sversamento in mare delle suddette sostanze. Valgono, conseguentemente, le osservazioni fatte in sede di analisi della nostra disciplina dello sversamento di idrocarburi. Da un lato, la critica circa la scelta di strutturare lo sversamento di sostanze nocive in mare come reato di pericolo presunto anziché di pericolo concreto (147). Dall’altro, la condivisione della scelta, più rigorosa ed aderente alle direttive (145) Gli allegati, infatti, hanno ad oggetto la prevenzione dell’inquinamento da sostanze nocive (trasportate alla rinfusa o imballate) mentre la Marpol e il Protocollo I — che contiene l’Allegato 1 — la prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi. (146) In ordine al significato di « sostanza nociva » viene accolta la definizione data dall’art. 2 della Marpol secondo la quale si intende qualunque sostanza la cui introduzione in mare è suscettibile di mettere in pericolo la salute umana, di nuocere alle risorse biologiche, alla fauna e alla flora marina, di recar pregiudizio alle attrattive del paesaggio o di ostacolare ogni altra legittima utilizzazione del mare. In proposito, alla legge n. 979/1982 è allegata una tabella che contiene l’elenco delle sostanze nocive, che deve essere aggiornato ogni due anni, od ogniqualvolta se ne ravvisi la necessità, con decreto del Ministro della marina mercantile. (147) Per strutturare lo sversamento di sostanze nocive come reato di pericolo con-
— 637 — della Marpol rispetto a quella inglese, di applicare in alternativa alla pena pecuniaria la pena detentiva.
Capo III 1. Gli idrocarburi e le altre sostanze nocive non sono le uniche fonti di inquinamento marino cagionato da navi. Concorrono ad inquinare il mare, seppure in misura inferiore e con effetti a volte meno deleteri, anche i rifiuti e i liquami (148) prodotti dalle navi nel corso delle c.d. « normali operazioni », vale a dire di quelle operazioni che permettono alla nave di svolgere le proprie funzioni. Il fatto che si tratti di rifiuti e liquami non deve indurre nell’errore che essi abbiano sempre e necessariamente una minore lesività per l’ambiente marino rispetto agli idrocarburi e alle altre sostanze nocive. Ciò è vero per i rifiuti alimentari, ma non ad esempio per i rifiuti di materiale plastico che, come si sa, non sono biodegradabili. Si spiega, così, l’esigenza di regolamentare, sia a livello internazionale sia a livello interno, gli scarichi in mare da parte di navi dei propri rifiuti e delle acque di scarico. 2. La Convenzione Marpol, avendo come obiettivo — lo si è più volte sottolineato — l’eliminazione o quanto meno la minimizzazione dell’inquinamento del mare cagionato volontariamente o accidentalmente da navi, non poteva ignorare che anche i liquami e i rifiuti prodotti nel corso del normale uso di una nave possono essere fonte di inquinamento. Essi dovevano, pertanto, essere sottoposti ad una specifica disciplina, così come avviene per le altre sostanze inquinanti. A tale tipo di inquinamento la Marpol dedica gli Allegati IV e V (149), che disciplinano rispettivamente lo scarico in mare di liquami e lo smaltimento in mare di rifiuti prodotti da navi. La disciplina dello smaltimento di rifiuti (150), di cui all’Allegato V — applicabile a qualsiasi tipo di nave — cambia a seconda che le navi si trovino nelle c.d. « aree speciali », ovvero negli altri mari. Nelle aree speciali (151) è vietato in modo assoluto lo smaltimento in mare di tutti i materiali plastici (incluse le cime sintetiche e le reti sintetiche da pesca), nonché degli altri rifiuti resistenti come vetro, metallo, bottiglie, stoffe, terraglie. Lo smaltimento di rifiuti alimentari è, invece, subordinato alla condizione che avvenga ad oltre 12 miglia marine dalla terra più vicina. Al di fuori delle « aree speciali » resta fermo il divieto assoluto di smaltimento dei materiali plastici, mentre gli altri rifiuti possono essere liberati in mare, purché ad una certa distanza dalla terra più vicina, che varia a seconda del tipo di materiale. creto si sarebbe dovuto punirlo solo in caso di superamento di limiti — da accertarsi in concreto — attinenti alla quantità e concentrazione delle sostanze nocive sversate, nonché alla distanza da terra e profondità cui lo sversamento è effettuato. (148) Con il termine « liquami » si intendono le acque di rifiuto, di scarico. (149) L’Allegato IV non è ancora entrato in vigore, mentre l’Allegato V è entrato in vigore il 31 dicembre 1988. (150) L’Allegato V definisce come « rifiuti » « qualunque specie di viveri, di rifiuti domestici e operativi, ad eccezione del pesce fresco, che si formano durante l’uso normale di una nave e che possono essere scaricati in modo continuo o periodico, ad eccezione delle sostanze che sono regolate dagli altri allegati della convenzione ». (151) Mar Mediterraneo, Mar Baltico, Mar Nero, Mar Rosso, area del Golfo. A queste aree la risoluzione 37 (28) del MEPC ha aggiunto, soltanto per la disciplina dell’Allegato V, il Mare del Nord (che include anche la Manica), l’area antartica e la regione caraibica.
— 638 — Al divieto, assoluto in certi casi e condizionato in altri, di smaltimento — sia all’interno che al di fuori delle « aree speciali » — è fatta deroga nelle ipotesi di stato di necessità, vale a dire, quando la liberazione in mare sia effettuata a salvaguardia della nave e delle persone a bordo o comunque per salvare vite umane. Inoltre, nei casi di fortuito, vale a dire quando la dispersione in mare di rifiuti dipenda da un danneggiamento alla nave o alle sue attrezzature e tutte le misure possibili siano state adottate prima del fatto, per prevenirlo, e dopo di esso, per minimizzare tale dispersione; e quando si verifichi un’accidentale perdita in mare di reti sintetiche da pesca, nonostante l’uso di tutte le dovute precauzioni. In connessione col divieto di smaltire in mare certi tipi di rifiuti l’Allegato V impone agli Stati contraenti l’obbligo di predisporre presso i propri porti e terminali, il più presto possibile dopo l’entrata in vigore dell’Allegato stesso, appositi impianti di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi, che abbiano un funzionamento idoneo ad evitare ritardi ed intralci alle navi in conseguenza del loro utilizzo. Per quanto concerne i liquami, bisogna innanzitutto distinguere a seconda che il loro scarico avvenga in mare aperto ovvero nei porti. La prima ipotesi è regolamentata dall’Allegato IV della Marpol che, tuttavia, è ancora lettera morta in quanto, non essendo stato raggiunto il numero minimo necessario di firme, non è ancora entrato in vigore. È, comunque, utile accennare alle regole da esso previste, perché altri trattati internazionali regionali, in vigore, contengono disposizioni dello stesso tenore. Esse sono analoghe a quelle previste dagli altri allegati. Nei confronti delle navi utilizzate per viaggi che abbiano come destinazione porti o terminali sottoposti alla giurisdizione di Stati aderenti alla Marpol (152), è previsto l’obbligo di sottoposizione della nave a perizia prima della messa in servizio per verificare che essa sia conforme agli standards e utilizzi i metodi stabiliti dall’Allegato (ad esempio, per il trattamento e la disinfezione delle acque di scarico). Inoltre, l’obbligo di farsi rilasciare, per navigare lecitamente, un certificato di prevenzione inquinamento da acque di scarico. Lo scarico in mare di liquami è vietato, salvo che essi siano stati prima sottoposti a trattamento — cosicché nell’effluente scaricato non si rinvengano residui solidi galleggianti o di natura tale da provocare uno scolorimento dell’acqua —, ovvero a disinfezione, attraverso sistemi a bordo della nave conformi ai tipi autorizzati dall’amministrazione statale, sempre che lo scarico avvenga con flusso non istantaneo ma graduale e ad una certa distanza da terra. Lo scarico è anche ammesso, eccezionalmente, nelle ipotesi di stato di necessità e di fortuito (153). Quando non ricorrono le condizioni per liberarli in mare, i liquami devono essere trattenuti sulla nave e depositati negli appositi impianti di raccolta che gli Stati aderenti all’Allegato dovranno predisporre presso i propri porti e terminali dopo l’entrata in vigore dello stesso. Si è detto poc’anzi che le regole dell’Allegato IV della Marpol hanno una certa rilevanza, anche se non sono ancora entrate in vigore, in quanto analoghe a quelle previste da un altro trattato internazionale regionale, la Convenzione per la protezione dell’ambiente (152) Destinatari dei precetti sono non tutti i tipi di nave — a differenza di quanto l’Allegato V dispone per lo smaltimento di rifiuti — ma soltanto quelle di stazza grossa omologate per il trasporto di più di dieci persone, ovvero di piccola stazza omologate per il trasporto di più di dieci persone. (153) Si tratta delle ipotesi che si sono già rinvenute negli altri Allegati come eccezioni al divieto di scarico in mare delle varie sostanze inquinanti: scarico necessario a salvaguardare la nave e le persone a bordo ovvero a salvare vite umane; scarico verificatosi in conseguenza di un danneggiamento alla nave o alle sue attrezzature, purché siano state adottate, prima del fatto, tutte le precauzioni per evitarlo e, dopo il fatto, tutte le misure per minimizzare lo scarico.
— 639 — marino dell’area del Mar Baltico, detta anche Convenzione di Helsinki, entrata in vigore nel 1980 (154). Questa, infatti, impone alle navi di conformarsi ad una serie di requisiti finalizzati a consentire di effettuare in modo corretto il deposito delle acque di scarico in appositi impianti di raccolta (155). Per quanto concerne lo smaltimento nei porti delle acque di scarico delle navi, una scarna regolamentazione internazionale si rinviene in due disposizioni delle « Regole internazionali sulla salute » del 1969. In base all’art. 30 di tali regole, l’autorità amministrativa sanitaria può adottare tutte le misure possibili per controllare lo scarico da parte di navi di liquami in porti, fiumi o canali, nonché proibirlo quando possa contaminare le acque di questi. In base all’art. 14, presso ogni porto deve essere predisposto un efficace sistema per l’innocuo smaltimento di escrementi, rifiuti, liquami, ed altri materiali pericolosi per la salute. La prima disposizione è piuttosto generica, in quanto non stabilisce in che modo deve essere effettuato il controllo sugli scarichi nelle acque dei porti, dei fiumi, dei canali, da parte dell’autorità pubblica, né offre criteri precisi per determinare quando si debba impedire detti scarichi. Inoltre, non avendo natura precettiva in quanto prevede la semplice facoltà e non l’obbligo di adottare tutte le misure possibili per controllare lo scarico, si presta facilmente ad essere disattesa da parte delle autorità competenti. La seconda disposizione, con una portata più ampia — in quanto si riferisce non solo alle acque di scarico ma anche ad altri tipi di rifiuti pericolosi — riecheggia le previsioni della reg.10 dell’Allegato IV circa l’obbligo degli Stati aderenti ad esso di predisporre nei propri porti e terminali impianti per la raccolta delle acque di scarico delle navi. La genericità e la limitatezza della regolamentazione internazionale di questo settore si spiega in ragione del fatto che la tutela delle acque portuali rappresenta primariamente un interesse specifico di ciascuno Stato, e solo di riflesso un interesse internazionale. Ciò a differenza del mare libero che, essendo un bene non specifico di uno Stato bensì di tutti e quindi di interesse internazionale, riceve al contrario ampia e specifica tutela anche a livello internazionale. 3.1. La Gran Bretagna, che ha aderito all’Allegato V della Marpol nel 1986, ha dato attuazione alle prime sei disposizioni di esso attraverso un regolamento del 1988 del Segretario di Stato per i trasporti, il Merchant shipping (prevention of pollution by garbage) regulations. Alla settima ed ultima disposizione — attinente all’obbligo imposto a tutti gli Stati contraenti di predisporre impianti di raccolta dei rifiuti provenienti da navi presso i propri porti e terminali — ha dato attuazione attraverso un altro regolamento del Segretario di Stato, sempre del 1988, il Merchant shipping (reception facilities for garbage) regulations. Il primo regolamento — che si applica alle navi inglesi ovunque si trovino, nonché alle navi straniere quando si trovino all’interno delle acque territoriali inglesi — riproduce le disposizioni dell’Allegato V che vietano in modo assoluto lo scarico in mare, sia all’interno che al di (154) La Convenzione di Helsinki è stata firmata dagli Stati che fanno parte dell’area baltica (Danimarca, Finlandia, Germania, Polonia, Svezia e dall’allora Russia), ad eccezione della Gran Bretagna la quale, però, si è impegnata a far rispettare le regole da quella fissate alle proprie navi quando navighino in tale area. In realtà si tratta di un impegno astratto, in quanto nessun provvedimento normativo impone tale rispetto né tanto meno lo tutela in qualche modo; nessuna responsabilità, civile o penale, è infatti prevista nei confronti di navi britanniche che, trovandosi nell’area baltica, non si attengano alle prescrizioni della Convenzione di Helsinki. (155) Gli impianti di raccolta sono diventati disponibili nei porti e nei terminali dell’area del Mar Baltico, così come sono divenute effettive le misure (analoghe a queile dell’Allegato IV della Marpol) previste dalla convenzione Helsinki in relazione alle acque di scarico delle navi, a partire dal maggio del 1990).
— 640 — fuori delle « aree speciali », di rifiuti di materiale plastico, e a certe condizioni — relative alla distanza da terra dello scarico e, in alcuni casi, al previo trattamento di disintegrazione dei rifiuti — lo scarico di rifiuti alimentari nonché di quelli di materiale galleggiante o comunque resistente. Essendo la disciplina dello smaltimento di rifiuti più scarna e limitata rispetto a quella del trasporto di idrocarburi e di sostanze nocive (156), anche la tutela penale è inevitabilmente più circoscritta. Non si rinviene, infatti, a differenza che nei regolamenti di attuazione degli altri allegati, una norma penale in bianco che incrimini qualunque violazione regolamentare, ma soltanto una specifica fattispecie incriminatrice, rappresentata dallo scarico di rifiuti di plastica ovvero di altre sostanze senza il rispetto delle condizioni alle quali è ammesso e fuori dalle ipotesi eccezionali di fortuito o di stato di necessità. Esso è punito con una pena pecuniaria fino a 2.000 sterline, in caso di summary conviction, ovvero di ammontare indefinito, in caso di conviction on indictment. Lo scarico illecito di rifiuti di navi è un reato di pericolo concreto, e non presunto, analogamente al reato di sversamento di sostanze nocive e a differenza della maggior parte dei reati ambientali. Per la sua punibilità, infatti, deve essere accertato in concreto che lo scarico sia stato effettuato senza il rispetto delle condizioni fissate dal regolamento, vale a dire con modalità tali da determinare un pericolo concreto per l’ambiente. È, inoltre, reato proprio in quanto realizzabile soltanto da parte di soggetti qualificati, e precisamente del proprietario, dell’armatore, del noleggiatore e del comandante della nave. Il regolamento, nell’elencare questi soggetti, usa dopo una serie di virgole la congiunzione « e », come per intendere che essi concorrano tutti quanti alla realizzazione del reato. In realtà, ci sembra più corretto interpretare questa disposizione nel senso che ‘‘il proprietario, l’armatore, il noleggiatore’’ — in qualità di responsabili della nave — siano previsti in via alternativa come soggetti attivi in concorso con il comandante. Lo scarico illecito di rifiuti è punibile quando commesso con dolo o con colpa, in quanto — pur mancando, come spesso accade nelle leggi ambientali inglesi, un’espressa previsione del titolo di imputazione — è prevista nei suoi confronti l’esimente dell’uso della doverosa diligenza per evitare lo scarico, che implica — come sappiamo — l’assenza di colpevolezza. Per quanto concerne i porti, è prevista una disciplina specifica — distinta da quella suesposta di attuazione dell’Allegato V della Marpol, che riguarda invece le acque territoriali e il mare aperto — da parte del Control of pollution (landed ships’ waste) regulations 1987. Questo regolamento, così come emendato nel 1989 (157), classifica i rifiuti provenienti da navi come « rifiuti industriali », così da estendere ad essi la disciplina dello smaltimento di rifiuti, a quel tempo prevista dal Control of pollution act del 1974 e attualmente dall’Environmental protection act del 1990 (158), colmando in tal modo il vuoto di tutela esistente in questo settore (159). I rifiuti provenienti da navi non possono, pertanto, essere smaltiti nei porti, in quanto (156) Essa non prevede, infatti, obblighi di conformazione delle navi a determinati standards, il che comporta anche l’assenza di previsione degli obblighi di sottoposizione a perizia della nave e di richiesta del certificato di prevenzione inquinamento. (157) L’emendamento è stato attuato dal Control of pollution (landed ships’ waste) (amendment) regulations del 1993. (158) L’Environmental protection act del 1990 nella parte II, ha abrogato e sostituito le disposizioni del Control of pollution act del 1974 relative allo smaltimento dei rifiuti. (159) Ciò in quanto il Control of pollution act non prendeva in considerazione espressamente tra i vari tipi di rifiuti quelli provenienti da navi. Prima del regolamento emendativo del 1989 — che, si è detto, ha reso possibile l’estensione della disciplina del Control of pollution act ai rifiuti provenienti da navi tramite la loro classificazione come « rifiuti industriali », dato che questi ultimi rientrano nel concetto generale di « rifiuti » la cui disciplina era prevista dal Control of pollution act fino al 1990 e dall’Environmental protection act suc-
— 641 — ad essi è esteso il divieto di smaltimento sulla terra previsto dall’art. 33 dell’Environmental protection act per tutti i rifiuti di origine terrestre, salvo quando lo smaltimento sia autorizzato da una licenza amministrativa e avvenga conformemente a questa. Il regolamento emendativo del 1989 precisa, inoltre, che, quando nei porti esistono impianti di raccolta dei rifiuti, i rifiuti navali non possono essere lecitamente smaltiti nelle acque del porto neppure con una licenza ma devono essere necessariamente depositati in detti impianti. Cagionare o permettere lo smaltimento in mancanza o in difformità da una licenza, ovvero nei porti in cui sono predisposti impianti di raccolta, costituisce reato ed è punito con una pena detentiva fino a sei mesi e/o una pena pecuniaria fino a 20.000 sterline, in caso di summary conviction; con una pena detentiva fino a due anni e/o una pecuniaria indefinita, in caso di conviction on indictment. Questo reato ha la stessa struttura di quello consistente nel cagionare o permettere l’immissione o lo scarico di sostanze inquinanti nelle acque controllate, previsto dal Water resources act. Valgono, pertanto, per esso le osservazioni fatte in sede di analisi di quest’ultimo. 3.2. Lo scarico di liquami da parte di navi nelle « acque controllate » (che, si è più volte ricordato, comprendono anche le acque marine territoriali) è disciplinato dal Water resources act del 1991 (160). Questo, in deroga al principio generale secondo il quale gli scarichi nelle acque inglesi effettuati nonostante il divieto imposto dalla National rivers authority costituisce reato, sancisce che lo scarico, quando ha ad oggetto liquami e proviene da navi, non è punibile. Tuttavia, in base all’art. 4 della scheda 25 allegata al Water resources act, la National rivers authority può, attraverso un proprio regolamento, proibire ovvero regolare l’uso di servizi sanitari a bordo di navi, e quindi anche lo scarico di liquami prodotti da tali servizi. 4.1. L’Italia, a differenza della Gran Bretagna, non ha dato adesione all’Allegato V, e quindi non è possibile rinvenire nel nostro ordinamento una normativa parallela a quella prevista dal regolamento inglese di attuazione del suddetto allegato. La tutela delle acque marine contro l’inquinamento provocato dallo smaltimento da parte di navi dei propri rifiuti si rinviene nel d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (161). Questo, cessivamente — l’unico strumento di tutela delle acque portuali contro lo scarico di rifiuti navali era rappresentato dall’art. 73 del Harbours, docks, and piers clauses act del 1847 che punisce con una pena pecuniaria fino a 400 sterline chiunque getti nelle acque di porto terra, cenere, pietre o altri materiali solidi. A parte l’esiguità della pena prevista, che rende scarsamente deterrente questa norma, si deve sottolineare che tale disposizione, pur nell’ampiezza di oggetto, non si riferisce ai rifiuti provenienti da navi, ma in generale ai materiali solidi che possano ostruire le acque portuali; di conseguenza, non sempre era possibile utilizzare l’art. 73 per punire le condotte inquinanti di scarico nelle acque portuali dei rifiuti provenienti da navi (cfr. Grey v. Heathcote, 1918, 119 L.T., p. 84). (160) Si ricordi che la Gran Bretagna non ha aderito all’Allegato IV della Marpol che regola lo scarico di liquami da parte di navi. Ciò spiega l’assenza di una disciplina ad hoc di detto scarico, a differenza degli altri tipi di inquinamento del mare, — non essendoci attuazione di alcuna normativa internazionale — e la sua regolamentazione da parte della legge che disciplina in generale tutti gli scarichi nelle acque, il Water resources act. (161) Un’altra disposizione a tutela delle acque marine contro l’inquinamento provocato dallo smaltimento dei rifiuti delle navi si rinviene nel regolamento di esecuzione del codice della navigazione l’art. 77, che sancisce il divieto di tenere rifiuti accumulati a bordo delle navi nonché di gettarli negli ambiti acquei del porto o in mare aperto ad una distanza inferiore a quella stabilita dal comandante del porto. La violazione di detto divieto costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 1174 c. nav. con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 400.000 lire.
— 642 — riempendo buona parte dei « vuoti » di tutela lasciati dalla legge Merli (162), disciplina lo smaltimento di rifiuti in generale (163), vale a dire sia di rifiuti solidi sia di rifiuti liquidi, nonché ovunque avvenga (sul suolo, nel sottosuolo, nelle acque) e in tutte le varie fasi (conferimento, raccolta, trasporto, trattamento, ecc.) (164). Recentemente, la disciplina del d.P.R. n. 915/1982 è stata, tuttavia, parzialmente modificata dal d.l. 5 febbraio 1997 n.22, che ha dato attuazione alla direttiva CEE n. 91/156 sui rifiuti, la quale ha modificato la precedente direttiva CEE sui rifiuti, la n.75/442 alla quale il d.P.R. n. 915/1982 aveva dato attuazione (165). La nuova disciplina di cui al d.l. n. 22/1997 incide anche sulla tutela delle acque marine dall’inquinamento derivante dallo scarico da parte delle navi di propri rifiuti. La tutela, infatti, era apprestata dall’art. 9, terzo comma, del d.P.R. n. 915/1982, il quale sanciva il divieto assoluto di scaricare rifiuti di qualsiasi genere nelle acque pubbliche e private, nonché dall’art. 24 che puniva la violazione di detto divieto con una sanzione amministrativa da lire 20.000 a lire 1.000.000 (166). L’art. 9 è stato, però, sostituito dall’art. 14 del d.l. n. 22/1997, che ribadisce il divieto di immissione di rifiuti nelle acque, e soprattutto introduce l’obbligo per colui che ha violato il divieto, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area (purché a questi ultimi la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa), di procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti, in base ad un’ordinanza del sindaco. L’art. 24 è stato sostituito, invece, dall’art. 50 del d.l. n. 22/1997. Questo, da un lato, modifica il regime sanzionatorio relativo alla violazione del divieto di immissione di rifiuti (167); dall’altro, punisce l’inosservanza dell’ordinanza del sindaco prevista dall’art.14 con la pena dell’arresto fino ad un anno (168). L’espresso riferimento da parte dell’art. 9 del d.P.R. n. 915/1982 — ora dell’art. 14 del d.l. n. 22/1997 — a ‘‘rifiuti di qualsiasi genere’’ fa sì che esso sia applicabile anche a quelli provenienti da navi, e non sia quindi limitato alle tre categorie di rifiuti — urbani, speciali, tossici e nocivi — oggetto di disciplina del d.P.R. n. 915/1982 (169). Non è, pertanto, necessario ricorrere ad un’interpretazione estensiva del concetto di « rifiuti (162) Sul punto, cfr. G. AMENDOLA, La tutela penale, cit., p. 291. (163) Per rifiuto si intende « qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono ». I rifiuti sono classificati in tre categorie — urbani, speciali, tossici e nocivi —, a ciascuna delle quali è dedicata una specifica regolamentazione. (164) Il d.P.R. n. 915/1982 ha dato attuazione a tre direttive della CEE, la n. 75/442 relativa ai rifiuti, la n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili, la n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. (165) Il d.l. 5 febbraio 1997, n. 22 ha dato attuazione anche ad altre due direttive CEE, la n. 91/689 sui rifiuti pericolosi e la n. 94/62 sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio. (166) Qualora i rifiuti scaricati nelle acque siano tossici e nocivi si configura, invece, un reato contravvenzionale, punito con l’arresto sino a sei mesi o con l’ammenda da lire 200.000 a lire 5.000.000. (167) L’originaria sanzione amministrativa, prevista dall’art. 24 del d.P.R. n. 915/1982, da lire 20.000 a lire 1.000.000 per i rifiuti urbani e da lire 100.000 a lire 2.000.000 per i rifiuti speciali, è stata sostituita dall’art. 50 del d.l. n. 22/1997 con la sanzione amministrativa da lire 200.000 a lire 1.200.000 che è applicabile sia per i rifiuti urbani (rispetto al quali risulta anche inasprita) sia per i rifiuti speciali. (168) Con la sentenza di condanna per tale contravvenzione, inoltre, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione di quanto stabilito nell’ordinanza del sindaco. (169) In questo senso, l’art. 9 è norma eccezionale nel quadro di disciplina del d.P.R. n. 915/1982, in quanto il divieto da esso sancito era rivolto a tutti i tipi di rifiuti — qualunque provenienza e natura avessero —, anche a quelli non rientranti nelle tre categorie individuate dall’art. 2, in deroga al principio generale stabilito dall’art. 1, secondo il quale le di-
— 643 — urbani », di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 915/1982 (e ora di cui all’art. 7 del d.l. n. 22/1997) — così da farvi rientrare i rifiuti delle navi — per rendere applicabile a questi la disciplina del d.P.R n. 915/1982, in particolare l’art. 9 (ora la disciplina del d.l. n. 22/1997, in particolare l’art. 14), come aveva fatto in un caso la Cassazione (170). Tale interpretazione estensiva potrebbe, semmai, essere utilizzata, a nostro parere, per far rientrare lo scarico in mare di rifiuti provenienti da navi nella previsione dell’art. 15 della legge Merli — che regola gli scarichi ‘‘provenienti da insediamenti civili che non scaricano in pubbliche fognature’’ — e per applicare, quindi, l’illecito amministrativo di cui all’art. 21, ultimo comma, della legge Merli (171), dato che questo è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria di ammontare sensibilmente maggiore rispetto a quella di cui all’art. 24. del d.P.R. n. 915/1982 (ora di cui all’art. 50 del d.l. n. 22/1997) — in quanto va da 10.000.000 a 100.000.000 milioni —, e quindi è in grado di esplicare un maggiore effetto deterrente. 4.2. Per quanto concerne lo scarico di liquami, l’Italia al pari della Gran Bretagna non ha dato adesione all’Allegato IV della Marpol. La disciplina a tutela del mare contro questa forma di inquinamento va, pertanto, ricercata nella legge sugli scarichi, la legge Merli, e precisamente nell’art. 11, terzo comma, che disciplina specificamente gli scarichi in mare — di qualunque tipo, quindi anche gli scarichi di liquami — da parte di navi (172). Questi sono subordinati ad autorizzazione del Ministro dell’ambiente, rilasciata in conformità alle disposizioni stabilite nelle convenzioni internazionali vigenti in materia. Conseguentemente, quando lo scarico in mare di liquami avviene senza autorizzazione, si configura il reato di cui all’art. 21, primo comma, — già analizzato nella parte relativa all’inquinamento del mare cagionato da scarichi effettuati da terra — che è punito con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da lire 500.000 a lire 10.000.000. ANTONELLA MADEO Ricercatore di Diritto penale presso l’Università di Genova
sposizioni del d.P.R. n. 915/1982 si applicano allo smaltimento dei rifiuti indicati dall’art. 2. Cfr. G. AMENDOLA, Smaltimento di rifiuti e legge penale, Napoli, 1985. (170) Cass. pen., sez. III, ud. 15 novembre 1991, in Cass. pen., 1993, p. 926, n. 595. Essa ha affermato che l’art. 2, terzo comma, n. 1, d.P.R. n. 915/1982, nel definire i rifiuti urbani come quelli provenienti da fabbricati o da altri insediamenti civili ha inteso dare rilievo non tanto al modo o al tipo di insediamento quanto « al tipo di rifiuti caratteristici della vita di una comunità di persone »; con la conseguenza che il termine « insediamento », piuttosto che aver il significato di insediamento in un luogo, ha riguardo a qualsiasi stabile comunità di persone, indipendentemente da una fissa dimora in un dato territorio, e in questa accezione è in grado di ricomprendere anche la comunità viaggiante. Nella specie, pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che i rifiuti provenienti da nave all’ancora nel porto sono rifiuti urbani soggetti alla disciplina di cui al d.P.R. n. 91/1982 (in particolare al divieto di cui all’art. 9 nonché all’applicabilità dell’illecito amministrativo di cui all’art. 24 in caso di loro smaltimento nelle acque portuali anziché negli impianti di trattamento e raccolta dei rifiuti). (171) L’art. 21, ultimo comma, così recita: « Chiunque apra o comunque effettui scarichi civili e delle pubbliche fognature servite o meno da impianti pubblici di depurazione nelle acque indicate dall’art. 1, sul suolo o nel sottosuolo senza aver richiesto l’autorizzazione di cui al tredicesimo comma dell’art. 15, ovvero continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che la citata autorizzazione sia stata negata o revocata, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 10.000.000 a lire 100.000.000 ». Si tratta di un comma aggiunto dall’art. 6, secondo comma l. n. 172/1995. (172) Per un approfondimento. vedi P. GIAMPIETRO, Scarichi idrici e rifiuti solidi. Il regime dei liquami e dei fanghi tra legge Merli e d.P.R. n. 915/1982, Milano, 1984, p. 15 ss.
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
I CORTE DI CASSAZIONE — Sez. I — 18 dicembre 1996 (dep. 3 febbraio 1997) Pres. Carlucci — Est. Schiavotti — P.M. Esposito (parz. diff.) Di Stefano e altri, ric. Udienza preliminare — Restituzione degli atti al P.M. per la modifica dell’imputazione in senso più favorevole all’imputato — Abnormità del provvedimento (c.p.p. artt. 178, 423). È abnorme, perché del tutto estraneo alla logica del sistema processuale — che prevede l’irretrattabilità dell’azione penale — il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare dispone la trasmissione degli atti al P.M — il quale aveva chiesto il rinvio a giudizio in relazione all’imputazione di omicidio aggravato dalla premeditazione — per la riformulazione dell’imputazione con l’esclusione della circostanza aggravante (1).
II CORTE DI ASSISE DI APPELLO TORINO, 29 maggio 1996 Pres. Serianni — Rel. Ruffino P.M. Ianni (diff.) — Di Stefano, imputato Udienza preliminare — Contestazione di circostanza aggravante — Insussistenza Trasmissione degli atti al P.M. per l’esclusione di circostanza contestata — Legittimità (c.p.p. artt. 423, 521, comma 2). L’applicazione analogica dell’art. 521, comma 2, c.p.p. ovvero un’interpretazione estensiva dell’art. 423 c.p.p. consentono al G.I.P. di trasmettere — anche in sede di udienza preliminare — gli atti al P.M. affinché quest’ultimo precisi o modifichi il fatto enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio. Non è dunque abnorme la richiesta di esclusione di circostanza aggravante contestata, trattandosi pur sempre di attività diretta a soddisfare l’esigenza della « costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti » e come tale rientrante nei poteri del G.I.P. (2).
— 645 — I (Omissis). — il P.G. della Repubblica di Torino ha dedotto, con un primo motivo, la nullità delle sentenze di Io e di IIo grado, perché derivata dalla nullità dell’atto con il quale il P.M. riformulava l’imputazione, ritrattando l’aggravante della premeditazione già contestata, astrattamente comportante la pena dell’ergastolo per il reato configurato. Ad avviso del deducente, il G.U.P. non aveva il potere di sollecitare l’organo di pubblica accusa alla rinuncia dell’aggravante già ritualmente introdotta, né lo stesso P.M. poteva fare adesione in tal senso, nulla prevedendo la legge al riguardo, essendo difatti, la modificazione consentita, ai sensi dell’art. 423 c.p.p., solo a mezzo di contestazione di fatto diverso, o di reato connesso o di circostanza aggravante, e cioè in senso aggiuntivo alla rubrica indicata nella richiesta di rinvio a giudizio, e non nel senso contrapposto di ablazione di circostanza enunciata, che si tradurrebbe, difatti, in violazione del principio di irretrattabilità dell’azione penale ed in una sorta di archiviazione, abnorme nel contenuto e nella forma. Secondo il ricorrente neppure la citata sentenza n. 88 del 1994 Corte Cost. giustificherebbe l’operato del G.U.P. e del P. M., trattandosi comunque di pronuncia interpretativa di rigetto, e perché in successiva ordinanza (la n. 204 del 26 maggio 1994) la stessa Corte ha ribadito che « la preclusione al sindacato da parte del G.U.P. sulla esattezza dell’imputazione (sub specie della qualificazione giuridica del fatto e delle circostanze del reato) formulata dal P. M. ai fini dell’ammissione del giudizio abbreviato, non è in contrasto con alcuno dei parametri costituzionali oggi invocati ». Ad ulteriore sostegno della censura introdotta, ha rilevato il ricorrente P.G. che, seppure formalmente riconducibile ad atto autonono, sia pure sollecitato, dal P.M., l’esclusione dell’aggravante della premeditazione è stata, in effetti, conseguenza di decisione del G.U.P., come desumibile dal difetto di propria motivazione giustificativa, sostituita dall’implicita accettazione di quella posta dallo stesso giudice a fondamento della « sollecitazione » in argomento, formulata a seguito dell’espletamento della seconda perizia psichiatrica, la cui avvertita necessità avrebbe dovuto essere considerata comunque preclusiva dell’accoglibilità della già avanzata richiesta di giudizio abbreviato, di per sé soggetta a valutazione di decidibilità del processo allo stato degli atti, non compatibile con il compimento, ritenuto indispensabile, di ulteriori atti di indagine. Con altro motivo, il ricorrente ha sostenuto la nullità dell’intero procedimento, anche supponendo la legittimità della esclusione dell’aggravante, che era comunque doveroso contestare alla stregua delle risultanze di fatto al momento esistenti, di guisa che eventuale omissione avrebbe concretato — al pari della effettiva e successiva revoca della contestazione legittimamente effettuata — nullità ai sensi degli artt. 178, lett. b) e 179 c.p.p., rilevabile d’ufficio, ed invece disconosciuta dal Giudice sotto il profilo della disapplicabilità dell’art. 521 c.p.p., laddove la riscontrata (o riscontrabile) violazione avrebbe dovuto essere rilevata sotto l’angolo visuale della disposizione portata dal numero 4 dell’art. 604 dello stesso codice. (Omissis). MOTIVI DELLA DECISIONE. — Tutto ciò premesso, reputa questa Corte di Cassazione che i ricorsi del P.G. di Torino e delle parti civili summenzionate siano fondati.
— 646 — Come emerge chiaramente dalle esposizioni che precedono, questione centrale posta all’esame della Corte — e già decisa dal giudice dell’appello nei termini noti, poi censurati dai ricorrenti accusatori — è se rientri nei poteri del giudice dell’udienza preliminare interferire nell’esercizio dell’azione penale, disponendo la trasmissione degli atti al P.M., che abbia già fatto richiesta di rinvio a giudizio, provvista dei requisiti formali di cui all’art. 417 c.p.p. (fra cui l’ovvia enunciazione del fatto), al fine di « sollecitarlo » — indipendentemente dalla esatta definizione giuridica della iniziativa — alla modificazione dell’imputazione, in modo da assicurarne la corrispondenza al fatto accertato secondo la valutazione dello stesso Giudice, dal che consegue la questione ulteriore se ed in quali limiti il P.M. possa o debba accogliere l’invito, così rivoltogli. Il problema, com’è chiaro, non presenta implicazioni particolari quando l’iniziativa del G.U.P. si collochi comunque nell’area delle facoltà (che sono, poi, espressioni di corrispondenti doveri) normativamente riconosciute al P.M. per l’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 423 c.p.p., e che prevedono doverosa attività correttiva o integrativa della già esercitata promozione penale, per le specifiche ipotesi di emergente diversità del fatto dalla descrizione precedentemente datane nella richiesta di rinvio a giudizio, di emergente reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b), di emergente circostanza aggravante, di emergente fatto nuovo, non enunciato in detta richiesta, per il quale si debba procedere d’ufficio. Sono, tutte, ipotesi di modificazione dell’imputazione, in senso precisativo e correttivo (la prima), ovvero accrescitivo o aggiuntivo (le altre), ovviamente soggette a contestazione formale nei confronti dell’imputato, cui viene mossa accusa diversa o più ampia, che postula corrispondente possibilità di difesa. In tali casi, stante la doverosità delle iniziative poste a carico della pubblica accusa, l’eventuale sollecitazione del G.U.P. per la loro attivazione non lede principi positivi, né prerogative esclusive del P.M., ed anzi si configura come utile forma adiuvante, derivante da un generale controllo giurisdizionale sulla legalità dell’operato dell’ufficio di Procura; ed in tal senso l’interpretazione dello stesso art. 423 contenuta nella ricordata sentenza n. 88 del 1994 della Corte Costituzionale, ancorché riguardante ipotesi di diversità del fatto, ha apportato criterio additivo in tema di concreto svolgimento dei poteri-doveri previsti dalla norma, di cui ha migliorato la pratica attuazione, collocandosi comunque in alveo legalmente precostituito, ed accentuandone indirizzo e finalità. Si intende che, nei casi considerati, l’eventuale renitenza del P.M., alla prospettata o prospettabile modificazione, lascerebbe intatto l’obbligo del G.U.P. di deliberare sulla impugnazione già formulata, con i provvedimenti conclusivi del giudizio preliminare (art. 425 e art. 429 c.p.p.), non essendo altrimenti coercibile o censurabile, nella stessa sede processuale, l’esclusivo potere spettante alla pubblica accusa in merito all’esercizio dell’azione penale ed alle connesse modalità. Considerazioni difformi vanno fatte in ipotesi di richiesta o sollecitata, dal G.U.P., riduzione della imputazione, con esclusione o revoca o ablazione di circostanza aggravante già ritualmente introdotta con la iniziale richiesta di rinvio o con il mezzo suppletivo ex art. 423 precitato (nella fattispecie concreta, con tale mezzo). Oltreché carente di espresso fondamento normativo, il che è cosa incontroversa, la prospettata riducibilità collide insuperabilmente con principi sistematici, ed innanzitutto con il principio indeclinabile della irretrattabilità, o irrevocabilità
— 647 — dell’azione penale (art. 50, n. 3, c.p.p.), che non soltanto vincola il P.M. al mantenimento di accusa ritualmente contestata, senza possibilità di regresso (o di sospensione o di interruzione della azione penale, se non nei casi espressamente previsti), ma obbliga il G.U.P. a statuire correlativamente con i provvedimenti terminali del giudizio cui è preposto, senza possibilità di sindacare la fondatezza di eventuali elementi circostanziali aggravanti, essendo questa, come si sa, funzione valutativa riservata al solo giudice del dibattimento. Il G.U.P. del Tribunale di Verbania e, poi, la Corte di Assise di Appello di Torino hanno creduto di diversamente opinare, nei termini ricordati nella precedente parte narrativa della presente sentenza, soprattutto facendo leva sulla precitata sentenza della Corte Costituzionale, vista come incondizionatamente ammissiva della facoltà del G.U.P. di segnalare al P.M. ogni scostamento del fatto imputato da quello — diverso — emergente dagli atti compiuti, e di ottenere la correlativa mutatio libelli; nel che si ricomprenderebbe anche l’ipotesi di mutata situazione di fatto, già posta a fondamento di ascritta circostanza aggravante, che non troverebbe più sostegno materiale, restando caducata e perciò amputabile dal resto dell’imputazione. Ma non sembra che la Corte Costituzionale abbia voluto dire ciò che è stato inteso dai due giudici ordinari: giacché, anche a prescindere dalla natura della pronuncia, che è interpretativa di rigetto, con ogni conseguente delimitazione anche in punto di vincolatività per altri interpreti, sembra palese che ove fosse stato ravvisato reale conflitto tra la soluzione prescelta — nell’ampia portata poi ritenuta dal G.U.P. di Verbania e dalla Corte torinese — ed i principi processuali surricordati, da sempre presenti nel patrimonio della scienza processuale penale, mezzo acconcio sarebbe stato sentenza avulsiva della disciplina ordinaria esistente e confliggente, con dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme coinvolte; rilievo, questo, tanto più suadente, in quanto in altre pronunzie a monte ed a valle della sentenza n. 88 del 1994, di cui si parla, la stessa Corte Costituzionale ha opinato in modo coincidente con il pensiero che qui si va esponendo, riaffermando l’ortodossia costituzionale degli artt. 438, 439, 440 c.p.p., nella parte in cui non consentono al G.U.P. di sindacare l’imputazione formulata dal P.M. escludendo circostanze aggravanti o comunque diversamente qualificando il fatto-reato ai fini dell’ammissione al giudizio abbreviato di imputato cui sia stato contestato un reato astrattamente punibile con la pena dell’ergastolo (sentenza n. 305 del 7 luglio 1993); concetto ribadito nell’ordinanza n. 204 in data 26 maggio 1994 (dunque, temporalmente posteriore alla suindicata sentenza n. 88 del 7-15 marzo 1994), con la quale era dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24, 25 Cost., ivi osservandosi l’inconsistenza dei dubbi prospettati in ordine alla legittimità del divieto di sindacato da parte del G.U.P. sulla sostanza dell’imputazione, e perciò anche sul merito di contestate aggravanti che ostacolino l’accesso al rito abbreviato. Si noti, ancora, la stretta aderenza di tali decisioni, e dei relativi supporti motivazionali, alla materia assolutamente rilevante nel presente processo, appunto concernente la quaestio della escludibilità da parte del G.U.P. (direttamente o per la via indiretta di sollecitata, o disposta, iniziativa in tal senso del P.M.) di circostanza aggravante già legittimamente contestata. Si aggiunga che, letteralmente, con la sentenza n. 88 del 1994 è stato ritenuto
— 648 — non precluso al giudice per le indagini preliminari il potere di ordinare la trasmissione degli atti al P.M. affinché descriva diversamente il fatto contestato (cfr. punto n. 8 della decisione), l’assunto si collega alla considerazione, di cui al precedente punto n. 7, per cui nulla, nella lettera e nello spirito della disciplina vigente, oggetto dello scrutinio di costituzionalità, vieta che alle modifiche dell’imputazione ritenute opportune il pubblico ministero possa essere sollecitato mediante un provvedimento del giudice il quale, ravvisando l’emergere di fatti diversi da quelli contestati, lo inviti espressamente a tali adempimenti. È corretto escludere, pertanto, che alla pronuncia di cui trattasi possa essere attribuita valenza e portata più ampia di quella effettiva, ristretta alla sola ipotesi di emergente diversità del fatto-reato da quella enunciata nel capo di imputazione, e cioè ad ipotesi espressamente contemplata nell’art. 423, n. 1, c.p.p., per la quale si è reputato legittimo l’intervento sollecitatorio del giudice, perché immanente nella disposizione e che si pone in funzione evidentemente accessoria ed agevolativa del corrispondente potere-dovere spettante al P.M. È da escludere, ancora, che pronuncia così connotata abbia posto nel nulla la disciplina vigente per l’altra ipotesi (non contemplata, ripetesi, nello stesso art. 423 o in diversa disposizione riguardante l’udienza preliminare) di prospettata revocabilità di circostanza aggravante ritualmente contestata, per la quale permane l’ostacolo della irretrattabilità dell’azione penale, che non può ritenersi superato dalla predetta decisione della Corte Costituzionale. D’altronde, sarebbe erroneo — attesa la chiara distinzione, non soltanto letterale, tra le ipotesi di modificazione dell’imputazione, previste nello stesso art. 423, cui si riallacciano, per la fase dibattimentale le similmente articolate disposizioni ex art. 516 e 517 del Codice di rito, includere genericamente la quaestio della contestazione e, specularmente, della esclusione di circostanza aggravante (ove già contestata) nel paradigma della emergente diversità del fatto, agevolmente correggibile per iniziativa del P.M., che attiene specificamente a variazione degli elementi costitutivi-essenziali del fatto-reato, per la quale non può operare il divieto di cui all’art. 50, n. 3, c.p.p., proprio perché una diversa descrizione dello stesso fatto è autorizzato da norma espressa; mentre la circostanza aggravante concerne soltanto elemento aggiuntivo della fattispecie-base ed è soggetta ad apposita regola di contestabilità a carico, che non prevede escludibilità e revoca a favore dell’imputato e che non può essere confusa per quanto detto, con la separata norma propriamente concernente la diversità del fatto, ipotesi a sé stante. Tanto consente di affrontare l’ulteriore argomento, avanzato dalla Corte torinese ..., per negare che nella fattispecie siasi comunque avuta violazione del principio della irretrattabilità dell’azione penale, principio che, secondo il giudice, riguarderebbe soltanto la necessità che sulla proposta azione penale intervenga pronuncia giudiziale, senza incidere nella perdurante modificabilità dell’imputazione, che sarebbe estensibile — per l’esigenza di costante raccordo tra incolpazione e risultanze probatorie — a variazioni favorevoli all’imputato anche in punto di revoca di circostanze aggravanti. L’assunto, orbene, è censurabile sotto un duplice aspetto; perché perpetua la confusione tra il concetto di emersa diversità del fatto (riguardabile, come detto, in relazione agli elementi costitutivi della condotta e dell’evento, necessari per la configurazione essenziale del fatto-reato) ed il profilo attinente al problema della sussistenza di circostanze aggravanti, che sono accidentalia delicti e ne graduano
— 649 — la gravità, senza assumere la qualità di elementi strutturali della fattispecie incriminata; e perché finisce con il circoscrivere incongruamente l’irrevocabilità dell’azione penale al solo fatto-base, escludendone le appostazioni circostanziali eventualmente presenti e contestate, così introducendo una sorta di frazionabilità, riguardo al divieto in discorso, all’interno della medesima imputazione unitaria, che riflette invece nella sua intierezza l’esercizio concreto di detta azione, per ogni aspetto penalmente rilevante, essendo essa egualmente devoluta alla cognizione, pure inscindibile, del giudice, anche se scomponibile in statuizioni concrete di vario tenore. Per le ragioni sin qui esposte, ritiene questa Corte di legittimità che a torto il G.U.P. del Tribunale di Verbania dapprima, e la Corte di Assise di Appello poi, abbiano richiamato a fondamento delle rispettive decisioni la summenzionata sentenza n. 88 del 1994 della Corte Cost., intendendola quale utile strumento interpretativo per il superamento dei divieti procedurali di cui sopra, ed in particolare per la creduta revocabilità di circostanza aggravante già contestata. Sorge, allora, il problema della qualificazione dell’ordinanza in data 16 novembre 1994 del predetto G.U.P., con la quale si disponeva la trasmissione degli atti al P.M. per la riformulazione della imputazione con esclusione dell’aggravante della premeditazione, e della susseguente richiesta (rinnovata) di rinvio a giudizio presentata dall’organo della pubblica accusa, in pedissequo accoglimento della richiesta, o sollecitazione, del giudice, con implicita accettazione della relativa motivazione, in difetto di altra propria. Si tratta senza dubbio, per quanto superiormente considerato, di atti definibili e qualificabili come abnormi, perché del tutto estranei alla logica del sistema e non soltanto violatori di norme positive, ponendosi essi, difatti, in direzione divergente dalle regole scritte e dall’iter formale e sostanziale da queste tracciate. La conseguente nullità, in ordine generale ed assoluto, è agevolmente riconducibile a quella prevista nell’art. 178 lett. c) c.p.p., concernente l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. Da ciò deriva che deve essere annullata la predetta ordinanza del G.U.P., ed uguale sorte tocca, per dipendente invalidità ai sensi dell’art. 185 dello stesso codice, alle consecutive sentenze, nella data del 14 dicembre 1994 del medesimo G.U.P., ed in data 29 maggio 1996 della Corte di Assise di Appello di Torino. Quanto detto esime dall’esame dell’altro, alternativo profilo di nullità assoluta rappresentato dal ricorrente P.G. sulla base di omessa contestazione dell’aggravante della premeditazione (in ipotesi di ritenuta ritualità della revoca della medesima circostanza) da parte del P.M. procedente. Senza necessità di vaglio approfondito dalla deduzione, è sufficiente il rinvio alle precedenti motivazioni, con la quale si è accertata la sussistenza della nullità quale effetto dell’abnormità della non consentita ritrattazione dell’aggravante in discorso. L’annullamento cui devesi procedere, e nel quale resta ovviamente assorbito il ricorso dell’imputato, deve essere disposto senza rinvio, stante la necessità di ripristinare lo svolgimento dell’udienza preliminare, a partire dal momento anteriore alla pronuncia della precitata ordinanza del G.U.P. Gli atti, di conseguenza, debbono essere trasmessi allo stesso G.U.P. per gli adempimenti di competenza in ordine alla introdotta richiesta di rinvio a giudizio per reato di omicidio, commesso con premeditazione. (Omissis).
— 650 — II (Omissis). — il P.M. richiedeva in data 18 maggio 1994 il rinvio a giudizio (del Di Stefano) per rispondere del reato di omicidio volontario (non aggravato). All’udienza preliminare del 23 giugno 1994 aveva luogo la costituzione di parte civile di alcuni congiunti della vittima (Zucchi Anna Bice, Puppieni Maria Luisa, Puppieni Giuliana, Cottini Gian Luca), i quali instavano affinché venisse contestato il reato di omicidio premeditato, mentre l’imputato chiedeva — con il consenso del P.M. — che si procedesse a giudizio abbreviato, previa rinnovazione della perizia psichiatrica circa la di lui imputabilità. Il G.I.P. accoglieva la richiesta delle parti civili e disponeva la trasmissione degli atti al P.M. affinché quest’ultimo riformulasse l’accusa con l’aggravante della premeditazione. In data 29 giugno 1994 il P.M. chiedeva nuovamente il rinvio a giudizio dell’imputato per rispondervi del reato di omicidio premeditato. Alla successiva udienza preliminare del 15 luglio 1994 il Di Stefano dichiarava che, entrato nella legnaia dell’abitazione della cognata « per fare pipì », aveva visto un bastone, l’aveva preso e si era recato con esso nel garage al fine di « danneggiare il Mercedes che tenevano come un simbolo »; in quel momento era però sopraggiunta in auto Puppieni Adriana la quale si era accorta che vi era qualcuno nel garage, e lui — piangente e vergognoso — aveva tentato di scappare, né ricordava cosa fosse subito dopo accaduto. Ricordava invece di essersi gettato della neve in faccia mentre correva verso la sua autovettura e di aver buttato gli abiti sporchi in uno dei raccoglitori della spazzatura da lui solitamente usati perché vicini al suo negozio. Il G.I.P. disponeva quindi una nuova perizia psichiatrica sull’imputato, con affidamento del relativo incarico al prof. Eugenio Borgna ed al dott. Franco Martelli che giungevano però a conclusioni difformi tra loro. Nel contempo il P.M. faceva eseguire ulteriori indagini circa la provenienza del manico d’ascia usato per commettere l’omicidio: tale oggetto risultava essere stato venduto dalla ditta Buetto di Pallanza dove il Di Stefano era solito acquistare materiale idraulico (Buetto Adriana affermava infatti di essere stata lei a scrivervi sopra il prezzo di L. 7000), ma non trovava conferma l’ipotesi che il relativo acquisto fosse avvenuto nel febbraio 1994. A seguito delle emergenze processuali, il G.I.P. ordinava in data 16 novembre 1994 la trasmissione degli atti al P.M. affinché l’imputazione venisse nuovamente modificata con l’esclusione dell’aggravante della premeditazione. Il P.M. provvedeva in conformità e consentiva pure al giudizio abbreviato richiesto dall’imputato, mentre le parti civili vi si opponevano contestando altresì la legittimità dell’esclusione della predetta aggravante perché avvenuta in forza di un provvedimento abnorme del G.I.P. e costituente una non consentita ritrattazione della azione penale. Con sentenza pronunciata il 14 dicembre 1994 a seguito di giudizio abbreviato, il G.I.P. presso il Tribunale di Verbania dichiarava infine l’imputato Di Stefano colpevole del reato di omicidio volontario e, con la concessione della diminuente del vizio parziale di mente nonché delle attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni otto di reclusione (con la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici), oltre al generico risarcimento dei danni ed al rimborso delle spese processuali in favore delle costituite parti civili, con assegnazione a queste ultime di provvisionali.
— 651 — Avverso la citata sentenza è stato proposto tempestivo appello da parte del Procuratore Generale della Repubblica di Torino (in data 3 marzo 1995), dei difensori delle parti civili (in data 29 marzo 1995) e dei difensori dell’imputato (in data 13 marzo 1995). Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi la nullità dell’impugnata sentenza e disporsi il rinvio a giudizio dello imputato davanti alla Corte d’Assise di Novara per rispondervi del reato previsto dagli artt. 575-577, n. 3, c.p. Ha osservato in proposito il Procuratore Generale che il G.I.P., a fronte della richiesta di giudizio abbreviato formulata dallo imputato con il consenso del P.M. per il reato di omicidio non aggravato, aveva dapprima trasmesso gli atti al P.M. affinché questi contestasse l’aggravante della premeditazione; il P.M. si era adeguato a tale richiesta ma, dopo l’espletamento di perizia psichiatrica sulla imputabilità del Di Stefano ed altri accertamenti in ordine al mezzo usato per commettere il delitto, il G.I.P. aveva nuovamente trasmesso gli atti al P.M. perché « ritornasse alla primitiva contestazione dell’omicidio non premeditato », cosa che il P.M. aveva fatto procedendosi infine al giudizio abbreviato. In presenza di una contestazione di omicidio premeditato che non consentiva l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato, il G.I.P. non avrebbe peraltro potuto « richiedere al P.M. un’ulteriore modifica della richiesta di rinvio a giudizio con « esclusione dell’aggravante, operando in tal modo una valutazione di merito circa il fatto alla luce delle conclusioni peritali, ma doveva disporre il rinvio a giudizio avanti alla Corte d’Assise affinché fosse tale giudice a valutare circa l’eventuale presenza o assenza dell’aggravante ». La condotta tenuta dal G.I.P. concretizzava pertanto « un’ipotesi di indebita interferenza circa i poteri di contestazione del P.M. e determinava la nullità « della decisione con la quale, dopo la nuova modifica dell’imputazione, operata dal P.M. su richiesta del G.U.P., venne applicato il rito abbreviato, non consentito nel caso di contestazione di reato punito con la pena dell’ergastolo ». Le parti civili hanno anch’esse chiesto annullarsi la sentenza impugnata e disporsi il rinvio a giudizio dell’imputato davanti alla Corte d’Assise di Novara per rispondervi del reato di omicidio premeditato, sostenendo sia l’abnormità della ordinanza con cui il G.I.P. aveva invitato il P.M. « a ritrattare l’azione penale in relazione ad una aggravante contestata in via suppletiva nell’udienza preliminare », sia che la modifica dell’imputazione effettuata dal P.M. mediante la esclusione della predetta aggravante era « affetta da nullità assoluta ai sensi dell’art. 179, comma 1, c.p.p. perché l’azione penale riguardo allo stesso fatto risulta in tal modo ritrattata ». Con ulteriori motivi le parti civili hanno inoltre sostenuto che il G.I.P., « avendo originariamente trasmesso gli atti al P.M. per la contestazione dell’aggravante della premeditazione, non poteva partecipare al successivo giudizio abbreviato stante l’incompatibilità prevista ex art. 34, comma 2, c.p.p. (e ciò anche alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 455 del 30 dicembre 1994) » e lamentato infine l’« incongruità » delle provvisionali loro assegnate con immotivata riduzione delle relative richieste, instando per la condanna dell’imputato « al pagamento di una congrua provvisionale ». I difensori dell’imputato hanno chiesto disporsi l’assoluzione di quest’ultimo « per aver agito in stato di transitoria incapacità totale di intendere e di volere », richiamando in proposito le argomentazioni del perito prof. Eugenio Borgna. In subordine, hanno lamentato l’eccessività della pena (determinata partendo dalla pena-base di anni 27 di reclusione, sebbene il fatto fosse privo di aggravanti,
— 652 — con vita anteatta irreprensibile e leale comportamento processuale), instando per la sua limitazione al minimo edittale. Un terzo motivo di gravame concerne infine la posizione delle parti civili — ed in particolare quella della moglie dell’imputato — con richiesta di « contenere le liquidazioni risarcitorie » a loro favore, non essendo giustificato liquidare un danno morale elevato ad un figlio « solito tiranneggiare la madre, vessandola e maltrattandola » e neppure a fratelli e sorelle non conviventi. All’odierna udienza, tenutasi in camera di consiglio nel ricorrere dell’ipotesi prevista dall’art. 443, ultimo comma c.p.p. alla presenza dell’imputato (nel frattempo scarcerato per decorrenza dei termini), il P.G., i difensori delle parti civili e quelli dell’imputato hanno svolto la discussione assumendo le conclusioni in epigrafe riportate. La Corte ha quindi riservato la pronuncia della presente sentenza. Osserva preliminarmente questa Corte che gli appelli del Procuratore Generale e delle parti civili, essendo diretti contro una sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato e senza modifica del titolo del reato da parte del giudice, non sarebbero di per sé ammissibili ex art. 443, comma 3 e 576, comma 1, c.p.p., ma che l’appello proposto dall’imputato contro la medesima sentenza ha determinato la conversione in appello delle predette impugnazioni (art. 580 c.p.p.) che erano ab origine ammissibiIi come ricorsi per cassazione sebbene diversamente qualificate dai rispettivi autori (art. 568, comma 5, c.p.p.). Esaminando dapprima l’impugnazione del Procuratore Generale, si osserva che nel vigente sistema processuale la formulazione dell’imputazione compete esclusivamente al P.M. e che la giurisprudenza è concorde nel negare che il G.I.P. possa modificare tale imputazione (cfr. Cass. Sez. I, 30 marzo 1994, in Arch. nuova proc. pen., 1994, pag. 515), principio questo ribadito pure dalla Corte Costituzionale la cui sentenza n. 305 del 7 luglio 1993 si fonda proprio sul presupposto della inesistenza di un potere del G.I.P. di mutare la qualificazione giuridica del fatto-reato (anche mediante l’esclusione di circostanze in realtà insussistenti) per affermare la legittimità della conclusione che il giudizio abbreviato è sempre precluso quando la contestazione del P.M. ha per oggetto un reato astrattamente punibile con l’ergastolo. Da parte della giurisprudenza si è però pure osservato che l’applicazione analogica dell’art. 521, comma 2, c.p.p. ovvero un’interpretazione estensiva dell’art. 423 c.p.p. consentono al G.I.P. di trasmettere — anche in sede di udienza preliminare — gli atti al P.M. affinché quest’ultimo precisi o modifichi il fatto enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio e la legittimità di tale criterio interpretativo è stata esplicitamente affermata dalla Corte Costituzionale, la cui sentenza n. 88 del 15 marzo 1994 (premesso che « dal principio generale della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, posto non solo a tutela del diritto di difesa dell’imputato ed a garanzia del contraddittorio, ma anche al fine del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio della azione penale, può desumersi che la corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ciascuna fase processuale, e quindi anche nell’udienza preliminare, come chiaramente lo stesso disposto dell’art. 423 dimostra ») ha sottolineato che « nulla... vieta che alle modifiche della imputazione ritenute opportune il P.M. possa essere sollecitato mediante un provvedimento del giudice, il quale, ravvisando l’emergere di fatti diversi da quelli contestati, lo inviti espressamente a tali adempimenti ». Lo
— 653 — stesso principio è statto successivamente ribadito dalla Corte Costituzionale con la ordinanza n. 131 del 14 aprile 1995. Il fatto che, nel caso di specie, il G.I.P. abbia esercitato due volte il predetto potere, richiedendo dapprima al P.M. di voler contestare l’aggravante della premeditazione e poi di escluderla, non consente sicuramente di considerare abnorme la seconda richiesta (come vorrebbe l’accusa pubblica e privata, che ritiene invece legittima la prima), trattandosi pur sempre di attività diretta a soddisfare l’esigenza della « costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti » e come tale rientrante nei poteri del G.I.P. secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 15 marzo 1994, la quale precisa pure che sarebbe illegittima una diversa interpretazione siccome comportante l’obbligo del giudice di operare un rinvio a giudizio « contrario alle sue convinzioni per una imputazione non riscontrabile negli atti processuali che offrono fonti di prova che di essa non possono costituire idoneo e specifico supporto ». Tutto ciò a prescindere dal fatto che da parte della S.C. si è addirittura negato essere abnorme il provvedimento con cui il G.I.P. dispone il rinvio a giudizio mutando la qualificazione giuridica del fatto rispetto a quella contestata dal P.M. (cfr. Cass. Sez. I, 13 luglio 1994, BETTINI, in Cass. pen., 1996, pag. 902). L’avvenuta modifica della imputazione da parte del P.M. toglie infine concreto rilievo alla questione in esame, dovendosi comunque escludere che il G.I.P. possa aver compiuto un atto illegittimo effettuando lui stesso quella modifica della imputazione che era necessaria per poter procedere al giudizio abbreviato od abbia « indebitamente » interferito nei poteri di contestazione del P.M. Nella loro impugnazione le parti civili hanno poi sollevato l’ulteriore e più complesso problema se il P.M. potesse lecitamente modificare l’imputazione nel senso di escludere l’aggravante della premeditazione dopo averla contestata e l’hanno negativamente risolto perché ciò sarebbe in contrasto col principio della irretrattabilità dell’accusa penale. Ritiene per contro questa Corte che non sussista il lamentato contrasto, in quanto l’azione penale è irretrattabile nel senso che — dopo averla esercitata — il P.M. non può rinunciarvi ed il procedimento deve concludersi con una pronunzia da parte del giudice, ma al P.M. compete pur sempre il potere-dovere di modificare la imputazione qualora dalla udienza preliminare (art. 423 c.p.p.) o dall’istruzione dibattimentale (art. 516 c.p.p.) il fatto risulti diverso da quello contestato e — se è vero che « la costante corrispondenza della imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ciascuna fase processuale » (Corte Cost., sentenza n. 88 del 15 marzo 1994) — non può ritenersi che tale modifica costituisca una vietata ritrattazione dell’azione penale quando va a favore dell’imputato mediante l’esclusione di fatti idonei a concretizzare un più grave reato o circostanze aggravanti, salva la facoltà del giudice di variare nuovamente in sentenza la qualificazione giuridica del fatto ex art. 521, comma 1, c.p.p. (magari anche in termini corrispondenti a quelli originariamente contestati) ovvero di provvedere a norma dell’art. 521, comma 2, c.p.p. qualora ne ricorrano i presupposti rispetto alla sopravvenuta modifica dell’imputazione. È vero che gli artt. 516 e 517 c.p.p. non prevedono esplicitamente la facoltà per il P.M. di modificare la qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’accusa e di escludere circostanze aggravanti, ma va tenuto presente che la finalità perseguita da dette norme è quella di realizzare l’economia processuale nel rispetto dei
— 654 — principi dell’appartenenza al solo P.M. del potere di esercitare l’azione penale mediante la formulazione dell’accusa in termini di fatto e della necessaria contestazione di tale accusa all’imputato affinché questi possa da essa difendersi (art. 521, comma 2, c.p.p.), mentre la modifica della qualificazione giuridica del fatto contestato e l’esclusione di aggravanti possono venire autonomamente effettuate dal giudice (art. 521, comma 1, c.p.p.), senza che dalla non necessarietà di una determinazione del P.M. in tal senso e della relativa contestazione all’imputato possa peraltro desumersi l’esistenza di un divieto per il P.M. di procedere lui stesso alla modifica dell’imputazione. Lo stesso vale per l’udienza preliminare, nella quale la iniziativa del P.M. e la contestazione all’imputato sono previste come necessarie dall’art. 423 c.p.p. quando si tratta di modificare il fatto « descritto nell’imputazione ovvero emerge un reato connesso... o una circostanza aggravante ». Va anzi osservato che la vexata quaestio dei rapporti tra P.M. e G.I.P. in sede di udienza preliminare si presenta in termini di particolare gravità proprio quando il disaccordo tra i due verte sulla qualificazione giuridica del fatto e sul ricorrere o meno di aggravanti, giacché il G.I.P. non può sicuramente far valere la sua decisione in proposito mediante una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. (nessuna sentenza del giudice penale può infatti essere limitata alle circostanze od alla qualificazione del fatto) e neppure può disporre il rinvio a giudizio modificando lui stesso l’imputazione. La legittimità costituzionale di quest’ultimo divieto è stata affermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 88 del 15 marzo 1994 per la ritenuta possibilità di superare il menzionato contrasto mediante l’intervento del P.M. a ciò sollecitato dal G.I.P., ma (a prescindere dall’irrisolta questione di quale dei due organi debba prevalere quando il loro contrasto permane) è di tutta evidenza che non avrebbe senso sollecitare il P.M. a modificare l’imputazione sì da escludere un’insussistente aggravante se ciò concretizzasse una ritrattazione della azione penale preclusa allo stesso P.M. Nel caso di aggravante comportante la pena dell’ergastolo si giungerebbe poi all’assurda conseguenza che, non essendo essa escludibile né dal G.I.P. né dal P.M., l’imputato non potrebbe giovarsi del giudizio abbreviato, ottenendo però ugualmente la riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p. quando — al termine del dibattimento — un giudice avrebbe finalmente il potere di escluderla perché erroneamente contestata, senza che la necessità di un siffatto iter processuale possa razionalmente desumersi dal principio della irretrattabilità dell’azione penale. Non pare infine pertinente il richiamo oggi fatto dall’accusa al ricorrere della nullità — assoluta ed insanabile — prevista dall’art. 178, lett. b), c.p.p nel caso di mancata contestazione di un’aggravante siccome concernente l’iniziativa del P.M. nell’esercizio dell’azione penale. Da parte della S.C. si è infatti affermato che il P.G., qualora rilevi la diversità del fatto per la mancata contestazione di un’aggravante, ha la facoltà di proporre impugnazione avverso una sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato onde ottenerne l’annullamento a motivo di tale omessa contestazione, ma il potere-dovere del giudice di appello di ordinare la trasmissione degli atti al P.M. affinché quest’ultimo provveda alla contestazione dell’aggravante si fonda sul disposto dell’art. 521, comma 2, c.p.p. (cfr. Cass. Sez. I, 13 gennaio 1994, CURCAS, in Giust. pen., 1994, III, pag. 675). Ciò significa che il giudice d’appello deve provvedere nel modo sopra indicato qualora ritenga concretamente accertato un fatto diverso da quello contestato, sia
— 655 — pure sotto il profilo della sussistenza di un’aggravante, mentre nel caso di specie l’impugnazione del P.G. neppur verte sull’effettivo ricorrere della premeditazione — che non può peraltro ritenersi provato — e la mera possibilità di procedere alla relativa contestazione da parte del P.M. non giustifica l’adozione del provvedimento previsto dall’art. 521, comma 2, c.p.p. Va aggiunto che la giurisprudenza di legittimità non è neppure univoca nel ritenere ammissibile l’annullamento della sentenza di primo grado da parte del giudice di appello nel caso di omessa contestazione di aggravanti, avendo in altro caso la S.C. affermato che — una volta formulata dal P.M. l’imputazione in modo tale da rendere configurabile un delitto punibile con pena diversa dall’ergastolo — la richiesta di giudizio abbreviato deve venir valutata dal giudice con riferimento a detta imputazione, nulla rilevando la presenza di elementi idonei a giustificare l’accusa di un più grave delitto punibile dell’ergastolo qualora essi non siano stati rilevati dal giudice o, avendoli questi rilevati e segnalati al P.M., quest’ultimo non abbia provveduto a modificare l’imputazione, donde la disposta cassazione della sentenza di appello che — su gravame del P.M. aveva disposto l’annullamento di quella di primo grado proprio a motivo della mancata contestazione della profilabile aggravante della premeditazione (cfr. Cass. Sez. I, 21 settembre 1993, in Cass. pen., 1994, pag. 3046). Atteso quindi che, nel caso di specie, la celebrazione del giudizio abbreviato è avvenuta col consenso del P.M. dopo che quest’ultimo aveva riformulato l’accusa in modo tale da escludere che il reato ascritto a Di Stefano Claudio fosse punibile con l’ergastolo e che siffatta modifica della contestazione rientrava nei poteri attribuiti dalla legge al P.M., occorre concludere che non ricorre la nullità della sentenza di primo grado denunciata dal P.G. e dalle parti civili nelle loro impugnazioni. Neppure è accoglibile l’ulteriore motivo addotto dalle parti civili circa la pretesa incompatibilità a fungere da giudice nel giudizio abbreviato del medesimo magistrato che aveva previamente disposto la trasmissione degli atti al P.M. per la contestazione della aggravante della premeditazione, in quanto siffatta causa di incompatibilità non è prevista dall’art. 34 c.p.p. (la cui illegittimità è stata dichiarata dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 496 del 26 ottobre 1990, n. 401 del 12 novembre 1991, n. 502 del 30 dicembre 1991, n. 439 del 16 dicembre 1993, n. 453 del 30 dicembre 1994 e n. 455 del 30 dicembre 1994 relativamente ad altre ipotesi implicanti l’avvenuto esercizio da parte del giudice di poteri decisori non assimilabili alla mera sollecitazione del P.M.), e comunque la incompatibilità del giudice non incide sulla validità della sentenza se non è stata fatta valere mediante ricusazione debitamente accolta (cfr. Cass. Sez. I, 18 giugno 1993, in Mass. pen. cass., 1993, fasc. 12, pag. 28). (Omissis).
——————— (1-2)
Modificazione dell’imputazione e poteri del G.U.P.
SOMMARIO: 1. Torna a dividere la giurisprudenza la vexata quaestio dei rapporti tra pubblico ministero e G.I.P. in sede di udienza preliminare. — 2. I termini del problema. — 3. Il distinguo operato dalla Corte di cassazione con riguardo alle possibili modificazioni dell’accusa: varianti sfavorevoli... — 4. ... e varianti favorevoli all’imputato. — 5. Il « fatto » nel diritto processuale penale: impossibilità di generalizzarne la nozione. In particolare il significato di « fatto » ex art. 423 c.p.p. — 6. L’am-
— 656 — bito dei poteri del giudice dell’udienza preliminare in presenza di modificazioni dell’imputazione. — 7. (Segue): Trasmissibilità degli atti dal G.U.P. al P.M.? — 8. Considerazioni conclusive.
1. La sentenza in esame è il risultato di una vicenda processuale particolarmente articolata (1) che ha dimostrato come le attuali linee interpretative della giurisprudenza, di merito e di legittimità, offrano contrastanti orientamenti per risolvere la questione se il giudice dell’udienza preliminare, nel caso in cui accerti che l’imputazione deve essere modificata in senso più favorevole per l’imputato, possa esercitare una funzione attiva, ovvero se un ruolo di tal genere debba essergli negato. La Corte d’Assise d’Appello di Torino, con un’ampia e articolata motivazione, afferma il principio di diritto secondo cui non deve ritenersi abnorme il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare, accertato che siano emersi fatti diversi da quelli contestati originariamente, dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero perché quest’ultimo modifichi o riduca l’accusa enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio. Questa linea interpretativa, che trova conferme nella giurisprudenza costituzionale (2), a parere del giudice di merito, s’imporrebbe in quanto « dal principio generale della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, posto non solo a tutela del diritto di difesa dell’imputato ed a garanzia del contraddittorio, ma anche al fine del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio della azione penale, (si desume) che la corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ciascuna fase processuale, e quindi anche nell’udienza preliminare come chiaramente lo stesso disposto dell’art. 423 c.p.p. dimostra ». Il fatto che, nel caso di specie, il G.I.P. abbia richiesto al pubblico ministero dapprima di accrescere l’accusa formulata (contestando l’aggravante della premeditazione), poi di ridurla (escludendo la circostanza in parola), non consente — sottolinea la Corte d’Appello — di considerare abnorme la seconda richiesta, « trattandosi pur sempre di attività diretta a soddisfare l’esigenza della costante corrispondenza del(1) Si riporta in sintesi la vicenda processuale su cui si è espressa la Corte di cassazione. Dopo essere stata presentata richiesta ex art. 439 c.p.p. a fronte di un’imputazione per omicidio volontario, il giudice dell’udienza preliminare, accogliendo le istanze delle costituite parti civili, disponeva la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinché quest’ultimo riformulasse l’accusa con la contestazione dell’aggravante della premeditazione. Nella successiva udienza preliminare il giudice, ritenendo l’imputazione non corrispondente al fatto accertato a seguito delle emergenze processuali, « sollecitava » nuovamente il pubblico ministero alla modifica dell’accusa, con esclusione della circostanza di cui all’art. 577, comma 1, n. 3 c.p. Il pubblico ministero provvedeva in conformità, consentendo inoltre, alla richiesta di definire il processo nell’udienza preliminare. Al termine del giudizio abbreviato, il G.I.P. — previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della diminuente del vizio parziale di mente — irrogava all’imputato una pena di anni 8 di reclusione con quella accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, ed al rimborso delle spese processuali in favore delle costituite parti civili, cui assegnava provvisionali. Nel proporre appello il Procuratore generale e le parti civili chiedevano l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio a giudizio dell’imputato davanti alla competente Corte d’Assise per rispondere del reato di omicidio aggravato dalla premeditazione. Entrambi sostenevano che, una volta contestata in udienza l’aggravante in parola, il giudice non avrebbe potuto richiedere al pubblico ministero un’ulteriore modifica dell’imputazione con revoca della circostanza di cui all’art. 577, comma 1, n. 3 c.p., trattandosi di una valutazione di merito che, in quanto tale, sarebbe riservata al giudice del dibattimento. Le parti civili, inoltre, deducevano l’abnormità dell’ordinanza con cui il giudice aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero e la nullità assoluta, ai sensi dell’art. 179, comma 1, c.p.p., dell’atto con il quale il pubblico ministero riformulava l’imputazione, ritrattando l’aggravante della premeditazione già contestata, astrattamente comportante la pena dell’ergastolo per il reato configurato. La Corte di Assise di Appello riformava la sentenza solo nella parte relativa alla determinazione della pena, confermandola nel resto. Avverso la pronuncia dei giudici di seconda istanza veniva proposto ricorso per Cassazione dallo stesso imputato, dal Procuratore generale della Repubblica presso la Colte di Appello di Torino e dalle parti civili. (2) Si tratta della sentenza n. 88 del 15 marzo 1994, in Giur. cost., 1994, p. 846.
— 657 — l’imputazione a quanto emerge dagli atti e come tale rientrante nei poteri del G.I.P. ». Di avviso completamente difforme si è mostrata, invece, la Corte di cassazione. 2. Chiamata a pronunciarsi sulla quaestio della escludibilità da parte del giudice dell’udienza preliminare — direttamente o per la via indiretta dell’iniziativa sollecitata in tal senso del pubblico ministero — di circostanza aggravante (3) già legittimamente contestata, la Corte di cassazione ha precisato che siffatto potere oltreché carente di espresso fondamento normativo, collide con principi sistematici ed innanzitutto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale. Il giudice, allora, è obbligato a deliberare sull’imputazione, così come formalmente contestata, con i provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare, essendo riservata al solo giudice del dibattimento la possibilità di sindacare la fondatezza di eventuali elementi circostanziali aggravanti. Nel caso di specie, dopo aver disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinchè quest’ultimo riformulasse l’accusa (di omicidio) con l’aggravante della premeditazione, il giudice dell’udienza preliminare, non ritenendo corretta l’individuazione della circostanza di cui all’art. 577, comma 1, n. 3, c.p., sulla base dei « nuovi » elementi acquisiti nel corso della successiva udienza, disponeva la trasmissione degli atti all’ufficio del pubblico ministero che sollecitava nuovamente alla modifica dell’imputazione, per l’esclusione della circostanza aggravante in parola. Il pubblico ministero provvedeva in conformità, consentendo, inoltre, alla richiesta di definire il processo nell’udienza preliminare. La decisione in esame, da condividere soltanto in parte, suscita qualche perplessità che dovrà essere chiarita facendo riferimento al rapporto tra modificazione dell’accusa ed accesso ai riti alternativi. Già si intravede, infatti, il nodo del problema: impedire al giudice dell’udienza preliminare di sindacare l’imputazione non conforme alle risultanze di indagine, formulata dal pubblico ministero, significa negare all’imputato la possibilità di ricorrere ai riti alternativi, in primo luogo all’applicazione della pena su richiesta (4) oppure, come nell’ipotesi in esame, al giudizio abbreviato. La Corte costituzionale (5), infatti, ha dichiarato, sotto il profilo dell’eccesso di delega, l’illegittimità dell’art. 442 c.p.p. laddove consentiva il rito in parola per reati sanzionabili con la pena perpetua. Pur non avendo chiarito se l’incompatibilità dovesse esistere tra giudizio abbreviato e reati per i quali fosse in astratto prevista la pena dell’ergastolo, ovvero rito abbreviato e reati per i quali il giudice ritenesse di dover applicare in concreto tale pena, la giurisprudenza di legittimità, come è stato anche di recente affermato (6), ritiene inammissibile il giudizio ab(3)
In generale, v., per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, p. 397; G. MA-
RINI, Circostanze del reato, in App. N. Dig. it., vol. I, 1980, p. 1254; T. PADOVANI, Circostanze del reato,
in Dig. Disc. Pen., vol. II, 1988, p. 187. (4) Si pensi al caso in cui all’originaria contestazione che, per i livelli di pena, escludeva la possibilità di patteggiamento dovesse essere sostituita una contestazione meno grave che rende il patteggiamento teoricamente possibile. (5) Cfr. Corte cost., sent. 23 aprile 1991, n. 176, in Foro it., 1991, I, c. 2318, con nota di G. TRANCHINA, Giudizio abbreviato e reati punibili con l’ergastolo, che ha dichiarato illegittimo, sotto il profilo dell’eccesso di delega, l’art. 442, comma 2, c.p.p., nella parte in cui prevede che « alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta ». Sull’argomento si veda in dottrina G. LOZZI, La non punibilità con l’ergastolo come presupposto del giudizio abbreviato, in questa Rivista, 1993, p. 376. (6) Cass., Sez. VI, 25 gennaio 1996, Campanella e altri, in Dir. pen. e processo, 1997 (3), p. 312, con nota di G. GARUTI, Il no al giudizio abbreviato quando l’imputato è da ergastolo. Nello stesso senso
— 658 — breviato quando l’imputazione enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio riguardi un reato punito, in astratto, con la pena dell’ergastolo (7). Già si è detto della stretta interconnessione fra la questione interpretativa esaminata dalla Cassazione e la possibilità per l’imputato di avvalersi dei riti alternativi (8). A tal proposito è opportuno sottolineare la pericolosità delle valutazioni, discrezionali, operate dal pubblico ministero sui risultati delle indagini preliminari e sulla formulazione del capo di accusa, se il controllo sull’imputazione risultasse inadeguato o del tutto inesistente (9), potendo queste incidere pesantemente sull’esperibilità del giudizio abbreviato e, quindi, sulla possibilità per l’imputato di beneficiare, già al termine dell’udienza preliminare, dello sconto sanzionatorio collegato a tale rito (10). Una situazione del genere non sarebbe certo in linea con la più recente giurisprudenza costituzionale, essendo stato affermato in più occasioni il principio di diritto secondo cui l’interesse dell’imputato ad ottenere l’ammissione al rito abbreviato non può essere vanificato da scelte discrezionali dell’organo di accusa (11). 3. Il ragionamento della Corte si fonda sulla differenza intercorrente tra modificazioni dell’imputazione che si risolvono in varianti sfavorevoli per l’imputato, e quelle che, seppur inerenti il fatto, risultano essere in senso favorevole per il medesimo. Alle modificazioni del primo tipo il pubblico ministero può provvedere nel corso dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 423 c.p.p. Se in tale sede il fatto risulta diverso da come descritto nell’imputazione ovvero emerge un reato connesso o una circostanza aggravante o un fatto nuovo, « il pubblico ministero modifica l’imputazione e la contesta all’imputato presente ». La Cassazione, peraltro, non esclude che a tal fine l’organo di accusa possa essere « sollecitato » dal giudice dell’udienza preliminare, sebbene la diversità del fatto aggravi la posizione dell’imputato. In questo caso l’iniziativa del G.U.P. si v. Sez. un., 6 marzo 1992, Piccillo, in Cass. pen., 1992, p. 1776, n. 923; Id., 6 marzo 1992, Merletti, in Giust. pen., 1992, III, c. 498. (7) Ulteriore è il problema relativo all’applicabilità della diminuzione di pena qualora la configurazione di un delitto astrattamente punibile con l’ergastolo risulti, al termine del giudizio, sanzionato con una pena temporanea. Sul punto v. ancora G. GARUTI, op. cit., e la dottrina ivi citata. Cfr., in proposito, le interessanti osservazioni della Corte cost., sent. 7 luglio 1993, n. 305, in Cass. pen., 1993, p. 2777, per quel che riguarda il rilievo secondo cui nel caso di « contestazione ostativa il P.M. si limita a rigore a far rilevare l’inammissibilità del rito e neppure può esprimersi sulla definibilità allo stato degli atti, così che manca un indispensabile elemento per poter addivenire alla riduzione dibattimentale ». La Corte osserva che « a fronte di una richiesta di giudizio abbreviato, il P.M., indipendentemente dalla qualificazione del fatto, è tenuto pur sempre ad esprimere il proprio punto di vista anche sulla decidibilità allo stato degli atti per consentire al giudice del dibattimento il necessario controllo in vista del possibile recupero in quella sede della richiesta ai fini della riduzione di pena. Questo non esclude che, qualora a ciò il P.M. non abbia esplicitamente provveduto, il giudice del dibattimento debba in ogni caso compiere, ora per allora, la verifica circa la decidibilità allo stato degli atti al momento dell’udienza preliminare. Ciò per darsi ingresso a quella richiesta in funzione della riduzione della pena qualora si dovesse ritenere, con un giudizio ex ante, che la contestazione fosse ab origine errata e tale quindi da consentire, allora, il rito abbreviato ». (8) V., a tal proposito, Corte cost., sent. 26 giugno 1990, n. 313, in Legisl. pen., 1990, p. 378 nella quale la Corte ha affermato che « la richiesta di applicazione di pena esprime una modalità di esercizio del diritto di difesa in quanto costituisce efficiente strumento di tale diritto la possibilità offerta all’imputato di avvalersi, con libera scelta, dell’istituto in esame e di acquisire così una pena minima sottraendosi al rischio di più gravi sanzioni ». (9) In dottrina, in senso conforme rispetto a questa interpretazione, si è osservato che una scelta così radicale rischia di attribuire al pubblico ministero — investito del compito di formulare l’imputazione e quindi di individuare la specie della pena irrogabile — il potere di incidere pesantemente sull’esperibilità del giudizio abbreviato, e, di conseguenza, sulla possibilità per l’imputato di beneficiare, già al termine dell’udienza preliminare, dello sconto sanzionatorio collegato a tale rito. Così, G. GARUTI, op. cit., p. 313. (10) In dottrina, in senso conforme, v. G. GARUTI, loc. ult. cit. (11) Corte cost., sent. 21 febbraio-9 marzo 1992, n. 92, in Legisl. pen., 1992, p. 276.
— 659 — collocherebbe nell’area delle facoltà (che sono poi — a parere della Corte — espressione di corrispondenti doveri), normativamente riconosciute al pubblico ministero per l’udienza preliminare ex art. 423 c.p.p. In verità la questione attinente all’ammissibilità di un qualsivoglia intervento da parte del G.U.P. qualora l’imputazione dovesse essere modificata ai sensi dell’art. 423 c.p.p. e il pubblico ministero non vi provvedesse, è stata ampiamente dibattuta in dottrina. Nel silenzio del legisiatore sul punto si è discusso se il giudice sia comunque vincolato al fatto così come rubricato dall’organo di accusa oppure possa ordinare la trasmissione degli atti al P.M. al fine di « sollecitarlo » alla modificazione dell’imputazione, in modo da assicurarne la corrispondenza al fatto accertato in udienza (12). Che al giudice dell’udienza preliminare sia accordato siffatto potere, sembra ora pacifico, avendo accolto la Cassazione, che in precedenza si era mostrata titubante (13), l’orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 1994 (14). Stante la doverosità delle iniziative poste a carico del pubblico ministero ex art. 423 c.p.p., la Suprema Corte, nella sentenza in commento, in conformità all’interpretazione che i giudici costituzionali hanno dato all’art. 423 c.p.p., ha rite(12) In dottrina, a favore della seconda opzione, v. C. CESARI, Modifica dell’imputazione e poteri del giudice dell’udienza preliminare, in questa Rivista, 1994, p. 302; A. FERRARO, Il giudice dell’udienza preliminare, in Cass. pen., 1989, p. 1139; G. FRIGO, sub art. 423 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale a cura di M. Chiavario, vol. IV, Torino, 1990, p. 653; D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, p. 255. (13) Per l’affermazione che non rientra nei poteri del giudice dell’udienza preliminare rimettere gli atti del procedimento in corso al pubblico ministero, dovendo l’imputazione essere integrata o modificata in udienza a norma dell’art. 423 c.p.p., v. Cass., Sez. V, 4 dicembre 1996, Mieli, in C.E.D., n. 206635; Sez II, 9 gennaio 1996, Lanzo, in C.E.D., n. 204029; Sez. V, 2 dicembre 1994, Mancinelli, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 95; Sez V, 22 novembre 1994, Carbone, in Cass. pen., 1995, p. 904, n. 521; Sez. V, 25 febbraio 1994, Barbieri, ivi, 1995, p. 3046, n. 1796; Sez. IV, 20 agosto 1992, Rivellini, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 143; Sez VI, 26 febbraio 1992, Pellegrino, in questa Rivista, 1994, p. 292; Sez VI, 5 maggio 1991, Nichele, in Giur. it., 1992, II, c. 706. V., ancora, Cass., Sez. V, 12 dicembre 1991, Cavuoti, in Giust. pen., 1992, III, n. 138, c. 311, secondo cui il difetto nella richiesta di rinvio a giudizio, di taluno dei requisiti previsti dall’art. 417 c.p.p., non determina alcuna nullità neppure di carattere generale, mentre è abnorme l’ordinanza che tale nullità dichiari. In senso contrario, G.I.P. Trib. Teramo, 14 marzo 1991, Curzi, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 431. (14) Corte cost., sent. 15 marzo 1994, n. 88, cit., con la quale i giudici della Consulta hanno dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 424 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 97 e 112 Cost., sul presupposto che al giudice non sia consentito di sollecitare il P.M. ad apportare adeguate modifiche, in fatto, al capo di imputazione. La Corte, tenuto conto, infatti, della necessità di correlare l’imputazione alle diverse emergenze che possono scaturire dall’udienza, al fine di assicurare il pieno rispetto del diritto di difesa, ha ritenuto che, ravvisando fatti diversi da quelli contestati, il giudice possa sollecitare il P.M. alle modifiche dell’imputazione considerate opportune. Preme far notare che, trattandosi di una pronuncia interpretativa di rigetto, il decisum, come ha rilevato la Corte nella sentenza in esame, non è munito dell’efficacia erga omnes propria delle sentenze con le quali viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge. Inevitabile, dunque, ogni conseguente delimitazione in punto di vincolatività per altri interpreti. Per ulteriori e più ampie considerazioni attorno a questa tematica cfr., in dottrina, V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1984, p. 396; L. ELIA, Sentenze interpretative di norme costituzionali e vincolo dei giudici, in Giur. cost., 1966, p. 1715 ss.; A. PIZZORUSSO, La motivazione delle sentenze della Corte costituzionale: comandi o consigli?, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963, p. 345 ss.; A. SANDULLI, Il giudizio sulle leggi, Milano, 1967, p. 54; G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Il Mulino, 1988, p. 293 ss. In giurisprudenza, nel senso dell’efficacia preclusiva della decisione di rigetto soltanto nei confronti del giudice a quo e degli altri giudici eventualmente aditi in ulteriori gradi dello stesso giudizio, v. Cass., Sez. un., 13 dicembre 1995, in Foro it., 1996, II, c. 343; Id., Sez. I civ., 21 luglio 1995, n. 7950, in Foro it., 1995, I, p. 3409, Id., Sez. I civ., 25 ottobre 1986, n. 6260, in Giust. civ., 1986, 3045. Su questo tema si è espressa anche la Corte costituzionale, ritenendo che « è precluso allo stesso giudice a quo sollevare questione di (legittimità) identica a quella dichiarata infondata nel corso del medesimo giudizio e ciò anche quando, avendo la precedente pronuncia natura interpretativa, la riproposizione della questione muova proprio dalla interpretazione esclusa dalla Corte » (Corte cost., ord. 25 maggio 1990, n. 268, in Giur. cost., 1990, p. 1599).
— 660 — nuto che l’eventuale sollecitazione del G.U.P., per la loro attivazione, non lede principi positivi, in quanto « immanente nella disposizione », ed anzi si configura come « un’utile forma adiuvante che deriva da un generale controllo giurisdizionale sulla legalità dell’operato dell’ufficio di procura » (15). Una tale affermazione non può che trovarci concordi soprattutto se si pensa che l’errata « circostanziazione » del reato non è rimediabile se non ricorrendo alla contestazione suppletiva. Diverso è il caso del fatto nuovo o del reato connesso che può avere soluzioni differenti con il ricorso a procedimenti separati e l’eventuale riconduzione ad unità di pena mediante lo strumento fornito col nuovo rito dall’art. 671 c.p.p. Di fronte all’inerzia del pubblico ministero ovvero in presenza di una diversità di vedute il giudice sarà comunque obbligato a deliberare sull’imputazione già formulata con i provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare (16), spettando esclusivamente al P.M., titolare dell’esercizio dell’azione penale, la scelta tra il procedere separatamente o avvalersi della facoltà di cui all’art 423 c.p.p. (17). Non è infatti attribuito al giudice il compito di definire l’imputazione (18), (né di imporre al P.M. la formulazione di un nuovo o diverso addebito rispetto a quello per il quale l’organo di accusa abbia formulato richiesta di rinvio a giudizio), anche se nell’ordinamento processuale penale esistono alcune ipotesi in cui al giudice per le indagini preliminari o dell’udienza preliminare è accordata la possibilità di valutare l’imputazione e, in caso di discordanza tra questa e le emergenze materiali, il medesimo può correggere e modificare la prima. Si pensi all’ipotesi delineata dall’art. 409 c.p.p., realizzazione del valore, di rango costituzionale, del corretto esercizio dell’azione penale (19). Soltanto al giudice del dibattimento, in sede di sentenza di merito, non è precluso un sindacato in ordine alla ricostruzione ed alla qualificazione del fatto-reato. A tal proposito, si segnala, però, un recente, condivisibile, indirizzo giurisprudenziale recisamente contrario alla legittimità di un divieto per il G.I.P., nel corso (15) In dottrina, nel senso di ritenere praticabile la soluzione dell’applicazione analogica, in udienza preliminare, dell’art. 521, comma 2, c.p.p., v. supra nt. 4, non mancando, peraltro, taluno di aderire alla tesi dell’inammissibilità della richiesta di rinvio a giudizio fondata su una imputazione errata (cfr. D. BELLI, Natura e funzione dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 1991, III, c. 262). (16) L’art. 424 c.p.p. costituisce, infatti, un ostacolo insormontabile, escludendo la disposizione in parola la possibilità per il G.U.P. di emanare qualsivoglia provvedimento che non sia un decreto di rinvio a giudizio o una sentenza di non luogo a procedere. (17) È chiaro che un rilievo di tal genere potrà valere solo nel caso di fatto nuovo o di reato connesso, non sussistendo, invece, possibilità di procedere separatamente né per le circostanze aggravanti, né per le diverse connotazioni del fatto. Sotto il vigore del codice Rocco, in dottrina e in giurisprudenza si sottolineava la necessità per il pubblico ministero, che non condividesse l’avviso espresso dal giudice, di sollevare conflitto di competenza ai sensi dell’art. 51 c.p.p. abr., qualora il contrasto manifestatosi tra i due organi giudiziari impedisse la prosecuzione del procedimento e non fosse eliminabile con i mezzi ordinari di procedura. Su questa problematica v. Sez. I, 24 maggio 1989, Gulizzi, in Cass. pen., 1990, p. 1767 e, in dottrina, F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1985, p. 317; BUTTARELLI, Conflitto di competenza e « caso analogo », in Cass. pen., 1989, p. 2036 ss. (18) Si tratta di un compito che il legislatore ha affidato al pubblico ministero, a pena di nullità, trattandosi di una sua iniziativa nell’esercizio dell’azione penale (art. 179, comma 1, c.p.p.). Del resto, non potrebbe essere diversamente in un sistema a sfondo accusatorio. Cfr., in proposito, G. CONSO, voce Accusa e sistema accusatorio, in Enc. dir., vol. I, 1958, p. 339, il quale osserva che « Restano come possibili legittimati alla formulazione dell’accusa il soggetto che promuove l’azione penale... e il giudice... Più esattamente, nei procedimenti a sfondo accusatorio la formulerà il P.M.; nei procedimenti a sfondo inquisitorio il giudice ». (19) Così E. FASSONE, Giudice-arbitro, giudice-notaio, o semplicemente giudice?, in Quest. giust., 1987, p. 593, il quale osserva che « il principio che viene a stagliarsi sullo sfondo è nitido: il pubblico ministero può chiedere quello che vuole, ma deve chiederlo ad un giudice che ha la potestà di dirgli di no, ed anche la facoltà di supplire alla sua inerzia ».
— 661 — dell’udienza preliminare (e non solo) (20), di dare ai fatti una definizione giuridica che non sia quella già attribuita loro dal pubblico ministero. Espressione di questo orientamento è la sentenza della Corte di cassazione, pronunciata a sezioni unite, del 19 giugno 1996, nella quale si è rilevato come il legislatore nell’art. 521, comma 1, c.p.p. abbia codificato un potere generale del giudice-terzo e non già una specifica attribuzione del giudice del dibattimento (21) in quanto siffatto potere corrisponde ad una operazione coessenziale all’esercizio della giurisdizione, non suscettibile, neppure nella fase delle indagini preliminari, di vincoli derivanti dalle richieste dell’organo di accusa. « Se dare una diversa qualificazione giuridica del fatto — hanno osservato le Sezioni unite — vuol dire accertare che la fattispecie astratta, sotto la quale deve essere ricondotta la fattispecie concreta, è altra da quella ipotizzata », ovvero significa ius dicere, non può riconoscersi che « nell’udienza preliminare debba farsi luogo all’applicazione analogica della norma dell’articolo 521 c.p.p., in quanto norma che esprime un valore che non può non essere di portata generale ». Pertanto, secondo l’autorevole fonte, modificare la qualificazione giuridica data dal pubblico ministero al fatto per cui si procede non inciderebbe sull’autonomo potere di iniziativa del P.M., rilevando quest’ultimo esclusivamente sotto il diverso profilo dell’immutabilità della formulazione del fatto inteso come accadimento materiale. 4. Rispetto all’altra ipotesi, non contemplata nello stesso art. 423 c.p.p. o in diversa disposizione riguardante l’udienza preliminare, dell’esclusione di circostanza aggravante, l’opinione della Corte pare ancora piuttosto rigida. È questo, appunto, il caso che ha dato origine alla questione risolta dalla Cassazione con la sentenza annotata. L’argomento non è nuovo in giurisprudenza e risulta che anche la Corte costituzionale (22) si è pronunciata in senso ostativo alla revocabilità di circostanza ag(20) Al G.I.P., anche in sede di applicazione della misura cautelare, ai sensi dell’art. 292 c.p.p., nonché al tribunale, in sede di riesame o di appello ai sensi degli artt. 309, 310 c.p.p., è consentito — a parere delle Sezioni unite — modificare la qualificazione giuridica data dal pubblico ministero per il fatto per cui si procede. (21) Cfr. Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco in Foro it., 1997, II, c. 78 e in Cass. pen., 1997, p. 360, n. 191; per un primo commento v. CHIARA MAINA, Sempre possibile per il G.I.P. e tribunale del riesame mutare la qualificazione giuridica del fatto in Guida al diritto, 1997, (6), p. 77, cui si fa rinvio anche per la bibliografia. In senso conforme v. Sez. IV, 4 ottobre 1996, p.g. in proc. Pianeti, in C.E.D., n. 206305; Sez. VI, 29 gennaio 1996, P.M. in proc. Verde, in C.E.D., n. 204383 e in Foro it., 1996, II, c. 209; Sez. III, 27 maggio 1993, Cavalli, in Cass. pen., 1995, p. 2228, n. 1370; Sez. I, 2 aprile 1992, ivi, 1993, p. 2351, n. 1417. V. altresì Corte cost., 15 luglio 1991, ivi, 1991, II, p. 825, n. 286. Nel senso che « solo in sede di udienza preliminare, l’art. 423 c.p.p. consente al G.I.P. di attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica rispetto a quella indicata nella richiesta del P.M. di rinvio a giudizio, mentre siffatta facoltà è preclusa nella fase delle indagini preliminari », Sez. VI, 2 febbraio 1996, Bulfaro, in C.E.D., n. 204257; Sez. I, 11 marzo 1996, Mortillaro, in C.E.D., n. 204406; Sez. II, 5 luglio 1994, Vizzini, in Cass. pen., 1995, p. 1573, n. 983. In dottrina, pressoché unanimamente accolta è la tesi secondo la quale rientra nei poteri del G.I.P., all’udienza preliminare, modificare la qualificazione giuridica del fatto enunciata nell’imputazione formulata dal pubblico ministero, v., F. CORDERO, Codice di procedura penale, sub art. 423, 1990, p. 478; G. DEAN, Qualificazione giuridica del fatto nella fase delle indagini preliminari, in Giur. it., 1990, II, c. 410; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 4a ed., Milano, 1995, p. 325, per il quale « la contraria opinione espressa in dottrina non tiene conto del fatto che, in un ordinamento fondato sul principio di legalità, il potere del giudice di definire la qualificazione giuridica del fatto non richiede previsioni specifiche »; G. SANTALUCIA, Definizione giuridica del fatto e poteri di valutazione del giudice dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 1991, III, c. 598. Contra D. MANZIONE, sub art. 424 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. IV, Torino, 1990, pp. 655-656. (22) Corte cost., sent. 7 luglio 1993, n. 305, in Giur. cost., 1993, p. 2449; ord. 26 maggio 1994, n. 204, ivi, 1994, p. 1743. La Corte nella sentenza n. 305 del 1993 ha dichiarato non fondata, in riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, 25 e 101, comma 2, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 439 e 440
— 662 — gravante, ritualmente contestata, anche se « palesemente insussistente per errore o al limite capziosamente ». Una soluzione che lascia perplessi, né la risposta offerta dai giudici di legittimità risulta adeguatamente motivata. Innanzitutto, il richiamo operato dalla Cassazione all’esclusivo potere spettante alla pubblica accusa in merito all’esercizio dell’azione penale ed alle connesse modalità non risulta pertinente, non profilandosi come alternativa una eccezione al principio del « ne procedat iudex er officio ». Nessuna violazione al suddetto principio si realizzerebbe se il pubblico ministero provvedesse, dietro sollecitazione del giudice, alle modificazioni che, riguardando la materiale consistenza dei fatti addebitati — come nel caso di specie la caduta di una circostanza aggravante — si rendano necessarie a seguito delle emergenze processuali. Del resto, non va dimenticato che una delle funzione dell’udienza preliminare è quella di realizzare una prima attuazione del diritto alla prova, mediante il ricorso alle integrazioni probatorie previste dall’art. 422 c.p.p., entro il limite ben preciso della loro manifesta decisività ai fini del rinvio a giudizio o ai fini della sentenza di non luogo a procedere (23) (pensiamo al caso in cui il difensore abbia invano richiesto al pubblico ministero di acquisire elementi probatori favorevoli all’indagato (24)). Non sembra, poi, costituire un ostacolo la cosiddetta irretrattabilità dell’azione penale; anzi il ricorso a tale principio evidenzia l’errore del giudice di legittimità rispetto all’ontologia del fatto e all’interpretazione delle norme che si riferiscono alla modificazione dell’imputazione. La ratio dell’art. 50, comma 3, c.p.p., infatti, deve essere rinvenuta nella circostanza che il processo, dopo l’impulso iniziale, procede nella serie di atti prefigurata dal modello normativo e perviene alla decisione giurisdizionale per l’attivarsi successivo di situazioni facenti capo al giudice e indipendenti dal pubblico ministero (25). Il principio in parola altro non prescrive se non la tassatività delle cause di sospensione, interruzione e conclusione del processo. In sostanza, sotto questo profilo, l’ordinamento è articolato in modo da rassicurare il cittadino che, una volta esercitata l’azione penale, sorgerà in capo al giudice un dovere decisorio. Tale organo, infatti, sarà tenuto ad emettere una pronuncia sull’accusa formalmente contestata all’imputato, non potendo il pubblico ministero ritrattare l’azione penale con formulazione di una nuova imputazione, c.p.p., (sollevata dal G.I.P. presso il Tribunale di Teramo con ordinanza emessa in data 10 maggio 1993, pubblicata nella G.U., 1a serie speciale, n. 21 del 1993), nella parte in cui non consentono al giudice dell’udienza preliminare di sindacare l’imputazione formulata dal p.m., escludendo circostanze aggravanti insussistenti e comunque diversamente qualificando il fatto-reato ai fini dell’ammissione del giudizio abbreviato richiesto dall’imputato, cui sia stato contestato un reato punibile con la pena dell’ergastolo. La Corte ha escluso detto potere dalla configurazione del G.I.P., essendo quest’ultimo preposto al controllo della legittimità della domanda del p.m. (sent. 64 del 1991), nonché alla verifica della regolarità delle fasi anteriori al dibattimento onde evitare che questo possa essere ostacolato, ritardato, impedito o vanificato dal mancato rispetto delle regole processuali nelle fasi che lo hanno preceduto. In questo modo la Corte individua nel dibattimento la sede processuale del controllo di ogni determinazione che comporti valutazioni di merito, come appunto la diversa qualificazione del fatto contestato. (23) In udienza preliminare, infatti, è possibile produrre documenti, interrogare l’imputato, prospettare eventuali temi nuovi, dare ingresso a testimoni e consulenti tecnici. (24) Con riferimento alle indagini difensive, è opportuno rilevare che la l. 8 agosto 1995, n. 332, pubblicata in G.U. 8 agosto 1995, n. 184, mediante l’introduzione dei commi 2-bis e 2-ter nell’art. 38 disp. att. c.p.p., si limita a consentire al difensore della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa l’utilizzo degli elementi a favore soltanto nel caso in cui questi si pongano in diretto rapporto funzionale con un determinato provvedimento del giudice. (25) Così O. DOMINIONI, Azione penale, in Dig. Disc. pen., vol. I, Torino, 1987, p. 411. Sulla c.d. irretrattabilità dell’azione penale v., altresì, E. DI NICOLA, sub art. 50 c.p.p., in Commento Chiavario, vol. I, Torino, 1989, p. 58; C. VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, p. 61; G.P. VOENA, Soggetti, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 4a ed, Padova, 1996, p. 38.
— 663 — né inserirsi, in altro modo, nel meccanismo che porta il processo al suo tipico atto finale costituito dalla decisione giurisdizionale. Se è vero che l’oggetto del processo è indisponibile, nel senso che domanda e decisione devono cadere sul medesimo fatto, come spiegare che è consentito al pubblico ministero di modificare e integrare l’accusa enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio e poi accolta nel decreto di cui all’art. 429 c.p.p.? Evidentemente diversa è la nozione di fatto che viene in rilievo. Si tratterà, allora, di capire quale significato deve essere attribuito a tale termine nel contesto delineato, consapevoli che nella scienza del diritto processuale penale non ne esiste una nozione unitaria. 5. In sede processuale penale, tale locuzione viene utilizzata per indicare realtà giuridiche diverse. Lo testimoniano tutta una serie di disposizioni contenute nel codice di procedura penale. Basti pensare all’art. 629, lett. a) (« la revisione può essere richiesta se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale »); qui il termine fatto indica l’avvenimento in genere stabilito a fondamento della sentenza (26), mentre alla lettera d) dell’art. 630 c.p.p. (« se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti... o di un altro fatto previsto dalla legge come reato »), con la stessa espressione si è inteso far riferimento al modello legale di fatto. Si riscontrano, poi, numerose norme in cui tale locuzione è usata dal legislatore con riferimento all’ipotesi storica, al fatto dell’uomo in concreto posto in essere che, in quanto tale, coincide soltanto nei suoi estremi con la fattispecie tipica, diversificandosi inevitabilmente da quest’ultima per il contenuto (27). Pensiamo all’art. 65, comma 1, c.p.p. (« L’autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei... »), all’art. 91, all’art. 273, comma 2 (« ... se il fatto è stato compiuto... »), all’art. 385, all’art. 388, comma 2 (« ... il pubblico ministero informa l’arrestato o il fermato del fatto per cui si procede... »). Constatato che nel diritto processuale non è possibile individuare una nozione unitaria di « fatto », resta da chiarire cosa intenda il legislatore quando parla di fatto nella correlazione tra accusa e sentenza (artt. 423, comma 1, 516, 521, comma 2 c.p.p.) (28). Si tratta, invero, di una questione interpretativa — presente anche in passato — che ha dato origine ad un ampio dibattito in dottrina e in giurisprudenza, senza, peraltro, trovare soluzioni uniformi. Tormentata è stata l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che, già vigente il codice Rocco, si era formata attorno all’espressione contenuta nell’art. 477, comma 2, c.p.p. abr. (29). (26) Il termine fatto è utilizzato con lo stesso significato, per esempio, nell’art. 194, comma 3, c.p.p. (« Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti »), nell’art. 211 (« Il confronto è ammesso esclusivamente fra persone già esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo fra esse sui fatti e circostanze importanti »), nell’art. 218, comma 1, (« L’esperimento giudiziale è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo »). (27) LA ROCCA, Studi sul problema del « fatto » nel processo penale, Napoli, 1966, p. 24. (28) L’art. 423 c.p.p. stabilisce che « se nel corso dell’udienza preliminare il fatto risulta diverso da come è descritto nell’imputazione... il pubblico ministero modifica l’imputazione e la contesta all’imputato presente ». La locuzione « fatto diverso da come descritto », richiamata dall’art. 423 c.p.p., corrisponde a quella prevista dagli artt. 516 e 521, comma 2, c.p.p. (29) Su tale argomento ampia è la bibliografia. V., fra i tanti, G. BRICHETTI, La modificazione dell’accusa nell’istruzione e nel giudizio penale, Napoli, 1966, p. 40 e ss.; G. CONSO, Accusa e sistema accusatorio, cit., p. 342; F. CORDERO, Considerazioni sul principio d’identità del « fatto », in questa Rivista, 1958, p. 935 e ss.; A. PAGLIARO, Fatto (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. IX, 1967, p. 962.
— 664 — Alcuni autori (30) hanno fatto ricorso ad un criterio di natura sostanziale per sostenere la diversità del fatto quando muti la lesione giuridica dell’interesse penalmente tutelato; altri hanno identificato il fatto oggetto di imputazione o con l’insieme degli elementi del reato (31) o con tutti quelli che hanno esercitato un’influenza determinante sul contenuto della decisione (32) o, ancora, con l’ipotesi storica concretamente realizzatasi (33). A nostro avviso, quando il legislatore parla di fatto ai fini della correlazione tra accusa e sentenza, intende riferirsi alla fattispecie giudiziale (34), la quale si distingue dalla tipologia legale per il maggior numero di connotati dell’ipotesi storica che rappresenta; è, infatti, individuata dall’avvenimento materiale che l’organo di accusa illustra quando formula l’imputazione. Sul piano del processo è inevitabile un’esigenza di concretezza che implica anche la questione dell’ubi, del quando, del quomodo, essendo il compito principale del giudice quello di stabilire se un determinato comportamento è stato posto in essere. L’imputato non sarebbe poi in grado di esercitare appieno il suo diritto alla difesa se conoscesse soltanto l’ipotesi astratta di fatto non precisata nelle sue modalità concrete di esplicazione. Ne segue che nell’accezione di cui agli artt. 423 e 516-518 c.p.p., « fatto » non deve essere inteso come lo stesso fatto di reato al quale si fa riferimento nel diritto penale sostanziale; la sua nozione, al contrario, si estende a ciascun elemento — oggettivo e soggettivo, essenziale e accidentale — che costituisce l’ipotesi storica nell’ambito della quale è possibile individuare l’esistenza di un fatto illecito penale (35). L’imputazione, infatti, non è altro se non la proiezione del fatto tipico nella realtà esteriore. È chiaro che il fatto addebitato all’imputato potrà apparire diverso, nel senso che del medesimo potranno darsi descrizioni differenti (potrebbe variare il nesso causale o l’evento o l’interno psichico o la data e il luogo), ma non potranno mai variare gli elementi nucleari che lo identificano come oggetto della decisione. Pertanto, se il soggetto contro cui si procede non risulterà l’autore del reato o se verrà negato il presupposto storico da cui ha preso le mosse l’imputazione, il giudice pronuncerà un non luogo a procedere. In tal caso, infatti, l’accusa non potrebbe essere semplicemente modificata, poiché, non essendo identica la condotta, verrebbe a configurarsi una ritrattazione, non consentita, dell’azione penale (art. 50, comma 3, c.p.p.), con formulazione di una nuova imputazione. Qualora, invece, risultino diversi altri elementi costitutivi del fatto, come l’ePer una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che si sono formati attorno a questa tematica, cfr. A. GIARDA, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di ConsoGrevi, Padova, 1987, p. 1269 e ss. V., ancora, P. REBECCHI, La rimessione degli atti al P.M. per la diversità del fatto contestato fra vecchio e nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1990, p. 1768 e, di recente, I. CALAMANDREI, Diversità del fatto e modifica dell’imputazione nel codice di procedura penale del 1988, in questa Rivista, 1996, p. 634. (30) G. BETTIOL, La correlazione fra accusa e sentenza nel processo penale, Milano, 1936, p. 68 ss. (31) A. PAGLIARO, op. cit., p. 963. (32) GALLO, Identità e diversità del fatto in tema di correlazione tra accusa e sentenza, in Giur. it., 1952, II, c. 308. (33) G. CONSO, op. cit., p. 341; F. CORDERO, op. cit., p. 939; LA ROCCA, op. cit., p. 52; P. NUVOLONE, Contributo alla teoria della sentenza istruttoria penale, Padova, 1969, p. 125. (34) G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 1994, p. 275. (35) Cfr. F. CORDERO, op. cit., p. 939, secondo il quale « l’accezione processuale del vocabolo « fatto » si stacca, per la presenza di una più ricca serie di note, da quella a cui è approdata sul terreno del diritto sostanziale un’ormai acquisita elaborazione dottrinale. Tra i due possibili significati sarebbe assurdo, naturalmente, negare che esista una tendenziale convergenza, giacché il tema precostituito del processo penale non è un « fatto » purchessia,... ma un episodio individuato per la sua corrispondenza ad un’ipotesi di reato... Tuttavia, al di là di questo punto di contatto le due nozioni si distinguono per tratti notevoli ».
— 665 — vento o il nesso causale et similia (36), il pubblico ministero, nel corso dell’udienza, ha la possibilità di riformulare l’imputazione originaria senza dispendio di energie. In dottrina si è sottolineato come per aversi mutamento del fatto ai fini dell’applicazione dell’art. 521, comma 2, c.p.p., in sede di udienza dibattimentale, occorra che la variazione di un elemento della fattispecie concreta — non importa se rilevante o meno per il diritto penale sostanziale (si pensi, per esempio, ad una diversa modalità cronologica o topografica) — abbia influito sull’accertamento di responsabilità dell’imputato. Nel caso di riscontro negativo si ritiene che l’identità del fatto non venga compromessa e, di conseguenza, sia possibile giungere a sentenza nel merito (37). In senso critico rispetto a questa interpretazione si può osservare che distinguendo tra modificazioni della fattispecie che comportano un aggravamento o meno della posizione dell’imputato, resta, peraltro, invariato il concetto di fatto inteso come fattispecie concreta. Si tratta semplicemente di non tener conto in determinati casi delle variazioni riguardanti l’ipotesi storica contenuta nel decreto di cui all’art. 429 c.p.p. Tutto ciò chiarisce che quando si parla di azione irretrattabile si allude alla necessità che il fatto originariamente contestato all’imputato resti inalterato nel suo nucleo essenziale (idem factum e eadem persona): se mutasse, non sarebbe più quella res iudicanda (38). Altro discorso è che la contestazione dell’accusa sia perfettibile pur sempre entro gli stessi limiti. Diversi sono, infatti, i criteri di identità del fatto ai sensi dell’artt. 423, 516-521 c.p.p. rispetto a quelli che informano il divieto di toccare la cosa giudicata. Date queste considerazioni, è possibile superare la principale obiezione che la Suprema Corte muove alla tesi, sostenuta dalla Corte d’Assise d’Appello, sintetiz(36) Per una esemplicazione degli elementi che variando consentono al pubblico ministero di adeguare la contestazione cfr. L. MARINI, sub artt. 516-518, in Commento Chiavario, vol. V, Torino, 1990, pp. 455-456. (37) Cfr. G. LOZZI, op. cit., p. 275 ss. L’A. ritiene che agli effetti dell’ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero, debba essere accertato di volta in volta nell’ambito del singolo processo se la nuova acquisizione abbia o no recato pregiudizio alla difesa dell’imputato. Ad un arametro casistico faceva riferimento, seppur in termini più ampi, anche L. SANSÒ, op. cit., p. 479, il quale osservava come per stabilire se vi è stata o no violazione del principio della correlazione tra accusa e sentenza occorresse « accertare se siano state pregiudicate le possibilità della difesa e dell’accusa di contribuire con tutti i propri mezzi di prova all’accertamento della verità della nuova situazione di fatto ». In giurisprudenza, sembra questo l’orientamento maggioritario. In più occasioni, infatti, si è considerato violato l’art. 521, comma 2, c.p.p. solo se ha portato un effettivo pregiudizio per la difesa. V. Cass., Sez., I, 19 settembre 1995, Guarneri, in Cass. pen., 1996, p. 3072, con la quale la Corte ha sottolineato la necessità di non limitarsi ad un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l’accertamento della possibilità per l’imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto. Pertanto deve escludersi, a parere della Corte, la violazione del principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, ogniqualvolta « la puntualizzazione dell’originaria imputazione sia comunque avvenuta, pur se con atti diversi e successivi rispetto a quelli tipicamente preposti a tal fine ». Nel senso che il principio di cui all’art. 521, comma 2, c.p.p. non debba essere interpretato in modo rigorosamente formale o meccanicistico, v. Sez. VI, 17 ottobre 1994, Armanini, in Giur. it., 1995, II, c. 40; Sez. I, 15 aprile 1993, Ceraso, in Cass. pen., 1994, p. 2194, n. 1400; Sez. I, 21 maggio 1992, Chirico, ivi, 1994, p. 703, n. 440; Sez. IV, 26 marzo 1987, Busatto, ivi, 1989, p. 260, n. 268 e, di recente, seppur con affermazione incidentale, Sez. IV, 29 ottobre 1996, n. 266, Bullaro, segnalata in Guida al diritto, 1997, (12), p. 84; Sez. IV, 22 gennaio 1997, n. 1547, Scolaro, ivi, 1997, (16), p. 69; Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, cit. In altre decisioni, la Corte di cassazione sembra mantenere quale parametro di raffronto tra accusa e sentenza il contenuto dell’imputazione originaria. V. in tal senso, v, Sez. III, 22 febbraio 1996, P.M. in proc. Santese, in C.E.D., n. 205778; Sez. IV, 24 maggio 1994, Tomasich, in C.E.D., n. 199689. (38) Preme far notare che tale concetto è sotteso dal ne bis in idem.
— 666 — zabile nella possibilità per il pubblico ministero di ridurre l’imputazione, con revoca di circostanza aggravante, nel corso dell’udienza preliminare. Infatti, la modifica di alcune connotazioni della fattispecie giudiziale, non attinenti al suo nucleo (come, ad esempio, il venir meno di elementi circostanziali), non si pone in contrasto con l’attuale sistema processuale, che prevede l’irretrattabilità dell’azione penale poiché una simile variazione non fa venir meno l’identificazione del fatto con quello per cui si procede. Quanto alla convinzione che il paradigma della emergente diversità del fatto, richiamato dall’art. 423, comma 1, c.p.p., atterrebbe a variazione degli elementi costitutivi-essenziali del fatto-reato, abbiamo visto come tale assunto evidenzi l’errore della Cassazione rispetto al significato da attribuire alla locuzione in parola. Il ricorso al concetto di fattispecie giudiziale sconfessa il giudice di legittimità, essendo la diversità del fatto ravvisabile allorquando non coincidano tutti gli elementi dell’ipotesi storica che implica la fattispecie legale (39). Non sembra, poi, consistente l’ipotizzata obiezione secondo la quale ai sensi dell’art. 423 c.p.p., la modificazione è consentita solo a mezzo di contestazione di fatto diverso, o di reato connesso o di circostanza aggravante, e cioè in senso aggiuntivo alla rubrica indicata nella richiesta di rinvio a giudizio, e non nel senso contrapposto di revoca di circostanza aggravante. A prescindere da ogni considerazione sul fondamento normativo di una tale attività correttiva (40), se la ratio della disciplina relativa alla modificazione dell’imputazione risiede nel fatto che l’accusa non può essere determinata con tutta la necessaria precisione fin dall’inizio, con la richiesta di rinvio a giudizio e può dunque subire, durante lo svolgimento dell’udienza preliminare, ulteriori precisazioni in senso sfavorevole all’imputato, addirittura dietro « sollecitazione del giudice » (senza poi contare che con il nuovo codice siffatta possibilità è stata prevista con estrema ampiezza (41)), si deve ritenere, di conseguenza, che la mancata previsione di un potere analogo in capo al pubblico ministero di fronte a varianti favorevoli all’imputato non sia da imputare ad una scelta consapevole del legislatore. In tal caso, infatti, sarebbe sostanzialmente rispettato il principio dell’identità del processo con sè stesso, né verrebbe compromesso l’effettivo esercizio della difesa. Tale idea trova conferma nella logica del sistema, in particolare nelle norrne che disciplinano l’udienza preliminare. Come potrebbe essere garantita un’effettiva attuazione della funzione di filtro, che si ricollega a tale istituto, se, accertata un’imputazione più ristretta, non fosse consentito al pubblico ministero di ridurla (ad esempio, passando da reato aggravato a reato non circostanziato)? (39) Cfr. P. NUVOLONE, op. cit., pp. 126-127. L’A., infatti, sottolinea che la distinzione « tra elementi essenziali ed elementi accidentali si può fare unicamente in relazione a un punto di riferimento esterno a quello che è l’accadimento concreto: così vi sono gli elementi essenziali e gli elementi non essenziali di un reato, perché in questo caso ci si riferisce a un ente astratto, ma non possono esserci gli elementi essenziali e non essenziali di un fatto, che è quello che è, cioè un ente concreto ». (40) La Corte di cassazione, nella sentenza in commento, esclude che la revoca di circostanza aggravante rientri nel paradigma della emergente diversità del fatto ex art. 423, comma 1, c.p.p., correggibile per iniziativa del pubblico ministero. (41) Del resto, mentre nel vigore del codice abrogato l’accusa formulata nell’atto conclusivo dell’istruzione non era suscettibile di modificazione a dibattimento (qualora fosse apparsa inidonea l’accusa originaria, l’art. 477, comma 2, cod. abr. imponeva, infatti, la trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinché agisse ex novo), con il nuovo codice siffatta possibilità è stata prevista con estrema ampiezza non solo in quella sede, coerentemente con il carattere di centralità che ha assunto nel nuovo processo il dibattimento, luogo principale dell’accertamento di responsabilità dell’imputato (almeno nelle intenzioni del legislatore dell’88). Infatti, essendo stata l’imputazione concepita come atto in itinere, già nel corso dell’udienza preliminare il pubblico ministero la riformula e l’accresce, oralmente, includendovi reati concorrenti o circostanze aggravanti, anche con semplice comunicazione al difensore se l’imputato non è presente.
— 667 — A ciò si aggiunga che il meccanismo di integrazione probatoria stabilito dall’art. 422 c.p.p. e la modifica apportata all’art. 425 dall’art. 1 della l. 105 del 1993 hanno senza dubbio contribuito ad ampliare potenzialmente le occasioni di modifica dell’imputazione nel corso dell’udienza. La l. 8 aprile 1993, n. 105, recante, all’art. 1, la soppressione dell’inciso « evidente » dal comma 1 dell’art. 425, ha sostanzialmente modificato la regola di giudizio sottesa alla sentenza di non luogo a procedere, rafforzando chiaramente il potere valutativo del giudice dell’udienza preliminare (42), così che quest’ultima possa funzionare come filtro di maggior consistenza rispetto al dibattimento. Non solo: l’aver modificato nel senso sopra visto l’art. 425 c.p.p., ha inoltre accentuato un’altra funzione dell’udienza preliminare, data dalla necessità di realizzare una attuazione del diritto alla prova. È dunque possibile che le parti, sfruttando le potenzialità dell’art. 422 c.p.p., facciano emergere nel corso dell’udienza nuovi elementi che, incidendo sull’imputazione originaria, ne richiedano una integrazione o una diminuzione. 6. Resta la questione se il giudice, nel caso in cui accerti che l’imputazione risulta diminuita e il pubblico ministero non abbia proceduto a riformularla, o non gli sia consentito di farlo, possa esercitare una funzione attiva, modificando lui stesso l’accusa in sede di provvedimento conclusivo dell’udienza o, eventualmente, trasmettendo gli atti al pubblico ministero ovvero se sia obbligato a deliberare sull’imputazione già formulata. Abbiamo visto come la Corte di cassazione, nella sentenza in esame, individua quale limite all’iniziativa del G.U.P. il fatto che la sua attivazione si collochi nell’area delle facoltà riconosciute al pubblico ministero ai sensi dell’art. 423 c.p.p. Si tratta, come hanno precisato i giudici di legittimità, di modifiche in senso aggiuntivo alla rubrica indicata nella richiesta di rinvio a giudizio. Considerazioni difformi vengono effettuate nell’ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare « solleciti » la riduzione dell’imputazione. Posto che un’iniziativa di tal genere risulta carente di espresso fondamento normativo (43), occorre vedere se nel silenzio serbato sul punto debba ravvisarsi (42) Cfr. CORVI, L’udienza preliminare: sempre più udienza, sempre meno preliminare, in questa Rivista, 1993, p. 1090. Sull’interpretazione della nuova regola di giudizio ex art. 425 c.p.p. ai fini della sentenza di non luogo a procedere, è tornata a pronunciarsi la Corte di cassazione con una sentenza nella quale ha affermato il principio di diritto secondo cui « nel caso sussistano fonti o elementi di prova, pur contraddittori o insufficienti che si prestino invece, secondo una inevitabile valutazione prognostica, a soluzioni aperte, è doverosa la verifica dibattimentale ». Sez. IV, 9 ottobre 1995, La Penna, in Cass. pen., 1996, p. 2705, con nota di G. GARUTI. In senso conforme v., di recente, Sez. VI, 7 maggio 1996, P.M. in c. Carnevale, in Dir. pen. e proc., 1997, (2), p. 174, con nota di DANIELA DAWAN, nella quale si è precisato come « nell’ipotesi che esista un sia pure insufficiente elemento probatorio e appaia ragionevole prevedere che l’istruzione dibattimentale possa fornire concreti apporti idonei al suo consolidamento, sarà adottato il provvedimento di rinvio a giudizio, fondato sulla necessità di consentire alla dialettica del dibattimento la formazione della prova » mentre nella situazione processuale in cui la prova della responsabilità non appaia concretamente acquisibile — continua la Corte, senza, peraltro, spiegare quando siffatta prova debba considerarsi « non concretamente acquisibile » — si impone l’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Ciò troverebbe conferma nella giurisprudenza costituzionale, avendo la Corte cost. osservato (sent. 88 del 1991 in Giust. pen., 1991, I, p. 162) come l’art. 112 Cost. imponga « non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunità... ma comporta, altresì, che in casi dubbi l’azione penale vada esercitata e non omessa ». In dottrina, nel senso che la « nuova » regola dell’art. 425 c.p.p. dovrebbe ecludere la possibilità di emettere una decisione di non luogo a procedere nei casi probatoriamente dubbi, v. D. MANZIONE, sub art. 425 c.p.p., in Commento Chiavario, 2o Agg., Torino, 1993, p. 216 e ss. Contra G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili Conso-Grevi, cit., p. 468 e ss. (43) Non va dimenticato, peraltro, che il potere di ordinare al pubblico ministero di intervenire, apportando modifiche in senso aggiuntivo alla rubrica indicata nella richiesta di rinvio a giudizio, non è espressamente previsto in capo al giudice, neppure per le ipotesi che si collocano nell’area delle facoltà riconosciute al pubblico ministero ex art. 423 c.p.p.
— 668 — una vera e propria lacuna — da colmarsi eventualmente sul piano esegetico, facendo ricorso alla disciplina delle contestazioni in dibattimento (art. 521, comma 2 c.p.p.) — ovvero se vi si rifletta una consapevole scelta legislativa, secondo l’antico brocardo ubi lex tacuit noluit, nel qual caso si potrebbe addirittura profilare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 423 c.p.p., in relazione all’art. 101, comma 2, Cost., dato che, imponendo al giudice di disporre un rinvio a giudizio contrario alle sue convinzioni, la disposizione del codice limiterebbe l’esercizio della funzione giurisdizionale oltre i termini della stretta soggezione alla legge. A tali fini è necessario analizzare la tematica delle modificazioni dell’imputazione alla luce dei principi che caratterizzano il processo accusatorio, da un lato, e dei criteri direttivi contenuti nella legge delega, dall’altro. 7. In via generale, a noi sembra che non sussistano ostacoli di ordine logico e sistematico a che il giudice dell’udienza preliminare possa porre rimedio agli errori commessi dal pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, ogniqualvolta da un’imputazione più ampia si passa a una più ristretta. Ferma restando, infatti, l’impossibilità per il giudice di includervi degli extra petita (44), non devono ritenersi precluse a quest’ultimo modificazioni che, pur attinenti alla materialità dei fatti, si risolvono in varianti favorevoli per l’imputato (come, nel caso di specie, l’esclusione di circostanza aggravante). Il G.U.P., infatti, quale organo preposto, in via ordinaria, alla verifica della regolarità del procedimento, nonchè della sufficienza degli elementi di fatto addotti ai fini della contestazione, deve essere in grado, nel corso dell’udienza preliminare, di individuare le violazioni della legge penale integrate dalla realizzazione di una certa condotta. Sarebbe assurdo se, dipendendo da un mero errore del pubblico ministero la contestazione di un’aggravante non risultante dagli atti, non gli fosse attribuito alcun strumento per porvi rimedio (45). Se è vero che nell’ottica propria del nuovo processo penale e della funzione in esso svolta dall’udienza preliminare il G.U.P. non è chiamato ad una piena iurisdictio, con la possibilità di assolvere e di condannare — salve, ovviamente, le ipotesi di giudizio abbreviato — non si può certo pensare che il suo ruolo sia stato ridotto ad una « funzione burocratica di passacarte da una fase all’altra del processo » (46). Lo testimonia la modifica apportata all’art. 425 c.p.p. dall’art. 1 della l. 105 del 1993, che ha rafforzato il potere valutativo del giudice e reso ancor più penetrante il controllo sul merito della richiesta formulata dal pubblico ministero. Come, del resto, potrebbe efficacemente esercitare la fondamentale funzione di « filtro » processuale rispetto ad imputazioni azzardate dell’organo di accusa, se gli fosse imposto, anche a fronte dell’esigenza di una diversa formulazione del fatto, di scegliere soltanto tra sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio, senza possibilità di interferire nei poteri di contestazione del pubblico ministero? Suscita qualche perplessità la soluzione che prospetta la realizzabilità di inter(44) La modifica dell’accusa in senso correttivo o aggiuntivo può avvenire infatti solo su iniziativa del pubblico ministero. (45) Si è espresso a favore di un più incisivo controllo, anche di merito, da parte del giudice delle indagini preliminari sulla ricostruzione fattuale, V. PERCHINUNNO, Il giudice per le indagini preliminari e le scelte relative all’azione penale, in Il giudice per le indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione. Atti del convegno presso l’Università di Bari Mattinata, 23-25 settembre 1994, Milano, 1996, p. 74. (46) Cfr. C. SFORZA FOGLIANI, Il nuovo codice si è inceppato sull’udienza preliminare, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 655.
— 669 — venti rivolti dal giudice al pubblico ministero durante lo svolgimento dell’udienza preliminare o al termine della stessa perchè sia quest’ultimo ad apportare le adeguate modifiche all’accusa. Se il P.M., investito degli atti rimessigli dal giudice, riproponesse al G.I.P. l’accusa originaria, questi si vedrebbe costretto a formulare un rinvio a giudizio contrario alle sue convinzioni. Esclusa la configurabilità di un caso analogo di conflitto risolvibile a norma dell’art. 28, comma 2, c.p.p. (47), tale eventualità lascerebbe irrisolto il problema centrale: come far fronte ad eventuali errori incorsi nella formulazione dell’imputazione che pregiudichino la posizione dell’imputato. Peraltro, è interessante sottolineare come contro il decreto che dispone il giudizio non sia previto alcun mezzo di impugnazione. Ne consegue che, per il principio della tassatività di tali mezzi, previsto dall’art. 568 c.p.p., il detto decreto non è suscettibile di autonoma impugnazione ed ogni doglianza deve essere fatta valere nelle successive fasi del processo. Né può considerarsi ricorribile per cassazione come provvedimento abnorme, qualora il giudice dell’udienza preliminare modificasse l’imputazione formulata dal P.M., revocando una circostanza aggravante non risultante dagli atti. Invero, un provvedimento può considerarsi abnorme solamente quando, per la stranezza e per la singolarità del suo contenuto, risulti non semplicemente illegittimo, ma estraneo al sistema processuale. Infatti l’abnormità non va confusa con l’illegittimità (48). Se il legislatore ha previsto che la mancanza o l’insufficienza delle indicazioni riguardanti la materialità del fatto comportino la nullità relativa del decreto di cui all’art. 429 c.p.p., appare plausibile perciò consentire al giudice di poter revocare la circostanza aggravante erroneamente presupposta o smentita dal supplemento istruttorio ex art. 422 c.p.p., indicando nel suddetto decreto i fatti così come effettivamente emersi all’esito dell’udienza preliminare. A poco varrebbe, poi, rilevare che eventuali errori incorsi nella formulazione dell’imputazione sono comunque rimediabili dal giudice del dibattimento in quanto ciò, se può salvaguardare i diritti dell’imputato, non garantisce certo l’indipendenza del giudice per le indagini preliminari (49). Infatti, a non pochi rilievi, sotto il profilo di legittimità costituzionale (50), si presterebbe una disciplina che non permettesse al G.U.P. di apprezzare nell’autonomia delle sue funzioni i fatti emersi all’esito dell’udienza. Se il giudice fosse obbligato a deliberare, con i provvedimenti conclusivi del giudizio preliminare (art. 425 e 429 c.p.p.), su una imputazione che non trova, almeno in parte, riscontro negli atti processuali, costretto a disporre un rinvio a giu(47) Non sembra che il provvedimento di « impulso » del giudice, in caso di dissenso da parte del P.M., trovi il suo rimedio nell’elevazione del conflitto di competenza esperibile nei « casi analoghi » di cui all’art. 28, comma 2, c.p.p. La relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale (in Speciali Documenti Giustizia, II, 1989, p. 265 e ss.) è esplicita sul punto. In ordine alla previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 28 c.p.p. sull’applicazione delle norme sui conflitti « anche nei casi analoghi a quelli previsti nel comma 1 », si afferma infatti che nell’escludere tra questi il « contrasto tra il giudice dell’udienza preliminare ed il giudice del dibattimento » si è volutamente evitato qualsiasi riferimento ai casi di contrasto tra P.M. e giudice « proprio per sottolineare che eventuali casi di contrasto non sono riconducibili alla categoria dei conflitti e ciò, anche in considerazione della qualità di parte, sia pure pubblica, che il pubblico ministero ha nel contesto del nuovo sistema processuale ». Sull’argomento, v. supra, nt. 17. (48) In senso conforme, Cass., Sez. I, 13 luglio 1994, Bettini, in Cass. pen., 1996, p. 902; Id., Sez. I, 17 marzo 1993, Greco, ivi, 1994, p. 2510, con nota di ulteriori precedenti conformi, alla quale si rinvia. Il decreto è colpito da nullità relativa (artt. 429, comma 2 e 181, comma 2, c.p.p.). (49) Cfr. B. LAVARINI, Il sindacato giurisdizionale sull’imputazione nel giudizio abbreviato, in Giur. cost., 1993, p. 2462. (50) In relazione all’art. 101, comma 2, Cost.
— 670 — dizio contrario alle sue convinzioni (51), risulterebbe « così soggetto non già solo alla legge, bensì ad una scelta del pubblico ministero che potrebbe essere erronea, paradossalmente anche capziosa, senza alcuna possibilità di sindacato giurisdizionale » (52). Il principio di cui all’art. 101, comma 2, Cost. (53) comporta, infatti, non solo la subordinazione del giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, all’atto legislativo (54), ma anche, di riflesso, la sua indipendenza rispetto ad ogni interferenza che altri soggetti, appartenenti o meno al potere giudiziario, intendessero porre in essere nei suoi confronti (55). Del resto, la portata pratica dell’art. 101, comma 2, Cost. sta soprattutto nell’avverbio « soltanto » (« I giudici sono soggetti soltanto alla legge ») il quale « delegittima qualsiasi pretesa di rendere il giudice soggetto a ciò che legge non è » (56). Se il principio di legalità nella giurisdizione garantisce al giudice totale autonomia di giudizio, non può certo considerarsi conforme alla Costituzione la norma contenuta nell’art. 423 c.p.p., escludendo quest’ultima la possibilità per il G.U.P. di apprezzare autonomamente i fatti che sono emersi all’esito dell’udienza preliminare. Peraltro, la tesi che prospetta l’immutazione dell’accusa con riguardo alle varianti favorevoli sembrerebbe inficiata da una contraddizione insanabile, posto che la sua configurazione porterebbe ad ammettere, oltre a un inaccettabile assoggettamento del giudice all’imputazione formulata dal pubblico ministero, un’ingiustificata compressione del diritto dell’imputato a difendersi sul fatto quale emergente dagli atti (57). Non solo. Contro l’orientamento giurisprudenziale oggi confermato dalla Cassazione con la sentenza in esame militano, inoltre, esigenze di giustizia sostanziale e di economia processuale. Infatti, seguendo la tesi confutata, nel caso in cui il G.I.P. non interferisca nei poteri di contestazione del P.M., deriverebbero l’impossibilità per l’imputato di ricorrere ai riti alternativi (nel nostro caso, in particolare, al giudizio abbreviato), e la dispersione di attività processuale, non essendo possibile definire in quella fase l’oggetto del decidere. Si verrebbe, infatti, a rinviare inutilmente alla successiva fase dibattimentale la valutazione circa la sussistenza della circostanza aggravante erroneamente contestata, non corrispondente a quanto emerge dagli atti. Il che sarebbe, poi, in contrasto con la direttiva 1 della legge-delega la quale sancisce il criterio della « massima semplificazione nello svolgimento del processo ». (51) Se il disaccordo tra P.M. e G.I.P. in sede di udienza prelimiare verte sul ricorrere o meno di circostanze aggravanti, il G.I.P. non può certo prosciogliere dall’accusa formalmente contestata, seppur erronea. Nessuna sentenza del giudice penale può infatti essere limitata alle circostanze del fatto. Così, Corte di Assise di Appello di Torino, sent. 29 maggio 1996. (52) Così G.I.P. Trib. Teramo, 10 maggio 1993, in G.U. 1a serie spec., 1993, n. 21. (53) Per più ampie considerazioni attorno a questa tematica cfr. R. GUASTINI, sub art. 101 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1994, p. 166 ss. (54) Nel senso che la formula dell’art. 101, comma 2, Cost. istituisce una stretta connessione tra sovranità popolare e funzione giurisdizionale, v. A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Torino, 1990, p. 63 e ss., secondo il quale la funzione giurisdizionale « deve essere considerata come una forma di esercizio della sovranità popolare nella quale la Costituzione indica la fondamentale fonte di legittimità dei pubblici poteri »; « ne consegue che l’attività giurisdizionale deve necessariamente esercitare un ruolo subordinato rispetto a quello degli organi rappresentativi ». (55) Cfr. S. SENESE, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. pubbl., Torino, 1991, p. 205. (56) Così, S. SENESE, loc. ult cit. (57) A tale proposito, in dottrina si è sottolineato come tale diritto assuma maggiormente importanza in un processo accusatorio in cui la linea di difesa è individuata in relazione al contenuto concreto dell’accusa contestata. Così G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 274.
— 671 — 8. Al termine di queste considerazioni non possiamo ritenere condivisibili le conclusioni cui è giunta la Cassazione nella sentenza annotata. Tuttavia la domanda che si rinnova è sempre se il legislatore abbia voluto limitare il giudice dell’udienza preliminare, non prevedendo espressamente la possibilità per quest’ultimo di interferire nei poteri di contestazione del pubblico ministero, tanto più che difficilmente un siffatto potere è rapportabile a quelle forme di intervento sollecitatorio riconosciute nel nostro sistema al giudice (58). Non ci sembra, peraltro, che nel nostro caso la soluzione interpretativa ipotizzata possa superare il dato normativo attualmente in vigore. Secondo le indicazioni della legge-delega (direttiva n. 52), infatti, deve dirsi che « la imputazione formulata dal pubblico ministero » che, secondo la direttiva deve essere enunciata nel decreto che dispone il giudizio, altro non è se non la formulazione del fatto così come descritta dal P.M. originariamente o a seguito delle modificazioni previste nell’art. 423 c.p.p. Dunque, il dato letterale non offre spazi interpretativi che, senza un intervento della Consulta, consentano al giudice dell’udienza preliminare di esercitare una funzione attiva, a fronte dell’esigenza di una diversa formulazione del fatto, anche se in senso più favorevole all’imputato. A poco varrebbe proporre l’interpretazione estensiva dell’art. 423 c.p.p. ovvero l’applicazione analogica dell’art. 521, comma 2, c.p.p. poichè soluzioni di tal genere non sembrano comunque esentare dal dubbio se il legislatore volesse risolvere positivamente la questione de qua. Se non si accetta l’idea che il principio della correlazione tra accusa e sentenza, ponendosi con il carattere della generalità, debba essere applicato in ciascuna fase processuale e, quindi, anche nell’udienza preliminare; se, a fronte dell’esigenza di una diversa formulazione del fatto, anche in senso più favorevole per l’imputato, si esclude l’applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p. o una soluzione fondata sull’interpretazione estensiva dell’art. 423 c.p.p., inevitabile è il dubbio di costituzionalità. Di conseguenza, qualora al giudice di merito si presentasse una situazione simile a quella che ha dato luogo alla pronuncia in esame, quest’ultimo non potrebbe esimersi dal sottoporre alla Corte costituzionale questione di legittimità degli artt. 423, 429 c.p.p., e della stessa direttiva 52 che ne è il presupposto. Le disposizioni in parola, infatti, contrasterebbero — come abbiamo visto — con l’art. 101, comma 2, Cost., non assicurando al G.U.P. autonomia di giudizio nell’apprezzare i fatti emersi all’esito dell’udienza preliminare. Ne si può dimenticare il fatto che rivelandosi insufficiente il controllo sull’accusa, l’imputato verrebbe « irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza » della discrezionale valutazione compiuta dal pubblico ministero con la formulazione dell’imputazione al termine delle indagini (59). Del resto, se l’udienza preliminare, come la Corte costituzionale ha precisato (60), deve essere il momento in cui si porta a conclusione « l’attività di controllo giurisdizionale volta a delibare il fondamento dell’accusa e a fissare il thema (58) Si pensi, ad esempio, ai poteri spettanti al G.U.P. in base all’art. 422 c.p.p. in riferimento al quale il giudice può indicare alle parti temi nuovi o incompleti su cui si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione. (59) Così si esprime la Corte costituzionale nella sentenza n. 265 del 22 giugno 1994, in Giur. cost., 1994, p. 2153. In dottrina, sulla necessaria completezza delle indagini desumibile dagli artt. 326 e 358 c.p.p. v. G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, p. 156 e ss. (60) Corte cost., sentenza 15 marzo 1994, n. 88, cit.
— 672 — decidendum », proprio in questa sede si deve concretamente mettere in condizione il giudice di esercitare efficacemente il controllo sull’imputazione. Solo così potrà essere garantito il corretto esercizio dell’azione penale (61) e l’udienza preliminare potrà funzionare come filtro di maggior consistenza rispetto al dibattimento. Dott.ssa BARBARA PIATTOLI
(61) Di questa idea è conferma la tendenza della stessa Corte costituzionale e del legislatore ad ampliare i poteri del giudice per dare all’udienza preliminare una importanza centrale nell’ambito del procedimento penale. V. supra par. 5.
— 673 — CORTE DI CASSAZIONE — Sez. un. — 26 febbraio 1997 (dep. 27 giugno 1997) Pres. La Torre — Rel. Battisti — P.M. Toscani (concl. conf.) Mammoliti (207939-40) Misure cautelari personali — Estinzione — Termini di durata massima della custodia cautelare — Condanna per più reati in continuazione — Persistente efficacia della custodia cautelare solo per alcuni di detti reati — Nozione di pena inflitta e di condanna ai fini degli artt. 300, comma 4 e 303, comma 1, lett. c), c.p.p. — Riferimento ai singoli reati e non all’intero reato continuato. (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 278, 300, comma 4, 303). Misure cautelari personali — Estinzione — Termini di durata massima della custodia cautelare — Condanna per più reati in continuazione — Omessa specificazione del giudice — Determinazione incidentale da parte del giudice della misura cautelare — Necessità — Possibilità di determinazione da parte della Cassazione — Casi — Fattispecie. (C.p. art. 81; c.p.p. artt. 300, 303, 310, 311, 620). Ai fini sia dell’art. 303, comma 1, lett. c), c.p.p., sia dell’art. 300, comma 4, stesso codice, nel caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, per alcuni dei quali soltanto (nella specie per i reati satelliti) mantenga efficacia la custodia cautelare, per « condanna » e per « pena inflitta » devono, rispettivamente, intendersi la condanna e la pena inflitte per questi ultimi reati, e non la condanna e la pena inflitte per l’intero reato continuato, in quanto l’unificazione legislativa di più reati nel reato continuato va affermata là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio del reato continuato (1). Allorché il giudice di merito, nell’infliggere la pena per il reato continuato non abbia suddiviso la pena irrogata per i reati satelliti e la suddivisione o distinzione rilevi per il calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare o per l’accertamento dell’avvenuta espiazione della pena, il giudice della misura cautelare deve porsi il relativo problema e determinare, ai soli fini della misura, la pena per ciascun reato in continuazione, non potendo l’omessa suddivisione o distinzione essere di ostacolo al riacquisto della libertà, se di questo riacquisto ricorrono le condizioni. E la suddivisione o distinzione della pena può essere fatta anche dalla Corte di cassazione allorché i reati satelliti siano altrettanti episodi della medesima figura criminosa commessi, in tempi diversi, in danno di persone diverse e non risulti o non sia allegato un diverso grado di gravità dei vari fattireato (2). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — 1. Il Tribunale di Reggio Calabria con ordinanza del 19 settembre 1996, pronunciata in sede di appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p., confermava l’ordinanza, in data 14 agosto 1996, con la quale la Corte di assise di appello di Reggio Calabria aveva rigettato la richiesta di scarcerazione, per decorrenza dei termini di durata massima della custodia cautelare, avanzata da Antonino Mammoliti, il quale era stato condannato, dalla Corte di assise di Reggio
— 674 — Calabria, con sentenza del 22 maggio 1995, alla pena complessiva di anni dodici di reclusione, dei quali anni sette per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, anni uno per la recidiva e anni quattro, complessivamente determinati a titolo di continuazione, per cinque reati di estorsione, tre dei quali erano stati posti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare. 2. Il tribunale riteneva che: A) i termini custodiali massimi, — quattro anni — di cui all’art. 303, comma 4, lett. b), c.p.p., decorrenti dal 30 agosto 1992, non erano ancora decorsi, tenuto conto del provvedimento di sospensione, adottato, in data 27 marzo 1996, dalla corte di assise di appello; B) l’aumento di pena per la continuazione, irrogato nella misura complessiva di anni quattro, non permetteva di determinare la pena per ogni singolo delitto con conseguente esclusione dell’applicabilità del disposto dell’art. 300, comma 4, c.p.p. 3. Il difensore ricorre per cassazione e chiede, con tre mezzi — oggetto anche di una successiva memoria — l’annullamento della ordinanza. A) Denuncia, con il primo, « violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., in relazione all’art. 303, comma 1, lett. c), n. 1, c.p.p. ». Deduce che, nella fattispecie, la custodia cautelare ha perso la propria efficacia per essere decorso il termine di nove mesi — previsto, come termine di fase, dalla norma dell’art. 303, comma 1, lett. c), n. 1, c.p.p. — decorrenti dal 22 maggio 1995, data della sentenza di primo grado, senza che, nel frattempo, sia stata pronunciata sentenza di condanna in grado di appello. L’aumento di pena per i cinque reati satelliti di estorsione è, infatti, di complessivi anni quattro, sicché, tenuto conto che la custodia cautelare riguarda soltanto tre dei cinque reati di estorsione, peraltro meno gravi degli altri due, deve ritenersi che, per quei tre reati, la pena irrogata sia inferiore ai tre anni. Il termine di nove mesi, poi, era certamente scaduto nel momento in cui — 27 marzo 1996 — la corte di assise di appello ha emesso l’ordinanza di sospensione dei termini, che la sentenza della corte di assise è del 22 maggio 1995 e la sentenza della corte di assise di appello, pronunciata soltanto il 18 luglio 1996, sarebbe dovuta intervenire entro nove mesi, cioè entro il 22 febbraio 1996, prima, dunque, della sospensione. B) Lamenta, con il secondo mezzo, « violazione dell’art. 278 c.p.p. », rilevando che questa norma esige che, anche ai fini della durata della custodia cautelare, non si tenga conto della continuazione. C) Denuncia, con il terzo mezzo, « violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e) c.p.p., in relazione all’art. 300, comma 4, c.p.p. », osservando che l’aumento di pena — quattro anni — irrogato al Mammoliti per i reati di estorsione, compresi i due reati per i quali l’imputato non era in vinculis, è di quattro anni: alla data del 30 agosto 1996, il Mammoliti, in stato di custodia cautelare dal 30 agosto 1992, aveva espiato per intero la pena. 4. La Sez. VI di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, lo ha rimesso alle Sezioni unite sottolineando il contrasto, nella giurisprudenza della Corte, sia nella interpretazione della norma dell’art. 303, comma 1, lett. c), n. 1
— 675 — c.p.p. — primo motivo —, sia nella interpretazione — terzo motivo — della norma dell’art. 300, comma 4, c.p.p. 5. Il primo presidente aggiunto ha assegnato il ricorso a queste Sezioni unite. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Le questioni sottoposte all’esame di queste Sezioni unite sono le seguenti: A) se, ai fini del computo della durata della custodia cautelare relativamente alla fase di primo grado — art. 303, comma 1, lett. c), n. 1 c.p.p. — debba farsi riferimento, nel caso di condanna per più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, alla pena complessivamente inflitta o alla pena relativa ai reati satelliti, rispetto ai quali sia stata disposta e sia ancora efficace la misura cautelare: primo motivo; B) se, nel caso di custodia cautelare disposta per alcuni reati, unificati sotto il vincolo della continuazione con la sentenza non irrevocabile di condanna, la custodia sofferta debba essere comparata, ai fini dell’art. 300, comma 4, c.p.p., con la pena inflitta per il reato continuato o con le pene inflitte per i reati in continuazione, rispetto ai quali sia stata disposta e sia ancora efficace la misura cautelare: terzo motivo. 2. Quanto alla prima questione, secondo uno dei due indirizzi in contrasto, ai fini della individuazione dei termini di fase, nelle ipotesi previste dall’art. 303, comma 1, lett. c), c.p.p., deve farsi riferimento, qualora vi sia stata condanna per più reati unificati per la continuazione, alla pena complessivamente inflitta e, quindi, alla pena nella sua unicità, ché considerare come « pena inflitta » soltanto l’aumento applicato per la continuazione contrasta con la natura giuridica dell’istituto e con la sua disciplina legislativa (Cass. 17 maggio 1996, n. 1976, Anobile). Per l’altro, opposto, indirizzo (Cass. 21 maggio 1996, n. 3482, Russo), in tema di termini di durata massima della custodia cautelare il riferimento dell’art. 303, comma 1, lett. c), alla « entità della condanna » va operato, nell’ipotesi di reato continuato, in relazione ai singoli reati e così, in definitiva, alla pena-base inflitta per il reato più grave senza tenere conto della continuazione, ciò desumendosi dall’inquadramento logico-sistematico della materia, oltre che dal principio di ragionevolezza che deve costantemente connotare l’interpretazione della legge in relazione alla parità di trattamento in situazioni analoghe e al principio del favor rei, che è una costante della legislazione processual-penalistica con particolare riferimento alla disciplina delle misure cautelari personali. 3. Questo è il contrasto sulla seconda questione. A) Uno dei due indirizzi è dell’avviso che, nel caso in cui la scarcerazione abbia il suo presupposto, ai sensi dell’art. 300, comma 4, c.p.p., nella comparazione tra la pena irrogata e la durata della carcerazione preventiva, il riferimento alla pena « inflitta » involge la necessità di considerare il reato continuato nella sua unicità, ché non può dichiararsi scontata la pena mettendo a confronto la custodia cautelare sofferta per più reati unificati per la continuazione e il solo aumento determinato per il reato relativamente al quale il titolo della custodia cautelare è ancora efficace, dato che la stessa legge, in tale ipotesi, considera il reato continuato come reato unico » (Cass. 10 ottobre 1992, n. 3072, Mori: 21 aprile
— 676 — 1993, n. 928, Marangoni, 8 gennaio 1996, n. 4180, Musumeci; 18 gennaio 1990, n. 3349, Caldariera; 17 marzo 1990, n. 2969, Grasso). B) L’altro indirizzo afferma, invece, che la norma dell’art. 300, comma 4, c.p.p. corrispondente a quella dell’art. 275 del codice del 1930, trova applicazione limitatamente alla condanna per i reati ai quali si riferisce la misura restrittiva, di tal che l’imputato deve essere automaticamente rimesso in libertà quando, in relazione al reato per il quale è stato emesso o è ancora efficace il provvedimento restrittivo, la custodia sofferta abbia raggiunto l’entità della pena per lo stesso irrogata ». (Cass. 21 dicembre 1992, n. 5359, D’Ambrosio; 21 giugno 1994, n. 2421, Fidanzati; 4 ottobre 1995, n. 4204, Golino). 4. Queste Sezioni unite ritengono di dovere superare il contrasto facendo proprio quell’indirizzo secondo il quale, ai fini sia dell’art. 303, comma 1, lett. c) c.p.p., sia dell’art. 300, comma 4, c.p.p. nel caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, soltanto per alcuni dei quali — esempio, per i reati satelliti, come nel caso di specie — mantenga efficacia la custodia cautelare, debba intendersi per « condanna » — art. 303, comma 1, lett. c) — e per « pena inflitta » — art. 300, comma 4, c.p.p. — rispettivamente la « condanna » e la « pena inflitta » per questi ultimi reati e non « la condanna » e la « pena inflitta » per l’intero reato continuato. 5. Prima di esporre le ragioni che sorreggono questo principio, è doveroso fare chiarezza sulla complessa vicenda processuale che ha interessato il Mammoliti. Al riguardo, va rilevato che, nell’ordinanza di remissione, si insiste nel dire che i reati di estorsione, per i quali il Mammoliti è stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione, sono quattro — due dei quali posti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare — mentre tali reati sono sicuramente cinque di cui tre con custodia cautelare ancora efficace. 6. Difatti la vicenda processuale si articola nei seguenti atti. A) Il G.i.p. presso il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 29 agosto 1992, ha disposto la misura della custodia cautelare in carcere del Mammoliti per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso e per due dei cinque reati di estorsione per i quali l’imputato è stato condannato dalla corte di assise, rubricati, in quel provvedimento e successivamente, sub C) e D). B) Il medesimo G.i.p., con ordinanza del 30 novembre 1993, ha disposto la misura della custodia cautelare in carcere del Mammoliti per questi stessi reati e per i reati di estorsione rubricati sub G1, I1, H1, M1, L1, F1. C) La Corte di cassazione, con sentenza del 14 maggio 1994, ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria emessa in sede di riesame del provvedimento del 29 agosto 1992. D) La corte di assise di Reggio Calabria, con ordinanza del 2 giugno 1994, ha annullato l’ordinanza del G.i.p. in data 30 novembre 1993 e, contestualmente, ha emesso altro provvedimento di custodia cautelare per quei reati di estorsione già rubricati, nel provvedimento del 30 novembre 1993, sub G1, I1, H1, M1, F1, L1. E) La corte di assise di Reggio Calabria, con sentenza del 22 maggio 1995, ha affermato la responsabilità del Mammoliti, condannandolo alla pena di 12 anni
— 677 — di reclusione per il reato di associazione per delinquere e per i reati di estorsione di cui alle lettere C) e D), come rubricati nel provvedimento del 29 agosto 1992, e di cui alle lettere G1, I1 — ivi assorbito il reato di cui alla lettera H1 — ed M1, come rubricati nel provvedimento del 30 novembre 1993, assolvendolo dai due reati di estorsione F1 e L1 e ordinando, per questi reati la scarcerazione del Mammoliti se non detenuto per altra causa. F) La corte di assise di appello di Reggio Calabria, con sentenza del 18 luglio 1996, in accoglimento dell’appello del p.m., ha affermato la responsabilità del Mammoliti anche per il reato di estorsione di cui al capo L1 aumentando la pena ad anni 13 di reclusione. G) La medesima corte, il 14 agosto 1996, ha rigettato l’istanza di scarcerazione e, in sede di appello, il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 19 settembre 1996 — è, questo, il provvedimento impugnato — rigettava l’appello. H) È certo, pertanto, che i reati satelliti per i quali è stata irrogata, a titolo di continuazione la pena di anni quattro di reclusione, sono i reati di estorsione descritti sub C), D), G1, I1 (H1), M1 e che soltanto per gli ultimi tre era ancora efficace, nel momento della sentenza di primo grado, l’ordinanza di custodia cautelare emessa il 2 giugno 1994. I) È certo, altresì, che per il reato di estorsione sub L1, per il quale è stato condannato in sede di appello, l’imputato era, nel momento della condanna, in stato di libertà a seguito della scarcerazione, conseguenza della assoluzione, ordinata dalla corte di assise. 7. Le ragioni, che portano queste Sezioni unite a far proprio, per entrambe le questioni, il secondo indirizzo giurisprudenziale, possono così formularsi. A) Sotto il profilo logico-ricostruttivo della questione, non si può porre in dubbio che, allorché si discuta di « termini di durata massima della custodia cautelare » — art. 303 c.p.p. — o di estinzione della misura della custodia cautelare per essere già stata espiata, in stato di custodia, la pena inflitta con la sentenza non definitiva — art. 300, comma 4, c.p.p. —, la questione attiene alla sorte del provvedimento che ha disposto la misura della custodia cautelare e, quindi, è circoscritta ai soli reati, in relazione ai quali è stata disposta la privazione della libertà. B) Orbene, nel caso, come quello in esame, in cui il processo abbia ad oggetto reati per i quali sia stata disposta e sia ancora efficace la misura della custodia cautelare, e reati per i quali questa misura non sia stata disposta o, se lo è stata, non sia, per una delle cause previste dal codice di rito, più efficace, il dato logico, sotto il profilo interpretativo, conduce a disinteressarsi del tutto di quel reato o di quei reati per i quali, essendo stato l’imputato giudicato in stato di libertà, il problema del riacquisto della libertà, sia in ordine all’art. 303, comma 1, lett. c), sia in ordine all’art. 300, comma 4, c.p.p., non ha alcun motivo di essere posto e risolto perché è un problema inesistente per definizione. C) Se il tema dei termini di durata massima della custodia cautelare è, nella logica dell’art. 303 c.p.p., il tema del quando, anche in relazione alle varie fasi del processo, la privazione della libertà debba cessare — e il problema è identico allorché, come esige l’art. 300, comma 4, c.p.p., debba compararsi la pena inflitta con la pena già espiata in stato di custodia — è del tutto ovvio che tale problema-
— 678 — tica non possa riguardare i reati per i quali non sussista il titolo per la privazione della libertà. Per essi, difatti, sarebbe veramente del tutto vano parlare di termini di durata massima della custodia o di comparazione tra pena inflitta e pena espiata. D) Ed, allora, non vi sono dubbi che il Mammoliti debba essere scarcerato, e ciò sia per la decorrenza dei termini di fase — art. 303, comma 1, lett. c) c.p.p. — sia in applicazione dell’art. 300, comma 4, c.p.p. E) All’interpretazione logica e letterale del dettato normativo corrisponde il risultato della ricostruzione sistematica della questione. I) « La libertà personale è inviolabile », recita il comma 1 dell’art. 13 Cost., il cui comma 2 aggiunge che « non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge ». Se la interpretazione delle norme degli artt. 303, comma 1, lett. c), e dell’art. 300, comma 4, c.p.p. fosse quella fatta propria dai due primi indirizzi delle due questioni sottoposte all’esame di queste Sezioni unite — indirizzi che vogliono che i termini condanna, di cui all’art. 303, comma 1, lett. c) e pena inflitta di cui all’art. 300, comma 4, si riferiscono alla condanna o alla pena complessivamente irrogata e, quindi, anche a quella parte della pena inflitta per i reati per i quali non v’è attualmente, un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria che legittimi la privazione della libertà — chiarissima sarebbe la violazione del principio costituzionale, formulato nell’art. 13: per effetto della « condanna » o della « pena inflitta » anche per i reati per i quali non v’è un provvedimento che lo privi della libertà l’imputato sarebbe privato della libertà senza quell’indispensabile provvedimento. II) Altrettanto certa sarebbe la violazione delle norme sulle misure cautelari, in particolare della norma dell’art. 292 c.p.p. Questa norma, nel conferire concreto spessore al principio dell’art. 13 della Carta costituzionale, esige che sulla richiesta del p.m. — art. 291 c.p.p. — il giudice — art. 279 c.p.p. — decide con ordinanza, la quale deve contenere tutta una serie di indicazioni elencate nel comma 2, il quale è stato riformulato dall’art. 9 della l. 8 agosto 1995, n. 332 con la previsione di ulteriori, obbligatorie, indicazioni. Tra queste, ad esempio, « l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 — le esigenze cautelari — non possono essere soddisfatte con altre misure ». Tale disposizione è la logica conseguenza dell’affermazione di principio, che si legge nell’art. 275, comma 3, c.p.p., in virtù del quale « la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata », donde, appunto, l’onere per il giudice di dimostrare la inadeguatezza delle altre misure. Se dovesse tenersi conto della condanna o della pena inflitta anche per i reati per i quali manchi l’ordinanza motivata di cui all’art. 292 c.p.p., si avrebbe una privazione della libertà senza quel peculiare titolo che la Costituzione esige e che la legge ordinaria, in attuazione della prima, disegna e disciplina prevedendone
— 679 — minuziosamente i contenuti volendo garantire che la privazione della libertà — pensata come eccezione dal Costituente — sia e risulti vera eccezione alla regola della libertà. III) Né potrebbe sostenersi che il titolo è costituito dalla sentenza di condanna. Con quest’ultima, infatti, può, sì, disporsi la misura della custodia cautelare, ma a ben precise condizioni, occorrendo, anzitutto, la richiesta del pubblico ministero e dovendo darsi atto, in secondo luogo, della sussistenza delle esigenze cautelari, dovendo, ovviamente, ritenersi superflua — data l’affermazione della penale responsabilità — la indicazione dei gravi indizi di colpevolezza. Nulla di tutto ciò si è verificato nella specie, nella quale il provvedimento che disponeva la custodia cautelare per il reato di associazione per delinquere è stato annullato senza rinvio dalla Corte di cassazione e mai ripristinato, ripristino, peraltro, che avrebbe potuto trovare un ostacolo nel principio del ne bis in idem cautelare — limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale da riconoscersi, oltre che alle ordinanze non impugnate del tribunale del riesame e del tribunale in sede di appello, alle sentenze della Corte di cassazione a seguito di ricorso contro le anzidette ordinanze — come queste Sezioni unite hanno affermato con la sentenza 12 ottobre 1993, Durante. La corte di assise di appello, inoltre, ove fossero ricorse le esigenze cautelari previste dall’art. 274, comma 1, lett. b) o c), avrebbe potuto disporre, in applicazione dell’art. 300, comma 5, c.p.p., misure coercitive — e, dunque, anche la misura della custodia cautelare in carcere — per il reato di estorsione per il quale aveva affermato la responsabilità del Mammoliti a seguito della impugnazione del p.m. avverso la sentenza, di proscioglimento, sul punto, della corte di assise. Ciò non è avvenuto, sicché anche per questo reato di estorsione il Mammoliti va considerato libero. Come si vede, la sentenza può anche essere titolo per la custodia cautelare, ma non lo è ex se, in quanto sentenza, ché, come tale è, una volta divenuta irrevocabile, l’indefettibile presupposto — titolo — per la espiazione della pena. F) Invocare, a questo punto, la continuazione per sostenere ciò che sostengono i primi due indirizzi, vuol dire attribuire all’istituto della continuazione il valore di equipollente o equivalente del provvedimento giurisdizionale di privazione della libertà nel caso, che è quello in discussione, in cui per alcuni reati in continuazione non esista un provvedimento restrittivo, valore la cui fonte normativa è inesistente e lo è perché la logica dell’istituto, del tutto diversa da quella propria di un provvedimento restrittivo della libertà, è la logica del favor rei, espressamente avallata anche da alcune norme del codice in tema di misure cautelari. I) Secondo la giurisprudenza di questa suprema Corte (Cass. 6 dicembre 1976, Monti; 9 giugno 1981, Cerentino; ecc.), lo scopo della disciplina normativa del concorso formale di reati o del reato continuato consiste nel mitigare l’effetto del cumulo materiale delle pene, al quale viene sostituito un cumulo giuridico e questa funzione dell’istituto è stata resa ancora più evidente dalla novella del 1974, che, nell’estendere l’operatività del sistema del cumulo giuridico della pena previsto dall’art. 81 cpv. c.p., si colloca in una linea di tendenza contraria all’automatismo repressivo proprio del cumulo materiale e favorevole ad un’accentuazione del carattere personale della responsabilità penale, con esaltazione del ruolo
— 680 — e del senso di responsabilità del giudice nell’adeguamento della pena alla personalità del reo (Cass., Sez. un., 7 febbraio 1981, Viola). Sulla base di tale premessa, la giurisprudenza e la dottrina — svalutata la rilevanza del problema della natura della continuazione sono dell’avviso che l’unificazione legislativa dei reati deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato. II) Se questa è la ratio dell’istituto e se la prima applicazione di questa ratio è quella prevista dall’art. 81 cpv. c.p. in tema di pena, per contenerla, l’unificazione legislativa del reato quoad poenam non può davvero essere invocata allorché si tratti di cogliere il valore delle espressioni condanna, di cui all’art. 303, comma 1, lett. c), n. 1 c.p.p., e pena inflitta, di cui all’art. 300, comma 4, c.p.p. Quelle espressioni sono inserite, invero, in un contesto in cui il legislatore si pone il problema della libertà dell’imputato, pone scadenze e limiti alla privazione della libertà, contesto, pertanto, nel quale il favor libertatis — si ricordi che la privazione della libertà specialmente nella forma drastica della custodia cautelare è eccezione — esige che la considerazione unitaria dell’istituto venga meno se ciò si risolve — e, secondo i due primi indirizzi, si risolve — in una restrizione ulteriore della libertà. III) Ma, è lo stesso legislatore che, ribadendo quella ratio o logica, nega ogni rilevanza alla continuazione in tema di misure cautelari. — La norma dell’art. 278 c.p.p. — e il secondo motivo del ricorso si sofferma proprio su questa norma per escludere la rilevanza della continuazione — dopo aver previsto che, « agli effetti della applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, aggiunge, tra l’altro, che ‘‘non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione’’... ecc., norma che queste Sezioni unite hanno interpretato, con la sentenza 1o ottobre 1991, Simioli, nel senso che la stessa pone regole di generale portata e di indiscriminata osservanza in materia di custodia cautelare. — La norma, poi, dell’art. 297, comma 3, c.p.p., già citata, nel disporre che, « se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b) — si tratta del concorso formale e della continuazione — e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati alla imputazione più grave, dimostra di volere che non si tenga alcun conto della continuazione, in armonia con il principio generale dell’art. 278. — La stessa norma dell’art. 303 c.p.p., infine, in perfetta coerenza con l’art. 297, comma 3, stabilisce i termini di durata massima della custodia cautelare in relazione al delitto per il quale la legge stabilisce la pena... o al delitto per il quale si procede, delitto che, nel caso di reato continuato, altro non è che la imputazione più grave di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p. G) Conseguenza di questi princìpi è la scarcerazione dell’imputato con queste ulteriori note.
— 681 — I) In relazione ai termini di fase — e il rilievo vale anche ai fini dell’art. 300, comma 4 — non può non condividersi quanto si sostiene nel ricorso e, con maggiore puntualità, nella memoria. In questi atti si rileva che, essendo stato condannato il Mammoliti, per i cinque reati satelliti — per tre dei quali, e i meno gravi, era in stato di custodia cautelare — alla pena di anni quattro di reclusione, ragionevolezza vuole che la pena inflitta, indistintamente determinata, sia divisa per cinque. Si ottiene, così, il quoziente di mesi 9 e giorni 18 di reclusione, che, moltiplicato per tre — i reati per i quali v’era la custodia — dà anni due, mesi quattro e giorni 24 — e non giorni 18, come si legge nella memoria — di reclusione: la « condanna » — si pone in evidenza — è senz’altro inferiore ai tre anni, sicché il termine di fase — nove mesi, ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. c), n. 1 c.p.p., decorrenti dal 22 maggio 1995, data della sentenza della corte di assise di Reggio Calabria — è spirato il 22 febbraio 1996, prima della sospensione dei termini disposta il 27 marzo 1996 dalla corte di assise di appello, la cui sentenza è del 18 luglio 1996. II) Per quel che riguarda, poi, la estinzione della misura ai sensi dell’art. 300, comma 4, c.p.p., si sottolinea correttamente, in quegli atti, che il provvedimento, che aveva disposto la custodia cautelare per tre delle cinque estorsioni, era stato emesso il 30 novembre 1993, sicché la pena di anni due, mesi quattro e giorni ventiquattro di reclusione, non ancora espiata al 22 maggio 1995, data della sentenza della corte di assise, lo era stata certamente al 24 aprile 1996. III) Si puntualizza, infine, che, in ogni caso — e in relazione alla intera pena di anni quattro irrogata per i cinque reati di estorsione — la pena era da considerarsi espiata al 30 agosto 1996, in data anteriore a quella del provvedimento impugnato, decorrendo il terminus a quo dal 30 agosto 1992, data di esecuzione della prima ordinanza di custodia cautelare. IV) Anche questa puntualizzazione è, innegabilmente, corretta. È, invero, fuori discussione l’applicabilità della norma dell’art. 297, comma 3, c.p.p., come sostituita dall’art. 12 della l. 8 agosto 1995, n. 332 — legge, come può notarsi, entrata in vigore ben prima del 30 agosto 1996, terminus ad quem — e questa norma dispone che, « se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b) — e sono i casi del concorso formale e della continuazione — e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave ». Con l’ordinanza del 29 agosto 1992 — travolta dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione del 14 maggio 1994 — era stata disposta — è opportuno ricordarlo — la misura della custodia cautelare per il reato di associazione per delinquere e per i reati di estorsione di cui alle lettere C) e D), reati connessi, tutti, ai sensi dell’art. 12 lettera d), ai tre reati di estorsione anche per i quali il Mammoliti, il 30 novembre 1993, era stato raggiunto da altro provvedimento custodiale. V) Il tribunale, su questo complesso tema, ha scritto che, « sebbene in sede di sentenza per gli episodi estorsivi sia determinato un aumento unico di pena ri-
— 682 — spetto a quella base comminata per il delitto associativo e sia pertanto impossibile determinare la pena per ogni singolo delitto, la circostanza che tale aumento complessivo sia pari ad anni quattro secondo la sentenza di primo grado e sia addirittura superiore per quella di appello esclude, altresì, l’applicabilità del disposto del comma 4, dell’art. 300 del codice di rito ». VI) L’affermazione dà, evidentemente, per scontato ciò che scontato non è. È da dire, anzitutto, che ove il giudice di merito, nell’infliggere la pena per il reato continuato, non abbia suddiviso la pena irrogata per i cosiddetti reati satelliti e la suddivisione o distinzione rilevi per il calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare o per l’accertamento della avvenuta espiazione della pena, il giudice delle misure deve porsi il relativo problema e determinare, ai soli fini della misura, la pena per ciascun reato in continuazione, non potendo la omessa suddivisione o distinzione essere di ostacolo al riacquisto della libertà qualora, di questo riacquisto, ricorrano le condizioni. E la suddivisione o distinzione della pena può essere fatta anche dalla Corte di cassazione allorché, come nella specie, i reati satelliti altro non sono che lo stesso reato commesso, in tempi diversi, in danno di persone diverse e non risulti o non sia allegato un diverso grado di gravità dei vari fatti-reato. Fatta questa precisazione, il calcolo della pena espiata è, sicuramente, quello che è stato dinanzi proposto, sicché le conseguenze sono ineliminabili, a meno che il tribunale non abbia inteso affermare, anch’esso, che la pena da prendersi in esame è la pena irrogata per l’intero reato continuato, nel qual caso valgono le considerazioni che si sono fatte. H) Tutto ciò premesso, l’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio e, per l’effetto, va annullata anche l’ordinanza in data 14 agosto 1996 della corte di assise di appello di Reggio Calabria; va ordinata, conseguentemente, l’immediata scarcerazione del Mammoliti se non detenuto per altra causa.
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La determinazione della pena nel reato continuato: brevi note in merito ad una recente pronuncia delle Sezioni unite in tema di misure cautelari e continuazione.
1. Anche nella più recente giurisprudenza il reato continuato è stato oggetto di decisioni che contribuiscono a ridisegnare in termini innovativi la figura dell’istituto. Alle tradizionali problematiche, concernenti l’applicazione della norma di cui all’art. 81, comma 2, c.p. (1), nel corso degli ultimi anni si sono infatti aggiunte altre questioni per lo più connesse con il regime processuale dell’istituto (2). (1) Fra queste possono sicuramente annoverarsi le vexatae quaestiones concernenti, da un lato, il criterio in base al quale va individuata ex art. 81, comma 2, c.p. la violazione più grave e, dall’altro, la regola secondo la quale va calcolato il trattamento sanzionatorio nel caso di reati puniti con pene eterogenee. Come è noto, tali problemi sono stati oggetto di una ennesima decisione della Corte di cassazione a Sezioni unite, nella quale è stato affermato il principio secondo cui è con riferimento alla sanzione edittale che deve essere valutata la violazione più grave. Per quanto riguarda poi l’ipotesi di continuazione fra illeciti puniti con pene di diverso genere, la Corte regolatrice ha stabilito che « in applicazione testuale dell’art. 81 la pena base che dovrà essere aumentata per effetto della continuazione non potrà che essere
— 683 — Emblematica di questa evoluzione può considerarsi, nell’interpretazione giudiziale, la svolta attuata dalla Corte di cassazione in tema di rapporti fra recidiva e continuazione di reati (3). Come è noto, già a partire dalla metà degli anni ottanta, nella Corte regolatrice è venuto affermandosi un indirizzo favorevole a riconoscere la compatibilità fra continuazione e recidiva (4). In altre parole, la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile unire con il vincolo della continuazione un episodio delittuoso sub iudice ad altri precedentemente giudicati anche quella prevista per il reato ritenuto più grave, senza riguardo alla qualità della sanzione edittalmente prevista per i reati satelliti » (Cass., Sez. un., 27 marzo 1992 (Cardarilli), in Cass. pen., 1992, p. 2046, m. 1076, annotata da V. ZAGREBELSKY). Peraltro, anche successivamente a tale pronuncia, la Corte di cassazione si è discostata dalla posizione assunta dalle Sezioni unite, affermando che « agli effetti della disciplina dettata dall’art. 81 c.p. per violazione più grave si deve intendere quella che, in concreto, presenti maggiore gravità e sia quindi passibile della pena più grave » (Cass., Sez. VI, 25 giugno 1993 (Abrami), in Cass. pen., 1994, p. 2986, m. 1833). Di conseguenza, a seguito di questo ulteriore contrasto giurisprudenziale, le Sezioni unite sono state chiamate ancora una volta a pronunciarsi sul punto, ribadendo che « il criterio cui deve aversi riguardo per la determinazione del reato più grave agli effetti della continuazione non è quello della comparazione degli indici di gravità concreta dei reati ex art. 133 c.p., bensì quello della più grave pena edittale prevista dal legislatore per ciascun reato da comparare » (Cass., Sez. un., 12 ottobre 1993 (Cassata) in Cass. pen., 1994, p. 1186, m. 685. In dottrina, in ordine a questi ulteriori contrasti si rinvia a ROMEO G., La continuazione ancora senza certezze, in Cass. pen. , 1994, p. 2046 ss.). Per un più completo quadro delle diverse posizioni giurisprudenziali e dottrinali si vedano, per tutti, F. COPPI, Reato continuato, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, p. 231 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, sub art. 81, p. 713 ss.; N. MAZZACUVA-E.M. AMBROSETTI, Reato continuato, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991, n. 3.1). (2) È in particolare con l’entrata in vigore del codice di rito nel 1989 che sono emerse nuove problematiche attinenti ai rapporti fra disciplina sostanziale dell’istituto e regime processuale (per un quadro di sintesi sul punto, si veda, per tutti, D. POTETTI, Vecchi problemi in tema di reato continuato e nuovo rito penale, in Cass. pen., 1996, p. 965 ss.). Nell’ambito di tali questioni ci limitiamo a segnalare, da un lato, quella concernente i criteri da seguire — per l’ipotesi di patteggiamento e giudizio abbreviato — nell’operare l’aumento di pena per la continuazione e la contestuale riduzione per il rito (cfr. Cass., Sez. un., 1 ottobre 1991 (ric. Biz) in Cass. pen., 1992, p. 295, m. 165), e, dall’altro, quella attinente alla definizione del procedimento che consente ex art. 671 c.p.p. di applicare « in executivis » il trattamento sanzionatorio proprio del reato continuato (per un quadro dei problemi ermeneutici ivi connessi si rinvia a A. GAITO, Concorso formale e reato continuato nella fase dell’esecuzione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 990; E.M. AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, Padova, 1991, p. 43 ss.; S. LORUSSO, Procedimento applicativo della disciplina relativa al concorso formale ed al reato continuato in executivis e garanzie giurisdizionali, in Cass. pen., 1994, p. 2125 ss.). (3) Va ricordato come già da tempo il Supremo Collegio fosse orientato ad ammettere la permanenza del disegno criminoso anche nell’ipotesi in cui « in medio tempore » si fossero verificati determinati atti processuali quali la denuncia, l’arresto, la contestazione del reato, l’interrogatorio, il decreto di citazione a giudizio ed anche la sentenza non definitiva di condanna. Diversa era, peraltro, la posizione assunta in ordine al caso di fatti criminosi realizzati successivamente al costituirsi della res iudicata. In tale ipotesi, secondo il tradizionale indirizzo della Corte regolatrice, non sarebbe stato ammissibile unificare con il vincolo della continuazione i reati commessi successivamente alla pronuncia irrevocabile di condanna. L’esclusione della riferibilità del regime giuridico di cui all’art. 81, comma 2, c.p. veniva giustificata, infatti, assumendosi una pretesa incompatibilità tra la disciplina della continuazione e quella della recidiva (così, Cass., Sez. un., 4 maggio 1968 (Pierro), in Giust. pen., 1968, II, c. 803). (4) Nell’ambito di questo orientamento giurisprudenziale, si segnalano Cass., Sez. III, 26 gennaio 1987 (Risuglia), in Cass. pen., 1988, p. 1441, m. 1229; Cass., Sez. VI, 29 gennaio 1988 (Pelliccia), ivi, 1989, p. 220, m. 206; Cass., Sez. I, 23 maggio 1988 (Abbinante), ivi, 1989, p. 1481, m. 1246; Cass., Sez. VI, 20 settembre 1988 (Luin), ivi, 1990, p. 53, m. 52; Cass., Sez. I, 5 marzo 1990 (Chiti), ivi, 1991, p. 1578, m. 1216. Isolata può pertanto considerarsi la posizione negativa, assunta in una sentenza della Cass., Sez. III, 12 luglio 1988 (Urrata), in Cass. pen., 1990, p. 53, m. 51. Più complesso può considerarsi lo stato attuale della dottrina: a fronte di un prevalente indirizzo favorevole ad ammettere la conciliabilità fra reato continuato e recidiva (in tal senso, si vedano, per tutti, M. ROMANO, Commentario, vol. I, cit., sub art. 81, n. 45, p. 726; e F. COPPI, Reato continuato, cit., p. 229), altra parte del pensiero penalistico rimane legata alla tesi tradizionale dell’incompatibilità degli istituti (A. PAGLIARO, Cosa giudicata e continuazione di reati, in Cass. pen., 1987, p. 95 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., Padova, 1992, p. 499; L. MAZZA, Recidiva, in Enc. dir., Milano, 1988, p. 116; P. PITTARO, Recidiva, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, p. 368; E.M. AMBROSETTI, Recidiva e recidivismo, Padova, 1997, p. 142 ss.).
— 684 — nell’ipotesi in cui, con riferimento al nuovo illecito commesso, venga attribuita al reo ex art. 99 c.p. la qualifica di recidivo. E simile orientamento — va subito soggiunto — ha trovato decisiva conferma in una recente pronuncia delle Sezioni unite, nella quale è stato affermato il principio « che, anche ai reati commessi dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, si applica la continuazione congiuntamente o disgiuntamente alla recidiva » (5). D’altro canto, trasferendoci sul piano comparatistico, non possiamo omettere di segnalare come questa tendenza ad una lettura dell’istituto in termini profondamente mutati, rispetto a quella tradizionalmente accolta nella giurisprudenza e nella dottrina, non sia limitata al solo sistema penale italiano. Anzi, si può tranquillamente sostenere che in altri ordinamenti proprio alcune recenti pronunce giudiziali hanno messo addirittura in crisi la stessa esistenza dell’istituto. Intendiamo fare qui riferimento a quelle sentenze del Bundesgericht svizzero (6) e del Bundesgerichtshof tedesco (7) nelle quali si è sancito un sostanziale abbandono della fortgesetzte Handlung. A tale rivoluzionaria conclusione le Supreme Corti di questi Paesi sono giunte sul presupposto che la figura del reato continuato porta a soluzioni le quali, in ordine a numerosi problemi come la commisurazione della pena, la prescrizione e l’effetto interruttivo del giudicato, non appaiono in alcun modo giustificabili (8). Di conseguenza, simile interpretazione giurisprudenziale ha radicalmente limitato la possibilità di unificare mediante la figura del reato continuato singoli episodi delittuosi. In specie, la Corte Suprema tedesca ha stabilito che, almeno con riferimento a singole ipotesi delittuose — ad esempio, Betrug, sexueller Mißbrauch e Steuerhinterziehung —, la figura della fortgesetzte Tat non può più ritenersi ammissibile (9). (5) Testualmente, Cass., Sez. un., 17 aprile 1996 (Zucca), in Cass. pen., 1997, p. 354, m. 190, con nota di G. DIOTALLEVI, La continuazione nel reato, il giudicato e la recidiva nella prospettiva nomofilattica delle Sezioni unite. (6) Bundesgerichtshof, 27 aprile 1990, in NStZ, 1993, p. 331; Bundesgerichtshof, 8 marzo 1991, ivi, 1993, pp. 331-332. In dottrina, sull’abbandono della figura del reato continuato da parte della giurisprudenza svizzera si veda H. JUNGH, Zur Nachahmung empfohlen: Aufgabe der Rechtsfigur der fortgesetzten Handlung durch das Schweizer Bundesgericht, in NJW, 1994, p. 916 ss. (7) La questione è stata affrontata in una decisione del Bundesgerichtshof (Großer Senat, 3 maggio 1994, in NStZ, 1994, p. 383 ss.), nella quale si è sancito il distacco da un consolidato indirizzo giurisprudenziale. Successivamente, altre sentenze della Suprema Corte tedesca si sono venute allineando a questa fondamentale pronuncia (Bundesgerichtshof, 20 giugno 1994, in NStZ, 1994, p. 493 ss.; Bundesgerichtshof, 8 giugno 1994, ivi, p. 494 ss.). Per un esame delle conseguenze che derivano da questa mutata posizione giurisprudenziale, sul piano della prescrizione del reato continuato, si veda inoltre Bundesgerichtshof, 29 giugno 1994, in NJW, 1994, pp. 2966-2967. (8) È peraltro da sottolineare come già da tempo nella dottrina si fossero levate voci critiche alla tradizionale ricostruzione della « fortgesetzte Handlung » ed alle conseguenze derivanti dal riconoscimento dell’istituto nel sistema penale (al riguardo, si veda, per tutti, T. FISCHER, Entwicklungen der fortgesetzten Handlung. « Tatbestand » und « Typus » in der Rechtsprechung des BGH, in NStZ, 1992, p. 415 ss.). (9) Per un quadro dei primi commenti dottrinali a questa svolta giurisprudenziale si vedano, fra gli altri, H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5. Aufl., Berlin, 1996, p. 715; W. STREE, in A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 25 Aufl. a cura di T. LENCKNER-P. CRAMER-A. ESER-W. STREE, München, 1997, premesse al § 52, pp. 680-681; G. ARTZ, Die fortgesetzte Handlung geht — die Probleme bleiben, in JZ, 1994, p. 1000 ss.; A. ZSCHOCKELT, Die praktische Handhabung nach dem Beschluß des Großen Senats fur Strafsachen zur fortgesetzten Handlung, in NStZ, 1994, p. 361 ss.; R. JAMM, Das Ende der fortgesetzten Handlung, in NJW, 1994, p. 1636 ss.; K. GEPPERT, Zur Straf-und Strafverfahrensrechtlichen Bewältigung von Serienstraftaten nach Wegfall der Rechtsfigur der « fortgesetzten Handlung », in NStZ, 1996, p. 57 e 118 ss. Con specifico riferimento alla mutata posizione del Bundesgericht svizzero si veda inoltre H. JUNG, Zur Nachahmung empfohlen: Aufgabe der Rechtsfigur der fortgesetzten Handlung durch das Schweizer Bundesgericht, in NJW, 1994, p. 916 ss. Nella dottrina italiana una prima analisi comparatistica in ordine alla recente giurisprudenza del
— 685 — In realtà, dopo queste pronunce, le quali si distaccano decisamente da un consolidato orientamento, non pare fuor di luogo affermare che, allo stato attuale, l’istituto della continuazione non trova più ingresso nel sistema germanico (10). Va da sé che la situazione normativa italiana è profondamente diversa da quella dei Paesi di lingua tedesca, tenuto conto del fatto che in tali ordinamenti, per un verso, la figura del reato continuato non è mai stata espressamente disciplinata dai codici (11) e, per l’altro, non è più da tempo previsto il cumulo materiale delle pene per il concorso reale (12). Tuttavia, anche alla luce di questi brevi cenni comparatistici, non si può disconoscere come, al di là delle innegabili diversità presenti nel quadro normativo, vi sia un elemento comune a tutti i sistemi penali in cui questa figura giuridica è conosciuta, e cioè la tendenza ad allontanarsi dalla tradizionale visione del reato continuato. 2. È dunque in un tal quadro generale di mutata ricostruzione dell’istituto che si inserisce lo specifico problema della c.d. determinazione unitaria della pena nella continuazione di reati. In particolare, nella sentenza in epigrafe le Sezioni unite sono state chiamate a dirimere un contrasto interpretativo sorto in merito a due questioni in tema di estinzione e perdita di efficacia della custodia cautelare. Al vaglio della Suprema Corte è stata posta la questione « se, ai fini del computo della durata della custodia cautelare relativamente alla fase di primo grado art. 303, comma 1, lettera c), n. 1, c.p.p. — debba farsi riferimento, nel caso di condanna per più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, alla pena complessivamente inflitta o alla pena relativa ai reati satelliti, rispetto ai quali sia stata disposta e sia ancora efficace la misura cautelare ». La seconda quaestio iuris, strettamente connessa con la prima, attiene al problema « se, nel caso di custodia cautelare disposta per alcuni reati, unificati sotto il vincolo della continuazione con la sentenza non irrevocabile di condanna, la custodia sofferta debba essere comparata, ai fini dell’art. 300, comma 4, c.p.p., con la pena inflitta per il reato continuato o con le pene inflitte per i reati in continuazione, rispetto ai quali sia stata disposta e sia ancora efficace la misura cautelare ». « Bundesgerichtshof » è stata compiuta da P. PARISE, Brevi osservazioni sull’istituto della continuazione nella recente esperienza giurisprudenziale tedesca. Spunti di riflessione comparatistica, in Cass. pen., 1997, p. 3233 ss. (10) Sul punto, si osserva infatti che nell’odierna interpretazione giurisprudenziale l’ambito di valenza del reato continuato è talmente limitato che si può parlare di una sua pratica eliminazione (così, J. BAUMANN-U. WEBER-W. MITSCH, Strafrecht. Allgemeiner Teil, 10. Aufl., Bielefeld, 1995, p. 728). (11) Negli ordinamenti di lingua tedesca, nei quali la figura del reato continuato non trova un’espressa definizione legislativa, in sede di elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono stati tradizionalmente individuati alcuni requisiti che consentono di unificare con il vincolo della continuazione singoli fatti delittuosi. Viene cioè richiesta, sul piano oggettivo, l’omogeneità nel modo di esecuzione dei reati « Gleichartigkeit der Begehungsweise » — e la lesione di identici beni giuridici. In ordine poi all’ipotesi di lesione di beni giuridici altamente personali — « hochstpersönliche Rechtsgüter », quali la vita, l’incolumità individuale, la libertà personale e l’onore, è previsto un ulteriore requisito: i singoli episodi illeciti devono necessariamente indirizzarsi nei confronti del medesimo soggetto passivo. Per quanto riguarda poi il profilo soggettivo, è necessaria la presenza di un dolo unitario « Gesamtvorsatz » —, che si concreta in un ininterrotto legame psicologico fra le singole decisioni, ognuna di queste rappresentando così il proseguimento della precedente (sul punto, cfr., per tutti, H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p. 715 ss. Nella dottrina italiana si vedano G. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, p. 465 ss.; e E.M. AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, cit., pp. 23 e 26 ss.). (12) È evidente che l’adozione per il concorso materiale del c.d. criterio dell’inasprimento — « Asperationsprinzip » —, il quale prevede una disciplina in qualche modo assimilabile a quella dettata in Italia per il reato continuato e per il concorso formale, ha sensibilmente attenuato l’esigenza di ricorrere alla figura della « fortgesetzte Handlung » al fine di attenuare i rigori del cumulo materiale (per un confronto sulla diversità di disciplina intercorrente fra ordinamento italiano e tedesco in tale materia, si rinvia a G. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, cit., pp. 476-477).
— 686 — Orbene, con riguardo ad entrambi i problemi si era delineata una diversità di posizioni nell’ambito della giurisprudenza del Supremo Collegio. In relazione al primo, si poteva riscontrare un indirizzo secondo cui in tema di termini massimi di custodia cautelare il riferimento all’entità della condanna, nell’ipotesi di reato continuato, andrebbe operato in relazione ai singoli illeciti e così in definitiva alla pena-base inflitta per il reato più grave, senza tenere conto della continuazione (13). Ma vi era anche un opposto orientamento, alla cui stregua, ai fini della individuazione dei termini di fase, nelle ipotesi previste dall’art. 303, comma 1, lettera c), c.p.p., dovrebbe farsi riferimento, qualora vi sia stata condanna per più reati unificati dalla continuazione, alla sanzione complessivamente inflitta, e non già alla sola pena-base con l’esclusione dell’aumento determinato ex art. 81, comma 2, c.p. (14). Analogamente, anche in merito al secondo nodo ermeneutico, la Corte di cassazione seguiva due differenti indirizzi interpretativi. Ad avviso del primo, la valutazione unitaria della pena applicata per il reato continuato avrebbe comportato che la detenzione sofferta durante la custodia cautelare per un periodo pari o superiore a quella inflitta con la condanna relativa ad un reato satellite non avrebbe potuto essere dichiarata completamente scontata ai sensi dell’art. 300, comma 4, c.p.p. (15). Di diverso tenore, peraltro, era la posizione assunta dalla Corte regolatrice in alcune sentenze. In queste ultime si affermava che, qualora fosse stata pronunciata sentenza di condanna non definitiva per un reato continuato ed il titolo della custodia cautelare, cui era sottoposto l’imputato, si riferisse esclusivamente all’illecito in relazione al quale era stato applicato l’aumento di pena ex art. 81, comma 2, c.p., la misura cautelare avrebbe perso di efficacia ai sensi dell’art. 300, comma 4, c.p.p., se la durata della custodia già sofferta non fosse inferiore all’aumento della pena irrogata per il reato satellite. Secondo la tesi accolta da questo indirizzo siffatta conclusione si sarebbe invero giustificata alla luce del principio del favor rei — cui è informata la disciplina della continuazione —, in base al quale la configurazione unitaria del reato deve essere esclusa allorché comporti conseguenze sfavorevoli all’imputato (16). Tale era dunque, nelle sue linee essenziali, lo stato della giurisprudenza in questa controversa materia. Al di là della specifica questione, un dato emerge in modo particolarmente evidente anche da questa sommaria esposizione delle motivazioni che sono alla base dei contrapposti orientamenti: le differenti conclusioni cui approdava la Corte di cassazione, in ordine al problema di natura processuale, trovavano il proprio fondamento in una diversa lettura dell’istituto sul piano del diritto penale sostanziale. In altri termini, non pare arbitrario affermare che la risposta al quesito di ordine processuale è strettamente connessa alla tesi seguita, da un lato, in tema di valutazione unitaria del reato continuato e, dall’altro, in ordine alla presunta ratio di favor rei propria alla disciplina della continuazione. Come abbiamo infatti avuto modo di constatare, è proprio facendo riferimento alla c.d. natura unitaria del reato continuato che parte della giurisprudenza giustificava una soluzione estremamente rigorosa per il computo dei termini di fase nella custodia cautelare previ(13) Così, Cass., Sez. I, 21 maggio 1996 (Russo), in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 596 ss. (14) Cass., Sez. I, 26 marzo 1996 (Anobile), in Mass. dec. pen., 1996, cc. 1-2, m. 204592. (15) Così, Cass., Sez. VI, 16 novembre 1995 (Musumeci), in Mass. dec. pen., 1996, c. 76, m. 203859; Cass., Sez. VI, 20 agosto 1992 (Mori), in Cass. pen., 1994, m. 250, p. 350 ss.; Cass., Sez. I, 4 marzo 1993 (Marangoni), ivi, 1994, m. 1556, p. 2494; Cass., 18 dicembre 1989 (Caldariera), ivi, 1991, m. 248, p. 276; Cass., Sez. I, 20 novembre 1989 (Grasso), in Mass. dec. pen., 1990, p. 285, m. 183732. (16) In tal senso, Cass., Sez. II, 4 ottobre 1995 (Golino), in Mass. dec. pen., 1996, c. 5, m. 203106; Cass., Sez. I, 23 maggio 1994 (Fidanzati), in Cass. pen., 1995, m. 1522; p. 2571 ss.; Cass., Sez. I, 6 luglio 1992 (Spina), ivi, 1993, m. 1552, p. 2561.
— 687 — sti dall’art. 303, comma 1, lettera c), c.p.p. La considerazione unitaria della pena, determinata ex art. 81, comma 2, c.p., avrebbe cioè comportato che il giudice, nel valutare l’estinzione della misura cautelare per decorso del termine di fase, dovesse necessariamente fare riferimento alla pena complessiva per il reato continuato e non a quelle relative ai singoli illeciti (17). Per contro, in termini sostanzialmente diversi si era posto il differente indirizzo della Suprema Corte proprio alla luce di un differente atteggiarsi della giurisprudenza in ordine alla considerazione unitaria del reato continuato. Invero, secondo simile ordine d’idee, agli effetti della legge penale la natura unitaria o pluralistica dell’illecito sarebbe strettamente connessa al principio del favor rei. In buona sostanza, accolto il presupposto che la considerazione del reato continuato come unico illecito verrebbe meno ogniqualvolta da ciò possano derivare conseguenze sfavorevoli al reo, si dovrebbe necessariamente dedurne che anche in sede di interpretazione degli artt. 303, comma 1, lettera c) e 300, comma 4, c.p.p. i termini, rispettivamente, « condanna » e « pena inflitta » non possano riferirsi, nell’ipotesi di continuazione di reati, alla pena complessiva determinata ex art. 81, comma 2, c.p. Già da queste prime notazioni sembra legittimo concludere come la soluzione di simile questione non dipenda, in realtà, da una contrastante lettura delle disposizioni di natura processuale regolanti la materia, bensì da una differente posizione circa la natura del reato continuato (18). Da ciò consegue pertanto la necessità di esaminare, in via preliminare, quali siano le più recenti posizioni di dottrina e giurisprudenza in merito alla natura giuridica dell’istituto ed alla sua ragion d’essere nel sistema penale italiano. 3. A distanza di oltre venti anni dalla novella del 1974 appare singolare il riferimento, operato in alcune recenti pronunce della Cassazione attinenti alla questione in esame, ad una presunta unicità del reato continuato ai fini della pena. Già da tempo, infatti, nell’ambito della stessa giurisprudenza della Suprema Corte va emergendo una più articolata posizione alla cui stregua, « venuto meno il carattere di unitarietà del reato continuato, e quindi anche della unitarietà della pena, il giudice ha l’obbligo di distinguere le pene nei reati concorrenti anche ai fini dell’applicabilità di cause estintive dei reati o delle pene » (19). Ed in numerose altre pronunce è stato ribadito che il giudice, nel determinare la pena complessiva ex art. 81, comma 2, c.p., pur non essendo obbligato a quantificare le singole sanzioni per ciascun illecito unito dal vincolo della continuazione, ne ha sicuramente la facoltà (20). (17) È doveroso sottolineare che, vigente il codice di procedura penale del 1930, in termini analoghi si poneva la tesi di E. MORSELLI, Sulla durata massima della custodia preventiva nell’ipotesi di reato continuato, cit., p. 342 ss. Secondo lo studioso, sul presupposto di una riconosciuta unità reale del reato continuato, l’art. 275 c.p.p. 1930 avrebbe obbligato il giudice a tenere conto, al fine di determinare il termine massimo per la custodia cautelare, del « reato ritenuto in sentenza », e perciò della pena complessivamente determinata ex art. 81, comma 2, c.p. (18) Non si può peraltro omettere di rammentare come, nel vigore del precedente codice di rito, fosse stato seguito un diverso approccio alla questione che faceva riferimento principalmente alle disposizioni d’ordine processuale. Infatti, ad avviso di A. GAITO (Condanna per reato continuato e durata massima della custodia preventiva, in questa Rivista, 1978, p. 792 ss.), anche dopo le modifiche apportate dalla novella del 1974, una prospettiva sostanzialistica del problema, che facesse riferimento alla natura giuridica dell’istituto, non avrebbe portato a risultati appaganti, « stante l’impossibilità allo stato attuale della legislazione — di definire la ormai annosa questione dell’unità reale o fittizia del reato continuato ». Di conseguenza, secondo quest’ordine d’idee, si sarebbe potuto giungere a conclusioni più sicure alla luce del solo dettato della normativa processuale. (19) Testualmente, Cass., Sez. III, 27 ottobre 1987 (Di Toma), in Cass. pen., 1989, p. 821, m. 719. (20) In tal senso, Cass., Sez. I, 12 marzo 1979 (Gambino), in Cass. pen. Mass. ann., 1981, p. 364,
— 688 — In altre parole, quindi, la giurisprudenza si è sostanzialmente allineata al prevalente orientamento dottrinale (21), secondo cui è il criterio del favor rei a determinare la considerazione unitaria o pluralistica del reato continuato (22). Ed è dunque a questo principio che deve fare riferimento l’interprete nel valutare se, in assenza di una specifica indicazione legislativa, dalla natura unitaria possano derivare conseguenze sfavorevoli al reo (23). D’altro canto, questa posizione dottrinale ha trovato autorevole conferma in numerose decisioni della Corte costituzionale nelle quali è stato affermato che gli illeciti unificati dal vincolo della continuazione possono considerarsi separabili proprio alla luce della disciplina del reato continuato, la quale è giustificata dalla causa indulgentiae (24). A ciò si aggiunga che anche in altre riforme, successive alla novella del 1974, si è espressamente previsto che in ossequio al favor rei l’unità del delitto continuato possa venir meno per scomporsi nei singoli illeciti. In tal senso, va innanzitutto rammentato il disposto di cui all’art. 53, ultimo comma, m. 408; Cass., Sez. V, 8 febbraio 1984 (Dorio), in Cass. pen., 1986, p. 66, m. 31; Cass., Sez. III, 28 gennaio 1986 (Bertolone), ivi, 1987, p. 561, m. 372; Cass., Sez. II, 2 marzo 1988 (Giolo), ivi, 1989, p. 1242, m. 1067. (21) Come è noto, dopo la riforma del 1974, in dottrina è prevalente la posizione secondo cui la funzione dell’istituto disciplinato dall’art. 81, comma 2, c.p. è quella di stabilire un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello riservato al concorso materiale di reati, tenuto conto del fatto che tale regime di pena si giustificherebbe in ragione del minor grado di colpevolezza del reo che ha compiuto i singoli episodi delittuosi sotto la spinta di un unico impulso delittuoso iniziale e concomitante (sul punto, si vedano, per tutti, F. COPPI, Reato continuato, cit., p. 225; E.M. AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, cit., p. 8 ss. e 17 ss.). Per una diversa posizione si segnala, tuttavia, E. MORSELLI, Sulla durata massima della custodia preventiva nell’ipotesi di reato continuato, cit., 1977, p. 345. Ad avviso dello studioso, infatti, « la diminuzione della pena nell’ipotesi di reato continuato — diminuzione che peraltro in pratica può non verificarsi, poiché l’ultimo capoverso dell’art. 81 consente implicitamente che la misura della sanzione possa coincidere con quella applicabile sulla base del cumulo materiale — più che rispondere ad una mens legis di ‘‘beneficio’’, costituisce semplicemente una concreta applicazione del principio retributivo, nel senso di una congrua commisurazione della sanzione all’entità della colpa connessa alla continuazione, in relazione anche alla personalità del reo in questa evidenziata ». (22) È peraltro da sottolineare come in ordine ad altre questioni le soluzioni adottate nella giurisprudenza della Corte di cassazione sembrerebbero meno coerenti con il principio di « favor rei » cui dovrebbe essere informata la disciplina della continuazione. In particolare, intendiamo fare riferimento al criterio seguito dalla giurisprudenza nel determinare, ex art. 81, comma 2, c.p., la sanzione complessiva nell’ipotesi di reati puniti con pene eterogenee. Come è noto, secondo la tesi accolta dalle Sezioni unite, anche nel caso in cui l’illecito più grave sia punito con pena detentiva e tutti i reati satelliti con sanzioni pecuniarie, la pena complessiva andrebbe determinata operando un aumento quantitativo della pena prevista per la violazione più grave. Ed a fondamento di tale posizione si è affermato che tale criterio di calcolo non sarebbe conflittuale con la « ratio » dell’istituto, « in quanto il principio di favor rei nei confronti dell’autore di più reati in concorso formale o avvinti nella continuazione si esprime normativamente nella scelta del trattamento ispirato al cumulo giuridico » (così, Cass., Sez. un., 26 maggio 1984 (Falato), in Cass. pen., 1984, p. 2154, annotata da V. ZAGREBELSKY, Nuovi sviluppi nell’applicazione dell’art. 81 c.p. al concorso di reati puniti con pene eterogenee). Orbene, appare di tutta evidenza come questa soluzione solo formalmente si adegui al principio di « favor rei », rivelandosi in realtà « odiosa » per il reo, dal momento che anche per i reati c.d. satelliti, sanzionati con pena pecuniaria, si applicherebbe quella detentiva. È dunque alla luce di simile premessa che la dottrina ritiene possibile che il giudice irroghi, in aggiunta alla pena prevista per la violazione più grave, una pena distinta di diversa specie corrispondente ai termini di aumento della prima (sul punto, cfr., per tutti, A. FIORELLA, Concorso formale, reato continuato e pene eterogenee, in questa Rivista, 1977, p. 1553 ss.; E.M. AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, cit., p. 17 ss. e pp. 42-42; F.P. FASOLI, L’applicazione del cumulo giuridico ai sensi dell’art. 81 c.p. quando le pene previste per i reati della fattispecie complessa siano eterogenee, in questa Rivista, 1992, p. 1425 ss.). (23) Sul punto, cfr. V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, 2a ed., Milano, 1976, p. 123; MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 502. (24) Nell’ambito di questa giurisprudenza costituzionale si segnala la decisione della Corte costituzionale del 9 aprile 1987, n. 115 (in Cass. pen., 1987, m. 1207, p. 1494), nella quale si legge: « che poi talvolta i vari reati, unificati dalla continuazione, possano essere dalla legge considerati separabili, ciò dipende proprio dalla natura stessa della continuazione che trova la sua giustificazione nella indulgentiae causa: ogniqualvolta l’unificazione sia per risolversi a danno dell’imputato, è lecito operare la scissione, parziale o totale, a seconda che lo richieda il favor rei ».
— 689 — legge n. 689/1981, nella parte in cui stabilisce che « quando la sostituzione della pena detentiva è ammissibile soltanto per alcuni reati, il giudice, se ritiene di doverla disporre, determina al solo fine della sostituzione, la parte di pena per i reati per i quali opera la sostituzione » (25). Nella medesima prospettiva va poi letta anche la norma dettata dall’art. 137, comma 2, disposizioni di attuazione del nuovo codice di procedura penale ove si prevede che sia ammissibile il regime sanzionatorio di cui all’art. 81, comma 2, c.p. anche « quando concorrono reati per i quali la pena è applicabile su richiesta delle parti e altri reati » (26). Invero, entrambe le disposizioni trovano la propria ragion d’essere nella volontà legislativa di evitare che da una valutazione unitaria della pena nella continuazione di reati derivi, quale inevitabile conseguenza, l’impossibilità di accedere, rispettivamente, alla sanzione sostitutiva ovvero al rito alternativo di cui agli artt. 444 ss c.p.p. anche in ordine agli illeciti per i quali, presi in considerazione singolarmente, simili benefici processuali non sarebbero preclusi (27). In effetti, l’unico disposto che oggi nel sistema penale italiano sembrerebbe derogare al principio di favor rei cui si informa la disciplina della continuazione dei reati è l’art. 158 c.p. (28). D’altro canto, la regola stabilita da questa norma — secondo cui, ai fini della decorrenza iniziale del termine di prescrizione il reato continuato viene considerato unitario sembrerebbe costituire un palese caso di mancato coordinamento fra tale disposizione e la nuova disciplina di cui all’art. 81, comma 2, c.p. introdotta con la novella del 1974 (29). Al tirar delle somme, si può quindi concludere che, allo stato attuale, un punto fermo nel tradizionale dibattito in questa controversa materia è sicuramente rappresentato dai risultati cui approdano la prevalente dottrina e giurisprudenza in merito alla questione relativa alla natura unitaria del reato continuato (30): entrambe, infatti, riconoscono che tale unità costituisce una fictio iuris la quale viene (25) In merito alla disciplina dettata da tale norma, si veda, per tutti, C.E. PALIERO, in E. DOLCINIA. GIARDA-F. MUCCIARELLI-C.E. PALIERO-E. RIVA CRUGNOLA, Commentario delle « Modifiche al Sistema Penale », Milano, 1982, sub art. 53, p. 284. (26) Per un sintetico esame delle problematiche connesse all’art. 137, comma 2, disposizioni di attuazione del nuovo codice di procedura penale, si rinvia a N. MAZZACUVA-E.M. AMBROSETTI, Reato continuato, cit., n. 3.4. (27) Esatta appare pertanto l’interpretazione seguita, di recente, in una pronuncia della Corte di cassazione riguardante per l’appunto l’art. 53, ultimo comma, legge n. 689/1981. In questa decisione, partendo dall’ormai consolidato presupposto che « il favor rei, cui è ispirata la deroga al cumulo materiale delle pene attuato dall’art. 81 c.p., non può estendersi tanto da annullare l’autonomia sostanziale dei singoli reati sotto profili diversi dall’unificazione del trattamento sanzionatorio », il Supremo Collegio conclude nel senso che « nel caso di più reati unificati dal vincolo della continuazione, quando l’applicazione di una sanzione sostitutiva della pena detentiva è ammissibile solo per alcuni reati, il giudice deve limitarla a questi (senza distinguere fra principale e satelliti) e indicare, in applicazione dell’art. 53 legge n. 689/1981, la parte di pena relativa alle violazioni per cui essa opera » (così, Cass., Sez. V, 30 aprile 1996 (Santucci), in Cass. pen., 1997, m. 633, p. 1018 ss. Per alcune notazioni critiche in ordine alla soluzione accolta in tale sentenza, si veda, peraltro, E. GALLUCCI, Brevi note in tema di cause oggettive ostative all’applicazione di sanzioni sostitutive e disciplina del reato continuato, in Cass. pen., 1997, p. 2078 ss.). (28) Al riguardo, di diverso avviso è F. MANTOVANI (Diritto penale, cit., p. 503), secondo cui « tale disciplina è la conseguenza più che di una valutazione unitaria della continuazione, del collegamento psicologico tra i fatti e della ratio della prescrizione, non potendo essa decorrere se non dal giorno in cui cessa quell’atteggiamento antidoveroso della volontà, che accompagna dall’inizio alla fine tutta la serie dei fatti criminosi ». (29) Così, E.M. AMBROSETTI, Problemi attuali in tema di reato continuato, cit., p. 16. (30) Del tutto minoritario può pertanto considerarsi quell’indirizzo dottrinale secondo cui, anche dopo la riforma del 1974, è possibile sostenere l’unità reale del reato continuato in quanto l’elemento unificante andrebbe ravvisato in quel fattore intellettuale e volitivo che è il disegno criminoso (così, E. MORSELLI, Il reato continuato nell’attuale disciplina legislativa, in questa Rivista, 1977, pp. 160-162; ID., Sulla durata massima della custodia preventiva nell’ipotesi di reato continuato, cit., pp. 346-347).
— 690 — necessariamente meno ogniqualvolta possa derivarne una conseguenza sfavorevole per il reo (31). 4. Sulla base di simili premesse, appare sicuramente condivisibile la posizione assunta dalla sentenza del Supremo Collegio qui annotata, nella parte in cui ha riconosciuto che l’unificazione del reato quoad poenam, dettata dall’art. 81, comma 2, c.p., non può essere invocata allorché l’interprete debba valutare il significato delle espressioni « condanna », di cui all’art. 303, comma 1, lettera c) n. 1, c.p.p., e « pena inflitta », di cui all’art. 300, comma 4, c.p.p. È evidente infatti come in questo specifico caso la valutazione unitaria della continuazione comporterebbe conseguenze sfavorevoli per il condannato in quanto un regime giuridico ispirato al favor rei paradossalmente legittimerebbe un più ampio periodo di custodia cautelare. Anzi, appare davvero singolare come il contrasto interpretativo, che ha portato alla pronuncia delle Sezioni unite, nascesse dal fatto che parte della giurisprudenza della Cassazione, in ordine a questo specifico problema, fosse rimasta legata ad una tesi — la presunta natura unitaria quoad poenam del reato continuato — la quale non trova più riscontro da tempo nel dettato normativo e nella stessa giurisprudenza della Corte regolatrice. Né, d’altro canto, simile posizione avrebbe potuto giustificarsi sul presupposto di una disciplina processuale che avrebbe dovuto imporre una considerazione unitaria dell’istituto ai fini della determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure cautelari. E ciò in quanto il legislatore, all’art. 278 c.p.p., prevede espressamente che in tale caso il giudice debba prendere in considerazione la sanzione comminata per ogni singolo illecito, escludendo con questo che si possa fare riferimento ad una ipotetica pena complessiva determinata ex art. 81, comma 2, c.p. (32). Parimenti condivisibili appaiono, inoltre, le conclusioni delle Sezioni unite nella parte in cui indicano il criterio adottato per determinare il quantum di pena inflitta dal giudice di merito con riferimento ai c.d. reati satelliti. In tale pronuncia si è infatti stabilito che « ove il giudice, nell’infliggere la pena per il reato continuato, non abbia suddiviso la pena irrogata per i cosiddetti reati satelliti e la suddivisione o distinzione rilevi per i calcoli dei termini massimi di durata della custodia cautelare o per l’accertamento dell’avvenuta espiazione della pena, il giudice delle misure deve porsi il relativo problema e determinare, ai soli fini della misura, la pena per ciascun reato in continuazione, non potendo la omessa suddivisione o distinzione essere di ostacolo al riacquisto della libertà qualora di questo acquisto ricorrano le condizioni ». A tale proposito, peraltro, è opportuno svolgere alcune considerazioni preliminari. In precedenza, abbiamo avuto modo di ricordare come nella più recente giurisprudenza in tema di reato continuato sia venuto affermandosi il seguente principio: nell’ipotesi in cui ai fini dell’applicabilità di cause estintive per i reati o per le pene vi sia necessità di indicare la pena spettante ad ogni singolo illecito, il giudice è tenuto a quantificare le sanzioni relative a ciascun episodio criminoso unito dal vincolo della continuazione. È in questa prospettiva che si pone pertanto anche la decisione delle Sezioni unite che qui s’annota (33). Il Supremo Collegio (31) In ordine a questa posizione dottrinale e giurisprudenziale, si veda, per tutti, M. ROMANO, Commentario, vol. I, cit., p. 718 ss., cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento bibliografico e giurisprudenziale. (32) Per un’analisi della disciplina dettata dall’art. 278 c.p.p. si veda, per tutti, L. D’AMBROSIO, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. III, 1990, sub art. 278, p. 89 ss. (33) A tale proposito, osserva R. BRICCHETTI (L’interpretazione fornita dalle Sezioni unite è ispirata al principio del « favor rei », in Guida al diritto, 1997, n. 34, p. 89) che « la Corte, ha dunque, con-
— 691 — ha precisato che, anche nel caso in cui vi sia applicazione di misure cautelari, il giudice deve scindere la determinazione complessiva della pena irrogata ex art. 81, comma 2, c.p., indicando non soltanto la sanzione spettante alla violazione più grave, ma anche le singole frazioni di pena relative ai singoli reati satelliti (34). Sul punto, però, vi è un aspetto problematico, in ordine al quale, a nostro avviso, la sentenza non si è sufficientemente soffermata. La Corte di cassazione ha omesso in effetti di prendere in considerazione un rilievo sollevato in dottrina. Si è infatti obiettato che, seguendo simile canone interpretativo, non si tiene conto della circostanza che, in assenza del vincolo della continuazione, la pena relativa ai c.d. reati satelliti sarebbe stata determinata con un peso quantitativo sicuramente superiore (35). In altre parole, si è posto l’accento sul fatto che l’aumento di pena inflitto per la continuazione sarà sicuramente inferiore alla sanzione che sarebbe stata inflitta per ciascuno dei reati satellite ove questi non fossero stati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Di conseguenza, ove fosse pronunciata sentenza di proscioglimento in ordine alla violazione più grave, si potrebbe giungere al risultato paradossale di una estinzione della misura cautelare, tenuto conto del fatto che l’imputato potrebbe avere espiato una pena superiore all’aumento sanzionatorio per la continuazione. Va da sé che tale conclusione si porrebbe in netto contrasto con il principio di legalità della pena. E ciò, in quanto il giudice, nel valutare la sussistenza dei presupposti per dichiarare estinta la misura cautelare, dovrebbe fare riferimento ad una pena la quale non è né quella determinata ex art. 81, comma 2, c.p., né quella astrattamente applicabile ai singoli reati ove questi non fossero unificabili con il vincolo della continuazione. A ciò si aggiunga che simile tesi comporterebbe altresì una palese violazione al principio di proporzionalità in materia di misure cautelari (36), ed in specie in ordine « al protrarsi della custodia cautelare » (37), dal momento che il giudice prenderebbe in considerazione solamente il quantum sanzionatorio corrispondente all’aumento per la continuazione, e non quindi la pena effettivamente proporzionata all’illecito commesso. Orbene, a fronte di tale complessa questione, la sentenza in epigrafe si limita a ribadire che la suddivisione o distinzione della pena può essere fatta anche dalla Corte di cassazione « allorché, come nella specie, i reati satelliti altro non sono che fermato l’orientamento che attribuisce al reato continuato natura di unità giuridica fittizia, ispirata al principio del favor rei e valevole principalmente quoad poenam e ad altri determinati effetti, prestabiliti dal legislatore, quali il termine di decorso della prescrizione (art. 158 c.p.), la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato, eccetera; per tutti gli altri possibili effetti resta, invece, integra l’autonomia delle singole violazioni da valutarsi come reati distinti ». (34) Commenta favorevolmente la posizione assunta nella decisione delle Sezioni unite R. BRICCHETTI (L’interpretazione fornita dalle Sezioni unite è ispirata al principio del « favor rei », cit., p. 89), secondo cui tale sentenza costituisce un monito ai giudici di merito affinché nelle sentenze di condanna per reati in continuazione, omogenea o eterogenea, non dimentichino di specificare l’entità degli aumenti di pena soprattutto con riguardo a ciascuno dei reati per i quali sia stata disposta e abbia mantenuto efficacia la custodia cautelare. (35) In tal senso, G. DE STEFANO, Reato continuato e criteri per la determinazione della pena ai fini della custodia cautelare, in Cass. pen., 1994, p. 351. (36) Per un quadro di sintesi in ordine alle problematiche connesse al principio di proporzionalità in tema di misure cautelari si rinvia a E. MARZADURI, Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., vol. VIII, Torino, 1994, p. 70 ss.; P. CORSO in M. PISANI-A. MOLARI-V. PERCHIa NUNNO-P. CORSO, Manuale di procedura penale, 2 ed., Bologna, 1997, p. 290 ss. (37) È l’art. 2 della legge-delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81) a sancire al n. 59 la « previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia in carcere, qualora l’ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata all’entità del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata » (sul punto, si veda, per tutti, A. BEVERE, Durata delle misure cautelari alla luce del principio di proporzionalità, in Cass. pen., 1991, p. 193 ss.).
— 692 — lo stesso reato commesso, in tempi diversi, in danno di persone diverse e non risulti o sia allegato un diverso grado di gravità dei vari fatti-reato » (38). In realtà, a noi pare che il problema sollevato possa trovare adeguata soluzione proprio facendo riferimento alle conclusioni cui è recentemente approdata la stessa Corte di cassazione. In una precedente sentenza, proprio in merito a questa specifica questione, si è affermato che, nell’ipotesi di proscioglimento dal reato più grave, la pena per i reati satelliti deve essere necessariariamente rideterminata, risultando con ciò superiore a quella inflitta in aumento della continuazione (39). In ultima analisi, adeguandosi a tale linea interpretativa, si verrebbe a rispettare sia il criterio di favor rei cui è ispirata la disciplina del reato continuato, sia il principio di legalità della pena, sia, da ultimo, il criterio di proporzionalità in ordine al protrarsi della custodia cautelare (40). Infine, trasferendoci su un piano problematico più generale, non resta che constatare come anche la decisione delle Sezioni unite qui annotata confermi l’esattezza di quell’orientamento dottrinale che individua nella ratio di favore, cui è informato l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma 2, c.p., l’unico criterio che deve guidare l’interprete nel valutare in quali casi la continuazione assuma natura di fattispecie unitaria ed in quali, invece, riemerga una considerazione pluralistica di quella particolare forma di concorso di illeciti rappresentata dal reato continuato (41). ENRICO MARIO AMBROSETTI Ricercatore confermato di Diritto penale Università di Padova
(38) Sotto questo profilo la pronuncia delle Sezioni unite qui annotata si richiama ad una giurisprudenza della Corte di cassazione che riconosce al Supremo Collegio la possibilità di procedere direttamente alla determinazione della pena limitatamente alle ipotesi in cui « alla situazione da correggersi possa porsi rimedio senza sostituzioni di giudizi di merito che involgano accertamenti e valutazioni di circostanze controverse, che rimangono sempre operazioni incompatibili con le attribuzioni del giudice di legittimità » (così, Cass., Sez. V, 27 marzo 1991 (Nicoletta), in Cass. pen., 1992, p. 2113, m. 1130). (39) Così, Cass., Sez. VI, 20 agosto 1992 (Mori), in Cass. pen., 1994, p. 350, m. 250. (40) Una diversa soluzione è stata prospettata da G. DE STEFANO (Reato continuato e criteri per la determinazione della pena ai fini della custodia cautelare, cit., pp. 353-354), secondo cui è condivisibile quell’orientamento giurisprudenziale alla cui stregua « l’art. 278 c.p.p. pone regole di generale portata e di indiscriminata osservanza in materia di custodia cautelare, riferibili ad ogni fase processuale » (così, Cass., Sez. un., 1 ottobre 1991 (Simioli), in Cass. pen., 1992, p. 288, m. 164; Cass., Sez. V, 21 maggio 1995 (Sinatra), ivi, 1991, II, p. 861, m. 306; Cass., Sez. II, 31 gennaio 1991 (Sapia), ivi, 1991, II, p. 862, m. 307. Contra, Cass., Sez. V, 9 maggio 1991 (Grimaldi), ivi, 1991, II, p. 864. Parimenti controverso è il quadro della dottrina sul punto: a fronte di autori che ritengono operativo l’art. 278 c.p.p. anche dopo la sentenza di condanna — fra gli altri, P.P. RIVELLO, I criteri di computo della pena applicabili successivamente all’emissione della sentenza di condanna, in relazione alle misure cautelari personali, in Cass. pen., 1992, p. 1094 ss.; G. IADECOLA, Sulla determinazione della pena agli effetti del computo dei termini massimi di custodia cautelare dopo la sentenza di condanna, in Giust. pen., 1991, III, c. 186 ss. —, vi sono altri studiosi che escludono l’applicabilità dei criteri sanciti dall’art. 278 c.p. nella fase successiva alla pronuncia non irrevocabile di condanna — in tal senso, P. FERRUA, La nuova procedura penale: integrazioni e correzioni nel quadro della legge-delega, in Difesa pen., 1992, p. 29. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinali si vedano anche V. ADAMI, I termini di durata della custodia cautelare nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. pen., 1991, p. 577 ss.; R. LI VECCHI, Criteri per la determinazione della pena ai fini dell’applicazione delle misure cautelari personali, ivi, 1993, p. 241 ss.). Di conseguenza, ad avviso di tale autore, anche ai fini dell’applicazione dell’art. 300, comma 4, c.p.p., il giudice dovrebbe formulare un giudizio prognostico sulla base di quanto dispone l’art. 278 c.p.p., senza perciò tenere conto dell’aumento disposto per la continuazione. In realtà, a nostro sommesso avviso, questa tesi sembrerebbe difficilmente accettabile in quanto contrastante con il dato letterale dell’art. 300, comma 4, c.p.p., che impone al giudice di fare riferimento all’« entità della pena irrogata ». (41) In tal senso, si vedano F. COPPI, Reato continuato, cit., p. 225; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 611.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Un’inutile trasferta a Londra di un giudice dibattimentale 1. Con decreto 6 dicembre 1993 Frank Hogart, Neville Munson, Cristopher Anthony Delaney, Raffaele Conte e Charles Poncet erano stati citati, davanti alla Pretura di Milano, per rispondere, in concorso tra loro, a titolo di favoreggiamento e di falsa testimonianza. L’imputato Marco Ceruti era chiamato a rispondere solo in ordine a tale ultimo reato. Si avviava quindi una lunga istruttoria, agli inizi della quale il pretore designato accoglieva la richiesta del P.M. per la separazione degli atti relativamente all’imputato Delaney, detenuto nel carcere di Jersey, e all’imputato Ceruti, che, tramite il difensore, aveva chiesto l’applicazione della pena (mesi 4 di reclusione). Procedendo in separata sede il pretore rigettava tale richiesta di « patteggiamento », ed essendo poi stata accolta la sua dichiarazione di astensione gli subentrava, nel giudizio dibattimentale, altro magistrato (nella persona del pretore Nicoletta Gandus). 2. Dall’ampia decisione, emessa il 12 dicembre 1996 e depositata il giorno 23, stralciamo la parte (pp. 2-10) che più direttamente attiene alla tematica del nostro titolo redazionale: « ... All’udienza del 25 ottobre 1995, tenutasi alla presenza del solo imputato Conte, rigettata una nuova istanza di riunione del procedimento con quello a carico di Ceruti, disposta l’acquisizione della registrazione della deposizione testimoniale resa da Frank Hogart nel processo di primo grado a carico di Annibaldi + 32, il P.M. procedeva all’esposizione introduttiva, come da nota scritta ed in atti. Si riferiva, in sintesi, che Marco Ceruti era imputato in concorso con Roberto Calvi ed altri nel procedimento relativo al dissesto del Banco Ambrosiano, per aver contribuito a crearne lo stato di insolvenza occultandone e distraendone fondi liquidi, fatti erogare da società estere — che agivano sotto il controllo di Calvi e finanziate da banche che operavano all’estero come filiali di fatto del Banco Ambrosiano — ed accreditati su conti bancari ginevrini di pertinenza di Umberto Ortolani per il versamento in contanti al Ceruti e sui suoi conti denominati « Tortuga » e « Bukada » della UBS di Ginevra. Costui era risultato appartenere alla Loggia Massonica P2 e, secondo l’impostazione accusatoria, avrebbe ricevuto il danaro al fine di intervenire sul suo amico Ugo Zilletti, allora vicepresidente del CSM, perché questi esercitasse pressioni di natura corruttiva sui magistrati della Procura della Repubblica di Milano per far ottenere a Roberto Calvi il passaporto, ritiratogli nel giugno ’80 e per lui di fondamentale importanza al fine di esercitare il controllo sul Banco Ambrosiano. Nel corso del dibattimento, il 29 ottobre 1991, dalla difesa di Ceruti fu depositata una memoria con allegati documenti tendenti a provare che le dazioni di danaro da Gelli a Ceruti erano giustificate da una transazione commerciale intercorsa con la Merlin Writers Limited e relativa all’acquisto di una collezione di preziosi da parte di Gelli con l’intermediazione di Ceruti. Con la memoria si chiedeva che fossero sentiti in qualità di testi Hogart, Munson, Poncet ed Alessandro Del Bene. Il Tribunale, accogliendo la richiesta tardiva, disponeva di (*)
A cura di MARIO PISANI.
— 694 — sentire come testi, oltre ad Hogart, Munson e Del Bene, anche Cristopher Anthony Delaney, che sembrava aver avuto un ruolo fondamentale nella vicenda: ma risultò Del Bene esser deceduto nell’84 e Delaney essere irreperibile. A seguito di varie vicende processuali determinate dalle istanze dell’avv. Conte, Frank Hogart veniva sentito il 10 dicembre 1991 e Neville Munson, per rogatoria l’8 gennaio 1992. L’ispettore del Jersey Peter Hopper prospettava poi, con un rapporto del 10 gennaio 1992 diretto al Tribunale, la falsità di tutta la documentazione prodotta, falsità confermata da Delaney, arrestato il 28 gennaio 1992 e sentito dall’autorità giudiziaria in rogatoria il 13 febbraio 1992. All’esito del processo, Marco Ceruti veniva condannato alla pena di anni nove e mesi otto di reclusione e gli atti relativi alla vicenda del Jersey venivano trasmessi alla Procura presso la Pretura. Qui, durante la fase delle indagini preliminari, venivano sentiti gli avv.ti Poncet, Conte, Biondi e Tonani, mentre non veniva accolta dall’autorità del Jersey, non aderente ad alcuna convenzione di assistenza giudiziaria con l’Italia, la richiesta di rogatoria per interrogare Delaney. Venivano infine formulate le imputazioni a carico degli attuali imputati. Il P.M. chiedeva poi l’ammissione di tutte le prove documentali di cui all’elenco in atti, oltre all’esame in qualità di testi di Peter Hopper, Roger Pryke, Alfredo Biondi e Pasquale Tonani, in qualità di imputato di reato connesso di Delaney, ed in qualità di imputati di Conte e Poncet. I difensori degli imputati chiedevano l’ammissione dei documenti di cui alle note in atti; inoltre la difesa di Poncet chiedeva l’esame di Ceruti, reperibile in Brasile, quale imputato di reato connesso; la difesa di Conte si opponeva all’esame dello stesso e dei testi Hopper e Pryke, producendo la richiesta di svolgimento del processo con il rito abbreviato; la difesa di Hogart e Munson l’esame dei due imputati. Dopo le opposizioni, osservazioni e precisazioni di tutte le parti (come da verbale in atti), la sottoscritta ammetteva quali prove l’esame dei testi Hopper, Pryke, Biondi e Tonani, (questi ultimi per l’udienza del 16 novembre 1995) e, quanto alle prove documentali, ammetteva tutte le missive fra legali (la cui acquisizione era stata richiesta da tutte le parti) e, con i limiti di cui all’ordinanza, la sentenza di primo grado per la bancarotta del Banco Ambrosiano, a carico di Annibaldi + 32, riservandosi quanto alle altre richieste. A scioglimento della riserva, il 30 ottobre 1995 veniva data lettura dell’ordinanza di ammissione delle prove documentali (come ivi indicato) e testimoniali, escludendo solo l’esame dell’imputato di reato connesso Ceruti e rigettandosi pertanto la richiesta di rogatoria in Brasile. Veniva pertanto disposta la citazione tramite INTERPOL di Hopper e Pryke per l’udienza del 6 dicembre 1995 e l’effettuazione di rogatoria internazionale per l’esame di Delaney (1). La rogatoria internazionale per l’esame di Delaney. Questa richiesta avrebbe nel corso dei mesi successivi avuto un iter che vale la pena di descrivere. È poi doveroso farlo, perché essa ha determinato un incredibile prolungamento dell’istruttoria dibattimentale (...). A seguito di richiesta telefonica all’INTERPOL del 30 ottobre, emergeva (come da notizia ricevuta via fax pressoché contestualmente) che Delaney era detenuto a Gloucester, e che avrebbe terminato il 20 aprile 1997 di scontare la pena comminatagli [sic] dai giudici inglesi. In data 2 novembre 1994 veniva pertanto formulata la richiesta di rogatoria (in cui veniva anche prospettata la possibilità di una sua traduzione in Italia, o quanto meno a Lon(1) Sulla reiezione di una precedente commissione rogatoria ad iniziativa della Procura della Repubblica presso la stessa Pretura v. lo scambio di corrispondenza pubblicato in Ind. pen., 1995, pp. 162-163.
— 695 — dra), che veniva inviata alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano, al Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione Generale degli Affari Penali, ufficio II, e direttamente alla competente Autorità Giudiziaria del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, tramite INTERPOL. Nelle richieste, contenenti note esplicative, si precisava la necessità di una risposta urgente. Dopo vari contatti telefonici con il consulente ed interprete dell’INTERPOL Giovanni Ceccarelli, su richiesta dello stesso, avanzata per conto delle competenti autorità, il 17 novembre 1995 venivano inviate ulteriori note esplicative e l’elenco delle domande che tutte le parti intendevano porre a Delaney, oltre all’istanza del P.M. di traduzione dello stesso in Italia, ai sensi dell’art. 11 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, cui l’Inghilterra ha aderito il 21 giugno 1991 [rectius: il 27 novembre 1991]. Tramite Ceccarelli, giungeva notizia che la richiesta di rogatoria incontrava delle difficoltà presso l’autorità britannica, per la posizione di Delaney di imputato per il quale si procede separatamente: veniva pertanto inviata una nuova nota esplicativa, con allegato il testo dell’art. 210 c.p.p. Come tutti gli altri atti, anche questo veniva mandato in lingua inglese, con fax del 27 novembre 1995. In data 4 dicembre 1995 l’INTERPOL preannunziava una risposta negativa del « Home Office », peraltro poi mai ufficialmente pervenuta, con l’avvertimento che la posizione avrebbe potuto cambiare ove vi fosse stato un previo consenso di Delaney all’esame e, soprattutto, ove si fosse potuto assicurare che nessuna dichiarazione di Delaney avrebbe potuto esser usata contro di lui nel procedimento pendente a suo carico. Nessuna collaborazione veniva fornita dall’autorità inglese al fine di interpellare il detenuto circa la sua volontà di essere esaminato, malgrado il fatto che i motivi per cui l’esame era stato disposto e le domande che gli sarebbero state poste fossero stati da tempo chiariti, con le citate note in lingua inglese, che (sempre a detta del rappresentante dell’INTERPOL, ormai diventato abituale interlocutore telefonico della sottoscritta) erano state inviate anche alla direzione del carcere per essere portate a sua conoscenza. Solo a seguito dell’attività del difensore italiano di Delaney perveniva il consenso dello stesso all’esame, con nota che veniva inviata in copia a Londra il 28 febbraio 1996. Iniziava allora un’altra serie di comunicazioni telefoniche con Ceccarelli, in cui venivano ipotizzate le date dell’esame, da effettuarsi entro la fine di marzo. Con nota a firma del Sergente Investigativo Andy Walker, il 6 marzo 1996 a questa giudicante (che non aveva mai specificamente chiesto che l’esame di Delaney avvenisse all’interno del carcere davanti all’autorità di polizia invece che davanti all’autorità giudiziaria, cui invece aveva rivolto fin dall’origine la richiesta di rogatoria) veniva data notizia che all’interno del carcere tutte le domande al detenuto sarebbero state rivolte da un funzionario di polizia, e che pertanto sarebbe stato più opportuno l’intervento dell’autorità giudiziaria, le istruzioni della quale si attendevano. Allegata alla nota di Walker era una missiva dei legali inglesi di Poncet, dalla quale si evince che gli stessi erano intervenuti nella vicenda (come era, peraltro, loro diritto), interpellando direttamente l’autorità competente (« Home Office, Judicial Co-operation Unit, UK Central Authority »), cui la richiesta era stata comunque trasmessa fin dal 2 novembre 1995. Analoga lettera dei legali di Hogart, del 15 marzo 1996, inviata alla Central Authority, veniva trasmessa da Walker il 21 marzo 1996. In sostanza in tali lettere gli avvocati inglesi prospettavano l’opportunità che Delaney venisse ascoltato davanti all’autorità giudiziaria e segnatamente davanti al Tribunale Superiore Britannico (da preferirsi ad una Magistrates’ Court, abitualmente competente in materia), per la delicatezza del caso, da non affidarsi ad un interrogatorio di polizia, anche se effettuato alla presenza del giudice italiano. Un’ulteriore sollecitazione e precisazione veniva pertanto inviata lo stesso 21 marzo 1996, facendo presente la necessità di un’urgente risposta delle competenti autorità, che, a detta dei funzionari dell’INTERPOL, continuavano ad avanzare delle perplessità sulla possibilità di accoglimento della richiesta di rogatoria per la posizione processuale di Delaney, imputato di reato connesso.
— 696 — Il 22 marzo 1996 l’Ispettore Investigativo Nick Gargan (intervenendo per la prima volta nella questione) scriveva: « il proposto interrogatorio solleva una lunga serie di questioni particolarmente complesse che riguardano la politica britannica », escludendo la possibilità di una risposta definitiva nell’immediatezza. Egli evidenziava altresì le difficoltà derivanti dalla partecipazione di un gran numero di persone (fra giudici ed avvocati di tutti gli interessati) all’interrogatorio in carcere, per « motivi di natura procedurale, amministrativa e senza dubbio etica » ed ancora una volta richiedeva una dichiarazione dell’autorità italiana (evidentemente impossibilitata a rispondere nei predetti termini) in base alla quale si garantisse a Delaney che le sue dichiarazioni rese nel corso dell’esame non avrebbero potuto esser usate nel procedimento a suo carico pendente in Italia. Si paventava, in sostanza, un pericolo di doppia incriminazione (« double jeopardy ») in relazione al processo ed alla condanna dallo stesso già subiti in Jersey per la falsificazione dei documenti che poi erano stati prodotti in Italia nel corso del dibattimento per la bancarotta del Banco Ambrosiano, benché fosse stato più volte già spiegato — con note scritte e lunghi colloqui telefonici con i rappresentanti dell’INTERPOL, senza mai riuscire a trattare la questione direttamente con la Central Authority, prospettante le difficoltà assolutamente ostative all’accoglimento della richiesta — che per tale falso documentale l’autorità giudiziaria italiana non procede, perseguendo invece Delaney per il favoreggiamento nei confronti di Ceruti ed il concorso in falsa testimonianza. Conclusivamente ed inopinatamente, Gargan proponeva, al fine di risolvere il problema, l’effettuazione dell’interrogatorio in videoconferenza. All’udienza del 28 marzo 1996 (nella quale si sarebbe dovuto effettuare l’esame degli imputati, dopo quello di Delaney) la proposta veniva accolta, per i motivi di cui all’ordinanza in atti, trattandosi (sostanzialmente) di un atto di giurisdizione diretta, che, se attuato con le dovute garanzie, avrebbe potuto soddisfare tutte le esigenze dell’accusa e della difesa. Veniva pertanto avviata la complessa procedura, interessando (anche a seguito della successiva precisazione dell’INTERPOL, in data 17 aprile 1996, nella perdurante assenza di ogni risposta da parte della Central Authority: « non c’è una possibilità effettiva che l’interrogatorio avvenga nel tribunale britannico ») i dirigenti della Pretura e del Tribunale di Milano, i dirigenti degli uffici II e IV del Ministero di Grazia e Giustizia, il coordinatore italiano della Telecom — che garantiva l’apposita effettuazione del collegamento — oltre naturalmente all’INTERPOL, disponendo (a seguito delle ordinanze dibattimentali del 28 marzo e 19 aprile 1996, in atti) l’effettuazione della videoconferenza per il 21 maggio 1996, data concordata con i rappresentanti dell’INTERPOL, oltre che con tutte le autorità italiane ed i competenti uffici. I difensori di Poncet avevano nel frattempo sollecitato l’intervento di questa giudicante presso la competente autorità inglese (da loro tramite i colleghi britannici interpellata direttamente con varie missive, di cui veniva depositata copia al fascicolo del dibattimento), per l’effettuazione dell’esame di Delaney davanti ad una Corte. Giungeva altresì notizia che il detenuto era stato nel frattempo scarcerato, ed era sottoposto a misure di sorveglianza non detentive nella città di Bournemouth. In avanzata fase di organizzazione della videoconferenza, giungeva la prima risposta ufficiale della UK Central Authority, datata 8 maggio 1996 (successiva dunque di sette mesi alla prima richiesta), che escludeva la possibilità di effettuazione dell’esame di Delaney tramite collegamento audiovisivo ed informava della « attuale intenzione del Segretario di Stato di nominare una commissione allo scopo di ascoltare la testimonianza di Cristopher Anthony Delaney » (2). Con successivo fax del 10 maggio 1996 (susseguente alle sollecitazioni telefoniche della (2) È da rilevare che, alla stregua dell’art. 4(2) (United Kingdom evidence for use overseas) del Criminal Justice (International Co-operation) Act 1990, il Segretario di Stato « may, if he thinks fit, by a notice in writing nominate a court in England (...) to receive such
— 697 — sottoscritta direttamente alla Central Authority per una rapida e definitiva risoluzione della vicenda) veniva fissata la data dell’interrogatorio per il 20 maggio 1996 davanti alla « Magistrates’ Court » di Bournemouth. Veniva pertanto « smontata » la complessa procedura avviata per l’effettuazione della videoconferenza ed organizzata la missione in Inghilterra di questo ufficio, previo nulla osta del Ministero, dei dirigenti della Pretura, ecc. e successivo scambio di fax e telefonate sia direttamente con la UK Central Authority (e per essa con il funzionario incaricato, Cordella Dawson) che con l’INTERPOL, per ottenerne l’assistenza tecnica. Ma il 14 maggio 1996 la stessa autorità britannica scriveva a questa stupefatta giudicante che i problemi giuridici posti dal caso esigevano una più approfondita considerazione, e che pertanto non si sarebbe svolto alcun esame il 20 maggio 1996. Ed infatti il 15 maggio 1996 i legali inglesi di Poncet, tramite i difensori italiani, facevano pervenire una nota della stessa UK Central Authority, che negava esser stata nominata una Corte per l’interrogatorio di Delaney il 20 maggio 1996. Alle successive richieste (che evidenziavano in particolare i continui inevitabili rinvii del procedimento e la necessità di una sua conclusione in tempi brevi) l’autorità inglese il 17 maggio 1996 rispondeva che era in corso la procedura di nomina della « Crown Court », confermando la notizia (senza ulteriori precisazioni, malgrado le cortesi ma pressanti istanze di questa giudicante di concordare una data, al fine di non turbare troppo il regolare svolgimento della normale attività giudiziaria) con altro fax del 23 maggio 1996 ed assicurando telefonicamente il 3 maggio 1996 una risposta entro il successivo 5 giugno 1996. Nessuna risposta più precisa giungeva neppure dal dirigente dell’Ufficio II del Ministero, il cui dirigente aveva appositamente e direttamente interpellato (come da comunicazione telefonica ricevuta) il dirigente della UK Central Authority, che agisce per conto del Segretario di Stato. Il 5 giugno 1996 tramite fax la Pretura di Milano veniva avvisata che la richiesta di rogatoria sarebbe stata esaminata dal giudice il 7 giugno 1996: a seguito di quella udienza, i legali inglesi di Poncet avvisavano quelli milanesi (con una nota scritta ed in atti) che l’interrogatorio sarebbe stato effettuato il 19 luglio 1996. Pertanto, all’udienza dibattimentale dell’11 giugno 1996, il processo veniva rinviato all’udienza da tenersi in sede di rogatoria, in Londra, il 19 luglio 1996, come da ordinanza da intendersi qui trascritta. Ma da un successivo fax della UK Central Authorithy del 13 giugno 1996 si aveva conoscenza che quella del 19 luglio 1996 sarebbe stata un’altra udienza preliminare, per lo svolgimento della quale veniva richiesto l’invio di ulteriore documentazione: adempimento effettuato con fax del 17 e 20 giugno 1996. Solo il 16 luglio veniva confermato dalla Central Authority il fatto che l’autorità giudiziaria italiana non doveva esser presente il 19 luglio, e finalmente, il 1o agosto 1996, veniva comunicata la data fissata per l’interrogatorio di Delaney, davanti alla Central Criminal Court, il 1o e 2 ottobre 1996 (3). Su richiesta dei legali inglesi degli imputati Poncet ed Hogart, veniva inviata a Londra copia autentica di tutta la documentazione ricevuta dai testi Hopper e Pryke, oltre che (a chiarimento di tutta la vicenda) il verbale dell’interrogatorio reso in rogatoria da Delaney nel corso del dibattimento Annibaldi + 32 e la traduzione dell’esposizione introduttiva del P.M. Il 1o ottobre 1996, in Londra si svolgeva la prima rogatoria nella storia del Regno Unito in pubblico dibattimento presso la Central Criminal Court, Old Bailey (almeno a quanto riferito dai funzionari della Corte britannica e del Ministero di Grazia e Giustizia): avvisato dei suoi diritti ed interpellato dal Common Serjeant Neil Denison e dalla sottoscritta, alla presenza del P.M. e di tutti i difensori italiani ed inglesi suoi e degli imputati Munson, Hogart, of the evidence to which the request relates as may appear to the court to be appropriate for the purpose of giving effect to the request ». (3) Per il resoconto di una trasferta di magistrati italiani a Londra nel corso delle indagini relative ai fondi neri della Esso (1979) v. Ind. pen., 1981, p. 766.
— 698 — Poncet e Conte (quanto a quest’ultimo in sostituzione), Christopher Antony Delaney revocava il precedente consenso all’esame, avvalendosi della facoltà di non rispondere. L’istruttoria dibattimentale si sarebbe conclusa nei primi mesi del ’96, non irrilevanti somme di danaro e molto tempo prezioso della Pretura di Milano sarebbero stati risparmiati se una diversa dichiarazione di volontà fosse pervenuta prima: ma tant’è, Delaney ha indubbiamente esercitato un suo insopprimibile diritto. Questa giudicante ritiene doveroso però precisare alcune questioni. In primo luogo, va tenuto presente che l’esame di Delaney, una volta acquisitene le dichiarazioni ex art. 238 c.p.p., non poteva non essere disposto, trattandosi di un diritto delle parti che lo avevano richiesto, come previsto dall’ultimo comma dello stesso articolo. Va anche detto che, una volta ammesso l’esame, le procedure per la rogatoria internazionale dovevano esser avviate e condotte direttamente dal giudice del dibattimento, così come avevano esplicitamente richiesto l’autorità britannica ed il P.M. Ed ancora: la prima richiesta è stata inviata nel Regno Unito tramite INTERPOL e senza attendere che provvedesse il Ministero di Grazia e Giustizia all’inoltro per via diplomatica, così come consente il comma 5 dell’art. 727 c.p.p., per gli evidenti motivi di urgenza, che hanno poi determinato tutti i successivi, pressanti ed inutili solleciti: era infatti veramente inconcepibile un prolungamento del dibattimento di primo grado (che infatti si è poi concluso a quasi cinque anni dal fatto), trattandosi di istruttoria il cui unico elemento di complessità era costituito dalla predetta rogatoria internazionale. Dal gennaio ’96, in sostanza, il procedimento era fermo e le udienze dibattimentali fissate si riducevano ad inutili riti solo a causa del mancato espletamento della rogatoria ». 3. Aggiungiamo, a guisa di chiusura, che i quattro imputati venivano ritenuti corresponsabili dei reati loro rispettivamente ascritti, e condannati (p. 71) a pene varie (anni 1; anni 2; mesi 16 di reclusione).
Svizzera-Kazakhistan: un’estradizione pluricondizionata. 1. In primo luogo riassumiamo i fatti, quali risultano dalla sentenza che qui intendiamo sottoporre all’attenzione del lettore: la sentenza 12 settembre 1997 del Tribunale Federale elvetico, in veste di 1a Corte di diritto pubblico (ATF 123 II p. 511 ss.). Il 26 gennaio 1996 la Repubblica del Kazakhistan (uno degli Stati successori dell’URSS) chiedeva alla Svizzera l’estradizione della cittadina A., accusata d’aver contraffatto delle garanzie bancarie costituite dalla Banca nazionale del suo paese (per l’appunto, il Kazakhistan), e d’aver utilizzato tali falsi nel corso di una transazione. Il 9 aprile 1997, l’Ufficio Federale di Polizia accordava l’estradizione, peraltro subordinandola (in forza dell’art. 80 lett. p), in vigore dal 1o febbraio 1997, della legge federale sulla materia [AIMP]), ad una serie di condizioni, rese necessarie a seguito e per effetto di una documentata ricognizione circa l’osservanza, nel Paese richiedente, degli standards minimi di salvaguardia dei diritti dell’uomo, ricavabili, in particolare, dai Patti sui diritti civili e politici dell’ONU (in seguito indicati come: Patti ONU II). Preso atto, in senso adesivo, del quadro « très sombre » sotto tali profili offerto dalla situazione del Kazakhistan, il Tribunale Federale passava ad esaminare se le garanzie formali richieste dall’Ufficio Federale di Polizia, e fornite dallo Stato richiedente, potessero ritenersi sufficienti ad evitare i rischi prospettati dalla ricorrente: pena di morte, trattamenti persecutori, procedure di giudizio non garantite. 2. Non potendo, per ragioni di brevità, riproporre i diversi passaggi argomentativi del Tribunale Federale, ci limitiamo a tradurre il dispositivo della sentenza, dal quale, insieme alla reiezione del ricorso, emergono — in versione finale — le condizioni apposte alla « difficile » estradizione:
— 699 — « 1) È concessa alla Repubblica del Kazakhistan l’estradizione di A. in relazione ai fatti indicati nella richiesta di estradizione del 9 gennaio 1996 alle seguenti condizioni »: a) Lo Stato richiedente « si impegna formalmente a estradare verso il Governo elvetico », a richiesta di quest’ultimo, ogni persona — cittadini esclusi — che si sia rifugiata sul proprio territorio e che venisse ricercata dalle autorità elvetiche per fatti analoghi a quelli addebitati ad A. b) Lo Stato richiedente si impegna ad accordare ad A. le garanzie processuali riconosciute dal Patto ONU II, in particolare negli artt. 2.3, 9, 14, 15, e 26. c) Nessun tribunale straordinario (d’exception) potrà essere investito in ordine ai reati posti a carico di A. d) La pena di morte non sarà né richiesta, né pronunciata, né applicata nei confronti di A. (4). L’impegno di diritto internazionale assunto dalla Repubblica del Kazakhistan a tale riguardo rende inopponibile ad A. l’art. 6.2 del Patto ONU II (cfr. art. 5.2 del Patto ONU II). e) A., inoltre, non sarà sottoposta ad alcun trattamento che attenti alla sua integrità fisica e psichica (artt. 7, 10 e 17 Patto ONU II). La situazione di A. non potrà essere aggravata, nel corso della sua detenzione cautelare e dell’esecuzione della pena, in base a considerazioni fondate sulle sue opinioni o le sue attività politiche, l’appartenenza a un gruppo sociale determinato, la razza, la religione o la nazionalità (art. 2 lett. b) AIMP). f) Nella sua qualità di capo dello Stato, il presidente della Repubblica del Kazakhistan si impegna, in conformità agli artt. 2 e 5 del Patto ONU II, ad assicurare il rispetto delle garanzie processuali qui sopra enunciate (lett. b, c, d ed e). Egli si impegna, in particolare, a rispettare il principio di indipendenza e di imparzialità delle autorità giudiziarie investite del procedimento penale a carico di A. per i fatti enunciati nella richiesta di estradizione del 9 gennaio 1996, sia nella fase istruttoria che nelle fasi del giudizio o dell’impugnazione. g) Nessun atto commesso da A. anteriormente alla consegna e per il quale l’estradizione non è concessa darà luogo a procedimento, condanna o riestradizione ad uno Stato terzo e nessun’altra ragione di estradizione comporterà una restrizione della libertà individuale di A. (cfr. art. 15 Patto ONU II). Questa restrizione verrà meno se, nel termine di 45 giorni successivi alla sua liberazione condizionale o definitiva, A. non avrà lasciato il territorio del suo Paese, dopo d’essere stata informata delle conseguenze relative e di aver avuto la possibilità di andarsene; altrettanto avverrà se A. ritornasse nella Repubblica del Kazakhistan dopo d’averla lasciata o qualora vi fosse ricondotta da uno Stato terzo (art. 38 al.2 AIMP). h) Ogni persona che ufficialmente rappresenta la Svizzera nella Repubblica del Kazakhistan potrà fare visita ad A., senza che gli incontri possano essere oggetto di misure di controllo. A. potrà in ogni tempo rivolgersi a questi rappresentanti. I medesimi, inoltre, potranno informarsi dello stato della procedura ed assistere alle udienze. Agli stessi dovrà essere trasmessa una copia della decisione che pone fine al procedimento penale. (4) La clausola in tema di pena di morte è stata così modificata e integrata dal Tribunale Federale, come viene specificato da un passaggio della motivazione (7.b). Premesso che lo Stato richiedente aveva, di propria iniziativa, fornito l’assicurazione che A. non sarebbe stata sottoposta alla pena capitale, e che la generica allegazione, da parte di A., che un tale impegno sarebbe del tutto privo di valore — il che, peraltro, non poteva portare a ritenere per davvero che lo Stato richiedente non avrebbe mantenuto la parola data, in violazione della regola di buona fede che regge i rapporti tra Stati (cfr. ATF 122 II. 140. 5 c, p. 143; 117 Ib 337. 2, p. 340) — il Tribunale precisava quanto segue: « Atteso ciò non basta, alla stregua dell’ordine pubblico internazionale, che la pena di morte non sia applicata. Perché l’estradizione sia concessa, è indispensabile che lo Stato richiedente fornisca l’assicurazione che la pena capitale non sarà né richiesta, né pronunciata, né applicata ». E pertanto: « Il § 1 lett. e) della decisione impugnata deve essere modificato in tal senso ex officio (...) e l’Ufficio Federale è invitato ad ottenere dallo Stato richiedente una garanzia aggiuntiva espressa a tale riguardo ».
— 700 — 2) L’estradizione di A. non sarà eseguita e il mandato d’arresto per l’estradizione del 22 dicembre 1995 verrà revocato, se la Repubblica del Kazakhistan non confermerà le garanzie enunciate alle lettere da a) ad e) e alle lettere g) e h) e se il Presidente della Repubblica del Kazakhistan non fornirà la garanzia menzionata alla lettera f), entro il termine che gli verrà indicato dall’Ufficio Federale. 3) L’estradizione di A. non sarà portata ad esecuzione fino alla pronuncia a seguito di ricorso interposto, davanti alla Commissione federale dei ricorsi in materia di asilo, contro la decisione 29 maggio 1996 dell’Ufficio Federale dei rifugiati. 4) L’estradizione di A. non sarà portata ad esecuzione se la Commissione federale dei ricorsi in materia di asilo le accorderà l’asilo ». 3. Si è parlato di « estradizione difficile ». Un giurista di comprovata esperienza s’è trovato a formulare, al riguardo, il seguente e pur rapidissimo commento: « Les autorités suisses sont-elles simplement naives, où cherchent-elles à se donner bonne conscience? ».
Svizzera-Italia: in tema di estensione dell’estradizione. 1. Sulla base di un’ordinanza di custodia cautelare emessa l’8 aprile 1997 dal giudice per le indagini preliminari di Roma nei confronti di Flavio Carboni, l’Ambasciata d’Italia a Berna richiedeva l’estensione dell’estradizione eseguita, a carico del medesimo imputato, il 30 ottobre 1982, in rapporto a delitti inerenti alla fuga clandestina dall’Italia di Roberto Calvi (« ... retrouvé pendu le 18 juin 1982 sous un pont de Londres »): estradizione poi « estesa », sempre su richiesta italiana, ad altri delitti, quali la bancarotta fraudolenta (in particolare, relativamente al Banco Ambrosiano), un tentativo d’omicidio (nei confronti di un vice-presidente di quest’ultimo), ed altri reati. L’ulteriore estensione dell’estradizione veniva motivata a titolo di concorso in omicidio aggravato (nella persona del predetto Calvi). Opponendosi all’estradizione, l’interessato: a) chiedeva di poter consultare, oltre alla domanda di estradizione e relativi allegati, anche tutti i dossiers concernenti le estradizioni pregresse; b) lamentava l’illegalità del ruolo esplicato dal giudice romano, e la sua incompetenza ad emettere il provvedimento coercitivo, oltre che, in linea più generale, l’inosservanza, da parte dell’Italia, delle garanzie europee del giusto processo; c) opponeva la compiuta prescrizione (« assoluta ») dell’azione penale, e quindi la improcedibilità della domanda di estensione, atteso che il fatto addebitato — inerente alla morte di Calvi — risaliva al giugno 1982. 2. Con decisione del 6 agosto 1997 l’Ufficio Federale di Polizia accordava l’estensione dell’estradizione, ritenendo: — quanto ad a), che la trasmissione dei documenti relativi alla (sola) estensione in discorso assecondava adeguatamente il diritto di essere ascoltato; — quanto a b), che non erano presentate ragioni idonee a far ritenere gravi irregolarità nell’iter della procedura italiana (tenuto anche conto che le irregolarità lamentate erano state oggetto di impugnative in Italia, e in tale quadro dovevano essere fatte oggetto d’esame); — quanto a c), che i fatti descritti nella domanda erano da riportarsi alla figura dell’assassinat, in ordine alla quale non era ancora stato raggiunto il termine prescrizionale di anni 20. 3. Investito a seguito di ricorso del Carboni, il Tribunale Federale elvetico, giudicando nella veste di 1a Corte di diritto pubblico, prende posizione in ordine ai vari problemi, con sentenza 30 ottobre 1997 (presid. Aemisegger).
— 701 — — Quanto ad a), il Tribunale Federale ribadisce che l’ammissibilità della domanda di estensione va esaminata « esclusivamente sulla base delle richieste e dei documenti allegati » (p. 6), mentre, d’altro canto, il ricorrente non aveva indicato — come sarebbe stato necessario per poter valutare la sussistenza di un suo « interesse degno di protezione » — attraverso quali indicazioni utili si riprometteva di utilizzare i dossiers delle estradizioni precedenti. — Quanto a b) e a c), premesso che in linea di principio la richiesta di estensione deve rispondere alle stesse condizioni di forma e di merito che si richiedono per una ordinaria richiesta di estradizione, il Tribunale di Losanna affronta per primo il tema della prescrizione, alla luce dell’art. 10 della Convenzione europea di estradizione e dell’art. 5 al.1 lett. c) dell’AIMP. Il Tribunale Federale ritiene, in primo luogo, che l’autorità chiamata a decidere su una richiesta di estradizione — ed anche di estensione — « procede alla qualificazione giuridica dei fatti sulla sola base di quanto risultante dall’esposizione fornita dallo Stato richiedente » (p. 9), distaccandosene se mai solo a titolo eccezionale. Più precisamente: « quando l’esposizione è intaccata da lacune, inesattezze o contraddizioni manifeste, tali da far risultare il comportamento dell’autorità richiedente come abusivo, o quando la persona perseguita è in grado di fornire un alibi (art. 53 AIMP). Al di fuori di tali casi — si precisa — quell’autorità non deve tener conto di elementi a discarico invocati dalla persona perseguita (ATF 123 II 279. 2 b, p. 281; 122 II 372. 1 c, pp. 375-376 e decisioni citt.) ». Ciò ulteriormente premesso, si decide nel senso che (p. 10) le indicazioni risultanti dalla richiesta di estradizione « consentono, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, di ritenere prima facie configurabile il reato di assassinat » (assassinio: art. 112 c.p.), ovvero la complicità nel medesimo, anziché di meurtre (omicidio intenzionale: art. 111). Segue l’analisi e la valutazione delle diverse indicazioni in linea di fatto risultanti dalla domanda (« ... Une telle machination n’est pas exempte de machiavalisme »), che giustificano la conclusione adottata, dalla quale discende la non accoglibilità della tesi della prescrizione (termine per la prescrizione dell’assassinio: anni 20; per l’omicidio: anni 15). Quanto poi all’asserito diniego, nel procedimento italiano, delle garanzie europee del giusto processo (v. retro, sub c), ricordàti anche i precedenti secondo i quali spetta al ricorrente l’onere di « rendere verosimile l’esistenza di un rischio serio ed obiettivo di una grave violazione dei diritti dell’uomo nello Stato richiedente, suscettibile di pregiudicarlo in modo concreto (ATF 123 II 161. 1 b; 122 II 373. 2 a, pp. 376-377 e decisioni citt.) », il Tribunale di Losanna, nel contesto di una serie di sviluppi argomentativi, conclude che, nella specie, « le critiche che il ricorrente formula in ordine alla procedura straniera non giustifica per nulla un rifiuto di collaborazione da parte della Svizzera ». Si aggiunge che, essendo l’Italia uno Stato-parte, dal 1955, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed a tale titolo sottoposto alle procedure di controllo previste da tale strumento, non c’è ragione di « formulare riserve a questo riguardo o di esigere assicurazioni supplementari ». Il ricorso viene dunque respinto, ed è concessa l’estensione dell’estradizione, con la condanna del ricorrente a versare « un emolument judiciaire de 5000 fr. ».
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE (*)
SOMMARIO: 1. Criminalità organizzata e tutela transnazionale: introduzione. — 2. Il delitto di riciclaggio e la rosa dei « reati presupposti ». — 3. Ne bis in idem o ‘‘processi paralleli’’? — 4. La cooperazione internazionale allo stadio delle indagini preliminari. — 5. I nuovi obiettivi della cooperazione giudiziaria internazionale. — 6. Criminalità organizzata e disciplina dell’estradizione. — 7. Criminalità organizzata e cooperazione a livello esecutivo: la confisca.
1. Le manifestazioni della criminalità organizzata si caratterizzano anche per la pluralità dei settori di incidenza. Esse, infatti, si fanno risentire, non solo dentro gli Stati, con effetti dirompenti per la legalità, l’ordine pubblico e la vita associata, ma anche contro gli Stati, attaccandone ed intaccandone, spesso gravemente, l’esercizio della sovranità. Inoltre, ed in particolare in questi ultimi decenni, i teatri operativi si sono sempre di più trasferiti anche oltre gli Stati, assecondando una emergente propensione ad imporsi nelle forme dell’impresa criminale multinazionale: a percorrere, quindi — ed il tutto senza regole, senza remore e senza limiti, soltanto prestando obbedienza alla lex maxima del profitto — gli itinerari della globalizzazione dell’economia. Da qui una spiccata tendenza alle riconversioni nelle produzioni criminali, alla continua espansione e conquista dei mercati, al di là di ogni frontiera, alla ricerca di sempre nuove alleanze e di nuove solidarietà. 1.2. A far riflettere sulle molteplici forme di estensione della fenomenologia criminale qui in discorso contribuisce, per quanto concerne l’Italia, il recente ‘‘Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata’’ relativo al 1995, laddove, con grande realismo, il Ministro degli interni per l’appunto dà conto, alla Camera dei deputati (Doc. XXXVIII-bis, n. 1, trasmesso il 20 settembre 1996) anche di un preoccupante capitolo intitolato: ‘‘Collegamenti e proiezioni internazionali’’. Questo l’esordio del rapporto: « La criminalità organizzata italiana si è inserita con ruolo protagonista nel circuito internazionale del crimine, confermando la tendenza all’unificazione dei mercati illeciti internazionali. (*) Rapporto della Sezione Italiana dell’A.I.D.P. per il XVI Congresso internazionale (Budapest, 1999).
— 704 — In conseguenza dell’abbattimento delle frontiere nazionali e delle barriere doganali, si sono verificate infatti una crescente unificazione ed una altrettanto crescente interdipendenza delle economie e dei soggetti criminali. Gli interessi della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta ed anche della sacra corona unita non sono peraltro rivolti solo verso i Paesi europei, ma anche verso il Sud America, gli Stati Uniti, il Canada, il Nord Africa e il Medio oriente ». E poco oltre: « La nascita dei c.d. paradisi fiscali, favoriti da taluni governi con forme di mediazione e di accordo con ambienti criminali internazionali, è uno dei risultati più evidenti di questa propensione mafiosa a varcare i confini, ad allargare le prospettive operative e ad assumere una filosofia manageriale nella gestione di vere e proprie holding finanziarie. In questo scenario di ‘‘internazionalismo mafioso’’ si sono consolidate nuove e potenti consorterie, quali le triadi cinesi (stupefacenti, armi, estorsioni, usura, prostituzione), la yakuza giapponese (stupefacenti, armi, usura, estorsioni, gioco d’azzardo), i cartelli colombiani (stupefacenti), cosa nostra americana (stupefacenti, armi, appalti, usura, estorsioni), la mafia russa (stupefacenti, armi, materiali nucleari, prostituzione, rapine, estorsioni), la mafia turca (stupefacenti, armi, estorsioni, usura, emigrazione clandestina). Il traffico delle sostanze stupefacenti nei rapporti tra queste organizzazioni mafiose nel mondo assume un ruolo di primo piano ». 1.3. Ne consegue una riflessione, piuttosto semplice: se è giusto ritenere che, per contrastare e per prevenire la criminalità organizzata, è necessario poter opporre, in ogni singolo Paese, anche un idoneo apparato di giustizia del pari organizzato, è pure ovvio che alla criminalità sempre più organizzata sul piano transnazionale sarebbe necessario poter opporre, sullo stesso terreno, forze di contrasto e di contenimento che si possano dire adeguate, per efficienza, capacità di dislocazione ed agilità operativa. Ma proprio nel puntare a questi obiettivi — essenziali rispetto agli scopi che si vorrebbero conseguire — i singoli Stati, e l’Italia tra questi, non hanno tardato ad avvertire l’inadeguatezza degli apparati tradizionali. E ciò in quanto la sovranità nazionale, già attaccata e depotenziata dalle forme criminali di cui si sta parlando, essendo poi, a sua volta, necessariamente contenuta nell’interno dei confini statuali, di per sé impone anche una serie di barriere rispetto al perseguimento degli obiettivi di cui si diceva. Ne è nata, ed è venuta maturando cogli anni, una ‘‘esigenza di tutela transnazionale’’, che, con qualche approssimazione — e senza con ciò volerci chiudere all’auspicio di più ampi orizzonti — possiamo designare
— 705 — come una sorta di ‘‘federazione delle sovranità’’ nella lotta contro il delitto. 1.4. In questo ordine di idee, e di propositi, va inquadrata la convinta adesione che anche l’Italia ha prestato a suo tempo, in ambito europeo, alle Convenzioni del Consiglio d’Europa in materia di cooperazione penale. 1.5. Sempre nello stesso ambito regionale, ma entro le più mirate prospettive dell’Unione Europea, merita una particolare segnalazione l’evolversi del quadro di intese in tale settore (1), quale si è realizzato passando dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) al Trattato di Amsterdam (2 ottobre 1997). a) Alla stregua dell’art. K.1 del primo Trattato — entrato in vigore, anche per l’Italia, col 1o novembre 1993 — gli Stati membri hanno considerato alcune ‘‘questioni di interesse comune’’, proponendosi di approntare, nei rispettivi ‘‘settori’’, misure idonee di attuazione: il settore, tout court (n. 7), della ‘‘cooperazione giudiziaria in materia penale’’; il settore, tra gli altri (n. 9), della ‘‘cooperazione di polizia’’. Di questo secondo settore di interventi gli Stati membri si sono anche proposti di indicare, contestualmente, i più precisi scopi: cooperazione ‘‘ai fini della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre forme gravi di criminalità internazionale (...) in connessione con l’organizzazione a livello dell’Unione di un sistema di scambio di informazioni in seno ad un Ufficio europeo di polizia (Europol)’’. Peraltro, entro la lista dei ‘‘settori’’ di interesse comune, i due tipi di cooperazione che siamo venuti ricordando ne risultano piuttosto sminuiti dalla caratterizzazione di fondo che, programmaticamente, ispira tutto quanto l’art. K.1: quello di conseguire — beninteso: anche mediante il perseguimento, in positivo, di tutta quell’altra serie di obiettivi che sono enumerati nello stesso articolo — ‘‘la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in particolare della libera circolazione delle persone’’. In quest’ottica, però, le cooperazioni giudiziarie e di polizia assumono quasi la forma dimessa di antidoti, o contro-misure, rispetto ai rischi di una circolazione delle persone, oltre confini, che sia indiscriminata e perniciosa. b) Col più recente Trattato di Amsterdam — non ancora entrato in (1) Sul tema v. ADAM, La cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni: da Schengen a Maastricht, in Riv. dir. europeo, 1994, p. 226; SALAZAR, Gli sviluppi nel campo della cooperazione giudiziaria nel quadro del terzo pilastro del Trattato sull’Unione Europea, in Docum. Giustizia, 1995, c. 1511; SICURELLA, Il titolo VI del Trattato di Maastricht e il diritto penale, in questa Rivista, 1997, p. 1307; SOULIER, Le Traité d’Amsterdam et la coopération policière et judiciaire en matière pénale, in Rev. sc. crim. et dr. pén. comp., 1998, p. 237.
— 706 — vigore (l’Italia ha provveduto per la ratifica con l. 16 giugno 1998, n. 209) — la ‘‘cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale’’ presenta un vero salto di qualità. Alla luce del nuovo art. K.1 del Trattato, l’obiettivo che, in tale ambito, l’Unione si prefigge, è quello, non più soltanto di garantire la libera circolazione delle persone, bensì quello di ‘‘fornire ai cittadini un livello elevato di libertà, sicurezza e giustizia’’. Al perseguimento di tale obiettivo si mira mediante la prevenzione e la repressione della criminalità, ‘‘organizzata o di altro tipo’’ (‘‘in particolare — si precisa — il terrorismo, la tratta degli esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode’’). Ciò che più conta è che vengono enunciati analiticamente anche gli strumenti propizi per attuare quella prevenzione e/o repressione: — ‘‘una più stretta cooperazione fra le forze di polizia’’, e assimilate, sia direttamente che tramite Europol; — ‘‘una più stretta cooperazione tra le autorità giudiziarie e altre autorità competenti degli Stati membri’’. Tale cooperazione è previsto (art. K.3) che si attui in numerosi e disparati ambiti: — ‘‘tra i Ministeri competenti e le autorità giudiziarie o autorità omologhe’’ in rapporto ‘‘ai procedimenti e all’esecuzione delle decisioni’’; — per ‘‘la facilitazione dell’estradizione fra Stati membri’’; — per garantire la ‘‘compatibilità delle normative applicabili negli Stati membri, nella misura necessaria per migliorare la suddetta cooperazione’’; — per ‘‘la prevenzione dei conflitti di giurisdizione tra gli Stati membri’’. Ma due obiettivi meritano una segnalazione tutta particolare, per la loro portata innovativa e, per così dire, rivoluzionaria: — quello, delineato nell’art. K.3, lett. e), e che in passato era sembrato una sorta di miraggio, della ‘‘progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti’’; — quello delineato nell’art. K.4, e che porta a superare i residui di radicati atteggiamenti di chiusura e di impermeabilità, del fissare ‘‘le condizioni e i limiti entro i quali le autorità competenti (...) possono operare nel territorio di un altro Stato membro in collegamento e d’intesa con le autorità di quest’ultimo’’. 1.6. Se gli importanti obiettivi di Amsterdam — tanto più in attesa dell’entrata in vigore del Trattato — fanno ancora parte degli orizzonti del
— 707 — futuro, tra i trattati bilaterali di cooperazione, in tema di criminalità organizzata, già operanti, due almeno meritano una menzione specifica. Si tratta del rinnovato Trattato di estradizione con gli Stati Uniti (1983), da considerarsi in sinergia con il primo Trattato di assistenza con lo stesso Paese (1982), e che, nell’intenzione delle Parti contraenti presentava il leit-motiv della criminalità organizzata; si tratta poi del più recente (1994), ma anche più generico Trattato di amicizia e di cooperazione con la Federazione russa — fatto oggetto di ratifica mediante la legge 8 febbraio 1996, n. 69, ed entrato in vigore dal 22 maggio 1997 — alla stregua del quale (art. 19) è stato ribadito ‘‘l’impegno a cooperare efficacemente nella lotta alla criminalità organizzata, al traffico illecito di stupefacenti e al contrabbando in tutte le sue forme’’, aggiungendosi che le due Parti, ‘‘in particolare cureranno il costante perfezionamento dello scambio delle informazioni operative e di esperienza (...) sulle cause, metodi e mezzi di lotta contro tali fenomeni e collaboreranno a tal fine nelle organizzazioni internazionali appropriate’’. Ragguardevole, inoltre, anche per la sua novità, è la finalizzazione dell’impegno assunto nell’art. 20: quello di stipulare una Convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale e sulle questioni relative all’estradizione, al fine di ‘‘rafforzare le garanzie giuridiche offerte ai propri cittadini’’. 1.7. Con riferimento all’ambito del diritto interno, è anche il caso di segnalare che, con legge 1o ottobre 1996, n. 509, è stata istituita una (nuova) Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari. Tra i vari compiti della Commissione non a caso figura anche (art. 1, lett. b) ) quello di ‘‘accertare la congruità della normativa vigente’’, formulando le proposte ritenute opportune, tra l’altro, per rendere ‘‘più adeguate le intese internazionali concernenti la prevenzione delle attività criminali, l’assistenza e la cooperazione giudiziaria’’. 2. Il legislatore italiano si è mostrato sensibile, a più riprese, rispetto ad un’esigenza di politica criminale ormai da qualche tempo assai avvertita in tema di contrasto alla criminalità organizzata: l’esigenza di punire il riciclaggio (blanchiment) dei proventi criminosi. 2.1. Alla disciplina oggi vigente il legislatore è pervenuto, nel tempo, attraverso successive specificazioni, che hanno riguardato in primo luogo — e soprattutto sulla base e sotto lo stimolo delle Convenzioni internazionali — la descrizione delle ipotesi di ‘‘reato presupposto’’. a) Ad attivare il nostro legislatore in questo ordine di idee era stato, nel 1978 (art. 3, d.l. 21 marzo 1978, n. 59, poi convertito nella legge 18 maggio), l’allarme sociale destato dai delitti di rapina aggravata, estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione.
— 708 — Questi — e questi soltanto — erano i delitti (dolosi) che il nuovo art. 648-bis del codice penale ipotizzava quali reati presupposti, e pertanto idonei a fornire quella provvista (in danaro, beni o altre utilità) in ordine alla quale potevano esplicarsi i comportamenti puniti a titolo di riciclaggio (sostituzione o trasferimento; operazioni ostacolanti l’identificazione della provenienza delittuosa). b) La rosa dei ‘‘reati presupposti’’ veniva ampliata nel 1990 (art. 23, legge 19 marzo, n. 55), nell’ambito di una cospicua serie di ‘‘Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale’’. Alle ipotesi contenute nel testo originario dell’art. 648-bis venivano aggiunte, infatti, quelle dei ‘‘delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope’’. In tal modo il legislatore italiano attuava l’impegno di ‘‘penalizzazione’’ derivante dall’art. 3, n. 1, lett. b) e c) della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di lotta alla droga (Vienna, dicembre 1988); e ciò ancor prima di provvedere (legge 5 novembre 1990, n. 328) per la ratifica della Convenzione (entrata in vigore, per l’Italia, il 31 marzo 1991). c) L’ultimo ampliamento della rosa dei ‘‘reati presupposti’’ è stato realizzato nel 1993, mediante l’estensione generalizzata a tutti i delitti non colposi. In tal senso il legislatore italiano provvedeva con l’art. 4 di quella stessa legge 9 agosto 1993, n. 328, mediante la quale si disponeva per la ratifica della Convenzione di Strasburgo (novembre 1990) ‘‘sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato’’ (entrata poi in vigore, per l’Italia, il 1o maggio 1994, nei rapporti con Paesi Bassi, Regno Unito e Svizzera). Al momento del deposito dello strumento di ratifica, operato il 20 gennaio 1994, il Governo poteva pertanto dichiarare che, a termini dell’art. 6 della Convenzione — e cioè della specifica norma per l’appunto relativa alla disciplina del riciclaggio — la Repubblica italiana riteneva applicabile la disciplina interna di tale materia con riferimento ai ‘‘reati presupposti’’ costituenti ‘‘delitti’’ secondo la legge italiana, esclusi soltanto i delitti colposi (‘‘wich are not deliberate’’). 2.2. L’indicata legge 9 agosto 1993 interveniva inoltre — ed era questo il secondo tipo di ampliamento concernente l’incidenza della disciplina qui in discorso — estendendo anche al delitto di riciclaggio (art. 4, ultimo comma) quello stesso ampliamento, nell’ambito della ‘‘competenza’’ penale, che veniva previsto (art. 3) per il delitto di ricettazione (art. 648). Più precisamente, si stabiliva l’applicabilità della disciplina penale del riciclaggio (così come della ricettazione) anche ‘‘quando manchi una condizione di procedibilità’’ riferita al delitto ‘‘da cui il danaro o le cose provengono’’.
— 709 — A differenza di altri Paesi (cfr., ad es., l’art. 305-bis del codice penale svizzero), il legislatore italiano non ha preso testualmente in considerazione l’ipotesi che il ‘‘reato presupposto’’ sia stato commesso all’estero. Dai lavori preparatori della citata legge del 1993 (v. relazione della Commissione affari esteri e comunitari) emerge, però, che intento specifico degli estensori era proprio quello di farsi carico del caso (enunciato sia pure soltanto a titolo esemplificativo) del reato commesso all’estero per il quale manchi una condizione di procedibilità (dobbiamo ritenere: querela, richiesta ministeriale, istanza, presenza dell’autore nel territorio dello Stato). L’aver affrontato il problema del ‘‘reato presupposto’’ commesso all’estero solo trasversalmente, evitava al legislatore di prendere posizione, in maniera diretta, sulla configurazione di un eventuale requisito della ‘‘doppia incriminabilità’’: configurazione che, ad ogni modo, non è stata operata (2). 3. Il dispiegarsi della criminalità organizzata, secondo le ipotesi sempre più frequenti, in ambiti transnazionali, potrebbe far emergere il rischio, o comunque dà un qualche risalto alla tematica, del ne bis in idem sul piano internazionale. a) Quanto al problema d’ordine generale, v’è da dire che, nell’ordinamento italiano, la garanzia in discorso è sempre stata ritenuta applicabile solo all’interno dello Stato, e non invece estensibile all’ambito dei rapporti tra le diverse giurisdizioni degli Stati. In tale ordine di idee possiamo ricordare: due decisioni della Corte costituzionale (sentenze n. 48/1967 e n. 69/1976; ma v. anche la sent. n. 58/1997); una decisione (2 novembre 1987) del Comitato ONU dei diritti dell’uomo relativa all’interpretazione che dell’art. 14, § 7, del Patto sui diritti civili e politici aveva ritenuto di proporre un cittadino italiano; la ratifica (legge 9 aprile 1990, n. 98) del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (v. art. 4). Solo la ‘‘Convenzione europea tra gli Stati membri della Comunità europea relativa all’applicazione del principio ne bis in idem’’, firmata a Bruxelles nel 1987, e poi ratificata dall’Italia nel 1989 (legge 16 ottobre, n. 350), consente qualche passo in avanti, almeno nei rapporti (art. 1) tra le giurisdizioni degli Stati membri. Va però aggiunto che la Convenzione medesima, al giugno 1992, trovava applicazione solo nei rapporti tra Italia, Danimarca e Francia (ovverossia gli unici Stati-membri che avevano depositato il proprio strumento di ratifica), e non dunque nei rapporti con (2) Sulla attuazione della direttiva 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite v., da ultimo, il decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 125 (commentato da AA.VV., in Legisl. pen., 1998, p. 29 ss.) e il decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (commentato da FIADINO, in Ind. pen., 1998, p. 101).
— 710 — Stati diversi: ad es. con la Repubblica Federale di Germania (Cass., Sez. V, 16 marzo 1993) o con la Confederazione Elvetica (Cass., Sez. VI, 15 febbraio 1994). Anche per quanto concerne l’ambito investito dagli Accordi di Schengen, l’adesione al criterio del ne bis in idem nei rapporti tra Stati contraenti, sulla base dell’art. 54 della Convenzione 19 giugno 1990, è stata delimitata restrittivamente, con una serie di esclusioni, dall’art. 7 della legge (30 novembre 1993, n. 388) di ratifica ed esecuzione. b) Se questa è la situazione sul piano generale, non diverse sono le conclusioni — in tema di applicazione del principio del ne bis in idem sul piano internazionale — che si possono trarre prendendo in esame la fenomenologia e la disciplina della criminalità organizzata. Se mai, anzi, ne derivano conclusioni peculiari di segno del tutto negativo, necessariamente antagonistiche rispetto alla applicabilità di quel principio. Muovendo da qualificate esperienze maturate, nel corso di importanti processi in tema di mafia, presso la sede giudiziaria di Palermo, si è fatto rilevare (Schiacchitano, in Ind. pen., 1990, p. 139 ss.) che l’organizzazione unitaria della mafia fa sì che ‘‘il mafioso, membro di una famiglia siciliana che vive in una qualsiasi città italiana o estera, Milano come New York, in realtà non perde l’appartenenza alla famiglia d’origine’’. I collegamenti che avvengono tra mafiosi in quelle città, sono collegamenti tra cosche mafiose siciliane, e sempre ed ovunque il ‘‘capo-famiglia’’ della città d’origine potrà far pervenire i suoi ordini. Attese queste interrelazioni, ogni fatto, poi, ovunque accada, ‘‘è come un tassello di un mosaico che bisogna inserire al suo posto giusto per fare risultare, alla fine, il quadro generale’’. E così si è esemplificato: dietro un omicidio avvenuto a Palermo ‘‘può esservi un altro omicidio, o un episodio di traffico di stupefacenti avvenuto a Milano, come a New York o Bangkok’’. Manca dunque, per la complessità del contesto da ricostruire mediante l’indagine di polizia e giudiziaria, la configurabilità, soprattutto ex ante, di un fatto, o di un blocco unitario di fatti, il quale possa configurare quell’idem che il principio qui in discorso astrattamente vieterebbe di superare e di reiterare. Sono del tutto connaturati, inoltre, a questo tipo di criminalità, anche il frazionamento e la dislocazione dei comportamenti criminosi. In particolare, il traffico internazionale di stupefacenti si articola e disarticola in ‘‘tanti spezzoni corrispondenti alle varie azioni che si debbono compiere’’; ad esempio: acquisto della morfina-base, trasporto al laboratorio, trasformazione in eroina, immissione nei luoghi di vendita, riciclaggio dei proventi. ‘‘Molto spesso — si è specificato — queste singole azioni si svolgono in Paesi diversi e quindi è necessario collegarle per conoscere sia le vie della droga che i flussi dei capitali’’. Per tutte queste ragioni — complessità dei contesti, per un verso; fra-
— 711 — zionamento e dislocazione dei comportamenti, per altro verso — tutti operanti all’opposto rispetto all’eventuale esigenza di evitare un ipotetico bis in idem, si è dato corso, a più riprese, ed in particolare nei rapporti con gli Stati Uniti d’America, ad una duplicazione degli accertamenti. Si sono quindi svolti dei veri e propri ‘‘processi paralleli’’, mediante scambi costanti e reciproci — per il tramite di rogatorie internazionali — di informazioni, atti e documenti. I sistemi penali a confronto hanno posto in risalto anche alcune vistose, e del resto ben note, asimmetrie, e ad ogni modo si sono avuti dei casi di persone condannate, per gli stessi fatti, sia negli Stati Uniti che in Italia. L’impossibile e mancata estradizione — proprio per effetto della pendenza del processo in America — non ha impedito, nel nostro Paese, il processo in contumacia, nei confronti delle stesse persone, le quali potranno subire la condanna italiana solo nel caso di rientro volontario entro i nostri confini. 4. Il primo stadio della cooperazione internazionale è, com’è ovvio, quello delle investigazioni preliminari. a) Volendo delineare, per sommi capi, l’evoluzione della materia per quanto attiene all’Italia, è opportuno muovere dalla legge 1o aprile 1981, n. 121 (concernente un ‘‘Nuovo ordinamento della Pubblica Sicurezza’’), che prevedeva l’istituzione e la gestione di un ‘‘centro elaborazione dati’’ presso il Ministero degli interni. In particolare vanno segnalati due profili: la previsione espressa (art. 7, comma quarto) secondo cui tale centro poteva essere alimentato anche da informazioni provenienti dalle forze di polizia degli Stati appartenenti alla CEE, degli Stati confinanti e da ogni altro Stato col quale si fossero raggiunte specifiche intese al riguardo; la previsione parallela (comma quinto) secondo cui alle forze di polizia di quegli stessi Paesi potevano essere comunicate, purché non fossero coperte dal segreto istruttorio, le informazioni raccolte e memorizzate presso quel ‘‘centro dati’’. b) Un passo decisivo, più specificamente mirato verso la lotta contro la criminalità organizzata, è stato poi promosso dieci anni dopo, allorquando, provvedendosi ad una riorganizzazione degli uffici del pubblico Ministero, fu istituita — quale articolazione della Procura Generale presso la Corte di cassazione, in Roma — la Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.). Ad essa è stato affidato, sul versante giudiziario, il ruolo di centrale del coordinamento investigativo, in ordine ad una serie di gravi delitti, considerati espressioni tipiche della criminalità mafiosa (associazione di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, associazione finalizzata al traffico di droga, ecc.). Tale ruolo di coordinamento è previsto che debba essere esercitato, su tutto il territorio nazionale, ed anche mediante il supporto di una
— 712 — ‘‘banca dati’’, dal Procuratore Nazionale Antimafia, o, per sua delega, dai (venti) magistrati addetti alla D.N.A. Quest’ultima, per lo svolgimento delle sue funzioni, dispone della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.): un organo a ‘‘competenza nazionale’’, preposto allo svolgimento di una funzione di intelligence nel settore delle investigazioni antimafia, nonché dei servizi centrali e interprovinciali di tutte le forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza). Al suo interno è previsto un apposito ‘‘reparto relazioni internazionali a fini investigativi’’ (art. 3, comma 8, lett c) del d.l. 29 ottobre 1991, n. 345, conv. nella legge 30 dicembre 1991, n. 410). Da ultimo, la D.N.A. — alla quale continuano a far capo, dislocate sul territorio nazionale, le ventisei Procure distrettuali antimafia — ha costituito al suo interno un apposito Dipartimento (formato da 5 magistrati), con il compito di promuovere ed intensificare rapporti di cooperazione con le autorità straniere impegnate nella lotta contro la criminalità organizzata (3). c) Su questa strada l’Italia si era già incamminata da qualche tempo, sul piano delle intese internazionali bilaterali, attraverso una cospicua serie di accordi con vari Stati. Ricordiamo alcuni di questi, per la loro importanza ed anche a titolo esemplificativo. Possiamo iniziare dall’Accordo con gli Stati Uniti, istitutivo del ‘‘Comitato per la collaborazione contro il traffico della droga e la criminalità organizzata’’ (1984): un accordo, alla cui attuazione, verso la fine degli anni ’80, ed anche oltre, ha contribuito in misura decisiva il c.d. ‘‘poolFalcone’’. Si è trattato di una sorta di pool internazionale, cioè di un gruppo di lavoro operante attraverso collaboratori americani anche distaccati presso l’Ambasciata in Italia, e, d’altro canto, funzionari di polizia e magistrati italiani periodicamente trasferitisi negli Stati Uniti. La cooperazione italo-americana al riguardo è stata additata come un modello di efficienza (4). (3) Dall’audizione 21 gennaio 1997 del Procuratore Nazionale antimafia (P.L. Vigna) presso la Commissione parlamentare antimafia (v. retro, 1.7) risultano i seguenti propositi: ‘‘... la Procura, oltre a rendere più rapida l’esecuzione delle rogatorie, dovrà assicurare efficacia, allorché non esistono convenzioni internazionali, al lavoro di indagine, attraverso un monitoraggio dei paesi i cui cittadini operano illecitamente in Italia e degli Stati nei quali operano i criminali italiani. Individuando per quei paesi un organo omologo alla Procura nazionale antimafia si dovrebbe, in piena trasparenza, predisponendo protocolli d’intesa, attuare scambi di notizie reciproci, nel rispetto del segreto investigativo’’. Dello stesso VIGNA v. il contributo dal titolo: L’organizzazione della Dna per la risposta al riciclaggio, in VIOLANTE (a cura di), I soldi della mafia, 1998, p. 139 ss. (4) Degne di nota sono alcune puntualizzazioni, a suo tempo operate dal Procuratore Generale Distrettuale R. GIULIANI: tra Italia e Stati Uniti ‘‘lo scambio di prove e di informa-
— 713 — Quanto ai Paesi confinanti, o più vicini, ricordiamo gli Accordi con l’Austria e con la Spagna. L’Accordo con l’Austria ‘‘per la collaborazione nella lotta contro il terrorismo internazionale, la criminalità organizzata internazionale ed il traffico illegale di stupefacenti’’ (novembre 1986) prevedeva l’istituzione di una ‘‘Commissione comune’’ tra i Ministeri dell’interno dei due Paesi per la trattazione dei vari problemi, e, in particolare, per lo scambio di informazioni, esperienze pratiche e conoscenze tecniche, non esclusa la ‘‘presentazione di proposte per lo scambio di esperti’’, e — quanto all’ambito della criminalità organizzata — prefigurava anche la possibilità di ‘‘misure comuni’’ contro il ‘‘riciclaggio’’. Sempre a livello dei ministeri dell’interno dei due Paesi, l’Accordo con la Spagna ‘‘per la cooperazione nella lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata’’ (maggio 1987) istituiva un ‘‘Comitato bilaterale’’. Non senza ricordare la collaborazione nella lotta contro il traffico di stupefacenti, sancita nelle precedenti intese del 1986, l’Accordo in discorso riproponeva le clausole stipulate con l’Austria, aggiungendo la previsione di ‘‘scambi di esperti delle Forze di Polizia per svolgere attività congiunte’’. A proposito, poi, di stupefacenti, nel 1990 tra Italia e Spagna è stato stipulato uno specifico Trattato ‘‘per la repressione del traffico illecito di droga in mare’’, entrato poi in vigore, dopo la legge di ratifica (n. 304/1993), nel maggio 1994. Ragguardevoli, tra le altre, sono le previsioni dell’art. 5 del Trattato, che configurano un ‘‘diritto di intervento’’, e possibilità varie di controllo, su navi o aeronavi in servizio dello Stato di una delle Parti, e le previsioni dell’art. 6, che delineano la possibilità, per lo ‘‘Stato di bandiera’’, di rinunciare alla sua giurisdizione preferenziale (art. 4, § 2), a seguito di richiesta proveniente dalla Parte che avesse realizzato uno dei predetti controlli. Per il caso di mancata rinuncia si è stabilito che l’altro Stato dovrà trasferire, allo ‘‘Stato di bandiera’’, ‘‘la documentazione e le fonti di prova acquisite, il corpo del reato, le persone arrestate e qualsiasi altro elemento attinente al procedimento’’. Con la legge 22 febbraio 1994, n. 147, veniva autorizzata la ratifica dell’‘‘Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord in materia di mutua assistenza relativa al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope e di sequestro e confisca dei proventi di reato’’ (maggio 1990). zioni è diventato molto intenso. Questo modello di collaborazione ha dato risultati molto concreti: migliaia di persone incarcerate in ambedue i Paesi e una grande quantità dei loro patrimoni sequestrata’’. Ed ancora: ‘‘... Non ha senso cercare di distruggere la mafia soltanto in Italia o soltanto negli Stati Uniti, perché l’una può rigenerare l’altra’’ (v. Ind. pen., 1988, pp. 125-126).
— 714 — L’accordo, importante anche ed in particolare per i temi indicati da ultimo, si sviluppa nell’arco di 16 articoli. Esso è entrato in vigore nel maggio 1994. Quanto ai rapporti con l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è il caso di ricordare, dopo il ‘‘Memorandum d’intesa", del 1989, ‘‘sulla cooperazione nella lotta contro l’abuso di stupefacenti e sostanze psicotrope e contro il loro traffico illecito’’, il successivo (1990) ‘‘Memorandum d’intesa’’, tra i Ministeri degli interni dei due Paesi, ‘‘contro la criminalità organizzata’’. L’intesa fa perno su un ‘‘Comitato bilaterale’’, e si propone di dare corso a scambi di informazioni varie, di specialisti, di esperienze, ecc. (5). d) Abbiamo già menzionato, in tema di ne bis in idem (3.a), l’Accordo di Schengen e la legge italiana di ratifica. Sembra il caso di precisare che oggetto dell’Accordo (14 giugno 1985) è quello della eliminazione delle ‘‘frontiere interne’’ per i Paesi aderenti e, correlativamente, quello di fissare alcune misure di compensazione e di armonizzazione volte allo scopo di disciplinare il movimento delle persone e di approntare un sistema di protezione delle ‘‘frontiere esterne’’ dello ‘‘spazio Schengen’’. A tale proposito sono state introdotte nuove forme di cooperazione tra forze di polizia (ed anche nuove forme di cooperazione giudiziaria), che pare opportuno menzionare in questa sede, anche se il loro obiettivo, di carattere generale, va al di là della lotta alla criminalità organizzata. A titolo di cooperazione tra forze di polizia, l’art. 39 della Convenzione di applicazione (19 giugno 1990) dell’Accordo di Schengen, entrata in vigore per l’Italia il 26 ottobre 1997, prevede lo scambio di informazioni scritte, con l’importante precisazione (§ 2) che queste informazioni ‘‘possono essere usate dalla Parte contraente richiedente per fornire la prova dei fatti oggetto delle indagini soltanto previo accordo delle autorità giudiziarie competenti della Parte contraente richiesta’’. L’art. 3 della nostra legge di ratifica ha previsto che tale ‘‘accordo’’ (o assenso) sarà prestato in applicazione degli artt. 723 e 724 c.p.p. Ciò significa che le richieste dirette all’Italia saranno trattate come rogatorie dall’estero, e che dunque, dopo la previa valutazione del Ministro della giustizia, deve intervenire l’exequatur dell’autorità giudiziaria (Corte d’appello), e significa anche — in parallelo — che le richieste dirette dall’Italia all’estero dovranno del pari seguire il regime delle rogatorie all’estero (v. art. 727 e ss. c.p.p. e art. 53 Convenzione predetta). (5) Per l’indicazione di altri accordi bilaterali in materia con diversi Paesi (Albania, Arabia Saudita, Argentina, Bielorussia, Bulgaria, Cile, Cipro, Croazia, Egitto, Francia, Grecia, Israele, Malta, Marocco, Messico, Romania, Slovenia, Turchia, Ungheria e Venezuela) v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 74 ss.
— 715 — Entro determinati limiti ed a condizioni ben definite, l’art. 40 della Convenzione consente, ai servizi di polizia di uno Stato contraente che, ‘‘nell’ambito di un’indagine giudiziaria, tengono sotto osservazione nel loro paese una persona che si presume abbia partecipato alla commissione di un reato che può dar luogo ad estradizione’’, di continuare tale osservazione anche all’interno di un altro Stato-parte contraente, previa autorizzazione di quest’ultimo, e con l’obbligo di farne poi rapporto al medesimo. L’art. 4 della nostra legge di ratifica distingue e disciplina le richieste di osservazione dirette alle Parti contraenti e le richieste di osservazioni provenienti dalle medesime. Dati alcuni presupposti e in conformità ad alcune precise condizioni, l’art. 41 della Convenzione prevede, per le forze di polizia che nel proprio territorio iniziano l’inseguimento di una persona, la possibilità di continuare l’inseguimento anche sul territorio di uno Stato-membro confinante (e vengono dunque in considerazione solo le frontiere terrestri) con il proprio Paese. Tra Italia e Francia sono intervenute dichiarazioni unilaterali volte a definire le modalità di esercizio del possibile inseguimento transfrontaliero. e) Più mirata — come si diceva (1.5.a) — verso gli obiettivi della prevenzione e della lotta, tra l’altro e in particolare, contro la criminalità organizzata, è la previsione, già contenuta nell’art. K.1.9 del Trattato di Maastricht, e poi ribadita e precisata nel Trattato di Amsterdam, di un ufficio europeo di polizia, denominato Europol. Anche il Parlamento italiano, con legge 23 marzo 1998, n. 93, ha portato a compimento l’iter di ratifica dell’apposita convenzione (Bruxelles, luglio 1995) istitutiva per l’appunto dell’Europol, e del connesso Protocollo interpretativo (6). Si tratta di una disciplina composita, che si sviluppa nell’arco di 7 titoli e 47 articoli, oltre ad un allegato, dai quali emerge la caratterizzazione del nuovo ente come strumento di cooperazione, e non come organismo sopranazionale. L’obiettivo dell’Europol è indicato, in sintesi, nell’art. 2 del Trattato (da integrarsi con le indicazioni dell’allegato), come quello di ‘‘migliorare, nel quadro della cooperazione tra gli Stati membri (...) e mediante le misure menzionate nella presente Convenzione’’ (raccolta, scambio, trasmissione di informazioni, ecc.) ‘‘l’efficacia dei servizi competenti degli Stati membri e la loro cooperazione, al fine di prevenire e combattere il terrorismo, il traffico illecito di stupefacenti ed altre gravi forme di criminalità internazionale’’; e ciò ‘‘purché esistano indizi concreti di una struttura o di una organizzazione criminale e purché due o più Stati membri siano lesi dalle summenzionate forme di criminalità in modo tale da richiedere, (6)
V. in Docum. giustizia, 1995, c. 1685 ss.
— 716 — considerata l’ampiezza, la gravità e le conseguenze dei reati, un’azione comune degli Stati membri’’. In vista del raggiungimento di tale ampio obiettivo, la Convenzione indica poi (art. 2, § 2) un criterio di progressività, anche fissando cadenze d’ordine temporale, e specificando inoltre che la competenza per una determinata forma di criminalità, o per alcuni suoi aspetti, si estende pure (§ 3) alla correlativa tematica del riciclaggio. È poi prevista, per il collegamento tra l’Europol e i servizi nazionali competenti, l’istituzione di singole ‘‘unità nazionali’’ (art. 4), alle quali sono affidate specifiche funzioni (il testo della nostra legge di ratifica — art. 3 — prevede l’istituzione dell’Unità nazionale Europol nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza), e si specifica inoltre (art. 5 tratt.) che ogni unità nazionale ‘‘invia all’Europol almeno un ufficiale di collegamento’’, incaricato ‘‘di difendere gli interessi’’ della rispettiva unità nazionale nell’ambito dell’Europol. Nell’attesa dell’entrata in vigore della convenzione, in base ad un accordo ministeriale è stata istituita, con sede all’Aja, una unità Europoldroga, finalizzata allo scambio di dati connessi al traffico di droga e al riciclaggio dei relativi proventi. 5. Anche il capitolo della cooperazione giudiziaria fa segnalare alcune importanti novità, per lo più correlative alla crescente caratterizzazione transnazionale della criminalità organizzata. a) Una forma, in qualche modo minore, ma pur significativa, di cooperazione, è costituita dalla figura di ‘‘magistrato di collegamento’’ che è stata realizzata mediante il distacco, presso l’ufficio del Ministero della giustizia preposto alle estradizioni e all’assistenza giudiziaria, di un magistrato del Parquet francese. Quanto alla misura reciproca, per parte italiana, v. la delibera 18 dicembre 1996 del C.S.M. (in Notiziario C.S.M. n. 12/1996, p. 4). Analoga iniziativa è stata realizzata — a quanto ci viene riferito — nei rapporti tra la Francia e i Paesi Bassi. In linea più generale — con la menzione del n. 96/277/Gai — va segnalata la Azione comune, del 22 aprile 1996, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del trattato sull’Unione europea, relativa allo scambio di magistrati di collegamento diretto a migliorare la cooperazione giudiziaria fra gli Stati membri dell’Unione europea (G.U.C.E., L. 105, 27 aprile 1996). b) Sempre sulla stessa base, il 29 luglio 1998 il Consiglio dell’Unione europea ha adottato l’‘‘azione comune’’ (98/428/Gai) istitutiva di una ‘‘rete giudiziaria europea’’, concernente ‘‘alcune forme di criminalità grave’’: criminalità organizzata, corruzione, traffico di stupefacenti, terrorismo.
— 717 — c) Nel panorama che stiamo esaminando, assai notevole — anche per la sua portata innovativa — è stata l’affermazione della prassi che ha portato alle trasferte all’estero di magistrati italiani per il compimento di funzioni giudiziarie. Per brevità possiamo muovere dalla sentenza 19 febbraio 1979 della Cass., Sez. I, relativa al caso Buscetta, in tema di traffico internazionale di stupefacenti. Se la rogatoria internazionale — precisava la Corte — ‘‘deve essere considerata come lo strumento normale (...) della collaborazione giudiziaria fra gli Stati per l’assunzione all’estero delle prove penali’’, essa però non è da ritenersi strumento esclusivo, nel senso che ‘‘agli organi giudiziari dello Stato deve essere riconosciuto anche il potere di compiere direttamente sul territorio straniero gli atti istruttori necessari, a condizione che lo Stato estero lo consenta’’. (Era avvenuto che, con l’esplicito consenso delle competenti autorità americane, nel nostro caso il giudice istruttore aveva direttamente interrogato negli Stati Uniti dei testi colà residenti). La prassi delle trasferte all’estero, specie per finalità istruttorie, veniva poi progressivamente affermandosi, tanto che, per disciplinarla, è intervenuta un’apposita circolare ministeriale (del febbraio 1981). Nel marzo 1987 la Corte d’assise di Palermo (in un processo per associazione di stampo mafioso ed associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti) e la Corte d’assise d’appello di Catania (in un processo di 2o grado riguardante l’uccisione del magistrato Chinnici), operavano delle trasferte a New York per l’audizione dei testi residenti negli Stati Uniti. La particolarità era rappresentata dal fatto che, a provvedere all’audizione erano dei magistrati procedenti, in Italia, in sede di giudizio — e più precisamente: il presidente della Corte ed il giudice a latere — e che all’assunzione si era proceduto nelle forme — anche di tipo attivo e partecipativo (art. 14: Assunzione di testimonianza nello Stato richiesto) — previste nel Trattato di mutua assistenza in materia penale tra Italia e Stati Uniti, entrato in vigore nel 1985. L’esempio più noto, e più cospicuo, delle trasferte di cui stiamo parlando, è però rappresentato dalla trasferta di un’intera sezione del Tribunale di Palermo, presso la Districtual Court di Washington, relativamente al processo c.d. ‘‘Big John’’ (dal nome del mercantile che aveva trasportato circa 600 kg di cocaina dalla Colombia alla Sicilia). Si era trattato di ben dieci udienze, svoltesi, nel luglio 1992 (con l’intervento del p.m. italiano, ed anche alla presenza di alcuni dei numerosi imputati e dei loro difensori), sotto la co-direzione di un Commissioner, cioè di un delegato degli Stati Uniti, appositamente nominato a seguito di laboriose intese preparatorie.
— 718 — Tale trasferta, che viene ricordata come il primo caso di trasferta di un intero tribunale straniero negli States, ha tratto vantaggio dal recepimento, nella nostra disciplina processuale, della metodologia della cross examination, ed in particolare dal ruolo attivo che il presidente del collegio palermitano, il p.m. e i difensori intervenuti hanno potuto esplicare, anche al di là del ruolo attivo consentito dal tenore letterale del citato art. 14 del Trattato italo-statunitense (proposizione di domande al testimone ‘‘in conformità con le leggi dello stato richiesto’’) (7). Se la richiamata (3 b) esperienza italo-statunitense dei ‘‘processi paralleli’’ ha messo in luce asimmetrie e discrasie tra i due ordinamenti (anche se poi ha rappresentato, in positivo, un importante stimolo per la messa a punto, anche in Italia, di una disciplina dei ‘‘collaboratori di giustizia’’), l’esperienza delle trasferte delle nostre autorità giudiziarie in terra americana ha anticipato, nei fatti, la prefigurazione dell’art. K.4 del Trattato di Amsterdam (1.5. b), laddove si indica l’obiettivo di fissare condizioni e limiti entro i quali le autorità competenti ‘‘possono operare nel territorio di un altro Stato membro’’: una possibilità anni addietro confinata nell’utopia, ed al massimo configurabile soltanto in termini di auspicio, in quanto confliggente con l’antico e granitico dogma delle sovranità territoriali. 6. Anche quanto alla disciplina dell’estradizione, la tematica della criminalità organizzata si segnala per alcune particolarità considerevoli. a) Sul piano della disciplina bilaterale merita grande rilievo, ancora una volta, lo stato dei rapporti Italia-Stati Uniti. Nel trattato di estradizione del 1973, quando ancora — secondo una vecchia prassi — si seguiva, nell’enunciazione dei reati per i quali era consentita l’estradizione, il metodo c.d. enumerativo, si completava la serie delle (30) enunciazioni previste (art. II) con quest’altra enunciazione: ‘‘L’estradizione sarà anche concessa per il reato italiano di « associazione per delinquere » se la richiesta fornisce anche gli elementi di conspiracy, come definita dalle leggi degli Stati Uniti, al fine di commettere uno dei reati di cui al presente titolo’’. Attesa la asimmetria delle due figure criminose, se ne operava dunque la assimilazione, sulla base della piattaforma rappresentata dalla fattispecie statunitense di conspiracy. Seguiva poi — per l’appunto incorporata nel testo — la definizione autentica di questa fattispecie. Di conspiracy si potrà parlare — si preci(7) Ricordiamo anche, per connessione d’argomento, che l’art. 1, § 3, di questo Trattato prevede la prestazione di assistenza ‘‘anche quando i fatti per i quali si procede non costituiscono reato nello Stato richiesto e indipendentemente dal fatto che lo Stato richiesto abbia giurisdizione in casi simili’’. Si è dunque voluto escludere il criterio della doppia incriminazione.
— 719 — sava — sempre che dalla documentazione probatoria della Parte richiedente ‘‘risultino sufficienti indizi che due o più persone si siano intese per commettere uno qualsiasi dei reati di cui al presente articolo e quando una o più di tali persone abbiano compiuto un qualsiasi atto al fine di conseguire lo scopo dell’intesa’’ (il c.d. overt act). Nel successivo trattato del 1983, si abbandonava il metodo enumerativo per passare (art. II) al metodo c.d. eliminativo nell’enunciazione dei reati (senza più dunque la necessità di enumerare le fattispecie dei ‘‘reati che danno luogo all’estradizione’’), e purtuttavia, data la particolare importanza della materia, non si rinunciava a prendere posizione sulla tematica: associazione per delinquere/conspiracy. Nell’accingersi a tale disciplina, le Parti contraenti, mentre ribadivano il criterio di fondo dell’assimilazione di cui si diceva, operavano una importante innovazione. Non si parlava più, al singolare, del ‘‘reato italiano di associazione per delinquere’’, bensì (art. II, § 2) di ‘‘ogni forma di associazione per commettere reati di cui al § 1 del presente articolo, così come previsto dalle leggi italiane’’. L’arsenale normativo del nostro Paese, infatti, nell’intervallo tra i due trattati, si era arricchito di due nuove forme di associazione per delinquere: l’associazione in tema di sostanze stupefacenti (art. 75, legge 22 dicembre 1975, n. 685) e (art. 416-bis c.p.) l’associazione di tipo mafioso (art. 1, legge 13 settembre 1982, n. 646). Anche a queste nuove figure criminose veniva dunque ad estendersi la portata del nuovo Trattato (8). La clausola del Trattato italo-statunitense (entrato in vigore nel 1984) veniva poi ripresa e ribadita (‘‘Qualsiasi tipo di associazione...’’) nell’art. II, § 2, del nuovo Trattato di estradizione con l’Australia (sottoscritto nell’agosto 1985, ed entrato in vigore nel 1990). b) Sempre a proposito di asimmetrie, in un rapporto presentato dal nostro Ministero alla 19a conferenza dei Ministri europei della giustizia si segnalava il fatto (v. Ind. pen., 1994, p. 575) che assai pochi sono gli Stati che a tutt’oggi prevedono (gli Stati Uniti tra questi) la punizione dei fatti (8) Si rinunciava, invece, verosimilmente ritenendola ormai superflua, alla definizione autentica della conspiracy, complessivamente concretando la seguente clausola: ‘‘Ogni forma di associazione ecc. e la conspiracy per commettere un reato di cui al § 1 del presente articolo, così come previsto dalle leggi statunitensi, è altresì considerato reato che dà luogo all’estradizione’’. Per un caso di estradizione, dall’Italia verso gli USA, di un cittadino italiano accusato, tra l’altro, di conspiracy per comportamenti riconducibili, nell’ottica della legislazione italiana, alla nuova figura di ‘‘associazione’’ introdotta nel 1975, v. Cass., sez. I, 4 ottobre 1995, ric. Aramini (in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 429). Sulla possibilità o meno, della assimilazione della associazione per delinquere alla conspiracy, ai fini del riconoscimento di una sentenza del Regno Unito, v. Cass. sez. I, 1o giugno 1992, ric. Di Carlo (in Riv. pen., 1993, p. 622); Cass., sez. VI, 2 marzo 1995, ric. Monteleone (in Cass. pen., 1996, p. 3069, n. 1720).
— 720 — di corruzione di funzionari stranieri (anche nei casi in cui la condotta venga posta in essere sul proprio territorio). Attesa tale situazione, e, correlativamente, l’esigenza di rispettare, in materia estradizionale, il principio della doppia incriminazione, si formulava — de iure condendo — l’auspicio di una armonizzazione o di un ravvicinamento delle norme incriminatrici, e più in particolare della assimilazione, quanto a trattamento penale, della condotta di corruzione dei funzionari esteri a quella dei funzionari nazionali. c) Il tema della possibile asimmetria conspiracy/associazione per delinquere è stato poi ripreso, in prospettiva multilaterale, nel testo della Convenzione relativa all’estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea, sottoscritto a Dublino nel settembre 1996 — sulla base del ricordato (1.5.b) art. K.3 del Trattato sull’Unione europea — e non ancora entrata in vigore. Nell’art. 3 si è infatti previsto che, allorquando, ‘‘secondo la legge dello Stato membro richiedente, il fatto su cui si basa la domanda di estradizione è configurato quale cospirazione o associazione per delinquere’’, e sempre che esso sia ‘‘punito con una pena privativa della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi’’, l’estradizione ‘‘non può essere rifiutata per il motivo che la legge dello Stato membro richiesto non prevede che gli stessi fatti costituiscano reato’’. Per impedire la possibilità di rifiuto dovranno però realizzarsi altre condizioni: nel senso che ‘‘la cospirazione o l’associazione’’ debbono essersi proposte come scopo la Commissione di: a) uno o più dei reati di cui agli artt. 1 e 2 della Convenzione europea per la repressione del terrorismo, o b) qualsiasi altro reato punibile con una pena o misura di sicurezza privativa della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi, concernente il traffico di stupefacenti e altre forme di criminalità organizzata o altri atti di violenza contro la vita, l’integrità fisica o la libertà di una persona o che comporti un pericolo collettivo per le persone’’ (9). 7. Da qualche decennio (ci riferiamo all’art. 240 del codice penale del 1930) il legislatore italiano ha previsto e disciplinato la misura della confisca, come mezzo ritenuto idoneo, nella sua diretta incidenza espropriativa del risultato utile delle azioni criminose, a contrastare la criminalità. Due sono le ipotesi più ragguardevoli di confisca, sul presupposto di (9) L’impegno congiunto per una effettiva assistenza giudiziaria internazionale, sempre nell’ottica associazione a delinquere (organizzazione criminale)/conspiracy, è stato auspicato (in attuazione della Raccomandazione n. 17 del ‘‘Piano d’azione contro la criminalità organizzata’’ [28 aprile 1997; 97/C/251/10: v. Rev. int. dr. pén.1997, p. 321, e in VIOLANTE (a cura di), op. cit., p. 361 ss.]) nel Draft Joint Action (n. 10407/97) adottato dal Consiglio dell’Unione Europea sotto la data del 30 luglio 1997.
— 721 — una sentenza di condanna, nella norma generale di cui si diceva: una confisca di tipo facoltativo (o discrezionale), avente come possibile oggetto le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e le cose che ne hanno costituito il prodotto o il profitto; una confisca di tipo obbligatorio, avente come possibile oggetto le cose che hanno costituito il prezzo del reato. Quando, nel 1982, ha introdotto nel codice penale (6.a) la nuova disciplina — art. 416-bis — dell’associazione mafiosa, il legislatore ha rafforzato al contempo la disciplina della confisca prevedendo (comma 7o) che, per il condannato per associazione mafiosa, ‘‘è sempre obbligatoria’’ la confisca: non solo delle cose che hanno costituito il prezzo del reato, ma anche di quelle che, sulla base della regola generale, avrebbero potuto essere oggetto soltanto di confisca facoltativa, e, inoltre, di quelle che costituiscono l’‘‘impiego’’ dei proventi del reato. L’efficacia e l’adeguatezza di una tale misura è stata sottolineata (nel caso Raimondo contro l’Italia) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 22 febbraio 1994; serie A, n. 281/A) che, all’unanimità, così decideva: ‘‘Grazie alle sue attività illecite, particolarmente il traffico di stupefacenti, ed ai suoi legami internazionali, [la mafia] (...) maneggia enormi quantità di denaro subito investito, tra l’altro, nel settore immobiliare. Destinata a bloccare tali movimenti di capitali sospetti, la confisca costituisce un’arma efficace e necessaria per combattere il flagello. È dunque proporzionata all’obiettivo perseguito’’. Poco dopo, e nell’intento di consentire l’aggressione delle fasce più remote e consolidate — e perciò più nascoste — degli accumuli di ricchezza di provenienza criminale, nell’estate del 1994 il legislatore (art. 2, d.l. 20 giugno, n. 399, convertito nella legge 8 agosto, n. 501) introduceva delle ulteriori ipotesi particolari di confisca penale obbligatoria. Esse venivano ancorate, per un verso, alla condanna definitiva per determinati reati, particolarmente congeniali all’economia imprenditoriale di tipo mafioso, e, per altri versi, all’ipotesi che l’interessato non sia in grado di giustificare la provenienza del bene, quando quest’ultimo riveste un valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica del soggetto. Il carattere transnazionale della criminalità organizzata, con la sua spiccata propensione a salvaguardare e sviluppare i suoi profitti criminosi in Paesi terzi (diversi, cioè, da quelli della consumazione del reato e della relativa condanna), ha dato risalto all’opportunità di predisporre l’utilizzo della confisca anche sul piano dei rapporti internazionali. a) Della confisca si è occupata la già menzionata (2.1.b) Convenzione di Vienna del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, il cui art. 5 contiene previsioni diverse, l’ultima delle quali (§ 9) fa salvo il principio secondo il quale le misure volte alla confisca ‘‘sono determinate ed eseguite conformemente al diritto interno di ciascuna Parte e secondo le disposizioni di detta legislazione’’.
— 722 — Il nostro Paese ha provveduto a ratificare la Convenzione in via ordinaria — con la già ricordata legge 5 novembre 1990, n. 328 — senza particolari previsioni di adattamento. b) Diverso atteggiamento assumeva invece il legislatore nel ratificare la pure già menzionata Convenzione di Strasburgo (8 novembre 1990) sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato. Il nostro legislatore, infatti, senza dimenticare, per un verso, che (come risulta, sub 14, dal ‘‘Rapporto esplicativo’’) nella stesura del testo della Convenzione erano state tenute ben presenti le disposizioni della Convenzione di Vienna, e, d’altro canto, dando rilievo all’inciso del ‘‘preambolo’’, secondo cui ‘‘priver le délinquant des produits du crime’’ rappresenta un mezzo moderno ed efficace di lotta contro la ‘‘criminalité grave, qui est de plus en plus un problème international’’, interveniva dettando, nella legge 9 agosto 1993, n. 238, una serie di norme speciali di adattamento alla Convenzione. E più in particolare: oltre a quelle, già ricordate, concernenti la disciplina del riciclaggio (2.1.c e 2.2.), una serie di norme in tema di confisca, incorporate nel testo del codice di procedura penale, e come tali destinate ad operare in una prospettiva di carattere generale. E si trattava, a ben vedere, di una scelta correlativa, in primo luogo, al carattere della Convenzione sul riciclaggio, intenzionalmente aperta anche all’adesione di Stati non membri del Consiglio d’Europa (10). Con la nuova norma (art. 7 della legge di ratifica) dell’art. 731.1-bis del codice, è stata ampliata la disciplina interna relativa al ‘‘riconoscimento delle sentenze penali a norma di accordi internazionali’’, per estenderla anche all’ipotesi (v. art. 14, § 2 della Convenzione) del provvedimento di confisca adottato dall’autorità giudiziaria straniera con atto diverso dalla sentenza di condanna. Con la nuova norma (art. 8 della legge di ratifica) dell’art. 733.1-bis si è esclusa la possibilità di riconoscimento di una sentenza straniera (e/o del provvedimento omologo), ai fini dell’esecuzione della confisca, ‘‘se questa ha per oggetto beni la cui confisca non sarebbe possibile secondo la legge italiana qualora per lo stesso fatto si procedesse nello Stato’’. Veniva peraltro fatta salva la previsione — e quindi l’applicabilità — del nuovo art. 735-bis, del quale si dirà oltre. L’art. 13 della Convenzione ha previsto una nuova possibilità di confisca, la c.d. confisca di valore, avente per oggetto non più soltanto la materialità del bene, ma il valore pecuniario del ‘‘prodotto’’ del reato (a sensi dell’art. 1.a della Convenzione), con la possibilità, per la Parte richiesta di dar corso alla confisca, nel caso in cui non segua il pagamento, di ‘‘recouvrer sa créance sur tout bien disponible à cette fin’’. (10) Sull’iter della legge di ratifica v. il documento di lavoro dal titolo: La ratifica della Convenzione di Strasburgo (1990) in tema di riciclaggio, in Ind. pen., 1993, p. 751.
— 723 — Con la nuova norma dell’art. 735-bis, (Confisca consistente nella imposizione del pagamento di una somma di denaro) si è provveduto a dare attuazione a tale previsione convenzionale, mediante un rinvio alla disciplina interna dell’esecuzione delle pene pecuniarie (e peraltro consentendo anche il superamento del ‘‘limite massimo previsto per lo stesso fatto dalla legge italiana’’, limite che si imporrebbe, in linea generale, sulla base dell’art. 735, comma 2). Con la nuova norma dell’art. 737-bis (Indagini e sequestro a fini di confisca), il legislatore (art. 11 legge di ratifica) ha dato attuazione, in particolare, ai principi di cooperazione internazionale contenuti nelle Sez. 2 e 3 del capitolo III della Convenzione qui in discorso. Spetta al ministro della giustizia il compito di disporre che si dia corso ‘‘alla richiesta di un’autorità straniera di procedere ad indagini su beni che possono divenire oggetto di una successiva richiesta di esecuzione di una confisca, ovvero di procedere al loro sequestro’’. Segue (nei commi 2 e ss. dell’art. 737-bis) la normativa concernente l’iter relativo al procedimento in sede giudiziaria e agli effetti esecutivi. Il nuovo art. 745.2-bis disciplina il versante attivo dell’ipotesi delineata nell’art. 737-bis, e cioè conferisce al nostro ministro della giustizia il potere di ‘‘richiedere lo svolgimento di indagini per l’identificazione e la ricerca di beni che si trovano all’estero e che possono divenire oggetto di una domanda di esecuzione di confisca, nonché di richiedere il loro sequestro’’. Da ultimo, l’art. 13 della legge di ratifica prevede e disciplina alcune possibilità di rifiuto della cooperazione richiesta dallo Stato estero’’ ai sensi del capitolo III della Convenzione’’: un rifiuto di tipo obbligatorio e uno di tipo facoltativo. Rifiuto obbligatorio, ‘‘oltre che nei casi previsti dal codice di procedura penale’’, nei casi previsti dall’art. 18, § 1, lett. d), della convenzione, ma soltanto riguardo al reato politico, e dal § 4, lett. c) (improcedibilità della confisca a causa di prescrizione) e d) (qualora il provvedimento di confisca non sia riconducibile ad una condanna, o provvedimento assimilato, che accerti la Commissione di uno o più reati in rapporto ai quali la confisca era stata ordinata); rifiuto facoltativo, di pertinenza del Ministro della giustizia, nei casi previsti dalle lett. b) e c) del § 1 dello stesso art. 18 (tutela, in prevenzione, della sovranità, della sicurezza, dell’ordine pubblico o di altri interessi essenziali della Parte richiesta; sproporzione tra misura richiesta e ‘‘importance de l’affaire sur laquelle porte la domande’’). c) Il tema della confisca internazionale era stato già affrontato, sul piano dei rapporti bilaterali, nel Trattato di mutua assistenza in materia penale tra il Governo italiano e il Governo degli Stati Uniti d’America, sottoscritto nel 1982, ed entrato in vigore il 13 novembre 1985. ‘‘In base alle procedure giudiziarie previste dalle leggi dello Stato ri-
— 724 — chiesto quest’ultimo — così recita l’art. 18, § 2, del Trattato — avrà competenza ad ordinare la confisca a beneficio dello Stato richiedente dei beni sequestrati in applicazione del § 2 del presente articolo’’. Contestualmente con lo scambio delle ratifiche del Trattato (1985), interveniva anche uno scambio di note, mediante le quali le Parti davano atto che la disposizione del § 2 dell’art. 18 qui in discorso ‘‘non può essere applicata finché non saranno state emanate le necessarie norme nazionali d’attuazione, assicurandosi reciprocamente che stanno operando affinché l’adozione di queste norme avvenga al più presto’’. Ed ancora: ‘‘Ognuna delle due Parti notificherà all’altra l’avvenuta adozione della normativa e l’applicazione dell’art. 18, § 2, inizierebbe alla data della seconda notifica’’. Se pur non si è mancato, anche negli Stati Uniti, di dar inizio all’iter di attuazione, nella prospettiva interna, del predetto art. 18 (11), non risulta che tra le due Parti si sia ancora potuta attuare la reciproca notifica che era stata prevista quale passaggio obbligato verso l’applicazione della norma convenzionale. d) La individuazione, il sequestro e la confisca di beni proventi di reato figurano (art. 1, § 2, lett. g) ) tra le forme di assistenza che hanno costituito materia del Trattato di mutua assistenza in materia penale tra l’Italia e l’Australia, sottoscritto nel 1988, ed entrato in vigore il 1o aprile 1994. Alla particolare materia è dedicato l’art. 17, che fa riferimento a ‘‘richieste di confisca di proventi o di profitti di reato’’, alle quali si dovrà dare esecuzione ‘‘nei limiti stabiliti dalla legge dello Stato richiesto’’, in ogni caso facendo salvi i diritti dei terzi. È anche previsto che, nei casi di urgenza, lo Stato richiesto potrà adottare ‘‘tutte le possibili misure provvisorie al fine di preservare la situazione esistente nonché di salvaguardare gli interessi minacciati e le prove’’. e) Nel già menzionato (4.c) ed anche più recente Accordo tra l’Italia e il Regno Unito del 1990, entrato in vigore l’8 maggio 1994, i temi della ricerca, sequestro e confisca dei proventi di reato sono affrontati in modo anche più analitico. La definizione dei ‘‘proventi di reato" viene testualmente riferita (art. 2, lett. c) ) a ‘‘qualsiasi bene direttamente o indirettamente derivato a qualsiasi persona, o da esso ottenuto, come risultato di attività criminale’’, ed anche al ‘‘valore di tale bene’’. (11) È stato ricordato (TURONE, L’assistenza giudiziaria tra Italia e Stati Uniti in materia di confisca, in Ind. pen., 1987, p. 543) che, nell’ottobre 1986, negli Stati Uniti è stata emanata una legge federale — il Money Laundering Control Act of 1986 — che, oltre ad introdurre una nuova figura di riciclaggio, prevede un procedimento in rem per l’esecuzione di una confisca internazionale, sia pure limitatamente al settore degli stupefacenti. Un caso di trasferta a Los Angeles del tribunale di Napoli - Sezione misure di prevenzione è riepilogato in Ind. pen., 1987, p. 618.
— 725 — L’attività criminale presa in considerazione è, in primo luogo, quella del traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope (definita nella lett. a) dello stesso art. 2), ma non si esclude l’assistenza, a fini di sequestro e confisca, relativamente ai proventi di attività diversa, sempre che tale attività, ‘‘se fosse occorsa nella giurisdizione della Parte richiesta’’, costituirebbe reato o sarebbe ad ogni modo idonea ad attivare un ordine di confisca (cfr. art. 5, § 1, lett. b). È prevista e disciplinata (art. 10) la possibilità del sequestro finalizzato alla confisca, e, quanto all’esecuzione della medesima (art. 11, § 1) si fa esemplificativo ma significativo riferimento ai provvedimenti eseguibili: in relazione al Regno Unito, a) ‘‘l’ordine di confisca emesso a seguito della condanna per un reato’’; in relazione all’Italia, b) il ‘‘provvedimento di confisca emesso a seguito della condanna per un reato’’, ma anche — e la specificazione è ben degna di nota, date le peculiarità del nostro sistema di tutela preventiva — il provvedimento emesso ‘‘come misura di prevenzione nei confronti di una persona coinvolta in attività criminali’’. Seguono, tra l’altro, le precisazioni secondo cui (§ 2) ciascuna Parte ‘‘può domandare l’assistenza dell’altra Parte ai fini dell’esecuzione dei provvedimenti ai quali questo articolo si riferisce’’; i ‘‘proventi confiscati’’ (§ 4) sono trattenuti, salvo diverso accordo, dalla Parte richiesta; vengono fatti salvi (§ 5) i diritti dei terzi, in ordine ai quali, al momento della richiesta, la Parte richiedente deve fornire ‘‘qualsiasi informazione disponibile’’ (§ 3, lett. c). MARIO PISANI
GARANZIE SOGGETTIVE E GARANZIE OGGETTIVE NEL PROCESSO PENALE SECONDO IL PROGETTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE (*)
SOMMARIO: 1. L’esercizio della giurisdizione attraverso « giusti processi » di ragionevole durata. — 2. I caratteri del processo giurisdizionale ispirato al principio dell’oralità. — 3. (Segue): a) il « contraddittorio tra le parti ». — 4. (Segue): b) le « condizioni di parità » e la difesa dei non abbienti. — 5. La costituzionalizzazione dei « diritti dell’accusato » previsti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo: a) considerazioni generali. — 6. (Segue): b) il diritto di essere informato dell’accusa e di poter preparare la difesa. — 7. (Segue): c) il diritto di interrogare le persone fonti d’accusa. — 8. (Segue): d) questioni aperte in rapporto alla disciplina delle letture dibattimentali nel codice di procedura penale. — 9. (Segue): e) ancora sul diritto di interrogare le persone fonti di prova e di acquisire ulteriori prove a favore. — 10. L’assenza di clausole di « compensazione » a garanzia di altri interessi egualmente meritevoli di tutela. — 11. Limiti alla ricorribilità in cassazione e garanzia del « doppio grado di giudizio ». — 12. Notizia di reato e indagini finalizzate all’azione penale. — 13. L’obbligo dell’azione penale in capo al pubblico ministero: a) problemi di effettività. — 14. (Segue): b) prospettive di deflazione processuale. — 15. La relazione del Ministro della giustizia alle Camere « sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine ». — 16. La garanzia costituzionale di indipendenza del pubblico ministero tra esigenze di « coordinamento interno » dell’ufficio e di « coordinamento investigativo » tra gli uffici. — 17. Funzione d’accusa e gestione della politica criminale.
1. È risaputo che, all’origine, il tema relativo alla « questione giustizia » non era previsto tra quelli di cui si sarebbe dovuta occupare la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Esso infatti fu ricompreso solo in un secondo tempo nell’ambito dei lavori di tale Commissione, a seguito delle pressanti richieste provenienti da ben definiti settori dello schieramento di opposizione; e dunque, in sostanza, sulla base di una scelta politica contingente, poiché condizionata dal timore di veder compromessi, fin dall’inizio, gli ampi equilibri ritenuti indispensabili per il buon esito dell’iniziativa riformatrice. (*) Relazione presentata al Seminario svoltosi a Bologna (5 maggio 1998) presso l’Istituto di applicazione forense « Enrico Redenti », a cura dell’Associazione « Franco Bricola ». Il testo, riferito al progetto di revisione costituzionale trasmesso dalla Commissione bicamerale alle presidenze delle Camere il 4 novembre 1997, rappresenta lo sviluppo di altre precedenti relazioni svolte con riferimento alle « bozze » preparatorie di quel progetto (da ultimo cfr. Politica del diritto, 1998, p. 173 s.).
— 727 — Il percorso attraverso cui gli argomenti concernenti la giustizia sono stati fatti rientrare nell’area dei compiti attribuiti dalla legge istitutiva alla Commissione bicamerale è passato così attraverso una palese forzatura della formula imperniata sul « sistema delle garanzie » (art. 1, quarto comma, l. cost. 24 gennaio 1997, n. 1). Formula che di per sé potrebbe apparire sufficientemente ampia da prestarsi alle più diverse interpretazioni, ma che diventa assai delicata, fino a caricarsi di significati piuttosto ambigui, ove la si riferisca al fenomeno dell’esercizio della giurisdizione, qual è disciplinato nella II parte della Carta costituzionale. Non foss’altro perché il nucleo delle garanzie relative ai soggetti (privati) protagonisti del fenomeno giurisdizionale è notoriamente dislocato nella I parte della medesima Carta, là dove sono dettati i princìpi di tutela dei « diritti dei cittadini », e come tale risulta sottratto all’intervento riformatore che la suddetta legge istitutiva circoscrive a « progetti di revisione della parte II della Costituzione ». Questa situazione di ambiguità trova un esplicito riflesso nel più recente progetto di revisione approvato dalla Commissione bicamerale (e trasmesso alla presidenza di entrambe le Camere il 4 novembre 1997) al cui interno, nell’ambito del titolo VII (ribattezzato emblematicamente « La giustizia », in luogo dell’attuale dizione « La magistratura »), sono state formulate alcune proposte direttamente destinate ad influire sul modello del procedimento giurisdizionale, con particolare riguardo al procedimento penale. Ed infatti, nonostante lo sforzo di operare soprattutto sul piano delle garanzie oggettive attinenti all’esercizio della giurisdizione, tali proposte prospettano modifiche innegabilmente incidenti anche sul piano delle garanzie soggettive, con ciò incorrendo in una evidente invasione di campo rispetto a materie estranee (come si diceva poco sopra) alla sfera delle riforme consentite alla Commissione bicamerale. La chiave di volta attorno alla quale ruota l’intero progetto di revisione — per quel che qui importa — è rappresentata dal richiamo alla nozione di « giusto processo ». Una nozione già più volte recepita dalla Corte costituzionale, anche in epoca recente, quale formula di compendio dei princìpi dettati dalla Costituzione « in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, quanto ai diritti di azione e di difesa in giudizio » (sentenza n. 131 del 1996): quindi, secondo un paradigma che riecheggia, nelle sue linee di fondo, l’elaborazione giurisprudenziale nordamericana intorno al due process of law. Ma anche, proprio perciò, una nozione inidonea ad esprimere un suo specifico contenuto, che sia ulteriore rispetto a quello ricavabile dal complesso dei suddetti princìpi costituzionali. Da questo punto di vista, pertanto, appare meramente declamatoria la previsione inserita nel primo comma nell’art. 130 prog. rev. cost., e volta ad enunciare che la giurisdizione si attua « mediante giusti processi
— 728 — regolati dalla legge », la quale « ne assicura la ragionevole durata ». Mentre per quanto concerne quest’ultima clausola, infatti, di fronte all’impossibilità di definire in astratto la misura di una « durata » conforme a ragionevolezza, è evidente il suo intrinseco valore di monito rivolto al legislatore affinché si sforzi di coniugare in concreto la disciplina processuale e le esigenze della giustizia con la garanzia delle parti ad essere giudicate « entro un termine ragionevole » (garanzia che le carte internazionali sui diritti dell’uomo configurano in chiave di vero e proprio « diritto » di ogni persona sottoposta a giudizio), a maggior ragione per quanto concerne il riferimento ai « giusti processi regolati dalla legge » è difficile sfuggire alla sensazione di una norma-bandiera, di forte sapore retorico. Non c’è dubbio, in realtà, che se la nozione di « giusto processo » è propriamente quella già desumibile dai princìpi costituzionali concernenti la tematica giurisdizionale, l’esercizio della giurisdizione non possa attuarsi se non nel rispetto di tali princìpi, ai quali le leggi ordinarie devono ovviamente adeguarsi: perché, altrimenti, si tratterebbe di leggi incostituzionali. Sotto questo profilo siamo di fronte, dunque, ad una previsione di contenuto autoreferenziale. E, d’altra parte, non si è mai dubitato che anche la materia del processo giurisdizionale fosse riconducibile all’area del principio di legalità (art. 101, secondo comma, Cost.), e quindi assoggettata ad una generale riserva di legge. Che lo si voglia affermare a chiare lettere può corrispondere ad una preoccupazione apprezzabile, ma non aggiunge nulla a quanto già poteva farsi discendere dal contesto costituzionale. 2. Più delicati sono, invece, i problemi con riguardo alle disposizioni dettate — all’interno del progetto in esame — nell’ulteriore sviluppo dell’art. 130, primo comma, prog. rev. cost., là dove, probabilmente per esplicitare i contenuti della nozione di « giusto processo » appena richiamata, si enunciano i caratteri che dovrebbero qualificare l’esercizio della giurisdizione in ogni sede processuale (senza distinguere tra materia civile, penale ed amministrativa), peraltro avendo cura di circoscrivere la portata della relativa enunciazione al fenomeno del « processo » inteso in senso stretto. Che questo sia stato l’intento dei compilatori del progetto non sembra potersi revocare in dubbio, come emerge anche da un rapido confronto con la precedente versione del testo corrispondente, quale risultava dall’art. 119, terzo e quarto comma del progetto approvato dalla Commissione bicamerale il 30 giugno 1997. Non altro significato può attribuirsi, infatti, alla circostanza che nel seno del medesimo art. 130, primo comma, la definizione dei suddetti caratteri venga operata con riferimento al concetto di « processo », mentre in precedenza si era preferito porre l’accento sul più ampio concetto di « procedimento »: concetto poi abban-
— 729 — donato, almeno per quel che qui importa (salvo il suo recupero, come si vedrà, nei limiti dell’art. 130, secondo comma), anche in forza delle numerose critiche sollevate da una simile scelta, a causa dell’eccessiva latitudine e della non realistica rigidità del modello costituzionale che ne sarebbe derivato con riguardo ad ogni tipologia di « procedimento » giurisdizionale. Restringendo la propria sfera di incidenza all’ambito del « processo », inteso come species qualificata del « procedimento » (in quanto diretto a conseguire un giudizio di merito sulla regiudicanda, da parte di un organo giurisdizionale, a seguito dell’esercizio di un’azione destinata a sfociare in una decisione potenzialmente idonea a divenire definitiva), l’art. 130, primo comma, prog. rev. cost., è senza dubbio venuto incontro alle critiche appena ricordate, operando lungo una duplice prospettiva. Per un verso, infatti, se si pensa che la maggior parte di tali critiche aveva insistito sull’improponibilità, a livello costituzionale, della definizione di uno schema di « procedimento » necessariamente destinato a svolgersi « nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, secondo il principio dell’oralità e davanti a giudice imparziale » (questa era la formula impiegata nel già citato art. 119, quarto comma, del precedente progetto), ci si rende conto come l’aver costruito la nuova previsione facendo leva sul concetto di « processo », anziché su quello di « procedimento », già di per sé comporti una notevole riduzione degli inconvenienti cui avrebbe potuto dare luogo l’allargamento della medesima previsione ad ogni tipo di « procedimento », ancorché non qualificabile come « processo » (tali, per esempio, tutti i procedimenti di natura cautelare). Per altro verso, va sottolineato come nell’odierno primo comma dell’art. 130 prog. rev. cost. il richiamo al principio dell’oralità, esteso anche ai princìpi della concentrazione e dell’immediatezza (quasi ad abundantiam rispetto alla classica impostazione di origine chiovendiana), non si collochi più nell’ottica dei canoni necessari di ogni processo, ma si limiti ad individuare una linea di indirizzo suggerita al legislatore ordinario, che a tali princìpi potrà ispirarsi (senza esserne peraltro vincolato) nel dare attuazione al « giusto processo ». Siamo di fronte, dunque (come viene ammesso dallo stesso relatore Boato), ad una sorta di indicazione di natura tendenziale, del tutto priva di valore cogente sul terreno legislativo, nella quale si riflette il riconoscimento della impossibilità di una formalizzazione dei princìpi di oralità, concentrazione ed immediatezza quali requisiti irrinunciabili del modello costituzionale di processo. Sullo sfondo si avverte, in sostanza, la consapevolezza che questi ultimi princìpi non solo non appartengono alla sfera essenziale del « giusto processo », ma che sarebbe comunque illusorio pensare di poter costruire un sistema nel quale ogni processo debba necessariamente svolgersi (a pena di illegittimità costituzionale) nella osservanza dei suddetti princìpi.
— 730 — E questa consapevolezza emerge oggi in modo non equivoco dalla previsione di esordio dell’art. 130, primo comma, prog. rev. cost. 3. Dopo avere così circoscritto la rilevanza del principio di oralità e dei suoi corollari, nel definire i caratteri generali ed indefettibili di « ogni processo » il medesimo art. 130, primo comma, prog. rev. cost. sancisce la necessità che l’itinerario processuale si svolga « nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e davanti a giudice terzo ». Nulla di nuovo, evidentemente, per quanto riguarda il contenuto dei princìpi così enunciati, che già oggi del resto vengono individuati come canoni essenziali (non i soli, peraltro) del « giusto processo », grazie anche ad un non episodico indirizzo interpretativo della giurisprudenza costituzionale riferito, soprattutto, agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma, Cost. C’è da domandarsi, semmai, quale significato aggiuntivo possa assumere la previsione in esame rispetto ai risultati di una elaborazione concettuale ormai consolidata, a parte ovviamente il valore simbolico di una proclamazione tanto solenne quanto categorica, e come tale ricca di risonanze anche di natura politica, trattandosi di princìpi di per sé idonei a qualificare il grado di civiltà giuridica di un ordinamento processuale. Proprio il tono perentorio della formula impiegata per enunciare i suddetti princìpi, in quanto garanzie dello svolgimento di « ogni processo » (al punto, si direbbe, da non lasciare alcuno spazio a meccanismi di disponibilità rimessi all’accordo tra le parti), può suscitare, tuttavia, alcuni interrogativi: in particolare sotto il profilo dell’impatto che un modello processuale così definito, in termini di grande rigidità, a livello costituzionale, sarebbe destinato ad esercitare rispetto ai diversi schemi di processo previsti dall’odierno sistema, sul versante della loro compatibilità con i princìpi qualificanti di quel modello. E, al riguardo, se nessun problema sorge per quanto concerne il riferimento alla garanzia rappresentata dalla necessaria presenza di un « giudice terzo » (al di là di ogni possibile rilievo circa l’impiego di questa espressione di conio illuministico, in luogo della più tecnica « giudice imparziale »), qualche non irrilevante questione può porsi, invece, a cominciare dall’enunciato per cui « ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti ». Nessun dubbio, ovviamente, circa la fondamentale portata del principio del contraddittorio (inteso come confronto dialettico tra le ragioni delle parti, di regola anche nel momento di acquisizione della prova) quale garanzia oggettiva di regolarità e di correttezza in ordine alla formazione del convincimento del giudice, ancor prima che quale garanzia soggettiva di tutela dei diritti delle parti: quindi, in definitiva, quale canone imprescindibile per il conseguimento di una decisione ‘‘giusta’’. Senonché, mentre finora l’affermazione di tale principio si è sempre collocata — con esiti equilibrati e soddisfacenti — nel quadro dell’ormai classico inse-
— 731 — gnamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui la disciplina del contraddittorio deve ragionevolmente articolarsi in rapporto alle specifiche caratteristiche dei diversi modelli processuali ordinari (civili, penali ed amministrativi), oggi è lecito domandarsi se un tale insegnamento potrebbe continuare a ‘‘reggere’’ di fronte ad una enunciazione rigida ed assoluta, come quella recepita nel primo comma dell’art. 130 prog. rev. cost. Più precisamente, se questa formula dovesse interpretarsi — stando all’esegesi più plausibile sotto il profilo testuale — nel senso della necessaria anteriorità del contraddittorio rispetto alla decisione, cioè come espressiva di una regola di contraddittorio ex ante, è chiaro che ne sarebbero immediate le ricadute, in chiave di illegittimità costituzionale, su tutti i modelli dei processi che per loro natura si svolgono di regola inaudita altera parte, caratterizzandosi attraverso meccanismi di contraddittorio differito ovvero eventuale (così, per esempio, il procedimento ingiuntivo nel rito civile od il procedimento per decreto nel rito penale). Il che significherebbe, ovviamente, una crisi generalizzata dell’intero sistema processuale, che per molta parte fa leva proprio su modelli del genere allo scopo di agevolare la definizione dei processi di minore rilevanza sociale, ma di grande consistenza statistica. È difficile valutare se i compilatori dell’art. 130, primo comma, prog. rev. cost., nel dettare la previsione relativa all’esigenza del « contraddittorio tra le parti », si siano resi conto di questo rischio, che potrebbe essere evitato soltanto interpretando la suddetta previsione come se tale esigenza potesse venire soddisfatta anche mediante forme di contraddittorio da attuarsi ex post rispetto alla decisione, sia pur sempre nell’ambito del medesimo grado del processo. Tuttavia bisogna riconoscere che una simile interpretazione non sarebbe facilmente desumibile dal testo del predetto art. 130, primo comma, in quanto comporterebbe una palese forzatura in senso riduttivo della rigida formula che vi è contenuta, la cui assolutezza non parrebbe lasciare molto spazio alla prospettiva di un contraddittorio che non trovasse necessariamente esplicazione prima del momento decisorio: con tutte le prevedibili conseguenze, cui si accennava poco sopra, sul terreno della compatibilità costituzionale di diversi modelli processuali oggi largamente diffusi. 4. In certa misura analogo è il discorso per quanto concerne l’enunciazione, sempre all’interno dell’art. 130, primo comma, prog. rev. cost., del principio per cui ogni processo debba svolgersi « in condizioni di parità » tra le parti: cioè tra quelle stesse parti, cui si riferisce il già enunciato principio del contraddittorio, rispetto al quale l’esigenza della parità dovrebbe configurarsi quale naturale corollario (mentre, com’è ovvio, là dove non si realizza il contraddittorio, a maggior ragione viene a mancare
— 732 — la necessaria premessa di una significativa condizione di parità tra le parti). Anche qui, infatti, il carattere rigido e categorico della formula testuale impiegata rischia di dare spazio a non lievi problemi, dal momento che tale formula, nella sua perentorietà, parrebbe prestarsi ad essere interpretata come implicante una rigorosa eguaglianza di posizioni formali tra le parti, nelle diverse fasi attraverso le quali si sviluppa l’ordinaria sequenza processuale all’interno di ciascun grado: il che, però, non si vede come potrebbe trovare concretamente riscontro in ordine ad « ogni processo ». Questo è vero, a maggior ragione, con riguardo al processo penale (pur dovendosi riconoscere che assai più gravi sarebbero stati i problemi, se il principio di una rigida par condicio fosse stato affermato rispetto alla più ampia area del « procedimento », come era previsto dal già citato art. 119, quarto comma, del precedente progetto), rispetto al quale la previsione di una astratta situazione di parità tra le parti non sempre corrisponderebbe alla necessaria specificità della loro posizione processuale, quale emerge dai capisaldi dello stesso modello di processo penale delineato nella vigente Costituzione (artt. 24, secondo comma, 27, secondo comma e 112 Cost.) e lasciato intatto, per quel che qui importa, dal progetto di revisione costituzionale. E ciò senza dire della manifesta situazione di « non parità » tra le parti su cui si reggono i procedimenti speciali a definizione anticipata « senza dibattimento », essendo tutto da dimostrare che il pur necessario consenso delle medesime all’adozione di tali procedimenti sarebbe di per sé sufficiente ad introdurre una deroga rispetto ad un principio — qual è quello della parità — enunciato a livello costituzionale in chiave di garanzia oggettiva del processo, e come tale pertanto da ritenersi estraneo all’area di disponibilità delle parti. In altri termini, l’idea della parità di condizioni tra le parti non può non tener conto delle innegabili differenze di funzioni istituzionali e di attribuzioni processuali intercorrenti tra l’organo dell’accusa (in quanto portatore dell’interesse pubblico all’applicazione della legge penale, con tutte le conseguenze che ne discendono sul piano dell’iniziativa accusatoria, dell’onere probatorio e del dovere di obiettività) e l’imputato assistito dal suo difensore. Non è infatti realistico pensare che a questi ultimi (in quanto titolari di un diritto individuale « inviolabile » a difendersi sul tema dell’accusa, fondato sulla presunzione di non colpevolezza, ma senza alcun onere di iniziativa e senza vincoli di obiettività) possano venire sempre ed in ogni caso assicurate « condizioni di parità » rispetto al primo: non solo nell’arco del procedimento, comprensivo del periodo delle indagini preliminari, ma nemmeno nell’ambito del processo in senso proprio, salve ovviamente le fasi del giudizio destinate alla formazione della prova di fronte al giudice, là dove la parti devono poter effettivamente realizzare il contraddittorio ‘‘ad armi pari’’.
— 733 — Del resto alla parità di condizioni intesa come parità dei poteri (di per sé esclusa dalla stessa struttura essenziale del processo penale) non potrebbe non accompagnarsi una simmetrica parità di doveri tra le medesime parti, che tuttavia in linea di coerenza condurrebbe a ricadute sistematiche non seriamente ipotizzabili: soprattutto alla luce del « dovere istituzionale di correttezza e di indifferenza al risultato » che la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 241 del 1994) ha individuato in capo al pubblico ministero. Come sarebbe, per esempio, se al dovere del pubblico ministero di non sottrarre al giudice alcun elemento probatorio acquisito « a favore » dell’imputato dovesse farsi corrispondere un analogo dovere di obiettività da parte dell’imputato e del suo difensore, spinto fino alla perdita, in capo al primo, del fondamentale diritto di « non collaborare » a proprio carico, nonché alla previsione, in capo al secondo, di un obbligo di produzione di elementi probatori anche a danno del proprio assistito. Si tratta, all’evidenza, di conclusioni impossibili da sostenere (non foss’altro a fronte della previsione costituzionale di inviolabilità della garanzia difensiva), ma che, proprio perciò, riflettendo una evidente diseguaglianza ‘‘naturale’’ di posizioni tra accusa e difesa, denotano la impossibilità di realizzare all’interno del processo una rigida ed assoluta condizione di « parità » tra le parti. La verità è che l’inserimento nella carta costituzionale di qualunque formula radicata sull’esigenza di una formale « parità » di condizioni tra le parti nel processo rischierebbe di condurre troppo lontano, ben al di là del significato di indirizzo politico-legislativo che dovrebbe esserle proprio (e sul quale, ovviamente, non si può non essere d’accordo), poiché vincolerebbe il legislatore a stabilire un regime rigorosamente paritario tra le posizioni delle medesime parti, senza alcuna possibilità di deroga in rapporto alle differenti caratteristiche delle fasi processuali. Il che, se per un verso appare auspicabile, anzi doveroso, nel momento del contraddittorio in materia di prove, per altro verso non può rappresentare la regola durante l’intero svolgimento del processo, al cui interno è praticamente inevitabile che i rapporti tra le parti assumano diverse articolazioni in ragione della diversità dei rispettivi ruoli nella dialettica processuale, oltreché in ragione della stessa natura del giudizio (si pensi, per esempio, alla disciplina delle impugnazioni del pubblico ministero, ovvero alla posizione delle parti private nel procedimento di cassazione). In particolare, sempre per quanto concerne il processo penale, non può non avvertirsi il rischio degli effetti che il postulato della parità tra le parti, intesa in termini rigidi ed inderogabili, potrebbe arrecare all’ordinaria funzionalità dei meccanismi processuali verso il loro scopo istituzionale, tenuto conto della peculiare struttura di determinate fasi nell’economia generale del processo (tipica, in proposito, la fisionomia dell’udienza preliminare), al punto da sconvolgere gli assetti del pur necessario con-
— 734 — temperamento tra le contrapposte esigenze dell’accusa e della difesa. Mentre ciò che importa garantire — ai fini di un « giusto processo » — non è una improbabile parità astratta della difesa rispetto all’accusa, bensì l’attribuzione alla prima di un complesso di diritti e di poteri idonei a controbilanciare efficacemente, nel corso dell’intero procedimento (e del processo in ispecie), quelli attribuiti alla seconda: così da assicurare, in ultima analisi, la realizzazione di un equilibrato contraddittorio tra le parti di fronte al giudice. E, in questo contesto, sarebbe comunque da evitare, a causa delle gravi ripercussioni che potrebbero derivarne sul sistema processuale nel suo complesso, la costituzionalizzazione di un principio di parità tra le parti formulato in termini così rigidi, da precludere la configurabilità di modelli processuali ‘‘concordati’’ in chiave derogatoria rispetto a tale principio (come sono tipicamente i procedimenti speciali a definizione anticipata del processo, fondati su base negoziale); mentre, al contrario, sarebbe ragionevole ammettere la previsione di modelli alternativi, al cui interno le parti stesse possano consentire alla perdita della propria posizione di parità in vista del conseguimento di altri vantaggi di natura processuale o sostanziale. Lungo la prospettiva di attuazione del contraddittorio « in condizioni di parità » risulta, semmai, molto più rilevante — in termini di concretezza, e con riferimento alla comune esperienza della realtà giudiziaria — la previsione dell’art. 130, quarto comma, prog. rev. cost., nella quale si riflette il proposito di garantire l’effettività di esercizio del diritto di difesa anche da parte dei non abbienti. È significativo, però, che nel testo in questione non ci si limiti ad affermare, con tono un po’ enfatico (come era accaduto nell’art. 119, ultimo comma, del precedente progetto), la esigenza di un intervento legislativo volto a soddisfare tale finalità, tra l’altro con il rischio di un inutile ‘‘doppione’’ rispetto al disposto dell’attuale art. 24, terzo comma, Cost., ma si precisi con chiarezza la strada da percorrere allo scopo: in particolare, facendo espresso riferimento alla istituzione di « pubblici uffici di assistenza legale ». Attraverso questa specifica indicazione verrebbero così individuati senza equivoci — quasi in chiave di interpretazione autentica, superando le incertezze che tante discussioni hanno sollevato anche in dottrina — gli « appositi istituti » cui già allude il suddetto art. 24, terzo comma, Cost., assicurando ai non abbienti i « mezzi » per esercitare quel « diritto di agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione » che l’art. 130, quarto comma, prog. rev. cost. ulteriormente ribadisce. Al di là della perdurante necessità di un migliore coordinamento tra queste due ultime previsioni, merita comunque di essere apprezzata, anche per la sua coraggiosa carica innovativa all’interno del sistema, la scelta diretta a puntare su un modello di assistenza legale pubblica ricalcata sull’esperienza del legal aid, dalla quale traspare una comprensibile insoddisfazione per i risultati otte-
— 735 — nuti a seguito della ormai non più recentissima legge sul patrocinio per i non abbienti « a spese dello Stato » (l. 30 luglio 1990, n. 217). 5. Allo scopo di riempire di più specifici contenuti il principio del « giusto processo », affermato nel primo comma avendo riguardo ad « ogni processo », il secondo comma dell’art. 130 prog. rev. cost. si preoccupa di enunciare, con esplicito riferimento al « procedimento penale » (e, dunque, con piena consapevolezza del mutamento lessicale così introdotto), una serie di diritti da riconoscersi alla « persona accusata di un reato ». Dove, se da un canto appare evidente la limitazione dell’enunciato all’ambito dei soli procedimenti in materia penale, dall’altro risulta altrettanto chiaro l’allargamento operato nell’area di incidenza della previsione mediante il passaggio dal concetto di « processo » a quello di « procedimento », che è concetto tradizionalmente più esteso rispetto al primo (e peraltro già noto al contesto costituzionale, essendo utilizzato nell’art. 24, secondo comma, Cost. attraverso il riferimento ai suoi diversi « stati » e « gradi »). Con la conseguenza, per quanto concerne il « procedimento penale », che la relativa locuzione deve ritenersi idonea a coprire, secondo il comune insegnamento in dottrina, l’intero arco procedurale compreso tra l’avvio delle indagini preliminari e la formazione del giudicato, a parte le eventuali vicende della fase esecutiva (non è invece assolutamente accettabile, ed anzi denota una pericolosa confusione di idee, l’opinione restrittiva espressa dal relatore Boato, stando al quale il procedimento penale esaurirebbe « la sua funzione con l’imputazione, che determina l’apertura del processo »). Il proposito politico-legislativo è dichiaratamente quello di pervenire ad una vera e propria « costituzionalizzazione dei diritti dell’accusato », quali risultano proclamati all’interno delle carte internazionali sui diritti dell’uomo, attraverso una operazione di trasferimento nel testo costituzionale (sia pure con qualche non irrilevante differenza a livello di formula normativa) della maggior parte delle disposizioni dettate nell’art. 6, terzo comma, Convenzione europea dei diritti dell’uomo (e successivamente ribadite, in buona sostanza, nell’art. 14, terzo comma, Patto internazionale sui diritti civili e politici). E qui, trattandosi di veri e propri diritti processuali attribuiti all’accusato in stretta connessione con l’esercizio della difesa, cioè secondo la tipica fisionomia delle garanzie soggettive, appare più che mai manifesto il superamento dei confini, rispetto all’ambito di competenza definito dalla legge istitutiva della Commissione bicamerale con esclusivo riferimento alla parte II della Costituzione. Prescindendo da un simile rilievo, forse troppo disinvoltamente accantonato nella stesura del progetto in esame, è fuori discussione come le garanzie che si vorrebbero introdurre nel secondo comma dell’art. 130 prog. rev. cost., siano espressive di princìpi di grandissimo risalto sul
— 736 — piano della civiltà giuridica, peraltro già ricavabili dall’attuale contesto della Costituzione: come si può desumere (grazie anche ad un’ormai cospicua giurisprudenza costituzionale) dal combinato disposto degli artt. 3, 24, secondo comma e 27, secondo comma, Cost. Tuttavia, di fronte alla prospettiva di un puro e semplice ‘‘trapianto’’ nel tessuto della Costituzione di un complesso di previsioni di garanzia così specifiche e dettagliate, quali sono quelle ricalcate sull’art. 6, terzo comma, Conv. eur., non si possono sottacere diverse perplessità, soprattutto a causa del valore di assolutezza che le medesime previsioni (estrapolate in modo meccanico dalla sede di provenienza, senza alcun riguardo per gli equilibri interni dell’originario quadro convenzionale) verrebbero ad assumere una volta trasfuse tout court nel testo costituzionale. Esse, infatti, finirebbero per tradursi in princìpi di carattere assoluto, che dovrebbero valere come tali, in quanto caratterizzati da un notevole tasso di rigidezza. Quindi, praticamente, senza possibilità di adattamento alle peculiarità delle diverse fasi e dei diversi modelli processuali, e nel contempo senza possibilità di un ragionevole contemperamento con altri valori (ad esempio quelli espressi attraverso la formula della « efficienza del processo ») meritevoli di tutela anche a livello costituzionale, ma non riconducibili a previsioni altrettanto specifiche e puntuali. Con il pericolo, dunque, di precostituire nel seno della Costituzione delle barriere rigide, idonee a configurarsi come preclusive rispetto a soluzioni di mediazione tra opposte esigenze (di garanzie individuali e, rispettivamente, di accertamento dei fatti) tipiche della sfera di discrezionalità del legislatore processuale penale. 6. A parte queste considerazioni di carattere più generale, balza subito in evidenza come l’intera struttura della proposizione racchiusa nel secondo comma dell’art. 130 prog. rev. cost. faccia leva sull’individuazione della « persona accusata di un reato » quale titolare della serie di diritti processuali ivi contemplati. Ma ciò attraverso l’impiego di una locuzione che non presenta altri riscontri nel lessico costituzionale (dove, invece, si parla expressis verbis dell’« imputato » nell’art. 27, secondo comma, Cost.), e che, d’altra parte, per la sua genericità, rischia di creare problemi interpretativi non lievi con riferimento alla stessa sfera di operatività della proposizione in esame. Se è vero, infatti, che dal punto di vista tecnico la locuzione « persona accusata di un reato » dovrebbe alludere quanto meno alla persona contro cui è già stata esercitata l’azione penale, cioè all’imputato, è altrettanto vero che alla stregua di una simile interpretazione (tenuto conto della sistematica del vigente codice, dove la qualifica di imputato è di regola assunta, una volta formulata l’imputazione, al termine delle indagini preliminari) non avrebbe molto senso il riconoscimento a tale persona del
— 737 — diritto ad « essere informata, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico ». Sempreché, naturalmente, non si voglia ridurre l’oggetto di quel diritto ad una tempestiva notizia sul contenuto dell’imputazione, dopo l’esercizio dell’azione penale. Per dare un senso compiuto alla suddetta garanzia occorrerebbe, invece, intenderla come riferita anche alle fasi preliminari del procedimento (ovviamente prescindendo dalla nozione formale di « accusa », in quanto sinonimo di imputazione), e quindi tradurla nel diritto della persona sottoposta alle indagini di venire a conoscenza al più presto dei fatti che le sono attribuiti, e per i quali si sta procedendo nei suoi confronti. Ed è questo, a ben vedere, l’unico plausibile significato della garanzia che si vorrebbe recepire, sia pure attraverso una certa forzatura dell’ambiguo lessico mutuato dalla normativa convenzionale: come può desumersi, del resto, dal già ricordato esplicito riferimento al « procedimento penale », che non per nulla costituisce l’incipit del secondo comma del predetto art. 130. In tal caso, però, bisogna avere almeno la consapevolezza che, così facendo, attraverso la prefigurazione di una sorta di diritto assoluto della « persona accusata » ad essere informata fin dall’avvio circa l’oggetto delle indagini a suo carico (come se, in sostanza, l’attuale informazione di garanzia dovesse venire inviata a partire dal primo atto investigativo ‘‘mirato’’), si rischierebbe di togliere spazio a qualunque previsione di segretezza relativamente alle fasi iniziali delle indagini, senza nemmeno poter distinguere relativamente ai procedimenti per particolari tipologie di reati. Si tratta di un corollario di evidente gravità sotto il profilo della efficienza investigativa (basti pensare alle più complesse inchieste per delitti di criminalità organizzata), che tuttavia parrebbe praticamente inevitabile, quale conseguenza della modifica in discorso, non essendo agevole individuare all’interno della formula proposta (salvo, forse, traendo spunto dal riferimento cronologico al « più breve tempo possibile ») alcun margine di elasticità idoneo a giustificare meccanismi di « segretazione » o di differimento dinanzi alla rigidezza del diritto di informativa riconosciuto all’accusato. Del resto che sia questa, radicata su una nozione ampia ed atecnica di « persona accusata », la chiave di lettura della proposizione normativa di cui si discute, è dimostrato anche dalla successiva attribuzione alla medesima — nell’ambito dello stesso secondo comma — della garanzia di disporre « del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa ». Poiché infatti tale garanzia, se per un verso presuppone che la suddetta persona già abbia ricevuto tempestiva informazione circa i contenuti dell’« accusa » (secondo le forme da essa assunte nei diversi momenti dell’iniziativa giudiziaria), per altro verso si configura come specificazione del diritto di difesa riconosciuto « inviolabile in ogni stato e grado del pro-
— 738 — cedimento » (art. 24, secondo comma, Cost.), ne discende che il suo ambito di operatività non può non riferirsi anche agli « stati » del procedimento che precedono l’esercizio dell’azione penale, ivi compresa la fase delle indagini preliminari. E ciò deve valere a maggior ragione (non essendo seriamente sostenibile una esegesi di segno restrittivo) anche con riferimento all’ulteriore garanzia attribuita alla « persona accusata », attraverso il conferimento ad essa del diritto ad essere « assistita gratuitamente da un interprete », qualora non comprenda o non parli « la lingua impiegata » nel medesimo procedimento. 7. Se quel che precede è esatto, il testo proposto quale secondo comma dell’art. 130 prog. rev. cost. sembrerebbe dunque doversi intendere come matrice di una serie di garanzie soggettive da riconoscersi ex lege alla « persona accusata » non soltanto con riguardo alla fase del vero e proprio processo (segnata, per intenderci, dall’avvenuta formalizzazione dell’accusa mediante la definizione dell’imputazione), bensì anche con riguardo alle fasi anteriori del procedimento, alle quali senza dubbio si riferisce, per quanto si ricordava poco sopra, la proclamazione costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa ex art. 24, secondo comma, Cost. Alla luce di queste premesse, tuttavia, appare evidente come una simile interpretazione (peraltro difficilmente contestabile, ed anzi l’unica consentita dal pur singolare approccio limitativo del relatore Boato) sollevi non marginali questioni sotto il profilo della effettiva area di espansività di alcune delle ulteriori garanzie ricomprese nell’elencazione di cui al predetto secondo comma: quali sono, in particolare, quelle concernenti la « facoltà » dell’accusato sia « di interrogare o far interrogare dal suo difensore le persone da cui provengono le accuse a suo carico », sia « di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a discarico nelle stesse condizioni di quelle d’accusa », oltreché « l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore ». Tralasciamo pure le riserve subito suscitate da quest’ultima previsione, l’unica non mutuata dal testo della Convenzione europea, nella quale alla improprietà lessicale (attestata dall’improvvido riferimento all’acquisizione dei « mezzi di prova », anziché delle « prove », secondo il corretto linguaggio codicistico) si accompagna una inutile ridondanza, tale da accreditarne letture sicuramente viziate per eccesso (come se, per esempio, venisse riconosciuto all’accusato il diritto di ottenere l’acquisizione, senza limiti legali, di qualunque prova « a suo favore »). In realtà, è la stessa idea di una costituzionalizzazione ‘‘in blocco’’ dei ben noti diritti, riconosciuti all’accusato dalle convenzioni internazionali, relativi all’« interrogatorio » delle persone costituenti fonti di prova, che provoca le più forti perplessità sul piano sistematico. Anche prescindendo, ancora una volta, da alcune sciatterie terminologiche indegne di un testo costituzio-
— 739 — nale (dove non è tollerabile possa parlarsi di « persone a discarico », non meno che di « quelle d’accusa »), è manifesto, infatti, il pericolo che l’inserimento nella Costituzione delle relative previsioni, espresse con formule tanto perentorie, finisca per ‘‘ingessare’’ il sistema processuale penale nell’ossequio a regole assolute, che non consentirebbero alcuna possibilità di bilanciamento rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti. In particolare, se si pervenisse a costituzionalizzare sic et simpliciter il diritto dell’accusato di « interrogare o far interrogare » le persone da cui provengono « le accuse a suo carico », senza prevedere nessun margine di elasticità, si enuncerebbe bensì un principio (quello del contraddittorio sulle fonti di prova) di grande rilevanza politica e giuridica, su cui tutti ovviamente siamo d’accordo, quale fondamento della nostra civiltà processuale. Tuttavia anche un principio che, così formulato — in termini rigidi — non ammetterebbe alcuna deroga: non solo quelle su cui già oggi sono assai forti i sospetti di incostituzionalità (con riferimento, in particolare, all’art. 190-bis c.p.p.), ma nemmeno quelle legate a situazioni eccezionali ed obiettivamente indipendenti dalla volontà dei soggetti del processo, sulla cui plausibilità e ragionevolezza del pari si registra un ampio accordo. 8. Non è questo il momento per affrontare la questione relativa ai limiti di lettura, in sede dibattimentale, delle dichiarazioni « sul fatto altrui » rese nella fase preliminare dall’imputato o dalle persone imputate in separati procedimenti connessi, che in dibattimento non compaiano o che rifiutino di sottoporsi all’esame, ovvero esercitino la facoltà di non rispondere nel corso dell’esame stesso. Al riguardo, la recente riformulazione dell’art. 513 c.p.p. ha disciplinato ex novo questa delicata materia ispirandosi — com’è noto — proprio all’esigenza di garantire il contraddittorio sulle fonti delle dichiarazioni d’accusa, ed ha perciò escluso che, nelle ipotesi appena ricordate, tali dichiarazioni possano venire utilizzate a carico di terze persone (primo comma), o addirittura possano venire lette in dibattimento (secondo comma), senza il consenso delle medesime persone, non avendo esse potuto « interrogare o far interrogare » il coimputato dichiarante. E tuttavia va sottolineato che anche in ipotesi del genere la lettura delle precedenti dichiarazioni è stata ammessa dall’art. 513, secondo comma, c.p.p., allorché la « impossibilità » di ottenere la presenza del dichiarante nella fase dibattimentale, o di sottoporlo comunque ad esame (pur facendo ricorso alle procedure ivi indicate), non fosse prevedibile all’epoca del rilascio delle suddette dichiarazioni. Mentre riesce difficile ritenere ragionevole che una corrispondente disciplina non sia stata dettata anche nel primo comma dell’art. 513 c.p.p., allorché la medesima situazione di « impossibilità » si realizzi nei confronti dell’imputato richiesto di
— 740 — sottoporsi ad esame: ovviamente quando si tratti di esame su fatti concernenti la responsabilità altrui e nei limiti rigorosi delle dichiarazioni rese in precedenza. D’altro canto appare assai incongrua, ed anzi foriera di gravi dubbi sotto il profilo costituzionale, la mancata previsione di un’analoga regola volta a consentire l’utilizzabilità delle dichiarazioni in parola, quando non solo l’assenza in giudizio, ma anche il rifiuto di rispondere del dichiarante costituisca l’effetto di violenze, di minacce o di altre forme di condizionamento esercitate nei suoi confronti per indurlo a tacere, col risultato di alterare il corretto svolgimento del contraddittorio. Si tratta di una incongruenza già di per sé piuttosto incomprensibile, nel quadro del sistema, di fronte alla regola di recupero dettata nell’art. 500, quinto comma, c.p.p. (in rapporto al secondo comma-bis dello stesso art. 500 c.p.p.) con riferimento al verificarsi di circostanze similari nel corso dell’esame testimoniale. Ma l’incongruenza risulta ancora più vistosa ove la si confronti con la recente raccomandazione R(97)13 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che ha invitato gli Stati membri (specialmente nei processi per delitti di criminalità organizzata) ad ammettere l’utilizzabilità come prova delle dichiarazioni rese di fronte all’autorità giudiziaria durante la fase preliminare del processo, allorché la mancata comparizione in giudizio del dichiarante (e, quindi, la mancata ripetizione delle dichiarazioni rese in precedenza) dipenda da minacce gravi alla vita ed alla sicurezza personale subìte dallo stesso o dai suoi congiunti. Su un piano più generale converrà aggiungere — riprendendo, per quel che qui importa, una tesi già svolta in epoca non sospetta — che l’esigenza di doverosa attuazione del principio del contraddittorio, sottostante al nuovo testo dell’art. 513 c.p.p., avrebbe potuto essere soddisfatta in maniera molto più lineare, nelle ipotesi ivi descritte, limitando al tema del « fatto proprio » — con esclusione del « fatto altrui » — la facoltà di non rispondere riconosciuta alle persone imputate in procedimenti connessi, sulla base della troppo generica previsione risultante ex art. 210, quarto comma, c.p.p. Come sarebbe se si fosse stabilito che tali persone, dopo avere reso dichiarazioni « sul fatto altrui » al pubblico ministero o al giudice nel corso della fase preliminare (essendo state previamente avvertite delle relative conseguenze), non potessero avvalersi della suddetta facoltà, e quindi fossero obbligate a rispondere in sede di esame dibattimentale, di fronte alle domande aventi ad oggetto il contenuto delle medesime dichiarazioni. Al di là dei quesiti legati all’art. 513 c.p.p. bisogna essere, comunque, consapevoli che l’introduzione ‘‘secca’’ nel sistema costituzionale del principio relativo al diritto dell’accusato di « interrogare o far interrogare » le persone da cui provengano le accuse nei suoi confronti metterebbe in crisi, sotto il profilo della compatibilità, svariate previsioni del codice di
— 741 — procedura penale, nelle quali si configurano (si badi, fin dalla stesura originaria del codice) alcune circoscritte fattispecie derogatorie rispetto al medesimo principio: soprattutto con riferimento ad ipotesi di oggettiva impossibilità di attuazione del contraddittorio sulle fonti di prova. Basti pensare, per esempio, all’attuale disciplina dell’art. 195, terzo comma, c.p.p. che, derogando alle regole ordinarie, consente l’utilizzabilità del contenuto delle deposizioni rese dal testimone de relato allorché l’esame del testimone diretto, pur ritualmente richiesto, risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità di quest’ultimo. Basti pensare, nel medesimo ordine di idee, alla già richiamata disposizione dell’art. 512 c.p.p., là dove prevede in via generale che sia data lettura in dibattimento degli « atti assunti » senza contraddittorio durante la fase preliminare (ivi compresi i verbali degli atti recanti dichiarazioni), tutte le volte in cui « per fatti o circostanze imprevedibili » ne sia « divenuta impossibile la ripetizione »; od ancora alla disposizione dell’art. 512-bis c.p.p., nella parte in cui ammette la lettura dibattimentale dei « verbali di dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all’estero », allorché tale persona « essendo stata citata, non è comparsa ». È chiaro, infatti, che tutte queste disposizioni, nonché le altre analoghe rintracciabili all’interno del codice, sarebbero destinate a cadere, ove venisse sancita nella Costituzione, in chiave di assolutezza, la garanzia per l’accusato di « interrogare o far interrogare » dal suo difensore le persone fonti di accusa. Senonché è questa una conseguenza che, nella sua drasticità, dev’essere valutata con molta attenzione sul terreno delle scelte politico-legislative normalmente affidate al legislatore ordinario, ai fini di un ragionevole bilanciamento tra i valori delle garanzie individuali e quelli della efficienza del processo: bilanciamento che, nel caso della modifica costituzionale qui criticata, non potrebbe realizzarsi se non con il rischio di un grave sacrificio delle finalità di giustizia. 9. Ma non è tutto, poiché la generica formulazione lessicale del principio appena ricordato, per di più calata in un contesto di garanzie soggettive che in tanto hanno senso (come si diceva poco sopra), in quanto vengano riferite anche alla fase delle indagini preliminari, sembrerebbe fatta apposta per prestarsi ad interpretazioni di portata sovvertitrice rispetto agli attuali equilibri tra le esigenze in gioco nella medesima fase. Si rifletta, per esempio, circa l’incidenza che potrebbe esercitare sull’odierna disciplina delle indagini preliminari il combinato disposto — a livello costituzionale — dei due princìpi che, rispettivamente, attribuiscono all’accusato il diritto di « interrogare o far interrogare » le persone fonti di accusa a suo carico, ovvero il diritto di « ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone » fonti di prova a discarico « nelle stesse condizioni » di quelle costituenti fonti di prova a carico, cui si aggiungerebbe,
— 742 — a titolo di norma di chiusura, l’ulteriore conferimento al medesimo accusato del diritto di ottenere « l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore ». In particolare, è doveroso domandarsi quale significato potrebbero assumere questi princìpi, se interpretati come espressivi di diritti costituzionalmente tutelati, da riconoscersi non solo all’imputato nell’ambito del processo, ma anche, prima ancora (secondo la già ricordata esplicita indicazione del relatore Boato), alla persona sottoposta alle indagini nel corso della fase preliminare. Si deve ritenere che, in forza dei suddetti princìpi, durante lo svolgimento delle indagini il difensore dell’indagato abbia diritto di ascoltare (e, quindi, di conoscerne i nomi per poterle convocare) le persone già sentite dal pubblico ministero come fonti di prova a carico, senza alcun limite di natura temporale e senza alcun vincolo, per le stesse, circa il segreto sul contenuto delle dichiarazioni rilasciate in precedenza al pubblico ministero? Si deve ritenere che, al fine di consentire l’esercizio di tale diritto al difensore dell’indagato, il pubblico ministero debba essere obbligato a rivelargli i nomi delle persone da cui abbia acquisito informazioni « a carico »? Ed inoltre, che queste ultime possano venire « interrogate » dal medesimo difensore in via privata ed unilaterale (quand’anche, eventualmente, si tratti di persone detenute), ed avendo di fronte a lui i medesimi obblighi di collaborazione che sono loro imposti di fronte al pubblico ministero interrogante? Od ancora, da un diverso punto di vista, si deve ritenere che per l’acquisizione delle prove « a favore » (a parte la difficoltà di individuare ex ante quali siano le prove « a favore », che è connotazione di merito, non necessariamente coincidente con l’area delle prove richieste « a discarico ») non debbano valere gli stessi limiti e le stesse regole imposti dalla legge per le prove « a carico » (cioè, in definitiva, quelle « stesse condizioni », che pure il testo in esame richiama quale parametro per assicurare la parità di trattamento riguardo all’interrogatorio « di persone a discarico »)? Si tratta di quesiti che non devono essere elusi, ed ai quali sarebbe palesemente difficile poter dare una risposta negativa, ove venissero consacrati nel quadro costituzionale — in termini di astrattezza e di rigidità, secondo la formulazione prospettata, e quindi con valore assolutamente vincolante per il legislatore ordinario — i princìpi sui quali ci si è da ultimo soffermati. Ma è altrettanto palese che, in tal caso, le ricadute sulla disciplina ordinaria del processo penale sarebbero di portata così dirompente — sotto il profilo dei rapporti tra garanzie ed efficienza — da costituire un prezzo insopportabile per un sistema processuale che intenda assicurarsi ordinari livelli di funzionalità per il conseguimento dei suoi fini istituzionali relativi all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. 10.
La verità è che la proposta di costituzionalizzare attraverso un
— 743 — vero e proprio trapianto (estrapolandole, pressoché in blocco, dal loro contesto originario) determinate previsioni di garanzia desumibili dall’art. 6, terzo comma, Conv. eur., fa sorgere una delicatissima questione di metodo, ancor prima che di merito, ben oltre i confini del problema adesso in esame. Con riferimento, in particolare, all’opportunità di inserire nella Costituzione una serie di previsioni molto specifiche, e tutto sommato piuttosto settoriali, che troverebbero la loro migliore collocazione nella legge ordinaria (come finora, in effetti, è accaduto), quali momenti di concretizzazione di più generali princìpi già recepiti a livello costituzionale. Non a caso, del resto, proprio alcune delle previsioni che si vorrebbero inserire nell’art. 130, secondo comma, prog. rev. cost., risultano emblematiche — per quanto si è rilevato — dei rischi impliciti nella tentazione di trasformare la Carta costituzionale da ‘‘tavola’’ dei grandi princìpi ispiratori del sistema a ‘‘contenitore’’ di disposizioni dettagliate e puntigliose relative a fattispecie piuttosto circoscritte. Con la conseguenza di ripercussioni molto deleterie sugli spazi di discrezionalità politica affidati al legislatore ordinario, cui spetta il compito di tener fermi i princìpi fondamentali fissati nella Costituzione, ma modulandoli secondo le concrete esigenze di « buon funzionamento » dei meccanismi processuali; e ciò, ovviamente, in ragione delle peculiarità dei diversi momenti e delle diverse situazioni del procedimento. A questo si deve aggiungere, per quel che attiene più specificamente alla proposta di cui si discute, che la prospettiva di un trasferimento ‘‘meccanico’’ nel tessuto costituzionale di alcune previsioni accolte nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (e di esse soltanto) finisce per irrigidire il significato di tali previsioni molto al di là di quanto non si verifichi nel seno del sistema convenzionale, al cui interno operano alcune importanti clausole di ‘‘compensazione’’ idonee a contemperare l’incidenza delle suddette previsioni con la salvaguardia di altri interessi, egualmente meritevoli di tutela. Ci si riferisce, anzitutto, alla clausola derogatoria sancita nell’art. 15 Conv. eur., là dov’è consentito a ciascuno Stato contraente — in caso di guerra o di « altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione », ed entro i limiti della stretta necessità — di adottare « misure in deroga alle obbligazioni previste » dalla stessa Convenzione, con la sola esclusione di alcuni ben definiti settori. Posto che tra questi ultimi non rientra il settore dei diritti attribuiti all’accusato dall’ormai più volte richiamato art. 6, mentre per l’individuazione del concetto di « pericolo pubblico » è da tempo accreditata presso la migliore dottrina la tesi volta ad includervi anche le situazioni caratterizzate dalla c.d. « emergenza criminale » (ivi compresi i fenomeni del terrorismo e della criminalità organizzata di stampo mafioso), appare chiaro come la presenza di una clausola del genere offra all’ordinamento processuale penale interno di ogni Stato un certo margine di elasticità, salvo il
— 744 — rispetto di ben definiti adempimenti informativi, a fronte della pura e semplice ricezione dei diritti dell’accusato elencati, per quel che qui importa, nell’art. 6, terzo comma, Conv. eur. Ciò che, evidentemente, non sarebbe possibile qualora la previsione di tali diritti venisse in via automatica trasferita nel testo costituzionale, dal momento che nessuna concomitante trasposizione risulta sia stata proposta per una analoga clausola derogatoria. Lo stesso vale, a maggior ragione, con riferimento all’altra clausola risultante dall’art. 17 Conv. eur., che, nell’escludere qualunque interpretazione delle garanzie contenute nelle norme convenzionali come volte ad autorizzare il compimento di atti o di attività di tenore contrario ai diritti riconosciuti dalla medesima Convenzione, in realtà configura un baluardo contro il rischio di un abuso (o, comunque, di un uso distorto) delle corrispondenti garanzie, evitando che vengano forzate fino a precludere ad altri soggetti il godimento di diritti di eguale rango nell’ambito convenzionale. Come sarebbe, ad esempio, se alcuna delle garanzie previste dall’art. 6, terzo comma, Conv. eur. ricevesse un’attuazione legislativa estesa al punto da impedire il buon funzionamento del processo, e quindi da condurre — attraverso un sostanziale « diniego di giustizia » — alla vanificazione dei diritti di altri soggetti parti del processo, o comunque interessati al suo esito, ivi comprese le vittime del reato. Di fronte a questo gioco di pesi e di contrappesi interni al sistema di garanzie proprio della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da cui discende la possibilità di adeguati bilanciamenti tra i diversi interessi ritenuti meritevoli di protezione (come dimostra anche la saggia giurisprudenza della Commissione e della Corte di Strasburgo, molto sensibile al problema del contemperamento tra diritti individuali ed esigenze di giustizia), ce n’è abbastanza per poter valutare quanto risulti poco meditata la proposta di un trasferimento rigido nell’art. 130, secondo comma, prog. rev. cost., di determinate previsioni garantistiche ricavabili dall’art. 6, terzo comma, Conv. eur., senza alcun corredo delle ulteriori disposizioni convenzionali dirette a ‘‘riequilibrare’’, nei termini che si sono precisati, il significato delle prime. Per conseguenza, sembrano più che fondati i dubbi già da alcune parti espressi con riguardo sia all’opportunità, sia alla stessa correttezza metodologica di una simile operazione di mero ‘‘trapianto’’. Mentre, per altro verso, sembra senz’altro da coltivare la prospettiva, ancora di recente rilanciata in dottrina, a favore della predisposizione di una apposita legge costituzionale, nella quale vengano trasfuse tutte le previsioni di garanzia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (o, comunque, quelle relative alla giustizia penale), purché assunte nella loro complessità: cioè come volte a comprendere non solo, ovviamente, le regole attributive di diritti, ma anche le clausole che, in ipotesi ben definite, consentono di derogarvi, o comunque di temperarne la rigidezza ad almeno parziale salvaguardia di altri interessi.
— 745 — 11. Giunti a questo punto, prima di passare alla tematica concernente la posizione e le funzioni del pubblico ministero, occorre almeno dar conto dell’inedita innovazione che si vorrebbe introdurre nell’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost., con lo stabilire che contro le sentenze il ricorso in cassazione è ammesso « nei casi previsti dalla legge », la quale « assicura comunque un doppio grado di giudizio ». Rispetto al testo dell’odierno art. 111, secondo comma, Cost., la novità più clamorosa è evidentemente rappresentata dal venir meno del principio della necessaria previsione del ricorso in cassazione « per violazione di legge » quale garanzia indefettibile nel sistema delle impugnazioni contro le sentenze, mentre il medesimo principio rimane fermo in ordine al ricorso contro i provvedimenti (diversi dalle sentenze) incidenti sulla libertà personale « pronunciati dagli organi giurisdizionali ». Ivi compresi, dunque (a parte il non risolto difetto di coordinamento rispetto alla locuzione « autorità giudiziaria » di cui all’art. 13, secondo comma, Cost.), tutti i provvedimenti restrittivi adottabili per ragioni di giustizia nel corso del procedimento penale, nei confronti dei quali ovvie esigenze di tutela rigorosa della libertà personale, soprattutto dell’imputato, hanno sconsigliato qualunque deroga rispetto alla tradizionale configurazione del ricorso in cassazione come rimedio da ammettersi « sempre », e senza possibilità di compressioni ad opera del legislatore ordinario. Per quanto concerne l’ambito del ricorso contro le sentenze si è ritenuto, invece, che una limitazione alla generalizzata ricorribilità presso la Corte di cassazione fosse necessaria in vista del dichiarato proposito di « deflazionare l’attività di quest’organo in relazione a fattispecie di minor rilievo ». Ed appunto in tale prospettiva l’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost., demanda tout court alla legge, attraverso una riserva piuttosto ampia, il compito di definire i « casi » nei quali il ricorso sarà consentito: con riferimento, dunque, alla tipologia delle sentenze ricorribili, ai corrispondenti motivi ed all’eventuale predisposizione di meccanismi idonei a ‘‘filtrare’’ l’ammissibilità dei ricorsi stessi. La finalità è senza dubbio apprezzabile, soprattutto di fronte all’endemica realtà del sovraccarico da cui è oberata la Corte di cassazione, proprio a causa dell’assenza di limiti alla possibilità di ricorso (cui si ricollega il deprecato costume forense di ‘‘approfittare’’ in larghissima misura di tale possibilità, specialmente in materia penale, quanto meno allo scopo di ritardare la conclusione del processo), anche se sarebbe stato preferibile che al legislatore ordinario venissero fornite più precise indicazioni circa i criteri selettivi da seguire nell’individuazione dei « casi previsti » di ricorribilità. Occorre essere consapevoli, in ogni modo, della delicatezza di una simile scelta, poiché per questa via il ricorso in cassazione — non essendo più assicurato a livello costituzionale come rimedio contro qualunque sentenza, ancorché inficiata da gravi vizi di legittimità — perde, o
— 746 — comunque vede notevolmente ridimensionata, la sua fisionomia di garanzia oggettiva diretta a porre la Corte di cassazione in grado di esercitare la funzione nomofilattica attribuitale dall’ordinamento giudiziario. E questo senza dire dell’ulteriore discrasia rappresentata del venir meno, sempre nel contesto costituzionale, di un rapporto di necessaria corrispondenza tra il precetto della obbligatoria motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (ribadito dall’art. 131, primo comma, prog. rev. cost.) e la previsione del ricorso in cassazione contro le sentenze viziate da quella particolare « violazione di legge », cui dà origine la radicale inosservanza di tale precetto. Da un diverso punto di vista, considerando il profilo del ricorso in cassazione come garanzia soggettiva per la tutela degli interessi delle parti, l’eventualità che in determinate ipotesi la legge possa non prevedere la proponibilità di tale ricorso « contro le sentenze » si tradurrebbe in una sicura diminuzione di tutela per le parti stesse, tanto più grave (anzi, davvero inaccettabile) quando si trattasse di sentenze contro le quali non fosse prevista alcuna impugnazione di merito. Ed appunto a queste situazioni fa senza dubbio riferimento il secondo comma dell’art. 131 prog. rev. cost., là dove impone alla legge, in ovvio coordinamento con le opzioni concretamente operate sul terreno della ricorribilità in cassazione, di assicurare « comunque un doppio grado di giudizio ». Per quanto poco felice possa apparire questa formula, essa non può sicuramente essere interpretata (sebbene non siano mancate le letture in tal senso) come espressiva dell’intento di recepire nel testo costituzionale la garanzia dell’appello contro ogni sentenza di primo grado. Ciò che, tra l’altro, nel settore penale, si porrebbe in vistosa controtendenza rispetto all’opinione dei molti che sempre più spesso sottolineano l’incongruenza della previsione pressoché generalizzata del grado d’appello nell’ambito di un processo penale, che dovrebbe essere caratterizzato (ed a maggior ragione lo sarebbe, alla luce del progetto in esame) dalla adesione al modello accusatorio. In realtà, se nell’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost., si fosse voluto costituzionalizzare il principio del doppio grado di giurisdizione « di merito », lo si sarebbe dovuto dire in termini espressi. Al contrario, come attesta anche il relatore Boato, attraverso la formula « doppio grado di giudizio » si è voluto soltanto imporre al legislatore di prevedere in ogni caso un grado di giudizio (non necessariamente di merito) ulteriore rispetto al giudizio di primo grado, predisponendo allo scopo i necessari strumenti. Sicché, in un contesto del genere, ed alla stregua dei tradizionali mezzi di impugnazione, si può dire che ne risulterebbe costituzionalizzata l’esigenza di un secondo giudizio di merito esclusivamente nei riguardi delle sentenze contro le quali non fosse ammesso il ricorso in cassazione, mentre nelle ipotesi in cui tale ricorso fosse previsto esso do-
— 747 — vrebbe ritenersi sufficiente a realizzare la garanzia del « doppio grado di giudizio », quand’anche si dirigesse contro una sentenza inappellabile. Altro discorso è domandarsi se, in queste ultime ipotesi, il rispetto della garanzia del « doppio grado » non dovrebbe condurre ad una diversa disciplina del ricorso in cassazione (non a caso nell’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost., è venuto meno, per quel che qui importa, il limite rappresentato dall’inciso « per violazione di legge »), ad esempio fino al punto di prevedere che tale ricorso possa venire ammesso anche per motivi diversi da quelli di mera legittimità, con particolare riguardo all’estensione dell’ambito di deducibilità del vizio concernente il difetto di motivazione. Col che, tuttavia, si rischierebbe di provocare una pericolosa breccia nella rigorosa fisionomia del ricorso stesso, che finirebbe per aprire il varco alla temuta trasformazione del relativo giudizio in una sorta di terza istanza di merito: sicché, ad evitare un simile rischio, sarebbe comunque auspicabile il ripristino, nel testo in esame, del tradizionale inciso « per violazione di legge ». Un ultimo problema, esclusivamente relativo al processo penale, si pone, infine, circa il significato da attribuirsi alla garanzia del « doppio grado di giudizio », nell’ambito dell’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost., con riferimento all’ipotesi in cui l’imputato, dopo essere stato prosciolto in primo grado, sia stato condannato in secondo grado a seguito di appello del pubblico ministero. Dal punto di vista formale non c’è dubbio che, in ipotesi del genere, un doppio grado di giudizio sia stato effettivamente celebrato, sicché la garanzia in questione dovrebbe ritenersi senz’altro rispettata. Tuttavia, guardando alla sostanza delle cose, bisogna riconoscere che in tali ipotesi (come è stato sottolineato dalla più attenta dottrina) la garanzia del « doppio grado » potrebbe essere concretamente assicurata, sotto il profilo della tutela degli interessi dell’imputato, soltanto se gli venisse in ogni caso consentito di proporre impugnazione contro la sentenza che per la prima volta lo avesse condannato. In conformità, del resto, al principio sancito nell’art. 14, quinto comma, Patto int. dir. civ. pol., che attribuisce ad ogni imputato condannato il diritto ad ottenere che « l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza » (analogo diritto viene attribuito all’imputato dall’art. 2, primo comma, del VII protocollo Conv. eur., peraltro con l’eccezione prevista dal secondo comma dello stesso art. 2, nel caso di persona « dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento »). È evidente che, al riguardo, si tratta di scegliere, sul piano della progettata revisione costituzionale, a seconda che il principio del « doppio grado » debba essere inteso unicamente come garanzia oggettiva del processo, in quanto attinente alla sua struttura, da articolarsi almeno attraverso due gradi di giudizio, ovvero anche come garanzia soggettiva del-
— 748 — l’imputato, nel senso di assicurargli comunque un giudizio ulteriore rispetto a quello che si sia concretato in una sentenza di condanna. Ed è agevole riconoscere come questa seconda e più garantistica prospettiva si faccia preferire anche alla luce della presunzione di non colpevolezza ex art. 27, secondo comma, Cost. che, essendo sancita fino al sopravvenire della « condanna definitiva », sembra comunque esigere la previsione di un mezzo di impugnazione avverso la prima sentenza di condanna, presupponendo cioè un sistema nel quale tale sentenza non possa qualificarsi ex lege come definitiva. Allo scopo potrebbe essere sufficiente anche soltanto prevedere che, contro le sentenze di condanna pronunciate in appello a carico di un imputato prosciolto in primo grado, venisse sempre riconosciuto a tale imputato il diritto al ricorso in cassazione: così da consentirgli di far valere gli eventuali errores in cui fosse incorso il giudice d’appello, con la conseguente possibilità di un nuovo giudizio di merito in sede di rinvio. Ma non si tratta, ovviamente, di una scelta che — alla stregua del futuro contesto costituzionale — possa venire rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario, il quale ad essa non sarebbe vincolato dalla semplice previsione del « doppio grado di giudizio », quale risulta dall’art. 131, secondo comma, prog. rev. cost. Sicché, se quest’ultima previsione dovesse rimanere ferma, sarebbe necessario inserirvi una precisazione, nel senso di escludere comunque che possa rimanere inoppugnabile la sentenza di condanna emessa per la prima volta in sede di appello. 12. Per quanto riguarda, infine, l’iniziativa del pubblico ministero quale organo dell’accusa, va sottolineato come, nell’art. 132 prog. rev. cost., alla conferma del tradizionale principio che sancisce sul suo capo « l’obbligo di esercitare l’azione penale » si accompagni l’ulteriore precisazione per cui « a tal fine » il medesimo pubblico ministero « avvia le indagini quando ha notizia di un reato ». Il che, data la stretta correlazione funzionale intercorrente tra lo svolgimento delle indagini preliminari e l’accertamento degli elementi probatori da cui scaturisce l’obbligo di esercizio dell’azione penale, sembrerebbe esprimere un concetto tanto ovvio quanto indiscusso. Nel senso, cioè, che il pubblico ministero, in presenza di una notitia criminis, comunque acquisita, sia sempre tenuto a svolgere le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale: da intendersi, naturalmente, in chiave di obbligatorietà, secondo i parametri stabiliti dal legislatore ordinario. Diverso ed assai più problematico risulterebbe il discorso, invece, ove dalla formula appena richiamata si volesse trarre la conclusione (che parrebbe accreditata anche dal relatore Boato) secondo cui il pubblico ministero sarebbe obbligato ad avviare le indagini funzionali all’esercizio dell’azione penale soltanto nell’ipotesi in cui gli fosse pervenuta aliunde una
— 749 — « ben precisa » notizia di reato, intendendosi con ciò escludere che quest’ultima possa venire acquisita dietro iniziativa dello stesso pubblico ministero. Come dire, in altri termini, che solo l’ipotesi di notizia di reato « qualificata », e non anche quella di notizia « non qualificata », ancorché appresa dal pubblico ministero, sarebbe idonea ad integrare il presupposto dell’obbligo di indagine in capo allo stesso pubblico ministero. Una conclusione del genere, tuttavia, non sembra assolutamente autorizzata dal testo in esame, al cui interno l’accento cade sull’obbligo del pubblico ministero di avviare le indagini — a seguito di una notitia criminis — quale adempimento finalisticamente connesso all’obbligo di esercizio dell’azione penale, mentre nulla si dice circa le forme ed i modi di integrazione del presupposto per l’avvio delle indagini così finalizzate. Anzi, la stessa genericità della locuzione normativa impiegata allo scopo (« quando » il pubblico ministero « ha notizia di un reato ») denota una totale indifferenza, nel progetto costituzionale, per quanto concerne i canali di approvvigionamento della notitia criminis, senza introdurre in proposito alcun particolare vincolo per il legislatore ordinario. Ciò che conta, in sostanza, affinché scatti l’obbligo delle indagini, è che una notitia del genere sia in possesso del pubblico ministero, mentre non interessa attraverso quali vie la medesima sia stata acquisita, ivi compresa l’eventualità che lo stesso pubblico ministero possa aver « preso notizia » del reato anche motu proprio, da solo o avvalendosi degli organi di polizia. È questa, del resto, la soluzione accolta nel vigente sistema processuale penale che, configurando il pubblico ministero quale organo di impulso del procedimento — a cominciare dall’avvio delle indagini preliminari — gli attribuisce in termini espressi il potere di iniziativa nella acquisizione delle notizie di reato. E ciò sulla base di disposizioni (artt. 330 e 335, primo comma, c.p.p.) che risulterebbero perfettamente compatibili con il testo del predetto art. 132 prog. rev. cost., dal quale, stando al significato proprio delle parole, non risulta consentito desumere alcun divieto circa la possibilità di una apprensione diretta della notitia criminis da parte del pubblico ministero, se del caso anche a seguito di investigazioni di polizia indirizzate in tale direzione. Tanto più che, essendo rimasto intatto, nell’art. 127 prog. rev. cost., il principio per cui l’autorità giudiziaria « dispone direttamente » della polizia giudiziaria (salva una fin troppo ampia riserva di legge circa le modalità di attuazione di quel principio), non si vede quale ostacolo potrebbe frapporsi ad un simile impiego degli organi di polizia, tra i cui prioritari compiti istituzionali rientra anche quello di « prendere notizia dei reati ». Per contro, qualora il medesimo art. 132 dovesse essere interpretato (o, addirittura, dovesse essere emendato) nel senso di farne discendere una rigida preclusione, in capo al pubblico ministero, rispetto a qualunque attività volta ad acquisire di sua iniziativa la notizia di reato (con ciò
— 750 — confondendosi, evidentemente, il piano delle indagini finalizzate all’azione penale, per loro natura successive alla notitia criminis, con il piano delle indagini volte a ricercare elementi informativi tali da integrare una simile notitia), bisognerebbe avere piena coscienza delle conseguenze che ne deriverebbero nel contesto del sistema. In particolare, non solo ne sarebbe inevitabilmente segnata, in chiave di illegittimità costituzionale, la sorte delle già ricordate disposizioni codicistiche che oggi facoltizzano il pubblico ministero ad acquisire anche di propria iniziativa le notizie di reato, ma soprattutto ne risulterebbe notevolmente ridimensionata la stessa portata del pur ribadito principio di obbligatorietà dell’azione penale. Se così fosse, infatti, il pubblico ministero finirebbe per essere condizionato, ai fini dell’adempimento dei suoi compiti istituzionali diretti all’esercizio dell’azione penale, da iniziative esterne al suo ufficio (ad opera di soggetti privati, ovvero di organi di polizia giudiziaria) consistenti nella presentazione di una specifica notizia di reato, poiché gli sarebbe sottratta la possibilità di attivarsi ex officio allo scopo di acquisire gli elementi necessari per avviare le indagini in vista dell’azione stessa: si pensi, per esempio, a tutte le situazioni di illegalità diffusa, percepite come tali dal pubblico ministero, alle quali non corrispondesse la presentazione di alcuna notizia di reato. In ipotesi del genere appare manifesto che, ove si negasse al pubblico ministero il potere di acquisire la notitia criminis, lo si metterebbe (almeno finché qualcuno dei soggetti legittimati non lo investisse della correlativa notitia) nella condizione di non poter adempiere all’obbligo di esercitare l’azione penale. In altri termini, l’adempimento di questo obbligo da parte del pubblico ministero suo titolare verrebbe ad essere di fatto subordinato all’attività di un terzo (soggetto privato od organo di polizia giudiziaria) concretantesi nella presentazione o nell’acquisizione di una notizia di reato, che invece non potrebbe essere acquisita di sua iniziativa dal medesimo pubblico ministero. Una conseguenza paradossale, che finirebbe per mettere in crisi la stessa categoria concettuale dei reati perseguibili d’ufficio, configurando la notizia di reato, così intesa (cioè, più esattamente, la ricezione da parte del pubblico ministero di una notizia di reato qualificata), come una sorta di condizione di procedibilità rispetto allo svolgimento delle indagini e, quindi, rispetto alla azione penale. Con ciò, evidentemente, menomando la stessa posizione costituzionale del pubblico ministero quale organo deputato al controllo della legalità attraverso l’esercizio obbligatorio dell’azione penale. A conferma, se pur ce ne fosse bisogno, della inaccettabilità della premessa da cui si sono prese le mosse. 13. Si noterà che nell’art. 132 prog. rev. cost., dopo l’affermazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, non è stata riprodotta la previsione (accolta, invece, nella precedente stesura del medesimo testo)
— 751 — che avrebbe imposto al legislatore di stabilire « le misure idonee ad assicurarne l’effettivo esercizio »: previsione nella quale si avvertiva a chiare lettere l’eco delle ben note difficoltà di attuazione di quel principio sotto il profilo, per l’appunto, dell’effettività. Ciò non toglie che tali difficoltà esistano in concreto, e non possano essere ignorate. È innegabile, infatti, che il problema di assicurare concretezza al canone costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale sta assumendo proporzioni sempre più rilevanti, se è vero che in determinati settori dell’ordinamento la materiale impossibilità di darvi attuazione ha finito per condurre alla pratica elusione di tale canone, la cui osservanza è talora affidata ad iniziative del tutto occasionali di singoli magistrati. Senonché, a parte l’esigenza di una più precisa assunzione di responsabilità, in proposito, ad opera dei capi degli uffici di procura (cui spettano pur sempre i compiti di direzione e di organizzazione dell’attività dell’ufficio), il rimedio non può essere ovviamente rappresentato dall’abolizione del principio di obbligatorietà, né tanto meno dalla sua sostituzione con l’opposto principio di discrezionalità dell’azione penale. Come peraltro era stato suggerito in alcune proposte presentate alla Commissione bicamerale, addirittura attraverso una esplicita subordinazione dell’esercizio dell’azione penale — ad opera del pubblico ministero — ad una valutazione largamente discrezionale circa la sussistenza dell’« interesse pubblico ». Chi formula simili proposte sembra non rendersi conto — a tacer d’altro — del ruolo centrale che il principio di obbligatorietà dell’azione penale assolve all’interno del sistema, come ha riconosciuto più volte la stessa Corte costituzionale (ad esempio con le sentenze n. 84 del 1979, 88 del 1991 e 420 del 1995). Da un lato, infatti, esso riflette, nell’ambito del processo, il più generale principio di legalità cui si informa l’intero ordinamento penale, a cominciare dal versante sostanziale, sicché la sua soppressione metterebbe inevitabilmente in crisi lo stesso significato del principio di legalità nel campo dei delitti e delle pene, che nella sua proiezione processuale si esprime attraverso la formula « nullum crimen, nulla poena sine legali iudicio ». D’altro lato, per quanto riguarda in particolare la sua incidenza sul terreno più propriamente istituzionale, sembra perfino superfluo sottolineare come, ancora di recente, la Corte costituzionale abbia ravvisato nel principio di obbligatorietà dell’azione penale la « sede propria » della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero (sentenza n. 420 del 1995). Si tratta, evidentemente, di circostanze che non possono venire accantonate con leggerezza, pur di fronte alle innegabili difficoltà pratiche di attuazione del principio sancito dall’art. 112 Cost., ed ora ribadito dall’art. 132 prog. rev. cost. Fatta salva l’intangibilità — a livello costituzionale — di quest’ultimo principio, proprio la presenza di tali difficoltà impone al legisaltore ordinario di non rassegnarsi a lasciare le cose come
— 752 — stanno: perché, in realtà, bisogna riconoscere che, sul piano dell’effettività, la situazione odierna non è delle più soddisfacenti. Prescindendo dalla pur ovvia necessità di interventi legislativi e strutturali volti a rafforzare, anche a livello organizzativo, l’efficienza degli uffici del pubblico ministero (ad esempio in materia di depenalizzazione e di revisione delle circoscrizioni giudiziarie, di giudice unico e di competenza penalistica del giudice di pace, lungo binari già in larga parte percorsi dai disegni di legge del c.d. ‘‘pacchetto Flick’’, per troppo tempo rimasti senza significativi sviluppi), occorre probabilmente sforzarsi di andare più in là. Più precisamente, fino ad incidere sugli stessi meccanismi di individuazione dei presupposti del concreto insorgere, in capo al pubblico ministero, dell’obbligo di esercitare l’azione penale. In questa prospettiva potrebbe essere utile, per esempio, la definizione di criteri obiettivi di priorità — da affidarsi, preferibilmente, ad un apposito organismo interno alla struttura del pubblico ministero — volti a segnare le grandi linee di indirizzo per le inevitabili scelte degli uffici del pubblico ministero, allorquando si trovino di fatto a non essere in grado di indagare con la dovuta tempestività su tutte le notizie di reato loro pervenute. Ma, allo scopo, non parrebbe nemmeno da respingere a priori, entro ben precisati limiti, lo strumento dell’ordine del giorno approvato in sede parlamentare; purché ne venisse escluso qualunque potere di orientamento politico da parte del Ministro della giustizia, e purché, soprattutto, venissero confermati nel contesto costituzionale gli attuali princìpi relativi all’indipendenza del pubblico ministero ed all’obbligatorietà dell’azione penale, oltreché quelli relativi all’assetto interno del Consiglio superiore della magistratura. È auspicabile, tuttavia, che — fermi restando questi ultimi princìpi qualificanti in sede costituzionale — si possa anche procedere oltre, sul piano della legislazione ordinaria, per recuperare più adeguati livelli di effettività applicativa al principio di obbligatorietà dell’azione penale. E, nel contempo, per ridurre al minimo la patologia costituita dal rischio di opzioni di opportunità ‘‘mascherata’’, ad opera di singoli magistrati del pubblico ministero, in ordine all’omesso esercizio dell’azione stessa. 14. I suggerimenti e le indicazioni, per la verità, non mancano, per esempio nel solco di quelle procedure ispirate al criterio della « discrezionalità controllata » dell’organo dell’accusa — di cui è ricca l’esperienza comparatistica — le quali potrebbero venire ancorate a parametri tecnici sufficientemente definiti per essere assoggettabili a controllo giurisdizionale, e perciò compatibili con il canone di obbligatorietà dell’azione penale, anche di fronte all’odierno art. 112 Cost. In questa prospettiva, per esempio, si potrebbe pensare a meccanismi di esclusione della sussistenza dell’obbligo del pubblico ministero di eser-
— 753 — citare l’azione penale, applicabili soltanto a specifiche categorie di reati di non elevata gravità, e modellati secondo uno schema riconducibile alla classica figura dell’« archiviazione condizionata » prevista dall’ordinamento tedesco. Come sarebbe, in particolare, se la decisione (definitiva o provvisoria, in chiave sospensiva) di « non esercizio » dell’azione penale, dietro richiesta del pubblico ministero, venisse ricollegata a determinate condotte riparatorie (risarcitorie o restitutorie) da parte della persona indiziata, ovvero al soddisfacimento, ad opera della stessa, di determinati adempimenti (prescrizioni specifiche o altri obblighi imposti dal pubblico ministero), in modo tale da convincere il giudice, sulla base dei criteri prefissati dalla legge, della non necessità dell’instaurazione del processo. In analogo ordine di idee, tuttavia, non dovrebbe nemmeno trascurarsi la prospettiva di dare risalto, sul terreno della ‘‘deprocessualizzazione’’, a situazioni di diritto penale sostanziale caratterizzate dalla scarsissima consistenza, se non addirittura dal difetto, della idoneità lesiva del fatto. Si potrebbe, anzitutto, prendere spunto dal modello della sentenza di non luogo a procedere per « irrilevanza del fatto », già prevista dall’art. 27, primo comma, disp. proc. pen. min., ed allargarlo — al di là dell’ambito del processo minorile — fino a costruire su tale base una inedita figura di archiviazione, anch’essa circoscritta ad una fascia di reati di modesta gravità e fondata sulla minima entità della lesione, ovviamente da valutarsi ad opera del giudice in sede di decisione sulla corrispondente richiesta del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale. In questa ipotesi, a ben vedere, la fattispecie tipica risulterebbe integrata in tutti i suoi elementi, compresa l’offesa al bene tutelato, ma proprio l’esiguità della lesione (combinandosi con altri parametri oggettivi attinenti alla natura della condotta ed alla sua occasionalità, nonché alla personalità dell’agente ed al suo atteggiamento psicologico) dovrebbe condurre a ritenere il fatto come penalmente irrilevante, e quindi tale da giustificare il non esercizio dell’azione penale. Naturalmente si tratterebbe di una previsione molto delicata, essendo intuitivo il rischio che attraverso una simile valutazione di irrilevanza penale del fatto possano aprirsi (da parte del pubblico ministero e, quindi, del giudice) spazi di apprezzamento ispirati a criteri di opportunità inconciliabili con il principio di legalità, su cui si fonda l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale. Di qui, dunque, l’esigenza di tipicizzare il più possibile in termini dettagliati ed obiettivi gli elementi necessari ad identificare le ipotesi di irrilevanza del fatto, che del resto finirebbero per riflettersi sulla stessa fisionomia della fattispecie penale, configurandosi, secondo la ricostruzione più plausibile, come una causa di non punibilità (molto significativo, al riguardo, sebbene ancora perfettibile, è lo sforzo di tipicizzazione risultante dall’art. 12 del disegno di legge presentato alla Camera dal guardasigilli Flick il 3 marzo 1998, in materia di
— 754 — procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, dove peraltro l’ipotesi della irrilevanza penale del fatto viene opinabilmente costruita come una « clausola di improcedibilità »). Si potrebbe, inoltre (ragionando all’interno del necessario coordinamento, nel seno del progetto, tra gli artt. 129, secondo comma, e 132), esplicitare un congegno di archiviazione imperniato su una valutazione di assenza di concreta offensività del fatto, da rimettersi caso per caso al giudice quale presupposto per la decisione di esonero del pubblico ministero dall’esercizio dell’azione penale. È questa una conseguenza che dovrebbe discendere, già di per sé, dalla configurazione sostanziale della offesa al bene tutelato come elemento della fattispecie penale, ma che potrebbe ritenersi meritevole di una sua autonoma previsione quale riflesso del principio di « non punibilità » che si vorrebbe introdurre ad abundantiam nel predetto art. 129, secondo comma, prog. rev. cost., essendo evidente — alla luce di tale pur discutibile scelta, peraltro bisognosa di calarsi in adeguati paradigmi normativi — l’incidenza limitatrice che il medesimo principio sarebbe destinato ad esercitare rispetto all’area del principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 132 prog. rev. cost. Dal punto di vista della collocazione sistematica, la soluzione più chiara, per quel che qui importa (pur senza ignorare i problemi che potrebbero derivarne rispetto alla coerenza interna dell’ordinamento penalistico), parrebbe quella rappresentata dalla proposta di inserimento nello stesso codice penale, con riguardo alle situazioni descritte, di una espressa previsione di non punibilità « per mancanza o irrilevanza della lesione tipica » (od anche soltanto « per irrilevanza », in quanto nel caso di concreta « mancanza » della lesione una simile previsione risulterebbe superflua, specialmente a fronte della formula perentoria dell’art. 129, secondo comma, prog. rev. cost.), alla quale si ricollegherebbe in via ordinaria la normale disciplina dell’istituto dell’archiviazione. Non è azzardato prevedere, infatti, che per questa via si potrebbero conseguire importanti risultati sul terreno della deflazione processuale, senza peraltro rinunciare ad un serio controllo giurisdizionale di legalità sulle scelte del pubblico ministero, e perciò rimanendo all’interno di uno schema di ragionevole compatibilità con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che tale controllo necessariamente postula (come ha precisato la già citata sentenza costituzionale n. 88 del 1991). Per la verità alcune esplicite puntualizzazioni in tal senso non erano mancate nemmeno in una delle precedenti bozze presentate dal relatore Boato, tanto è vero che di esse ancora rimaneva traccia nelle « osservazioni » che ne accompagnavano una delle più recenti versioni (in particolare, là dove si proponeva, nel testo adottato il 3 giugno 1997, che accanto al principio di obbligatorietà dell’azione penale venisse costituzionalizzata « la sua improcedibilità nei casi di inoffensività o tenuità del
— 755 — fatto e di occasionalità del comportamento »). E forse non sarebbe male se una prospettiva del genere venisse espressamente recepita, nel testo costituzionale, magari soltanto in chiave di eventualità: ad esempio nel senso di autorizzare il legislatore ordinario a prevedere, in presenza di presupposti costituzionalmente predeterminati, specifiche ipotesi di deroga all’esercizio obbligatorio dell’azione penale. Tuttavia resta in ogni caso fermo che già oggi il medesimo legislatore avrebbe di fronte a sé diverse possibilità per intervenire sulla vigente disciplina dell’azione penale, allo scopo di aumentare il tasso di concretezza (e quindi di effettività) del principio costituzionale di obbligatorietà. In particolare, facendo leva su meccanismi tali da evitare le iniziative destinate a sfociare in processi oggettivamente superflui, sulla base di presupposti idonei a divenire oggetto di sindacato da parte del giudice in ordine al « non esercizio » dell’azione penale. Tutto questo è possibile, ed anzi è fortemente auspicabile che questa strada venga percorsa dal legislatore con la determinazione richiesta dalle attuali difficoltà di attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale (sull’esigenza di contemperare tale principio « col fine di evitare l’instaurazione di un processo superfluo » v., da ultimo, la sentenza costituzionale n. 96 del 1997). Sempreché, naturalmente, rimanga ferma la rinuncia a qualunque tentazione di modifica del medesimo principio, attraverso l’apertura di varchi ispirati all’antitetico criterio della discrezionalità ‘‘politica’’ del pubblico ministero, ovvero comunque tali da offrire al potere esecutivo (e, segnatamente, al Ministro della giustizia) lo spazio per interventi di controllo sulle attività del pubblico ministero collegate all’esercizio dell’azione penale. 15. Da quest’ultimo punto di vista, certamente non avrebbe sollevato problemi l’idea (peraltro accantonata, ancorché suscettibile di fecondi sviluppi) di una integrazione del testo costituzionale, nel senso di consentire l’attribuzione della titolarità dell’azione penale, in via sussidiaria e concorrente, con riferimento a ben definite ipotesi, anche a soggetti diversi dal pubblico ministero: già oggi ciò che conta, infatti, non è il monopolio dell’azione penale in capo all’organo dell’accusa, bensì l’obbligo di esercitarla. Al contrario, non può non suscitare qualche fondata preoccupazione la proposta risultante dal secondo comma dell’art. 128 prog. rev. cost., volta ad imporre determinati adempimenti informativi al Ministro della giustizia con riguardo alla tematica in esame. Più precisamente, si vorrebbe stabilire che il medesimo Ministro debba riferire ogni anno alle Camere non solo « sullo stato della giustizia », ma anche « sull’esercizio dell’azione penale », e perfino « sull’uso dei mezzi di indagine ». Col che, tuttavia, appare palese il rischio di una eccessiva dilatazione dell’oggetto di tali adempimenti, fino ad invadere ambiti estranei ai confini propri delle competenze ministeriali.
— 756 — Se per un verso, infatti, risulta perfettamente coerente con le prerogative istituzionali del Ministro guardasigilli che egli sia tenuto a riferire al Parlamento in via generale « sullo stato della giustizia » (quasi una sorta di bilancio annuale sul funzionamento degli apparati giudiziari, anche in vista dell’eventuale adozione di utili iniziative legislative), per altro verso già appare piuttosto discutibile che gli venga richiesto di riferire altresì « sull’esercizio dell’azione penale ». E ciò perché non è azzardato il timore che questa formula (ove non la si intenda con esclusivo riguardo alle statistiche redatte presso ogni sede di procura, e normalmente recepite nelle relazioni dei procuratori generali) potrebbe prestarsi ad essere interpretata come attributiva allo stesso Ministro del potere di esprimere valutazioni di tipo politico (in quanto tali oggettivamente improprie) sull’operato degli uffici del pubblico ministero intorno alla concreta ‘‘gestione’’ dell’azione penale. A maggior ragione, poi, un timore del genere è destinato ad acquistare consistenza quando si pensi che — come si è appena ricordato — la prevista relazione alle Camere del Ministro della giustizia dovrebbe estendersi fino a ricomprendere anche « l’uso dei mezzi di indagine ». Dunque, in primo luogo, proprio di quei mezzi che la legge riserva al pubblico ministero ed ai suoi ausiliari « per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale » (art. 326 c.p.p.), in coerenza con l’obbligo del medesimo pubblico ministero (che verrebbe recepito a livello costituzionale nel testo dell’art. 132 prog. rev. cost.) di avviare sempre le indagini dopo avere acquisito una notizia di reato. E qui, evidentemente, è assai forte il pericolo che l’attribuzione al Ministro di un simile compito finisca per legittimarne una concreta possibilità di ingerenza anche rispetto ad inchieste ancora pendenti: una ingerenza idonea a manifestarsi sia sul terreno conoscitivo, sia addirittura sul terreno valutativo, ad esempio sotto il profilo dei rapporti tra impiego dei mezzi di indagine ed esercizio dell’azione penale. Ma non è tutto, poiché in simili ipotesi ben potrebbe accadere che sulla relazione del Ministro (soprattutto se di taglio critico rispetto ad indagini in corso di svolgimento) si innesti un dibattito parlamentare, e questo si concluda con un voto tale da esprimere un giudizio negativo, o comunque da riflettere forti perplessità, sulle iniziative intraprese dalla magistratura inquirente. Col risultato — facilmente immaginabile — di provocare un ulteriore implicito condizionamento, se non, addirittura, una vistosa delegittimazione dell’autorità giudiziaria procedente ad opera del potere politico ai più alti livelli istituzionali. Se ciò è vero, appare fin troppo ovvio che, per questa strada, si porrebbero le premesse di una situazione gravissima, che di per sé potrebbe dare spazio ad indebite forme di interferenza politica — in primo luogo, ma non solo, da parte del Ministro della giustizia — nell’attività giudiziaria. Mentre, su un altro versante, la medesima situazione potrebbe essere
— 757 — altresì invocata per giustificare la necessità di diretti canali di collegamento dello stesso Ministro con gli uffici del pubblico ministero o, quanto meno, con gli uffici posti ai vertici dell’organizzazione del pubblico ministero. Al qual proposito, anche per i riflessi che potrebbero derivarne proprio sul terreno dei rapporti con il potere politico, un ultimo sguardo va rivolto alle proposte formulate nel progetto circa la posizione istituzionale del pubblico ministero, quale organo titolare dell’azione penale. 16. Sul punto sarebbe stato senza dubbio importante, nel quadro del sistema — anche per evitare ogni margine di equivoco, qualche volta registrato in passato — che il principio sancito nell’odierno secondo comma dell’art. 101 Cost. venisse arricchito dalla precisazione per cui non solo i giudici, ma anche i « magistrati del pubblico ministero », sono « soggetti soltanto alla legge ». Attraverso una formula del genere (recepita, oltretutto, dalla precedente stesura del progetto) si sarebbe, infatti, espressa in forma esplicita quella garanzia di indipendenza, che già oggi deve ritenersi assicurata ai magistrati del pubblico ministero dal combinato disposto degli artt. 101 e 104, primo comma, Cost. (come ha riconosciuto, del resto, la sentenza costituzionale n. 88 del 1991). Nella più recente versione del testo in esame, invece, tenuto conto della particolare struttura degli uffici del pubblico ministero, si è preferito impiegare allo scopo una diversa locuzione, stabilendo all’esordio dell’art. 117, terzo comma, prog. rev. cost. che « i magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni potere », e subito dopo aggiungendo che i medesimi « godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario ». Col che, di fronte all’evidente rapporto di priorità della prima proposizione rispetto alla seconda, si toglie spazio a qualunque velleità di ravvisare in quest’ultima previsione (come talora è accaduto a proposito dell’attuale quarto comma dell’art. 107 Cost.) la fonte di un sistema di « garanzie » ordinamentali per il pubblico ministero, che possano anche non essere rigorosamente coerenti con il presupposto della sua indipendenza. Resta, com’è ovvio, il problema dei rapporti nel seno degli uffici del pubblico ministero e, più in generale, dei rapporti tra i diversi uffici. Per quanto riguarda il primo aspetto, non sembra sorgano particolari questioni di fronte al disposto risultante dallo stesso art. 117, terzo comma, prog. rev. cost., nella parte in cui affida alle norme di ordinamento giudiziario il compito di assicurare il « coordinamento interno » dell’ufficio del pubblico ministero. Ciò che già oggi accade, soprattutto sulla base dell’art. 70 ord. giud. (così come riformulato successivamente al nuovo codice di procedura penale), e che corrisponde, in ogni caso, ad una previsione doverosa, al fine di contemperare l’autonomia dei singoli magistrati con le esigenze di funzionalità e di efficienza operativa proprie dei vari uffici del pubblico ministero.
— 758 — Diverso è, invece, il discorso in ordine al predetto art. 117, terzo comma, là dove esige che attraverso le norme di ordinamento giudiziario venga assicurato, per quanto attiene ai rapporti esterni, anche il « coordinamento, ove necessario, delle attività investigative tra gli uffici del pubblico ministero ». Al riguardo si deve registrare, anzitutto, una sensibile attenuazione rispetto alla formula recepita nella precedente stesura del medesimo testo (con esplicito riferimento alla esigenza di « unità di azione degli uffici del pubblico ministero »), dietro alla quale appariva evidente il disegno di una organizzazione gerarchizzata tra i diversi uffici del pubblico ministero: si puntava, in sostanza, verso la necessaria predisposizione di una struttura di tipo piramidale che, dovendo garantire « unità » alla loro « azione », di fatto avrebbe menomato l’autonoma iniziativa dei singoli uffici, per concentrare le più importanti scelte di strategia giudiziaria presso gli organi posti al vertice della struttura così prefigurata. All’interno di tale prospettiva questi organi avrebbero finito per assumere, in sostanza, la fisionomia di un vero e proprio centro di indirizzo dell’attività giudiziaria d’accusa, sicché agli stessi avrebbero dovuto, ovviamente, attribuirsi adeguati strumenti idonei a vincolare i distinti uffici del pubblico ministero alla prevista « unità di azione ». Senonché, proprio perciò, essi difficilmente sarebbero potuti rimanere esenti da responsabilità politica o, quanto meno, estranei a qualche forma di collegamento nei riguardi dell’autorità politica, ed in particolare del Ministro della giustizia: con tutte le immaginabili conseguenze che un simile collegamento avrebbe potuto comportare sulla sfera di autonomia dell’intero apparato degli uffici del pubblico ministero. Un rischio del genere risulta senza dubbio affievolito, oggi, di fronte alla formulazione proposta nell’ultima parte dell’art. 117, terzo comma, prog. rev. cost., dove l’accento cade non più sull’esigenza di una vincolante « unità di azione » degli uffici del pubblico ministero, bensì su una più blanda, e soltanto eventuale (« ove necessario ») esigenza di « coordinamento » delle attività investigative intraprese dai medesimi uffici. Poiché, anzi, siamo di fronte ad un mutamento lessicale di sostanza (in quanto la prospettiva del « coordinamento » postula la rinuncia all’idea della « unità di azione »), non sembra azzardato ritenere che esso rifletta una differente linea politico-legislativa circa l’assetto dei rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero. Da quest’ultimo punto di vista, dunque, dovendosi presupporre che di coordinamento in senso proprio si tratti (e per di più circoscritto al livello delle « attività investigative »), non dovrebbero sorgere particolari problemi sotto il profilo di una spinta verso la temuta gerarchizzazione degli uffici del pubblico ministero, dal momento che il modello organizzativo ispirato alla logica del coordinamento è antitetico a quello ispirato al
— 759 — criterio della centralizzazione in chiave dirigista. Non si può ignorare, ovviamente, il pericolo che anche una formula del tipo di quella in esame possa venire forzata per accreditare la prefigurazione di un apparato accentrato e gerarchizzato dei vari uffici del pubblico ministero, dunque ben al di là della prospettiva del coordinamento investigativo (che è esigenza da valorizzare, di per sé compatibile con l’autonomia di iniziativa di tali uffici). Senonché, se così fosse, si tradirebbe il senso della formula accolta nell’art. 117, terzo comma, prog. rev. cost., poiché la previsione di un simile apparato a struttura piramidale potrebbe giustificarsi esclusivamente all’insegna di quella esigenza di « unità d’azione » degli uffici del pubblico ministero, che invece è stata consapevolmente accantonata, in nome della diversa esigenza del « coordinamento » tra gli stessi uffici. 17. Ancora una volta, pur avendo preso le mosse dal ruolo che la Carta costituzionale attribuisce al pubblico ministero nel processo penale, radicandolo su quel principio di obbligatorietà dell’azione penale che per fortuna non risulta messo in discussione dal progetto della Commissione bicamerale, il tema si è inevitabilmente allargato alla più ampia questione concernente la posizione istituzionale degli uffici del pubblico ministero di fronte agli altri poteri dello Stato, a cominciare dal Ministro della giustizia. Tuttavia dev’essere chiaro che, finché rimane fermo nel sistema il principio sancito dall’art. 112 Cost., esso non solo fornisce la chiave di lettura di ogni altra previsione (anche costituzionale) relativa al pubblico ministero, ma nel contempo segna altresì la linea da seguire rispetto ad eventuali future norme di ordinamento giudiziario destinate a rimodellare (stando alla prospettiva accolta nell’art. 117, terzo comma, prog. rev. cost.) lo statuto interno ed esterno degli uffici della pubblica accusa. Per quanto possa risultare banale ricordarlo, bisogna essere sempre consapevoli, in ogni caso, che qualunque opzione di fondo relativa ai rapporti tra la posizione istituzionale del pubblico ministero e la disciplina concernente l’esercizio dell’azione penale, passa necessariamente attraverso la risposta ad un quesito cruciale, di natura politico-ideologica ancor prima che giuridica. Se, cioè, si ritenga che la funzione dell’accusa, quale si realizza nella concreta gestione dell’azione penale ad opera del pubblico ministero, rientri o non rientri nell’area della politica criminale, che naturalmente compete all’autorità di governo, e soprattutto al Ministro della giustizia. Chi risponde al quesito in termini positivi fa evidentemente riferimento ad un modello costituzionale in cui l’esercizio dell’azione penale è commisurato a criteri di opportunità anche politica (quali potrebbero raccordarsi, per esempio, alla valutazione caso per caso circa la sussistenza di un pubblico interesse all’instaurazione del processo penale), che postulano la presenza di un soggetto politicamente responsabile. Sicché, all’in-
— 760 — terno di un modello del genere, il pubblico ministero (a parte l’ipotesi della elettività, oggi non seriamente proponibile nell’ordinamento italiano) dovrà essere subordinato, o almeno collegato, all’autorità politica: nel senso di riceverne indicazioni e, quindi, di essere sottoposto a controllo circa gli indirizzi seguiti nelle proprie iniziative processuali. Ma questo, come ben sappiamo, non è il nostro modello costituzionale. Chi, invece, ritiene che la politica criminale debba necessariamente esprimersi secondo le prospettive generali di intervento proprie, per l’appunto, della sfera politica (in particolare, sul terreno delle scelte legislative in materia penale, dell’attività di pubblica sicurezza, nonché dell’organizzazione delle strutture investigative, giudiziarie e carcerarie, ivi compresi i servizi di monitoraggio sui fenomeni delittuosi), senza perciò potersi estendere fino ad investire l’ambito delle iniziative processuali, non può non concludere nel senso che la tematica dell’azione penale deve rimanere estranea ai criteri di discrezionalità tipici dell’attività politica. In questo quadro, di fronte ad una notitia criminis ed alle esigenze di accertamento della sua fondatezza, il criterio-guida per l’atteggiamento del pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’accusa non è quello ispirato alla logica dell’opportunità o della convenienza, bensì quello correlato al principio di legalità, che trova la sua radice nella prioritaria necessità di garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se questo è il modello accolto dalla nostra Costituzione, e se sul suo mantenimento tutti, o quasi, anche all’interno della Commissione bicamerale, si dichiarano d’accordo (tanto più di fronte agli attuali livelli di diffusione della illegalità nel Paese, dal crimine organizzato al malaffare politico-amministrativo), l’unica opzione coerente con un modello così caratterizzato è quella rappresentata, per quel che qui importa, da un pubblico ministero indipendente nel senso più pieno: cioè non direttamente condizionato, né indirettamente condizionabile, da altri poteri nell’adempimento delle sue funzioni istituzionali. Ed è perfino inutile sottolineare che, all’interno del sistema costituzionale, la garanzia di indipendenza del pubblico ministero si configura non solo come presupposto del principio di obbligatorietà dell’azione penale (quindi del canone di legalità dell’intero processo), ma anche come presidio per la garanzia di indipendenza dello stesso giudice, espressa dalla sua proclamata soggezione soltanto alla legge. Una garanzia, quest’ultima, che sarebbe inevitabilmente vanificata — o comunque, di fatto, fortemente limitata — ove il giudice si trovasse a dover giudicare sulla base di iniziative accusatorie assunte da un pubblico ministero non indipendente, che cioè non fosse anch’egli « soggetto soltanto alla legge ». VITTORIO GREVI
IL CONCORSO DELL’ASSOCIATO NEI DELITTI-SCOPO (*)
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il versante della teoria del concorso. — 2. Il versante delle fattispecie associative. — 3. Il ricorso all’art. 116 c.p. Critica. — 4. La dimensione probatorio-processuale della questione. — 5. I rischi sottesi alla « riduzione » processuale. — 6. Tipologia di associazioni e concorso nei delitti correlati al programma criminoso. — 7. Conclusione.
1. La questione del concorso dell’associato nei delitti-scopo si prospetta in termini speculari rispetto al tema del concorso esterno nel reato associativo. Ma mentre in questo caso si tratta di stabilire, innanzitutto, la plausibilità sistematica di un’attività di partecipazione che sia tanto rilevante da qualificarsi concorsuale, ma non tanto rilevante da integrare gli estremi di una condotta associativa, il problema del concorso « interno » dell’associato nel reato-scopo correlabile al sodalizio criminoso non ha, in sé, alcuna consistenza dogmatica. La responsabilità dell’associato per il reato-scopo non sembra dipendere da una res juris, ma da una res facti: essa sussiste ed è fondata se, e nei limiti in cui, l’associato abbia effettivamente tenuto una condotta concorsualmente significativa. In effetti, i reati associativi costituiscono, pacificamente, reati autonomi rispetto ai reati-scopo, e gli associati vengono puniti « per ciò solo », e cioè per il solo fatto di essersi associati, a prescindere dall’attuazione del programma criminoso; ma a prescindere anche dalle responsabilità eventualmente emergenti da tale attuazione (1). L’autonomia dei reati associativi si esprime, sul piano delle condotte tipiche, nel riconoscimento che il fatto di prendere parte al sodalizio criminoso e di assumere un ruolo, qual ch’esso sia, nella sua organizzazione, non rappresenta di per sé l’atto esecutivo di uno dei reati-scopo, né comunque di alcun reato connesso all’attività dell’associazione. Proprio in questa prospettiva, l’art. 250 c.p. 1889 stabiliva che « per i delitti commessi dagli associati o da alcuni di essi, nel tempo o per occasione dell’associazione, la pena risultante dall’applica(*) Testo della relazione tenuta a Courmayeur l’11 ottobre 1997, in occasione del XXI Convegno E. De Nicola, su « I reati associativi », organizzato dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa sociale. Sono stati aggiunti alcuni riferimenti bibliografici essenziali. (1) Sulla clausola « per ciò solo » v., per tutti, i puntuali rilievi di G.A. DE FRANCESCO, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. (disc. pen.), I, Torino, 1987, p. 293 ss.
— 762 — zione dell’art. 77 è aumentata da un sesto a un terzo »: nel disciplinare uno specifico aggravamento di pena, correlato all’attuazione del programma criminoso, la disposizione esplicitava con estrema chiarezza come la responsabilità per i delitti « commessi dagli associati » potesse riferirsi soltanto ad « alcuni di essi » (2). In definitiva, per stabilire se un associato abbia o non abbia concorso nel reato-scopo (o in un qualsiasi reato connesso all’associazione criminosa), il criterio di riferimento sembra — ovviamente — costituito dall’istituto della partecipazione, e la soluzione sembra — altrettanto ovviamente — emergere dall’applicazione delle norme previste dagli artt. 110 e segg. c.p. Ma in questo modo si tratta — per dirla alla toscana — di ‘‘levar la sete col prosciutto’’. La teoria della partecipazione — come ricordava Kantorowicz — rappresenta « il capitolo più oscuro e confuso della scienza penalistica » (3); ed un tale giudizio non teme certo smentite nella realtà normativa del nostro c.p. L’art. 110 c.p., che dovrebbe svolgere una funzione incriminatrice essenziale (in termini di determinatezza e di tassatività) rispetto a condotte originariamente atipiche, tanto poco la svolge, da mimetizzarla addirittura dietro il paravento di una norma formulata in termini di disciplina (la pari responsabilità dei concorrenti). Il contenuto normativo si riduce, così, ad una vera e propria tautologia, e la tipicità del comportamento di partecipazione non supera il livello del nomen juris. La soglia (massima) di astrazione normativa rende perciò l’espressione « significante » (concorrere) ambigua e polisenso; il suo « significato » sfugge ad una determinazione previa di connotati tipici (4). Il legislatore del ’30 coltivava — com’è noto — l’arrière pensée che il fondamento del concorso dovesse poggiare sul referente della causalità. Ma la sua consistenza nel definire la rilevanza concorsuale di una condotta è apparsa ben presto del tutto illusoria. È illusoria sul piano dell’identificazione dei termini della (supposta) relazione casuale (la condotta ritenuta concorsuale e quale altro elemento — storico o normativo — del fatto?); è illusoria sul piano della praticabilità operativa (dovendo ‘‘costruire’’ il concorso morale su artificiosi paradigmi di influenza eziologica di natura psichica); ma è illusoria sul piano stesso della disciplina sistematica: l’art. 114 comma 1 c.p., riconoscendo una circostanza attenuante speciale al contributo di « minima importanza », contraddice in sé l’idea di un fondamento causale della condotta di partecipazione, perché, se questa fosse sempre eziologicamente rilevante (e quindi conditio sine qua (2) Cfr., per tutti, V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 19212, p. 656. (3) Cfr. H. KANTOROWICZ, Tat und Schuld, Berlin, 1933, p. 67. (4) Cfr. G. BETTIOL, Brevi considerazioni sul problema del concorso di più persone in un reato (datt.), in CNR-CNPDS, La riforma della parte generale, cit. in E. MUSCO-G. FIAN3 DACA, Diritto penale, P.G., Bologna, 1995 , p. 441.
— 763 — non), non potrebbe mai risultare, per definizione, di importanza sostanzialmente trascurabile. La giurisprudenza, che per lungo tempo si è adattata a recitare la formula liturgica della causalità, ne ha da qualche tempo disvelato la natura mistificante, riconoscendo, da un lato, che la teoria causale non ha nulla a che vedere con il concorso di persone, ed anzi contrasta concettualmente con la funzione estensiva cui la normativa concorsuale tende, ed ammettendo, dall’altro, che la condotta concorsuale si identifica in qualsiasi contributo prestato alla commissione del reato, non necessariamente causale (5). Il ripudio della causalità, non sostituito peraltro da alcun criterio alternativo concettualmente governabile, se rappresenta l’inevitabile conclusione di una vicenda dogmatica costruita su un equivoco, finisce anche col ridurre senza infingimenti l’applicazione della normativa concorsuale, regione instabile perché collocata « ai confini della tipicità » (6), in una terra di nessuno governata dalla fallace concretezza di una giurisprudenza chiamata a fornire le regole che dovrebbe applicare. 2. Se la teoria del concorso non può fornire alcun ausilio speciale alla soluzione del problema, maggior fortuna si può forse sperare dall’opposto versante, costituito dalla teoria della fattispecie associativa. Naturalmente, il terreno d’analisi non può fornire risposta alle stesse domande. Dalla teoria del concorso ci si dovrebbe attendere, in termini positivi, la definizione della condotta di partecipazione nel reato-scopo; dalla teoria della fattispecie associativa si deve viceversa impetrare la delineazione negativa di tale condotta, o, meglio, la precisazione dei suoi limiti esterni (ciò che non possa essere definito condotta concorsuale). D’altro canto, è pur sempre vero che la questione del concorso nel reato-scopo si colloca lungo la linea di sviluppo di una sorta di ‘‘progressione criminosa’’. Il reato associativo è commesso in vista di un programma necessariamente comprensivo di reati ‘‘ulteriori’’ (non importa in quale connessione col primo); la realizzazione di uno di tali reati non può essere ‘‘letta’’ prescindendo dal nesso che lo riconduca al programma di cui rappresenta l’attuazione. Ma quali sono, per l’appunto, le chiavi di una simile lettura? Muovendo dal versante del reato associativo, ci si è chiesti quale sia, sul piano strutturale, la linea di demarcazione tra la sempIice condotta di associazione e la condotta di concorso nel reato-scopo. Fondamentalmente, gli approcci metodologici possono essere ridotti a due, non necessariamente alternativi, ma certo vòlti a sottolineare una diversa prospettiva analitica, considerata essenziale per rispondere al quesito. (5) V., in particolare, Cass. 18 maggio 1984, in Cass. pen., 1985, 2283; Cass. 11 marzo 1991, ivi, 1993, 44. (6) Cfr. L. VIGNALE, Ai confini della tipicità. L’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, p. 1358 ss.
— 764 — Secondo l’approccio obiettivo, occorre guardarsi dal ‘‘compattare’’ le condotte associative in funzione dell’esito rappresentato dal reato-scopo, Come scrive Ettore Gallo, « l’associato che non partecipa alle condotte realizzatrici degli scopi, se ha fatto proseliti, se ha cercato finanziamenti, se ha organizzato le competenze, se ha cercato armi, lo ha fatto per dare consistenza all’associazione... Pieno consenso, quindi, alla dottrina che riconosce doversi limitare la responsabilità dei delitti oggetto del programma soltanto a coloro che effettivamente vi partecipano, e non a tutti gli associati per il solo fatto di essere tali: ma purché poi non si coinvolga nella partecipazione a questi ultimi delitti anche quegli associati che hanno limitato le loro condotte alle attività caratteristiche dell’associazione, sotto il pretesto che esse posseggono un certo valore causale anche nei confronti di quei delitti » (7). Sulla stessa linea di pensiero, Giovannangelo De Francesco denuncia « l’equivoco » consistente « nel confondere la condotta di associazione con le attività dell’associazione, la titolarità di una determinata funzione con il suo concreto esercizio... » e rileva come « il puro e semplice fatto di assumere un ‘‘ruolo’’ all’interno di questa configuri una condotta del tutto distinta dalle attività dirette ad esercitare concretamente tale funzione in vista dei singoli obiettivi di volta in volta programmati... ciò significa, allora, che soltanto queste attività ulteriori (in quanto condotte, non già di, ma dell’associazione) potranno eventualmente assumere un significato tipico in base alla fattispecie di concorso in tali delitti » (8). Si tratta pertanto di tenere ben distinte, in termini concettuali, le condotte di associazione (consistenti nell’assumere un qualsiasi ruolo nella compagine organizzata), e le condotte di concreto esercizio del ruolo, le quali, a loro volta, possono risultare dinamiche e funzionali rispetto al perseguimento dello scopo sociale oppure meramente strumentali rispetto alla vita dell’associazione (come, ad es., fornire mezzi di sussistenza o procurare finanziamenti). Solo le prime, e cioè quelle dinamiche rispetto allo scopo sociale, possono assumere rilevanza concorsuale nel reato ulteriore. La distinzione è certo significativa per apprezzare il senso dell’attività ed orientare la valutazione; ma non può essere considerata decisiva. Trasferita dal cielo dei concetti alla palude della realtà, essa rischia di perdere il suo nitore. Le condotte « dinamiche verso lo scopo » e quelle « mera(7) Cfr. E. GALLO, Concorso di persone nel reato e reati associativi (Rapporti fra la partecipazione all’associazione criminosa e il concorso nei reati oggetto del programma), in Rass. giust. milit., 1983, p. 29. (8) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, Riflessioni sulla struttura della banda armata, sui suoi rapporti con gli altri reati politici di associazione, e sui limiti alla responsabilità dei componenti la banda per la commissione dei delitti-scopo, in Cass. pen., 1986, p. 711. Dello stesso A. v. pure Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 107 ss.
— 765 — mente strumentali all’associazione » possono in concreto confondersi e sovrapporsi: fornire i mezzi di sussistenza agli associati è di regola attività ascrivibile alla seconda categoria; ma se gli associati cui è prestata la sussistenza sono dislocati in un’attività di sorveglianza della vittima designata di un sequestro, il senso della condotta strumentale sembra piuttosto orientarsi « allo scopo » del sodalizio criminoso. Su tale ambiguità s’appunta la critica di Giuseppe Spagnolo, che, in estrema sintesi, muove dalla considerazione che l’organizzazione, in cui il reato associativo si sostanzia, finisce col rendere ogni condotta funzionale allo scopo: « gli effetti dell’attività di organizzazione vanno evidentemente al di là del risultato immediato e si pongono, rispetto ai delitti oggetto del programma associativo, se non in chiave di conditio sine qua non, almeno in termini di agevolazione » (9). La soluzione deve allora essere rinvenuta sul piano del dolo, ovviamente non rapportato al semplice programma criminoso associativo, ma identificato, in termini discriminanti, nell’« acquisizione della conoscenza che quel tipo di reato, già genericalente prefigurato come oggetto del programma associativo, è stata, per così dire, posta in cantiere, concretamente, sul piano operativo » (10). Questo approccio soggettivo tende ad attribuire in via presuntiva rilevanza concorsuale alle condotte di esercizio del ruolo associativo e, in qualche misura, alle stesse condotte di assunzione della relativa titolarità. Non sempre, tuttavia, potrà trattarsi di una presunzione fondata. Le variabili sono evidentemente molte, a cominciare dalla tipologia del programma criminoso e dalla natura dell’associazione (quanto più essa si risolve in un accordo organizzativo circoscritto, con la delineazione di una serie definita di reati-scopo, tanto più sarà agevole gettare un ponte tra le condotte di associazione e quelle di concorso). A prescindere da questo rilievo, questo approccio « scarica » il problema della distinzione su un elemento, il dolo, che — com’è noto — risulta ‘‘di prova difficile’’, o meglio rimesso (quando non è risolto in re ipsa) al reticolo delle prove indirette di matrice presuntiva. In questo senso l’aiuto offerto dalla prospettiva del dolo rischia di somigliare molto al soccorso di Pisa: potenzialmente risolutivo, ma vanamente atteso dall’imperatore, mentre i fiorentini si accingevano a concludere l’assedio della città. 3. Espressione « patologica » di un atteggiamento diretto a valorizzare la rilevanza obiettiva della condotta di associazione rispetto alla realizzazione del reato-scopo, senza dover ricorrere al filtro del dolo, è costituita dall’invocazione dell’art. 116 c.p. In questa prospettiva, il concor(9) Cfr. G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 19934, p. 165. (10) Cfr. G. SPAGNOLO, op. cit., p. 167. Dello stesso A. v. anche Reati associativi, in Enc. giur. Treccani, agg. V, Roma, 1996, p. 6 s. (dell’estratto).
— 766 — rente nell’associazione diviene ipso jure concorrente nel reato-scopo inteso quale reato « diverso », da lui non voluto, ma determinato dalla sua condotta di partecipazione al reato voluto (e cioè quello associativo) (11). L’approccio disvela una certa rudimentalità, non soltanto perché dà per scontata l’applicabilità dell’art. 116 c.p. anche a fattispecie plurisoggettive necessarie, ma soprattutto perché tradisce il senso della disposizione dell’art. 116 c.p. Chiamata a disciplinare un’ipotesi di aberratio delicti in ambito concorsuale, l’art. 116 c.p. si ritroverebbe a fondare una sorta di responsabilità di posizione: l’associato, per aver assunto un ruolo nel sodalizio criminoso e averne condiviso il programma generico, si vedrebbe addossare anche il reato-scopo rispetto al quale la sua estraneità potrebbe risultare totale. L’art. 116 c.p. postula peraltro che, per rispondere del diverso evento, esso debba essere « conseguenza » dell’azione o dell’omissione del concorrente che volle l’altro reato: una « conseguenza » che sarebbe possibile stabilire soltanto in rapporto col reato associativo in quanto tale (e cioè comprensivo dell’intera sua organizzazione). Per questa via, dunque, l’associato si ritroverebbe a rispondere della posizione ricoperta nella compagine criminosa, in riferimento a qualsiasi esito fosse concretamente scaturito dall’attività svolta dai suoi membri. Un esempio piuttosto vistoso di responsabilità per fatto altrui. È vero peraltro che la moderna evoluzione ermeneutica dell’art. 116 c.p. esige pur sempre il riferimento ad un coefficiente di imputazione personale (sia pure in termini obiettivati). Ma tale coefficiente, identificato nella prevedibilità dello sviluppo assunto dalla dinamica del gruppo associato, riporta la questione, sostanzialmente, sul terreno soggettivo, dando per scontata la rilevanza concorsuale della condotta: e cioè, la soluzione del problema di cui si discute. 4. Piaccia o non piaccia, il problema del concorso dell’associato nel reato-scopo ha finito con l’assumere una dimensione essenzialmente probatorio-processuale: accompagnato da molte benedizioni, ma fornito di scarsissimo viatico, esso si è ritrovato nelle aule di giustizia, costretto ad indossare i panni di un thema probandum, che la sartoria del diritto penale si è limitata a tagliare in modo quanto meno approssimativo. Esplorando questo sentiero poco illuminato, sin dal 1987 Cristina De Maglie ha giustamente sottolineato la necessità di confrontarsi con i procedimenti probatori adottati in concreto, analizzando il materiale giurisprudenziale e prospettandone un’elaborazione concettuale idonea a consentire un vaglio critico (12). Le peculiarità che, in un quadro di sintesi, è possibile cogliere nel(11) Cfr. O. VANNINI, Manuale di diritto penale, P.S., Milano, 1951, p. 135. (12) Cfr. C. DE MAGLIE, Teoria e prassi dei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati-fine, in questa Rivista, 1987, p. 924 ss. Sulla stessa linea metodologica
— 767 — l’apparato logico presuntivo sviluppato intorno al tema qui considerato sono, fondamentalmente, due. Si tratta di due criteri fondamentali, attraverso i quali si intraprende la risalita oltre la cerchia degli esecutori del reato-scopo e verso quella degli associati. L’uno è costituito dal criterio dell’oggetto sociale; l’altro è il criterio della competenza organica. Le denominazioni prescelte per designarli tradiscono scopertamente una matrice di tipo civilistico; ma non si tratta di una circostanza casuale, quanto piuttosto della sottolineatura di un marchio d’origine. Come si avrà occasione di verificare, tali criteri rappresentano la trasposizione (e l’adattamento) di criteri di imputazione maturati sul terreno del lecito giuridico, ma ritenuti convertibili anche su quello dell’illecito. Se in termini civilistici si pone il problema di riferire ad un ente l’attività compiuta da un commesso o da un preposto, la sua soluzione passa attraverso la riconduzione di tale attività all’oggetto sociale; nel qual caso esso finisce con l’essere imputato ai titolari del potere di amministrazione, e, attraverso essi, all’ente. Se l’oggetto sociale si identifica nel programma criminoso, il commesso è l’esecutore del reato e gli amministratori sono i capi e i dirigenti dell’associazione criminosa; il quid demonstrandum consiste solo nello stabilire che il reato commesso rientra nell’oggetto sociale, e cioè nel programma criminoso. Il resto segue secondo paradigni presuntivi del tutto conformati alla logica dell’imputazione civilistica. L’utilizzazione di questo criterio sembra emergere con particolare evidenza in materia di reati associativi politici e di associazioni terroristiche. L’incipit argomentativo di molte decisioni muove dal riscontro che il reato commesso rientra nell’« oggetto sociale », nel senso che si tratta di reati che costituiscono strumento essenziale di vita e di operatività della banda o rappresentano la realizzazione delle sue stesse finalità costitutive, formano oggetto di rivendicazione (concepito quale mezzo per affermare la presenza e l’efficacia del sodalizio), e vengono infine commessi in strutture compartimentate (in senso orizzontale e verticale) che raccordano necessariamente l’operatività ad un vertice. A queste condizioni, il transito di responsabilità verso l’alto appare, in linea di principio, privo di ostacoli. Il criterio della competenza organica consente, nei sodalizi leciti, di imputare una determinata attività all’organo che, statutariamente, risulta legittimato a disporne l’adozione. Se in una società di capitali è stato disposto l’acquisto di una determinata attrezzatura, si presume che l’operazione sia stata decisa dall’amministratore delegato o da chi abbia da lui ricevuto apposita delega; salvo non si riscontri un eccesso di potere da parte dell’incaricato. Nel caso di un’associazione illecita, se in essa esiste un organo di vertice cui viene riconosciuta la competenza a decidere circa v. anche G. CANZIO, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l’evoluzione giurisprudenziale degli anni 1970-1995, in Cass. pen., 1996, p. 3163 ss.
— 768 — la commissione di determinati reati, dalla circostanza che tali reati siano stati effettivamente perpetrati si evince ch’essi debbano essere stati disposti da chi ne aveva il potere « statutario ». Com’è ovvio, la praticabilità del criterio dipende dalla possibilità di ricostruire norme effettive di funzionamento del sodalizio criminoso, dal tipo di associazione di cui si tratta e dalla natura dei rapporti fra i consociati; ma, « calata » in un contesto « recettivo », i risultati argomentativi non sono molto dissimili da quelli ottenuti in materia di delega di funzioni, le cui cadenze trovano in effetti un’eco sorprendente in questo tipo di approccio basato sull’imputazione « statutaria ». 5. Il trasferimento del problema entro una dimensione probatorioprocessuale stimola peraltro una verifica che trascende i limiti di plausibilità contingentemente riconoscibili a questo o quell’approccio ermeneutico-argomentativo. Tale trasferimento non rappresenta un evento di cui il diritto penale possa serenamente disinteressarsi, declinando la propria competenza, quasi si trattasse di affare che non lo riguarda; lo riguarda, invece, e assai da vicino. L’idea stessa di « fatto tipico » sorge per eliminare l’inquisitio generalis e delimitare i poteri investigativi dell’autorità giudiziaria, trasformando la ricerca del corpus delicti (e cioè le tracce di un reato, di cui elaborare il contenuto muovendo dalla concretezza della realtà investigata) in un procedimento di sussunzione progressiva entro uno schema normativo tassativo e predefinito. In questa prospettiva, il principio di legalità dei reati gioca non tanto come garanzia circa la fonte abilitata a determinare il contenuto dell’illecito, quanto soprattutto come limite dell’attività di indagine; e su questo limite si costruisce la garanzia per la libertà dei cittadini. La precondizione affinché ciò si verifichi dipende dalla determinatezza dello schema normativo: solo così il procedimento di sussunzione è non solo possibile, ma verificabile (13). Il concorso esprime in forma paradigmatica l’antitesi di questa esigenza: gravitando intorno ad una mera tautologia, esso si riduce ad un nomen juris dai contenuti inafferrabili e dai contorni evanescenti. Ma lo stesso può ben ripetersi per le fattispecie dei reati associativi, costruiti sull’associarsi o sul partecipare ad un’associazione. Così è stato giustamente osservato, alla tautologia della definizione del concorso si aggiunge la tautologia e la vuotezza dei contenuti tipizzanti che è caratteristica delle fattispecie associative (14). Quel che si verifica è una crasi tra la legalità « offerta » quale para(13) Sul tema, in generale, v. A. GARGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand. Le origini della tipicità penale, Milano, 1997, p. 101 ss. e p. 491 ss. (14) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in questa Rivista, 1994, p. 1275 ss.
— 769 — metro e fondamento dell’indagine, e la legalità « raggiunta », all’esito del suo svolgimento. Come scrive esattamente Renzo Orlandi, « quando la norma incriminatrice difetta di determinatezza... l’organo dell’accusa deve affrontare un compito che — stando all’ordinamento — gli sarebbe estraneo: ... deve delimitare il campo della propria futura attività, selezionando preliminarmente i fatti da investigare. In altre parole, egli deve supplire al difetto di determinatezza della fattispecie normativa » (15). L’antico settore dei nomina delicta, reati la cui unica bussola si risolveva nel potere evocativo del nome, è oggi occupato da quelle che a buon diritto possono definirsi « fattispecie a formazione giudiziaria »: area non coperta certo dai soli reati associativi, ma da un intero nugolo di fattispecie (basterebbe ricordare i reati di attentato politico, i reati d’opinione, la concussione per induzione, l’abuso d’ufficio, probabilmente anche dopo la dissennata riforma del 1997, la clausola generale dell’art. 40 cpv., e così via dicendo). I rischi specifici cui è soggetto il procedimento di « formazione » giudiziaria sono fondamentalmente due, intimamente connessi: la selettività tendenziosa e l’interscambio dei piani di valutazione. Parlando di selettività « tendenziosa » ci si riferisce alla necessità pratica che la formazione della notitia criminis prima, e la ricerca del corrispondente materiale probatorio, poi, corrisponda ad un atteggiamento « ricostruttivo », mediante il quale la « decontestualizzazione » e la « ricontestualizzazione » degli elementi rilevanti avviene senza strumento normativo di selezione. La « verità » che si edifica assume quindi un andamento circolare: è spesso solo autoreferenziale, per quanto materiata di riscontri « obiettivi » e di elementi « certi ». Un rischio simile minaccia — è ben noto — qualsiasi procedimento di carattere indiziario, ma la diversa consistenza del rischio si coglie proprio in riferimento all’oggetto della prova. Se questo è definito in termini normativi certi (ad es., l’aver Tizio cagionato la morte di Caio), il controllo del procedimento logico seguito per raggiungere e fornire la prova è sempre possibile, a partire, per l’appunto, dal suo oggetto: la circostanza che Tizio abbia pranzato con Caio non potrà, ad es., essere considerato significativa se Caio è stato ucciso dopo aver cenato in famiglia. Ma quando è incerto l’oggetto stesso della prova, la musica è destinata a cambiare: la prova surroga il suo oggetto, nel senso che l’elemento di cui essa consta diventa ad un tempo significativo sul piano reale (come elemento della notitia criminis, come corpus delicti) e su quello sintomatico (come elemento che rimanda presuntivamente ad un contesto più ampio e significativo). Il pranzo fra Tizio e Caio può assumere ben altra colorazione se si tratta di argomentare l’adesione del primo al sodalizio criminoso promosso dal secondo. (15) Cfr. R. ORLANDI, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis?, in questa Rivista, 1996, p. 570.
— 770 — Si profila così il secondo rischio cui poc’anzi si è fatto cenno: l’interscambio dei piani di valutazione. Una stessa circostanza assume valore reale su un piano sintomatico, e, trattata sul piano sintomatico, determina una ricaduta reale, come in un gioco di specchi. Basterebbe ricordare in proposito alcuni tòpoi ricorrenti nella giurisprudenza in materia di concorso: la presenza sul luogo del delitto, ambiguamente oscillante tra l’elemento sintomatico di un accordo e la dimensione reale di un’istigazione per facta concludentia; l’ospitalità offerta, pure in bilico tra il valore reale di un’adesione e la portata sintomatica di una concertazione; la qualità di capo o di dirigente in un’associazione criminosa, rispetto al reato-scopo commesso, e così via dicendo. 6. La crasi tra legalità « offerta » e legalità « raggiunta » rappresenta sempre, e di per sé, un fatto gravemente distonico nell’applicazione del diritto penale; ne esprime anzi l’intima dissoluzione. Ma, a partire dal vuoto normativo iniziale, finisce sempre col raggiungersi, alla fine, una « legalità » di matrice giurisprudenziale, il cui ruolo vicariante non è, di per sé, negativo; al contrario, può assumere connotazioni positive in termini sistematici complessivi, non foss’altro perché supplisce, in qualche modo, ad esigenze reali. Sia ben chiaro, le modalità di sviluppo del procedimento sono sempre, singolarmente considerate, di esiziale precarietà e di inquietante latitudine; ma gli esiti finali concorrono pur sempre a stabilizzare, sia pure relativamente, il quadro normativo. Così, ad es., il complesso della giurisprudenza formatasi sulle desolanti slabbrature normative dell’art. 323 c.p. aveva finito col delineare un quadro della figura dotato di una certa selettività e non avulsa da un effettivo contenuto di offensività. La casistica giurisprudenziale di legittimità aveva dato corpo al fantasmatico aleggiare della norma. Certo, una tale circostanza non poteva di per sé incidere sul fatto che a costituire « notizia di reato » continuasse a risultare sufficiente un sospetto di illegittimità dell’atto, atteggiato ed atteggiabile nelle forme più varie. Il filtro processuale, quand’anche idoneo a selezionare sulla scorta di un precipitato applicativo via via consolidatosi, non ripagava gli sconquassi comunque indotti dall’attivazione dello strumento. Alla fine, l’intervento del legislatore restava imprescindibile; ma questo intervento avrebbe potuto (e dovuto) giovarsi di un’esperienza applicativa pur maturata. Del resto, è dato storicamente comune che gli istituti di diritto penale rechino tutti, in misura maggiore o minore, il segno di origine di una matrice processuale. Quale insegnamento si può allora trarre, per il tema qui considerato, della dislocazione processuale del problema e degli esiti ch’essa ha provocato? In proposito, non è possibile considerare i reati associativi in termini di unità indistinta. Occorre, anzi, differenziarne i modelli, isolando da un lato le associazioni a illiceità di scopo, e cioè quei solidalizi in cui la fina-
— 771 — lità criminosa costituisce il baricentro della tipicità offensiva, e dall’altro lato le associazioni c.d. a struttura mista, come quella dell’art. 416-bis c.p., in cui il reato può collocarsi nel momento genetico, o costituire un aspetto della struttura organizzativa, o, ancora, rappresentare attuazione di un programma criminoso a struttura variabile. Nelle associazioni a illiceità di scopo si possono enucleare due gruppi ulteriori, diversamente caratterizzati rispetto alla finalità criminosa: quello delle associazioni « eventualmente necessarie » a realizzarla e quello delle associazioni « necessariamente eventuali » rispetto al suo perseguimento. Il primo gruppo include quelle associazioni nelle quali la realizzazione dello scopo implica il ricorso ad una struttura associativa, senza la quale esso finisce col sottrarsi alla portata del singolo (o ad esigere in lui la presenza di situazioni qualificanti del tutto particolari). Il caso tipico è costituito dai reati politici di associazione ad evento monolesivo. Un attentato contro la Costituzione, un’insurrezione armata, una guerra civile non possono essere perseguiti se non attraverso un’organizzazione; qualche circoscritto spazio per la realizzazione monosoggettiva residua (e non in tutti i casi) soltanto per chi sia investito di alte funzioni costituzionali o ricopra un rilevante comando militare. Lo stesso può dirsi anche dell’associazione finalizzata al traffico di droga: il commercio di sostanze stupefacenti può certo assumere anche, nel suo segmento terminale, il carattere di un’impresa individuale; ma, per potersi svolgere esso implica sempre e necessariamente la presenza di un’organizzazione di carattere produttivo e commerciale, senza la quale il commercio stesso non è concepibile (come del resto per qualsiasi altro prodotto offerto sul mercato, lecito o illecito che sia). Nelle associazioni del secondo gruppo, l’associazione è necessariamente eventuale alla realizzazione dello scopo illecito, nel senso che questo può, in linea di principio, essere raggiunto anche attraverso una condotta individuale. La figura tipica è rappresentata dall’art. 416 c.p.: il fatto di associarsi per commettere più omicidi non esclude che quegli stessi omicidi possano essere realizzati anche da un singolo agente. Ora, nelle ipotesi in cui l’associazione è eventualmente necessaria allo scopo, concorrere nell’associazione implica di regola il concorso nel reatoscopo: svolgere un qualsiasi ruolo in un sodalizio che ha come obiettivo l’insurrezione armata significa concorrere anche nell’insurrezione armata, dato che senza l’organizzazione il fine non è perseguibile, ed ogni contributo prestato alla prima si risolve di necessità in un contributo prestato all’obiettivo. Non diversa conclusione si impone per l’associazione finalizzata al traffico di droga: chiunque dia mano all’organizzazione del sodalizio partecipa degli atti di commercio conseguenti all’attività di questo. In quest’ambito diventa decisivo il criterio dell’oggetto sociale: trattandosi di un oggetto definito in termini univoci, la prova dell’adesione alla societas sceleris consente l’imputazione all’associato di quel reato (o
— 772 — quei reati) che rappresentino, precisamente lo scopo, consapevolmente assunto, della sua stessa condotta. Le associazioni a scopo illecito necessario non sono che forme di concorso caratterizzate dall’organizzazione. La stessa conclusione non potrebbe ovviamente prospettarsi per i reati strumentali. Se per realizzare lo scopo della cospirazione associativa viene decisa una serie di rapine alle banche, si rientra in un’ipotesi in cui l’associazione risulta solo eventualmente necessaria allo scopo. In questo secondo gruppo di ipotesi (in cui rientra la fattispecie generale dell’art. 416 c.p.) la soluzione del problema non può prescindere da un’analisi « statutaria », e cioè dall’identificazione del rapporto tra il reato commesso e la competenza esercitata dai singoli membri del sodalizio, valutando in concreto la strumentalità dei singoli apporti organizzativi rispetto al reato di volta in volta perpetrato da singoli associati. Ancora diverso si prospetta il caso delle associazioni a struttura mista, come nell’ipotesi dell’art. 416-bis c.p., perché il reato « espressione » dell’attività del sodalizio può collocarsi in momenti e fasi diverse: può costituire lo scopo della compagine criminosa, ma può anche rappresentare un aspetto della sua struttura organizzativa (ad es., in termini di sanzione inflitta nei confronti del membro « deviante »), o collocarsi nel momento organizzativo iniziale, quando si tratta di assumere il controllo del territorio, esercitandovi attività criminose di intimidazione. Ciascuna di queste fasi può risultare ben diversamente significativa per identificare i limiti del concorso oltre la cerchia degli esecutori. 7. Se un insegnamento si può trarre da questa complessa problematica, è la necessità di rinunciare a moduli generici e generali di associazioni criminose passe-partout, quale, emblematicamente, l’art. 416 c.p., per sostituirvi moduli differenziati, fortemente « specializzati » per tipologie criminose e modalità organizzative, ed attentamente costruite sui contenuti empirico-fattuali e sulla realtà criminologica dei diversi fenomeni. I problemi del concorso di persone nei reati-scopo nascono essenzialmente dalla relativa incommensurabilità normativa fra il tipo associativo e la concretezza del reato commesso. Quanto più il ponte normativo si farà stretto, tanto più agevole sarà riconoscere nessi di dipendenza obiettiva e formulare giudizi di imputazione soggettiva per le attività criminose svolte nell’ambito dell’associazione criminosa. TULLIO PADOVANI
LE SCRIMINANTI PUTATIVE Profili problematici e fondamento della disciplina
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — SEZ. I. Gli incerti confini tra dimensione reale e putativa delle cause di giustificazione: 2. Verità putativa ed esercizio del diritto di cronaca: spunti per una riflessione sulle cause di liceità a rischio consentito. — 3. La supposizione del consenso e dell’ingiustizia del fatto subito nel consenso dell’avente diritto e nella provocazione. — 4. La rappresentazione del pericolo nella legittima difesa e nello stato di necessità: un’occasione di ripensamento degli elementi scriminanti di tipo prognostico. — 5. (Segue): la valutazione ex ante con parametro obiettivo come adeguato discrimine tra consistenza reale e putativa del requisito prognostico. — 6. (Segue): conferme in materia di dubbio invincibile sull’attualità del pericolo. — SEZ. II. Spiegazione e inquadramento dogmatici della rilevanza putativa delle cause di giustificazione: 7. Necessità di riconsiderazione del contesto dogmatico e sistematico della disciplina ex art. 59, comma quarto, c.p. — 8. Un quadro ragionato delle molteplici teorie in tema di scriminante putativa. — 9. Valutazione critica: insostenibilità dell’assenza di dolo postulata dalla teoria dei negative Tatbestandsmerkmale; intima coerenza della strenge e della rechtsfolgenselbstaendige Schuldtheorie; limiti della eingeschraenkte Schuldtheorie. — 10. (Segue): le aporie della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, con particolare riguardo al presupposto della ‘‘doppia posizione’’ del dolo. — 11. La scriminante putativa come genuina ipotesi di errore sul fatto al di là della teoria degli elementi negativi di fattispecie.
1. Non sarebbe esatto affermare che la problematica delle scriminanti putative abbia costituito un luogo privilegiato, o anche solo ricorrente, del dibattito della dottrina italiana sui temi della parte generale del diritto penale. Se si eccettuano due fondamentali monografie apparse contemporaneamente or sono quasi quarant’anni (1), non è dato riscontrare indagini specificamente mirate sui molteplici profili della supposizione erronea o comunque dell’errore in rapporto alle cause di giustificazione; i relativi riferimenti figurano per lo più in studi di più ampio respiro, dedicati agli aspetti generali delle scriminanti, dove restano necessariamente (1) Alludo chiaramente ai lavori di GROSSO, L’errore sulle scriminanti, 1961, e di SANTAMARIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, 1961. Il secondo di essi appare talora ingiustamente trascurato nei ricorrenti richiami della manualistica in tema di errore sulle scriminanti, quasi che l’intitolazione di carattere più generale del volume abbia fatto velo sul suo autentico contenuto, incentrato appunto sulla disciplina ex art. 59 c.p. quale chiave di volta della ricostruzione sistematica degli istituti riconducibili alla categoria normativa delle ‘‘circostanze di esclusione della pena’’.
— 774 — contenuti in spazi argomentativi ridotti seppure di pregevole articolazione (2). La ragione di tale non copioso interesse nei confronti del tema in esame è probabilmente speculare alla quasi ossessiva insistenza su di esso registrabile invece presso la dottrina tedesca: la presenza nell’art. 59, ultimo comma, c.p. di una precisa e (almeno apparentemente) incontrovertibile disciplina dell’esimente putativa, del tutto corrispondente a quella dell’errore sul fatto di cui all’art. 47, comma primo, c.p., può aver allentato la tensione dell’approfondimento dogmatico e sistematico esattamente come, all’inverso, la mancanza di una presa di posizione del legislatore — non solo nel codice tedesco del 1871, ma financo nella rinnovata parte generale dello StGB del 1975 — ha da sempre promosso le più svariate e talora ardite ipotesi di soluzione in seno alla letteratura d’oltralpe (3). Eppure i risultati, di per sé ragguardevoli, conseguiti nei risalenti lavori monografici di autori italiani sopra citati non hanno mostrato piena saldezza e sicura resistenza di fronte alla successiva evoluzione dell’esperienza giurisprudenziale e dottrinale, tanto sulla questione specifica della scriminante putativa quanto in rapporto ai più ampi orizzonti di teoria generale del reato da essa necessariamente evocati. Basti ricordare come l’opzione teorica che fa da sfondo alla prima — e certo più completa (4) — delle due indagini si sostanzia nell’adesione (2) V., per tutti, MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1242 ss.; SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, 1980, p. 93 ss. (3) V. in proposito infra, n. 8 ss. (4) Mi riferisco all’opera di GROSSO, L’errore, cit., che passa effettivamente in rassegna tutti i profili di rilievo della supposizione erronea, risolvendo peraltro il concetto discriminante, almeno ai fini della disciplina ex art. 59 c.p., esclusivamente nelle cause di giustificazione in senso stretto (passim e p. 110). La monografia di SANTAMARIA, Lineamenti, cit., valorizza per contro un’accezione molto più ampia delle ‘‘circostanze d’esclusione della pena’’ di cui all’art. 59, ultimo comma, c.p. e, su questa strada, va ben oltre l’analisi puntuale dei risvolti della disciplina ivi contenuta, per proporre una caratterizzazione differenziale di più ampio respiro, all’interno del genus delle esimenti, tra cause di giustificazione, scusanti e limiti istituzionali della punibilità (passim e, in sintesi, p. 289 ss). Anche la presente indagine intende restar ferma alla tradizionale identificazione delle scriminanti di cui all’art. 59, ultimo comma, c.p. con le cause di giustificazione in senso stretto. Non va peraltro sottaciuto che in un’impostazione propriamente monografica varrebbe la pena di soffermarsi sull’effettivo ambito d’estensione della categoria ivi richiamata, tanto de jure condito (sul punto, per tutti e per ulteriori richiami, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., 1995, Art. 59/28 s., che ritiene applicabile la relativa disciplina anche alle cause scusanti, ma non alle cause di non punibilità in senso stretto), quanto de lege ferenda. In tale ultima prospettiva — che non può prescindere da riferimenti comparatistici omogenei — meriterebbe tra l’altro attenzione il fatto che lo stato di necessità scusante viene espressamente disciplinato sul versante putativo, nella seconda parte del § 35 StGB, in maniera analoga all’errore sul precetto e non già in modo speculare all’errore sul fatto, come pure, in
— 775 — alla teoria delle cause di giustificazione come elementi costitutivi negativi del fatto tipico (5): un orientamento, cioé, che seppure conta ancora autorevoli fautori, non può certo dirsi esprimere le più significative tendenze della odierna teoria generale del reato (6). Ma la spia più significativa di una perdurante e quanto mai attuale esigenza di riconsiderazione della problematica della scriminante putativa si ritrova nelle posizioni espresse nel secondo dei lavori monografici indicati. Qui viene forse per la prima volta rilevato, con piena consapevolezza delle relative implicazioni, quel diffuso orientamento giurisprudenziale inteso a subordinare la rilevanza putativa di varie cause di liceità ad una verifica di presupposti di ‘‘ragionevolezza’’, ‘‘logica giustificazione’’ e in definitiva di ‘‘scusabilità’’ dell’intervenuta supposizione erronea, che appaiono scarsamente compatibili con la lettera dell’art. 59, ultimo comma, c.p. (7): una disciplina come quella qui contenuta, apparentemente speculare all’art. 47, comma primo, c.p. a proposito dell’errore sul fatto, non sembra tollerare alcuna discriminazione in funzione della genesi della rappresentazione erronea, che dovrebbe valere ad escludere in ogni caso la responsabilità a titolo di dolo, salva restando la verifica dei fattori che hanno dato origine all’errore solo in vista dell’affermazione di una eventuale residua responsabilità colposa. Tanto è vero che, aderendo con piena convinzione all’orientamento giurisprudenziale in questione, la dottrina in parola arrivava ad affermare che l’errore disciplinato nell’art. 59, ultimo comma, c.p., lungi dal significare l’esclusione del dolo come è invece certo per l’ipotesi di errore sul fatto ex art. 47, comma primo, c.p., ‘‘elimina qualcosa di diverso che presuppone appunto l’esistenza del dolo’’ (8), anche se non venivano forniti ulteriori chiarimenti sul distinto elemento del reato la cui mancanza spiegherebbe il difetto di punibilità dell’agente. Ora, l’atteggiamento della giurisprudenza osservato quasi quarant’anni fa mantiene a tutt’oggi inalterata vitalità ed attualità (9). D’altra parte non sembra contestabile che, a voler considerare tale orientamento mancanza di un’esplicita disposizione corrispondente all’art. 59, ultimo comma, c.p., ritiene buona parte della dottrina tedesca in rapporto alle cause di giustificazione. Andrebbe pertanto attentamente riconsiderata l’equiparazione, nel segno di una disciplina sostanzialmente corrispondente al vigente art. 59, ultimo comma, c.p., prevista dall’art. 15 del c.d. Progetto 1992 (v. infra, nt. 32) tra cause di giustificazione e ‘‘cause soggettive d’esclusione della responsabilità’’. Per una rapida informazione in materia, v., di recente, HARDTUNG, Der Irrtum ueber die Schuld im Lichte des § 35 StGB, in ZStW, 1996, p. 26 ss.; MILITELLO, Entschuldigungsgruende in der Neukodifizierung des Strafrechts, ivi, 1995, p. 977 ss. e 998 s. (5) GROSSO, L’errore, cit., p. 50 ss. e 64 ss. (6) A riguardo v. meglio infra, n. 9. (7) SANTAMARIA, Lineamenti, cit., p. 109 ss., 131 ss. e 150. (8) SANTAMARIA, Lineamenti, cit., p. 112. (9) V. infra, n. 2 ss.
— 776 — fondato e suscettibile di applicazione generalizzata, finirebbe per risultarne sensibilmente modificata la (interpretazione della) disciplina di cui all’art. 59, ultimo comma, c.p., come appunto sosteneva la risalente opinione sopra richiamata: dovrebbe qui ravvisarsi non più una sicura ipotesi di mancanza di dolo — come inclina tuttora a ritenere la prevalente dottrina sia pure respingendo la teorica delle scriminanti come requisiti negativi di tipicità (10) — ma piuttosto una causa d’esclusione della colpevolezza in senso normativo, fondata su presupposti d’invincibilità o inevitabilità dell’errore non dissimili nella sostanza da quelli rilevanti in materia di conoscibilità della legge penale (11). Risulta ben chiaro a questo punto quale linea di ricerca sia conveniente e proficuo perseguire da parte di chi manifesti oggi rinnovato interesse nei confronti della problematica della supposizione erronea di fattispecie scriminante. Innanzitutto, si tratta di accertare, attraverso un’indagine più ampia ed un approfondimento teorico superiore ai pur significativi riferimenti già acquisiti, quale sia l’effettiva consistenza dell’orientamento giurisprudenziale in parola, così sensibile ai profili di vincibilità o meno dell’errore. Occorre in particolare verificare se esso sia funzionale ad esigenze interpretative connesse alla particolare struttura di determinate cause di giustificazione o non sia davvero coestensivo all’intera dimensione delle scriminanti putative: nell’un caso, potrebbe non risultare seriamente pregiudicata l’ordinaria interpretazione dell’art. 59, ultimo comma, c.p. quale causa d’esclusione del dolo; nell’altra eventualità, bisognerebbe prendere atto di una totale ed inquietante discrasia tra il dettato normativo e la prassi del ‘‘diritto vivente’’ ed invocare, nel quadro di una sempre auspicata riforma generale del codice penale, una speciale attenzione da parte del legislatore nei confronti della (nuova?) disciplina della supposizione erronea di scriminante (12). Nel caso in cui la rilevata discrepanza tra prassi giurisprudenziale e comune recezione dottrinale della disposizione vigente dovesse risultare contenuta e giustificata dalla particolare configurazione di talune cause di liceità, sarebbe tuttavia ugualmente necessario procedere ad una seria rimeditazione, se del caso anche de lege ferenda, del fondamento e del più generale contesto dogmatico e sistematico della disciplina delle scrimi(10) Per tutti, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1242 ss. (11) Per riferimenti puntuali alla posizione minoritaria, almeno nella dottrina italiana, che configura in termini di scusante in senso stretto la scriminante putativa, v. infra, nt. 116. (12) Preoccupazioni di tal genere non emergono peraltro dal più recente e consistente disegno riformatore disponibile del codice penale: l’art. 15 del c.d. Progetto 1992 (vedi infra, nt. 32) ripropone invariato il parallelismo di disciplina tra errore sul fatto di reato ed errore sugli elementi costitutivi di una causa di giustificazione.
— 777 — nanti putative. Si è già accennato che la teoria delle cause di liceità come requisiti negativi del fatto tipico non possa certo allo stato vantare una priorità di rango; eppure essa resta il punto di riferimento privilegiato o comunque naturale dell’attuale disciplina dell’art. 59, ultimo comma, c.p., come sottolinea anche chi si dissocia dalla corrispondente opzione di teoria generale (13). Per altro verso, è noto come sia cresciuta negli ultimi tempi la (già scarsa) sensibilità della dottrina italiana nei confronti delle problematiche connesse con un concetto genuinamente normativo della colpevolezza e in particolare con il ruolo delle scusanti in senso stretto (14): in questo quadro meritano dunque attenta considerazione — con indagine allargata al tradizionale e nella specie particolarmente istruttivo riferimento comparatistico all’esperienza penalistica tedesca — le posizioni, al momento minoritarie nella nostra dottrina, che tendono appunto a ravvisare nella scriminante putativa una causa d’esclusione della colpevolezza (in senso squisitamente normativo) e non già del dolo (15). Ai filoni d’indagine così individuati sono rispettivamente orientate le due sezioni in cui si articola il presente lavoro (16). (13) Cfr., per tutti, ROMANO, Commentario sistematico, cit., Art. 59/23 ss. (14) Significativi, in proposito, i rilievi di ROMANO, op. cit., Pre-Art. 39/85 s., PreArt. 50/8, che per parte sua auspica il pieno sviluppo delle potenzialità insite nella concezione normativa della colpevolezza non solo sul terreno dogmatico ma altresì su quello legislativo, laddove dovrebbe realizzarsi ‘‘un adeguato potenziamento, in parallelo con le cause di giustificazione, delle cause scusanti’’ (cfr., dello stesso A., più diffusamente e per i necessari richiami di dottrina anche straniera, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, p. 56 ss.). Indicativo è altresì come solo di recente cominci a trovare posto nei manuali una trattazione autonoma delle scusanti, sia pure contenuta in ragione del ridotto rilievo attualmente rivestito dalla categoria sul piano dello jus conditum: cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1995, p. 365 ss.; FIORE, Diritto penale. Parte generale, I, 1993, p. 344 ss. e 408 ss. (15) Per i relativi richiami v. infra, nt. 116. (16) Non rivestendo questa indagine carattere propriamente ‘‘monografico’’, non saranno presi in considerazione taluni profili della problematica delle scriminanti putative che, pur di per sé certamente rilevanti, si collocano tuttavia ai margini del percorso di ricerca sopra delineato. Tale è, innanzitutto, la questione del tipo di errore disciplinato nell’art. 59, ultimo comma, c.p.: se cioè, al di là dell’errore di percezione relativo a presupposti di fatto, possa ed in quale misura riconoscersi rilievo all’errore di diritto incidente su di elementi normativi della fattispecie scriminante (v., per tutti e per ulteriori rinvii, la chiara e condivisibile impostazione di MARINUCCI, voce Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., II, 1988, p. 143 s.; per un recente approccio monografico, con particolare riguardo al requisito dell’ingiustizia dell’aggressione nella legittima difesa, v. LANGE A., Zum Bewertungsirrtum ueber die Rechtswidrigkeit des Angriffs bei der Notwehr, 1994). Non sarà neanche riconsiderato il punto relativo all’eventuale coinvolgimento, nel contenuto della supposizione erronea, del significato di liceità del sostrato fattuale, come se la scriminante putativa dovesse sempre necessariamente risolversi nell’opinione del soggetto di agire in conformità all’ordinamento giuridico: a riguardo non sembra peraltro ci si debba discostare dalla posizione negativa a suo tempo espressa da GROSSO, L’errore, cit., p. 22 ss. (diversamente, di recente, ma nel riconoscimento del prevalente contrario avviso della dottrina, CONTENTO, Corso di diritto pe-
— 778 — 2. La manifestazione forse più eclatante delle tendenze giurisprudenziali a subordinare la rilevanza della supposizione erronea di elementi scriminanti a criteri a prima vista coerenti più con la dimensione dell’errore sul precetto che dell’errore sul fatto si rinviene nella tormentata vicenda dell’esercizio del diritto di cronaca in rapporto al delitto di diffamazione a mezzo stampa (17). È ben noto come lo stesso riconoscimento in via di principio di una possibile rilevanza putativa di tale causa di liceità sia stato il frutto di un laborioso distacco da più risalenti posizioni drastiche, intese ad escludere del tutto l’efficacia scriminante del convincimento erroneo da parte del cronista di pubblicare una notizia vera. La verità oggettiva della notizia non soltanto avrebbe costituito un requisito insostituibile nella struttura della fattispecie scriminante, ma sarebbe stata sottratta alla disciplina generale dell’art. 59 c.p. in tema di supposizione erronea (18). L’ammissione di una qualche rilevanza del putativo in materia viene ora subordinata da parte della giurisprudenza pressoché dominante ad nale, II, 2a ed., 1996, p. 367). Allo stesso modo, non pare suscettibile di ulteriori fecondi sviluppi la risalente questione della pretesa natura ‘‘impropria’’ della responsabilità colposa prevista in via residuale nell’art. 59, ultimo comma, c.p.: il delitto commesso in condizioni di erronea supposizione colposa di fattispecie scriminante è certamente colposo già sul piano strutturale prima che su quello sanzionatorio (per tutti, ROMANO, Commentario, cit., Art. 59/34; MARINUCCI, op. ult. cit., p. 143 e nt. 83); anche se andrebbe probabilmente approfondita la diversa dislocazione del dovere di diligenza nella specie violato rispetto alle norme cautelari più direttamente ed immediatamente deputate alla prevenzione dell’evento lesivo ai sensi dell’art. 43 c.p. (significativi accenni in tale direzione in GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, 1993, p. 448, secondo cui nelle ipotesi di colpa c.d. impropria ‘‘muta lo spettro preventivo della norma cautelare violata’’). (17) Per un’efficace sintesi v. MUSCO, voce Stampa (dir. pen.), in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 645 ss.; SIRACUSANO P., voce Ingiuria e diffamazione, in Dig. Disc. pen., VII, 1993, p. 44 ss. Contributi relativamente recenti in BONANNO, Diffamazione a mezzo stampa e limiti del diritto di cronaca, in questa Rivista, 1985, p. 266 ss.; FIANDACA, Nuove tendenze repressive in tema di diffamazione a mezzo stampa?, in Foro it., 1984, II, c. 532 ss.; GRILLO PASQUARELLI, Esercizio putativo del diritto di cronaca e applicazione dell’art. 59, ultimo comma, c.p., in questa Rivista, 1985, p. 1222 ss.; MANNA, Diritto di cronaca: realtà e prospettiva nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, in Giur. cost., 1984, I, p. 770 ss.; MONTANARI, Erronea supposizione di verità del fatto narrato e diffamazione colposa, in Dir. inform., 1986, p. 842 ss. Per un esauriente panorama bibliografico della dottrina più risalente, impegnata in particolare nel dibattito — ormai da tempo superato in senso positivo: per tutti, MANTOVANI, voce Esercizio del diritto (dir. pen.), in Enc. dir., XV, 1966, p. 654 s. — circa il radicamento costituzionale del diritto di cronaca, v. NAPOLEONI, Diritto di cronaca e ‘‘verità putativa’’, in Cass. pen., 1983, p. 1102 ss. Da ultimo, per una diffusa ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di esercizio putativo del diritto in parola, v. POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, 1995, p. 148 ss. (18) Cfr., per i relativi riferimenti, NAPOLEONI, Diritto, cit., p. 1104. Quest’orientamento sembra riemergere anche di recente, talora contraddittoriamente coniugato con l’atteggiamento più aperto ormai prevalente: cfr. Cass. 21 marzo 1991, in Cass. pen., 1992, p. 2076; id. 24 aprile 1987, ivi, 1989, p. 51.
— 779 — una condizione espressa con modulazioni talora varie, ma sostanzialmente riconducibili ad un nucleo concettuale comune: è necessario che il cronista abbia usato il massimo scrupolo nella verifica dell’attendibilità delle fonti d’informazione, in modo che l’errore in cui possa essere comunque incorso appaia scusabile (19). L’insistenza della giurisprudenza nel condizionare la rilevanza della supposizione erronea di verità della notizia all’adempimento di un onere di scrupolosa verifica di attendibilità non poteva non attirare l’attenzione della dottrina più sensibile. È stato vivacemente criticato lo stravolgimento che in tal modo viene realizzato della disciplina contenuta nell’art. 59, comma quarto, c.p., ai sensi della quale la supposizione erronea di elementi scriminanti esclude senz’altro la responsabilità a titolo di delitto doloso, mentre il carattere colpevole dell’errore può solo dare ingresso ad una responsabilità a titolo di colpa (20). Ed in questo atteggiamento della giurisprudenza è stato ravvisato il tentativo di surrettizia introduzione nel nostro ordinamento, in violazione del principio di legalità, di un’ipotesi di diffamazione colposa che dovrebbe colmare un corrispondente vuoto di tutela penale (21). Non manca peraltro chi assume una posizione più problematica e comunque più aperta alla comprensione delle istanze sottese all’orientamento giurisprudenziale in questione, allargando l’angolo di visuale alla prospettiva comparatistica e de lege ferenda. Viene così riconosciuta l’importanza nell’economia dell’esercizio del diritto di cronaca del dovere di accurata verifica da parte del giornalista dell’attendibilità della notizia. Al fine di superare l’incongruente configurazione di tale adempimento quale presupposto (contra legem?) di rilevanza della supposizione erronea ex art. 59, comma quarto, c.p., viene tuttavia auspicato che l’ordinamento rinunci alla verità ‘‘assoluta’’ del fatto riportato quale perno della scriminante in parola, per sostituirvi all’interno della struttura di essa il corretto uso delle fonti d’informazione: una volta adempiuto questo requisito, l’eventuale falsità della notizia appurata ex post lascerebbe intatta la consi(19) Cfr., in conformità, Cass. 4 dicembre 1996, in Cass. pen., 1998, p. 448; id. 14 giugno 1996, ivi, p. 447; id. 14 dicembre 1993, ivi, 1995, p. 558; id. 23 aprile 1992, ivi, 1993, p. 2265; id. 13 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 1218; id. 13 maggio 1987, ivi, 1989, p. 987; id. 20 ottobre 1987, ivi, 1989, p. 201; id. 27 febbraio 1985, ivi, 1986, p. 887. Su di una linea di passaggio dalla vecchia alla nuova impostazione sembrano attestarsi le due sentenze a Sezioni unite rispettivamente del 30 giugno 1984, ivi, 1985, p. 44 ss. e del 26 marzo 1983, in questa Rivista, 1985, p. 266. (20) FIANDACA, Nuove tendenze, cit., p. 534; GRILLO PASQUARELLI, Esercizio putativo, cit., p. 1233 s.; MONTANARI, Erronea supposizione, cit., p. 845 ss.; ROMANO, Commentario sistematico, cit., Art. 51/13. (21) V. in particolare FIANDACA, op. lc. ult. cit. Si tratterebbe peraltro di una singolare ipotesi di delitto colposo, punita con la stessa pena dell’ipotesi dolosa come se si trattasse di un reato contravvenzionale.
— 780 — stenza effettiva della scriminante e non sarebbe più necessario invocarne un’improbabile dimensione putativa (22). Del resto, a rileggere più attentamente le pronunce della Corte di cassazione in tema di efficacia scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, si manifestano talune oscillazioni che denunciano un certo disagio nel costringere la problematica dell’uso corretto delle fonti d’informazione nel ristretto ambito della dimensione putativa della scriminante. Talvolta il dovere di scrupolosa verifica viene ascritto indifferentemente al profilo effettuale e putativo della stessa (23); altre volte compare in alternativa alla pura e semplice verità della notizia, quale requisito obiettivo della causa di giustificazione, il fatto che questa sia stata ‘‘almeno seriamente accertata’’ (24). Una consapevolezza più precisa del ruolo rivestito dalla corretta utilizzazione delle fonti d’informazione all’interno della scriminante del diritto di cronaca si rinviene nella dottrina d’oltralpe. Qui l’affrancamento della questione dai presupposti di rilevanza putativa della causa di giustificazione è il frutto più proficuo dell’ascrizione della Wahrnehmung berechtiger Interessen — che costituisce una sorta di equivalente comparatistico codificato dell’esercizio del diritto di cronaca (25) — ad una particolare categoria di scriminanti, cosiddette ‘‘a rischio consentito’’. La peculiarità di tali cause di liceità risiede nel fatto che la condotta che soddisfa l’interesse contrapposto all’oggetto specifico della tutela penale è legittimamente realizzabile anche in condizioni di obiettiva incertezza circa l’attualità del conflitto di beni; in tal modo l’ordinamento giuridico accetta il (22)
Cfr. BONANNO, Diffamazione, cit., p. 275; MANNA, Diritto di cronaca, cit., p.
779. (23) Cfr., per tutte, Cass. 13 maggio 1987, cit. (24) Cfr., tra le altre, Cass. 15 ottobre 1987, in Cass. pen., 1989, p. 989 s.; id. 23 aprile 1986, ivi, 1988, p. 276; id. 16 giugno 1981, ivi, 1983, p. 1094. (25) Il § 193 StGB, intitolato alla Salvaguardia d’interessi giuridicamente riconosciuti (v. HERDEGEN, in Strafgesetzbuch. Leipziger Kommentar, V, 10a ed., 1989; LENCKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch. Kommentar, 24a ed., 1991; RUDOLPHI, in RUDOLa PHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, II, 5 ed., 1994), contiene in realtà una serie di scriminanti speciali in materia di delitti contro l’onore, integrate dal richiamo finale a ‘‘casi analoghi’’, variamente riferibili alle più generali categorie dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere: la cronaca giornalistica non è espressamente richiamata, ma viene unanimemente riconosciuta come tra le più significative ipotesi concrete annoverabili tra gli interessi giuridicamente protetti. Il § 193 StGB individua quale limite dell’efficacia scriminante delle ipotesi in esso previste esclusivamente una sorta di ‘‘eccesso’’ relativo alla forma ed alle circostanze della manifestazione di pensiero; ma non deve sorprendere l’assenza di riferimenti alla verità del fatto riportato, dal momento che la fattispecie della diffamazione (§ 186) già di per sé dà ingresso ad un’illimitata facoltà di provare la verità dell’addebito, che si configura dunque nella sostanza come una sorta di requisito negativo dello stesso fatto tipico (più esattamente, la mancata prova della verità del fatto figura nella fattispecie di diffamazione di cui al § 186 StGB come condizione obiettiva di punibilità).
— 781 — rischio che il bene tutelato dalla norma incriminatrice risulti sacrificato pur nell’assenza, apprezzabile solo a posteriori, di una reale esigenza di protezione dell’interesse antagonista (26). Partendo da questa caratterizzazione di base, la dottrina d’oltralpe si divide poi a proposito della precisa configurazione strutturale delle cause di giustificazione a rischio consentito, con particolare riferimento ai requisiti della fattispecie scriminante destinati a fissare i presupposti di liceità della condotta lesiva del bene protetto nella suddetta situazione d’incertezza. Secondo un primo orientamento il perno di tali scriminanti sarebbe costituito dal dovere di rigorosa verifica da parte dell’agente della sussistenza dell’interesse antagonista al bene tutelato dalla norma incriminatrice; si tratterebbe di un elemento soggettivo che concorrerebbe a costituire la struttura dell’esimente in aggiunta agli altri presupposti obiettivi (27). Secondo altra impostazione non sarebbe necessario costruire un obbligo di scrupolosa verifica, come distinto (e decisivo) requisito della scriminante, per soddisfare l’esigenza politico-criminale sottesa all’idea del rischio consentito. Premesso che analoga problematica ricorre a ben vedere in tutte le cause di liceità incentrate su di elementi ‘‘incerti’’, sarebbe sufficiente dare ingresso ad una valutazione ex ante per estendere l’efficacia scriminante — già sul piano di effettività e senza dunque invadere la dimensione putativa — a casi in cui il requisito in questione possa rivelarsi a posteriori carente. Il margine di tale estensione risulterà a sua volta tanto più ampio, quanto più vicino alla condizione dell’agente concreto sarà collocato il parametro di prognosi postuma prescelto dall’interprete: se si assume il punto di vista individuale dell’agente, ogni valutazione erronea del sostrato di fatto della scriminante gli gioverà alla stregua della dimensione reale della medesima; se l’interprete valorizza di contro il punto di vista dell’autore provvisto della migliore scienza, l’eventuale er(26) V. per tutti JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 4a ed., 1988, p. 360 s.; v. altresì, con talune variazioni che lasciano trasparire una minore nettezza di connotati, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5a ed., 1996, p. 400 s. Riferimenti puntuali a tale categoria si rinvengono da noi nell’attenta ricognizione di CAVALIERE, Riflessioni dommatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 1498 ss. Per talune riflessioni più generali sui rapporti tra scriminanti e rischio consentito, volte ad escludere che la seconda categoria possa atteggiarsi a fondamento generale della giustificazione e proporsi addirittura come fonte extralegale di essa, v. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, 1988, p. 11 e 133 ss. (27) V., anche per ulteriori riferimenti, JESCHECK, Lehrbuch, cit., p. 296 s.; JESCHECKWEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 330 s.
— 782 — rore da parte dell’agente concreto dovrà essere ascritto il più delle volte alla dimensione putativa e restare soggetto alla relativa disciplina (28). Come è agevole osservare, entrambe le costruzioni sopra riassunte si prestano ad accogliere e valorizzare le indicazioni fornite dalla nostra giurisprudenza a proposito dell’esercizio del diritto di cronaca. L’onere di coscienziosa verifica dell’attendibilità delle fonti d’informazione, se inteso come requisito di struttura, sia pure soggettivo, della scriminante, consente di svincolare la questione risultata falsa della notizia dall’eventuale rilevanza putativa della causa di liceità: una volta adempiuto l’obbligo in parola da parte del giornalista, non è che sia stato integrato un discutibile presupposto per l’applicazione dell’art. 59, comma quarto, c.p.; piuttosto ricorre la scriminante dell’esercizio del diritto già nella sua dimensione reale ed è destituito d’importanza, al limite, lo stesso convincimento soggettivo dell’autore circa la verità o meno del fatto riportato. Un margine di autentica rilevanza putativa della scriminante così strutturata può configurarsi solo ove l’agente, che in effetti ha valorizzato una fonte informativa del tutto inattendibile, sia invece convinto per errore di fatto di avere adempiuto il suo dovere professionale, in quanto, ad esempio, abbia scambiato l’intestazione del telefax pervenutogli con quella di un’agenzia di stampa di sicura affidabilità. Il distinto orientamento della dottrina tedesca, che pone l’accento sui parametri obiettivi di accertamento ex ante della verità della notizia e rifiuta di dare ingresso nella struttura della scriminante al requisito soggettivo del dovere di verifica (29), conduce a sua volta ad esiti analoghi: se la prognosi postuma di verità risulta favorevole, l’autore della pubblicazione beneficierà tout court della scriminante del diritto di cronaca, indipendentemente dalla sua opinione personale a riguardo. Per altro verso, la dimensione putativa della causa di liceità sarà sempre invocabile nel caso in cui l’autore della pubblicazione abbia erroneamente ravvisato quei presupposti di verosimiglianza che, se realmente esistenti, avrebbero legittimato una prognosi di verità della notizia (30). Altrettanto impeccabile è il risultato cui concordemente conducono le due distinte costruzioni a proposito della punibilità dell’autore della pubblicazione che pretendesse di essere giustificato per il semplice fatto di aver comunque ritenuto vera la notizia, al di fuori di ogni verifica ovvero (28) ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil, I, 2a ed., 1994, p. 514 ss. L’esclusione di una Informationspflicht come requisito scriminante soggettivo è riaffermata in relazione alla Wahrnehmung berechtiger Interessen da RUDOLPHI, op. cit., Rdn. 1, 24 e 28: l’A. sostiene che elementi di rischio consentito riguardano eventualmente la valutazione ex ante dei presupposti del § 193, e ne trae la conseguenza che la scriminante esula solo in quanto l’infondatezza della notizia sia stata obiettivamente riconoscibile. (29) ROXIN, op. cit., p. 695 s. (30) ROXIN, lc. ult. cit.
— 783 — di una consapevolezza, sia pure erronea, di un contesto di verosimiglianza. In questo caso l’autore non si rappresenterebbe, erroneamente, la fattispecie scriminante, ma verserebbe in un vero e proprio errore (indiretto) sul divieto, dal momento che attribuirebbe arbitrariamente alla norma scriminante una consistenza diversa da quella riconosciuta dall’ordinamento giuridico (31). È tuttavia opportuno approfondire criticamente le ragioni dell’alternativa profilatasi nella dottrina d’oltralpe nella configurazione delle scriminanti ‘‘a rischio consentito’’: se cioè vada in esse ravvisato un distinto requisito soggettivo in termini di dovere di controllo o sia sufficiente sottoporre gli ordinari requisiti oggettivi ad una valutazione prognostica piuttosto che di effettività. Quest’esame è particolarmente utile in vista della formulazione di proposte de lege ferenda, dato che nell’‘‘agenda’’ dei più recenti lavori di riforma della nostra legislazione penale ha trovato posto anche la codificazione di una scriminante corrispondente alla Wahrnehmung berechtiger Interessen (32). L’inserimento del dovere di meticolosa verifica nella struttura della scriminante cosiddetta a rischio consentito, quale autonomo requisito soggettivo, va incontro presso parte della dottrina tedesca alla seguente obiezione di fondo: colui il quale non abbia accuratamente controllato la sussistenza degli elementi obiettivi della scriminante, e dunque non ne abbia realizzato per intero la fattispecie, dovrebbe paradossalmente rispondere di reato doloso anche nel caso in cui tali requisiti obiettivi siano realmente presenti, con conseguente assenza del disvalore di evento nel fatto commesso (33). Per restare all’ipotesi dell’esercizio del diritto di cronaca, il giornalista che abbia pubblicato con avventatezza una notizia magari inverosimile, ma che risulti ex post assolutamente corrispondente al vero, dovrebbe rispondere di diffamazione nonostante che sia presente il presupposto essenziale di liceità della cronaca, dato appunto dalla verità del fatto riferito. L’obiezione è certo calzante. Va tuttavia osservato che essa prova troppo, poiché può essere mossa altrettanto agevolmente alla diversa ricostruzione delle scriminanti in esame operata da chi tale obiezione propone. L’inconveniente denunciato permane invero anche ove si voglia sostituire il requisito soggettivo della Informationspflicht con la sottoposi(31) Cfr., rispettivamente, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 466 s., e ROXIN, Strafrecht, cit., p. 695 s. (32) L’art. 80, comma terzo dello schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, predisposto da una commissione ministeriale nel 1992 (in Documenti giustizia, 1992, p. 305 ss.), prescrive che debba ritenersi ‘‘giustificata l’offesa dell’altrui onore o decoro, quando corrisponda ad un interesse sociale prevalente sull’interesse offeso, sia espressa con modalità di per sé non offensive e, ove si riferisca ad un fatto, questo corrisponda a verità’’. (33) ROXIN, Strafrecht, cit., p. 514 s.
— 784 — zione a giudizio di prognosi postuma dell’estremo obiettivo della verità del fatto: se al momento della pubblicazione la notizia appare inverosimile alla stregua del parametro di giudizio prognostico adottato dall’interprete, con la conseguenza della mancata integrazione del modello tipico della scriminante, il giornalista dovrebbe essere ritenuto responsabile di diffamazione pur se il fatto risulterà in definitiva corrispondente al vero. La verità è che sarebbe in ogni caso assurdo escludere dall’economia dell’esercizio del diritto di cronaca, come di qualsiasi altra scriminante cosiddetta a rischio consentito ovvero fondata su di elementi incerti, il determinante rilievo dell’esistenza effettiva del requisito scriminante, comunque ed in qualsiasi momento accertata: ritenere sempre decisivo l’adempimento o meno dell’obbligo di verifica o, per altro verso, affidarsi ad un esclusivo giudizio di prognosi postuma non temperato da valutazioni ex post, significherebbe rinnegare l’attualità e l’effettività del bilanciamento d’interessi antagonisti come fondamento primo ed essenziale dell’effetto giustificante. Ciò è quanto del resto intuisce con felice sensibilità la nostra giurisprudenza, quando accenna talora ad equiparare nella sostanza la verosimiglianza alla verità della notizia, quale fondamento del diritto di cronaca, ben guardandosi però dal sostituire integralmente l’una all’altra (34). Se ci si sposta ora in prospettiva de lege ferenda, il riferimento integrato a verità e/o verosimiglianza della notizia, nella struttura di un diritto di cronaca finalmente codificato, sembrerebbe costituire la più soddisfacente soluzione della questione problematica sollevata da una parte della dottrina tedesca a proposito del rischio che il cronista possa essere punito anche quando pubblica (avventatamente) una notizia vera. La formula della verità o verosimiglianza tradurrebbe in linguaggio piano e tecnicamente plausibile l’esigenza politico-legislativa di conservare il rilievo principale dell’effettività del requisito scriminante e di dare ingresso solo in via sussidiaria al giudizio ex ante sull’esistenza del medesimo. Non altrettanto vantaggiosa potrebbe apparire invece la codificazione dell’altro binomio, pure ravvisabile in diverse pronunce della Corte di cassazione, della notizia ‘‘vera o almeno seriamente accertata’’ (35): qui l’accostamento alternativo del requisito soggettivo del dovere di controllo al dato oggettivo della verità potrebbe indurre più dubbi di quanti non sia destinato a superarne. (34) Se è indubbiamente prevalente in giurisprudenza l’esplicita esclusione della ‘‘veridicità’’ o della ‘‘verosimiglianza’’ quali valori scriminanti equipollenti alla ‘‘verità oggettiva’’, tuttavia si ammette talvolta che ‘‘bisogna avere riguardo alla verità, quale risulta al momento in cui la notizia viene diffusa, e non già a quanto venga successivamente accertato’’ (Cass. 13 maggio 1987, cit.) ovvero che il requisito in parola deve essere accertato ‘‘correlativamente alla fonte e nell’attualità del preciso riferimento storico dell’epoca della pubblicazione’’ (Cass. 23 gennaio 1990, in Cass. pen., 1991, p. 1559). (35) Cfr. supra, nt. 24.
— 785 — Eppure altre considerazioni raccomandano la soluzione contraria, di inserire cioè nella struttura della scriminante del diritto di cronaca un espresso richiamo dell’obbligo in capo al giornalista di un uso attento e responsabile delle fonti informative, con esclusione addirittura di concorrenti riferimenti al dato effettuale della verità della notizia. Si tratta di riflessioni particolarmente mirate su questa singola scriminante, che non intendono pregiudicare una presa di posizione in termini generali sull’alternativa avanzata dalla dottrina tedesca circa l’opportunità di costruire in termini oggettivi o soggettivi le cause di giustificazione ‘‘a rischio consentito’’. È essenzialmente un profilo per così dire ‘‘deontologico’’ a consigliare una soluzione in tal senso. Sarebbe davvero disdicevole che il legislatore, al momento di codificare finalmente una situazione giuridica soggettiva così rilevante quale il diritto di cronaca, rinunciasse ad esprimerne il limite coessenziale della verità in termini di dovere di accertamento in capo al titolare e si accontentasse di un incerto parametro di valutazione ex ante di cui sia destinatario in definitiva il giudice. È proprio la superiore dignità di questo diritto di rango costituzionale ad esigere che i relativi destinatari avvertano il monito insito nella configurazione di un onere accessorio inteso ad evitare abusi ed offese ingiustificate all’altrui reputazione. Il diritto di cronaca deve potersi percepire, innanzitutto da parte dei destinatari e quindi dall’intera comunità, come una situazione giuridica complessa, in cui la facoltà di diffondere notizie eventualmente lesive dell’altrui reputazione ha bisogno di coniugarsi con un severo richiamo al senso di responsabilità individuale in ordine alla verifica della loro fondatezza. Senza dire che, anche al di fuori dell’ipotesi di conflitto con la tutela dell’onore, un diritto di cronaca concepito correttamente nella sua autentica portata di norma extrapenale — come tale rivolta innanzitutto a dettare una precisa disciplina di settore, della quale l’effetto scriminante rappresenta il riflesso in ambito propriamente penale (36) — non può in alcun caso prescindere da irrinunciabili presupposti di ‘‘professionalità’’ della cronaca, che si radicano essenzialmente in un corretto uso delle fonti d’informazione (37). Come coniugare allora le due esigenze, che sembrano incompatibili, di assicurare comunque efficacia scriminante alla notizia vera (anche se pubblicata incautamente) e di imperniare senza eccezioni l’esercizio del (36) Su questo essenziale connotato delle cause di giustificazione, certamente ancora più marcato ove si tratti dell’esercizio del diritto o dell’adempimento del dovere, v., per tutti, ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art. 50/5. (37) Conviene richiamare in proposito l’art. 2, comma primo, l. 3 febbraio 1963 n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista, che sancisce l’obbligo inderogabile del ‘‘rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede’’.
— 786 — diritto di cronaca sull’adempimento dell’onere di coscienziosa e ‘‘professionale’’ verifica della affidabilità delle fonti? La soluzione potrebbe conseguirsi de jure condendo attraverso un meccanismo giustificativo per così dire complesso, che integri l’esercizio del diritto di cronaca, quando venga a collidere con la tutela dell’onore, con un ampliamento delle ipotesi di exceptio veritatis (38). Fermo cioè restando che il mancato adempimento del dovere di verifica rende di per sé inapplicabile la scriminante del diritto di cronaca, anche ove la notizia risultasse per avventura vera, sarebbe sufficiente prevedere una nuova e distinta fattispecie di prova liberatoria fondata sulla verità, comunque accertata, della notizia pubblicata: il fondamentale interesse alla conoscenza da parte del pubblico di notizie (socialmente rilevanti e) corrispondenti a verità verrebbe in questo caso ad essere salvaguardato non già per il tramite del diritto di cronaca — poiché si colloca certamente al di fuori dell’esercizio di tale diritto chi pubblica incautamente qualsiasi notizia gli sia comunque pervenuta — ma attraverso il riferimento ad un più ampio profilo scriminante della exceptio veritatis. Una volta verificata la fecondità, anche in prospettiva di compiuta regolamentazione legislativa del diritto di cronaca, dell’ordine di idee sotteso alle scriminanti cosiddette a rischio consentito (39), conviene procedere ad una valutazione critica di sintesi dell’effettiva portata politico-criminale di questa categoria. La formula lessicale utilizzata per individuare queste particolari cause di liceità suggerisce l’idea che attraverso il meccanismo scriminante in parola possa risultare sacrificato più del dovuto il bene protetto dalla norma incriminatrice. Tale impressione è destinata a ben guardare a ribaltarsi, nel senso che l’accollo del rischio dell’inesistenza della situazione di conflitto fra contrapposti interessi sul bene protetto in sede penale ne determina al contrario una tutela complessiva più penetrante di quella realizzabile attraverso la previsione del requisito scriminante in termini di assoluta e imprescindibile effettività. Per convincersi di ciò occorre esaminare distintamente i casi in cui l’assenza dell’elemento giustificante avrebbe potuto essere o meno accertata al momento della condotta. Nell’ipotesi di mancata attualità del conflitto, che pure sarebbe stata (38) Sui rapporti tra esercizio del diritto di cronaca ed exceptio veritatis v., per tutti, MANTOVANI, Esercizio del diritto, cit., p. 671. (39) Va dunque disapprovata la posizione espressa sul punto nello schema di delega legislativa (cfr. supra, nt. 32): questa, insistendo sul requisito della verità tout court del fatto, senza accennare né ad un dovere di controllo né al valore sussidiario della verosimiglianza, non dimostra sufficiente consapevolezza della necessità d’integrare adeguatamente il paradigma normativo della scriminante allo scopo di prevenire le oscillazioni ed i dubbi dell’interprete circa il confine tra dimensione effettiva e putativa della stessa.
— 787 — accertabile attraverso l’adempimento del dovere di verifica ovvero in applicazione di determinati parametri di giudizio ex ante, la costruzione della causa di liceità nei termini del ‘‘rischio consentito’’ permette di escludere la giustificazione, e quindi di applicare la pena prevista per il corrispondente delitto doloso, allo stesso modo che se si optasse per l’inderogabile necessità di reale sussistenza del requisito scriminante problematico. Né potrebbe l’agente invocare in questo caso la dimensione putativa della causa di liceità: per quanto sopra detto (40) tale pretesa prospetterebbe in realtà un errore (indiretto) sul precetto, poiché l’autore addurrebbe in sostanza di avere misconosciuto l’essenziale profilo normativo del dovere soggettivo di verifica o, rispettivamente, della necessaria ‘‘visibilità’’ ex ante e secondo parametri oggettivi del requisito in questione. Ove invece, nella stessa eventualità di assenza del requisito scriminante che avrebbe potuto essere accertata al momento della condotta, la struttura della causa di liceità s’incentrasse tout court sull’esistenza in punto di fatto del medesimo requisito, occorrerebbe valorizzare la dimensione putativa. Senonché a tale livello, e sulla base della disciplina prevista dall’art. 59, ultimo comma, c.p., potrebbe al più applicarsi la pena prevista per l’eventuale fattispecie colposa, trattandosi in ipotesi di un errore evitabile; mentre, in mancanza della previsione legislativa del relativo titolo di responsabilità, non potrebbe darsi luogo ad alcuna incriminazione. Nell’uno e nell’altro caso, insomma, la tutela dell’interesse protetto in sede penale risulterebbe molto più carente di quanto non avviene attraverso il ricorso alla tipologia scriminante del rischio consentito. Anche con riferimento all’ipotesi complementare, di assenza di conflitto d’interessi non verificabile al momento del fatto neppure da parte dell’osservatore più avveduto, l’opzione in favore del ‘‘rischio consentito’’ non comporta un particolare sacrificio del bene protetto in sede penale. In questo caso la mancata integrazione del reato dipenderà dall’applicazione della scriminante nella sua dimensione effettuale e quindi sarà apprezzabile già a livello di difetto di antigiuridicità; ove invece la causa di liceità venisse strutturata in chiave di rigoroso accertamento ex post dell’elemento ‘‘incerto’’, il difetto di responsabilità penale si profilerebbe solo al successivo livello della mancanza di colpevolezza ex art. 59, ultimo comma, c.p., posto che anche la giurisprudenza più ‘‘rigorista’’ non potrebbe non riconoscere in tale ipotesi la piena ‘‘ragionevolezza’’ dell’errore. Questa differenza, mentre non comporta un intollerabile divario in termini di tutela del bene oggetto del reato, sembra per altro verso conferire una più soddisfacente coloritura politico-criminale alla soluzione del conflitto. Appare cioè più confacente che quando ricorra una situazione (40)
Ma vedi più ampiamente ed in generale infra, n. 4.
— 788 — d’insuperabile incertezza circa l’effettiva presenza dei requisiti di determinate scriminanti — che più di altre scontano il difetto di sicura evidenza dell’antagonismo degli interessi in gioco — l’ordinamento giuridico proceda ad una chiara ed incontrovertibile scelta di ‘‘liceità obiettiva’’ del comportamento offensivo del bene giuridico posto in essere dall’agente, evitando di considerare il fatto come non costitutivo d’illecito penale solamente per mancanza dell’elemento soggettivo. 3. Lo studioso che abbia intrapreso l’esame dell’esperienza giurisprudenziale in tema di scriminanti putative, allo scopo di verificare l’effettiva consistenza di discrasie tra dato normativo e prassi applicativa, s’imbatte, una volta superato il frangente dell’esercizio del diritto di cronaca, in ulteriori situazioni per certi aspetti ancora più significative. Degno di considerazione, in tale prospettiva, appare l’atteggiamento della giurisprudenza relativo alla supposizione erronea della prestazione del consenso e dell’ingiustizia del fatto subito, rispettivamente, nel consenso dell’avente diritto e nella provocazione di delitti contro l’onore (41). A proposito dell’una ipotesi è ricorrente l’asserto che l’art. 59, comma quarto, c.p. trova applicazione solo se l’errore si radichi in una persuasione di agire con l’approvazione del titolare del diritto che possa considerarsi ragionevole sulla base delle circostanze di fatto (42). Con riferimento alla seconda ipotesi si ribadiscono i requisiti di plausibilità, ragionevolezza, apprezzabilità logica della supposizione, che debbono valere in particolare ad escludere la rilevanza di un errore di valutazione dell’ingiustizia del fatto altrui che sia pretestuoso o capriccioso (43). Vien subito fatto di domandarsi se in relazione a questo orientamento giurisprudenziale sia riproponibile il modello d’esame critico che ha prodotto utili risultati, nel paragrafo precedente, a proposito dell’esercizio putativo del diritto di cronaca. È cioè possibile superare la tentazione di liquidare immediatamente la posizione in esame come inammissibile interpretazione distorsiva dell’art. 59, comma quarto, c.p., per avviarne un recupero in termini di diversa lettura delle scriminanti in questione, già (41) Il riferimento alla provocazione ex art. 599 c.p. vale in questa sede per chi ravvisi in essa una causa di giustificazione speciale, sia pure con elementi soggettivi (per tutti, GROSSO, L’errore, cit., p. 141 s.). Ove si ritenga più convincente, per contro, la qualificazione della scriminante in termini di scusante (cfr., tra gli altri, SIRACUSANO P., voce Ingiuria, cit., p. 46), il discorso relativo all’erronea supposizione dell’ingiustizia del fatto altrui andrebbe riproposto nel quadro di una più ampia indagine che coinvolga la dimensione putativa delle cause d’esclusione della colpevolezza (cfr. supra, nt. 4). (42) Cass. 20 aprile 1990, in Cass. pen., 1991, p. 1963; id. 7 dicembre 1977, in Riv. pen., 1978, p. 657; Trib. Monza, 15 ottobre 1989, in Cass. pen., 1990, p. 1211. Aderisce pienamente a questo orientamento RIZ, Il consenso dell’avente diritto, 1979, p. 213 s. (43) Cfr., tra le altre, Cass. 10 novembre 1986, in Riv. pen., 1987, p. 127; id. 13 dicembre 1982, in Cass. pen., 1984, p. 539; id. 17 ottobre 1979, in Riv. pen., 1980, p. 257.
— 789 — nella loro dimensione effettuale, collegata con una valutazione ex ante di taluno dei rispettivi estremi? La risposta non sembra questa volta poter essere affermativa. Se consideriamo in particolare la scriminante del consenso dell’avente diritto, ci troviamo di fronte ad un requisito di fattispecie, quale appunto la prestazione del consenso, che nella sua immediata valenza descrittiva è assai distante dall’esprimere l’intrinseca problematicità d’accertamento che caratterizza di contro la verità del fatto pubblicato e che ha dato l’abbrivo, nella dottrina d’oltralpe, alle riflessioni sulle scriminanti cosiddette a rischio consentito. Non siamo qui in presenza di quella potenziale divaricazione tra valutazione ex ante ed ex post del requisito scriminante che, quando si tratta di elementi di per sé ‘‘incerti’’, suggerisce al legislatore il rimedio di allargare la dimensione reale della scriminante, a scapito della dimensione putativa, attraverso l’introduzione o di un dovere di controllo o di un giudizio prognostico basato sulle sole circostanze conoscibili al momento della condotta. Ammettere anche questa volta che la ‘‘ragionevolezza’’ o ‘‘plausibilità’’ della supposizione erronea del consenso, di cui parla la giurisprudenza, comporti non già l’introduzione di preliminari criteri selettivi di rilevanza dell’errore — estranei alla lettera dell’art. 59, comma quarto, c.p. — ma il riconoscimento di una dimensione (reale) di tipo prognostico dell’elemento scriminante, come tale non invalidabile da un eventuale accertamento negativo ex post, significherebbe promuovere una indiscriminata e pericolosa generalizzazione delle esigenze sottese al meccanismo scriminante del ‘‘rischio consentito’’: sarebbe come affermare che qualsiasi requisito di qualsivoglia fattispecie di liceità debba sottostare al processo di relativizzazione necessariamente insito nell’adozione di un metro di valutazione ex ante. In tal caso, sarebbe pienamente condivisibile la preoccupazione di chi vede dipendere la consistenza del conflitto di beni che fonda l’esclusione dell’antigiuridicità dagli ‘‘occhi erranti di qualche homunculus ex ante’’ (44). Ma vi è di più. Una tendenziale trasfigurazione al livello del ‘‘rischio consentito’’ dell’insieme delle cause di giustificazione comporterebbe la generalizzazione dell’inconveniente già denunciato a proposito della configurazione in tali termini dell’esercizio del diritto di cronaca in relazione alla verità della notizia: la difficoltà cioè di coniugare la valutazione ex ante del requisito di liceità con l’imprescindibile necessità di ribadirne il rilievo quando la sussistenza del medesimo, non ‘‘riconoscibile’’ al momento della condotta, venga comunque ad essere accertata ex post (45). (44) Così MARINUCCI, voce Cause di giustificazione, cit., p. 137. (45) Per la necessità di rendere compatibile la struttura ‘‘a rischio consentito’’ con l’irrinunciabile rilevanza dell’effettiva esistenza del requisito scriminante, verificata a posteriori, cfr., con specifico riguardo al consenso presumibile, CAVALIERE, Riflessioni, cit., p. 1507 ss.
— 790 — Occorrerebbe allora in definitiva ‘‘sdoppiare’’ sul piano legislativo ciascuna causa di giustificazione, nel senso d’attribuire esplicitamente alla valutazione ex ante un ruolo sussidiario rispetto ad una primaria valutazione ex post; ad ogni requisito scriminante verrebbe così ad accompagnarsi costantamente, come una sorta di inseparabile ‘‘ombra’’, una considerazione integrativa di tipo prognostico: il che appare francamente eccessivo. La questione si porrebbe in termini diversi, con riferimento al consenso dell’avente diritto, se i casi discussi dalla giurisprudenza come fattispecie di consenso putativo, dovessero ad un più attento esame rivelarsi casi di consenso presunto (46). Come è noto, esiste una netta differenza tra le due situazioni. Nella prima, l’agente è erroneamente convinto che la persona legittimata a disporre del diritto abbia manifestato il consenso all’offesa di esso. Nella seconda, l’autore del fatto incriminato è ben consapevole che manca qualsiasi manifestazione d’approvazione, poiché la persona legittimata o non è in condizione di poterla esprimere o è addirittura all’oscuro della situazione in cui sta per maturare il pregiudizio del diritto; eppure il contesto di circostanze obiettive lascia ragionevolmente presumere che il consenso sarebbe stato prestato dal soggetto che ne avesse avuto la possibilità (47). In questa seconda eventualità avrebbe senso prospettare — de jure condendo, poiché allo stato della legislazione penale appare problematica la configurabilità di una corrispondente scriminante (48) — un’autonoma causa di liceità, incentrata sulla diagnosi di corrispondenza del fatto offensivo alla volontà sia pure potenziale (o comunque agli effettivi interessi) del titolare del bene protetto in sede penale; diagnosi fondata a sua volta su di un contesto obiettivo di circostanze conoscibile da parte dell’osservatore avveduto (49). (46) Ad una lettera critica, ad esempio, della motivazione di Cass. 7 dicembre 1977, cit., la fattispecie dedotta in giudizio risulta essere di consenso presumibile piuttosto che di consenso putativo. Accenna alla confusione tra i due istituti, talora riscontrabile nella giurisprudenza, MANNA, Considerazioni in tema di consenso presunto. I: la struttura e l’efficacia della presunzione di consenso, in Giust. pen., 1984, II, c. 172 e nt. 14. (47) Per la distinzione tra le due forme di consenso cfr., tra gli altri, MARINI, voce Consenso dell’avente diritto, in Novissimo dig. it., app. II, 1981, p. 408; PEDRAZZI, voce Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir., IX, 1961, p. 151. (48) Si esprimono nel senso dell’ammissibilità di un’autonoma scriminante, con esclusione tuttavia dei casi in cui s’ipotizza un conflitto tra l’interesse del soggetto passivo e l’interesse dell’agente o di un terzo, RIZ, Il consenso, cit. p. 203 s.; ROMANO, Commentario, cit., Art. 50/42. Altri autori ritengono per contro che le situazioni descritte debbano trovare spiegazione dogmatica altrimenti, con riferimento alla mancanza di dolo o di lesione dell’interesse protetto ovvero in quanto rientranti in più generali cause di giustificazione quale lo stato di necessità: cfr. MARINI, voce Consenso, cit., p. 408; PEDRAZZI, voce Consenso, cit., p. 151 s. (49) È la via intrapresa dallo schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale già richiamato (supra, nt. 32). L’elaborato configura peraltro come
— 791 — Fatta questa precisazione, va detto che si profila comunque una terza via, sulla quale è possibile attribuire all’orientamento della giurisprudenza in tema di supposizione erronea degli ordinari requisiti esimenti una consistenza che non significhi né interpretazione deformante dell’art. 59, comma quarto, c.p., nella misura in cui si adotti un filtro selettivo di rilevanza dell’errore già ai fini dell’esclusione del dolo, né crescita a dismisura della valutazione ex ante dei medesimi requisiti nell’ambito della dimensione reale della scriminante. Più semplicemente, l’insistenza nel richiedere connotati di plausibilità e ragionevolezza dell’errore può essere letta come indicazione di criteri di corretto accertamento processuale dell’effettività dell’errore. Vale cioè in prospettiva speculare per l’errore quanto di solito s’insegna a proposito dell’accertamento del dolo: fenomeni di natura squisitamente ed esclusivamente psichica non possono essere oggetto di constatazione ‘‘diretta’’ da parte del giudice, il quale può solo indurne l’esistenza dal riscontro delle circostanze esteriori che, in base alla comune esperienza, ad essi di solito si accompagnano (50). La ‘‘ragionevole persuasione’’ fondata sul contesto obiettivo non va dunque intesa come qualificazione normativa del momento genetico dell’erronea rappresentazione insorta nell’agente, ma va piuttosto riferita ai processi di valutazione e d’accertamento da parte del giudice: solo in presenza dei corrispondenti presupposti — avverte in definitiva la giurisprudenza di legittimità — può dirsi correttamente conseguita la prova della ‘‘realtà psichica’’ dell’errore e ci si può cautelare dal rischio di consentire l’ingresso nella dinamica processuale a discolpe del tutto pretestuose da parte dell’imputato (51). 4. L’esame fin qui condotto degli orientamenti giurisprudenziali in tema di scriminanti putative ha consentito di appurare che l’apparente dicausa di liceità soltanto l’ipotesi di fatto commesso nell’interesse del titolare del diritto (‘‘verosimile utilità obiettiva del comportamento, al momento del fatto, per il titolare del bene’’), mentre ascrive alla nuova categoria delle cause soggettive di esclusione della responsabilità il fatto commesso nell’interesse proprio (sempreché ‘‘l’agente ragionevolmente confidi che il titolare del bene disponibile avrebbe consentito’’): a riguardo v. BOSCARELLI, Osservazioni, specie in tema di esimenti, su un recente ‘‘schema di delega legislativa’’ per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1993, p. 55 s. e 60 s. (50) Per un recente approfondimento dei rapporti tra massime d’esperienza ed accertamento del dolo v. EUSEBI, Il dolo come volontà, 1993, p. 107 ss. (51) A tale lettura sembrano in particolare prestarsi i rilievi del supremo collegio in ordine alla fattispecie concreta dedotta in giudizio in Cass. 20 aprile 1990, cit.: un infermiere, accusato di abusi sessuali nei confronti di una paziente, si discolpa adducendo di aver dedotto il consenso tacito alle sue iniziative dalla di lei mancata opposizione; la Corte, osservando come l’agente ‘‘non può confondere — in virtù delle sue conoscenze tecniche — lo stato di prostrazione fisica con il suddetto consenso tacito’’, lascia intendere di ritenere infondata l’esistenza stessa di una supposizione erronea, piuttosto che soltanto ‘‘irragionevole’’ la sua (effettiva) genesi nella mente dell’imputato.
— 792 — stacco dalla disciplina dell’art. 59, comma quarto, c.p. può essere spiegato e risolto in una duplice direzione. Da un lato, con riferimento a requisiti intrinsecamente problematici quali la verità del fatto o il presumibile consenso della persona offesa, è plausibile ravvisare nell’atteggiamento della giurisprudenza l’inconsapevole riflesso della raffinata elaborazione dottrinale delle cause di liceità ‘‘a rischio consentito’’. Dall’altro lato, e proprio in vista dei connaturali limiti di espansione di questo particolare meccanismo scriminante, le osservazioni della giurisprudenza possono essere lette in un’ottica di verifica sul piano probatorio, che non tocca i connotati sostanziali dell’errore. Senonché l’orientamento in parola è molto più diffuso di quanto lascino intravvedere le applicazioni prese finora in considerazione: esso investe per così dire il cuore delle cause di giustificazione nel momento in cui si esprime con la massima evidenza a proposito della legittima difesa e dello stato di necessità (52). Con riferimento alla legittima difesa putativa, è consolidata ed insistente l’asserzione che la persuasione erronea in capo al soggetto agente di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta debba risultare ‘‘ragionevole’’, ‘‘giustificata’’. Peraltro la giurisprudenza di legittimità si preoccupa di chiarire sotto quali presupposti è possibile riscontrare tali caratteri nell’atteggiamento soggettivo dell’autore: è necessaria l’esistenza di concreti elementi di fatto i quali, seppure non integranti pienamente i requisiti obiettivi della situazione di pericolo, siano almeno idonei a far sorgere una corrispondente rappresentazione (53). Questi riferimenti a precisi dati fattuali, che rendano in qualche modo plausibile l’errore in cui sia incorso l’agente, potrebbero essere interpretati da parte dello studioso ancora una volta dall’angolo visuale di un rigoroso accertamento probatorio, che bandisca dall’economia processuale discolpe pretestuose da parte dell’imputato (54). Senonché l’esame di ulteriori pronunce della Corte di cassazione rivela un atteggiamento più complesso ed interessante, inteso a proporre già sul piano dei presupposti di diritto sostantivo una configurazione unitaria della situazione di peri(52) Denuncia l’orientamento giurisprudenziale inteso a subordinare la rilevanza della supposizione erronea di legittima difesa al ‘‘criterio davvero singolare’’ della ragionevolezza dell’errore DE FRANCESCO G.V., Il ‘‘modello analitico’’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in questa Rivista, 1991, p. 109 ss. (53) Cfr., tra le altre, Cass. 25 gennaio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1216; id. 9 ottobre 1989, ivi, 1991, p. 63; id. 10 febbraio 1987, in Riv. pen., 1988, p. 745; id. 14 gennaio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 1173; id., Sez. I, 22 novembre 1982, Sottile. (54) Ad avviso di DE FRANCESCO G.V., Il ‘‘modello analitico’’, cit., p. 110, traspare dall’orientamento in parola ‘‘una preoccupazione processuale di semplificazione della prova, relativamente ai casi nei quali l’ipotesi della putatività non trovi altra conferma che nelle dichiarazioni dell’agente’’.
— 793 — colo, rispetto alla quale l’‘‘effettività’’ e la ‘‘putatività’’ appaiono come varianti di un medesimo fenomeno scriminante comunque radicato sul piano oggettivo, piuttosto che drastiche alternative nel senso dell’esclusione, rispettivamente, dell’antigiuridicità e della colpevolezza del fatto tipico. Significativa in tale prospettiva è la spiegazione del requisito d’attualità del pericolo, che viene talora svolta attraverso il riferimento ad un unitario sostrato di fatto, tale da creare per il soggetto che reagisce, alternativamente, ‘‘una situazione di pericolo incombente o una ragionevole apparenza di tale situazione e da fargli sorgere la necessità della difesa’’ (55). Non diversamente da quanto a suo luogo osservato circa i rapporti tra verità e verosimiglianza della notizia di cronaca (56), il pericolo ‘‘reale’’ e la sua ‘‘ragionevole apparenza’’ vengono presentati come forme di manifestazione pressoché fungibili di un più ampio requisito di fattispecie sostanzialmente unitario nella sua essenziale connotazione oggettiva: sembra cioè necessaria e sufficiente, ai fini dell’integrazione della causa di liceità, la presenza di un contesto fattuale idoneo a giustificare livelli di diagnosi del pericolo anche di diversa consistenza e da diverso angolo visuale, purché dotati di un grado minimo di plausibilità e di riscontri concreti. Una conferma evidente di tale orientamento giurisprudenziale si ritrova in una sentenza che arriva ad equiparare l’incertezza sulle circostanze di fatto giustificatrici di una ragionevole seppure erronea persuasione di versare nella necessità di difesa con il dubbio sull’esistenza stessa della fattispecie scriminante rilevante ex art. 530, comma terzo, c.p.p., con la conseguenza di pervenire già nella prima ipotesi all’assoluzione dell’imputato ai sensi di questa disposizione (57). È chiaro che qui la giurisprudenza considera la legittima difesa cosiddetta putativa come una variante per così dire minore della scriminante nella sua dimensione ‘‘effettiva’’, in quanto il pericolo risulta fondato su di una (non ottimale ma) non del tutto insoddisfacente base diagnostica: a voler assumere la scriminante putativa nella sua corretta accezione dogmatica di causa d’esclusione del dolo o comunque della colpevolezza, avrebbe invero dovuto richiamarsi non il comma terzo, ma il secondo dell’art. 530 c.p.p., sotto il profilo dell’insufficienza della prova che il fatto costituisca reato. (55) Cass. 28 gennaio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1803 s. V. anche Cass. 16 marzo 1987, ivi, 1989, p. 367; ancora più esplicita Cass., Sez. I, 26 ottobre 1983, Todisco: ‘‘Ai fini della legittima difesa putativa occorre che l’errore sulla situazione di pericolo trovi giustificazione in una situazione di fatto idonea a determinare l’insorgenza dell’esigenza di difesa’’. (56) V. supra, n. 2. (57) Cass. 15 novembre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 2743. Per una più recente applicazione dell’art. 530, comma terzo, c.p.p. ad un caso di dubbia consistenza della scriminante del diritto di cronaca, v. Cass. 25 settembre 1995, ivi, 1996, p. 2199 ss., con nota critica di POLVANI.
— 794 — La verità è che anche a proposito della legittima difesa e dello stato di necessità (58) il travaglio della giurisprudenza sui presupposti di rilevanza del ‘‘putativo’’ (59) nasconde l’urgenza di ben più ampie e complesse problematiche attinenti già alla configurazione dei requisiti strutturali della fattispecie scriminante, ed in particolare dell’estremo del pericolo. Affermando l’esigenza di un radicamento obiettivo della persuasione (cosiddetta erronea) del soggetto agente — e l’equivalenza della medesima su questa base alla ‘‘reale’’ situazione di pericolo — la giurisprudenza prende in realtà inconsapevolmente posizione sulla questione centrale della base e del parametro del giudizio prognostico in cui si risolve il requisito del pericolo, avallando sostanzialmente una considerevole delimitazione del relativo canone di valutazione in vista della situazione osservabile al momento del fatto tipico. Ciò che distingue, continuando ad usare il lessico giurisprudenziale, il ‘‘pericolo effettivo’’ dalla ‘‘fondata convinzione di essere sul punto di subire un attacco e di doversi difendere’’ (60) sembra insomma essere più semplicemente il punto di vista ex post o ex ante assunto nella valutazione di tale elemento o addirittura i diversi parametri di giudizio di una prospettiva comunque ex ante: si tratta cioè delle varie opzioni proponibili ai fini della configurazione, in una dimensione ‘‘reale’’ prima che ‘‘putativa’’, del pericolo come requisito espresso di fattispecie scriminante. Giunti a questo punto è necessario spostarsi sul piano dell’elaborazione dottrinale, laddove il problema della consistenza degli elementi scriminanti di natura prognostica risulta adeguatamente sviluppato ed illustrato nelle sue possibili soluzioni. Tanto nella dottrina italiana quanto in quella tedesca è innanzitutto fuori discussione che il pericolo, come ogni altro elemento scriminante di tipo ‘‘prognostico’’ o altrimenti detto ‘‘prospettico’’ ovvero ‘‘futuro’’ (61), risolvendosi nella previsione di un evento successivo, comporta di necessità un giudizio ex ante, che astrae cioè dagli accadimenti posteriori e assume come propria base esclusivamente le circostanze esistenti al mo(58) L’orientamento espresso dalla giurisprudenza a proposito della legittima difesa putativa trova puntuale riscontro in tema di stato di necessità putativo: cfr., tra le altre, Cass. 19 maggio 1991, in Cass. pen., 1991, p. 437; id. 8 maggio 1984, in Giust. pen., 1984, II, c. 714. (59) Tale disagio acquista evidenza particolare quando si tratta di definire il ristretto margine di autonoma rilevanza della legittima difesa putativa colposa, che sarebbe tale quando la convinzione erronea risulta obiettivamente ‘‘né giustificata né del tutto ingiustificata’’: così Cass., Sez. I, 8 giugno 1971, Billitteri. (60) Così in particolare Cass., Sez. I, 16 marzo 1972, D’Antonio. (61) È la terminologia, a mio avviso progressivamente meno appropriata, utilizzata, per qualificare elementi scriminanti quali il pericolo, rispettivamente da MARINUCCI, Cause, cit., p. 137; JAKOBS, Strafrecht. Allgemeiner Teil, 2a ed., 1991, p. 353 ss.; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 516 ss.
— 795 — mento in cui è stato posto in essere il fatto tipico (62). L’alternativa accennata tra valutazione ex post o ex ante riguarda dunque più propriamente l’eventualità che siano prese in considerazione tutte le circostanze esistenti in quel momento, anche se venute in evidenza successivamente, o soltanto quelle conoscibili dal punto di vista dell’autore del fatto ovvero di un agente modello, variamente connotato, collocato idealmente al posto del primo (63). La soluzione tradizionale della questione — e tuttora prevalente almeno in seno alla dottrina d’oltralpe — si muove nella seconda delle direzioni indicate. Viene cioè ribadito che il pericolo come requisito scriminante si configura alla stregua del modello di prognosi postuma già utilmente sperimentato e consolidato in rapporto tanto al pericolo come requisito espresso di fattispecie incriminatrice quanto alle similari se non coincidenti categorie dell’idoneità degli atti nel tentativo, dell’adeguatezza della condotta nel rapporto di causalità e della stessa prevedibilità dell’evento nei reati colposi (64): la base del giudizio prognostico è cioè costituita dalle circostanze conoscibili al momento dell’azione da parte di un osservatore avveduto integrate da quelle conosciute in aggiunta dall’agente in virtù di un particolare patrimonio di esperienze (65). (62) Per tutti, MARINUCCI, lc. ult. cit. Appare dunque superata, alla stregua della più recente impostazione dottrinale, la preoccupazione che muove la serrata e peraltro pienamente condivisibile critica sviluppata da DE FRANCESCO G.V., La proporzione nello stato di necessità, 1978, p. 174 ss., nei confronti di una valutazione ex post dei requisiti dello stato di necessità che faccia ‘‘dipendere l’illiceità giuridico-penale di una condotta da un avvenimento successivo alla scelta tra l’agire e il non agire, il quale non rientri nella sfera di dominio dell’agente sul decorso causale’’, quando invece occorre ‘‘ritenere non punibili tanto le condotte relativamente alle quali si stabilisca ex post che il pericolo non si sarebbe comunque tradotto in danno, quanto le altre che non riescano a tutelare efficacemente il bene’’. Il punto di vista (propriamente) ex post, che vorrebbe prendere in considerazione addirittura il decorso causale successivo all’azione necessitata e che come tale è sul piano teorico del tutto distinto dalla valutazione successiva di circostanze concomitanti alla medesima, può tuttavia in taluni casi finire per coincidere nei risultati con quest’ultima valutazione (che rimane propriamente ex ante): ciò accade quando si assume come parametro del giudizio ex ante l’intero patrimonio di conoscenze umane disponibile al momento dell’azione (cfr. DE FRANCESCO G.V., op. cit., p. 177, nt. 37). (63) Cfr., per tutti, la chiara formulazione di PADOVANI, voce Difesa legittima, in Dig. Disc. pen., III, 1989, p. 501 s. (64) Per l’accostamento alla problematica del pericolo di quella della colpa, invero meno frequente del più usuale abbinamento con il giudizio di idoneità degli atti nel tentativo (su cui di recente ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 2a ed., 1994, p. 299 ss.), v. già FROSALI, Sistema penale italiano, II, 1958, p. 293. (65) Cfr., per la dottrina d’oltralpe, tra gli altri HIRSCH, in Leipziger Kommentar, II, 10a ed., 1985, § 34, Rdn. 27 ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 354 ss. e 415; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 343 e 361; LACKNER, Strafgesetzbuch mit Erlaeuterungen, 22a ed., 1997, § 34, Rdn. 2; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 594 s. Sostengono invece che la base del giudizio prognostico deve comprendere tutte le circostanze obiettivamente esistenti al momento del fatto tipico, anche se conosciute successivamente, LENCKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER,
— 796 — Contro questa impostazione sono state mosse varie obiezioni, nessuna delle quali risulta tuttavia realmente insuperabile. Molto fine appare l’argomentazione di una dottrina meno recente, che ritiene di poter trarre elementi decisivi, nel senso della necessità d’accertamento ex post del pericolo in tema di legittima difesa, dal confronto tra l’art. 52 e l’art. 59, ultimo comma, c.p. Viene osservato come questa seconda disposizione, nel considerare in generale l’eventualità di una supposizione erronea non colposa di requisito scriminante come quella che esclude ogni titolo di responsabilità in capo all’agente, comprende in particolare l’eventualità che costui si rappresenti una situazione di pericolo (inesistente ad una valutazione ex post ma) correttamente asseverabile alla stregua della prognosi postuma; se, d’altro canto, già il pericolo ex art. 52 c.p. dovesse accertarsi su quest’ultimo metro di giudizio, la dimensione putativa e quella reale della legittima difesa finirebbero sotto questo aspetto per coincidere: da qui la ribadita necessità di una valutazione ex post del pericolo ‘‘effettivo’’, che ne assicuri l’autonomia rispetto al pericolo erroneamente supposto senza colpa (66). In proposito è agevole innanzitutto obiettare che la determinazione del concetto di pericolo rilevante per la legittima difesa deve procedere sulla base di esigenze ermeneutiche e sistematiche indipendenti dalla considerazione delle conseguenze a carico dello spazio applicativo della corrispondente dimensione putativa. L’argomentazione prospettata va cioè rovesciata: dipende al contrario dal parametro di accertamento prescelto per la valutazione ex ante di determinati elementi prognostici se la rilevanza in favore dell’agente della di lui valutazione (che si pretende) erronea vada ascritta alla dimensione effettiva o putativa della scriminante (67). La (parziale) sovrapposizione denunciata tra artt. 52 e 59 c.p. è destinata peraltro a dissolversi ad una valutazione più attenta. Come si è già accennato e sarà meglio sviluppato nel prosieguo, la supposizione erronea di un elemento di tipo prognostico mantiene comunque una precisa autoStrafgesetzbuch. Kommentar, 24a ed., 1991, vor §§ 32 ss., Rdn. 10a e 11, § 32, Rdn. 34, § 34, Rdn. 13 (che ammette una valutazione ex ante delle circostanze del caso concreto solo nella distinta ipotesi di scriminanti ‘‘a rischio consentito’’, laddove l’ordinamento sconta in partenza l’eventualità che esulino i requisiti fattuali atti a compensare il disvalore di evento del fatto tipico); SAMSON, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, 5a ed., 1992, § 32, Rdn. 15, § 34, Rdn. 16 ss. (che estende ulteriormente l’ambito della considerazione a posteriori, ricomprendendovi le stesse leggi causali governanti il giudizio di prognosi eventualmente perfezionate rispetto alla ‘‘migliore scienza’’ già disponibile al momento della condotta). Questo secondo orientamento, minoritario nella dottrina tedesca, ha finito invece per prevalere nella dottrina italiana, sulla scia delle indicazioni a suo tempo fornite da FROSALI, Sistema, cit., p. 293 s.: cfr. GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, 1964, p. 69 ss.; MARINUCCI, Cause, cit., p. 137; PADOVANI, voce Difesa, cit., p. 502; contra, DE FRANCESCO G.V., La proporzione, cit., p. 177 ss. e 192. (66) FROSALI, lc. ult. cit. (67) ROXIN, Strafrecht, cit., p. 516 s.
— 797 — nomia rispetto alla corrispondente dimensione ‘‘reale’’ ed ai relativi criteri d’individuazione, poiché consiste nella rappresentazione di quei dati di fatto che, se realmente esistenti e collegati con la base più o meno integrale del giudizio che si ritiene di dover assumere, avrebbero legittimato la corrispondente prognosi. Se Tizio reagisce contro Caio che gli punta un’arma da fuoco con la chiara intenzione di esplodere un colpo e l’arma risulta a posteriori scarica, chi ritiene che la situazione di pericolo debba accertarsi secondo gli ordinari canoni della prognosi postuma affermerà senz’altro la sussistenza di una legittima difesa ‘‘reale’’; ma non per questo debbono ritenersi esauriti — come pretende l’opinione sopra riportata — i margini di configurabilità della scriminante ‘‘putativa’’ (non colposa), che ricorrerà, ad esempio, ove Tizio, per errore scusabile, scambi per un’arma da fuoco l’oggetto inoffensivo (68) rivolto contro di lui dal presunto aggressore. Non riveste particolare pregio poi il rifiuto della valutazione ex ante del pericolo nella legittima difesa fondato sulla rilevanza oggettiva nel nostro sistema penale della cause di liceità (69). A parte il rilievo che il principio ex art. 59, comma primo, c.p. non può ritenersi assolutamente preclusivo della possibilità per il legislatore d’inserire eccezionalmente requisiti soggettivi nella struttura di una determinata scriminante (70), va qui fermamente ribadita la natura sicuramente oggettiva dell’ordinario giudizio di prognosi postuma, che costituisce, pur con la sua ‘‘base ontologica parziale’’ (71), il saldo punto di riferimento di elementi di tipicità del calibro dell’idoneità degli atti nel delitto tentato, dell’imputazione oggettiva dell’evento e della stessa misura oggettiva del dovere di diligenza nel reato colposo (72). Ma anche qui una considerazione più attenta della consistenza dell’obiezione avanzata mostra la piena compatibilità e la persistente validità della rilevanza oggettiva della scriminante, ai sensi dell’art. 59, comma primo, c.p., sia pure in presenza di un pericolo che si voglia accertato secondo lo schema della prognosi postuma: per riprendere l’esempio poco sopra proposto, la ritenuta sussistenza del pericolo a fronte dell’aggressione portata con arma da fuoco successivamente risultata scarica non esclude, anzi impone che si applichi la legittima difesa a Tizio il (68) Eventualmente la stessa mano nuda occultata nella tasca come ad impugnare una pistola: cfr. il caso tratto da Trib. Roma, 20 febbraio 1977, in Cass. pen. Mass. ann., 1977, p. 1046. (69) GROSSO, Difesa, cit., p. 69. (70) Per un’efficace sintesi della problematica tuttora aperta, seppure opportunamente orientata in senso fortemente restrittivo, degli elementi soggettivi delle cause di liceità, v. di recente ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art. 50/6 s. e Art. 59/20 ss. (71) Per questa terminologia, nell’ambito di una diffusa indagine sui vari profili del giudizio di pericolo quale elemento della fattispecie penale, v. ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., p. 39 ss., 300 ss. e 388 ss. (72) V. supra, nt. 64.
— 798 — quale uccida o ferisca Caio senza essersi minimamente reso conto della minaccia di cui era stato fatto segno. A sostegno di un esclusivo accertamento a posteriori dell’elemento prognostico si è ancora posto l’accento su talune conseguenze inaccettabili cui condurrebbe la valutazione ex ante nei casi critici in cui l’adozione dell’uno o dell’altro criterio comporta soluzioni contrarie riguardo alla sussistenza del pericolo (73). Ora, lascerebbe certo perplessi ritenere che colui, il quale ha commesso il fatto tipico in una situazione che riveli i connotati del pericolo non in base alle circostanze conoscibili al momento del fatto ma solo ad una valutazione successiva, non debba fruire della legittima difesa, che andrebbe appunto esclusa sulla base di un giudizio ex ante; mentre potrebbe andare esente da pena solo se si sia comunque rappresentato incolpevolmente il pericolo (74). Ma c’è da dire che un’eguale conseguenza anomala si avrebbe specularmente, ad accettare la valutazione ex post, nel caso contrario in cui il pericolo sia configurabile ex ante, ma non risulti più a posteriori. Anche in questa eventualità l’autore non potrebbe invocare la legittima difesa, che resterebbe stavolta esclusa proprio in quanto sia stato assunto l’angolo visuale ex post; mentre, nel caso in cui l’agente si sia comunque rappresentato una situazione di pericolo, l’esenzione da ogni forma di responsabilità sarebbe subordinata alla scusabilità della supposizione erronea (75). La verità è allora che non conviene contemplare un’alternativa drastica tra l’uno e l’altro tipo di valutazione, come prospetta la dottrina criticata. Il giudizio di prognosi postuma in materia di cause di liceità è tendenzialmente deputato ad integrare un accertamento altrimenti negativo piuttosto che a rinnegare gli esiti di un accertamento che riesca infine positivo sulla base di dati conosciuti successivamente al fatto: ‘‘il punto di vista ex ante intende allargare i margini di liceità dell’azione in una situazione di limitata possibilità d’indagine, non certo escludere dalla giustificazione quanto risulta conforme a diritto soltanto a posteriori’’ (76). 5.
La preoccupazione che muove i fautori della ‘‘base ontologica to-
(73) V. la complessa analisi di GROSSO, Difesa, cit., p. 69 ss., dei vari casi ipotizzabili di diversa consistenza ed intensità del pericolo in funzione di una valutazione rispettivamente ex ante ed ex post. (74) Sarebbe peraltro singolare configurare come supposizione ‘‘erronea’’ (colposa o meno) una rappresentazione del pericolo divergente dalla situazione risultante ex ante, ma corrispondente in definitiva alla realtà. (75) Anche qui varrebbe, specularmente, il rilievo fatto nella nota precedente: ha senso qualificare come ‘‘erronea’’ la rappresentazione del pericolo non confermata ad una valutazione ex post ma pienamente rispondente alla situazione rilevabile al momento della condotta? (76) JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 355 s.
— 799 — tale’’ del giudizio di pericolo in materia di cause di giustificazione — nel senso che il sacrificio del bene tutelato in sede penale sia legittimato solo a fronte della reale presenza dell’estremo scriminante (77) — è certo comprensibile, ma non va eccessivamente enfatizzata. Soprattutto occorre guardarsi dalla tentazione di trasformare la discussione a riguardo in una nuova occasione di confronto, che non risulterebbe nella specie del tutto confacente, tra le fondamentali opzioni dogmatiche e politico-criminali in tema di rapporti tra (dis)valore d’evento e d’azione come fondamento (dell’incriminazione e) della giustificazione delle condotte tipiche. È ben vero che, in via di principio, il sacrificio del bene protetto dalla norma incriminatrice può risultare lecito solo se è reale ed attuale il conflitto con l’interesse antagonista ritenuto dall’ordinamento altrettanto o più meritevole di tutela; ma, a voler portare alle estreme conseguenze tale irrefutabile assunto, si dovrebbe addirittura bandire ogni estremo prognostico dalla struttura delle cause di liceità, dal momento che — come osservava autorevole risalente dottrina pur fautrice della valutazione ex post del pericolo ex art. 52 c.p. — ‘‘il pericolo può intendersi soltanto in senso soggettivo, come prevedibilità, per alcun soggetto, che possa verificarsi un evento dannoso’’ (78). Una volta accettato l’ingresso del pericolo nella struttura della fattispecie scriminante, appare difficile non dover riconoscere che il giudizio di probabilità che lo sostanzia abbraccia non soltanto il verificarsi dell’evento temuto, ma già l’esistenza (di almeno parte) delle circostanze che costituiscono il fondamento di una corretta previsione in proposito: la valutazione del pericolo è costituita insomma da un intreccio non sempre e del tutto districabile tra prognosi dell’accadimento futuro e diagnosi della situazione in atto presente (79). Permane naturalmente l’esigenza di un’adeguata ‘‘obiettivazione’’ del giudizio di pericolo, che può tuttavia essere soddisfatta attraverso un’accorta individuazione del parametro ovvero del ‘‘punto di vista’’ dal quale effettuare la (in una certa misura ineludibile) selezione delle circostanze rilevanti ai fini della prognosi in senso stretto. Ciò che induce del resto a ribadire la persistente validità anche a livello scriminante del tradizionale e collaudato paradigma di prognosi postuma non è tanto un malinteso attaccamento ad oltranza a modelli esplicativi assolutamente unitari del concetto di pericolo in diritto penale, quanto piuttosto la convinzione che soltanto una prudente valutazione ex ante consente di promuovere una soddisfacente soluzione del problema dei confini tra dimensione reale e putativa delle cause di giustificazione contrassegnate da elementi di tipo prognostico. (77) Per tutti, MARINUCCI, Cause, cit., p. 137. (78) FROSALI, Sistema, cit., p. 293. (79) Cfr. HIRSCH, in Leipriger Kommentar, cit., § 34, Rdn. 28.
— 800 — Invero, gli autori che si pronunciano in favore della ‘‘base ontologica totale’’ del giudizio di pericolo invitano talora a non sopravvalutare i riflessi limitativi che tale opzione proietterebbe sull’ambito di operatività della causa di giustificazione: l’autore del fatto tipico beneficierà comunque della scriminante sul piano putativo, a livello non già di esclusione dell’antigiuridicità bensì della sola colpevolezza, quante volte abbia ritenuto esistente il pericolo, risultato a posteriori soltanto apparente, ‘‘a cagione di un errore nel quale sarebbe caduto persino il più avveduto degli uomini’’ (80). Ma proprio qui si evidenzia la carenza dell’approccio. La dottrina in esame prende cioè in considerazione il caso d’errore invincibile, che non ha mai comportato problemi ai fini dell’applicazione dell’art. 59, comma quarto, c.p. (81). Essa tralascia invece proprio l’ipotesi (opposta) sulla quale abbiamo visto affaticarsi la giurisprudenza: appunto quella dell’errore (non semplicemente colposo) ma ‘‘irragionevole’’, che viene del tutto bandito nell’esperienza giurisprudenziale dall’ambito di rilevanza della supposizione erronea, con la conseguenza che restano applicabili le pene previste per il delitto doloso. Se i sostenitori convinti della valutazione integrale, anche ex post, del sostrato di fatto dei requisiti scriminanti di contenuto prognostico prendessero in seria considerazione questo atteggiamento della pratica, dovrebbero necessariamente sottostare alla seguente alternativa: o denunciare l’interpretazione arbitraria dell’art. 59, comma quarto da parte della giurisprudenza, posto che tale norma, in conformità ai principi generali in tema di rilevanza dell’errore sul fatto, non subordina l’esclusione della responsabilità dolosa ad alcuna condizione relativa alla natura ed alla genesi dell’errore; oppure avallare l’interpretazione giurisprudenziale ed assumersi l’onere di riconoscere, in contrasto con la consolidata lettura dell’art. 59, ultimo comma, c.p., che il nostro codice, contrariamente al chiaro tenore di tale disposizione, disciplini la supposizione erronea di scriminante nei termini di quella strenge Schuldtheorie che trova ormai scarso riscontro nella stessa dottrina d’oltralpe. Questa seconda eventualità sarà ripresa e sviluppata nell’ulteriore corso dell’indagine, quando sarà affrontata in modo tematico la questione del fondamento dogmatico della disciplina di cui all’art. 59, comma (80) MARINUCCI, lc. ult. cit. (81) V. anche gli esempi addotti a suo tempo da FROSALI, Sistema, cit., p. 293 s., laddove c’è in effetti piena fungibilità tra dimensione ‘‘reale’’ (tramite accertamento ex ante) e dimensione ‘‘putativa’’ (non colposa e quindi esclusiva di ogni titolo di responsabilità) del pericolo nella legittima difesa. Più di recente anche ROXIN, Strafrecht, cit., p. 595 s., afferma che il contrasto tra le varie posizioni in merito al parametro del giudizio di pericolo ha scarsa rilevanza a fini pratici, nella misura in cui l’autore dell’azione necessitata ‘‘ipotizza il pericolo senza violare la diligenza obiettivamente richiesta nelle relazioni umane’’ (corsivo mio).
— 801 — quarto, c.p. (82). Può tuttavia dirsi sin da ora che sarebbe veramente singolare orientarsi verso un’opzione dogmatica così impegnativa, a stregua della quale la supposizione erronea di causa di giustificazione si configurerebbe in sostanza come una causa d’esclusione della colpevolezza in senso stretto assimilabile all’ignoranza della stessa legge penale, solo per difendere ad oltranza una determinata configurazione del pericolo, quale estremo di talune fattispecie di liceità, di per sé stravagante rispetto all’ordinaria conformazione del medesimo in altri contesti penalistici (83). Con riferimento al primo momento dell’alternativa sopra accennata, la riaffermazione dell’insindacabilità della genesi dell’errore in vista dell’esclusione della responsabilità (quanto meno) a titolo di dolo non sarebbe per altro verso priva di costi per i sostenitori dell’orientamento qui criticato. In particolare, la complessiva disciplina così risultante della rilevanza reale e putativa dell’estremo scriminante del pericolo configurerebbe una riduzione dei margini di tutela penale del bene protetto dalla norma incriminatrice, in rapporto all’interesse antagonista, probabilmente superiore a quella conseguente all’adozione del canone di accertamento della prognosi postuma su di una base limitata di giudizio; e ciò ad onta del più o meno dichiarato intento sotteso all’affermazione della base ontologica totale del giudizio di pericolo, che è al contrario di circoscrivere il più possibile il sacrificio del bene giuridico richiesto dal principio di bilanciamento (84). E valga il vero. Se si considera il pericolo come un qualsiasi elemento di fattispecie suscettibile d’accertamento anche in forza di dati concreti acquisiti ex post, diventa del tutto arbitrario negare rilevanza, ai sensi dell’art. 59, comma quarto, c.p., a quella rappresentazione meramente soggettiva e del tutto irragionevole, indotta spesso da ingiustificato timore, che la costante giurisprudenza si sforza di bandire dall’ambito della legittima difesa e dello stato di necessità sia pure putativi. Una volta che il concetto di pericolo sia stato svincolato a livello reale, dal raffinato paradigma della prognosi postuma su base ontologica parziale e degradato al rango di elemento da accertare senza necessità di congruenza con il conte(82) V. infra, n. 7 ss. (83) Va tuttavia ricordato che la posizione qui criticata trova una collocazione omogenea accanto alle tesi che propugnano la necessità di un giudizio ex ante a base totale già in rapporto al pericolo come requisito esplicito della fattispecie incriminatrice ed all’idoneità degli atti nel tentativo: ANGIONI, Il pericolo, cit., p. 302 ss.; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1224. (84) È ricorrente l’affermazione che la struttura del giudizio di prognosi in rapporto agli elementi scriminanti di tipo prospettico determina una diversa distribuzione del rischio dell’errore da parte dell’agente sulla tutela rispettivamente del bene giuridico e dell’interesse antagonista, nel senso che il primo risulterebbe tanto meglio protetto quanto più siano connotati in chiave oggettiva la base ed il parametro del giudizio: per tutti, JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 353 ss.
— 802 — sto d’azione osservabile ex ante, chi potrà mai addebitare all’agente a livello putativo, la « stravaganza » o la « illogicità » della sua supposizione erronea? Ne consegue che occorrerà costantemente affermarsi l’impunità del fatto offensivo del bene giuridico, quanto meno in rapporto al dolo, salva la responsabilità a titolo di colpa, ma solo se sia prevista la relativa fattispecie. Né sarà sufficiente conforto per la parte offesa, nel caso in cui il delitto non sia configurato dalla legge in chiave colposa, pensare che la tutela penale del bene protetto dalla norma incriminatrice ha ceduto soltanto sul piano soggettivo dell’assenza di dolo, dopo aver già saldamente ‘‘resistito’’ a livello oggettivo dell’antigiuridicità. Ben più soddisfacente risulta per contro l’assetto complessivo di tutela penale dell’oggetto giuridico del reato, se si recepiscono le ragioni sostanziali riflesse nell’orientamento giurisprudenziale ben noto e si leggono i limiti di rilevanza dell’errore dichiarati dalla giurisprudenza piuttosto come l’implicito riconoscimento di una previa estensione della dimensione effettiva dell’elemento di tipo prognostico per il tramite dello schema della prognosi postuma sviluppata integralmente ex ante. Così facendo, la supposizione erronea di pericolo del tutto irragionevole non soltanto resterà esclusa dalla dimensione reale della legittima difesa o dello stato di necessità né più né meno che se si desse ingresso alla valutazione ex post — non potendo in nessun caso il metro del giudizio di prognosi coincidere con quello squisitamente individuale dell’agente concreto — ma non potrà neanche invocare udienza ai sensi dell’art. 59, comma quarto, c.p. Una volta infatti ‘‘arricchito’’ il contenuto normativo della fattispecie scriminante attraverso una congrua delimitazione della base e del metro del giudizio di pericolo, l’agente che sostenga di essersi rappresentato una situazione di pericolo al di fuori delle circostanze che ne legittimano la prognosi addurrebbe in realtà un vero e proprio errore (indiretto) sul precetto: egli dimostrerebbe di ritenere che l’ordinamento autorizzi indiscriminatamente l’azione difensiva, solo che ad una valutazione ex post, condotta cioè sulla base di circostanze eventualmente inconoscibili al momento della condotta, risulti comunque accertabile una condizione d’esposizione a pericolo. Così, per riprendere l’esemplificazione sopra utilizzata, Tizio potrà far valere la supposizione erronea di legittima difesa (salva sempre l’eventuale responsabilità a titolo di colpa) se adduce di aver scambiato uno strumento inoffensivo in mano al presunto aggressore per un’arma da fuoco puntata contro di lui: alla stregua di un corretto giudizio di prognosi postuma l’esser fatti segno di minaccia con arma da fuoco — risulti o meno questa a posteriori carica — integra certamente l’estremo del pericolo e l’autore si è quindi rappresentato erroneamente circostanze di fatto che, se realmente esistenti, avrebbero integrato la causa di giustificazione. Ma se Tizio adduce di essersi convinto di versare in pericolo di vita in vi-
— 803 — sta di un (effettivo) brusco movimento del presunto aggressore rivolto verso di lui (85), la sua discolpa significa semplicemente che egli attribuisce alla norma scriminante, sotto il profilo dell’estremo del pericolo, un ambito molto più ampio di quello previsto dalla legge, in quanto disconosce la portata ‘‘precettiva’’ del vincolo da essa imposto al requisito del pericolo per il tramite della prognosi postuma: egli versa dunque in una condizione soggettiva rilevante nella distinta prospettiva dell’art. 5 c.p. Diversa sarebbe la soluzione — conviene ribadire — se si accettasse la valutazione a posteriori: poiché in quest’ottica è decisiva non tanto la situazione quale si profila al momento della condotta quanto quella rivelatasi, anche ‘‘inopinatamente’’, in una fase successiva, non si vede perché l’agente, che ha ‘‘irragionevolmente’’ supposto ciò che sarebbe ben valso a giustificarlo se fosse poi risultato realmente esistente (il movimento brusco come prodromo immediato dell’impugnazione di un’arma da fuoco nascosta in tasca), non debba beneficiare della scriminante sul piano putativo, nella più corretta applicazione dell’art. 59, ultimo comma, c.p. Una corretta delimitazione della base del giudizio di pericolo, così come propugnata dai fautori della prognosi postuma a base ‘‘parziale’’, comporta dunque il cospicuo vantaggio di dare adeguata risposta alla problematica dell’errore ‘‘irragionevole’’ — problematica comunque ‘‘incoercibile’’, come dimostra la diffusa e consolidata esperienza giurisprudenziale — senza entrare in rotta di collisione con la disciplina dell’art. 59, comma quarto, c.p. La valutazione ex ante integrale giova peraltro a promuovere più in generale un soddisfacente equilibrio tra dimensione reale e putativa delle cause di liceità con requisiti di tipo prognostico, in quanto prospetta in via di principio una tendenziale convergenza tra (reale) sussistenza dell’estremo del pericolo e corrispondente rappresentazione da parte del soggetto agente. Al contrario, l’idea della base ontologica totale, specie se accompagnata da un metro di valutazione che si fa coincidere con l’intero patrimonio di conoscenze disponibili al momento del fatto (86), comporta la sottrazione della situazione di pericolo ad un’autentica e realistica possibilità di valutazione da parte di chi si trova in situazioni di necessità (87): ora, un conto è, almeno nel nostro sistema penale, la rilevanza già solo obiettiva delle cause di giustificazione, altro conto questa sorta di preliminare sanzione di una pressoché sistematica sfasatura del dato scriminante obiettivo rispetto alla capacità di rappresentazione dell’agente concreto. (85) È il caso trattato in Cass. 7 ottobre 1988, in Cass. pen., 1989, p. 2000. (86) Cfr. LENCKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch, cit., § 34, Rdn. 14. (87) Cfr. HIRSCH, in Leipziger Kommentar, cit., § 34, Rdn. 30, che accenna anche all’impraticabilità sul piano processuale di una pretesa di accertamento fondata sull’intera scienza sperimentale e non già sull’ausilio del ‘‘normale perito’’.
— 804 — Se dunque è la prospettiva della prognosi postuma con base ontologica parziale a confermarsi sotto tutti i profili come la più raccomandabile ai fini della configurazione degli elementi scriminanti di tipo prognostico, non resta che prendere posizione sulla questione del parametro del giudizio ex ante da adottare, nella consapevolezza, cui si è già fatto cenno, che tale ulteriore elemento resta comunque decisivo ai fini del necessario ancoraggio del concetto di pericolo ad una dimensione sufficientemente obiettiva. La ricognizione delle posizioni espresse in proposito dalla dottrina evidenzia in sostanza una triplice alternativa, caratterizzata dalla tendenza ad una progressiva restrizione dell’angolo visuale dal quale va abbracciato il sostrato di fatto sussistente al momento in cui viene posta in essere la condotta tipica. Così l’orientamento inteso a conservare al concetto di pericolo il maggior grado di obiettività, compatibile con la considerazione ex ante del sostrato di fatto rilevante ai fini del giudizio prognostico, assume come parametro di valutazione quello dello ‘‘osservatore esperto che abbia altresì le eventuali conoscenze speciali dell’agente concreto’’ (88) ovvero, secondo altra equivalente formulazione, dello ‘‘specialista competente per la situazione di conflitto della specie in questione’’ (89). Una seconda posizione richiama come modello una figura meno impegnativa, quella dello ‘‘osservatore giudizioso appartenente alla cerchia di rapporti dell’agente’’ (90). Una terza opinione infine identifica il parametro del giudizio con lo stesso punto di vista del soggetto agente, rifiutando in sostanza qualsiasi istanza di oggettivazione per il tramite di una figura modello da collocare al posto dell’autore (91). Un rapido esame critico delle opinioni menzionate, evidenzia subito l’impraticabilità dell’ultima opzione. Identificare il punto di vista da cui guardare alla situazione di pericolo con lo stesso angolo visuale dell’agente significa rinnegare totalmente l’irrinunciabile connotazione oggettiva del giudizio di prognosi postuma e conduce realmente a quella totale sovrapposizione della dimensione reale e putativa dell’elemento scriminante di tipo prognostico talora (impropriamente) imputata alla valutazione ex ante da parte dei fautori della base ontologica totale (92). L’alternativa di collegare il metro di valutazione all’‘‘osservatore avveduto della cerchia di persone’’ cui appartiene l’agente concreto, seppure introduce un elemento di natura obiettiva, resta esposta alla censura di (88) HIRSCH, op. cit., § 34, Rdn. 29. (89) JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 415. (90) SCHAFFSTEIN, Der Massstab für das Gefahrurteil beim rechtfertigenden Notstand, in Festschrift für Hans-Juergen Bruns, 1978, p. 102 s. (91) È la posizione a suo tempo sostenuta da ZIELINSKY, Handlungs- und Erfolgsunwert im Unrechtsbegriff, 1973, p. 266 ss. (92) V. supra, nt. 66.
— 805 — mantenere eccessivamente ampio l’ambito del pericolo, determinando, specie in rapporto allo stato di necessità, un’inaccettabile sproporzione a carico del soggetto passivo nella ripartizione dei rischi connessi alla situazione di conflitto d’interessi (93). La soluzione più accettabile è dunque quella che colloca al posto dell’agente concreto non già il semplice ‘‘osservatore avveduto’’, ma l’‘‘osservatore esperto’’ ovvero lo ‘‘specialista competente’’ in ordine alla specifica situazione di conflitto di beni in atto, salve sempre le eventuali conoscenze ancora superiori del soggetto attivo del fatto tipico. La determinazione della nozione di pericolo viene in tal modo ancorata a parametri obiettivi sufficientemente severi, che non trasmodano tuttavia nell’irrealistica ed impraticabile pretesa di chiamare in causa colui che incarni l’intero patrimonio di conoscenze disponibili al momento del fatto. Questo modello di valutazione ex ante ed obiettiva deve ritenersi operante per qualsiasi elemento di tipo prognostico contenuto nelle varie fattispecie scriminanti. Contro una tale esigenza di considerazione unitaria è stata invece avanzata l’idea che debbano distinguersi le cause di liceità in cui il soggetto passivo del fatto tipico è estraneo alla genesi della situazione di conflitto di beni da quelle in cui il medesimo è per contro responsabile dell’insorto pericolo a carico del soggetto attivo del fatto offensivo. L’esigenza di una valutazione obiettiva dell’elemento ‘‘prospettico’’, ancorata al punto di vista dello ‘‘specialista competente’’, dovrebbe valere solo nel primo gruppo d’ipotesi, riferibili essenzialmente allo stato di necessità, laddove merita particolare attenzione la posizione del soggetto esposto incolpevolmente al fatto offensivo dell’interesse protetto in sede penale. In relazione al secondo gruppo, il cui prototipo è naturalmente rappresentato dalla legittima difesa, il requisito in particolare della necessità dell’azione difensiva andrebbe determinato con giudizio ex ante di tipo soggettivo, che tenga conto cioè degli eventuali limiti personali di capacità diagnostica del soggetto attivo: in tal modo colui che uccide l’ubriaco che lo minaccia con una pistola giocattolo riconoscibile come tale, ma ritenuta pericolosa in modo inevitabile in conseguenza di una personale condizione d’incapacità, dovrebbe usufruire della scriminante già nella sua dimensione reale piuttosto che putativa (94). L’opinione così riassunta non è condivisibile. Essa pretende in sostanza di far dipendere da un sorta di misura soggettiva non tanto (il che sarebbe già di per sé discutibile) il carattere colposo o meno della supposizione erronea, ma addirittura la stessa consistenza obiettiva dell’elemento prognostico della fattispecie scriminante. Il diverso grado di re(93) Cfr. HIRSCH, op. cit., § 34, Rdn. 30. (94) JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 354 ss.
— 806 — sponsabilità ascrivibile al soggetto passivo del fatto offensivo in ordine alla genesi della situazione conflittuale non è certo privo di significato nell’interpretazione delle varie figure scriminanti (95); ma è da escludere che in funzione di esso possa arrivarsi a stravolgere, se non a cancellare del tutto i confini tra dimensione reale e dimensione putativa delle cause di giustificazione. 6. Un ulteriore banco di prova della praticabilità delle distinte configurazioni dell’elemento scriminante prognostico è dato dalla questione del dubbio invincibile in cui versi l’agente in ordine all’effettiva presenza di una situazione di pericolo a carico di un diritto proprio o altrui. Più precisamente questa fattispecie si caratterizza per il fatto che la provvisoria astensione dalla reazione difensiva, in vista di una risolutiva verifica della situazione, può essere fatale per l’agente, il quale potrebbe non essere più in grado di disporre di adeguati mezzi di difesa o addirittura avere ormai subito l’offesa, nel momento in cui abbia conseguito la certezza positiva dell’attualità del pericolo (96). A voler restar fermi ad una nozione di pericolo effettivo, da accertare con valutazione ex post, dal quadro di azione, si rischia, nel caso in cui il fatto tipico risulti realizzato al di fuori di qualsiasi pericolo incombente, non solo — come è ovvio — d’escludere la consistenza reale della legittima difesa o dello stato di necessità, ma di non poter neanche utilizzarne la dimensione putativa, poiché altro è la supposizione erronea come convincimento positivo altro lo stato di dubbio. In tali condizioni — accettando per il momento la diffusa spiegazione della disciplina ex art. 59, comma quarto, c.p. in termini di esclusione del dolo — non potrebbe non ravvisarsi nell’atteggiamento psicologico dell’agente un residuo di dolo eventuale, avendo egli agito accettando il rischio (nell’ipotesi puntualmente realizzatosi) di porre in essere un fatto tipico ed antigiuridico (97). E probabilmente non è casuale che lo spunto problematico attinente alla (95) Basti pensare al maggior rigore con cui di solito si apprezza il requisito della necessità del fatto lesivo nella legittima difesa rispetto allo stato di necessità: per tutti, ROMANO, Commentario, cit., Art. 52/12 s. e Art. 54/12 s. Per un diffuso tentativo di spiegazione differenziata del requisito di attualità del pericolo nella legittima difesa e nelle varie forme di stato di necessità previste nell’ordinamento penale tedesco v., di recente, LUDWIG, ‘‘Gegenwaertiger Angriff’’, ‘‘drohende’’ und ‘‘gegenwaertige Gefahr’’ im Notwehr- und Notstandsrecht, 1991. (96) Cfr., tra gli altri, JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 363; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 518. Più in generale, sulla rilevanza delle Moeglichkeitsvorstellungen in rapporto alle cause di giustificazione, v., da ultimo, SCHROTH, Die Annhame und das ‘‘Fuer-Moeglich-Halten’’ von Umstaenden, die einen anerkannten Rechtfertigungsgrund begruenden, in Strafgerechtigkeit. Festschrift fuer Arthur Kaufmann, 1993, p. 604 ss. (97) Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., p. 517, sia pure con la precisazione che ricorre invece la scriminante putativa quando l’agente ‘‘confida’’ nella presenza della causa di giustifi-
— 807 — condizione di dubbio — di certo non marginale — sia pressoché ignorato dalla dottrina italiana (98), la cui radicata propensione verso la configurazione del pericolo in termini di assoluta effettività troverebbe gravi controindicazioni nell’impossibilità di applicazione della legittima difesa o dello stato di necessità, neanche a livello putativo, a colui il quale abbia commesso il fatto tipico per necessità di sfuggire al rischio (rivelatosi poi inesistente) di subire un’offesa ingiusta o un danno grave alla persona. La questione del dubbio sull’attualità del pericolo è invece abbastanza trattata in seno alla dottrina tedesca. In questo ambito essa assume anzi una rilevanza autonoma e prioritaria rispetto all’ipotesi ‘‘critica’’ d’inesistenza della situazione di pericolo. Bisogna a riguardo tener presente che la maggior parte della dottrina d’oltralpe ritiene essenziale, per l’integrazione in generale delle cause di giustificazione, un coefficiente psicologico in termini almeno di consapevolezza della situazione scriminante (99), di modo che la condizione di dubbio in cui versi l’agente può apparire pregiudizievole della consistenza dell’esimente, per difetto della ritenuta necessaria componente soggettiva, già in presenza di un pericolo che risulti effettivo. La maggioranza degli autori non perviene invero a tale conclusione e considera sufficiente, ai fini dell’elemento soggettivo della giustificazione, la rappresentazione dubbiosa del sostrato di fatto scriminante, purché l’autore abbia agito facendo serio affidamento sulla presenza dei relativi presupposti (100): una sorta di colpa cosciente, che farebbe venir meno il dolo dell’illecito tanto nel caso di effettiva presenza quanto in caso di mancanza della dimensione oggettiva della causa di liceità, consentendone l’applicazione vuoi nella dimensione reale vuoi in quella putativa (101). cazione; RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, 5a ed., 1992, § 16, Rdn. 13a e vor § 19, Rdn. 9a. (98) La problematica della rilevanza del dubbio in rapporto alle cause di giustificazione emerge talora nella nostra dottrina quando l’attenzione si rivolge alle scriminanti caratterizzate da elementi soggettivi. Con riferimento specifico al requisito di un fine che debba perseguirsi da parte dell’agente, si ammette l’operatività della scriminante ogniqualvolta il fine medesimo sia stato accertato, anche se l’agente versasse in dubbio circa la reale presenza dei dati obiettivi costituenti il punto di riferimento della finalità: GROSSO, L’errore, cit., p. 144, nt. 103. Per taluni più recenti accenni v. DE FRANCESCO G.A., Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, p. 161 s. e nt. 82; PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993, p.72 s. (99) Sul pressoché totale riconoscimento, da parte della dottrina tedesca, della necessità di un coefficiente soggettivo di giustificazione e sulle diverse indicazioni contenutistiche fornite a riguardo, cfr., per tutti, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 518 ss. (100) Cfr., anche per gli ulteriori richiami, LENCKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch, cit., vor § 32, Rdn. 14 e § 32, Rdn. 28; SAMSON, in RUDOLPHI-HORN-SAMa SON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, 5 ed., 1992, vor § 32, Rdn. 46 a. (101) In particolare, SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 609, ravvisa la legittima difesa putativa nel caso di chi uccida l’aggressore pur nell’incertezza di trovarsi di fronte ad
— 808 — Altro orientamento esclude invece la compatibilità del dubbio con la rilevanza in particolare putativa della causa di giustificazione, dal momento che residuerebbe in tale ipotesi una forma di dolo eventuale rispetto al fatto tipico (102). Nel caso poi di vero e proprio dubbio invincibile, di necessita cioè di determinarsi comunque ad agire per sottrarsi al rischio di soccombere ad un pericolo non ancora sicuramente accertato (Entscheidungszwang), non resterebbe che riconoscere in capo all’agente una scusante, eventualmente nella forma del corrispondente stato di necessità (103), fondata sull’inesigibilità di un comportamento diverso (104). Una terza soluzione viene infine proposta sul piano oggettivo della natura e dell’accertamento del pericolo: la questione del dubbio in cui versi il soggetto agente viene cioè ricondotta e riassorbita nella più generale problematica della valutazione degli elementi scriminanti di tipo prognostico, con la conseguenza che la causa di giustificazione dovrà ritenersi sussistente (a livello ‘‘reale’’) solo che la situazione di fatto, generatrice del dubbio, soddisfi comunque i requisiti di una valutazione ex ante dello stato di pericolo (105). Questa breve rassegna degli orientamenti in materia della dottrina d’oltralpe risulta utile per una definitiva presa di posizione sulla questione nel nostro ordinamento. Si è visto sopra che l’insistenza su di una nozione di pericolo effettivo, risultante eventualmente solo ad una valutazione ex post della situazione di fatto concomitante all’azione, preclude l’applicabilità anche della dimensione putativa della legittima difesa e dello stato di necessità, quando il pericolo si riveli inesistente, a causa dell’incolmabile iato che separa il dubbio dalla supposizione erronea. Non resterebbe dunque che valorizzare, ai fini dell’impunità dell’aun’arma da fuoco carica ovvero ad un’arma finta, quando successivamente risulti verificata la seconda alternativa. (102) Tra gli altri, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 517. Considera troppo rigida questa soluzione SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 607 ss., il quale propone di equiparare la rappresentazione dubbiosa alla vera e propria supposizione erronea del sostrato scriminante, quando l’agente abbia ‘‘fatto affidamento’’ sull’effettiva presenza delle circostanze di fatto ravvisate come possibili. (103) ROXIN, op. ult. cit., p. 518 (soluzione raccomandata per i casi di ‘‘conflitto vita contro vita’’, mentre in altre situazioni meno drammatiche, in cui sono in giuoco beni di minore pregio, l’A. considera applicabile lo stato di necessità giustificante nella dimensione reale: cfr. infra, nt. 105). (104) Cfr. RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar, cit., vor § 19, Rdn. 9 a; WARDA, Vorsatz und Schuld bei ungewisser Taetervorstellung ueber das Vorliegen strafbarkeitsausschliessender, insbes. rechtfertigender Tatumstaende, in Festschrift fuer Richard Lange, 1976, p. 132 ss. (105) JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 363 (che richiama i criteri di ripartizione del rischio circa la sussistenza dell’elemento scriminante di tipo prospettico prima ricordati: supra, n. 5 e nt. 94); ROXIN, op. lc. ult. cit. (nei limiti chiariti supra, nt. 103).
— 809 — gente, la prospettiva della mancanza di colpevolezza in senso normativo; ma il nostro ordinamento non ammette che in limiti molto ristretti (106) lo stato di necessità scusante, né riscuote credito nel nostro ambiente dottrinale l’idea di poter riconoscere cause extralegali di scusa sul presupposto dell’inesigibilità del comportamento dovuto (107). In queste condizioni la soluzione più soddisfacente resta quella coerente con la più generale presa di posizione in ordine alla base ed al metro di giudizio relativi agli elementi scriminanti di tipo prognostico. Nella situazione di ‘‘dubbio invincibile’’ l’attualità del pericolo è il più delle volte tranquillamente asseverabile attraverso una valutazione ex ante basata su circostanze di fatto conoscibili da parte di un osservatore esperto: la causa di giustificazione può pertanto ritenersi sussistente già ‘‘in fatto’’, senza necessità di condizionarne la rilevanza, sul piano putativo, ad una problematica equiparazione della condizione soggettiva di dubbio a quella di vera e propria supposizione erronea. 7. Nella prima parte del presente lavoro si è potuto constatare quanto sia diffusa in giurisprudenza la tendenza ad assoggettare la rilevanza della supposizione erronea di fattispecie di liceità, già sul piano dell’esclusione di una responsabilità dolosa, a requisiti particolarmente rigorosi in ordine alla genesi della falsa rappresentazione. Questa pretesa mal si adatta con la disciplina ex art. 59, comma quarto, c.p., secondo la quale, in modo del tutto speculare rispetto all’art. 47, comma primo, c.p., in tema di errore sul fatto costitutivo di reato, il carattere colposo o meno dell’errore, indifferente rispetto ad una comunque certa esclusione della responsabilità per dolo, assume rilievo solo in un secondo momento, quando si tratta appunto di verificare l’eventuale residuo di una responsabilità a titolo di colpa, ove sia dalla legge espressamente previsto il relativo canone d’imputazione. Una disamina più attenta ha d’altro canto consentito d’individuare, al di là dell’apparente uniformità di enunciati, distinte ragioni giustificatrici delle varie manifestazioni di questo atteggiamento giurisprudenziale. È stato così possibile ravvisare in esso — piuttosto che la generalizzata e radicata propensione ad un’interpretazione abrogatrice o quanto meno manipolatrice dell’art. 59, comma quarto, c.p. — il riflesso, di volta in volta, di particolari e circoscritte problematiche: si tratti della struttura pecu(106)
Coincidenti con il costringimento psichico ex art. 54, comma terzo, c.p. (RO-
MANO, Commentario, cit., Art. 54/4 ss. e 27).
(107) Cfr., anche per gli essenziali riferimenti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 363 ss. Per un autorevole pronunciamento in favore del principio d’inesigibilità, ritenuto corollario ineludibile di una concezione autenticamente normativa della colpevolezza, v. invece VASSALLI, voce Colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, VI, 1988, p. 20 s.
— 810 — liare delle esimenti cosiddette a rischio consentito (108), di preoccupazioni in ordine alla serietà del controllo processuale della realtà psichica dell’errore (109) od infine della complessa questione della fisionomia degli elementi scriminanti di tipo prognostico (110). Senonché, per poter considerare come pienamente rassicuranti i risultati così conseguiti, nel senso di una sostanziale ‘‘tenuta’’ della disciplina generale della scriminante putativa a fronte di (solo apparenti) deviazioni condizionate dalla particolare struttura di determinate fattispecie di liceità, si rende a questo punto necessaria una verifica che investa immediatamente la spiegazione dogmatica ed il fondamento sistematico della rilevanza della supposizione erronea di fattispecie integratrice di causa di giustificazione. Si tratta di una controprova non eludibile, in mancanza della quale potrebbe residuare il dubbio che le applicazioni giurisprudenziali già passate in rassegna siano al contrario manifestazioni coerenti di un’unitaria e generale presa di posizione ‘‘eversiva’’ dei contenuti di disciplina dell’art. 59, comma quarto, c.p. Come già accennato, l’insistenza della giurisprudenza nel subordinare la rilevanza dell’errore su determinati requisiti scriminanti all’attenta verifica da parte dell’agente della situazione di fatto in cui si è trovato ad operare, o a più generali requisiti di ‘‘ragionevolezza’’ o di non pretestuosità, riecheggia un motivo fondamentale delle diverse varianti con cui si presenta in materia la teoria della colpevolezza, a partire dalla sua formulazione più rigorosa (111). Si tratta dell’idea che siffatto tipo di errore non escluda affatto il dolo della corrispondente fattispecie criminosa; al contrario, la consapevolezza di realizzare gli estremi del fatto tipico, e quindi di offendere in ogni caso il bene protetto dalla norma incriminatrice, dovrebbe esplicare in rapporto all’agente una tale ‘‘funzione di richiamo’’ (Appelfunktion) da indurlo ad un rigoroso controllo dell’effettiva compresenza di quegli ulteriori requisiti fattuali, in vista dei quali la norma di liceità giustifica il fatto altrimenti costitutivo di reato. Ferma dunque la sussistenza del dolo come requisito soggettivo dell’illecito, l’adempimento o meno di questo onere di controllo risulterà determinante ai fini del conclusivo giudizio di colpevolezza: nel caso di effettuata verifica, l’errore in cui sia comunque incorso l’autore dovrà considerarsi inevitabile, con la conseguenza dell’esclusione di ogni responsabilità a suo carico; nel caso di omesso controllo, l’evitabilità dell’errore, e quindi la per(108) Cfr. supra, n. 2. (109) Cfr. supra, n. 3. (110) Cfr. supra, nn.4-6. (111) Afferma chiaramente ROXIN, Strafrecht, cit., p. 514, che il riconoscimento da parte della giurisprudenza di un dovere di verifica nella struttura di talune scriminanti comporta, in materia di errore, lo stesso risultato cui già perviene la strenge Schuldtheorie.
— 811 — manenza del giudizio di riprovazione nei confronti dell’agente, renderà possibile punire costui già a titolo di dolo (112). La presenza nel nostro sistema penale di una norma quale l’art. 59, comma quarto, c.p., il cui tenore di disciplina appare alternativo rispetto all’impostazione ora delineata, non rappresenta peraltro di per sé una decisiva controindicazione all’approfondimento dei temi evocati dagli orientamenti giurisprudenziali in materia di supposizione erronea di fattispecie scriminante. L’ipotesi, più volte sopra prospettata, che la giurisprudenza si faccia portavoce più o meno inconsapevole dei postulati della Schuldtheorie non può essere invero liquidata in base al rilievo che si tratterebbe di un indirizzo in contrasto così insanabile con il dettato normativo, da non meritare altro che un’irrevocabile censura in termini di inaccettabile interpretazione abrogatrice. In realtà l’esigenza di un ripensamento dei temi in discorso s’impone per almeno due ordini di motivi. Per un verso, è noto — e risulterà più compiutamente dall’analisi che ci si accinge ad effettuare — che almeno talune varianti della Schuldtheorie, applicata alla supposizione erronea di fattispecie di liceità, sono considerate in ambienti penalistici diversi dal nostro pienamente compatibili con una disciplina corrispondente all’art. 59, comma quarto, c.p. A riguardo è particolarmente significativo che la dottrina tedesca, pur se prevalentemente orientata in sede dogmatica a riconoscere la piena permanenza del dolo a fronte di tale tipo di errore, inclina poi in misura altrettanto preponderante a prospettare, in sede di disciplina e in assenza di una precisa norma codificata, una soluzione corrispondente a quella prevista espressamente nel codice italiano, traendola quanto meno per analogia dal § 16 StGB in materia di errore sulla fattispecie (113). Per altro verso, non può essere trascurato il fatto che nella nostra dottrina, per solito orientata a interpretare l’art. 59, comma quarto, c.p. in chiave d’esclusione del dolo (114) — probabilmente anche in ragione (112) Per un chiaro inquadramento della supposizione erronea di fattispecie scriminante nell’ambito della colpevolezza, ed in particolare della problematica dell’errore sul precetto, v. di recente JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 462 ss.: gli aa. aderiscono peraltro alla rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, che fa salva la responsabilità a titolo di colpa. (113) Cfr. infra, n.8. (114) V. innanzitutto, sullo sfondo dell’opzione dogmatica in favore delle scriminanti come requisiti negativi del fatto tipico, M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., XIII, 1964, p. 770 ss.; GROSSO, L’errore, cit., p. 70 ss.; ID., voce Errore (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, XIII, 1989, p. 3 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1992, p. 369 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 5a ed., 1996, p. 451 ss. Ravvisa ugualmente mancanza di dolo in caso di scriminante putativa, pur in esito ad una critica serrata e ad una ripulsa definitiva della teoria degli elementi negativi, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1242 ss.; nello stesso senso FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 224. Individua nell’esimente putativa un ‘‘limite esterno’’ del dolo, dopo aver rimarcato di non
— 812 — della tradizionale scarsa sensibilità alle questioni inerenti alla dimensione propriamente normativa della colpevolezza (115) — si sia di recente manifestata qualche voce in sostegno della configurazione dell’esimente putativa quale causa d’esclusione della colpevolezza stricto sensu, che accederebbe ad un illecito strutturalmente doloso (116). condividere in tema di cause di giustificazione né la teoria degli elementi negativi né la teoria dell’antigiuridicità, FLORA, voce Errore, in Dig. disc. pen., IV, 1990, p. 271 ss. (115) Di ‘‘esitazioni che hanno contraddistinto una piena accettazione della concezione normativa della colpevolezza’’ parla ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in questa Rivista, 1991, p. 42, ravvisandovi una ragione preponderante della mancata tematizzazione nella nostra dottrina delle cause d’esclusione della colpevolezza. La concezione normativa della colpevolezza cui si allude da parte dell’A. — come si evince più chiaramente da ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, p. 57 ss. — sembra corrispondere peraltro all’originaria formulazione, risalente alla dottrina di ambiente tedesco c.d. ‘‘neoclassica’’ (per tale periodizzazione dell’evoluzione storico-dogmatica dell’esperienza penalistica d’oltralpe cfr. JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 199 ss.), che ascriveva il dolo e la colpa alla colpevolezza, sia pure affiancandoli ai canoni propriamente normativi dell’imputabilità e della normalità del processo motivazionale, ma ignorava ancora la (preliminare o esclusiva) appartenenza dell’elemento soggettivo del reato alla fattispecie tipica, che avrebbe costituito il portato meno effimero della rivoluzione sistematica prodotta dal finalismo. Questa formulazione della teoria normativa della colpevolezza, che, se non rinnega almeno esplicitamente la doppia posizione di dolo e colpa a livello di tipicità e di colpevolezza (su cui v. infra, nel testo, n. 10), certamente ne valorizza soprattutto il ruolo di criteri di graduazione del giudizio personale di rimprovero per la realizzazione del fatto antigiuridico (v., per tutti, MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’‘‘imputazione oggettiva dell’evento’’ e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, p. 32 ss.) è prevalente nel panorama della dottrina italiana d’ispirazione tripartita (v. tuttavia, per una argomentata ascrizione dei coefficienti psicologici del reato alla tipicità piuttosto che alla colpevolezza, DE FRANCESCO G.V., Il ‘‘modello analitico’’, cit., p. 126 ss.). Come tale, essa non consente di apprezzare appieno il significato della contrapposizione rilevabile nell’attuale dottrina tedesca tra teorie che ravvisano nella scriminante putativa una causa d’esclusione, rispettivamente, del dolo e della colpevolezza, dal momento che nell’ambito dottrinale d’oltralpe la prima alternativa significa essenzialmente mancanza di dolo come requisito soggettivo della fattispecie tipica e non già, come sarebbe da noi, assenza del primo e fondamentale requisito della stessa colpevolezza (significativa a riguardo la posizione di ROMANO, Commentario, cit., Art. 59/23 ss., che, nel rilevare la corrispondenza simmetrica tra art. 59, comma quarto e art. 47, comma primo, c.p., sia pure al di fuori di ogni adesione alla teoria degli elementi negativi del fatto, inquadra la rilevanza putativa della scriminante in termini, indifferentemente, di ‘‘esclusione del dolo’’ e di ‘‘mancanza di una colpevolezza dolosa’’). (116) È la posizione di DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, 1991, p. 524 ss. e 545 ss., esplicitata a conclusione di un’articolata critica dell’opinione dominante, che è rivolta ad escludere il dolo (cfr. supra, nt. 114). L’A. ravvisa in particolare in questo orientamento un’intrinseca contraddizione: risolvere la scriminante putativa nella mancanza di dolo, che costituisce un requisito soggettivo di tipicità, significherebbe ammettere di aver posto un problema di giustificazione, sia pure putativa, in assenza del necessario previo riscontro di tutti gli estremi della fattispecie tipica e rinnegando quindi la corretta sequenza di tipicità ed antigiuridicità propria della concezione tripartita del reato (p. 530 ss.). Ma è agevole obiettare come tale osservazione sia viziata a sua volta dall’arbitraria equiparazione delle dimensioni reale e putativa della causa di liceità: la previa acquisizione di tutti gli
— 813 — In tale più ampio quadro dogmatico e sistematico l’orientamento giurisprudenziale che ci occupa sin dall’inizio di questa indagine potrebbe assumere tutt’altra fisionomia che non sia quella di una singolare discrasia rispetto al dato giuridico-positivo. Potrebbe al contrario ravvisarsi in esso una sorta di salutare anticipazione a livello di ‘‘diritto vivente’’ di una disciplina, se non proprio incompatibile, certo ampiamente mimetizzata nella vigente formula codicistica: un’intuizione, che potrebbe meritare di essere adeguatamente valorizzata in sede dottrinale o addirittura proposta come punto di riferimento de jure condendo per un’articolazione normativa più coerente con i corrispondenti presupposti di teoria generale del reato. Insomma, la questione della natura giuridica della scriminante putativa va a questo punto scandagliata nei suoi nessi con le fondamentali categorie della dogmatica penalistica, al fine innanzitutto di verificare quali opzioni siano (più o meno) compatibili con la disciplina vigente ex art. 59, comma quarto, c.p.; ma senza escludere, se del caso, il risoluto passaggio ad una dimensione de lege ferenda, ove realmente l’attuale regolamentazione dovesse apparire non più sostenibile. 8. Nella direzione in ultimo segnalata risulta particolarmente consigliabile prendere le mosse da un quadro ragionato delle molteplici teorie elaborate e sostenute in un ambiente dottrinale, come quello tedesco, non vincolato da una precisa disciplina di diritto positivo dell’esimente putativa e quindi più disponibile ad esplorare le varie possibili soluzioni del problema (117). Un utile criterio sistematico può consistere nell’ordinare le varie posiestremi, anche soggettivi, della tipicità è necessaria quando ci si interroga sulla rilevanza giustificatrice di una situazione effettivamente esistente; quando invece, addirittura in ipotesi, si esclude la ricorrenza della scriminante, poiché si discute appunto della mera supposizione di essa da parte dell’agente, è ineccepibile che ci si soffermi tuttavia sul piano della tipicità, per concludere che la consistenza della medesima resta pregiudicata, a livello di dolo, proprio dalla rappresentazione erronea in cui è incorso il soggetto. Ravvisa nell’art. 59, comma quarto, c.p. una causa d’esclusione della colpevolezza e non del dolo altresì FIORE, Diritto penale. Parte generale, I, 1993, p. 413 ss., che sottolinea l’analogia della supposizione erronea di scriminante, sia pure incidente sui presupposti di fatto della stessa, con il vero e proprio errore sulla legge penale. Inclina altresì a ravvisare nella scriminante putativa una causa d’esclusione della colpevolezza in senso normativo PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 70 ss. (117) Per un aggiornato sguardo d’insieme cfr., di recente, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 462 ss.; LACKNER, Strafgesetzbuch, cit., p. 131 ss.; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 503 ss.; TROENDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, 48a ed., 1997, p. 118 ss. Da ultimo, in argomento, GOESSEL, Ueberlegungen zum Verhaeltnis von Norm, Tatbestand und dem Irrtum ueber das Vorliegen eines rechtfertigenden Sachverhalts, in Festschrift fuer Otto Triffterer, 1996, p. 93 ss. La ricognizione dello stato della dottrina di lingua tedesca in tema di Erlaubnistatbestandsirrtum risulta talora appesantita non tanto dalla varietà sostanziale di soluzioni normative proposte quanto piuttosto dalla molteplicità di corrispondenti spiegazioni
— 814 — zioni ivi riscontrabili in una successione graduata compresa tra due estremi: da un lato, la teoria che ravvisa nella supposizione erronea di fattispecie di liceità un’ipotesi di assenza di dolo alla stessa stregua dell’errore sugli elementi costitutivi del reato; dall’altro, la strenge Schuldtheorie, che, come sopra accennato, assimila all’opposto la situazione in esame a quella di errore (sia pure indiretto) sul precetto, postulando l’applicazione della disciplina prevista dal § 17 StGB. Tra questi due limiti trovano collocazione almeno altri tre orientamenti, che individuano appunto altrettante tappe del progressivo spostamento dall’uno all’altro estremo. L’identificazione piena dello Erlaubnistatbestandsirrtum con l’errore sul fatto di reato, che esclude il dolo, è il corollario conseguenziale e più appariscente della teoria che concepisce le cause di giustificazione come elementi costitutivi negativi della figura legale del reato e le ascrive quindi all’oggetto del dolo alla stessa stregua dei requisiti (positivi) della fattispecie (118). È ben noto che motivo propulsore determinante, all’origine di tale risalente e controverso indirizzo, fu proprio l’esigenza di applicare in via diretta all’ipotesi di scriminante putativa, in mancanza di un’esplicita regolamentazione, la disciplina dell’errore sui requisiti essenziali del reato ora contenuta nel § 16 StGB, nel senso della sicura esclusione del dolo con eventuale residua responsabilità a titolo di colpa (119). Da questa posizione si distacca poco sensibilmente la teoria che ravvisa ancora nella supposizione erronea di fattispecie scriminante una causa d’esclusione del dolo, ma ritiene applicabile solo in via analogica la disciplina del Tatbestandsirrtum, dal momento che viene respinta l’identificazione delle cause di liceità con gli elementi costitutivi (negativi) del fatto tipico. Se l’errore in esame non è un vero e proprio errore sul fatto, di questo presenta tuttavia la caratteristica saliente: l’agente si rappredogmatiche e soprattutto di relative denominazioni concettuali, che a taluni autori appaiono decisamente artificiose: esprimono tale avviso, tra gli altri, GRUENWALD, Zu den Varianten der eingeschraenkten Schuldtheorie, in Gedaechtnisschrift fuer Peter Noll, 1984, p. 184 ss.; von HIPPEL, Abkehr der Strafrechtswissenschaft vom Justizrecht?, in Festschrift fuer Karl Lackner, 1987, p. 192 ss.; reagisce invece all’eccessiva semplificazione del quadro dottrinale da taluno proposta PAEFFGEN, Anmerkungen zum Erlaubnistatbestandsirrtum, in Gedaechtnisschrift fuer Armin Kaufmann, 1989, p. 401 ss. (118) Cfr. per i relativi riferimenti, tra gli altri, PAEFFGEN, op. cit., p. 399, nt. 4. Rivaluta da ultimo le ragioni della teoria dei negative Tatbestandsmerkmale SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 595 ss. (119) È del resto significativo come nella stessa dottrina italiana che ha a suo tempo maggiormente approfondito l’alternativa d’inquadramento delle scriminanti tra concezione tripartita del reato e teoria degli elementi negativi di tipicità (GROSSO, L’errore, cit., p. 36 ss.) la considerazione decisiva, di tipo ‘‘teleologico’’, in favore della seconda sia stata ravvisata nell’affermata idoneità a fornire una più adeguata spiegazione dogmatica della disciplina contenuta nell’art. 59, ultimo comma, c.p. in termini di esclusione del dolo: GROSSO, op. ult. cit., p. 57 ss. e 64 ss.
— 815 — senta una situazione che, se effettivamente esistente, configurerebbe un quadro di piena liceità giuridico-penale (120). Per il momento conviene limitarsi ad osservare, a proposito di tale secondo orientamento, la dose d’equivocità, rilevata dalla stessa dottrina d’oltralpe (121), che ne infirma la corrente denominazione in termini di eingeschraenkte Schuldtheorie. Questa formula sembra suggerire l’idea che la supposizione erronea del sostrato di fatto scriminante sia considerata dai rispettivi fautori come incidente sulla sola colpevolezza e tuttavia eccezionalmente sottratta alla disciplina propria delle cause d’esclusione della medesima. La denominazione correntemente adottata intende in realtà mettere per contro in evidenza che l’ipotesi di errore in esame esclude il dolo come elemento di tipicità, pur non integrando un caso di Tatbestandsirrtum. Si tratta dunque di un’autentica Vorsatz- e non già Schuldtheorie, che ‘‘delimita’’ la caratteristica pretesa della teoria della colpevolezza di assimilare ogni errore penalmente rilevante, che non si identifichi con l’errore sulla fattispecie tipica, con l’errore sul precetto come tale estraneo alla consistenza del dolo. Il salto di qualità, nel senso del riconoscimento della permanente struttura dolosa del fatto commesso in presenza di scriminante putativa e della conseguente assimilazione con l’errore indiretto sul precetto (122) si realizza con il subentrare della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie (123). I fautori di tale orientamento sostengono che il dolo, nella sua essenziale e riassuntiva connotazione di consapevolezza di offendere il bene protetto dalla norma incriminatrice è ben presente nel soggetto che ritiene erroneamente di agire in presenza di situazione scriminante, al punto da poter pienamente svolgere la ‘‘funzione di richiamo’’ in ordine alla potenziale illiceità penale del contesto d’azione. Se l’autore cade in errore, si (120) Cfr., per un quadro aggiornato di essenziali riferimenti dottrinali, JESCHECKWEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 464 e nt. 52-53. Va peraltro osservato come la denominazione di eingeschraenkte Schuldtheorie, con cui di solito viene menzionato tale orientamento, è talora estesa all’insieme delle teorie che escludono comunque la responsabilità a titolo di dolo ed affermano l’eventuale residua responsabilità colposa dell’agente; in questa più ampia accezione (riscontrabile, tra gli altri, in LACKNER, Strafgesetzbuch, cit., p. 131 ss.; CRAMER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch. Kommentar, 24a ed., 1991, p. 286 ss.) la teoria in parola finisce per rappresentare l’insieme degli orientamenti antagonisti alla strenge Schuldtheorie, che è a sua volta e per contro intesa a rivendicare l’applicazione all’Erlaubnistatbestandsirrtum della disciplina dell’errore sul precetto di cui al § 17 StGB. (121) Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., p. 504 ss. (122) Indirekter Verbotsirrtum è denominato nell’esperienza penalistica tedesca, come è noto, l’erronea supposizione di una causa di liceità del tutto ignota all’ordinamento giuridico ovvero l’errore sui precisi confini giuridici di una norma scriminante realmente prevista: cfr., per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 461 ss. (123) Un panorama aggiornato di richiami di dottrina in TROENDLE, Strafgesetzbuch, cit., p. 119 ss.
— 816 — profila l’alternativa, caratteristica del problema della conoscibilità del divieto, dell’evitabilità o inevitabilità dell’errore sulla liceità del comportamento tenuto: ove la falsa rappresentazione avesse potuto essere prevenuta attraverso una coscienziosa ed attenta verifica della situazione di fatto, nessuna portata potrà attribuirsi alla supposizione erronea; essa assumerà al contrario rilevanza scusante nel caso in cui sia subentrata nonostante che l’agente abbia adempiuto l’onere di attento esame della situazione di fatto, reso attuale a suo carico dall’Appelfunktion esplicata dal dolo di fattispecie. Senonché, (solo) in punto di disciplina resta applicabile alla fattispecie il § 16 StGB; l’errore evitabile non lascerà dunque sussistere la punizione a titolo di dolo, eventualmente attenuata ai sensi della prima parte del § 49 StGB, ma darà ingresso alla responsabilità colposa che la legge espressamente preveda per il fatto criminoso commesso (124). A giustificazione di tale conclusione — che prospetta con piena consapevolezza una consistente discrasia tra inquadramento dogmatico e disciplina della scriminante putativa — l’orientamento dottrinale in esame pone essenzialmente due argomentazioni. Per un verso, si afferma che la responsabilità a mero titolo di colpa si attaglia meglio della più grave responsabilità dolosa ad un giudizio di riprovazione necessariamente attenuato, che non può non ravvisare al fondo del processo motivazionale e quindi dell’atteggiamento interiore del reo un sostanziale difetto di attenzione, come tale assimilabile al contenuto ordinario della colpevolezza colposa più che a quello della colpevolezza dolosa (125). Per altro verso, si ha cura di rilevare che la divaricazione così prospettata tra elemento soggettivo dell’illecito, in termini di dolo, e specie della colpevolezza, in termini di colpa, costituisce una accettabile conseguenza della ‘‘doppia posizione’’, appunto a livello d’illiceità e di colpevolezza, e quindi della possibile autonomia nei due distinti ambiti, che sarebbe legittimo attribuire sul piano teorico generale tanto al dolo quanto alla colpa (126). Un decisivo avanzamento, sulla strada che porta al recupero di una coerente articolazione tra postulati generali e disciplina della specifica ipotesi di errore in discorso, viene poi realizzato dalla teoria della colpevolezza nel momento in cui essa riesce ad affrancarsi dall’imbarazzante ri(124) In questi termini può riassumersi l’orientamento, abbastanza omogeneo, dei fautori della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie (cfr. supra, nt. 123). Una posizione singolare occupa peraltro in quest’ambito — al quale viene ricondotta, tra gli altri, da ROXIN, Strafrecht, cit., p. 505 ss. — l’opinione di JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 375 ss., definita dall’A. in via autentica come unselbstaendige Schuldtheorie: il fatto resta doloso anche a livello sanzionatorio, solo che la relativa comminatoria legale va ridotta fino a coincidere con la cornice legale della corrispondente ipotesi colposa che sia prevista espressamente dalla legge. (125) Particolarmente incisiva a riguardo la formulazione di JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 464 ss. (126) Per un esame approfondito di questa impegnativa opzione di teoria generale del reato, che costituisce l’asse portante della teoria in parola, v. infra, n. 10.
— 817 — ferimento, sia pure solo quoad poenam, alla disciplina dell’errore sul fatto tipico contenuta nel § 16 StGB. In quest’ulteriore versione — per la quale è stata coniata la denominazione di rechtsfolgenselbstaendige Schuldtheorie (127) — viene propugnata, per il caso di supposizione erronea evitabile, l’applicazione delle cornici di pena previste per il reato doloso, con superamento quindi della scarsamente plausibile delimitazione della responsabilità ai soli casi d’espressa previsione legale di reato colposo. Sono tuttavia prospettati taluni adattamenti diretti ad assicurare, da un lato, la considerazione dell’indiscutibile minore gravità dell’ipotesi in esame rispetto alle ordinarie realizzazioni dolose del fatto tipico e, dall’altro e per converso, la permanente cesura rispetto ai fatti meramente colposi, in cui manca per definizione l’Appelfunktion esercitata dal dolo. Si propone così l’applicazione obbligatoria, e non facoltativa come nei casi codificati di Verbotsirrtum, delle mitigazioni di specie o di margine edittale di pena di cui alla prima parte del § 49 StGB (128); e in aggiunta si ritiene consentita al giudice un’ulteriore riduzione, modellata sulla seconda parte della norma citata (129). D’altra parte, ci si preoccupa di precisare che il livello sanzionatorio, cui la valutazione giudiziale del fatto concreto deve attestarsi nell’ambito della cornice edittale, deve essere comunque superiore a quello della corrispondente ipotesi colposa (130). Infine — ma solo nella ricostruzione logico-sistematica qui prescelta, poiché si tratta in realtà della formulazione più risalente e corrispondente all’originaria e ‘‘pura’’ impostazione della dogmatica finalistica — la teoria della colpevolezza raggiunge, come già più volte anticipato, il grado di più rigorosa espressione (appunto: strenge Schuldtheorie) nel momento in cui rivendica la diretta sussunzione dell’ipotesi di scriminante putativa sotto il § 17 StGB, senza distinguere tra errore su (i limiti di) configurazione legale della causa di liceità ed errore sui rispettivi presupposti di fatto. Ciò comporta una presa di posizione esattamente speculare a quella dei fautori della concezione delle giustificanti come negative Tatbestandsmerkmale, da cui ha preso le mosse questa breve rassegna: la supposizione erronea del sostrato di fatto esimente integra un autentico (127) Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., p. 505. (128) Cfr., talvolta con ulteriori sottili distinzioni, KRUEMPELMANN, Die strafrechtliche Behandlung des Irrtums, in ZStW, Beiheft, 1978, p. 6 ss. e 47 ss.; PAEFFGEN, Der Verrat in irriger Annahme eines illegalen Geheimnisses (§ 97b StGB) und die allgemeine Irrtumslehre, 1979, p. 165 ss. (129) PAEFFGEN, op. ult. cit., p. 175 ss. Successivamente l’A. ha rinunciato a tale affermazione, in base al rilievo della mancanza di un qualche appiglio legale che consenta l’applicazione del § 49 seconda parte StGB: PAEFFGEN, Anmerkungen, cit., p. 411, nt. 60. (130) KRUEMPELMANN, op. cit., p. 6 ss. e 50.
— 818 — errore sul precetto, che va sottoposto alla disciplina corrispondente senza necessità di alcun adattamento (131). Il complesso quadro delle opzioni dogmatiche e di disciplina in materia di scriminanti putative è così compiuto e può ora procedersi ad una valutazione critica dell’insieme. 9. Non è difficile sgombrare innanzitutto il campo dalla presenza della teoria delle cause di liceità come elementi costitutivi negativi dell’illecito. Esula certo dall’economia della presente indagine l’onere di ridiscutere analiticamente le varie ragioni di carattere dogmatico e politico-criminale che militano in favore della ripulsa di tale impostazione in sede di teoria generale del reato, e che sono state ribadite nella nostra dottrina con il crisma di verosimile definitività in epoca relativamente recente (132). Conviene piuttosto limitarsi a riprendere brevemente in considerazione i rilievi critici attinenti al profilo, che qui specificamente interessa, dei rapporti tra la teorica in esame e la riduzione della disciplina della supposizione erronea di fattispecie scriminante ad un’ipotesi di assenza del dolo. Vale invero la pena di riaffermare, in contrasto con un radicato e diffuso pregiudizio, che è in sede di definizione d’oggetto e d’esclusione del dolo che la concezione in parola manifesta i limiti più vistosi (133), con la conseguenza paradossale di fallire proprio sul terreno ove, per consolidato riconoscimento dottrinale (134), sono maturate le ragioni autentiche del suo apparire sulla scena della dottrine generali del diritto penale. È ben noto come la teorica in esame, considerando le giustificanti come elementi costitutivi negativi del fatto tipico (e antigiuridico) e avendo per tale via fatto rientrare la loro assenza nell’oggetto del dolo, si sia immediatamente esposta all’obiezione della totale inattendibilità, su di un piano rigorosamente psicologico, di un atteggiamento soggettivo carat(131) Per un’estesa elencazione dei fautori della strenge Schuldtheorie v. CRAMER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch, cit., p. 286. (132) Alludo ai fondamentali contributi di MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., e Cause di giustificazione, cit. La teoria in parola conta ancora in Italia numerosi fautori, specie a livello manualistico: cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1992, p. 250; MARINI, Lineamenti del sistema penale, 2a ed., 1993, p. 277 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 5a ed., 1996, p. 425 ss. (cui può aggiungersi la risalente posizione di ANTOLISEI, tuttora testimoniata nella 14a ed., 1997, p. 194 ss., del Manuale di diritto penale. Parte generale, cura di CONTI). (133) ‘‘La teoria delle scriminanti come meri elementi negativi del fatto incontra le più acute difficoltà proprio sul terreno del dolo. È costretta infatti a districarsi tra sviluppi conseguenti, ma anche intimamente contraddittori o impraticabili, e soluzioni che o strapazzano il dolo, o non riescono a spiegare la disciplina legislativa’’: così, efficacemente, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1244. (134) Per tutti, ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art. 39/23 ss.
— 819 — terizzato dalla consapevolezza della mancanza nel caso concreto dell’insieme delle scriminanti presenti nell’ordinamento giuridico. È altrettanto risaputo come, dopo taluni goffi tentativi di recuperare, in termini di ‘‘latenza’’ o di ‘‘potenzialità’’, un’improbabile consistenza psicologica della coscienza della mancanza di scriminanti, i fautori più avveduti dei negative Tatbestandsmerkmale abbiano fatto ricorso alla cosiddetta ‘‘formula matematica’’: così come nella formula di struttura della fattispecie obiettiva il sostrato di fatto delle cause di liceità è preceduto dal segno ‘‘meno’’, allo stesso modo esso si presenterebbe a livello di oggetto del dolo, con la conseguenza che il momento intellettivo non dovrebbe consistere nella (positiva) rappresentazione dell’assenza della situazione scriminante, ma piuttosto nella mancanza di rappresentazione dei requisiti che rendono lecito il fatto già tipico ai sensi della norma incriminatrice (135). È del tutto evidente, in questa argomentazione, una sorta di compiacimento quasi estetico nel riscontrare la ‘‘perfetta simmetria’’ che in tal modo si realizzerebbe tra aspetto oggettivo e soggettivo del reato (136): all’assenza di una situazione scriminante, come requisito negativo oggettivo, corrisponderebbe specularmente l’assenza di rappresentazione della stessa come requisito negativo soggettivo (137). Senonché sfugge ai sostenitori della teoria in esame che il limite invalicabile al gioco delle simmetrie è dato dalla natura intrinsecamente ed esclusivamente ‘‘positiva’’ dei processi psicologici che integrano il dolo, ribadita nel nostro sistema penale dall’art. 43 c.p., laddove si richiede la previsione e la volontà dell’evento (rectius: fatto) costitutivo del delitto ai fini dell’integrazione del primario criterio d’imputazione soggettiva. È vero che il dolo è suscettibile di distinte articolazioni rispetto ai vari requisiti di tipicità, taluni dei quali possono essere oggetto solo di rappresentazione e non anche di volizione; ma non è corretto inferire da tale riconoscimento del difetto d’unità di sostrato psicologico, che si muove sempre nell’ambito di stati di coscienza ‘‘effettivi’’ pur se di diversa ampiezza e qualità, il passaggio ad una dimensione ‘‘negativa’’ che si pone in radicale contraddizione con l’essenza del dolo (138). (135) Per un’attenta considerazione di questi sviluppi, e per i relativi riferimenti bibliografici, rinvio a MARINUCCI, op. ult. cit., p. 1245 ss. (136) Cfr. in particolare GROSSO, L’errore, cit., p. 36. (137) Per una più recente formulazione v. RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systemathischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, 5a ed., 1989, § 16, Rdn. 12. (138) È il percorso seguito a suo tempo da GROSSO, op. ult. cit., p. 34 ss. Successivamente a questa indagine il recupero di una qualche dimensione ‘‘positiva’’ del problematico nesso psicologico tra agente ed assenza di scriminanti è stato tentato, nella dottrina tedesca, mediante l’estensione alle scriminanti, ma senza apprezzabili risultati, della categoria della ‘‘concoscienza immanente nell’azione’’ (Mitbewusstsein) elaborata da Platzgummer in ordine ai rapporti tra dolo e fatto: cfr. sul punto MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1246 ss. Sulla teoria del Mitbewusstsein v., da ultimo, nell’ambito di una ricostruzione storico-
— 820 — Nata per avvalorare una disciplina della supposizione erronea di fattispecie scriminante in termini coerenti con l’assenza di dolo, la teoria dei negative Tatbestandsmerkmale fallisce dunque proprio il suo obiettivo centrale: chi voglia sottrarsi all’adesione alla Schuldtheorie, in una delle sue molteplici varianti, dovrà farsi carico di spiegare altrimenti come l’errore in esame possa valere ad escludere il dolo del fatto tipico (139). A questo punto, prima di procedere ad un esame approfondito delle altre teorie avanzate in tema di rilevanza putativa delle cause di liceità, è opportuno proporre un’ulteriore semplificazione del quadro dottrinale ed insieme un criterio d’ordine nella successione delle rispettive verifiche. Conviene innanzitutto assimilare gli orientamenti che sono stati sopra richiamati in termini di rechtsfolgenselbstaendige e strenge Schuldtheorie. Questi due indirizzi hanno in comune non soltanto l’identità di postulati teorico-generali, nel senso di ascrivere la supposizione erronea già dei requisiti fattuali scriminanti alla categoria dell’errore indiretto sul precetto e quindi alla costellazione della (esclusione della) colpevolezza in senso propriamente normativo; entrambi propongono altresì un quadro nel quale si dispongono in maniera assolutamente coerente ed armonica i profili attinenti, oltreché alla struttura, anche ai criteri di valutazione ed alle conseguenze giuridiche del tipo di errore in esame (140). Sotto l’un profilo, è pienamente conseguenziale la subordinazione della rilevanza dell’errore all’accertamento di una coscienziosa verifica da parte dell’agente della situazione in cui si è trovato ad agire (141): si viene in tal modo a dar corpo al criterio generale d’apprezzamento dell’errore sul precetto in termini d’evitabilità. Sotto l’altro aspetto, per il quale le varianti in esame della teoria della colpevolezza si distinguono nettamente dalla rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, è ancora più significativo come venga rifiutata, anche solo quoad poenam, la commistione con la responsabilità a titolo di colpa di cui al § 16 StGB: in caso di errore evitabile il reo risponde di reato doloso, come si conviene — o meglio: è irrinunciabile — per una Schuldthheorie che voglia restar fedele al contrassegno pregnante della propria denominazione ed identità dogmatica. Che poi ciò avvenga attraverso la sussunzione sotto il § 17 StGB, come propugna la concezione ‘‘rigorosa’’, ovvero per il tramite della diretta applicazione della prima e/o della sedogmatica delle dottrine sull’errore, BELFIORE, Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, 1997, p. 166 ss. (139) Sul punto, v. infra, n. 11. (140) Non a caso la posizione di uno dei fautori della rechtsfolgenselbststaendige Schuldtheorie (PAEFFGEN, Der Verrat, cit.) viene talora espressamente ricondotta al filone della strenge Schuldtheorie: cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., p. 505, nt. 70; SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 595 ss. e nt. 4. (141) Cfr. in particolare PAEFFGEN, Der Verrat, cit., p. 137 ss.
— 821 — conda parte del § 49 StGB, è variazione marginale. Ciò che rende allo stesso modo apprezzabili in via di principio gli orientamenti ora in esame è la comune ripulsa della ‘‘mostruosità dogmatica’’ (142), in cui incorre la rechtsfolgenverweisende Schuldthorie: convertire cioè quanto viene conclamato come causa d’esclusione della colpevolezza in caso d’errore inevitabile, in causa d’esclusione della responsabilità dolosa in caso di errore evitabile, quando invece tale seconda evenienza dovrebbe comportare la piena permanenza del titolo soggettivo primario di responsabilità, sia pure con pena eventualmente mitigata. Sempre ad una valutazione preliminare, le due varianti in discorso della Schuldtheorie appaiono porsi in sintonia con gli orientamenti della nostra giurisprudenza esaminati nella prima parte di questo lavoro: si è visto, specie in rapporto all’esercizio putativo del diritto di cronaca, come la Corte di cassazione non si perita di affermare la responsabilità per dolo (in casi peraltro in cui per lo più non è prevista l’ipotesi di delitto colposo) quando l’autore si sia sottratto all’onere di diligente verifica del requisito fattuale scriminante (143). Senonché, proprio per il fatto che il sistema penale italiano a differenza di quello tedesco contiene una precisa disciplina della materia, nei termini dell’art. 59, comma quarto, c.p, che sono incompatibili ed anzi alternativi ai coerenti esiti della rechtfolgenselbststaendige e strenge Schuldtheorie, l’adesione ad esse potrebbe avvenire solo al prezzo molto caro di avvalorare apertamente un’interpretazione abrogatrice della disposizione vigente. Ora, seppure la presente indagine non intende arrestarsi al limite dello jus conditum, è evidente, per ragioni di correttezza metodologica e di economia d’impegno di ricerca, che un’approfondita e conclusiva disamina dello spessore teorico generale delle suddette articolazioni della teoria della colpevolezza sarà proponibile solo ove risultassero impraticabili le residue soluzioni in campo, entrambe caratterizzate in partenza dalla conformità al dettato del nostro diritto positivo. Tra di queste si colloca esattamente all’opposto la eingeschraenkte Schuldtheorie, che, ad onta di quanto potrebbe a prima vista suggerire la sua corrente denominazione (144), è tutt’altro che una teoria della colpevolezza. Essa afferma al contrario, in parziale sintonia con la teorica dei (142) Così SCHUENEMANN, Die deutschsprachige Strafrechtswissenschaft nach der Strafrechtsreform im Spiegel des Leipziger Kommentars und des Wiener Kommentars, in GoltdA, 1985, p. 350. (143) Cfr. supra, n. 2. (144) Cfr. supra, n. 8 e nt. 121. Per esaurienti riferimenti bibliografici v. CRAMER, op. cit., p. 286; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 504, nt. 66. Risulta talora arduo ascrivere con sufficiente sicurezza certe posizioni dottrinali alla ‘‘teoria limitata della colpevolezza’’ o piuttosto a quella degli ‘‘elementi negativi di fattispecie’’, dal momento che gli stessi fautori considerano più o meno esplicitamente come equivalenti i rispettivi postulati: v., tra gli altri, RUDOLPHI, op. loc. ult. cit.; SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 597 ss.
— 822 — negative Tatbestandsmerkmale, che l’errore sulla fattispecie scriminante esclude il dolo come requisito soggettivo di tipicità, ma ciò accadrebbe senza che la situazione soggettiva in cui versa l’autore possa configurarsi come errore sulla fattispecie; può dunque applicarsi in proposito il § 16 StGB, ma solo in via analogica, poiché la postulata assenza di dolo non è conseguenza, come lì si richiede, della mancata conoscenza di un requisito costitutivo del fatto di reato. Ad una considerazione critica la teoria in esame non sfugge alla sensazione di un difetto di adeguata spiegazione del suo contenuto essenziale: come possa cioè un errore escludere il dolo senza presentarsi come vero e proprio Tatbestandsirrtum (145); e tale limite sembra più appariscente proprio in quanto riferito all’ordinamento penale in cui la teoria, come le altre in esame, ha avuto origine, ordinamento caratterizzato, come è noto, dalla recezione codicistica relativamente recente della consolidata distinzione dottrinale tra errore sul fatto ed errore sul precetto. Che un errore su di un elemento costitutivo della fattispecie possa eccezionalmente sottostare alla disciplina dell’errore sul divieto è stato a dire il vero spiegato: si tratta della problematica afferente al cosiddetto errore ‘‘di sussunzione’’ (146). Resta tuttora bisognevole di approfondimento, ad onta della diffusione e dei consensi suscitati dalla eingeschraenkte Schuldtheorie, l’opposta questione della soggezione alla disciplina dell’errore sulla fattispecie di un errore che per esplicita e preliminare ammissione dei suoi fautori — oltretutto imprescindibile per contrassegnare il confine con la ripudiata teoria dei negative Tatbestandsmarkmale — non incide su alcun requisito essenziale (meno che mai di tipo ‘‘negativo’’) del fatto tipico (147). Si è tentati allora di sospettare che l’esigenza di mantenere co(145) Per taluni sviluppi più recenti della ‘‘teoria limitata della colpevolezza’’, diretti a valorizzare espressamente una nozione di dolo più ampia di quella specularmente connessa al Tatbestandsirrtum, v. infra, n. 11. (146) Viene in considerazione sotto tale denominazione, come è noto, l’errore d’interpretazione della norma penale, che, in quanto incida sul significato propriamente penalistico di un elemento normativo di fattispecie, può escludere, allo stesso modo delle ipotesi ordinarie di errore sul fatto, ‘‘che l’agente si rappresenti un elemento essenziale del fatto, almeno in termini congruenti con il modello legale’’; eppure in tali ipotesi il dolo permane e l’errore rileva solo nei limiti dell’inevitabilità di cui all’art. 5 c.p.: cfr., testualmente, ROMANO, Commentario, cit., Art. 47/30 ss.; v. altresì MITSCH, Buchbesprechung per HEIDINGSFELDER, Der umgekehrte Subsumtionsirrtum, 1991, in ZStW, 1998, p. 171 s. In argomento, di recente, SCHWEGLER, Der Subsumtionsirrtum, 1995. (147) Dice bene TROENDLE, Strafgesetzbuch, cit., § 16, Rdn. 26, riferendosi ad un corrispondente orientamento del Bundesgerichtshof, che, fin quando si concepisce il dolo come comprensivo dei soli connotati del fatto tipico, la teoria in esame ‘‘resta sospesa in aria’’. Similmente LACKNER, Strafgesetzbuch, cit., § 17, Rdn. 10, nel manifestare la sua preferenza nei confronti della eingeschraenkte Schuldtheorie, ammette che la spiegazione del risultato cui essa perviene ‘‘appartiene tuttavia ai problemi dogmatici ancora irrisolti della parte generale’’. V. comunque supra, nt. 145.
— 823 — munque la disciplina del § 16 StGB, evidentemente sopravvissuta al declino della teoria delle scriminanti come elementi costitutivi negativi, abbia fatto aggio sull’effettiva portata e dignità argomentativa di questa ulteriore presa di posizione. Il sospetto è destinato a riproporsi nel momento in cui ci si rivolge a considerare la già evocata rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, che, sulla base dei connotati ‘‘sincretistici’’ anticipati (148), occupa a buon diritto una posizione ‘‘centrale’’ tra le opposte teorie intese a spiegare la rilevanza putativa delle scriminanti sul piano dell’esclusione, rispettivamente, del dolo e della colpevolezza. La dichiarata natura del carattere sui generis della scriminante putativa, quasi a metà strada tra errore sul fatto e sul divieto — anche se viene comunque ritenuta prevalente la seconda qualificazione e coerentemente affermato il carattere doloso del fatto commesso — (149), non è peraltro unicamente funzionale all’applicazione della disciplina di cui al § 16 StGB, nel senso di incriminare a titolo di colpa la supposizione erronea evitabile. Se si fosse trattato solo di questo, i fautori di tale teoria avrebbero probabilmente diretto il notevole ed impegnativo sforzo dogmatico che la supporta nella direzione contraria della spiegazione della mancanza di dolo, integrando così il deficit accusato dalla eingeschraenkte Schuldtheorie, alla quale la variante in discorso è accomunata dall’identità di soluzione normativa proposta. Il punto è che la rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie è mossa da un’ulteriore e altrettanto urgente motivazione: ribadire i connotati strutturalmente dolosi del fatto tipico, allo scopo di consentire l’incriminazione del partecipe al fatto commesso in presenza di scriminante putativa, altrimenti esclusa dal chiaro disposto dei §§ 26 e 27 StGB (150). (148) Cfr. supra, n. 8. (149) Cfr. supra, nt. 123 e 124. (150) Queste disposizioni — come è noto — subordinano la responsabilità del determinatore e del complice in una vicenda di compartecipazione criminosa al presupposto, proprio di una rigorosa accezione della teoria dell’accessorietà, del carattere non solo antigiuridico, ma altresì doloso del fatto commesso dall’autore in senso stretto: se dunque si escludesse il dolo in capo all’autore che agisce in condizioni di scriminante putativa, si dovrebbe coerentemente negare la rilevanza penale del comportamento del concorrente inteso a sfruttare maliziosamente la situazione di rappresentazione erronea in cui versa il primo. Depreca con particolare vigore lo stretto vincolo genetico della teoria in parola con l’esigenza di colmare la (pretesa) lacuna di tutela appena descritta Arthur KAUFMANN, Einige Anmerkungen zu Irrtuemern uber den Irrtum, in Festschrilt fuer K. Lackner, 1987, p. 194. I fautori dell’eingeschraenkte Schuldtheorie, che, in quanto sostenitori del carattere strutturalmente non doloso del fatto commesso in condizione di scriminante putativa, si espongono all’obiezione di lasciare impunito il partecipe, reagiscono a loro volta con un duplice atteggiamento: taluni — e si tratta certo della posizione più apprezzabile — rivendicano a riguardo il carattere frammentario della responsabilità penale, che dovrebbe trattenere l’interprete dalla tentazione di colmare ad ogni costo lacune di tutela derivanti da scelte consapevoli dello stesso le-
— 824 — Certo, nel nostro ordinamento penale quest’ulteriore esigenza non ha motivo di porsi, essendo riconosciuto in modo ormai consolidato che il fatto dell’autore può non essere doloso, senza con ciò compromettere di per sé (la configurabilità del concorso e) la responsabilità del partecipe (151): il portato caratteristico della costruzione del fenomeno concorsuale in termini di (nuova) fattispecie plurisoggettiva, da noi decisamente prevalente rispetto allo schema dell’accessorietà, è proprio quello di consentire la più varia dislocazione tra i compartecipi degli elementi costitutivi, anche soggettivi, dell’originaria tipicità (152). Ciò non toglie che la teoria in parola, che al pari delle altre varianti della (autentica) Schuldtheorie richiede la verifica preliminare dell’evitabilità dell’errore, sembra porsi in sintonia complessiva con lo stato della disciplina dell’esimente putativa nel nostro sistema: a livello di criteri di valutazione dell’errore essa trova puntuale corrispondenza negli orientamenti giurisprudenziali già ampiamente illustrati; con riferimento alla conclusiva disciplina della responsabilità, nel senso della punizione a titolo di colpa per l’ipotesi di errore evitabile e non ‘‘irragionevole’’, ciò che nella dottrina d’oltralpe è solo un’ipotesi trova nel codice penale italiano sufficiente riscontro nell’art. 59, comma quarto, c.p. È dunque con particolare cura che occorre procedere all’esame analitico e definitivo della consistenza della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie. E conviene altresì condurre questo approfondimento con priorità rispetto alle altre concezioni ancora in campo: rispetto alle più rigorose varianti della teoria della colpevolezza, per il fatto che, come sopra accennato, l’eventuale verifica della prima consentirebbe di evitare la ricerca di soluzioni allo stato in rotta di collisione con la disciplina positiva e dunque eventualmente plausibili solo de jure condendo; rispetto alla (cosiddetta) eingeschraenkte Schuldtheorie perché sarebbe risparmiato il compito, al momento più arduo, di spiegare come la scriminante putativa possa escludere il dolo senza che le cause di liceità debbano essere costruite come elementi negativi del fatto tipico. 10. La rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie suscita grosse perplessità innanzitutto con riferimento alla sottolineatura della ‘‘funzione di gislatore (tra gli altri, Arthur KAUFMANN, op. cit., p. 196 ss.; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 511); altri accedono invece ad una soluzione di compromesso dogmatico, nel senso di ammettere che ai soli fini di cui ai §§ 26 e 27 StGB il dolo debba ritenersi ristretto agli elementi (positivi) della fattispecie tipica e dunque non toccato dalla supposizione erronea di scriminante (per tutti RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar, cit., § 16, Rdn.13). (151) Cfr., per tutti e per ulteriori richiami, GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, 2a ed., 1996, Art. 110/3 ss. (152) Cfr. ancora GRASSO, op. cit., Pre-Art. 110/26 ss.
— 825 — richiamo’’ che la rappresentazione del fatto tipico dovrebbe esplicare nei confronti dell’autore in ordine ai connotati di disvalore del contesto d’azione. Si tratta del suo postulato centrale, mutuato dal robusto impianto della teoria ‘‘rigorosa’’ della colpevolezza e che l’accomuna peraltro alla distinta variante ‘‘indipendente dalle conseguenze giuridiche’’: ad esso consegue, per un verso, la conferma del carattere comunque intrinsecamente doloso del comportamento e, per altro verso, l’insorgere di un dovere di verifica particolarmente accurata, la cui inosservanza, testimoniata dall’evitabilità dell’errore, si traduce nel definitivo giudizio di colpevolezza, sia pure solo ‘‘colposa’’ (153). In proposito sono state mosse molteplici obiezioni. Si è detto che proprio il profilarsi di una situazione scriminante, specie del tipo di quelle caratterizzate dalla necessità di autosalvaguardia, lungi dal rafforzare può al contrario quasi paralizzare gli impulsi di allarme e di inibizione (154). Si è altresì osservato come la Appelfunktion non possa comunque essere richiamata rispetto a quei reati inerenti al diritto penale ‘‘accessorio’’, in cui la tipicità non è di per sé particolarmente significativa della dimensione sostanziale dell’illecito (155). Si è infine sottolineato che l’appello all’uso di particolare cura non è affatto indissolubilmente connesso alla tipicità del fatto e quindi alla compresenza del dolo, tanto è vero che è riscontrabile in molteplici situazioni di agire pericoloso che sono all’origine di chiare ed incontestate forme di responsabilità colposa (156). Le prime due obiezioni possono non risultare di per sé insormontabili. Con riferimento all’una può replicarsi che la neutralizzazione della funzione di richiamo ad opera di un incombente sostrato scriminante acquista rilievo e merita di esser presa in considerazione dall’ordinamento solo a partire da una certa soglia, coincidente appunto con il limite oltre il quale l’eventuale supposizione erronea appare inevitabile (157). Può aggiungersi, sulla base di quanto approfondito nella prima parte di questo lavoro, che le questioni relative al grado d’accertabilità dei requisiti scriminanti al momento della condotta vengono talora risolte dal legislatore o dall’interprete in un contesto antecedente a quello della rilevanza putativa, come avviene quando si tratta di fissare i criteri del giudizio sotteso (153) Per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 464 ss. (154) È un’osservazione sviluppata a suo tempo da ENGISCH, Tatbestandsirrtum und Verbotsirrtum bei Rechtfertigungsgruende, in ZStW, 1958, p. 599, e ripresa di recente, tra gli altri, da RUDOLPHI, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar, cit., § 16, Rdn. 12. (155) ZIELINSKI, Handlungs- und Erfolgsunwert im Unrechtsbegriff, 1973, p. 114 ss. (156) JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 372; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 508; contra PAEFFGEN, Anmerkungen, cit., p. 407 ss. (157) Così JAKOBS, op. loc. ult. cit.; v. anche PAEFFGEN, Anmerkungen, cit., p. 407, che accenna ad una ‘‘residuale’’ funzione d’appello del fatto tipico nei casi di errore evitabile.
— 826 — agli elementi di tipo prognostico (158): non sarebbe quindi corretto rinnegare o ridimensionare la Appelfunktion del fatto tipico in nome di un disagio di verifica, patito dall’agente, di cui presumibilmente il sistema ha già tenuto conto in sede di delineazione del profilo ‘‘effettuale’’ della scriminante. Del tutto convincente è l’ultimo dei rilievi critici sopra formulati. In effetti esistono situazioni tipicamente suscettibili di sfociare in autentica responsabilità colposa per la produzione di eventi lesivi, nelle quali l’intensità dell’allarme promanante dal contesto obiettivo d’azione è quanto meno equivalente, se non addirittura superiore al richiamo suscitato dalla realizzazione dei requisiti di una fattispecie criminosa in presenza di un apparente contesto di liceità. Colui che, maneggiando compiaciuto un’arma da fuoco e controllando in particolare la resistenza del grilletto alla pressione del dito senza essersi previamente accertato che l’arma sia scarica, lascia partire un colpo letale, certamente ignora ‘‘appelli’’ alla cautela obiettivamente fondati e ben più consistenti di quelli trascurati, ad esempio, dall’ufficiale giudiziario, che s’introduce d’autorità, per errore di fatto assolutamente evitabile, in un appartamento diverso da quello di proprietà del debitore pignoratizio presso cui occorre asportare i beni oggetto della procedura esecutiva (159). Nell’uno e nell’altro caso l’autore è, da un lato, lontano dal rappresentarsi l’offesa (attuale e ingiusta) d’interessi penalmente protetti e, dall’altro, versa in grave imprudenza o negligenza, anche se nella seconda ipotesi manca l’espressa previsione legale del titolo colposo di responsabilità. Oltretutto, in una prospettiva dogmatica di più ampio respiro, stupisce che questa valorizzazione di una ‘‘funzione di richiamo’’, che sarebbe compatibile (solo) con il dolo, provenga dai fautori di quella Schuldtheorie della quale, seppure ormai ampiamente consolidata nella dottrina d’oltralpe, non ci si dovrebbe mai dimenticare l’originario stretto vincolo genetico con la sistematica del finalismo ed in particolare con la distinzione tra Tatbestands- e Verbotsirrtum, così nettamente proponibile proprio in quanto il dolo veniva tendenzialmente svuotato di connotati ‘‘valutativi’’ e ridotto a mera finalità comportamentale: appunto il ‘‘proposito’’ (Vorsatz) e non certo il dolus malus come consapevolezza dell’offesa arrecata, suscettibile di essere più o meno ‘‘richiamata’’ dalla stessa consistenza del fatto tipico (160). Non è allora un caso che la critica più serrata della Ap(158) Cfr. supra, n. 4 ss. (159) L’esempio addotto nel testo sviluppa un accenno di DREHER, Der Irrtum ueber Rechtfertigungsgruende, in Festschrift fuer Ernst Heinitz, 1972, p. 215, nell’ambito di un contesto argomentativo analogo, inteso a negare l’incombenza sull’agente di un particolare obbligo di verifica in caso di supposizione erronea di scriminante piuttosto che in quello di ordinario errore sulla fattispecie tipica. (160) Afferma che ‘‘in Welzel il dolo penale rimane ‘neutro’ o ‘incolore’; e ciò, nono-
— 827 — pelfunktion, seppure coniugata con un’altrettanto energica riaffermazione del carattere assolutamente doloso del fatto commesso nella supposizione erronea del sostrato scriminante, sia attualmente rinvenibile nella dottrina tedesca presso un epigono, sia pure originale, della teoria finalistica dell’azione (161). Il punto sul quale la teoria della colpevolezza rinviante alle conseguenze giuridiche denuncia il maggiore deficit di attendibilità non è tuttavia l’affermazione del carattere strutturalmente doloso del fatto commesso in condizione di scriminante putativa, ma piuttosto la divaricazione avallata tra questa connotazione soggettiva dell’illecito e la ‘‘specie’’ di colpevolezza, che potrebbe di contro atteggiarsi a ‘‘colposa’’, giustificandosi così la punizione del reo a titolo di colpa sempreché sia previsto il relativo titolo di responsabilità (162). stante tutta l’appassionata critica da lui rivolta al dolo della dottrina classica’’ MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, 1989, p. 66, nell’ambito di un approfondito bilancio critico del ruolo e del lascito della teoria finalistica dell’azione rispetto all’odierna dogmatica giuridico-penale. Coglie a sua volta esattamente la scarsa compatibilità dell’Appelfunktion del dolo, affermata dalla Schuldtheorie, con i fondamentali postulati della concezione welzeliana KUHLEN, Die Unterscheidung von vorsatzausschliessendem und nichtvorsatzausschliessendem Irrtum, 1987, p. 316 ss. (161) È la posizione di JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 372 ss. Il vizio di fondo di tutte le concezioni che in modo più o meno accentuato richiamano una funzione di ‘‘appello’’ del dolo, da cui non potrebbe prescindersi nella considerazione della complessa tematica della supposizione erronea di scriminante, risiede comunque nell’artificiosa distinzione che ci si ostina a mantenere, nella spiegazione dogmatica del fenomeno della giustificazione, tra ‘‘fattispecie tipica’’ (Deliktstatbestand) e ‘‘sostrato’’ o ‘‘fattispecie scriminante’’ (Rechtfertigungsachverhalt): finché la prima viene considerata suscettibile di una valutazione negativa distinta, seppure ‘‘provvisoria’’, da parte dell’ordinamento, tale da poter essere confermata o smentita rispettivamente dalla mancanza o dal subentrare del secondo, è chiaro che sarà pressoché impossibile rinunciare a ravvisare nel corrispondente atteggiamento soggettivo dell’agente una sorta di ‘‘preliminare’’ e ‘‘provvisorio’’ orientamento ‘‘doloso’’, destinato a permanere in caso di assenza di causa di liceità e a coniugarsi con un rimprovero di (sola) colpevolezza colposa ove questa sia stata tuttavia erroneamente supposta. Se invece si riconosce — come sarà meglio argomentato infra, n. 11 — che la ‘‘fattispecie tipica’’ ed il ‘‘sostrato scriminante’’, lungi dal costituire due distinte entità normative, si presentano fusi ab origine in un’unica ‘‘fattispecie scriminata’’ (che non è la fattispecie penale arricchita di elementi negativi, ma al contrario una fattispecie extrapenale integrata da elementi tutti positivi, quali i requisiti c.d. tipici e quelli c.d. scriminanti), è possibile pervenire ad una soluzione finalmente appagante: ad una fattispecie, che sin dall’inizio è presentata dall’ordinamento come un’unità valutativa di liceità, corrisponde nel soggetto agente un atteggiamento psicologico caratterizzato altrettanto unitariamente ed originariamente dalla mancanza di dolo. (162) V., per tutti, GALLAS, Zur Struktur des strafrechtlichen Unrechtsbegriffs, in Festschrift fuer Paul Bockelmann, 1979, trad. it. di F. Angioni, in questa Rivista, 1982, p. 462 ss. A questo autore viene di solito ricondotta — attraverso un più risalente riferimento a GALLAS, Zum gegenwaertigen Stand der Lehre vom Verbrechen, in ZStW, 1955, p. 45 ss., nt. 89 — la formulazione originaria della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie (cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., p. 504, nt. 67). Il citato passo del più antico lavoro di Gallas contiene peral-
— 828 — L’affermazione che il processo motivazionale sotteso alla realizzazione dell’illecito — in condizione di supposizione erronea evitabile di scriminante — sia più compatibile con il rimprovero per colpa che per dolo potrebbe anche essere di per sé accettata; ma essa rischia di provare troppo. Se è vero che al reo si fa carico sostanzialmente di un difetto di diligenza nella verifica della situazione di fatto, enfatizzato peraltro proprio dal riferimento alla Appelfunktion che sarebbe esplicata dalla rappresentazione del fatto tipico, non si vede perché tale forma di riprovazione non possa essere valida già per le ipotesi ordinarie di errore evitabile (e diretto) sul precetto (163). Colui il quale, omettendo di adempiere gli obblighi d’informazione in ordine alla disciplina giuridica dell’attività che intende intraprendere, realizza volontariamente un delitto di mera creazione legislativa, potrebbe allo stesso buon diritto essere considerato autore di un fatto strutturalmente doloso che merita piuttosto un rimprovero di tipo colposo; e ciò probabilmente a maggior ragione rispetto all’ipotesi di scriminante putativa, dal momento che, non venendo in considerazione un reato di offesa, la rappresentazione del fatto tipico sarebbe per definizione inidonea a suscitare un impulso di attenta verifica di eventuale pregiudizio d’interessi apprezzabili in una dimensione antecedente ed esterna al precetto penale. Eppure, ai sensi del § 17 StGB, e comunque sulla base dei postulati generali della teoria della colpevolezza in rapporto alla problematica della conoscibilità del divieto, l’agente deve sottostare, in caso di errore evitabile sul precetto, alla pena, eventualmente diminuita, prevista per il reato doloso, mentre in caso di scriminante putativa — a voler seguire la variante ‘‘orientata alle conseguenze giuridiche’’ qui in parola — beneficierà del più mite trattamento sanzionatorio connesso all’ipotesi colposa o andrà del tutto esente da conseguenze penali ove non sia prevista la corrispondente incriminazione (164). Insomma, la postulata divaricazione tra natura dolosa della componente soggettiva dell’illecito e natura colposa del giudizio di riprovazione tro, e innanzitutto, il primo accenno a quella teoria della doppia funzione del dolo, che della soluzione in esame del problema della scriminante putativa costituisce l’essenziale (e discutibilissimo) presupposto: cfr. LIPPOLD, Reine Rechtslehre und Strafrechtsdoktrin, 1989, p. 326. (163) I vari profili della problematica dell’errore sulla legge penale sono stati oggetto di rinnovato e cospicuo interesse da parte della dottrina italiana dell’ultimo decennio, a seguito della ‘‘storica’’ sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale; per un quadro della situazione e per puntuali riferimenti bibliografici v., di recente, MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, in questa Rivista, 1996, p. 223 ss. (164) Della possibilità di obiettare alla teoria in esame quanto sviluppato nel testo appare invero consapevole GALLAS, Zur Struktur, cit., p. 464 ss.: l’A. ritiene di poter replicare affermando, in modo più perentorio che convincente, che ‘‘nell’errore sulla giustificazione mediato attraverso un errore evitabile sul fatto non sono presenti le ragioni politicocriminali che hanno condotto alla particolare normazione contenuta nel § 17, seconda parte sull’errore evitabile riguardante direttamente il precetto’’ (corsivo dell’A.).
— 829 — nei confronti del reo rischia di aprire una consistente falla nell’impianto della teoria dell’errore sul precetto, al cui ambito i seguaci della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie finiscono in definitiva per ascrivere la supposizione di fattispecie scriminante ad onta della pur rilevata natura sui generis dell’errore che la fonda (165). Si tratta di un prezzo in verità troppo alto da pagare solo per evitare — posto che in punto di responsabilità del reo niente diversifica la variante in esame dalla eingeschraenkte Schuldtheorie — pretese lacune di tutela in materia di compartecipazione criminosa, cui uno schietto riconoscimento del carattere integralmente colposo del fatto condurrebbe in ordine alla posizione del partecipe ‘‘malintenzionato’’ (166). Si può certo obiettare che esiste comunque una precisa differenza rispetto all’ipotesi di vero e proprio errore (diretto) sul precetto: qui è ravvisabile un netto divario tra l’opinione di liceità di una determinata classe di fatti propria dell’agente e la valutazione (contraria) espressa a riguardo dall’ordinamento giuridico, mentre nel caso di scriminante putativa vi è coerenza tra le rispettive valutazioni. Ma di queste differenze (167) può bene tenersi conto, secondo le varie proposte formulate dai seguaci più o meno ‘‘rigorosi’’ della Schuldtheorie, sul piano di una commisurazione della pena che assuma sempre come punto di partenza la cornice del reato doloso: la Strafzumessungsschuld può e deve certo essere opportunamente graduata, ma è inconcepibile che il primo momento di questa graduazione consista nella degradazione della cornice edittale di riferimento dall’ipotesi dolosa a quella colposa, con eventuale esclusione addirittura di ogni responsabilità se solo manchi l’imputazione a titolo di colpa. La tesi della possibile antinomia tra illecito e colpevolezza in rapporto ai fondamentali criteri d’imputazione soggettiva, nel senso che l’illecito doloso sarebbe compatibile con una colpevolezza colposa, suscita del resto consistenti perplessità già a livello di teoria generale del reato, prima ancora che sullo specifico piano della scriminante putativa. Tale affermazione costituisce lo stravagante corollario della più generale opzione, diffusa nella dottrina tedesca e che trova seguaci anche in ambiente italiano, secondo cui al dolo ed alla colpa, quali essenziali forme d’imputazione soggettiva, andrebbe riconosciuta nella sistematica del reato una ‘‘doppia posizione’’: da un lato, quella di ‘‘portatori’’ del disvalore personale dell’illecito nella complessiva economia della fattispecie tipica; dall’altro, (165) Particolarmente chiaro sul punto ancora GALLAS, Zur Struktur, cit., p. 463. (166) Cfr. supra, nt. 150. (167) Destinate comunque ad essere ridimensionate, se si accede all’opinione, prevalente nella dottrina italiana, che non sia necessaria la consapevolezza da parte dell’agente del significato di ‘‘liceità’’ del sostrato di fatto supposto ai fini della rilevanza putativa della scriminante: per tutti, GROSSO, L’errore, cit., p. 20 ss.; contra, CONTENTO, Corso di diritto penale, II, 2a ed., 1996, p. 367 ss.
— 830 — quella d’espressione di sintesi del particolare processo di formazione della volontà sotteso alla realizzazione criminosa, e quindi del ‘‘disvalore di atteggiamento interiore’’ che costituirebbe aspetto non trascurabile della composita categoria della colpevolezza (168). L’idea della doppia posizione del dolo costituisce a sua volta il frutto della mancata disponibilità ad accogliere fino alle necessarie conseguenze la ‘‘rivoluzione copernicana’’ determinata, nella storia della sistematica del reato, dalla teoria finalistica dell’azione. È riconoscimento ormai generalizzato, al punto da apparire quasi rituale, che il finalismo welzeliano ha lasciato tracce durature nell’evoluzione della teoria generale del reato non certo in ordine ai sempre opinabili connotati ‘‘ontologici’’ di un ancor preteso concetto unitario di azione, ma piuttosto sul piano della distribuzione dei requisiti essenziali dell’illecito penale all’interno delle sue fondamentali categorie strutturali (169). Senonché, una volta tributato questo merito, appare configurazione riduttiva quella che si limita a prendere atto dell’ormai inoppugnabile afferenza dell’elemento soggettivo del reato alla dimensione della tipicità, senza convalidare l’altra fondamentale e speculare acquisizione sistematica in tema di colpevolezza: la promozione cioè di una concezione ‘‘normativa pura’’, a stregua della quale la colpevolezza, depurata per converso dalla compresenza della dimensione psicologica del reato, si risolve davvero nei criteri che rendono possibile un giudizio di riprovazione nei confronti del reo per il fatto commesso, quali che siano i connotati tipici (oggettivi e soggettivi) di questo. È singolare che si continui a trascurare il formidabile contributo di chiarificazione arrecato alla sistematica del reato nel momento in cui fu denunciato il carattere ‘‘centauresco’’ di un concetto (sedicente) normativo di colpevolezza che poneva ancora sullo stesso piano i ‘‘criteri’’ del giudizio di riprovevolezza (imputabiltà, conoscibilità del precetto penale ed esigibilità della sua osservanza) e l’‘‘oggetto’’ del giudizio, peraltro riduttivamente circoscritto alla dimensione psicologica del reato (170). Se si concorda sul fatto che l’aspetto soggettivo (168) Cfr., con particolare riguardo alla doppia posizione del dolo che in questa sede specificamente interessa, JESCHECK-WEIGEND, Strafrecht, cit., pp. 243 e 430, cui si rinvia anche per gli esaurienti ed aggiornati richiami bibliografici. Per un quadro della dottrina italiana sul punto v., di recente, DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, 1996, p. 282 ss. e nt. 37. (169) Cfr., per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 213; MORSELLI, Il ruolo, cit., p. 3 ss. e 47 ss., che osserva come ‘‘Welzel stesso, nonostante la sua tenace insistenza sul concetto ‘ontologico’ di finalità, sosteneva che, in ultima analisi, deve considerarsi finalista chiunque attribuisca il dolo al tipo, ossia alla fattispecie’’ (p. 48: corsivo dell’A.). (170) Constata le gravi incertezze che rimangono all’interno della concezione normativa ‘‘tradizionale’’ della colpevolezza, e sembra non sottovalutare le opportunità di superamento delle medesime offerte dalla versione ‘‘pura’’, ROMANO, Commentario, cit., Pre-Art.
— 831 — del reato integra la dimensione ‘‘personale’’ dell’illecito, contribuendo in modo determinante all’individuazione della sua gravità, quale si esprime nella cornice edittale di pena, non si riesce più a comprendere quale ruolo lo stesso elemento debba poi svolgere sul piano dei presupposti che rendono possibile il rimprovero, nei confronti del reo, di aver realizzato un fatto che intanto è illecito, in quanto, tra l’altro, è doloso ovvero colposo. L’indiscutibile differenziale di disvalore soggettivo — se si vuole, anche in termini di atteggiamento interiore (171) — tra reato doloso e reato colposo è già stato adeguatamente ed esaustivamente valorizzato dal legislatore a livello di fattispecie tipica e quindi in sede di determinazione legale della pena: riproporne la considerazione sul piano della colpevolezza non riveste alcun significato in relazione all’an della responsabilità; mentre, in rapporto al quantum, le gradazioni riscontrabili nell’‘‘appartenenza’’ al reo della causazione volontaria o negligente dell’evento meritano di afferire alla Strafzumessungsschuld non più di quanto non si riconosca già ed innanzitutto per gli elementi oggettivi del fatto concreto. L’essenza della colpevolezza in senso (autenticamente) normativo è insomma unitaria ed inscindibile, quale che sia la conformazione ogget39/79. Si pronuncia espressamente a favore di una concezione normativa pura della colpevolezza, con afferenza del dolo al piano esclusivo del fatto illecito, MORSELLI, Il ruolo, cit., p. 55 ss., nell’ambito di un’originale e complessa ricostruzione del dolo su basi psicodinamiche, che ne valorizza la tonalità emotiva in termini di animus nocendi a scapito della tradizionale configurazione a livello di rappresentazione e volontà. La dottrina italiana resta comunque prevalentemente legata alla concezione normativa pre-welzeliana della colpevolezza (cfr. supra, nt. 115) e la stessa adesione, talora esplicitata, alla teoria della doppia posizione del dolo sembra piuttosto ispirata ad un cauto eclettismo, privo di conseguenti sviluppi dogmatici (cfr. ancora MORSELLI, Il ruolo, cit., p. 7 ss. e nt. 7). In posizione di minoranza si trovano i fautori della concezione normativa pura anche in ambiente tedesco: cfr., per i relativi riferimenti, LENCKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch. Kommentar, 24a ed., 1991, vor § 13, Rdn. 115. (171) È la posizione di MORSELLI, Il ruolo, cit., più di recente ribadita in Die subjektive Elemente der Straftat aus kriminologischer Sicht, in ZStW, 1995, p. 324 ss. Di tale orientamento appare sicuramente apprezzabile l’ascrizione del disvalore d’atteggiamento interiore — che si voglia ravvisare nel dolo — all’elemento psicologico del tipo di illecito e non già, come si riscontra presso i fautori tedeschi della doppia posizione, alla dimensione normativa della colpevolezza. Non altrettanto plausibile è di contro l’asserzione che ‘‘riconoscere l’appartenenza del dolo al fatto significa in ogni caso accettare il primato del disvalore della condotta su quello dell’evento’’ (Il ruolo, cit., p. 4, nt. 3). Vero è che nell’affermazione di tale primato sta l’essenza della prevalente adesione della dottrina tedesca alla concezione ‘‘personalistica’’ dell’illecito; ma va detto a chiare lettere che su tale questione capitale è lecito pretendere da parte della dottrina italiana uno sforzo di consapevole autonomia, ben al di là di ogni diatriba sulla sempre opinabile distribuzione degli elementi del reato tra illecito e colpevolezza. Voglio dire che, se può essere benvenuta ogni sia pur raffinata istanza di ‘‘personalizzazione’’ della responsabilità penale, non va dimenticato che nel nostro ordinamento costituzionale e penale nessun fatto può aspirare ad assumere rilevanza punitiva se non esprime innanzitutto robusti connotati di materialità ed offensività, e non è dunque portatore di un primario ed indefettibile disvalore di evento.
— 832 — tiva e soggettiva dell’illecito da rimproverare al reo come presupposto della di lui responsabilità penale. Non esiste, in rapporto ad un medesimo tipo di illecito una pretesa ‘‘colpevolezza dolosa’’ che sia diversa e più grave di una corrispondente ‘‘colpevolezza colposa’’. Si dà invece un illecito doloso che, in quanto realizzato in modo (tout court) colpevole, consente di applicare al reo una pena edittale ben più consistente di quella applicabile, sempre in presenza di un’unitaria accezione (strettamente normativa) di colpevolezza, all’autore di un corrispondente illecito colposo: spetta insomma solo al legislatore di prendere atto e di dare conto, in sede di costruzione delle norme incriminatrici e di predisposizione delle cornici di pena, della diversa gravità delle due distinte tipologie (non di colpevolezza, ma) d’illecitopenale (172). Certo, l’idea della Doppelstellung di dolo e colpa potrebbe costituire semplicemente un’innocua superfetazione nella teoria generale del reato, foriera esclusivamente dell’imbarazzo, per il manualista, di dover optare per la trattazione delle due categorie nel capitolo dedicato al fatto tipico o in quello riservato alla colpevolezza, al fine di evitare inutili duplicazioni (173). Essa merita invece di essere contrastata appunto in quanto costituisce il presupposto necessario dell’inquietante ipotesi di sfasatura tra specie di elemento soggettivo dell’illecito e (pretesa) specie di colpevolezza, che si attualizza nella ricostruzione della supposizione erronea di fattispecie scriminante proposta dalla rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, con esiti di per sé inaccettabili (174). (172) Per la valorizzazione della distinzione tra colpevolezza dolosa e colposa, con specifico riguardo alla problematica della scriminante putativa e sia pure con una presa di distanza dalla teoria della Doppelstellung, cfr. invece DONINI, Illecito, cit., p. 524 ss. (173) Anche questa scelta, apparentemente casuale, rivela a ben guardare quali più autentiche e radicate convinzioni di teoria generale del reato si celino dietro una comune dichiarata adesione ai postulati della Doppelstellung: così, in Germania, il manuale di Jescheck e Weigend si caratterizza per la trattazione del dolo tra i requisiti della fattispecie tipica dell’illecito, in sintonia con il duraturo lascito della sistematica finalistica; mentre in Italia il manuale di Fiandaca e Musco sviluppa la tematica del dolo nel capitolo riservato alla colpevolezza, tradendo in maniera abbastanza scoperta la prevalente e ben nota scarsa permeabilità della nostra dottrina agli esiti più stabili della trasformazione sistematica promossa dalla teoria finalistica dell’azione. (174) Un aspetto della teoria in parola che suscita le maggiori riserve è particolarmente evidente nell’impostazione di GALLAS, Zur Struktur, cit., p. 466 ss. Preso atto dell’assenza di un fondamento legale della disciplina proposta — quale appunto l’art. 59, ultimo comma del nostro codice o quale avrebbe potuto essere il § 20 del progetto tedesco del 1962 — e riconosciuta pertanto la necessità di ravvisare di per sé nell’ipotesi di supposizione erronea evitabile di scriminante gli estremi (sostanziali) del reato colposo, l’A. arriva ad affermare che, lungi ‘‘dall’intendere la situazione in esame come una combinazione d’illecito doloso e di colpevolezza colposa... il fatto si presenta piuttosto sotto il duplice aspetto d’illecito doloso e illecito colposo, e dunque, poiché manca il carattere colpevole del dolo, la punibilità si fonda sulla commissione colposa’’ (corsivo dell’A.); insomma, dalla doppia posizione del dolo si finisce per passare disinvoltamente ad una sorta di doppia conformazione dell’ille-
— 833 — Se l’albero si giudica dai frutti (nella specie piuttosto scadenti), vale allora la pena di affermare la necessità di un netto e definitivo superamento della Doppelstellung di dolo e colpa come opzione di teoria generale del reato (175): essa può essere archiviata come espressione di una tendenza conservatrice, di stampo ‘‘neo-classico’’ (176), della dottrina del reato, refrattaria a cogliere l’inscindibile ed irreversibile nesso che collega la (ormai acquisita) ascrizione del dolo e della colpa al fatto illecito con la (non più procrastinabile) integrale normativizzazione della categoria della colpevolezza (177). 11. La teoria della colpevolezza rinviante alle conseguenze giuridiche è dunque inaccoglibile, a causa dei molteplici e rilevanti difetti che ne compromettono l’attendibilità passati in rassegna nel paragrafo precedente. Ma, al di là dei singoli risvolti che sono stati oggetto di vaglio critico, esiste una ragione predominante ed assorbente che impone di mettere definitivamente da parte questo orientamento dottrinale, almeno nei riflessi che può esercitare su di una compiuta spiegazione ed integrazione della disciplina dell’esimente putativa nel nostro ordinamento penale, quale risulta in atto dall’art. 59, comma quarto, c.p. e dai ben noti orientamenti giurisprudenziali. Si era detto, al momento d’avviare l’approfondimento critico della cito, che sarebbe cumulativamente caratterizzabile, sul piano della tipicità, come doloso e colposo. Ora, se una posizione simile può ancora essere accettata da parte di chi propenda per un modello unitario di reato ispirato al principio del ‘‘non c’è dolo senza colpa’’, riesce difficile comprendere come possa essere avallata da quanti si orientano invece verso la costruzione ‘‘separata’’ delle fondamentali tipologie criminose: v., soprattutto, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 464, nt. 54. Per ulteriori condivisibili critiche del ‘‘concetto bipartito’’ di dolo, quale fondamento della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, v., di recente, LIPPOLD, Reine Rechtslehre, cit., p. 335 ss.; SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 602 ss. (175) L’obiezione probabilmente più seria che viene mossa alla teoria della Doppelstellung del dolo è data appunto dal rilievo che una così impegnativa opzione teorico-generale sia stata escogitata al solo fine di sopperire, nella particolare fattispecie di scriminante putativa, ad una contingente situazione legislativa ritenuta deficitaria: cfr. SCHROTH, Die Annahme, cit., p. 603. Osserva a sua volta LIPPOLD, Reine Rechtslehre, cit., p. 326 ss., che l’idoneità a giustificare la disciplina della scriminante putativa, nei termini della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie, spiega non solo il consenso suscitato dalla teoria della doppia funzione del dolo, ma altresì la sostanziale mancanza di un’adeguata giustificazione e comunque di un esteso dibattito intorno ad essa. (176) Cfr., per tale caratterizzazione, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 204 ss. (177) Osserva LIPPOLD, Reine Rechtslehre, cit., p. 325, come la teoria della doppia posizione del dolo abbia trovato sostenitori essenzialmente tra quei fautori di una concezione soggettiva dell’illecito penale non disponibili ad abbracciare il dogma ‘‘che il dolo, come elemento finalistico dell’azione possa trovare posto esclusivamente sul piano dell’illecito’’.
— 834 — teoria in esame (178), che i suoi due capisaldi, costituiti dal requisito di coscienziosa verifica quale presupposto di rilevanza scusante dell’errore e dalla punizione a titolo di colpa in caso di errore evitabile, apparivano particolarmente adeguati alla situazione in materia del nostro ‘‘diritto vivente’’, in quanto adempienti rispettivamente il ricorrente punto di vista giurisprudenziale ed il dato normativo codicistico. Ma, a guardar meglio, questa impressione si rivela fallace: occorre ormai affermare a chiare lettere che non è in alcun modo possibile coniugare ed armonizzare il ripetuto indirizzo giurisprudenziale — osservabile peraltro anche in ambiente d’oltralpe (179) — con la disciplina contenuta nell’art. 59, comma quarto, c.p. ovvero nel § 16, prima parte, dello StGB. Invero, la caratteristica saliente dell’orientamento rilevato nella giurisprudenza italiana e tedesca in materia di scriminante putativa non è tanto la sottolineatura della rigorosa verifica della situazione concreta come requisito della rilevanza scusante dell’errore, che potrebbe di per sé a pieno titolo conciliarsi con la previsione di responsabilità colposa. Il dato più significativo di quell’orientamento — e indubbiamente sconcertante almeno per il nostro sistema penale che codifica in punto di trattamento sanzionatorio quanto in ambiente tedesco è solo un’ipotesi dottrinale — resta l’affermazione della responsabilità a titolo di dolo per il fatto commesso nella supposizione erronea inescusabile di fattispecie esimente. Più chiaramente e sinteticamente: il paradigma dottrinale della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie postula, da un lato, l’esenzione piena da responsabilità in caso di errore inevitabile e, dall’altro, la responsabilità a titolo di colpa (in presenza ovviamente dell’esplicita previsione legale) in caso di errore evitabile; l’indirizzo della giurisprudenza, mentre ribadisce l’impunità dell’autore nella prima ipotesi, pretende invece che nel secondo caso (almeno in presenza di errore ‘‘irragionevole’’) subentri una piena responsabilità a titolo di dolo, sia prevista o meno la corrispondente fattispecie colposa (180). Insomma l’orientamento giurisprudenziale, dal cui esame ha preso le (178) Cfr. supra, n. 8. (179) A proposito, in particolare, della rilevanza putativa dello stato di necessità giustificante: cfr. JESCHECK-WEIGEND, Strafrecht, cit, p. 466; ROXIN, Strafrecht, cit., p. 506; SCHROEDER, in Strafgesetzbuch. Leipziger Kommentar, 11a ed., 1994, § 16, Rdn. 52. (180) Il fatto che le applicazioni giurisprudenziali sostanzialmente conformi alla teoria rigorosa della colpevolezza abbiano riguardato, sia in Italia che in Germania, pressoché esclusivamente reati soltanto dolosi, ha lasciato in ombra un’ulteriore rilevante aporia, destinata ad emergere quando invece sussista l’incriminazione a titolo di colpa. In questa seconda eventualità, l’evitabilità della supposizione erronea di scriminante dovrebbe promuovere la responsabilità colposa dell’agente, a pena di una totale abrogazione dell’art. 59, ultimo comma, c.p. ovvero del § 16 StGB, in quanto se ne sostenga in via di principio l’applicazione sia pure limitata ‘‘alle conseguenze giuridiche’’. Senonché, dal momento che l’espressa previsione di colpa testimonia per solito la maggiore gravità della fattispecie di base di volta in volta in questione, si assisterebbe ad un esito paradossale e sicuramente in contrasto con i
— 835 — mosse il presente lavoro, si conferma essere, ove s’intenda attribuirgli una valenza generalizzata che trascenda i gruppi di casi analizzati e già spiegati in diversa prospettiva, del tutto incompatibile con la soluzione normativa del problema della scriminante putativa a livello di responsabilità colposa, sia questa espressamente rinvenibile nelle fonti normative, come nel nostro ordinamento, ovvero sia desunta in sede d’interpretazione dottrinale, come avviene nell’esperienza penalistica tedesca. E neanche la teoria della colpevolezza rinviante alle conseguenze giuridiche riesce, ad onta delle forzature dogmatiche e sistematiche cui si sobbarca, a ‘‘reintegrare’’ questo indirizzo giurisprudenziale in un coerente quadro normativo. La verità è — va ancora una volta ribadito — che l’unico paradigma esplicativo dell’orientamento giurisprudenziale in esame resta quello della teoria rigorosa della colpevolezza (181), la quale, legittimamente propugnabile laddove manchi un’esplicita regolamentazione dell’esimente putativa, è del tutto inconciliabile con l’art. 59, comma quarto, c.p. Questa disposizione, a sua volta, è ormai appurato potersi coniugare esclusivamente con una altrettanto rigorosa presa di posizione in favore del carattere assolutamente non doloso — a livello tanto d’illiceità quanto di colpevolezza — del fatto commesso nella supposizione erronea di fattispecie scriminante. Siamo dunque arrivati, attraverso la progressiva concentrazione delle opzioni in campo, alla verifica ineludibile e definitiva: o si riesce a fornire una spiegazione dogmatica pienamente convincente della struttura sicuramente non dolosa del fatto commesso nelle condizioni di cui all’art. 59, comma quarto, c.p., in modo da corroborare la portata (già di per sé invero) univoca di tale norma e da sottrarla ad ogni ulteriore rischio d’interpretazione abrogatrice da parte della giurisprudenza; oppure non resta che considerare unica soluzione praticabile quella sostenuta dalla strenge Schuldtheorie, nel qual caso occorrerebbe concludere che sia stato da sempre il dato giuridico-positivo a costituire una forzatura (opportunaprincipi di ragionevolezza e di uguaglianza: la medesima condizione, di errore inescusabile, condurrebbe ad una condanna per delitto doloso nel caso di delitto per il quale sia prevista solo tale forma di responsabilità; mentre subentrerebbe una ben più lieve condanna per colpa in presenza di un delitto che, per essere punito anche a tale titolo, esprime certamente un disvalore di evento notevolmente superiore al primo. Per evitare tale incongruenza, la giurispudenza dovrebbe rimarcare più escplicitamente che i margini della responsabilità colposa, laddove prevista, coincidono con le sole ipotesi di errore (vincibile ma) non ‘‘irragionevole’’, mentre la supposizione erronea (vincibile e) ‘‘irragionevole’’ lascia sussistere in ogni caso la responsabilità per dolo, sia prevista o meno l’imputazione a titolo di colpa. (181) Coglie nel segno SCHROEDER, op. loc. cit., quando afferma che, nel momento in cui da un lato i fautori della rechtsfolgenverweisende Schuldtheorie e dall’altro la giurisprudenza in tema di stato di necessità hanno dato ingresso alla ‘‘coscienziosa verifica’’ quale requisito di rilevanza putativa, la strenge Schuldtheorie ha finito per dimostrare le propria superiorità, non solo a livello dogmatico ma anche sul piano di gestione delle conseguenze giuridiche.
— 836 — mente ignorata dalla prassi) e che l’atteggiamento della giurisprudenza abbia al contrario rappresentato una sorta di profetica e salvifica testimonianza dell’autentica Natur der Sache. La prima delle due alternative ora indicate passa attraverso la considerazione critica di un’autorevole e recente messa a punto della teoria limitata della colpevolezza, che ne segnala probabilmente il limite ultimo di capacità di prestazione (182). Questa posizione ribadisce con accenti del tutto convincenti quanto è già recepito dalla tradizionale dottrina italiana, sia pure al di fuori dei tormentati percorsi dogmatici che caratterizzano da sempre gli atteggiamenti in materia della dottrina d’oltralpe. Chi commette un fatto tipico, supponendo erroneamente l’esistenza di circostanze che, ove effettivamente presenti, lo giustificherebbero, realizza un fatto che è assolutamente lecito non già sulla base di una sua (aberrante) opinione soggettiva, ma dallo stesso punto di vista dell’ordinamento giuridico (183); ricorre dunque la medesima fondamentale tipologia di errore sottostante all’errore sulla fattispecie, in cui pure l’oggetto della rappresentazione dell’agente è una situazione lecita. In queste condizioni la supposizione erronea di scriminante risulta affetta da mancanza di dolo esattamente per la stessa ragione per la quale il dolo è assente in caso di mancata rappresentazione di uno degli elementi costitutivi del fatto tipico: il soggetto ‘‘non sa che cosa fa’’, piuttosto che ignorare o dubitare circa la rilevanza giuridico-penale di ciò che fa. Parimenti, ove la difettosa rappresentazione della situazione di fatto sia stata evitabile, subentra una imputazione per colpa a sua volta del tutto corrispondente a quella ordinaria, poiché l’agente ha causato per negligenza l’evento lesivo (184). Risulta tuttavia ancora insoddisfacente la puntuale spiegazione dogmatica di tale contesto argomentativo (185). L’orientamento ora in esame arriva in proposito a prospettare due distinte nozioni di dolo: si parla innanzitutto di un dolo del fatto tipico (Tatbestandsvorsatz), che comprende (solo) la conoscenza degli estremi costitutivi della fattispecie legale e come tale viene escluso dall’errore di cui al § 16 StGB; da questo viene distinto un più ampio dolo dell’illecito (Unrechtsvorsatz), compren(182) Alludo alla posizione di ROXIN, Strafrecht, cit., p. 507 ss., che mi sembra rappresenti al meglio quella sottospecie della teoria limitata della colpevolezza — denominata vorsatzunrechtsverneinende eingeschraenkte Schuldtheorie da LACKNER, Strafgesetzbuch, cit., § 17, Rdn. 14, cui rinvio per ulteriori richiami di dottrina — secondo la quale la scriminante putativa non esclude il dolo di fattispecie, bensì l’illecito doloso. (183) Cfr., in particolare, PUPPE, Zur Struktur der Rechtfertigung, in Beitraege zur Rechtswissenschaft. Festschrift fuer W. Stree und J. Wessels, 1993, p. 192. (184) ROXIN, op. loc. ult. cit. (185) Cfr. LACKNER, op. loc. ult. cit., secondo cui le argomentazioni addotte ‘‘non sono riuscite a sviluppare un modello di soluzione dai contorni nettamente delineati’’.
— 837 — sivo altresì della mancata supposizione di circostanze scriminanti (186). È qui chiara l’eco tuttora promanante dalla teoria delle cause di liceità come elementi negativi del fatto, anche se da questa configurazione vengono prese esplicitamente le distanze (187); ma, soprattutto, non viene ancora spiegato in vista di quali riferimenti teorico-generali il dolo c.d. d’illecito possa risultare più esteso del dolo c.d. di fattispecie. Si potrebbe pensare che le difficoltà incontrate su questo punto dalla dottrina tedesca dipendano essenzialmente dalla formulazione restrittiva della prima parte del § 16 StGB: tale disposto circoscrive l’errore sul fatto al non conoscere ‘‘una circostanza che attiene alla fattispecie legale’’ ed impone dunque quanto meno un’interpretazione analogica a chi intenda sostenere che anche la supposizionea erronea di scriminante — come tale estranea al fatto tipico — valga ad escludere il dolo. Si potrebbe allora ipotizzare che una formulazione meno impegnativa e più generica in tema di errore sul fatto, come quella riscontrabile appunto nell’art. 47, comma primo, c.p., valga ad agevolare la soluzione del puzzle, evitando in particolare di conseguire la spiegazione della scriminante putativa in termini di mancanza di dolo al prezzo del quanto meno equivoco sdoppiamento di questa categoria in un dolo di fattispecie e un dolo di illecito. Senonché il vantaggio sarebbe solo apparente. Vero è che la formula: errore sul fatto, contenuta nel nostro codice, è più ampia di quella esplicitata nel § 16 StGB e consente dunque di evitare il ricorso ad interpretazioni analogiche, ove si voglia sostenere che altri tipi di errore escludono il dolo al di là dell’ignoranza di un preciso requisito di tipicità (188); ma il punto è un altro. Si prospetti un’interpretazione analogica (come nel caso del § 16 StGB) ovvero ‘‘letterale’’ (come nel caso dell’art. 47, comma primo, c.p.), la questione cruciale, tuttora irrisolta, sta nello spiegare su quali basi teorico-generali — tali da poter legittimare una eadem ratio, esterna o meno al tenore letterale del disposto in tema di errore sul fatto — può dirsi che la supposizione erronea di scriminante produce lo stesso risultato, incompatibile con il dolo, proprio dell’errore (ordinario) sulla fattispecie: la rappresentazione da parte dell’agente di una situazione di fatto diversa da quella tipica. L’unica risposta adeguata a tale interrogativo — occorre ribadire — è stata sinora fornita da quella variante sofisticata della concezione bipartita del reato che è la teoria delle scriminanti come elementi negativi di tipicità, da cui la posizione dottrinale in ultimo esaminata si discosta in via di principio, ma con la quale finisce nella so(186) Così, in particolare, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 509. (187) ROXIN, Strafrecht, cit., p. 509 s. (188) Chiarissimo sul punto ROXIN, Strafrecht, cit., p. 510: ‘‘Sbagliato sarebbe ritenere che il legislatore abbia fissato nel § 16 I il concetto di dolo rilevante per la teoria sull’errore. In quella norma egli ha soltanto affermato che l’errore sulla fattispecie esclude il dolo; non ha, invece, assolutamente voluto escludere che altri errori abbiano lo stesso effetto’’.
— 838 — stanza per allinearsi (189): la supposizione dei presupposti di una causa di liceità comporta cioè la rappresentazione di un fatto diverso dalla fattispecie tipica semplicemente poiché quest’ultima è tale solo se non comprende i corrispondenti requisiti scriminanti. Peraltro, la tradizionale configurazione delle scriminanti in rapporto alla struttura tripartita (o quadripartita) del reato, quali situazioni che non consentono di trasformare in ‘‘definitiva’’ la valutazione ‘‘provvisoria’’ d’illiceità scaturente dalla conformità della condotta alla fattispecie tipica (190), lungi dal poter aspirare a fornire la ricercata risposta, è destinata in partenza a fallire lo scopo. Il corollario essenziale dell’ingresso dell’antigiuridicità nella struttura del reato consiste, come da sempre è univocamente riconosciuto, nell’affermazione della piena (e preliminare) autonomia della tipicità rispetto alla (successiva) valutazione del fatto in termini di conformità o meno all’intero ordinamento giuridico: è il medesimo fatto tipico a poter risultare lecito o illecito una volta che si sia pervenuti al secondo livello della costruzione tripartita del reato (191). Ma se le cause di giustificazione, presenti o assenti, non intaccano il profilo di tipicità del fatto, che anzi presuppongono come integralmente e definitivamente acquisito, come potrà mai la supposizione erronea di esse determinare la condizione psicologica in cui si riassume la mancanza di dolo, vale a dire la rappresentazione di un fatto diverso da quello tipicizzato? Si (189) È significativo a riguardo come ROXIN, Strafrecht, cit., p. 510, distingua, in modo del tutto speculare al proposto sdoppiamento del dolo in Tatbestandsvorsatz e Unrechtsvorsatz, da un lato la ‘‘fattispecie sistematica’’, vale a dire la fattispecie legale di cui al § 16, prima parte StGB come oggetto appunto del ‘‘dolo di fattispecie’’, e dall’altro lato la ‘‘fattispecie dell’errore’’, oggetto a sua volta del ‘‘dolo d’illecito’’ e risultante dall’integrazione degli elementi di tipicità ‘‘che si trovano nelle descrizioni dei reati di parte speciale’’ con ‘‘tutte le circostanze che determinano l’illecito’’: è veramente arduo a questo punto cogliere una qualche differenza tra una tale ‘‘fattispecie dell’errore’’ e la fattispecie complessa di cui da sempre discorrono i sostenitori della teoria delle scriminanti come elementi negativi di tipicità. (190) Così si esprime a riguardo HASSEMER, Einfuehrung in die Grundlagen des Strafrechts, 2a ed., 1990, pp. 210 e 212, nt. 92, non rinunciando ad una garbata critica della radicata abitudine ad esprimere il medesimo concetto attraverso la ripetuta formula della tipicità come ‘‘indizio’’ dell’antigiuridicità. Costruisce altresì il rapporto tra le due fondamentali categorie penalistiche in termini di ‘‘provvisorietà’’ e ‘‘definitività’’ del giudizio sull’illiceità del fatto SCHMIDHAEUSER, Zur Begriff der Rechtfertigung im Strafrecht, in Festschrift fuer Karl Lackner, 1987, p. 77 ss. L’A. sottopone peraltro ad una più articolata e stringente critica l’usuale definizione della tipicità quale indizio dell’antigiuridicità (p. 80 ss.): egli osserva che l’indizio è ‘‘qualcosa di particolare’’ dalla cui presenza viene tratta, sulla base di massime d’esperienza, una conclusione decisiva circa la ricorrenza di un certo ‘‘sostrato di fatto’’; ma ciò non si verifica affatto nel contesto in parola, poiché la presenza del fatto tipico non riveste alcun valore indiziario in ordine alla contemporanea assenza di requisiti scriminanti. (191) Cfr., per tutti e con particolare efficacia, MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1228 ss.
— 839 — tratta — come è del tutto evidente — di una lampante antinomia, che nessun artificio dialettico potrà riuscire a sanare. In realtà lo sviluppo coerente della concezione tripartita del reato, che fa da sfondo all’usuale configurazione dogmatica delle cause di liceità, non può che portare a ravvisare nella supposizione erronea delle relative fattispecie un vero e proprio errore sul precetto: il soggetto agente si rappresenta il medesimo fatto tipico incriminato, ma erra sulla sua liceità a causa della contemporanea rappresentazione di dati di per sé estranei al fatto tipico eppure condizionanti una diversa valutazione normativa dello stesso, che egli viene in tal modo a supporre erroneamente. Ancora una volta trova conferma l’indiscutibile primato — o sarebbe forse meglio dire l’assenza di alternative — della strenge Schuldtheorie all’interno degli orientamenti in tema di scriminante putativa che si muovono nel tradizionale contesto di teoria generale del reato fondato sul modello tripartito. Il quadro è destinato a mutare radicalmente, se si è disponibili ad esplorare nuove strade, a proposito della tormentata (seppure apparentemente ormai placata) questione della collocazione sistematica delle cause di liceità (192), che non conducano tuttavia ad una riedizione più o meno camuffata della teoria degli elementi negativi del fatto tipico. Non sembri un tale intento eccessivo o sproporzionato rispetto alla consistenza della tematica trattata in questa indagine. È ben noto quanto la questione della disciplina della scriminante putativa abbia da sempre condizionato le più generali opzioni dogmatiche in tema di cause di giustificazione e, ad un livello ancora superiore, di teoria generale del reato: è appena il caso di ribadire che in tale prospettiva si coglie appunto l’origine della teoria degli elementi costitutivi negativi (193). Se poi, come si è venuto progressivamente dimostrando, questa via è l’ultima percorribile per assicurare un coerente significato alla vigente disciplina di diritto positivo della scriminante putativa — il cui eventuale abbandono a vantaggio di soluzioni più congeniali con le teorie rigorose della colpevolezza non sembra essere stato mai all’ordine del giorno dei ricorrenti tentativi di riforma del codice penale (194) — è lecito concludere circa l’opportunità, se non la necessità, di valorizzare questo estremo e più impegnativo approccio. (192) Concordo con HASSEMER, Einfuehrung, cit., p. 211, nt. 91, quando afferma che il relativo dibattito dottrinale, anche se negli ultimi tempi un po’ acquietato, non può dirsi portato a conclusione. (193) Conviene forse ricordare, insieme a LIPPOLD, Reine Rechtslehre, cit., p. 346, nt. 20, come il sottotitolo della monografia di HIRSCH, Die Lehre von den negativen Tatbestandsmerkmalen, 1960, che ha riproposto nel dopoguerra all’attenzione della dottrina la relativa e ben più risalente problematica, suonasse appunto: Der Irrtum ueber einen Rechtfertigungsgrund. (194) Si è già visto (supra, nt. 4) come il c.d. Progetto 1992 riproponga la medesima disciplina della supposizione erronea di cause di liceità, estendendola addirittura alle scusanti.
— 840 — Il punto d’avvio del nuovo percorso che intendo intraprendere consiste nella valorizzazione piena di una felice intuizione, sottesa alla configurazione ‘‘classica’’ delle cause di liceità sullo sfondo del requisito generale dell’antigiuridicità, eppure mai sviluppata in rapporto a tutte le sue potenzialità: l’idea che le scriminanti siano contenute in norme extrapenali distinte dalla norma incriminatrice de qua, rintracciabili in un qualsiasi settore dell’intero ordinamento giuridico e destinate a dispiegare su di questo i loro caratteristici effetti di cause di liceità (195). Il limite di tale corretta impostazione è sempre risieduto in ciò, che la fattispecie della norma scriminante, esterna e distinta dalla norma incriminatrice, è stata più o meno esplicitamente circoscritta a (tutte e sole le) circostanze che, coniugandosi con i requisiti previamente individuati del fatto (penalmente) tipico, rendono lecita una determinata specie di realizzazione di quest’ultimo. Il prevalente se non esclusivo interesse dogmatico per i (soli) requisiti scriminanti, piuttosto che per il (complessivo) fatto scriminato, si spiega certo con l’esigenza, vivamente avvertita dai fautori della concezione tripartita del reato, di scongiurare l’attrazione dei primi verso l’interno della norma incriminatrice in veste di elementi costitutivi negativi della stessa tipicità criminosa. Tale situazione ha però compromesso il nitore di quella che avrebbe dovuto essere sin dall’inizio un’acquisizione indiscussa e di totale immediata evidenza: i requisiti scriminanti non esauriscono affatto la fattispecie della norma scriminante, la quale per contro abbraccia innanzitutto l’insieme degli elementi già tipici ai sensi della norma incriminatrice (196). Esiste insomma — ed è del mas(195) Cfr., per tutti e per ulteriori richiami, MARINUCCI, op. loc. ult. cit.; RUDOLPHI, Rechtfertigungsgruende im Strafrecht. Ein Beitrag zur Funktion, Struktur und der Prinzipien der Rechtfertigung, in Gedaechtnisschrift fuer Armin Kaufmann, 1989, p. 371 ss. (196) L’impostazione sopra criticata — che in un certo senso potrebbe apparire più in linea con la lettera della nostra disciplina codicistica, laddove (art. 59 c.p.) le cause di giustificazione sono annoverate tra le circostanze d’esclusione della pena, tanto da avere a suo tempo offerto il destro alla superata teoria delle scriminanti come (distinti) fatti impeditivi degli effetti giuridici ascrivibili ai fatti incriminati — è profondamente radicata nella dottrina d’oltralpe. Gli indici più significativi, attraverso i quali essa si manifesta, sono, in stretta connessione, lo stesso inquadramento della scriminante come Erlaubnissatz (proposizione autorizzativa) in opposizione alla Verbotsnorm (la vera e propria norma di divieto) e l’insistente caratterizzazione del fenomeno della giustificazione in termini di eccezionale conformità al diritto del fatto concreto (per tutti RUDOLPHI, Rechtfertigungsgruende, cit., p. 377): quasi che il cagionare la morte di un uomo in condizioni di legittima difesa non meritasse di assurgere a quella considerazione generale ed astratta (in una parola, alla dimensione della tipicità) che viene invece riconosciuta all’omicidio tout court dall’art. 575 c.p. Nella nostra dottrina, per contro, non viene trascurata, anche da parte di autorevoli fautori del ‘‘classico’’ inquadramento delle scriminanti all’interno della concezione tripartita del reato, l’appartenenza alle fattispecie delle norme scriminanti già ed innanzitutto del fatto penalmente tipico, con la conseguenza che quanto ‘‘si delinea in concreto’’ è essenzialmente ‘‘un apparente conflitto di norme, perché una stessa ed identica vicenda è sussumibile sotto i connotati del fatto e sotto quelli di una scriminante’’: MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1229.
— 841 — simo interesse dogmatico e teorico-generale (197) — una fattispecie scriminata integrata, al medesimo livello di (originaria e paritetica) dignità normativa, tanto dai requisiti del fatto (penalmente) tipico, quanto dai requisiti (altrettanto tipici) della situazione scriminante. È lecito fare oggetto questi ultimi di una considerazione distinta solo se ci si pone dal punto di vista (parziale) dell’incidenza del risultato di giustificazione sull’ambito d’operatività della norma incriminatrice, ma non più se, come è più corretto, si valorizza in pieno l’estraneità al sistema penale della norma scriminante, destinata di per sé a disciplinare distinti ambiti di materie (198). L’acquisizione piena di tale consapevolezza dogmatica realizza, a ben guardare, una sorta di singolare ‘‘contrappasso’’ rispetto alla teoria delle cause di liceità come elementi costitutivi negativi del fatto tipico: i requisiti scriminanti (ad esempio, la ‘‘situazione’’ di legittima difesa o la ‘‘situazione’’ d’adempimento del dovere), lungi dall’integrare, in veste negativa ed insieme agli elementi del fatto tipico, la stessa fattispecie incriminatrice, contribuiscono al contrario a perfezionare, in veste positiva e sempre insieme ai requisiti del fatto (già penalmente) tipico, la nuova e distinta fattispecie — e quindi la nuova e distinta tipicità — della norma scriminante. A voler poi approfondire i rapporti strutturali tra queste due diverse e reciprocamente autonome fattispecie, risulta chiaro come intercorra tra le medesime un vero e proprio rapporto di specialità: la fattispecie (e la norma) scriminante contiene in sé tutti gli elementi già riconducibili alla fattispecie (ed alla norma) incriminatrice ed in più taluni elementi specializzanti, costituiti appunto dai requisiti scriminanti (199). A questo punto appare profilarsi una soluzione appagante ed inecce(197) Cfr. a riguardo le articolate e condivisibili argomentazioni di CONTENTO, Corso, cit., p. 227 ss. (198) Anche quest’ultima acquisizione è di solito più chiaramente ed esplicitamente sottolineata dalla dottrina italiana che da quella tedesca: cfr. ROMANO, Commentario, cit., I, Pre-Art. 50/5. (199) È possibile approfondire ulteriormente la natura di siffatto rapporto applicando anche alle norme scriminanti la ben nota distinzione tra specialità per specificazione e per aggiunta (per tutti, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 469 e nt. 89). Sotto questo aspetto, la gran parte delle cause di giustificazione comuni, previste nella parte generale del codice penale, sono certamente riferibili alla seconda specie, dal momento che il complesso dei requisiti scriminanti si aggiunge per intero all’immutata fattispecie tipica di reato di volta in volta in considerazione: basti pensare ai presupposti della legittima difesa in rapporto ad una qualsiasi ipotesi criminosa. Rappresentano invece per lo più vere e proprie sottofattispecie della fattispecie (generale) contenuta nella norma incriminatrice le varie ipotesi d’esercizio del diritto o d’adempimento del dovere genericamente e forse superfluamente riassunte nell’art. 51 c.p., la cui autentica dimensione normativa va apprezzata nell’ordinamento di settore di appartenenza; così, l’obbligo o la facoltà di arresto in flagranza dell’autore di un reato, scaturente dagli artt. 380 e 381 c.p.p., configurano in buona parte una specificazione della generale fattispecie tipica di privazione della libertà personale di cui all’art. 605 c.p. Ed è proprio il criterio di specialità — non già una sorta di generico favor rei in direzione scri-
— 842 — pibile del problema che ha finora tanto angustiato la dottrina, specie di lingua tedesca, quasi si trattasse di una quadratura del circolo: come cioè poter considerare in termini di causa d’esclusione del dolo un errore, quale la supposizione di scriminante, che non sembra toccare, ed appare anzi presupporre, nella rappresentazione dell’agente, l’‘‘autarchica’’ compiutezza del fatto tipico. La fattispecie scriminata, che il soggetto agente falsamente si rappresenta, è a pieno titolo diversa (200) dalla fattispecie incriminatrice che il medesimo agente dovrebbe invece aver presente perché nel suo atteggiamento psicologico si riscontrino gli estremi del dolo. Vero è che tra le due fattispecie esiste un rapporto di genere a specie e non di totale eterogeneità; tuttavia il margine di distinzione evidenziato dagli elementi (specializzanti e) scriminanti è del tutto sufficiente perché si possa legittimamente affermare che l’autore non si è rappresentato, come è necessario ai fini della sussistenza del dolo, il fatto previsto come reato dalla legge penale, ma si è raffigurato un distinto fatto assolutamente lecito (201): esattamente come avviene quando la rappresentazione dell’agente non ‘‘copre’’ un requisito di tipicità della stessa norma incriminatrice. Né deve dubitarsi che tale impostazione sia affetta da eccessivo forminante, come potrebbe suggerire una superficiale lettura dell’art. 51 c.p. — a dover risultare decisivo, insieme agli altri criteri generali regolativi dei rapporti tra norme, del conflitto apparente a vantaggio della causa (che solo a questo punto si configurerà) di liceità. Per un più approfondito esame dei criteri di soluzione del conflitto tra norma incriminatrice e norma scriminante v. MANTOVANI, Esercizio del diritto, cit., p. 631 ss. (200) Così come non può certo negarsi, sull’analogo piano del concorso apparente di norme, la diversità, ad esempio, della fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale rispetto alla fattispecie d’ingiuria. (201) Ribadisco che questa precisazione mi sembra irrinunciabile per mettere definitivamente al riparo da ulteriori perplessità la tesi che ravvisa nella scriminante putativa una genuina e lineare ipotesi di mancanza di dolo. Quando infatti, per spiegare lo stesso assunto, ci si limita ad affermare, in relazione all’omicidio per legittima difesa, che ‘‘manca il dolo d’omicidio che, essendo volontà di realizzazione di un fatto di omicidio considerato dall’ordinamento come antigiuridico, non può proprio profilarsi quando ciò che si è voluto realizzare è un fatto d’omicidio che l’ordinamento considera lecito’’ (MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1248, corsivo dell’A.), rischia di restare in ombra, in questa ineccepibile argomentazione, come la diversa valutazione di liceità dell’ordinamento sia innanzitutto e necessariamente mediata da una diversità di fatto tipico a livello di norma extrapenale: appunto il cagionare la morte di un uomo in presenza della serie cospicua di elementi aggiuntivi che identificano la situazione (tipica) di omicidio per legittima difesa. Le osservazioni sviluppate consentono peraltro di fornire una base più adeguata alla (forse prevalente e comunque) condivisibile tesi secondo cui, sul piano per così dire parallelo della supposizione erronea di elemento specializzante e degradante il titolo del reato, deve escludersi il dolo della fattispecie generale in applicazione analogica dell’art. 59, ultimo comma, c.p. (in argomento, da ultimo, CAMAIONI, Errore e dolo nei reati in rapporto di specialità, in questa Rivista, 1995, p. 437 ss.): chi ha ritenuto erroneamente di uccidere un uomo consenziente non agisce con il dolo dell’omicidio comune, poiché si è rappresentato di cagionare la morte di un uomo in un diverso contesto di tipicità, quello appunto dell’art. 579 c.p.
— 843 — malismo. Si tratta esattamente del contrario. Il margine di distinzione — che ai fini del presente discorso può ben definirsi, conviene ripetere, di diversità — intercorrente tra la fattispecie incriminatrice e la fattispecie scriminata è interamente ed esclusivamente occupato giusto da quegli elementi (appunto scriminanti) cui compete la funzione di tradurre a livello di tipicità (extrapenale) le ragioni sostanziali che giustificano la liceità del fatto, in termini di bilanciamento e prevalenza tra interessi confliggenti. Colui che, errando, si raffigura il complessivo fatto scriminato (202) ha dunque in mente in via immediata non già — come vorrebbero le varie teorie della colpevolezza — la diversa valutazione legale di un medesimo sostrato di fatto, bensì il diverso sostrato di fatto cui corrisponde un’originaria ed integrale valutazione di liceità da parte dell’ordinamento giuridico. Né si rende necessario che l’agente abbia precisa consapevolezza della rilevanza giuridica della scriminante: può anche darsi che questa gli sia ignota e che dunque egli sia convinto di commettere comunque un illecito penale; ciò nonostante egli beneficierà della esimente putativa (203), allo stesso modo di chi non può incorrere in responsabilità penale per avere ritenuto illecito un fatto che, almeno nella sua rappresentazione, non corrisponde ad alcuna fattispecie (penale) tipica. Ora, la condizione psicologica in ultimo tratteggiata descrive esattamente la situazione di chi agisce in assenza di dolo. Questo canale d’imputazione soggettiva manca tutte le volte in cui la difettosa percezione di dati fattuali impedisce in radice al soggetto agente di poter cogliere il disvalore di evento che fonda la valutazione normativa d’illiceità. Ciò può avvenire o perché manchi la rappresentazione di elementi costitutivi del fatto (penalmente) tipico o in quanto l’agente si rappresenti erroneamente (202) Coglie bene la dimensione giuridica del fatto scriminato, come oggetto ‘‘di un’altra e diversa norma reale (che non è, dunque, né l’art. 52 isolatamente considerato, né quella, ad es., dell’art. 575 nel quale s’inserisca negativamente il fatto contemplato dall’art. 52), ma è quella ricostruibile alla stregua di altre disposizioni, necessariamente extrapenali’’, CONTENTO, Corso, cit., p. 229 ss. (corsivo dell’A.). (203) Sorprende che da questo assunto, che pure ammette essere condiviso dalla dottrina prevalente, si distacchi CONTENTO, Corso, cit., p. 367 ss. Su questa strada l’A. sembra configurare nella sostanza la scriminante putativa alla stregua di una scusante, quando afferma che ‘‘la legge, evidentemente, ha inteso accordare rilievo, valorizzandola, proprio alla convinzione del soggetto di agire in modo lecito e di essere autorizzato a comportarsi in quel determinato modo: il fatto che tale convinzione sia frutto di un’erronea rappresentazione della realtà oggettiva, non toglie tuttavia che il particolare stato psicologico in cui ha agito il soggetto possa essere ritenuto dal legislatore rilevante sino al punto da giustificare l’esenzione da pena’’ (corsivo mio). Trovo singolare che questa propensione a presentare la scriminante putativa in termini prossimi se non coincidenti con una causa d’esclusione della colpevolezza (in senso normativo) provenga proprio dall’autore, la cui posizione circa la collocazione sistematica delle cause di liceità (supra, nt. 197) configura l’impianto teorico probabilmente più adatto a ribadire la tradizionale spiegazione della supposizione erronea di scriminante quale causa di esclusione (già e solo) del dolo.
— 844 — gli elementi, per così dire ‘‘differenziali’’, che integrano il distinto fatto (lecito) previsto dalla norma extrapenale. Nell’un caso e nell’altro ricorre comunque un autentico ‘‘errore sul fatto’’, del tipo contemplato nell’art. 47, comma primo, c.p.; nell’uno e nell’altro caso — per riprendere la terminologia usata dalla più recente eppure ancora insoddisfacente formulazione della dottrina tedesca (204) — esula il dolo d’illecito perché già manca comunque il dolo di fattispecie. Si possono così trarre le conclusioni definitive. La rilevanza putativa delle scriminanti trova fondamento in modo talmente saldo e conseguenziale nella mancanza di dolo in capo al soggetto agente, che una specifica norma a riguardo, comprensiva dell’eventuale residua responsabilità colposa, quale risulta dal vigente art. 59, comma quarto, c.p., appare non particolarmente necessaria in presenza dell’ampia e tecnicamente ineccepibile nozione di ‘‘errore sul fatto’’ richiamata nell’art. 47, comma primo, c.p. e della conseguente disciplina. Ed in tale probabile superfluità va ricercata la vera spiegazione a livello sistematico di un fenomeno comparatistico di solito altrimenti imputato ad una sorta di ‘‘timidezza’’ del legislatore: come cioè la rinnovata parte generale del codice penale tedesco, espressione nel suo insieme di una cultura penalistica di prim’ordine e non renitente in taluni punti a coraggiose ed impegnative prese di posizione di sapore squisitamente dogmatico, abbia per contro omesso ancora una volta di disciplinare la scriminante putativa, quasi che fosse trascorso invano più di un secolo di rigoglioso sviluppo della scienza penalistica dopo l’entrata in vigore del codice del Reich del 1871 (205). GIANCARLO DE VERO Straordinario di Diritto penale nell’Università di Messina
(204) ROXIN, Strafrecht, cit., p. 509. (205) Va comunque ribadito che la formula utilizzata nel § 16, prima parte dello StGB, in quanto restrittivamente incentrata sulla ‘‘non conoscenza’’ di ‘‘una circostanza di fatto che appartiene alla fattispecie legale’’ (descritta dalla norma incriminatrice) si presta meno, della più ampia e generale formula di cui al nostro art. 47, comma primo, a costituire punto di riferimento eventualmente esclusivo della disciplina dell’errore sul fatto, comprensiva (anche) della supposizione erronea di scriminante. Sono dunque giustificate le riserve di recente espresse da MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, p. 426 ss., a proposito della (ancora) mancata disciplina della scriminante putativa da parte del legislatore tedesco: scelta, questa, che, se è compatibile con l’attuale prevalente orientamento di dottrina e giurisprudenza nel senso della punizione a titolo di colpa, non garantisce rispetto all’eventualità che in futuro la Schuldtheorie possa ‘‘benissimo diventare la nuova teoria dominante’’.
IL BENE GIURIDICO PROPRIO QUALE CONTENUTO DEI REATI A SOGGETTIVITÀ RISTRETTA
SOMMARIO: Premessa. — 1. Il reato proprio nella dottrina italiana: terminologia e classificazioni. — 2. Il reato proprio secondo la dottrina straniera. In particolare i Sonderverbrechen. — 3. Reati propri e reati di mano propria. — 4. Dalla descrizione alla definizione: l’essenza del reato proprio. — 5. La fattispecie propria (Sondertatbestand) come essenza del reato proprio. — 6. La norma propria (Sondernorm) come essenza del reato proprio. — 7. Il bene giuridico proprio (Sonderrechtsgut) come essenza del reato proprio. — 8. La teoria del bene giuridico speciale o limitatamente offendibile (Die Lehre vom beschränkt verletzbaren Rechtsgut). — 9. La teoria del doppio bene giuridico (Die Lehre vom doppelten Rechtsgut). — 10. Il dovere proprio (Sonderpflicht) come essenza del reato proprio. I c.d. Pflichtdelikte. — 11. L’essenza del reato proprio con riguardo ai reati omissivi. — 12. La qualifica come circostanza aggravante.
Premessa. — Lo studio delle fattispecie nelle quali il soggetto attivo riveste una particolare qualifica, di ordine normativo o naturalistico, non conosce, ormai da tempo, approfondimenti dottrinali. In Italia risale al 1965 l’ultimo lavoro monografico sul tema (1), mentre è necessario riportarsi alla fine degli anni ’30 per osservare un moderato interesse della dottrina per l’argomento (2). In Germania è invece presente una vasta monografia, tuttavia risalente a circa venti anni fa (3). Assente o abbandonato lo sviluppo dottrinale sull’essenza di tali fattispecie, è invece presente una descrizione di quelle che sono indicate come pratiche implicazioni della tematica: così in tema di elemento soggettivo (consapevolezza della qualità) e dunque di errore sulla qualifica del soggetto attivo; in tema di efficacia del consenso, perché l’efficacia può mancare quando ne sia destinatario un soggetto attivo che abbia una determinata qualità (p. es. pubblico ufficiale); a proposito di reati plurisoggettivi; in rapporto alla classificazione dei reati in un titolo piuttosto che in un altro. Si discute inoltre se nel reato proprio un extraneus possa essere coautore o concorrente (artt. 117 e 118 c.p.), e se l’intraneus possa essere pu(1) MAIANI, In tema di reato proprio, Milano, 1965. (2) ALLEGRA, Norme penali speciali e reati speciali, in Annali, 1939, 95 ss. e 177 ss.; BETTIOL, Sul reato proprio, Milano, 1939. (3) LANGER, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972.
— 846 — nito quando ha commesso il reato per mezzo di un extraneus (art. 111 c.p.) (4). L’analisi di tali effetti presuppone dunque l’esistenza di una categoria con giuridica rilevanza: lo studio delle conseguenze di un fenomeno giuridico non può procedere disgiunto da una precisa definizione del fenomeno stesso. Se è vero inoltre che è necessario evitare che una elaborazione teorica rimanga fine a sé stessa, ignara delle conseguenze giuridiche, è anche vero che occorre allontanare il rischio opposto: la costruzione astratta deve mantenere una intima coerenza e contribuire a dettare essa (o perlomeno a illuminare su) le conseguenze di fatto. Un dato è comunque certo: le fattispecie nelle quali il soggetto attivo riveste una particolare qualifica di ordine normativo o naturalistico esistono e sono numerosissime; la loro dilatazione si accompagna spesso a quella dei reati omissivi, sia nei loro settori di elezione (settori specifici di attività tecniche) sia in campi particolari del diritto penale complementare, come il diritto penale del lavoro, commerciale, societario e bancario (diritto penale dell’economia) (5), o il diritto penale tributario (6). La successiva analisi renderà evidente inoltre la loro estrema differenziazione e varietà, e dunque la esigenza di una delimitazione del campo di indagine, esigenza derivante dall’eccessiva estensione del quadro originario. A fronte di tale ricchezza di dati normativi sorprende la povertà di letteratura sul tema del reato proprio. Bettiol (1939) riteneva attuale il tema del reato proprio in legislazioni autoritarie, nelle quali viene accentuata la posizione occupata dai soggetti in seno alla società, posizione dalla quale derivano diritti, ma soprattutto doveri penalmente sanzionati. In legislazioni liberali, che livellano tendenzialmente tutti i consociati, l’interesse per questo tema sarebbe minore (7). Invece, mutate le condizioni storico-sociali, la « ragione politica » del reato proprio viene ravvisata in una struttura sociale evoluta, con differenziazione di funzioni, e quindi con specifiche attribuzioni di doveri e responsabilità a singole categorie (8). Viene inoltre riconosciuto come terreno d’elezione dei reati propri « quello degli ordinamenti particolari a struttura gerarchica nei quali l’identificazione della lesione penalmente rilevante si interseca con i vincoli funzionali propri del soggetto in (4) GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. II, Milano, 1947, 212. (5) Sulla possibilità di aggregare un gruppo di norme penali in base al criterio della cura prevalente di un interesse generale in tema di economia, PATERNITI, Diritto penale dell’economia, Torino, 1995, 4-13. Per gli orientamenti della dottrina tedesca, TIEDEMANN, Il diritto penale dell’economia: suo ambito e significato per il diritto penale e per l’economia, in Riv. trim. dir. pen. dell’economia, 1988, 5 ss. (6) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, 138 e ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, 292. (7) BETTIOL, op. cit., 18. (8) MANTOVANI, op. cit., 146. Cfr. FIANDACA-MUSCO, op. cit., 138.
— 847 — tali ordinamenti, e con le esigenze, pure funzionali, di salvaguardia degli interessi cui tali ordinamenti risultano finalizzati » (9). 1. Il reato proprio nella dottrina italiana: terminologia e classificazioni. — Dei reati propri è necessario preliminarmente precisare due aspetti: in primo luogo il profilo terminologico, la loro denominazione, considerato che la locuzione « reati propri » non è universalmente accolta; in secondo luogo le classificazioni proposte dalla dottrina, con riferimento alle implicazioni pratiche. Si passerà poi alla definizione di questa categoria, cioè all’indicazione dell’essenza, del profilo contenutistico, e dunque all’analisi del concetto (10). Le fattispecie contrassegnate da una peculiare posizione del soggetto attivo sono variamente denominate. La nozione più comune nella dottrina penalistica italiana è quella di « reati propri », terminologia già adottata dal diritto romano (crimina propria contrapposti ai crimina communia) (11) e dalla dottrina classica (12). Già sotto il profilo terminologico questa categoria parrebbe però equivoca, poiché ogni reato sarebbe proprio del suo autore, onde meglio sarebbe parlare di « reati speciali » (13) o di « reati particolari ». Più recentemente è stata ripresa la denominazione « reati esclusivi » (14), onde evitare equivoci sorti in dottrina sulla distinzione tra reati « propri » e « pseudo propri » (15). È stato identificato un ampio genus, i reati c.d. « a soggettività ristretta », nell’ambito del quale rientrerebbero le categorie dei reati « propri », « pseudo propri » e « di mano propria » (16). Il reato sarebbe « proprio » allorché, rispetto ad un « parallelo » modello criminoso realizzabile da « chiunque » o comunque da una (9) Così PADOVANI, Reati della navigazione, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 1199. (10) Osserva MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’, Milano, 1971, 3, che « vero compito della dommatica » è quello di esporre il diritto vigente con accurati concetti normativi. Sulla base di tale assunto l’Autore analizza se il finalismo sia riuscito, attraverso il dolo, a dare un concetto generale di azione « ricco di contenuto » a tal punto da esprimere, come « pietra angolare » del sistema, l’« essenza » di tutte le manifestazioni delittuose. (11) Cfr. Dig. 49, 16, fr. 2. (12) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, Firenze, 1897, § 52. (13) MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1950, 623 (nota 1). (14) Risalente a GRISPIGNI, op. cit., 212. (15) FIORELLA, Sui rapporti tra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, 193-194. Reati « pseudo-propri » sono comunemente intesi quelli che non hanno un « modello parallelo » realizzabile da chiunque. In questa accezione il termine è utilizzato da ZANNOTTI, I reati previsti dall’art. 2 della l. 7 agosto 1982, n. 516 (come modificati dalla l. n. 154/1991), in Diritto penale tributario, a cura di Fiandaca-Musco, Milano, 1992, 72-73. (16) FROSALI, Sistema penale italiano, I, Torino, 1958, 235 ss.; MARINI, Lineamenti
— 848 — cerchia più ampia di soggetti, sia caratterizzato in via specializzante dalla particolare qualità o qualifica del suo possibile autore (così per esempio il peculato rispetto alla appropriazione indebita). Nei reati « pseudo propri » invece la particolare qualità o qualificazione del soggetto, radicante il suo essere destinatario del dovere penalmente sanzionato, si rifletterebbe necessariamente nel fatto e, pertanto nell’oggetto del dolo (p. es. concussione) (17). Reati « di mano propria » o « di attuazione personale » sarebbero infine « quelli realizzabili, anche fisicamente, solo da determinati soggetti (così l’automutilazione, l’aborto procuratosi, ecc.) » (18). Elemento omogeneizzante e contenutistico della categoria del reato proprio sarebbe la presenza nella fattispecie di un soggetto attivo che si trova in una particolare posizione giuridica, agiuridica o sociale (19). Riferita ad un tale contenuto, puramente descrittivo, la questione si può ritenere puramente nominalistica. Nel prosieguo dell’analisi, a prescindere dalle precedenti proposte e distinzioni, si utilizzerà la dizione generale « reati propri », in quanto più comune nella dottrina italiana e direttamente derivante dalla locuzione tedesca « Sonderverbrechen ». Più interessante è sviluppare l’analisi del concetto, ed indagare l’oggetto di riferimento di tali denominazioni. Attraverso tale indagine sarà possibile raggiungere il centro del problema e studiare nei termini accennati l’essenza di questa ancora vaga categoria giuridica. Le classificazioni proposte dalla dottrina italiana pongono in rilievo (ed hanno come scopo di mostrare) il ruolo svolto all’interno della fattispecie dalle particolari condizioni personali (20). Esse si sostanziano nella osservazione di un fenomeno (e dunque in una descrizione), senza predel sistema penale, Torino, 1993, 95-96 e 603-605. Quest’ultimo Autore definisce le particolari qualità, condizioni e/o qualifiche, « requisiti positivi speciali di soggettività ». (17) La concussione, la quale costituisce una figura di estorsione qualificata dalla particolare veste giuspubblicistica attiva del suo possibile autore, richiedendo che la condotta costitutiva consista in un cattivo uso dell’ufficio ricoperto o della qualità rivestita, necessariamente postulerebbe infatti il riflettersi nel dolo dell’agente appunto della sua qualità: così MARINI, op. cit., 96. Cfr. ad esempio, RICCIO, La concussione negli elementi costitutivi, Napoli, 1942, 48; CONTENTO, La concussione, I, Bari, 1970, 161; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1995, 135-136. (18) FROSALI, Sistema penale italiano, III, Torino, 1958, 74 ss. (19) MAIANI, op. cit., 8-9. È stata di recente proposta (PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte gen., Milano, 1996, 167) una distinzione tra reati propri « a struttura diretta » e reati propri « a struttura inversa »: il primo tipo, legato direttamente al possesso della qualifica normativa (come nel caso del militare o del cittadino), l’altro invece dipendente da una situazione di fatto, la presenza della quale fa scaturire un obbligo particolare (in questa categoria rientrerebbe per esempio l’omissione di soccorso ex art. 593 c.p., reato proprio di chi si sia imbattuto in una persona incapace di provvedere a sé stessa, e rientrerebbero inoltre i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione). (20) Ritiene si debba parlare di reato proprio solo ogni qualvolta la legge fa riferi-
— 849 — supporre, se non in rari casi, l’analisi del concetto (e dunque una definizione). Così la speciale posizione può esplicare una efficacia modificativa, quando la norma la considera circostanza aggravante o attenuante; impeditiva, quando a causa di essa viene a mancare l’antitesi tra condotta e precetto, o quando rimane esclusa la sola punibilità; costitutiva in due casi: quando la condotta, ove posta in essere da un soggetto non qualificato, sarebbe penalmente irrilevante e quando la speciale posizione determina un mutamento del titolo di reato (21). Si distinguerebbero dunque reati propri « in senso puro », nei quali la presenza di un soggetto qualificato determina la punibilità stessa del fatto (p. es. omissione di atti d’ufficio), e reati propri « in senso lato », nei quali la qualifica del soggetto attivo comporta un mutamento del titolo di reato rispetto ad una fattispecie semplice (p. es. appropriazione indebita che si trasforma in peculato se commessa da un pubblico ufficiale in danno della pubblica amministrazione) (22). Recentemente è stata proposta una distinzione, con importanti applicazioni concrete, tra: 1) reati propri ma non esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, non sarebbero reati ma pur sempre costituirebbero illecito (extrapenale) e resterebbero, comunque, offensivi di altrui interessi; 2) reati propri ma non esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, costituirebbero un diverso reato, più grave o meno grave; 3) reati propri ed esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, sarebbero inoffensivi di qualsiasi interesse, e perciò, giuridicamente leciti. Mentre nei primi la qualifica non sarebbe elemento costitutivo del fatto oggettivo tipico, non determinando la offensività del fatto, nei secondi tale qualifica sarebbe elemento costitutivo del fatto oggettivo tipico, determinando la offensività e illiceità specifica (penale); nei terzi, infine, la qualifica sarebbe elemento costitutivo del fatto oggettivo tipico, poiché oltre a determinare la offensività e illiceità del fatto, eleverebbe a reato un fatto altrimenti inoffensivo e lecito (23). Questa differenmento ad una posizione soggettiva con efficacia costitutiva sul fatto di reato, VENAFRO, voce Reato proprio, in Dig. disc. pen., Torino, 1996, 338. (21) ALLEGRA, Sulla rilevanza giuridica della posizione del soggetto attivo del reato, in Riv. it. dir. pen., 1936, 527; BETTIOL, op. cit., 26 ss.; GRISPIGNI, op. cit., 211-212; MAIANI, op. cit., 13; FIORE, Diritto penale, Parte gen., Torino, 1993, I, 159. (22) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 172. (23) MANTOVANI, op. cit., 146-147, 375-376, 541-544. L’Autore indica come implicazioni pratiche di tale classificazione le seguenti: i reati sub 1) possono essere eseguiti per mano altrui (cioè dall’extraneus), l’ignoranza della propria qualifica soggettiva dà luogo ad errore sul precetto, l’extraneus che ignora la qualifica dell’intraneus dovrebbe rispondere di concorso; i reati sub 2) possono egualmente essere commessi per mano altrui, l’ignoranza della propria qualifica dà luogo ad errore sul fatto rispetto al reato speciale, l’extraneus ignaro della qualifica dell’intraneus non dovrebbe ri-
— 850 — ziazione, che presuppone l’accoglimento della bipartizione nella struttura del reato (24), parte da una particolare impostazione del reato proprio non più descrittiva ma di essenza, cioè dall’osservazione del diverso grado di ‘‘apertura’’, o forse meglio di accessibilità, di determinati interessi tutelati nei confronti di altri; essa riconosce implicitamente come ratio essendi del reato proprio la particolare natura del bene giuridico, assunto centrale del tema, come emergerà in seguito. 2. Il reato proprio secondo la dottrina straniera. In particolare i Sonderverbrechen. — Lo studio delle fattispecie con soggetto attivo specificamente qualificato, nel sistema penale italiano riconducibili alla nozione di reato proprio, ha ricevuto e riceve tuttora particolare approfondimento nella dottrina penale tedesca attraverso lo studio della categoria dei Sonderverbrechen (25). Nella dottrina tedesca, varie sono le classificazioni in tema di Sonderverbrechen (26). Tali classificazioni presuppongono la distinzione in tema di concorso di persone tra compartecipazione primaria (autore) e comparspondere di concorso; i reati sub 3) sono di mano propria, l’ignoranza della qualifica soggettiva dà luogo ad errore sul fatto, il concorrente extraneus ignaro della qualifica dell’intraneus non risponde di concorso. Diversa è però la soluzione proposta dal diritto positivo nell’art. 117 c.p. (24) MANTOVANI, op. cit., 140. (25) È difficile trovare punti di contatto tra la tematica del reato proprio, così come è stata enucleata soprattutto dalla dottrina tedesca e italiana, e altri grandi sistemi penali europei. P. es. nel diritto penale francese è presente la distinzione tra infractions « de droit commun » e infractions « de droit special »: tra queste ultime rientrerebbero quelle in campo politico, militare, fiscale, doganale, economico, ecc. Alle infractions « de droit special » si applicano norme derogatorie della disciplina generale, a causa delle peculiarità che presenta il loro campo di applicazione. La distinzione rimarrebbe meramente descrittiva e basata semplicemente sulla tecnica legislativa se non si individuasse una precisa motivazione delle deroghe alla disciplina comune: tale motivazione viene rinvenuta talvolta attraverso un esame criminologico, che mette l’accento sulle differenze tra delinquente « de droit commun » e delinquente « de droit special ». Più in particolare il motivo per il quale il legislatore sottrae certe infrazioni alle regole del diritto comune si ritiene consistere tanto nella necessità di tener conto delle particolarità criminologiche di certi tipi di delinquenza, quanto di soddisfare esigenze speciali di repressione estranee alla personalità del delinquente. Così mentre lo statut delle infrazioni politiche e, a certe condizioni, delle infrazioni militari avrebbe origine dalla distinzione criminologica, derivante dalla differente natura e pericolosità, tra delinquenti « de droit commun » e delinquenti politiques o militaires, lo statut delle infrazioni fiscali, doganali o economiche procederebbe dalla necessità o di proteggere l’interesse speciale dello Stato o di una repressione più severa (MERLE-VITU, Traité de droit criminel, Paris, 1984, 491-492). (26) Non si tratterà in questa sede delle tesi sostenute dai fautori della c.d. teoria del tipo d’autore (Tätertyp), i quali ritenevano le qualifiche soggettive richieste nel reato proprio come elementi rivelatori di una determinata personalità del reo. Così DAHM, Verbrechen und Tatbestand, Berlin, 1935 e SCHAFFSTEIN, Das Verbrechen als Pflichtverletzung, Berlin, 1935.
— 851 — tecipazione secondaria (partecipe), distinzione estranea al sistema penale italiano. Si distingue fondamentalmente tra echte Sonderdelikte (reati propri ‘‘propri’’ o esclusivi) e unechte Sonderdelikte (reati propri ‘‘impropri’’ o non esclusivi) (27), o, con differenza di denominazione ma non di contenuto, tra Sonderdelikte i.e.S. (reati propri in senso stretto) e Sonderdelikte i.w.S. (reati propri in senso ampio) (28). La distinzione tra echte Sonderdelikte e unechte Sonderdelikte può dirsi fondamentalmente riprodotta nel diritto penale spagnolo attraverso la categoria dei delitos especiales propios e impropios (29). Il senso di questa differenziazione risiede nel fatto che, mentre negli echte Sonderdelikte la speciale qualifica fonda la punibilità (strafbegründende) dell’autore, negli unechte Sonderdelikte semplicemente la aggrava (strafschärfende) (30). Ne consegue che i primi possono essere commessi solo da persone con speciali qualità indicate nella fattispecie, i secondi in(27) MAYER M.E., Der allgemeine Teil des deutschen Strafrechts, Heidelberg, 1923, 95; KAUFMANN Armin, Lebendiges und Totes in Bindings Normentheorie, Göttingen, 1954, 135; SCHNYDER, Täterschaft und Teilnahme bei den Sonderdelikten des Schweizerischen Strafgesetzbuches, Aarau, 1962, 13; WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, Berlin, 1969, 64; LANGER, op. cit., 61; NOLL-TRECHSEL, Schweizerisches Strafrecht. Allgemeiner Teil, I, Zürich, 1986, 65; LENKNER, in SCHOENKE-SCHROEDER, Strafgesetzbuch, München, 1988, Vorbem. 132 vor § 13; WESSELS, Strafrecht Allgemeiner Teil, Heidelberg, 1993, 7-8. (28) JAKOBS, Strafrecht Allgemeiner Teil - Die Gründlage und die Zurechnungslehre, Berlin, 1983, 147; MAURACH-ZIPF, Strafrecht - Allgemeiner Teil, Teil 1, Heidelberg, 1987, 285-287. Varianti puramente terminologiche sono anche le distinzioni dei Sonderstraftaten in eigentliche e uneigentliche (NAGLER, Die Teilnahme am Sonderverbrechen, Leipzig, 1903, 21; FRANK, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reich, Tübingen, 1931, 748; KARSTEDT, Der Begriff der Amtsdelikte im geltenden Strafrecht und seine Reform, Leipzig, 1931, 72; LANGE, in KOHLRAUSCH-LANGE, Strafgesetzbuch, Berlin, 1961, Vorbem. I vor § 331; DREHER, Strafgesetzbuch, München, 1970, Vorbem. 2 vor § 331) e dei Sonderverbrechen in reine e gemischte (ROEDER, Exclusiver Täerbegriff und Mitwirkung am Sonderdelikte, in ZStW, 1957, 241). Sui Sonderdelikte nel diritto penale dell’economia, cfr. ACHENBACH, Die Sanktionen gegen die Unternehmensdelinquenz im Umbruch, in JS, 1990, 602-603. (29) MIR PUIG, Derecho penal, Parte general, Barcelona, 1985, 169. Mentre nei delitos especiales propios è descritta una condotta che è punibile solo a titolo di autore se è realizzata da certi soggetti, in modo che gli altri esecutori non possono essere autori né di questo né di nessun altro delitto comune che punisca la medesima condotta, i delitos especiales impropios trovano invece corrispondenza con un delitto comune, del quale può essere autore il soggetto non qualificato che realizza l’azione. Sul tema, QUINTERO OLIVARES, Los delitos especiales y la teoria de la partecipation, Barcelona, 1974, 51 ss.; DEL ROSAS-ANTON, Derecho penal, Parte general, Valencia, 1984, 625. (30) HERZBERG, Täterschaft und Teilnahme, München, 1977, 116-117; ROXIN, Strafrecht - Allgemeiner Teil, I, München, 1992, 212.
— 852 — vece da chiunque: in questi ultimi la autoria di un soggetto qualificato è causa di aggravamento della pena (31). La individuazione di echte e unechte Sonderdelikte reca con sé pratiche implicazioni in tema di concorso di persone nel reato (32). Considerato che le speciali qualità e condizioni personali possono costituire o « elemento costitutivo » (Begriffsmerkmale) del reato o solo « elemento circostanziale » (Strafbarkeitsmerkmale) (33), negli echte Sonderdelikte solo il soggetto qualificato può essere autore, correo o autore mediato, e la partecipazione è possibile senza limiti. Mentre poi negli unechte Sonderdelikte il partecipante non qualificato viene punito solo secondo la forma fondamentale del delitto (§ 28 St.G.B.), negli echte Sonderdelikte la pena viene solo diminuita secondo il § 49 I St.G.B. (§ 28 I St.G.B.) (34). Una diversa classificazione si basa sul differente fondamento della qualifica del soggetto attivo descritta nella fattispecie: si distinguono dunque Sonderverbrechen aus rechtlichen Gründen (« per ragioni giuridiche ») e Sonderverbrechen aus physischen Gründen (« per ragioni fisiche o naturalistiche ») (35). La utilità di questa distinzione è posta in dubbio (36). Solo da taluno viene affermata, come pratico effetto, la possibilità esclusivamente nei Sonderverbrechen aus physischen Gründen di autoria mediata e correità (37). Un diverso modo di distinguere si fonda poi sull’osservazione che talvolta la limitazione della cerchia di autori deriva già dalla natura del reato, mentre in altri casi decisiva sarebbe solamente la volontà del legislatore: nel primo caso si parla di natürlichen Sonderverbrechen, nel secondo di positiv-rechtlichen Sonderverbrechen (38). Anche riguardo a tale distinzione viene posto in dubbio il valore (39); peraltro taluno indica come possibile conseguenza giuridica della distinzione la possibilità o no di autoria mediata e di correità di un soggetto non qualificato. Talora vengono posti a confronto tätergebundene (attinenti al soggetto) e erfolgsgebundene (attinenti all’evento) Sonderdelikte. Questa (31) JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts - Allgemeiner Teil, Berlin, 1988, 239-240. (32) HERZBERG, op. cit., 116-117 e 120. (33) NAGLER, op. cit., 2. (34) JESCHECK, op. cit., 240. (35) ROEDER, op. cit., 242 e 247. Cfr. NAGLER, op. cit., 2; DEYHLE, Die Teilnahme am Sonderverbrechen nach geltendem Recht und nach den Strafgesetzentwurfen, Tübingen, 1933, 12; SCHNYDER, op. cit., 19; LANGE, op. cit., Vorbem. I, 3 vor § 47; LANGER, op. cit., 64. (36) Cfr. LANGER, op. cit., 64. (37) SCHNYDER, op. cit., 20. (38) NAGLER, op. cit., 3; BERNHARDT, Der Einfluss persönlicher Verhältnisse auf die Strafbarkeit der Teilnehmer, Breslau, 1909, 48; SCHNYDER, op. cit., 21. (39) LANGER, op. cit., 65.
— 853 — classificazione deriverebbe dalla interpretazione delle particolari fattispecie: la legge può infatti porre in speciale evidenza la peculiare qualità dell’autore, come negli Amtsdelikte (reati d’ufficio) o piuttosto far risaltare la necessità dell’impedimento dell’evento (40). Ne conseguirebbe che il numero dei possibili autori è più ristretto nei tätergebundene Sonderdelikte rispetto agli erfolgsgebundene Sonderdelikte. La distinzione tra tätergebundene Sonderdelikte ed erfolgsgebundene Sonderdelikte sembra essere colta anche dalla dottrina italiana laddove individua le due categorie dei « reati esclusivi riferiti all’azione » e dei « reati esclusivi riferiti all’evento » (41). Mentre nei « reati esclusivi riferiti all’azione » la condotta criminosa è imprescindibilmente legata a posizioni personali di dovere e di potere radicate nella normativa extrapenale (42), nei « reati esclusivi riferiti all’evento », i quali imporrebbero al soggetto qualificato una mera obbligazione di risultato, si potrebbe ammettere una estensione della sfera dei possibili soggetti attivi (43). Nell’ordinamento tedesco, il quale presuppone la distinzione tra autore e partecipe, la differente struttura delle due categorie avrebbe il seguente effetto: nei tätergebundene Sonderdelikte sarebbe esclusa ogni forma di autoria da parte di soggetti non qualificati; gli erfolgsgebundene Sonderdelikte ammetterebbero invece autoria mediata e correità da parte dell’extraneus (44). Ad eguali conseguenze giuridiche condurrebbe infine la distinzione tra absolute e relative Sonderverbrechen (45), basata sulla impossibilità o meno di poter rivestire astrattamente la qualifica tipica. Al riguardo sono indicate implicazioni pratiche in tema di tentativo da parte di soggetto inidoneo, come anche di partecipazione ad un fatto principale non doloso ex § 48 St.G.B. (46). L’analisi di queste classificazioni mostra dunque la costante cura della dottrina tedesca nella ricerca delle applicazioni concrete di esse. Tali (40) RID, Ist mittelbare Täterschaft und Mittäterschaft des Aussenstehenden bei Sonderstraftaten möglich?, München, 1950, 76; MEZGER, in Leipzig Kommentar: Strafgesetzbuch, Berlin, 1958, Vorbem. 5 b vor § 47; BLEI, in MEZGER-BLEI, Strafrecht - Allgemeiner Teil, München 1967, 275. Definisce come « apparenti » gli erfolgsgebundene Sonderverbrechen, SCHNYDER, op. cit., 65. (41) FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985, 312. (42) Così nei reati propri previsti nel codice civile, nella legge fallimentare e nel diritto penale tributario (cfr. PADOVANI, I soggetti responsabili per i reati tributari commessi nell’esercizio dell’impresa, in questa Rivista, 1985, 379). (43) FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, cit., 312. (44) LANGER, op. cit., 66. (45) RID, op. cit., 33; LANGE R., Zur Teilnahme an unvorsätzlichen Haupttat, in JZ, 1959, 562. (46) KOHLRAUSCH-LANGE, op. cit., Vorbem. VI b vor § 43 e LANGE R., op. ult. cit., 562.
— 854 — applicazioni si ritrovano fondamentalmente nel campo del concorso di persone nel reato, a proposito della distinzione tra autore e partecipe, distinzione peraltro quasi sconosciuta nel sistema italiano. Il dibattito dottrinale in Germania è particolarmente vivo in ordine ai ‘‘besondere persönKslichen Merkmale’’ (elementi personali particolari). Si tratta di speciali, personali qualità, rapporti o circostanze, che fondano o modificano la pena, e che provocano un supplementare allentamento dell’accessorietà, in materia di istigazione e complicità (47). Questi particolari elementi trovano menzione nell’ambito del § 14 StGB. (Handeln für einen anderen) in tema di rappresentanza (48), ove è previsto che la legge secondo la quale particolari qualità, rapporti o circostanze personali (particolari caratteri personali) fondano la punibilità, è applicabile anche al rappresentante, pur se tali caratteri non sussistono in lui, ma nel rappresentato. Quando poi la legge stabilisce che i particolari caratteri personali (‘‘besondere persönliche Merkmale’’) aumentano, diminuiscono o escludono la pena, ciò vale, secondo il § 28 II StGB, solo per l’autore o il partecipe, nei quali essi sono presenti (49). La qualità di titolare dell’ufficio, come anche la posizione di garanzia nei reati omissivi impropri, sarebbero elementi i quali circoscriverebbero in modo altamente personale una particolare posizione di dovere, e dovrebbero essere ugualmente ricompresi nella previsione del § 28 I e II (50). I ‘‘besondere persönliche Merkmale’’ relativi all’autore, si distinguono dagli elementi di illiceità relativi al fatto (51), i quali contrassegnano il contenuto di illiceità obiettiva del fatto e soprattutto contengono la descrizione dell’evento e delle modalità di commissione del fatto. Per questi ultimi non vale il § 28 I e II St.G.B. (52). Nei Sonderdelikte pos(47) Su tali particolari elementi, HERZBERG, Die Problematik der ‘‘besondere persönlichen Merkmale’’, in ZStW, 1976, 68 ss.; ID., Akzessorietät der Teilnahme und persönliche Merkmale, in GA, 1991, 145 ss.; LANGER, Zum Begriff der ‘‘besonderen persönlichen Merkmale, in Festschrift für R. Lange, Berlin-New York, 1976, 241 ss.; SCHÜNEMANN, Die Bedeutung der ‘‘besonderen persönlichen Merkmale usw?, in JURA, 1980, 354 ss., 568 ss.; WESSELS, op. cit., 165. (48) BOCKELMANN-VOLK, op. cit., 185. (49) Cfr. VOGLER, Zur Bedeutung des § 28 StGB, in Festschrift für R. Lange, BerlinNew York, 1976, 265 ss.; CORTES ROSA, Teilnahme am unechten Sonderverbrechen, in ZStW, 1978, 413 ss.; GRÜNWALD, Zu den besonderen persönlichen Merkmalen (§ 28 StGB), in Gedächtnisschrift für Armin Kaufmann, Köln, 1989, 555 ss. (50) WESSELS, op. cit., 166. Diversamente HERZBERG, op. cit., 145 e 162. (51) Parlano invece di sachlichen Umstande (circostanze materiali), NOLL-TRECHSEL, op. cit., 191. (52) WESSELS, op. cit., 196. L’Autore osserva come in concreto la distinzione possa presentarsi difficoltosa. Sarebbe comunque sbagliato paragonare gli elementi di illiceità relativi al fatto (tatbezogenen Unrechtsmerkmale) e quelli relativi all’autore, rispettivamente agli
— 855 — sono presentarsi elementi materiali (sachliches) o personali (persönliches); inoltre negli echte Amtsdelikte la qualità di funzionario rappresenterebbe un elemento misto, materiale e personale (gemischtes sachliches und persönliches Merkmal) (53). Ancora differenti sono gli ‘‘spezielle Schuldmerkmale’’ (54) per i quali trova applicazione il § 29 e non il § 28 StGB. È determinante qui la loro presenza o mancanza nella persona del singolo autore o partecipe. Viene presupposta inoltre sempre l’esistenza di un fatto principale che renda possibile la partecipazione (55). 3. Reati propri e reati di mano propria. — Spesso accostati nello studio ai reati propri, sono i c.d. reati di mano propria o ad attuazione personale (56). Sono tali quei reati per i quali la legge richiede la partecipazione personalissima di un soggetto, del suo corpo o della sua persona (57): essi esigono dunque una partecipazione diretta dell’autore, poiché solo in questo modo si realizza lo speciale disvalore della condotta (58). Per determinare se una figura di reato è di attuazione personale o no, non possono darsi criteri assoluti: sarebbe necessario vedere se la norma ha inteso ordinare o vietare che un soggetto concorra all’attuazione di quel determinato comportamento (da chiunque tenuto), o se proprio ha inteso ordinare o vietare che egli stesso tenga quel comportamento (59). La diagnosi potrebbe inoltre essere aiutata ove si accerti anche che si elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie (obyektiven und subyektiven Tatbestandsmerkmalen), poiché non tutti gli elementi i quali contribuiscono alla determinazione dell’illecito personale dell’azione, sono egualmente ‘‘besondere persönliche’’ nel senso del § 28 StGB. (53) NOLL-TRECHSEL, op. cit., 193. (54) KÜPER, ‘‘Besondere persönliche Merkmale’’ und ‘‘spezielle Schuldmerkmale’’, in ZStW, 1992, 559 ss. (55) WESSELS, op. cit., 167. Cfr. GRÜNWALD, op. cit., 566 ss.; JAKOBS, op. cit., 561563 e JESCHECK, op. cit., 595-598. (56) Tale ultima espressione è di FROSALI, Il concorso di persone nei « reati propri » e nei « reati di attuazione personale », in Scuola pos., 1949, 30. Parla invece di « reati di commissione personale » MAGGIORE, Principi di diritto penale, I, Bologna, 1937, 465. Nella dottrina spagnola (MIR PUIG, op. cit., 169) si parla di « delitos de propia mano », i quali implicherebbero una restrizione della sfera dei soggetti ‘‘idonei’’ al delitto e richiederebbero un contatto fisico, come nello stupro, o la realizzazione personale della fattispecie (del tipo), come nei matrimoni illegali. In ambedue i casi non esisterebbe la possibilità di commissione del delitto utilizzando un’altra persona come strumento (autoria mediata). (57) ROMANO, Commentario, cit., pre-art. 39, 130, 325. Cfr. FIORE, op. cit., 160. (58) WESSELS, op. cit., 8. In tema di concorso di persone, cfr. BOCKELMANN-VOLK, Strafrecht - Allgemeiner Teil, München, 1987, 184. (59) Come se nel primo caso dicesse: « è punito chi fa sì che una persona entri nel fondo altrui », invece di dire, come nell’art. 637 c.p., che è punito « chiunque ». Così FROSALI, Sistema penale italiano, III, cit., 76.
— 856 — tratta di un reato in cui l’evento è oggettivamente inseparabile dal comportamento oppure di un reato omissivo (60). La dottrina tedesca, a cui risale l’identificazione (61) (e la critica) (62) di questo gruppo di delitti (eigenhändige Delikte), sottolinea l’autonomia di tali fattispecie. In particolare gli eigenhändige Delikte si distinguono dalla contigua categoria dei Sonderdelikte i.e.S., per il fatto che nei primi vi è una « necessaria » (in rerum natura) delimitazione della cerchia dei possibili autori, mentre nei secondi la limitazione di tale cerchia è « voluta dalla legge » (63). La categoria degli eigenhändige Delikte viene ulteriormente suddivisa in tre sottocategorie: la prima comprenderebbe le fattispecie che richiedono necessariamente una partecipazione fisica (corporea) dell’autore al fatto; la seconda comprenderebbe le fattispecie contrassegnate da una partecipazione « personale » e non corporea dell’autore al fatto (come la bigamia); la terza riguarderebbe i reati di dichiarazione, a proposito dei quali il diritto processuale prescrive un’azione propria della persona (falso giuramento, falsa testimonianza) (64). Secondo un’altra classificazione, i delitti di mano propria si dividerebbero in eigenhändige Delikte in senso stretto, nei quali è punito un modo di essere del soggetto (p. es. sfruttamento della prostituzione) o una condotta in sé non lesiva (per es. l’incesto), e eigenhändige Delikte in senso lato (unechte), i quali si fondano sulla violazione di un particolare dovere, violazione possibile solo attraverso una esecuzione personale (65). Gli eigenhändige Verbrechen sono fondamentalmente reati di mera condotta, nei quali dunque è il disvalore dell’azione ad emergere primaria(60) FROSALI, Sistema penale italiano, III, cit., 76. Rimane fermo, per l’Autore, che non sono di attuazione personale tutti i c.d. « reati di azione », poiché, vietata che sia una data azione, essa può risultare punibile anche per chi soltanto la cagiona. (61) Fu BINDING (Die drei Grundformen des verbrecherischen Subjekts: der Täter, der Verursacher (Urheber), der Gehilfe, in Strafrechtliche und strafprozessuale Abhandlungen, München-Leipzig, 1915, I, 257 ss. e Die Normen und ihre Übertretung, Leipzig, 1919, 595 ss.) a individuare questo gruppo di delitti. (62) Cfr. SCHMIDT Eb., Die mittelbare Täterschaft, in Festgabe für Frank, II, Tübingen 1930, 128 ss. e HAFT, Eigenhändige Delikte, in JA, 1979, 651. Nella dottrina italiana, SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, 381-394. Questo Autore afferma che tale categoria di illeciti non ha propria autonomia, ma presenta caratteri peculiari di altre; questi reati sono privi di sistematicità, e possono essere individuati solo attraverso l’interpretazione delle particolari fattispecie, condotta attraverso la formulazione letterale, il bene giuridico tutelato e il disvalore della condotta tipizzata. (63) Così MAURACH-ZIPF, op. cit., 284. Nella dottrina italiana, osservava FROSALI, Sistema penale italiano, III, cit., 74, che è possibile che i due istituti, reati ad attuazione personale e reati propri, risultino combinati. Così per realizzare la fattispecie di cui all’art. 614 c.p. occorre essere esclusi dal permesso di entrare nell’altrui abitazione, ed altresì bisogna entrare personalmente nell’abitazione stessa. (64) HERZBERG, Eigenhändige Delikte, in ZStW, 1970, 913 ss. (65) ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Hamburg, 1967, 392-395.
— 857 — mente (66). Sono dunque le particolari modalità della condotta che, necessariamente, ‘‘qualificano’’ l’autore. Invece nei reati propri potrebbe dirsi accadere il fenomeno inverso, poiché sarebbe invece l’autore a ‘‘qualificare’’ la condotta. Nei reati di mano propria le particolari modalità della condotta descritte nella fattispecie non possono essere eseguite se non da un particolare, speciale soggetto; nei reati propri una condotta eseguibile da chiunque può assumere una particolare significatività sotto il profilo penale se compiuta da un soggetto qualificato. Anche i reati di mano propria possono essere designati come reati propri, seppur in un senso particolare, cioè nel senso che è la particolare situazione fattuale a determinare talvolta un’autoria qualificata (67). La enucleazione di questo gruppo di figure delittuose reca effetti, come nei reati propri, in tema di concorso di persone nel reato (68). Chi non esegue personalmente la condotta tipica non può rivestire la qualità di autore, coautore o autore mediato, ma solo di partecipe (69). La partecipazione (istigazione e complicità) è poi possibile senza limiti: infatti il partecipe collabora al fatto « altrui » e perciò non deve possedere le qualifiche dell’autore (70). Da quanto osservato emerge il dubbio se, a proposito dei reati di mano propria, si possa parlare di una categoria autonoma oppure di una sottocategoria nell’ambito dei reati propri (71). In questo ultimo senso è l’opinione di chi ritiene gli eigenhändige Delikte (come il loro correlato: reati di « mano estranea » o commissibili in autoria mediata), non una au(66) MAURACH-ZIPF, op. cit., 284. (67) Osserva VENAFRO, op. cit., 340 che in realtà il concetto dei reati di ‘‘mano propria’’ concerne il modo in cui deve attuarsi la lesione e non identifica un particolare oggetto della tutela: non si tratterebbe di ipotesi necessariamente subordinate alla presenza di un soggetto qualificato (ad es. violenza carnale) né tutte le ipotesi di reati propri sarebbero necessariamente di ‘‘mano propria’’ (il peculato può essere infatti realizzato anche mediante un’esecuzione frazionata tra soggetti qualificati e non qualificati). Secondo l’Autrice dunque individuare in un reato l’esigenza di un’attuazione di ‘‘mano propria’’ serve solo ad individuare nell’esecuzione personale una caratteristica estrinseca della fattispecie. (68) Per una possibile applicazione in tema di Unterschlagung (appropriazione indebita), KÜPER, Das Gewahrsamsefordernis bei mittäterschaftlichen Unterschlagung, in ZStW, 1994, 373-374. (69) SCHÖNKE-SCHRÖDER, op. cit., Vorbem. 133 vor § 13; WESSELS, op. cit., 8. (70) MAURACH-ZIPF, op. cit., 285. Gli Autori indicano però rari casi in cui viene richiesta una partecipazione di mano propria (B.G.H. 9 e 119). FROSALI, Sistema penale italiano, III, cit., 75, poneva come regola disciplinante il concorso di persone per i reati di attuazione personale la seguente: « se un soggetto attua (da sé) — possedendo anche le qualità eventualmente richieste — il comportamento costitutivo del reato, altri soggetti possono concorrere pur senza possedere tali qualità, e svolgendo qualsiasi azione ». (71) Cfr. MANTOVANI, op. cit., 147. L’Autore afferma che i reati propri ed esclusivi, costituiti da fatti che, senza la qualifica soggettiva, sarebbero inoffensivi di qualsiasi interesse e, perciò, giuridicamente leciti, sono di mano propria o ad attuazione personale, non potendo essere commessi per interposta persona (falso giuramento, incesto).
— 858 — tonoma forma di manifestazione del delitto, ma « un gruppo di fattispecie all’interno di una forma di manifestazione », e ciò perché una determinazione del concetto indipendente dal riferimento al tema dell’autoria mediata è impensabile (72). Questo gruppo di reati si presterebbe dunque ad una descrizione ma non ad una definizione, sempre che ad essi non si possa estendere una di quelle definizioni che, come si vedrà, sono indicate a proposito dei reati propri. 4. Dalla descrizione alla definizione: l’essenza (Wesen) del reato proprio. — Dopo aver rilevato le caratteristiche esterne del reato proprio, i suoi indici di riconoscimento e le classificazioni proposte, è ora necessario analizzare il profilo interno, la sua essenza, e dunque la ragione della sua presenza nell’ordinamento penale. Per riempire di contenuto una pura descrizione (quale è quella che semplicemente osserva e annota la presenza di un soggetto attivo rivestito di una particolare qualifica, di ordine normativo o naturalistico) sono state proposte tre soluzioni: la prima si riferisce al concetto di fattispecie propria (Sondertatbestand), la seconda a quello di norma propria (Sondernorm), ed infine la terza all’idea del bene giuridico proprio (Sonderechtsgut) (73). Alla teoria della norma propria si può ricondurre anche la teoria del dovere proprio (Sonderpflicht), poiché questo dovere rappresenta la concretizzazione della norma astratta. Questi tre modi di intendere l’essenza del reato proprio si caratterizzano nel modo seguente. Per il criterio della fattispecie propria, il reato proprio si distinguerebbe dai reati comuni con riguardo alla limitazione legislativa della punibilità: le disposizioni penali inerenti a questo tipo di reati sono stabilite solo per una circoscritta, delimitata classe di persone. Per la seconda interpretazione, quella che fa capo alla norma propria, è già il particolare comando o divieto (norma propria) a dirigersi ad una determinata cerchia di individui: la particolare posizione nella vita giuridica giustifica l’attribuzione a tali soggetti di particolari doveri. Per la teoria del bene giuridico proprio, l’interesse tutelato nei reati propri è offendibile solo dal soggetto qualificato e l’esistenza di tale interesse fonda l’assegnazione di obblighi speciali (74). I tre criteri ora indicati, pur essendo fondamentalmente distinti l’uno dall’altro, sarebbero tuttavia capaci di intersecarsi. Il criterio del bene giuridico proprio (Sonderrechtsgut) conserva una sorta di preponderanza ge(72) LANGER, Das Sonderverbrechen, cit., 35. (73) LANGER, op. ult. cit., 49-51. (74) LANGER, op. cit., 50-51.
— 859 — netica. Se un bene può infatti essere leso solamente da un soggetto, ne derivano sia una limitazione della cerchia dei possibili autori sia la direzione della norma solo a determinati qualificati individui. Ma le proposizioni inverse non sono possibili. Così si può fondare su un bene giuridico proprio solo una norma propria, su una norma propria solo una fattispecie propria, invece su un bene giuridico comune (o generale) anche una norma propria e su una norma generale anche una fattispecie propria (75). I tre criteri, delineati schematicamente, sono presenti con varie forme e differenti collegamenti nelle elaborazioni dottrinali. Essi saranno qui descritti nei loro significati fondamentali, riservando una particolare attenzione all’idea del bene giuridico proprio, a causa della sua preponderanza genetica, cioè del suo costituire un prius logico rispetto agli altri due criteri. 5. La fattispecie propria (Sondertatbestand) come essenza del reato proprio. — a) Esposizione. Secondo le teorie riconducibili a questo schema, sono reati propri quelli la cui fattispecie può venire realizzata solo da determinate persone, dotate di particolari qualità di ordine naturalistico o giuridico (76). Le fattispecie in questione presupporrebbero dunque il riferimento ad una ben definita cerchia di persone. La particolare caratteristica giuridica dei reati propri risiederebbe nel fatto che il legislatore, coscientemente e volutamente, ha tipizzato in una fattispecie legale condotte antigiuridiche commesse da un soggetto qualificato, e queste ha minacciato di sanzione (77). Secondo questa interpretazione, reati comuni e reati propri non si distinguerebbero con riguardo al bene giuridico ed in relazione alla norma che vieta la sua offesa. Anche con riguardo al soggetto non qualificato sarebbe concepibile una offesa al bene protetto dal reato proprio ed anche a tale soggetto sarebbe una tale offesa vietata: « solamente non viene punita la sua offesa del bene giuridico contraria alla norma, perché essa non è conforme alla fattispecie ». L’essenza del reato proprio consisterebbe dunque nella limitazione, contenuta nella fattispecie, all’intraneus della punibilità delle condotte contrarie alla norma (78). Questa limitazione farebbe sì che il reato proprio costituisca una autonoma forma di manifestazione del reato, con le conseguenze che ne deriverebbero in tema di autoria e partecipazione (79). (75) LANGER, op. cit., 50. Secondo l’Autore, inoltre, l’affermazione dell’essenzialità del criterio della Sondernorm, porta ad una limitazione numerica di questi delitti. (76) ROEDER, op. cit., 242-244. (77) SCHNYDER, op. cit., 64. (78) Così riassume il senso di queste interpretazioni, LANGER, op. cit., 58. (79) LANGER, op. cit., 58-59 e 262-264.
— 860 — b) Critica. La teoria della fattispecie propria lascia irrisolto il problema dell’essenza del reato proprio. Particolarmente criticabile è l’assunto centrale della teoria, cioè che anche il soggetto non qualificato sarebbe in grado di offendere il bene tutelato nelle fattispecie di reato proprio ed anche a tale soggetto sarebbe vietata una tale offesa, ma la sua violazione del bene giuridico contraria alla norma non verrebbe punita in quanto non contraria alla fattispecie. Tale spiegazione si rivela infatti formalistica ed elusiva delle reali problematiche. In primo luogo la teoria in esame non spiega perché talvolta la offesa del bene giuridico, pur contraria alla norma, non sarebbe conforme alla fattispecie; in secondo luogo non è chiaro il motivo per il quale il legislatore avrebbe così deciso e, conseguentemente, sarebbe oscura la ratio della limitazione di punibilità; infine appare immotivato il diverso trattamento giuridico di intraneo ed estraneo, posto che anche l’estraneo sarebbe in grado di offendere il bene. 6. La norma propria (Sondernorm) come essenza del reato proprio. — a) Esposizione. La soluzione che ravvisa nella norma propria (Sondernorm) l’essenza del reato proprio trae origine dalla divisione, impostata da Binding, delle norme in generali e speciali: vi sarebbero cioè norme che impongono doveri a tutti, altre che invece impongono particolari obblighi a speciali categorie (funzionari, soldati, ecc.) (80). Fondandosi dunque sulla teoria delle norme di Binding, è stato Nagler a porre come fondamento dei Sonderverbrechen la Sondernorm. I limiti di validità personale delle situazioni giuridiche non avrebbero costante estensione: la soluzione potrebbe essere individuata, caso per caso, solo in virtù di una statuizione del diritto positivo. Il diritto positivo sarebbe ricco di obblighi configurati esclusivamente a carico di una determinata cerchia di persone nell’ambito della comunità giuridica. Sarebbe compito di un’accurata interpretazione definire quali precetti siano vincolanti per tutti e quali solo per una parte della comunità giuridica (81). Una prescrizione giuridica — si afferma inoltre — si presenta di regola come generale, ma si discute se ciò debba valere sempre e comunque: un ordine particolare potrebbe venire ammesso quando il suo radicamento negli appartenenti ad uno speciale gruppo appaia con sufficiente precisione (82). Sono dunque chiamati Sonderverbrechen (o delicta propria o ‘‘eigentumliche’’ Verbrechen) le trasgressioni di disposizioni proprie, le quali fondano la sottomissione personale solo di una determinata categoria di persone aventi caratteristiche tali da poter commettere il de(80) BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, Leipzig, 1916, 126-127. (81) NAGLER, op. cit., 9-10. (82) NAGLER, op. cit., 11.
— 861 — litto; a questi si contrapporrebbero i Gemeinverbrechen, come violazioni di generali comandi o divieti (83). La tesi della particolare destinatarietà dei precetti contenuti nelle disposizioni di legge ipotizzanti come reati propri è stata avanzata nella dottrina italiana da Bettiol: solo coloro che si trovano con il soggetto passivo o con il bene tutelato nella posizione voluta dalla legge sarebbero destinatari del particolare comando (84). L’obbligo di astenersi dal perpetrare il reato sussisterebbe solo per i soggetti qualificati: questo non escluderebbe la partecipazione di estranei al fatto dell’intraneo, ma si tratterebbe di trasgressione di un obbligo secondario, espressione della posizione subordinata dell’estraneo nei confronti dell’interesse tutelato (85). Le c.d. « norme a destinazione particolare » (o proprie) richiederebbero alcuni particolari requisiti di persona per rivolgere i loro particolari imperativi: in tali ipotesi « le condizioni personali influiscono dunque sulla obbligatorietà non in genere delle norme penali, ma di singole norme penali » (86). Sarebbe evidente che i soggetti in cui le particolari qualità necessarie al reato mancano, non sono destinatari (attuali) nemmeno del precetto primario della norma penale: con la conseguenza che il fatto commesso dal soggetto che non possiede le richieste (necessarie al reato) qualità personali, non si presenta illecito e, ove non contrasti con alcun altro imperativo giuridico, non può nemmeno subire sanzioni extrapenali (87). Dalla distinzione tra norme penali che singolarmente richiedono, oppure no, particolari qualità nel soggetto destinatario dell’imperativo, deriverebbe la correlativa distinzione tra reati propri e reati comuni. b) Critica 1. La tesi della ‘‘destinatarietà riservata’’ di queste particolari norme ha suscitato forti obiezioni in dottrina. In primo luogo tale tesi sarebbe legata alla teoria imperativistica e (83) NAGLER, op. cit., 18. Contra ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 354. (84) BETTIOL, op. cit., 15-21. Nello stesso senso, riteneva sussistere norme penali dirette a persone determinate e dunque solo da esse violabili, GRISPIGNI, Il delitto del non imputabile nel concorso di più persone in uno stesso reato, in Scuola pos., 1911, 14; più recentemente cfr. MANTOVANI, op. cit., 146. Contra MORO, Sul fondamento della responsabilità giuridica dell’estraneo che partecipi a reali propri, in Giur. it., 1948, 25 ss. Cfr. SEMINARA, op. cit., 402. (85) BETTIOL, op. cit., 20-21. Nega l’importanza di questa problematica, SEMINARA, op. cit., 402 ss., il quale rileva come non sia chiaro in questa teoria se la violazione dell’obbligo costituisca un disvalore di condotta o di evento, e se la punibilità del fatto derivi dalla lesione di un dovere personale ovvero di un bene giuridico: secondo l’Autore sarebbe piuttosto necessario verificare l’inerenza della qualifica, nelle varie disposizioni, alla colpevolezza o all’offesa dell’interesse tutelato, con conseguenze in tema di partecipazione al fatto non doloso dell’intraneo. (86) FROSALI, Sistema penale italiano, I, cit., 236. L’Autore aggiunge che le particolari condizioni personali possono influire: a) quali elementi necessari per l’esistenza del reato; b) quali elementi che in altro modo hanno rilievo sull’entità del reato. (87) FROSALI, Sistema penale italiano, I, cit., 237-238.
— 862 — porterebbe a confondere le qualifiche richieste per la sussistenza del fatto con le qualifiche richieste per l’imputazione dell’illecito (88). Inoltre farebbe sorgere il dubbio che, dove si tratti di qualifica che possa astrattamente essere assunta in futuro da chiunque (ad es. la qualifica di cittadino o di pubblico ufficiale), si sia in presenza non di un reato proprio, bensì di un reato comune (89). Nella dottrina italiana si distinguono poi due momenti del processo di subiettivazione della norma: un momento potenziale, esprimente la tendenza della norma verso i soggetti che potranno realizzare la fattispecie prevista, ed un momento effettivo, che presuppone verificata la fattispecie. La posizione del soggetto agente condizionerebbe il secondo momento, ma non quello della subiettivazione potenziale, e dunque della destinazione della norma, poiché il soggetto attualmente non investito potrebbe assumerla, ove si verifichino le condizioni che ne determinino il sorgere (90). In conclusione, di limitata destinazione della norma ipotizzante il reato proprio si potrebbe solo parlare distinguendo fra destinatari attuali e destinatari potenziali: in tal modo si potrebbe considerare limitata la destinazione attuale della norma ai soggetti già qualificati, cristallizzando però in una visione statica il rapporto fra la norma ed il soggetto (91). La critica fondamentale è perciò questa: è necessario non confondere il destinatario della norma da chi tramite essa ne risulta obbligato. Destinatari della norma — si afferma — sono tutti, ma ciò non significa che tutti i destinatari siano anche, o possano esserne, obbligati (92): « perché si produca l’effetto obbligatorio si richiede la concretizzazione della norma con riferimento ad un individuo determinato che viene in considerazione in relazione ad un atto concreto che è oggetto del divieto » (93). La diffusa opinione, secondo la quale le norme speciali si dirigono solo ad una cerchia determinata di persone andrebbe respinta poiché nessuno a (88) PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 167. (89) PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 166-167. Secondo l’Autore si tratterebbe invece di « legittimazione al compimento della condotta illecita », mentre risulterebbe evidente in sede dogmatica che non si è in presenza di requisiti per l’imputazione dell’illecito (ciò sarebbe confermato dal fatto che nel concorso di altri soggetti nel reato proprio, di quest’ultimo risponde anche chi manca della qualifica). Sempre secondo PAGLIARO, diventa chiaro che si tratta di un requisito del fatto, che deve esistere attualmente e non come mera possibilità. Infine della corretta impostazione dogmatica la dottrina del reato proprio si gioverebbe anche a proposito dell’elemento soggettivo del reato (op. cit., 387 ss.). (90) MAIANI, op. cit., 23-24. (91) MAIANI, op. cit., 24-25. L’Autore critica inoltre la tesi della destinatarietà riservata, osservando che essa può avere riferimento solo alla fattispecie monosoggettiva e non a quella plurisoggettiva eventuale (25-26). (92) KAUFMANN Arm., Lebendiges und Totes in Bindings Normentheorie, cit., 132. (93) Così testualmente KAUFMANN Arm., op. cit., 139.
— 863 — priori può essere escluso dal novero degli autori dell’atto: « chi è oggi funzionario non lo sarà necessariamente domani » (94). Risulterebbe dunque chiaro come anche le norme speciali (o proprie) si dirigano a tutti. Non si tratterebbe di un problema di ‘‘direzione della norma’’, quanto piuttosto di una caratterizzazione più precisa del soggetto della norma, dell’autore dell’atto previsto. Non si limiterebbe dunque attraverso queste norme la destinatarietà della norma, quanto piuttosto la cerchia degli autori: in certe norme verrebbe perciò in questione la ‘‘normativizzazione’’ (Normierung) dell’autore (95). b) Critica 2. La teoria della norma propria (Sondernorm) descrive dunque un fenomeno: l’esistenza di norme che paiono rivolte solo ad una cerchia determinata di soggetti; ma non spiega perché esistano norme siffatte. Per definire l’essenza del reato proprio la teoria della norma propria ricorre ad una spiegazione formale che, così come la teoria della fattispecie propria (Sondertatbestand), in realtà non è esaustiva. Al fine di motivare le ragioni della sottomissione personale solo di una determinata categoria di persone aventi caratteristiche tali da poter trasgredire norme proprie, è necessario ricorrere a concetti estranei alla teoria della norma propria. La teoria della norma propria necessita dell’ausilio della teoria del bene giuridico proprio ed è dunque priva di fondamento autonomo: la direzione di particolari norme nei confronti di soggetti qualificati deriva dall’esistenza di beni giuridici speciali. La qualifica appartenente ai soggetti destinatari delle norme in questione li rende particolarmente ‘‘idonei’’ alla violazione della norma propria, ma tale ‘‘idoneità’’ deriva dal carattere del bene tutelato e non dal carattere della norma. L’esistenza di norme proprie discende perciò dall’esistenza di beni giuridici specificamente caratterizzati (96). 7. Il bene giuridico proprio (Sonderrechtsgut) come essenza del reato proprio. — a) Esposizione. La teoria del bene giuridico proprio nega (94) KAUFMANN Arm., op. cit., 133. È chiaro che questo discorso non vale quando il riferimento, come soggetto attivo, è ad una persona di sesso femminile: già BINDING, op. cit., 127, osservava però come anche i restanti soggetti siano obbligati attraverso le norme speciali, poiché potranno prestare opera di induzione o di aiuto in un reato proprio. Da queste osservazioni si ricava dunque la possibilità degli estranei di concorrere in una fattispecie plurisoggettiva eventuale (in questo senso ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 354, il quale rileva che se gli estranei non fossero destinatari di tali speciali norme, non potrebbero rispondere nemmeno a titolo di concorso). (95) KAUFMANN Arm., op. cit., 134. (96) La pre-positività del bene giuridico e la sua posizione esterna alla norma sono gli assunti propri della c.d. concezione liberale del bene giuridico. Per una breve storia del concetto di bene giuridico, ROMANO, Commentario, cit., pre-art. 39, 2-5, 278-279.
— 864 — che la qualifica non abbia niente a che fare con il bene giuridico o che la qualifica costituisca semplicemente indice di riconoscimento del bene tutelato, ed afferma che, essendo il bene giuridico il prius logico, è dunque la speciale natura del bene tutelato in queste fattispecie a consentirne la lesione solo da particolari, qualificati, ‘‘legittimati’’ soggetti. Si assegna dunque preponderanza logica al bene giuridico rispetto alla qualifica: è il bene a dettare necessariamente una particolare qualifica del soggetto attivo, e non la particolare qualifica a dettare (contribuire all’identificazione di) un determinato bene giuridico (97). È inoltre sempre la peculiare qualità del bene a far derivare l’assegnazione di speciali doveri ad un tale qualificato soggetto. In breve, dal bene consegue la qualifica e dalla qualifica discendono i doveri. Questa inversione di prospettiva potrebbe anzi portare ad un’ulteriore osservazione. Le tradizionali descrizioni del reato proprio, incentrate sulla peculiarità della qualifica del soggetto attivo, sarebbero inadeguate: sarebbe più esatto concentrare l’esame sul bene tutelato per scoprire se esso abbia particolari caratteristiche dalle quali derivi la conseguenza che ad esso possano arrecare offesa solo speciali soggetti attivi. Sarebbe cioè il bene ad essere ‘‘qualificato’’ e non tanto l’autore, sull’identificazione del quale si rifletterebbero in definitiva le conseguenze di questa ‘‘qualificazione’’ del bene. Questo assunto sarebbe dimostrato anche dal fatto che in molti casi la qualifica del soggetto attivo non è espressa nella fattispecie, ma deriva da un procedimento ermeneutico che pone al centro proprio il bene tutelato. In prima approssimazione, le tesi riconducibili al concetto di ‘‘bene giuridico proprio’’ pongono in rilievo come la particolare qualifica valga a porre il soggetto in relazione con un peculiare bene giuridico (98), suscettibile di lesione solo da parte del soggetto qualificato, che acquisterebbe la c.d. « legittimazione al reato » (99). Dalla peculiarità del bene deriverebbe (97) Con riferimento generale, e quindi con riguardo anche ai reati propri, appare superato il rischio, segnalato dalla dottrina in tema di rapporto tra interpretazione della norma ed oggetto giuridico, di cadere nel c.d. ‘‘circolo ermeneutico’’ o ‘‘circolo vizioso’’, per il quale si interpreterebbe la norma per cercare l’oggetto giuridico e si cercherebbe l’oggetto giuridico per interpretare la norma, o, detto diversamente, si ricorrerebbe al bene giuridico per precisare il significato linguistico della norma, senza tenere conto che esso è a sua volta preliminarmente ricavabile proprio dal significato linguistico (cfr. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, Artt. 10-15, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1974, 297; MANTOVANI, op. cit., 220; PALAZZO, voce Legge penale, in Digesto, Disc. pen., VII, Torino 1993, 362). L’interpretazione infatti avanza per successivi aggiustamenti, passando dal significato linguistico a quello valutativo, e viceversa (CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989; PALAZZO, op. cit., 362). (98) Anche PADOVANI, Reati della navigazione, cit., 1119, ritiene caratteristica dei reati propri o esclusivi una particolare connessione funzionale tra l’interesse tutelato e la posizione rivestita dal soggetto attivo. (99) Sulla nozione di legittimazione al reato, CARNELUTTI, Teoria generale del reato,
— 865 — inoltre che la norma anziché dirigersi, come normalmente avviene, a tutti i consociati, si rivolgerebbe solo alle persone che rivestono tale qualifica (100). Secondo quest’ultima prospettiva, sarebbe il ‘‘bene giuridico proprio’’ a giustificare l’esistenza di norme giuridiche proprie. b) Critica. Questo angolo visuale non si presenta scevro di difficoltà. Per dimostrare l’assunto centrale della teoria, cioè l’esistenza di ‘‘beni ad accessibilità riservata o limitata’’ esso presuppone superati due passaggi fondamentali. Questi due passaggi sono l’interpretazione della norma e la corretta identificazione del bene tutelato (101). Può infatti accadere che nella norma vi sia indicazione diretta del bene protetto, attraverso espressa menzione, o indiretta, attraverso « l’equivalente fenomenico dell’offesa » (102). Nei casi di indicazione diretta o indiretta, il problema interpretativo ancora sussiste, ma è semplificato e, dunque, l’analisi potrà effettivamente dirigersi alla verifica sull’‘‘accessibilità riservata’’ del bene. Quando però tale indicazione, diretta o indiretta, manchi, saranno le modalità della condotta e le caratteristiche del suo oggetto materiale, ad indicare una direzione offensiva verso un particolare bene giuridico (103), Palermo, 1933, 135: questo Autore definisce la legittimazione come « idoneità dell’agente a determinare col suo atto effetti giuridici dati in ragione della sua posizione rispetto al conflitto d’interessi, a cui l’atto si riferisce ». In senso critico MAIANI, op. cit., 42 ss. Distingue tra « capacità di agire » e « legittimazione ad agire » in diritto penale PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 166-167. Mentre la « capacità di agire » in diritto penale sarebbe posseduta da tutti i soggetti fisici ed il suo presupposto si identificherebbe, in modo puro e semplice, con la qualità di uomo, la « legittimazione ad agire », secondo Pagliaro, sarebbe costruita intorno al rapporto tra il soggetto e l’interesse particolare tutelato. La relazione, immanente al concetto di « legittimazione ad agire », tra il soggetto e l’interesse protetto da una particolare norma penale farebbe sì che la qualifica legittimante rientri tra gli elementi del reato nei confronti dei quali si pone il problema della personalità dell’illecito. Pertanto in caso di reato doloso, la qualifica legittimante sarebbe normalmente oggetto di dolo; in caso di reato colposo, il soggetto non risponderebbe se, senza colpa, ignorava la sua qualifica; in ogni caso, poi, la qualifica dovrebbe essere conoscibile dal soggetto che compie l’azione illecita. La « legittimazione ad agire » potrebbe dunque essere definita, in diritto penale, come « l’idoneità, fondata su un particolare rapporto con l’interesse protetto, a realizzare la condotta illecita di taluni fatti di reato ». Il rapporto con l’interesse protetto comporterebbe la necessità che la qualifica legittimante sia almeno conoscibile dall’agente, in conformità del principio della personalità dell’illecito penale. (100) MANTOVANI, op. cit., 146. Secondo l’Autore, ciò non comporta una violazione del principio costituzionale di uguaglianza, se ed in quanto però la previsione dei reati propri sia posta a tutela di interessi tali da giustificare siffatte posizioni più sfavorevoli. (101) Il problema della corretta identificazione del bene tutelato presenta interessanti punti di emersione con riferimento ai c.d. « beni giuridici internazionali ». Sul tema, cfr. ad es. MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea, Padova, 1994, 142 ss. (102) MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I (Nozione, struttura e sistematica del reato), Milano, 1995, 173-174. (103) MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., 174.
— 866 — le cui peculiarità a loro volta aiuteranno nel segnare i confini del ‘‘tipo’’ (104), e dunque, eventualmente, anche l’ambito dei possibili autori. Ma anche con riferimento all’ambito dei possibili autori si può riproporre lo schema detto sopra. Anche qui è possibile un’indicazione espressa della qualifica: ma ove tale indicazione non sussista, l’autoria qualificata può essere ricavata dall’interprete per mezzo dell’analisi delle modalità della condotta e dell’oggetto su cui incide, e dunque anche tramite l’analisi del bene tutelato già individuato. Così nel diritto penale dell’impresa si discute se la particolare condizione personale che sta alla base del reato proprio debba consistere in una « qualifica soggettiva extrapenalistica » letteralmente indicata dalla legge, o possa invece risultare dall’esercizio di una delle funzioni corrispondenti alla qualifica medesima (105). Considerato che la titolarità dei doveri e dei poteri si collega all’esercizio di una data funzione, la fattispecie tipica potrebbe dirsi realizzata anche in mancanza degli elementi formali descritti nella norma (106). È significativo inoltre che il progetto di nuovo codice penale stabilisca che anche dove la legge indica direttamente la qualifica, soggetto attivo del reato possa essere non solo il formale titolare della stessa, ma anche chi, mediante un’attività di fatto, è divenuto portatore di quei poteri e doveri giuridici che della qualifica sono espressione. La liberazione dell’originario titolare dell’obbligo potrà, in questi casi, avvenire, solo a seguito del trasferimento lecito ed effettivo delle funzioni che fondano l’obbligo stesso (107). È poi presente il rischio che la ricerca del bene giuridico sia influenzata dallo scopo che si ha di mira: così, nei reati compiuti da funzionari pubblici, ritenere interesse tutelato un’ipotetica fedeltà allo Stato, avvicina sicuramente e notevolmente la qualifica al bene protetto, ma è prospettiva formale, astratta, ed inoltre pare confondere tra violazione del dovere ed offesa del bene giuridico. In un sistema fondato sul principio di offesa di beni giuridici, la violazione del dovere non può fondare la responsabilità, ma solo costituire ulteriore requisito rispetto al(104) Anziché una funzione di individuazione dal niente, le modalità della condotta potrebbero svolgere una funzione di precisazione. Può accadere infatti, in presenza di un bene giuridico dai grandi contorni (p. es. patrimonio), che le modalità della condotta, cioè le specifiche forme di aggressione al bene tutelato, svolgano la funzione di ritagliare con maggior precisione, « come un laser che vi si proietti contro, dall’ampio bene giuridico di categoria, lo specifico oggetto giuridico tutelato dalla struttura base di repressione (la singola fattispecie incriminatrice) »: così CARMONA, Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1996, 93 ss., il quale parla di un rapporto di essenziale complementarietà tra le modalità di aggressione e il bene giuridico. (105) FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, cit., 20. (106) Sulla possibilità di una scissione tra qualifica soggettiva extrapenalistica ed esercizio della funzione, STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, in questa Rivista, 1971, 1168; FIORELLA, op. cit., cit., 20; PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1990, 31. (107) Progetto 1992, art. 9.1. (in Quaderni Giustizia, 1992 n. 3).
— 867 — l’offesa del bene giuridico (108). In particolare, gli speciali doveri giuridici dell’intraneo, contenuti nelle fattispecie di reato proprio, non vanno confusi con i beni tutelati, ma anzi essi trovano la loro fonte precisamente in questi beni, e sono dunque a tali beni subordinati (109). La necessità di non confondere gli speciali doveri giuridici dell’intraneo con i beni tutelati emerge con evidenza a proposito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. In tali reati le modalità di commissione del fatto descritte nelle fattispecie si risolvono talvolta in una strumentalizzazione di una funzione, quella amministrativa pubblica, per il conseguimento di finalità estranee ad essa. Viene dunque tutelata la funzione amministrativa pubblica, che è per definizione rivolta al conseguimento dell’interesse pubblico, mentre la configurazione (e la relativa violazione) degli specifici doveri del pubblico ufficiale deriva proprio dalla necessità della tutela della funzione amministrativa pubblica. Emerge dunque, in questa prospettiva, la necessità di un’attenta considerazione dell’interesse tutelato, onde delimitare con precisione i confini della c.d. ‘‘legittimazione al reato’’. La teoria che ravvisa nel bene giuridico proprio (Sonderrechtsgut) l’elemento di distinzione tra reati propri e reati comuni è considerata da Langer quella che segnerebbe il più profondo distacco tra le due categorie di reati, poiché contemporaneamente produce l’effetto di una limitazione della norma e della legge penale rispetto al soggetto fornito della speciale qualifica (110). È infatti la particolarità del bene giuridico a fondare norme penali speciali: la teoria del bene giuridico proprio viene dunque a logicamente precedere le altre teorie (e in ciò si sostanzia la prima accennata preponderanza genetica). 8. La teoria del bene giuridico speciale o limitatamente offendibile (Die Lehre vom beschränkt verletzbaren Rechtsgut). — a) Esposizione. Nelle tesi riconducibili, pur nella varietà degli accenti, all’idea fondamentale del bene giuridico proprio come elemento di distinzione tra reati propri e reati comuni è possibile ravvisare la seguente distinzione: la teoria del bene giuridico speciale o proprio o limitatamente offendibile e la teoria del doppio bene giuridico. Si analizzeranno innanzitutto gli assunti caratteristici della prima prospettiva e le critiche di cui gli stessi sono stati oggetto. Elemento caratterizzante il reato proprio sarebbe la presenza di un (108)
ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983,
122. (109) FRANZHEIM, Die Teilnahme an unvorsätzlicher Haupttat, Berlin, 1961, 20-21. (110) LANGER, op. cit., 245.
— 868 — bene giuridico contrassegnato dalla peculiarità di essere offendibile solo dall’intraneo (111). La particolare condizione personale avrebbe un rapporto privilegiato con il bene giuridico, definibile come di « connaturalità » dell’interesse protetto alla situazione soggettiva (112). La normazione penale « deve altresì garantire che la previsione di eventuali requisiti di legittimazione esprima effettivamente un rapporto di condizionalità teleologica tra la posizione del soggetto e la tutela di quel determinato interesse » (113). I reati propri sarebbero privi di senso e realizzerebbero soltanto una ingiustificata disparità di trattamento, se la qualità o lo status sui quali la legge puntualizza l’elemento personale di certe fattispecie non fossero significativi per l’oggetto dell’incriminazione (114). Il rapporto tra qualifica e bene protetto è segnalato anche da una significativa sentenza della Corte di Cassazione: in tale sentenza si osserva come, comportando i reati propri una posizione di svantaggio per i soggetti qualificati, la loro esistenza in tanto non può ritenersi in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto gli interessi con tale previsione di reati tutelati siano di tale rilevanza da poter giustificare siffatta posizione più sfavorevole (115). Esisterebbero dunque beni giuridici « chiusi » o « riservati » proprio in quanto offendibili solo dal soggetto qualificato (116). Nel medesimo senso sono orientate le definizioni presenti nella dottrina tedesca. Così si pone in rilievo il precipuo affidamento di determinati beni alla tutela di particolari soggetti, che sono dunque anche i soli a poter tenere comportamenti offensivi di tali beni (117). Oltre che all’affidamento si fa riferimento talvolta alla limitata accessibilità caratterizzante speciali beni (118). Le osservazioni che precedono, e in particolare l’affidamento di determinati beni alla tutela di particolari soggetti, sembrano richiamare la figura del « garante », caratteristica dei reati commissivi mediante omissione. Benché la nozione di « posizione di garanzia » nasca e si sviluppi con riguardo ai reati omissivi (che pure, come vedremo, sono reati pro(111) BETTIOL, op. cit., 47-50; MORO, op. cit., 26 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 154; MANTOVANI, op. cit., 146. (112) MAIANI, op. cit., 79 e 99; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 167. (113) PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit., 28. (114) PADOVANI, op. ult. cit., cit., 28. (115) Cass. pen., sez. I, 5 novembre 1982, in Cass. pen., 1984, 2416. (116) MORO, op. cit., 26 e MANTOVANI, op. cit., 146. (117) BERNHARDT, op. cit., 44. (118) NAGLER, op. cit., 9; SALM, Das versuchte Verbrechen, Karlsruhe, 1957, 93; FRANZHEIM, op. cit., 22; BAUMANN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, Bielefeld, 1968, 117; WIESENER, Die Strafrechtliche Verantwortlichkeit von Stellvertreteren und Organen, Frankfurt, 1971, 128.
— 869 — pri), il fondamento sostanziale della posizione di garanzia potrebbe appartenere anche al reato proprio. Tale fondamento sostanziale si rinverrebbe infatti nella necessità che la norma penale si rivolga, sia nel momento prescrittivo sia in quello sanzionatorio, solo ai soggetti che siano effettivamente in grado di controllare e governare i fattori potenzialmente offensivi degli interessi protetti (119). Ma il riconoscimento del comune fondamento dei reati commissivi mediante omissione e dei reati propri, identificato con riferimento al diritto penale dell’impresa, pur trovando, come vedremo, altre significative applicazioni, non può essere generalizzato, in quanto vi sono reati propri nei quali tale comune fondamento non si trova. Inoltre la prospettiva di assimilazione dei reati omissivi impropri e dei reati propri parte dall’osservazione di un comune fondamento sostanziale, il concetto di « signoria dell’uomo su alcune condizioni essenziali del verificarsi dell’evento tipico » (120), che è in realtà contestato già a proposito dei reati omissivi impropri (121). b) Critica. La critica alla teoria del bene giuridico proprio è impostata, da chi più recentemente e compiutamente si è occupato del problema, secondo due prospettive. In primo luogo si mette in evidenza come tale teoria si fondi su una concezione del bene in senso puramente metodologico, come scopo della norma (122): considerando invece il bene nella sua veste sostanziale, si dovrebbe necessariamente ammettere che (119) PULITANÒ, Organizzazione dell’impresa e diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1985, 5; SPIRITO, Datore di lavoro-imprenditore e tipicità dei soggetti nelle fattispecie omissive improprie colpose, in questa Rivista, 1986, 1167; ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penali), in Dig., Disc. pen., Torino, 1992, 196. Cfr. in generale PADOVANI, op. cit., 28 ss. (120) FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 166 ss. (121) GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 237 ss. L’Autore ritiene il concetto in questione troppo generico, vago e privo di contenuto per poter costituire un valido Oberbegriff (concetto superiore) capace di ricomprendere tanto la causazione di un evento, quanto il suo omesso impedimento. (122) Tra i sostenitori dell’indirizzo metodologico del bene giuridico, risalente a ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alla teoria generale del reato e della pena, Torino, 1913, 577, va citato PAGLIARO, Bene giuridico e interpretazione della legge penale, in Studi in onore di F. Antolisei, II, Milano, 1965, 393, il quale osserva che, comportando ogni reato per necessità concettuale l’offesa di un bene giuridico, questo stesso bene non sarebbe più una realtà naturale, sociale od economica tutelata dal diritto, ma sarebbe lo scopo della proposizione normativa o, per meglio dire, il momento « centrale » dello scopo medesimo. « Bene giuridico non è un quid che è, ma un quid che deve essere: si tratta.... di un risultato dell’interpretazione di scopo ». Altro rappresentante della concezione metodologica è GALLO, L’elemento oggettivo del reato, Torino, 1969, 25 ss., il quale considera la ratio legis nella sua accezione più ampia, coincidente in sostanza con la totalità degli elementi della fattispecie: tale Autore sostiene che è lecito parlare di reato in termini di offesa « al particolare interesse caratterizzato da tutti gli elementi presi in considerazione dallo schema descrittivo del fatto incriminato, offerto dalla norma reale ». In senso critico cfr. ANGIONI, op. cit., 38, il quale ritiene valga in questo caso l’accusa di positivismo:
— 870 — « esso come realtà effettuale ha una sua autonomia dal soggetto in sé considerato ed è perciò offendibile da tutti » (123). In secondo luogo, ove si consideri la limitata capacità naturalistica di offesa non astrattamente, ma concretamente, ossia come elemento che deve sussistere nella singola situazione perché il reato si possa effettivamente realizzare, « essa dovrebbe costituire il presupposto implicito di ogni reato, e come tale si confermerebbe elemento inidoneo a distinguere i reati esclusivi dai reati comuni » (124). Nella dottrina tedesca si pone l’accento innanzitutto sul problema della preesistenza del bene alla norma (125). La teoria del Sonderrechtsgut potrebbe avere una propria fondatezza solo se si riconoscesse che il bene giuridico ‘‘proprio’’ è un valore che il legislatore trova e non crea; si dovrebbe dunque trattare di un bene giuridico già esistente, il cui valore per la collettività avrebbe motivato la creazione della norma da parte del « il bene giuridico è la norma stessa; dunque non solo nessun riferimento agli interessi individuali e sociali sottostanti alla norma, ma soprattutto (appare) sconosciuto qualsivoglia limite alla penalizzazione ». Osserva RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984, 193 come la concezione metodologica del bene giuridico finisca per essere una concezione meramente tautologica, ciò che sarebbe evidenziato dagli innumerevoli problemi che si pongono nell’interpretazione teleologica della fattispecie, procedimento ermeneutico consistente nell’interpretare la norma secondo il suo scopo. Poiché infatti il bene giuridico non può che essere derivato dagli estremi della fattispecie medesima, l’interpretazione in chiave teleologica si risolverebbe in pura illusione, in quanto non potrebbe servire come criterio di interpretazione un concetto ricavabile soltanto attraverso l’interpretazione. Sostiene FIORELLA, op. cit., 196 (nota 8) che principale elemento di perplessità connesso alla concezione metodologica sia il fatto che essa, concentrando l’intero contenuto di disvalore attorno al concetto di bene giuridico, favorisce la confusione tra differenti zone di disvalore che andrebbero nettamente distinte. (123) FIORELLA, op. cit., 196. L’Autore aggiunge (nota 9 a p. 196) come sia ovviamente cosa ben diversa che « giuridicamente » rilevi solo l’offesa al bene prodotta da particolari soggetti. (124) Così ancora FIORELLA, op. cit., 197. L’Autore, come già notato, preferisce utilizzare la locuzione « reati esclusivi » ed inoltre parla, a proposito del Sonderrechtsgut, di « bene giuridico speciale ». (125) Il problema della preesistenza del bene alla norma costituisce uno dei postulati della concezione liberale del bene giuridico: secondo tale concezione, « tutela di beni giuridici significa tutela di beni preesistenti (alla tutela): beni della vita o culturali » (in questo senso LANGER, Das Sonderverbrechen, cit., 291). Osserva ANGIONI, op. cit., 95 che questa massima è, nella sua assolutezza, falsa. A prescindere dalla questione delle norme propulsive, secondo l’Autore, « tutela di beni giuridici » può significare anche « tutela penale di beni giuridici », cioè di beni creati dal diritto. Anzi questo secondo significato sarebbe letteralmente più fedele all’enunciazione di partenza: in lingua tedesca l’espressione è ‘‘Rechtsgüterschutz’’ e non ‘‘Güterrechtsschutz’’, cioè ‘‘tutela di beni giuridici’’ e non ‘‘tutela giuridica di beni’’. Non sarebbe solo un gioco terminologico: infatti Angioni segnala la presenza di norme che prevedono reati contro entità create od organizzate dal diritto, come lo Stato o i poteri dello Stato, ed anche fra le disposizioni poste a tutela di beni individuali ve ne sono che tutelano beni costruiti con norme, come la proprietà.
— 871 — legislatore, che presenterebbe già originariamente la caratteristica di essere violabile solo da determinate persone e quindi solo nei loro confronti necessitare di protezione. Se invece si afferma che il bene nascerebbe nel momento della posizione della norma; che è bene giuridico se ed in quanto previsto dalla norma la quale ne prevede la limitata offendibilità, allora il concetto di Sonderrechtsgut perderebbe la sua autonomia come criterio di distinzione tra Sonderverbrechen e Gemeinverbrechen e si confonderebbe con quello della Sondernorm (126): presupposto essenziale del criterio del Sonderrechtsgut è la preesistenza del bene alla norma, come già accennato. Così delimitata (la teoria, e quindi) la categoria dei Sonderverbrechen, la critica è anche qui fondata sulla nozione di bene giuridico: se inteso in senso sostanziale e non puramente metodologico, non avrebbe senso la limitata offendibilità, e dunque l’interesse protetto potrebbe essere leso da qualsiasi soggetto. Ne deriverebbe che « la pretesa limitazione a persone determinate della capacità di offesa del bene giuridico del reato proprio è già incompatibile con il concetto di offesa del bene giuridico » (127). Le alternative possibili sembrerebbero dunque due. La prima, che si affermi indirettamente, quale elemento essenziale dei Sonderverbrechen una Sondernorm, la cui violazione (in senso giuridico) sarebbe possibile solo da parte di chi è tenuto ad essa: ne conseguirebbe in tal modo l’abbandono del Sonderrechtsgut come criterio per l’identificazione della categoria del reato proprio. La seconda alternativa sarebbe che il requisito della supposta limitata offendibilità si fondi in realtà su una confusione con l’offendibilità ‘‘di mano propria’’: questo errore sarebbe dovuto al fatto che il bene giuridico del reato proprio spesso può essere aggredito, nel modo descritto dal legislatore, dall’estraneo solo per mezzo dell’intraneo. Ma ciò sarebbe possibile non per la particolarità del bene giuridico, quanto piuttosto per la descrizione delle modalità di offesa contenute nella fattispecie, e sembrerebbe dunque riconducibile alla teoria della norma, alla formulazione della legge penale (128). La conclusione è che non esisterebbe alcun bene giuridico che per sua natura non sia offendibile da qualunque soggetto di diritto (129). c) Critica della critica. La negazione dell’esistenza di beni giuridici per loro natura offendibili solo da speciali, qualificati soggetti, e dunque (126) LANGER, op. cit., 245-246. Per l’Autore è dunque da evitare l’errore di considerare reati propri (Sonderverbrechen) alcune fattispecie basate su una norma propria (Sondernorm) e su un bene giuridico comune o generale (Gemeinrechtsgut). (127) Così LANGER, op. cit., 246-247. Nello stesso senso FIORELLA (vedi nota 123). (128) LANGER, op. cit., 247 e (ivi citato) già KOHLER, Studien aus dem Strafrecht, Bd. I, Mannheim, 1890, 131. (129) DEYHLE, op. cit., 13 e LANGER, op. cit., 247.
— 872 — la critica alla teoria del ‘‘bene giuridico proprio’’ suscita comunque perplessità. In primo luogo non convince la sua assolutezza. Se anche si ammettesse che la teoria del ‘‘bene giuridico proprio’’ confonde tra scopo della norma, scopo che colora ogni elemento del reato, e bene giuridico in senso sostanziale (che — si ricordi — è solo quello concretamente leso dalla condotta incriminata), questa critica non può essere generalizzata. Rivolgendo l’attenzione ad esempio al settore dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (130) (che è poi il settore al quale, esplicitamente o implicitamente, fanno riferimento sostenitori e critici della teoria del bene giuridico proprio), vi sono fattispecie nelle quali considerare scopo della norma quello che appare invece come bene tutelato, significa privare questi reati di un autonomo oggetto di tutela. Così, (130) Sulla nozione di « pubblica amministrazione » nel diritto penale, TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione nel diritto penale, Milano, 1973 e PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1994, 2-5. Pagliaro distingue la « pubblica amministrazione » come oggetto di tutela e la « pubblica amministrazione » come soggetto passivo. Il titolo II del libro secondo del codice penale porta la rubrica « Dei delitti contro la pubblica amministrazione »: con questa locuzione il legislatore penale non alluderebbe alla « pubblica amministrazione » nel senso della dottrina del diritto costituzionale e del diritto amministrativo. Mentre questa dottrina muove dal principio della separazione dei poteri e considera dunque « pubblica amministrazione » o la stessa funzione amministrativa (p.a. in senso oggettivo) oppure il complesso degli organi deputati all’esercizio della funzione amministrativa (p.a. in senso soggettivo), nella dizione del codice penale invece « pubblica amministrazione », come oggetto di tutela, indicherebbe l’intera attività funzionale dello Stato e degli altri enti pubblici, con l’eccezione relativa a particolari attività formanti oggetto di specifica incriminazione (p. es. nel titolo I, « Dei delitti contro la personalità dello Stato »), e che tutelano anche un interesse ulteriore. Nel diritto penale vi sarebbe dunque un concetto assai ampio di « pubblica amministrazione », tale da comprendere, in senso oggettivo, l’intera attività funzionale dello Stato e degli altri enti pubblici. Nelle singole norme penali invece il senso dell’espressione « pubblica amministrazione » sarebbe differente. Non si alluderebbe più alla pubblica amministrazione in senso oggettivo (cioè come bene protetto), ma alla pubblica amministrazione in senso soggettivo (cioè all’ente titolare dell’interesse protetto): così quando si prende in considerazione il fatto che il pubblico ufficiale faccia parte di una pubblica amministrazione piuttosto che di un’altra (art. 319-bis c.p.) o che il soggetto agisca per conto di pubbliche amministrazioni (art. 353 comma 1o c.p.). Osserva SEMINARA, Dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 1992, 691 che il titolo II del libro II utilizza la nozione nel senso più ampio, comprendendovi l’intero apparato statale e quindi gli organi sia amministrativi che legislativi e giurisdizionali. Questa tutela unitaria contrasterebbe però con l’autonomia delle rispettive funzioni espressa dalla Costituzione ed inoltre apparirebbe superata dalle profonde trasformazioni di numerosi enti pubblici (specie gli enti locali) e dai nuovi compiti loro conferiti (RAMPIONI, op. cit., 47 ss.). Dinanzi all’eterogeneità delle funzioni statali alla cui tutela sono genericamente preposti gli artt. 314 ss. c.p., sarebbe necessario ancorare lo studio di tali norme — anche al fine di individuare gli interessi protetti — ad una specifica funzione, che per ragioni sistematiche non può che essere quella amministrativa.
— 873 — è ammissibile identificare un autonomo oggetto di tutela, un « bene in veste sostanziale », in reati come la concussione (art. 317 c.p.), reati dove viene in evidenza un soggetto passivo privato che è concusso ed il cui interesse patrimoniale trova tutela attraverso la previsione del reato. È presente in siffatti reati l’aspetto della strumentalizzazione della funzione ed è a tale proposito che nascono i problemi, poiché la tutela della funzione potrebbe costituire ratio della norma o la sua offesa costituire bene giuridico leso, contribuendo a creare una fattispecie plurioffensiva. È chiaro che ove si considerasse la tutela della funzione pubblica amministrativa (funzione rivolta istituzionalmente al pubblico interesse) scopo della norma, non sarebbe ammissibile considerare soggetto passivo la pubblica amministrazione, poiché soggetto passivo è per definizione il titolare dell’interesse tutelato, e l’interesse tutelato (il bene giuridico in questione) non sarebbe la funzione pubblica amministrativa, la cui tutela avrebbe una diversa valenza (scopo della norma). Vi sono reati, sempre nel settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, nei quali utilizzare lo schema descritto appare problematico. Si pensi a reati come la corruzione (art. 318 c.p.) o l’utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d’ufficio (art. 327 c.p.): in siffatti reati la strumentalizzazione della funzione pubblica, cioè la circostanza che tale funzione venga impiegata per finalità estranee a quelle istituzionalmente proprie, è così assorbente del disvalore della fattispecie che non è possibile individuare autonomi oggetti di protezione in senso sostanziale. Anzi va riconosciuto oggetto di protezione e bene giuridico leso la correttezza dell’amministrazione della funzione pubblica; la quale amministrazione attraverso la commissione del reato viene distolta dai suoi compiti istituzionali. Titolare di questo bene giuridico (e soggetto passivo del reato) è dunque la pubblica amministrazione. Ove non si consideri la correttezza dell’amministrazione della funzione pubblica come bene giuridico, ci troveremmo di fronte a reati senza bene giuridico, a reati di mero scopo. Un altro aspetto non convincente della critica alla teoria del bene giuridico proprio è la conseguenza che viene fatta derivare dalla distinzione tra bene in senso metodologico, vale a dire scopo della norma, e bene in senso sostanziale: tale conseguenza sarebbe l’autonomia del bene, inteso come « realtà effettuale » dal soggetto considerato e dunque l’offendibilità da parte di tutti. Già la contestazione della premessa pone in dubbio logicamente la conseguenza. Inoltre non convince la considerazione separata del bene giuridico dagli altri elementi di cui si compone la fattispecie. È infatti spesso dall’interpretazione complessiva della fattispecie, i cui elementi si interpretano gli uni per mezzo degli altri, che è possibile, come precedentemente osservato, enucleare l’oggetto tutelato. Cosicché dove la fattispecie prevede la presenza di un soggetto attivo con qualifica pub-
— 874 — blica, seppur generica, e descrive una condotta che si sostanzia, pur nella varietà delle forme, in una strumentalizzazione della funzione pubblica per finalità estranee alla funzione stessa, ne deriva la tutela di un bene giuridico consistente nella correttezza dell’amministrazione della funzione pubblica. Di questo bene giuridico è titolare un soggetto qualificato, la pubblica amministrazione, cosicché i reati che presentino una struttura di questo tipo sono reati propri e dal lato attivo e dal lato passivo. Si tratta dunque di fattispecie che presentano al loro interno una profonda coerenza ed uno stretto collegamento tra i singoli elementi. In tutti quei reati che hanno comunque un oggetto giuridico riconducibile al concetto di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione (131), parrebbe plausibile parlare di beni giuridici « chiusi » o « riservati », di « connaturalità dell’interesse protetto alla situazione soggettiva », di « offendibilità riservata a determinati soggetti ». Sennonché, e per rimanere nel settore dei reati contro la pubblica amministrazione, accanto al capo dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione è presente un ulteriore capo intitolato ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione: la presenza di tale capo potrebbe dimostrare l’inesistenza di beni giuridici « chiusi » o « riservati » (132). In realtà così come all’interno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione non sempre il bene tutelato ha i medesimi caratteri, pur essendo sempre riconducibile al concetto di buon andamento e imparzialità ex art. 97 Cost., non è detto che i beni tutelati nei due capi non possano avere differenti caratteristiche: certo vi sarà il medesimo soggetto passivo, la pubblica amministrazione, ma i beni in questione potrebbero assumere connotazioni diverse. Per esemplificare ricorriamo al bene (131) Buon andamento e imparzialità costituiscono i criteri informatori dell’azione amministrativa fissati dalla Costituzione nell’art. 97. La Corte costituzionale ha ribadito che la norma dell’art. 97 Cost. non costituisce un’affermazione programmatica astratta ma precettiva, la quale pone un obbligo primario sia per il legislatore, stante la sua riserva di legge, sia per la pubblica amministrazione (cfr. Corte cost., 7 marzo 1962, n. 14, in Giur. cost., 1962, I, 146 ss.). Con l’art. 97 commi 1o e 2o Cost. si è operata « una scelta ben precisa e cogente dei valori-fine cui l’amministrazione deve tendere e dei valori-mezzo che devono inderogabilmente essere predisposti alla loro realizzazione » (così TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, Milano, 1973, 141). Sarebbero dunque due i beni di rilievo costituzionale nei quali si sostanzia l’oggettività giuridica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in senso stretto: « buon andamento » da intendere come « efficienza », ossia conformità all’interesse pubblico, e « imparzialità » nel senso di « divieto di fare preferenze » (RAMPIONI, op. cit., 260-261). Va chiarito che il legislatore tutela talvolta solo uno dei due attraverso la predisposizione di schemi normativi in cui la condotta costitutiva del reato è suscettiva di offendere un unico bene: solo questi due beni costituiscono oggetto giuridico dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (cfr. RAMPIONI, op. cit., 263). (132) Cfr. FIORELLA, op. cit., 196-197.
— 875 — giuridico fondamentalmente tutelato in tema di reati contro la pubblica amministrazione: il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (133). Buon andamento e imparzialità (si discute in diritto amministrativo se la locuzione costituisca o no un endiadi) hanno infatti differente significato, a seconda che si riferiscano ai delitti dei pubblici ufficiali oppure a quelli dei privati contro la pubblica amministrazione. Nei reati commessi dai pubblici ufficiali esiste infatti, come già osservato, uno stretto collegamento tra i singoli elementi della fattispecie, cioè tra oggetto giuridico, soggetto passivo, condotta criminosa e soggetto attivo qualificato: il soggetto qualificato lede un bene giuridico appartenente ad un soggetto passivo che egli stesso impersona e questo bene giuridico costituisce canone di condotta costituzionalmente (art. 97 Cost.) dettato per l’azione dei singoli agenti della pubblica amministrazione. Lo stretto rapporto e la profonda coerenza tra i singoli elementi della fattispecie è invece assente nei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, nei quali dell’oggetto giuridico è titolare un soggetto, la pubblica amministrazione, al quale si contrappone fin dall’inizio un soggetto attivo privato. Si potrebbe concludere affermando che nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione è agente un rappresentante dello Stato-soggetto e titolare del bene protetto è lo Stato-soggetto, mentre nei reati dei privati è soggetto attivo un’appartenente allo Statocomunità e soggetto passivo lo Stato-soggetto. La negazione dell’esistenza di beni giuridici offendibili solo da soggetti specialmente qualificati dovrebbe poi portare, secondo i critici della teoria del bene giuridico, all’accoglimento della teoria della norma propria (Sondernorm), cioè alla formulazione del precetto penale, poiché il fatto che il bene giuridico spesso possa essere aggredito, nel modo descritto dal legislatore, dall’estraneo per mezzo dell’intraneo deriverebbe dalla descrizione delle modalità di offesa contenute nella fattispecie. Ma il problema dell’essenza del reato proprio è in tal modo solo aggirato, e non risolto. Rimane infatti senza risposta il quesito quale sia la causa giustificatoria dell’esistenza di norme specialmente indirizzate, e nuovamente potrebbe ravvisarsi tale causa nella peculiarità del bene protetto. Così egualmente non si capisce da che cosa se non dalla particolarità del bene giuridico in (133) Per « buon andamento » è da intendere efficienza o regolare funzionamento dell’attività della P.A., cioè capacità di perseguire i fini che le vengono assegnati dalla legge ovvero massima aderenza all’interesse pubblico; « imparzialità » significa che la P.A., nell’adempimento dei propri compiti, deve procedere ad una comparazione esclusivamente oggettiva degli interessi contrapposti, senza indebitamente avvantaggiare se stessa a danno dei consociati né operare arbitrarie discriminazioni rispetto al loro potere di partecipare alla vita politica, economica e sociale (RAMPIONI, op. cit., 93 ss. e SEMINARA, Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 691).
— 876 — questione siano motivate le speciali modalità di offesa descritte nella fattispecie. La descrizione di speciali modalità di offesa si accompagna poi alla presenza di soggetti particolarmente qualificati e contribuisce alla qualificazione dello stesso soggetto attivo, senza che derivi da ciò una confusione con l’offendibilità ‘‘di mano propria’’, come invece affermato dai critici della teoria del bene giuridico proprio. Il ruolo principale nella fattispecie sarebbe infatti ancora rivestito dalla particolarità del bene giuridico (e non dalle modalità di offesa) e questo per la preponderanza sotto il profilo logico della teoria del bene giuridico proprio sulla teoria della norma propria. 9. La teoria del doppio bene giuridico (Die Lehre vom doppelten Rechtsgut). — a) Esposizione. La teoria del doppio bene giuridico trae spunto dalla critica dell’assolutezza degli assunti riconducibili alla teoria del bene giuridico limitatamente offendibile. Così si afferma che quest’ultima erra nella convinzione che ci siano beni giuridici sempre e solamente accessibili al soggetto qualificato e che essi debbano essere sempre beni giuridici riconducibili allo Stato, alla collettività (134). Si rileva inoltre come difficilmente è dato individuare un bene giuridico il quale non possa venire offeso da un qualsiasi appartenente alla collettività (135). Con la teoria del doppio bene giuridico si pensa dunque di superare queste difficoltà. Nel senso che i reati propri si contraddistinguerebbero per la contemporanea presenza di due oggetti di protezione: un bene giuridico proprio e dunque ad offendibilità limitata ed un bene giuridico comune e dunque generalmente offendibile (136); beni da non porre su uno stesso piano, poiché il bene giuridico proprio avrebbe una posizione di preminenza. La teoria è sorta con riferimento ad una particolare categoria di reati, gli Amtsdelikte (reati d’ufficio). Con riferimento ad essi sarebbe possibile individuare un contenuto di disvalore composto e combinato: l’offesa ad un bene giuridico collettivo, generale, il quale consiste nella conformità a legge (legalità) dell’azione amministrativa statale, e l’offesa ad un bene (134) BINDING, Das Amtsverbrechen und seine legislatorische Behandlung, GS Bd. 64, 10 e KARSTEDT, op. cit., 28. (135) STEPHAN, Die Amtsverbrechen und der § 50 RStGB, Diss. Halle, 1938, 25. (136) KARSTEDT, op. cit., 64 ss.; MUNZINGER, Die sogenannten eigentlichen und die sogenannten uneigentlichen Amtsdelikte, Diss. Würzburg, 1934, 10 ss.; STEPHAN, op. cit., 32; ASAM, Echte und unechte Amtsdelikte, Diss. München, 1957, 27; MAURACH, Deutsches Strafrecht - Besonderer Teil, Karlsruhe, 1969, 740. È presente comunque la consapevolezza che questa distinzione si adatta anche alla struttura degli eigentliche Sonderstraftaten, nei quali cioè la speciale qualifica fonda la punibilità e non solo negli uneigentliche, dove soltanto la modifica (cfr. però STOCK, Entwicklung und Wesen der Amtsverbrechen, Leipzig, 1932, 251).
— 877 — giuridico variabile da caso a caso, il quale conferisce al singolo delitto la sua nota individuale (137). L’accertamento della presenza di un bene giuridico comune in ogni Amtsdelikt non significherebbe anche che tale bene debba essere sempre e necessariamente sufficiente: anzi ciò accadrebbe solo eccezionalmente, quando non sia compresente, come regolarmente accade, un ulteriore e decisivo bene giuridico (138). La correttezza dell’amministrazione dell’ufficio è dunque solamente il bene giuridico superiore e generalizzante, il quale delimita e riassume questo gruppo di reati: sotto questo bene giuridico superiore stanno i differenziabili beni giuridici delle singole fattispecie (139). In conclusione si riconosce, però, che la struttura dogmatica indicata per una parte dei reati propri (gli Amtsdelikte), deve valere anche per gli altri (140). b) Critica. Sia che la si intenda come limitata ad un particolare gruppo di reati (Amtsdelikte), sia che la si intenda come valevole per l’intera categoria dei reati propri, la teoria del doppio bene giuridico non sfuggirebbe a comuni critiche. Esse deriverebbero dalle considerazioni già svolte in relazione alla teoria del bene giuridico speciale o limitatamente offendibile. Così non verrebbe in questione la possibile natura plurioffensiva del reato proprio, ma ne risulterebbe negata la dipendenza dalle particolari condizioni personali. Tale rapporto di dipendenza sarebbe possibile se uno dei due oggetti di protezione, il bene giuridico proprio, fosse effettivamente offendibile solamente dal soggetto qualificato; ma la già descritta confutazione di questa ipotesi porterebbe automaticamente alla negazione dell’autonomia della teoria del doppio bene giuridico (141). Il bene giuridico proprio (Sonderrechtsgut) sarebbe, come tale, in genere non dimostrabile, poiché esso, come autonomo oggetto di protezione non esiste. Sarebbe indubitabile che sussistano fattispecie in cui è presente un disvalore aggiuntivo, ma esso non sarebbe indipendente, non avrebbe il carattere dell’autonoma offesa di un bene giuridico: questo di(137) MUNZINGER, op. cit., 10 e 16. (138) MAURACH, op. cit., 740. (139) FRANZHEIM, op. cit., 20-21. Questo Autore esamina il rapporto tra il duplice oggetto di protezione e il dovere proprio (Sonderpflicht). (140) FRANZHEIM, op. cit., 24. In realtà è estremamente difficile, perlomeno nell’ordinamento italiano, concepire applicazioni pratiche della teoria del doppio bene giuridico al di fuori del settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Forse solo nel campo dei delitti con soggetto attivo il cittadino si potrebbe ripetere il medesimo schema: sempre naturalmente che si consideri presente in tali reati un bene giuridico superiore e generalizzante, quale è l’interesse dello Stato alla fedeltà e lealtà dei suoi cittadini. (141) FIORELLA, op. cit., 197.
— 878 — svalore sarebbe in qualche modo relativo al bene giuridico, ma non costituirebbe di per sé solo offesa di un ulteriore bene giuridico (142). c) Commento. Sia la teoria del doppio bene giuridico, sia la critica ad essa rivolta, presentano aspetti opinabili. La teoria del doppio bene giuridico non può giustificare la propria esistenza come reazione alle critiche rivolte alla teoria del bene giuridico proprio. La critica principale rivolta a quest’ultima teoria, cioè l’inesistenza di beni giuridici offendibili solo da speciali, qualificati soggetti, è naturalmente estensibile anche alla teoria del doppio bene giuridico. La teoria del doppio bene giuridico può avere, ed ha, un senso quando, dopo avere riconosciuto l’esistenza di beni giuridici « chiusi » o « riservati », riconosce altresì l’esistenza di fattispecie in cui accanto a questi speciali beni si trovano beni giuridici comuni, come per esempio nella concussione (art. 317 c.p.). Ma lo schema consistente nella compresenza di più beni tutelati non può essere generalizzato. Vi sono infatti fattispecie, e già le abbiamo analizzate precedentemente, in cui la ricerca di un bene giuridico ulteriore rispetto a quello ‘‘proprio’’ risulta affannosa e forzata. Più utile sarebbe dunque riconoscere che la teoria del doppio bene giuridico si applica a (e descrive) una serie di casi nei quali si realizza la compresenza di un bene giuridico ‘‘proprio’’ e di un bene giuridico comune. Accanto a questi casi vi sono però fattispecie contrassegnate dalla presenza di un solo bene giuridico, e caratterizzato in modo peculiare (proprio). L’esistenza stessa di fattispecie in cui sia ravvisabile la compresenza di un bene giuridico proprio e di un bene giuridico comune viene, come già osservato, contestata. Si afferma infatti che esistono sì fattispecie in cui è presente un « disvalore aggiuntivo » rispetto all’offesa di un bene giuridico (comune), ma questo disvalore non avrebbe il carattere di un’autonoma offesa di un bene giuridico, pur essendo in qualche modo relativo al bene giuridico. d) Critica della critica. In che cosa si risolva tale « disvalore aggiuntivo » non appare chiaro. Ma sembra contestabile l’intera impostazione. Parlare infatti di « disvalore aggiuntivo » a proposito di quella che dovrebbe essere l’offesa di un bene giuridico ‘‘proprio’’ è inesatto, poiché si assegna a questa offesa un ruolo subordinato e non si considera che proprio quello che è definito « disvalore aggiuntivo » assegna, in determinati casi, significatività, valore all’intera fattispecie. Si pensi ancora alla concussione: la strumentalizzazione della funzione pubblica caratterizza l’intera fattispecie e non si può perciò non considerare bene giuridico offeso la correttezza dell’amministrazione della funzione pubblica. Se tale correttezza fosse un disvalore aggiuntivo il legislatore avrebbe previsto una sem(142)
LANGER, op. cit., 248-249.
— 879 — plice estorsione qualificata, mentre la creazione di un autonomo titolo di reato ha un significato preciso e chiaro, quello di affermare il rango elevato dell’interesse nella considerazione del legislatore anche dal punto di vista politico-criminale. Nelle fattispecie previste nel capo dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione ed in quelle che presentino una simile struttura è dunque presente un bene giuridico ‘‘proprio’’ la cui offesa costituisce disvalore primario e non secondario o aggiuntivo. In dottrina si assume inoltre come sia la teoria del bene giuridico speciale o limitatamente offendibile, sia quella del doppio bene giuridico, si basino su di un equivoco fondamentale, inerente alla corretta identificazione del bene giuridico. Beni come « la fedeltà », « la probità », « la correttezza », non sarebbero veri e propri oggetti di tutela, non sarebbero « i veri momenti finali della tutela penale » ma « sono soltanto i mezzi per raggiungere gli scopi di tutela dell’ordinamento » (143). Come già riportato, gli speciali doveri giuridici dell’intraneo nelle fattispecie proprie non sarebbero i beni giuridici stessi, ma essi deriverebbero dai rispettivi oggetti di protezione e sarebbero ad essi subordinati (144). Si può senz’altro condividere che gli speciali doveri giuridici dell’intraneo non costituiscono i « veri momenti finali della tutela penale », ma la teoria del bene giuridico proprio non ha mai sostenuto ciò, né espressamente né implicitamente. Gli speciali doveri giuridici ineriscono alla qualifica, riempiono di contenuto la qualifica stessa, che altrimenti resterebbe vuota enunciazione: la violazione di tali doveri si estrinseca nelle modalità di condotta descritte nella fattispecie ed esprime anch’essa un disvalore particolare. Ma il disvalore derivante dalla trasgressione di tali doveri effettivamente non concerne il bene giuridico offeso ed è invece inerente alla con(143) FIORELLA, op. cit., 198 e più ampiamente 199-200. L’Autore da questa errata identificazione ritiene dimostrato che la teoria della limitata offendibilità non abbia ben chiara la distinzione tra disvalori di condotta e disvalori di evento. La teoria della limitata offendibilità infatti, se accolta, consoliderebbe la confusione tra diverse specie di disvalori ed offrirebbe un appiglio dogmatico al camuffamento dei disvalori di condotta come disvalori di evento. Contro questo assunto potrebbe però affermarsi che in realtà la teoria del bene giuridico proprio non confonde tra disvalore di azione e disvalore di evento, ma più semplicemente nega un ruolo autonomo al disvalore di azione, il quale disvalore costituisce espressione dell’intensità dell’offesa e si riflette nel bene autenticamente tutelato. Sulla negazione del carattere autonomo del disvalore dell’azione, MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., 168-171. Più in generale cfr. ANGIONI, op. cit., 118. Quest’ultimo Autore osserva (150-151) come, sotto il profilo della individuazione e graduazione dei beni giuridici, l’arbitrio dell’operatore — interprete, giudice o legislatore — possa essere ridotto o forse superato, solo tramite l’ancoraggio ad una fonte giuridica vincolante perché superiore: la Costituzione. Cfr. anche LANGER, op. cit., 290 ss. e dello stesso Autore Aktuelle Probleme der falschen Verdächtigung, in GA, 1987, 294 ss. (144) FRANZHEIM, op. cit., 20-21.
— 880 — dotta (145). Detto diversamente, una cosa è la correttezza (o la fedeltà o la probità) del funzionario pubblico, altra cosa è la correttezza dell’amministrazione della funzione pubblica (funzione istituzionalmente rivolta al pubblico interesse): la prima costituisce dovere del funzionario pubblico (si pensi ai doveri di fedeltà, rettitudine, diligenza, obbedienza, legalità, osservanza del segreto d’ufficio derivanti ai pubblici impiegati dalle norme degli artt. 13, 15, 16, 17 del T.U. n. 3/1957 e 54 comma 2o e 98 Cost.) ed è strumento per la realizzazione della seconda. È dunque esatto ritenere che gli speciali doveri giuridici del soggetto qualificato non costituiscono beni giuridici, ma anzi derivano dai rispettivi oggetti di protezione e sono ad essi subordinati: è proprio la peculiare natura dei rispettivi oggetti di protezione a consentirne la lesione solo da particolari soggetti specialmente qualificati, cosicché, in breve, dal bene discende la qualifica e dalla qualifica nascono i doveri. L’accento particolare che assume la violazione del dovere nei reati compiuti dai funzionari pubblici è dovuto al rapporto di immedesimazione organica con la pubblica amministrazione: l’organo impersona l’istituzione, la realizzazione del reato ‘‘spezza’’ il rapporto organico ed il soggetto si contrappone alla pubblica amministrazione che diviene soggetto passivo. Il rapporto in definitiva si ‘‘spezza’’ non appena il soggetto cessi di svolgere la funzione pubblica, in quanto tale rivolta istituzionalmente al perseguimento dell’interesse pubblico, e tenda a conseguire fini privati o a recare danno alla pubblica amministrazione (146). In conclusione, gli speciali doveri giuridici dell’intraneo nelle fattispecie proprie non costituiscono autonomi oggetti di protezione, ma la violazione di tali speciali doveri è un disvalore inerente alla condotta realizzativa dell’evento lesivo del bene autenticamente tutelato (147). (145) Rileva VENAFRO, op. cit., 342 che sia nelle ipotesi di reato proprio che si fondano sulla violazione di un dovere sia in quelle definite di reati propri esclusivi (fattispecie caratterizzate dal fatto che il soggetto attivo si proietta nell’interesse tutelato e viceversa) il riferimento al soggetto qualificato incide non sul piano dell’identificazione dell’interesse ma su quello del disvalore della condotta. Nei reati propri il comportamento illecito sarebbe determinato dalla violazione di un dovere che attiene al tipo di rapporto (relazione tra soggetto qualificato e bene giuridico) in cui si colloca la lesione del bene giuridico. Il richiamo al soggetto qualificato, sostiene l’Autrice, inserendo la modalità di lesione all’interno di un rapporto di affidamento, determina un disvalore di condotta, che si inserisce come elemento differenziale rispetto a qualsiasi altra ipotesi di tutela dello stesso bene giuridico: la violazione del dovere inciderebbe quindi sulla modalità di lesione e non sull’individuazione dell’interesse. (146) Sulla nozione di organo nel diritto amministrativo, cfr. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 210-212. In diritto civile, sulla c.d. rappresentanza organica o rappresentanza delle persone giuridiche, cfr. MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, Torino, 1980, 358-359. (147) Rimane fermo che non esiste un autonomo disvalore dell’azione, espresso dalla condotta tipica in sé e per sé, senza alcun collegamento con l’offesa al bene o ai beni giuri-
— 881 — 10. Il dovere proprio (Sonderpflicht) come essenza del reato proprio. I c.d. Pflichtdelikte. — La dimostrazione dell’impossibilità di configurare nelle fattispecie proprie gli speciali doveri dell’intraneo come autonomi beni tutelati non esclude comunque la facoltà di considerare tali doveri come elemento qualificante, omogeneizzante, la categoria dei reati propri. Si trova infatti affermato in dottrina, che i reati propri altro non sarebbero che « violazioni di un particolare dovere giuridico » (148). Anche in questa prospettiva sono presenti due diversi orientamenti. Mentre nel primo viene considerato come decisivo per la determinazione del concetto di reato proprio l’inadempimento di un dovere avente natura extrapenale, nel secondo il dovere assume fin dall’origine rilevanza penale. a) Nell’ipotesi del dovere proprio extrapenale (Die Lehre von der außerstrafrechtlichen Sonderpflicht) si assume dunque che le violazioni dei doveri di servizio puramente interni costituiscono semplici infrazioni disciplinari. Soltanto violazioni di doveri d’ufficio, che si dirigono contro beni giuridici della generalità o del singolo, sono sanzionate penalmente (149). b) Nell’ipotesi del dovere originariamente penale (Die Lehre von der strafrechtlichen Sonderpflicht) si parte dalla necessità di non confondere o avvicinare illecito disciplinare e illecito penale (150): ambedue si fonderebbero sulla violazione di un obbligo, questo però non è identico o simile. Mentre infatti all’illecito disciplinare afferiscono rapporti di supremazia speciale, all’illecito penale rapporti di supremazia generale (151). L’essenza del reato proprio sarebbe basata su ciò: allo scopo di proteggere, in modo rafforzato, determinati beni giuridici sono di volta in volta assegnati a particolari soggetti, rappresentanti la collettività statale, dici tutelati (disvalore dell’evento): il c.d. disvalore dell’azione costituisce espressione dell’intensità dell’offesa ed è solo il riflesso della sua maggiore o minore incidenza sul bene o sui beni tutelati dalle singole norme incriminatrici. Così MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., 168171. (148) MAYER M.E., Der allgemeine Teil des deutschen Strafrecht, Heidelberg, 1923, 95. Nello stesso senso, pur con diversi accenti, NOWAKOSKI, Tatherrschaft und Täterwille, in JZ, 1956, 550 e LANGE R., in KOHLRAUSCH-LANGE, cit., Vorbem VI a vor § 43. Sul problema se la Unterschlagung (appropriazione indebita) costituisca un reato consistente nella violazione di un dovere (Pflichtverletzungsdelikt), KÜPER, Das Gewahrsamserfordernis bei mittäterschaftlicher Unterschlagung, cit., 370-373. (149) WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, Berlin, 1969, 537. Cfr. SCHMIDT Eb., Die militärische Straftat und ihr Täter, Berlin, 1936, 5. (150) Sulla differenza tra reato proprio e illecito disciplinare, BETTIOL, op. cit., 95105. (151) Per una distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo di ordine quantitativo, fondata sia sul valore del bene giuridico tutelato sia sull’entità dell’offesa, ANGIONI, Beni costituzionali e criteri orientativi sull’area dell’illecito penale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli 1985, 68 ss. Cfr. inoltre PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, ivi, 189.
— 882 — speciali doveri, la cui violazione è sanzionata con pena (aggravata). I reati propri non consisterebbero in violazioni di doveri inerenti a rapporti di supremazia speciale, ma in infrazioni punibili di un particolare comando o divieto nel campo dei rapporti di supremazia generale (152). Si tratta, in altre parole, di particolari doveri aventi matrice penale, in quanto previsti da una disposizione penale (propria). Nei reati propri, secondo questa interpretazione, non andrebbero confuse perciò le prospettive del dovere assegnato e del bene tutelato: il reato proprio sarebbe caratterizzato dalla contemporanea presenza della trasgressione di un particolare dovere penale e dall’offesa di un bene giuridico. La caratterizzazione che in tal modo assume il reato proprio non può però, neanche questa volta, essere generalizzata. È chiaro infatti che la compresenza di trasgressione di un particolare dovere penale e di offesa di un bene giuridico si può verificare negli Amtsdelikte dell’ordinamento tedesco e nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione dell’ordinamento italiano. Ma la ricerca di altre applicazioni appare vana. Forse solo il settore dei reati commessi dal cittadino si può prestare ad una simile prospettiva. Una posizione particolare è quella di chi identifica un’autonoma categoria di delitti, i c.d. Pflichtdelikte, la cui enucleazione sarebbe necessaria per risolvere problemi in tema di autoria e partecipazione (153). Questa teoria rileva innanzitutto che il tipo di dovere, caratteristico di questo gruppo di delitti, non sarebbe quello direttamente derivante dalla norma penale e la cui violazione giustifica l’inflizione della sanzione, poiché questo tipo di dovere è naturalmente proprio di ogni delitto e si indirizza a tutti, autori, istigatori, complici e in generale partecipi (154). Si tratterebbe invece di doveri logicamente antistanti la norma penale e derivanti da altri settori giuridici: i portatori di questi doveri si distinguerebbero dagli altri eventuali partecipi per il loro particolare rapporto con il contenuto di illiceità del fatto e dunque il legislatore richiede un’autoria qualificata (155). (152) Cfr. NAGLER, op. cit., 23-24 e STOCK, op. cit., 246. (153) ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 352 ss. Cfr. JAKOBS, op. cit., 183, 541-542, 699-700 e BOTTKE, Täterschaft und Gestaltungsherrschaft. Zur Struktur von Täterschaft bei aktiver Begehung und Unterlassung als Baustein eines gemeineuropäischen Strafrechtssystems, Heidelberg, 1992, 121. (154) ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 354. Roxin respinge dunque la tesi secondo la quale queste particolari norme penali sarebbero indirizzate solo a soggetti qualificati (cfr. NAGLER, op. cit., 18 e 113 e MEZGER, Strafrecht, Berlin-München, 1949, 451): infatti per giustificare la partecipazione di un extraneus si rende necessario costruire un « dovere di obbedienza secondario », rientrante comunque nell’ambito del precetto penale. (155) ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 354. L’Autore indica come esempi i doveri del pubblico ufficiale (Beamtenpflichten), quelli marziali in ordine al segreto (-
— 883 — Nel verificare il modo in cui le esigenze del principio di legalità sono state realizzate dal legislatore, si distinguono due tecniche fondamentalmente diverse. La prima consiste nella descrizione quanto più precisa di azioni (p. es. la rapina) e si può parlare di reati di azione (Handlungsdelikte); della seconda tecnica il legislatore preferisce servirsi quando non ritiene essenziali le modalità esteriori del comportamento dell’autore, dato che il fondamento della sanzione starebbe nel fatto che il soggetto non adempie alle prestazioni che il ruolo sociale da lui assunto gli imporrebbe. Attraverso la seconda tecnica vengono dunque create fattispecie penali di obbligo (Pflichtdelikte) (156). Il principio del nullum crimen sarebbe rispettato allorché il legislatore si riferisca a doveri fissati al di fuori dell’ambito del diritto penale. I problemi in ordine al rispetto del principio di legalità potrebbero eventualmente derivare non dalla mancata descrizione dell’azione, ma dall’indeterminatezza dei doveri cui viene fatto riferimento. Ma ove i doveri siano determinati, le istanze del principio del nullum crimen sarebbero completamente soddisfatte da un rinvio che sostituisce la descrizione dell’azione (157). Nei Pflichtdelikte (reati d’obbligo) verrebbe tutelata dalla fattispecie la funzionalità di settori della vita che hanno già una loro configurazione giuridica (rapporti tra amministratore patrimoniale e mandante, tra carceriere e detenuto, tra avvocato e cliente); invece negli Handlungsdelikte (delitti di azione) l’agente irromperebbe dall’esterno, turbandone la pace, in ambiti che in via di diritto avrebbe dovuto lasciare inviolati (158) (ad es. con omicidio, rapina, violazione di corrispondenza, registrazioni segrete). Si distinguono poi i Pflichtdelikte, fattispecie cioè che vengono in considerazione in tema di autoria (qualificata), e gli Herrschaftsdelikte, fattispecie contrassegnate dal fatto che autoria e partecipazione si distinstandesrechtlichen Schweigegebote), quelli civilistici di mantenimento e fedeltà (Unterhaltsoder Treueverpflichtungen). Cfr. HERZBERG, Täterschaft und Teilnahme, München, 1977, 32-34 e 94. (156) ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, traduzione curata da Moccia, Napoli, 1989, 43-44 (tit. orig. Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, Berlin-New York, 1973). Cfr. SCHÖNKE-SCHRÖDER, Kommentar, 15a ed., 77-78 e SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, Tübingen, 1982, 425, il quale ultimo considera i Pflichtdelikte come reati omissivi, a causa della posizione di garante dell’obbligato. (157) ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, cit., 43. L’Autore porta ad esempio le fattispecie di procurata evasione e di infedele patrocinio. In tali reati « la condotta esterna è a forma assolutamente libera; tuttavia, dal momento che i doveri derivanti dal ruolo sociale del carceriere e dell’avvocato sono esattamente precisati dalla normativa di servizio e professionale, sotto il profilo della determinatezza tali fattispecie, che io definisco ‘‘Pflichtdelikte’’ (reati d’obbligo), sono assolutamente equivalenti agli Handlungsdelikte (reati d’azione) ». Sul tema anche, dello stesso Autore, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 352 ss. (158) ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, cit., 43-44.
— 884 — guono non attraverso la particolarità della posizione di dovere, ma per la « signoria del fatto » (Tatherrschaft) (159). Pflichtdelikte sono certamente i Beamtdelikte (reati dei funzionari pubblici); ma lo stesso schema in ordine all’autoria si può ripetere per la categoria dei Sonderdelikte, nei quali cioè la cerchia degli autori non è fin da principio limitata agli appartenenti ad una determinata categoria professionale o a coloro che si trovano in una particolare posizione. Così autore della fattispecie di infedeltà (Treubruch) ex § 266 St.G.B., può essere solamente chi viola un dovere a lui imposto di assistenza patrimoniale: chi non è portatore di questo dovere può assumere solo il ruolo di partecipe (160). Secondo questo assunto, dunque, Pflichtdelikte e Sonderdelikte richiedono necessariamente un’autoria qualificata, ed il soggetto non qualificato potrà rivestire solo la qualità di partecipe; ma mentre nei Pflichtdelikte la qualifica consiste in una posizione di dovere di origine extrapenale accolta espressamente nella fattispecie penale, nei Sonderdelikte la posizione di dovere non è delineata a priori, ma si precisa e concretizza in un momento successivo (161), emerge cioè dalla descrizione delle modalità di condotta contenute nella fattispecie. La teoria ora esposta si presta a critiche non tanto per i profili applicativi in tema di concorso di persone, quanto soprattutto per i suoi presupposti. È infatti necessario che la prospettiva della violazione del dovere non sia totalmente assorbente del significato di illiceità, dovendo conservare adeguato spazio il profilo di materialità dell’azione (162). Ma ove il profilo di materialità dell’azione sia presente, e la violazione del dovere contribuisca a dare una particolare significatività alla condotta, il problema non sussiste. La tesi di Roxin è peraltro particolarmente interessante, perché giustifica l’attribuzione e la titolarità di speciali doveri ad alcuni soggetti, attraverso il particolare rapporto che tali qualificati soggetti avrebbero con il contenuto di illiceità del fatto. Il rapporto speciale tra il bene tutelato e la qualifica posseduta dal soggetto attivo è elemento qualificante dei Pflichtdelikte. La distinzione poi tra Pflichtdelikte e Sonderdelikte rapportata al nostro ordinamento è di facile applicazione. Pflichtdelikte sarebbero certamente i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, nei quali il rapporto tra qualifica e bene tutelato è, come già osservato, (159) ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 354-355. (160) Così ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, cit., 353. (161) ROXIN pare invece in altro lavoro non differenziare le due figure (Strafrecht Allgemeiner Teil, cit., 211). (162) Cfr. KÜPER, « Pflichtverletzung » und « Tathandlung » bei den Unfallflucht (Eine logisch-dogmatische Strukturanalyse des § 142 abs 1 StGB), in GA, 1992, 49-74.
— 885 — chiaramente delineato. Sonderdelikte sarebbero invece quei reati propri nei quali è la particolarità della situazione fattuale a qualificare il soggetto. L’individuazione della categoria dei Pflichtdelikte si giustifica nella prospettiva di Roxin attraverso le applicazioni in tema di autoria e partecipazione e attraverso la distinzione fondamentale che egli opera tra Tatherrschaft (dominio del fatto) e Täterschaft (autoria). L’utilità della categoria nel nostro sistema penale va dunque verificata alla luce del valore relativo della distinzione tra autore e partecipe nell’ordinamento penale italiano. Ma il dubbio fondamentale che pone la categoria dei Pflichtdelikte è la sua compatibilità con un sistema penale fondato sull’offesa del bene giuridico: il rischio è che la violazione dell’obbligo assorba il disvalore complessivo della fattispecie, ponendo in dubbio il ruolo del bene giuridico (163). Sembra dunque riproporsi in tali casi lo spinoso problema dei rapporti tra violazione del dovere ed offesa del bene giuridico. Relegata ormai nel giudizio storico di un’epoca complessiva l’idea nazionalsocialista di un diritto penale fondato su una nozione di reato non come offesa di beni giuridici ma come violazione di doveri, il problema consiste nella posizione, nel ruolo astrattamente e concretamente assumibile dalla contrarietà al dovere in riferimento al principio di offesa del bene giuridico, caposaldo del diritto penale odierno: questo tema riveste particolare importanza in tema di reati di pura condotta (come per esempio l’art. 242 c.p.). L’importanza di tale distinzione è stata contestata attraverso l’osservazione del comune riferimento ad una stessa realtà, considerata sotto due diversi aspetti: dal punto di vista del soggetto passivo l’offesa del bene giuridico e da quello del soggetto attivo la violazione del dovere (164). La confusione o assimilazione tra violazione del dovere e offesa del bene giuridico, come anche una sostituzione della violazione all’offesa, sono ritenute evenienze estranee al nostro ordinamento. « In un sistema (163) Sulla concezione di bene giuridico ROXIN, Franz von Liszt und die Kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfes, in ZStW, 1969, 622-623 assume del resto una posizione che ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, cit., 101 (nota 83) definisce ‘‘sui generis’’. Per Roxin il concetto di bene giuridico è soltanto un nome, un contrassegno di ciò che in base alle funzioni del diritto penale può essere ritenuto legittimamente tutelabile; soltanto dagli scopi della pena si può ricavare ciò che si deve considerare come bene giuridico. Osserva Angioni che Roxin, adoperando il termine bene giuridico come espressione convenzionale atta a indicare tutto ciò che è tutelabile in base a considerazioni di teleologia della pena, giunge ad un rovesciamento di piano rispetto alla dottrina liberale del bene giuridico: per questa è tutelabile penalmente soltanto ciò che è bene giuridico; al contrario per Roxin, è denominabile bene giuridico ciò che è penalmente tutelabile. Il bene giuridico da presupposto sostanziale dell’indagine diventerebbe « formula di comodo per designare il risultato di essa ». (164) LANGER, op. cit., 286.
— 886 — fondato sul principio di offesa di beni giuridici la violazione del dovere può avere cittadinanza non come fondamento della responsabilità ma come ulteriore requisito in aggiunta all’offesa del bene giuridico » (165). Nei reati di evento la violazione del dovere si aggiunge al requisito dell’offesa; nei reati di mera condotta è necessario invece chiarire che il c.d. dovere non è mai fine a sé stesso, ma sempre posto in vista della tutela di un bene giuridico retrostante (166). In definitiva: o la violazione del dovere si identificherebbe con l’offesa del bene giuridico (nei reati di condotta o di omissione propria), perdendo autonomia concettuale e funzionale, oppure la violazione del dovere sarebbe qualcosa di diverso dall’offesa del bene giuridico, e allora potrebbe avere rilievo penale solo in aggiunta a quest’ultima (nei reati di evento); sarebbe però impossibile che la violazione del dovere si sostituisca all’offesa del bene giuridico, nel caso che tale offesa non sia ricavabile come contenuto esplicito o implicito di una fattispecie penale (evenienza ritenuta comunque estranea all’ordinamento vigente) (167). 11. L’essenza del reato proprio con riguardo ai reati omissivi. — I reati omissivi impropri costituiscono ipotesi di reati propri, in quanto realizzabili esclusivamente da soggetti qualificati: la qualifica è appunto rappresentata dalla posizione di garanzia (168). Non ogni situazione di obbligo acquista il significato di una posizione di garanzia, ma solo quella che presenta il carattere della specialità ed è dunque contrassegnata dai seguenti elementi: in primo luogo la totale o parziale incapacità del titolare del bene tutelato di proteggerlo adeguatamente; in secondo luogo l’obbligo di garanzia deve avere carattere « speciale », deve cioè gravare su alcuni soggetti e non sulla generalità e riguardare solo alcuni beni e non tutti i beni di tutti i consociati; infine la protezione di uno o più beni giuridici (anche indirettamente attraverso il riferimento al controllo di una fonte di pericolo) deve essere l’oggetto immediato della situazione tipica di obbligo (169). (165) Così ANGIONI, op. cit., 122. (166) Osserva ROMANO, op. cit., 284, che disvalore dell’azione e disvalore dell’evento sono entrambi requisiti strutturali (« con-costitutivi ») del reato. Tali disvalori, pur essendo tra loro collegati, dovrebbero però, secondo l’Autore, essere mantenuti distinti l’uno dall’altro e sarebbero inoltre di rango differente, « perché il disvalore dell’azione emerge in relazione alla tutela del bene giuridico e quindi al disvalore dell’evento ». (167) ANGIONI, op. cit., 126-127. (168) In particolare WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., 208 ss., ritiene i reati commissivi mediante omissione echte Sonderdelikte, essendo autore dell’omissione soltanto chi occupa un’« effettuale posizione di garanzia » (tatsächliche Garantenstellung). (169) La necessità di tali requisiti è posta in rilievo da GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 257-259.
— 887 — Accertata la natura di reato proprio del reato omissivo improprio, la problematica dell’essenza del reato proprio trova importanti applicazioni. Il reato omissivo improprio in quanto reato proprio sembra confermare che l’essenza delle fattispecie proprie risieda non in un dato naturalistico e descrittivo, ma piuttosto nel rapporto ‘‘privilegiato’’ tra soggetto attivo e bene giuridico tutelato (170). Nei reati omissivi impropri l’affidamento a speciali soggetti della tutela di determinati beni emerge, per così dire, allo stato puro. Mentre in alcune fattispecie di reato proprio il vincolo tra soggetto attivo e bene tutelato è di ordine negativo, in quanto viene in rilievo la necessità di tutela del bene nei confronti di soggetti particolarmente ‘‘qualificati’’ ad offenderlo, nei reati omissivi impropri il vincolo è di ordine positivo, in quanto il bene tutelato è affidato a determinati soggetti ‘‘qualificati’’ a proteggerlo e non ad offenderlo; l’offesa eventualmente deriverà da un comportamento omissivo, ma l’accento è posto sulla protezione del bene attraverso un comportamento attivo. La posizione di garanzia, da intendere genericamente come precipuo affidamento di determinati beni alla tutela di speciali soggetti, pur contrassegnando ipotesi commissive di reato proprio (171), non può dunque essere assunta come generale carattere della categoria. Vi sono infatti reati nei quali la qualifica del soggetto attivo deriva dalla sua particolare attitudine all’offesa del bene tutelato dalla norma ed altri in cui la qualifica deriva dalla peculiare attitudine del soggetto attivo a porsi come affidatario della tutela di speciali beni giuridici: mentre nei primi assume carattere preminente la capacità di offesa da parte del soggetto qualificato, nei secondi predomina la capacità di tutela (ed in questo senso si può parlare di posizione di garanzia), pur essendo naturalmente (e però conseguentemente) presente la capacità di offesa. Reati propri in cui la qualifica del soggetto attivo deriva dalla sua particolare attitudine ad offendere il bene tutelato sono certamente le fattispecie di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (art. 708 c.p.) e di possesso ingiustificato di valori (art. 708 c.p.): in tali ipotesi è chiaramente assurdo pensare ad una posizione di garanzia dell’agente riguardo ad un oggetto giuridico costituito dall’interesse dello Stato a controllare determinate condotte che potrebbero essere di pregiudizio al patrimonio dei singoli, nonché l’interesse a rendere più agevole la scoperta dei reati. Una generica ‘‘posizione di garanzia’’, intesa come preciso affidamento di determinati beni alla tutela di speciali soggetti, è invece presente nelle fattispecie commissive previste nel capo dedicato ai delitti dei pub(170) Tale rapporto privilegiato può essere definito di ‘‘affidamento’’ (Überantwortung). Cfr. LANGER, Das Sonderverbrechen, cit., 406. (171) Per la categoria dei « reati propri dei garanti » (Garantensonderdelikte), SCHÜNEMANN, Die Bedeutung der « Besondere persönlichen Merkmale » für Teilnehmer und Verteterhaftung, in Jura, 1980, II, 576.
— 888 — blici ufficiali contro la pubblica amministrazione (artt. 314 ss. c.p.), nei quali dal rapporto di immedesimazione organica del pubblico agente con la pubblica amministrazione derivano una serie di doveri, previsti dalla legge (art. 97 Cost. e T.U. n. 3/1957), di tutela di determinati beni (buon andamento, imparzialità, corretto funzionamento, ecc.). Il vincolo tra qualifica e bene è qui di ordine positivo, poiché viene in rilievo primariamente la particolare idoneità del soggetto qualificato alla tutela del bene, e in secondo luogo e conseguentemente la sua capacità di offesa. È necessario però chiarire che la posizione di garanzia nel reato omissivo improprio si costituisce per uno scopo ben preciso e non generalizzabile: tale scopo consiste nella esigenza di « controbilanciare la situazione di vulnerabilità in cui versano determinati soggetti incapaci (a vario titolo) di difesa autonoma » (172). L’omissione del garante si differenzierebbe poi dalle altre condotte omissive penalmente rilevanti (reati omissivi propri) perché il rapporto di protezione (la posizione di garanzia) non sorge in modo casuale, ma « deve corrispondere ad un vincolo assunto antecedentemente al verificarsi della situazione di pericolo capace di ledere il bene in questione » (173). Nei reati omissivi propri invece il rapporto di protezione sorge effettivamente in modo casuale: così nel reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.) l’obbligo di salvataggio incomberebbe su quanti casualmente si imbattano in una persona che versi nella situazione di pericolo descritta nella norma; l’obbligo di salvataggio non costituirebbe in questi casi obbligo di garanzia nel senso visto per le fattispecie omissive improprie. I reati omissivi propri costituiscono ipotesi di reato proprio sia con riferimento alle ipotesi in cui la qualifica è espressa nella fattispecie (p. es. artt. 328, 332, 355, 361, 362, 363, 364, 509, 566 comma 2o, 677, 679, 716, 731, 732 c.p.), sia con riguardo alle ipotesi in cui è la particolare situazione fattuale a qualificare il soggetto (artt. 365, 437, 451, 570, 593, 672 c.p.) (174). Il rapporto di protezione tra soggetto qualificato e bene giuridico, pur non diventando come nei reati omissivi impropri posizione di garanzia, è presente anche nei reati omissivi propri (175). Elementi costitutivi della fattispecie omissiva propria sono la situazione tipica, la condotta omissiva e la possibilità materiale di agire. Dalla situazione tipica scaturisce l’obbligo di attivarsi, il quale obbligo incombe sui soggetti aventi con il bene (172) FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 134. (173) FIANDACA, op. ult. cit., 134. (174) Cfr. NUVOLONE, Il problema della responsabilità oggettiva nei reati di stampa, in Riv. it. dir. pen., 1950, 455. (175) Sul rapporto tra bene giuridico e reato omissivo proprio, cfr. CADOPPI, Il reato omissivo proprio, I, Padova, 1988, 572 ss.
— 889 — giuridico un rapporto particolare. Questo particolare rapporto può esistere prima che si verifichi la situazione tipica (p. es. in casi in cui la qualifica è espressa, come nei delitti omissivi dei pubblici ufficiali), analogamente a quanto accade nei reati omissivi impropri, o può sorgere contemporaneamente al verificarsi della situazione di pericolo per il bene tutelato (p. es. nella fattispecie di omissione di soccorso di cui all’art. 593 c.p.). Ma comunque l’obbligo di attivarsi si concentra su un determinato soggetto solo in virtù del rapporto particolare di protezione tra soggetto qualificato e bene giuridico tutelato (176). 12. La qualifica come circostanza aggravante. — L’esigenza di meglio adeguare la pena ai singoli e variegati casi criminosi che la realtà prospetta conduce il legislatore a prevedere ipotesi di reato nelle quali la qualifica è circostanza aggravante. Una particolare qualificazione del soggetto attivo è già prevista in generale tra le circostanze aggravanti comuni ai numeri 6, 9, 11 dell’art. 61 c.p.. Sono poi contemplate dal legislatore circostanze c.d. speciali, in quanto previste soltanto in rapporto a specifiche figure di reato: tra le circostanze c.d. speciali alcune ravvisano nella qualifica un motivo di aggravamento della pena (177). Ipotesi di tal genere sono p. es. quelle degli artt. 292-bis e 293 c.p., che in relazione a taluni reati contro la personalità dello Stato (artt. 278, 290 comma 2o, 292 c.p.) configurano come aggra(176) Ravvisare nel reato omissivo proprio un rapporto tra la condizione personale del soggetto attivo e il bene tutelato significa implicitamente negare che i reati di pura omissione costituiscano illeciti di pura disubbidienza, restando irrilevante l’offesa del bene giuridico. In dottrina (MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., 250-254) si rileva come molte ipotesi di reati omissivi propri si presterebbero ad esser interpretate, anziché come ‘‘mere disubbidienze’’ o ‘‘mere violazioni di doveri’’, come autentiche offese ai beni giuridici. Un’interpretazione siffatta sarebbe anzi doverosa alla luce del principio costituzionale di offensività. Vi sarebbero in primo luogo reati omissivi propri nei quali, indipendentemente dalle intenzioni del legislatore, il rapporto tra omissione e offesa del bene giuridico emergerebbe con chiarezza dalla struttura della fattispecie legale: « ciò che si reprime è il mantenimento di una preesistente situazione di pericolo, che si aveva l’obbligo di rimuovere » (così nel caso dell’omissione di soccorso ex art. 593 c.p., sulla quale di recente MAGRO, L’omissione di soccorso tra situazione di pericolo e l’obbligo di fedeltà, in questa Rivista, 1993, 390 ss.). Vi sarebbero inoltre reati omissivi propri caratterizzati dalla particolare natura del bene di volta in volta tutelato: si tratterebbe di beni « il cui soddisfacimento richiede la produzione di un risultato da parte di un soggetto a ciò obbligato e la cui offesa si realizza con la mancata produzione di tale risultato » (cfr. CADOPPI, « Non evento » e beni giuridici « relativi »: spunti per una reinterpretazione dei reati omissivi propri in chiave di offensività, in Studi in memoria di Nuvolone, Milano, 1991, II, 113 ss.); così i reati di omessa denuncia di reato (art. 361 c.p.) e di omissione di referto (art. 365 c.p.) vanno intesi non come mere violazioni di doveri, ma come offese all’attività giurisdizionale di accertamento dei reati. (177) La presenza della circostanza aggravante può talvolta comportare la perseguibilità d’ufficio, anziché a querela, del reato (p. es. art. 617 comma 3o c.p.).
— 890 — vante la qualifica di militare in congedo (art. 292-bis c.p.) e di cittadino in territorio estero (art. 293 c.p.) (178). La qualità di ascendente o discendente è poi prevista come qualità aggravatrice della pena in relazione ai reati di omicidio (art. 576 n. 2 e 577 n. 1 c.p.) e di sequestro di persona (art. 605 comma 2o n. 1 c.p.). Numerose sono le ipotesi in cui la qualità aggravatrice della pena è quella di pubblico ufficiale e, ad ulteriore specificazione, si fa riferimento all’abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni: così in tema di sequestro di persona (art. 605 comma 2o n. 2 c.p.), di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615-ter comma 2o n. 1 c.p.), di cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617 comma 3o c.p. e sempre tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio artt. 617-bis comma 2o, 617-ter comma 2o, 617-quater comma 4o n. 2 c.p.). L’esercizio di un’attività professionale è causa di aggravamento della pena in materia di riciclaggio (art. 648-bis comma 2o c.p.) e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter comma 2o c.p.). Il legislatore, al fine di dare rilevanza alla qualifica del soggetto attivo, ha di fronte una alternativa: prevedere le particolari qualità dell’agente come elemento costitutivo del reato o come circostanza (aggravante) (179). A volte si verifica un mutamento di titolo di reato rispetto ad una fattispecie semplice quando soggetto attivo è una persona qualificata. La qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio provoca il mutamento della fattispecie di appropriazione indebita in peculato (art. 314 c.p.); nella concussione (art. 317 c.p.) è da ravvisare una fattispecie di estorsione qualificata dalla particolarità del soggetto attivo (ancora pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio). Talvolta invece la qualità di pubblico ufficiale e l’abuso dei poteri inerenti alla sua funzione costituiscono, come già accennato, motivo di aggravamento della pena di un reato comune, senza dar vita ad alcun mutamento di titolo. Mentre nel caso di mutamento di titolo di reato (p. es. appropriazione indebita-peculato) siamo in presenza di un reato proprio, nell’ipotesi in cui la qualifica è circostanza ricorre un reato comune aggravato. Il motivo della scelta in un senso (reato proprio) o in un altro (reato comune aggravato) risiede nella particolare significatività che assume la qualifica all’interno della fattispecie. Si può anzi sostenere che la scelta dipenda dall’influenza o meno della qualifica sul bene tutelato. Quando infatti sussiste tra la qualifica e il bene tutelato il rapporto privilegiato di cui (178) Al cittadino per favorire interessi stranieri fa riferimento la norma dell’art. 501 comma 3o n. 1 c.p. (rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio). (179) Talvolta la particolare qualità del soggetto attivo può costituire causa speciale di non punibilità: così in tema di delitti contro il patrimonio è prevista la non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti (art. 649 c.p.).
— 891 — si è detto, quando è presente la connaturalità delle particolari condizioni personali con l’interesse protetto, la scelta sarà nel senso del reato proprio. Ma ove dalla qualifica del soggetto attivo derivi solamente un disvalore aggiuntivo, che proprio in quanto tale non può dirsi caratterizzante la fattispecie, la quale invece rimane posta a tutela di un bene giuridico indipendente dalla qualifica, la soluzione risulterà quella di configurare un reato comune aggravato (180). GIAN PAOLO DEMURO Dottore di ricerca in Diritto penale italiano e comparato Università di Sassari
(180) Proprio considerato il rapporto tra qualifica e bene giuridico nel reato proprio, pone dubbi la proposta contenuta nel progetto di riforma proveniente dal gruppo milanese denominato dalla stampa « Pool mani pulite » (tale progetto è pubblicato in questa Rivista, 1994, 1025 ss.; cfr. su di esso le relazioni di Stella, Sgubbi, Flick, Pulitanò, Foffani, presentate al Convegno « Proposte per la lotta contro la corruzione », tenuto a Milano il 14 settembre 1994, pubblicate su Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 935 ss.; più in generale sui problemi della giustizia penale in Italia, PULITANÒ, La giustizia penale alla prova del fuoco, in questa Rivista, 1997, 3 ss.). Per semplificare infatti l’attuale problematica dei rapporti tra corruzione e concussione questo progetto propone di abolire l’autonoma incriminazione della concussione, riportandone il contenuto all’estorsione aggravata (cfr. FORTI, L’insostenibile pesantezza della ‘‘tangente ambientale’’: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in questa Rivista, 1996, 476 ss.). Critico nei confronti di tale proposta è PAGLIARO, Per una modifica delle norme in tema di corruzione e concussione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 61-62, il quale dopo aver evidenziato i problemi in ordine alla concussione per induzione (cfr. E. GALLO, La proposta del « pool », in La Repubblica, 30 settembre 1994, 10 e CERQUETTI, Tutela penale della pubblica amministrazione e tangenti, Napoli, 1996, 167 ss.), rileva come la figura della concussione sia tipica del diritto penale italiano (cfr. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, V, Prato, 1890, § 2566, nota 2), e come la sostituzione della concussione con l’estorsione aggravata non porterebbe alcun effettivo vantaggio di politica criminale, poiché consisterebbe in un mero cambiamento di etichette, incapace di apportare alcuna semplificazione probatoria o di interpretazione. Non appare però sottolineato in tale dibattito il ruolo della qualifica in ordine al bene tutelato, e viene pertanto sottovalutato che l’offesa del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione verrebbe a costituire, ove si attui la sostituzione dell’estorsione aggravata alla concussione, un semplice disvalore aggiuntivo, soluzione che pone dubbi sotto un profilo di politica criminale.
IL PROBLEMA DELL’ACCERTAMENTO DELL’IDONEITÀ DEGLI ATTI EX ART. 56 C.P., CON PARTICOLARE RIFERIMENTO A UN CASO DI TENTATIVO DI CONGIUNZIONE CARNALE (*)
SOMMARIO: 1. Il caso giurisprudenziale in esame. — 2. L’ipotesi, diversa da quella in esame, del tentativo di congiunzione carnale che si estrinseca nel compimento di atti sessuali: il problema della sua disciplina giuridica. — 3. L’incidenza della distanza cronologica della consumazione ai fini della sussistenza del tentativo. — 4. Il criterio del principio di esecuzione al quale si è riferita la Corte di cassazione nella sentenza in esame. — 5. Il rapporto tra la formula dell’inizio di esecuzione e la sussistenza di una situazione di reale pericolosità. — 6. Le origini della distinzione preparazione/esecuzione. — 7. Le ragioni storiche e ideologiche del successo della formula del commencement d’exécution nelle codificazioni ottocentesche. — 8. Il grado di probabilità sufficiente a integrare l’elemento dell’idoneità. — 9. Criteri orientativi nell’apprezzamento delle probabilità di consumazione nei casi di tentativo. — 10. Valutazione delle probabilità di consumazione nell’ipotesi giurisprudenziale in esame. — 11. Rilievi conclusivi.
1. Il caso giurisprudenziale in esame. — Le considerazioni che seguono traggono spunto da una sentenza della Corte di cassazione, in base alla quale risponderebbe di tentativo di violanza carnale — oggi violenza sessuale — colui che, minacciando l’ex amante di divulgare delle fotografie scattate in occasione di loro precedenti rapporti sessuali, cerchi di costringerla a ulteriori rapporti carnali; la realizzazione della minaccia costituirebbe infatti già inizio di esecuzione della fattispecie di violenza carnale (1). Questa pronunzia, sebbene di poco anteriore all’entrata in vigore della l. 15 febbraio 1996 n. 66, che ha abrogato i delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti e introdotto la fattispecie di violenza sessuale, sembra ancor oggi meritevole di attenzione. Infatti, nel caso in esame la condotta volta alla realizzazione della violenza carnale non aveva ancora dato luogo al compimento di atti di libidine violenti (di cui all’abrogato art. 521, e che integrano oggi il reato di violenza sessuale), per cui pure in base alla nuova disciplina continuerebbe a sussistere il tenta(*) Questo lavoro costituisce (pur nella sua autonomia) una prosecuzione del nostro articolo L’idoneità degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’? Spunti problematici per un’indagine, in questa Rivista, 1993, 1333 s., insieme al quale fa parte di una più ampia riflessione in corso di svolgimento sul concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato. (1) Cass. 14 giugno 1994, Mega, in Foro it., 1996, II, 377 s.
— 893 — tivo — sempre che ricorrano gli estremi dell’idoneità e dell’univocità — anche se non più di violenza carnale ma sessuale (2). Inoltre, questa sentenza costituisce più in generale un’occasione per riconsiderare l’ardua problematica dell’individuazione dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo, avendo a oggetto una condotta diretta alla realizzazione del reato di violenza carnale ancora cronologicamente distante dal momento consumativo, anche se estrinsecatasi nel compimento di atti ritenuti esecutivi dalla Cassazione. In questa prospettiva, allora, ci proponiamo di verificare sia i rapporti tra il criterio del principio di esecuzione e il concetto di pericolo; sia la possibilità d’intendere il requisito dell’idoneità degli atti in termini di probabilità di realizzazione della fattispecie consumata. Al riguardo, in un nostro precedente studio avevamo già ritenuto preferibile, da un punto di vista teorico, il concetto di ‘probabilità’ rispetto a quello di ‘possibilità’, in quanto in questo modo l’idoneità svolgerebbe un ruolo effettivo nell’individuazione dell’inizio dell’attività punibile (3). Vorremmo adesso riferire tale concetto a un’ipotesi concreta di tentativo. Peraltro, nell’apprezzamento della probabilità nel caso in esame non sembra assumere particolare importanza l’elemento differenziale tra le fattispecie di violenza carnale e sessuale, costituito dalla necessaria congiunzione carnale richiesta per la prima. Infatti, pur avendo voluto l’agente molto verosimilmente realizzare un rapporto sessuale completo con la vittima, occorre comunque considerare che si trattava di ex amanti tra i quali erano già intercorsi analoghi incontri intimi (del resto documentati dalle fotografie). Di conseguenza, nel caso di specie la donna non voleva più avere in generale ulteriori rapporti sessuali con l’agente, poco importa se con congiunzione carnale o meno. Ad ogni modo, tuttavia, nel corso di questo lavoro riferiremo il giudizio d’idoneità esclusivamente al reato di violenza carnale, attenendoci all’oggetto della decisione che vogliamo analizzare. 2. L’ipotesi, diversa da quella in esame, del tentativo di congiunzione carnale che si estrinseca nel compimento di atti sessuali: il problema della sua disciplina giuridica. — Premettiamo anzitutto che, in relazione all’abrogata fattispecie di violenza carnale, comunemente si è ritenuta idonea e univoca la condotta qualora l’agente avesse già commesso atti di libidine sulla vittima. In questa ipotesi, tuttavia, l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza si è concentrata sul noto problema relativo (2) Così alcuni Autori (BELTRANI/MARINO, Le nuove norme sulla violenza sessuale, Napoli, 1996, 47), facendo riferimento proprio a questa sentenza, ritengono la vicenda decisa inquadrabile oggi come tentativo di violenza sessuale. (3) Ci riferiamo al nostro articolo citato nella postilla introduttiva.
— 894 — ai rapporti tra la fattispecie di atti di libidine violenti e quella di tentativo di violenza carnale. Al riguardo, una parte della dottrina ha ritenuto applicabile la (sola) disposizione sul tentativo, dal momento che, « se il soggetto è animato da un dolo diverso, cioè dall’intenzione di commettere il coito e non vi riesce, per ragioni indipendenti dalla sua volontà (resistenza della vittima, sorpresa, ecc.), gli atti posti in essere, benché obiettivamente atti di libidine, non possono non essere valutati come segmenti del processo esecutivo diretto a un risultato non raggiunto, non per volonta dell’autore di essi » (4). Altra parte della dottrina e la costante giurisprudenza hanno invece ritenuto che il concorso tra le rispettive norme incriminatrici del tentativo di violenza carnale e degli atti di libidine violenti avrebbe dovuto essere risolto dando prevalenza a quest’ultima fattispecie criminosa (5). È stato infatti osservato che il dolo di atti di libidine violenti sarebbe consistito « nella coscienza e volontarietà di commettere su taluno, usando violenza o minaccia, atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale, anche se diretti alla congiunzione carnale, di guisa che, rispetto all’atto di libidine consapevolmente e volontariamente compiuto nell’esecuzione di un tentativo di violenza carnale, l’elemento soggettivo del delitto di atti di libidine violenti è perfetto, non contrastandovi l’ulteriore direzione della volontà a commettere anche il susseguente, non avveratosi, atto di congiunzione carnale » (6). Inoltre, secondo questa dottrina, il rapporto tra tentativo di violenza carnale e atti di libidine violenti non avrebbe potuto essere impostato in termini di specialità, dal momento che l’elemento specializzante della congiunzione carnale non si sarebbe presentato (ovviamente) nel caso di tentativo. Con la conseguenza che non sarebbe restato « che ricor(4) PANNAIN, Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, Torino, 1952, 46. Analogamente, tra gli altri, FIANDACA, Violenza sessuale, voce dell’Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 963; MARINI, Violenza carnale (diritto penale), voce del Nss. dig. it., XX, Torino, 1975, 962; PECORARO-ALBANI, Atti di libidine violenti, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 10 s. (5) Così, in dottrina, tra gli altri, CONTIERI, La congiunzione carnale violenta, 3a ed., Milano, 1974, 122 s.; FROSALI, Concorso di norme e concorso di reati, Milano, 1971, 592, 601 s.; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 5a ed., vol. VII a cura di PISAPIA, Torino, 1984, 306 s., 334 s., 368; PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, 5a ed., Milano, 1996, 202 s.; ID., Concorso di norme (diritto penale), voce dell’Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 553; ZAZA, Atti di libidine violenti, voce dell’Enc. giur. Treccani, III, Roma, 1988, 4. In giurisprudenza v., tra le tante, Cass. 20 aprile 1990, Colantonio, in Riv. pen., 1991, 309; 6 marzo 1985, Falcone, ivi, 1985, 1120; 2 febbraio 1976, Pecorari, in Giust. pen., 1977, 334 s.; 22 aprile 1969, Pappalardo, in Cass. pen., 1971, p. 144; 10 dicembre 1968, Gravina, ivi, 1970, 468; 29 novembre 1966, Calabrese, ivi, 1967, p. 981 s.; 24 marzo 1960, Impalà, in Giust. pen., 1961, II, 170; 30 gennaio 1950, Raimato, in Arch. pen., 1950, II, 593. (6) CONTIERI, La congiunzione carnale violenta, cit., 125.
— 895 — rere al principio dell’assorbimento, dichiarando prevalente la norma che prevede la violazione più grave, cioè l’art. 521 » (7). Ebbene, le due tesi ora esposte sembravano differire anzitutto per il diverso modo d’intendere l’elemento soggettivo nei delitti di violenza carnale tentata e di atti di libidine violenti. Infatti, la tesi che riteneva applicabile il tentativo di violenza carnale sosteneva la diversità di dolo nei due reati in esame. Ora, cercando di esplicitare le motivazioni sottese a quest’ultimo orientamento, esso sembra fondarsi sulla negazione della sussistenza di un concorso apparente di norme. Infatti, ritenendo applicabile il tentativo di violenza carnale, meno grave rispetto agli atti di libidine violenti (8), questa dottrina implicitamente escludeva la possibilità di ricorrere a criteri di valore per stabilire la norma da applicare. Né avrebbe potuto operare il principio di specialità, e ciò non soltanto perché nella violenza carnale tentata mancava la congiunzione carnale, ma anche perché secondo questi Autori, come dicevamo, il dolo di violenza carnale sarebbe stato diverso da quello di atti di libidine violenti. Per cui in questa prospettiva non sarebbe restato che applicare la fattispecie di violenza carnale tentata, della quale soltanto sarebbe sussistito l’elemento soggettivo. La tesi contraria, secondo la quale vi sarebbe stato il reato di atti di libidine violenti, si fondava invece sull’opposto rilievo in base al quale il dolo di violenza carnale avrebbe ricompreso anche quello di atti di libidine violenti, differenziandosi soltanto per la volontà di realizzare quel particolare atto di libidine costituito dalla congiunzione carnale. Ciò peraltro — cercando anche qui di rendere più esplicite le ragioni che stavano alla base di questa soluzione interpretativa — non avrebbe implicato la sussistenza di un rapporto di specialità tra la fattispacie di tentativo di violenza carnale e quella di atti di libidine violenti. Infatti, se è vero che una simile relazione si sarebbe spesso instaurata nelle singole situazioni concrete, essa tuttavia non si sarebbe potuta riscontrare a livello di astratte tipologie delittuose. E ciò in quanto la violenza carnale, consumata o tentata, non avrebbe presupposto necessariamente la preventiva realizzazione di atti di libidine. Di conseguenza, questa dottrina sembrava in sostanza fare ricorso al principio di consunzione, dal momento che « il quadro normale del delitto di violenza carnale comporta che prima siano compiuti atti di libidine » (9). In questo senso, del resto, deponeva anche l’analogia del con(7) CONTIERI, ivi, 124. (8) La pena base della reclusione da tre a dieci anni prevista per la violenza carnale andava infatti diminuita da un terzo a due terzi in caso di tentativo, di un terzo (secondo quanto disponeva l’art. 521) nell’ipotesi di atti di libidine violenti. (9) PAGLIARO, Principi, cit., 202 s.; v. pure ID., Concorso di norme, cit., 553. In proposito si può osservare che mentre nei lavori sui delitti sessuali non viene esplicitato il ricorso al principio di consunzione, ciò viene invece più frequentemente effettuato nelle esem-
— 896 — tenuto del dolo che nel caso concreto si realizzava nei due reati; una tale analogia di contenuto, pur non costituendo ovviamente presupposto della consunzione, avrebbe potuto tuttavia contribuire ad avvalorarla. Effettivamente, se il dolo nelle fattispecie astratte di violenza carnale (consumata o tentata) e di atti di libidine volenti era di per sé diverso, potendosi volere la congiunzione carnale anche senza il compimento di precedenti atti di libidine, nei casi concreti poteva tuttavia verificarsi un rapporto di genere a specie. Per cui, se per un verso non sembra potersi parlare di rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p. (10), d’altra parte pare preferibile risolvere il problema facendo ricorso al principio di consunzione e applicando quindi il più grave reato di atti di libidine violenti (11). In questo modo, peraltro, si sarebbe evitato di applicare la pena più mite prevista per il tentativo di violenza carnale a chi aveva consapevolmente compiuto atti di libidine (12). D’altra parte, sarebbe stato ragionevole distinguere anche dal punto di vista sanzionatorio la condotta di chi, volendo realizzare la congiunzione carnale, aveva compiuto atti di libidine, da quella di chi aveva commesso un tentativo per cosi dire ‘‘non libidinoso’’ (13). plificazioni dottrinarie dottrinarie delle opere relative al concorso apparente di norme. In tal senso v. pure FROSALI, Concorso di norme, cit., 592, 601, dove tuttavia si fa riferimento al principio di sussidiarietà. (10) A meno che non si voglia fare riferimento alla teoria della c.d. specialità in concreto (sostenuta, com’è noto, dall’ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 13a ed., a cura di CONTI, Milano, 1994, 141 s.). Questa impostazione, benché minoritaria e oggetto di obiezioni in dottrina, è stata di recente seguita, proprio con riferimento al rapporto tra atti di libidine violenti e tentativo di violenza carnale, da ZAZA, Atti di libidine violenti, cit., 4, senza tuttavia chiarire i motivi dell’opzione a favore di questa teoria. (11) Sotto questo profilo, si può osservare come anche il rapporto tra violenza carnale consumata e atti di libidine violenti dovrebbe essere ricondotto al principio di consunzione: in questo senso vd. PAGLIARO, Principi, p.g., cit., 202 s.; ID., Concorso di norme, cit., 553; Cass. 13 dicembre 1982, Oberhofer, in Cass. pen., 1984, p. 513. (12) Avevamo già indicato a nt. 8 il trattamento penale che era previsto per il tentativo di violenza carnale e per gli atti di libidine violenti. (13) Queste considerazioni sono state tenute presenti dal legislatore del ’30. Si legge infatti nella relazione ministeriale al progetto definitivo del codice penale: « il Progetto (...) punisce come atto di libidine a norma dell’art. 529 [521 nel testo definitivo del cod. pen.], e non già come tentativo di alcuno dei delitti preveduti negli artt. 527 e 528 [519 e 520 nel testo del codice penale del ’30], l’atto diretto a commettere una congiunzione carnale. Gli atti di libidine, obbiettivamente considerati, possono ora essere fine a sé stessi, allorché non tendano al congiungimento carnale, e ora invece costituire mezzi diretti alla congiunzione. Ma tale distinzione, se ha importanza per il codice vigente, non ha alcuna rilevanza per il Progetto. Invero, (...) il Progetto fa ognora rientrare nella forma criminosa dell’art. 529 [521 del testo definitivo del codice penale] gli atti di libidine, ancorché diretti alla congiunzione carnale, quando questa non si sia verificata, conferendo valore decisivo per la definizione del reato, anziché allo scopo dell’agente, alla natura e alle modalità dell’atto libidinoso. Questo sistema vale ad eliminare le non frequenti difficoltà, alle quali dà luogo l’indagine sulle in-
— 897 — Questa impostazione, del resto, è assai simile a quella che oggi si profila in seguito alla riforma dei delitti contro la libertà sessuale. Attualmente, infatti, in caso di tentativo di congiunzione carnale che si estrinseca nel compimento di atti libidinosi, si realizza già il reato di violenza sessuale. Peraltro il giudice, se nel precedente sistema normativo doveva tener conto nella commisurazione della pena stabilita per gli atti di libidine violenti, della più grave finalità di congiunzione carnale perseguita dall’agente, analogamente oggi dovrà considerare l’incompletezza del rapporto sessuale ai fini della determinazione della pena astrattamente prevista per il nuovo delitto di violenza sessuale (14). Il giudice, cioè, dovrà o irrogare tenzioni del colpevole; impedisce che l’atto di libidine, se rivolto a un congiungimento carnale, possa essere punito meno gravemente di quello che si verificherebbe nel caso che fosse fine a sé stesso; e, riguardo ai delitti preveduti negli articoli precedenti, circoscrive l’ipotesi del tentativo (punibile meno gravemente) ai soli atti che, di per sé, dirigendosi alla congiunzione carnale, non abbiano il carattere di atti di libidine » (Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, p. II, Roma, 1929, 307 s.). A questa impostazione è stato tuttavia obiettato che « l’atto di libidine, essendo fine a se stesso, procura al colpevole la soddisfazione illecita che con esso si vuol procurare; il tentativo di violenza carnale, postulando l’interruzione del processo esecutivo, non procura pari soddisfazione » (PANNAIN, Delitti contro la moralità pubblica, cit., 47). Il rilievo non sembra per la verità molto persuasivo, dal momento che gli atti di libidine violenti procurano comunque all’agente una soddisfazione sessuale che può anche essere completa, qualora venga raggiunto l’orgasmo senza che si riesca a effettuare la congiunzione carnale. Piuttosto, bisogna tenere presente che nel brano sopra riportato della relazione ministeriale si giustifica l’impostazione seguita non in base ai principi sul concorso di norme (posto che il legislatore del ’30 ha previsto soltanto il principio di specialità), ma per ragioni di semplicità probatoria, dietro le quali potrebbe nascondersi una forma di responsabilità oggettiva (« Questo sistema vale ad eliminare le non frequenti difficoltà, alle quali dà luogo l’indagine sulle intenzioni del colpevole »). Sotto questo profilo, si può comprendere sia la particolare diffusione che questa impostazione ha avuto in giurisprudenza, come si sa soprattutto in passato non molto sensibile alle esigenze di una piena affermazione del principio di colpevolezza; sia le resistenze opposte da una parte della dottrina ad applicare la norma sugli atti di libidine violenti. Preoccupazioni che per la verità alla luce di quanto si è detto sembrerebbero infondate, posto che il dolo di violenza carnale può ricomprendere, nelle singole situazioni concrete, anche quello di atti di libidine violenti. (14) Viene infatti osservato da parte dei primi interpreti della l. n. 66 del 1996, che la congiunzione carnale continuerebbe a rilevare anche sotto il vigore della nuova disciplina, anche se non più come elemento essenziale della fattispecie, ma come fattore rilevante ai fini dell’applicazione dell’attenuante generica di cui al terzo comma dell’art. 609-bis, e/o della commisurazione della pena (cfr. ad es. BERTOLINO, La riforma dei reati di violenza sessuale, in Studium iuris, 1996, 403 s.; DEL CORSO, Commento all’art. 3 della l. n 66. del 1926, in Legisl. pen., 1996, 428 s., 440 s.). E ciò benché il legislatore del ’96 con l’unificazione dei delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti, avrebbe voluto perseguire l’obiettivo di « risparmiare alla persona offesa l’interferenza nella sua sfera più intima di riservatezza, derivante dalle indagini degli investigatori e dei giudicanti » (Atti Sen., II Commissione giustizia, 22 novembre 1995, 119a seduta, 18). In effetti, se il legislatore avesse voluto realmente escludere rilevanza penalistica alla
— 898 — una pena ben inferiore a quella edittale massima stabilita per la violenza sessuale; ovvero, se riterrà applicabile l’attenuante generica di cui al terzo comma dell’art. 609-bis, operare una diminuzione di pena comunque piuttosto limitata (15). Di conseguenza, allora, pur nell’ambito di una disciplina tendenzialcongiunzione carnale al fine di evitare turbamenti alla vittima, avrebbe dovuto espressamente proibire al giudice il suo accertamento processuale e la sua valutabilità in sede di commisurazione della pena e/o di applicazione delle circostanze generiche. In senso parzialmente diverso è stato tuttavia osservato: « è ben vero che, ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui al terzo comma dell’articolo in esame, ed anche più generalmente ai fini della commisurazione della pena ex art. 133 c.p., il giudice dovrà appurare rispettivamente la ‘‘gravità del caso’’ o ‘‘del fatto’’, ma è anche vero che non sarà più così importante stabilire se il soggetto attivo del reato si è solo congiunto o ha più o meno penetrato, ed esattamente sino a che profondità, l’organo genitale altrui. Non sarà più fondamentale sapere quale ‘punto’’ anatomico sia stato raggiunto dal pene: se l’ostio (ossia l’orifizio) vaginale sia stato appena sfiorato, lambito, toccato, quasi superato, superato appena, superato completamente, ecc. (...). Entro questi limiti vanno sia pur parzialmente ‘‘salvate’’ quelle opinioni in base alle quali l’unificazione delle fattispecie di atti di libidine violenti e violenza carnale avrebbero comportato l’inutilità di certe indagini (talora peritali) e domande intime rivolte nel processo alla vittima. In effetti, non tutte le domande intime, anche talvolta le più fastidiose e delicate, potranno assere evitate dalla creazione della fattispecie unificata della violenza sessuale; ma quantomeno alcune, quelle spesso più assurde ed intollerabili (‘‘sino a che punto, esattamente, si era andato a posizionare il membro dell’imputato nel momento di massima intrusione?, ecc.) » (CADOPPI, Commento all’art. 3, in AA.VV., Commentario delle ‘‘norme contro la violenza sessuale’’ (Legge 15 febbraio 1996 n. 66), Padova, 1996, 34 s.). Più in generale, in chiave polemica contro l’unificazione operata dal legislatore del ’96 delle fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti nel nuovo reato di violenza sessuale, vd. PECORARO-ALBANI, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, Napoli, 1997, 52 s. (15) Non è ben chiaro se la mancanza di congiunzione carnale determini sempre l’applicazione di tale attenuante generica. In senso affermativo, è stato sostenuto che ‘‘la distinzione tra congiunzione carnale’’ e ‘‘atti di libidine’’ rimarrà il principale criterio di riferimento per l’applicazione di questa circostanza attenuante » (NAPPI, Commento alle nuove norme contro la violenza sessuale, in Gazz. giur., n. 8/96, 3). E in una direzione tendenzialmente non molto diversa, è stato osservato che non sarebbe « azzardato sostenere che, in linea di massima, tutti i casi che prima della riforma ricadevano nell’alveo dell’abrogato art. 521 c.p., meritino oggi di essere stimati ‘‘casi di maggiore gravità’’. L’esorcismo dell’‘‘unificazione’’ delle vecchie fattispecie si mostra quindi di breve durata » (DEL CORSO, Commento all’art. 3, cit., 441 s.). Anche se si è comunque precisato che « si può probabilmente affermare che in presenza di una violenza in senso stretto (o anche di una vera e propria minaccia), dovrà in linea ordinaria escludersi la sussistenza dell’attenuante speciale di cui al terzo comma, ipotizzabile per contro qualora la condotta criminosa ‘‘violenta’’ si stemperi fino quasi a scomparire » (DEL CORSO, ivi, 442 s.). Altri Autori, invece, hanno esplicitamente affermato che, in linea di principio, la distinzione tra atti di libidine e congiunzione carnale non avrebbe alcun valore ai fini dell’attenuante di cui al terzo comma dell’art. 609-bis c.p. (CADOPPI, Commento all’art. 3, cit., 77). Infatti, il giudizio per l’applicazione di questa circostanza dovrebbe fondarsi sui parametri di cui ai nn. 1 e 2 del primo comma dell’art. 133 c.p., costituiti rispettivamente « dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’a-
— 899 — mente più rigorosa, il tentativo di congiunzione carnale sembra rilevare secondo criteri analoghi a quelli della precedente normativa, anche per quanto attiene alla commisurazione della pena. 3. L’incidenza della distanza cronologica della consumazione ai fini della sussistenza del tentativo. — A differenza dell’ipotesi sopra considerata di tentativo di congiunzione carnale estrinsecatasi in atti di libidine, nel caso oggetto della sentenza in esame l’iter criminis era invece ancora nella fase delle minacce, e il contatto fisico dell’imputato con la vittima avrebbe dovuto aversi secondo il piano delittuoso in un momento cronologicamente non vicino (16). In particolare, per quanto riguarda la sentenza in esame, essa sembrezione », e « dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato » (ivi, 76 s.). Di conseguenza, certi « gravi ‘‘atti di libidine’’ (di cui al vecchio art. 521), specie se compiuti con particolare violenza ed in contesti ‘‘terrorizzanti’’, e magari protratti a lungo, rientreranno senza ombra di dubbio nella fattispecie base, non integrando l’attenuante in questione. Se poi si pon mente al bene giuridico come esso è stato precisato più sopra, che si specifica nella dimensione del rapporto interpersonale, si può soggiungere che un caso concreto potrà essere di ‘‘minore gravità’’ anche quando la natura del rapporto interpersonale renda oggettivamente meno lesiva la violenza sessuale. Così in certe ipotesi di persone legate da rapporti sentimentali anche se tormentati — non importa se ‘‘ufficializzati’’ dal matrimonio o in altro modo — si potranno verificare casi, in concreto, ‘‘di minore gravità’’. Tale risultato, pur nell’ambito di tali rapporti, non sarà certamente automatico: anche all’interno del matrimonio si potranno avere casi così gravi da non poter rientrare nell’ambito dell’attenuante » (CADOPPI, ivi, 77). Analogamente, in giurisprudenza è stato recentemente affermato, sia pure in via di obiter dictum: « il comportamento di atti sessuali diversi dalla congiunzione carnale può avere anche connotazioni di gravità maggiore della congiunzione stessa e l’applicazione della circostanza attenuante speciale prevista dal terzo comma dell’art. 609-bis deve avere riguardo all’effettiva valenza criminale degli specifici comportamenti desunta con riferimento ai criteri direttivi indicati dall’art. 133 c.p. Non è possibile, pertanto, delineare aprioristicamente una categoria generale alla quale ricondurre ‘‘i casi di minore gravità’’, ma la loro individuazione è rimessa, volta per volta, alla discrezionalità del giudice di merito, da esercitarsi con razionale riferimento agli elementi considerati determinanti per la soluzione adottata e con obbligo di puntuale motivazione » (Cass. 6 febbraio 1997, Coro, in Riv. pen., 1997, 147 s.). In effetti le attenuanti generiche, dato il loro carattere casistico, non ammettono presunzioni di minore gravità, nonostante la particolare importanza che riveste la congiunzione carnale nelle condotte di violenza sessuale. Il problema, allora, riguarda la particolare ampiezza della discrezionalità attribuita al giudice nell’individuare i « casi di minore gravità » e nel commisurare una pena che può essere diminuita fino ai due terzi (sul punto v., ad es., CADOPPI, ivi, 86 s., dove si afferma che comunque « di violazione del principio di tassatività non si può parlare »; DEL CORSO, Commento all’art. 3, cit., 441). (16) In certe ipotesi il momento (ipotetico) della consumazione si può presentare molto vicino. Si pensi al fatto di rinchiudersi con una donna in una stanza e afferrarla violentemente per le braccia cercando di buttarla sul letto, minacciandola con un’arma (Cass. 14 febbraio 1949, Racciappi, in Giust. pen., 1949, II, 540). Altre volte, invece, l’accertamento della soglia della punibilità si presenta ben più problematico. Così ad esempio in un episodio di tentativo di violenza carnale così descritto nella
— 900 — rebbe a prima vista operare un certo arretramento della punibilità, e ciò essenzialmente a causa della distanza cronologica che secondo il progetto criminoso sarebbe intercorsa tra il momento in cui sono state effettuate le minacce e quello in cui si sarebbe dovuta realizzare la consumazione. Quest’ultima, infatti, nel caso in esame non si prospettava in un rapporto d’immediatezza o prossimità temporale, dal momento che l’iter criminis si era arrestato nella fase in cui l’imputato cercava di costringere la vittima, « con la quale aveva avuto una relazione sessuale, ad avere con lui ulteriori rapporti carnali, con la minaccia di inviare a parenti della donna foto compromettenti scattate in occasione dei loro precedenti incontri ». In realtà il fattore temporale, benché possa apparire a prima vista capace di ancorare la punibilità del tentativo alla sussistenza di una situazione di effettiva pericolosità e a esso venga fatto di tanto in tanto riferimento in dottrina e giurisprudenza, non sembra rivelarsi un criterio davvero affidabile (17). Infatti, è agevole osservare che nei reati a evento differito quest’ultimo, pur seguendo a distanza di tempo rispetto alla condotta, può anche presentare un grado di verificabilità assai elevato. Come nell’esempio scolastico di colui che, con intenti lesivi, spedisce in una località lontana un pacco contenente un ordigno esplosivo ad alta precisione. Mentre può darsi l’ipotesi in cui secondo il piano concreto la consumazione dovrebbe verificarsi in un momento assai prossimo a quello d’interruzione della condotta, anche se da un punto di vista logico si opponsentenza di merito: « La sera del 31 dicembre 1957 il Petric e la Kramar, dopo avere festeggiato con altri profughi la fine dell’anno, si trovarono a un certo momento soli sulla strada, essendosi gli altri allontanati da loro. Il Petric attirò la Kramar in un portone dove, dopo aver tentato di baciarla, le dichiarò di volerla fare sua e le ingiunse, in tono imperativo, di sdraiarsi per terra e di togliersi le mutande. La Kramar reagì con un deciso rifiuto e si mise a gridare. Il Petric, allora, la colpì con un pugno, facendole sanguinare il naso. La Kramar, seguita dall’altro, uscì di corsa sulla strada gridando. In quel momento passava il Guindani, il quale, resosi conto del fatto, si recò in un posto vicino per telefonare in Questura. Il Petric, non appena si accorse della sua presenza, si diede alla fuga » (Trib. Cremona 5 dicembre 1958, Petric, in Giur. it., 1959, II, 108 s., con la quale si è condannato l’imputato sul presupposto che il codice del ’30 avrebbe soppresso la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi). Per ulteriori ipotesi di condotte volte alla realizzazione della violenza carnale che non integravano gli atti di libidine violenti, v. App. Bari 13 febbraio 1984, Tantalo, in Riv. pen., 1984, 696 s.; Cass. 1o marzo 1982, Palmieri, ivi, 1982, 680 s.; 6 novembre 1967, De Francesco, in Cass. pen., 1968, 932; 28 ottobre 1960, Fereito, ivi, 1961, 77. (17) All’importanza del criterio cronologico sembra alludere Romano, che afferma che « il tentativo (...) si presenta concettualmente come un’attività connotata da una prossimità logico-cronologica alla consumazione del delitto » (Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, 557). La valutazione dell’aspetto cronologico appare qui comunque inserita nel più generale contesto di un giudizio logico sulla prossimità alla consumazione. Questa impostazione ha trovato un’eco (anche a livello testuale) nella sentenza della Cass. 12 gennaio 1989, Pani (in Giust. pen., 1989, II, 649 s.), dove si è affermato che « il tentativo punibile deve essere connotato da una prossimità logica e cronologica », per cui esso non sussisterebbe in presenza di « un rilevante distacco temporale ».
— 901 — gono difficoltà ben difficilmente superabili; si pensi al caso di chi voglia realizzare in una strada affollata una violenza carnale nei confronti di una ragazza di passaggio. In proposito, osservava il Petrocelli: « Il criterio cronologico si condanna da sé, per la sua estrinsecità. Esso non può respingersi del tutto, e può, preso dal suo giusto verso, costituire anche un utile completamento di altri criteri, ma non può avere da solo un soddisfacente valore indicativo » (18). Effettivamente, si potrebbe pensare di attribuire all’elemento temporale una sua autonoma (ma pur sempre secondaria) rilevanza in quanto, non potendo mai essere completa — nonostante ogni sforzo — la valutazione delle circostanze da parte di chi giudica, la prossimità cronologica renderebbe minori le possibilità che si verifichino fattori imprevedibili. Tuttavia, lo stesso Petrocelli aggiungeva: « La prossimità della consumazione è un dato che, per sua natura, non può presentare un punto di riferimento ben definito; e si presta, invece, alle più varie fluttuazioni degli apprezzamenti soggettivi » (19). Infatti, come andrebbe calcolata la probabilità in rapporto al tempo? Si potrebbe, ad es., affermare che la distanza di un’ora dalla consumazione renda sempre quest’ultima ‘‘molto probabile’’? Una prospettiva potrebbe essere quella di cercare di misurare il fattore cronologico in termini percentuali, calcolando il rapporto tra il presumibile arco di tempo di cui l’agente, al momento d’interruzione della condotta, avrebbe avuto ancora bisogno per poter realizzare il suo proposito, e la verosimile durata dell’intero programma delittuoso. Ma allora diventa facile obiettare che nell’ipotesi in cui l’agente diluisca in un arco di tempo molto lungo delle attività preliminari che avrebbero potuto essere svolte in tempi brevi, e viceversa progetti il compimento in poco tempo di un’attività esecutiva che avrebbe invece richiesto tempi lunghi, si perverrebbe a ritenere ingiustificatamente più probabile la consumazione. Sembra quindi preferibile, affinché il discorso non finisca col diventare fin troppo complesso, evitare di attribuire in via generale un’autonoma incidenza al fattore cronologico. Ci sembra, in sostanza, che il fattore cronologico abbia di regola una sua incidenza del tutto relativa, restando la sua valutazione normalmente assorbita nell’ambito dell’apprezzamento della singole situazioni agevolanti e ostacolanti. Mentre solo laddove il piano delittuoso faccia riferimento a un risultato particolarmente distante nel tempo, il fattore tempo potrebbe conseguire l’effetto di rendere impraticabile il giudizio di pericolosità, se per la durata eccessivamente lunga del programma d’azione risulti impossibile, o molto difficile calcolare le possibili circostanze agevolanti e ostacolanti. (18) Il delitto tentato, Padova, 1955, 100. (19) Ibidem.
— 902 — A migliori conclusioni non sembra portare neppure il criterio della prossimità spaziale dell’agente con l’oggetto materiale del reato: di questo punto ci occuperemo tuttavia in seguito, quando parleremo del problema della rilevanza, ai fini della valutazione delle probabilità di consumazione, delle situazioni agevolanti e ostacolanti attinenti allo stato dei luoghi dell’attività criminosa (20). 4. Il criterio del principio di esecuzione al quale si è riferita la Corte di cassazione nella sentenza in esame. — Non essendo quindi possibile nel caso giurisprudenziale in esame escludere la punibilità dell’imputato sulla base del rilievo che la distanza cronologica degli atti rispetto al momento di consumazione li renderebbe poco pericolosi, occorre allora verificare alla luce di altri criteri la sussistenza degli estremi del tentativo. Al riguardo i giudici di legittimità, nelle scarne motivazioni della sentenza, si sono limitati a osservare che, « con l’effettuazione della minaccia diretta a costringere la persona offesa alla congiunzione carnale, inizia l’esecuzione materiale del reato di violenza carnale, per cui se il reato non viene portato a compimento perché la vittima, come nel caso in esame, non cede alle minacce, ricorrono gli estremi della tentata violenza carnale ». In sostanza, sembrerebbe che la Cassazione, facendo riferimento alla classica distinzione tra atti preparatori ed esecutivi, abbia voluto evitare di ricorrere ai criteri dell’idoneità e dell’univocità degli atti. E ciò in quanto la motivazione in ordine alla loro sussistenza avrebbe verosimilmente comportato o il ricorso a definizioni troppo generiche e come tali facilmente tacciabili di arbitrio giurisprudenziale (c. d. ‘‘formulette pigre’’); o l’esigenza di stabilire la punibilità del tentativo attraverso l’accertamento della concreta pericolosità degli atti, secondo quelle istanze che, sia pure attraverso differenti interpretazioni, sembrano emergere nella dottrina più recente (21). Alternativa che in entrambi i casi avrebbe presentato inconvenienti, dal momento che la prima impostazione avrebbe reso incerto il momento di inizio della punibilità, mentre la seconda avrebbe richiesto un’indagine piuttosto lunga e complessa (e comunque (20) V. infra, par. 9, sub lett. a). (21) Al riguardo, nella manualistica contemporanea alcuni Autori definiscono l’idoneità come ‘probabilità’ (CONTENTO, Corso di diritto penale, parte generale, 3a ed., vol. II, Bari, 1996, 420 s.; FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, 415 s.; MONTANARA, Tentativo (diritto vigente), voce dell’Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 124) o come ‘verosimiglianza’ (MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Padova, 1992, 445) o ancora, più in generale, come ‘pericolosità’ (BOSCARELLI, Compendio di diritto penale, parte generale, 8a ed., Milano, 1994, 141 s.); altri Autori intendono l’univocità come ‘prossimità logico-cronologica alla consumazione’ (ROMANO, Commentario sistematico, I, cit., 557 s.; sul punto v. pure sopra, nt. 17) o come ‘probabilità’ di realizzazione del delitto perfetto (MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., 446; MONTANARA, Tentativo, cit., 124 s.).
— 903 — vertente su un’analisi dei fatti che in Cassazione è limitata a quelli già accertati dai giudici di merito) (22). Ora, com’è noto, tra le innumerevoli definizioni di atti preparatori ed esecutivi che sono state elaborate in dottrina, particolare diffusione ha avuto la teoria c.d. formale-oggettiva, in base alla quale sarebbero esecutivi gli atti che iniziano l’attuazione della condotta tipica (23). In questo senso, essendo la violenza carnale un reato a forma vincolata, risulta facile affermare che il porre in essere delle minacce costituisca già principio di esecuzione della fattispecie. Del resto, come si sa, la teoria c.d. formaleoggettiva incorre in particolari difficoltà non tanto nei reati a forma vincolata, quanto in quelli causalmente orientati. Ed è soprattutto con riferimento a quest’ultima categoria che è stata sviluppata la teoria c.d. materiale-oggettiva, secondo la quale in certi casi dovrebbero essere puniti anche gli atti pretipici (24). (22) Per una sentenza della Cassazione nella quale viene effettuata una valutazione dei fatti un po’ più articolata al fine di accertare l’effettiva pericolosità degli atti realizzati dall’imputato, vd. Cass. 15 marzo 1971, Filei, in Giust. pen., 1972, II, 263 s. (23) Come si sa, alla teoria c.d. formale-oggettiva fanno capo una pluralità d’impostazioni. Limitandoci a ricordare le più note, la teoria c.d. formale-oggettiva è legata soprattutto ai nomi di Beling (Grundzüge des Strafrechts, 11. Aufl., Tübingen, 1930, 56 s.), di von Liszt (Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 25. Aufl., bearb. von Schmidt, 1927, 289 s.). L’azione esecutiva andrebbe ricavata sulla base della descrizione testuale della condotta, in risposta a istanze di legalità, volendosi precludere il ricorso a criteri diversi da quelli presenti nella fattispecie tipica. Alla teoria c.d. formale-oggettiva sembra essersi ricollegato anche il Birkmeyer che, volendo distinguere le ‘condizioni’, che atterrebbero alla fase preparatoria, dalle ‘cause’, che riguarderebbero l’esecuzione, finì tuttavia col definire ‘causale’ l’« azione conforme alla fattispecie tipica » (Die Lehre von der Teilnahme, Berlin, 1890, 96 s.; cfr. pure ID., Ueber Ursachenbegriff und Kausalzusammenhang, in Gerichtssaal, 1885, XXXVII, 272 s.). Non meno nota è la teoria del Mangel am Tatbestand (incompletezza della fattispecie) di Alexander Graf zu Dohna che, distinguendo l’evento dalle altre situazioni descritte nella fattispecie (condizioni di tempo e di luogo, oggetto della condotta, ecc.), affermava che il tentativo si avrebbe soltanto qualora non si verifichi l’evento, mentre non si dovrebbe punire se manchi qualsiasi altro elemento oggettivo della fattispecie (Der Mangel am Tatbestand, in Festgabe für Karl Güterbock, Berlin, 1910, 35 s.). Con la conseguenza di limitare il tentativo soltanto a quei casi in cui si sia realizzata la condotta ma non l’evento. In Italia, la teoria c.d. formale-oggettiva è stata sostenuta soprattutto da Francesco Alimena (L’attività esecutva nel tentativo, in Foro it., 1936, IV, 108 s.) e da Giulio Battaglini (Diritto penale, parte generale, 3a ed., 1949, 430). A tale impostazione si sono in sostanza riferiti, tra gli altri, anche Manzini (Trattato di diritto penale italiano, 5a ed., vol. II a cura di PISAPIA, Torino, 1981, 484), Pannain (Manuale di diritto penale, I, parte generale, 4a ed., Torino, 1967, 624 s. 628 s.) e Ranieri (Manuale di diritto penale, I, parte generale, 4a ed., Padova, 1968, 402). In questo senso, in giurisprudenza v. ad es. Cass. 2 luglio 1953, Bordanzi, in Giust. pen., 1954, II, 67; 14 novembre 1950, Di Marco, ivi, 1951, II, 642 s.; 9 ottobre 1950, Canulli, ivi; 14 novembre 1934, Targioni, ivi, 1934, II, 497 s. (24) Ci riferiamo alla nota tesi elaborata da Frank, secondo la quale « un inizio di esecuzione va ricercato in tutte le azioni che, a causa del loro nesso di appartenenza necessaria con la condotta, si presentano come facenti parte di essa secondo la normale percezione
— 904 — Orbene, affermando la punibilità degli atti esecutivi la sentenza fa riferimento a un criterio disatteso dal codice del ’30. In proposito, com’è noto, nell’interpretazione dell’art. 56 c.p., mentre la giurisprudenza dominante ha ritenuto in parte punibili anche gli atti preparatori, la dottrina prevalente ha invece per molti anni sostenuto la perdurante vigenza della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi. Pervenendo solo di recente a un superamento della distinzione, nel senso che in certi casi anche gli atti preparatori sarebbero punibili (25). In ogni caso, nel dibattito relativo all’attuale validità del criterio preparazione/esecuzione, non è mai stata oggetto di discussione la punibilità degli atti esecutivi. Per cui, alla luce di quanto esposto, la pronunzia della Cassazione, pur nella laconicità delle sue affermazioni, sembra fondarsi su principi comunemente condivisi (26). 5. Il rapporto tra la formula dell’inizio di esecuzione e la sussistenza di una situazione di reale pericolosità. — La sentenza in esame stimola ulteriori considerazioni. Infatti, venendo utilizzato il criterio formale dell’inizio di esecuzione, si pone il problema di verificare se tale criterio sia in grado di far coincidere la soglia della punibilità con la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di consumazione della fattispecie. Abbiamo poc’anzi accennato come dottrina e giurisprudenza si orientino prevalentemente a ritenere punibili in quanto pericolosi determinati atti preparatori, in particolare quelli ‘pretipici’ (27). E alla luce di questa esigenza si può spiegare sia l’abbandono (almeno a livello testuale), da parte del legislatore italiano del ’30 e di quello tedesco del ’75, della definizione di tentativo fondata sulla distinzione preparazione/esecudella realtà » (Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reich, 8.-10. Aufl., Tübingen, 1911, 73). Nonostante la particolare eco che questo criterio ha avuto in dottrina e giurisprudenza (non soltanto tedesche), esso si presenta tuttavia alquanto impreciso nei suoi limiti applicativi e pertanto si è spesso prestato a estensioni della punibilità nella prassi giurisprudenziale (in proposito vd. TREPLIN, Der Versuch, in ZStW, 1964, 463 s.) ». Merito di Frank, comunque, è certamente quello di avere evidenziato l’insufficienza del riferimento alla fattispecie formale per stabilire la sussistenza di una situazione di pericolo, impostando il problema dell’inizio della punibilità del tentativo in una dimensione maggiormente fattuale. (25) Circa l’evoluzione di dottrina e giurisprudenza dal 1930 a oggi sul problema della punibilità degli atti preparatori, ci permettiamo di rinviare al nostro articolo: L’idoneità degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’?, cit., 1335 s. (26) Del resto, anche con riferimento al reato di estorsione, per la cui sussistenza occorre che con violenza o minaccia si coarti la volontà altrui, la giurisprudenza ritiene comunemente che il porre in essere la minaccia integri già il tentativo di estorsione. Cfr. in tal senso: Cass. 13 settembre 1990, Cantatore, in Riv. pen., 1991, 536 s.; 21 agosto 1990, Brugnara, ibidem, 537; 27 febbraio 1988, Canino, ivi, 1988, 1091 s. (27) V. supra, par. 4, e il rinvio bibliografico di nt. 25. Particolarmente significative si presentano in proposito le posizioni di MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 446 s., e di ROMANO, Commentario sistematico, I, cit., 558.
— 905 — zione (28); sia l’evoluzione della scienza penalistica, già nel corso dell’ottocento, da un’impostazione di atto esecutivo c.d. formale-oggettiva (e cioè come inizio di realizzazione della fattispecie tipica) verso concezioni c.d. materiali-oggettive (29). Sotto altro profilo, benché comunemente non si discuta della punibilità degli atti esecutivi, occorre tuttavia considerare come in realtà anche questi ultimi possono risultare di per sé non pericolosi. Infatti, sebbene soprattutto oltralpe si sia spesso sostenuta la punibilità del tentativo inidoneo, in Italia si è sempre preferita una concezione tendenzialmente oggettiva del tentativo, e su questa linea lo stesso codice Zanardelli ha richiesto ai fini della punibilità non soltanto la ‘esecutività’ degli atti, ma anche la loro ‘idoneità’ (art. 61). Del resto, come si ricorderà, in Italia non ha trovato particolare diffusione la teoria c.d. soggettiva — sostenuta nella seconda metà del secolo scorso soprattutto dal von Buri e che ha avuto particolare incidenza in Germania non solo in giurisprudenza ma anche sulla riforma del ’75 dello StGB (30) — essendosi raramente di(28) Alle teorie c.d. oggettivo-formali e oggettivo-materiali abbiamo già accennato supra, a nt. 23 e 24. (29) Benché motivata — come si sa — anche da ragioni politiche di stampo autoritario (è noto l’episodio di tentato omicidio effettuato nei confronti di Mussolini dal deputato Zaniboni, condannato nel 1927 dal Tribunale supremo dello Stato), non si può comunque negare come la soppressione della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi rispondesse comunque anche a motivi di ordine teorico. Si legge infatti nella relazione ministeriale al progetto definitivo del codice del ’30 che, nel corso dell’applicazione del codice Zanardelli, quale fosse in realtà la fase preparatoria e con quali criteri avrebbe dovuto distinguersi « da quella propriamente esecutiva, è stato sempre molto difficile determinare, e le teoriche escogitate, l’una dopo l’altra, e spesso ad opera dello stesso autore, sono state dimostrate insufficienti ad offrire gli elementi necessari alle costruzioni giuridiche ed alle applicazioni pratiche » (Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, p. I, Roma, 1929, 100). (30) Essenzialmente tedesca è infatti la concezione c.d. soggettiva, secondo la quale il fondamento della punibilità del tentativo risiederebbe nella volontà riprovevole manifesta dall’agente (Verletzungswille). Fondata e propagandata dal von Buri nella seconda metà del secolo scorso (in un periodo in cui prevalevano, anche a livello legislativo, le teorie oggettive) con una serie di saggi apparsi nel Gerichtssaal (v. ad es. Versuch und Kausalität, ivi, 1880, 321 s.), questa teorica ha avuto particolare diffusione in Germania anche nell’ambito della giurisprudenza del Reichtsgericht (v. le due famose sentenze 24 maggio 1980, Sonntag, in Riv. pen., 1881, XIV, 202 s.; e 10 giugno 1880, Weber, ivi, 1881, XV, 243 s.; per l’indicazione di ulteriori analoghe pronunzie del Reichtsgericht v. pure FLORIAN, Dei reati e delle pene in generale, in Trattato di diritto penale, 2a ed., v. I, p. I, Milano, 1910, 475 s.). In dottrina, l’impostazione soggettiva ha trovato seguito nella teoria c.d. della prova del fuoco, formulata dal Bockelmann, in base alla quale il tentativo ricorrerebbe nel momento in cui l’agente si senta assolutamente sicuro della sua decisione (BOCKELMANN, Strafrechtliche Untersuchunge, Göttingen, 1957, 135 s.; ID., Zur Abgrenzung der Vorbereitung vom Versuch, in JZ, 1954, 468 s.); e nella teoria c.d. dell’irrevocabilità, secondo la quale per la sussistenza del tentativo occorrerebbe una decisione ‘irrevocabile’ dell’agente diretta alla
— 906 — scusso dell’opportunità della previsione del requisito dell’idoneità nella struttura del tentativo (31). In proposito, appare alquanto significativo quanto osservava Zanardelli nella relazione al testo definitivo del codice dell’89: « la discussione si portava principalmente a stabilire se si dovesse conservare o sopprimere l’indicazione degli atti, o meglio, dei mezzi idonei, quale estremo del reato tentato. Mi era stato proposto di togliere quella indicazione, per il motivo che il concetto vi è implicito quando si dice che il conato richiede un principio di esecuzione. Ma, d’altra parte, fu ben osservato non mancare dottrine e decisioni giudiziarie che contrastino la necessità di quell’estremo. Perciò, tenuto conto anche dell’opinione della Giunta della Camera elettiva, io credetti conveniente di mantenere l’espressa menzione » (32). In sostanza, allora — benché oggi si tenda a dare quasi per scontata la pericolosità degli atti esecutivi — era ben chiaro già al legislatore del 1889 come gli atti esecutivi non fossero per ciò stesso pericolosi, avvertendosi l’esigenza di affiancare al criterio preparazione/esecuzione quello dell’idoneità. È peraltro ben noto come l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza successive si sia polarizzata sul problema della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi. Mentre il concetto d’idoneità è rimasto in ombra negli studi penalistici, essendo stato inteso, sotto la vigenza del codice Zanardelli, come ‘possibilità’ dapprima ‘astratta’, poi ‘concreta’. Impostarealizzazione del reato (questa tesi, che si richiama a GERMANN, Das Verbrechen im neuen Strafrecht, Zürich, 1942, 71 s., è stata sviluppata soprattutto da WAIBLINGER, Subjektivismus und Objektivismus in der neueren Lehre und Rechtsprechung vom Versuch, in ZStW, 1957, 202 s.). Sul carattere prevalentemente soggettivo della disciplina del tentativo contenuta nei §§ 22 e 23 dello StGB, vd. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, 389 s.; MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano, a cura di MILITELLO, Torino, 1993, 112 s. (31) Com’è noto, in Italia la concezione c.d. soggettiva del tentativo è stata sostenuta non come in Germania al fine di punire la mera volontà ribelle (v. nt. prec.), ma nella prospettiva (maggiormente oggettiva) della scuola positiva di difesa sociale contro le tendenze criminose degli individui. In tal senso è stata sostenuta l’esigenza di punire non solo gli atti preparatori (cfr. FERRI, Principii di diritto criminale, Torino, 1928, 540 s.; GAROFALO, Criminologia, Torino, 1885, 264), ma anche il tentativo inidoneo. Osservava infatti il Ferri — conformemente alla soluzione dell’art. 16 cpv. del suo progetto di codice penale del 1921 — che l’impunità prevista dal codice Zanardelli per il tentativo impossibile risulterebbe « moralmente e socialmente assurda », essendo « evidente, invece, che la legge prima e il giudice poi, secondo le circostanze reali e personali del fatto, devono stabilire una sanzione repressiva ‘‘per ogni esecuzione materiale di un proposito delittuoso’’, salvo ad arrivare anche al perdono se il reato putativo od il tentativo impossibile dimostrino, insieme colle caratteristiche della sua personalità, la minima pericolosità dell’imputato » (FERRI, Principii, cit., 546; cfr. pure GAROFALO, Criminologia, cit., 265 s.). (32) Par. XXXV.
— 907 — zione, quest’ultima, che è stata essenzialmente recepita dal legislatore del ’30, che ha ritenuto più opportuno riferire l’idoneità agli ‘atti’ e non ai ‘mezzi’. Così, nella successiva evoluzione del concetto, mentre la dottrina tradizionale ha continuato a parlare di ‘possibilità in concreto’, alcuni Autori hanno preferito fare riferimento alla nozione di ‘probabilità’ (33). Ora, è evidente come l’originaria impostazione dell’idoneità come ‘astratta possibilità’ mal si adattava a far coincidere la soglia della punibilità con quella della pericolosità concreta. Si pensi al caso di chi tenti di rubare un aereo spostandolo di qualche metro pur non essendo capace di pilotarlo (34). D’altra parte, neppure il concetto d’idoneità come ‘concreta possibilità’ (sebbene evidentemente preferibile) riesce a evitare che si puniscano come ‘esecutivi’ e ‘idonei’ atti in realtà non pericolosi. Come ad es. nel caso di chi versa in una minestra del veleno che ne altera notevolmente il sapore, potendosi considerare concretamente possibile, anche se poco probabile, che la vittima ne ingerisca una dose letale. Alla luce di tutto ciò, allora, si può spiegare perché alcuni Autori preferiscano intendere l’idoneità come probabilità: concetto che, se per un verso sembra più adatto a far coincidere la punibilità con l’effettiva pericolosità, per altro verso si presenta tuttavia di difficile ricognizione. In ogni caso, dovrebbe emergere ormai piuttosto chiaramente come il criterio del principio di esecuzione costituisca una formula che, per il suo carattere formale, mal si adatta a far coincidere la soglia della punibilità con la sussistenza di una situazione di reale pericolosità. Anzi, da quanto si è detto sembrerebbe che, rispetto alle teorie c.d. oggettivo-formali, quelle oggettivo-materiali non costituiscano altro che uno sforzo volto a far calzare meglio la nozione di esecutività con quella di pericolosità, ruotando attorno — con varie formule — al concetto di probabilità. 6. Le origini della distinzione preparazione/esecuzione. — Quanto abbiamo fin qui esposto sembra quindi evidenziare l’importanza che ha gradatamente assunto il requisito dell’idoneità. Per altro verso, è noto come il criterio preparazione/esecuzione — pur non essendo capace, come abbiamo osservato, di far coincidere l’inizio della punibilità con l’insorgere di una situazione di effettiva pericolosità, dal momento che così come gli atti preparatori possono essere prossimi alla consumazione, ana(33) Per una più ampia ricostruzione di tale evoluzione dottrinaria ci permettiamo di rinviare (anche qui) al nostro articolo: L’idoneità degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’?, cit., 1339 s. (34) L’ipotesi è tratta da una sentenza della Corte di cassazione con la quale si sono ritenuti ‘idonei’ e ‘univoci’ gli atti posti in essere dall’imputato (Cass. 20 gennaio 1970, Lupi, in Foro it., 1971, II, 194 s.). Più di recente, per delle sentenze nelle quali si continua a fare riferimento alla nozione di ‘idoneità astratta’, vd. Cass. 21 gennaio 1989, Uccellatore, in Riv. pen., 1989, 1147; 21 giugno 1988, Addis, ibidem, 427.
— 908 — logamente gli atti esecutivi possono rivelarsi inidonei — abbia avuto particolare diffusione nelle varie codificazioni e, sebbene tralasciato dal nostro legislatore del ’30, eserciti ancor oggi influenza su una parte della nostra dottrina, che ne sostiene la perdurante vigenza (35). Sorge allora spontanea la domanda come mai abbia avuto tanto successo un criterio da sempre oggetto di accese discussioni. In questa prospettiva può, forse, risultare utile analizzare il problema dell’inizio della punibilità nel tentativo nelle elaborazioni dottrinarie e legislative anteriori al codice Napoleone. In sostanza, la nostra prospettiva di lavoro è quella di verificare se il criterio preparazione/esecuzione affermato dal code pènal del 1810, si fondi su un proprio retroterra teorico e scientifico, ovvero abbia costituito e rappresenti ancor oggi una risposta a ragioni di carattere prevalentemente ideologico, per l’evidente suggestione dell’idea liberale secondo cui si può essere puniti soltanto per le condotte esteriormente manifestatesi (oltre che per l’apparente semplicità di applicazione del criterio, almeno nei reati formali). In proposito, se è ben nota l’evoluzione della discussione relativa alla distinzione tra atti preparatori ed esecutivi dal codice Napoleone in poi, meno nota è invece l’origine della problematica nel diritto intermedio. Infatti, mentre nel diritto romano — come si ricorderà — non si conosceva ancora l’istituto del tentativo, limitandosi la lex Cornelia de sicariis e le leges Juliae de vi a punire condotte autonome come l’ambulare cum telo o il cogere arta domi (36), è solo con i pratici medioevali che comincia a porsi il problema dell’inizio della punibilità, elaborandosi la distinzione tra actus remotus e proximus, fondata sull’idea che solo quest’ultimo avrebbe dato luogo a quella lesione della pace sociale nella quale s’individuava la ragione della punibilità del tentativo (37). Così si osservava, ad es.: « non secuto effectu, intelligenda est, ut procedat quando deventum est ad actum proximum maleficium » (38); ovvero: « Quando statutum (35) In tal senso v., ad es., PAGLIARO, Principi, p.g., cit., 522 s.; VASSALLI, La disciplina del tentativo, in Convegno nazionale di studio su alcune fra le più urgenti riforme del diritto penale, Milano, 1961, 233 s. (36) È interessante notare come queste disposizioni furono introdotte in periodi di particolari turbamenti politici e sociali, per cui l’anticipazione della punibilità rispondeva a esigenze di prevenzione generale volte a evitare la realizzazione di atti pericolosi per la sicurezza e la tranquillità pubblica. Sul tentativo nel diritto romano vd. BRASIELLO, Tentativo (diritto romano), voce del Nss. dig. it., XVIII, Torino, 1971, 1130 s.; LAMBERTINI, Tentativo (diritto romano), voce dell’Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 93 s.; SCARANO, Origine e sviluppo storico della nozione di tentativo, in Arch. pen., 1946, I, 442 s. (37) Sottolinea il fondamento della punibilità dell’actus remotus nella verificazione di un allarme sociale MARTUCCI, Tentativo (diritto intermedio), voce dell’Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 102 s. (38) CLARI ALEXANDRINI, Opera omnia, Venetiis, 1614, Sententiam liber quintus, q. 92.
— 909 — mentionem conatus facit, intelligitur de proximo ad actum, non de remoto, ita respondit Baldus » (39). Questo criterio per un verso riecheggia il moderno concetto d’idoneità (40): l’actus proximus, infatti, non sarebbe stato altro che « ille qui in forma vel figura tendit ad consumationem effectus » (41). Per altro verso, la ‘prossimità’ sembrerebbe essere stata spesso intesa secondo un criterio ‘cronologico-spaziale’, affermandosi che l’« actus proximus requirit quod sit immediatus » (42); e ancora che « ut actus dicatur proximus inquirit non solum ut sit proximus consumationi delicti, sed etiam quod sit ultimus actus, qui a delinquente agendum est ad criminis perfetionis » (43). È allora forse anche per la scarsa attendibilità del criterio cronologico-spaziale (44) che si prevedeva che in certi casi anche gli atti remoti fossero punibili. Così si diceva: « Incoatur aut delictum, statim, quod conatus transit in alium, et in contumelia alterius, et non ante, licet finales effectus non sequatur; et hoc potest contingere dupliciter: primo per actum remotum a principali delicto, sicut est insultus ad homicidium faciendum, vel per actum proximum, sicut est vulnus. Actus vero verbi et actus facti remotus minus punitur, sed actus propinquus acrius punitur » (45). In sostanza, fino alla fine del ’700 la dottrina ha fatto di regola riferimento alla distinzione atti remoti/prossimi. Solo occasionalmente si parlava di atti preparatori ed esecutivi. Cosi ad es. Baldo degli Ubaldi (secolo XIV) usava incidentalmente l’espressione ‘‘atto remoto e preparatorio’’: « est enim in delictis, sicut in aliis factis, duplex principium, quoddam ‘re(39)
MENOCHI, Consiliorum sive responsorum libri XIII, Venetiis, 1639, cas. 326, n.
117. La distinzione actus proximus/remotus sembra essere stata espressamente enunciata da Iacopo Buttrigario — 1275-1348 — (sul punto vd. ANTOLISEI, Origine e svolgimento della dottrina del delitto mancato, in Riv. dir. e proc. pen., 1911, vol. II, p. I, 323). Secondo Cavanna, peraltro, questa distinzione era già sussistente, sia pure a un livello ancora embrionale, nel diritto longobardo (Il problema delle origini del tentativo nella storia del diritto italiano, in Annali della facoltà di giurisprudenza di Genova, Milano, 1970, 116 s.). (40) In tal senso vd. SCARANO, Origine e sviluppo storico, cit., 457. (41) BARTOLOMEUS DE SALICETO, Commentaria, Venetiis, 1586, ad C IX ad legem de sicariis, I, 7. (42) FARINACCI, Theoricae et praxis criminalis libri, Lugduni, 1631, q. CXXIII, n. 106. Di « actum proximum e immediatum » parla pure BOHIER, Secunda pars decisionum aurearum, Venetiis, 1551, dec. CCCXVI. (43) FARINACCI, ibidem. (44) Sul punto, come si ricorderà, ci siamo già soffermati sopra, nel par. 3. (45) BALDUS, Ad L 11, Codex IX, 1. In altri casi l’abbassamento della punibilità era invece dovuto a ragioni di ordine politico-criminale. Si osservava, infatti: « In graviora delicta aut puniendum est ad actum verbi et non punior tanquam pro consumato, sed extra ordinem e minori poena; aut processi ad actum facti, tunc, si quidem ad proximum et immediatum; et punior pro delicto consumato; si vero ad remotum, minus punior quam si consumassem » (BALDUS, Ad L 5 Codex de episcopis et cleris).
— 910 — motum etraeparatorium’, quoddam ‘propinquum’ et ‘substantiale’ » (46). E Prospero Farinacci, al fine di meglio precisare gli atti prossimi, osservava: « In fine dum voluit actus proximum, tunc demum esse quando est multum principaliter propinquus delicto, et quasi eius esse, et quasi delicta intrinseca pars » (47). Quest’ultima definizione pare peraltro particolarmente significativa perché si è in questo modo per la prima volta profilata — pur sempre nell’ambito del concetto di actus proximus — quella che poi sarà la teoria c.d. formale oggettiva, secondo cui ai fini della sussistenza del tentativo occorre l’inizio di esecuzione della fattispecie tipica. Riferimenti più espliciti alla distinzione preparazione/esecuzione possiamo piuttosto riscontrarli in Tiberio Deciani, che osservava: « Conatus est minus quam factum ipsum, quia est principium exequendi » (48). Inoltre, di « atto prossimo d’esecuzione del mandato » a uccidere parlava la Prammatica napoletana de Assassinio del 1573 (49). E ancora, in epoche più recenti, alla voce Crime dell’Encyclopédie Antoine-Gaspard Boucher d’Argis scriveva: « L’ordinanza di Blois (art. 195) prevede la pena di morte per coloro che si accordano a pagamento per uccidere, oltraggiare e arrecare danno a qualcuno, insieme a coloro che si sono messi d’accordo con loro o che li hanno indotti a fare ciò. In questo caso si punisce la sola volontà sebbene essa non sia stata seguita da alcuna realizzazione, perché l’accordo è un atto completo e un inizio di esecuzione della volontà. Tutto è quindi già consumato per colui che dà l’incarico a un altro di eseguire il crimine; e chi s’incarica di compierlo commette anche lui un crimine facendo un tale accordo che offende l’ordine sociale » (50). 7. Le ragioni storiche e ideologiche del successo della formula del commencement d’exécution nelle codificazioni ottocentesche. — Le successive vicende del concetto di ‘esecuzione’ sono legate, com’è noto, alla legislazione rivoluzionaria e napoleonica. In proposito, il codice penale del 1791 non conteneva ancora una disposizione generale in tema di tentativo. Infatti — respingendo le istanze verso un ‘‘diritto penale rivoluzionario dell’atteggiamento interiore’’ e in linea coi principi di libera manifestazione del pensiero e di stretta legalità dei delitti e delle pene (artt. VII, VIII, IX e XI della Déclaration des droits) — il legislatore rivoluzionario (46) Consilia, III, Venetiis, 1609, III, cons. 443. (47) FARINACCI, Theoricae, cit., qu. CXXIII, n. 106. (48) DECIANI, Tractatus criminalis utriusque censurae, Augustae Turinorum, 1593, l. IX, cap. XXIX, n. 1. (49) Sul punto vd. MARTUCCI, Tentativo, cit., 104. (50) BOUCHER D’ARGIS, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences, des Arts et des Métiers, IV, Paris, 1754, 468 (la traduzione e il corsivo sono nostri).
— 911 — si limitò a prevedere la punibilità del reato ‘imperfetto’ (quoique non consommé) in caso di assassinio (51) e veneficio (52). Com’è stato osservato, si tratta di disposizioni « nelle quali non solo non si fa uso del lemma tentative (che le fonti registrano dal 1792), sostituito dall’espressione « quoique non consommé », ma per di più si registra l’assenza di concetti-chiave quali il commencement d’exécution dell’atto criminoso. Mancando nel codice una disposizione sul tentativo in generale, quest’assenza potrebbe essere ascritta a mero errore di tecnica legislativa. Tuttavia, una serie di indizi disseminati nei lavori preparatori permettono di ipotizzare che questa omissione sia stata il frutto di precise scelte di politica criminale. Come non pensare che una disposizione sul tentativo di crimine, rendendo più labile il nesso tra volontà colpevole ed esecuzione del disegno criminoso, avrebbe potuto funzionare da clausola generale d’incriminazione del dissenso politico? » (53). In sostanza, quindi, l’omissione nel codice penale del 1791 del criterio del commencement d’exécution sembrerebbe testimoniare la sua ancora scarsa diffusione ed elaborazione dottrinale. Il legislatore avrebbe infatti « evitato di disciplinare in via legislativa una fattispecie evanescente, suscettiva di attivare persecuzioni politiche ad ampio spettro » (54). Ma già a distanza di un anno dall’introduzione del nuovo codice l’aumento della criminalità spinse il Comité de législation civile et criminelle dell’Assemblea nazionale legislativa a presentare un progetto di decreto « avente a oggetto la punizione dei tentativi di crimini seguiti da un inizio di esecuzione, con le stesse pene previste dal codice penale per le fattispecie consumate, a meno che questi tentativi non siano stati interrotti a causa del pentimento dell’agente » (55). Com’è stato in proposito osservato, « il testo redatto dal Comité de législation, anche sotto il profilo lessicale, si ricollega alla voce enciclopedica scritta una quarantina d’anni prima da Boucher d’Argis » (56). Ma la proclamazione della repubblica e il processo al Re determina(51) Pt. II. Des crimes et le leur punition, tit. II. Crimes contre les particuliers, sez. I. Crimes et attentats contre les personnes, art. XIII: « L’assassinio, sebbene non consumato, sarà punito con la pena prevista dall’art. 11 [morte], quando l’attacco con lo scopo di uccidere sarà stato effettuato ». (52) Pt. II, tit. II, sez. I, art. XV: « L’omicidio con veleno, sebbene non consumato, sarà punito con la pena prevista dall’art. 12 [morte] quando l’avvelenamento sarà stato effettuato, o quando il veleno sarà stato presentato mescolato con alimenti o bevande destinati sia all’uso della persona contro la quale l’attentato sarà stato diretto, sia all’uso di tutta una famiglia, di una comunità o di abitanti di una medesima casa, sia all’uso pubblico ». (53) MARTUCCI, Tentativo, cit., 111. (54) MARTUCCI, ibidem, nt. 108 (il corsivo è nostro). (55) Bulletin de l’Assemblée Nationale, première législature, in Réimpression de l’Ancien Moniteur, 1862, XIII, 215. (56) MARTUCCI, Tentativo, cit., 112.
— 912 — rono un rinvio della modifica al codice penale, che si ebbe solo alcuni anni più tardi, durante il periodo del Direttorio. La legge del 22 pratile anno IV (10 giugno 1796) introdusse infatti la seguente disposizione: « Ogni tentativo di misfatto, manifestato con atti esteriori e seguito da un principio di esecuzione, sarà punito al pari dello stesso misfatto, se questo non ha avuto luogo che per circostanze fortuite e indipendenti dalla volontà dell’imputato » (57). Nell’Italia napoleonica la « legge sui delitti e sulle pene » promulgata da Giuseppe Bonaparte il 20 maggio 1808 per il Regno di Napoli, segna tuttavia un passo indietro nell’affermazione del criterio del commencement d’exécution, definendosi all’art. 15 come tentato quel delitto « nel quale l’intenzione del delinquente sia stata manifestata con atti esterni, prossimi all’esecuzione, ma in cui l’effetto o non sia seguito affatto, o sia seguito in parte » (58). Questa disposizione testimonierebbe quindi come, poco tempo prima dell’emanazione del code Napoléon, fosse ancora scarsamente diffuso il criterio del principio di esecuzione, essendo invece radicata nella teoria del tentativo la distinzione tra atti remoti e prossimi. Meritevole di attenzione è anche il progetto del codice penale italico, le cui Osservazioni di accompagnamento vengono comunemente attribuite — come vedremo tra breve — alla mano del Romagnosi. In questo progetto, destinato ad arenarsi a causa del veto di Napoleone, veniva affermato che per aversi tentativo occorreva intraprendere un atto esterno che manifestasse un principio di esecuzione. Il resto delle vicende normative e dottrinarie è a tutti noto: con l’adozione da parte del code pénal del 1810 della distinzione preparazione-esecuzione si è introdotto un criterio destinato ad avere grande diffusione nei vari ordinamenti e a essere pertanto oggetto di approfondite analisi teoriche e giurisprudenziali. Giunti a questo punto è ormai agevole rilevare come il legislatore napoleonico, lungi dal riferirsi a una nozione di tentativo avente una propria tradizione giuridica, abbia invece utilizzato un criterio assai poco praticato, e il cui riscontro dottrinario pare essenzialmente costituito dall’opera di Boucher d’Argis e di Romagnosi. Tuttavia il Boucher si limitava ad affermare (nel brano che abbiamo su riportato) che l’accordo a commettere un reato avrebbe già costituito inizio di esecuzione. Con ciò dilatando notevolmente la soglia della punibilità al di là dei limiti oggi previsti dall’art. 115 c.p. e senza dare una definizione di atto esecutivo. Lo scrittore allora al quale è preferibile riferirsi è Gian Domenico Romagnosi, le cui opere che vengono qui in rilievo sono essenzialmente con(57) Disposizione riportata da CHAUVEAU/HÉLIE, Teorica del codice penale, vol. I, Napoli, 1853, 172 (il corsivo è nostro). (58) Il corsivo è nostro. Sul punto vd. MARTUCCI, Tentativo, cit., 113.
— 913 — temporanee all’introduzione da parte del legislatore francese del criterio del commencement d’exécution. Al riguardo, nella sua Genesi del diritto penale del 1791 l’illustre pensatore affermava anzitutto che « l’idea dell’esecuzione del delitto non solo entra essenzialmente nella nozione dell’attentato, ma debb’esserne l’unico carattere fondamentale » (59). Nelle Osservazioni del gran giudice Luosi sulla prima parte del progetto di codice penale del Regno d’Italia del 1807, la cui paternità viene comunemente attribuita al Romagnosi, si affermava inoltre che non « in tutti i delitti può verificarsi l’attentato, ma soltanto in alcuni; e sono quelli nei quali il principiare ad eseguirli non è lo stesso che consumarli: ond’è che può aver luogo la sospensione; posta la quale, si verifica che il delitto, a cui si tendeva, non è consumato. Ciò adunque si applica, per esempio, ai tentativi di furto, (...) di contraffazione di monete, (...) di smercio di moneta falsa, (...) di falso qualunque, allorché si sorprende taluno che stia occupandosi nel fabbricarlo. E così d’ogni altro che stia facendo alcuna cosa la quale appunto, per manifestare un principio di esecuzione del delitto, dà luogo a concludere rettamente, che non sospesa od interrotta, lo speciale delitto, a cui si riferiva, sarebbesi necessariamente consumato. Avviene quindi che chi, per esempio, ferisce o batte, o in alcun altro modo percuote alcuno, non viene riputato reo di attentato sia di omicidio, sia di mutilazione, sia di altra offesa più grave che non abbia avuto luogo, quando rimarchevoli circostanze non comprovino la direzione di simiglianti atti al delitto non avvenuto. E la ragione si è, che la ferita, la battitura, la percossa possono stare da sé come azioni limitate e circoscritte; né tale necessaria connessione presentano coll’omicidio o colla mutilazione da potersi dire che colui che feriva, batteva, percuoteva, mirasse veramente ad uccidere o a mutilare; e che tali atti manifestassero evidentemente il principio di esecuzione della mutilazione o dell’omicidio. I quali casi dell’un genere e dell’altro riferiti, come sostanzialmente differiscano nel proposito dell’attentato, si vede da ciò, che, rispetto all’ultimo, il comun senso degli uomini dice al più, che da tali o ferite o battiture o percosse poteva nascere mutilazione od omicidio; laddove, rispetto al primo, dice che dagli atti indicati, ove non fossero restati sospesi o interrotti, doveva naturalmente e necessariamente venire o il furto, o la contraffazione, e lo smercio e il falso accennati » (60). Orbene, non è agevole la lettura di questo brano. Del resto, com’è stato osservato, forse « la gravità stessa della prosa romagnosiana, intrisa di una terminologia oscura ed ambigua, fu la responsabile maggiore di alcune interpretazioni negative del pensiero romagnosiano, e delle quali ci (59) (60)
Par. 662. In Opere di G.D. Romagnosi, a cura di DE GIORGI, II, Palermo, 1844, 453.
— 914 — diede un clamoroso esempio, nell’Ottocento, l’irata denuncia del ROSMINI » (61). Di conseguenza, non appare del tutto chiaro se nel citato passo Romagnosi voglia alludere all’inammissibilità del tentativo nei reati unisussistenti, o se piuttosto l’Autore non dimostri qui una certa consapevolezza dell’inapplicabilità del criterio del principio d’esecuzione nei reati a forma libera, laddove almeno si segua l’impostazione della teoria formale-oggettiva. Concezione quest’ultima che sembra trovare la sua origine, come dicevamo, nel pensiero di Farinacci, che affermava la sussistenza del tentativo quando l’atto « est multum principaliter propinquus delicto, et quasi eius esse, et quasi delicta intrinseca pars » (62). Le difficoltà cui è incorso Romagnosi nella spiegazione del tentato omicidio lascerebbero far pensare che l’Autore si sia implicitamente riferito proprio a quest’ordine d’idee. In ogni caso queste difficoltà sono certamente indice della scarsa elaborazione dottrinale che il criterio del commencement d’exécution aveva al momento della sua introduzione da parte del codice Napoleone. Per cui da ciò si può trarre la conclusione che il legislatore francese, lungi dal riferirsi a un criterio ben collaudato, avrebbe fatto un salto nel vuoto dell’elaborazione dogmatica, la quale si sarebbe piuttosto avuta a posteriori, in misura particolarmente copiosa e proporzionale alle gravi incertezze cui ha dato luogo la distinzione preparazione/esecuzione. In realtà, il successo di questa formula pare rinvenibile, più che sul piano della sua praticabilità concettuale e applicativa, su quello politico e ideale, per l’indiscutibile fascino del principio liberale secondo cui si può essere chiamati a rispondere soltanto per le condotte esteriormente manifestate e tipiche secondo la fattispecie di parte speciale della quale il tentativo costituirebbe inizio di realizzazione, in risposta a istanze di materialità e legalità (63). E in questo senso si può anche spiegare la vivace rea(61) NICOLETTI, Romagnosi Gian Domenico, voce del Nss. dig. it., XVI, Torino, 1969, 259. L’Autore prosegue rilevando che, tuttavia, « un filo conduttore che possa orientarci nei labirinti dell’immensa opera provvide a darcelo lo stesso Romagnosi quando apertamente si dichiarò eclettico: un eclettismo, bene inteso, limitato quasi tutto ai paradigmi del naturalismo e del determinismo ». (62) V. nt. 47. (63) In questo senso, significativo è il seguente passo di Scarano: « Il bisogno del riferimento al momento esecutivo è un’esigenza, che parte da premesse storiche, e non appartiene alla nozione del tentativo. Il problema della distinzione fra atti di preparazione e atti di esecuzione non è di natura giuridica, ma è di origine politica. Non contiene in sé medesimo le ragioni, che potrebbero giustificarlo sul piano politico, ma può essere spiegato soltanto storicamente, ricorrendo al giusnaturalismo, che ne illumina i motivi ideali, e al movimento liberale, che ne spiega le ragioni storiche » (Il tentativo, Napoli, 1952, 46). Sotto altro aspetto, per quanto attiene alle istanze di materialità sottese al criterio del principio d’esecuzione, è interessante notare come il legislatore francese del 1796 richiedeva che gli atti di esecuzione dovessero essere « esteriori ». E in questi termini si esprimeva anche il progetto del codice penale italico del 1808. Il codice Napoleone, invece, omise il riferi-
— 915 — zione che si è avuta nella dottrina italiana in seguito alla soppressione del criterio da parte del legislatore fascista, spingendosi qualche Autore a sostenere la natura addirittura ontologica della distinzione preparazione/esecuzione (64). Sotto questo profilo, allora, come abbiamo già accennato, lo spostamento della dottrina da una concezione c.d. formale-oggettiva a una c.d. materiale-oggettiva testimonierebbe lo sforzo compiuto d’intendere il criterio del principio d’esecuzione in chiave di reale pericolosità (65). Per mento alla ‘esteriorità’ degli atti, ma sul presupposto che quest’ultima, come riferiva il relatore Treilhard, sarebbe stata ricompresa in quella di ‘esecuzione’ (sul punto vd. LOCRÈ, Legislazione civile, commerciale e criminale ossia Commentario e compimento dei codici francesi, XV, in Codice penale, Napoli, 1843, 65). In questa prospettiva, allora, il legislatore del 1810 — che con la parificazione di pena del delitto tentato e consumato ha perseguito, come si sa, istanze soggettive di punizione della volontà riprovevole — si sarebbe riallacciato alla concezione secondo cui il fondamento della punibilità del tentativo andrebbe ricercato dal punto di vista oggettivo nell’allarme sociale provocato dalla condotta. In tal senso, già nel diritto romano con la lex Cornelia sarebbero stati puniti singoli comportamenti come « ambulare, cum telo » o « cogere arta domi », in quanto « assai pericolosi per la sicurezza e la tranquillità pubblica. L’esame della volontà dell’agente nel suo processo di preparazione e, quindi, di esecuzione » sarebbe infatti esulato « dal compito della Lex, rivolta a colpire soltanto il pericolo dell’ordine, alla tutela del quale la disposizione insieme con la sanzione » mirava (SCARANO, Origine e sviluppo storico, cit., 445). In sostanza, nella mentalità laica romana il fondamento della punibilità del tentativo veniva ravvisato soltanto in quelle istanze che i penalisti ottocenteschi chiameranno di ‘allarme sociale’. E se Ulpiano si domandava: « Quid offuit conatus cum iniuria nullum haberit effectum? » (lib. 3o ad Ed. D, 2, 2, 1, 2), questa difficoltà può ben comprendersi in quanto bisognerà attendere le moderne elaborazioni penalistiche per aversi una definizione di bene giuridico. Con l’affermazione del cristianesimo, poi, la successiva evoluzione storica del tentativo vede, come si sa, l’emergere di istanze soggettive di punizione della volontà criminosa, soprattutto per quanto attiene a quei reati che oggi chiamiamo contro la personalità dello stato e il sentimento religioso. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il diritto canonico per molto tempo non ha previsto che in rari casi la punibilità per tentativo. E negli statuti comunali « si nota che talora vengono puniti come delicta sui generis atti, che, sebbene non esaurissero i requisiti necessari per un determinato reato, costituivano tuttavia per la gravità del delitto un turbamento dell’ordine giuridico » (SCARANO, Origine e sviluppo storico, cit., 453 — il corsivo è nostro). Del resto, la Constitutio carolina del 1532 prevedeva la punibilità per tentativo di chi avesse tentato di commettere un reato « con qualche azione visibile » (« scheinlichen Werken »). Da tutto ciò dovrebbe allora evincersi sia la connessione tra i concetti di ‘riconoscibilità esteriore’ e di ‘allarme sociale’, sia come il legislatore rivoluzionario e napoleonico, nel proporre la distinzione preparazione-esecuzione, avrebbe fatto riferimento a esigenze di esteriorità e materialità già presenti nella tradizione del tentativo. (64) Ci riferiamo alla nota posizione del Petrocelli, il quale peraltro al fine d’individuare gli atti esecutivi faceva riferimento al criterio sostanziale della messa in opera dei mezzi predisposti, secondo il piano concreto dell’agente e in termini d’immediata connessione logico-causale (Il delitto tentato, Padova, 1955, 128 s., 147 s.). Di recente, fa riferimento all’impostazione petrocelliana FIORE, Diritto penale, p.g., II, Torino, 1995, 49 s. (65) In questa prospettiva Fiore osserva significativamente l’attualità del pensiero di
— 916 — cui la distinzione atti prossimi/remoti costituirebbe in sostanza il ‘filo rosso’ delle vicende del tentativo dal diritto intermedio a oggi, visibile sia nella ricerca da parte della dottrina c.d. oggettivo-materiale di una nozione di atto esecutivo facente riferimento all’effettiva pericolosità, sia nell’abbandono del criterio dell’inizio d’esecuzione nel codice Rocco (così come nel codice tedesco riformato). Del resto, a ulteriore riprova dell’incapacità del criterio del principio di esecuzione a segnare i limiti di punibilità del tentativo in ragione della sussistenza di una situazione di pericolo, si può osservare come la nozione d’idoneità sembri essere stata enucleata proprio contemporaneamente all’introduzione della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi. Infatti — benché costituisca un’operazione sempre opinabile quella di datare la ‘nascita’ di un concetto — sembra che l’esigenza di ancorare la punibilità del tentativo alla presenza del requisito dell’idoneità sia stata avvertita in dottrina proprio agli inizi dell’ottocento con le codificazioni rivoluzionaria e napoleonica. Così affermava ad es. il Romagnosi: « Non si può, è vero, tentare un delitto, senza averlo prima pensato e deliberato; ma si può benissimo pensarlo e deliberarlo, senza poterlo o volerlo tentare. Una prova di ciò sono i delitti o impossibili o difficili ad eseguire, e tutti quegli altri nei quali manca la fermezza e la perseveranza nell’intervallo che passa fra la deliberazione e la esecuzione. Quindi la mente di chi legge da sé stessa è spinta a soggiungere, che in que’ delitti nei quali l’effetto ingiustamente nocivo è di un impossibile conseguimento, l’attentato deve calcolarsi per nulla » (66). E analogamente osservava il Carmignani: « Per difetto non appartengono all’attentato, e son perciò immuni d’ogni qualità delittuosa, (...) gli atti insufficienti e inidonei al delitto, ove sien tali sì obbiettivamente, che subbiettivamente » (67). Sembrerebbe quindi che, proprio nel momento in cui si è abbandonata la distinzione atti remoti/prossimi, si è avvertita l’esigenza d’introdurre il requisito dell’idoneità al fine di evitare la punibilità del tentativo nei casi di non pericolosità della condotta. Per cui l’elemento dell’idoneità sembrerebbe costituire, come dicevamo, il ‘filo rosso’ attraverso il quale avrebbe continuato a esercitare la sua influenza il concetto della ‘prossimità’ degli atti: fino a pervenire alle più recenti tendenze dottrinarie volte Petrocelli nella ricerca di un criterio che faccia riferimento alla pericolosità concreta della condotta: « In definitiva, gli attuali orientamenti della dottrina e le stesse soluzioni offerte dalla giurisprudenza sembrano confermare, nei fatti, l’intuizione che tanto l’idoneità quanto l’inidoneità degli atti di tentativo siano in realtà requisiti inerenti, in ogni caso, ad una loro connotazione di prossimità (sia essa spaziale, temporale o logico-causale) rispetto al manifestarsi della condotta tipica, esecutiva del reato; e che proprio e solamente sotto questo profilo sia possibile la individuazione di un limite specifico, alla punibilità del tentativo » (FIORE, Diritto penale, p g., II, cit., 579. (66) ROMAGNOSI, Genesi del diritto penale, in Opere, II, cit., 86 (par. 664). (67) CARMIGNANI, Elementi del diritto criminale, tomo I, Malta, 1847, 119 s.
— 917 — ad agganciare la punibilità del tentativo alla ‘probabilità’ di realizzazione della fattispecie (68). 8. Il grado di probabilità sufficiente a integrare l’elemento dell’idoneità. — Giunti a questo punto, si può in generale osservare come le varie definizioni di atto punibile di tentativo sembrano ruotare attorno al concetto di pericolosità della condotta. Di conseguenza, il requisito dell’idoneità degli atti per un verso svolgerebbe un ruolo particolarmente importante nell’individuazione dell’inizio dell’attività punibile; e, d’altra parte, per potere assolvere a questa funzione esso dovrebbe essere inteso in termini di ‘probabilità’ (69). Ci proponiamo adesso di verificare la concreta praticabilità di quest’ultimo concetto con riferimento al caso di violenza carnale oggetto della sentenza che stiamo esaminando. A tal fine bisogna anzitutto fissare, sotto un profilo generale, il grado di probabilità necessario a integrare il tentativo di violenza carnale. In un secondo momento dovremo verificare il livello di probabilità sussistente nella concreta situazione sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità. Per quanto attiene al primo aspetto, un modo di affrontare il problema può essere quello di ricercare un grado unico e invariabile per tutte le ipotesi (astratte e concrete) di tentativo. Ma una simile soluzione, se per un verso può sembrare semplicistica e sbrigativa, sotto altro profilo lascia aperto il problema della scelta, nell’ambito dei valori ora indicati, di una soglia di probabilità universalmente valida (70). È forse per questi motivi che la più recente teoria del pericolo ha fatto ricorso a criteri più articolati per individuare i vari livelli di probabilità esigibili nelle diverse fattispecie. In proposito sono state proposte es(68) Sul punto v. sopra, nt. 21. (69) Per ulteriori motivi che inducono a ritenere l’idoneità degli atti come ‘probabilità’, ci permettiamo di rinviare al nostro articolo L’idoneità degli atti di tentativo come probabilità?, cit., 1395, s. (70) In proposito, la teoria del pericolo ha assunto una pluralità di posizioni, richiedendo ora una prevalenza di condizioni agevolanti rispetto a quelle ostacolanti (BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, 4. Bd., Die Fahrlässigkeit, Leipzig, 1919, 382), ora una soglia di probabilità ‘‘apprezzabile’’ (FIANDACA, Note sui reati di pericolo, nel Tommaso Natale, 1977, 177; M. GALLO, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 2) o rilevante (CANESTRARI, Reati di pericolo, in Enc. giur., Treccani, Roma, 1991, 2), ora una situazione di probabilità in genere, senza ulteriori specificazioni (ANTOLISEI, Sul concetto di pericolo, in Scuola pos., 1914, 26 s.; BOCKELMANN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 3. Aufl., München, 1979, 152 (« non è richiesto un determinato grado di probabilità »); LACKNER, Strafgesetzbuch mit Erläuterungen, 17. Aufl., München, 1987, 1266; STÜBEL, Ueber gefährliche Handlungen, als für sich bestehende Verbrechen, zur Berichtigung der Lehre von verschuldeten Verbrechen, zur Berichtigung der Lehre von verschuldeten Verbrechen, nebst Vorschlägen zur gesetzlichen Bestimmung über die Bestrafung der erstern, in NArchCrimR, 1826, 237 s.). Per una critica a tali diversi criteri vd. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 2a ed., Milano, 1994, 246 s.
— 918 — senzialmente due soluzioni diverse e tra loro non compatibili: quella che gradua la diversa misura della probabilità secondo un rapporto inversamente proporzionale al rango del bene giuridico tutelato, e quella che, invece, attraverso un raffronto con le pene previste per quei reati di lesione (sempre che vi siano) che, affiancandosi alle fattispecie di pericolo, costituiscono una progressione (di tutto o parte) del pericolo di base, ritiene opportuno riequilibrare la differenza sanzionatoria mediante una diversa valutazione del quantum di probabilità (anche qui secondo regole d’inversa proporzionalità, nel senso che maggiore è la differenza tra le pene, minore è il grado di probabilità rilevante). La prima soluzione, prevalente anche nella dottrina tedesca (71), utilizza in via interpretativa la nozione di bene giuridico al fine di dosare la quantità di pericolo rilevante nelle singole fattispecie, seguendo un’impostazione che si presenta in linea con la dominante opinione che attribuisce all’oggetto protetto (oltre che una rilevanza politico-legislativa) anche una funzione dogmatico-interpretativa (72). Infatti, nonostante in passato si siano arrischiate previsioni scettiche, affermando che « non è necessario esser profeti per prevedere che l’importanza del concetto di bene giuridico nel diritto penale, col tempo, diminuirà ancora » (73), l’utilizzazione del bene giuridico in chiave ermeneutica ha trovato, com’è noto, particolare seguito nella nostra dottrina fin dagli inizi degli anni ’70, nella prospettiva di una generale rivalutazione della nozione di bene protetto nell’ambito di un diritto penale costituzionalmente orientato (74). In proposito, tra le varie obiezioni che in passato sono state opposte alla funzione interpretativa dell’oggetto giuridico (75), acquista un particolare interesse, con riguardo ai problemi di posologia del pericolo, l’os(71) Per la nostra dottrina vd. PARODI-GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, 199 s.; RATIGLIA, Il reato di pericolo nella dottrina e nella legislazione, 1932, 26 s. Per la dottrina tedesca v. DEMUTH, Der normative Gefahrbegriff, Bochum, 1980, 138 s.; HORN, Konkrete Gefährdungsdelikte, Köln, 1973, 154. Cfr. pure NELL, Wahrscheinlichkeitsurteile in juristischen Entscheidungen, Berlin, 1983, 123 s., dove, analizzandosi in generale il concetto di probabilità nelle decisioni giuridiche, si osserva come, superando i criteri ‘fissi’ di determinazione del livello di probabilità, dottrina e giurisprudenza si vadano orientando verso criteri d’inversa proporzionalità rispetto all’entità del danno incombente. (72) Cfr. tra gli altri, BRICOLA, Teoria generale del reato, voce del Nss. dig. it., XIX, Torino, 88; FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, p.g., cit., 106 s.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 55 s.; NAUCKE, Strafrecht, 4. Aufl., Frankfurt a. M., 1982, 96. (73) ANTOLISEI, Il problema del bene giuridico, in Scritti di diritto penale, Milano, 1955, 128. (74) Cfr., tra gli altri, BRICOLA, Teoria generale del reato, voce del Nss. dig. it., XIX, Torino, 1973, 88; MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 219 s.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., 55 s. e passim. (75) Per un quadro sintetico delle critiche di fondo mosse all’utilizzazione del bene giuridico in via interpretativa vd. MANTOVANI, Diritto, penale, p.g., cit., 220.
— 919 — servazione che il bene giuridico non è sufficiente a caratterizzare la singola figura criminosa, in quanto vi sono spesso più reati che tutelano uno stesso oggetto (76). Questo rilievo si fonda su argomenti di logica evidenza, che hanno stimolato a porre in rilievo che « peculiarità del reato non è soltanto il bene giuridico (...), ma anche la modalità di lesione: nei ‘‘reati a condotta vincolata’’ interessa non solo il risultato offensivo prodotto, ma anche il come lo si produce, non costituendo, altrimenti, il fatto illecito penale o neppure giuridico » (77). Sotto questo profilo, possiamo osservare che anche ai fini della graduazione del pericolo la semplice considerazione dell’importanza del bene giuridico è insufficiente, essendo necessario, piuttosto, integrare il giudizio sul pericolo attraverso una valutazione delle varie tipologie normative di aggressione, e cioè del diverso (più o meno immediato) collegamento tra pericolo e lesione in funzione delle differenti modalità di messa in pericolo di uno stesso bene. Così, ad es., se si prende in considerazione il reato di appropriazione indebita, risulta agevole rilevare le scarse difficoltà che in genere si oppongono all’appropriazione di una cosa mobile altrui di cui si ha già il possesso. Situazione che si evidenzia maggiormente qualora si confronti questa fattispecie con quella del furto. Dunque, se si ritiene adeguato un livello generale di ‘‘alte’’ probabilità per la messa in pericolo del bene del patrimonio individuale, data la sua secondaria rilevanza sul piano dei valori costituzionali, risulterà opportuno nel caso di appropriazione indebita tentata abbassare tale soglia a ‘‘quasi alta’’ (78). E similmente, con riferimento all’omicidio del consenziente, se in generale potranno essere considerate sufficienti delle probabilità ‘‘medie, medio-basse’’ per la sussistenza del pericolo per il bene della vita, un livello di probabilità perfino ‘‘medio-basso’’ potrà stimarsi sufficiente qualora si tenti di uccidere una persona che non si oppone (o addirittura collabora) alla propria uccisione (79). Recentemente è stato, tuttavia, riaffermato che « l’importanza del (76) Cfr. ANTOLISEI, Il problema del bene giuridico, cit., 119. (77) MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 220. (78) L’ammissibilità del tentativo di appropriazione indebita è, comunque, discussa. In senso affermativo v., da ultimo, PAGLIARO, Appropriazione indebita, voce del Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, 238. (79) Evidentemente, questa valutazione della facilità di realizzazione della fattispecie tipica risulta più agevole se si confrontano reati che tutelano lo stesso oggetto giuridico contro diverse forme di aggressione. Qualora, invece, siano poche e/o poco significative le altre fattispecie omogenee, bisognerà allora valutare la condotta tipica in sé. Peraltro, questo metodo di determinazione del grado di probabilità esigibile deve ritenersi subordinato rispetto al criterio fondamentale dell’entità del bene protetto, operando una (lieve) variazione in aumento o diminuzione del livello di probabilità già stabilito, qualora vi sia una significativa agevolezza o, viceversa, difficoltà nella realizzazione della fattispecie tipica.
— 920 — bene giuridico rileva in un momento precedente a quello applicativo delle norme, nel momento della loro posizione da parte del legislatore: allora la considerazione del bene giuridico può condurre alla scelta di una penalizzazione della sola lesione di esso o alla creazione di fattispecie di pericolo diretto o perfino indiretto con funzione ausiliaria di tutela, anche a seconda del rango del bene giuridico, e soprattutto può comportare la comminazione di pene diverse per specie e quantità » (80). Così, sulla base di questi rilievi, è stata proposta da questa stessa dottrina una diversa soluzione al problema dell’individuazione del grado di probabilità rilevante. Si è ritenuto, cioè, opportuno procedere alla determinazione del livello di probabilità necessario a integrare le fattispecie di pericolo concreto attraverso l’analisi del loro regime sanzionatorio, distinguendo essenzialmente due gruppi di ipotesi: a) i casi in cui al reato di pericolo corrisponde una fattispecie di lesione o di risultato (e cioè di pericolo che costituisce termine di relazione rispetto a un reato di pericolo indiretto) che esaurisce l’intero disvalore del pericolo di base (in modo da dar luogo a un concorso apparente di reati) (81); b) dalle ipotesi in cui alla fattispecie di pericolo non ne corrisponde una di lesione, ovvero la lesione costituisce una progressione di una parte soltanto del pericolo di base e, non esaurendone il disvalore, dà luogo a un concorso formale con il reato di pericolo (82). In questo modo, mentre nel caso di reati di pericolo inquadrabili nel primo gruppo di ipotesi si è ritenuto di dovere graduare la possibilità in funzione inversa allo scarto di pena (alto, medio o basso) rispetto alle corrispondenti fattispecie di lesione o di risultato (ristabilendo così l’equilibrio sanzionatorio), per i reati di pericolo riportabili alla seconda classe, non risultando operabile un raffronto con altre fattispecie e in assenza di argomenti a favore dell’alta o della bassa probabilità, si è finito col fare riferimento a un livello di media probabilità (83). A questo punto, volendo riferire questi stessi criteri alle ipotesi di tentativo, ne consegue che la misura della probabilità dovrebbe essere fissata su un valore medio, essendo di regola medio lo scarto tra le sanzioni previste per il delitto tentato e per quello consumato (all’ergastolo corrisponde la reclusione non inferiore a dodici anni, mentre negli altri casi si applica la pena stabilita per il delitto consumato, diminuita da un terzo a due terzi) (84). A ben vedere, tuttavia, questo modo di procedere non risulta molto (80) ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., 256. (81) Cfr., ad es., artt. 244, primo e secondo comma, 424, 427, 429, 431, 432, 433, 434, 450. (82) Cfr., ad es., artt. 267, primo comma, 423 cpv., 428, terzo comma, 441, 442, 444, 452 cpv., 677, primo comma. (83) Così ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., 266 s. (84) Non teniamo conto della diminuzione di pena prevista per il pentimento ope-
— 921 — persuasivo. Infatti, l’esposta obiezione che questa dottrina muove alla soluzione della determinazione del grado di pericolo in base all’oggetto protetto, non sembra aggiungere molto alla discussione relativa alla funzione interpretativa del bene giuridico, del quale ci si limita a postulare l’esclusiva importanza prelegislativa senza argomentare le ragioni del dissenso col dominante orientamento contrario. Invero, le preoccupazioni che sottendono alla posizione concettuale qui avversata, e che si concretano (com’è evidente) nel timore di una violazione della legalità formale (con conseguente usurpazione, da parte degli organi giudicanti, di funzioni politico-legislative), pur avendo riguardo a un aspetto tutt’altro che trascurabile, sono forse in gran parte evitabili attraverso la precisazione dei limiti di praticabilità della stessa interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti, come è stato giustamente osservato, limite insuperabile resta l’inalterabilità della tipicità formale dell’illecito, mentre costituisce una semplice operazione di ortopedia giuridica far filtrare i valori costituzionali attraverso i varchi degli elementi elastici (85). Peraltro, anche la soluzione proposta in via sostitutiva di graduare il pericolo facendo riferimento al sistema delle pene rivela delle insufficienze. In tal modo, infatti, se per un verso si appiattisce il grado del pericolo rilevante nelle diverse fattispecie, fissandolo su un livello generale di media probabilità (86), per altro verso si avallano (cristallizzandole) scelte sanzionatorie che sono frutto di valutazioni compiute sessant’anni fa in un diverso clima culturale e istituzionale. Con la conseguenza di richiedere per i tentativi di omicidio, di sequestro di persona o di violenza carnale quella stessa media probabilità sufficiente per i tentativi di furto, di deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi (art. 632) o di ingresso abusivo nel fondo altrui (art. 637). Quindi, ritenendosi basilare il riferimento al bene protetto al fine di fissare il diverso grado delle probabilità necessarie a integrare il requisito dell’idoneità, occorre da ultimo rilevare come in dottrina per la determiroso, perché in tal caso ricorrerebbe una circostanza attenuante, mentre il raffronto sanzionatorio andrebbe effettuato tra fattispecie non circostanziate. Va pure precisato che secondo Angioni circa l’idoneità nel tentativo si dovrebbe utilizzare il concetto di possibilità, e non quello di probabilità. (85) BRICOLA, Teoria generale, cit., 88 (dove si ritiene anche possibile, entro certi limiti, adeguare il bene protetto alle nuove esigenze costituzionali). (86) Ciò accade non soltanto, come si è visto, nelle ipotesi di tentativo, ma anche, più in generale, negli altri reati di pericolo. Infatti, mentre per i reati che noi avevamo riportato sotto la lett. b) — e che corrispondono, nell’opera di Angioni, alle lett. b/2) e c) — è sempre richiesta (come si è visto) una media probabilità, per tutti gli altri reati di pericolo — ricompresi nella nostra lett. a), corrispondente alle lett. a) e b/1) di Angioni —, pur essendo teoricamente possibile un diverso grado di probabilità, un livello medio (come osserva lo stesso Autore) è comunque quello più frequente (cfr. ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., 274 s.).
— 922 — nazione della soglia di probabilità nei reati di pericolo concreto venga fatto riferimento, oltre al criterio dell’importanza dell’oggetto tutelato, anche ad altri indici, quali il tipo di offesa che il bene protetto « potrebbe subire (lieve, grave, gravissima) e talvolta, quando non si tratti di beni personali, ma di interessi patrimoniali, anche la quantità (= numero e/o grandezza dei beni minacciati) » (87). In questo senso, qualora vengano in considerazione beni giuridici suscettibili di aggressioni di diversa gravità (ad es. patrimonio o integrità fisica), sembra opportuno integrare il criterio-base dell’importanza dell’oggetto tutelato attraverso la valutazione dell’entità del danno incombente. Abbassandosi, quindi, il livello di probabilità sufficiente in presenza della minaccia di un danno grave o gravissimo (88). Volendo adesso stabilire il livello di probabilità necessario a integrare l’idoneità degli atti di tentativo nel caso giurisprudenziale oggetto della nostra attenzione, dobbiamo anzitutto determinare la scala di probabilità cui fare riferimento. Ora, come abbiamo già osservato in altra sede, scarsa importanza rivestirebbe il problema se esprimere o meno attraverso un coefficiente numerico il livello delle probabilità, sembrando più consono alle esigenze del diritto penale fare riferimento al paradigma ‘logico’ delle probabilità (89). Per cui assumerebbe rilevanza che la stima probabilistica costituisca il frutto della valutazione dell’incidenza delle diverse circo(87) PARODI-GIUSINO, I reati di pericolo, cit., 199. (88) La soluzione qui prescelta di graduare le probabilità necessarie a integrare il requisito dell’idoneità in ragione dell’entità del bene protetto, viene seguita anche dalla giurisprudenza per quanto attiene alla ricostruzione del nesso di causalità nei reati omissivi, affermandosi che « quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo di un immediato o sollecito intervento (...) sono sufficienti, talché sussiste il nesso di causalità quando un siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell’incuria colpevole del sanitario che ha visitato il paziente » (così Cass. 7 gennaio 1983, Melis, in Foro it., 1986, II, 351 s., con nota di RENDA; analogamente v. Cass. 12 luglio 1991, ivi, 1992, II, 363 s., con nota di GIACONA; 12 maggio 1989, Prinzivalli, in Riv. pen., 1990, 119 s.). Al riguardo, occorre tuttavia rilevare che, mentre in sede di dosometria del pericolo appare opportuno graduare le probabilità in ragione del diverso bene giuridico, venendo così potenziata l’efficacia preventiva delle fattispecie di pericolo, lo stesso ragionamento non sembra ripetibile anche per il giudizio di causalità, nell’ambito del quale non sembra giustificabile l’inserimento di valutazioni assiologiche. Sul punto rinviamo alla nostra nota a sentenza Sull’accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, in Foro it., 1992, II, 363 s. (89) GIACONA, L’idoneità degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’?, cit., 1387 s. V. pure ivi, 1376 s., dove si riferiscono i tre principali concetti di probabilità sviluppati dalla filosofia della scienza: 1) quello statistico, secondo il quale la probabilità consisterebbe nella tendenza al prodursi di frequenze stabili, e andrebbe espressa attraverso un coefficiente numerico in seguito all’osservazione di una serie (più o meno lunga) di prove; 2) quello logicista, in base al quale la probabilità sarebbe costituita dal grado di apprezzamento razionale di un individuo circa il verificarsi di un evento; 3) il concetto soggettivista, secondo il quale l’asserzione probabilistica — al di là delle sue motivazioni razionali — non sarebbe altro che il risultato di uno stato soggettivo di fiducia nell’avverarsi di un evento, esprimibile attra-
— 923 — stanze, agevolanti e ostacolanti, che si sarebbero verosimilmente frapposte alla realizzazione del concreto piano delittuoso dell’agente. Sulla basse di questi presupposti, possiamo allora tracciare la seguente scala delle probabilità: certezza probabilità
— altissime — molto alte — alte — quasi alte — medio-alte — medie, medio-alte — medie — medie, medio-basse — medio-basse ———————————————————— — quasi basse — basse — molto basse — bassissime impossibilità Inoltre, occorre precisare che, se si vuole intendere l’idoneità in termini di probabilità e non di possibilità, dovrà ritenersi sufficiente (in casi del tutto estremi) solo una soglia di probabilità almeno ‘‘medio-bassa’’. E va anche rilevato che, dal punto di vista pratico, i casi di probabilità ‘‘altissime’’ e ‘‘bassissime’’ tendono sostanzialmente a confondersi con le situazioni di ‘‘certezza’’ e di ‘‘impossibilità’’. Ora, riferendoci al tentativo di violenza carnale oggetto della sentenza in esame, se si considerano l’alta rilevanza del bene protetto — libertà sessuale o, secondo altro orientamento, libera disponibilità del proprio corpo (90) — e la particolare dannosità della condotta, si potrebbero ritenere sufficienti già delle probabilità ‘‘medie’’. Tuttavia, se si tiene conto delle non facili modalità di realizzazione del reato in esame, tale livello dovrebbe essere definitivamente elevato a ‘‘medio, medio-alto’’. 9. Criteri orientativi nell’apprezzamento delle probabilità di consumazione nei casi di tentativo. — Non ci resta allora che verificare se tale soglia di probabilità sia sussistente nel caso in esame. A tal fine, dobverso un coefficiente numerico corrispondente al ‘‘prezzo equo’’ che si è disposti a perdere nel caso in cui l’avvenimento stimato probabile non si realizzi. (90) Per un panorama generale della problematica relativa all’individuazione dell’interesse che veniva protetto dall’abrogato art. 519, vd. BERTOLINO, in Commentario breve al codice penale, a cura di CRESPI, STELLA e ZUCCALÀ, 2a ed., Padova, 1992, 1154 ss.
— 924 — biamo sforzarci d’individuare dei criteri attraverso i quali accertare le probabilità della consumazione nelle singole condotte di tentativo. La nostra attenzione dovrà quindi concentrarsi sulla dimensione fattuale del giudizio d’idoneità cercando di enucleare, in applicazione della metodologia logicista, schemi procedimentali utili a fornire una guida nella valutazione del rapporto probabilistico tra condotta realizzata e consumazione. Come si sa, è ormai comune in dottrina l’affermazione secondo cui il giudizio d’idoneità va effettuato in concreto (91). In tal senso, vengono in rilievo non solo i mezzi concretamente utilizzati (o di cui ci si sarebbe serviti), ma anche le modalità del loro effettivo impiego. Infatti, a mezzo concretamente idoneo può corrispondere atto concretamente inidoneo: una pistola ad alta precisione può risultare inidonea per un soggetto che non sa sparare o che ha disturbi visivi o tremori alla mano. Quindi, se nell’economia del giudizio d’idoneità svolge un ruolo in ogni caso significativo l’indagine sui mezzi concreti con i quali si voleva provocare la consumazione, l’oggetto del giudizio deve comunque essere meglio individuato, più in generale, negli atti concreti dell’imputato (92). Ponendoci sempre dal punto di vista della concretezza della valutazione, va pure rilevato che il termine della relazione di probabilità deve essere rinvenuto guardando al momento in cui, secondo il piano concreto dell’agente, si sarebbe ipoteticamente verificata l’integrale realizzazione della fattispecie tipica (93). Per cui, accertati gli atti già compiuti dall’a(91) Cfr., tra gli altri, FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, p.g., cit., 414; MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 444; PAGLIARO, Principi, p.g., cit., 524; PADOVANI, Diritto penale, p.g., 3a ed., Milano, 1995, 347; ROMANO, Commentario, I, cit., 555. Contra MORSELLI, Il tentativo, in Giust. pen., 1988, II, 134 s. Sul punto, ci permettiamo di rinviare (ancora una volta) al nostro articolo L’idoneita degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’?, cit., 1345 s., nt. 35. (92) Non possiamo, perciò, condividere il rilievo che la distinzione tra idoneità dei mezzi e degli atti sia « sotto il profilo puramente semantico più apparente che reale, tant’è che per metterla in luce si deve ricorrere a esemplificazioni comparate nelle quali gli atti idonei (o inidonei) sono indicati senza specificazioni, mentre i mezzi idonei (o inidonei) sono accompagnati dalla qualifica di astratto. Se in quelle stesse esemplificazioni si aggiungesse la medesima qualifica (di astratto) al concetto di ‘atti’ o la si togliesse dal concetto di ‘mezzi’, la non corrispondenza, quanto all’idoneità, tra mezzi e atti verrebbe meno » (ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., 300 s.). In realtà, la nozione di ‘atto’ è più ampia di quella di ‘mezzo’, includendo anche il modo come si utilizza quest’ultimo. A meno che non si vogliano intendere i mezzi come qualunque energia di cui si serve l’agente per realizzare il suo proposito delittuoso. Ma allora il discorso finisce coll’assumere una rilevanza prettamente nominale. Anche se, per evitare che l’attenzione di chi stima l’idoneità si concentri esclusivamente sulla valutazione dei mezzi, trascurando di considerare le altre circostanze (come non di rado avviene), ci sembra comunque preferibile parlare di atti concreti. (93) In proposito, se la dottrina attualmente dominante individua il termine di riferimento del giudizio d’idoneità nell’evento giuridico (così, tra gli altri, E. GALLO, Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Milano, 1966, 196; PETROCELLI, Il delitto tentato,
— 925 — gente, una verifica di fondamentale importanza è costituita dalla ricostruzione dell’intero piano delittuoso, sia nelle modalità in cui era stato progettato, sia secondo la sua più verosimile realizzazione. In proposito, se varia da caso a caso il grado di predeterminatezza del disegno criminoso, è non meno evidente che, anche qualora quest’ultimo venga accuratamente studiato nei sui particolari, è pur sempre possibile, trattandosi di attività future, che nel corso della fase esecutiva sopraggiungano fattori occasionali, in presenza dei quali l’agente è costretto a modificare iter criminis che si era originariamente rappresentato in una direzione che solo per congetture e sulla base di criteri di normalità può essere ipotizzata. cit., 34 s.; SINISCALCO, La struttura del delitto tentato, Milano, 1959, 136 e 157 s.; VANNINI, Reato impossibile, in Scritti giuridici in onore di V. Manzini, Padova, 1954, 476; contra, per la tesi dell’evento naturalistico, vd. MUSOTTO, Corso di diritto penale, I, p.g., Palermo, 1960, 301), va tuttavia osservato che in questo modo si finisce col confondere il requisito dell’idoneità degli atti di tentativo col giudizio sull’offensività di una condotta, dal momento che l’idoneità consisterebbe nell’attitudine a realizzare l’offesa del bene protetto, in mancanza della quale si realizzerebbe l’ipotesi del reato impossibile di cui al secondo comma dell’art. 49 c.p. Con la conseguenza che, anche se ci si pone nella prospettiva tradizionale secondo cui la norma sul reato impossibile sarebbe complementare rispetto all’art. 56, si finirebbe comunque con l’intendere l’art. 49 cpv. come una clausola attraverso cui escludere la punibilità in caso di condotta inoffensiva. Un settore nel quale è particolarmente evidente questa confusione concettuale è costituito dal falso c.d. grossolano. Orbene, se in questo caso si presenta un’ipotesi scolastica di azione formalmente tipica ma inoffensiva, la giurisprudenza, pur respingendo la concezione c.d. realistica, esclude tuttavia comunemente la punibilità di tale condotta facendo allo stesso art. 49 cpv., intendendolo nel senso tradizionale di norma simmetricamente opposta all’art. 56 c.p., e riferendo il giudizio d’idoneità all’evento offensivo (cfr. ad es. Cass. 27 marzo 1992, Bossa, in Riv. pen., 1992, 733 s.; 9 aprile 1992, Ecora, in Giust. pen., 1993, II, 44 s.; 16 gennaio 1990, Perniola, ivi, 1991, II, 74). Al fine di superare questa impasse, occorrerebbe secondo noi assumere a termine di riferimento del giudizio d’idoneità non già l’evento giuridico o quello naturalistico, ma il momento di realizzazione dell’evento naturalistico o del compimento della condotta, a seconda che si tratti di reati rispettivamente di evento o formali. In tal modo, infatti, si eviterebbe di confondere istituti penalistici diversi (pur se collegati), quali il criterio dell’idoneità degli atti di tentativo da una parte, e il requisito dell’offesa del bene giuridico dall’altra. Il primo avrebbe carattere naturalistico, servendo a individuare, nell’ambito dell’iter criminis, gli atti che si pongono in un rapporto di stretta anticipazione rispetto al momento ipotetico nel quale si sarebbero realizzati l’intera condotta nei reati formali e l’evento nei reati di evento. La valutazione della sussistenza dell’offesa implicherebbe, invece, un giudizio assiologico che deve essere effettuato anzitutto dal legislatore in sede di tipizzazione dell’illecito penale; ovvero anche dal giudice in base all’art. 49 cpv., qualora si acceda alle costruzioni proprie della concezione c.d. realistica del reato. Orbene, tale giudizio di offensività riguarderebbe anzitutto i reati consumati. Mentre nel tentativo il problema dell’offensività si porrebbe in termini parzialmente diversi, essendo necessario accertare da una parte se, qualora l’azione si fosse compiuta o l’evento si fosse verificato, si sarebbe realizzata l’offesa; dall’altra, se gli atti di tentativo commessi abbiano effettivamente creato il pericolo della consumazione del delitto programmato. Per queste e ulteriori considerazioni, vd. GIACONA, Appunti in tema di falso c.d. grossolano, innocuo e inutile, in Foro it., 1993, II, 493 s.
— 926 — Accentuandosi cosi ulteriormente il carattere probabilistico del concetto d’idoneità (94). Così, ponendoci dinanzi all’intero procedimento delittuoso, oltre a risultare più semplice l’opera di qualificazione penalistica del fatto che si tentava di realizzare, si renderà più agevole l’individuazione, nella serie di atti e avvenimenti programmati dall’agente, del momento concreto (anche se pur sempre ipotetico) della consumazione. Indagine che, tuttavia, ovviamente presuppone la preventiva risoluzione del problema tecnico-interpretativo (come si sa, non raramente spinoso) della determinazione dell’a(94) Questa ricostruzione del concreto disegno delittuoso si pone, nel corso dell’iter giudiziale di verifica della sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, come un’ulteriore approfondimento del preventivo accertamento del dolo di tentativo: infatti nel « delitto tentato occorre prima accertare l’intenzione, il fine cui l’agente tendeva, lo stesso piano di attuazione, perché solo in rapporto allo specifico fine ed al concreto piano dell’agente è possibile valutare la idoneità e la direzione univoca degli atti » (MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 439 s.). Occorre pure rilevare che la successiva emergenza di un diverso quadro probatorio potrà vanificare tutte le attività di calcolo già compiute e richiedere che ricomincino ex novo le operazioni. Peraltro, si potrebbe ritenere che il diverso grado di predeterminatezza del programma criminoso abbia una diretta incidenza sul livello di probabilità della consumazione, nel senso che la maggiore specificità del piano renderebbe più probabile la riuscita dell’impresa, a causa del più ristretto ruolo della componente improvvisativa. Tale assunto, tuttavia, è stato smentito da alcune indagini statistiche del secolo scorso (sulle quali vd. IMPALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, 2a ed., Torino, 1900, 346 s.), dalle quali è emerso che negli omicidi improvvisi i casi di tentativo sarebbero in proporzione (addirittura) minori rispetto a quanto si verifica nelle ipotesi di premeditazione. E in questa direzione attualmente la dottrina tende a respingere la tesi che il fondamento della premeditazione consista in una situazione di minorata difesa della vittima (vd. PATALANO, Premeditazione, voce dell’Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 1025). Al riguardo, si può osservare che la questione è stata affrontata facendo esclusivo riferimento all’omicidio, a un reato cioè che può essere eseguito anche senza il ricorso a espedienti insidiosi, e nel quale esercitano influenza anche particolari fattori psicologici. Infatti, « forse l’azione subitanea è più adatta di quella meditata a cagionare la morte, perciocché nel primo caso il malfattore trovasi armato in faccia ordinariamente al suo avversario, e non pensando ad altro che a colpire; nel secondo caso va in traccia del suo avversario, e la preoccupazione di non essere scoverto spesso fa sì che egli non colpisca in luogo e modo opportuno. Si aggiunga che il braccio di un uomo irriflessivamente spinto dalla passione è fermo, e il colpo devia più difficilmente che nel caso di chi, agendo con riflessione, ha presente tutta la scelleraggine del misfatto che sta per compiere, di fronte alla quale non può conservare intera la fermezza di animo e di azione, salvo che sia un malvagio straniero ad ogni sentimento morale. La passione criminosa, insomma, che suole dominare l’attentato omicida improvviso, facendo concentrare tutte le potenze fisiche e intellettuali ad un obbietto, e facendole ivi energicamente convergere, costituisce l’agente in una condizione più favorevole di adattamento criminale » (IMPALLOMENI, L’omicidio, cit., 351 s.). Occorrerebbe, allora, un’indagine empirica più ampia e che tenga conto della diversa struttura delle singole tipologie delittuose, per potere valutare la possibilità di attribuire al grado di determinatezza del piano delittuoso una sua reale incidenza ai fini della stima delle probabilità della consumazione.
— 927 — stratta situazione necessaria affinché la fattispecie tipica si realizzi in tutti i suoi elementi. Una volta precisati i termini dell’asserzione probabilistica, occorrerà classificare sulla base delle loro caratteristiche e valutare nella loro diversa incidenza i vari fattori che, ostacolando o agevolando la consumazione, avrebbero esercitato i loro effetti sull’arco d’iter criminis compreso tra il momento d’interruzione della condotta e quello in cui si sarebbero integrati tutti gli elementi della fattispecie. Al riguardo, com’è stato osservato, le « probabilità di raggiungere un risultato aumentano proporzionalmente al numero delle condizioni indispensabili che, via via, vengono poste in essere, col progredire del piano criminoso. E, parallelamente, le probabilità che il soggetto desista dal proposito criminoso diminuiscono via via che la sua azione si sviluppa e si avvicina allo scopo. Ne deriva che tanto maggiore sarà la probabilità di una reale consumazione del delitto perfetto (e, quindi, la pericolosità del tentativo), quanto maggiore sarà il grado di sviluppo della attività criminosa. Viceversa, tale probabilità decrescerà fino a scomparire via via che si scende ai gradi inferiori di sviluppo del piano criminoso » (95). Quindi, quanto più è progredito l’iter criminoso, tanto numericamente minori saranno le circostanze ostacolanti: anche se quelle residue potranno comunque avere una forza risolutiva tale da rendere più o meno improbabile la lesione del bene protetto. a) Un primo gruppo di circostanze (agevolanti o ostacolanti) si può individuare facendo riferimento allo stato dei luoghi, con le persone (diverse dai soggetti, attivo e passivo, del reato) e le cose che vi si trovavano, così come risulta da un esame compiuto riportandosi idealmente al momento in cui i singoli fattori avrebbero esercitato la loro influenza sulla consumazione del reato. L’incidenza di queste situazioni — che possiamo definire ‘‘lato sensu locali’’ — non può che variare da caso a caso, a seconda dei singoli piani delittuosi. Si può però osservare che l’ampiezza della categoria fa sì che esse svolgano frequentemente un ruolo di particolare rilevanza. Peraltro, tali circostanze trascendono l’aspetto puramente spaziale. Infatti, si può essere materialmente vicinissimi all’oggetto del reato senza che in realtà lo si possa aggredire (si pensi al caso di chi vorrebbe rubare un gioiello esposto in una vetrina a resistenza antiproiettile); mentre, come si sa, il proposito criminoso talvolta può anche essere realizzato a distanza (come nell’ipotesi manualistica delle lesioni provocate da un pacco esplosivo spedito da un’altra città). Inoltre, quale sarebbe, in valori metrici, la distanza sufficiente a integrare, ad es., delle medie probabilità di consumazione? (95)
MANTOVANI, Diritto penale, p.g., cit., 446.
— 928 — Invero, nell’economia del giudizio d’idoneità la distanza spaziale sembra avere un’incidenza del tutto relativa, in quanto ciò che effettivamente rileva sono piuttosto sia le difficoltà che si frappongono al raggiungimento di un dato luogo, sia i mezzi di cui si dispone per superare tali ostacoli (96). Sembra quindi preferibile assorbire la considerazione del fattore spaziale nell’ambito dell’analisi delle circostanze locali. Nel senso, cioè, che l’attenzione di chi compie la valutazione probabilistica deve concentrarsi sulle situazioni ostacolanti o agevolanti attinenti allo stato dei luoghi; mentre la distanza che separa l’agente e/o i suoi mezzi offensivi dalla vittima e/o dall’oggetto materiale del reato rileverà soltanto nel contesto più generale di tali circostanze. Per questi motivi, non ci sembrano condivisibili quelle recenti pronunzie giurisprudenziali che attribuiscono una diretta importanza, ai fini della determinazione della soglia di punibilità, alla distanza tra il luogo in cui si trovava l’agente al momento d’interruzione della condotta e quello in cui il delitto si sarebbe consumato. Per questa via, infatti, si può pervenire ad affrettate valutazioni in ordine alla sussistenza o meno del pericolo, trascurando (o persino tralasciando) l’analisi delle singole circostanze ostacolanti o agevolanti nella loro diversa efficienza causale (97). b) Al di là di queste situazioni ‘‘lato sensu locali’’, ve ne sono altre, di vario tipo, ma comunque caratterizzate dalla loro natura, oggettiva. Si pensi, ad es., alla facilità di emanazione, da parte del pubblico ufficiale, dell’atto contrario ai doveri del suo ufficio nella corruzione propria ante(96) Tale relatività della dimensione spaziale è particolarmente evidente se si pensa all’evoluzione dei mezzi di comunicazione che si è registrata nel corso di questo secolo, con tutte le conseguenze che sono scaturite in ogni settore dall’intensificarsi dei contatti interpersonali. Ovviamente, è del tutto diverso colmare una determinata distanza a piedi, in automobile o in aereo. E anche qualora ci si avvalga, ad es., dell’automobile, occorrerà valutare la sua potenza, il tipo di strada da percorrere e il suo stato di manutenzione, le condizioni di traffico al momento del transito, ecc. (97) Ci riferiamo, in particolare, alla già citata (a nt. 17) sentenza Cass. 12 gennaio 1989, Pani, dove si afferma che « il tentativo punibile deve essere connotato da una prossimità logica e cronologica rispetto alla consumazione del reato, nel senso che non si può parlare di idoneità ed univocità quando sussiste un rilevante distacco temporale e spaziale tra l’azione posta in essere e la fase conclusiva del piano » (c. 651 — il corsivo è nostro): pervenendosi, così, a ritenere non punibili gli imputati che, volendo realizzare una rapina, erano stati fermati, a bordo di una Mercedes e forniti di armi e maschere, a una distanza di circa 30 km. dal luogo in cui si trovava la vittima col denaro. Ora, non mettiamo qui in discussione le conclusioni adottate dalla Corte in ordine all’assenza del tentativo e del pericolo. Ciò che invece non possiamo condividere è, piuttosto, l’argomentazione a tal fine utilizzata, che fa leva esclusivamente sul fattore spaziale (e su quello cronologico, del quale ci siamo già occupati sopra, nel par. 3). Infatti, se si considera che gli imputati viaggiavano in Mercedes su una strada statale, la distanza di 30 km. avrebbe potuto essere colmata in meno di mezz’ora (tempo comunque variabile in funzione di altre condizioni: come la presenza o meno nella strada di traffico, di lavori in corso, di curve, ecc.).
— 929 — cedente; o all’entità della somma di denaro richiesta in caso di tentata estorsione (una cifra esagerata e irragionevole, anche rispetto alle condizioni economiche della vittima, è più difficile che venga corrisposta). Si tratta di situazioni di carattere sì residuale sotto il profilo della loro definizione concettuale: e che, pertanto, possiamo definire ‘‘oggettive, non locali’’; ma che tuttavia, dal punto di vista della loro incidenza, possono anche svolgere un ruolo particolarmente significativo ai fini della realizzazione dell’intenzione dell’agente. c) ‘‘Circostanze soggettive’’ possiamo poi definire quell’insieme di situazioni che riguardano i soggetti, attivi e passivi, del reato, sia sotto l’aspetto quantitativo (una pluralità di agenti rende spesso più agevole la consumazione del delitto), sia sotto quello qualitativo. Da quest’ultimo punto di vista, possono assumere rilievo, ad es., le occupazioni lavorative, l’età, la posizione sociale, lo stato di salute fisica, i rapporti intercorrenti tra vittima e imputato, ecc. E ci si potrebbe spingere fino a includere nella base di giudizio fattori di ben più complesso accertamento quali le attitudini caratteriali e intellettive. Così, si potrebbe stimare maggiore il rischio di consumazione qualora il destinatario di minacce fosse sofferente di turbe nevrotiche tali da ridurre le sue capacità di opporsi o resistere alle richieste dell’estortore; e, al contrario, ritenere più probabile la realizzazione di un’attività violenta se tentata da persona affetta da alterazioni psicopatologiche tali da determinare uno stato di particolare aggressività. A questo punto, tuttavia, l’indagine sui fattori di aumento o diminuzione del pericolo di consumazione del delitto diventa estremamente delicata, riguardando la sfera psicologica. E alle (enormi) difficoltà di valutazione della personalità dell’uomo e di prognosi dei suoi comportamenti (98), se ne aggiungono altre di natura estrinseca, essendo come si sa precluso al giudice penale il ricorso alla perizia psicologica (99). La (98) Come viene attualmenta riconosciuto da parte degli stessi psicologi, niente « è più difficile che giudicare la giustezza delle affermazioni psicodiagnostiche fatte su una persona » (e cioè degli accertamenti, svolti soprattutto in prospettiva prognostica, delle caratteristiche psicologiche permanenti di un individuo). Infatti, « il valore della psicodiagnostica nel campo della personalità globale dà risultati piuttosto contraddittori negli esami di controllo. Si può dire con sicurezza che il valore d’una affermazione, la quale si regge soltanto su un test, in linea di massima è scarso, ma che il giudizio su una persona, in rapporto ad un qualsiasi aspetto psicologico basato su metodi scientifici (applicazione di parecchi test), è più sicuro che non senza l’uso di tali metodi. Per un certo tempo l’efficacia di questi metodi è stata sopravvalutata; oggi si conosce meglio il campo delle loro applicazioni e l’interpretazione dei risultati aumenta in attendibilità e capacità di differenziazione in proporzione al continuo aumento dell’estensione delle conoscenze scientifiche » (MEILI, Psicodiagnostica, in Dizionario di psicologia, a cura di ARNOLD, EYSENCK e MEILI, Cinisello Balsamo, 1986, 908 s.). Per un quadro sintetico dei vari metodi di previsione dei comportamenti umani, vd. SCHNEIDER, Prognosi, in Dizionario di psicologia, cit., 888. (99) Com’è noto, tale divieto è stato ribadito dall’art. 220, secondo comma, del
— 930 — consistenza degli ostacoli che si presentano e l’incertezza dei risultati ottenibili scoraggerebbero l’utilizzazione di questo tipo di fattori. Anche se non sembra che si debba escludere che il giudice, operando con estrema cautela, possa ricercare (nei limiti consentiti dal sistema processuale) elementi che, considerati non singolarmente ma nel contesto generale delle altre circostanze, possano avere una qualche influenza ai fini della prognosi probabilistica. La classificazione delle varie circostanze che abbiamo qui effettuato è evidentemente solo una di quelle possibili. Da una parte, essa risponde all’esigenza di agevolare la ricerca dei singoli fattori rilevanti ai fini dell’elaborazione logica del grado di probabilità. In realtà, ciò che importa è che si tenga conto di ‘‘tutte’’ le situazioni (salve le eventuali limitazioni derivanti dalla base del giudizio, problema del quale non ci occuperemo in questa sede); evitando, ovviamente, di prendere in considerazione due volte la stessa circostanza. In questo senso, allora, un peso relativo rivestono le difficoltà che possono presentarsi circa l’appartenenza di una situazione a uno o a un altro gruppo. D’altra parte, le categorie che abbiamo individuato possono essere anche utilizzate al fine di rendere più semplici le operazioni di quantificazione delle probabilità. Infatti, per evitare che il giudizio venga a frammentarsi in tante asserzioni quante sono le singole circostanze, col rischio di perdere di vista la situazione complessiva, sembra opportuno effettuare la stima più in generale con riferimento a ogni gruppo di condizioni. Cominciando da quello che, considerate le particolari modalità del singolo piano delittuoso, presenta una maggiore incidenza; e operando aumenti o diminuzioni di tale valore provvisorio in base a quanto emerga dall’esame delle altre classi. Procedimento che spesso comporta si debba iniziare dalle circostanze ‘‘lato sensu locali’’: sia per l’ampiezza della categoria, sia per il peso che frequentemente tali condizioni esercitano sulla realizzazione del piano concreto. Mentre qualora non vi sia una classe di situanuovo codice di procedura penale, nonostante l’opposta soluzione del progetto del 1978 e del progetto preliminare al codice vigente. Si è così data risposta ai timori di manipolazione dell’individuo nutriti da alcuni settori della scienza del processo penale (cfr.. ad es., CORa DERO, Codice di procedura penale commentato, 2 ed., Torino, 1992, 269); deludendo, tuttavia, le aspettative dei criminologi, del resto non rappresentati in seno alla Commissione ministeriale (v. la reazione di CANEPA, Questioni medico-legali in tema di perizia sulla personalità, in rapporto al nuovo codice di procedura penale, in Rass. it. criminol., 1990, 173 s.). Per un’ampia esposizione dell’iter legislativo e dottrinario in materia, vd. B. PANNAIN, ALBINO e M. PANNAIN, Il giudizio « tecnico » sulla personalità dell’imputato, in Arch. pen., 1987 (Studi in memoria di Remo Pannain), 101 s. Si deve pure ricordare che in giurisprudenza si ritiene che il divieto di perizia psicologica debba essere esteso, per analogia di ratio, anche nei riguardi della parte offesa (cfr. Cass. 23 febbraio 1988, Giacomin, in Riv. pen., 1988, 1210; 21 marzo 1985, Zimbardo, ivi, 1985, 1139).
— 931 — zioni prevalente, si dovranno effettuare stime separate per ogni gruppo, delle quali verrà poi calcolato il valore medio. Possiamo ancora osservare che nell’ordinamento penale sono ravvisabili certe circostanze di reato che, riguardando la maggiore o minore facilità di aggressione del bene protetto, implicano, secondo la logica formalizzata della legge, un aumento o una diminuzione del pericolo. Servendoci della distinzione posta dall’art. 70 tra circostanze oggettive (riguardanti cioè « la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione ») e soggettive (che concernono « le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole »), come esempio delle prime possiamo addurre gli artt. 61 n. 5 (« l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa »), 339, primo comma (« se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte »), 577, primo comma, n. 2 (se l’omicidio è commesso « col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso ») e 640, secondo comma, n. 2 (« se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità »). Mentre come esempi di circostanze soggettive si possono indicare gli artt. 61 n. 11 (« l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità ») e 564, terzo comma (« se l’incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore degli anni diciotto », in quanto lo stato di minore età rende spesso più agevole la commissione del reato, a causa della maggiore influenzabilità psicologica del minore) (100). Quindi, se la distinzione codicistica delle circostanze in oggettive e soggettive può in qualche modo essere accostata alla ripartizione che abbiamo operato delle varie situazioni rilevanti ai fini della stima delle probabilità (101), per altro verso una variazione d’intensità del pericolo è già insita nella presenza nella fattispecie concreta di circostanze il cui fonda(100) Meno agevole è, invece, trovare nel codice penale ipotesi relative a circostanze attenuanti. Un esempio, tuttavia, può essere offerto dall’art. 311 — dove si prevede che le pene comminate per i delitti contro la personalità dello Stato « sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione (...), il fatto risulti di lieve entità » —, il contenuto delle cui ipotesi, pur essendo alquanto generico, può comunque essere integrato attraverso l’analisi della casistica giurisprudenziale. (101) Alle circostanze di reato oggettive corrispondono le nostre situazioni ‘‘lato sensu locali’’ e ‘‘oggettive non locali’’. Mentre tra le situazioni ‘‘soggettive’’ abbiamo preferito includere anche quelle attinenti al numero dei soggetti, al fine di dare maggiore consistenza alla categoria.
— 932 — mento risiede (anche) nella diversa facilità di aggressione del bene protetto (102). Peraltro, tali circostanze andranno valutate insieme alle altre situazioni e alla stregua degli stessi criteri (103). Motivo per cui, così come rientrano nella base del giudizio d’idoneità sia le situazioni che si sono già avverate sia quelle che si sarebbero prospettate se l’esecuzione del programma delittuoso non fosse stata interrotta, allo stesso modo dovranno formare oggetto di valutazione anche quelle circostanze di reato che solo in via ipotetica si sarebbero verificate (104). Anche se il fatto che la circostanza si sia già realizzata non potrà restare ininfluente, ricorrendo in questo caso una modificazione attuale del rischio di consumazione, della quale bisognerà tener conto nella formazione della decisione. Inoltre, non è neanche necessario che si tratti di una circostanza di reato vigente nel nostro ordinamento al momento del giudizio. Infatti, ai fini della valutazione delle probabilità potranno essere ‘‘applicate’’ anche ipotesi normative ormai abrogate. Come ad es. l’art. 404, n. 2, del codice Zanardelli, dove si stabiliva un aumento di pena qualora il furto fosse stato commesso « profittando della facilità derivante da disastri, da calamità, da commozioni pubbliche o da particolare infortunio del derubato ». E ci si potrà spingere a considerare anche circostanze di reato contenute in norme penali (vigenti o nieno) di ordinamenti stranieri. Facendosi riferimento, ad es., alla situazione di cui al § 244, n. 3, StGB, che stabilisce, (102) Si deve avvertire che non mancano casi in cui una circostanza, che pure faccia riferimento a una situazione di maggiore o minore facilità di consumazione del reato, risponda in realtà a finalità del tutto diverse. Come accade nel caso dell’art. 62, n. 5, dove si prevede una diminuzione di pena pur in presenza di una situazione più favorevole alla realizzazione dell’impresa criminosa, essendo « concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa ». Qui l’attenuante trova il suo fondamento esclusivamente nella minore colpevolezza dell’agente. Quindi, in presenza di una circostanza che tipicizzi una condizione di maggiore o minore facilità di realizzazione della consumazione, occorrerà anzitutto verificare se la sua ratio giustificativa risieda (anche) in tale elemento, e solo in caso affermativo considerare la ricorrenza di tale circostanza un fattore di aumento o diminuzione delle probabilità a seconda che si tratti, rispettivamente, di circostanza aggravante o attenuante. Altrimenti, si dovranno stimare maggiori le probabilità di consumazione pur in presenza di un’attenuante (come accade nell’ipotesi dell’art. 62, n. 5), e viceversa. (103) È appena il caso di avvertire che la presenza di una circostanza del tipo indicato non implica in sé alcuna presunzione di sussistenza (se si tratta di aggravante) o di mancanza (in caso di attenuante) del pericolo, costituendo più semplicemente un indice di maggiore o minore probabilità (anche se talvolta piuttosto significativo: si pensi al furto aggravato dall’introduzione in luogo di abitazione — art. 625, n. 1 —), da sottoporre al giudizio di comparazione con gli altri elementi probatori. Con ciò quindi vogliamo ancora una volta ribadire il punto di vista dal quale siamo partiti: la natura logica del giudizio di probabilità. (104) Infatti, non viene qui in considerazione il problema dell’ammissibilità del c.d. delitto circostanziato tentato, trattandosi non di operare una variazione di pena per circostanze di reato non realizzate, ma di apprezzare l’effettiva pericolosità di certe situazioni concrete avvalendosi delle valutazioni logiche effettuate astrattamente dal legislatore.
— 933 — sempre per il reato di furto, una pena maggiore per chi « come membro di una banda che si è formata per la commissione in modo continuato di rapine o furti, ruba col contributo di un altro membro della banda ». Ovvero alla circostanza aggravante del peculato già prevista dall’abrogato § 351, StGB, riguardante il caso in cui « il funzionario, in relazione alla indebita appropriazione, abbia tenuto in modo irregolare, falsificato o soppresso conti, registri, o libri destinati alla trascrizione o al controllo delle entrate o delle spese, oppure abbia presentato bilanci, estratti, registri o libri inesatti ovvero abbia esibito di essi inesatti, quietanze; o, in relazione all’indebita appropriazione, abbia falsamente indicato su recipienti, borse o pacchi il contenuto in denaro ». 10. Valutazione delle probabilità di consumazione nell’ipotesi giurisprudenziale in esame. — Da quanto abbiamo fin qui esposto dovrebbe emergere ormai chiaramente come i criteri di accertamento delle probabilità di consumazione possono funzionare soltanto laddove ci si ponga dinanzi al fatto nella sua realtà concreta. In questa prospettiva, allora, il soggetto che si trova in una posizione privilegiata per il compimento di tale valutazione è il giudice, che può disporre di tutti mezzi di prova che ritiene utili alla ricostruzione delle concrete modalità del fatto. Nei lavori dottrinari, invece, di scarso aiuto risultano gli « esempi paradigmatici, cioè assurti a oggetto precipuo di riflessione scientifica, [di cui] la storia della dottrina è piena, forse per una sorta di rivincita della dimensione concreta sul mondo astratto dei princìpi concettuali » (105): si tratta, infatti, di situazioni ipotetiche che, ideate per sostenere o confutare determinati assunti teorici e contenendo un quadro dei fatti estremamente semplificato e unilaterale, risultano largamente inadeguate a essere sottoposte a un giudizio, come quello di prognosi probabilistica, che presuppone una realtà ben più articolata e complessa. Dunque, nella ricerca di situazioni descritte in modo più circostanziato, non possiamo far altro che rivolgere la nostra attenzione all’esperienza giurisprudenziale. Tuttavia, i testi delle sentenze presentano di regola un’esposizione dei fatti troppo sommaria e frettolosa, sulla spinta di prevalenti preoccupazioni concettuali in ordine all’interpretazione dell’art. 56 e al suo carattere innovativo o meno rispetto al precedente disposto dell’art. 61 del codice Zanardelli. Ciò si verifica anche nella sentenza in esame, nella quale i giudici della Cassazione, invece di soffermarsi sull’analisi delle modalità di realizzazione dei fatti (eventualmente rinviando al giudice di merito per lo svolgimento di ulteriori indagini), hanno desunto la sussistenza del tentativo dal principio secondo cui la realizzazione della (105)
ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., 45 nt. 21.
— 934 — minaccia avrebbe costituito già inizio di esecuzione della fattispecie di violenza carnale. Di conseguenza, non avendo a disposizione i fascicoli del processo (con i relativi verbali di polizia, perizie, ecc.), né potendo ovviamente tanto meno acquisire direttamente elementi d’informazione attraverso interrogatori, ispezioni, ecc., non possiamo far altro che porre in evidenza quelle circostanze che, pur essendo più o meno rilevanti ai fini del giudizio di probabilità, non sono state descritte nella sentenza in esame, e completare il quadro dei fatti sul quale lavorare ipotizzando la sussistenza di determinate situazioni — con un processo di astrazione del tutto involontario e necessitato soltanto dalla carenza del materiale di analisi. In particolare, nel testo della sentenza che si esamina i giudici della Cassazione si sono limitati a riferire che, in seguito a denunzia, era stato addebitato all’imputato « di avere compiuto atti idonei e diretti a costringere la Torna, con la quale aveva avuto una relazione sessuale, ad avere con lui ulteriori rapporti carnali, con la minaccia di inviare a parenti della donna foto compromettenti scattate in occasione dei loro precedenti incontri, minaccia che aveva poi attuato, inviando alcune foto alla suocera ed al cognato della Torna ». In sostanza, dei fatti compiuti dall’imputato ai giudici della Cassazione interessava soltanto la circostanza che l’imputato avesse già realizzato la minaccia sufficiente a integrare il principio di esecuzione della fattispecie di violenza carnale. Sicché, omettendo di motivare in ordine alla sussistenza dell’idoneità e dell’univocità degli atti e alla questione relativa al superamento da parte del legislatore del ’30 della distinzione preparazione/esecuzione, potrebbe sembrare che la Corte di cassazione abbia effettuato anzitutto un apprezzamento intuitivo dei fatti, per poi motivare la decisione di condanna facendo ricorso alla formula del principio di esecuzione. Ora, ponendoci dinanzi al fatto concretamente realizzato dall’imputato, emerge il ruolo fondamentale che riveste la minaccia al fine di valutare le probabilità di realizzazione della violenza carnale, dovendosi in sostanza accertare l’incidenza che l’intimidazione avrebbe avuto nel coartare la volontà della vittima. In tal senso, un peso centrale nell’economia del fatto così come succintamente descritto dalla Cassazione sembrano esercitare le circostanze ‘‘soggettive’’, relative cioè alle qualità dei soggetti, attivo e passivo, del reato: per cui appare opportuno cominciare proprio con l’apprezzamento di queste situazioni per poi valutare l’incidenza delle altre circostanze. A tal fine, occorre anzitutto considerare le situazioni attinenti allo status familiare della donna destinataria delle minacce. Dalla esposizione dei fatti contenuta in sentenza si evince che la donna destinataria della minaccia era sposata, dal momento che le fotografie scattate in occasione dei
— 935 — suoi rapporti sessuali con l’imputato e che si minacciava d’inviare ai parenti della vittima, vennero poi effettivamente spedite « alla suocera e al cognato della Torna ». In proposito, una domanda che anzitutto sorge spontanea è perché le fotografie non siano state spedite direttamente al marito quale soggetto maggiormente interessato. La sentenza non fornisce spiegazioni sul punto, che avrebbe potuto tuttavia essere agevolmente accertato dai giudici di merito e che si profila di particolare incidenza. Supponiamo che il marito fosse stato vivo e convivente con la donna destinataria della minaccia e che l’imputato si fosse limitato a inviare le fotografie al cognato e alla suocera di lei per attuare in modo graduale l’intimidazione e/o pensando che la lettera avrebbe potuto essere intercettata dalla vittima della minaccia. In questo caso l’intimidazione avrebbe presentato una particolare gravità, e ciò soprattutto nel caso in cui si fosse trattato di coniugi conviventi, per le evidenti ripercussioni se non altro ai fini dell’addebitamento della separazione e dell’affidamento dei figli minori. Potremmo tuttavia anche ipotizzare che la vittima fosse divorziata o che il marito fosse morto. In questo caso, la forza coattiva della minaccia sarebbe stata ben minore, dal momento che la donna sarebbe stata libera di avere nuovi rapporti sessuali e non avrebbe dovuto risentire particolari danni economici dalla spedizione delle foto. In mancanza di notizie in proposito, diamo per accertato che la destinataria delle minacce fosse sposata e convivente col marito. Del resto, se la donna non avesse avuto più il marito, quale ragione avrebbe avuto l’imputato di spedire le fotografie ai parenti del marito e non a quelli di lei? Sempre dal punto di vista soggettivo rileva anche la professione e la posizione patrimoniale della vittima (106), al fine di valutare il suo grado di dipendenza economica dal marito e l’incidenza che avrebbe potuto avere un eventuale provvedimento di separazione o di divorzio. Non disponendo neppure di questi dati (anch’essi facilmente reperibili da parte dei giudici di merito), siamo costretti pure qui a procedere secondo immaginazione, dando per accertato che la donna non fosse proprietaria d’immobili e che lavorasse come impiegata in una banca, percependo una retribuzione medio-bassa. Tra le circostanze ‘‘soggettive’’ occorre includere pure i motivi che avevano indotto la vittima a farsi fotografare. Tralasciamo l’ipotesi che la vittima avesse fatto ciò per denaro, essendo dedita alla prostituzione o facendo la pornomodella (nel qual caso sarebbero state certamente più (106) Le condizioni economiche della vittima potrebbero essere qualificate anche come situazioni ‘‘oggettive non locali’’. Tuttavia, come avevamo osservato, la ripartizione delle circostanze nelle tre categorie che abbiamo tracciato ha un’importanza relativa, servendo soltanto a rendere più agevole il giudizio di probabilità. Ciò che importa, piuttosto, è che non si ometta di considerare delle circostanze rilevanti.
— 936 — basse le probabilità d’intimidazione dalla minaccia di divulgare le foto). Supponiamo invece che la donna si fosse fatta fotografare per libidine e/o per dare di sé al partner un ricordo duraturo d’incontri fugaci e clandestini. In questo caso sarebbe certamente più probabile che la donna, colta da successiva vergogna, avrebbe ceduto alle minacce dell’imputato. Quindi, volendo ora trarre una valutazione complessiva di queste circostanze soggettive, possiamo dire che erano ‘‘alte’’ le probabilità di consumazione della violenza carnale. Se passiamo poi a considerare le circostanze ‘‘oggettive non locali’’, emerge anche qui l’insufficienza e la lacunosità del quadro dei fatti esposto in sentenza. Non conosciamo infatti le modalità con cui venne fatta la minaccia, e cioè se fosse consistita in un solo atto o in più atti ripetuti nel tempo; né sappiamo se la minaccia avesse riguardato il compimento di una sola congiunzione carnale, in seguito alla quale le fotografie sarebbero state restituite. Facciamo anche qui riferimento alla situazione razionalmente più normale, dando per accertato che la vittima della minaccia avesse cercato di ‘contrattare’ le modalità di restituzione delle foto, ottenendo di dovere sottostare a un solo rapporto sessuale. In questo caso le probabilità di consumazione della violenza carnale sarebbero state assai elevate, soprattutto se si considera che la ‘controminaccia’ della donna di denunziare il fatto all’autorità giudiziaria sarebbe risultata alquanto debole, dal momento che avrebbe comportato che si sarebbe comunque venuto a sapere dei suoi rapporti sessuali ‘illustrati’ con l’imputato. Di conseguenza, supponendo un simile quadro delle circostanze ‘‘oggettive non locali’’, si dovrebbero elevare a ‘‘molto-alte’’ le probabilità di consumazione della violenza carnale già provvisoriamente fissate. Livello che si può ritenere definitivo, se si esclude la sussistenza di situazioni ‘‘lato sensu locali’’ rilevanti (107). 11. Rilievi conclusivi. — Siamo così pervenuti alla conclusione che nel caso concreto che abbiamo esaminato sarebbe ipotizzabile un livello di probabilità di realizzazione del delitto consumato ben superiore rispetto a quello ‘‘medio, medioalto’’, che avevamo ritenuto sufficiente a integrare la fattispecie di violenza carnale. E ciò in quanto la minaccia dell’imputato di divulgare le fotografie oscene avrebbe avuto nella situazione concreta una sua particolare forza coattiva. Peraltro, per pervenire al risultato della punibilità abbiamo presupposto la sussistenza di una serie di circostanze immaginate facendo riferimento a situazioni di normalità. Do(107) Si potrebbe pensare che possa incidere sulla gravità della minaccia la circostanza che le vicende si fossero svolte in un piccolo centro o in una grande città, nel senso che in un paese risulterebbe più difficile vivere dopo la divulgazione di tali fotografie. Ma si tratta di una considerazione forse opinabile, dalla quale per semplicità possiamo prescindere supponendo che le vicende si siano svolte in un centro di medie dimensioni.
— 937 — vrebbe allora risultare evidente la relatività del giudizio di probabilità rispetto al caso concreto. Per cui può ben darsi che, in presenza di altre circostanze, avremmo potuto concludere in senso assolutorio (si pensi al caso in cui la donna fosse stata notoriamente dedita alla prostituzione e si fosse fatta fotografare per denaro). Ora, il problema del grado di concretezza della valutazione d’idoneità coinvolge le questioni del ‘momento’ e della ‘base’ del giudizio (108). Se possiamo già sin da ora affermare che l’idoneità debba essere valutata ex ante, dal momento che ex post non sussisterebbe né il danno né il pericolo, particolarmente spinosa si presenta la questione relativa alla ‘base’ del giudizio, dovendosi stabilire se occorra effettuare la prognosi probabilistica secondo criteri di normale prevedibilità o considerando tutte le circostanze conoscibili esistenti al momento del fatto, anche se conosciute in seguito (109). Ma di questo problema ci occuperemo in un momento successivo. Peraltro, come si sarà notato, nel corso di questo lavoro abbiamo fatto esclusivo riferimento al concetto d’idoneità, tralasciando di considerare l’elemento, non meno importante, dell’univocità. Di conseguenza — lasciando impregiudicato il problema della sussistenza nel caso in esame di quest’ultimo requisito — nella prosecuzione di questo studio ci proponiamo di occuparci anche del coordinamento tra i due criteri previsti dall’art. 56 ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo del tentativo. IGNAZIO GIACONA Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Palermo
(108) Ci riferiamo all’ormai nota terminologia adoperata da ANGIONI, Il pericolo concreto, cit. (109) Nel caso che abbiamo esaminato non si ponevano tali difficoltà, dal momento che la ‘base parziale’ del giudizio essenzialmente coincideva con quella ‘totale’ e le circostanze esistenti al tempo del fatto erano in sostanza anche quelle conoscibili da un osservatore fornito di medie conoscenze.
ORDINE DI ESECUZIONE ERRONEO E DETENZIONE INGIUSTA
1. L’‘‘erroneità’’ dell’ordine di esecuzione quale nuova situazione legittimante la riparazione per l’ingiusta detenzione. — Com’è noto, la sentenza costituzionale n. 310 del 1996, dichiarando parzialmente illegittimo l’art. 314 c.p.p. ha esteso il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione a chi abbia subito tale detenzione a causa di un « erroneo » ordine di esecuzione (1). In precedenza l’art. 314 c.p.p. individuava quale unico presupposto del diritto alla riparazione l’ingiusta detenzione subita, sub specie di custodia cautelare, vuoi dal prosciolto con sentenza irrevocabile (ovvero da colui nei cui confronti sia stato pronunciato provvedimento di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere) ‘‘perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato’’ (c.d. custodia ‘‘sostanzialmente ingiusta’’), vuoi dal prosciolto o dal condannato (o da colui nei cui confronti sia stato pronunciato provvedimento di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere) ‘‘quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280’’ (c.d. custodia ‘‘formalmente ingiusta’’) (2). (1) L’aggettivo ‘‘erroneo’’ è espressamente utilizzato da Corte cost. 18 luglio 1996 n. 310, in Giur. cost., 1996, p. 2557 dichiarativa dell’illegittimità, per violazione degli artt. 3 e 24 comma 4 Cost., dell’art. 314 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione’’. (2) La distinzione fra ingiustizia sostanziale e ingiustizia formale della custodia cautelare è formulata dalla Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (G.U. 24 ottobre 1986, suppl. ord. n. 2), in LEX, 1988 n. 44-bis, suppl. n. 2, pp. 475-476, osservando, con riguardo alla seconda ipotesi, che ‘‘qui non viene necessariamente in evidenza un profilo di ‘‘ingiustizia’’ sostanziale della restrizione subita dall’imputato, mentre è evidente la sua ‘‘illegittimità’’ (cioè, per così dire, la sua ‘‘ingiustizia’’ formale), ed anche quest’ultima situazione viene assunta a presupposto del diritto alla riparazione in capo all’imputato medesimo’’. V. inoltre Gius. AMATO, in AMODIO-DOMINIONI, Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. III, 1991, p. 228 e ss.; COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, 1993, p. 155; MONTALDI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coord. da
— 939 — La Corte costituzionale ha ritenuto che la diversità tra le situazioni di chi ‘‘abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare che in prosieguo sia risultata iniqua’’ e di chi ‘‘sia rimasto vittima di un ordine di esecuzione arbitrario’’ non giustificasse il trattamento discriminatorio operato dal legislatore col riconoscere il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione solo al primo e non al secondo di tali soggetti. A sostegno di tale conclusione la Corte ha invocato l’art. 2 n. 100 della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale e l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, i quali collegano il diritto alla riparazione all’‘‘ingiusta detenzione’’ genericamente intesa, senza limitazioni dipendenti dal titolo, provvisorio o definitivo, della detenzione stessa. Né, sempre secondo la Corte, potrebbe sostenersi che colui, il quale è stato detenuto in forza di un ordine di esecuzione erroneo, ha diritto soltanto all’azione risarcitoria prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117 (risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), posto che l’art. 14 di questa fa espressamente salvo il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione, pertanto configurando il diritto al risarcimento come un rimedio non esclusivo, ma concorrente con la riparazione. Infine, al riconoscimento del diritto alla riparazione per la detenzione seguita ad ordine di esecuzione erroneo non osta la mancanza di una disciplina legislativa concretizzatrice di tale diritto, giacché questa esiste e va individuata proprio nell’art. 314 c.p.p. (3). 2. L’ordine di esecuzione emesso in assenza di valido titolo esecutivo. — L’inclusione dell’ingiusta detenzione per ‘‘erroneità’’ dell’ordine di esecuzione fra le situazioni legittimanti la riparazione pone anzitutto il problema di chiarire cosa debba intendersi per ordine ‘‘erroneo’’. Primo ed imprescindibile presupposto dell’esecuzione penale è il ‘‘titolo esecutivo’’, cioè, quando si tratti di eseguire una pena detentiva, una sentenza irrevocabile (e dunque esecutiva ex artt. 648 e 650 c.p.p.) di CHIAVARIO, vol. III, 1990, p. 309 e ss.; SCOMPARIN, La riparazione per l’ingiusta detenzione, in CHIAVARIO-MARZADURI, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale - Libertà e cautele nel processo penale, 1996, pp. 402 e ss. (3) L’obiezione circa la necessità di una disciplina legislativa concretizzatrice del principio costituzionale della riparazione dell’errore giudiziario (di cui la riparazione per la detenzione ingiusta rappresenta un aspetto) era stata sollevata da Corte cost. n. 1 del 1969, in Giur. cost., 1969, p. 1 (con nota di CHIAVARIO, La riparazione alle vittime degli errori giudiziari in balida del legislatore ordinario?, che su tale base aveva escluso il diritto alla riparazione per la detenzione ingiusta nel vigore del codice del 1930.
— 940 — condanna, il cui dispositivo reca l’ordine di assoggettare il condannato a tale pena (4). Pertanto, sulla legittimità dell’ordine di esecuzione di pena detentiva incidono in primo luogo i vizi del titolo esecutivo (5), i quali, come si evince dall’art. 670 c.p.p., disciplinante le ‘‘questioni sul titolo esecutivo’’ attribuite alla competenza del giudice dell’esecuzione, possono ricondursi a tre ipotesi: a) titolo mancante; b) titolo non esecutivo; c) titolo solo apparentemente esecutivo. a) Per ‘‘titolo mancante’’ si intende quello inesistente materialmente (pensiamo ad una sentenza mai pronunciata) o giuridicamente (è il caso della sentenza emessa da chi non è giudice o da un giudice in stato di coartazione fisica o psichica o pronunciata nei confronti di persona che non è parte del processo o è immune dalla giurisdizione penale dello Stato) (6). Poiché in questa sede interessa il titolo legittimante l’esecuzione di pena detentiva, vale a dire, come abbiamo già precisato, una sentenza irrevocabile di condanna il cui dispositivo prescriva l’assoggettamento del condannato a tale pena, alle suddette ipotesi vanno accostate quelle in cui il titolo non consente l’esecuzione di pena detentiva (come ad esempio una sentenza di proscioglimento, o una sentenza di condanna a pena dichiarata integralmente estinta per indulto), pur valendo eventualmente ad altri fini (quali l’esecuzione di misure di sicurezza o di pene accessorie) (7). (4) V., con riguardo al passato sistema processuale, BAROSIO, voce Esecuzione penale, in Enc. dir., vol. XV, 1966, p. 493; CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, IV, 1949, p. 168 e ss.; SANTORO, L’esecuzione penale, 1953, p. 186 e ss. Quanto all’attuale codice CORBI, L’esecuzione nel processo penale, 1992, p. 73 e ss.; D. GROSSO, Vecchio e nuovo nella disciplina dell’esecuzione penale, in Giust. pen., 1986, III, c. 194 e ss. (5) L’ordinanza di rimessione che ha dato origine alla sentenza costituzionale n. 310 del 1996 traeva spunto proprio da un’ipotesi di esecuzione iniziata in difetto di valido titolo esecutivo: C. App. Torino 5 luglio 1995, in G.U. 1a serie spec. n. 51 del 1995, adita ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p p. da persona colpita da un ordine di esecuzione emesso sull’erroneo presupposto che si fosse formato il giudicato di condanna, ha infatti investito la Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 314 c.p.p. laddove non sancisce il diritto alla riparazione in favore di chi abbia subito ingiusta detenzione ‘‘in esecuzione di ordine di carcerazione illegittimo, cioè in esecuzione di pena priva di titolo valido’’. (6) Sulla nozione di ‘‘inesistenza’’ del titolo e precipuamente di ‘‘inesistenza giuridica’’ v. CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, vol. I, 1956, p. 364; CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, 1923, pp. 89-90; CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, 1972, p. 95 e ss.; FLORIAN, Diritto processuale penale, 3a ed., 1939, p. 129 e ss.; LEONE, La sentenza penale inesistente, in Riv. it. dir. pen., 1936, p. 33; SANTORO, op. cit., p. 193 e ss.; VANNINI-COCCIARDI, Manuale di diritto processuale penale italiano, 1986, pp. 104 e 506. (7) Riteniamo sine titulo anche l’ordine di esecuzione emesso in base ad una sentenza irrevocabile di condanna a pena detentiva condizionalmente sospesa, sempreché la sospensione condizionale non risulti revocata. Si veda in proposito BAROSIO, loc. cit., secondo cui la sentenza irrevocabile di condanna a pena condizionalmente sospesa è un ‘‘titolo esecutivo
— 941 — b) L’esecutività del titolo rappresentato da una sentenza di condanna presuppone l’irrevocabilità di quest’ultima (art. 650 c.p.p.). Poiché l’art. 648 c.p.p. collega tale irrevocabilità al mancato o infruttuoso esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione, titolo non esecutivo è quello costituito da una sentenza in relazione alla quale i termini per impugnare non sono ancora decorsi o il giudizio conseguente all’impugnazione non si è ancora concluso. c) Il titolo apparentemente esecutivo si ha allorché, decorrendo il termine per impugnare un provvedimento dalla notifica dell’avviso di deposito ed eventualmente dell’estratto del provvedimento stesso (art. 585 comma 2 lett. a), c) 2a parte e d) c.p.p., in relazione agli artt. 127 comma 7, 128, 442 comma 3, 548 commi 2 e 3 c.p.p., 134 disp. att. c.p.p.), tale notifica manchi o sia invalida, e dunque l’interessato, non essendo venuto a conoscenza del provvedimento, non sia in condizione di impugnarlo (8). Qualora, preso atto della mancata impugnazione, la cancelleria certifichi l’irrevocabilità del provvedimento (artt. 27 e 28 reg. esec. c.p.p.) senza rilevare l’invalidità della notifica, il provvedimento stesso diviene apparentemente esecutivo, e come tale può essere eseguito, sebbene in realtà sia ancora impugnabile (l’impugnazione eventualmente proposta viene detta ‘‘apparentemente tardiva’’ (9) o ‘‘acronica’’ (10)). 3. L’ordine erroneo benché fondato su titolo valido: a) generalità. — Se l’ordine di esecuzione emesso in mancanza di valido titolo esecutivo (nella triplice accezione sopra indicata) va senz’altro considerato erroneo ai fini del diritto alla riparazione, non è però detto che i vizi del titolo siano i soli a rilevare a tali fini. Il dispositivo della sentenza costituzionale condizionale’’, posto che l’esecutività dello stesso ‘‘è impedita fino a che non si realizzi un determinato evento e, precisamente, fino a quando non si consegua la prova che il condannato ha commesso un reato od è venuto meno agli obblighi impostigli dal giudice, ai sensi dell’art. 165 c.p.’’. Qualora poi la sospensione condizionale della pena venga revocata, il provvedimento di condanna diventa esecutivo e ci si trova di fronte ad un ‘‘titolo esecutivo complesso’’, per tale intendendosi quello risultante da una pluralità di documenti anziché da un documento solo. Sul tema del titolo condizionale e del titolo complesso v. anche CARNELUTTI, op. ult. cit., p. 165; SANTORO, op. cit., p. 216 e ss. (8) Sulla nullità della notificazione del provvedimento impugnabile (con particolare riguardo alla sentenza contumaciale e a quella pronunciata in seguito a procedimento in camera di consiglio), quale causa idonea ad impedire il formarsi del giudicato, v. CONSO, Questioni nuove di procedura penale, 1959, p. 137, nota n. 44; CORDERO, Il rimedio alla sentenza contumaciale irregolarmente notificata, in Riv. dir proc. pen., 1957, p. 423. (9) MOSCARINI, La contumacia dell’imputato, 1997, p. 425; ZAPPALÀ, L’impugnazione tardiva della sentenza penale nella pratica giurisprudenziale, 1986, p. 5 e ss. (10) PANSINI, La contumacia nel diritto processuale penale, 1963, p. 214; Gius. SABATINI, Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, 1956, p. 281; ZAPPALÀ, loc. cit.
— 942 — n. 310 del 1996, ponendo l’accento sull’erroneità dell’ordine senza alcun riferimento al titolo sottostante, autorizza un’interpretazione che comprenda nella categoria ‘‘ordine di esecuzione erroneo’’ anche l’ordine fondato su un valido titolo esecutivo, ma in sé viziato. Per chiarire la questione è necessario da un lato individuare i presupposti di legittimità dell’ordine di esecuzione diversi dall’esistenza ed esecutività del titolo sottostante; dall’altro richiamarsi all’art. 314 comma 2 c.p.p., che riconosce il diritto alla riparazione anche in presenza della mera illegittimità o ingiustizia formale della custodia, vale a dire dell’accertamento che la stessa è stata applicata in difetto dei presupposti ex artt. 273 e 280 c.p.p. Occorre, in altre parole, tradurre nel contesto dell’esecuzione penale le indicazioni desumibili, quanto ai parametri dell’illegittimità della custodia cautelare, dall’art. 314 c.p.p., chiedendosi quali siano i presupposti dell’ordine di esecuzione il cui difetto può essere equiparato al difetto dei presupposti ex artt. 273 e 280 c.p.p. dell’ordinanza applicativa della custodia predetta. Induce a questa operazione sia la considerazione che, come si è detto, la sentenza costituzionale n. 310 del 1996 individua negli artt. 314-315 c.p.p. la ‘‘disciplina concretizzatrice’’ del diritto alla riparazione per ogni forma di detenzione ingiusta, sia il fatto che tale peculiare funzione delle suddette disposizioni è già nota al sistema: l’art. 313 c.p.p., nel riconoscere il diritto alla riparazione anche in caso di ingiusta applicazione provvisoria di misure di sicurezza, non definisce i presupposti di tale diritto, ma si limita a rinviare agli artt. 314 e 315 c.p.p., così imponendo all’interprete di adeguare i parametri dell’illegittimità della custodia cautelare ivi definiti alla diversa materia delle misure di sicurezza (11). 4. b) L’ordine emesso in costanza dei presupposti per la sua sospensione. — Poiché, a norma dell’art. 656 c.p.p., il pubblico ministero emette ordine di esecuzione quando — e solo quando — una sentenza di condanna a pena detentiva ‘‘deve essere eseguita’’, la legittimità dell’or(11) V. in proposito MONTALDI, op. cit., p. 323, secondo cui se ‘‘non suscita particolari problemi l’applicazione, alle misure di sicurezza provvisorie, del primo comma dell’art. 314’’, quanto invece ‘‘alle ipotesi di illegittimità previste dal secondo comma..., l’applicazione della norma alle misure di sicurezza provvisoriamente applicate richiede la considerazione dei presupposti di legittimità previsti per tali misure, in parte diversi da quelli richiesti per le misure cautelari...’’, con la conseguente necessità di un’interpretazione ‘‘adeguatrice’’ dell’art. 314 comma 2 in relazione all’art. 313; Gius. AMATO, op. cit., p. 234, secondo cui ‘‘le peculiarità della disciplina delle misure di sicurezza provvisorie, in particolare quelle relative alle condizioni di applicabilità, non consentono... un’automatica e letterale applicazione di disposizioni dettate specificamente per la custodia cautelare ingiusta. È così necessario reinterpretare il contenuto delle norme in esame al fine di adeguarlo alle caratteristiche proprie dell’istituto previsto dagli artt. 312-313’’.
— 943 — dine è inficiata da tutte le situazioni che precludono o quantomeno posticipano l’eseguibilità della pena, la quale pure trovi fondamento in un valido titolo esecutivo (12). Ci riferiamo, in particolare, ai casi di necessaria sospensione, da parte del pubblico ministero, dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sull’istanza, proposta dal condannato, di affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 commi 1, 3, 4, ord. penit.), di detenzione domiciliare (art. 47-ter commi 1 e 2 ord. penit.), di semilibertà per pena inferiore a sei mesi (art. 50 comma 1 e 6 ord. penit.), di affidamento in prova in casi particolari (artt. 94 d.P.R n. 309 del 1990 e 47-bis ord. penit.), di sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente (art. 90 e ss. d.P.R. n. 309 del 1990) (13). In presenza dei presupposti stabiliti dalle suelencate disposizioni la (12) Circa la necessità di tenere distinto il problema dell’‘‘esecutività’’ del titolo da quello dell’‘‘eseguibilità’’ del comando che concreta il titolo stesso v. CORBI, op. cit., pp. 7071. (13) Per maggiore chiarezza esponiamo analiticamente i casi di sospensione dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione richiamati nel testo: a) ai sensi dell’art. 47 comma 1 ord. penit., se la pena detentiva inflitta non supera tre anni, il condannato può chiedere al tribunale di sorveglianza l’affidamento in prova al servizio sociale per un periodo uguale a quello della pena da scontare. A norma del comma 4 della stessa disposizione la richiesta può essere formulata anche prima dell’emissione o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, nel quale caso va presentata al pubblico ministero incaricato dell’esecuzione, che, se non osta il suddetto limite di pena, sospende l’emissione o l’esecuzione dell’ordine de quo fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, a cui trasmette immediatamente gli atti; b) in virtù dell’espresso richiamo dell’art. 47 comma 4 ord. penit. ad opera degli artt. 47-ter comma 2 e 50 comma 6 ord. penit., l’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione dev’essere sospesa dal pubblico ministero anche a fronte della presentazione di richiesta di detenzione domiciliare (consentita a favore del condannato che si trova in determinate condizioni personali o di salute, quando la pena da espiare non sia superiore a due anni di reclusione, anche se costituenti parte residua di maggior pena), o di ammissione al regime di semilibertà da parte del condannato all’arresto o alla reclusione non superiore a sei mesi; c) vanno infine considerati gli artt. 90, 91 e 94 d.P.R. n. 309 del 1990, rispettivamente concernenti la ‘‘sospensione dell’esecuzione della pena detentiva’’ nei confronti del condannato alla reclusione o all’arresto non superiore a quattro anni per reati connessi allo stato di tossicodipendenza (ovvero del condannato che, per la medesima causa, debba ancora scontare una pena della durata di quattro anni) e il c d. ‘‘affidamento in prova in casi particolari’’, consentito a favore del tossicodipendente o alcooldipendente che debba scontare una pena rientrante nel limite di quattro anni ed abbia in corso un programma di recupero od intenda sottoporvisi. Qualora l’istanza tesa ad ottenere uno dei suddetti benefici sia formulata dal condannato prima dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione, il pubblico ministero, se non ostano i predetti limiti di pena, sospende l’emissione od esecuzione dell’ordine medesimo fino alla decisione del tribunale di sorveglianza (analoga disciplina vale quando l’istanza sia formulata dopo l’esecuzione dell’ordine di carcerazione: in questo caso il pubblico ministero, sempre previa verifica della durata della pena da espiare, ordina la scarcerazione del condannato).
— 944 — sospensione dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione è atto dovuto. L’accertamento dei presupposti stessi non lascia alcun margine di discrezionalità al pubblico ministero, il quale deve limitarsi a prendere atto che il condannato ha chiesto una misura alternativa alla detenzione e verificare se la pena rientra nei limiti previsti dalla legge per l’ammissione al beneficio (14). Ciò permette di considerare la presentazione di un’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare o sospensione dell’esecuzione in relazione ad una pena rientrante nei limiti di legge come un vero e proprio ‘‘presupposto negativo’’ dell’emissione (o del mantenimento) dell’ordine di esecuzione. Tale presupposto ben può essere paragonato, ai fini della riparazione per la detenzione ingiusta, ai presupposti positivi e negativi di applicazione delle misure cautelari ex artt. 273 e 280 c.p p. (giungeremmo a conclusioni opposte se il pubblico ministero avesse pia ampi poteri discrezionali in ordine alla sospensione dell’ordine di esecuzione (15): infatti il legislatore, ai fini della riparazione, ha circoscritto l’‘‘ingiustizia formale’’ della custodia cautelare all’applicazione della stessa in mancanza dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. proprio per la limitata discrezionalità riconosciuta al giudice nell’accertamento di questi ultimi a fronte della maggiore discrezionalità dell’accertamento delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p.) (16). Peraltro il riconoscimento del diritto alla riparazione a chi sia stato (14) Sulla doverosità della sospensione de qua v. BERNASCONI, Poteri del pubblico ministero in sede esecutiva, controllo giurisdizionale e ripartizione delle competenze, in Cass. pen., 1994, p. 459 e ss.; CARLI, Il p.m. ed il ‘‘potere-dovere’’ di sospendere l’efficacia dell’ordine di esecuzione in caso di richiesta di applicare una delle misure alternative alla detenzione, in Giur. it., 1994, II, c. 613-614; CORBI, L’affidamento in prova con finalità terapeutiche: un nuovo ‘‘sostitutivo’’ della pena detentiva, in Riv it. dir. e proc. pen., 1986, p. 1133 e ss.; OLIVA, I provvedimenti de libertate del p.m. in tema di misure extracarcerarie: inadeguatezze legislative e ‘‘fantasia creatrice’’ delle Procure, in Cass. pen., 1995, p. 729 e ss.; PRESUTTI, Tossicodipendenze e libertà personale. Misure processuali e penitenziarie, 1989, p. 86. A riprova del fatto che la sospensione dell’esecuzione è un atto dovuto a fronte del mero riscontro ‘‘matematico’’ del limite di pena previsto dalla legge per l’ammissione alle misure alternative alla detenzione, con esclusione di ogni ingerenza del pubblico ministero nella valutazione degli altri presupposti di tali misure, può rilevarsi che un più ampio vaglio sull’ammissibilità della richiesta del condannato compete al presidente del tribunale di sorveglianza, il quale, in forza degli artt. 678 e 666 comma 7 c.p.p., con decreto motivato dichiara inammissibile la richiesta stessa ogniqualvolta questa appaia ‘‘manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisca mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi’’. Se al pubblico ministero spettassero più ampi poteri discrezionali, si avrebbe un’inconcepibile sovrapposizione di competenze fra tale organo e il presidente del tribunale di sorveglianza. (15) Come accade, ad esempio, in caso di sospensione dell’esecuzione per dubbio sull’identità fisica della persona detenuta ex art. 667 comma 3 c.p.p. (16) V. Gius. AMATO, op. cit., p. 230; MONTALDI, op. cit., p. 316; SCOMPARIN, op. cit., p. 404, i quali riconducono a tale intento limitativo della discrezionalità del giudice la modifica del testo originario dell’art. 314 c.p.p., che nel progetto preliminare del codice ancorava
— 945 — attinto da un ordine di carcerazione in costanza dei presupposti per la sospensione della relativa emissione (od esecuzione) ha scarsa rilevanza pratica. A norma dell’art. 314 comma 4 c.p.p. ‘‘il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena’’, posto che in tali casi la detenzione subita ingiustamente deve intendersi già compensata (17). Applicando tale principio alla situazione che ci interessa, il diritto alla riparazione non sarà mai esercitabile quando il condannato, nei cui confronti l’ordine di carcerazione non è stato sospeso, abbia presentato istanza di affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà o affidamento in prova in casi particolari. Tali misure alternative vengono infatti concesse ‘‘per un periodo uguale a quello della pena ancora da scontare’’ (arg. ex art. 47 comma 1 ord. penit.), con la conseguenza che un eventuale ritardo nella loro concessione, sia pure illegittimo proprio per la mancata sospensione dell’ordine di esecuzione, avrà comunque l’effetto di ridurre, proporzionalmente alla durata della carcerazione subita, il residuo di pena da espiare sub specie di misura alternativa, e dunque verrà computato ‘‘ai fini della determinazione della misura di una pena’’ ai sensi dell’art. 314 comma 4 c.p.p. (18). Diverso è il caso in cui l’illegittima emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione (o la mancata scarcerazione di chi è già detenuto) riguardi il condannato a pena non superiore a quattro anni (anche se residua di maggior pena) per reati connessi allo stato di tossicodipendenza, il quale abbia chiesto la sospensione dell’esecuzione a norma degli artt. 90 e ss. d.P.R. n. 309 del 1990. L’accoglimento di tale richiesta sospende l’esecuzione della pena per cinque anni, in esito ai quali la pena stessa ed ogni effetto penale si estinguono se il condannato attua il programma terapeutico e non commette un delitto non colposo punibile con la sola reclusione. l’ingiustizia formale della custodia cautelare all’emissione del provvedimento applicativo della stessa ‘‘senza che sussistessero le condizioni idonee a legittimarlo’’ (comprese, quindi, le esigenze cautelari). (17) V. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., pp. 475476. (18) Qualche dubbio interpretativo si pone quanto alla disciplina dell’‘‘affidamento in prova in casi particolari’’ (artt. 94 d.P.R. n. 309 del 1990 e 47-bis ord. penit.). Ai sensi dell’art. 94 comma 4 (47-bis comma 6) ‘‘l’esecuzione della pena si considera iniziata dalla data del verbale di affidamento’’: sembra quindi che tale esecuzione decorra ex novo nei confronti dell’affidato in prova, a prescindere dal periodo che costui abbia eventualmente già scontato in carcere. Peraltro la dottrina, considerando aberrante tale intepretazione, ritiene che, al di là dell’infelice espressione utilizzata dal legislatore, il presofferto vada detratto dal periodo di pena da scontare sub specie di affidamento: CORBI, op. ult. cit., pp. 1146-1147; PRESUTTI, op. cit., pp. 96-97.
— 946 — Poiché la durata della sospensione è fissa, l’eventuale carcerazione ingiustamente subita a causa di un ordine di esecuzione illegittimo non è compensata in alcun modo (quantomeno nell’eventualità dell’estinzione della pena in esito al periodo di sospensione: altro discorso vale qualora la sospensione stessa sia revocata e la pena torni ad essere espiata in carcere). Non c’è dunque motivo per negare al condannato il diritto all’equa riparazione in relazione a tale periodo di detenzione. 5. c) L’ordine carente dei requisiti di forma. — Tra i vizi dell’ordine di esecuzione (in sé considerato) può comprendersi anche il difetto dei requisiti formali prescritti dall’art. 656 comma 4 c.p.p., secondo cui l’ordine di esecuzione di pena detentiva deve contenere ‘‘le generalità della persona nei cui confronti il provvedimento va eseguito e quant’altro valga ad identificarla, l’imputazione, il dispositivo del provvedimento e le disposizioni necessarie all’esecuzione’’. L’importanza di questi requisiti dell’ordine è sottolineata dalla Relazione al progetto preliminare del codice con l’osservare che gli stessi ‘‘devono essere considerati essenziali per la validità dell’atto e per l’instaurazione di un valido rapporto processuale esecutivo’’ (19). Parte della dottrina inferisce da ciò che l’ordine di esecuzione di pena detentiva mancante dei requisiti ex art. 656 comma 4 ‘‘non dovrebbe avere la capacità... di costituire titolo valido per la restrizione del condannato in carcere’’, con la conseguenza che ‘‘il giudice dell’esecuzione, investito della questione, dovrebbe ordinare la scarcerazione del condannato stesso’’ (20). Sebbene questa tesi esalti la funzione di ‘‘garanzia’’ dei requisiti formali dell’ordine di esecuzione, non riteniamo che l’ordine illegittimo perché carente dei suddetti requisiti possa dare luogo al diritto alla riparazione, in quanto la più volte richiamata disciplina di riferimento ex artt. 314-315 c.p.p. non attribuisce alcun rilievo, ai fini del diritto alla riparazione per l’ingiusta custodia cautelare, ai vizi di forma dell’ordinanza applicativa della misura (art. 292 commi 2 e 2-ter c.p.p.). 6. L’accertamento dell’erroneità dell’ordine di esecuzione: a) generalità. — Ciò posto, occorre stabilire come l’erroneità dell’ordine di esecuzione (emesso in assenza di un valido titolo esecutivo nella triplice accezione sopra indicata, ovvero in presenza dei presupposti per la sospensione dell’emissione stessa) va accertata come premessa all’instaurazione del procedimento di riparazione. Ai sensi dell’art. 314 comma 2 c.p.p. l’illegittimità della custodia cau(19) (20)
Loc. cit., pp. 600-601. V. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 131.
— 947 — telare (per difetto dei presupposti ex artt. 273 e 280 c.p.p.) dà diritto alla riparazione se sia stata accertata con ‘‘decisione irrevocabile’’. Le Sezioni unite della Cassazione (21) hanno osservato che l’impiego da parte del legislatore del generico termine ‘‘decisione’’, anziché del più specifico ‘‘sentenza’’, autorizza a ritenere titolo legittimante la riparazione dell’ingiusta custodia cautelare tanto la sentenza ‘‘di merito’’ conclusiva del procedimento principale (nelle limitate ipotesi in cui questa contenga l’accertamento dell’illegittimità della custodia: si pensi al caso dell’imputato condannato per reato diverso da quello originariamente contestato e punito con pena edittale tale da non consentire l’applicazione di misure cautelari ex art. 280 c.p.p.), quanto il provvedimento conclusivo del procedimento incidentale de libertate (vale a dire l’ordinanza, non impugnata, adottata dal tribunale della libertà in sede di riesame o appello ex artt. 309 e 310 c.p.p. ovvero l’ordinanza emessa dalla Cassazione a seguito di ricorso avverso la decisione del giudice del riesame o dell’appello, o a seguito di ricorso per saltum). L’accertamento dell’illegittimità della custodia non spetta, invece, al giudice competente al procedimento di riparazione: detto accertamento integra infatti ‘‘il presupposto logico e cronologico’’ di quest’ultimo procedimento, sì che deve precederne, non seguirne l’instaurazione. In ragione della più volte ricordata ‘‘funzione concretizzatrice’’ dell’art. 314 c.p.p., deve ritenersi che anche l’erroneità dell’ordine di esecuzione dia titolo alla riparazione solo se sia stata accertata con decisione irrevocabile. Per chiarire a chi competa tale decisione è opportuno distinguere i casi in cui l’erroneità dell’ordine consegue ad un vizio del titolo esecutivo da quelli in cui, valido il titolo, l’ordine è stato emesso (od eseguito) in costanza dei presupposti per la sospensione dell’emissione od esecuzione ai sensi dell’art. 91 d.P.R. 309 del 1990 (22). 7. b) L’ordine emesso in assenza di valido titolo esecutivo. — L’accertamento della ‘‘mancanza’’ (nel senso, sopra chiarito, di ‘‘inesistenza’’) del titolo compete al giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 665, 666 e 670 c.p.p. La ‘‘decisione irrevocabile’’, che dà diritto alla riparazione per la detenzione subita in forza di un ordine emesso sine titulo, è quindi costituita dall’ordinanza non più impugnabile del giudice dell’esecuzione da (21)
Cass., Sez. un., 12 ottobre 1993, in Cass. pen., 1994, p. 2645, con nota di COP-
PETTA, Riflessioni sulla sussistenza dell’interesse ad impugnare, per fini riparatori, la misura
custodiale revocata. Sulla nozione di ‘‘decisione irrevocabile’’ ex art. 314 comma 2 v. inoltre COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, cit., p. 202 e ss. (22) Ovvero, in costanza dei medesimi presupposti, l’imputato già detenuto non è stato scarcerato.
— 948 — cui risulti, appunto, l’inesistenza del titolo stesso (ovvero dall’ordinanza della Cassazione che, investita del ricorso contro il provvedimento del giudice dell’esecuzione ex art. 666 commi 6 e 7 c.p.p., abbia annullato senza rinvio tale provvedimento dichiarando essa stessa, a norma degli artt. 620 lett. l) e 621 c.p.p., l’illegittimità dell’ordine di esecuzione per mancanza del titolo sottostante (23)). Al giudice dell’esecuzione compete pure l’accertamento della ‘‘non esecutività’’ del titolo (art. 670 comma 1 c.p.p.), con la conseguenza che, ai fini del procedimento di riparazione, anche tale non esecutività dovrà risultare dal provvedimento del medesimo giudice (o della Cassazione investita del ricorso avverso l’ordinanza di quest’ultimo). Poiché, peraltro, l’accertamento della non esecutività del titolo potrebbe intervenire in pendenza del giudizio di merito conseguente all’impugnazione della sentenza che rappresenta il titolo stesso (24), riteniamo che la domanda di riparazione non possa comunque essere formulata finché detto giudizio non si sia concluso con sentenza irrevocabile. Può infatti accadere che la medesima persona, dopo essere stata scarcerata dal giudice dell’esecuzione per la non esecutività della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti, si veda confermare tale condanna in esito al giudizio di impugnazione. In questo caso la detenzione subita in forza dell’ordine di esecuzione illegittimo dovrebbe essere detratta dalla pena inflitta e nuovamente posta in esecuzione — questa volta legittimamente — in forza della sopravvenuta esecutività del titolo (arg. ex art. 657 c.p.p.), sì che, ai sensi dell’art. 314 comma 4 c.p.p., il diritto alla riparazione potrebbe venir meno (o quantomeno subire una variazione nel quantum). Ne discende, a nostro parere, l’applicabilità analogica nel caso di specie dell’art. 315 comma 1 c.p.p., che, come è stato rilevato dalla dottrina più attenta e dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, individua il dies a quo per la presentazione della domanda di riparazione per la custodia cautelare ingiusta nella sopravvenuta irrevocabilità o inoppugnabilità della decisione conclusiva del procedimento di merito (sia essa sentenza di proscioglimento o di condanna o sentenza di non luogo a procedere (25)) proprio al fine di consentire una corretta precisazione dell’an e del quantum della domanda riparatoria (26). Restano da chiarire i modi di accertamento dell’erroneità dell’ordine di esecuzione fondato su un titolo solo apparentemente esecutivo. (23) V. Cass., Sez. IV, 18 aprile 1995, in Cass. pen., 1996, pp. 2608-2609. (24) In tal caso non potrebbe escludersi l’eventualità di un accertamento incidentale della non esecutività del titolo ad opera dello stesso giudice dell’impugnazione, con la conseguenza che potrebbe essere la decisione di tale giudice a giustificare la domanda riparatoria. (25) Quanto al decreto o all’ordinanza di archiviazione si guarda, ovviamente, al momento della pronuncia. (26) V. MONTALDI, op. cit., pp. 316-317; Sez. un., 12 ottobre 1993, cit.
— 949 — L’art. 670 c.p.p. da un lato demanda al giudice dell’esecuzione l’accertare la non esecutività (rectius l’esecutività solo apparente) del titolo, eventualmente adottando i provvedimenti conseguenziali (sospensione dell’esecuzione; liberazione dell’interessato; rinnovazione, se necessaria, della notificazione non validamente eseguita); dall’altro regola i rapporti fra il procedimento davanti al giudice dell’esecuzione e quello conseguente all’impugnazione apparentemente tardiva, stabilendo che ‘‘quando è proposta impugnazione... il giudice dell’esecuzione, dopo aver provveduto sulla richiesta dell’interessato, trasmette gli atti al giudice di cognizione competente. La decisione del giudice dell’esecuzione non pregiudica quella del giudice dell’impugnazione..., il quale, se ritiene ammissibile il gravame, sospende con ordinanza l’esecuzione che non sia già stata sospesa’’. In base a tale disciplina potrebbe verificarsi una duplicazione di pronunce sull’esecutività del titolo: la prima ad opera del giudice dell’esecuzione, a cui l’interessato chieda di verificare la validità della notifica dell’avviso di deposito (ed eventualmente dell’estratto) del provvedimento posto in esecuzione al fine di ottenere in tempi rapidi la sospensione dell’esecuzione e la conseguente liberazione; la seconda ad opera del giudice dell’impugnazione, chiamato a verificare la regolarità della notificazione al fine di accertare l’ammissibilità dell’impugnazione stessa (27). Quale delle due decisioni, una volta divenuta irrevocabile, consente l’instaurazione del procedimento per la riparazione della detenzione ingiusta? Dobbiamo affrontare due ipotesi. 1) Può accadere che il giudice dell’esecuzione, ritenendo mancante o invalida la notificazione dell’avviso di deposito o dell’estratto del provvedimento rappresentante il titolo apparentemente esecutivo, dichiari la non esecutività di quest’ultimo, e viceversa il giudice dell’impugnazione, diversamente valutando la regolarità della predetta notifica, dichiari inammissibile il gravame. Tale situazione, al di là dei molteplici problemi interpretativi che suscita (28), non ha alcun rilievo ai fini della riparazione. (27) Per un’ampia disamina dei rapporti fra incidente di esecuzione ed impugnazione apparentemente tardiva nell’ambito del vecchio sistema processuale e di quello attuale v. CORBI, op. cit., p. 266 e ss.; MOSCARINI, op. cit., pp. 434-435. In senso critico circa la cumulabilità dei due rimedi v., con riguardo al codice del 1930, ZAPPALÀ, op. cit., p. 132 e ss. (28) Secondo una parte della dottrina (GAITO, Esecuzione, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 3a ed., 1994, pp. 668-669; LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., 1995, p. 538; MOSCARINI, op. cit., pp. 432-433) e la quasi unanime giurisprudenza (v. fra le altre Cass., Sez. V, 12 dicembre 1995, in C.E.D. Cass., n. 203582; Id., Sez. I, 30 ottobre 1991, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 59), una duplicazione di pronunce sulla regolarità della notificazione originaria non sarebbe ipotizzabile ogniqualvolta l’invalidità della notificazione stessa fosse rilevata dal giudice dell’esecuzione. Detto giudice, infatti, sarebbe comunque tenuto, a norma dell’art. 670 comma 1 c.p.p., a rinnovare la notificazione
— 950 — Il provvedimento che dichiara inammissibile il gravame, una volta divenuto irrevocabile, autorizza la ripresa dell’esecuzione della pena eventualmente sospesa dal giudice dell’esecuzione, con la conseguenza che il periodo di detenzione subito dal condannato in forza del primo ordine di esecuzione, legittimo o no, va detratto dalla pena che resta da scontare. Si versa quindi nella situazione disciplinata dall’art. 314 comma 4 c.p.p., che, come più volte si è accennato, esclude la riparabilità della detenzione se questa, pur subita ingiustamente, è stata computata ai fini della determinazione della misura di una pena. 2) Può invece accadere che il giudice dell’esecuzione ritenga la notifica regolare, confermando l’esecutività del titolo, e viceversa il giudice dell’impugnazione apparentemente tardiva, dichiarata l’invalidità di tale notifica, ritenga ammissibile l’impugnazione e sospenda l’esecuzione non sospesa dal primo giudice. In questo caso la decisione negativa del giudice dell’esecuziene non preclude il diritto alla riparazione, a tal fine ben potendosi invocare la successiva decisione del giudice dell’impugnazione. Infatti l’art. 314 comma 2, utilizzando il generico termine ‘‘decisione irrevocabile’’, non autorizza un’interpretazione restrittiva. Inoltre dall’art. 670 comma 2 c.p.p., alla luce delle modifiche subite nel corso dei lavori preparatori, deve desumersi la prevalenza della decisione del giudice dell’impugnazione su quella del giudice dell’esecuzione (29). invalida: pertanto il giudice dell’impugnazione apparentemente tardiva non si troverebbe più a discutere della notificazione originaria, ma solo di quella rinnovata (l’unico accertamento dell’originaria non esecutività del titolo resterebbe quello del giudice dell’esecuzione). Altri autori (CORBI, op. cit., p. 767 e ss.; GUARDATA, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. VI, pp. 547-548) ed una parte minoritaria della giurisprudenza (Cass., Sez. V, 5 febbraio 1996, in C.E.D. Cass., n. 204238), la cui opinione condividiamo, osservano però che la rinnovazione della notificazione originaria non è imprescindibilmente conseguenziale alla dichiarazione di non esecutività del titolo ad opera del giudice dell’esecuzione, dovendo essere disposta solo ‘‘se occorre’’, vale a dire se l’interessato non ha nel frattempo avuto conoscenza del provvedimento attraverso un atto equipollente, ovvero non ha posto in essere comportamenti implicanti la sanatoria dell’originaria invalidità della notifica (quali la presentazione dell’impugnazione apparentemente tardiva prima dell’incidente di esecuzione o contestualmente ad esso: CORBI, loc. ult. cit.). Secondo quest’ultima impostazione è possibile che il giudice dell’esecuzione, pur dichiarando la non esecutività del titolo per invalidità della notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento rappresentativo del titolo stesso, non rinnovi tale notificazione, e dunque lasci libero il giudice dell’impugnazione tardiva, ai sensi dell’art. 670 comma 2 c.p.p., di ritenere inammissibile il gravame anche perché, contrariamente al primo giudice, considera regolare la notificazione originaria. (29) Nel progetto preliminare del codice l’art. 670 (allora art. 661) stabiliva che ‘‘l’impugnazione o l’opposizione tardiva può essere proposta solo se il giudice dell’esecuzione ha accertato che il provvedimento impugnato non è divenuto esecutivo’’, così sancendo la vincolatività per il giudice dell’impugnazione della decisione sulla non esecutività del titolo ad opera del giudice dell’esecuzione. Il testo della disposizione è stato poi modificato nell’attuale, sulla cui base le decisioni dei due giudici possono concorrere, allo scopo, evidenziato
— 951 — Sarà quindi la decisione del giudice dell’impugnazione, una volta divenuta irrevocabile, a contenere l’accertamento dell’erroneità dell’ordine di esecuzione in quanto fondato su titolo solo apparentemente esecutivo. Nulla quaestio, invece, nel caso che il giudice dell’esecuzione dichiari la non esecutività del titolo ed il giudice dell’impugnazione non smentisca tale dichiarazione, ritenendo ammissibile l’impugnazione stessa. Va da sé che per dare inizio al procedimento di riparazione dovrà attendersi la definizione del giudizio di impugnazione, posto che, se questo dovesse concludersi con la condanna dell’imputato a pena eseguibile, il periodo di detenzione sofferto in forza dell’ordine di esecuzione illegittimo sarebbe sottratto dalla pena residua e non riparabile pecuniariamente ai sensi dell’art. 310 comma 4 c.p.p. 8. c) L’ordine emesso in costanza dei presupposti per la sua sospensione. — Va chiarito se la competenza ad accertare l’illegittimità dell’ordine, emesso od eseguito in presenza dei presupposti per la sospensione ex artt. 90 e 91 d.P.R. 309 del 1990, spetti al giudice dell’esecuzione o al tribunale di sorveglianza. La giurisprudenza individua nel procedimento davanti al giudice dell’esecuzione ex art. 666 c.p.p. il rimedio contro tutti i provvedimenti emessi in sede esecutiva dal pubblico ministero, compresi quelli che negano la sospensione dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione (30). Ai fini del diritto alla riparazione può quindi invocarsi l’ordinanza non più impugnabile di tale giudice (o della Cassazione investita del ricorso avverso detta ordinanza). Peraltro potrebbe accadere che il giudice dell’esecuzione (eventualmente confortato dalla Cassazione) ritenga legittimo l’ordine di carcerazione emesso dal pubblico ministero, e ciononostante della questione venga investito il tribunale di sorveglianza a cui lo stesso pubblico ministero abbia trasmesso gli atti per decidere sulla sospensione dell’esecuzione in favore del condannato tossicodipendente o alcooldipendente (31). In tale caso non vediamo ostacoli ad individuare la decisione irrevocabile ex art. 314 comma 2 c.p p. nell’ordinanza non più impugnabile del suddetto tribunale (o della Cassazione investita del ricorso contro quest’ultima). dalla Relazione al testo definitivo del codice (loc. cit., p. 709), di non sottrarre al giudice dell’impugnazione ‘‘il potere di valutare l’ammissibilità della stessa’’. (30) V. Cass., Sez. I, 7 aprile 1993, in C.E.D. Cass., n. 194407; Id., Sez. I, 2 luglio 1992, ivi, n. 191585. (31) CORBI, L’affidamento in prova con finalità terapeutiche, cit., p. 1129, esclude che il pubblico ministero, una volta negata la sospensione dell’emissione od esecuzione dell’ordine di carcerazione, debba trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza. Contra v. invece Proc. Gen. Torino, O.E. n. 700/1994 del 27 dicembre 1994, inedito.
— 952 — Va da sé che nell’una e nell’altra ipotesi la domanda di riparazione potrà essere formulata solo quando, decorso positivamente il periodo di sospensione, la pena sia dichiarata estinta a norma dell’art. 94 d.P.R. 309 del 1990, considerato che, ove la sospensione non si concludesse positivamente, l’espiazione della pena riprenderebbe al netto del periodo ingiustanente scontato in forza di ordine di esecuzione illegittimo. 9. Ulteriori ipotesi di detenzione ingiusta in fase esecutiva. — Conviene chiedersi, infine, se esistano altre situazioni collegate all’esecuzione penale in cui possano ravvisarsi gli estremi della ‘‘detenzione ingiusta’’ e che tuttavia, non discendendo da un ordine di esecuzione erroneamente emesso, non siano attinte dal dispositivo della sentenza n. 310 del 1996. Vengono in considerazione i rapporti fra irrevocabilità (e conseguente esecutività) della sentenza di condanna emessa in un processo soggettivamente cumulativo ed effetto estensivo dell’impugnazione. Per giurisprudenza pressoché costante sotto il vecchio codice (32), recentemente avallata, nel nuovo sistema, dalle Sezioni unite, nel processo soggettivamente cumulativo sfociato in una sentenza formalmente unica l’impugnazione proposta da un coimputato, ancorché fondata su motivi non esclusivamente personali, non impedisce che la sentenza divenga irrevocabile, e dunque esecutiva, per il non impugnante. Nei confronti di costui può quindi procedersi all’esecuzione della pena, fermo che l’eventuale accoglimento dell’impugnazione del coimputato per motivi non esclusivamente personali a costui opererà come ‘‘rimedio straordinario’’ idoneo a determinare la revoca del giudicato nei confronti del non impugnante (33). Non discutiamo qui la correttezza di tale tesi, peraltro assai controversa in dottrina (34). Ci chiediamo, però, se abbia diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione colui il quale, attinto da un ordine di esecuzione di pena detentiva in pendenza dell’impugnazione del coimputato, sia scarcerato in seguito all’accoglimento di tale impugnazione per la caducazione ex post del giudicato formatosi nei suoi confronti. Questa situazione non è di per sé assimilabile a quella oggetto della sentenza costituzionale n. 310 del 1996. Infatti non può dirsi che l’ordine (32) V. fra le altre Cass., Sez. V, 16 maggio 1978, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, p 1208, m. 1250; Id., Sez. II, 22 aprile 1975, ivi 1976, p. 204, m. 98. (33) Sez. un., 24 marzo 1995, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 605 e ss. (34) Con riguardo al vecchio sistema processuale v. tra gli altri ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, vol. III, 1952, p. 133; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 6a ed., vol. IV, 1972, p. 452; C. MASSA, L’effetto estensivo dell’impugnazione nel processo penale, 1955, p. 240 e ss.; MASSARI, Il processo penale, 1934, p. 435; LEONE, Sistema delle impugnazioni penali, 1935, p. 262 e ss.; Gius. SABATINI, Posizione giuridica del non impugnante nel processo d’appello, in Giust. pen., 1954, III, c. 145 e ss.; in relazione all’attuale codice v. CORBI, op. cit., p. 78 e ss.; GAITO, op. cit., p. 648; LOZZI, op. cit., pp. 432-433.
— 953 — di esecuzione emesso nei confronti del non impugnante sia illegittimo, posto che, secondo la citata interpretazione giurisprudenziale, al momento dell’emissione dell’ordine esisteva un valido titolo esecutivo. Peraltro la posizione del condannato che, dopo aver scontato un periodo di pena detentiva, sia scarcerato per l’accoglimento dell’impugnazione del coimputato fondata, in ipotesi, sull’insussistenza del fatto, ci pare equiparabile a quella dell’imputato che, legittimamente sottoposto a custodia cautelare (perché all’atto dell’applicazione della misura sussistevano i presupposti di cui agli artt. 273, 274, 280 c.p.p.), sia in seguito prosciolto con le formule di cui all’art. 314 comma 1 c.p.p., che rendono la custodia ingiustificata ex post. In ciò si potrebbe scorgere un nuovo profilo di incostituzionalità degli artt. 314-315. Tuttavia, a norma dell’art. 314 comma 1 ult. parte c.p.p. il diritto alla riparazione per la custodia ‘‘sostanzialmente ingiusta’’ è escluso quando chi ha subito la custodia ha dato o ha concorso a dare causa ad essa ‘‘per dolo o colpa grave’’ (35), sicché potrebbe sostenersi che la mancata proposizione dell’impugnazione a titolo proprio è, qualora non ricorrano validi motivi, indice di grave negligenza del non impugnante, il quale, in tal modo, concorre a dare causa alla propria detenzione, precludendosi il diritto alla riparazione ove la detenzione stessa risulti ex post ingiusta grazie all’accoglimento dell’impugnazione del coimputato (36). BARBARA LAVARINI Dottore di ricerca in procedura penale Università di Torino (35) Analogamente l’art. 643 comma 1 c.p.p. esclude la riparazione dell’errore giudiziario in favore di chi, prosciolto in sede di revisione, abbia dato causa a tale errore per dolo o colpa grave. (36) Giurisprudenza e dottrina si sono più volte pronunciate sui comportamenti ‘‘gravemente colposi’’ suscettibili di assurgere a ‘‘causa’’ o ‘‘concausa’’ dell’ingiusta custodia cautelare ex art. 314 comma 1 c.p.p. Quanto in particolare ai comportamenti omissivi, fra i quali potrebbe comprendersi la mancata proposizione dell’impugnazione a titolo proprio, si è osservato che per escludere l’operatività della riparazione deve ricorrere una ‘‘grossolana trascuratezza nel difendersi’’ (COPPETTA, op. ult. cit., p. 196 e ss.; SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, 1992, p. 32; Cass., Sez. I, 17 dicembre 1991, in C.E.D. Cass., n. 188909), tenuto fra l’altro conto della necessità di interpretare condotte apparentemente negligenti dell’imputato alla luce delle sue strategie difensive (Cass., Sez. un., 13 dicembre 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2146, n. 1208). Per un’ampia disamina degli orientamenti dottrinari e giurisprudenziali in materia v. SCOMPARIN, op. cit., p. 410 e ss. Analoga elaborazione si è registrata con riguardo alla ‘‘colpa grave’’ suscettibile di escludere il diritto alla riparazione per l’errore giudiziario ex art. 643 c.p.p. Si veda in particolare Cass., Sez. IV, 27 novembre 1992, in C.E.D. Cass., n. 193220, secondo cui versa in colpa grave chi mantenga nel corso del procedimento ‘‘condotta caratterizzata da noncuranza, negligenza, incuria, indifferenza per quanto dai propri atti possa derivare sul piano penale’’, tra l’altro ‘‘disinteressandosi delle vicende del processo’’.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
IL SEQUESTRO E LA CONFISCA IN SEGUITO A FATTI PUNIBILI NELL’ORDINAMENTO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA (*)
I.
FORMA GIURIDICA NEGLI STATI UNITI.
I.1. Introduzione. — Per lungo tempo, la violazione dei diritti patrimoniali, in seguito a reati, ha giocato un ruolo minimo nel diritto penale. La sanzione dell’autore come persona occupava, infatti, un posto centrale (1). Per l’azione pubblica, l’interesse dei suoi beni era limitato alla ricerca della prova od a profili di ordine pubblico (confisca). La violazione del patrimonio costituiva un ausilio a ciò, non una sanzione indipendente. Quanto all’azione civile, la vittima poteva, a seconda del sistema giuridico, costituirsi parte civile nell’ambito di un processo penale (modello francese) od ottenere riparazione del danno innanzi al giudice civile. I due sistemi hanno in comune il fatto che la vittima della violazione gioca un ruolo secondario e che i suoi interessi sono limitati all’indennizzo del danno. I leitmotiv attuali dominanti nella lotta contro la criminalità, come quella contro il traffico di droghe, la criminalità organizzata, la frode e la corruzione, non solo offrono molti mezzi ma anche nuove sanzioni. Uno dei mezzi che colpisce di più è l’arsenale crescente di possibilità procedurali (penali) nel campo della ricerca centrata sul profitto dei reati, nel campo del sequestro e della confisca del patrimonio criminale (2). L’epoca in cui la confisca svolgeva un ruolo importante solo in materia di legislazione doganale è finito e sembra che, (*) Quest’articolo è la traduzione di un testo pubblicato in olandese nella rivista ‘‘Delikt on Delinkwent’’, 1997. La ricerca ha potuto essere realizzata grazie ad un soggiorno di studi all’American University di Washington, dovuto ad un sussidio di CNRS dei Paesi Bassi (NWO). Le traduzioni delle citazioni sono responsabilità dell’autore. Il testo è servito di base all’Autore per la relazione tenuta al Convegno ‘‘La confisca nel sistema americano ed europeo come strumento di lotta contro la criminalità organizzata’’, tenutosi a Torino l’8 maggio 1998 a cura della ‘‘Sezione Piemonte Valle d’Aosta dell’Associazione Internazionale Giuristi Italia-USA’’, con il contributo della ‘‘Fondazione Cassa di Risparmio di Torino’’. (1) Si avverte che la terminologia usata dall’articolo non è sempre corrispondente agli istituti analoghi del diritto italiano: questo dipende dalla duplice intervenuta traduzione (dall’olandese al francese e dal francese all’italiano) e dalla necessità di tener conto del diverso sistema nordamericano. (2) Accanto a ciò, si sono create nuove imputazioni e, al livello degli elementi costitutivi, sono stati allargati gli elementi materiali, ristretti gli elementi morali e aumentato il quantum della pena. Gli organi di salvaguardia hanno ricevuto ugualmente nuove competenze di ricerca (ricerca proattiva).
— 955 — sotto l’influenza del modello Nord Americano, la confisca (3) dei patrimoni criminali acquisti un posto importante, non solo come mezzo ma anche come sanzione indipendente (4). L’accento è stato spostato dalla confisca di oggetti per conservare delle prove verso le sanzioni di confisca per ottenere la proprietà dei beni in quanto tale. Questa influenza proveniente dagli Stati Uniti non è diretta, ma si fa tramite qualsiasi genere di norme internazionali ed europee basate ugualmente sulla politica orientata verso la confisca dei beni operata negli Stati Uniti. Penso a questo proposito, alla Convenzione delle Nazioni Unite di Vienna (5), alla Convenzione di Strasburgo (6) e alla direttiva comunitaria sul riciclaggio (7). Queste fonti internazionali ed europee non sono imposte dagli Stati Uniti e lasciano la libertà della scelta agli Stati quanto al contenuto procedurale da conferire alle sanzioni di confisca. Questo contenuto non consiste in una pura operazione tecnica perché viene acquisito contemporaneamente alle competenze procedurali ed all’ius puniendi dello Stato. In breve, i principi generali del diritto (processuale) penale sono sottomessi a dura prova. Le sanzioni di confisca toccano non solo i fatti contestati ma anche i fatti analoghi. A ciò si aggiunge il fatto che spesso si tratta di un onere della prova più leggero, sotto la forma di indizi sufficienti o di plausibilità del fatto, e dell’inversione dell’onere della prova relativa all’origine legittima dei beni o dei valori. Tramite l’approccio orientato verso la confisca, i diritti dei terzi relativi a questi beni sono ugualmente collocati sotto una luce particolare. Per finire, la procedura di confisca è staccata, in molti paesi, dalla procedura penale propriamente detta e si tratta dunque di un processo in due tappe, in seno al processo penale o no. Data l’origine delle sanzioni di confisca, mi sono prefisso come scopo, in questo contributo, di analizzare la forma giuridica negli Stati Uniti per poi esporla ad una critica, partendo dalla Bill of Rights e dalla giurisprudenza della Supreme Court. La questione centrale è quella di sapere se, ed in quale misura, gli Stati Uniti riescano ad instaurare nuove armi nella lotta contro la criminalità della droga ed il crimine organizzato, che rispondano ugualmente alle condizioni minime della protezione giuridica. I.2.
Il sequestro e la confisca negli Stati Uniti.
I.2.1. La forma giuridica. — Come sappiamo, non esiste un regime di diritto (processuale) penale negli Stati Uniti. ognuno dei 50 Stati ha un regime particolare in seno al quale i comportamenti punibili sono di competenza di ogni Stato e vanno ricercati, perseguiti e giudicati dalla polizia, dal Pubblico Ministero e dai Tribunali penali propri. Accanto a questo, il legislatore federale, il Congresso, ha elaborato, in esecuzione delle sue competenze costituzionali, una legislazione penale federale. I sistemi penali degli Stati coesistono a fianco a fianco. La problematica delle sanzioni di confisca (seizure/forfeiture) ha spiccato il volo soprattutto sotto l’influsso della nuova legislazione federale in materia di droga. È la ragione per cui ci limiteremo in questa materia al livello federale. Le disposizioni federali in materia (3) Utilizzo scientemente i termini generali di sequestro e di confisca perché le denominazioni variano da paese a paese. Una distinzione classica è quella tra il sequestro-confisca dello strumento col quale il delitto è stato commesso (instrumentum sceleris), l’oggetto del delitto (obiectum sceleris) e il prodotto del delitto (productum sceleris). Questa ripartizione presenta un valore relativo, le frontiere non essendo sempre così chiare. (4) Si può, infatti, fare un parallelo con l’estensione di altre forme di sanzione, come le multe amministrative (civil penalties) che sono inflitte, negli Stati Uniti, dal giudice civile o, sul continente europeo ma anche, sempre di più negli Stati Uniti, dall’Amministrazione stessa. (5) Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope, Vienna, 1988. (6) Convenzione relativa al riciclaggio, al depistaggio, al sequestro e alla confisca dei prodotti del crimine, Strasburgo, 1990. (7) Direttiva 91/308 per la prevenzione dell’utilizzo del regime finanziario per il riciclaggio di denaro, JO1991, L166.
— 956 — di confisca prevalgono inoltre sul diritto degli Stati (preemption-doctrine). Tramite i colletti bianchi (white-collar statutes), disciplina elaborata a partire dai concetti di riciclaggio (money laundering) e di crimine organizzato (racketeering) quest’approccio è stato progressivamente esteso alla salvaguardia di altre discipline economiche (substantive statutes) relative alla borsa, all’ambiente o orientate verso la formazione di trusts o alla frode. Attualmente ci sono già, solo a livello federale, 140 leggi federali comportanti delle misure di confisca. L’autorità ha, in realtà, preso il posto della vittima e chiede, in sua vece, l’indennizzo del danno sociale che eccede spesso le spese dell’autorità e i benefici conseguiti dall’autore. In questo modo, le sanzioni di confisca non presentano più un carattere riparatorio, d’indennizzo (remedial), ma rivestono un carattere punitivo. Le sanzioni di confisca, dunque, sono paragonabili ad ammende (penali). Al Dipartimento di Giustizia, il Ministro della giustizia americano ha indicato una prima priorità delle sanzioni di confisca e ha creato un ufficio specializzato sull’argomento (Executive Office of Asset forfeiture) che raccoglie ogni anno parecchie centinaia di milioni di dollari di redditi di confisca. Il DEA (Drugs Enforcement Agency) e l’FBI sono entrambi particolarmente attivi in questo campo. La confisca, non solo dei benefici della droga (proceeds), ma ugualmente del patrimonio e anche delle imprese, deve portare ad una ‘‘morte civile’’ risoluta delle organizzazioni criminali. Ciò ha condotto a delle contrapposizioni tra i diritti (patrimoniali) del cittadino e il potere dello Stato, così come ad un dibattito pubblico sulle frontiere della salvaguardia del diritto che hanno costretto la Supreme Court, contrariamente alla Corte Europea dei Diritti Umani (8), ad un ampio ventaglio di giurisprudenza. Delineerò prima un breve abbozzo della forma giuridica delle sanzioni di confisca negli Stati Uniti (9). Dobbiamo fare una distinzione tra la forma di carattere civile e quella di carattere penale (civil and criminal forfeiture) (10), anche se le due procedure di confisca trovano la loro origine nella presunzione di infrazione. La confisca penale è una procedura in personam legata alla presunzione criminale contro le persone. Questo significa che fa integralmente parte della procedura penale. Questa confisca è dipendente dalla condanna (post conviction) ed è imposta dal giudice penale in quanto sanzione formale per il condannato e solo per i fatti giudicati. La confisca di diritto civile, invece, è una procedura in rem relativa al patrimonio e non all’imputato, fondata su una finzione legale secondo la quale il patrimonio porta entro di sè la colpa (11). Contrariamente alla confisca penale, questa procedura non è sottoposta alla procedura penale e la condanna non ne costituisce una condizione indispensabile. Nell’80% di queste confische di diritto civile, non si arriva mai ad un’imputazione ufficiale. Alcuni parlano allora chiaramente di una ‘‘guilty property fiction’’. Anche se l’autorità dispone di indizi insufficenti per incolpare qualcuno o per condannarlo, si può, malgrado tutto, accettare la confisca di diritto civile. Lo slogan allora è il seguente: ‘‘la confisca civile-amministrativa (12) rappresenta un sogno per il Pubblico Ministero e un incubo per la difesa’’. Questa confisca mira a rendere le persone responsabili dell’utilizzo o dell’au(8) V. J.A.E. VERVAELE, Le sanzioni di confisca in diritto penale: un intruso nato dal diritto civile? Un’analisi della giurisprudenza della CEDH e del significato che riveste per il diritto (procedurale) penale olandese. Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1998, n. 39-57. (9) Non mi soffermerò più qui sugli aspetti di diritto internazionale di questa problematica. Come sappiamo, gli Stati Uniti utilizzano un approccio di giurisdizione nel senso lato. Vedere i contributi in R.D. ATKINS, The Alleged transnational criminal, Dordrecht, 1995. (10) La distinzione ‘‘civil/criminal’’ nel diritto anglosassone è ingannevole perché ‘‘civile’’ riprende ugualmente le sanzioni amministrative imposte dall’Amministrazione stessa o richieste dall’Amministrazione prima del giudice civile. (11) La procedura in rem conosce tre forme things guilty, things hostile, things indebted. Things guilty indica il legame con l’infrazione iniziale ed è l’unica procedura nel corso della quale i diritti patrimoniali sono lesi in seguito a infrazioni. (12) Traduco civil-confiscation con civile/amministrativo perché la nozione ‘‘civile’’
— 957 — torizzazione ad utilizzare il loro patrimonio in contraddizione col diritto penale o dell’accettazione di un patrimonio di origine criminale. A dispetto del fatto che le sanzioni di confisca siano orientate verso la salvaguardia di esigenze penalistiche, vengono ugualmente fatte tramite procedure in rem di diritto civile. La confisca di diritto civile può essere imposta tanto da un giudice civile quanto da un organo di salvaguardia (enforcement agency) (13). L’organo di salvaguardia ha la scelta tra la ‘‘summary forfeiture’’ quando i beni sono in se stessi proibiti (droghe, merce di contrabbando) e la confisca amministrativa. In quest’ultimo caso, l’agenzia può sequestrare e confiscare il patrimonio, se la legislazione federale prevede tale competenza, in seguito a fatti punibili (14) e se l’oggetto rappresenta meno di 500.000 $, o se è passibile di interdizione di importazione, o se consiste in un mezzo di trasporto che è servito al trasporto di droghe o concerne denaro oggetto di una transazione finanziaria (15). Contrariamente alla variante ‘‘summary’’ è una notificazione del sequestro all’interessato che si applica in caso di confisca amministrativa. In mancanza di reazione, l’agenzia prende essa stessa una decisione di confisca. Tanto la ‘‘summary forfeiture’’ quanto la variante amministrativa sono quindi extra-giudiziarie. Se le condizioni menzionate sopra non sono soddisfatte o se sono considerati dei beni immobili, ed in quanto l’interessato si opponga, l’US Attorney deve essere richiesto; per la ‘‘civil forfeiture’’ è il giudice civile che viene richiesto. Il giudice conferisce, anche dopo una notifica, un ‘‘order of forfeiture’’ che viene messo in esecuzione dall’US Marshals Service del Dipartimento di Giustizia. Negli Stati Uniti non ci sono disposizioni generali per la confisca, né a livello civile, né a livello penale. Le leggi federali determinano le sanzioni di confisca che possono essere imposte. Tra il 1790 e il 1970 nessuna legge federale prevedeva la confisca penale. Ciò era dovuto all’avversione per la confisca da parte della ‘‘common law’’ inglese (forfeiture of Estate), secondo la quale, nell’era coloniale, tutti i beni dei criminali erano automaticamente confiscati in favore della corona. La confisca in rem di diritto civile esiste dal 1790 nel campo della dogana ed è stata estesa in seguito ad una giurisprudenza permissiva della Supreme Court a molti domini di salvaguardia. Nel 1970 un passo verso la confisca penale è stato fatto tramite due leggi federali relative al crimine organizzato ed alla droga: la legge sul ‘‘Racketeer Influenced and Corrupt Organizations’’ (RICO) (16) e la legge sulla ‘‘Continuing Criminal Enterprise’’ (CCE) (17). Sono state riprese disposizioni simili in materia di confisca in altre leggi federali come nel ‘‘Money Laundering Control Act’’, 1986 (MLCA) (18), e nelle dispoinclude nella Common law tanto le sanzioni imposte dal giudice civile quanto quelle imposte dall’Autorità amministrativa. (13) Negli Stati Uniti ci sono numerosi servizi indipendenti dall’autorità incaricata della disciplina e della salvaguardia in un settore di politica. Alcuni esempi di regulatory agencies dotati di una competenza di salvaguardia (enforcement agencies) come: Environmental Protection Agency (EPA), Food and Drug Administration (FDA), le Securities and Exchange Commission (SEC) e Financial Crime Enforcement Network (FINCEN). La loro competenza di salvaguardia non si limita ad iniziare l’inchiesta ma contiene ugualmente un diritto di richiesta per il giudice e, in un certo numero di casi, anche una competenza indipendente di sanzione (imposizione di multe amministrative e di sanzioni di confisca). In seno a queste agencies ci sono dei giudici amministrativi e dei membri del pubblico ministero che lavorano. (14) Le disposizioni del diritto doganale, 19 USC § 1602-1621, sono dichiarate applicabili in questa materia. Tuttavia, la portata è più larga di quella del contrabbando doganale. Molte discipline, come per esempio parti della legislazione in materia di ambiente, ne fanno parte. (15) 31 USC § 5312 (a) (3) (Bank Secrecy Act). (16) Organized Crime Control Act, 1970, 18 USC § 1961-1968. (17) Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act, 1970, 21 USC § 848853. (18) 18 USC § 981-982, che sono ugualmente di applicazione al ‘‘Financial Institu-
— 958 — sizioni federali del diritto (processuale penale) (19). Attualmente, il concetto di confisca penale è integralmente ancorato nel diritto penale (procedurale) americano (20). Sono state prese ugualmente delle misure permettendo di conservare la mano sul patrimonio suscettibile di essere confiscato poiché non esiste alcuna possibilità in diritto penale di procedere ad un sequestro cautelare prima della condanna. Il Tribunale può fare ‘‘bloccare’’ un patrimonio e può, tramite ‘‘temporary restraining orders’’ o ‘‘ingiunzioni’’ mettere tutto in opera per garantire lo status quo del patrimonio nell’attesa di una sanzione penale ulteriore. In seno alle 140 leggi che contengono delle disposizioni di confisca, analizzerò i modelli più importanti che, tramite la loro funzione di esempio, hanno portato a un ‘‘widening effect’’. Non ci stupiremo di sapere che tutto è cominiciato al momento della guerra contro la droga, ‘‘war on drugs’’. Ciò che è iniziato con la confisca della merce di contrabbando è stato progressivamente esteso a: contrabbando derivato (veicoli, depositi), profitti (proceeds), profitti derivati (derivate proceeds) per finire con la confisca di valori (value property forfeiture) e la confisca di beni di sostituzione (substitute asset forfeiture). I.2.2. La droga e il crimine organizzato: le aree funzionali di salvaguardia. — La legislazione federale americana in materia di droga conosce dunque, dal 1970, accanto alla confisca civile, la confisca penale (21). La variante nata dal diritto civile (22) prevede la confisca: 1) di droghe, di oggetti e prodotti che sono utilizzati o di cui l’intenzione era di utilizzarli per produrre droghe, trattarle, fornirle, trasportarle, importarle ed esportarle; dei contenitori e mezzi di trasporto compresi navi ed aerei, che vengono utilizzati per il trasporto o per i quali l’intenzione era di utilizzarli o che dovevano rendere possibile il trasporto, la vendita, la detenzione ecc., 2) del denaro o dei valori che sono utilizzati per ottenere droghe o di cui l’intenzione era di utilizzarli a questo scopo o che dovevano rendere possibile tale traffico e di tutti i prodotti del crimine che presentano tracce di questo scambio (23) e 3) di beni (anche immobili) che sono utilizzati o la cui intenzione era di utilizzarli per commettere delitti di droga. Malgrado questa descrizione molto ampia di oggetti, le nuove sanzioni penali di confisca vanno ancora più in là. Accanto alla confisca dei benefici (proceeds) (24) e dei beni che sono utilizzati per commettere infrazioni di droga (facilitating property) (25), sono possibili anche la confisca del patrimonio dell’associazione criminale (continuing criminal enterprise property) (26) e dei beni di sostituzione (substitute assets) (27). Quest’ultima tions Reform. Recovery and Enforcement Act’’ (FIRREA). Il FIRREA è nato in relazione ai numerosi scandali nel mondo finanziario. (19) 18 USC § 1956-1957 e 1960. (20) D.J. FRIE, Rationalizing criminal forfeiture, in The journal of Criminal Law and Criminology, 1988, 328-436. (21) G.M. MAVEAL, The unemployed criminal alternative in the civil way of drug forfeiture, in American criminal law review, vol. 3035, 35-96. (22) 21 USC § 881. (23) Questo concetto viene interpretato in modo così vasto dai Tribunali che conduce ad una confisca dei valori. (24) 21 USC § 853 (a) (1): ‘‘any property constituting or derived from, any proceeds the person obtained, directy or indirectly, as the result of such violation’’. (25) 21 USC § 853 (a) (1): ‘‘any of the person’s property used, or intended to be used, in any manner or part, to commit, or to facilitate the commission of, such violation’’. (26) 21 USC § 853 (a) (3) esige una condanna sulla base di 21 USC 848 essendo l’associazione criminale. Le persone saranno decadute, oltre ogni titolo di proprietà descritto nel par. 1 o 2, da qualsiasi diritto dando un controllo sull’impresa criminale (...) ‘‘the person shall forfeit, in addition to any property described in paragraph (1) or (2) any of his interest in claims against, and property or contractual rights affording source of control over, the continuing criminal enterprise’’. (27) 21 USC § 853 (p): ‘‘Missing property or property diminished in value. If any of the property described in subsection (a) as a result of any act oor omission of the defendant (1) cannot be located upon the exercise of due diligence: (2) has been transferred or sold to,
— 959 — costituisce una confisca di valori e non una confisca di oggetti. Il bene non è trasferito allo Stato ma lo Stato ne diventa il creditore. Come risulta, la confisca non è limitata ai benefici ma si estende a tutto ciò che permette l’attività criminale o che vi è implicato. In questo modo, l’impresa stessa diventa oggetto di confisca (enterprise forfeiture). Questa confisca penale estesa è ripresa nella legislazione in materia di criminalità economica e finanziaria e di crimine organizzato in particolare. L’‘‘Organized Crime Act’’ 1970, è contenuto sotto il titolo IX RIC0 (28). RICO (29) ha per obbiettivo, tramite la lotta contro le reti criminali, di combattere l’infiltrazione del crimine organizzato nell’attività legale dell’impresa. Gli elementi costitutivi di RICO (30) dicono chiaramente: 1) che l’incolpato 2) commettendo due o più atti (31) 3) che costituiscono un modello 4) di ‘‘racketeering activity’’ 5) investe direttamente o indirettamente in, o conserva un interesse in, o partecipa a 6) un’impresa 7) le cui attività hanno un’influenza sul traffico interstatale o internazionale. Il concetto ‘‘racketeering’’ disegna infatti il banditismo finanziario come la truffa, l’estorsione, la frode, la prostituzione, il traffico di droga ecc... Viene definito in maniera così larga che quasi tutte le forme di appropriazione illegale di beni ne fanno parte. RICO non contiene nuovi comportamenti punibili ma ricollega le conseguenze penali e civili alla commissione di almeno due infrazioni sotto le quali cadono molte infrazioni di base (‘‘predicate offenses’’) compresi i delitti sessuali ed il traffico di rifiuti. Assai presto, la giurisprudenza, compresa quella della Supreme Court (32), ha abbandonnato la condizione secondo la quale deve trattarsi di infiltrazione nell’economia legale, ciò che ha fortemente esteso la portata di RICO. Inoltre, la congiura (conspiracy) in vista della commissione di RICO cade ugualmente sotto le disposizioni penali. Il Dipartimento di giustizia riconosce volentieri che le possibilità di RICO sono vastissime (33). Le infrazioni di RICO possono essere avvicinate tramite il diritto civile (Ordinanza giudiziaria di licenziamento o di vendita dell’azione dell’impresa) e/o tramite il diritto penale (20 anni di prigione, ammende e confisca dei beni ottenuti da o utilizzati in relazione con, le ‘‘racketeering activities’’). RICO contiene senza dubbio i più potenti strumenti nella lotta contro il crimine organizzato. RICO non conosce la confisca civile ma una confisca (34) che è una copia della confisca in materia di droga. RICO contiene accanto alla sanzione di confisca dei benefici compresi quelli derivati e quelli di sostituzione (35), anche la confisca di interessi legati all’impresa dell’incolpato (36). In questo or deposited with, a third party: (3) has been placed beyond the iurisdiction of the Court: (4) has been substantially diminished in value: or (5) has been commingled with other property which cannot be divided without difficulty; the court shall order the forfeiture of any other property of the defendant up to value of any property described in paragraphs (1) through (5)’’. (28) 18 USC § 1961-1968. (29) N. JORG, De afbouwvan het accusatoire karakter van het Amerikanses strafrecht onder inviood van de RICo-wet van 1970, Delikt on Delinkwent, 1984, 852-866. (30) 21 USC § 1962. (31) V. 21 USC § 1961 per le ‘‘credicate offensed’’. (32) V. casi US v. Turkette, 452 US 576 (1981) e Russellov, US, 464 US 16 (1983). (33) Department of justice Manual, foglietti mobili, 9-110.200 (9-2131). (34) 18 USC § 1963. (35) 18 USC 1963 (m): Se, dal fatto dell’imputato, tramite falsa dichiarazione od omissione, parte dei suoi beni sfugge alla gestione di amministratore diligente, viene trasferita o venduta a terzi, è portata fuori dalla giurisprudenza della Corte, viene mescolata ad altri beni in modo tale da non più poter distinguerla se non con difficoltà, la Corte procederà al sequestro di tutti i beni dell’imputato, indipendentemente dei loro valori rispettivi (art. 1 a 5). ‘‘If any of the property described in subsection (a) as a result of any act or mission of the defendant (1) cannot be located upon the exercise of due diligence; (2) has been transfered or sold to, or deposited with, a third party; (3) has been placed beyond the jurisdiction of the court; (4) has been substantially diminished in value; or (5) has been commingled whit other property wich cannot be divided without difficulty the court shall order the forfeiture of any other property of the defendant up to the value property described in par. (1) through (5). Questo è parallelo a 21 USC § 853 nell’area della droga. (36) 18 USC § 1963 (a): ‘‘Chiunque viola qualsiasi disposizione del § 1962 (...) per-
— 960 — modo, il legame tra le infrazioni e i benefici è cancellato, ma la disciplina si avvicina ugualmente alla confisca generale dei beni (morte civile), tanto più che la confisca non è limitata a questa parte dell’impresa contaminata dalla ‘‘racketeering activity’’ (37). Nell’ambito finanziario, il 18 USC § 981 prevede la confisca civile in caso di infrazione all’obbligo di rapporto al momento delle transazioni (CTR). Concetti quali ‘‘qualunque proprietà, mobile o immobile, implicata’’ o ‘‘ogni proprietà sottomessa alla giurisdizione degli Stati Uniti, costituendo, derivando o presentando tracce dei prodotti del crimine, in maniera diretta o indiretta’’ sono oggetto di un’interpretazione larga e concernono per esempio anche i conti in banca, dato che sono utilizzati per commettere delle infrazioni di riciclaggio. La confisca penale nel campo del CTR e del riciclaggio (money laundering) è recente (38). Dal 1986 era possibile per le infrazioni ai ‘‘money laundering statutes’’ 18 USC § 1956 (riciclaggio) o § 1957 (transazioni finanziare illegali) ma era limitata a ‘‘qualsiasi proprietà, mobile o immobile che rappresenti importanti entrate ottenute dalla persona, in un modo diretto o indiretto, come risultato del crimine, o che presenti delle tracce di questo crimine’’. Il termine ‘‘importanti entrate’’ disegnava solo le commissioni del riciclatore e non il denaro stesso. Nel 1988, il 18 USC § 982 (a) è stato adattato. Le infrazioni agli obblighi CTR (39) vi sono ugualmente incluse e il campo di applicazione della confisca è stato esteso ad ogni proprietà, mobile o immobile, avente un’implicazione nei prodotti del crimine o che ne presenta delle tracce. Contemporaneamente, è stato introdotto il concetto dei prodotti di sostituzione del crimine (‘‘substitute assets’’) nel documento 18 USC § 982 (b). Tuttavia, rimaneva un problema perché il riciclatore non diponeva, in quanto prestatore di servizio, del patrimonio. È la ragione per la quale un adattamento è stato fatto nel 1990, grazie al quale il patrimonio proprio del riciclatore può essere sequestrato a patto che effettui almeno tre operazioni in un periodo di 12 mesi e per un valore di 100.000 $ (40) almeno. Nel 1992, le imprese specializzate nella circolazione illegale di denaro (41) sono state aggiunte alla lista delle confische. Per finire, una legislazione specifica in materia di confisca è stata elaborata nel campo della criminalità finanziaria bancaria. Con l’introduzione di FIRREA (Financial Institution Reform, Recovery and Enforcement Act, 1989) è stata prevista, accanto a una confisca civile (42) al momento delle infrazioni nel campo finanziario, una confisca penale (43). Ma molte infrazioni FIRREA possono essere legate alle infrazioni RICO e alle discipline di riciclaggio, ciò che fa sì che l’ampia confisca d’impresa possa anche essere utilizzata in questo campo. I.3. Confisca civile e confisca penale: un bilancio. — L’inflizione di una sanzione di confisca non è stata abbandonata alla prassi giudiziaria ma riceve piuttosto una definizione derà tutti i suoi diritti, di ogni genere, che si intende fare valere in giustizia: in particolare titoli di proprietà, garanzie, richieste..., sugli affari che hanno un legame diretto o indiretto col racket o con la percezione di crediti percepiti illegalmente in violazione dell’art. 1962’’. ‘‘Whoever violates any provision of § 1962 (;) shall forfeit (;) any interest the person has acquired or maintained in violation of § 1962; (2) any (A) interest in, (B) security of, (C) claim against; or (D) property or contractual right of any kind affording a source of influence over any enterprise which the person has established, operated, controlled, obtained, directly or indirectly, from racketeering activity or unlawful debt collection in violation of § 1962’’. Questo è parallelo a 21 USC § 853 (a) (3) nell’area della droga. (37) Una proposta di riforma del sequestro secondo l’organizzazione RICO e la CCE, 97 Harvard Law Review, 1929 (1984). (38) R. BANOUN e R.G. WHITE, US Money laundering and forfeiture laws and their impact on innocent third parties, in R.D. Atkins, c.c. 219. (39) 31 USC §§ 5313, 5316-5324. (40) 21 USC § 982 b (2). (41) 18 USC § 1960. (42) 18 USC § 981 (a) (1), (C), (D), (E). (43) 18 USC § 982 (a) (2), (3), (4).
— 961 — obbligatoria (mandatory). Quale procedura di confisca può essere seguita e chi impone la sanzione? La legislazione federale specifica determina se le sanzioni civili e/o penali di confisca siano possibili e, in caso di sanzioni civili, se queste possano essere imposte dal giudice o dall’amministrazione stessa (enforcement agency). Se la legge prevede diverse procedure di confisca, ed in genere è così, l’agenzia determina, in mancanza di una competenza propria, quale via: civile o penale o le due, viene seguita (44). Tranne la summary e la confisca amministrativa, un intervento del Pubblico Ministero — sotto l’autorità del Ministero della Giustizia — è sempre necessario; spesso quest’ultimo ha un ufficio presso le agencies. La sanzione di confisca viene poi imposta dal giudice civile o dal giudice penale (confisca giudiziaria). La procedura civile può ancora essere avviata dopo lo svolgimento della procedura penale, anche se questa non ha portato alla condanna. Benché la confisca penale sia fortemente aumentata, la confisca civile rimane la via normale per la confisca dei beni ottenuti da, o utilizzati, nelle infrazioni alla legge. Sotto la pressione della lotta contro la droga e la criminalità organizzata, le autorità hanno interpretato in senso lato la nozione di ‘‘patrimonio colpevole’’ e hanno proceduto a delle confische estese, indipendentemente dalla procedura penale. È ugualmente apparso che, legando le due disposizioni penali estese di confisca alle disposizioni penali definite come ‘‘norme vergini’’, si è riusciti a creare, anche per la via della procedura penale, un ‘‘paradiso’’ per gli organi di procedimento. Infatti, la portata della confisca penale è più ampia di quella della confisca civile: essa permette anche la confisca di beni di sostituzione e la confisca di valori. La posizione di terzi in diritto penale è anche più debole, a meno che siano di buona fede. In particolare nell’ambito della droga, la forma penale va al di là, anche con la confisca di interessi commerciali di sostegno. La forma penale presenta tuttavia lo svantaggio che la prova penale deve essere fuori da ogni dubbio ragionevole (beyond reasonable doubt) (45) e che lo Stato non entra in possesso del patrimonio prima della condanna. La forma civile ha una portata più limitata ma conosce la forma di prova più leggera (46) della probabilità ragionevole (probable cause) (47) e l’autorità riceve il patrimonio prima della condanna. Nella procedura civile colui il cui patrimonio corre il rischio di essere confiscato, deve poi fornire la prova contraria sulla base della preponderanza delle prove. Può appoggiarsi sul fatto che l’infrazione non si è prodotta, sulla prova di un origine legale, sulla sproporzione o sull’eccezione del proprietario innocente (innocent owner defense). Questo capovolgimento dell’onere della prova viene considerato dalla Supreme Court come conforme al diritto costituzionale (48). La confisca civile è, a volte, l’unica via possibile se, ad esempio, il patrimonio appartiene in parte all’imputato e in parte ad (44) In questo caso, certe direttive specificano che, al momento della seconda confisca, si deve tener conto della prima. (45) Anche questo punto deve essere relativizzato perché la giurisprudenza appare divisa quanto al valore della prova. Certi Tribunali partono, infatti, dall’idea che la confisca non faccia parte dell’incriminazione stessa per la quale un ‘‘beyond reasonable doubt’’ si deve esigere ma costituisce una parte della sanzione per la quale una prova sulla base della ‘‘preponderance of evidence’’ è sufficiente. Vedere il commento del 21 USC § 8S3 in Lexis/Nexis. (46) È peraltro notevole che il Drug Trafficking Offences Act 1986 inglese che conosce solo la confisca penale, prevede nella sezione 1 (7A) un standard of proof civile per determinare se una persona abbia tratto beneficio di un traffico di droga. (47) La probable cause è definita come una convinzione ragionevole, basata su fatti e circostanze ‘‘a reasonable belief, supported by facts and circumstances’’ (oneri seri). L’autorità può provare la probable cause non solo tramite una prova diretta ma anche tramite una ‘‘circumstancial evidence’’, un ‘‘hearsay evidence’’ (informazioni provenienti da informatori, per esempio) e tramite referti di fermo. Contrariamente alla confisca, è il regime più pesante di prova della ‘‘preponderance of evidence’’ che si applica alle ammende civili. (48) United States v. One Assortment of 89 Firearms, 465 US 354, 362 (1984). V. anche United States v. Santoro, 866 F. 2nd 1538 (4th Cit. 1989) e United States v. 250.000 in US Currency, 808 F. 2nd 89S (1st cir. 1987).
— 962 — un non imputato, se l’imputato è contumace o se, prima che qualcuno venga sanzionato, ha dato l’autorizzazione a utilizzare il suo patrimonio per finalità criminali senza che la sua complicità nelle infrazioni debba essere provata. L’onere della prova nella procedura civile di confisca mette, ad ogni modo, l’interessato in una posizione debole, ma la differenza a livello dell’onere della prova presenta ugualmente altre conseguenze spiacevoli per il giudicabile. Infatti, il Governo si può appoggiare sulla dottrina del ‘‘collateral estoppel’’. Se l’imputato viene condannato sul piano penale per i fatti, il Governo può applicare la prova nella procedura civile di confisca. Se l’imputato è prosciolto, non può ricorrere in appello in una procedura civile perché il livello di prova è più severo innanzi al giudice penale che innanzi al giudice civile.
II.
ANALISI COSTITUZIONALE E PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO (PROCESSUALE) PENALE NEGLI STATI UNITI.
II.1. Introduzione. Le garanzie del diritto penale e della Costituzione (49). — La retorica della guerra ha chiaramente avuto per conseguenza negli Stati Uniti di squilibrare la bilancia tra la lotta contro la criminalità e le garanzie di processo equo e ciò a detrimento della protezione giuridica. Il potere giudiziario, compreso la Supreme Court (50), ha seguito a lungo quest’evoluzione. Ci siamo lasciati portare dalle onde e abbiamo lasciato fare (51). In ragione della critica crescente, in seguito ad un certo numero di abusi flagranti di confisca, un capovolgimento si è avuto, a partire dagli anni Ottanta, nella giurisprudenza della Supreme Court, che, contrariamente alla giurisprudenza dominante dei Districts Courts e delle Courts of Appels, tenta di sottomettere lo zelo in materia di inseguimenti ad un certo numero di condizioni minime. È interessante vedere come la pratica della confisca della Supreme Court ha costretto a prendere posizione nei confronti di un certo numero di questioni spinose ma essenziali in materia di ius puniendi dello Stato e di protezione giuridica corrispondente. L’evoluzione della legislazione ha minato l’idea di base della confisca stessa e gli ha attribuito sempre più un carattere punitivo in luogo e al posto di un carattere riparatorio. La Bill of Rights (gli otto primi emendamenti della Costituzione) instaura per l’autorità delle restrizioni quanto all’investigazione delle attività criminali sospette e quanto all’inseguimento degli indiziati e degli imputati di delitto. Come risulta della giurisprudenza, la problematica della confisca attraversa infatti tutta la Bill of Rights. L’analisi trasversale che segue si sofferma sul quarto emendamento (l’esclusione della prova ottenuta da una perquisizione o sequestro illegale — illegal search and seizure — esclusionary rule), sul quinto (il diritto di non accusare se stesso - self incrimination; ne bis in idem — double jeopardy; giudizio equo — due process), sul sesto (giudizio equo - due process) e sull’ottavo (la clausola delle multe eccessive - excessive fines clause). Storicamente, questi emendamenti sono stati redatti in quanto restrizioni destinate al Governo federale ma, tramite il quattordicesimo emendamento del 1867 (52), ci siamo chiesti se la Bill of Rights potesse anche essere applicabile agli Stati. Nell’ottica attuale (49) J.C. KLOTTER & J.R. KANOVITZ, Constitutional Law, Cincinnati, 1994 e S.L. EMANUEL, Constitutional Law, New York, 1995. (50) La Supreme Court accetta solo l’1% delle domande d’appello. (51) Con quest’attitudine, la protezione costituzionale è meglio garantita in un certo numero di Stati che a livello federale. È in contraddizione con l’evoluzione storica del quattordicesimo emendamento; si parla di ‘‘new federalisation’’. (52) In quest’ambito, l’estratto seguente è importante: ‘‘No State shall deprive any person of life, liberty or property without due process of law’’.
— 963 — della Supreme Court (53), si parla di un incorporamento selettivo della Bill of Rights nel quattordicesimo emendamento (54). Nel corso di un’analisi di giurisprudenza della Supreme Court si deve rilevare che molte questioni relative al carattere giuridico della confisca intervengono in seno ad un emendamento determinato. Non è perché una sanzione presenta un carattere punitivo alla luce dell’ottavo emendamento (excessive fines clause) che automaticamente viene considerata come sanzione punitiva per l’applicazione della regola ne bis in idem del quinto emendamento. Poi, la maggiore parte della giurisprudenza concerne soprattuto la protezione giuridica in materia di confisca civile dato che i maggiori ostacoli si trovano in essa. Ma progressivamente compaiono anche le prime cause di confisca penale nate dalla controversa RICO. Anche se la confisca civile esiste dal 1790, il carattere giuridico è stato oggetto di discussione solo nel caso Miller relativo alle infrazioni commesse al momento della guerra civile americana. Miller ha argomentato innanzi alla Supreme Court che i ‘‘Confiscation Acts’’ adottati dal Congresso nel corso della guerra civile avevano per obbiettivo di sanzionare l’alto tradimento senza tuttavia prevedere la protezione giuridica obbligatoria ripresa nella Bill of Rights. La Supreme Court stabilisce tuttavia che il Congresso ha adottato una legislazione nell’ambito delle sue competenze speciali di guerra per proteggere la sovranità nazionale e non nell’ambito del suo ruolo normale di legislatore (55). Il giudice Field ha formulato a questo proposito un’importante opinione contraria in cui ammette che l’obbiettivo era la sanzione dell’alto tradimento e che, dunque, in materia di confisca civile, le condizioni di protezione giuridica dei procedimenti criminali dovrebbero essere applicate; ‘‘la confisca dei beni ha un carattere punitivo; non punisce la cosa come tale ma viene imposta a causa della delinquenza del proprietario’’ (56). La discussione relativa alle condizioni di protezione giuridica costituzionale per una sanzione civile che presenta un carattere punitivo, semi-penale è quindi aperta, discussione che è comparabile alla discussione relativa all’art. 6 CEDH in Europa nel campo delle sanzioni civile ed amministrative. II.2.
La giurisprudenza della ‘‘Supreme Court’’ in materia di confisca.
II.2.1. La confisca come pena nel quarto e nel quinto emendamento. — Alla fine del secolo scorso, la Supreme Court pronuncia un’importante sentenza nel caso Boyd c. United States (57). Boyd, imputato di importazione illegale e di frode di tasse doganali, deve, alla richiesta fatta dal Ministero Pubblico al Tribunale, comunicare la contabilità delle fatture e delle note (suboena for the production of evidence). Il fatto di non dare un seguito a questa richiesta viene considerato come una confessione di colpevolezza, ciò che potrebbe portare all’applicazione di sanzioni penali e ad una confisca civile. Il parere della Supreme Court è che ‘‘la produzione vincolante dei documenti privati, affinché siano utilizzati contro di lui o contro il suo patrimonio, costituisce una procedura penale o criminale o una confisca e entra nello spirito del quinto emendamento... La loro mancata presentazione viene intesa come confessione delle allegazioni che dovrebbero essere provate tramite la presentazione stessa ed equivale ad una produzione vincolante di documenti’’. La Supreme Court è sempre stata prudente prima di spezzare le distinzioni giuridico-formali, come ‘‘criminal versus civil’’ iscritte (53) Fondata su Mapp contro Ohio 367 US 643 (1961). (54) I diritti costituzionali seguenti sono quindi vincolanti per gli Stati: la prova ottenuta per una perquisizione o sequestro illegale è esclusa (quarto em.); protezione contro le pene crudeli o inusuali (ottavo em.); diritto alla difesa (sesto em.); diritto di non accusare se stesso (quinto em.); diritto al confronto (sesto em.) e protezione contro ne bis in idem (quinto em.). (55) 78 US (11 Wall.) 268 (1870). (56) Idem, 343. (57) 116 US, 616 (1886).
— 964 — dal Congresso nella legislazione. La Supreme Court, tuttavia, adotta un’attitudine categorica e di principio in materia: ‘‘È dovere delle Corti essere vigili quanto ai diritti costituzionali dei cittadini e quanto alle loro infrazioni inosservate. Il loro motto dovrà essere: obsta principiis’’. La posizione di principio è, da questo momento, la seguente: ‘‘Le procedure instaurate, il cui scopo è l’ottenimento della confisca della proprietà di qualcuno per i crimini da lui commessi, sono di natura criminale, anche se sono, dal punto di vista formale, di natura civile/amministrativa’’ (58). La Supreme Court estende in modo lato questo ragionamento al quinto e al sesto emendamento: ‘‘una procedura che porta alla confisca del patrimonio di una persona a causa di un crimine contro la legge anche se esso ha una forma civile/amministrativa e indipendentemente dal fatto che sia in rem o in personam è una causa criminale, nel senso del quinto emendamento, nella parte che prevede che nessuno sarà obbligato in una causa penale a testimoniare contro se stesso (...)’’. Quando una cosa proibita dal quinto emendamento — l’autoimputazione — si realizza nell’ambito di una perquisizione e di un sequestro di documenti, essa diventa una ‘‘perquisizione e un sequestro illegittimo’’ nel senso del quarto emendamento (59). II.2.2. La confisca e la prova ottenuta illegalmente secondo il quarto emendamento. — La sentenza nel caso Boyd non significa che la prova ottenuta illegalmente per un ‘‘search of seizure’’ illegale sia automaticamente applicabile a tutte le confische civili. La decisione in materia è stata presa solo nel 1965, nel caso One 1958 Plymouth Sedan contro Pensylvania (60). La polizia, incaricata dalla salvaguardia della legislazione in materia di alcool, ferma un veicolo sospetto perché sovracaricato e trova al momento della perquisizione 31 casse di alcool. Il carico e la macchina sono sequestrati. La mancanza del mandato di perquisizione fa sì che la District Court concluda che la prova era ottenuta illegalmente e respinga quindi la confisca in rem (61). La Corte d’Appello decide tuttavia che l’esclusione delle prove ottenute illegalmente è applicabile solo alle sanzioni penali e non alla confisca civile. Questo punto è confermato dalla Supreme Court. Innanzi alla Supreme Court, le autorità della Pensylvania affermano che la sentenza nel caso Boyd non è qui applicabile, dato che non si tratta, in questo caso, di un’ordinanza di ammissione della prova ma della legittimità della prova che le autorità hanno già in loro possesso. La Supreme Court decide tuttavia che ‘‘i ragionamenti nel caso Boyd si applicano con almeno altrettanta forza se non di più in questo caso’’. In un secondo ragionamento, le autorità rinviano alla giurisprudenza nella quale la Supreme Court ha approvato la confisca in situazioni simili. La Supreme Court dice tuttavia che questi casi concernono solo merci di contrabbando (contraband) il cui possesso è di per sé illegale e non il veicolo (derivative contraband). Inoltre, il valore della macchina è molto più alto della sanzione penale incorsa in caso di infrazione alla legge sull’alcool. Sarebbe quindi strano applicare l’‘‘esclusionary rule’’ alla sanzione penale e non alla sanzione civile. La strada seguita nel caso Boyd viene dunque perseguita (‘‘la confisca è chiaramente una pena per il crimine commesso’’). Il significato di questa sentenza non deve essere sopravvalutato perché molti District Courts concludono che ‘‘un sequestro illegale di proprietà non rende immune questa proprietà da una procedura di confisca (...); la proprietà stessa non può essere esclusa dalla procedura di confisca (...); le prove ottenute indipendentemente (58) Idem, 634. (59) Questo è stato confermato nel 401 US 715 (1971), United States Coin & Currency. (60) 380 US. 693,696 (1965). Si tratta qua di un caso al livello dello Stato in seno al quale il quinto em. è applicabile tramite il 14esimo em. (61) La ‘‘esclusionary rule’’ viene letta dalla giurisprudenza nella prima parte del quarto em.: ‘‘The right of the people to be secure in their persons, houses, papers, and affects against unreasonable searches and seizures, shall not be violated’’.
— 965 — dalla confisca illegale possono essere utilizzate in una procedura di confisca’’ (62). In breve, nulla impedisce agli organi di salvaguardia di sequestrare in maniera illegale i beni e di elaborare, in seguito, la prova sulla base di una probabilità ragionevole (probable cause) relativamente semplice per l’udienza di confisca. II.2.3. La confisca e il ne bis in idem secondo il quinto emendamento. — Si è trattato soprattuto di sapere se una condanna penale e una confisca in rem per gli stessi fatti sono compatibili col principio ne bis in idem (ne bis in idem vexari, ne bis in idem puniri), designata negli Stati Uniti come ‘‘double jeopardy clause’’ (crimine o delitto per i quali si è già dovuto rispondere) (63). Nel caso Various Items (64), un’impresa ha commesso una frode fiscale in materia di tasse sull’alcool. L’impresa si trova innanzi ad una condanna penale e ad una confisca in rem dell’impresa. Dato che non si tratta qui di un’azione civile mirante al recupero delle tasse, compresi gli aumenti fiscali, ma di una confisca in rem, la Supreme Court adotta il punto di vista secondo il quale la confisca non fa parte della sanzione e non deve, dunque, per definizione, essere collocata sotto l’ambito di applicazione del quinto emendamento. Anche nel caso One lot emerald (65) la Supreme Court non vede l’utilità di infrangere la volontà del legislatore. L’interessato ha importato, senza dichiararlo alla dogana, un lotto di smeraldi e un anello. Poiché il Pubblico Ministero non può fornire la prova del dolo, viene pronunciato il proscioglimento. Le autorità procedono quindi ad una confisca in rem. L’avviso della District Court è che il ‘‘collateral estoppel’’ e il quinto emendamento vi fanno ostacolo. La Supreme Court segue tuttavia la Court of Appeals sulla base secondo cui la prova del dolo non è necessaria in materia di confisca e dal momento che non si tratta neanche di due procedure o condanne penali: ‘‘una confisca è la conseguenza di un’importazione non conforme alle regole doganali; un’infrazione penale, e ancora meno una condanna penale, non è richiesta’’. Anche nel caso 89 Firearms, la Supreme Court sottolinea che ‘‘un individuo può beneficiare della protezione del quinto emendamento solo quando si tratta di una procedura che è, in sostanza, criminale, ciò che non è il caso delle procedure di confisca’’ (66). La Supreme Court ha espresso con precisione questi punti di vista nel caso Halper (67), un caso relativo ad ammende civili (68). Halper ha rilasciato 65 false fatture per delle prestazioni mediche che egli non ha mai effettuato ma che, prima, rientravano nell’ambito di cure mediche federali. Venne condannato a due anni di detenzione e 5.000 $ per frode contro l’autorità. Sulla base del ‘‘False Claims Act Civil’’ federale deve far fronte ad una procedura civile con il pagamento di una ammenda civile di 2000 $ per ogni fattura falsa. Queste ammende di un valore di 130.000 $ divergono molto dall’ammontare della fattura (585 $) e dall’ammontare delle spese d’inchiesta e di procedura (valutate a 16.000 $). Pertanto, ci possiamo chiedere se l’ammenda civile presenta una doppia sanzione alla luce della ‘‘double jeopardy clause’’. Il parere del Governo è che la ‘‘double jeopardy clause’’ svolga un ruolo solo in materia di diritto penale e che solo la definizione legale della sanzione sia importante in materia. La Supreme Court prende chiaramente le distanze nei confronti di questo ragionamento: « il ricorso al linguaggio, alla struttura ed allo scopo della legislazione è poco augurabile quando si tratta di ‘‘interessi umani’’ protteti dalla clausola del ‘‘ne bis in idem’’ in considerazione delle sanzioni. Questa protezione costituzionale è intrinsecamente personale. La sua violazione può essere identificata solo fissando il carattere delle sanzioni attualmente imposte dall’apparato dello Stato. Facendo queste valutazioni, le eti(62) United States contro S 37,780 in United States Currency, 920 F.2d 159,163 (2nd Cir. 1990). (63) ‘‘No person shall be subject for the same offense to twice put in jeopardy of life or limb’’. Nessuno dovrebbe rispondere due volte per lo stesso delitto o crimine. (64) Various items of personal property et al. contro US, 282 US 577 (1931). (65) One lot emerald cut stones and one ring contro US, 409 US 232 (1972). (66) United States contro one Assortment of 89 Firearms, 465 US, 354, 362 (1984). (67) 490 US 435 (1989). (68) Per sapere se ciò si applica anche alla confisca civile, v. 3, epilogo e conclusione.
— 966 — chette ‘‘criminale’’ e ‘‘civile/amministrativo’’ non rivestono un’importanza decisiva (...). La nozione di ‘‘punizione’’, come si comprende, separa trasversalmente le divisioni tra il diritto civile/amministrativo e il diritto criminale ». Basandosi sul fatto che la sanzione civile è così sproporzionata (x 220) rispetto al danno incorso, se separato di ogni scopo riparatorio’’, la Supreme Court arriva alla conclusione che la sanzione, alla luce della regola ‘‘double jeopardy’’ deve essere qualificata come ‘‘punizione’’. Ne consegue che il Tribunale federale di primo grado deve ridurre l’ammenda ad un livello proporzionale e non punitivo. La via ritenuta nel caso Halper viene seguita dalla Corte Suprema nel caso Kurth Ranch (69). Si è scoperta, sulla tenuta agricola della famiglia Kurth, una coltura di marijuana. Le piante vengono sequestrate e distrutte, le attrezzature dell’impresa sono confiscate e i dirigenti arrestati e processati in sede penale. Poi la famiglia deve fare fronte ad un’imposta speciale dello Stato del Montana, che implica che in caso di arresto per infrazione di droga l’interessato debba pagare una tassa il cui ammontare è otto volte superiore al valore venale della droga. Nel corso di una procedura di fallimento, i Kurth si richiamano al quinto emendamento per opporsi al prelievo fiscale. La Bankruptcy Court accetta la double jeopardy, data la ‘‘conclusione inevitabile che lo scopo della legislazione anti droga era punitivo e dissuasivo’’. La District Court conferma questa sentenza e anche la Corte d’Appello segue quest’approccio ma si basa in materia sul rifiuto del Governo di portare la prova del carattere penale del prelievo. La Supreme Court prende come punto di partenza il seguente: ‘‘Ad un certo momento, le caratteristiche di incriminazione della cosidetta tassa hanno preso una dimensione tale da farle perdere il suo carattere iniziale e da farla diventare una semplice punizione con caratteristiche di regolazione e di sanzione’’. Questo commento, visto sotto l’angolo del caso Halper, secondo il quale le etichette non hanno valore in una ricerca sul ne bis in idem, indicano che una tassa, per la semplice ragione di essere una tassa, non è al riparo da una valutazione sotto l’angolo del ne bis in idem. Tramite il carattere molto specifico dell’imposta, dipendente dalla commissione dell’infrazione e dell’arresto, la Supreme Court arriva alla conclusione che lo scopo di quest’imposta è sanzionare più che percepire le imposte: ‘‘Tutto sommato, quest’imposta-droga è un amalgama di anomalie, troppo lontano sotto più aspetti cruciali di una tassa standard per poter fuggire ad una qualifica di punizione nell’ambito di un’analisi sul ne bis in idem’’. Il magistrato Rehnquist, in un’opinione contraria, si pronuncia a favore del mantenimento della distinzione tra tax e punishment. Le tasse mirano alla percezione dei redditti ed è lo stesso in questo caso. Il giudice O’Connor aggiunge, nella sua opinione contraria, che si tratta di proporzionalità di quest’imposta, date le spese elevate di salvaguardia. Infatti, l’interessato dovrebbe fornire la prova della sproporzione. II.2.4. La confisca e il ‘‘due process of law’’ nel quinto emendamento. — Nel passato, la Supreme Court si è pronunciata in numerosi casi sulla validità delle perquisizioni e sequestri alla luce del quarto emendamento e ha ugualmente accettato la validità anche in mancanza di notifica o di interrogatorio o di mandato legale (70). Ma, al momento di un sequestro per una confisca, il search and seizure non è centrato sulla raccolta di prove ma sull’acquisto di beni. Per questa ragione, la procedura deve anche essere conforme al due Process Clauses del quinto emendamento (71). Viene generalmente ammesso che la notifica non è necessaria al momento di un sequestro-confisca in caso di contrabbando, anche se si tratta di veicoli. Sul piano giuridico, si pone tuttavia la questione di sapere se, in caso di sequestro e di confisca di beni immobili, nei casi diversi da quelli di contrabbando, non debba esserci una notifica preliminare e una (69) Department of Revenue of Montana contro Kurth Ranch, 511 US 767 (1994). (70) V. per esempio, 387 US 523 (1967), Camara contro Municipal Court of the City and County of San Francisco. (71) ‘‘No person shall... be deprived of life, liberty or property without a due process of law’’.
— 967 — qualsiasi forma di procedura contraddittoria prima che i beni possano essere sequestrati. In Fuentes contro Shevin (72) la Supreme Court ha già deciso che il sequestro senza notifica preliminare è costituzionale in quanto siano soddisfatte tre condizioni: 1) che il sequestro abbia un interesse pubblico importante; 2) che un’azione sia necessaria; 3) che le autorità esercitino un controllo severo sul suo uso. Sulla base di questi criteri, il sequestro senza notifica o udienza, per esempio, è possibile in caso di cibo che potrebbe essere una minaccia per la salute pubblica, per evitare il fallimento di una banca, per ritirare delle droghe illecite dal mercato, per percepire le tasse ecc. Nel caso Calero-Toledo, tuttavia, la svolta della Supreme Court sembra del tutto curiosa (73). Calero-Toledo prese il suo yacht in leasing presso dei Portoricani. Le autorità trovano a bordo una sigaretta di marijuana e lo perseguono in giudizio. Lo yacht viene anche sequestrato senza notifica preliminare o interrogatorio in vista della sua confisca. Calero-Toledo constata solo mesi più tardi che l’affitto non è stato pagato e che il suo yacht, non solo è stato sequestrato ma anche confiscato. Dato che non sapeva del sequestro non ha potuto difendersi al momento della procedura di confisca. Calero-Toledo si oppone alla confisca sulla base della violazione del suo diritto al due process (clausole di salvaguardia della libertà individuale previste nel 5 e nel 14 emendamento della Costituzione). La Supreme Court riconosce l’esistenza di circostanze eccezionali che giustificano il sequestro senza confisca o udienza perché 1) c’è un interesse generale in gioco, come la lotta contro la droga, la lotta contro l’uso illecito di beni e la salvaguardia della legislazione penale; 2) la notifica può rallentare il raggiungimento dell’obiettivo e 3) il sequestro non è avvenuto sulla richiesta di parti private ma su richiesta di organi di salvaguardia. Questo giudizio suscita stupore. Il giudice Douglas dice, scherzando, in un’opinione dissidente: ‘‘la marijuana nello yacht fu scoperta il 6 maggio 1972. Il sequestro dello yacht ebbe luogo l’11 luglio 1972 — più di tre mesi più tardi —. Dato il termine, dove è questa ‘‘necessità penale di agire velocemente’’ sottolineata nel caso Fuentes contro Shevin?... Se lo yacht fosse veramente stato utilizzato per il traffico di droga, coloro che esigono la confisca potrebbero avere il diritto dalla loro parte. Ma questo non sembra essere il caso; fino ad adesso, solo una sigaretta di marijuana è stata trovata sullo yacht. Si tratta qui di superficialità. La legge severa imposta dai giudici dovrebbe essere addolcita dalla giustizia. Non dobbiamo quindi essere stupiti se la sentenza pronunciata nel caso Calero-Toledo è utilizzata dal Ministero della Giustizia come biancosegno per escludere la confisca dalle regole costituzionali del due process. La Supreme Court, in seguito, ha posto un freno a quest’interpretazione nella sua sentenza nel caso: James Daniel Good Real Property (74). Sono stati trovati al domicilio di Good un certo numero di chili di marijuana e dei fusti di olio di haschich. Good si confessa colpevole e viene condannato ad una pena detentiva definitiva di un anno e ad una pena detentiva col beneficio della condizionale di cinque anni, a 1.000 $ di ammenda e alla confisca di 3.187 $ trovati in contanti. Quattro anni e mezzo più tardi, entro il termine di prescrizione, viene sottoposto ad un’azione di confisca in rem (75) della sua abitazione e del suo terreno. Il giudice accetta la probabilità razionale (Probable cause) sulla base della prova nata dalla procedura penale e della prova nata nell’inchiesta nel corso della quale le droghe erano state scoperte. Dà l’autorizzazione al sequestro delle proprietà, senza notifica o udienza. L’abitazione viene data in affitto e gli inquilini sono invitati a versare l’affitto sul conto dell’autorità. La District Court, poi, prende la decisione di confisca ma il parere della Court of Appeals è che il sequestro (72) 407 US 67 (1972). (73) T.G. REED, On the importance of being civil: constitutional limitations on civil forfeiture, 39 N.Y.L. Sch. L. Rev. 255 (1994) e H.M. KEMP, Presumed guilty: when the war on drugs becomes a war on the constitution, 14 Quinnipiac c. L. Rev. 272 (1994). (74) 510 US 43 (1993). (75) Fondata sul 21 USC § 881 (a) (7): ‘‘property has been used to commit or facilitate the commission of a federal drug offense’’.
— 968 — senza notifica né udienza è contrario alla due process clause del quinto emendamento. La Supreme Court stabilisce che ‘‘la libertà individuale si manifesta, in questo caso come in tanti altri, nei diritti relativi alla proprietà ed in particolare nella sicurezza che gli abitanti trovano a casa loro e nel rispetto della loro vita privata’’. Solo in caso di circostanze particolari si può derogare alla regola generale che esige notifica preliminare e udienza. Queste circostanze eccezionali dipendono dagli interessi concorrenti della procedura e della velocità e dell’efficacia delle procedure ulteriori. La Supreme Court, dopo esame, non conclude per una situazione eccezionale e fa valere un interesse finanziario diretto dell’autorità nell’esito della procedura, ciò che rende ancora più indispensabile un’udienza preliminare. II.2.5. La confisca e la protezione contro la sanzione eccessiva dell’ottavo emendamento. — Il caso Alexander contro United States (76) fornisce l’occasione alla Supreme Court di pronunciarsi sulla confisca penale nata dalla disciplina RICO. Alexander è il proprietario di una catena specializzata in materiale porno. Sette oggetti, tra cui riviste e video, sono qualificati come osceni ed egli viene condannato a sei anni di detenzione per questi fatti in base alla legislazione federale sui delitti sessuali, ad un’ammenda di 100.000 $ e al pagamento delle spese di procedimento. Queste infrazioni fanno poi da modello ad un’infrazione RICO per la quale il Pubblico Ministero richiede la confisca penale della sua impresa e di 9 milioni di dollari ottenuti da ‘‘racketeering’’ (77). Il Tribunale di primo grado accorda la confisca, che viene confermata in appello. Innanzi alla Supreme Court, Alexander invoca, oltre alla restrizione della sua libertà d’espressione, anche il fatto che la confisca, accanto alla condanna penale, è sproporzionata rispetto all’infrazione e costituisce dunque una violazione dell’ottavo emendamento (78). La Supreme Court analizza la confisca solo sotto l’aspetto delle ammende eccessive, contrariamente alla Court of Appeals che aveva, a torto, esaminato il caso solo sotto l’angolo della clausola di una punizione crudele e insolita. La proporzionalità di una confisca RICO non deve, secondo la Supreme Court, essere misurata in funzione della vendita di un certo numero di riviste oscene o di video ma ‘‘alla luce delle attività criminali costose sviluppate dal richiedente nell’impresa criminale durante un periodo sostanziale’’. La Supreme Court stabilisce che questa confisca costituisce, senza alcun dubbio, una punizione finanziaria non diversa da un’ammenda tradizionale e cade sotto l’ambito di applicazione dell’ottavo emendamento. La Supreme Court rinvia il caso innanzi alla Court of Appeals per la questione della non proporzionalità. Una tappa è stata superata dalla Supreme Court nel 1993, in seguito alla sentenza nel caso Austin (79). Su richiesta di un agente infiltrato, sotto false sembianze (undercover) Austin va a cercare 60 grammi di cocaina (valore per strada: 200 $) nella sua monoposto per poi venderli all’agente nel suo body shop. Austin confessa e viene condannato a sette anni di detenzione. Il giudice civile confisca poi sul piano civile il monoposto e l’impresa di Austin (valore: 35.000 $) (80), sulla base della probabilità ragionevole (Probable cause) ottenuta tramite dichiarazione sotto giuramento dell’agente infiltrato (officer’s affidavit). Secondo il parere sia del Tribunale di primo grado sia della Court of Appeals, l’ottavo emendamento non si applica alla confisca civile. La Supreme Court sottolinea in questo caso che non si tratta della relazione ‘‘civil criminal’’ perché il testo dell’ottavo emendamento non è limitato, data la sua storia legislativa, ai casi criminali. Ci dobbiamo solo chiedere se la confisca costituisca una punizione finanziaria, e se sia, nella fattispecie, compatibile con la clausola sulle ammende eccessive. Il Go(76) 509 US 544 (1993). (77) RICO conosce solo la confisca penale fondata sul 18 USC 1963. (78) ‘‘Excessive bail shall not be required, nor excessive fines imposed, nor cruel and unusual punishments inflicted’’. (79) 509 US 602 (1993). (80) Sulla base di 21 USC per 881 (A) (4) (a) (7).
— 969 — verno fa valere che la confisca non presenta un carattere punitivo, ma un carattere riparatorio sotto due aspetti: 1) ritira dal mercato gli strumenti del traffico di droga e 2) i redditi della confisca costituiscono un compenso per le spese di salvaguardia e per il danno sociale (tossicomania, spese per la sanità, problemi urbani ecc.). La Supreme Court risponde al primo argomento seguendo la linea del caso One 1958 Plymouth Sedan contro Pensylvania e dicendo che non si tratta di droghe; come la macchina, questo bene non può essere considerato come strumento del traffico di droga per la qualifica di contrabbando. In quanto al secondo argomento, la Corte Suprema dice che non si tratta di reasonable form of liquidated damages e che la confisca di proprietà (...) è una punizione senza legami con i danni subiti dalla società o con i costi della repressione. Nella sentenza Halper e sulla base della storia legislativa, la Supreme Court arriva alla conclusione che la confisca civile persegue anche scopi punitivi, ciò che risulta anche dal fatto che un innocent owner defense è prevista e che è, dunque, per questa ragione, sottomessa alla clausola di ammenda eccessiva dell’ottavo emendamento (81). Infatti, la Supreme Court colloca la confisca civile, in materia di droga, nella sfera quasi penale, secondo la linea del caso Boyd contro US. Il giudice Kennedy, sostenuto dal giudice Rehnquist e dal giudice Thomas, fa, a questo proposito, osservazioni nell’opinion concurrent: ‘‘Non sono convinto che tutte le procedure di confisca in rem siano da attribuire alla condotta biasimevole del proprietario (...). Vorrei anche sapere se le confische in rem sono sempre legate ad una punizione intenzionale del proprietario dei beni confiscati’’. È strano che la Supreme Court rifiuti di elaborare una regola test, a partire dalla quale si può stabilire se la confisca infranga realmente la clausola sulle ammende eccessive: ‘‘Prudenza stabilisce che i Tribunali di primo grado hanno il diritto di prendere in considerazione questa domanda’’. In questo modo, il Pubblico Ministero può, esso stesso, tramite district, tracciare i contorni di questa nozione. È significativo che, nelle direttive in materia, emanate dall’Asset Forfeiture office del Dipartimento di Giustizia (82), la concezione di ‘‘concurring Giudice Scalia’’ sia presa come punto di partenza, cioè: ‘‘contrariamente alle punizioni finanziarie, le confische in rem sono state tradizionalmente fissate, non con la fissazione del valore appropriato della pena in relazione col crimine commesso ma determinando i beni che sono stati stanziati tramite l’uso illegale, indipendentemente dal valore di questi beni’’. Con l’introduzione di questo test di strumentalità al posto del test di proporzionalità, la protezione giuridica dell’ottavo emendamento è stata ancora aggirata. Da allora, non è più possibile svelare un’unità nella giurisprudenza dei Tribunali, dato che alcuni si valgono del test di proporzionalità, altri ricorrono al test di strumentalità ed altri ancora praticano una combinazione dei due (83). Alcuni Tribunali sono ugualmente dell’avviso che il caso Austin non si può applicare ai prodotti del crimine di droga (84), dato che in questo caso ci si è pronunciati solo sui beni utilizzati per realizzare la vendita o permetterla (85). I prodotti del crimine sono sempre proporzionali alle infrazioni di droga. Comunque sia, la sentenza nel caso Austin ha suscitato, nel mondo giudiziario, un sentimento che va al di là dell’emozione perché, combinata alla sentenza del caso Halper, si pone la questione di sapere se l’accettazione di un carattere punitivo nel senso dell’ottavo emendamento deve, o può, anche condurre ad una violazione della double jeopardy clause come intesa nel quinto emendamento (86). La giurisprudenza non è unanime in materia ma, in se(81) In 516 US (1995), Libretti contro United States, che tratta dell’equivalenza penale della confisca civile nel caso Austin (21 USC § 853), la Corte Suprema stabilisce che ‘‘the fundamental nature of criminal forfeiture is punishment’’. (82) DOJ Asset forfeiture Manuel. (83) V. J. Gurule, 21 J. Legis, 155 (1955) per un’analisi. (84) 21 USC § 881 (a) (6). (85) 21 USC §§ 881 (a) (4) e (a) (7). (86) R.M. SACKET, The impact of Austin contro United States extendig constitutional protections to claimants in civil forfeiture proceeding, 24 golden gate U.L. Rev. 495 (1994); J.B. Harrington Austin contro US: forfeiture and punishment and the implications for war-
— 970 — guito al caso Austin, è stato accettato che la confisca in rem mira anche a sanzionare i proprietari per il loro comportamento colpevole o suscettibile di rimproveri e ha dunque anche un carattere in personam. La guilty property fiction è così al centro del bersaglio e l’applicabilità della double jeopardy clause diventa ineluttabile (87). II.2.6. La confisca e l’eccezione del proprietario innocente/‘‘relation back doctrine’’. — Uno dei problemi essenziali in materia di confisca verte sulla protezione di tutti coloro che hanno dei diritti o degli interessi riconosciuti nei confronti del patrimonio (proprietario/detentore e terzi). Le sanzioni di confisca poggiano, infatti, non solo sul patrimonio stesso ma ugualmente su tutti i diritti, titoli ed interessi legati al patrimonio. Nel caso di una confisca in rem, sia per droga sia per riciclaggio e nel caso del FIRREA, il Congresso ha previsto, nel 1984, sotto la pressione dell’opinione pubblica, un’eccezione del proprietario innocente, ma i termini divergono, vanno dall’‘‘incoscientemente’’ (without the knowledge) (88), passando all’incoscientemente o senza il consenso (without the knowledge or consent’’) (89) fino all’incoscientemente o senza il consenso o senza l’ignoranza cosciente (without the knowledge, consent or willful blindness of the owner) (90). La portata dell’eccezione del proprietario innocente è importante perché la prova può condurre, nel campo della preponderanza delle prove, ad infirmare la probabilità ragionevole (probable cause) del Pubblico Ministero. I giudici si sono basati, nella pratica, sulla reasonable precautions standard che implica che il richiedente provi che non aveva ‘‘una conoscenza costruttiva’’ delle attività illegali, cioè che non aveva alcuna ragione di credere ad una qualsiasi condotta illegale, e che non è stato ‘‘coscientemente ingannato’’ o ‘‘deliberatamente ignorante’’ dell’attività illegale. Le interpretazioni restrittive della nozione di buona fede e le interpretazioni estensive della dottrina della ‘‘relation back’’ hanno condotto ad una pratica giudiziaria che ha fortemente neutralizzato l’eccezione della difesa. La dottrina della ‘‘relation back’’ — dottrina, di origine giurisprudenziale — ma introdotta più tardi nella legislazione, implica che il diritto patrimoniale in materia di confisca esiste sin dal momento della commissione dei fatti. La Supreme Court ha, a lungo, lasciato fare ma ha ugualmente preso nel 1993 una decisione chiara di principio (91) nel caso ’92 Buena vista (92). Nel 1982, Joseph Brenna offre alla sua compagna Bet Ann Goodwin 240.000 $ per l’acquisto della casa e della proprietà dove abita con i tre figli. Nel 1983, tuttavia, deve far fronte ad una confisca in rem (93) della sua proprietà e della sua abitazione, perché il denaro di suo marito proveniva dalla droga. La District Court accetta, in base al fatto secondo il quale esiste tra queste due persone una relazione intima, la nozione di probabilità ragionevole (probable cause) e dà l’ordine di sequestrare i beni. La District Court ammette in questo contesto la innocent owner’s defence con due condizioni: 1) può essere invocata solo da acquirenti in buona fede e 2) la difesa è aperta solo a quelli che avevano già avuto un interesse nel bene prima dei fatti. Questa dotrantiess seizures, 4 BU pub. int. LJ 415 (1995) e L. Larose, Austin contro US: applicability of the eight amendment to civil in rem forfeitures, 29 New Eng. L. Rev. 729 (1995). (87) V. per es. M.P. HARRINGTON, Rething in rem: the Suprem Court’s new (and misguided) approach to civil forfeitur, 12 Yale L. & Pol’y Rev. 281 (1994) che rimprovera alla Corte Suprema di maltrattare il carattere giuridico della confisca civile in rem. Temo personalmente che sia il legislatore ad esserne il responsabile e che la Corte Suprema non abbia avuto altre soluzioni. (88) 18 USC § 981 (a) (2) riciclaggio e FIRREA. (89) 21 USC § 81 (a) (6) e (7) per la confisca dei redditi della droga e dei beni utilizzati per commettere delle infrazioni di droga. (90) 21 USC § 881 (a) (C) per la confisca di tutti gli strumenti utilizzati per trasportare droghe, negoziarle, venderle ecc. (91) R. BANOUN & R.G. WHITE, Asset forfeiture and its impact on innocent third parties, Business Law, 1994, 133.92, 507 US 111 (1993). (92) 507 US 111 (1993). (93) Sulla base di 21 USC per 881 (a) (6).
— 971 — trina della ‘‘relation back’’ implica che Goodwin non è mai stato proprietaria perché, al momento del pagamento proveniente dalla droga, gli Stati Uniti, sono diventati proprietari ed ella non può valersi di un innocent owner defence. La Court of Appeals non accetta i due ragionamenti. Il ministero della giustizia tenta, in seguito, di vincere la causa presso la Supreme Court. La domanda chiave in questo caso è quella di sapere se il fatto che il proprietario ignorasse che il denaro proveniva da un traffico di droga possa condurre ad un’eccezione della difesa in base a questa disciplina. La Supreme Court fa un’analisi interessante della legislazione in materia di confisca negli Stati Uniti e constata che, già sotto la prima legislazione federale in materia di contrabbando, la confisca dei beni illegali e dei mezzi di trasporto (comprese le navi) era possibile senza una difesa ‘‘innocent owner’’, ma che, fino agli anni 1970, la confisca non si estendeva ai ‘‘proceeds’’. Al momento dell’estensione, è stata anche prevista la ‘‘innocent owner defence’’. Il testo legislativo non permette, secondo la Supreme Court, di limitare la difesa ai proprietari di buona fede e la dottrina della ‘‘relation back’’ relativa ai benefici rende qui la difesa completamente impossibile e mina infatti l’eccezione stessa, ciò che non poteva essere l’intenzione del legislatore. La conclusione dunque è la seguente: ‘‘È chiaro che l’imposizione fittizia e retroattiva di un titolo non ha forza esecutiva di per sé ma si realizza dal momento in cui il governo ottiene la procedura di confisca. Fino a questo momento chi possiede la proprietà può evocare qualsiasi eccezione disponibile, compresa l’eccezione del proprietario innocente’’. In quanto alla confisca penale, non si riconosceva ai terzi alcun interesse nel corso della procedura e ciò fino al 1984. I terzi potevano agire solo contro la decisione della confisca stessa. Sotto la pressione del Congresso, è stata prevista nel 1984 la possibilità per i terzi cointeressati di fare determinare giudizialmente, nel corso della procedura, i loro diritti patrimoniali in un’audizione accessoria, senza giuria (94). Un terzo interessato conserva i suoi diritti se può provare che 1) aveva un interesse legalmente definito nel bene al momento della commissione dell’infrazione; 2) è stato un acquirente di buona fede e 3) non aveva alcuna ragione per ammettere che il bene era oggetto di una confisca al momento in cui l’ha acquisito.
III.
EPILOGO E CONCLUSIONE.
Negli Stati Uniti, nell’ambito della lotta contro il traffico di droga ed il crimine organizzato, è stata elaborata una legislazione in materia di confisca che ha forme draconiane e che mette a dura prova i concetti di base dello Stato di diritto. È sorprendente che questi concetti legislativi si estendano ad un ambito così ampio di salvaguardia economica. In pratica, gli organi di salvaguardia hanno ricevuto competenze importanti e le istanze giudiziarie hanno fatto predominare, in seguito ai sommovimenti della politica, l’efficacia della lotta contro la criminalità sulla protezione giuridica. La lotta contro la criminalità organizzata, definita come un ‘‘imminente pericolo per la democrazia’’, ha significato una minore estensione dello Stato di diritto. Dagli anni ottanta, la Supreme Court ha formulato, in un certo numero di casi che aprono ad una nuova giurisprudenza (Buena Vista, Austin, Good), una soglia minima di protezione dei diritti costituzionali e ha così aperto una breccia nella concezione politica del Congresso e del Dipartimento di Giustizia. La configurazione delle sanzioni di confisca l’ha costretta a spezzare la scissione tra le sanzioni civili, amministrative e le sanzioni penali ed a dichiarare i principi del diritto penale ugualmente applicabili alle sanzioni punitive fuori dal campo del diritto penale. Il fatto che la Supreme Court non abbia ancora completamente tracciato questa linea, in particolare nel campo dell’applicazione della ‘‘double jeopardy clause’’ al momento della combinazione delle sanzioni penali e della confisca, ha condotto, in materia, ad una giurisprudenza diversificata all’interno dei Tribunali. (94)
V. 18 USC § 1963 (C); 21 USC § 853 (c) e 18 USC § 982 (b) (1).
— 972 — Nel 1996, due Corti di Appello sono arrivate alla conclusione che la doppia ‘‘jeopardy clause’’ ostacola, per la stessa infrazione, l’imposizione di una sanzione penale e di una confisca in rem. Nel primo caso, la polizia scopre piante di marijuana per consumo privato in prossimità dell’abitazione di Guy Ursery. La confisca in rem dell’abitazione, a seconda del concetto ‘‘facilitando la produzione e la distribuzione di droghe illegali’’ (95), è oggetto di transazione per l’ammontare di 13.250 $. Poco prima, Ursery è stato anche implicato in una procedura penale per produzione di marijuana (96) e condannato ulteriormente a 63 mesi di carcerazione. Nel secondo caso, Charles Wisley Arlt e James Wren sono stati condannati rispettivamente all’ergastolo, ad un’ammenda di 250.000 $ e a cinque anni di carcerazione per collusione e complicità al momento della produzione di droghe sintetiche (21 USC § 846), collusione per il riciclaggio di strumenti finanziari (18 USC § 371) e di denaro (18 USC § 1956). Prima che inizi il processo penale, vengono ugualmente assoggetti ad una confisca in rem dei loro averi sulla base di 18 USC § 981 (a) (1) (A) monev laundering confiscation e sulla base di 21 USC § 881 (a) (6) confisca di droghe. La Supreme Court riunisce i due casi paralleli. Prima che la sentenza sia emessa, il Pubblico Ministero ne formula in modo chiaro l’importanza: ‘‘questo caso consolidato ha delle implicazioni disastrose, tanto per le autorità punitive dello Stato federale quanto per quelle degli Stati e per il sistema giudiziario. Se la Supreme Court segue l’interpretazione di ‘‘punizione’’ del sesto e nono Circuit Courts of Appeals, le autorità punitive stanno per perdere uno degli strumenti più preziosi nella lotta contro la criminalità’’ (97). La Supreme Court pretende, nel caso Ursery, rimandando ai casi Various Item, Emerald Cut Stones e 89 Firearms, che la sua giurisprudenza nelle confische in rem mostri una consistenza notevole: ‘‘Confisca in rem è una sanzione civile/amministrativa, diversa dalle sanzioni potenzialmente punitive come le ammende, e non sono da qualificare come punizioni sotto la clausola ne bis in idem’’. Allo stupore della Supreme Court, le due Corti d’Appello hanno tuttavia raggiunto la conclusione, sulla base delle sentenze della Supreme Court, successivamente, nei casi Halper, Austin e Kurt Ranch, che la confisca in rem ‘‘constitutes punishment under the double jeopardy clause’’. La Supreme Court analizza di nuovo i casi Halper, Austin e Kurt Ranch. Nel caso Halper, la decisione si limita ad un caso specifico di civil penalty ed è molto difficile immaginare come il caso Halper potrebbe essere applicabile alla confisca in rem: le confische civile/amministrative, contrariamente alle ammende civili/amministrative hanno uno scopo che va al di là del compenso per il danno pubblico. Anche se è possibile quantificare il valore dei beni confiscati, è virtualmente impossibile quantificare, anche approssimativamente, gli scopi non punitivi di una confisca civile/amministrativa. La Supreme Court decide poi che il test di proporzionalità tra il danno pubblico e la sanzione non si applica alla confisca in rem. A proposito delle ammende fiscali nel caso Kurt Ranch, si tratta, secondo la Supreme Court, di una situazione specifica perché l’ammenda era tale da poter essere imposta solo in caso di omissione di un’infrazione e dopo arresto, ciò che indicava che l’ammenda era stata dettata ‘‘da un intento più criminale e proibitivo che dal pensiero di riscuotere le tasse’’. In quanto al caso Austin, la Supreme Court afferma: ‘‘Eccessività nell’ottavo emendamento non vuol dire che tutte le confische sono così punitive da essere considerate come punitive alla luce del ne bis in idem, ma anche la excessive fines clause dell’ottavo emendamento è una disposizione costituzionale che non abbiamo mai capito in quanto parallela o legata alla double jeopardy clause del quinto emendamento’’. La Supreme Court esamina, in seguito, i casi dalla prospettiva dei loro meriti e applica in materia il doppio test del caso 89 Firearms: 1) l’intenzione del legislatore è 2) verificare se la sanzione presenta un carattere punitivo tale che un carattere civile non sia difendibile, malgrado l’intenzione del legislatore. Ciò significa che quando la ‘‘prova più ovvia’’ indica che una confisca civile/amministrativa è cosi punitiva, nello scopo o nell’effetto, da equivalere ad una procedura criminale, questa confisca può essere sottoposta alla protezione (95) 21 USC § 881 (a) (7). (96) 21 USC § 841 (a) (1). (97) NAAG, Financial Crimes—Report, 1996/1L.
— 973 — del principio ne bis in idem. In questo caso, la Supreme Court decide che l’intenzione del legislatore era chiaramente di prevedere sanzioni civili e non sanzioni penali. Inoltre, nel secondo criterio, c’è solo ‘‘little evidence, much less the clearest proof’’, una testimonianza debole, non una prova evidente. La Supreme Court utilizza in materia lo strano ragionamento secondo il quale la confisca in rem serve, accanto a scopi punitivi certi, scopi non punitivi, ugualmente importanti. Il fatto che le confische siano legate ad un’infrazione e che la legislazione preveda una difesa innocent owner non basta per convincere la Supreme Court della clearest proof. Il giudice Stevens ha, solo, scritto un’opinione dissenziente ma quest’ultima ha il suo peso: ‘‘la distinzione pedante tra la confisca in rem e in personam è alla fine solo una copertura per simulare la motivazione reale della Corte: l’idea che la proprietà, non il proprietario, venga punito per dei delitti per i quali non è colpevole... Come è stato riconosciuto all’unanimità nel caso Halper, distinzioni formalistiche che oscurano le conseguenze pratiche delle procedure dell’esecutivo non sono al servizio di interessi umani protetti dalla double jeopardy clause. Il giudice Stevens accetta assai raramente la confisca dell’abitazione. Abbiamo elaborato, nei casi Halper, Austin e Kurt Ranch una protezione giuridica sulla base della distinzione tra remedia/punitive, indennizzo/punizione. Per questa via, è stato possibile applicare le stesse regole ai civil penalties, civil forfeitures and taxes, senza ricadere nelle etichette civil/criminal. Stevens difende ugualmente l’idea secondo la quale la double jeopardy clause fa parte dello stesso emendamento che prevede una self discrimination e che deve dunque essere interpretato nello stesso senso’’. In breve, la Supreme Court non arriva alla conclusione di estendere la sua ricca giurisprudenza relativa alla protezione giuridica nel caso di sanzioni punitive anche al principio ne bis in idem. È ancora più inquietante che la Supreme Court ricorra in materia ai ragionamenti classici come la guilty property e passi troppo velocemente accanto a condizioni essenziali di protezione giuridica che essa stessa ha elaborato nei casi Buena Vista, Austin e Good. Ciò porta ad interrogarsi, infatti, sui procedimenti futuri che la Supreme Court intraprenderà al momento del trattamento delle sanzioni di confisca. È in ogni caso una ragione sufficiente agli occhi di molti giuristi e di organizzazioni interessate per argomentare in favore di una riforma radicale della configurazione giuridica delle sanzioni di confisca. Le linee principali in materia sono: 1) l’eliminazione della confisca in rem tramite l’elaborazione di un sistema di confisca al quale le regole della confisca penale siano applicabili; 2) la confisca dei benefici sarebbe possibile solo dopo che il detentore sia stato condannato penalmente, a meno che l’autore sia in fuga; 3) l’onere della prova poggia interamente sull’autorità; 4) i benefici giovano al bilancio nazionale generale e non vanno agli organi di salvaguardia; 5) un sistema viene elaborato per la responsabilità dell’autorità in questo campo. Possiamo chiederci se l’autorità politica sarà sensibile a questo profilo. Sembra, dunque, che la Supreme Court continuerà a giocare un ruolo molto importante in materia. Per finire, è sorprendente vedere come un’analisi della protezione giuridica in materia di sanzioni di confisca negli Stati Uniti non solo fornisca un campione della Bill of Rights, ma ponga anche questioni giuridiche fondamentali che, ed è qualcosa che stupisce, vanno nello stesso senso delle questioni giuridiche fondamentali poste dalla Commissione europea per i diritti Umani e dalla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo. Infatti, un esempio per eccellenza viene fornito in materia, per la via della questione della protezione giuridica applicabile al momento delle sanzioni punitive, indipendentemente dalla ripartizione formale tra diritto privato, diritto amministrativo, diritto penale (art. 6 e 7 CEDI). La differenza, tuttavia, sta nel fatto che, nei Paesi europei, questa discussione non si è ancora realmente imposta nel campo delle sanzioni di confisca (98). Ciò è in parte legato al fatto che, nei Paesi europei, l’estensione delle confische ai benefici delle infrazioni è recente. Peraltro, è da notare (98) V. J.A.E. VERVAELE, Le sanzioni di confisca in diritto penale: un intruso nato dal diritto civile? Un’analisi della giurisprudenza della CEDU e del significato che riveste in
— 974 — che la Commissione europea dei diritti umani non è ancora realmente cosciente del carattere punitivo delle sanzioni di confisca che conseguono a violazioni punibili del diritto. Per esempio, è singolare che una domanda di valutazione — secondo gli art. 6 e 7 CEDU e l’art. 1 del Protocolo n. 1 delle misure italiane di prevenzione, che sono paragonabili alla disciplina RICO e contengono pesanti sanzioni di confisca nei confronti di chi è sospettato di appartenenza ad associazioni mafiose — sia stata dichiarata irricevibile, nel 1991, dalla Commissione europea. Le opinioni contrarie, di Martens e Russo, in una sentenza recente della Corte europea dei diritti umani, nel caso Air Canada (99), contengono anche chiaramente una difesa di una protezione giuridica ragionevole al momento dell’imposizione di sanzioni di confisca conseguenti a violazioni punibili del diritto indipendentemente dal fatto che rivestano una forma giuridica nel diritto privato, nel diritto amministrativo o nel diritto penale. Data la legislazione in espansione nell’ambito della lotta contro il crimine organizzato ed i nuovi strumenti di salvaguardia che vi appaiono, in gran parte ispirati dagli sviluppi negli Stati Uniti, è ora che la Commissione europea dei diritti umani e la Corte europea dei diritti umani riprendano in considerazione questa materia. Anche se la giurisprudenza della Supreme Court non è sempre soddisfacente in ordine a tutti i problemi, essa costituisce incontestabilmente una fonte d’ispirazione interessante. JOHN A.E. VERVAELE Ordinario di Diritto penale economico e tributario nell’Università di Utrecht (Olanda) e Professore nel Collège d’Europe di Bruges (Belgio)
diritto (procedurale) penale neerlandese, Rivista di Scienze criminale e di diritto comparato, 1998, p. 39-57. (99) J.A.E. VERVAELE, op. cit.
L’ISTITUTO DELLA RECKLESSNESS NEL SISTEMA PENALE INGLESE
SOMMARIO: 1. Un’ipotesi di ‘‘armonizzazione’’ del diritto penale europeo. — 2. La mens rea: determinazione dei contenuti e delimitazione dei confini. — 3. La recklessness nelle decisioni della common law e negli statutes. — 4. L’estensione applicativa della Caldwell/Lawrence recklessness. — 5. Loophole argument: alcune considerazioni di natura comparatistica. — 6. Un codice penale per l’Inghilterra e la Scozia. 1. Un’ipotesi di « armonizzazione » del diritto penale europeo. — Da alcuni anni a questa parte nel panorama dottrinario italiano e internazionale, è possibile registrare una crescente attenzione verso una particolare figura disciplinata dal diritto penale anglosassone. Come terza forma di colpevolezza, tra intention e negligence, la recklessness configura, infatti, un’ipotesi che suscita interesse non solo per i profili di originalità che assume nella veste di elemento soggettivo autonomo rispetto ai tradizionali dolo e colpa, tali da contraddistinguerla rispetto a molti altri ordinamenti, ma, in modo più rilevante, per il ruolo innovativo assunto in rapporto alla problematica della responsabilità da rischio. La peculiarità dei termini del confronto tra il sistema di common law, da un lato, e di civil law, dall’altro, impone di formulare alcune brevi considerazioni introduttive. Senza pretendere, in questa sede, di affrontare una trattazione analitica delle complesse vicende riguardanti la natura dell’attività di comparazione, nonché le possibili metodologie e finalità ad essa inerenti, si avverte però l’opportunità di inserire alcune riflessioni, quantomeno sulla funzione, che è implicita nella scelta di una determinato approccio comparatistico. Se ci si accontenta di una semplice giustapposizione sinottica delle molteplici formule giuridiche, che afferiscono a ciascun ordinamento, pur beneficiando di acquisizioni conoscitive di indubbio interesse, vi è il pericolo di non riuscire a spingersi oltre un’interpretazione e traduzione letterale del termine comparazione (1). Si suggerisce pertanto di procedere nello sviluppo della ricerca oltre che in senso « verticale », privilegiando cioè l’analisi separata dei dati, legati rispettivamente a ciascuno dei settori messi a confronto, anche in un’ottica di tipo « orizzontale », che valorizzi cioè la capacità di dialogo tra i diversi sistemi. L’abbattimento di alcune barriere, forse più fittizie che reali, e il conseguente allestimento di un terreno comune, può indurre ad intraprendere una strada di « armonizzazione » tra i diversi diritti nazionali. In epoca contemporanea può sembrare difficile individuare un canale di comunicazione all’interno della compagine dei sistemi penali anglosassoni, saldamente ancorati al ceppo originario di provenienza britannica, mediante il quale poter dialogare con la corrispondente struttura della famiglia romano-germanica. Per alterne vicissitudini, principalmente di carat(1) G. GORLA, Diritto comparato, Enc. del dir., vol.XII, Milano 1963, 928-946, 928. Mette in guardia dal « cedere alle lusinghe di una sorta di « ecclettismo » deteriore, fondato su di un’arbitraria giustapposizione di esperienze normative maturate in altri sistemi giuridici, in mancanza di un preventivo ed approfondito vaglio critico circa i limiti (e le condizioni) della loro praticabilità e « reddittività » in concreto all’interno del nostro ordinamento »: G. DE FRANCESCO, Variazioni penalistiche alla luce dell’esperienza comparata, in questa Rivista, 1997, 233-253, 239.
— 976 — tere storico e politico, il profilo giuridico dell’Europa continentale è andato assumendo contorni sempre più netti e si è progressivamente allontanato dall’alveo del diritto comune di epoca medioevale (2). È noto che il diritto comune europeo fino alla rottura, avvenuta nel XII secolo, è diritto « uniforme », cioè la maggior parte di quelle che oggi appaiono quali peculiarità del diritto anglosassone sono l’espressione dello stesso sistema di regole che ha governato anche le terre definite di civil law, prima che avvenisse la colonizzazione giuridica (3). « La distinzione common law e civil law è allora tra chi è rimasto nel diritto comune europeo e chi se ne è allontanato » (4). Oggi assistiamo alla riapertura di un dialogo, che in passato è stato particolarmente fecondo, grazie non solo all’impegno profuso in questi ultimi anni in alcuni paesi anglosassoni nella direzione di un nuovo processo di codificazione, ma anche nel continente europeo, più attento a raccogliere gli stimoli culturali e giuridici provenienti d’oltre Manica (5). La tendenza più recente sembra, quindi, favorevole alla demolizione di steccati eretti per lo più a difesa di presunte peculiarità, per superare la « miscomparazione » (6) che ha ostacolato la conoscenza dell’un sistema e dell’altro, se non addirittura la nozione stessa dell’esistenza di due sistemi, annoverati tra i cosiddetti « grandi sistemi » (7). Le recenti vicende politiche, economiche e sociali, che hanno interessato l’Europa negli (2) L’allontanamento dal contesto unitario europeo da parte dei sistemi continentali può trovare giustificazione sulla base di diverse motivazioni. Innanzittutto, questi ultimi hanno sentito, ad un certo punto, come non più prescindibile l’esigenza di ingabbiare i precetti giuridici in una rigida struttura codicistica, cosa che invece ha lasciato del tutto estranei gli anglosassoni. Inoltre, la presenza diffusa sul territorio continentale delle Università ha favorito la circolazione di un sapere di carattere eminentemente concettuale e speculativo, a differenza del pragmatismo empirico che ha continuato a segnare i Paesi di common law (G. RADBRUCH, Lo spirito del diritto inglese, a cura di A. Baratta, Milano 1962, 8 ss.). (3) M. LUPOI, Common law e civil law (alle radici del diritto europeo), Foro it. 1993, V, 431-440, 439. Pur riconoscendo delle differenze tra il common law inglese ed i sistemi di civil law continentali, così come peraltro esistono differenze all’interno degli stessi sistemi di civil law, si ritiene trattarsi di variazioni sullo stesso tema. Se si guarda alle similarità piuttosto che alle divergenze, è possibile individuare i lineamenti di una cultura giuridica europea (P. STEIN, I fondamenti del diritto europeo, Profili sostanziali e processuali dell’evoluzione dei sistemi giuridici, a cura di A. DE VITA, M. PANFORTI, V. VARANO, Milano 1987, prefazione all’ed.it.; G. GORLA-L. MOCCIA, Profili di una storia del « diritto comparato » in Italia e nel « mondo comunicante », Riv. dir. civ. 1987, I, 237-262, 243 ss.). In questa prospettiva gioca un ruolo fondamentale il diritto romano, acquisendo una funzione catalizzatrice all’interno del contesto comune europeo: J.F. STEPHEN, A History of the Criminal Law of England, vol. I, Londra 1883, 49; M. REHINSTEIN, Common law - Equity, Enc. del dir. 1960, vol. VII, 914-972, 917 P. KOSCHAKER, Europa und das romanische Recht, Monaco-Berlino 1958, trad. it. A. BISCARDI, Firenze 1962, 364; B. RUDDEN, Comparative Law in England, in AA.VV., Comparative Law and Legal System: Historical and Socio-Legal Perspectives, Londra 1985, 79-88. (4) M. LUPOI, Common law, cit. 439. (5) R.C. VANCAENEGEM, I signori del diritto, Milano 1991, 108 ss.; G. GORLA, Prolegomeni ad una storia del diritto comparato europeo, Foro It. 1980, V, 11-25, 17. Al giurista contemporaneo si attribuisce il compito di acquisire un’abitudine al pensiero giuridico transnazionale: G. SANTINI, Nascita di una nuova disciplina: la « storia » del diritto europeo », Arch.giur. 1994, 185-203, 201 ss. (6) Adopera questo termine, mettendo sull’avviso che anche l’attività di comparazione può essere piegata ad un’approccio metodologico scorretto: M. LUPOI, Common law cit., 431. (7) M. LUPOI, Ult. op. cit., ivi. Per una riclassificazione sistemologica in cui civil law e common law sono concepiti come « una sottodistinzione all’interno di una sola famiglia dotata di un notevole tasso di omogeneità »: U. MATTEI, Verso una tripartizione non eurocentrica dei sistemi giuridici, in Scintillae iuris, Studi in memoria di Gino Gorla, Milano 1994, vol.I, 774-797, 783.
— 977 — ultimi dieci anni; la ridefinizione delle aree di influenza all’interno delle organizzazioni sovranazionali, che governano importanti settori della vita civile; il venir meno della netta contrapposizione tra le due grandi superpotenze ed il conseguente mutamento morfologico dei due poli di potere, sui quali si è retto l’equilibrio mondiale per molti decenni, sono solo alcuni dei fattori che potrebbero incidere profondamente nella ridefinizione dei canoni giuridici europei. In questo quadro, senza tentare di attualizzare nuovamente l’ambizioso progetto di « unificazione » internazionale dei diversi sistemi positivi (8), che, come all’inizio del secolo (9), ancora oggi possiede i caratteri di un’impresa avveniristica, si può, tuttavia, pensare in termini più moderati, ma non per questo meno incisivi, ad una « uniformazione » sotto il profilo normativo. Oggi, infatti, sembrano convergere quelle condizioni necessarie per l’allestimento di un paradigma comune, che può trovare espressione attraverso principi generali e norme cardine. Il compito dei legislatori nazionali si potrebbe, pertanto, limitare alla traduzione nel proprio ambito interno, mediante la predisposizione dei necessari adattamenti ed integrazioni, di ciò che è stato già approvato a livello generale (10). Valorizzando il comune patrimonio culturale, si può più facilmente individuare il « nucleo duro » dei diritti individuali ed ineliminabili, che vengono condivisi dall’intera comunità giuridica (11). Tra gli effetti più rilevanti dovrebbe raggiungersi la garanzia di un livello minimo di protezione di tali diritti (12), o quantomeno una valida premessa per una migliore prevedibilità e maggiore sicurezza giuridica complessive (13). Le coordinate principali della manovra, che prelude ad un’imponente ridefinizione dei parametri normativi del diritto penale europeo, risultano di più facile percezione qualora si incomincino a muovere i primi passi sul terreno della politica criminale (14). Il suo linguaggio universale, infatti, costituisce un requisito basilare per la semplificazione del dialogo tra (8) M. ANCEL, Utilità e metodi del diritto comparato, Elementi di introduzione generale allo studio comparato dei diritti, Napoli 1974, 82. (9) L’occasione fu offerta dal Congresso di Parigi del 1900, quando il clima in Europa era contraddistinto da un grande fermento, sia nel settore tecnologico, scientifico, che lato sensu culturale, a cui faceva da sfondo, in totale sintonia con questa rinvigorita fiducia nel progresso, un’ampia schiera di consensi tra gli studiosi delle più disparate discipline (M. ANCEL, Utilità e metodi, cit. 15 ss.). (10) M.J. BONNEL, Unificazione internazionale del diritto, Enc. del Dir., Milano, 1992, vol. XLV, 720-734, 733. L’idea originaria è stata quella di una vera e propria « unificazione » di tutti gli ordinamenti giuridici, che comportava l’impegno di adottare al loro interno un testo legislativo di contenuto identico per tutti. Si presenta, invece, come ipotesi più moderata quella di una elaborazione di principi e criteri di base, cui le singole legislazioni nazionali debbono ispirarsi, o di semplici leggi modello, che ciascun Paese rimane libero di recepire nel proprio ordinamento interno. Più recentemente, con rinnovato vigore: H. JUNG, Criminal Justice - a European Perspective, Crim. Law Rev. 1993, 237-245, 240 ss; A. CADOPPI, Towards a European Criminal Code? European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice 1996, 2-17. (11) Esemplificando si può far riferimento ad un bisogno diffuso e di grande attualità come è quello della tutela ambientale, rispetto alla quale l’unica prospettiva concreta e di probabile successo sembra passare attraverso un processo di omogenizzazione delle normative penali nazionali: L. STORTONI, L’« ambiente »: aspetti penali della legislazione europea, di prossima pubblicazione sulla Riv. trim. dir. pen. econom., p.2 del dattiloscritto. (12) G. GRASSO, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica criminale degli stati membri: nascita di una « politica criminale europea », Ind. Pen. 1993, 65-94, 77. (13) K. ZWEIGERT-H. KOTZ, Introduzione al diritto comparato, vol. I, Principi fondamentali, a cura di A. DI MAJO e E. GAMBARO, trad.it., B. POZZO, Milano 1992, 29. Allo stesso modo più recentemente: A. BERNARDI, Les principes de droit international et leur contribution à l’harmonisation des systémes punitifs nationaux, Revue de science criminelle et de droit pénal comparé 1994, 267-278, 277: « Toutefois, compte tenu du processus actuel du rapprochement des modéles sociaux et culturels, qui est en train de se développer au niveau européen, cette harmonisation semble destinée à prendre une envergure internationale ». (14) Sulla necessaria interdipendenza tra la prospettiva di una ricerca di politica cri-
— 978 — gli ordinamenti dei diversi Paesi (15). In altri termini, come mezzo veicolare di comunicazione, la politica del diritto penale può essere in grado di abbattere le barriere innalzate a difesa dei particolarismi locali, favorendo una maggiore omogeneità già a livello delle istanze di difesa sociale (16). Un primo segnale favorevole all’allestimento di un arsenale comune, che sia posto a presidio dei diritti fondamentali, è rintracciabile nella riproduzione di alcune espressioni di criminalità di tipo « transnazionale » (17), che trovano il più efficace sistema di repressione nella convergenza degli obiettivi di politica criminale (18). Le opzioni esercitate in sede di politica generale dal singolo Paese potrebbero essere anche sensibilmente divergenti tra loro, ma l’esigenza ampiamente condivisa di fronteggiare le aggressioni che pongono in pericolo o ledono beni giuridici di natura fondamentale dovrebbe riuscire a stimolare una proficua composizione delle diverse istanze locali (19). Pur concedendo un ampio margine di variabilità storica e geografica, si ritiene, infatti, che vi siano alcuni dati costanti, indipendenti dalla valutazione contingente del legislatore, che favoriscono l’attuazione di disegni comuni (20). Spetterà quindi al « diritto penale delle nazioni » l’onere di erigere gli elementi strutturali del nuovo impianto giuridico, che coinvolga la nuova Europa (21). Se si riesce a valorizzare il ruolo della politica criminale come strumento idoneo ad minale e lo studio comparato dei diversi sistemi penali: P. NUVOLONE, Il diritto penale comparato quale mezzo di ricerca nell’ambito della politica criminale, Ind. pen. 1980, 5-10, 6 ss. (15) G. GRASSO, L’incidenza del diritto comunitario, cit. ivi. P. NUVOLONE, Il diritto penale comparato, cit. 6. Per una dettagliata ricostruzione delle principali idee-guida di politica criminale e delle tendenze di fondo che emergono dalle particolari vicende dei diversi ordinamenti europei si veda: A. ESER-B. HUBER, Strafrechtsentwicklung in Europa 2, Landesberichte 1984/1986 über Gesetzgebung, Rechtsprechung und Literatur, Freiburg i.Br. 1988. (16) In un’ottica di « riavvicinamento » dei sistemi penali appartenenti agli Stati che componevano la C.E.E., un autorevole penalista, già diversi anni or sono, prendeva posizione in senso favorevole, individuando nella funzione di tutela o della prevenzione generale di una serie di comportamenti antisociali il terreno proprio per una legislazione comune (C. PEDRAZZI, Il ravvicinamento delle legislazioni penali nell’ambito della comunità economica europea, Ind. pen. 1967, 325-344, 335 ss.). (17) La definizione del termine si rintraccia in G. GRASSO-G. POLIMENI, Co-operation among States in the Fight against Organized Crime, in AA.VV., The International Dimension of Contemporary Societies in the Field of Criminality and the Responses of the Movement of Social Defence, Rapporto del Ministero della Giustizia e del centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale all’Undicesimo Congresso Internazionale di Difesa Sociale, Milano 1986, 62 ss. (18) Si pensi ai casi di reati associativi, al traffico di stupefacenti, al riciclaggio, o a taluni reati economici (A. CADOPPI, Towards a European, cit. 3); così come, ad una visione meno particolaristica, a queste ipotesi se ne possono aggiungere altre, legate a beni giuridici fondamentali che non portano impresso il marchio di provenienza nazionale e che si trovano collocate su una medesima scala di valori, come possono essere i delitti contro la vita, contro il patrimonio e contro la libertà personale (P. NUVOLONE, Il diritto penale comparato, cit. 7). (19) V. SOLNAR, Difficoltà e prospettive nell’unificazione del diritto penale in Europa, in AA.VV., Prospettive per un diritto penale europeo, Padova 1968, 167-188, 171. (20) P. NUVOLONE, Problemi di politica criminale e riforma dei codici, Ind. Pen. 1975, 5-17, 6. (21) Non mancano i promotori di un diritto penale sovranazionale, creato dalla stessa Comunità Europea, attraverso i canali istituzionali già operativi: J. DINE, European Community Criminal Law?, Crim. Law Rev. 1993, 246-254; G. DANNECKER, Armonizzazione del diritto penale all’interno della Comunità Europea, Riv. trim. dir. pen. econom. 1993, 961-1020; sebbene in relazione ad un settore specifico, si rinvia all’imponente opera di M.C. BASSIOUNI, Crimes against Humanity in International criminal Law, Dordrecht 1992; per un’ipotesi in merito all’area del diritto penale economico si è schierata, invece: H.G. SEVENSTER, Criminal law and EC law, Common Market Law Review 1992, 29-70, 63 ss.
— 979 — unire, piuttosto che a dividere, si può supporre che non sia poi così lontana neppure l’evenienza di un’armonizzazione anche sotto il profilo normativo, prima, e della dogmatica penale, poi (22). La tendenza attuale e diffusa è nel segno di un rafforzamento dei nessi tra dogmatica e politica criminale, dove la prima diventa concretizzazione dei principi e delle esigenze promosse da quest’ultima (23). Nella dottrina italiana quest’apertura della dogmatica, che non viene irregimentata sulla base di parametri puramente logici, ma « su strutture portanti d’ordine politico-criminale », viene contrassegnata in termini costituzionali (24). Ai nostri fini, il risultato di una scienza penale che si possa considerare « integrata », quantomeno rispetto alle linee generali di politica criminale, sembra non subire alterazioni particolarmente significative dalla direzione assunta nel processo di legittimazione, che tali istanze mirano a perseguire. Di conseguenza, tanto in chiave deduttiva, facendo cioè derivare i principi di politica criminale da esplicite affermazioni d’ordine costituzionale (25), quanto in via induttiva, come più recentemente si è sostenuto (26), (anche se non « meramente » induttiva) (27), riconducendo nell’alveo della magna carta dei diritti i molteplici contributi che scaturiscono a livello culturale, linguistico, nonché storico e comparato, si giunge comunque a concludere che è quanto mai necessaria una reciproca interazione tra i due diversi piani. Si ribadisce in altri termini che esistono realtà strutturali, categorie sistematiche o indirizzi di scienza della legislazione che, elaborati in sede dogmatica, costituiscono il background epistemologico di ogni discorso scientifico o di politica del diritto avente basi scientifiche (28). È facile pensare che le questioni più controverse possono sorgere principalmente in relazione alla disciplina della cosiddetta parte generale, là dove il ruolo quasi sacrale delle categorie induce ad assumere un atteggiamento di particolare cautela. Si può, perciò, ritenere che esistano delle forme che assumono il valore di concetti classificatori (29), i quali hanno carattere sostanzialmente omogeneo rispetto al panorama delle soluzioni normative, proposte dai diversi sistemi giuridici. Si può tentare un’esemplificazione facendo riferimento proprio al concetto di colpevolezza, non nella sua veste ordinaria, bensì come meta-principio, la cui portata, quindi, trascende il singolo ordinamento, per assurgere a valore cardine nell’evoluzione della civiltà del diritto e del rispetto dei diritti umani. Senza addentrarsi nella vischiosa diatriba tra chi propende per una unificazione del di(22) H.H. JESCHECK, Dogmatica penale e politica criminale nuove in prospettiva comparata, Ind. Pen. 1985, 507-533, si segnala, in particolare, la ricostruzione del contesto storico attraverso il quale viene recuperata un’immagine fortemente unitaria. La dimensione europea comune alla dogmatica penale, di cui oggi sembra vi sia una nuova consapevolezza, inizia, secondo l’A., già nel Medioevo, con le fasi che naturalmente si sono succedute dalla ricezione del diritto penale romano-italiano-canonico (508). (23) Si assiste ormai da tempo ad un netto cambiamento di prospettiva rispetto all’analisi elaborata da von Liszt, secondo cui tra i due elementi esisteva una chiara contrapposizione. Oggi la « vincolatività del diritto e il finalismo della politica criminale non possono essere in contrapposizione, ma devono ricondursi a sintesi » (C. ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, trad. it. S. MOCCIA, Napoli 1986, 35). (24) F. BRICOLA, Rapporti tra dogmatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, 3-35, 12. (25) F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in ID., Scritti di diritto penale, cura di S. CANESTRARI - A. MELCHIONDA, Vol. I, Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, Tomo I, Milano 1997, 539-809, 554. (26) M. DONINI, Teoria del reato, Una introduzione, Padova 1996, 7-8. (27) M. DONINI, Ult. op. cit., 14. (28) M. DONINI, Ult. op. cit., 23. (29) P. NUVOLONE, Problematica dell’unificazione del diritto penale dei paesi europei, Ind. Pen. 1968, 145-160, 146. L’aspetto sotto il quale il discorso unitario appare facile ed ovvio è quello relativo alle forme del pensiero giuridico penale, ovvero quei momenti logici attraverso i quali si articola, con i più diversi contenuti, il diritto penale. « Sono tali, per esempio: quelli di delitto, di pena, di consumazione, di tentativo, di colpevolezza, di esimente, di illiceità » (ivi).
— 980 — ritto penale europeo e chi, invece, si oppone a tale prospettiva giudicando insormontabili gli ostacoli di natura principalmente politica (30), si ritiene possa essere, comunque, di estremo interesse l’acquisizione di una prospettiva di armonizzazione, quantomeno come direttrice nello studio dei sistemi stranieri. In un’ottica di tipo « unionista » (31), la funzione dell’analisi comparata degli ordinamenti giuridici dovrebbe indurre, infatti, a mettere in risalto quegli aspetti, già esistenti, che rappresentano un sintomo di uno stato di latente armonia, rimandando, ad una fase successiva, qualora le condizioni storiche, politiche e sociali lo consentano, l’elaborazione di un processo ben più complesso di vera e propria unificazione degli ordinamenti europei (32). Si tratta, evidentemente, di livelli di intervento progressivo, poiché si parte da un primo stadio nel quale è possibile configurare, quantomeno, uno standard comune ai paesi della comunità giuridica, che intendano costituire una nuova forma di aggregazione, per poi proseguire, in una fase successiva, verso un traguardo non immediato, ma comunque non impossibile a raggiungersi (33), che configuri la vera e propria unificazione dei diversi diritti penali nazionali. In alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali e normativi, assunti dagli organi istituzionali della Comunità Europea, si colgono delle assonanze rispetto a questa tendenza, quasi a voler significare la fine di una stagione prevalentemente dedicata alla formulazione di congetture di carattere scientifico o dottrinario per approdare, invece, ad una fase di operatività concreta (34). Il primo segnale è venuto dalla Corte di Giustizia a partire dalla sentenza n. 68/88, altrimenti nota come affaire del mais greco, in cui si afferma che, ove gli atti comunitari non contengano già essi stessi le sanzioni per il caso di loro violazione, l’obbligo generale sancito dall’art. 5 Trattato C.E.E. impone tra l’altro agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario (35). Ha fatto seguito la risoluzione del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea del 30 novembre 1993, nella quale si invita ad esaminare « le misure da prendere per realizzare una maggiore compatibilità tra le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri, nella lotta delle pratiche fraudolente a danno degli interessi finanziari delle Comunità ». In modo ancora più incisivo, il Trattato sull’Unione Europea, entrato in vigore, l’1 novembre 1993, al titolo VI, ha tracciato le linee essenziali per un’efficace e fattiva cooperazione nei settori della giustizia o degli affari interni, dando così vita al cd. « terzo pilastro » della costruzione (30) A. PAGLIARO, Limiti all’unificazione del diritto penale europeo, Riv. trim. dir. pen. econ. 1993, 199-208, 204. Secondo l’A. si tratterebbe, infatti, di problemi eminentemente politici, poiché le difficoltà tecniche possono al contrario essere più facilmente superate. (31) Con questo termine si intende fare riferimento a quella corrente di giuristi che aderiscono ad un diritto comparato delle concordanze (i cosmopolitans), e che si differenzia rispetto ai nationalists che invece insistono sulla presenza di pretese « divisioni »: G. GORLA, Il diritto comparato in Italia e nel mondo occidentale e una introduzione al dialogo civil law - common law, Milano 1983, 532. (32) A. BERNARDI, « Principi di diritto » e diritto penale europeo, Annali della Facoltà di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. II, 1988, 75-113, 79. (33) A. PAGLIARO, Diritto penale e cultura europea, in AA.VV., Prospettive per un diritto penale europeo, Padova 1968, 147-156, 149. (34) Si sostiene che l’idea di un diritto penale europeo, erede dell’antico ius commune romano-germanico, sia ormai ben presente nel pensiero della dottrina penalistica, esprimendosi a diversi livelli, tra cui l’integrazione dei sistemi giudiziari, le scelte di politica criminale in rapporto alla tutela di beni giuridici d’ordine comunitario, nonché, oltre al resto, l’unitarietà in alcuni settori normativi, anche sotto il profilo delle misure destinate a garantire il rispetto della disciplina in essi prevista. Sono tutti meccanismi che concorrono alla costruzione del cosiddetto « diritto penale europeo », che si afferma nelle leggi nella giurisprudenza e nella dottrina (A. BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, Ferrara 1996, 13 ss.). (35) La sentenza, corredata da un analitico commento di L. SALAZAR, Diritto penale e diritto comunitario: la strana coppia, si trova in Cass.pen. 1992, 1654-1667.
— 981 — europea (36). Non si sono fatti attendere i primi effetti, visto che il 26 luglio 1995 è stata firmata dai rappresentanti dei 15 Stati membri la « Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari della C.E. », che mira ad ottenere una tutela penale « effettiva, proporzionata e dissuasiva » nei confronti di alcuni comportamenti lesivi degli interessi finanziari comunitari. Tutto questo può forse indurre a ritenere meno astratta e lontana la configurazione di un diritto penale dell’Unione Europea, anche se molte debbono essere le cautele per evitare di rincorrere un’identità comune sotto il profilo giuridico-penale, senza aver preliminarmente risolto alcune difformità relative a talune scelte di fondo (37). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo può essere considerata la prima pietra dell’edificio che oggi potrebbe ospitare tanto gli ordinamenti di common law che quelli di civil law. Anche le maggiori resistenze esercitate sul fronte dei principi generali, come per esempio il nullum crimen sine lege sembrano, oggi, assumere connotati meno marcati (38). Se alcuni anni fa era sufficiente esortare la scienza penale ad occuparsi dell’avvenire europeo della propria materia (39), attualmente non sembra più procrastinabile l’impegno ad una programmazione graduale, ma incessante, dell’unificazione del diritto penale dell’Europa, prendendo le prime mosse da una fase di uniformazione. Qualche segnale confortante, in questa direzione, si può già cogliere in un recente progetto, avviato su richiesta del Parlamento Europeo, che contiene disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione, elaborato da un gruppo di studiosi, provenienti dai diversi Stati d’Europa (40). Nel titolo ambizioso, Corpus iuris (41), si disvela presto lo scopo di tratteggiare un canovaccio comune ai diversi Stati membri dal quale possa sorgere il futuro diritto penale europeo, iniziando dalle fattispecie riguardanti l’aspetto finanziario dell’Unione. Sebbene sia facilmente prevedibile con quali difficoltà quest’iniziativa dovrà misurarsi, sembra in ogni caso opportuno valorizzare l’impegno verso un progressivo allestimento di spazi giuridici unitari, nei quali sia possibile ridimensionare le singole sovranità nazionali (42). 2.
La mens rea: determinazione dei contenuti e delimitazione dei confini. — Utiliz-
(36) « Lotta contro la tossicodipendenza » (art.k1, n.4); « lotta contro la frode su scala internazionale » (art.k1, n.5); « la cooperazione giudiziaria in materia penale »(art.k1, n.7); « la cooperazione doganale » (art.k1, n.8); « la cooperazione a livello di polizia al fine della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre forme gravi di criminalità internazionale » (art.k1, n.9). (37) G. GRASSO, Le prospettive di formazione di un diritto penale dell’unione europea, Riv. trim. dir. dell’econ. 1995, 1158-1193, 1186 ss. (38) E. GRANDE, Principio di legalità e diritto giurisprudenziale: un’antinomia?, Politica del diritto 1996, 469-484, 477. (39) Più di quarant’anni fa Jescheck affermava che la costruzione di un diritto penale sovranazionale avrebbe dovuto costituire l’impegno di una « generazione di penalisti » (H.H. JESCHECK, Die Strafgewalt übernationaler Gemeinschaften, in ZStW, 65 (1953), 496-518, 517 ss.). Più recentemente: U. SIEBER, Unificazione europea e diritto penale europeo, Proposte per il futuro del diritto penale europeo e base di discussione per il Simposio di fondazione della « Vereinigung für Europäisch Strafrecht e.v. » (22 e 23 maggio 1992, Würzburg), Riv. trim. dir. pen. econ. 1991, 965-986, 980 ss. (40) Un breve resoconto in M. DELMAS-MARTY, Verso un diritto penale comune europeo?, in questa Rivista, 1997, 543-554, 549 ss. (41) Corpus iuris, contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, a cura di M. DELMAS-MARTY, Studio realizzato su richiesta del Parlamento europeo da ricercatori delle Associazioni dei Giuristi europei per la Tutela degli Interessi Finanziari della Comunità, sotto l’egida della Direzione Generale del Controllo Finanziario della Commissione europea. (42) Si è espresso in questi termini in un recente convegno trentino, dal titolo: Verso uno spazio giudiziario europeo, H.H. JESCHECK, Possibilità e limiti di un diritto penale per la protezione dell’Unione europea, di prossima pubblicazione (pagina 25 ss del dattiloscritto).
— 982 — zando gli strumenti offerti dalla moderna comparazione (43), e rivolgendosi ai recenti contributi elaborati nell’ambito di un’impostazione storiografica capace di superare la cultura di una irriducibile diversità, si è tentato di costruire un ponte ideale tra i due mondi, che consenta di trasferire, non solo generiche acquisizioni conoscitive, ma in modo ben più pregnante, i presupposti fondanti di una struttura normativa uniforme. Se l’esito della ricerca, che si intende svolgere, fosse in grado di far acquisire nuovi modelli interpretativi o sistematici, che semplifichino o riducano la complessità esistente (44), si potrebbe ipotizzare l’impiego di tali risorse, in una prospettiva de iure condendo, a vantaggio di quell’ordinamento che da questo scambio possa trarre beneficio (45). Individuati a grandi linee alcuni dei possibili sbocchi di questo particolare tipo di comparazione, si può incominciare ad affrontare l’analisi in senso verticale dell’oggetto di indagine prescelto. Prima di addentrarsi, solo un breve riferimento ai tratti essenziali del sistema giuridicopenale nei paesi di common law, più in particolare in Gran Bretannia (46). Gode ancora un’indiscutibile attualità la nota massima latina: « actus reus non facit reum nisi mens sit rea ». In questa formula sono, infatti, racchiusi gli elementi costitutivi essenziali del reato che ancora oggi valgono ad identificarlo, e che inoltre possiedono forti analogie rispetto all’equivalente struttura elaborata dalla dogmatica tedesca (47). Si tratta dell’elemento oggettivo, comprendente la condotta, l’evento ed il rapporto di causalità; e di quello soggettivo, nel quale sono ricondotti i possibili stati psicologici dell’autore, al tempo della commissione del fatto. In altri termini per poter correttamente attribuire una conseguenza sanzionatoria di tipo penale a chi abbia posto in essere una condotta criminosa (actus reus), è necessario ravvisare la presenza di una mens rea, altrimenti detta guilty mind. Si deve trattare, natural(43) Mattei propone una ricollocazione dei sistemi giuridici fondata sul ruolo del diritto come strumento di organizzazione sociale (U. MATTEI, Verso una tripartizione, cit. 777778), dove sia l’ordinamento italiano che quello inglese si vengono a trovare accomunati nella rule of law, ovvero nel modello di organizzazione sociale in cui prevale il diritto, non la politica (rule of politics), né la tradizione filosofica o religiosa (rule of tradition) (780), come avviene nei paesi musulmani, Indu o nel lontano oriente a tradizione confuciana (790). Questa nuova visione rivoluziona le tradizionali scelte sistemologiche inagurate da R. DAVID nella sua magistrale opera: I grandi sistemi contemporanei, a cura di R. SACCO, II ed., Padova 1973. (44) Sebbene la finalità precipua dell’attività di comparazione sia indicata principalmente nel processo di arricchimento della conoscenza del diritto interno, si riconosce tuttavia che possa ottenersi anche un aumento, nonché miglioramento, della produzione normativa; o la revisione, secondo una diversa prospettiva, di leggi poco efficaci (R. SACCO, Comparazione giuridica e conoscenza del dato giuridico positivo, in AA.VV., L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Milano 1980, 243-265, 243). (45) Nonostante alcune differenze, va riconosciuto che ciascun universo giuridico ha ancora tanto da imparare dall’esperienza offerta dall’altro (W.T.S. STALLYBRASS, A Comparison of the General Principles of Criminal Law in England with the « Progetto definitivo di un nuovo codice penale Arturo Rocco », in RADZINOWICZ-TURNER (a cura di) Modern Approach to the Criminal Law, Londra 1948, 390-466, 391). (46) Anche se concorrono a formare un medesimo stato, la Scozia e l’Inghilterra possiedono due sistemi penali per certi aspetti sensibilmente diversi; per questo motivo d’ora in avanti si farà riferimento all’ordinamento inglese, che rappresenta in modo più emblematico il mondo giuridico anglosassone (A. CADOPPI - R.A.A.MCCALL SMITH, Introduzione allo studio del diritto penale scozzese, Padova 1995, 3 ss.; R.A.A.MCCALL SMITH - D. SHELDON, Scots Criminal Law, Edimburgo 1992). (47) Vi è chi oppone forti resistenze a cogliere nei sistemi penali estranei al modello tedesco, come per esempio quello britannico, l’equivalente elaborazione di una teoria generale del reato; d’altra parte non si esclude che in tali ordinamenti si possano utilizzare strumenti conoscitivi volti ad affrontare le complesse problematiche della responsabilità penale attraverso una soluzione strutturata del reato: E. GRANDE, Reato in diritto comparato, Dig. Dis. Pen., Torino 1996, 279-293, 281.
— 983 — mente, di una persona capace di intendere e volere, cioè in grado di comprendere ed orientare la propria condotta in senso conforme alle regole sociali (48). Perché si possa infliggere una giusta condanna, quindi, si dovrà dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la persona non solo ha prodotto un certo evento, illecito secondo la legge penale, ma ha, inoltre, assunto un determinato atteggiamento mentale, legato alla causazione del fatto (49). Di recente è stata affacciata l’ipotesi di arricchire ulteriormente l’analisi contenutistica del reato, per creare una migliore corrispondenza tra il grado di complessità della realtà fenomenologica delinquenziale ed il livello di elaborazione del diritto penale inglese (50). La ricezione di questo orientamento, nella manualistica più accreditata, ha dato origine ad una scomposizione quadripartita del reato: i) elemento oggettivo; ii) assenza di cause di giustificazione; iii) requisiti positivi della colpevolezza; iiii) assenza di requisiti negativi (51). Va detto, peraltro, che è un’acquisizione ormai consolidata l’inserimento, all’interno di questo schema, di una valida defence, come elemento negativo, tra i fattori che concorrono a costituire il reato, visto che già da diversi anni se ne è riconosciuta un’importante valenza sistematica (52). D’altra parte, questo istituto, proprio per la sua natura proteiforme, non è univocamente riconducibile alle categorie adoperate dal giurista continentale. Esso assume, infatti, diversi ruoli a seconda dell’ambito di incidenza rispetto al quale opera: può, innanzitutto, rilevare ai fini della mens rea, atteggiandosi come errore sul fatto, e fungere quindi da causa di esclusione della colpevolezza; può, invece, intervenire sull’actus reus, qualora l’imputato sia in grado di offrire un alibi, dimostrando perciò la sua estraneità ai fatti, sotto il profilo causale; infine, può infirmare la configurazione del reato se considerato come forma di autotutela rispetto ad una ingiusta aggressione, quindi nei termini di self-defence, in questa accezione conformandosi alla categoria delle scriminanti ed in particolare alla legittima difesa, comunemente conosciuta nei sistemi di civil law. D’altra parte, è bene avvertire che nei paesi di lingua inglese questo tentativo di scomposizione analitica del reato, che sembra ormai aver raggiunto un livello piuttosto evoluto, ancora oggi stenta a divenire una acquisizione unanimemente condivisa, non solo per la peculiarità dei contenuti di volta in volta elaborati, ma, più radicalmente, a causa delle grosse ostilità incontrate nel condividere l’impegno affrontato dai teorici nell’elaborazione di un modello di strutturazione del dato fenomenologico criminale secondo categorie generali (53). Per esemplificare, si può rivolgere l’attenzione in particolare verso una delle componenti del reato, che ha sollevato vivaci dispute, sia dottrinali che giurisprudenziali, non solo quanto alla natura, ma anche in rapporto alla sua variabile estensione applicativa: si tratta, più esplicitamente, della mens rea. Di questa categoria in passato è stato messo in discussione il fondamento linguistico (54), oltre che logico-sistematico (55). Più recentemente (56), invece, ha prevalso la (48) F.G. JACOBS, Criminal Responsibility, Londra 1971, 13 ss.; N. LACEY, State Punishment: Political Principles and Community Values, Londra 1988, 63. (49) SMITH-HOGAN, Criminal Law, Londra 1992, VII ed., 28. (50) P.H. ROBINSON, A functional Analysis of Criminal Law, Northwestern U.L.R. 1994, 857-863. (51) A. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, Oxford 1995, II ed., 94. (52) Tra i primi ad elaborare questo tipo di sistematizzazione, che possiamo definire a carattere tripartito: D. LANHAM, Larsonneur Revisited, Crim. L.R. 1976, 276-281, 276. (53) A.T.H. SMITH, On Actus Reus and Mens Rea, in P.R. GLAZEBROOK (ed.), Reshaping the Criminal Law, Essays in honour of G. Williams, Londra 1978, 95-107. (54) G. FLETCHER, Rethinking Criminal Law, Boston 1978, 400. W. LUCY, Controversy in the Criminal Law, Legal Studies 1988, 317-332, 321. L’A. sostiene che non possono essere di aiuto, al fine di chiarire inequivocabilmente il significato intrinseco del termine, che a sua volta contiene i parametri soggettivi dell’intention e della recklessness, né l’accezione tecnica, né quella del linguaggio comune. L’irresolubile ambiguità esiste, a suo avviso, perché il fondamento per l’attribuzione della responsabilità colpevole è intrinsecamente controverso (322). (55) J.F. STEPHEN, History of the Criminal Law of England, vol. II, Londra 1883, 9495. (56) A. CADOPPI, Mens rea (voce), Dig. Dis. Pen., Torino 1993, 618-652, 625.
— 984 — tendenza ad esaltarne la duplice valenza, sia nell’accezione più ampia, di rimproverabilità per la condotta tenuta, sia in quella più ristretta, ovvero come espressione di sintesi dei diversi atteggiamenti psicologici descritti nelle singole fattispecie criminose (57). Va detto, peraltro, che quest’apprezzabile evoluzione nel pensiero culturale e giuridico del sistema penale dei paesi di common law mal dissimula un’intrinseca contraddizione, dovuta alla presenza di numerosi casi di responsabilità oggettiva (58). La stretta convivenza tra forme di imputazione oggettiva e forme di imputazione colpevole è sicuramente di difficile comprensione per lo studioso continentale, anche se non gli è del tutto sconosciuta (59). L’opzione a favore della mens rea e più in particolare l’individuazione specifica dei suoi contenuti e l’esatta delimitazione dei confini si conferma, comunque, di indiscutibile importanza, anche alla luce dei possibili sviluppi in senso armonico del diritto penale europeo. D’altro canto è noto che fino al XII secolo non esisteva neppure il concetto di mens rea (60). Si puniva l’autore di un determinato « fatto » senza svolgere alcuna indagine sul profilo psicologico (61). Solo in seguito, grazie all’influenza del diritto romano e di quello canonico (62), il principio di colpevolezza inizia ad assumere uno spazio autonomo, come espressione di un giudizio di rimproverabilità, sebbene in questa prima versione siano fortemente predominanti valutazioni di tipo morale (63). Il processo di subiettivazione, si sovrappone in altri termini ad un fenomeno di eticizzazione del diritto penale (64). D’altra parte, questi sono i primi passi verso l’acquisizione di nuovi elementi nella ricostruzione della responsabilità penale, gravante sull’autore del reato, e questa nuova idea di colpevolezza, sebbene ancora intrisa di elementi eticizzanti, ha trovato presto aperti consensi nei diversi ambienti giuridici del mondo anglosassone. Dalla fine dell’Ottocento fino all’epoca contemporanea si sono poi susseguite, con vi(57) C.M.V. CLARKSON-H.M. KEATING, Criminal Law: Text and Materials, III ed., Londra 1994, 135. (58) « Gli inglesi sembrano in fondo ormai rassegnati a convivere colle loro (pare) oltre 3.500 fattispecie penali di strict liability, e tutto quello che propongono gli autori più sensibili è la rinuncia all’utilizzo della sanzione detentiva per tali illeciti » (A. CADOPPI, Mens rea, cit. 634). (59) Anche se va ricordato che il diritto penale italiano solo negli ultimi anni ha potuto assistere ad una consacrazione, quantomeno a livello giurisprudenziale, del principio di colpevolezza, attraverso alcune storiche pronuncie della Corte Costituzionale (Sent. n. 364/88 e 1085/88). A parte l’intervento legislativo del 1990 sui criteri di imputazione delle circostanze aggravanti, si sta ancora attendendo un più profondo e radicale intervento di espunzione dei restanti casi di responsabilità oggettiva « espressa » (M. DONINI, Teoria del reato, cit. 252 ss.). (60) A.K.R. KIRALFY, The English Legal System, VII ed., Londra 1984, 22 ss. (61) La commissione di un reato era considerata come un affronto alla divinità. Punendo il colpevole si ristabiliva l’armonia infranta tra mondo umano e mondo divino. Questo valeva tanto per la condotta rilevante penalmente (crimes), quanto per i fatti illeciti di natura civilistica (torts). La sanzione, in entrambi i casi, aveva un carattere esclusivamente compensativo, espresso per lo più nell’esborso di denaro allo Stato o al danneggiato, a seconda dei casi (G. WILLIAMS, Textbook of Criminal Law, II ed., Londra 1983, 70-114, 70). (62) Anche il termine mens rea tradisce una chiara derivazione canonistica. Nel 1118 lo si trova nelle Leges Henrici Primi (« reum non facit nisi mens rea »). Ancora prima nel sermone n.180 di Agostino, che in tema di spergiuro afferma: « ream linguam non facit, nisi mens rea » (H. EDGAR, Mens rea, in S.H. KADISH, Encyclopedia of Criminal Justice, New York 1983, 1028-1040, 1030; F.B. SAYRE, Mens rea, 45 Harvard Law Review 1932, 9741026, 978; P.E. RAYMOND, The Origin and Rise of Moral Liability in Anglo-Saxon Criminal Law, 15 Oreg. Law Rev. 1936, 93-117, 110). (63) A. CADOPPI, Mens rea, cit. 622 ss. (64) Si afferma, dunque, un’idea di colpevolezza legata a norme morali. Poiché, inoltre, tali regole non si riferivano ad un ordinamento giuridico, vennero utilizzate spesso per celebrare e legittimare un sistema penale di gravi barbarie (H. EDGAR, Mens rea, cit. 1032).
— 985 — stose oscillazioni, contrastanti soluzioni interpretative intorno a questa categoria (65). Solo negli ultimi decenni si è imposto un concetto stabile ed unitario di colpevolezza, inteso come struttura dogmatica e principio politico-criminale, superiore rispetto alle diverse mentes reae dei singoli reati (66). In altre parole, anche all’interno dell’ordinamento giuridico anglosassone, così come era già avvenuto da tempo nei sistemi continentali, il dogma della colpevolezza è andato assumendo un ruolo di grande importanza, stimolando l’elaborazione di complesse e sempre più ardite soluzioni interpretative (67). Si può dire che il riconoscimento di un coefficiente soggettivo, come presupposto del divieto o della giusta comminazione della sanzione penale, abbia vissuto una lunga e travagliata storia. Si è passati da un criterio oggettivo d’imputazione all’introduzione di un concetto di colpevolezza morale, ed infine all’affermarsi di un concetto di mens rea articolato sia come state of mind, in base alla definizione descrittiva, sia come rimprovero, in base ad un concetto normativo (68). Non ha, invece, ancora acquisito contorni sufficientemente netti l’estensione dell’area ricoperta dalla mens rea (69), poiché non è chiaro quali siano gli indici soggettivi che possono essere annoverati in questa categoria. Un certo orientamento, seguito sia in dottrina che in giurisprudenza, porta a ritenere che solo l’intention e la recklessness possano essere espressione di colpevolezza (70). Infatti, l’elemento psicologico, che si esprime in queste forme, possiede i connotati della conoscenza (knowledge), o quantomeno della previsione (foresight); mentre la colpa (negligence), intesa come espressione di una condotta contraria ad una regola generale di diligenza, difetterebbe di entrambe, e quindi sembrerebbe opportuno collocarla al di fuori della categoria della mens rea (71). In modo profondamente diverso da quanto avviene nei sistemi di civil law, infatti, il giudice di common law di fronte ad una condotta colposa è esonerato dall’esprimere valutazioni in merito alla colpevolezza dell’autore, poiché nella maggior parte dei casi il fatto non giunge a costituire reato. La (65) Il concetto di mens rea è servito come base d’appoggio per molte dottrine, sebbene le soluzioni interpretative proposte fossero tra loro inconciliabili. È stato difeso da coloro che avevano una visione del diritto penale di tipo retributivo, dove il rimprovero aveva una funzione primaria di condanna morale; da chi privilegiava, invece, un approccio utilitaristico o strumentalistico al fine di creare un sistema a carattere deterrente-preventivo. Infine, è stato visto con favore da coloro che ritenevano che la giustizia penale potesse essere compresa nei soli termini di una combinazione tra elementi di una visione retributiva ed elementi di una visione preventiva. Ciò che non è dubitabile, secondo alcuni, è che la mens rea rappresenta nella dottrina liberale la chiave di volta dell’asserita legittimità dell’intervento coercitivo esercitato sulle persone, in risposta alle azioni criminali (N. LACEY - C. WELLS - D. MEURE, Reconstructing Criminal Law, Critical Perspectives on Crime and the Criminal Process, Londra 1990, 34). Il più autorevole assertore di questa visione resta: H.L.A. HART, Punishment and Responsability, Oxford 1968. (66) A. CADOPPI, Mens rea, cit. 629. J.C. SMITH, Responsability in Criminal Law, Barbara Wooton, Social Science and Public Policy, Essays in her honour, ed. 7 by P. BEAN e D. WHYNES, Londra 1986, 141-155, 144. (67) A. CADOPPI, Mens rea, cit. 625; S. VINCIGUERRA, Introduzione al diritto inglese, Padova 1992, 164. (68) G.P. FLETCHER, Rethinking, cit. 442-448. (69) « However, the attempt to get beyond this formal approach towards an account of what really unifies « mens rea is thought with difficulty » (N. LACEY - C. WELLS - D. MEURE, Reconstructing, cit. 30). (70) R. CARD - R. CROSS - P.A. JONES, Criminal Law, XIII ed., Londra 1995, 61-62; S. VINCIGUERRA, Introduzione, cit. 176. (71) In questo senso anche: N. LACEY - C. WELLS - D. MEURE, Reconstructing, cit. 35, che ribadiscono l’estrema contradditorietà del sistema penale inglese laddove si prevedono casi di negligence, di recklessness oggettiva, nonché di strict liability, in un gran numero di fattispecie criminose. Sul piano dei principi, gli sforzi sembrano tutti unanimemente convergere verso un abbattimento progressivo delle ipotesi di responsabilità non colpevole, mentre poi nella realtà esse continuano a proliferare (A. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, II ed., Oxford 1995, 167).
— 986 — colpa, in altre parole, esula dall’area del penalmente rilevante, eccetto alcune ipotesi limitate (72). I reati per i quali è richiesta la colpa come elemento psicologico sono numericamente piuttosto limitati. Nell’ambito del diritto di formazione giurisprudenziale, per esempio, si contano principalmente due ipotesi. La prima è il manslaughter (73), che per molto tempo è stato considerato come paradigma emblematico di questa tipologia di reati, ma sulla cui sopravvivenza si nutrono da più parti molte perplessità. Si ritiene, infatti, inopportuno punire una condotta che esprima un profilo psicologico ancora minore rispetto a quello previsto dalla Caldwell recklessness (74). La dottrina prevalente è piuttosto orientata a sopprimere del tutto il reato di manslaughter per gross negligence (75). L’altra ipotesi di reato colposo, sempre creato dalla common law, è il pubblic nuisance (76). In ambito legislativo (statutes), invece, la previsione degli illeciti colposi è più estesa, anche se il requisito dell’elemento soggettivo non viene normalmente fatto cadere sugli elementi essenziali della fattispecie (un raro esempio di questo tipo è il caso di careless driving, disciplinato dalla s.3 del Road Traffic Act 1988, così come sostituito dalla s.2 del R.T.A. del 1991 (77)). Di regola, invece, è richiesto che la colpa sia presente rispetto ai soli elementi sussidiari dell’actus reus, come per esempio avviene nella s.19 del Sex Offences Act 1956 (78). Questo rapido cenno è forse già sufficiente per inferire quale sia il rapporto tra i casi di (72) G. WILLIAMS, Criminal Law, The General Part, II ed., Londra 1961, 100 e ss. (73) Il manslaughter differisce dal murder esclusivamente quanto all’elemento psicologico. È classificato come volontario o involontario. Nel primo caso il reo è condannato per manslaughter anziché murder i) se ha ucciso essendo stato provocato, oppure ii) se è affetto da un’incapacità, che provoca una diminuita responsabilità penale; iii) se, infine, provoca la morte sulla base di un accordo al suicidio. Il secondo tipo, ovvero l’involuntary manslaughter si ha quando « (1) death results from unlawful act which any reasonable person would recognise as likely to expose another to the risk of injury; and(2) where death is caused by gross negligence » (J.B. SAUDERS, Words and Phrases Legally Defined, III ed., Londra 1989, vol. III, 97-98). (74) Alcuni, intendendo promuovere una graduazione tra le diverse forme di responsabilità, hanno proposto di affiancare al manslaughter per gross negligence quello per recklessness: A.J. ASHWORTH, Principles, cit. 288 ss. (75) S. LAI, The Law of Recklessness Manslaughter - Swept by the Tide of Change?, The Journal of Criminal Law 1994, 303-309, 309. Come si vedrà meglio più avanti, la recente giurisprudenza, tornando a rimescolare le carte, ha invece resuscitato proprio il manslaughter per gross negligence (vedi caso Adomako). (76) Shorrock [1993] 3 All ER 917, CA. Questo tipo di illecito è definito come l’omesso compimento del proprio dovere, che ostruisce o causa inconvenienti o danni al pubblico. Esempi tipici sono l’ostruzione dell’autostrada, o l’emissione di rumori o di odori dalle fabbriche, in modo tale da causare seri inconvenienti alle persone che si trovano nelle vicinanze. (77) Se una persona conduce una macchina sulla strada o su un’altro luogo pubblico senza dovuta cura ed attenzione, o senza ragionevole considerazione delle altre persone che usufruiscono degli stessi luoghi, è colpevole di un reato giudicabile solo summary (ovvero dal magistrato, senza giuria popolare) con una multa non eccedente il IV livello (£ 2,500) (R. CARD - R. CROSS - P.A. JONES, Criminal Law, cit. 466-467). Altra rara eccezione in cui la negligence costituisce elemento sufficiente per sostanziare il profilo soggettivo della responsabilità penale è il Water Industry Act 1991, s.73 (1). (78) Si fa riferimento al reato di sottrazione alla potestà dei genitori di una giovane, non sposata, sotto i 18 anni, contro la sua volontà, avendo l’intenzione di costringerla ad avere un rapporto sessuale con uomini, o con un uomo in particolare. È tuttavia, espressamente prevista una defence nel caso in cui il reo ritenga che la donna abbia compiuto 18 anni, o sia più grande, sempre che tale opinione si sia formata sulla base di un « reasonable cause for belief ». Entra in gioco la responsabilità per negligence qualora si dimostri che, no-
— 987 — responsabilità per colpa e quelli in cui è richiesta l’intention o la recklessness. Queste ultime due figure sono di gran lunga le ipotesi più frequenti e comuni di imputazione soggettiva, mentre invece la colpa si colloca su una posizione del tutto residuale. Ancora oggi sono forti le resistenze, sia di parte della dottrina che della giurisprudenza, a considerare la negligence come elemento psicologico rilevante ai fini penali. Secondo il sistema anglosassone, una condotta che si colori di un atteggiamento soggettivo colposo è sanzionata più efficacemente facendo ricorso all’apparato degli strumenti civilistici (79). Ricadono, invece, nella sfera di intervento di tipo penale i casi di gross negligence, ovvero quelle ipotesi in cui l’atteggiamento colposo si produce o per « grossolana » violazione di una norma cautelare, o per la facile prevedibilità dell’evento. Trattandosi di ipotesi in cui la colpa assume connotati di rilevante gravità, si impone, infatti, l’uso di una repressione più severa di quella che normalmente viene garantita dal ricorso agli strumenti sanzionatori del diritto civile (80). Mediante la formalizzazione, entro presupposti ben definiti, dello spazio applicativo concesso alla gross negligence si legittima perciò l’inflizione di una sanzione penale. Così sarà necessario che il danno derivato dalla condotta colposa sia notevole; che si tratti di un rischio ovvio; ed infine, che l’autore abbia le capacità sufficienti per assumere le precauzioni richieste. Questa estensione si ritiene giustificata solo rispetto ai casi di gravi reati contro la persona, inclusi gli atti di violenza sessuale, nonché i danni gravi all’ambiente ed alla proprietà (81). Le differenze di vedute sulla collocazione rispetto alla mens rea riemergono più profonde ed evidenti, quando si torna a parlare di negligence in senso stretto. Si può dire, infatti, di assistere ad un confronto tra due opposte concezioni, che hanno avuto origini remote e che non sembra abbiano ancora trovato un’armonica composizione (82). Si confrontano i soggettivisti, da un lato, convinti assertori di una individualizzazione dei presupposti della responsabilità penale, in nome del rispetto dei diritti del singolo (83); e gli oggettivisti, dall’altro, fautori di una politica di difesa sociale, tutta orientata a favore di una protezione delle istanze dell’intera collettività, a fronte del pericoloso dilagare della criminalità. Glanville Williams, autorevole giurista inglese, nel solco della tradizione di un rigoroso, ma forse un po’ miope, soggettivismo, fu tra i primi a negare rilevanza penale alla colpa, sostenendo che per la sussistenza della mens rea era necessario che vi fosse un qualche « stato mentale », mentre nella colpa incosciente questo mancava (come vedremo più avanti, discorso diverso è stato fatto per la colpa cosciente). La colpa, definita come una deviazione piuttosto rilevante dallo standard di diligenza, che normalmente viene richiesto all’uomo medio, non presupporrebbe alcuno « stato mentale positivo » (84). In questo modo, ritenere penostante ciò, il reo aveva comunque l’intenzione di sottrarre la ragazza e di ottenere da lei un rapporto sessuale illegale. (79) G. WILLIAMS, Criminal Law, cit. 100 ss.; A.J. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, cit. 366-7. Il diritto inglese, seguendo un preciso orientamento di politica criminale, ha ritenuto opportuno punire solo la reckless wrongdoing, lasciando fuori dal sistema sanzionatorio penale la negligent wrongdoing (C.M.V. CLARKSON - H.M. KEATING, Criminal, cit. 158). (80) Si ritiene che per potervi essere una forma di colpa rilevante penalmente, la definizione legislativa richiede che l’azione sia necessariamente « gross or extreme » rispetto allo standard del comportamento dovuto (D.H. HUSAK, Philosophy of Criminal Law, New York 1987, 12). (81) A.J. ASHWORTH, Principles, cit. 192. (82) Sebbene nell’ultimo progetto di codice penale non sia stata inserita alcuna definizione di negligence, a voler significare l’insufficienza di questo requisito soggettivo ad incidere sulle fattispecie legali contenute nel progetto (Law Commission: A Criminal Code for England and Wales (1989), Law Com. No.177). (83) A.J. ASHWORTH, The Elasticity of Mens Rea, in AA.VV., Crime, Proof and Punishment, Essays in memory of Sir Rupert Cross, Londra 1981, 45-70. (84) R.A. DUFF, Intention, Agency and Criminal Liability: Philosophy of Action and the Criminal Law, Oxford 1990, 155.
— 988 — nalmente responsabile una persona per colpa significherebbe addossarle le conseguenze penali del fatto, solo sulla base di un divario tra la sua condotta e lo standard medio richiesto. Tale scelta si giustifica esclusivamente di fronte ad esigenze di prevenzione generale, che inducono a ricostruire una responsabilità anche laddove manchi un’effettiva indagine sulla colpevolezza. Perché vi sia pieno rispetto del principio di responsabilità colpevole, è necessario provare che l’agente decise di causare il danno, o nel senso di provocarlo intenzionalmente o quantomeno essendo consapevole che si sarebbe potuto realizzare. La negligence, invece, non presuppone l’advertence, parametro sul quale, secondo la miglior dottrina, deve trovare fondamento la responsabilità penale. Inoltre, chi pone in essere un reato colposamente, in realtà non « vuole » delinquere, e quindi non può essere scoraggiato dal compiere l’azione illecita attraverso la minaccia della sanzione penale (85). Tra le perplessità più rilevanti, manifestate sull’opportunità di inserire la colpa in ambito penalistico, si insinua, infatti, anche il dubbio sull’efficacia realmente deterrente di questo tipo di scelta repressiva (86). D’altro canto, se si riconosce la possibilità di graduare il livello di attenzione nel porre in essere una determinata condotta, ne deriva come logico corollario che si potrà essere ritenuti responsabili per negligence, qualora il comportamento sia stato causato da una « mere inadvertence », mentre ricorrerà una responsabilità per gross negligence, o per recklessness, se vi è stato un « high degree of carelessness » (87). La possibilità di agire in modo diverso, cioè assumendo quella accortezza necessaria ad evitare l’evento criminoso, legittima la ricostruzione di una responsabilità di tipo penale. L’autore è rimproverabile perché, posto nella condizione di conformarsi allo standard richiesto, ha agito diversamente. Tale impostazione non esclude che vi possano essere delle eccezioni con riguardo a quelle persone che per incapacità psichica o fisica non sono in grado di adeguare la propria condotta ai parametri richiesti. In tutti gli altri casi chi provoca un danno negligentemente può essere giudicato colpevole poiché non ha assunto, avendone le capacità, quelle ragionevoli precauzioni che avrebbero impedito il realizzarsi della conseguenza lesiva. L’opportunità di assegnare rilevanza penalistica alle ipotesi di negligence può risultare, infine, dalla verifica, in alcuni casi di subjective recklessness, della sussistenza di una minor colpevolezza rispetto a quella ravvisabile nelle ipotesi di negligence. Così chi consapevolmente si assume il rischio di una conseguenza dannosa di lieve entità non sembra più colpevole di chi non riconosce affatto il rischio di un evento gravemente lesivo (88). In questo senso, dunque, la presenza di un requisito minimo di colpevolezza sembra ravvisabile tanto in chi aveva consapevolezza del rischio (subjective recklessness), quanto in chi ha mancato di averla in rapporto ad una situazione altamente pericolosa (negligence). Alcuni studiosi, tra cui anche degli autorevoli filosofi del diritto, promotori di un sistema penale orientato a valorizzare più marcatamente un’impostazione di tipo oggettivo, si sono, trovati a difendere la validità della previsione di una forma di responsabilità per colpa, perché sollecitati dalle pressanti esigenze di controllo sociale (89). In tempi più recenti è stata avanzata un’ipotesi intermedia, che riconosce alla responsabilità per colpa aspetti che rilevano tanto sul piano oggettivo quanto su quello sogget(85) G. WILLIAMS, Criminal, cit. 53. (86) G. WILLIAMS, Textbook, cit. 46; ID., Criminal Law, cit. 124; J. HALL, Social Science and Criminal Theory, Littletton Colorado 1982, 256: « Punishment in such cases may provide emotional satisfaction but there is no evidence to show, or reason to think, that it is sufficiently related to the causes of inadvertence and insensivity to support the theory of deterrence ». (87) Sebbene il soggetto agente avesse avuto la capacità per reagire adeguatamente alla situazione contingente, non l’ha esercitata e per questo è rimproverabile: P. BRETT, An Inquiry into Criminal Guilty, Londra 1963, 100. (88) A. ASHWORTH, Principles, cit. 189 ss., in particolare 191. (89) H.L.A. HART, Punishment, cit. 136 ss.
— 989 — tivo (90). Secondo questa impostazione, il rimprovero dovrebbe essere misurato sia sulla base del divario che si è prodotto tra condotta doverosa e condotta materialmente realizzata, sia tenendo conto della mancanza nell’agente della dovuta cura ed attenzione nell’esercitare le proprie normali capacità. Questo tipo di carenza, naturalmente non intenzionale, fonda il giudizio di rimprovero, a condizione che in quello specifico frangente l’autore avesse potuto e dovuto avere maggiore diligenza. Si ottiene, così, il pieno rispetto, anche nella responsabilità per colpa, dei parametri relativi alla colpevolezza. Intesa in questo senso la negligence acquista un profilo oggettivo, quando viene valutata alla sola stregua della condotta; e un profilo soggettivo, quando si ravvisa l’assenza di attenzione, che necessariamente l’agente avrebbe dovuto tenere in quella determinata circostanza. Sebbene, forse, più convincenti sul piano dei principi, prima ancora che su quello di una più sensibile prassi giudiziaria, queste riflessioni non hanno tuttavia facilitato l’ingresso nel sistema di common law della negligence, come componente della colpevolezza al pari delle altre (91). Secondo la manualistica più autorevole, la negligence non sarebbe dotata, infatti, dello statuto necessario per essere posta sullo stesso piano di intention e recklessness (92). A complicare ulteriormente il quadro ha contribuito l’introduzione nel 1981 della nuova figura di recklessness tipo Caldwell, provocando non solo una profonda alterazione della fisionomia dell’elemento soggettivo su cui ha inciso, ma più in particolare scompaginando i già labili confini tra recklessness e negligence (93). Secondo la nuova formula, infatti, si può condannare una persona che non ha previsto la probabile verificazione di un evento, se tale evento è comunque conseguenza di un rischio grave e serio. Così come è stata messa in discussione l’appartenenza della negligence all’alveo della mens rea, per la mancanza del requisito minimo dal quale inferire la presenza di un effettivo coefficiente psicologico, allo stesso rilievo non sembra potersi sottrarre neppure la recklessness tipo Caldwell (94). Per superare questa impasse sarebbe necessario introdurre un’accezione più ampia del termine mens rea, che comprenda sia i contenuti minimi di intention e recklessness; sia, in una visione rinnovata, la Caldwell-type recklessness e la negligence (95). L’auspicio dei promotori del nuovo codice penale e di gran parte della dottrina contemporanea è che sia quanto prima predisposta una gerarchia delle diverse ipotesi criminose, tra le quali poter annoverare anche le fattispecie per le quali è richiesta la negligence, con una previsione sanzionatoria naturalmente più contenuta, rispetto a quella prevista per intention e recklessness (96). (90) R.A. DUFF, Intention, Agency and Criminal Liability, cit. 156. (91) M. JEFFERSON, Criminal law, Londra 1992, 102 ss. (92) J.C. SMITH - B. HOGAN, Criminal Law, cit. 93. (93) P. SEAGO, Criminal law, IV ed., Londra 1994, 63. L’autore sostiene che dopo il famoso intervento della House of Lords, nel 1981, la recklessness si distingue appena dalla negligence, mentre prima si potevano apprezzare dei chiari e definiti gradi di colpevolezza: dalla più intensa, coincidente con l’intention, a quella meno grave, per l’appunto agganciata alla negligence. Vi è chi, peraltro, non condivide questo punto di vista, ritenendo che da sempre recklessness e negligence si sono vicendevolmente intersecate, a causa della complessità della realtà in cui si trovano mescolati insieme gli aspetti di ciascuna figura (J.B. BRADY, Recklessness, Negligence, Indifference and Awareness, Modern Law Rev.1980, 381-399, 383). Questa confusione trova conferma anche in alcune pronunce giurisprudenziali: Reg. v. Stone and Dobinson [1977] C.L.R., 166; Hyam v. D.D.P. [1974] All E.R., 41; Mayewski v. D.D.P. [1976] 2 W.L.R., 623. Ad una separazione più netta hanno, invece, proceduto i giudici nel caso: Reg. v. Briggs [1977] 1 All E.R., 475. (94) P. SEAGO, Criminal law, cit. 74. (95) CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 86; C.M.V. CLARKSON - H.M. KEATING, Criminal Law, cit. 135. (96) A. ASHWOTRH, Principles, cit. 192.
— 990 — 3. La recklessness nelle decisioni della common law e negli statutes. — La prima apparizione dell’istituto della recklessness, anche sotto un profilo strettamente terminologico, risale al 1902, quando il prof. Kenny ebbe modo di sostenere che nelle numerose previsioni legislative, promulgate per lo più nel periodo vittoriano, il concetto di malice non doveva essere più interpretato nel significato tradizionale ed impreciso di malvagità (wickedness), bensì nelle due diverse accezioni di intention, da un lato, cioè di intenzione attuale di provocare quel particolare tipo di danno, che in concreto è stato realizzato; e di recklessness, dall’altro, ovvero di consapevolezza circa la probabilità che tale danno si sarebbe potuto produrre. Quest’ultima è l’ipotesi, in altri termini, in cui il reo pur prevedendo che una certa conseguenza dannosa si sarebbe potuta verificare, ha proseguito ugualmente nella sua condotta, assumendosi il rischio delle conseguenze (97). Questa nuova formulazione è stata poi ripresa nel 1957 in una nota decisione giurisprudenziale (caso Cunningham), che in breve ha acquistato l’autorevolezza di precedente vincolante in tema di recklessness. Nel 1978 la Law Commission (98) propose di incorniciare questo particolare aspetto dell’elemento soggettivo entro quegli stessi confini, prettamente soggettivi, che erano stati indicati dalla common law nel corso degli ultimi anni, ovvero a partire dalla sentenza sul caso Cunningham. Nel 1980 anche il XIV Report del Criminal Law Revision Committee sulle Offences against the Person, avanza un’interpretazione dell’istituto della recklessness in totale sintonia con le esigenze di un rigoroso soggettivismo. Nonostante il coro di voci favorevoli alla qualificazione della recklessness come assunzione cosciente di un rischio, nel 1981 venne approvata, dalla maggioranza della House of Lords, una decisione (caso Caldwell) in senso clamorosamente contrario a quanto fino a quel momento si era andato consolidando nella common law (99). Lord Diplock, promotore della sentenza, disse di non vedere alcuna valida ragione per ritenere che la recklessness, così come definita nel Criminal Damage Act del 1971, venisse ridotta al solo significato soggettivo. L’accezione del termine in senso tecnico-giuridico, limitandosi al caso di chi decide di ignorare il rischio di una conseguenza dannosa, derivante dall’atto posto in essere, risulta troppo restrittiva. L’illustre giudice ritenne, invece, opportuno recuperare anche il significato ordinario della parola, che, secondo il linguaggio comune, richiama l’idea di chi non ha riflettuto se ricorresse o meno un rischio, in un contesto nel quale, prestando un minimo di attenzione, sarebbe stato ovvio desumerne la presenza. In questo modo attribuì alla recklessness una valenza oggettiva. Nata in rapporto alle fattispecie che hanno per oggetto un’offesa alla proprietà, questa nuova definizione venne presto estesa anche ai reati contro la persona. Lo stesso giorno, infatti, fu pronunciata una sentenza (caso Lawrence) nella quale si ribadiva la valenza penale del comportamento di chi non aveva prestato attenzione alla presenza di un rischio ovvio e serio, qualora tale condotta avesse leso o messo in pericolo la vita altrui. Negli ultimi anni la convivenza di queste due distinte accezioni del termine recklessness è stata messa seriamente in discussione sia da parte di una certa giurisprudenza (100), sia attraverso le numerose iniziative di codificazione in ambito penale. L’opzione prevalente è a tutt’oggi orientata a favore della definizione originaria, che descrive una recklessness di tipo (97) C.S. KENNY, Outlines of Criminal Law, I ed., Londra 1902, 186. In termini analoghi si esprime: J.W.C. TURNER, Russel William Oldnall On Crime - a Treatise on Felonies and Misdemeanors, X ed., Londra 1950, vol. 2, 1592. (98) Report on Mental Element in Crime, Law Comm. No. 89. (99) Uno tra i primi commenti, dal titolo piuttosto emblematico: G. SYROTA, A Radical Change in the Law of Recklessness?, Crim. Law Rev. 1982, 97-106. (100) Volendo anticipare solo quelle più significative, che verranno esaminate nel dettaglio più avanti, si segnalano i casi: Reid (1992); Hardie e Dickie (1984).
— 991 — soggettivo, per poter così semplificare e razionalizzare una situazione che è divenuta nel frattempo sempre più confusa ed incerta (101). Nell’attesa della tanto auspicata riforma non resta, tuttavia, che continuare a far riferimento allo schema presentato dalla manualistica inglese più autorevole, secondo cui la figura della recklessness può essere scomposta in due distinti aspetti: a) recklessness soggettiva (Cunningham type) b) recklessness oggettiva (Caldwell/Lawrence type) Nel primo caso la persona prevede, nel momento in cui si appresta a compiere l’atto, che esiste il rischio di provocare delle conseguenze dannose, ma sebbene sia consapevole di tale pericolosità, non si astiene dal portare a termine la propria azione. Nella Caldwell/Lawrence recklessness, invece, è sufficiente che l’autore abbia mancato di prestare attenzione all’esistenza di tale rischio, che agli occhi di una persona mediamente prudente appare come ovvio e serio. Un breve riferimento agli episodi che hanno sollecitato le diverse pronunce nei più importanti leading cases in materia di recklessness, può aiutare a tratteggiare il profilo di questo istituto con maggiore precisione. Nel caso Cunningham, l’autore strappò un contatore del gas dal muro della cantina di una casa disabitata, per poter così sottrarre del denaro che si trovava nascosto in quel luogo. Questa operazione provocò una fuoriuscita di gas che, diffondendosi nell’aria, filtrò nella casa adiacente e venne inalato dalla vittima, futura suocera dell’improvvisato ladro. La vita della donna venne messa in serio pericolo. In primo grado l’autore fu dichiarato colpevole in base alla s.23 dell’Offences against the Person Act del 1861, per aver gestito « maliciously » una cosa nociva, tale cioè da mettere in pericolo la vita altrui. La Corte d’Appello, invece, annullò la sentenza, poiché era stata attribuita al termine malice la vecchia accezione di malvagità (wicked), mentre si sostenne che doveva valere il principio, per la prima volta proposto dal prof. Kenny nel 1902, secondo cui il termine malice andava interpretato, a seconda delle circostanze, o come intention o come recklessness, richiedendo perciò quantomeno la previsione delle conseguenze del proprio agire. Il signor Cunnigham andava, quindi, giudicato non colpevole, a meno che non avesse saputo che il gas poteva essere respirato da qualcuno. In altre parole si è ritenuto insufficiente concludere, nei casi in cui è richiesta malice, che sarebbe stato ovvio riconoscere per il soggetto agente l’esistenza di un rischio; essendo, invece, necessario dimostrare che egli ne era effettivamente a conoscenza e che lo aveva deliberatamente assunto. Nel 1971 il Criminal Damage Act introdusse la semplice sostituzione del termine arcaico ed ingannevole di malice con quelli più chiari e più moderni di intention e recklessness. Poiché, d’altra parte, la Commissione non fornì una definizione di questi due concetti, fino al 1981 la giurisprudenza continuò ad interpretare la recklessness nello stesso modo in cui aveva fatto nel caso Cunningham. Si dovrà giungere fino ai due famosi leading cases del 1981 per rinvenire una nuova qualificazione dell’istituto (102). Nel primo, il caso Caldwell, Lord Diplock affermò che una persona doveva essere rite(101) I.H. DENNIS, Funzioni ed ambito delle definizioni nel progetto di codice penale inglese, in AA.VV., Omnis definitio in iure periculosa?, Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Studi coordinati da A. CADOPPI, Padova 1996, 361-379. Altrettanto favorevole ad un appianamento delle controversie circa il significato di questo importante istituto è, inoltre: A. NORRIE, Crime, Reason and History, A Critical Introduction to Criminal Law, Londra 1993, 82. (102) E. GRIEW, Recklessness Damage and Recklessness Driving: Living with Caldwell and Lawrence, Crim.Law Rev. 1981, 743-755. Sebbene il proposito principale sia stato quello di fornire un resoconto dettagliato di queste due pronuncie, in realtà non viene dissimulato un atteggiamento fortemente critico nei confronti del discorso di Lord Diplock, che si dice abbia finito per stravolgere gli assetti esistenti, provocando la necessità di un urgente intervento legislativo.
— 992 — nuta colpevole a titolo di recklessness, sia che l’altrui proprietà fosse stata distrutta o semplicemente danneggiata, se: (1)l’autore aveva posto in essere un atto che concretamente aveva creato un rischio « ovvio » che la proprietà fosse distrutta o danneggiata e (2), nell’aver compiuto l’atto, o non aveva prestato alcuna attenzione alla possibilità che ci fosse un tale rischio, o aveva riconosciuto che c’era un qualche rischio e nondimeno aveva proseguito nella sua condotta (103). Il caso si presentò in questi termini: l’imputato aveva eseguito alcuni lavori per il proprietario di un albergo. Terminata l’opera ebbe una lite con il padrone, si ubriacò e per vendetta diede fuoco all’immobile. L’incendio fu fermato in tempo, prima che potesse provocare seri danni all’edificio e agli occupanti; in questo modo nessuno dei dieci ospiti dell’albergo rimase ferito. L’accusa fu di aver violato sia la sezione 1 del Criminal Damage Act del 1971, danneggiando l’altrui proprietà con l’intention o la recklessness di mettere in pericolo la vita delle persone presenti, sia la sezione 2 della stessa legge, che prevede l’ipotesi più lieve di semplice distruzione o danneggiamento di cosa altrui intentional o recklessly. La condanna fu pronunciata solo in rapporto a questo secondo capo d’accusa. L’autore sostenne di essere così ubriaco in quel momento che, il pensiero di aver potuto mettere in pericolo la vita delle persone presenti in albergo, non gli aveva neppure attraversato la mente. La sentenza fu da ultimo appellata presso la House of Lords, dove, in ordine alla decisione se l’ubriachezza fosse da considerare una defence o meno, riguardo all’accusa di cui alla sez.1, la Corte dichiarò che era necessario preliminarmente pronunciarsi sul significato preciso del termine recklessness, come citato nella sez.1. Fu così che Lord Diplock ebbe l’opportunità di riformulare la definizione del termine riportandola, a suo parere, al significato originario, ovvero accogliendo un’accezione comune e non più circoscritta ad un ambito semantico limitato al campo tecnico-giuridico, come era stato proposto in passato dal prof. Kenny. La decisione sul caso Lawrence fu pronunciata lo stesso giorno. Sebbene la composizione della Corte fosse leggermente diversa, la presenza anche in questo collegio dei Lords Diplock e Roskill si rivelò determinante. Le modalità del fatto furono le seguenti: l’imputato percorreva con la sua motocicletta una strada del centro cittadino di Lowestof. Il limite di velocità era di 30 m.p.h. e in quel momento c’era molto traffico. Il motociclista, procedendo ad una velocità di 70 m.p.h., provocò l’incidente, investendo un pedone che, dopo essere uscito da un negozio, stava attraversando la strada, in direzione della sua macchina, parcheggiata sul lato opposto. Fu processato con l’accusa di aver provocato la morte di un pedone guidando un mezzo recklessly, in violazione della sez.1 del Road Traffic Act del 1972 (così come emendato dalla sez.50 del Criminal Law Act del 1977). Pur trattandosi di un caso di reckless driving, anziché di danneggiamento, Lord Diplock ritenne opportuno applicare lo stesso tipo di test che aveva utilizzato nel caso Caldwell, per verificare la presenza del requisito psicologico di tipo recklessness. L’unica differenza sostanziale era che, mentre per contestare la guida « sconsiderata » non era necessario provare l’esistenza di un evento rispetto al quale l’autore doveva essere reckless, nel caso di danneggiamento invece si era ritenuti responsabili a titolo di recklessness solo se veniva dimostrata l’esistenza di un evento lesivo derivante dalla condotta, che fosse coperto da questo specifico requisito soggettivo. Per eliminare anche questa disparità, ne fu creato uno ad hoc. Così la Corte specificò che l’evento rispetto al quale l’autore era stato reckless poteva essere tanto una lesione alla persona, quanto un danno grave alla proprietà (104). Lord Diplock formulò in questo frangente il test della recklessness in termini leggermente differenti. Il « rischio ovvio » del caso Caldwell divenne, nel caso Lawrence, un « rischio ovvio e serio ». (103) Regg. v. Caldwell [1981] 1 All ER 961-966. (104) Nel caso Seymour ([1983] 2 All ER 1058) ci si spinse oltre, ammettendo l’applicazione della reckless driving anche nell’ipotesi di mans laughter, ovvero di omicidio.
— 993 — L’introduzione di questo nuovo criterio di imputazione della responsabilità penale, sotto il profilo psicologico, diede origine ad innumerevoli obiezioni, dovute principalmente al rifiuto di una così netta e brusca virata in senso oggettivo. Attenendosi al semplice dato letterale della nuova definizione di recklessness, la prima notazione critica, che viene spontaneo muovere, si appunta sull’effettiva appartenenza di questa figura alla categoria della mens rea (105). Si ritiene, infatti, che il nuovo istituto non configuri un vero e proprio stato mentale, così come, invece, è prescritto per gli elementi psicologici nei quali si esprime la colpevolezza. Una persona che non presta attenzione agli effetti che derivano dalla propria condotta, non si può dire che abbia un atteggiamento mentale positivo (106). D’altra parte se si estremizza questa considerazione, l’unico terreno sul quale è possibile ascrivere una forma di responsabilità per reati gravi resta quello dell’advertence (consapevolezza), dove, per poter riconoscere l’esistenza della colpevolezza, è necessario dimostrare che le conseguenze dannose del fatto hanno effettivamente attraversato la mente dell’autore, in altre parole sono state oggetto di un’espressa rappresentazione. La sfida lanciata da Lord Diplock, attraverso la nuova model direction, è stata quella di provare a costruire un concetto di colpevolezza che fosse aderente anche al giudizio sociale di colpa. Il rimprovero rivolto a chi ha mancato di prestare attenzione agli effetti del proprio comportamento rischioso sembra possa trovare una plausibile giustificazione nell’esigenza, comunemente condivisa, di protezione sociale. Il tentativo di contemperare equamente le due diverse controspinte, la garanzia del singolo a non subire punizioni esemplari, da un lato, e il bisogno sentito dall’intera collettività di conquistare una reale sicurezza, dall’altro, è forse destinato a non trovare mai una stabile composizione. Questo tipo di sintesi, infatti, sembra inattuabile in una società che si fonda su conflitti strutturali (107). Un’obiezione dotata di maggior fondamento sembra, invece, quella che denuncia la natura over-inclusive della Caldwell recklessness, rispetto all’under-inclusive della Cunningham recklessness. Infatti, la misura di ciò che dovrebbe essere ovvio, secondo un parametro oggettivo, per una persona ragionevole, non ammette eccezioni, inghiottendo così nella definizione di recklessness, del primo tipo, anche quegli autori che, a causa della loro incapacità, non sarebbero assoggettabili a pena (108). Emblematico è il caso Stephenson (109) nel quale, secondo la nuova regola ridisegnata da Lord Diplock, il reo sarebbe stato condannato a prescindere dalla sua condizione di incapacità, dovuta nello specifico a schizofrenia, poiché la prevedibilità del rischio viene riferita al parametro oggettivo dell’uomo medio. Perciò, se il suo stato non si configura con gli ele(105) CARD - CROSS - JONES, Criminal Law, cit. 74. (106) Si è sostenuto che il « non pensare » può essere definito come stato mentale solo nel senso in cui anche la mancanza di consapevolezza rientri nelle modalità espressive dell’atteggiamento mentale. D’altra parte, dire che l’assenza di uno stato mentale è una forma di stato mentale è un abuso linguistico. Si noti che l’operazione condotta dalla House of Lords di portare all’interno del concetto di recklessness anche l’ipotesi della mancata riflessione sull’esistenza del rischio è dettata da ragioni di convenienza linguistica, di giustizia e politica sociale, ma è sbagliato liquidare l’intera questione affermando che « non pensare » sia una forma di espressione di uno stato mentale (G. WILLIAMS, Recklessness Redefined, Cambridge Law Journal 1981, 252-283, 256). (107) A. NORRIE, Crime, Reason, cit. 61. (108) Si conoscono solo due eccezioni: a) nel caso in cui sia possibile invocare una defence of insanity o una defence of automatism o infine nel caso di involuntary conduct; b) nell’ipotesi in cui la mancanza di attenzione sia dovuta ad una intossicazione da farmaco regolarmente prescritto, ma assunto in modo difforme dalle indicazioni del medico (CARD CROSS - JONES, Criminal, cit. 75). (109) Regg. v. Stephenson [1979] 2 All ER 1198. Una persona sofferente di schizofrenia, senza fissa dimora, nel cuore della notte, cercando un riparo, si creò un giaciglio all’interno di un covone di paglia. Sentendo freddo, con alcuni ramoscelli accese un piccolo fuoco, che ben presto dilagò incendiando tutto. Il verdetto finale fu di assoluzione perché fu applicato il subjective test della recklessness.
— 994 — menti valutabili alla stregua di una defence of insanity, egli deve essere giudicato come se si trattasse di una persona psichicamente normale, e quindi responsabile (110). Si lega a questo aspetto l’impressione che la formula di Lord Diplock abbia gettato le reti troppo estensivamente, senza cioè preoccuparsi di predisporre alcun riferimento all’intensità del rischio, né al tipo o alla gravità del danno, elementi che possono essere invece decisivi ai fini della ricostruzione della responsabilità penale. Infine, uno dei limiti più rilevanti dell’impianto teorico elaborato da Lord Diplock si appunta sul mancato riferimento all’ipotesi in cui il soggetto agente riconosca l’esistenza del rischio, ma confidi nella possibilità di eliminarlo. Ciò ha indotto gli studiosi a ritenere che in questo caso si sarebbe in presenza di una vera e propria lacuna (loophole), sfruttabile, con un agevole artifizio a favore del reo, per ottenerne l’assoluzione. Se si riesce a dimostrare che l’autore ha riconosciuto la presenza del rischio, non potrà essere giudicato alla stessa stregua di coloro che non prestano alcuna attenzione alla possibilità che vi sia una componente rischiosa nella propria condotta; così come, se l’autore ritiene che il rischio sia stato eliminato, non si può dire contestualmente che egli, proseguendo nella sua azione, intenda assumerlo, poiché si finirebbe per cadere in una palese contraddizione. Di conseguenza, quella persona che, confidando nelle sue capacità, sia sicura di aver eliminato tutti i rischi possibili, non può essere intrappolata nella rete di una responsabilità per recklessness tipo Caldwell. La sua condotta finirà semmai per avere rilevanza ai soli fini di una responsabilità civile. Un precedente significativo, su questo aspetto, è stato quello affrontato dalla Divisional Court nel 1986 (111). Un esperto in arti marziali stava dimostrando ai suoi amici quanto vicino ad una vetrina di un negozio avrebbe potuto sferrare un calcio senza danneggiarla. In realtà, egli la ruppe. In questo caso la Divisional Court riuscì ad aggirare il loophole-argument, facendo ricorso ad un sottile escamotage. Essa fece in modo di dirigere la giuria affinché dichiarasse l’imputato colpevole, in quanto aveva ammesso di « aver pensato di essere riuscito ad eliminare la maggior quantità di rischio possibile ». Egli, in altre parole, secondo la Corte, non aveva pensato di essere riuscito ad eliminare tutti i rischi; ciò vuol dire che c’era una sottile probabilità che ne sopravvivesse qualcuno, cosa di per se stessa sufficiente ad imputare la responsabilità per recklessness tipo Cunningham. Se, per un verso, può sembrare opportuna la scappatoia per il reo, creata attraverso il loophole-argument, vi è, d’altra parte, da chiedersi se vi sia minor colpevolezza nel convincimento erroneo che si sono eliminati tutti i rischi, piuttosto che nella mancanza di attenzione (110) Ipotesi diversa, sebbene in qualche modo limitrofa, è quella di chi si trovi più semplicemente in uno stato emotivo alterato o per collera, o a causa di un generico eccitamento. Se si volesse seguire un’interpretazione rigorosamente soggettivista della recklessness, per cui il rischio può essere assunto solo consapevolmente, si dovrebbe escludere la responsabilità anche di queste persone, perché al momento della commissione del fatto non avevano l’attenzione e la serenità di giudizio necessari per valutare correttamente il rischio. D’altra parte, anche chi valorizza accentuatamente il profilo soggettivo in una ricostruzione della responsabilità penale, finisce in casi come questo per parlare di « conditional subjectivism » (G. WILLIAMS, Textbook, cit. 78-79) o in altri termini di « pratical indifference », contemplando così una responsabilità a titolo di recklessness (R.A. DUFF, Professor Williams and Conditional Subjectivism, Cambridge Law Journal 1982, 273-285, 284. Scettico rispetto a queste posizioni: A. NORRIE, Crime, Reason, cit. 82. L’Autore dubita che si possa risolvere ogni problema applicando un concetto simile, visto che: « The subjective/objective dichotomy in modern criminal doctrine is the historical product of broken society »). Si prenda il caso di un lottatore di strada (Parker [1977] 1 W.L.R. 600) che viene condannato, nonostante lo stato di eccitamento provocato dalla lotta, per aver lanciato una pietra all’altezza di una finestra. Egli, infatti, secondo una visione soggettivistica « rivisitata » è comunque tenuto a conoscere il rischio della possibile verificazione di un simile danno (G. WILLIAMS, Recklessness redefined, cit. 270). (111) Chief Constable of Avon and Somerset v. Shimmen [1986] 84 Cr. App. Rep. 7.
— 995 — verso la presenza del rischio. La differenza sembra essere tra errore e caso: nel primo, il reo è soggetto ad un malinteso che lo porta a causare un danno; nel secondo, egli omette di considerare le conseguenze della sua azione e in questo modo causa un danno. Quella è equivalente ad una mancata scoperta della vera natura del rischio; questa ad una mancata riflessione sull’esistenza stessa del rischio. Il test della recklessness tipo Caldwell esclude la prima ipotesi ed include la seconda, in base ad una logica che può non risultare facilmente condivisibile (112). È anche vero, d’altra parte, che la linea giurisprudenziale prevalente è orientata in senso conforme al precedente poc’anzi descritto, provocando in pratica l’effetto di riempire la lacuna della formula Caldwell. L’analisi della peculiarità di questa operazione, e soprattutto i suoi risvolti in chiave comparatistica, saranno oggetto di specifica trattazione più avanti. Uno dei punti nodali della formula Caldwell, sul quale sono state espresse alcune critiche serrate, è la natura del rischio. Si è parlato, infatti, di rischio « ovvio e serio », senza tuttavia specificare rispetto a chi debbano essere valutati questi due parametri. Sennonché ad una lettura più attenta, in modo particolare sul caso Lawrence, emerge distintamente l’opzione in favore di un criterio oggettivo. L’ovvietà del rischio viene, infatti, misurata non in rapporto al soggetto agente nel caso concreto, bensì tenendo conto del giudizio di una persona ragionevolmente prudente (113). Si pensi al caso di un autore che sia condizionato nell’agire da un disturbo psichico, senza però che questo incida sulla sua capacità di intendere e volere, altrimenti grazie ad una defence of insanity non si potrebbe neppure infliggere la pena. Anche in un simile frangente, in base alla Caldwell-direction, si finisce per attribuire una responsabilità a titolo di recklessness, senza valutare se chi ha agito era effettivamente in grado di percepire la presenza di un rischio. Il parametro di riferimento, infatti, non è la persona reale che si trovava ad agire in quella determinata condizione di ridotta capacità psichica, bensì un « agente modello », privato di qualunque connotato personale. Questo problema è emerso con maggiore chiarezza nel caso Elliot v. C.(a minor) (114), dove una ragazza di 14 anni, che a scuola frequentava un corso di recupero per le sue ridotte facoltà intellettive, assolta in primo grado, venne portata in appello dalla Queen’s Bench Divisional Court per aver distrutto, mediante un incendio, un capanno da giardino e tutto ciò che si trovava al suo interno. Il giudice, che decise l’ammissibilità dell’appello, si trovò a dichiarare che invano aveva cercato nella formula Caldwell una via di fuga per eludere la responsabilità per recklessness. In essa, infatti, è prescritta un’attribuzione oggettiva di responsabilità e quindi la decisione di primo grado andava giudicata come ingiusta ed imprecisa. Le pronunce successive al 1981 si sono caratterizzate per un’accentuata enfasi della prospettiva di tipo oggettivo; così, sulla scia del caso Elliot, si possono rinvenire numerose altre decisioni, come la sentenza Bell, o Stephen Malcom (115), che in modo altrettanto emblematico ribadiscono un’analoga rigidità. Non si tratta, per altro, di un coro di voci unisone, poiché si è levata anche la nota dissonante di una parte della common law e di una certa dottrina che in due significative occasioni ha fornito un’interpretazione della Caldwell reklessness, tale da scusare la condotta che (112) « Such hair-spletting distinctions, a part from lacking any solid moral foundation, can only give rise to numerous interpretative problems » (C.M.V. CLARKSON - H.M. KEATING, Criminal, cit. 171). Anzi, più avanti si rimarca con maggiore enfasi la presenza di una chiara differenza morale tra la persona che è convinta che nessun danno conseguirà dalla sua condotta, e quella che non si preoccupa di pensare al rischio insito in essa. È proprio sulla base di questo ragionamento che si invoca un intervento legislativo che dia conto di tale differenziazione sul piano della colpevolezza (172). (113) Ovvero non deve essere, per altro, dotata di conoscenze superiori alla media, che le attribuiscano una particolare perizia (Sagha [1988] 2 All ER 385). (114) [1983] 2 All ER 1005. (115) Bell v. Regg. [1984] 3 All ER 842; Stephen Malcom v. Regg. [1984] 79 Cr. App. R. 334.
— 996 — fosse espressione di un’incapacità di prevedere il rischio. In base ad alcune recenti acquisizioni scientifiche si è appurato che alcuni gruppi di persone hanno una capacità di percepire la rischiosità della propria condotta significativamente ridotta. I giovani, le persone prive di esperienza, nonché quelle affette da disordine mentale, possono tutte in modo diverso non avere la capacità di prevedere alcuni dei rischi che una persona prudente riesce a percepire come « ovvi », o addirittura « ovvi e seri » (116). Nel caso Hardie (117) i giudici della Corte d’Appello annullarono la sentenza di primo grado, dicendo che non considerare lo stato di incapacità dell’autore sarebbe stato corretto solo se l’intossicazione fosse stata colpevolmente autoindotta, ipotesi che non si realizzò nel caso di specie. Così, il giudice Parker affermò che non sarebbe stato giusto dirigere la giuria nel senso di ritenere irrilevante qualunque incapacità, che risultava o sarebbe potuta risultare dall’assunzione del Valium. Piuttosto ciò che la giuria doveva valutare era se l’assunzione del farmaco era stata di per se stessa reckless (118). La Corte negò che l’incapacità di prevedere il rischio, causata dal Valium, potesse generare una forma di responsabilità per Caldwell recklessness al tempo dell’offesa, rimanendo semmai aperta la sola possibilità di ravvisare una responsabilità per autoinduzione dello stato di incapacità (119). Ma anche riguardo a quest’aspetto si escluse che l’accusato fosse stato reckless nell’assumere il Valium, poiché non sapeva che quel farmaco, ingerito in quelle quantità, era in grado di rendere una persona aggressiva o incapace di apprezzare i rischi della propria condotta verso gli altri. Così come il precedente, anche il caso Dickie (120) ha offerto la possibilità alla Corte d’Appello di aprire un varco nel rigido impianto costruito da Lord Diplock con la model direction. Sebbene in termini meno espliciti, infatti, anche qui si è statuito che l’incapacità può costituire una scusa per l’accusato di Caldwell recklessness, a condizione che il giudice si interroghi preliminarmente se chi ha agito, considerata la sua limitata capacità, avrebbe potuto ugualmente prevedere la rilevanza del rischio. L’acquisizione della prova sull’impossibilità di previsione del rischio da parte di chi si è posto nello stato di incapacità, sebbene non facilmente esperibile, dovrebbe aiutare quantomeno a prevenire le ipotesi più evidenti di ingiustizia (121). Per comprendere il significato di rimprovero insito nella pena, affinché eserciti appieno la sua efficacia deterrente, è necessario che il destinatario sia un soggetto dotato di tutte le facoltà mentali ed intellettive necessarie ad orientare le scelte sui propri comportamenti. Superando una tendenza giurisprudenziale tradizionale, che riconosceva lo stato di inca(116)
S. FIELD - M. LYNN, The Capacity for Recklessness, Legal Studies 1992, 74-91,
75. (117) Hardie angosciato dalla rottura della relazione sentimentale con la sua fidanzata, assume un certo numero di pastiglie di Valium. Stando al suo racconto, egli sarebbe caduto in un sonno profondo e sarebbe in grado di ricordare solo brevi frammenti di quella giornata. Sotto l’effetto del farmaco, ha appiccato il fuoco al guardaroba della camera da letto dell’appartamento, che divideva con l’ex fidanzata. In primo grado fu condannato per incendio, in violazione della s.1(2) e (3) del Criminal Damage Act del 1971 (Hardie v. Regg. [1984] 3 All ER 848). (118) Hardie v. Regg., cit. 853 g. (119) Analogamente a quanto succede nel nostro ordinamento nell’ipotesi di actio libera in causa. (120) Regg. v. Dickie [1984] 3 All ER, 174 f. L’appellante ha 74 anni: uomo scozzese e celibe, di carattere buono ed onesto. Vive da diverso tempo in un appartamento di un quartiere periferico di Londra. Nel 1983 fu accusato di danneggiamento mediante incendio. Fu dichiarato non colpevole per insanity, secondo un verdetto non comune. Il medico, che fu interpellato dalla Corte dichiarò che l’appellante non aveva mai avuto problemi mentali prima del 1978, ma che proprio in quell’anno gli diagnosticò una forma di psicosi depressiva (Hypomania) (176b). (121) S. FIELD - M. LYNN, The Capacity, cit. 90.
— 997 — pacità solo laddove l’azione fosse stata del tutto involontaria, ovvero fosse l’espressione di una profonda alterazione delle normali funzioni mentali, alcuni giudici hanno tentato di suggerire un’accezione del concetto di incapacità meno tecnica e perciò più ampia, ricomprendendo così anche quelle persone che pur non disponendo di una piena imputabilità non sono qualificabili come soggetti anormali tout-court. Si tratta, infatti, di soggetti che, pur non rientrando in un profilo patologico alla stregua di parametri medico-scientifici, non hanno la possibilità di controllare appieno le loro azioni, e perciò non sono in grado di compiere una scelta del tutto consapevole sulla condotta, che la legge gli impone di tenere. Anche la House of Lords ha avuto, recentemente, diverse opportunità per riconsiderare il concetto di recklessness, introdotto in occasione delle decisioni Caldwell e Lawrence; assecondando parzialmente i timidi accenni manifestati dalla giurisprudenza di merito, in una significativa occasione essa si è spinta fino al punto da insinuare la necessità di un overrule del precedente Lawrence, tornando in questo modo a definire la recklessness esclusivamente in termini di consapevole assunzione del rischio (122). Così, mentre nei casi Savage e Parmenter (123), il Collegio non ha accolto la richiesta di annullare la model direction di Lord Diplock, sebbene in queste due occasioni avesse incominciato ad elaborare i primi segnali di svolta, nella sentenza Reid (124) ha, invece, esplicitamente ammesso la necessità di procedere ad un intervento correttivo sul precedente Lawrence (125). Questa dichiarazione di intenti non si è però tradotta in una presa di posizione netta contro l’ormai tanto criticata concezione della recklessness oggettiva, ma ha finito per arrestarsi a livello di mera enunciazione di principio (126). Ancora una volta, quindi, si è ribadito che la responsabilità si estende oltre coloro che apprezzano il rischio corso per porre in essere una certa condotta, fino a coinvolgere anche chi, « colpevolmente », omette di accertarne la presenza. Tuttavia, tra le righe di questo formale ossequio al ragionamento etico-giuridico, elaborato a suo tempo da Lord Diplock, si è insinuato un profilo nuovo e significativo nell’opinione dei componenti della House of Lords, sui confini della responsabilità per assunzione di (122)
L.H. LEIGH, Recklessness after Reid, Moder Law Review 1993 (56), 208-224,
208. (123) Regg. v. Savage e Regg. v. Parmenter [1991] 4 All ER 698. (124) Regg. v. Reid [1992] 3 All ER 673. In breve i fatti che portarono il caso all’attenzione della House of Lords. Nel 1988 davanti alla Crown Court of Wood Green, l’appellante fu condannato per aver causato la morte di un passeggero per reckless driving in violazione della sez. 1 del Road Traffic Act 1972 (così modificato dal R.T.A. del 1988). L’imputato stava viaggiando, sul lato sinistro, lungo la Kensington Road in un momento di grande traffico. Erano le cinque del pomeriggio di una domenica. Stava raggiungendo l’incrocio con il cancello di Hyde Park. C’erano due file di traffico in entrambe le direzioni, ma il lato sinistro della corsia, che stava percorrendo, era più stretto perché era parzialmente occupato da una zona di sosta per i taxi. Come conseguenza il flusso di macchine che si muovevano in quella direzione era spostato verso il centro della corsia. Tutto ciò era comunque chiaramente riprodotto sul manto stradale, con appositi segnali. L’appellante stava guidando all’interno della fila, provando a superare un’altra macchina. Mentre stava incominciando ad accelerare, colpì lo spartitraffico e finì catapultato tra le altre macchine. L’impatto causò la morte del passeggiero che viaggiava a fianco del guidatore. La Corte d’Appello respinse l’impugnazione, come poi ha sostenuto anche la House of Lords, in base all’argomentazione per cui l’autore o ha guidato deliberatamente al fine di creare il rischio, oppure ha riconosciuto la presenza del rischio, o infine non ha prestato attenzione ad un rischio ovvio. (125) Regg. v. Reid, ivi: « (..)in which case the direction may not be appropriate or may require to be modified or adapted to suit the circumstances of the case ». (126) P. SEAGO, Criminal, cit. 67-68. Pur così ammettendo, si è ricavato un sottile margine per incominciare a far filtrare delle considerazioni difformi. La House of Lords pur ritenendo che l’approccio di Lord Diplock riguardo alla recklessness sia appropriato, tuttavia: « it is not necessary that Lord Diplock’s ipsissima verba in Lawrence should be followed » (Regg. v. Reid, cit. 693h).
— 998 — inadvertent risk. Si è, infatti, sostenuto, obiter dictum, che la mens rea potrebbe mancare « se l’ignoranza circa la rilevanza del rischio fosse attribuibile ad una causa adeguata di incapacità, come per esempio, l’età o una deficienza mentale del reo » (127). In questo senso Lord Keith ha ritenuto che sarebbe stato possibile modificare o arricchire la direttiva modello di Lord Diplock, nel caso Lawrence, se si fosse dimostrato che il guidatore aveva agito a causa di alcuni comprensibili e scusabili errori o perché la sua capacità di apprezzare il rischio era sfavorevolmente affetta da alcune condizioni, non dovute a sua colpa. Oppure, infine, perché il guidatore aveva agito mosso da un improvviso dilemma creato dalle azioni poste in essere dagli altri soggetti (128). In altri termini, si è detto che l’imputato avrebbe potuto guidare pericolosamente e non essere colpevole di reckless driving se, durante la guida, fosse stato affetto da una malore o shock che ne avesse pregiudicato la capacità di prevedere il rischio (129). Questa linea non è passata, in quanto la maggioranza ha preferito optare per la conferma senza modifiche della model direction; tuttavia si tratta comunque di un segnale piuttosto incoraggiante, perché evidenzia quanto sia ancora aperto ed irrisolto il problema della capacità nella recklessness tipo Caldwell (130). L’auspicio comune alla prevalente dottrina e giurisprudenza è che sia al più presto modificata la disciplina sull’incapacità, non essendo più a lungo procrastinabile la definizione dell’ambito preciso e dell’intelaiatura processuale di questa importante clausola di esonero da responsabilità (131). 4. L’estensione applicativa della Caldwell/Lawrence recklessness. — Per delineare con maggiore nitidezza di contorni la figura della recklessness può soccorrere, infine, una breve rassegna delle diverse ipotesi in cui essa trova applicazione. Come si avrà modo di chiarire meglio più avanti, al di là di alcune inspiegabili incongruenze, il dato che emerge piuttosto inequivocabilmente è il prevalere delle eccezioni, nella forma tipologica soggettiva, rispetto alla regola, che avrebbe, invece, dovuto garantire un primato assoluto della Caldwell recklessness. Il progressivo recupero operato dalla recklessness soggettiva, tipo Cunningham, riscontrabile già attraverso un’indagine casistica, sembra ormai sia solo in attesa di una ratifica da parte del legislatore della riforma. Il criterio guida fu tracciato originariamente nel 1983, in occasione del noto precedente Seymour (132), sostenendosi che nel caso in cui il termine recklessness fosse comparso all’interno di uno statutory Offence, sarebbe stato necessario interpretarlo secondo l’accezione Caldwell; mentre invece se richiamato nei reati di creazione giurisprudenziale (133), sarebbe (127) Regg. v. Reid, cit. 683e. (128) Regg. v. Reid, cit. 675c. (129) Regg. v. Reid, cit. 690j. (130) S. FIELD - M. LYNN, Capacity, Recklessness and the House of Lords, Crim. Law Rev. 1993, 127-129, 129. Un primo timido segnale di adesione giunge dalla Corte d’appello con il caso: Coles [1995] 1 Cr. App. R. 157. (131) Il caso Reid potrebbe diventare presto una pietra miliare per la disciplina della recklessness (S. FIELD - M. LYNN, Ult. op. cit., ivi). Si tratta sicuramente di un’impresa piuttosto gravosa, ma pare ormai non più differibile: « If this challenge is not met, only proposed measure could encounter difficulties in Parliament. The challenge for the reformers is not to exclude inadvertence as a foult state in the criminal law, but to domesticate it. That is likely to be a task of same magnitude » (L.H. LEIGH, Recklessness, cit. 218). (132) Regg. v. Seymour [1983] 2 All ER 1058. Fu il caso di un autista di camion coinvolto in un incidente provocato con il suo mezzo, di 11 tonnellate, contro l’automobile guidata dalla sua amante. La donna rimase schiacciata tra le lamiere e perse la vita. (133) Dal XII al XIV sec. i giudici del King’s Bench Court hanno elaborato alcune regole, che venivano applicate ai reati più gravi, qualificati successivamente Felonies. Nel XIV secolo, sono invece state elaborate altre formule definitorie di manifestazioni criminali meno gravi, più tardi conosciute come Misdemeanours. Attualmente le leggi (Statutes), di creazione parlamentare, approvate dalle due Camere con l’assenso della Regina, hanno preso
— 999 — potuto ancora sopravvivere il tipo Cunningham. L’unica deroga concessa era quella di un’esplicita previsione da parte del legislatore in senso diverso. Contrariamente alle normali aspettative, tuttavia, questo precedente non assunse un’efficacia realmente vincolante; così nel 1991, con il caso Spratt (134), si giunse a ritenere che l’affermazione con la quale si dava origine alla diversità di trattamento tra le due categorie di reati, doveva essere considerata come semplice obiter dictum (135). Andando a rileggere alcuni passaggi del ragionamento svolto da Lord Diplock, in occasione della decisione Lawrence, si evince, infatti, che egli avrebbe inteso applicare la model direction, non genericamente a qualunque criminal Statute, ma più specificamente al solo Criminal Damage Act del 1971, lasciando in questo modo aperta la strada per un recupero della recklessness tipo Cunningham nei reati di creazione legislativa, diversi da quest’ultimo. A parte questa artificiosa argomentazione, che tende a contestare la validità della regola secondo cui la recklessness di tipo oggettivo andrebbe applicata indistintamente a tutti gli statutory Crimes, si sono comunque nel tempo moltiplicate alcune significative deroghe, che hanno ridato vita e spazio alla recklessness soggettiva. Il primo esempio riguarda i reati in materia sessuale. I giudici si orientarono, in una prima fase, a ritenere che fosse necessaria, per le fattispecie di violenza sessuale (136) o di aggressione a scopo di violenza sessuale (137), la recklessness tipo Cunningham (138). Così la House of Lords decise, nel caso Morgan (139), che l’accusato non poteva essere ritenuto colpevole laddove avesse confidato nel fatto che la partner fosse consenziente, a prescindere che si trattasse di una convinzione ragionevole o meno. Per essere colpevole, l’uomo doveva aver pensato che il rapporto sarebbe avvenuto senza il consenso di lei, o aver deliberatamente scelto di non prestare alcuna attenzione circa la manifestazione del suo consenso. Per i soggettivisti questa formula era un chiaro tributo al primato esercitato dalla consapevolezza (awareness). A seguito della decisione Caldwell, la common law ha progressivamente impresso un cambiamento di rotta, fino al punto da stravolgere i precedenti in tema di reckless rape, introducendo così, anche in questo settore, la nuova accezione oggettiva. I primi a segnalare visibilmente questo passaggio furono i casi Pigg (140) e Thomas (141), che addirittura scavalcarono la formula Caldwell accentuando il carattere dell’estraneità ai presupposti della colpevolezza. In entrambi si affermò che l’imputato era reckless se aveva realizzato che la donna non avrebbe consentito, o se l’uomo era stato indifferente e non aveva pensato alla possibilità che lei non fosse consenziente. La model direction, oltre a creare grossi problemi applicativi alle giurie popolari nei casi di reckless driving, ha finito per generare ancora maggiori perplessità, proprio sotto il profilo il sopravvento, relegando in posizione minoritaria le fattispecie penali di origine giurisprudenziale, anche se continua a sopravvivere ancora un certo numero di queste ultime. Si è verificata, inoltre, l’ipotesi di un’interferenza tra le due fonti. Così, alla fattispecie voluta dalla common law si applica una pena fissata da una statute (si veda l’esempio del murder o del manslaughter le cui sanzioni sono rispettivamente contenute nel Murder Act del 1965 e nell’Offences Against the Person Act del 1861 (Card-Cross-Jones, Criminal, cit. 9-17). (134) Spratt [1991] 2 All ER 210. (135) Spratt [1991]: « The sentence « reckless » should today be given the same meaning in relation to all offences which involve « recklessness » as one of the elements unless Parliament has ordained seems to us to be obiter » (219). (136) Sez. 1 (1) Sexual Offences (Amendment) Act 1976. (137) Sez. 14 (1) Sexual Offences Act 1956. (138) S. GARDNER, Recklessness and Inconsiderate Rape, Crim. Law Rev. 1991, 172-179, 172. (139) Regg. v. Morgan [1972] 1 All ER 348. (140) Regg. v. Pigg [1982] 2 All ER 591. (141) Regg. v. Francis and Thomas [1982] Crim. App. Rep. 63, CA.
— 1000 — dell’evidenza probatoria, nelle ipotesi di reckless rape (142). È stato questo lo spunto che ha mosso la Corte d’Appello, nei casi Breckenridge (143) e Taylor (144), a stabilire che qualora ricorra la fattispecie di indecent assault (aggressione a scopo di violenza sessuale) o di rape (violenza sessuale), la recklessness è provata solo se D. non ha creduto che P. fosse consenziente, o « couldn’t care less » circa il consenso della donna. Secondo l’interpretazione dominante, in questa formula è insito un riavvicinamento alla recklessness intesa in senso soggettivo, poiché si ritiene che una persona non possa disinteressarsi a qualcosa se non ha preventivamente realizzato la presenza di un rischio e conseguentemente deciso di ignorarlo. In altri termini, la manifestazione del disinteresse presuppone che, seppure in maniera fugace, il reo abbia riflettuto sull’esistenza delle conseguenze pericolose della propria azione, ma abbia deciso di proseguire ugualmente (145). Si è sostenuto, inoltre, che in merito a questi reati la trasposizione della regola Caldwell incontra ulteriori difficoltà, perché qui non entra in gioco la prevedibilità delle conseguenze dell’azione criminosa, bensì quella dello stato mentale della vittima (146), che è estremamente arduo dimostrare. Un’altra eccezione al caso Seymour, si è avuta nel 1989, a seguito della decisione Large v. Mainprize (147), in cui la Divisional Court ha applicato il test della recklessness soggettiva ad un reato di creazione legislativa. Si è trattato di recklessly furnishing false information, in violazione del regolamento 3(2) del Sea Fishing (Enforcement of Community Control Measures) Regulations 1985. Si è ritenuto di configurare la responsabilità solo qualora fosse possibile dimostrare la recklessness come consapevole indifferenza verso la verità o la falsità delle dichiarazioni rilasciate, o come previsione delle conseguenze, a prescindere dal fatto che siano o meno desiderate, purché sia dimostrabile l’intenzione di correre il rischio. Appare degno di nota che in questa occasione non si sia sentita l’esigenza di richiamare i noti precedenti in tema di recklessness, ma si sia asserito essere self-evident l’accezione soggettiva di questo termine. Si incontra un’altra deroga nei reati di furto mediante inganno, disciplinati dai Theft Acts del 1968 e 1978 (148). L’inconciliabilità rispetto alla recklessness oggettiva in queste ipotesi assume connotati strutturali, poiché non si può dire che una persona agisca in modo disonesto, se non ha quantomeno pensato al rischio di avvalersi dell’inganno (149). Ancora, la Caldwell type recklessness non è sufficiente nei casi di lesioni personali disciplinate per legge (150). Ciò è stato confermato, come già detto, nel caso Spratt, dove per le fattispecie legali di aggressione è stato accolto il solo significato soggettivo del termine recklessness (151). È sufficiente provare o che l’accusato intendeva porre in essere una condotta che avesse per risultato una ingiusta lesione personale, anche se di lieve entità, oppure che era subjectively reckless circa il rischio che la sua azione potesse provocare un simile danno. (142) SMITH - HOGAN, Criminal, cit. 67. (143) Regg. v. Beckenridge (1983) 79 Cr. App. Rep. 244, CA. (144) Regg. v. Taylor (1985) 80 Cr. App. Rep. 327, CA. (145) CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 238-239; SMITH - HOGAN, Criminal, cit. 66-67; M. JEFFERSON, Criminal law, cit. 73 ss. (146) SMITH - HOGAN, Criminal, cit. 67. Registra un cambiamento rilevante di contenuti della giurisprudenza in materia di consenso al rapporto sessuale viziato dal raggiro: A. REED, An Analysis of Fraud Vitiating Consent in Rape Cases, The Journal of Criminal Law 1995, 310-315. (147) Large v. Mainprize (1989) Crim. Law Rev. 213. (148) CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 310; il riferimento normativo viene fatto in particolare alla s. 15(4) del Theft Act 1968. (149) CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 79. (150) Si tratta di common assault, common battery e assault occasioning actual body harm: Offences against the Person Act 1861 (CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 179). (151) Nella stessa direzione sembrano andare anche le pronunce nei casi Savage e Parmenter ([1991] 4 All ER 698) laddove si tratti di una violazione relativa alla sez. 20 dell’Offences against the Person Act del 1861.
— 1001 — Ricapitolando, le uniche ipotesi di creazione legislativa nelle quali si impone la recklessness oggettiva erano, fino a poco tempo fa, soltanto due: i reati di danneggiamento (Offences of criminal Damage) e la guida reckless (reckless driving). Solo di recente è stata aggiunta una nuova ipotesi, grazie all’interpretazione fornita dalla Divisional Court, nel caso Data Protection Registrar v. Amnesty International (British Section), a proposito della sez.5(5) del Data Protection Act del 1984. In questa occasione si è affermato che il termine « recklessly », nei reati di knowingly o recklessly violazione delle disposizioni a tutela delle notizie personali, deve essere inteso nella sua accezione oggettiva, ovvero di Caldwell type recklessness. Per quanto riguarda, invece, il settore dei reati di produzione giurisprudenziale, come si è già detto, è valso generalmente il criterio della recklessness soggettiva. L’unica eccezione è stata rappresentata, per un certo periodo, dalla mens rea richiesta in caso di involuntary manslaughter. Fino al caso Seymour, infatti, ha avuto indiscussa autorevolezza la decisione Bateman (152), che configurava una responsabilità penale per semplice gross negligence. Nel 1983 la House of Lords ha compiuto un repentino cambiamento di rotta, introducendo anche in quest’ambito un’accezione oggettiva della recklessness (153). Dopo soli dieci anni, tuttavia, si è tornati a riconoscere potere vincolante ai precedenti Bateman e Andrews (154), grazie al caso Adomako (155). Questa novità, sicuramente incoraggiante sotto il profilo della tendenza in atto, di segno favorevole ad un potenziamento della logica eminentemente soggettivistica, non aiuta tuttavia a sgombrare il campo da alcune perduranti incongruenze. La decisione (156), infatti, ha veicolato l’introduzione della gross negligence nei casi di manslaughter, provocati per infrazione al dovere (breach of duty); mentre continua a permanere una responsabilità a titolo di recklessness oggettiva nei più modesti casi di danneggiamento. L’effetto aberrante, e non facilmente sostenibile, è quello di una più energica protezione, assicurata al diritto di proprietà, rispetto a quanto viene garantito all’integrità fisica. Ciò vuol dire che la recklessness assume un significato più ampio (r. oggettiva, tipo Caldwell) in relazione ai reati di danneggiamento verso la proprietà, di quanto non faccia (r. soggettiva, tipo Cunningham) per i reati che sanzionano le lesioni personali. A titolo esemplificativo si può richiamare il caso W. (a minor) v. Dolbey (157), nel quale l’autore si trovò a puntare, per gioco, una pistola ad aria compressa verso un amico, senza neppure pensare all’eventualità che fosse carica, come invece era nei fatti. Puntata l’arma, sparò, colpendo sia gli occhiali, che gli occhi del suo sventurato bersaglio. Secondo le regole poc’anzi enunciate, l’autore sarebbe colpevole penalmente per aver danneggiato gli occhiali, ma non avrebbe invece alcuna responsabilità penale per aver menomato, anche gravemente, l’organo visivo (158). Questa incomprensibile distorsione della ge(152) Regg. v. Bateman (1925) 19 Cr App Rep 8, CCA. G. SYROTA, Mens Rea in Gross Negligence Manslaughter, Crim. Law Rev. 1983, 776-786. (153) « ... the trial judge should give the jury the direction suggested in Regg. v. Lawrence but it is appropriate also to point out that in order to constitute the offence of manslaughter the risk of death being caused by the manner of the defendant’s driving must be very high » Regg. v. Seymour, cit. 1066. (154) Andrews v. D.P.P. [1937] 2 All ER 552. (155) Regg. v. Adomako [1994] 3 All ER 79. Questo precedente non fa che confermare la breccia già aperta con il caso Prentice [1993] 3 W.L.R. 927; un commento estremamente lucido è offerto da: J.C. SMITH, Prentice and Others, Crim. Law Rev. 1994, 292-296. Si veda inoltre sul punto: I.D. BROWNLEE - M. SENEVIRATNE, Killing with Cars after Adomako: Time for some Alternatives?, Crim. Law Rev. 1995, 389-392. (156) Non da tutti accolta favorevolmente, poiché si dice che finisca per aggravare ulteriormente lo stato di confusione esistente sul punto: S. LAI, The Law of Reckless Manslaughter - Swept by the Tide of Change?, Journal of Criminal Law 1994, 303-309, 303. (157) W. (a minor) v. Dolbey (1989) 88 Cr.App.R. 1. (158) In concreto, la Divisional Court ritenne che la sentenza di condanna per mali-
— 1002 — rarchia dei beni giuridici si aggrava ulteriormente nell’ipotesi in cui la persona perda la vita a causa dell’aggressione. Infatti, secondo il più recente indirizzo, adottato dalla House of Lords (159), trattandosi di un caso di manslaughter, si impone la formulazione di un giudizio che tenga conto della consapevolezza di provocare una lesione ingiusta ad altri. In questo modo, a fronte di un medesimo coefficiente psicologico, le lesioni o l’eventuale omicidio preterintenzionale non sono punibili, mentre invece il semplice danneggiamento della proprietà altrui, poiché coperto da una forma di responsabilità per recklessness oggettiva, ottiene una più energica protezione, grazie all’inflizione di una sanzione penale. Per rimediare a questa macroscopica iniquità, l’unica soluzione sembra essere quella di una riforma legislativa, che recuperi espressamente, per tutti i tipi di reati, la medesima accezione soggettiva di recklessness (160). Questa soluzione troverebbe una accoglienza favorevole non solo in un’ottica di diritto penale sostanziale, ma anche in quella processuale, semplificando e rendendo più aderente al dato storico la decisione espressa dalla giuria. 5. Loophole argument: alcune considerazioni di natura comparatistica. — Riprendendo un punto lasciato in precedenza sospeso, ma di notevole importanza per un esaustivo inquadramento comparatistico dell’istituto in esame, appare utile concludere affrontando il tema del loophole argument. All’interno dello schema di Lord Diplock non è, infatti, contemplata l’eventualità in cui l’autore abbia pensato alla possibile realizzazione di un rischio, ma abbia escluso, seppure erroneamente, che si potesse verificare: « he rules out a risk by mistakenly concluding that there is no risk ». Inoltre non è possibile applicare il test della Caldwell/Lawrence recklessness anche in un’altra ipotesi, dalle sfumature solo leggermente diverse, ma nella sostanza analoga al caso precedente. Risulta non punibile, alla stregua della model direction, chi, consapevole del tipo di rischio che soggiace alla sua azione adottando tutte le precauzioni necessarie ad allontanare il più possibile il pericolo di una conseguenza dannosa, provoca ciononostante l’evento delittuoso. Il reo ha riconosciuto l’esistenza del rischio, ma ha ugualmente proseguito nella sua condotta, perché ha pensato di essere riuscito ad eliminarlo con un alto grado di probabilità. Questo vuoto di disciplina, è stato emblematicamente definito con il termine « loophole », ovvero lacuna (161). Sennonché la Divisional Court, nel caso Chief Constable of Avon and Somerset v. Shimmen, come si è già anticipato precedentemente, riuscì ad aggirare questo ostacolo, emettendo nei confronti dell’esperto in arti marziali, che con un calcio aveva distrutto la vetrina di un negozio, una sentenza di condanna. cious wounding, così come prevista dalla s. 20 dell’Offences against the Person Act del 1861, doveva essere annullata. D, infatti, non aveva previsto che P avrebbe potuto subire un danno, quindi egli non poteva essere considerato reckless secondo l’accezione Cunningham. (159) Regg. v. Adomako, cit. (160) Nel Consultation Paper della Law Commission (Consultation Document. No. 135, Involuntary Manslaughter -1993-) è stata inserita la proposta di modificare l’imputazione oggettiva del manslaughter per favorire l’introduzione anche in questo settore della Cunningham recklessness, in ragione del rispetto dei principi di autonomia personale e di libertà, che consentono l’inflizione di una condanna penale solo qualora il soggetto sia consapevole delle sue azioni e pur potendo, non abbia scelto di desistere. (G. VIRGO, Back to Basic-Reconstructing Manslaughter, The Cambridge Law Journal 1994, 44-53, 52. Sebbene lo sguardo sia accentrato sulla fenomenologia concorsuale, in tema di omicidio preterintenzionale, enfatizza positivamente i risultati della Commissione anche: A. MCCOLGAN, The Law Commission Consultation Document on Involuntary Manslaughter - Heralding Corporate Liability?, Crim. Law Rev. 1994, 547-557, 552 ss. Per una panoramica più complessiva: N. PADFIELD, Manslaughter: the Dilemma Facing the Law Reformer, The Journal of Criminal Law 1995, 291-298, in particolare 294; C. ELLIOTT, Recent Developments in the English Law of Involuntary Manslaughter, European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice 1995, 272-280). (161) SMITH - HOGAN, Criminal, cit. 65; A. ASWORTH, Principles, cit. 160.
— 1003 — Per verificare la legittimità di tale provvedimento, si disse anche che sarebbe stato sufficiente sottoporre l’accusato ad una cross-examination, così costruita: « avresti sferrato un calcio, con una forza simile, contro la testa della tua fidanzata, o moglie, o figlio, confidando nella tua abilità di saperti arrestare a pochi millimetri dal bersaglio? No? Allora sapevi che c’era qualche rischio che il tuo piede arrivasse oltre la distanza che avevi calcolato? » (162). Se Shimmen avesse pensato di aver eliminato tutti gli eventuali rischi, non sarebbe stato possibile giudicarlo reckless, neppure secondo un’angolazione soggettiva. Ciò che, invece, egli ha fatto è stato semplicemente di pensare di aver « mitigato » il rischio, così integrando appieno una responsabilità per recklessness tipo Cunningham. Da un’analisi attenta ed approfondita delle decisioni assunte dai giudici sulla delicata questione, si desume quale sia l’incidenza dei numerosi commenti e riflessioni che si sono espressi contro la tanto criticata scelta di Lord Diplock di non comprendere, nella formula della recklessness, anche il caso di chi abbia pensato al rischio, ma abbia ritenuto di proseguire ugualmente nella propria condotta, confidando di poterlo eliminare. Da un rapido excursus delle sentenze pronunciate a partire dal 1981 fino ad oggi emerge in modo piuttosto nitido l’orientamento a non cedere con l’adozione di formule assolutorie, di fronte ai casi di lacuna (163). I giudici pur riconoscendo che la definizione Caldwell non è in grado di contenere tutte le possibili manifestazioni di comportamento reckless, non hanno per ciò solo rinunciato a colmare il vuoto, impegnandosi, piuttosto, a porvi rimedio in via interpretativa. Come obiter dictum è possibile trovare frequentemente il riconoscimento dell’esistenza della lacuna (164), ma poi nella fase finale, di definizione della responsabilità penale per recklessness, si riscontrano, invece, quasi sempre decisioni di condanna (165). Così è avvenuto anche nel caso Shimmen (166), dove si è attribuita un’imputazione per recklessness tipo Cunningham, in quanto l’accusato aveva dichiarato di aver minimizzato il rischio, con ciò implicitamente dimostrando di esserne a conoscenza (167). Un’altra significativa pronuncia giurisprudenziale, che sostanzialmente finisce per aggirare la lacuna, è il caso Grossman (168). Il guidatore di un camion con rimorchio, avvertito del pericolo che si potesse staccare una parte del suo automezzo, mettendo a repentaglio la vita delle persone, che si trovavano in quel momento nei paraggi, venne condannato per recklessness driving, poiché dalla sua condotta derivò la morte di un pedone, sebbene egli avesse dichiarato a seguito dell’ammonimento che gli era stato rivolto, che il suo rimorchio era « as safe as houses ». Stando ad una rigorosa lettura della formula Lawrence non dovrebbe parlarsi in questo caso di responsabilità reckless, visto che il guidatore aveva rivolto una specifica attenzione alla presenza di un possibile pericolo, ma aveva concluso, seppure erroneamente, che nel caso di specie esso non ricorreva. Anziché invocare il solito escamotage, questa volta la Corte d’Appello è giunta ad una sentenza di condanna, assumendo che si trattava di un rischio estremamente alto e serio, e (162) G. WILLIAMS, The Unresolved Problem of Recklessness, Legal Studies 1988, 74-91. (163) D.W. ELLIOT, Endangering Life by Destroying or Damaging Property, Crim. Law Rev. 1997, 382-392, 388. (164) Regg. v. Reid [1992], cit. Lord Goff, 688 g/h; da ultimo: Coles [1994] Crim. Law Rev. 820 CA. (165) CLARKSON - KEATING, Crimina, cit. 172. (166) Chief (..) v. Shimmen, cit. in Crim. Law Rev. 1986, 800-803, con commento di J.C. SMITH. (167) « This was not, in the view of Divisional Court, a case where the defendant « decided that there was no risk ». On the contrary, he « recognised that there was same risk involved » and so had the second state of mind characterised by Lord Diplock in Caldwell as recklessness. This was not, on that view, a lacuna case at all ». J.C. SMITH, ult. op. cit., 801. (168) Regg. v. Grossman (1986), Crim. Law Rev. 1986, 406-408, con commento di J.C. SMITH.
— 1004 — che inoltre le conseguenze coinvolgevano un bene di grande valore, come l’integrità fisica, se non addirittura la vita delle persone presenti. Anche in questo caso l’operazione era finalizzata a riempire la lacuna del test sulla recklessness, elaborato da Lord Diplock, ma ci si è spinti oltre, sconfinando in valutazioni di carattere meramente oggettivo. Se si presenta un rischio ovvio e serio l’accusato, in questo modo, finisce per essere ritenuto responsabile qualunque sia stato il suo pensiero, al punto tale da rendere addirittura pleonastica l’indagine sul profilo psicologico (169). Più recentemente nel caso Merrick (170), la Corte d’Appello ha dimostrato di aver ulteriormente affinato la propria capacità di supplenza rispetto ad un quadro giurisprudenziale ancora incompleto e ad un apparato legislativo sordo alle richieste di intervento. La condanna, emessa in primo grado e confermata in appello, è stata pronunciata per violazione della sez. 1(2) del Criminal Damage Act del 1871, cioè per danneggiamento della proprietà, con atteggiamento reckless circa la messa in pericolo della vita altrui. In questa ipotesi il colpevole pur avendo pensato alla presenza del rischio, ha concluso, sulla base della propria esperienza, di poterlo escludere. Ciononostante il collegio ha emesso una sentenza di condanna perché le precauzioni, che avrebbero dovuto scongiurare qualsiasi tipo di conseguenza dannosa, dovevano essere assunte prima che il danno venisse causato. Una cosa è evitare il rischio, altra è quella di prendere dei provvedimenti per rimediare ad esso, quando è già stato creato. In altre parole, secondo i giudici, l’allestimento delle opportune cautele deve avvenire in una fase preventiva e non per rimediare ad una situazione già compromessa (171). Sebbene i primi commenti enfatizzino la mancanza di « buon senso » (172) nel correggere così maldestramente la « lacuna », insita nel discorso di Lord Diplock, resta ferma l’esigenza, sentita unanimemente dalla common law di punire quelle persone che, confidando nell’abilità di saper evitare il pericolo, mostrano « un’arroganza al limite della follia » (173). L’articolazione del ragionamento che conduce verso la conclusione appena enunciata, pur assumendo contorni di volta in volta diversi, ha come invariabile esito finale l’imputazione di responsabilità per recklessness soggettiva. L’opzione della giurisprudenza dei paesi di lingua inglese, non solo nell’emblematico caso Shimmen, ma anche in vicende analoghe, sempre a favore dell’attribuzione di una responsabilità per recklessness tipo Cunningham, può essere paragonata alla scelta dei paesi di civil law di ascrivere profili psicologici di questo tipo alla categoria della colpa cosciente. Ove il soggetto si rappresenti la possibilità dell’evento lesivo, ma confidi con certezza nella sua concreta non verificazione, secondo un’autorevole giurisprudenza italiana, si avrebbe colpa cosciente o con previsione (174). Al di là (169) Regg. v. Grossman, cit. 408; tra la dottrina che non fa mistero di un maturato senso critico si annovera anche: B.P. ARCHBOLD, Criminal Pleading, Evidence e Prentice, vol. II, Londra 1994, 2/40. (170) Regg. v. Merrick, Crim. Law Rev. 1995, 802-805, con commento di J.C. SMITH. Il sig. M., indispettito per non aver ricevuto il corrispettivo in danaro di una servitù di passaggio che la sua ed altre proprietà offrivano al titolare di un fondo dominante, accettando di appoggiare un cavo televisivo, dopo aver ottenuto il consenso scritto anche degli altri fondi serventi, provvede lui stesso a staccare il collegamento, periziandosi di assumere tutte le cautele necessarie per evitare qualunque danno. (171) Regg. v. Merrick, cit. 803. (172) J.C. SMITH in Regg. v. Merrick, cit. 805. (173) D.J. BIRCH, The Foresight, cit. 5. (174) « (..) nella colpa con previsione, invece, la verificabilità dell’evento rimane come ipotesi astratta, che nella coscienza dell’agente non viene percepita come concretamente realizzabile e perciò non può essere, in qualsiasi modo, voluta: nella pratica è possibile individuare il discrimine tra le due forme di elemento soggettivo del reato attraverso l’analisi approfondita della condotta dell’agente, nel contesto delle circostanze del caso concreto » (Cass., sez. I, 21/1/1991, Mass. Cass. pen. 1991, fasc. 7, 30). Più recentemente si veda: Cass., sez. I, 3/6/93, in Mass. Cass. pen. 1993, fasc. 12, 116 (m). Sintetizzando le po-
— 1005 — del fatto che « l’evento lesivo » per il civil lawer, diventi per il common lawer il più avanzato « rischio », sembra, in realtà, non esservi una sostanziale differenza tra le due ipotesi poc’anzi configurate. Tornando alla definizione introdotta con il caso Cunningham, si ritiene possibile affermare che essa possiede quegli elementi che la rendono notevolmente affine alla figura del dolo eventuale di concezione continentale (175). L’autore, infatti, ha previsto che quel particolare tipo di danno potrebbe essere causato ma, ciononostante, ha proseguito nella sua condotta assumendosene il rischio. Anche nel caso dell’istituto straniero, infatti, si tratta di assunzione (176) od accettazione del rischio, contrassegnate in termini marcatamente normativi, tramite il riferimento al carattere ingiustificato, fortemente antidoveroso, del rischio stesso (177). Se questo è il senso attribuito alla recklessness, sul quale converge anche la maggior parte della dottrina europeo-continentale, che se ne è occupata (178), si presenta in modo quantomeno enigmatico l’operazione, peraltro estremamente laboriosa nella sua complessa architettura, realizzata dalla giurisprudenza inglese. Per colmare la « lacuna » e far rientrare in questa definizione anche quella figura che negli ordinamenti continentali assume le fattezze di colpa cosciente, si è finito per ampliare sensibilmente il contenitore originario. Sembrerebbe, dunque, potersi affermare, grazie ad un pervasivo intervento operato dai giudici, che siano state accorpate, entro la stessa categoria, modalità espressive di elementi psicologici, che in altri ordinamenti sono tenute separate. Vi è da dire, peraltro, che il labile confine tra dolo eventuale e colpa con previsione ha incominciato a mostrare alcuni segni di cedimento anche di fronte allo sguardo dello studioso di formazione europeo-continentale. La scienza penalistica sembra, infatti, in questi ultimi anni interrogarsi sempre più insistentemente sull’opportunità di superare la rigida dicotomia tra dolo e colpa, a favore di soluzioni che, sotto il profilo sistematico, contemplino, per esempio, un’articolazione più ricca e variegata (179). Senza voler anticipare alcuna considerazione sui possibili sviluppi della tendenza in atto, ciò che preme ora puntualizzare è l’originalità della scelta che l’ordinamento inglese ha realizzato. Non è difficile avanzare una spiegazione di questo fenomeno se si pensa all’importanza fondamentale che nei sistemi di common law assumono la vicenda del caso concreto, l’aspetto probatorio ad essa legato, nonché l’esigenza fortemente sentita della massima semplificazione delle procedure volte a ricostruire l’elemento psicologico (180). D’altra parte, sebbene nel sistema continentale sia fortemente radicata la tradizione di una complessa impalsizioni della più autorevole dottrina sul punto: M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, II ed., Milano 1995, 413. (175) In questo senso: S. VINCIGUERRA, Introduzione, cit. 189; nonché più recentemente S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano 1993, 98 ss., in particolare 103. (176) Può essere sia volontaria (r. tipo Cunningham), sia involontaria (r. tipo Caldwell/Lawrence). (177) S. PROSDOCIMI, Dolus, cit. 102. (178) Per l’Italia si veda ancora A. CADOPPI, Mens rea, cit. 636 e ss.; S. VINCIGUERRA, Introduzione, cit. 187 e ss. (179) S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit. 100. Tra i precorritori di questo nuovo approccio G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in Scritti in onore di Nuvolone, Milano 1991, 331-368; mentre per la letteratura straniera, tra gli altri, A. ESER, Strafrecht, I, 3. Aufl., Monaco 1980, sub 3A 35a. (180) K. VOLK, Relazione al Convegno: Diritto penale degli anni ’90, In ricordo di Franco Bricola, Bologna 18-19-20, maggio 1995, in corso di pubblicazione: « Secondo la mia tesi ha luogo un trasferimento dalla definizione del concetto alla prova del fatto, ciò vuol dire che determinate strutture argomentative non vengono più impiegate nel diritto sostanziale, ma adoperate per risolvere problemi processuali. L’applicazione del diritto non è
— 1006 — catura dogmatica, che prevede come entità del tutto autonome il dolo e la colpa, non si può disconoscere l’esistenza di un processo, ormai già da qualche tempo avviato, che tende ad esaltare, in una prospettiva di carattere normativo, gli elementi di continuità e di omogeneità tra queste due figure (181). Lo studioso di civil law potrebbe, dunque, muoversi quantomeno su due distinti piani di intervento: l’uno in una prospettiva de iure condendo, consentirebbe di configurare l’elemento soggettivo del reato sulla base di una gamma di crescente intensità, a seconda della maggiore o minore incidenza dell’elemento conoscitivo e dell’elemento volitivo, facilitando, in questo modo, il compito del giudice, altrimenti costretto a districarsi tra troppo drastici aut-aut. L’altro, in chiave de iure condito, favorirebbe l’individuazione, all’interno del nostro ordinamento, dei casi in cui il dolo, ipoteticamente costruito come coscienza e volontà di una generica azione, non possieda affatto i contenuti della colpevolezza dolosa, bensì solo quelli della colpevolezza propria della colpa (182). La ricerca della ratio esplicativa di ciò che ha contaminato gran parte della legislazione speciale, ed in modo ancora più evidente i reati a forma contravvenzionale (183), potrebbe contribuire ad una più pervasiva ed efficace razionalizzazione dell’intero sistema. Anche alla luce degli studi condotti nel cuore di un diverso ordinamento giuridico, sembra possibile avanzare una soluzione che non sia in contrasto con le opzioni normative in vigore, ma addirittura vi aderisca. La recklessness, in altri termini, potrebbe tradursi come criterio ermeneutico di meccanismi complessi, in cui sono confluiti bisogni di semplificazione dell’indagine sul requisito psicologico, o come necessità di una più generale soluzione politico-criminale alle incalzanti esigenze di sicurezza sociale (184), o per finire, potrebbe concretizzare la spinta all’adeguamento rispetto ai parametri di derivazione processual-penalistica (185). L’apertura ad una terza forma di imputazione soggettiva (186), consentirebbe di circoscrivere l’area della responsabilità per dolo alle sole forme di dolo intenzionale e diretto, mentre i casi, nei quali l’autore ha agito sulla scorta di una mera rappresentazione della possibilità di realizzare l’evento, verrebbero fatti confluire in un’unica sfera intermedia, altrimenti individuabile quale responsabilità « da rischio » (187). La differenziazione tra dolo per questo alla fine più flessibile. Si avvicina, tuttavia, sempre più ai metodi e alle caratteristiche di un case law » (pagina 9 del dattiloscritto). (181) S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit. 99 ed amplia bibliografia ivi citata. (182) M. DONINI, Il delitto contravvenzionale, « Culpa iuris » e oggetto del dolo nei reati a condotta neutra, Milano 1993, 213. (183) M. DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit. 204. (184) « A favore del pragmatismo di simile approccio stanno soprattutto ragioni di garanzia e certezza (che solleverebbero il giudice — e l’imputato a lui sottoposto — dall’alea di « scommesse » ondeggianti tra intuizioni psicologiche e tipologie d’autore), ma certo anche motivi di riequilibrio della tutela, in una logica piena di sussidiarietà dell’intervento penale, che porterebbe ad incriminare (nella maggior parte dei delitti e delle contravvenzioni) la sola colpa grave o comunque la colpa non lieve, rendendo a quel punto ancora più urgente l’esigenza di sdrammatizzare la necessità di una scelta tranchant tra l’area del dolo diretto e quella della colpa (ormai soltanto di media e alta intensità) » (M. DONINI, Teoria del reato, cit. 331-332). (185) « Sulla punibilità di una condotta non si decide soltanto operando sulla definizione del concetto, ovvero in base ad argomenti di diritto sostanziale, ma anche operando sulla prova di un fatto, in base a disposizioni sulla verifica di un concetto » (K. VOLK, Ult. op. cit., pagine 10 e 11 del dattiloscritto). (186) Come suggerisce F. ANGIONI, Le norme definitorie e il progetto di legge delega per un nuovo codice penale, in Il diritto penale degli anni ’90, Convegno internazionale di diritto penale in ricordo di Franco Bricola, Bologna 18-20 maggio 1995, in corso di pubblicazione, 1-17, pagina 10 del dattiloscritto. (187) « (..) potranno sempre (..) perpetuarsi o innovarsi le forme di fattispecie ad elemento soggettivo cangiante, in cui — al di qua della cornice edittale del dolo e al di là di
— 1007 — eventuale e colpa cosciente riemergerebbe solo nel momento commisurativo (188). La colpa incosciente finirebbe, in questa visione, per essere isolata in uno spazio del tutto residuale, lasciando semmai sopravanzare con più decisione soluzioni incriminatrici diverse da quella penale. 6. Un codice penale per l’Inghilterra e la Scozia. — Un cenno conclusivo merita, forse, l’interrogativo sull’effetto che tali considerazioni sarebbero in grado di produrre sul piano normativo. Quanto è stato descritto fino ad ora come frutto di un’evoluzione sia giurisprudenziale che normativa, oltre che di una cultura giuridico penale giunta ad un elevato grado di maturazione, potrebbe, infatti, trovare sistemazione all’interno del nuovo codice penale. Diverse generazioni di giuristi inglesi si sono dedicate a questo progetto, ma fino ad ora non sono stati in grado di vincere le resistenze dei più intransigenti tradizionalisti e procedere al suo varo definitivo. L’idea di creare un codice penale per l’Inghilterra e la Scozia risale alla fine degli anni sessanta (189), quando fu istituita la prima Law Commission, con il compito di fissare i principi generali a cui l’intero sistema penalistico si sarebbe ispirato, e di riorganizzare le singole fattispecie criminose, disseminate nei numerosi statutes, già in vigore, e nella stessa common law (190). Nel 1989 venne presentato il Law Commission’s Draft Criminal Code Bill, accompagnato da un Report e da un Commentary (191). In questa occasione, si avanzò l’ipotesi di una struttura codicistica divisa in quattro parti: la Io riguardante i principi generali sulla responsabilità; la IIo i reati specifici; la IIIo le prove e la procedura; la IVo i provvedimenti a carico del reo. La disciplina specifica relativa all’istituto della recklessness, si inserisce all’interno dell’art. 18 (c) che oltre a fornirne una definizione generale, ne prevede la trasposizione nelle singole ipotesi di parte speciale, qualora venga in esse richiamato: « A Person acts « recklessly » with respect to: quella della colpa — un’ampia cornice « mista » faccia da ponte tra dolo e colpa, come la recklessness angloamericana, nella preterintenzione, nei delitti aggravati dall’evento o nelle stesse contravvenzioni » (M. DONINI, Ult. op. cit., 329). (188) In questo senso, in termini problematici: A. MELCHIONDA, Definizioni normative e riforma del codice penale (spunti per una rinnovata riflessione sul tema), in AA.VV., Omnis definitio in iure periculosa?, cit. 391-429, 428 ss. (189) The Law Comm.: Second Programme of Law Reform (Law Comm. No. 14) 6. In verità, già a partire dal 1875 si poterono incominciare ad intravedere i primi segnali, quando una Select Committee della House of Commons formulò una serie di proposte per migliorare la presentazione dei testi di legge. Per un’esauriente ricostruzione: J.F. STEPHEN, A History of the Criminal Law, cit. vol. III, 347. Si disse che i progetti di legge dovessero essere accompagnati da explanatory memoranda, che nella redazione di essi fosse prescritto l’impiego di model clauses, che le regole sull’interpretazione fossero precisate in uno statute e che, per finire, il lavoro di redazione dei draftsmen addetti all’ufficio del Parliamentary Counsel fosse esteso agli emendamenti introdotti nel corso dei lavori parlamentari. Tutto ciò fu poi oggetto di una più evoluta ed attenta analisi, condotta da una commissione nominata nel 1973 e presieduta da Sir David Renton (AA.VV., The Preparation of Legislation. Report of a Committee Appainted by the Lord President of Council, Londra 1975). Per una trattazione analitica del dibattito sulla law Reform e sull’evoluzione del diritto penale inglese, si veda: A. PIZZORUSSO, Il Renton Report e le prospettive di evoluzione del sistema giuridico inglese, Riv. trim. dir. proc. civ. 1984, II, 741-768. (190) In questo, come in altri casi, si tratta di commissioni governative, nominate appositamente per studiare la formulazione di un nuovo codice penale. Sottoposto il progetto « preliminare » al vaglio delle Corti, degli accademici e degli avvocati, il Draft Code, tenuto conto delle eventuali modifiche, assume una veste « definitiva » qualificandosi come Report (A. CADOPPI, Dalla Judge Made Law al Criminal Code, Progetti di codici penali nei paesi di common law, tra istanze dottrinali e giurisprudenziali, in questa Rivista, 1992, 922-994, qui 946/7). (191) I.H. DENNIS, Funzioni ed ambito delle definizioni, cit. 363.
— 1008 — (i)a circumstance, when he is aware of a risk that it exists or will exist; and (ii)a result, when he is aware of a risk that it will occur; and it is, in the circumstances known to him, unreasonable to take the risk ... ». Questa formulazione è stata sostanzialmente riconfermata nel più recente Draft Bill: Legislating the Criminal Code: Offences against the Person and General Principles, presentato al Parlamento nel novembre 1993: « A Person acts -b) recklessly with respect to -(i) a circumstance, when he is aware of a risk that it exists or will exist and (ii) a result, when he is aware of a risk that it will occur, and it is unreasonable, having regard to the circumstances known to him, to take that risk » (192). Queste recenti tensioni riformistiche accolgono l’indicazione, condivisa dai più, di eliminare la recklessness tipo Caldwell, per tornare ad attribuire il primato esclusivo alla recklessness soggettiva (193), ritenendo meritevole di sanzione penale solo il comportamento di colui che sia consapevole di assumersi il rischio di un evento dannoso. La misura dell’irragionevolezza, relativa all’assunzione del rischio, deve inoltre essere calibrata in rapporto alle condizioni conosciute dall’agente nel momento in cui si è apprestato a realizzare la condotta. La propensione della Commissione legislativa è stata, dunque, nettamente favorevole ad una definizione dell’istituto della recklessness in termini più ristretti, di quanto non era enunciato nella model direction di Lord Diplock. La piena consapevolezza del risk-taking funge da parametro essenziale per poter asserire l’esistenza di un requisito minimo di colpevolezza, che legittimi l’attribuzione della responsabilità penale anche per gli illeciti penali più gravi (194). La natura inequivocabilmente soggettiva di questa componente psicologica è emersa con maggiore limpidezza da uno dei lavori preparatori alla riforma del diritto penale, dove non si è puntato esclusivamente sulla conoscenza del rischio, assunto in modo consapevole, ma si è fatto leva anche su siffatta « irragionevolezza », misurata sulla base delle valutazioni della persona che si trova ad agire in quello specifico caso concreto (195). Un’attenta ricostruzione storica dei lavori svolti dalla Commissione, unita ad un’esegesi rigorosa del testo normativo di più recente approvazione, dovrebbe allontanare ogni perplessità sulla reale valenza soggettiva, che si è inteso oggi promuovere dell’istituto della recklessness. Ciononostante, si registrano alcuni pareri dissonanti, nei quali si coglie il timore per una possibile ambivalenza della nuova formula. Le maggiori perplessità si appuntano, in particolare, sulla natura dell’irragionevolezza, poiché non è chiaro se debba essere misurata sulla base dei parametri dell’autore che ha agito nel caso concreto, o non piuttosto su quelli di un osservatore esterno, il quale giudica secondo criteri obiettivi (196). Questa possibile frattura rispetto ai principi dell’individual autonomy, che sarebbero garantiti esclusivamente dall’uso di una definizione soggettiva pura di recklessness, si spiega con la necessità di tracciare il confine della responsabilità penale in accordo con la valutazione sulla natura dell’attività posta in essere e sul grado del ri(192) Law Comm., Item 5, 11. (193) CARD - CROSS - JONES, Criminal, cit. 86. (194) Law Comm.: A Criminal Code for England and Wales, 1988, 194 in sintonia con il Fourteenth Report: Offences against the Person (1980); Fiftheenth Report: Sexual Offences (1984); Public Order Act 1986 s. 6 (1)-(4). (195) « ...a person is reckless if (..) he takes that risk and b) it is unreasonable for him to take it having regard to the degree and nature of the risk which he knows to be present » (Court of Appeal, caso Stephenson [1979], in C.M.V. CLARKSON - H.M. KEATING, Text and Materials, cit. 159). (196) G. DE FRANCESCO, Variazioni penalistiche, cit. 249. Così anche: A. ASHWORTH, Principles, cit. 177, riferendosi alla formula di advertent recklessness, coniata nel caso Cunningham.
— 1009 — schio realizzato (197). Sembra così insinuarsi, anche tra i sostenitori di una rigida ortodossia soggettivistica, l’attenzione per le istanze di sicurezza sociale, laddove si consenta il ricorso a termini come « reasonable », « ordinary », o « prudent », al fine di reprimere quelle condotte che pongono in pericolo la pacifica convivenza (198). D’altronde è difficile negare che nella recklessness si riflettano finalità contrastanti, che esprimono la necessità di preservare tanto le garanzie individuali da un’indiscriminata attribuzione di responsabilità, quanto quelle collettive a favore di una stabile sicurezza sociale. La natura intrinsecamente complessa di questa particolare figura risulta essere notevolmente influenzata dall’incidenza che essa esercita nelle strategie di politica criminale, al punto da rendere difficilmente ipotizzabile una sua riducibilità ad una pura forma astratta, dal senso rigorosamente univoco (199). Anche volendo riconoscere un’ambivalenza strettamente connaturata al ruolo ricoperto dalla recklesness, non va tuttavia sottovalutato lo spirito innovatore insito nelle più recenti proposte di riforma, che sembrano chiaramente privilegiare una lettura di tipo eminentemente soggettivistico. A sostegno di questa interpretazione soccorrono non solo i lavori preparatori al codice, ma anche diversi segnali incoraggianti, provenienti da fonti giurisprudenziali autorevoli. Nonostante il carattere provvisorio di queste riflessioni, poiché non è stato ancora approvato un testo normativo definito, è possibile cogliere ugualmente importanti sollecitazioni in chiave comparatistica. Infatti, superando l’idea di un’assoluta incomunicabilità tra i due ordinamenti di common law e di civil law, tradizionalmente contrapposti come universi giuridici a se stanti, si può avviare l’apertura di un dialogo dalle ricche implicazioni. In particolare, il labile confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, sul quale per molti decenni si è espressa la migliore dottrina continentale (200), potrebbe sfumare e cedere il passo ad una terza forma di imputazione soggettiva, nella quale far confluire, con gradazioni diverse, la cosiddetta responsabilità da rischio. Mentre si dibatte se all’interno del sistema penale italiano sia possibile recepire, in una prospettiva de iure condendo, se non addirittura in un’ottica de iure condito, una simile innovazione, il nuovo codice penale francese all’art. 121-3 (201) ha già definito un terzo tipo di elemento psicologico, intermedio tra dolo e colpa, di inequivocabile ispirazione anglosassone (202). Ormai sembra che i tempi siano sufficientemente maturi per volgere lo sguardo verso frontiere culturali, forse poco usuali per lo studioso continentale, ma non per questo meno dotate di profili giuridici degni di una rinnovata attenzione. FRANCESCA CURI Dottore di ricerca presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bologna
(197) A. ASHWORTH, Ult. op. cit., ivi. (198) A. ASHWORTH, Ult. op. cit 194. (199) A. NORRIE, Subjectivism, Objectivism and the Limits of Criminal Recklessness, Oxford Journal of Legal Studies, 1992, 45-58, 46. (200) Accanto ad una ricostruzione analitica delle maggiori teorie ed alla formulazione di un interessante nuovo criterio distintivo suggerito da: G. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, Riv. it. dir. proc. pen. 1988, 113-165, in particolare 141 ss.; si contraddistinguono alcuni lavori più recenti: L. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia 1993, 68 ss.; S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit. 19 ss. (201) Il secondo comma dell’art. 121-3 n.c.p., così modificato dalla L. n. 393 del 13 maggio 1996, recita: « Tuttavia, quando la legge lo prevede, vi è delitto in caso di volontaria esposizione e pericolo dell’altrui persona ». (202) Circulaire général presentant les dispositions du nouveau code pénal, maggio 1993, Code Dalloz 1996-1997, 680.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Beiträge und materialien aus dem Max-Planck-Institut für auslndisches und internationales strafrecht, Freiburg i.Br, 1996-1997. La Schadenswiedergutmachung (riparazione del danno) continua ad essere al centro del dibattito penale internazionale, come conferma la recente pubblicazione di quattro volumi, nella collana di studi Beiträge und Materialien aus dem Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht di Freiburg i.Br.: Thomas Wambach, Straflosigkeit nach Wiedergutmachung im deutschen und österreichischen Erwachsenenstrafrecht (1996), Albin Eser-Susanne Walther (Hrsg.), Wiedergutmachung im Kriminalrecht I (1996) e II (1997); Desmond Greer (ed.), Compensating Crime Victims (1996). Alla verifica della mancanza di effettività della pena tradizionale fanno da pendant approfondimenti, di matrice criminologica (1), circa, da un lato, la rivalutazione della posizione della « vittima » (2); dall’altro, la necessità di composizione del conflitto tra vittima e autore del reato (3). In tale contesto la dottrina d’oltralpe ha tentato di individuare nuove forme di intervento sanzionatorio in funzione general-specialpreventiva, imperniate sulla riparazione del danno, ma non alternative alla sanzione penale tradizionale: anzi, esse stesse penali. Si deve ad un prestigioso circolo di studiosi di lingua tedesca (tra i quali Jürgen Baumann, Manfred Burgstaller, Barbara Huber, Peter Rieß, Dieter Rössner, Claus Roxin, Heinz Schöch, Horst Schüler-Springorum e Thomas Weigend) l’elaborazione dell’Alternativ-Entwurf Wiedergutmachung (4), che, sulla scorta di capillari ricerche sul tema (5), propone la (1) Si veda, a titolo di esempio, A. ESER-G. KAISER-K. MADLENER, Neue Wege der Wiedergutmachung im Strafrecht, Freiburg i.Br., 2. Aufl., 1992. (2) Sintomatica a riguardo la riforma di alcune disposizioni dello StPO, introdotta dalla « Prima legge sul miglioramento della posizione della ‘vittima’ nel procedimento penale » (Opferschutzgesetz) del 18 dicembre 1986 (BGBl I, 1986, 2496 ss.). Per una rivalutazione della vittima nel quadro della teoria del bene giuridico cfr. A. ESER, Rechtsgut und Opfer: zur Überhöhung des einen auf Kosten des anderen, in U. IMMENGA-W. MÖSCHEL-D. REUTER (Hrsg.), Festschrift für Ernst-Joachim Mestmäcker, Baden-Baden, 1996, n. 1005 ss., trad. it. a cura di D. Fondaroli, in corso di pubblicazione. (3) Cfr. MARKS-RÖSSNER (Hrsg.), Täter-Opfer-Ausgleich, Bonn, 1989. (4) Arbeskreis deutscher, schweizerischer und österreichischer Strafrechtslehrer, Alternativ-Entwurf Wiedergutmachung (AE-WGM), München, 1992. (5) Si veda, oltre a A. ESER-G. KAISER-K. MADLENER, Neue Wege der Wiedergutmachung im Strafrecht, cit., anche H. BESTE, Probleme der Schadenswiedergutmachung im Zuge viktimisierter Kriminalpolitik, in MSchrKrim, 1987 (70), 336 ss.; D. FREHSEE, Schadenswiedergutmachung als Instrument strafrechtlicher Sozialkontrolle, Berlin, 1987; C. ROXIN, Die Wiedergutmachung im System der Strafzwecke, in H. SCHÖCH (Hrsg.), Wiedergutmachung und Strafrecht, München, 1987, 37 ss. e nella trad. it. curata da L. Eusebi, Risarcimento del danno e fini della pena, in questa Rivista, 1987, 3 ss.; L. FRÜHAUF, Wiedergutmachung zwischen Täter und Opfer, Gelsenkirchen, 1988; T. WEIGEND, Deliktsopfer und Strafverfahren, Berlin, 1989; D. DÖLLING, Die Weiterentwicklung der Sanktionen ohne Freiheitsentzug im deutschen Strafrecht, in ZStW, 1992, 259 ss.
— 1011 — Wiedergutmachung come terzo binario nel sistema sanzionatorio, accanto a pena (Strafe) e misura di sicurezza (Maßregeln). In tale contesto si prevede che il giudice debba necessariamente ricorrere all’istituto della riparazione quando la pena detentiva da irrogare nel caso concreto non superi i dodici mesi, e sempre che la Strafe (§ 4 AE-WGM) « non sia necessaria » per l’autore (assecondando, quindi, esigenze specialpreventive) o per la collettività (in funzione generalpreventiva). Nelle ipotesi di cui la Wiedergutmachung non corrisponda alla disciplina dell’AE, come pure nei casi che derogano alla regola generale cui si è accennato, alla riparazione si attribuisce efficacia attenuante (§ 5 AE-WGM). Presupposto della operatività dell’istituto è la volontarietà dell’adempimento, che consiste — in via primaria — nel risarcimento del danno subito dal Verletzter e — in via subordinata — in prestazioni alternative, comprensive di profferte di scusa (a favore del Verletzter) nonché di prestazioni lavorative a vantaggio della collettività (§ 2 AE-WGM): dal Täter si esige una assunzione di responsabilità, tanto più realizzabile quanto più egli sia posto a contatto con le conseguenze del fatto (di reato) commesso. I princìpi recepiti dall’AE-WGM (anche nelle disposizioni qui non richiamate per comprensibili ragioni di sintesi) non sono stati unanimemente condivisi dalla dottrina tedesca (tra le cui voci critiche vanno ricordate quelle, ad esempio, di Jescheck, Hirsch e Loos) (6), ma la discussione sull’Alternativ-Entwurf ha avuto una tale eco (7), che in sede parlamentare sono stati presentati diversi Progetti di legge (8), sfociati nella introduzione, nel codice penale, (fra l’altro) del § 46a (9). Alla stregua di quest’ultimo, il giudice può diminuire la pena dell’autore che ripari in tutto o in massima parte il danno cagionato dal reato, o che comunque raggiunga (o si prodighi per raggiungere) la composizione del conflitto con la « vittima » (Täter-Opfer-Ausgleich) del reato. Se la pena è inferiore ad un anno, rientra nella discrezionalità del giudice applicare la citata attenuante o mandare l’autore esente da pena. Ma nemmeno il testo adottato pare soddisfacente, come evidenzia la ricerca di Thomas Wambach (10), pubblicata anch’essa nella Collana curata dal Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht: ancorare una causa di diminuzione (e, se del (6) H.-H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Berlin, 5 Aufl., 1966, 864 ss.; H.J. HIRSCH, Wiedergutmachung im Rahmen des materiellen Strafrechts, in ZStW, 1990, 534 ss., e nella trad. it. Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto penale sostanziale, a cura di G. Fornasari, in AA.VV., Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano, 1991, I, 275 ss.; F. LOOS, Zur Kritik des « Alternativentwurfs Wiedergutmachung », in ZRP, 1993, 51 ss. (7) Alla questione venne dedicata la discussione penalistica in occasione del 59o « Deutscher Juristentag », nel cui contesto va ricordato il significativo intervento di SCHÖCH, Empfehlen sich Aenderungen und Ergänzungen bei den strafrechtlichen Sanktionen ohne Freiheitsentzug?, in Verhandlungen des 59. deutschen Juristentages - Gutachten, München, 1992, I, C. (8) Si veda il Progetto presentato dall’SPD l’11 novembre 1993 (in Deutscher Bundestag 12. Wahlperiode - BT Drucksachen 12/6141), incentrato sulla introduzione di una norma (§ 24a StGB) destinata a disciplinare gli effetti del ravvedimento operoso post delictum — consistente nella riparazione del danno, quando il reato commesso offenda il patrimonio, ma non sia commesso con l’uso o la minaccia della forza contro la persona, e sempre che non vi sia pericolo per l’integrità fisica. Il secondo Progetto (presentato il 18 febbraio 1994, in Deutscher Bundestag 12. Wahlperiode - BT Drucksachen 12/6853) è stato pressoché integralmente recepito dalla legge 28 ottobre 1994, contenente modificazioni del codice penale, del codice di procedura penale e di altri leggi (Verbrechensbekämpfungsgesetz): per alcune considerazioni sul punto cfr. infra nel testo. (9) Le modifiche si devono alla « Legge sulla riforma del codice penale, del codice di procedura penale e di altre leggi » (Verbrechensbekämpfungsgesetz) del 28 ottobre 1994 (BGBl I, 1994, 3186 ss.). (10) Straflosigkeit nach Wiedergutmachung im deutschen und österreichischen Erwachsenenstrafrecht, Freiburg i.Br., 1996, 15 ss.
— 1012 — caso, di esclusione) alla pena della composizione del conflitto con la « vittima », può significare lasciare nelle mani di quest’ultima il destino dell’autore del reato. La centralità del tema nel moderno dibattito penalistico trova conferma in due ulteriori contributi (a cura di A. Eser e S. Walther, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, I, Freiburg i.Br., 1996, e II, Freiburg i.Br., 1997): entrambi raccolgono una disamina delle figure di « riparazione del danno » accolte nei sistemi penali, rispettivamente di Olanda, Inghilterra, Svezia, Finlandia, Polonia e Russia (vol. I), nonché di Stati Uniti, Australia, Uganda e Giappone (vol. II). Gli studi, elaborati e dettagliati, si dipanano attraverso l’approfondimento di un medesimo schema di lavoro: ad una parte incentrata sul rapporto tra sistema sanzionatorio e sistema penale, fa seguito la trattazione delle misure in generale orientate alla riparazione del danno e l’analisi del rilievo che la riparazione assume nel contesto penalistico, non esclusa la via della riparazione a carico dello Stato. A questo proposito particolare risalto è attribuito alla valenza della riparazione sia nella fase procedimentale predibattimentale, come causa di estinzione (a vario titolo considerata) del reato, sia nell’ambito della scelta del tipo di sanzione e di commisurazione della pena, senza trascurare la prospettiva — in taluni ordinamenti tradizionale — dell’inserimento della tutela degli interessi prettamente civilistici nel processo penale. Ogni rassegna si conclude con una riflessione sulla efficacia della legislazione richiamata, intessuta di considerazioni generali su prospettive de lege ferenda. Nell’ottica della qualificazione della riparazione tra le misure « punitive » (e in contrapposizione alla tesi del c.d. terzo binario, suggerita dall’AE-WGM) spicca la proposta olandese imperniata sulla individuazione di essa quale misura di sicurezza (riconducibile, per così dire, al c.d. secondo binario) (11). Rilevante anche lo studio relativo all’ordinamento svedese. Quest’ultimo, pur non riconoscendo la riparazione come autonoma sanzione penale — anzi: relegando il risarcimento del danno (materiale ed immateriale) all’alveo della pretesa civilistica (12) — consente ugualmente al giudice di imporre sanzioni imperniate su prestazioni lavorative: discussa la natura di tali misure (13). Il rapporto statunitense dà conto della storia del movimento per il riconoscimento dei diritti delle vittime del reato che, soprattutto negli anni Settanta, ha portato alla affermazione del principio secondo cui il reato reca offesa alla persona, prima che alla società (14): da qui l’evoluzione della normativa nel senso della progressiva ammissione della vittima alla partecipazione processuale, mediante la previsione di istituti a diverso titolo inseriti nell’iter del procedimento (15), ma ritenuti ancora insufficienti (16). Tuttavia, anche nel sistema americano la rilevanza della vittima e dei suoi diritti si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio (secondo uno schema « tradizionale », che l’AE-WGM del 1992 si prefiggeva di sovvertire). Pur in mancanza di una complessiva ed omogenea politica mirata al rafforzamento di istituti riparatori, risalgono al 1965 (California) i primi interventi nel senso della valutazione degli interessi della vittima (17) culminata con l’adozione del Federal Service Guidelines, alla cui stregua la volontaria riparazione del danno prima della decisione consente l’attenuazione della pena (17-bis). I due rapporti nazionali giapponesi, attraverso una ricerca empirica ricca di dati e di (11) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, I, Freiburg i.Br., 1996, 56 s. (12) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, I, cit., 271. (13) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, I, cit., 271 e 278 s. (14) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, II, Freiburg i.Br., 1997, 30. (15) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, II, cit., 32 ss. (16) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, II, cit., 105. (17) A. ESER e WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, II, cit., 87 ss. (17-bis) A. ESER e S. WALTHER, Wiedergutmachung im Kriminalrecht, II, cit., 57 ss.
— 1013 — preziose informazioni raccolte con riferimento alle diverse tipologie di illeciti e di « vittime », evidenziano, da un lato, l’insanabilità del conflitto generato dalla commissione del reato; dall’altro, la difficoltà di conciliare il profilo « satisfattorio » della riparazione, legato al contenuto riconciliativo delle prestazioni effettuate dall’autore del crimine, con le esigenze del sistema sanzionatorio. Ancòra in tema di tutela della vittima del reato, la collana del Max-Planck-Institut si arricchisce di un contributo articolato sul raffronto « a tema » tra le normative europee. Desmond Greer (in Compensating Crimes Victims. A European Survey, Freiburg i.Br., 1996) scandaglia le reali ripercussioni della Convenzione Europea n. 116/1983, concernente il risarcimento alle vittime dei reati violenti (18), nei singoli ordinamenti che hanno provveduto alla sua ratifica. L’indagine, estesa anche a Paesi europei che formalmente non hanno recepito la Convenzione pur prevedendo una normativa a tutela delle vittime di reati (Austria, Belgio, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna), illustra l’evoluzione del dibattito e della riflessione legislativa ispirata alla necessità (imposta dalla Convenzione) di creare, da parte di ciascuno Stato, Fondi finalizzati alla riparazione del danno cagionato alle « vittime » del reato. Lo studio, aggiornato al 30 aprile 1996 (19), rileva che soltanto in nove Stati (rispetto ai tredici firmatari: Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Svezia, Svizzera, Turchia) si è tentato di dare attuazione alla Convenzione, sebbene, come anticipato, anche in altri ordinamenti venga riconosciuta qualche forma di indennizzo statale. Stabilito il principio secondo cui l’obbligato principale alla riparazione è l’autore del reo di injury or death (artt. 9 e 10 Conv.), si comprende come la prima parte dei rapporti nazionali sia dedicata alla disciplina prevista affinché la vittima possa agire nei confronti del reato per ottenere il risarcimento del danno. Una delle difficoltà più avvertite consiste nella qualificazione giuridica della erogazione corrisposta dallo Stato, tanto che a tutt’oggi, e salvo rare eccezioni (così, ad esempio, la Danimarca) (20), tale indennizzo è ritenuto configurare un atto di benevolenza da parte della comunità statale, non riconosciuto come diritto del singolo. Se si pone mente alla tipologia delle aggressioni cui la Convenzione fa riferimento (lesioni della persona e della vita) e alla progressiva espansione dell’ambito della loro rilevanza, maggiormente meritevole di pregio appare l’analisi dei sistemi giuridici che, attraverso l’impegno nella attuazione della Convenzione, hanno compiuto un primo passo nella direzione della integrazione europea sul tema della tutela della vittima. Una integrazione necessaria, nonostante la predisposizione di un testo comune (la Convenzione, appunto), stante che la diversità dei princìpi informatori dei singoli ordinamenti (non solo in materia penale, ma relativamente anche al sistema di sicurezza sociale) porta ad una differente interpretazione della disciplina, pur (tendenzialmente) comune: dal concetto di compensation ai criteri di commisurazione del danno cagionato alla vittima, ai riscontri statistici sulla effettiva applicazione delle diverse normative. La ricerca evidenzia che, di fatto, la ratifica della Convenzione, al di là delle enunciazioni di principio, non assicura eguaglianza di trattamento tra i singoli Paesi firmatari. Basti pensare al concetto di « offesa rilevante » (conseguente al reato), che la Convenzione considera quale presupposto per la concessione della riparazione, e che viene ragguagliato alla incapacità lavorativa della « vittima »: in Francia, ad esempio, la soglia minima è di un mese (21); per contro, l’Austria (22), che, pur non essendo firmataria della Convenzione, (18) (19) 1996, 11. (20) (21) (22)
Il testo è pubblicato in questa Rivista, 1984, 775 ss. D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, Freiburg i.Br., D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, cit., 133 e 155. D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, cit., 230. D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, cit., 35.
— 1014 — tuttavia ha adottato una disciplina che ne riflette l’ispirazione di fondo, stabilisce in sei mesi il limite inferiore. Altra problematica evidenziata dall’indagine è quella afferente alle fonti di sovvenzionamento destinate ad alimentare i Fondi da cui attingere per provvedere all’indennizzo delle « vittime ». I rapporti nazionali sottolineano che la tutela predisposta dalle legislazioni statali si rivela per lo più insoddisfacente, da un lato, per la difficoltà di reperire detti Fondi; dall’altro, perché si tratta di un intervento subordinato all’inadempimento delle obbligazioni riparatorie incombenti sull’autore del reato (mentre, come ricordato, si va diffondendo un orientamento favorevole ad incoraggiare la composizione del conflitto tra autore e « vittima »). D’altro canto, i singoli Stati, accogliendo soluzioni ispirate a schemi di solidarietà sociale, negano il « diritto pubblico » delle vittime dei reati di violenza ad ottenere una riparazione da parte dello Stato. Nell’ambito degli ordinamenti nazionali, particolarmente interessante il rapporto francese. L’analisi della legislazione, oltre che della giurisprudenza, rivela la sensibilità di quell’ordinamento per la questione in discussione, cui già la legge 77-5 del 3 gennaio 1977 dava riscontro attraverso l’introduzione, nel codice di procedura penale, di alcune norme in tema di indennizzo alle vittime dei reati: successivi interventi normativi hanno ampliato e ridefinito l’ambito di « riparabilità » per le « vittime » di tipologie determinate di reato (23). Significativa anche l’esperienza del Regno Unito, che ha dedicato speciale attenzione alla questione della individuazione delle « voci di danno » riparabili attraverso l’intervento statale: al punto che nel 1994 si è introdotto un controverso sistema tariffario, successivamente superato dalla riforma del 1996, che ha recuperato le linee direttrici della disciplina del 1990, con la quale si erano recepiti i princìpi della Convenzione (24). Un rimprovero particolare va al legislatore italiano che, nonostante l’emanazione di provvedimenti disciplinanti l’indennizzo destinato alle vittime di particolari ipotesi di reato (25), non ha né ratificato la Convenzione, né predisposto una disciplina generale (con corrispondente istituzione di un Fondo) relativa alle « vittime » di tutti i reati violenti. Vero è che la normativa vigente afferma princìpi non dissimili da quelli enunciati dalla Convenzione: va tuttavia ribadito che la mancata adesione a quest’ultima, da parte di un sistema che valorizza il ruolo della persona offesa (art. 90 c.p.p.) e del soggetto civilmente danneggiato (parte civile: art. 74 c.p.p.) — nonché degli enti ed associazioni « rappresentative di interessi lesi dal reato » (artt. 91 ss. c.p.p.) — nel procedimento penale, è sintomatica della tendenza, fatta eccezione per ipotesi di reato specifiche e ritenute contrassegnate da particolare disvalore, a circoscrivere la problematica della riparazione del danno subìto dalla « vittima » del reato alla relazione « privata » tra la stessa « vittima » e l’autore dell’illecito (26). (Désirée Fondaroli)
(23) D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, cit., 196 ss. (24) D. GREER, Compensating Crimes Victims. A European Survey, cit., 590 ss. (25) Si veda la legge 20 ottobre 1990, n. 302, contenente « norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata »; il d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, conv. con mod. nella legge 18 febbraio 1992, n. 172, relativo alla « Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive », riformato dal d.l. 27 settembre 1993, n. 382, conv. con mod. nella legge 18 novembre 1993, n. 468; infine, l’art. 14 della legge 7 marzo 1996, n. 108, relativo alla istituzione di un « Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura » nonché l’art. 15 della medesima legge, concernente la istituzione di un « Fondo per la prevenzione del fenomeno dell’usura ». (26) Per alcune riflessioni su queste tematiche, ci permettiamo di rinviare al nostro Illecito penale e riparazione del danno, Milano, in corso di pubblicazione.
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE — 17-24 giugno 1997, n. 192 Pres. Granata — Rel. Neppi Modona Ordinanza Pretura di Lucera in c. Fratello Misure cautelari personali — Deposito dell’ordinanza cautelare e degli atti del p.m. — Difensore — Diritto di estrarre copia — Omessa previsione — Illegittimità costituzionale (Cost. artt. 3, 24; c.p.p. art. 293, comma 3o). L’art. 293, comma 3o, c.p.p. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha diposto la misura cautelare, della relativa richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa (1). (Omissis). — CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. La questione sottoposta alI’esame della Corte ha per oggetto l’art. 293, comma 3o, c.p.p., così come novellato dalla l. 8 agosto 1995, n. 332, nella parte in cui non prevede che al deposito nella cancelleria del giudice dell’ordinanza che ha disposto la misura della custodia cautelare, ovvero misura diversa dalla custodia cautelare, unitamente alla richiesta del pubblico ministero e agli atti presentati con la stessa, consegua il diritto del difensore di estrarre copia degli atti depositati. Ad avviso del Giudice rimettente, tale disciplina contrasterebbe con l’art. 24 Cost., in quanto il diritto di difesa verrebbe irragionevolmente ostacolato in un contesto in cui non sussistono esigenze di riservatezza tali da giustificarne il sacrificio, nonché con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina censurata creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla situazione ontologicamente eguale disciplinata dalI’art. 309, comma 8o, c.p.p., anch’esso modificato dalla l. n. 332 del 1995, ove è espressamente previsto che al deposito degli atti in cancelleria prima dell’udienza di riesame si accompagna la facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. 2. Prima di affrontare le censure di legittimità costituzionale prospettate dal giudice rimettente, è opportuno esaminare la disciplina che, prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 332 del 1995, gli artt. 293, comma 3o, e 309, comma 8o, c.p.p. riservavano al deposito degli atti in cancelleria, rispettivamente dopo l’ese-
— 1016 — cuzione dell’ordinanza di custodia cautelare e prima dell’udienza di riesame, nonché le posizioni assunte al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità. Il testo originario dell’art. 293, comma 3o, c.p.p. stabiliva che, dopo l’esecuzione o notificazione, veniva depositato in cancelleria solo il testo dell’ordinanza che aveva disposto la custodia cautelare o altra misura diversa dalla custodia cautelare. A sua volta, nella formulazione originaria l’art. 309. comma 8o, c.p.p. stabiliva che, in caso di richiesta di riesame, gli atti presentati dal pubblico ministero a norma dell’art. 291, comma 1o, c.p.p. (cioè la richiesta di misura cautelare e gli elementi su cui la richiesta stessa si fondava) restavano depositati in cancelleria fino al giorno dell’udienza. Tale disciplina aveva comportato l’effetto, ripetutamente denunciato dalla dottrina e dagli operatori giudiziari, di indurre la persona sottoposta a custodia cautelare a presentare talvolta richiesta di riesame al solo scopo di venire a conoscenza, per ovvie esigenze di difesa, anche della richiesta del pubblico ministero e degli elementi con la stessa presentati, dei quali l’art. 309, comma 8o, c.p.p. prevedeva appunto il deposito in cancelleria prima dell’udienza di riesame. Dal canto suo, l’art. 309, comma 8o, c.p.p. aveva sollevato contrastanti interpretazioni giurisprudenziali. Alcune sentenze, sia di legittimità che di merito, avevano affermato che il deposito degli atti in cancelleria comportava automaticamente la facoltà del difensore di estrarne copia, in quanto il deposito è finalizzato alle esigenze della difesa di completa conoscenza e utilizzazione degli atti depositati; esigenze che trovano appunto attuazione mediante il diritto di estrarre copia. Più numerose erano però state le sentenze della Corte di cassazione che avevano aderito ad una interpretazione letterale-sistematica dell’art. 309, comma 8o, c.p.p., poi confermata dalle Sezioni unite (sentenza 3 febbraio 1995). Alla stregua di tale interpretazione, il deposito degli atti e il diritto di estrarne copia operano su piani diversi, nel senso che l’esercizio del secondo non è necessaria conseguenza del primo. L’assunto riposa su considerazioni sistematiche tratte dal combinato disposto degli artt. 116 c.p.p. e 43 disp. att., da cui si ricaverebbe la regola generale che il rilascio di copie a chiunque vi abbia interesse è subordinato all’autorizzazione del pubblico ministero o del giudice che procede, salvi i casi in cui la legge espressamente riconosce al richiedente il diritto al rilascio delle copie (ad esempio, artt. 366, comma 1o, 430, comma 2o, 438, comma 2o, 450, comma 6o e 466 c.p.p.). La l. n. 382 del 1995, inserendo nel comma 8o dell’art. 309 c.p.p. l’espressa facoltà del difensore di esaminare e di estrarre copia degli atti depositati in cancelleria, ha quindi risolto legislativamente il contrasto giurisprudenziale su cui erano intervenute le Sezioni unite della Cassazione. Analoghi problemi interpretativi sono rimasti peraltro aperti con riferimento alla norma oggetto della presente questione di legittimità costituzionale: la l. n. 882 del 1995 ha infatti modificato anche l’art. 293, comma 3o, c.p.p., stabilendo che insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare vengano depositati in cancelleria la richiesta del pubblico ministero e gli atti presentati con la stessa, ma non ha menzionato espressamente la facoltà del difensore di estrarne copia. Si sono così riproposti nei confronti dell’art. 298, comma 3o, c.p.p. i medesimi problemi interpretativi che si ponevano nei confronti dell’art. 309, comma 8o, c.p.p. prima della modifica introdotta con la l. n. 332 del 1995.
— 1017 — 3. Alla luce delle vicende legislative e giurisprudenziali degli artt. 293, comma 3o, e 309, comma 8o, c.p.p., la questione di legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio è fondata in riferimento all’art. 24 Cost. Se si riflette sulla ratio dell’istituto, il deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve, di regola, comportare necessariamente, insieme al diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia. Al contenuto minimo del diritto di difesa, ravvisabile nella conoscenza degli atti depositati mediante la loro visione, deve cioè accompagnarsi automaticamente, salvo che la legge disponga diversamente, la facoltà di estrarne copia, al fine di agevolare le ovvie esigenze del difensore di disporre direttamente e materialmente degli atti per preparare la difesa e utilizzarli nella redazione di richieste, memorie, motivi di impugnazione. Nel disciplinare la materia, il legislatore ha peraltro ritenuto di dovere indicare espressamente una serie di casi in cui al deposito degli atti si accompagna la facoltà di estrarne copia [cfr. ad esempio, oltre al già menzionato art. 309, comma 8o, c.p.p., gli artt. 310, comma 2o, 366, comma 1o, 419, comma 2o, in relazione all’art. 131 disp. att., 430, comma 2o, 433, comma 2o, 450, comma 6o, 457, comma 2o, 455, comma 1o, lett. g), c.p.p., nonché gli artt. 93, 139, 140, 161 disp. att.], mentre in altre e meno numerose situazioni, tra cui quella oggetto della presente questione di legittimità costituzionale, viene invece previsto solo il deposito degli atti, con o senza avviso al difensore (v., ad esempio, gli artt. 296, comma 2o, 324, comma 6o, 408, comma 3o, c.p.p.). La sopra menzionata sentenza delle Sezioni unite della Cassazione si è appunto richiamata al combinato disposto degli artt. 116 c.p.p. e 43 disp. att. per affermare il principio che, in tutti i casi in cui il diritto di estrarre copia non è espressamente riconosciuto dalla legge, il rilascio delle copie è subordinato, a norma dell’art. 116, comma 2o, c.p.p., all’autorizzazione dell autorità giudiziaria che procede, cui spetta valutare se sussistono esigenze processuali tali da prevalere sulla piena esplicazione del diritto di difesa. Esula peraltro dai confini della specifica questione di legittimità costituzionale dedotta nel presente giudizio prendere in esame la congruità della disciplina apprestata dal legislatore in tutti i casi in cui al deposito degli atti non si accompagna la facoltà del difensore di estrarne copia. La Corte deve limitarsi alla specifica questione di legittimità costituzionale posta nei confronti dell’art. 298, comma 3o, c.p.p.: al riguardo, non vi è dubbio che il diritto di difesa risulta ingiustificatamente ostacolato e compresso dal mancato riconoscimento della facoltà del difensore di estrarre copia degli atti depositati insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare. La ratio della modifica introdotta dalla l. n. 332 del 1995 è, infatti, di consentire al difensore pieno accesso agli atti depositati dal pubblico ministero, sul presupposto che, dopo l’esecuzione della misura cautelare, non sussistono ragioni di riservatezza tali da giustificare limitazioni al diritto di difesa; al contrario, dopo l’esecuzione della misura cautelare deve essere consentito il pieno esercizio del diritto di difesa (cfr. in tale senso sentenza n. 219 del 1994), assicurando al difensore la più ampia e agevole conoscenza degli elementi su cui si è fondata la richiesta del pubblico ministero, al fine di rendere attuabile una adeguata e informata assistenza all’interrogatorio della persona sottoposta alla misura cautelare ex art. 294 c.p.p., nonché di valutare con piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per tutelare la libertà personale del proprio assistito, dalla richie-
— 1018 — sta di riesame ovvero di revoca o sostituzione della misura alla proposizione dell’appello. Se questi sono gli obiettivi perseguiti dal legislatore del 1995 mediante la modifica del testo originario dell’art. 293, comma 3o, c.p.p., la mera conoscenza degli atti depositati dal pubblico ministero, non accompagnata dal diritto di estrarne copia, rappresenta una ingiustificata limitazione del diritto di difesa, che nel caso di specie si pone in irrimediabile contrasto con l’art. 24 Cost. La disciplina limitativa non trova infatti ragione né nell’esigenza di riservatezza, ormai superata dall’esecuzione della misura cautelare, né nel timore che le operazioni di rilascio delle copie possano interferire con i termini rapidi e vincolanti previsti per l’interrogatorio e, poi, per la presentazione dell’istanza di riesame e per la relativa decisione, essendo evidente che né il difensore potrà pretendere, né l’autorità giudiziaria potrà concedere dilazioni di tali termini ove risulti materialmente impossibile procedere alla copia di tutti gli atti richiesti entro le rigide cadenze previste per l’interrogatorio e per l’udienza di riesame. Rimane così assorbita la censura di legittimità sollevata con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost. (Omissis).
—————— (1)
Un’altra tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato.
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La questione di legittimità dell’art. 293, comma 3o, c.p.p. — 3. La sentenza n. 192 del 17 giugno-24 giugno 1997 della Corte costituzionale. — 4. I limiti della decisione della Corte.
1. Non è infrequente che le riforme, soprattutto se di vasto respiro, presentino lacune, denuncino limiti di previsione, manifestino, al contatto con il fluire quotidiano delle cose, insufficienze non immaginate, suggeriscano soluzioni più adeguate solo in tempi successivi alla loro attuazione. È communis opinio che le disposizioni sulla libertà personale introdotte con la l. 8 agosto 1995, n. 332 abbiano inciso profondamente sulla disciplina previgente (cfr. E. AMODIO, Premessa, in AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di E. AMODIO, Milano, 1996, p. 3 s.), potendo così osservare come, al di là di qualche voce ispirata ad una ancor più rigorosa ‘‘ragion di Stato’’ in subiecta materia, vi sia stata una consonanza nel sottolineare l’indubbio passo garantistico di molte delle scelte tecniche operate nel 1995 (così E. AMODIO, La nuova disciplina delle misure cautelari personali, in Nuove norme, cit., p. 11 s.). Ciò non toglie, tuttavia, che qualche snodo operativo sia rimasto nella penna del legislatore e prontamente colto dalla sensibilità di un giudice di merito (precisamente il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Lucera), uno di essi sia stato portato alla valutazione della Corte costituzionale. 2. L’art. 293, comma 3o, c.p.p. era stato modificato dall’art. 10, comma 1o, della l. 8 agosto 1995, n. 332 (sulla portata sistematica della ‘‘novella’’ si fa rinvio a GALBUSERA, Il procedimento applicativo, in AA.VV., Nuove norme, cit. p. 41 s.). La originaria disposizione, prevedeva che l’ordinanza applicativa di custodia cautelare o di misure diverse dalla medesima dopo la ‘‘notificazione o esecuzione’’ andava depositata nella cancelleria del giudice che l’aveva emessa; ora si è stabilito che tale ordinanza va depositata insieme alla richiesta di applicazione della misura
— 1019 — del pubblico ministero ed agli atti presentati al G.I.P. dal pubblico ministero con la relativa richiesta. La modifica dell’art. 293 c.p.p. sul punto de quo, rappresentava il riflesso della novella, altrettanto significativa, del comma 1o dell’art. 291 c.p.p., con la quale si è disposto che la richiesta del pubblico ministero di applicazione di una misura restrittiva della libertà personale al giudice delle indagini preliminari vada corredata di tutti ‘‘gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché’’ di ‘‘tutti gli elementi a favore dell’imputato e’’ delle ‘‘eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate’’. La imposizione di un dovere di discovery al pubblico ministero rispetto all’attività funzionale del G.I.P. relativa alla emissione di un provvedimento cautelare era completata da un dovere del G.I.P. di depositare in cancelleria gli stessi elementi probatori o di indagine offerti dal pubblico ministero alla sua valutazione, al fine di consentire una contrapposta analisi alla difesa — sia pure a posteriori — dell’indagato sottoposto a misura cautelare. La norma dell’art. 293, comma 3o, c.p.p. non prevedeva, tuttavia, testualmente che il difensore e le parti avessero il diritto ‘‘di estrarre copia degli atti depositati’’, fermo restando il diritto, ovviamente, di prenderne visione, diritto quest’ultimo intrinsecamente connaturato al dovere di deposito in cancelleria da parte del G.I.P. (cfr. GALBUSERA, op. loc. citt.). Partendo da tale premessa (che la legge non avesse conferito al difensore il diritto di estrarre copia degli atti in oggetto; esisteva anche qualche precedente in tal senso: v. M.R. MARCHETTI, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, Milano, 1997, p. 1140) il giudice remittente aveva sottolineato che una tale disciplina apparisse in contrasto con l’art. 24, comma 2o della Costituzione, ‘‘in quanto il diritto di difesa verrebbe irragionevolmente ostacolato in un contesto in cui non esistono esigenze di riservatezza tali da giustificarne il sacrificio, nonché con l’art. 3 della Costituzione, in quanto la disciplina censurata creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla situazione ontologicamente eguale disciplinata dall’art. 309, comma 8o, c.p.p... ove è espressamente previsto che al deposito degli atti in cancelleria prima dell’udienza di riesame si accompagni la facoltà del difensore di esaminarli e di estrarne copia’’. Da notare che con la stessa l. n. 332 del 1995 era stato modificato l’art. 309, comma 8o, c.p.p. attribuendo all’indagato che avesse proposto una richiesta di riesame l’esplicito diritto ad avere copia degli atti depositati fino al giorno dell’udienza davanti al Tribunale della libertà; un novum legislativo giustamente considerato tra i ‘‘ritocchi apparentemente di dettaglio ma sicuramente di alta significazione’’: così A. CRISTIANI, Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, p. 77; cfr. altresì, M. POLVANI, Le impugnazioni de libertate, Padova, 1998, p. 281 s. Il silenzio del legislatore sulla sussistenza di un diritto ad estrarre copia degli atti depositati e lasciati in visione ai sensi dell’art. 293, comma 3o, c.p.p. risaltava, dunque, ancora di più, consentendo, così di dar credito all’opinione secondo cui il rilascio di tali copie dovesse passare per il tramite di un provvedimento autorizzativo del magistrato ai sensi dell’art. 116 c.p.p.; proprio facendo leva sul silenzio del legislatore anche la dottrina più attenta alle garanzie difensive era giunta a sostenere che, escludendo una ‘‘interpretazione estensiva’’ dell’art. 293, comma 3o, c.p.p., la formula legislativa, così come era stata ‘‘coniata’’ dal legislatore del 1995, portava a ritenere che il difensore avesse solo la ‘‘facoltà di domandare ai sensi dell’art. 116 c.p.p., il rilascio di copie, non il diritto di ottenerle, non essendogli tale diritto espressamente riconosciuto, come richiede l’art. 43 disp. att.’’; così G. GIOSTRA, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 144; cfr. sul punto altresì, D. MANZIONE, in Commento al codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, 3o aggior., Torino, 1998, p. 252.
— 1020 — 3. Chiamata a decidere sull’eccezione in oggetto, la Corte costituzionale con la sentenza che si annota 17 giugno 1997-24 giugno 1997, n. 192 (in Gazz. Uff. Prima serie speciale - n. 27, 2 luglio 1997, pp. 19-22) l’ha accolta dichiarando ‘‘l’illegittimità costituzionale dell’art. 293, comma 3o, c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarne copia, insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa’’ (se ne veda un commento in R. BRICHETTI, Percorsa la strada dell’illegittimità per interpretare la riforma del 1995, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, n. 25, 1997, p. 69 s., nonché G. DI CHIARA, Deposito degli atti e diritto alla copia: prodromi del contraddittorio e garanzie difensive in una recente declaratoria di incostituzionalità, in Giur. cost., 1997, p. 1883 e G. RANALDI, Discovery completa ed effettività della difesa nei controlli de libertate, in Giur. cost., 1997, p. 1890 s.). La sentenza, al di là dell’importanza del dictum decisorio, offre nell’articolata motivazione spunti sistematici e contiene messaggi interpretativi che vanno registrati in quanto suscettibili di utilizzazione al fine di superare dubbi o colmare lacune che residuassero per situazioni analoghe. La Corte, infatti, non ha mancato di osservare preliminarmente che esaminando la ‘‘ratio dell’istituto’’ non si può non ritenere che ‘‘il deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve, di regola, comportare necessariamente, insieme al diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia’’; e ciò, ‘‘al fine di agevolare le ovvie esigenze del difensore di disporre direttamente e materialmente degli atti per preparare la difesa e utilizzarli nella redazione di richieste, memorie, motivi di impugnazione’’. La Corte, peraltro, ha dovuto constatare che, pur valida su un piano di principio, la correlazione tra diritto di difesa, presa visione, conoscenza degli atti e diritto di estrarne copia, non è sempre stata prevista dal legislatore ordinario; quest’ultimo, da un lato, ha ‘‘ritenuto di dovere indicare espressamente una serie di casi in cui al deposito degli atti si accompagna la facoltà di estrarne copia (cfr. ad esempio, oltre al già menzionato art. 309, comma 8o, c.p.p., gli artt. 310, comma 2o, 366, comma 1o, 419, comma 2o, in relazione all’art. 131 disp. att., 430, comma 2o, 433, comma 2o, 450, comma 6o, 457, comma 2o, 455, comma 1o, lett. g), c.p.p., nonché gli artt. 93, 139, 140, 161 disp. att.), mentre in altre e meno numerose situazioni, tra cui quella oggetto della presente questione di legittimità costituzionale, viene invece previsto solo il deposito degli atti, con o senza avviso al difensore (v., ad esempio, gli artt. 296, comma 2o, 324, comma 6o, 408, comma 3o, c.p.p.)’’. A ciò si deve aggiungere che il diritto ‘‘vivente’’ andava identificato anche in funzione di quanto aveva precisato la Corte di cassazione a Sezioni unite, con sentenza 3 febbraio 1995 ricorrente Sciancalepre — dep. il 14 aprile 1995 — (vedila citata in Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, a cura di G. GATTI, Napoli, 1996, p. 2300), nonché in Cass. pen., 1995, p. 2488 s. con nota di F. FABBRI, Il diritto al rilascio di copia degli atti depositati nel giudizio di riesame fra la giurisprudenza delle Sezioni unite e le modifiche legislative ed in Giur. it., 1995, I e 601 s. con nota di F.R. DINACCI, Incostituzionale l’orientamento delle Sezioni unite sul diritto di copia degli atti nei controlli de libertate), secondo la quale si poteva ritenere sussistente un principio, ricavabile dal ‘‘combinato disposto degli artt. 116 c.p.p. e 43 disp. att.’’, secondo cui ‘‘in tutti i casi in cui il diritto di estrarre copia non è espressamente riconosciuto dalla legge, il rilascio delle copie è subordinato... all’autorizzazione dell’autorità giudiziaria che procede, cui spetta valutare se sussistono esigenze processuali tali da prevalere sulla piena esplicazione del diritto di difesa’’. La Corte ha dovuto, cioè, affrontare il problema se la difesa dell’imputato potesse ritenersi garantita pienamente allorché dipenda da una ‘‘autorizzazione del-
— 1021 — l’autorità giudiziaria’’ la concreta attuazione del diritto di avere materialmente la copia di atti che pur può prendere ed avere in visione. I Giudici della Consulta non hanno voluto affrontare la problematica nella sua globalità, precisando di non voler uscire ‘‘dai confini della specifica questione di legittimità costituzionale dedotta nel presente giudizio’’ e, quindi, non hanno inteso ‘‘prendere in esame la congruità della disciplina apprestata dal legislatore in tutti i casi in cui al deposito degli atti non si accompagna la’’ previsione testuale della ‘‘facoltà del difensore di estrarre copia’’. Pur limitandosi dunque alla questione di legittimità ‘‘costituzionale posta nei confronti dell’art. 293, comma 3o, c.p.p.’’ — ma vedremo che la portata dei principi affermati va ben oltre la fattispecie concreta — la Corte è arrivata a ritenere compresso il diritto di difesa, con conseguente violazione dell’art. 24, comma 2o, Cost., nel mancato riconoscimento ‘‘della facoltà del difensore di estrarre copia degli atti depositati insieme all’ordinanza che ha disposto la misura cautelare’’. Questi i più importanti passaggi argomentativi: — la modifica introdotta dalla l. n. 332 del 1995 sull’art. 293, comma 3o, era finalizzata a consentire il ‘‘pieno accesso agli atti depositati dal pubblico ministero’’; — tale accesso è giustificato dal fatto che ‘‘dopo l’esecuzione della misura cautelare, non sussistono ragioni di riservatezza’’ tali da giustificare limitazioni al diritto di difesa; — sempre dopo l’esecuzione della misura cautelare, al difensore dev’essere garantita ‘‘la più ampia ed agevole conoscenza degli elementi’’ probatori sui quali il pubblico ministero ha fondato la sua richiesta, al fine di rendere ‘‘attuabile una adeguata ed informata assistenza all’interrogatorio della persona sottoposta alla misura cautelare ex art. 294 c.p.p., nonché di valutare con piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per tutelare la libertà personale del proprio assistito, dalla richiesta di riesame ovvero di revoca o sostituzione della misura alla proposizione dell’appello’’ (cfr., altresì, V. GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995, n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, a cura di V. GREVI, Milano, 1996, p. 210, e M.R. MARCHETTI, in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, cit., loc. cit.; sulla stretta correlazione tra interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p. e diritto alla visione degli atti depositati ex art. 293, comma 3o, c.p.p., cfr. V. BONINI, La Corte costituzionale e la centralità dell’‘‘interrogatorio di garanzia’’ nella disciplina delle misure cautelari personali, in La leg. pen., 1997, p. 867). Sulla base di tali ‘‘obiettivi’’ perseguiti dal legislatore del 1995, si è argomentato che ‘‘la mera conoscenza degli atti depositati dal pubblico ministero, non accompagnata dal diritto di estrarne copia, rappresenta una ingiustificata limitazione del diritto di difesa... in irrimediabile contrasto con l’art. 24 della Costituzione’’. Avendo dunque la difesa dell’imputato soprattutto un incondizionato diritto ad avere la copia di tutti gli atti depositati dal p.m. non vi è più spazio per una discrezionalità della autorità giudiziaria al fine di eventualmente negare il rilascio delle copie stesse; ne segue, come è stato esattamente sottolineato, che: ‘‘il diniego, incidendo sulla assistenza dell’imputato (ex art. 178, comma 1o lett. c), invalida la sequela procedimentale successiva, rendendo’’ nullo l’‘‘interrogatorio di ‘‘garanzia’’ (ex art. 294 c.p.p.) e, quindi, inefficace la custodia (ex art. 302 c.p.p.), fatta salva l’ipotesi in cui la parte che vi assiste ometta di eccepirne in limine l’invalidità’’; così G. RANALDI, Discovery completa, cit., p. 1895; un’opinione meno drastica (v. D. MANZIONE, op. cit., p. 253) vorrebbe circoscrivere la nullità ai soli atti ‘‘ai quali il deposito intende assicurare una partecipazione ‘informata’ e quindi l’interrogatorio ed il riesame’’. 4.
Non sfugge l’importanza delle affermazioni della sentenza della Corte, ri-
— 1022 — spetto alle quali l’interprete non può che compiacersene; è anche da sottolineare che il dictum decisorio, pur volutamente riferito ad una singola fattispecie, deve considerarsi applicabile, in quanto enuncia un principio generale, a tutte le situazioni che presentino identici presupposti ed analoghe finalita (cfr. sul punto G. DI CHIARA, Deposito degli atti, cit., p. 1890). Non va sottovalutato, tuttavia, un passaggio della decisione che, pur rappresentando un obiter dictum, circoscrive, con un realismo se si vuole un po’ crudo, ma purtroppo correlabile ad una non sempre felice, ma diffusa realtà giudiziaria, la portata della sentenza. La Corte, infatti, ha sottolineato come il diritto ad estrarre copia potrebbe di fatto essere frustrato da impedimenti operativi legati al funzionamento concreto delle singole cancellerie e dei collegati uffici copia: non è infrequente che vi siano difficolta ad ottenere in tempi brevi le copie degli atti; per tali situazioni la Corte ha precisato che la sussistenza di un diritto astratto ad avere tali copie non può ‘‘interferire con i termini rapidi e vincolanti previsti per l’interrogatorio e, poi, per la presentazione dell’istanza di riesame e per la relativa decisione, essendo evidente che né il difensore potra pretendere, né l’autorità giudiziaria potrà concedere dilazioni di tali termini ove risulti materialmente impossibile procedere alla copia di tutti gli atti richiesti entro le rigide cadenze previste per l’interrogatorio e per l’udienza di riesame’’. Con tali rilievi la Corte, come si suol dire, vuole mettere ‘‘le mani avanti’’; si sa bene che non di rado talune garanzie, pur astrattamente riconosciute, devono fare i conti con una realtà giudiziaria per molti versi mortificante: insufficienza di personale, inadeguatezza delle macchine operatrici, proliferazione a dismisura dei carichi giudiziari, dovuti spesso alla ipertrofia di indagini preliminari che, avviate in funzione di un singolo reato, finiscono per diventare inchieste a largo raggio. Gli interrogativi sui quali portare la riflessione sono allora altri, ben più ardui della soluzione di un quesito interpretativo su una singola norma di legge. Si aprono gli scenari delle scelte di politica processuale, si intravvedono gli irrisolti problemi delle opzioni operate con le leggi di bilancio dello Stato per il servizio giustizia (è del tutto insufficiente in percentuale l’ammontare delle risorse destinate in proposito), la professionalità e la redditività lavorativa in tale area, in parole diverse tutti i problemi attuali della giustizia, non solo penale (e forse non solo attuali perché figurano, sia pure in termini diversi, già in quella lucida denuncia di Ludovico Antonio Muratori che, alla metà del 1700, scriveva il saggio Dei difetti della giurisprudenza). Certo non è appagante dovere constatare che anche la Corte costituzionale si è dovuta arrendere e, pur affermando un principio di grande portata per il sistema del processo penale, ha dovuto ‘‘allargare le braccia’’ sconsolatamente, con l’ammonire i difensori un po’ sprovveduti perché ancora fiduciosi della valenza assoluta di valori tanto autorevolmente rimarcati: ‘‘non chiedete piu di tanto’’; la quotidiana realtà del foro potrebbe far restare il diritto ad avere tempestivamente copie di atti processuali un mero flatus vocis. È troppo poco, ma è così. Eppure sono incessanti gli appelli che la dottrina continua accoratamente ad indirizzare al legislatore ed alla giurisprudenza: ‘‘la vera efficienza processuale è tale solo se ingloba anche l’efficienza nel riconoscimento e nello sviluppo delle garanzie processuali’’ (così M. CHIAVARIO, Garanzie individuali ed efficienza del processo, in Cass. pen., 1998, p. 1516). Viviamo tempi istituzionalmente complessi e difficili; c’è da pensare che tali appelli non siano nemmeno percepiti. ANGELO GIARDA
— 1023 — CORTE COSTITUZIONALE — Sentenza 15-22 ottobre 1997, n. 311 Pres. Granata — Rel. Zagrebelsky — Imp. G.G. ed altri (G.U., 1a serie speciale, n. 44 del 29 ottobre 1997) Giudice penale — Processo a carico d’imputati minorenni — Giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine ad una misura cautelare nei confronti dell’imputato — Successiva partecipazione all’udienza preliminare — Incompatibilità — Omessa previsione — Illegittimità costituzionale (Cost., artt. 3, 24, 25, 27, 101; c.p.p., art. 34). Giudice penale — Processo a carico d’imputati minorenni — Giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta del p.m. di declaratoria di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto — Successiva partecipazione all’udienza preliminare — Incompatibilità — Omessa previsione — Infondatezza (Cost., artt. 3, 24, 25, 101; c.p.p., art. 34). È costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare nel processo penale a carico d’imputati minorenni del giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine ad una misura cautelare personale nei confronti dello stesso imputato (1). È infondata, in riferimento agli artt. 3, comma 1; 24, comma 2; 25, comma 1 e 101, comma 2, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo penale a carico d’imputati minorenni il giudice per le indagini preliminari che abbia, in precedenza, rigettato la richiesta formulata dal pubblico ministero di sentenza di non luogo a procedere per irrrilevanza del fatto (2). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Catania ha sollevato, con ordinanza del 16 settembre 1996 (r.o. n. 1310/96), questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, comma 1; 24, comma 2; 25, comma 1; 27, comma 2 e 101, comma 2, della Costituzione. Nell’ordinanza di rinvio si premette che il presidente del collegio chiamato a trattare l’udienza preliminare è lo stesso magistrato che in precedenza, quale giudice per le indagini preliminari, ha disposto, contestualmente alla convalida dell’arresto in flagranza, la misura della custodia cautelare in istituto penale per minorenni nei confronti dell’indagato. Il rimettente richiama i numerosi interventi della Corte costituzionale sull’art. 34, comma 2, c.p.p., che ne hanno ampliato l’ambito di applicazione in vista del più rigoroso rispetto del principio del « giusto processo », nel suo aspetto della necessaria imparzialità del giudice, riconoscendo l’incostituzionalità della citata norma in tutte le mancate previsioni d’incompatibilità alla funzione giudicante — quale si ravvisa in ogni decisione in ordine ai profili della responsabilità, della colpevolezza e del trattamento penale — a causa di una precedente pronuncia su temi, come quello della libertà personale, che rappresentano un’anticipazione del merito, effettuata secondo criteri omogenei di valutazione, come, ad esempio, per
— 1024 — il profilo del giudizio prognostico sulla concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2-bis, c.p.p.). In particolare, il giudice a quo riporta alcuni passaggi della sentenza n. 155/96 della Corte costituzionale. Relativamente allo svolgimento dell’udienza preliminare, osserva poi il rimettente, proprio i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in tema d’incompatibilità pongono in risalto una fondamentale distinzione tra processo ordinario e processo minorile. Nel processo penale ordinario, le ipotesi nelle quali il giudice dell’udienza preliminare è chiamato a una funzione di giudizio sono identificabili solo nello svolgimento dei riti alternativi, con i quali il giudice definisce nel merito il processo; fuori di tali casi, il giudice dell’udienza preliminare non svolge una giurisdizione piena di merito, limitandosi a verificare se vi siano elementi sufficienti al passaggio alla fase dibattimentale, con una valutazione che, anche dopo l’ampliamento della regola stabilita a tale riguardo (art. 425 c.p.p., come modificato dalla legge 8 aprile 1993, n. 105), non integra il « giudizio » nel senso anzidetto. Sono diverse la struttura e la funzione dell’udienza preliminare nel processo minorile, che è caratterizzata in modo del tutto peculiare, « tanto da potersi considerare in sé quale rito alternativo ». Nell’udienza preliminare minorile, infatti, l’alternativa proscioglimento-rinvio a giudizio non è necessitata e anzi risulta in concreto la meno frequente. Al termine dell’udienza preliminare, il giudice ha diverse possibilità di conclusione del procedimento, tutte aventi contenuto decisorio: può sospendere il processo e mettere alla prova l’imputato, con successiva declaratoria d’estinzione del reato in caso di esito positivo della prova (artt. 28 e 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante le disposizioni sul processo penale a carico d’imputati minorenni); può dichiarare non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (artt. 27 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica citato), per concessione del perdono giudiziale o per difetto d’imputabilità o per incapacità d’intendere e di volere (artt. 26 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica citato); può, ancora, disporre l’applicazione di una sola sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria (art. 32, comma 2, dello stesso decreto del Presidente della Repubblica). Ed è il contenuto decisorio di tali esiti che spiega la composizione collegiale del giudice dell’udienza preliminare in questione (art. 50-bis dell’ordinamento giudiziario). Queste ipotesi presuppongono una valutazione e un convincimento sulla colpevolezza, in base allo stato degli atti disponibili, poiché le formule elencate possono essere adottate se e in quanto un fatto-reato sussista e l’imputato lo abbia commesso (come, del resto, si desume dalla sentenza n. 77/93 della Corte costituzionale); ne è riprova la facoltà d’opposizione (artt. 32 e 32-bis del decreto del Presidente della Repubblica richiamato) dinanzi al tribunale per i minorenni, attribuita all’imputato (sentenza n. 77/93) proprio per recuperare il giudizio dibattimentale, altrimenti evitato. Tutte le ipotesi ricordate costituiscono un « giudizio », dagli esiti non preventivabili in anticipo. Il rispetto dei principi costituzionali (uguaglianza di trattamento, diritto di difesa, precostituzione del giudice naturale, presunzione di non colpevolezza, terzietà del giudice) che delineano il giusto processo impone dunque che alle suddette ipotesi venga applicata la medesima previsione d’incompatibilità, in ragione della precedente valutazione sulla libertà personale, a presidio dell’im-
— 1025 — parzialità del giudice. Né una diversa soluzione potrebbe giustificarsi sostenendo che al processo penale minorile debbano accordarsi garanzie inferiori a quelle del processo ordinario. Il rimettente conclude esponendo che osservazioni analoghe potrebbero essere formulate relativamente a ulteriori e diversi casi, esemplificativamente indicati ma dichiaratamente non rilevanti nel giudizio a quo. 2. Con ordinanza del 10 dicembre 1996 (r.o. n. 5/97) il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo a carico d’imputati minorenni il giudice per le indagini preliminari che abbia, in precedenza, rigettato la richiesta del pubblico ministero per la declaratoria di non luogo a procedere nei confronti del minore per irrilevanza del fatto, a norma dell’art. 27 del d.P.R. n. 448/88. Alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale in ipotesi analoghe, anche nel caso in esame, nel quale il giudice per le indagini preliminari ha conosciuto del fatto e ha espresso un giudizio, di contenuto e non formale, sulla responsabilità dell’indagato, si configura — ad avviso del giudice a quo — quella prevenzione che giustifica l’incompatibilità alla successiva ulteriore valutazione del medesimo fatto nell’ambito dell’udienza preliminare; udienza che, nel processo minorile, è sede processuale con « prevalente carattere decisorio ». In difetto, si verificherebbe la lesione dei parametri costituzionali dedotti (artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione). CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Catania dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo penale minorile, concorrendo a comporne il collegio, il giudice che, in qualità di giudice per le indagini preliminari, abbia disposto una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato. Il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Trieste, a sua volta, dubita della legittimità costituzionale del medesimo art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo minorile quello stesso giudice che, come giudice delle indagini preliminari, abbia rigettato la richiesta formulata dal pubblico ministero di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, a norma dell’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Disposizioni sul processo penale a carico d’imputati minorenni). In entrambi i casi, i giudici rimettenti ritengono l’esistenza di un pregiudizio del giudice che ne compromette l’imparzialità, con violazione del principio costituzionale del « giusto processo », quale risulterebbe dagli artt. 3, comma 1; 24, comma 2; 25, comma 1; 27, comma 2 (parametro questo indicato solo dal primo giudice) e 101, comma 2, della Costituzione. 2. Le due questioni, riguardando entrambe problemi di compatibilità del giudice alla partecipazione all’udienza preliminare del giudizio penale minorile sotto il profilo del rispetto dell’esigenza costituzionale d’imparzialità del giudice, possono essere riunite per essere decise in un’unica sentenza.
— 1026 — 3. La questione sollevata dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Catania è fondata. Fuori discussione, dopo la sentenza n. 432/95 di questa Corte, confermata in varie successive occasioni, è l’esigenza, imposta dalla Costituzione, di escludere la possibilità che il medesimo giudice, quale persona fisica, possa pronunciarsi nei confronti del medesimo imputato, sia in sede cautelare personale, sia in sede di giudizio sul merito dell’accusa. Il caso proposto dal giudice rimettente è costituito, per l’appunto, da un giudice che si è pronunciato in sede cautelare personale. L’esistenza dell’elemento pregiudicante non può dunque essere negata. È invece da verificare l’altro termine della relazione d’incompatibilità, l’elemento pregiudicato. A tal fine occorre chiarire la natura delle pronunce che possono essere adottate in sede d’udienza preliminare nel giudizio penale minorile. La giurisprudenza di questa Corte, considerando che può farsi questione d’incompatibilità del giudice in conseguenza di precedenti decisioni prese nel corso del procedimento solo in quanto egli sia chiamato a rendere un giudizio sul merito dell’accusa, mentre all’attività cui il giudice è chiamato nell’udienza preliminare deve riconoscersi, anche dopo la modifica dell’art. 425 c.p.p. operata dalla legge 8 aprile 1993, n. 105 (v. sentenza n. 71/96), una funzione essenzialmente processuale, in quanto controllo sulla legittimità della domanda di giudizio avanzata dal pubblico ministero e non quale giudizio anticipato rispetto a quello dibattimentale (sentenza n. 82/93), è ferma nell’escludere l’estensibilità della regola dell’incompatibilità prevista nel comma 2 dell’art. 34 c.p.p. al giudice dell’udienza preliminare (sentenza n. 64/91; ordinanze nn. 24, 232, 279, 333 e 410/96, e n. 97/97). Tuttavia, nel processo penale minorile l’udienza preliminare si presenta con caratteristiche tali da escludere la riferibilità ad essa delle anzidette considerazioni, valide per il processo penale comune. Deve considerarsi che nel processo penale a carico dei minori, il giudice dell’udienza preliminare — costituito da un collegio composto da un magistrato e da due giudici onorari, a norma dell’art. 50-bis, comma 2, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (inserito dall’art. 14 delle « Norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni », in allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449) — è chiamato a prendere decisioni che non trovano riscontro nell’udienza preliminare del giudizio penale comune. In particolare, oltre a poter pronunciare d’ufficio sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (artt. 27 e 32 del d.P.R. n. 448/88), può sospendere il processo e mettere alla prova l’imputato e, dopo non oltre tre anni o un anno a seconda dei casi, dichiarare l’estinzione del reato, prendendo provvedimenti conseguenti circa l’affidamento del minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e impartendo prescrizioni dirette alla riparazione delle conseguenze del reato e alla conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato (artt. 28 e 29); può pronunciare sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale (art. 32, comma 1) o (in conseguenza del rinvio operato dall’art. 32, comma 1, all’art. 425 c.p.p.) per difetto d’imputabilità (v. sentenza n. 41/93), nonché sentenza di condanna a sola pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva (art. 32, comma 2). Questa più ampia gamma di esiti dell’udienza preliminare nel processo penale minorile, che è giustificata dalla necessità di evitare fin dove è possibile la celebra-
— 1027 — zione del giudizio dibattimentale, in considerazione delle speciali esigenze di protezione della personalità dei minori coinvolti, fa sì che la funzione di tale udienza non possa ritenersi di natura analoga a quella dell’udienza preliminare nel giudizio penale comune, cioè esclusivamente processuale. Non potrebbe ritenersi che il giudice dell’udienza preliminare minorile sia chiamato a svolgere essenzialmente un’attività di controllo sull’azione del pubblico ministero al fine di aprire o chiudere la possibilità dello svolgimento del processo nella sede propria del dibattimento: la sua è infatti una funzione di giudizio che include la possibilità di adottare pronunce altrimenti riservate all’organo del dibattimento e che può perfino sfociare in una sentenza di condanna o in una sentenza che presuppone comunque l’accertamento della responsabilità (v. sentenza n. 77/93). Per le considerazioni che precedono circa la natura di alcune delle decisioni che il giudice dell’udienza preliminare è chiamato a prendere, il riferimento più pertinente che può farsi alla giurisprudenza di questa Corte è alla sentenza n. 155/96, con la quale venne affermato che la precedente pronuncia in ordine a una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato determina un pregiudizio dell’imparzialità del giudice, qualora lo stesso venga chiamato nell’udienza preliminare, su iniziativa delle parti, a pronunciarsi in sede di giudizio abbreviato (artt. 438 ss., c.p.p.), ovvero a disporre l’applicazione della pena su richiesta (artt. 444 ss., c.p.p.). Pur nella diversità delle situazioni, il punto comune è rappresentato da pronunce terminative del giudizio che contengono o presuppongono l’affermazione di responsabilità dell’imputato. La possibilità di tali pronunce dimostra l’esistenza di un giudizio, con la partecipazione al quale, in conseguenza dell’esigenza d’imparzialità che questa Corte in numerose pronunce ha ritenuto essere aspetto determinante del « giusto processo » voluto dalla Costituzione, deve ritenersi incompatibile il giudice che in precedenza si sia pronunciato in ordine a una misura cautelare personale nei confronti del medesimo imputato. 4. La questione sollevata dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Trieste è invece infondata per l’assenza di forza pregiudicante nella pronuncia del giudice per le indagini preliminari che respinge la richiesta formulata dal pubblico ministero di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Contrariamente a quanto asserito dal giudice rimettente, la valutazione che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a svolgere a norma dell’art. 27, comma 1, delle disposizioni sul processo penale a carico d’imputati minorenni, non può affatto ritenersi quale « giudizio contenutistico e non meramente formale sulla responsabilità » dell’imputato, giudizio che, per la giurisprudenza di questa Corte, è idoneo a determinare pregiudizio per l’imparzialità del giudice. Tale valutazione concerne infatti, oltre l’apprezzamento del pregiudizio che il procedimento penale in sé considerato reca alle esigenze educative del minore, la fondatezza delle ragioni che inducono il pubblico ministero a richiedere la peculiare declaratoria, ragioni che il citato art. 27, comma 1, indica nella tenuità del fatto e nell’occasionalità del comportamento. Ma è evidente che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero in astratto e assumendo l’ipotesi accusatoria, per l’appunto, come mera ipotesi, e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità. Una tale valutazione non sarebbe del resto nem-
— 1028 — meno possibile, data la fase processuale in cui si versa, anteriore tanto al dibattimento quanto all’udienza preliminare. P.Q.M. la Corte costituzionale, riuniti i giudizi: dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare nel processo penale a carico d’imputati minorenni del giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine a una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione, dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Trieste, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
——————— (1-2)
In tema d’incompatibilità del giudice nell’udienza preliminare del processo minorile (con particolare riguardo alla valutazione negativa sull’irrilevanza del fatto).
1. La scarsa attenzione dedicata dal legislatore delegato all’esigenza di coordinare i meccanismi processuali introdotti dal nuovo codice di rito con il regime tradizionale delle incompatibilità del giudice, determinate da atti compiuti nello stesso procedimento, è stata indubbiamente la causa primaria dei ripetuti interventi operati dalla Consulta per ampliare il dettato dell’art. 34, comma 2, c.p.p. Operando sulla scorta della direttiva n. 67 contenuta nell’art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, già il legislatore delegato, allo scopo di garantire al massimo grado l’imparzialità del giudice, aveva proceduto, in sede di redazione del testo della norma, ad un ampliamento, per identità di ratio, delle ipotesi d’incompatibilità espressamente previste nella predetta direttiva (1). In seguito, la breccia aperta dalla prima giurisprudenza costituzionale sul tessuto dell’articolo in parola ha dato luogo ad una sorta di effetto di ‘‘trascinamento’’ (2), poiché ogni successiva modificazione dell’area dell’incompatibilità non poteva non determinare, quasi automaticamente, la necessità di ulteriori interventi della Consulta « volti a rendere possibile un riallineamento di posizioni analoghe » (3). Come in più occasioni ribadito dalla Corte, la ratio dell’istituto dell’incompatibilità va individuata nell’esigenza di preservare l’autonomia e la distinzione della funzione giudicante a garanzia della sua imparzialità, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo procedimento (4): con l’ulteriore precisazione che non ogni pregressa valutazione compiuta durante l’iter del procedimento (1) Sull’argomento, più ampiamente, cfr. CORDERO, Commento agli artt. 34-35 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, (2a ed.), Utet, 1992, p. 42 ss.; BARONE, Commento agli artt. 34-35 c.p.p., in AMODIO-DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, 1989, p. 224 ss.; RAFARACI, Commento agli artt. 34-35 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento al codice di procedura penale, Utet, 1989, p. 191 ss.; ID., Commento all’art. 34 c.p.p., in CHIAVARIO, op. cit. (primo aggiornamento), Utet, 1993, p. 23 ss. (2) Così RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema d’incompatibilità del giudice, in Giur. cost., 1991, p. 3499. (3) RIVELLO, L’incompatibilità a partecipare al giudizio dibattimentale del g.i.p. che abbia respinto la richiesta d’ammissione all’oblazione, in Giur. cost., 1994, p. 3923. (4) Cfr., ad esempio, Corte cost., 27-31 maggio 1996, n. 177, in Diritto penale e processo, 1996,
— 1029 — può ritenersi necessariamente lesiva dell’imparzialità del magistrato chiamato a prestare la propria attività in relazione alla stessa vicenda giudiziaria. Se così fosse, « ne risulterebbe una radicale negazione del concetto stesso di procedimento, inteso quale ordinata sequenza di atti, ciascuno dei quali legittima, prepara e condiziona quello successivo: e, di conseguenza, poiché ogni provvedimento ordinatorio o istruttorio implica o può implicare una delibazione del merito, ne deriverebbe un’assurda frammentazione del procedimento, con l’attribuzione di ciascun segmento di esso ad un giudice diverso » (5). Piuttosto, nel concetto di ‘‘giudizio’’, rispetto al quale il compimento di determinati atti dà luogo all’incompatibilità ex art. 34, comma 2, c.p.p., va ricompresa qualsiasi deliberazione conclusiva di una fase giurisdizionale, che implichi una decisione sulla responsabilità penale (6). L’incompatibilità, pertanto, ha rilievo « solo rispetto al ‘‘giudizio’’, cioè alla decisione sul merito della regiudicanda e non anche a decisioni assunte ad altri fini » (7), in relazione a valutazioni non formali ma di contenuto sulla probabilità di fondatezza dell’accusa (8). 2. La questione devoluta alla Corte, così come prospettata dai giudici a quibus nelle rispettive ordinanze di rimessione (9), concerne l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., per violazione degli artt. 3, comma 1; 24, comma 2; 25, comma 1; 27, comma 2 e 101, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo penale minorile, concorrendo a comporne il collegio, il giudice delle indagini preliminari che abbia in precedenza disposto una misura cautelare; nonché l’illegittimità della medesima norma, rispetto agli stessi parametri costituzionali appena richiamati — n. 8, p. 975; Corte cost., 13-20 maggio 1996, n. 155, ivi, p. 970; Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, ivi, 1996, n. 5, p. 579; Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, in Giur. cost., 1995, p. 3371. (5) Corte cost., 16-25 marzo 1992, n. 124, in Giur. cost., 1992, p. 1064. (6) In questi termini, cfr. Corte cost., 15-26 ottobre 1990, n. 496, in Giur. cost., 1990, p. 2888; Corte cost., 19-30 dicembre 1991, n. 502, ivi, 1991, p. 4030; Corte cost., 1o-8 giugno 1992, n. 261, ivi, 1992, p. 2016; Corte cost., 2-16 dicembre 1993, n. 439, ivi, 1993, p. 3587; Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit. (7) Cfr. Corte cost., 4-12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, p. 3487. (8) È stato giustamente sottolineato che « l’esigenza d’imparzialità, finalizzata a garantire la ‘‘terzietà’’ del giudicante, prescinde dalla circostanza che l’eventuale ‘‘pregiudizio’’ operi a danno dell’imputato o si traduca invece in una situazione di disfavore nei confronti dell’impostazione accusatoria, dovendo essere assicurata a tutte le parti processuali un’effettiva obiettività in sede decisionale »; in questi termini RIVELLO, Preclusa la funzione di giudizio ai componenti del tribunale del riesame, in Diritto penale e processo, 1996, n. 5, p. 589. Sul punto si veda, inoltre, Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit. È da considerare che il requisito dell’imparzialità del soggetto giudicante, prima ancora che una pretesa di parte, costituisce un’esigenza obiettiva e irrinunciabile dell’ordinamento, cui corrisponde, infatti, non solo il potere di ricusazione riconosciuto alle parti, ma, altresì, un dovere di astensione del giudice. Che l’imparzialità del giudice costituisca un diritto irrinunciabile o comunque tale da configurarsi come presupposto essenziale della giurisdizione, non rientrante nella disponibilità delle parti interessate, è stato ripetutamente ribadito anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla luce dell’art. 6, comma 1, Conv. eur. dir. uomo. In tal senso, cfr., ad esempio, Corte eur., 22 febbraio 1996, Bulut, in Recueil des arrêts et décisions, 1996-II, n. 5, p. 346 ss. Per una panoramica delle pronunce più significative della Corte europea intervenute sul tema, v. RAFARACI, Commento all’art. 34 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento, cit., (secondo aggiornamento), Utet, 1993, p. 44 ss.; nonché MAZZA, La proliferazione delle incompatibilità è giunta al capolinea?, in Diritto penale e processo, 1996, n. 8, p. 980. Negli stessi termini l’imparzialità del giudice è altresì tutelata dall’art. 14, comma 1, Patto int. dir. civ. pol. (reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881). (9) Si tratta dell’ordinanza emessa il 16 settembre 1996 dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Catania, nel procedimento penale a carico di G.G., iscritta al n. 1310 del registro ordinanze 1996 e pubblicata in Gazz. uff., 11 dicembre 1996, 1a serie spec., n. 50, p. 45; nonché dell’ordinanza emessa il 10 dicembre 1996 dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Trieste, nel procedimento penale a carico di S.G. ed altri, iscritta al n. 5 del registro ordinanze 1997 e pubblicata in Gazz. uff., 29 gennaio 1997, 1a serie spec., n. 5, p. 32.
— 1030 — ad eccezione dell’art. 27, comma 2, Cost., non invocato in quest’ipotesi dall’organo rimettente — nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo minorile quello stesso giudice che, come giudice delle indagini preliminari, abbia rigettato la richiesta di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, formulata dal pubblico ministero a norma dell’art. 27, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 488. I giudici della Consulta, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata relativamente all’omessa previsione dell’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare nel processo a carico di imputati minorenni del giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine ad una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato, hanno invece ritenuto infondata la seconda questione d’illegittimità, reputando insussistente l’elemento pregiudicante indicato dal rimettente, vale a dire il rigetto della richiesta di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto formulata dal p.m. nel corso delle indagini preliminari, non comportando detto provvedimento di rigetto la valutazione di responsabilità dell’imputato e non essendo, pertanto, idoneo a determinare pregiudizio per l’imparzialità del giudice. 3. La decisione che si annota ricalca uno schema già utilizzato in occasione di precedenti pronunce intervenute sull’argomento: atteso che la ratio dell’istituto dell’incompatibilità si fonda sulla « necessità di evitare la duplicazione di giudizi della medesima natura presso lo stesso giudice e quindi sulla suddetta esigenza di proteggere il giudizio del merito della causa dal rischio di un pregiudizio, effettivo o anche solo potenziale, derivante da valutazioni di sostanza sull’ipotesi accusatoria, espresse in occasione di atti compiuti in precedenti fasi processuali » (10), la Corte, constatata l’unicità del procedimento in cui si deduce l’incompatibilità, valuta, dapprima, se esiste il fatto pregiudicante per poi verificare se l’attività che si assume pregiudicata possa essere ascritta alla funzione giudicante, punto essenziale di riferimento della tutela del principio del ‘‘giusto processo’’, di cui l’imparzialità è essenziale corollario (11). Tale imparzialità, pur non trovando una solenne e formale proclamazione in una precisa disposizione costituzionale, è sicuramente un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, rappresentando uno dei cardini del vigente sistema processuale: in quanto connaturata all’essenza della giurisdizione, non solo ne influenza l’esercizio (12), ma richiede altresì che la funzione giudicante sia assegnata ad un soggetto ‘‘terzo’’, scevro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in occasioni di attività decisorie che egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza in altre fasi del giudizio. L’imparzialità, pertanto, non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell’essenza tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice e condiziona l’effettività del diritto d’azione e di difesa in giudizio (13). Il divieto di cumulo di decisioni diverse sulla stessa materia, ad opera dello (10) Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit. (11) Il principio del ‘‘giusto processo’’ implica e presuppone che il giudizio si formi in base al razionale apprezzamento delle prove legittimamente raccolte ed acquisite e non sia pregiudicato da valutazioni sul merito dell’imputazione e sulla colpevolezza dell’imputato espresse in fasi del procedimento anteriori a quella della quale il giudice è investito. Tale principio, che non si realizza nel nostro ordinamento secondo un modulo processuale unico e infungibile, risponde all’esigenza che il giudice non sia né appaia condizionato da precedenti valutazioni compiute nei confronti delle parti, tali da risultare pregiudicata la sua posizione di terzietà. In argomento, cfr. Corte cost., 27-31 maggio 1996, n. 177, cit., p. 916; nonché Corte cost., 27 settembre-1o ottobre 1997, n. 307, in Guida al diritto, 18 ottobre 1997, n. 39, p. 67. (12) Come rileva CARNELUTTI, Diritto e processo, Jovene, 1958, p. 74, « L’idoneità del giudice dipende oltre che dalle sue qualità, da una sua posizione di fronte alle parti. Tale posizione, che prende il nome d’imparzialità, si risolve in un’equidistanza dalle parti ». (13) In tal senso. cfr. Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit., p. 581.
— 1031 — stesso soggetto investito della potestà di giudicare, si riconnette al carattere necessariamente originario della decisione che definisce la causa « in opposizione a ogni trascinamento e confluenza in tale decisione di opinioni precostituite in altre fasi processuali presso lo stesso giudice-persona fisica » (14). Privilegiandosi in via primaria l’obiettività della funzione giudicante, che esige, nei limiti del possibile, la sua massima spersonalizzazione attraverso il sistema delle incompatibilità endoprocessuali, si mira alla configurazione di garanzie tali da legittimare la certezza che il giudice, al momento del giudizio, sia libero da qualsiasi forma di condizionamento in grado di pregiudicarne la capacità valutativa (15). Sotto questo profilo, ‘‘giudice imparziale’’ equivale a giudice ‘‘impregiudicato’’ non solo rispetto alle parti — e ai relativi interessi sostanziali e processuali — ma anche rispetto ai fatti del processo; proprio come assenza di pregiudizi e di predeterminazione nella valutazione dei fatti, questa ricostruzione del concetto d’imparzialità garantisce che la pronuncia finale sul merito della regiudicanda non risulti condizionata dalle pregresse cadenze processuali relative alla ricostruzione della vicenda storica (16). 4. Alla luce di tali considerazioni giuridicamente ineccepibile appare la decisione della Consulta relativa alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo penale minorile, concorrendo a comporne il collegio, il giudice per le indagini preliminari che abbia in precedenza disposto misura cautelare: la decisione non fa altro che sviluppare, in chiave di logica conseguenzialità, le indicazioni offerte dalle precedenti sentenze intervenute ad escludere la possibilità che uno stesso giudice, quale persona fisica, possa pronunciarsi nei confronti del medesimo imputato sia in sede cautelare personale, sia in sede di giudizio sul merito dell’accusa (17). Superando un precedente orientamento volto a configurare la materia cautelare ed il merito dell’accusa come ambiti distinti per oggetto e per funzione, e ad escludere che le pronunce sulla libertà personale comportassero valutazioni idonee a tradursi in un giudizio che interferisse con quello sul merito della res judicanda, tale da compromettere — o fare apparire compromessa — l’imparzialità della decisione conclusiva sulla responsabilità dell’imputato (18), la Corte, nella sua giurisprudenza più recente, ha infatti considerato configurabile tale pregiudizio, atteso che le pronunce cautelari presuppongono sempre un giudizio prognostico di segno positivo sulla responsabilità, ancorché basato su indizi e non ancora su prove (19). (14) Corte cost., 13-20 maggio 1996, n. 155, cit., p. 973. (15) Si noti, peraltro, che l’imparzialità è comunque un dato collegato ad un’estrema varietà di fattori, tutti potenzialmente idonei a tramutarsi in elementi di turbativa. Come correttamente osserva RIVELLO, Analisi dei più recenti orientamenti della Corte costituzionale in tema d’incompatibilità del giudice penale, in Giur. cost., 1992, p. 1360, « Né la Corte, né il legislatore possono fissare un criterio atto ad escludere con sicurezza il rischio di parzialità. (...) Peraltro, poiché appare inattuabile l’operazione volta ad estendere le ipotesi d’incompatibilità in modo tale da escludere anche le più remote possibilità di parzialità del giudice, la norma di legge deve almeno disciplinare tutti i casi in cui maggiore è la probabilità di un simile condizionamento ». (16) Per ulteriori approfondimenti. v. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, 3a ed., vol. II, Giuffrè, 1984, p. 43 ss.; cfr., inoltre, BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Jovene, 1990, p. 40 ss. (17) Cfr., ad esempio, Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit.; Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit.; Corte cost., 13-20 maggio 1996, n. 155, cit. (18) V. Corte cost., 16-25 marzo 1992, n. 124, cit.; cfr., inoltre, Corte cost., 19-30 dicembre 1991, n. 502, cit.; Corte cost., 19-30 dicembre 1991, n. 516, in Giur. cost., 1991, p. 4084. (19) Infatti, « ... posto che l’adozione della misura della custodia cautelare presuppone, in base all’art. 273, comma 1, c.p.p. la verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, e non più dei sufficienti indizi (come sotto la vigenza del codice Rocco) ne deriva che la valutazione effettuata dal giudice per le indagini preliminari in sede di adozione della misura cautelare, non può considerarsi meramente
— 1032 — L’esistenza di un idoneo elemento pregiudicante appare, quindi, fuor di dubbio, atteso che il giudice, nel caso sub specie, si era pronunciato in sede cautelare personale; si tratta allora di verificare il secondo termine della relazione d’incompatibilità, ossia, l’elemento pregiudicato. In altri termini, occorre stabilire se la natura delle pronunce adottabili in sede d’udienza preliminare nel rito minorile — ossia l’attività che si assume pregiudicata — implichi l’esercizio di una ‘‘funzione giudicante’’. Seppure, con riferimento all’udienza preliminare del processo ordinario, già in diverse occasioni la Corte costituzionale avesse ritenuto che la natura delle decisioni in essa adottabili non implicasse l’esercizio di una funzione di giudizio, preordinata alla decisione di merito sull’oggetto del processo, « non essendo il giudice chiamato ad esprimere valutazioni sul merito dell’accusa, ma solo a verificare in una delibazione di carattere processuale, la legittimità della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero » (20), è tuttavia innegabile l’esistenza di una fondamentale distinzione, relativamente alla natura e alla funzione dell’udienza preliminare, tra processo ordinario e processo minorile. In questa seconda sede l’udienza preliminare si caratterizza in modo del tutto peculiare rispetto a quella ordinaria — tanto da potersi considerare in sé quale rito alternativo (21) — in quanto in essa si compiono valutazioni e si assumono decisioni particolarmente rilevanti e diverse da quelle meramente formali di non luogo a procedere per ragioni procedurali o di fatto, ovvero di rinvio a giudizio: in altri termini, non si tratta di una semplice attività di controllo sull’azione del pubblico ministero al fine di vagliare la possibilità dello svolgimento del processo nella sede dibattimentale. Proprio grazie alla vasta gamma di formule terminative utilizzabili dal g.u.p., tali da rendere possibile un’immediata conclusione della vicenda processuale — con evidenti vantaggi sul piano della precoce espulsione del minore dal circuito penale nonché della decongestione del sistema — l’udienza preliminare minorile si caratterizza per la sua capacità di sostituzione tendenzialmente totale del dibattimento (ad eccezione della condanna a pena detentiva), rispetto al quale non è deputata ad esplicare il ruolo di semplice ‘‘filtro’’ per il controllo del materiale probatorio acquisito dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Nel rito minorile, essa perde quella connotazione di fase essenzialmente — ma non esclusivamente, attesa la possibilità di incardinare un rito speciale — finalizzata all’accertamento della legittimità della domanda di giudizio (22), configurandosi, piuttosto, processuale, investendo, sia pure attraverso la verifica degli indizi, il contenuto dell’imputazione, e configurandosi perciò come valutazione di merito, né si può escludere che gli elementi acquisiti al momento dell’adozione della misura cautelare da parte del giudice per le indagini preliminari siano gli stessi che si rendono disponibili alla chiusura della fase delle indagini preliminari o, addirittura, di quella dibattimentale » (Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit., p. 3372). Sull’anzidetto orientamento giurisprudenziale è stato sicuramente influente anche il mutamento del quadro normativo determinato dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 332, che ha ulteriormente accentuato la pregnanza delle valutazioni richieste al fine di pervenire all’applicazione di una misura cautelare. (20) Cfr. Corte cost., 26 marzo-11 aprile 1997, n. 97, in Giur. cost., 1997, p. 964; sull’argomento si veda, inoltre, Corte cost., 28 gennaio-8 febbraio 1991, n. 64, in Giur. cost., 1991, p. 477; Corte cost., 4-12 novembre 1991, n. 401, cit.; Corte cost., 26 febbraio-11 marzo 1993, in Giur. cost., 1993, p. 748. Come peraltro rilevato nell’ordinanza di rimessione del giudice per l’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni di Catania, cit., p. 46, « .. nel processo penale ordinario le ipotesi nelle quali il giudice dell’udienza preliminare è chiamato alla funzione di piena giurisdizione (cioè a decidere nel merito del processo) sono determinabili a priori, dipendendo essi da una previa scelta delle parti di rito alternativo, limitandosi per il resto, il detto giudice, a verificare se sussista materiale probatorio sufficiente a giustificare il giudizio dibattimentale (verifica la quale, pur dopo l’ampliamento dell’art. 425 c.p.p, avutosi per mezzo dell’interpretazione datane dalla Corte di cassazione, ma soprattutto per l’intervento dell’art. 1 della legge 8 aprile 1993, n. 105, e della sentenza n. 41 del 10 febbraio 1993 della Corte costituzionale, resta di semipiena giurisdizione). (21) Così PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, 2a ed., Giuffrè, 1991, p. 271. (22) Più precisamente, come sottolinea LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo pro-
— 1033 — quale sede di definizione del giudizio medesimo, con formule terminative di merito altrimenti riservate al giudice del dibattimento (23), che rendono possibile un’immediata conclusione della vicenda processuale (24). L’udienza preliminare, pertanto, quale momento centrale della risposta giudiziaria nel processo penale minorile, « non è un passaggio tendenzialmente di mero rito » (25), ma appare destinata a fronteggiare e a definire tutta la cosidetta ‘‘devianza media’’, con epiloghi che possono sfociare, oltre che in una sentenza di condanna (a pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva), in un’ampia gamma di pronunce, anche a contenuto indulgenziale: tutte decisioni che, comunque, logicamente postulano la previa valutazione della responsabilità dell’imputato, seppure in base allo stato degli atti disponibili (26). Questa accentuata potenzialità risolutoria della quasi totalità dei procedimenti, propria dell’udienza preliminare minorile, relegando il dibattimento ad un ruolo assolutamente marginale, non solo giustifica la previsione contenuta negli artt. 32 e 32-bis, d.P.R. n. 448/88, che concedono all’imputato la possibilità di avvalersi — nelle ipotesi di pronunce che contengono o presuppongono un’affermazione di responsabilità — dello speciale strumento dell’opposizione, proprio al fine di recuperare quel giudizio dibattimentale altrimenti negatogli; ma dimostra altresì l’esistenza di un giudizio, ascrivibile al contenuto decisorio di tali esiti, che integra il secondo termine della relazione d’incompatibilità cui si accennava poc’anzi, ossia l’elemento pregiudicato. Pertanto, la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare nel processo penale a carico d’imputati minorenni del giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine ad una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato, s’inserisce perfettamente nella trama logica essenziale della precedente giurisprudenza cesso penale, in questa Rivista, 1991, p. 1, nel rito ordinario « l’importanza attribuita all’udienza preliminare discende dalle funzioni ad essa ricollegate, che sono essenzialmente tre: la prima di realizzare un filtro delle imputazioni azzardate, la seconda di garantire un’attuazione del diritto alla prova, la terza di rendere possibile la scelta dei riti differenziati deflattivi del dibattimento più significativi e segnatamente del giudizio abbreviato ». (23) Nell’udienza preliminare minorile, infatti, l’alternativa proscioglimento-rinvio a giudizio non appare necessitata, risultando, anzi, in concreto, la meno frequente. In esito all’udienza preliminare il giudice ha diverse possibilità di conclusione del procedimento, tutte a contenuto decisorio: può sospendere il processo e mettere alla prova l’imputato, con successiva declaratoria d’estinzione del reato in caso di esito positivo della prova; può pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, per concessione del perdono giudiziale o per difetto d’imputabilità; può inoltre disporre l’applicazione di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, con una riduzione fino alla metà rispetto al minimo edittale. (24) Sul punto la Corte costituzionale, già in passato, non aveva mancato di sottolineare come « la ‘‘specificità’’ che caratterizza l’udienza preliminare minorile viene individuata dal legislatore delegante nell’ampliamento dei poteri decisori e nella correlativa possibilità di adottare pronunce altrimenti da riservare all’organo del dibattimento », sulla scorta di una scelta « funzionale al soddisfacimento delle particolari esigenze di tutela della condizione minorile » (Corte cost., 26 febbraio-11 marzo 1993, n. 77, in C. pen., 1993, p. 1364). Si noti, peraltro, che proprio la peculiare valenza di tali formule definitorie implica inevitabili approfondimenti sulla personalità del minore e valutazioni prognostiche assai complesse, non legate solo a rigidi parametri normativi e, in quanto tali, non demandabili al solo giudice togato, seppure specializzato. Tant’è che la compresenza, con prevalenza numerica, di una componente ‘‘laica’’ nel collegio giudicante — si noti che nel processo minorile il g.u.p. non è organo monocratico — mira ad assicurare un adeguato apporto di conoscenze in ambito psico-socio-pedagogico, strettamente complementari all’apporto della componente togata. Sul punto, più ampiamente, cfr. GRASSO, Commento all’art. 31 d.P.R. n. 448/88, in CHIAVARIO, Commento al codice di procedura penale, (Leggi collegate - I - Il processo minorile), Utet, 1994, p. 330 ss. Inoltre, con specifico riferimento alle potenzialità definitorie dell’udienza preliminare minorile, v. MORO, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, 1996, p. 423; PALOMBA, op. cit., p. 255 ss.; SERGIO, L’udienza preliminare nel processo minorile, in AA.VV., Nel segno del minore, (a cura di De Cataldo Neuburger), Cedam, 1990, p. 63 ss. (25) Così GRASSO, Commento all’art. 32, d.P.R. n. 448/88, in CHIAVARIO, Commento, cit., p. 347. (26) Cfr., supra, nota n. 23. Come giustamente rilevato in dottrina, quest’ampia gamma di opzioni definitorie farebbe del giudice dell’udienza preliminare nel processo penale minorile il ‘‘giudice dell’alternativa al carcere’’; in questi termini GRASSO, op. ult. cit., p. 350.
— 1034 — costituzionale in materia: impedire che la valutazione conclusiva sulla responsabilità dell’imputato sia o possa apparire condizionata dalla cosiddetta « forza della prevenzione », ossia da quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento (27). 5. Poco chiaro e, a nostro avviso, tutt’altro che condivisibile, risulta invece il supporto logico-argomentativo posto a base della declaratoria d’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare all’udienza preliminare del processo a carico d’imputati minorenni il giudice per le indagini preliminari che abbia, in precedenza, rigettato la richiesta del pubblico ministero di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Anche in questo caso il problema appare riconducibile all’esigenza di rispetto del principio del giusto processo, sotto il profilo della necessaria imparzialità dell’organo giudicante, al fine di garantire la non ripetitività del giudizio sul merito dell’imputazione da parte dello stesso soggetto: sicché, restando invariato il secondo termine della relazione d’incompatibilità, ossia l’elemento pregiudicato — che anche in tale ipotesi si sostanzia nelle attività del giudice dell’udienza preliminare minorile, ascrivibili, come appena rilevato, alla funzione giudicante — basta verificare, invertendo le fasi del procedimento logico seguito in ordine alla declaratoria d’incostituzionalità prima esaminata, se il rigetto della richiesta di una sentenza d’improcedibilità per irrilevanza del fatto in sede di indagini preliminari possa integrare il primo termine dell’anzidetta relazione, configurandosi come idoneo elemento pregiudicante, tale cioè da compromettere la genuinità e la correttezza del processo formativo del convincimento del giudice. Ad avviso della Corte, contrariamente a quanto asserito dall’organo remittente, la valutazione che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a svolgere ex art. 27, comma 1, d.P.R. n. 448/88 — concernente la ricorrenza o meno dei presupposti applicativi dell’istituto dell’irrilevanza del fatto, che l’articolo in parola indica nella tenuità del fatto e nell’occasionalità del comportamento, unitamente all’apprezzamento del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento potrebbe arrecare alle esigenze educative del minore — prescinde da qualsiasi verifica in concreto dell’ipotesi accusatoria, assunta per l’appunto come mera ipotesi e non dopo aver accertato l’effettiva commissione del fatto di reato e la relativa responsabilità dell’imputato. Di qui la declaratoria d’infondatezza della questione, per la ritenuta assenza di forza pregiudicante nella pronuncia di rigetto del giudice per le indagini preliminari, attesa l’impossibilità di ravvisare nelle valutazioni ad essa sottostanti la formulazione di un giudizio contenutistico e non meramente formale sulla responsabilità dell’imputato, il solo idoneo a determinare un effettivo pregiudizio per l’imparzialità del giudice. Il nucleo argomentativo della decisione della Corte, in verità, non convince. L’orizzonte cognitivo del giudice per le indagini preliminari chiamato a pronunciarsi su una richiesta di declaratoria d’irrilevanza del fatto non può, a nostro parere, ritenersi limitato all’astratta configurabilità dell’ipotesi di reato formulata dal pubblico ministero nella predetta richiesta. Le valutazioni che il giudice è chiamato a compiere, presuppongono, a monte, la verifica che un reato esista e sia stato compiuto da un soggetto imputabile; se poi, successivamente a tale verifica, si riscontra altresì la tenuità del fatto, l’occasionalità del comportamento nonché la sussistenza di un pregiudizio alle esigenze (27) In tal senso, cfr. Corte cost., 15-26 ottobre 1990, n. 496, cit.; Corte cost., 4-12 novembre 1991, n. 401, cit.; Corte cost., 19-30 dicembre 1991, n. 502, cit.; Corte cost., 16-25 marzo 1992, n. 124, cit.; Corte cost., 13-22 aprile 1992, n. 186, cit.; Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit.
— 1035 — educative del minore derivante dall’ulteriore corso del procedimento, si determina una conclusione anticipata della vicenda processuale (28). Cosicché il reato, pur essendo perfetto nei suoi elementi costitutivi, non innesca la reazione sanzionatoria dell’ordinamento: e ciò non per la formulazione di un giudizio prognostico negativo sull’esito del processo in termini di affermazione di responsabilità o per la mancanza di una condizione di procedibilità, ma perché l’ordinamento stesso, in esito ad una valutazione di scarso interesse sociale alla persecuzione del fatto (29), ritiene più opportuno rinunciare al suo potere-dovere d’infliggere al reo la pena comminata dalla legge (30). Se è pur vero che non sono equiparabili situazioni processuali sicuramente diverse quali la decisione in ordine ad una declaratoria d’irrilevanza da pronunciare in sede d’indagini preliminari e la vera e propria decisione di merito sulla fondatezza dell’accusa — quest’ultima caratterizzata dall’esigenza di prove certe circa la sussistenza del fatto e la responsabilità dell’imputato — è pur vero che le valutazioni che il g.i.p. è chiamato ad esprimere nella prima ipotesi postulano una disamina degli elementi di conoscenza sino a quel momento acquisiti, relativi al fatto e alle sue modalità di realizzazione (31), nonché al presunto autore dello stesso, che logicamente presuppongono la previa formulazione di un giudizio, il quale, seppure con i limiti derivanti dalla natura del materiale cognitivo disponibile nella fase in cui viene formulato, permette di ritenere l’esistenza del reato e la responsabilità del minore imputato. Molto di più, quindi, del giudizio di ‘‘alta probabilità’’ formulato in sede cautelare (32), giudizio prognostico allo stato degli atti, fondato non su prove ma su indizi, e ciononostante ritenuto valutazione di spessore tale da determinare un pregiudizio all’imparzialità del magistrato successivamente chiamato a pronunciarsi sul merito dell’accusa (33). Si noti, peraltro, che la decisione in ordine alla richiesta avanzata dal p.m. ex art. 27, d.P.R. n. 448/88 viene assunta in esito ad un’udienza camerale, « sentiti il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato » (art. 27, comma 2). Anche a voler ritenere che tale udienza e l’audizione dei soggetti suindicati siano essenzialmente finalizzate all’acquisizione di elementi necessari per la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti applicativi indicati dal comma 1 dell’articolo in parola, è innegabile che in tale sede possa determinarsi un ampliamento della piattaforma conoscitiva a disposizione del giudice procedente. La previsione contenuta nell’art. 27 non si risolve, quindi, nell’individuare uno speciale meccanismo di precoce cesura del procedimento fondato su ‘‘un’ipo(28) In tal senso, cfr. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale minorile, in Dif. pen., 1989, n. 25, p. 78. Peraltro, come sottolinea lo stesso A., la legittimazione del minore ad appellare la sentenza d’improcedibilità per irrilevanza del fatto (ex art. 27, comma 3, d.P.R. n. 448/88), avvalora ulteriormente l’assunto che il suddetto provvedimento contiene l’accertamento che il minore ha commesso un reato. Infatti, la previsione del suo potere d’appello si spiega solo con l’interesse, che gli viene riconosciuto, di fare accertare che non ha commesso il fatto o che il fatto non sussiste o che non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; in altre parole, si spiega con l’interesse a fare dichiarare l’inesistenza della responsabilità accertata nella sentenza appellata. (29) In questi termini PALOMBA, op. cit., p. 375; cfr., inoltre, MORO, op. cit., p. 398. (30) Sul punto si veda, più diffusamente, GERMANÒ, Processo penale minorile e processo per gli adulti: diversa funzione e diverse disposizioni. Ruolo « pioniere » del processo penale minorile, in AA.VV., Le riforme complementari. Il nuovo processo minorile e l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario, (coordinato da Fumu), Cedam, 1991, p. 59. (31) Più specificamente, la ‘‘tenuità del fatto’’ andrebbe valutata in riferimento alla natura del fatto stesso, ai suoi effetti, al contesto in cui s’inserisce ed alle modalità che lo hanno caratterizzato. Sul punto, cfr. PEPINO, Processo minorile e formule definitorie, in Quaderni del CSM, 1988, n. 28, p. 529; nonché, volendo, PATANÈ, L’irrilevanza del fatto nel processo minorile, in Esp. giust. min., 1992, n. 3, p. 62. (32) Cfr. Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit., p. 3375. (33) Sul punto, v. Corte cost., 17-24 aprile 1996, n. 131, cit., p. 587.
— 1036 — tesi’’ di responsabilità: non solo l’accoglimento della richiesta, ma anche il suo rigetto e la conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero presuppongono una verifica contenutistica dell’ipotesi accusatoria, seppure sulla base degli atti disponibili in relazione alle indagini espletate e agli ulteriori elementi di conoscenza — relativi al fatto e all’autore — acquisiti nel corso dell’udienza camerale prevista dal comma 2 della norma citata. Peraltro, le valutazioni negative svolte dal giudice sui termini della richiesta formulata dal p.m., investendo l’esistenza dei presupposti applicativi dell’istituto, lasciano impregiudicata la configurabilità del reato e le relative responsabilità, afferendo piuttosto alla congruenza — rispetto alle valutazioni operate sulla base degli atti disponibili e sulle risultanze dell’udienza camerale — della qualificazione del fatto e del comportamento in termini, rispettivamente, di tenuità e occasionalità, nonché della possibile sussistenza di un pregiudizio alle esigenze educative del minore derivante dall’ulteriore corso del procedimento. In sintesi, pur mancando un accertamento pieno di responsabilità basato su di una valutazione probatoria di analoga pregnanza rispetto a quella svolta, ad esempio, nel giudizio dibattimentale, non sono sicuramente assenti profili di una verifica sul merito dell’imputazione, seppure in forma di controllo preliminare rispetto al riscontro dei presupposti applicativi. Situazione questa sicuramente idonea a condizionare il corretto processo formativo di una successiva decisione di merito, potendo tradursi in « un’anticipazione di giudizio suscettibile di minare l’imparzialità del giudice » (34). Il che significa che non è possibile prescindere da una valutazione di contenuto sui risultati delle indagini per accogliere o rigettare la richiesta. Ciò posto, appare allora chiaro che il rigetto della richiesta investe, sia pure attraverso il mancato riscontro dei presupposti applicativi dell’istituto, una verifica dell’imputazione. Tanto piu che, come appena rilevato, la reiezione dell’istanza non implica necessariamente il mancato raggiungimento di un convincimento in ordine alla responsabilità dell’imputato, anzi, può presuporre che il giudice abbia comunque risolto in senso affermativo le questioni relative alla sussistenza del reato e alla relativa responsabilità, trattandosi, come già rilevato, di valutazioni logicamente prodromiche rispetto alla verifica dei presupposti applicativi dell’istituto de quo. Spesso, peraltro, tale reiezione può essere determinata dal fatto che si reputi necessaria l’instaurazione dell’udienza preliminare per fruire di pronunce che si rendono utilizzabili solo in quella sede, ove, ad esempio, si ritenga la declaratoria d’irrilevanza una risposta troppo ‘‘debole’’ rispetto alla gravità del fatto commesso e soprattutto non sufficientemente responsabilizzante per l’imputato minorenne. Più precisamente, il rigetto della richiesta può, in ipotesi, essere finalizzato soltanto a sollecitare l’instaurazione dell’udienza preliminare, così da consentire l’adozione di uno dei possibili epiloghi decisori che si rendono fruibili in questa fase. Con il risultato che detta udienza viene funzionalizzata non alla verifica della fondatezza dell’ipotesi accusatoria, ma all’adozione di una formula di definizione anticipata che logicamente presuppone la responsabilità dell’imputato, responsabilità, per l’appunto, già accertata in sede di indagini preliminari e fondata su elementi vagliati in quella sede. (34) Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit. Si noti, peraltro, come tale attribuzione al g.i.p. di un potere definitorio dell’intero procedimento, attraverso la declaratoria d’irrilevanza del fatto, potrebbe considerarsi anomala rispetto alla ripartizione di competenze prevista dall’art. 50-bis dell’ordinamento giudiziario. Al riguardo tuttavia, è stato precisato che « è parso conforme allo spirito della legge semplificare al massimo questa fase della procedura, per evitare che fatti insignificanti finiscano per venire inutilmente sottolineati, vanificando così lo scopo primario del nuovo istituto, e per evidenti ragioni di economia processuale » (Relazione al testo definitivo delle disposizioni sul processo penale a carico d’imputati minorenni, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 221).
— 1037 — In altre parole, il rigetto di una richiesta di declaratoria d’irrilevanza del fatto formulata dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, può essere dettato dall’esclusiva finalità di rendere possibile l’adozione — attraverso la richiesta di rinvio a giudizio e la conseguente instaurazione dell’udienza preliminare — di una diversa formula di definizione anticipata che, per una sequenza procedimentale imposta dal principio di obbligatorietà dell’azione penale, deve comunque presupporre l’avvenuta formulazione dell’imputazione. 6. Tali essendo, in sintesi, le operazioni valutative che il giudice per le indagini preliminari deve compiere allorché gli pervenga una richiesta ex art. 27, d.P.R. n. 448/88, si deve riconoscere che detta attività comporta una valutazione non formale ma di contenuto sulla possibile fondatezza dell’accusa. E, come peraltro già affermato in precedenti decisioni della Corte, una valutazione di merito circa l’idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato vale a radicare l’incompatibilità (35). Tanto più che le valutazioni che il giudice è chiamato a compiere, prima di pronunciarsi in ordine ad una richiesta d’irrilevanza, presentano, alla luce di quanto appena rilevato, uno spessore pregiudicante se non superiore, almeno uguale a quello riscontrabile nella decisione in materia di misure cautelari personali, ipotesi, quest’ultima, già ritenuta dalla Corte idonea a determinare un pregiudizio all’imparzialità del magistrato, pur implicando solo valutazioni strumentali rispetto alla successiva pronuncia finale di merito. Alla luce delle suindicate ragioni sussisterebbero, pertanto, gli estremi per un’ulteriore declaratoria d’incostituzionalità che si collochi in chiave di coerente sviluppo di quella giurisprudenza costituzionale che, a partire dal 1990, attraverso una serie di pronunce additive, ha progressivamente ampliato l’ambito d’operatività dell’art. 34, comma 2, c.p.p. rispetto alla formulazione normativa originaria. L’osservanza delle garanzie costituzionali che delineano il principio del giusto processo (uguaglianza di trattamento, diritto di difesa, precostituzione del giudice naturale, terzietà del giudice, presunzione di non colpevolezza) imporrebbe dunque che anche alla suddetta ipotesi venisse applicata la previsione d’incompatibilità, a presidio dell’imparzialità del giudice. Né altra soluzione potrebbe apparire ragionevolmente giustificabile, sostenendo che al processo minorile debbano accordarsi garanzie inferiori a quelle del processo ordinario, posto che ogni forma d’intervento nei confronti di un soggetto minorenne « mai deve dare luogo ad un minus di garanzie rispetto a quelle riconosciute ai maggiorenni, neppure quando l’intervento si presenta come diretto a proteggerlo da abusi o da rischi di devianza » (36). VANIA PATANÈ Ricercatore presso l’Università di Catania
(35) Si veda, ad esempio, Corte cost., 13-22 aprile 1992, n. 186, cit.; Corte cost., 16-25 marzo 1992, n. 124, cit.; Corte cost., 6-15 settembre 1995, n. 432, cit. (36) Relazione al testo definitivo delle disposizioni sul processo penale a carico d’imputati minorenni, cit., p. 217. Negli stessi termini, cfr., inoltre, ZAPPALÀ, Il processo a carico d’imputati minorenni, in AA.VV., Diritto processuale penale, 2a ed., vol. II, Giuffrè, 1996, p. 664.
b) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. V — 24 settembre 1997 Pres. Palmisano — Rel. Sica — Ric. Sgarbi Diffamazione — Dichiarazioni offensive pronunciate da un parlamentare durante una campagna elettorale — Prerogativa costituzionale della insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni — Attività politica extraparlamentare esplicata all’interno dei partiti — Esclusione (Cost., art. 68; c.p., art. 595). Risponde di diffamazione il parlamentare che, al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni e, in particolare, nel campo della propaganda politica o elettorale, esprima opinioni o giudizi offensivi nei confronti di terzi. Esulano infatti dalla prerogativa costituzionale di cui all’art. 68 Cost. tutte quelle manifestazioni di pensiero, espresse in comizi, cortei, trasmissioni televisive o durante lo svolgimento di scioperi, che come tali non possono vantare alcun collegamento funzionale con l’attività parlamentare, se non soggettivo, in quanto poste in essere da persone fisiche che sono ‘‘anche’’ membri del Parlamento (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — Con sentenza in data 6 marzo 1995, il Pretore circondariale di Palmi dichiara il parlamentare Vittorio Sgarbi, colpevole del reato di diffamazione continuata, per avere offeso la reputazione del senatore Girolamo Tripodi, in due comizi tenuti a Palmi e Rosarno, il 6 aprile 1994, nel corso della campagna elettorale per il rinnovo dei rappresentanti al Parlamento europeo. In esito al processo, l’imputato veniva condannato alla pena della reclusione di mesi uno. Pena sospesa e non menzione. Risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, in favore della costituita parte civile, con una provvisionale immediatamente esecutiva di lire 10.000.000. La Corte di Appello di Reggio Calabria, con il provvedimento impugnato, confermava la decisione del Pretore, condannando lo Sgarbi alle spese del procedimento e a quelle in favore della parte civile. Ricorrono per cassazione i difensori dell’imputato avverso la sent. 28 marzo 1996, nonché avverso l’ordinanza con la quale in data 28 marzo 1996 veniva rigettata l’istanza di rinvio del dibattimento essendo l’imputato impegnato avanti altra sede giudiziaria. Con un primo motivo, deducono la violazione dell’art. 606.1, lett. c) c.p.p., in relazione all’art. 486 c.p.p. e della lett. e), in relazione all’art. 595 c.p. in quanto il differimento dell’udienza era stato richiesto per un contemporaneo impedimento dello Sgarbi, impegnato avanti la Pretura di Ancona, a seguito dell’intimazione a comparire in quella data e con l’avviso che in caso di mancata presentazione si sarebbe disposto l’accompagnamento a mezzo della forza pubblica ex art. 68.2 Costituzione. Contestano, inoltre, il vizio della sentenza nella parte in cui è stata respinta
— 1039 — l’istanza difensiva volta ad ottenere la trasmissione degli atti alla Camera dei Deputati e la sospensione del processo, ai sensi dell’art. 2.4.5 d.l. n. 116 del 12 marzo 1996, fino alla delibera della Camera. Affermano che la trasmissione degli atti e la conseguente sospensione sono sancite in termini di perentorietà, tanto che il provvedimento deve rivestire la forma dell’ordinanza non impugnabile. La violazione di legge è palese, in quanto la Corte non solo ha omesso di provvedere immediatamente sulla richiesta, ma si è riservata, di fatto provvedendo solamente con la sentenza. Né può ritenersi adempiuto l’obbligo di legge — come sostenuto nella sentenza impugnata — con la trasmissione degli atti avvenuta ad opera del Pretore. Infatti, il precetto normativo è stato modificato e soprattutto è stato sottratto al giudice procedente ogni potere di sindacato e trasferito in via esclusiva al potere legislativo. I ricorrenti lamentano, inoltre, che la trasmissione degli atti alla Camera, è un atto necessario da compiersi prima del giudizio. Omettendo di sospendere il procedimento, ne è derivato il difetto di una essenziale condizione di procedibilità, per cui i giudici non avrebbero dovuto procedere oltre nel giudizio, ma emettere il provvedimento di archiviazione ex art. 411 c.p.p. Infatti, la mancata trasmissione degli atti alla Camera, comportava, quale unica alternativa ex d.l. n. 116 del 1996, l’ordinanza per l’applicabilità dell’art. 68 Cost., dichiarativa della mancanza di punibilità del parlamentare. In ogni caso, si sarebbe dovuto emettere una ordinanza e non una sentenza di condanna. Viene, altresì, prospettata la violazione degli art. 68 Cost., avendo la Corte ritenuto che i membri del Parlamento non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, solamente se collegate al mandato parlamentare, in quanto l’intervento dello Sgarbi rappresentava esclusivamente l’espressione del potere-dovere di ogni parlamentare di richiamare la magistratura inquirente ad esercitare con imparzialità la propria attività anche attraverso la sensibilizzazione dell’elettorato. Quindi, il mandato parlamentare non si esaurisce nell’ambito di Montecitorio così come l’immunità deve ritenersi estesa a tutte le attività compiute dal parlamentare anche in altre sedi, in quanto avente valore politico, potendo ricomprendere anche l’attività politica extraparlamentare esplicata all’interno dei partiti e nei confronti degli elettori in rapporto di connessione con l’esercizio delle funzioni tipiche e per fini inerenti al corretto espletamento del mandato ricevuto. Infine, si lamenta che la Corte abbia completamente omesso di valutare che, trattandosi di opinioni espresse in una competizione politica, quale deve considerarsi un comizio elettorale a sostegno di un candidato del suo partito, era ammissibile anche l’uso di toni aspri e polemici. Lo Sgarbi si era limitato a denunciare, nel rispetto dell’art. 67 Cost., la necessità di una attività di indagine imparziale da parte della magistratura, in relazione ad identiche situazioni che erano state segnalate come penalmente rilevanti. Contestano, poi, che essendo la diffamazione un delitto doloso, i giudici di merito hanno completamente omesso di valutare la sussistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 595 c.p.p. ed eventualmente la buona fede dell’imputato. I ricorrenti chiedono l’annullamento della sentenza impugnata con o senza rinvio.
— 1040 — CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il ricorso è infondato e va rigettato. Preliminarmente, non può essere accolta la censura relativa all’ordinanza 28 marzo 1996, con la quale è stata rigettata l’istanza di rinvio dell’udienza dibattimentale perché l’imputato era impegnato avanti altra autorità giudiziaria. Infatti, in punto di fatto, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, la Corte non ha omesso di motivare ‘‘sebbene opportunamente evidenziata dalla difesa e documentata attraverso la produzione del relativo verbale di udienza’’. Né risulta che la presenza dell’imputato ad Ancona non era finalizzata alla costituzione di parte civile, ma dovuta ad una richiesta con intimazione da parte dell’autorità giudiziaria a presentarsi, facendo presente che in caso di mancata presentazione sarebbe stato disposto l’accompagnamento a mezzo della forza pubblica, ai sensi dell’art. 68.2 Costituzione. Invero, dal verbale di dibattimento del 28 marzo 1996, presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, si ricava semplicemente che ‘‘la difesa chiede che la Corte voglia acquisire copia del verbale di udienza del 26 gennaio 1996, presso la Pretura di Ancona; da esso si rileva che l’on.le Sgarbi deve essere presente il giorno 28 marzo 1996, presso la stessa Pretura’’. 2. Ai sensi dell’art. 486.1 c.p.p., la sospensione o il rinvio dell’udienza per l’assenza dell’imputato è subordinata alla sussistenza di una assoluta impossibilità a comparire... per un legittimo impedimento. Il relativo onere incombe all’imputato, il quale deve offrire la prova piena dell’impedimento, che non consente la presenza all’udienza e che contemporaneamente impone il rinvio del dibattimento. Il tutto lasciato alla libera ed autonoma valutazione del giudice. Nella specie, l’imputato non ha assolto all’obbligo incombentegli, ma si è limitato a richiedere che fosse la Corte ad attivarsi perché accertasse la ricorrenza delle condizioni di legge legittimanti il rinvio. Quindi, correttamente la Corte ha respinto la richiesta sul presupposto che — sulla base di quanto semplicemente esposto — non sussisteva alcun impedimento assoluto a comparire e a ritenere che la qualità d’imputato dello Sgarbi, comportasse, viceversa, la scelta di comparire all’udienza. 3. Infondata è l’assunta violazione dell’art. 2 d.l. 12 marzo 1996, n. 116. Infatti, ad avviso dei ricorrenti, tale normativa sottrae, senza eccezioni, la valutazione relativa alla non manifesta infondatezza, alla precedente competenza del giudice procedente, rimettendola alla Camera di appartenenza del parlamentare sottoposto a giudizio, innovando in tal modo la precedente disciplina. Quindi, il giudice, individuato nella Corte di Appello, avrebbe dovuto sospendere il procedimento e trasmettere gli atti alla Camera dei Deputati perché prendesse cognizione della questione. Si osserva. Nessuna violazione di norma di legge è ravvisabile, sul punto, nella decisione impugnata. Va, innanzi tutto, precisato che, contrariamente a quanto sostanzialmente affermano i ricorrenti, non è dato rinvenire, nel sistema normativo dettato dal suddetto decreto-legge, l’obbligo di procedere ad una automatica sospensione del procedimento penale in corso. Ai sensi del quarto comma dell’art. 2, solamente nel caso in cui il giudice ritenga di non accogliere la richiesta di applicabilità dell’art. 68.1 Cost., proposta da una delle parti, gli atti vanno trasmessi alla Camera di ap-
— 1041 — partenenza del parlamentare. Pertanto, soltanto in presenza dell’avvenuta trasmissione di copia degli atti, il procedimento è sospeso fino alla deliberazione e comunque non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti. Quanto sopra serve a chiarire il ragionamento seguito dalla sentenza impugnata e a dimostrare la correttezza e la logicità della motivazione con la quale è stata respinta la richiesta di nuova sospensione invocata dall’imputato, nel giudizio di appello. Lo spirito delle disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 68.1 della Costituzione, è quello di permettere al Parlamento — in presenza di una ritenuta inapplicabilità, da parte del giudice procedente, di tale norma — attraverso la concessione di un termine limitato, di deliberare se il fatto per il quale è in corso il procedimento, concerna o meno opinioni espresse o voti dati da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni. E, mentre il d.l. 13 gennaio 1995, n. 7 (non convertito in legge) facultizzava il giudice alla trasmissione qualora non ritenesse la questione manifestamente infondata, il d.l. 12 marzo 1996, n. 116 (non convertito in legge) prevedeva l’obbligo della trasmissione nel caso in cui il giudice non ritenesse di accogliere l’eccezione concernente l’applicabilità dell’art. 68.1 Cost. 4. Nella specie, il Pretore, sulla base del decreto n. 7 del 1995, aveva già, disposto la trasmissione degli atti al Parlamento, quando la trasmissione non era imposta ed il Parlamento aveva ritenuto di far decorrere il termine concesso dalla legge senza esprimere il proprio parere sul fatto e, cioè, senza deliberare se esso concernesse o meno opinioni espresse o voti dati dallo Sgarbi nell’esercizio delle sue funzioni. In tal modo aveva autorizzato il giudice a riprendere il procedimento, delegandolo al relativo giudizio. Quindi, a seguito del successivo decreto-legge, la disciplina nuova nei suoi presupposti e nelle modalità di applicazione, in nulla ha innovato relativamente allo scopo, che è rimasto quello di permettere al Parlamento di deliberare il proprio parere nel termine concessogli. Ed è ciò che è avvenuto nel giudizio di primo grado. Né è pensabile la rinnovazione dell’adempimento nella speranza che questa volta la Camera di appartenenza deliberi ancora e, possibilmente, in maniera positiva. Tuttavia, il decreto del quale si è invocata l’applicazione non è stato convertito nei termini, così come non lo sono stati i successivi, tanto che alla fine del 1996, il Senato ha lasciato decadere l’ultimo d.l. n. 555, volto ad attuare la nuova disciplina dell’immunità parlamentare, così come portata dall’art. 68 Cost., novellato dalla l. cost. n. 3 del 29 ottobre 1993. 5. Né trova applicazione, nel caso di specie, perché dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte Cost. sent. n. 51 del 1985), la disposizione dell’art. 2.5 c.p., che rendeva applicabili le disposizioni dell’art. 2 commi 2 e 3 c.p., anche, alla ipotesi della mancata conversione per qualsiasi causa di un decreto-legge recante norma più favorevole. Invero, la norma che stabiliva i principi in tema di successione di leggi nel tempo, comprese quelle relative alla mancata conversione dei decreti legge, era la coerente conseguenza di un sistema derivante dalle leggi 31 gennaio 1926, n. 100 e 8 giugno 1939, n. 860, per cui il decreto-legge costituiva una fonte effettiva di produzione di norme, anche se limitata al tempo compreso tra la
— 1042 — sua emanazione e il termine finale, nel quale il decreto doveva considerarsi non convertito. Trattasi di effetti conseguenti alle modificazioni introdotte dall’art. 77.3 u.p. Cost., secondo il quale, il decreto non convertito, perde efficacia sin dall’inizio (ex tunc) e, quindi, non è idoneo a produrrre gli effetti di cui all’art. 2, commi 2 e 3 c.p. e, in particolare, non può considerarsi in vigore soltanto per un determinato periodo di tempo, né determinare una successione di leggi. 6. Pertanto, decaduto il d.l. n. 555 del 1996, è, altresì, venuto meno il meccanismo relativo della necessaria sospensione del procedimento giurisdizionale e, quindi, l’autorità giudiziaria dovrà procedere tenendo conto della norma costituzionale, valutando, cioé, caso per caso, con riferimento ai fatti oggetto del giudizio, se trattasi o meno di opinioni espresse dai membri del Parlamento, nell’esercizio delle loro funzioni, alle quali solamente viene limitata l’estensione della insindacabilità delle stesse. 7. Occorre, pertanto, determinare quali siano gli atti c.d. di funzione, cioé, quegli atti che compiuti da un parlamentare in relazione a tale specifica qualità, si rendono insindacabili anche da parte dell’autorità giudiziaria, perché espressione della loro indipendenza ed autonomia. Sicuramente, venuto meno il sistema introdotto dal d.l. 15 novembre 1993, n. 455, non convertito e reiterato con significative innovazioni, ben diciotto volte — nell’ultima versione, l’insindacabilità veniva estesa anche alle ‘‘attività divulgative connesse, pur se svolte fuori del Parlamento’’ — spetta al giudice verificare, di volta in volta, se procedere oltre nel giudizio oppure fermarsi di fronte all’impedimento costituito dall’insindacabilità. In secondo luogo, per insindacabilità deve intendersi quella particolare situazione nella quale le opinioni espresse, per se stesse, non possono essere sottoposte né a controllo né a giudizio di altre autorità, dovendosi ritenere sempre e comunque legittime. Con riferimento all’attività parlamentare, il costituente ha inteso assicurare libertà di parola ai parlamentari, cioè, una libertà più ampia di quella di pensiero, che l’art. 21 della Costituzione garantisce a tutti i cittadini. È evidente, che così intesa, la libertà di parola acquista un carattere di assolutezza, sia con riferimento allo svolgimento dell’attività parlamentare, sia con riguardo al tempo, in quanto l’insindacabilità non trova un limite temporale nel mandato parlamentare, ma si concretizza in una garanzia perpetua. 8. Ciò premesso, proprio tale garanzia, che costituisce la caratteristica dell’insindacabilità ne individua al tempo stesso il suo limite, nel senso che essa deve intendersi in modo restrittivo e, cioé, ritenersi sussistente solamente con riferimento alla manifestazione del pensiero all’interno del Parlamento, ivi comprese le valutazioni e i giudizi resi quale componente di una commissione parlamentare, anche se rese fuori dallo stesso (Corte Cost. sent. n. 443 del 1993). Non possono, pertanto, condividersi le affermazioni della difesa dello Sgarbi, secondo le quali ogni limite posto al parlamentare è una privazione nei confronti degli elettori e che l’insindacabilità non si esaurisce nella attività politica e legislativa, ma deve essere estesa a tutte le attività dallo stesso compiute, anche in altre
— 1043 — sedi, in quanto rivestenti valore politico e, comunque, sempre collegate e strumentali al mandato. 9. Al contrario, secondo questa Corte, la norma costituzionale non consente una tale estensione della prerogativa, la quale va, invece, limitata all’esercizio delle funzioni proprie di membro del Parlamento, sia come singolo sia come componente del collegio e si esaurisce nel compimento degli atti tipici del mandato parlamentare (presentazione di disegni di legge, interpellanze e interrogazioni, relazioni, dichiarazioni), compiuti nei vari organi parlamentari o para-parlamentari (gruppi), ma non al di fuori di essi, con l’esclusione di quelle attività che, pur latamente connesse con essa, ne sono tuttavia estranee, quale l’attività politica extraparlamentare esplicata all’interno dei partiti. 10. Pertanto, non possono farsi rientrare nella attività coperta dalla suddetta prerogativa, senza superare immotivatamente, in maniera illegittima e svuotandola di contenuto, la disposizione del primo comma dell’art. 68 Cost., tutte quelle manifestazioni di pensiero che espresse in comizi, cortei, trasmissioni televisive o durante lo svolgimento di scioperi, come tali, non possono vantare alcun collegamento funzionale con l’attività parlamentare, se non soggettivo, in quanto poste in essere da persone fisiche che sono ‘‘anche’’ membri del Parlamento. Invero, così interpretando una norma che tale interpretazione rifiuta, sia letteralmente che sistematicamente, si crea una evidente disparità di trattamento con gli altri cittadini che, pur partecipando alla vita politica, anche nelle stesse circostanze di tempo e di luogo del parlamentare, non sono tuttavia assistiti dalla stessa garanzia di insindacabilità nell’espressione del proprio pensiero. Va, perciò, nettamente distinta l’attività svolta in attuazione del mandato politico, che intercorre tra elettori ed eletti e lo svolgimento delle funzioni parlamentari che vengono esercitate nell’interesse dell’intera nazione, e che, proprio per tale loro specificità vengono diversamente tutelate. 11. Né va sottaciuto il problema, non meno grave, della totale mancanza di tutela dei soggetti che siano stati offesi, nel proprio onore e dignità, da frasi o scritti a contenuto diffamatorio di deputati o senatori, se venisse avallata la tesi della insindacabilità in senso lato delle opinioni espresse, da tali soggetti, assumendosi in ogni caso — solamente per legittimare e giustificare tali comportamenti, altrimenti sindacabili, e, quindi, garantire loro una posizione di favore — la sussistenza di un collegamento o connessione funzionale, con l’esercizio dell’attività parlamentare. 12. In conclusione, il parlamentare al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, e, in particolare, nel campo della propaganda politica o elettorale (volta alla diffusione di programmi e idee), incontra gli stessi limiti espressivi degli altri cittadini, per cui risponde di diffamazione nel caso in cui esprima opinioni o giudizi offensivi nei confronti di terzi. 13. Nella specie, accertato, alla luce di quanto sopra esposto, che non ricorrono le condizioni per ritenere insindacabili le affermazioni fatte dallo Sgarbi, in occasione dei due comizi elettorali tenuti a Palmi e a Rosarno il 6 giugno 1994, affermazioni riconosciute dallo stesso imputato e, in ogni caso confermate dai te-
— 1044 — stimoni assunti in dibattimento, deve riconoscersi il loro contenuto diffamatorio nei confronti del senatore Tripodi. Infatti, esattamente la Corte di merito ha ritenuto che, altro è invitare la magistratura all’imparzialità e, altro è definire la persona che si assume essere stata indebitamente pretermessa dalle indagini, come colluso con la mafia ed eletto con i voti della mafia (teste Cimato) ovvero colluso con ambienti malavitosi (teste Infantino) o colluso con le cosche (teste Greco). 14. Con l’ultimo motivo del ricorso, la difesa del ricorrente lamenta che i giudici di prime e seconde cure non abbiano svolto alcuna indagine in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato contestato allo Sgarbi. Si osserva. Ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di diffamazione, per costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, è sufficiente il solo dolo generico e, cioé, la consapevolezza di offendere l’onore o la reputazione di altro soggetto e, quando il carattere e la natura delle espressioni usate assuma una consistenza diffamatoria intrinseca (come nella specie) che non può certamente sfuggire all’agente, il quale le ha usate proprio per dare maggiore efficacia al suo dictum, non occorre svolgere nessuna particolare indagine sulla presenza o meno dell’elemento soggettivo del reato. RIGETTA IL RICORSO. — Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
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L’art. 68, primo comma, della Costituzione: l’insindacabilità dei membri del Parlamento.
1. Con la sentenza che si annota la Corte di Cassazione torna ad occuparsi del dibattuto tema dell’ambito oggettivo di applicazione della prerogativa prevista dall’art. 68, primo comma, Cost. che garantisce l’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni, escludendo che essi possano essere chiamati a rispondere delle manifestazioni del pensiero compiute nello svolgimento delle loro funzioni. La pronuncia trae occasione dal ricorso presentato dall’on. deputato Sgarbi avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la decisione del Pretore di Palmi che lo aveva dichiarato colpevole del reato di diffamazione continuata per le dichiarazioni offensive della reputazione di altro parlamentare, profferite in occasione di due comizi tenuti nel corso della campagna elettorale per il rinnovo dei rappresentanti al Parlamento europeo. Con tale ricorso la Suprema Corte è stata chiamata a decidere se possano considerarsi insindacabili le opinioni espresse nell’esercizio dell’attività politica extraparlamentare svolta all’interno dei partiti e nei confronti degli elettori e più in generale ad individuare quali siano le attività che costituiscono esercizio della funzione parlamentare sottratte al sindacato del giudice ordinario. 2. Preliminarmente la Corte affronta il problema della possibilità per l’autorità giudiziaria di pronunciarsi in merito alla sussistenza o meno della prerogativa, in mancanza di una decisione della Camera di appartenenza del Parlamentare.
— 1045 — La pronuncia della Cassazione interviene dopo che è decaduto l’ultimo dei decreti legge (d.l. n. 555 del 23 ottobre 1996) che dettavano norme urgenti per l’attuazione dell’art. 68, primo comma, Cost. (1). Tali decreti, sia pure con meccanismi diversi (2), introducevano una sorta di ‘‘pregiudizialità parlamentare’’ per effetto della quale veniva riservata alle Camere la valutazione e la decisione circa la sussistenza in concreto della prerogativa. Tale decisione era per il giudice ordinario vincolante, nel senso che, a fronte di una pronuncia positiva delle Camere, era precluso l’inizio o la prosecuzione di qualsiasi giudizio di responsabilità a carico del parlamentare. Nella sent. n. 1183 la Cassazione afferma che, decaduto il d.l. n. 555 del 1996, spetta all’autorità giudiziaria valutare caso per caso se le opinioni espresse dai membri del Parlamento costituiscano esercizio della funzione e come tali siano insindacabili, senza che il giudice debba sollecitare e attendere una pronuncia delle Camere, in mancanza di un’espressa previsione normativa in tal senso. Tale decisione (3) con cui la Corte esclude la sussistenza di una ‘‘pregiudizialità parlamentare’’, si pone in linea con la recente pronuncia n. 265 del 23 luglio 1997 della Corte Costituzionale. Ribadendo il principio, già affermato fin dalla propria sent. n. 1150 del 1988, per cui il potere di valutazione circa la sussistenza della prerogativa spetta alla Camera di appartenenza del parlamentare, con la conseguenza di precludere al giudice una pronuncia di responsabilità, tuttavia la Corte Costituzionale ha affermato che, avendo l’art. 68, primo comma, Cost. natura sostanziale e non processuale, qualora in concreto manchi una decisione del Parlamento, il giudice ‘‘può e deve’’ pronunciarsi sulla applicabilità o meno, nella specie, dell’immunità sostanziale. 3. Il nodo centrale affrontato dalla sentenza in commento, attiene, come già accennato, all’individuazione delle attività che possono qualificarsi come esercizio della funzione parlamentare e nell’ambito delle quali le opinioni espresse dai membri del Parlamento siano da considerarsi insindacabili. Tale questione, dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza, nasce dalla genericità della previsione costituzionale che estende la garanzia alle manifestazioni del pensiero compiute da deputati e senatori ‘‘nell’esercizio delle loro funzioni’’. (1) La materia è stata disciplinata per la prima volta con il d.l. 15 novembre 1993, n. 455, emanato subito dopo che la l. cost. n. 3 del 1993, modificando l’art. 68, secondo comma, Cost., ha abrogato l’istituto dell’autorizzazione a procedere. Il citato decreto-legge, dopo essere stato reiterato dal Governo per ben diciotto volte (si veda da ultimo d.l. n. 555 del 1996), non è stato più ripresentato. (2) I primi decreti-legge stabilivano l’obbligo per il giudice, qualora non avesse ritenuto evidente l’applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost., di sospendere il procedimento e rimettere con ordinanza non impugnabile gli atti alla Camera di appartenenza perché questa deliberasse in ordine alla sussistenza della prerogativa. Tale meccanismo è stato variamente modificato nei successivi decreti-legge. In particolare, a partire dal d.l. 116 del 12 marzo 1996, la trasmissione degli atti da parte del giudice al Parlamento e la sospensione del procedimento diveniva automatica e non condizionata alla previa valutazione di ‘‘non manifesta infondatezza’’ dell’eccezione di applicabilità dell’art. 68. Sulla questione si vedano, tra gli altri, R. ROMBOLI, in Foro it., 1996, I, 2315; ID., La ‘‘pregiudizialità parlamentare’’ per le opinioni espresse ed i voti dati dai membri delle Camere nell’esercizio delle loro funzioni: un istituto nuovo da ripensare (e da abolire), in Foro it., 1994, I, 995; M. LOPRESTI, Insindacabilità del parlamentare e onere del ricorso per conflitto di attribuzione: la Corte ribadisce la propria giurisprudenza (e preannuncia una decisione ‘‘sostanziale’’?), in Giur. it., 1996, 551; G. LASORELLA, Procedimenti e deliberazioni parlamentari in materia di immunità dopo la riforma dell’art. 68 della Costituzione (Appunti per una riforma dei regolamenti delle Camere), in Boll. inf. cost. e parlam., 1994, n. 3, 51 ss. Si veda anche il Parere del Consiglio Superiore della magistratura sul decreto 15 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, 986 e ss. (3) Nello stesso senso si v. da ultimo anche Tribunale di Torino, sez. III pen., sent. 9 gennaio 1998, 398, in Guida al diritto, n. 11, 21 marzo 1998, 70 ss., con nota di C. Maina.
— 1046 — Una parte minoritaria della dottrina (4) e della giurisprudenza di merito (5), sostengono che l’art. 68 avrebbe ad oggetto non solo le opinioni espresse nell’esercizio della funzione tipicamente parlamentare, ma anche nello svolgimento di atti atipici e più in generale, di ogni attività lato sensu politica, in quanto anche le attività svolte nell’esercizio extraparlamentare del mandato politico, costituirebbero espletamento delle funzioni parlamentari (così per esempio, l’attività di partito, quella giornalistica, la partecipazione a comizi). Si afferma infatti che, per il ruolo di mediazione tra potere legislativo, partiti politici ed elettori, svolto dai parlamentari, la manifestazione di opinioni anche al di fuori delle Camere costituirebbe momento essenziale dell’adempimento del mandato (6), il quale, in forza dell’art. 67, Cost., non può ritenersi limitato alle sole attività svolte all’interno del Parlamento (7). In tal senso è orientata anche la prassi parlamentare (8) nell’ambito della quale, soprattutto a seguito dell’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere ad opera della legge cost. 29 ottobre 1993, n. 3, è prevalsa un’interpretazione estensiva della prerogativa costituzionale nella quale sono fatti rientrare tutti i comportamenti riconducibili all’attività politica genericamente intesa, anche se posti in essere fuori dalle Camere ed anche se consistenti in giudizi ‘‘oggettivamente pesanti’’, tali da costituire astrattamente illecito (9). Per contro la dottrina prevalente (10) ritiene che l’art. 68, primo comma, Cost., nel limitare l’insindacabilità alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni, si riferisce unicamente al compimento di specifici atti dell’ufficio di deputato o senatore (quali mozioni, interrogazioni, interpellanze), anche se compiuti fuori dalle Camere, come avviene nel caso delle inchieste parlamentari o delle attività delle Commissioni in sede c.d. politica. E ciò per il decisivo argomento che laddove si estendesse la prerogativa anche all’attività genericamente politica dei parlamentari, si verrebbe ad accordare loro una posizione privilegiata rispetto a quella dei comuni cittadini, così urtando contro la ratio della norma che è quella (4) E. CAPALOZZA, L’immunità parlamentare e l’art. 68, primo comma della Costituzione, in Scritti giuridico-penali 1932-1962, Padova, 1962; S. MANNUZZU, Immunità parlamentari e processo democratico, in Pol. dir., 1981, 71 e ss.; A. MANZELLA, Il Parlamento, Bologna, 1992, 188; BARILE, CHELI, GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1995, 195. (5) App. Napoli, sent. 5 febbraio 1981, n. 2864, in CED; App. Napoli, 23 dicembre 1980, in Foro it., 1981, II, 384; App. Roma, 16 gennaio 1991, in Giur. cost., 1993, 4065. (6) Così LODATO, Immunità parlamentare per comizi diffamatori: garanzia o privilegio?, in Dir. informazione e informatica, 1992, 826. (7) In tal senso CAPALOZZA, L’immunità parlamentare e l’art. 68 (primo comma) Cost., in Montecitorio, 1949, III, 4 e ss. (8) Sui recenti orientamenti della prassi parlamentare si veda in particolare M.C. GRISOLIA, L’insindacabilità dei membri delle Camere ‘‘per le opinioni espresse e i voti dati’’. Un consolidato istituto parlamentare di diffiicile regolamentazione, in Dir. e soc., 1995, 25 e ss.; si veda inoltre l’ampio excursus delle più recenti decisioni del Parlamento in materia in G. LASORELLA, op. cit., 66. (9) Si veda al riguardo G. LASORELLA, op. cit., pag. 68, il quale tra l’altro evidenzia ‘‘una sempre più intensa politicizzazione delle decisioni adottate’’, nonché la recente tendenza delle Camere ‘‘a decidere caso per caso, in modo svincolato da criteri predeterminati’’. (10) Si veda, tra gli altri, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, 492; T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 1988, 294; F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 819; G. LONG, Art. 68, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1986, 185 e ss.; G. ZAGREBELSKY, Le immunità parlamentari. Natura e limiti di una garanzia costituzionale, Torino, 1979, 38; G. VASSALLI, Punti interrogativi sulla estensione della irresponsabilità dei membri del Parlamento, in Giust. pen., 1973, I, 193 e ss.; N. SORRENTINO, nota a Trib. Roma 1993, in Foro it., 1994, I, 1237 e ss.; M. OLIVIERO, In tema di insindacabilità dei membri del Parlamento, in Giur. cost., 1994, 443; F. FARALLI, In tema di limiti al diritto di cronaca e alla libertà di espressione dei parlamentari, in Giur. cost., 1993, 4079.
— 1047 — di garantire lo svolgimento della funzione parlamentare e non già di riconoscere un privilegio ai singoli membri del Parlamento (11). Anche la Corte di Cassazione nella sent. n. 1183 del 1997 accoglie una lettura restrittiva dell’art. 68 Cost., così come già aveva fatto nelle sue precedenti pronunce (12). Essa infatti individua l’estensione dell’insindacabilità tenendo conto da un lato, della ratio dell’istituto — ravvisata nel sottrarre al controllo e al giudizio di altre autorità le opinioni espresse dai parlamentari al fine di assicurare loro una libertà di parola più ampia della libertà di pensiero che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini — e dall’altro lato tenendo conto del principio di uguaglianza, nonché dell’esigenza di non privare totalmente di tutela i soggetti che siano offesi nell’onore e nella dignità dalle opinioni espresse dai membri del Parlamento. Delineati così i confini della prerogativa, la Cassazione afferma che rientrano nell’ambito dell’art. 68, primo comma, Cost. soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni tipiche e proprie di membro del Parlamento, poste in essere all’interno degli organi parlamentari o paraparlamentari, ma non quelle compiute al di fuori di esse. Restano quindi escluse le attività diverse da quelle suddette, quali in genere le attività politiche extraparlamentari, svolte in attuazione del mandato politico. In sostanza la Corte, come già aveva fatto in passato, opera una netta distinzione tra attività che costituiscono esercizio del mandato parlamentare, a tutela delle quali è posta la prerogativa dell’insindacabilità e le attività svolte in attuazione del mandato politico che intercorre tra eletti ed elettori, nell’esercizio delle quali il parlamentare incontra le stesse limitazioni degli altri cittadini. A ritenere diversamente — afferma la Cassazione — si svuoterebbe di significato la prerogativa in questione e si creerebbe un ingiustificato trattamento privilegiato in favore dei parlamentari. 4. Il problema dell’individuazione dell’oggetto dell’insindacabilità, tuttavia, si pone soprattutto in relazione alle opinioni espresse da deputati e senatori nello svolgimento di attività che, benché non tipiche della funzione parlamentare, siano ad esse connesse, in quanto preparatorie, strumentali o consequenziali. Così ad esempio, in concreto si è trattato di stabilire se possano considerarsi insindacabili le dichiarazioni rese alla stampa dal parlamentare che riferisce di fatti di cui è venuto a conoscenza nello svolgimento di attività all’interno del Parlamento (per es. in Commissioni d’inchiesta); oppure quelle in cui riferisce di interpellanze o interrogazioni da lui presentate; oppure ancora se possa essere chiamato a rispondere delle affermazioni rese nello svolgimento di attività preparatoria e strumentale all’esercizio di un atto tipico, o infine dei commenti fatti in ordine alle attività compiute all’interno del Parlamento. Possono anche tali dichiarazioni considerarsi rese ‘‘nell’esercizio delle funzioni’’ e dunque coperte dalla prerogativa costituzionale? Benché la fattispecie all’esame della Cassazione nella sentenza in commento non ponesse una tale questione, tuttavia la lettura restrittiva dell’art. 68 accolta dalla Corte porta ad una soluzione negativa del problema. Affermando, come fa la (11) In questo senso Corte Costituzionale, sent. 23 luglio 1997 n. 265, in Foro it., 1997, I, 2361, con nota di R. ROMBOLI. (12) C. Cass., sez. V, 14 gennaio 1982, n. 1732, in Giur. it., 1982, 436; C. Cass., sez. V, 1 marzo 1982, n. 2039; C. Cass., sez. VI 16 giugno 1980, in Giust. pen., 1981, II, 678. Anche la giurisprudenza di merito, soprattutto nelle pronunce più recenti appare orientata per una lettura restrittiva dell’art. 68, primo comma, Cost.: si veda la già citata sent. Trib. Torino n. 398 del 1998; Trib. Milano, ord. 16 aprile 1997, in Foro it., 1997, I, 1951; Trib. Roma, 25 settembre 1989, in Dir. inf., 1990, 993; Trib. Roma, 19 giugno 1985, in Giur. cost., 1987, 13.
— 1048 — Cassazione, che sono insindacabili solo quelle attività svolte al di fuori del Parlamento che però costituiscano svolgimento di funzione tipicamente parlamentare, restano escluse dall’ambito di operatività dell’art. 68, tutte quelle dichiarazioni che siano soltanto connesse, più o meno intensamente, con l’attività parlamentare tipica. Una tale interpretazione dell’insindacabilità non appare del tutto soddisfacente, in quanto non tiene conto della peculiarità e complessità della funzione parlamentare. Se da un lato è infatti necessario individuare un limite alla prerogativa per evitare che essa sconfini in privilegio (come dimostra la prassi parlamentare e i numerosi conflitti che la Corte Costituzionale è stata chiamata a risolvere), dall’altro, sembra eccessivo limitare l’insindacabilità esclusivamente agli atti tipici, non esaurendosi la funzione parlamentare nel compimento di essi. Il vero problema sta piuttosto nell’individuare il nesso che deve legare le attività atipiche con le funzioni tipiche parlamentari (13). Eccessivo, come si è già detto, è ritenere che sia sufficiente un nesso di semplice occasionalità dell’attività con la funzione parlamentare, in quanto in tal modo l’insindacabilità viene ad essere collegata al solo elemento soggettivo, cioè alla qualifica di deputato o senatore rivestita dall’autore delle dichiarazioni, svincolando del tutto la prerogativa dalla funzione. Così, non si ritiene possano considerarsi esercizio della funzione, non solo le opinioni espresse nello svolgimento di attività politica (comizi, interviste, attività di partito), ma neppure le dichiarazioni rese da un parlamentare in qualità di testimone nel corso di un processo e ribadite in interviste sulla stampa e in pubblici dibattiti (14). Per pervenire ad una lettura dell’art. 68 che senza svuotarne la portata e frustrarne la ratio, tenga conto del complesso atteggiarsi della funzione parlamentare, occorre innanzitutto interpretare rigorosamente il concetto di opinioni cui si riferisce l’art. 68, primo comma, Cost. Tali devono considerarsi le manifestazioni del pensiero, della volontà, l’esposizione di giudizi, ed in particolare le valutazioni soggettive di eventi riconosciuti nella loro oggettività. Ne restano invece escluse non solo le c.d. ingiurie reali, cioè le lesioni e violenze materiali (le quali peraltro non sono essenziali allo svolgimento della funzione), ma anche le attribuzioni di fatti determinati in capo ad una persona specifica (tali da costituire anche astrattamente illeciti), non potendosi queste considerare come valutazioni soggettive di eventi. Inoltre è necessario che nel tracciare la linea di confine tra responsabilità e irresponsabilità, si tenga conto dell’esigenza di contemperare il libero e autonomo esercizio dell’attività parlamentare con l’esigenza di non comprimere ingiustificatamente i diritti, del pari costituzionalmente garantiti, dei cittadini. Partendo da tali presupposti, appare corretto ritenere che siano riconducibili nell’ambito dell’art. 68 Cost., non solo le attività tipiche, ma anche quelle che si pongano in un rapporto di necessaria connessione, di strumentalità diretta con le funzioni tipiche del mandato parlamentare. In applicazione di tale criterio, dovranno considerarsi insindacabili le dichiarazioni contenute in articoli giornalistici, conferenze stampa, interviste, che consistano in una mera ripetizione, in un (13) Per una sintesi delle diverse posizioni individuabili sul tema dell’oggetto dell’insindacabilità, si veda F. FARALLI, op. cit., 4079. (14) Si veda al riguardo Trib. Milano, ord. 16 aprile 1997, cit., che nel sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale, contestava la decisione della Camera dei deputati che aveva qualificato come ‘‘opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni’’ le dichiarazioni rese nei confronti del Dr. Salvini dall’on. Boato come testimone davanti alla Corte d’Assise di Milano e poi ribadite nel corso di un dibattito e con interviste alla stampa. Si veda anche Corte Cost., sent. 24 aprile 1996, n. 129, in Foro it., 1996, I, 2316.
— 1049 — resoconto esatto delle discussioni svoltesi nella Camera di appartenenza (15), mentre esuleranno dalla prerogativa i commenti o i giudizi a contenuto diffamatorio nei confronti di un comune cittadino resi in un’intervista o in una riunione pubblica. In questo senso si è pronunciata la Corte Costituzionale a proposito dell’analoga prerogativa riconosciuta dall’art. 122, quarto comma, Cost. ai consiglieri regionali, sostenendo che devono ritenersi in essa ricomprese le dichiarazioni che presentino una connessione non solo soggettiva ma anche oggettiva e temporale con l’esercizio delle funzioni consiliari. In tal modo la Corte ha ritenuto insindacabili quelle ‘‘opinioni che il consigliere regionale intende esprimere pubblicamente in relazione al contenuto di atti tipici del suo mandato’’, e che, benché rese fuori dalla sede consiliare, risultino connesse all’esercizio delle funzioni (16). Anche con riferimento all’art. 68, primo comma, Cost. è da registrare il recente tentativo della Corte di definire in modo più rigoroso, rispetto a quanto avesse fatto in precedenza (17), l’oggetto dell’insindacabilità dei membri del Parlamento. Nella pronuncia n. 375 del 1997 (18), la Corte, chiamata a risolvere un conflitto di attribuzioni tra Parlamento ed autorità giudiziaria, partendo dalla considerazione della peculiare rilevanza della funzione parlamentare che ha ‘‘natura generale ed è libera nel fine’’, ha affermato che se da un lato ad essa non può ricondursi l’intera attività politica del parlamentare, dall’altro tale funzione non si risolve nel compimento di atti tipici. Perché le opinioni espresse da deputati e senatori possano ritenersi insindacabili, deve sussistere un nesso di strumentalità tra tali opinioni e l’esercizio dell’attività parlamentare. Questo nesso, ad avviso della Corte, ricorre tutte le volte in cui le dichiarazioni del parlamentare, pur non essendo meramente riproduttive degli interventi da lui svolti all’interno del Parlamento, siano divulgative di una scelta politica che si è espressa in puntuali atti funzionali, quali ad esempio la presentazione di emendamenti o di disegni di legge. Il criterio adottato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza ora richiamata, per individuare le attività funzionali tutelate dall’art. 68, appare contemperare le contrapposte esigenze coinvolte dalla prerogativa dell’insindacabilità, ed individuare un punto di equilibrio tra esse (19). 5. Anche il legislatore ordinario, a seguito dell’emanazione della l. cost. n. 3 del 1993, ha avvertito il problema dell’estensione dell’ambito dell’irresponsabilità dei membri del Parlamento. Infatti l’abrogazione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere ad opera della citata legge ha, tra l’altro, determinato il venir meno del meccanismo della c.d. insindacabilità indiretta (20), per effetto del quale le Camere pervenivano di (15) Così Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 443, in Foro it., 1994, I, 985; DI MUCCIO, L’art. 68 della Costituzione. L’onorevole risarcirà i danni?, in Parlamento, 1987, (6/8), 39 e ss.; VASSALLI, op. cit., 198; G.P. VOENA, Conferenza stampa di un parlamentare e dichiarazioni diffamatorie, in questa Rivista, 1980, 302 e ss. (16) Corte Cost. 22 giugno 1995, n. 274, in Regioni, 1995, 1292 e ss.; F. FARALLI, A proposito della portata dell’immunità dei consiglieri regionali e della definizione del concetto di funzione, in Giur. cost., 1995, 3717 e ss. (17) Ci si riferisce in particolare a Corte Cost. 24 aprile 1996, n. 129, in Foro it., 1996, I, 2315 e Corte Cost. 2 novembre 1996, n. 379, in Foro it., 1997, I, 370, in cui la Corte afferma che rientra nella prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, Cost., ogni atto che non leda o comprima diritti personali dei parlamentari o di terzi. (18) Corte Cost. 5 dicembre 1997, n. 375, in Gazz. giur. Giuffrè, n. 3/98, 41 e ss. Per un commento alla citata sentenza si veda G. RIVOSECCHI, La Corte Costituzionale ancora in tema di insindacabilità dei membri del Parlamento, in Gazz. giur. Giuffrè, n. 5/98, 3 e ss. (19) Così R. RIVOSECCHI, op. cit., 3 (20) Si veda sul punto M.C. GRISOLIA, op. cit., 43 e ss.; G. LASORELLA, op. cit., 56.
— 1050 — fatto ad un sostanziale ampliamento della prerogativa costituzionale. Esse, investite di una richiesta di autorizzazione a procedere per un fatto che avessero ritenuto coperto dall’insindacabilità, senza pronunciarsi sulla concessione o sul diniego, restituivano gli atti all’autorità giudiziaria perché archiviasse il procedimento. Ma lo strumento principale attraverso il quale si addiveniva all’estensione dell’irresponsabilità era, per così dire, indiretto: per tutti quei comportamenti e quegli atti che non potevano considerarsi tutelati dal primo comma dell’art. 68, Cost., la responsabilità del parlamentare veniva comunque di fatto esclusa attraverso il diniego sistematico dell’autorizzazione a procedere. Ogni atto del parlamentare, purché non attenesse alla sua sfera privata, veniva tutelato attraverso una sorta di insindacabilità ‘‘impropria’’, derivante cioè, non dall’applicazione del primo comma dell’art. 68 (non ricorrendone i presupposti), ma dalle garanzie previste nel secondo e terzo comma del medesimo articolo (21). La soppressione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, ha posto il problema dell’ambito dell’insindacabilità in termini più stringenti. Consapevole di ciò, il Governo con il d.l. 12 marzo 1996, n. 116 e le successive reiterazioni, aveva esteso normativamente le attività coperte dalla prerogativa. L’art. 3 del citato d.l. (e da ultimo il medesimo articolo del successivo d.l. 23 ottobre 1996, n. 555, decaduto e non più ripresentato dal Governo), da un lato, conteneva un’elencazione analitica delle attività tipiche della funzione parlamentare ma, dall’altro, al terzo comma, ampliava l’ambito dell’insindacabilità alle ‘‘attività divulgative connesse, pur se svolte fuori dal Parlamento’’. Anche la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali ha affrontato la questione. L’art. 86 del testo del progetto di legge costituzionale (22) infatti, estende l’insindacabilità alle opinioni espresse e ai voti dati dai membri del Parlamento non solo nell’esercizio, ma anche ‘‘a causa’’ delle loro funzioni. Tale generica espressione, consentendo di ricomprendere nell’ambito della prerogativa tutte le attività che risultino anche latamente connesse con quelle tipicamente parlamentari, sostanzialmente recepisce la ‘‘giurisprudenza’’ delle Camere ormai consolidata che ritiene coperte dalla garanzia costituzionale tutte le attività che siano comunque collegate con lo svolgimento della funzione parlamentare. La formula contenuta nell’art. 86 del progetto, oltre a non chiarire la portata della prerogativa, accentua il problema, evidenziato anche dalla Cassazione nella sent. n. 1183 del 1997, della mancanza di tutela dei soggetti che siano offesi dalle dichiarazioni diffamatorie rese dai parlamentari ed inoltre aumenta il rischio che la prerogativa in parola, da strumento di tutela della funzione, si trasformi in privilegio dei singoli parlamentari, rischio che la Corte Costituzionale nella citata sent. n. 375 del 1997 ha cercato di arginare. dott.ssa MARIA ELENA MELE
(21) Cfr. sul problema O. DOMINIONI, Autorizzazione a procedere e salvaguardia del Parlamento: un rapporto in crisi, in Pol. dir., 1979, 23 e ss.; N. ZANON, Commenti diffamatori e responsabilità civile dei parlamentari, in Giur. cost., 1987, 25 e ss. (22) Atti Camera n. 3931-A; Atti Senato n. 2583-A.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (a cura di M. PISANI)
L’attività internazionale del Ministero della Giustizia nel 1997. « ... Nella materia penale è stata svolta un’intensa attività a livello internazionale, sia nel campo della cooperazione bilaterale che in quello degli organismi multilaterali. Nell’ambito delle relazioni bilaterali si è dato impulso a negoziati nei settori della mutua assistenza, dell’estradizione e del trasferimento delle persone condannate. I negoziati hanno interessato i paesi dell’America latina ed Hong Kong. È inoltre in corso la preparazione di negoziati con la Svizzera ed il Canada. Per quanto attiene all’azione degli enti multilaterali, nell’ambito della costruzione di schemi normativi di cooperazione generica, è da segnalare il lavoro dell’Unione Europea per una nuova convenzione di mutua assistenza, il cui progetto potrà essere definito nei primi sei mesi di quest’anno e che andrà ad accompagnarsi alle convenzioni d’estradizione già elaborate nel 1996, insieme alle quali costituirà una nuova disciplina delle forme fondamentali di cooperazione giudiziaria, innovando profondamente la normativa attuale. Assai rilevante è il rilievo attribuito dagli organismi multilaterali alla lotta alla criminalità. Alle Nazioni Unite ed al Consiglio d’Europa sono stati avviati i primi passi per l’elaborazione di convenzioni generali sul crimine organizzato, che dovrebbero contenere sia obblighi di criminalizzazione dell’associazione criminale, sia disposizioni di cooperazione — di polizia e giudiziaria — in relazione ai reati associativi ed ai reati-scopo più gravi e comuni. Nello stesso campo, più concreti risultati sono stati raggiunti dall’Unione Europea, che ha adottato nell’aprile dello scorso anno un piano d’azione sulla lotta alla criminalità organizzata recante una serie di misure programmatiche di varia natura e di grande portata. In applicazione di tale ‘‘piano’’ l’Unione ha adottato un’azione comune per la costituzione di una rete di punti di contatto ai fini della cooperazione giudiziaria, ed un’altra che costituisce un sistema di monitoraggio delle leggi e delle prassi nazionali nell’applicazione degli accordi internazionali di cooperazione. Non lontano dalla conclusione è, infine, un progetto d’azione comune per l’individuazione di una figura europea di reato consistente nella partecipazione ad un’organizzazione criminale. L’intenso impegno ministeriale nelle sedi europee ha consentito di ottenere che gli strumenti indicati siano fortemente influenzati dalle proposte e dalle esigenze italiane in tale difficile ed importante settore della cooperazione internazionale. In tema di lotta alla corruzione è da segnalare la firma della convenzione dell’OCSE sulla corruzione di funzionari stranieri, mentre proseguono i lavori del Consiglio d’Europa per l’elaborazione di altri strumenti pattizi. Gli atti di terrorismo a mezzo di bombe ed esplosivi sono oggetto di una convenzione delle Nazioni Unite adottata dall’Assemblea generale nella sessione in corso.
— 1052 — I crimini informatici ed in genere i reati dell’alta tecnologia sono stati al centro dell’attenzione del G7 che ha adottato in proposito ‘‘10 principi’’ nella riunione del 10 dicembre scorso. Anche nell’ambito di tali lavori l’attiva partecipazione ministeriale ha consentito di conseguire risultati che possono essere considerati assai soddisfacenti (...) ». (Da Documenti Giustizia, nn. 1-2/1998, cc. 154-156). Italia - Tunisia: ancora sul caso Craxi. In allegato ai resoconti relativi alla seduta della Camera dei Deputati in data 13 maggio 1998, figurano (All. B, pagg. III-V, VIll-XI) due risposte scritte, a firma del Ministro di Grazia e Giustizia G.M. Flick, alle interrogazioni di due deputati del Gruppo « Lega Nord per l’indipendenza della Padania »: la prima, dell’on. D. Apolloni, diretta ai Ministri degli Affari Esteri, della Difesa e dell’Interno; la seconda, dell’on. R. Bosco, diretta ai Ministri di Grazia e Giustizia e del Lavoro e della Previdenza Sociale. Entrambe le interrogazioni facevano riferimento alla posizione penale di Bettino Craxi (rifugiatosi « nella roccaforte di Hammamet », per un « tranquillo soggiorno »), posizione aggravatasi per effetto della condanna nel processo c.d. ENI-SAI, divenuta definitiva a seguito della sentenza della Cassazione in data 12 novembre 1996. Il primo interrogante chiedeva ai Ministri competenti come e quando si proponessero d’intervenire per ottenere l’estradizione del condannato, e, inoltre, perché si fosse « indugiato oltremodo prima della sentenza in questione per ottenere l’estradizione ». Il secondo interrogante, invece, « scontata l’assoluta impossibilità di sottoporre ad ordine di carcerazione l’on. Craxi », interrogava i Ministri di cui alla rubrica per sapere quali interventi urgenti intendessero promuovere « per rendere possibile l’applicazione di misure patrimoniali efficaci, analoghe a quelle previste dalla normativa antimafia », oltre che per impedire che, a quella persona, come pure « a tutti coloro che hanno commesso reati contro la pubblica amministrazione e per i quali è stata pronunciata condanna, fino al completo risarcimento del danno provocato allo Stato sia corrisposta alcuna somma di denaro per alcun titolo da qualsiasi ente pubblico anche economico, o organo costituzionale, anche a titolo di pensione ». Il Guardasigilli forniva un’identica risposta scritta (che, a dir vero, non affrontava le tematiche enunciate dal secondo degli interroganti). Pubblichiamo il testo di tale risposta (così aggiornando quanto si era a suo tempo riferito, in Ind. pen., 1996, pag. 106 e pag. 441): « RISPOSTA. — I) Va premesso che dalle informazioni acquisite risulta che presso l’Autorità giudiziaria del Tribunale di Milano sono stati emessi nei confronti di Craxi Benedetto i seguenti provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale: A) ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 12043/93 R.G.N.R. e n. 2448/94 R.G. Trib. emessa il 7 luglio 1995 dalla VII sezione penale del Tribunale di Milano (vicenda Metropolitana milanese); B) ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 8655/92 R.G.N.R. e n. 671/92 R.G.G.I.P. emessa il 17 luglio 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano (vicenda ENEL); C) ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 9791/95 R.G.N.R. e n. 5044/95 R.G.G.I.P. emessa il 4 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano (vicenda All Iberian); D) ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 9811/93 R.G.N.R. e n. 1791/93 R.G.G.I.P. emessa il 23 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano (vicenda ENI). Inoltre: E) il 13 novembre 1996 la Procura generale di Milano ha emesso a carico di Craxi l’ordine d’esecuzione n. 775/96 R.E. per l’espiazione della pena di anni 5 e mesi 6 di reclusione inflitta dalla Corte d’appello di Milano con sentenza del 2 maggio 1996 (divenuta irre-
— 1053 — vocabile il 12 novembre 1996 e relativa al p.p. n. 12044/93 R.G.N.R. - 1791/93 R.G.G.I.P. (vicenda ENI-SAI). Va aggiunto che la competente Direzione ministeriale non ha invece avuto conferma dalla Procura di Milano ad una richiesta del 4 marzo 1997 sull’ordinanza di custodia cautelare in carcere n. 2071/94 R.G. Trib. emessa il 30 gennaio 1997 dalla V Sezione Penale - Tribunale Milano per finanziamento illecito ai partiti politici di cui la Direzione aveva avuto notizia da un fax del 26 febbraio 1997 dell’Interpol. II) Quanto alle domande d’estradizione: in relazione alle ordinanze di cui alle lett. A) e B) il Ministero ha avanzato alle competenti Autorità tunisine, attraverso i consueti canali, domanda di arresto provvisorio e domanda di estradizione. E precisamente: quanto all’ordinanza sub A: domanda di arresto provvisorio il 10 luglio 1995 e domanda d’estradizione il 4 settembre 1995; quanto all’ordinanza sub B: domanda di arresto provvisorio l’11 agosto 1995 e domanda d’estradizione il 26 febbraio 1996. In relazione a tali domande il Ministero ha svolto gli opportuni solleciti e richiesto informazioni tanto formalmente quanto per le vie brevi alla nostra Ambasciata a Tunisi. Le Autorità tunisine non hanno comunicato alcuna determinazione al riguardo. Attraverso la nostra Rappresentanza a Tunisi, sono state fatte giungere al Ministero generiche osservazioni fatte dal Ministero tunisino della Giustizia all’ambasciatore italiano nelle quali sono state messe in evidenza la complessità e la voluminosità della documentazione estradizionale inviata, problemi di doppia incriminabilità in ordine ai reati di turbativa d’asta e di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti; è stato anche evidenziato che molte delle condotte criminose contestate appaiono dettate da ‘‘motivazioni politiche o ad esse riconducibili’’. La nostra Ambasciata a Tunisi ha continuamente aggiornato il Ministero con diverse note. Da esse risulta che in base a incontri con Autorità governative tunisine era stata manifestata sia pure informalmente sin dal 1995 la disponibilità alle rogatorie anche in tempi rapidi e un atteggiamento negativo sull’estradizione e l’arresto. In realtà a tutt’oggi nessuna risposta è stata data alle Commissioni rogatorie richieste. Successivamente sono state rinnovate dal rappresentante del Ministero degli Affari Esteri a Tunisi le aspettative sull’esito delle procedure giudiziarie anche nei confronti del Ministro degli Affari Esteri tunisino sig. Ben Yahia, che si è riservato di tornare sulla vicenda. Ancora lo stesso rappresentante del Ministero degli Affari Esteri ha rappresentato al Ministero della Giustizia tunisino l’imprescindibile esigenza di dare seguito alle numerose richieste di collaborazione giudiziaria avanzate dalla magistratura italiana, ricevendo come risposta la reiterazione dell’atteggiamento di cautela del governo tunisino per i risvolti politici della vicenda. In particolare le competenti Autorità tunisine ritengono che per l’esecuzione delle commissioni rogatorie degli arresti e dell’estradizione di Craxi sia necessario attendere un’attenuazione del clamore e delle polemiche sull’intera vicenda. L’Autorità italiana in Tunisia ha ribadito che una corretta applicazione dell’accordo italo-tunisino di cooperazione giudiziaria esige che tutte le richieste italiane siano eseguite con lo spirito di collaborazione che caratterizza i rapporti tra i due paesi e ha fatto presente che una sentenza di condanna era passata in giudicato per cui era da attendersi un’ulteriore richiesta di estradizione e di arresto. Va infine precisato che questo Ministero aveva chiesto sin dal 31 ottobre 1996 alla Procura Generale di Milano di far pervenire le esposizioni dei fatti reato ascritti a Craxi in relazione alle due ordinanze di cui alle lett. C) e D) di cui sopra e ogni documentazione utile nonché di esprimere il proprio avviso sull’opportunità di avanzare richieste di arresto provvisorio anche per dette ordinanze. Non è pervenuta risposta dagli uffici giudiziari di Milano, anche se va precisato che nel contempo non è mutato l’atteggiamento negativo delle Autorità tunisine sulla richiesta collaborazione per le domande di estradizione già inoltrate. Va aggiunto che — quanto all’ordine d’esecuzione n. 775/96 (vedi sopra punto E) -
— 1054 — questo Ministero ha avanzato un’ulteriore domanda d’estradizione al Governo della Repubblica tunisina il 22 gennaio 1998 per l’esecuzione (n. 775/96) della pena detentiva di 5 anni e 6 mesi di reclusione. In tale ulteriore domanda d’estradizione avanzata tramite il consueto canale diplomatico si è anche chiesto al Ministero degli Affari Esteri di acquisire ogni ulteriore informazione sul seguito delle due domande precedenti d’estradizione avanzate come si è detto sopra il 4 settembre 1995 e il 26 febbraio 1996. Il Ministero degli Affari Esteri, in data 17 febbraio 1998 ha trasmesso una prima risposta dell’Ambasciata d’Italia a Tunisi con cui è stata confermata la consegna della domanda d’estradizione alle Autorità tunisine ed è stato comunicato che sono state chieste le informazioni del caso anche sulle due precedenti domande di estradizione al Direttore Generale degli Affari consolari del Ministero degli Esteri tunisino. Nella stessa nota è precisato che l’Autorità in questione avrebbe richiesto le informazioni necessarie al Ministero della Giustizia dello Stato tunisino e nel contempo ha lamentato presunti ritardi in procedure estradizionali avanzate all’Italia senza precisare però i casi a cui si riferiva. La nostra Ambasciata ha anche fatto sapere di avere richiamato l’attenzione dell’Autorità tunisina sul fatto che la nuova domanda d’estradizione si riferisce a una sentenza di condanna definitiva. Conclusivamente si ritiene che il Ministero di Grazia e Giustizia e quello degli affari esteri (che ancora a settembre 1997 aveva risollecitato le precedenti domande), per quanto di propria competenza, abbiano intrapreso e non mancheranno di assumere tutte le iniziative che, tenuto conto della reazione tunisina, appaiono idonee per dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari di cui sopra. L’azione del nostro Governo intende richiamare ulteriormente il pieno rispetto dei principi della collaborazione da parte dello Stato tunisino con particolare riferimento alla richiesta d’estradizione concernente l’esecuzione delle sentenze di condanna passate in giudicato, e si adopererà affinché siano superate le motivazioni generiche e non pertinenti che potrebbero essere frapposte per ostacolarne l’accoglimento. Il Ministro di Grazia e Giustizia: Giovanni Maria Flick. » Assistenza giudiziaria e principio di specialità: la posizione elvetica. 1. Dal n. 2/1998 del Journal des Tribunaux, di Losanna (IV, pag. 61 segg.), cominciamo a riprodurre, in traduzione, il testo della « massima » redazionalmente attinta dalla sentenza 15 aprile 1996 del Tribunale federale elvetico (ATF 122 134), il quale si pronunciava a seguito di richiesta di assistenza proveniente dal Pubblico Ministero presso il Tribunale del Land di Berlino: « La concessione di assistenza internazionale sulla base della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 presuppone che le misure richieste siano utili alle indagini penali nello Stato richiedente. A rigore, si potrebbe pensare ad un abuso della procedura di assistenza nell’ipotesi in cui la procedura non sarebbe se non il pretesto per ottenere delle informazioni in realtà destinate esclusivamente ad essere utilizzate come prove in un processo civile. L’art. 67 al. 1 della legge sull’assistenza internazionale in materia penale tende ad impedire che le informazioni ottenute a mezzo dell’assistenza siano prodotte in un processo concernente un reato per il quale l’assistenza è esclusa; al contrario, esso non fa d’ostacolo al loro successivo utilizzo nel quadro di un processo civile, in particolare quando si tratta di soddisfare le richieste risarcitorie del danneggiato derivanti dal reato. Un tale utilizzo è subordinato all’approvazione dell’Ufficio federale di polizia ». 2. La precisazione risulta anche più ragguardevole, ove si pensi che — come si fa notare nella sentenza — tra le riserve apposte dalla Svizzera all’art. 2 della convenzione europea, figurava anche (lett. b) quella secondo cui la Confederazione si riservava « il diritto, in casi speciali, di non accordare l’assistenza in base alla convenzione se non alla condizione espressa che i risultati delle investigazioni operate in territorio svizzero e le informazioni
— 1055 — contenute nei documenti o dossiers trasmessi siano utilizzati esclusivamente per istruire e giudicare in merito ai reati in ordine ai quali l’assistenza viene concessa » (v. in PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni d’estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, pag. 480). « Una tale riserva — si precisa — consente alla Svizzera il diritto di accompagnare l’esecuzione dell’assistenza di oneri o di condizioni (principio di specialità). Al diritto interno, federale e cantonale, spetta poi soltanto determinare se ed in quale misura le Autorità elvetiche richieste possono o debbono fare uso di questa riserva ovvero della facoltà d’ordine generale prevista nell’art. 2 della convenzione europea ». 3. A proposito delle esigenze di tutela della vittima del reato, si specifica poi che « sarebbe assurdo concedere assistenza in vista del giudizio dell’autore e contestualmente rifiutarla alla vittima di costui (...) poco importa che faccia valere le sue pretese civili nel quadro di un processo penale o indipendentemente da questo ». E all’obiezione secondo la quale la vittima si troverebbe così in una posizione avvantaggiata rispetto a quella dei soggetti che devono limitarsi a richiedere la concessione dell’assistenza in materia civile, e che si vedono opposto il segreto bancario, il Tribunale federale risponde che pienamente giustificata risulta l’indicata maggior tutela, quanto alle pretese da ritenersi « normali », atteso che « un aiuto efficace alle vittime dei reati è in ogni modo uno scopo accessorio legittimo di ogni processo penale » (e rinvia all’art. 1 della legge federale 4 ottobre 1991 sull’aiuto alle vittime dei reati). Italia-Svizzera. In tema di: doppia punibilità e illecito finanziamento dei partiti; principio di specialità e procedimenti di natura fiscale. Dalla sentenza 24 marzo 1998 del Tribunale federale elvetico, ATF 124 II, pag. 184 segg.: « Le Autorità inquirenti italiane procedono contro X e altri per reati contro la pubblica amministrazione e contro il patrimonio. Con commissione rogatoria del 2 luglio 1996, completata l’8 luglio 1997, riferendosi a precedenti domande già evase dall’Autorità svizzera, esse hanno chiesto il sequestro della documentazione bancaria relativa a determinati conti presso la Banca Y. Postulavano inoltre che fossero individuati il titolare e il beneficiario economico di conti oggetto di tutta una serie di operazioni. L’Ufficio federale di polizia (UFP) ha delegato l’esecuzione di una parte delle richieste rogatoriali al Ministero pubblico della Confederazione (MPC). Con decisione del 14 agosto 1996 il MPC ha accolto la domanda di assistenza. Il Tribunale federale, con sentenza del 28 novembre 1996, ha respinto al senso dei considerandi un ricorso di diritto amministrativo presentato dagli interessati contro la predetta decisione del MPC (causa 1A.287/1996). Esso ha ritenuto il requisito della doppia punibilità adempiuto per i fatti di false comunicazioni sociali e per quelli di corruzione: ha invece escluso l’utilizzazione dei documenti allo scopo di reprimere reati d’illecito finanziamento dei partiti. Mediante decisione del 6 giugno 1997 il MPC ha ordinato la trasmissione allo Stato richiedente della sequestrata documentazione bancaria relativa a conti intestati a varie società e a un conto appartenente a Z. Le società N, A, H, M, S, T e C Ltd, come pure Z, sono insorti con un ricorso di diritto amministrativo al Tribunale federale. Essi postulano che la decisione del MPC sia annullata, che i citati documenti non siano trasmessi e che la domanda di assistenza venga respinta. Fanno valere che la decisione impugnata non sarebbe sufficientemente motivata e che l’Italia non rispetterebbe il principio della specialità. Il Tribunale federale ha respinto il ricorso nella misura in cui era ammissibile. Dai considerandi: 4. Nella sentenza del 28 novembre 1996 il Tribunale federale aveva escluso l’utilizzazione dei documenti al fine di reprimere reati d’illecito finanziamento dei partiti (art. 7 della
— 1056 — legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici) e stabilito che spettava all’UFP, al momento della loro eventuale consegna, di attirare espressamente l’attenzione dello Stato richiedente sul fatto che l’assistenza non veniva concessa per tali reati (consid. 5c). La giurisprudenza del Tribunale federale nell’ambito dell’illecito finanziamento dei partiti politici impone nella fattispecie alcune precisazioni. a) Secondo l’art. 5 cpv. 1 lett. a) della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (CEAG; RS 0.351.1), applicabile in virtù della riserva formulata dalla Svizzera, l’esecuzione di una commissione rogatoria ai fini di perquisizione è subordinata alla condizione che il reato perseguito nello Stato richiedente sia punibile secondo la legge della parte richiedente e della parte richiesta. Nel diritto svizzero, l’art. 64 cpv. 1 della legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale (AIMP; RS 351.1) prevede che i provvedimenti secondo l’art. 63 AIMP, se implicano l’applicazione della coercizione processuale, possono essere ordinati soltanto ove dall’esposizione dei fatti risulti che l’atto perseguito all’estero denota gli elementi obiettivi di una fattispecie punibile secondo il diritto svizzero. L’art. 67 cpv. 1 AIMP concerne invece il principio della specialità e prevede che le informazioni e i documenti ottenuti mediante l’assistenza non possono essere usati nello Stato richiedente né a scopo d’indagine né come mezzi di prova in procedimenti vertenti su fatti per cui l’assistenza è inammissibile. I reati per i quali l’assistenza è esclusa secondo l’art. 67 AIMP sono quelli menzionati all’art. 3 AIMP. Trattasi di reati di carattere preponderantemente politico, di violazioni degli obblighi militari e di reati volti a una decurtazione di tributi fiscali — ad eccezione della truffa in materia fiscale — o che violano disposizioni in materia di provvedimenti di politica monetaria, commerciale o economica. Una riserva relativa al principio della specialità dev’essere pertanto formulata quando i fatti perseguiti all’estero corrispondano a una simile fattispecie (DTF 122 II 134 consid. 7c/bb). La riserva fatta dalla Svizzera a proposito dell’art. 2, lett. b) CEAG dev’essere interpretata nello stesso senso. aa) La giurisprudenza del Tribunale federale non nega più, contrariamente a una prassi anteriore (sentenze inedite del 30 maggio 1995 in re N SA e in re N Ltd, consid. 3b/dd rispettivamente consid. 5a, del 16 giugno 1995 in re Beneficiario, consid. 6b, del 1o dicembre 1995 in re Titolari dei conti, consid. 7c), di massima, il requisito della doppia punibilità riguardo al reato d’illecito finanziamento dei partiti politici. Il diritto svizzero non conosce reati relativi al finanziamento di partiti, ma la giurisprudenza ha precisato che in ogni caso essi non costituiscono reati politici propriamente detti giusta l’art. 3 AIMP (al riguardo v. DTF 115 Ib consid. 5 pag. 84, 113 Ib 175 consid. 6b), trattandosi di mere infrazioni di diritto comune per le quali l’assistenza giudiziaria non è « esclusa » ai sensi dell’art. 67 cpv. 1 AIMP. bb) In tale ambito l’assistenza giudiziaria è stata quindi concessa senza alcuna riserva (sentenze inedite del 27 settembre 1996 in re H, consid. 2c, del 28 gennaio 1997 in re U, consid. 3, del 6 marzo 1997 in re S, consid. 5, del 22 luglio 1994 in re S, consid. 6 dell’8 febbraio 1994 in re T, consid. 3b e c) o è stata concessa nella misura in cui gli elementi costitutivi del reato d’illecito finanziamento dei partiti coincidevano con quelli di reati perseguibili anche in Svizzera, segnatamente il reato di corruzione (sentenza inedita del 16 gennaio 1997 in re P, consid. 10b/cc) o i reati previsti dagli artt. 152 e 251 CP (sentenza inedita del 24 giugno 1997 in re B e beneficiario di tre bonifici, consid. 5g). In queste due ultime sentenze il Tribunale federale, riprendendo tale formulazione nel dispositivo, aveva invitato l’UFP a precisare all’Autorità italiana ch’essa non poteva utilizzare le informazioni fornite per il perseguimento del reato d’illecito finanziamento di partiti che nella misura in cui gli elementi di questo reato coincidevano con quelli del reato di corruzione nella prima causa, rispettivamente con quelli previsti dagli artt. 152 e 251 CP nella seconda. Visto quanto precede, appare opportuno precisare la giurisprudenza su questo punto. cc) L’incertezza deriva dalla circostanza che, nell’ambito dell’esame della doppia punibilità, il Tribunale federale non deve procedere a un esame dei reati e delle norme penali menzionati nella domanda di assistenza e verificare la loro corrispondenza con le norme del
— 1057 — diritto svizzero. Esso deve vagliare piuttosto, limitandosi a un esame prima facie, se i fatti addotti nella domanda estera — effettuata la dovuta trasposizione (cfr. DTF 118 Ib 543 consid. 3b/aa, pag. 546) — sarebbero punibili anche secondo il diritto svizzero, ricordato che la punibilità secondo il diritto svizzero va determinata senza tener conto delle particolari forme di colpa e condizioni di punibilità da questo previste (v. DTF 116 Ib 89 consid. 3b/bb, 112 Ib 576 consid. 11b/bb, pag. 594). L’atto perseguito all’estero deve quindi denotare « gli elementi obiettivi di una fattispecie punibile secondo il diritto svizzero » (art. 64 AIMP). Occorre concluderne che l’assistenza giudiziaria può essere concessa non solo quando è richiesta per la repressione di più reati e uno di essi è punibile secondo il diritto svizzero (DTF 117 Ib 64 consid. 5c, pag. 90; 112 Ib 576 consid. 1 1b/bc, pag. 595; DTF 121 II 38 consid. 3 inedito), bensì pure quando è chiesta, anche o unicamente, per il perseguimento di una fattispecie definita, secondo il diritto italiano, come illecito finanziamento di partiti: reato sconosciuto al diritto svizzero, ma punibile nella Confederazione, ad esempio, quando raffigura la fattispecie di corruzione, di falsità in documenti, di false indicazioni su società commerciali, ecc. dd) In concreto, nella sentenza del 28 novembre 1996 il Tribunale federale aveva stabilito che i fatti perseguiti all’estero denotavano una fattispecie punibile anche secondo il diritto svizzero, segnatamente come reati di false indicazioni su società commerciali (art. 152 CP), di falsità in documenti (art. 251 CP), eventualmente di omissione di contabilità (art. 166 CP) e d’inosservanza delle norme legali sulla contabilità (art. 325 CP in relazione con gli art. 957 segg. CO). Ne segue che, come si è visto, il requisito della doppia incriminazione è adempiuto. Di conseguenza, l’assistenza può essere concessa anche per il reato d’illecito finanziamento dei partiti politici. 5. I ricorrenti fanno valere poi che l’Italia non rispetterebbe il principio della specialità. a) Nella misura in cui è già stata trattata dal Tribunale federale nel giudizio del 28 novembre 1996 (consid. 6), la censura non può più essere esaminata nella presente procedura (DTF 116 Ib 89 consid. 1b; v. anche DTF 122 II 367 consid. 1d); essa è per contro ammissibile in quanto si fondi su fatti intervenuti dopo l’accennata sentenza. b) A sostegno della loro tesi i ricorrenti producono estratti dalla stampa italiana riguardo importanti procedimenti di natura fiscale sfociati in sanzioni pecuniarie inflitte, al loro dire, sulla base, diretta o indiretta, della documentazione raccolta nell’ambito di procedure d’assistenza. Essi fanno valere inoltre che, nel quadro di un’altra procedura, di cui hanno prodotto i relativi documenti, la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano non avrebbe minimamente attirato l’attenzione della Guardia di Finanza sul principio della specialità; in quella procedura l’indagato sarebbe quindi stato multato per infrazione alla normativa fiscale italiana a seguito di movimenti effettuati su conti bancari svizzeri, di cui le Autorità italiane avrebbero avuto conoscenza grazie a una rogatoria. I ricorrenti richiamano altresì, in particolare, il rapporto su « I c.d. ‘‘paradisi fiscali’’ come strumento di sottrazione d’imposta » del Ministero delle Finanze italiano, Servizio centrale degli ispettori tributari (cd. rapporto SECIT), dal quale si evincerebbe come l’Autorità fiscale italiana rimproveri a numerose persone la violazione di norme fiscali e valutarie nell’ambito di procedure penali per le quali la Svizzera ha concesso l’assistenza giudiziaria all’Italia. Rilevano segnatamente come in tale rapporto venga menzionata la rogatoria concernente la causa, connessa al presente giudizio, I (1A.35 1996). Con allegato del 30 dicembre 1997 Z produce l’avviso d’accertamento notificatogli per violazione alle leggi italiane sulle imposte dirette, e fondato, al suo dire, sui documenti trasmessi dalla Svizzera. Infine, con allegato del 2 febbraio 1998, i ricorrenti lamentano il mancato rispetto del principio della specialità poiché le Autorità italiane userebbero regolarmente le informazioni fornite dalla Svizzera per perseguire reati d’illecito finanziamento dei partiti politici, per pronunciare sanzioni di natura fiscale e per comunicare spontaneamente tali informazioni ad Autorità estere, segnatamente spagnole. In data 5 marzo 1998 i ricorrenti producono poi un’ordinanza del Tribunale di Milano con la quale è stata respinta un’eccezione d’inutilizzabilità degli esiti delle rogatorie svizzere in relazione al reato d’illecito finanziamento dei partiti qualora la Svizzera non abbia formulato una riserva al riguardo (cfr. sul tema DTF 112
— 1058 — Ib 576 consid. 1 la pag. 591). In data 10 marzo 1998 essi hanno trasmesso al Tribunale federale lo scambio di corrispondenza effettuato con l’UFP in tale ambito. c) Le censure di violazione del principio di specialità sono, in parte, fondate. Esse non conducono però, come si vedrà, al postulato rifiuto dell’assistenza giudiziaria. È pacifico che in alcuni procedimenti le Autorità italiane hanno utilizzato — invero solo in maniera indiretta — le informazioni trasmesse dalla Svizzera, nonostante la riserva apposta al momento della loro comunicazione, ai fini di accertamenti di natura fiscale (v. la dichiarazione di specialità formulata dall’UFP e riprodotta in P. Bernasconi, Rogatorie penali italo-svizzere, Milano 1997, pag. 489 seg.; e, in generale sul principio di specialità, pagg. 88 seg. e 178 segg. e gli artt. 67 AIMP e 34 OAIMP; DTF 122 II 134 consid. 7c/bb). Queste violazioni sono state ammesse, nell’ambito di procedure in re B, E, D e altri, in seguito a un pronto intervento dell’UFP, anche dal Ministero italiano di Grazia e Giustizia, il quale ha comunicato al Ministero italiano delle Finanze « di ritenere non utilizzabili gli atti delle rogatorie ricevute dalla Svizzera ai fini di accertamenti di natura amministrativo-fiscale e ciò anche quando, come nel caso da Voi indicato, si tratti di un’utilizzazione indiretta, attraverso la cognizione degli atti di rogatorie che siano richiamati in provvedimenti giudiziari. Il Ministro delle Finanze ha comunicato, con nota del 18 febbraio indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia, di aver ‘‘interessato’’ il Direttore generale del Dipartimento delle entrate ‘‘a disporre, in conformità delle norme vigenti che regolano l’esercizio dei potere di autotutela, per l’annullamento dell’atto di accertamento in questione, nella parte in cui si fonda sull’‘‘utilizzazione indiretta’’ delle risultanze di rogatorie ». Assicurando che alle Autorità giudiziarie procedenti viene sempre ribadito per iscritto il principio in discussione (lettera del Ministero di Grazia e Giustizia del 21 febbraio 1998 all’UFP). In data 4 marzo 1998, esprimendosi sulle presenti cause, l’UFP ha comunicato ai patrocinatori dei ricorrenti che si tratta « di un caso isolato » e che su segnalazione delle parti toccate, qualora sia accertato un errore, l’UFP interverrà per correggerlo adottando misure concrete. Ha poi precisato che, trattandosi di casi molto importanti, gravi e ad alti livelli istituzionali, sarebbe manifestamente sproporzionato interrompere l’assistenza con l’Italia. Ha sottolineato inoltre espressamente che, riguardo all’accennato uso, da parte delle Autorità fiscali italiane, della documentazione trasmessa per rogatoria ai fini dell’accertamento fiscale nei confronti di Z per violazione delle leggi italiane sulle imposte dirette, l’UFP procederà alle necessarie verifiche presso le competenti Autorità italiane. Ha osservato infine che, per il momento, non sono state accertate violazioni del citato principio da parte dell’Italia riguardo a comunicazioni ad altre Autorità estere delle informazioni ricevute dalla Svizzera. Non v’è quindi motivo di dubitare che il prospettato intervento dell’UFP ristabilirà una situazione conforme al diritto e che tale Ufficio vigilerà scrupolosamente affinché il principio della specialità venga rigorosamente rispettato ed eventuali atti contrari allo stesso siano annullati, conformemente all’impegno assunto dalle Autorità italiane. Tenuto conto di queste considerazioni, della vigilanza che incombe ed è assegnata all’UFP in materia di assistenza giudiziaria internazionale, del necessario e assoluto rispetto delle norme internazionali e della riserva formulata dall’Autorità richiesta (art. 2, lett. b CEAG; v., per il nuovo testo della riserva, FF 1995 III 43 e 68; v. anche gli artt. 20 e 21 della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, ratificata sia dall’Italia che dalla Svizzera; RS 0.111), delle assicurazioni fornite dall’Autorità richiedente al momento della presentazione della domanda, del vincolo imposto dall’art. 729 c.p.p. italiano riguardo all’utilizzabilità degli atti assunti per rogatoria e, in particolare, delle assicurazioni formali già fornite dal Ministero italiano di Grazia e Giustizia all’UFP il 21 febbraio 1998, dell’intervento deciso dall’UFP per assicurare il pieno rispetto del principio della specialità, del contenuto della riserva svizzera riguardo questo principio, formulato al momento della trasmissione, non si giustifica attualmente di rifiutare o di ritardare l’assistenza (cfr. DTF 110 Ib 392, in particolare consid. 5c; sentenze inedite del 6 giugno 1985 in re G, consid. 6 e del 18 settembre 1984 in re A, consid. 5). 6. Giova rilevare che il Tribunale federale nella sentenza inedita del 5 giugno 1985 in re G aveva dichiarato d’essersi già inquietato a più riprese per il mancato rispetto da parte delle
— 1059 — Autorità italiane della riserva formulata dalla Svizzera in merito all’art. 2, lett. b) CEAG, tanto che su sua suggestione una conferenza s’era tenuta a Berna nel giugno del 1984 tra funzionari rappresentanti le Autorità competenti dei due paesi. Il risultato della conferenza è sfociato, in particolare, nella circolare del Ministero italiano di Grazia e Giustizia del 15 maggio 1985, con cui esso invitava i Procuratori generali presso le Corti d’appello a rispettare il principio della specialità (v. il testo della circolare riprodotto in Bernasconi, op. cit., pag. 491 seg. e pag. 180 [nonché in Ind. pen., 1985, pag. 436 segg.]). Violazioni del principio della specialità risultano tuttora o sono oggetto di approfondimento da parte delle Autorità competenti. Ciò accentua ulteriormente l’importanza e la necessità di quanto esposto al considerando precedente ». Svizzera-Federazione russa: cooperazione internazionale e diritti dell’uomo. 1. L’art. 2 della legge federale elvetica sulla cooperazione internazionale in materia penale (20 marzo 1981), quale risulta dopo la modifica del 4 ottobre 1996, sancisce l’inammissibilità della domanda di cooperazione se si hanno ragioni per ritenere che la procedura straniera: « a) Non è conforme ai principi processuali stabiliti nella convenzione europea del 4 novembre 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dal Patto internazionale del 16 dicembre 1966 relativo ai diritti civili e politici; b)... ». 2. Scopo della norma — ha precisato il Tribunale Federale elvetico, pronunciandosi come 1a Corte di diritto pubblico in data 17 aprile 1997 (RO 123 II) — è quello di evitare che la Svizzera presti il suo concorso, per il tramite dell’assistenza giudiziaria o dell’estradizione, a dei procedimenti che non garantiscano alla persona interessata uno standard minimo di protezione, corrispondente a quello offerto dal diritto degli Stati democratici ». In tale prospettiva, « l’Autorità svizzera richiesta è chiamata a valutare la situazione della persona perseguita in funzione del sistema politico e giudiziario in vigore nello Stato richiedente. Essa deve pertanto esprimere un giudizio di valore sugli affari interni attuali di questo Stato, concernenti, in particolare, il suo regime politico, le sue istituzioni, la sua concezione dei diritti fondamentali, il modo con cui questi diritti sono concretamente rispettati, e soprattutto l’indipendenza e l’imparzialità del suo apparato giudiziario ». E così prosegue la sentenza (che qui, pro-parte, provvediamo a tradurre dall’originale in lingua francese): il giudice elvetico, « a questo riguardo deve dare prova di una particolare prudenza. D’altro canto, non basta che la persona perseguita all’estero si pretenda minacciata da una situazione politico-giuridica determinata; a lei incombe l’onere di rendere verosimile l’esistenza di un rischio serio ed obiettivo di una grave violazione dei diritti dell’uomo nello Stato richiedente, capace di investirla in modo concreto ». 3. ll caso in ordine al quale (a seguito di ricorso di diritto amministrativo) il Tribunale era chiamato a pronunciarsi, concerneva una domanda di assistenza giudiziaria proveniente dalla Federazione russa, in ordine ad un procedimento aperto, nel dicembre 1993, a carico di un ex-Ministro, imputato di esportazioni illecite di materie prime, abuso di funzioni, falso e corruzione. L’Autorità richiedente aveva sollecitato numerosissime indagini, volte a individuare intestazione e localizzazione dei proventi dei reati oggetto degli addebiti. I ricorrenti (l’ex-Ministro e i familiari) opponevano, tra l’altro, la violazione, nel procedimento penale in corso, di alcune norme della convenzione europea (artt. 3, 5, 6 e 8), lamentando anche le condizioni di degrado della detenzione preventiva in Russia, e documentando le loro lagnanze sulla base di un rapporto — datato 16 novembre 1994 — della Commissione dei diritti dell’uomo al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, oltre che di un rapporto, per il 1995, di Amnesty International. 4. Il Tribunale federale si accingeva pertanto ad un’ampia ricognizione analitica, ricordando, in particolare, oltre ad un proprio precedente del 1992 (in tema di richiesta di estradizione dell’ex-URSS), l’evoluzione della Federazione russa nel settore dei diritti dell’uomo,
— 1060 — mediante la ratifica o la sottoscrizione delle diverse e pertinenti convenzioni internazionali, e però anche, d’altro canto, il deficit di tutela sul piano concreto. Il Tribunale richiamava, in particolare, un rapporto di esperti — in data 29 settembre 1994 — diretto all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in tema di conformità dell’ordinamento giuridico della Federazione russa con le norme del Consiglio d’Europa: rapporto il quale si concludeva con il rilievo che, se la protezione dei diritti dell’uomo ha conosciuto dei reali progressi, si è preso atto dell’esistenza di problemi considerevoli, soprattutto nel campo dell’amministrazione della giustizia (« ... La garanzia della libertà individuale è ben lungi dal soddisfare le esigenze dell’art. 5 della convenzione europea. L’equità dei procedimenti penali non è effettivamente garantita »). 5. Peraltro, nonostante codeste « contestations inquiétantes » (confermate dal rapporto di Amnesty International per il 1996), il Tribunale federale ritiene (pag. 171, sub f) che dalle contestazioni medesime non consegua la necessità di addivenire, nel caso di specie, « al rifiuto puro e semplice dell’assistenza giudiziaria a favore dello Stato richiedente ». Piuttosto, preso atto degli impegni internazionali assunti, nel settore in discorso, dalla Federazione russa, e, per altro verso, muovendo dalla necessità di concentrare le proprie attenzioni semplicemente « sulla valutazione delle prevedibili incidenze della situazione complessiva del paese richiedente sulla posizione concreta delle persone perseguite » il Tribunale federale addiviene ad una conclusione in definitiva favorevole alla concessione dell’assistenza richiesta, subordinatamente ad una serie di condizioni, del cui adempimento si devono richiedere adeguate garanzie: in tema di diritto del prevenuto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la difesa, di farsi assistere e di comunicare con un difensore di propria scelta; in tema di diritto ad essere giudicato pubblicamente, entro un termine ragionevole, da un tribunale indipendente e imparziale; in tema di rispetto della presunzione d’innocenza. In tale ordine di idee, viene affidata alla rappresentanza diplomatica presso la Federazione russa una serie d’incombenze a guisa di controllo: informarsi in ogni tempo dello stadio di avanzamento del processo; assistere al dibattimento di merito; ottenere copia della decisione finale; rendere visita, in ogni tempo e senza sorveglianza, alla persona in questione. Quest’ultima — si aggiunge — potrà rivolgersi in ogni tempo alla rappresentanza diplomatica predetta, sia nel corso dell’istruttoria che nel corso dell’esecuzione di un’eventuale pena privativa della libertà. Islamismo iraniano e cooperazione internazionle (*). « ... L’Iran a signé, dans le domaine de la coopération pénale internationale, des traités d’extradition avec les pays essentiellement voisins, renforçant ainsi la lutte régionale contre la criminalité (en 1922 avec l’Iraq, en 1937 avec la Turquie, en 1928 avec l’Afghanistan, en 1959 avec le Pakistan, et en 1964 avec la France). De même, le législateur iranien a voté, en avril 1960, la loi relative à l’éxtradition des criminels, comblant ainsi la lacune législative existant en la matière (1). Depuis le changement radical des dispositions pénales iraniennes dû à la révolution de février 1979, ces traités et cette loi ne sont plus adaptés au contenu islamique du droit pénal actuel de l’Iran et demandent à être modifiées et mises à jour. C’est pourquoi d’ailleurs, lesdit traités n’ont presque pas été respectés et appliqués depuis plus de vingt ans par les pays contractants. 4. Le droit iranien n’admet pas l’autorité des jugements pénaux rendus à l’étranger et, de ce fait, il n’ont pas force exécutoire en Iran. Ceci semble être dû au fait que pour le légi(*) Dal rapporto iraniano — a firma di A. Nadjafi e M. Khazani — per la Sez. IV del XVI Congresso dell’AIDP (Budapest, 1999). Titolo del rapporto: La coopération internationale dans le domaine du crime organisé en droit iranien. (1) Pour plus d’information, cf. A. AZMAYESH, L’éxtradition en Droit Iranien, in RIDP, 1991.
— 1061 — slateur iranien ces jugements n’ont pas été rendus selon les lois et règlements islamiques ou, du moins, selon un droit positif dont la source d’inspiration est la Sharia (chariat) ». La Slovenia e la convenzione europea di assistenza giudiziaria (**). « The fact that Slovenia has not yet ratified the 1959 European convention on Mutual Assistance in Criminal Matters is a serious problem. It is to be hoped that the adoption of the Convention is really only a matter of time, as the Slovene agencies responsible are saying. The fundamental tenet of our criminal legislation is that the rules of international agreements apply primarily and the Law on the Criminal Procedure only subsidiarily (art. 514) ». Il Belgio e la disciplina dell’estradizione (***). « ... la loi belge sur les extraditions du 15 mars 1874 est en ce moment soumise à une analyse critique par un groupe de travail, présidé par le Professeur Van den Wyngaert, et ce en vue de sa révision, devenue indispensable (40). D’autre part, la Belgique n’a ratifié la Convention européenne d’extradition et ses deux Protocoles que fort récemment (41). Un bilan de l’application de ces instruments est donc prématuré ». « Controle judiciaire » e paradisi fiscali. « La chambre d’accusation de la cour d’appel de Paris a rejeté, vendredi 22 mai, la demande des avocats de Roland Dumas d’alléger le contrôle judiciaire auquel est soumis le président du Conseil constitutionnel depuis sa mise en examen pour ‘‘complicité et recel d’abus de biens sociaux’’ par les juges d’instruction en charge du dossier Elf, Eva Joly et Laurence Vichnievsky, le 29 avril. Dans leur arrêt, les magistrats entérinent toutes les modalités du contrôle judiciaire qui pèse sur M. Dumas, soupçonné par les juges d’avoir été à l’origine des avantages consentis par Elf Aquitaine à son amie personnelle Christine Deviers-Joncour. Il est donc toujours interdit à Roland Dumas de rencontrer les protagonistes de l’affaire, et de se rendre dans un certain nombre de pays réputés pour leur opacité financière ou leur statut de paradis fiscaux: la Suisse, le Luxembourg, le Liechtenstein, les principautés d’Andorre et de Monaco, et l’île d’Antigua, dans les petites Antilles (****). Les magistrats maintiennent en outre le versement d’une caution de 5 millions de francs avant le vendredi 29 mai », (da Le Monde del 24-25 maggio 1998, pag. 9).
(**) Dal rapporto sloveno — a firma di Z. Fišer — per la Sez. IV del XVI Congresso dell’AIDP (Budapest, 1999). Titolo del rapporto: The criminal justice system facing the challenge of organised crime. (***) Dal rapporto belga — a firma di F. Thomas e A. Liners — per la Sez. IV del XVI Congresso dell’AIDP (Budapest, 1999). Titolo del rapporto: La coopération au stade des investigations et poursuites. (40) C. VAN DEN WYNGAERT e T. SCHEIRS, Krachtlijnen Hervorming Uitleveringswet, version provisoire stencilée du 30 janvier 1998, pag. 54. (41) Loi d’approbation du 22 avril 1997 (Moniteur belge, 22 novembre 1997). (****) Ricordiamo che, tra gli obblighi ai quali può essere sottoposta la persona oggetto della misura di « contrôle judiciaire », vi può essere anche quello (art. 138, sub 3o, c.p.p. francese) di « ne pas se rendre en certains lieux ». (Ma può anche essere ingenua la considerazione la quale porta a ritenere che solo la dislocazione fisica consenta delle utili prese di contatto, significative agli effetti penali).
DOTTRINA
GIUSTIZIA PENALE « A MISURA D’UOMO » (*) VISIONE DI UN SISTEMA PENALE E PROCESSUALE ORIENTATO ALL’UOMO COME SINGOLO E COME ESSERE SOCIALE (**)
Data la gran quantità, ormai sterminata, di contributi scientifici, di risoluzioni politiche ed in parte già anche di provvedimenti legislativi e di Convenzioni internazionali, parlare dei diritti dell’uomo nella giustizia penale potrebbe apparire relativamente agevole. Ma se oggi il mio compito consistesse soltanto in una raccolta ed elencazione sistematica di dati, mi limiterei ad una ripetizione di cose già dette, priva di qualunque messaggio innovativo e verosimilmente altrettanto noiosa per l’oratore così come per i suoi ascoltatori. Alla ricerca di una nuova impostazione. — È da chiedersi, tuttavia, se il tradizionale modo di intendere i « diritti dell’uomo nel diritto penale » sia poi quello giusto o se non occorra piuttosto un’impostazione completamente nuova, ispirata dall’idea che a nessuno Stato è consentito di rinunciare, quale « societas semper reformanda », alla persistente necessità di riforma della sua giustizia e dunque anche alla continua verifica del suo sistema penale sotto il profilo della giustizia e dell’opportunità. In tal senso, il voler porre radicalmente in discussione le sue posizioni di partenza ed i suoi effetti consequenziali può apparire certamente pretenzioso; in ciò pare infatti celarsi la presunzione che forse per secoli si sia pensato ed agito in modo sbagliato. Ma se non è priva di fondamento anche solo una parte delle lagnanze che oggi si muovono a livello internazionale sullo stato del diritto in genere e della giustizia penale in particolare e se gli attuali tentativi di riforma rappresentano poco più che una cura dei sintomi, allora non solo è giustificato ma addirittura obbligatorio chiedersi in modo davvero radicale se ed in che misura siano legittimabili i punti di partenza, gli obiettivi e le forme della nostra giustizia penale — laddove naturalmente il termine « radicale » non è inteso nel significato politico di un qualche estremismo, bensì piuttosto (conformemente alla (*) Testo riveduto ed ampliato della Conferenza tenuta presso l’Università di Pavia il 20 marzo 1997. (**) Traduzione dal tedesco a cura del dr. Bettina BUHLMANN e del dr. Giulio DE SIMONE dell’Università di Bologna.
— 1064 — sua origine latina « radix ») nel significato di risalente fino alle radici del nostro sistema penale, allo scopo di approfondire, a partire da lì, la questione se l’evoluzione del diritto penale, fin dalle sue origini, si sia svolta in modo ineccepibile o se avesse piuttosto bisogno di un correttivo e, se sì, di quale. Per illustrare subito con un esempio come, attraverso un siffatto riandare alle origini di un fenomeno giuridico, possa mutare radicalmente l’angolo visuale, si porrà in discussione il tradizionale modo di intendere i « diritti dell’uomo nel processo penale ». Se si scorrono, a tal proposito, taluni codici di procedura penale ovvero anche talune convenzioni internazionali, ci si imbatterà inevitabilmente nella presunzione di innocenza, nel nemo tenetur se detegere, nel divieto di pene disumane, nella prescrizione di un trattamento giusto così come in altri analoghi diritti dell’imputato. Il che è certamente positivo, ma può anche ritenersi sufficiente? Ci si pone tale domanda non tanto perché forse avremmo bisogno di un « soprappiù » di diritti dell’uomo, quanto piuttosto con riferimento alla questione se il modo d’intendere tali diritti dell’uomo che ne sta alla base sia realmente adeguato. Se essi, infatti, vengono intesi semplicemente come limitazione di un processo già predeterminato, quest’ultimo viene ad essere presupposto come entità primaria, cui sono per così dire imposte dall’esterno determinate limitazioni, le quali pertanto abbisognano di una particolare legittimazione. In una visione siffatta, ad esempio, la funzionalità del processo penale — e con essa l’interesse dello Stato — può facilmente apparire come precostituita, sovraordinata e conforme alla regola, e rispetto ad essa i diritti dell’uomo sarebbero da considerare unicamente come eccezionali restrizioni dell’interesse dello Stato alla persecuzione penale, e solo come tali andrebbero quindi giustificati. Volendo ricorrere ad una metafora: in una tale visione i diritti dell’uomo altro non sono che singoli pianeti che orbitano intorno alla stella fissa Stato. Ben altra immagine si offre ove invece s’intenda come stella fissa non lo Stato bensì l’uomo, intorno al quale, ai fini della sua tutela, gravita lo Stato. In questa costellazione, istituzioni statali quali il processo penale non vengono intese come predeterminate in via primaria, bensì soltanto, e secondariamente, come strumenti a carattere ausiliario. In un approccio di questo tipo, i diritti dell’uomo non sono più mere limitazioni di un potere statale prioritario; è piuttosto l’uomo ad essere sovraordinato allo Stato e a fornire ad esso la legittimazione della propria esistenza. Un siffatto pensiero antropocentrico è anche il motivo per il quale nel titolo di questa conferenza non si parla di « diritti dell’uomo », potendo questa locuzione fornire ulteriore sostegno all’idea tradizionale secondo cui si tratterebbe soltanto di mere restrizioni alla giustizia penale imposte in considerazione dei diritti dell’uomo. Ma quale locuzione sarebbe idonea a caratterizzare, in forma breve e precisa, l’idea di una giustizia pe-
— 1065 — nale che si adatti nel miglior modo possibile all’uomo come individuo e come essere sociale? In lingua tedesca ciò si può forse esprimere nella maniera migliore con l’espressione « menschengerechte » Strafjustiz (giustizia penale « a misura d’uomo »). Dai « diritti dell’uomo » nel diritto penale ad una giustizia penale « a misura d’uomo ». — Al di là delle suddette questioni ricostruttive e terminologiche vi è tuttavia ancora un’essenziale ragione oggettiva per non orientare ai « diritti dell’uomo » l’angolo visuale. Poiché infatti i « diritti dell’uomo » — come dice il nome stesso — vengono intesi soltanto come « diritti » e ciò tradizionalmente avviene, peraltro, soltanto nel significato di diritti « individuali », un riferimento esclusivo ai « diritti dell’uomo » potrebbe esser collegato ad un restringimento in chiave meramente individualistica della prospettiva. Nell’ottica di un consapevole superamento di questo approccio monodimensionale, sembra valga la pena cercare di considerare l’uomo in modo per così dire tridimensionale: non solo come persona singola, ma anche, orizzontalmente, come uomo tra gli uomini e, verticalmente, come elemento di una catena generazionale; e ciò allo scopo di progettare, tenuto conto di tutte queste dimensioni, un sistema penale e giudiziario, che del resto possa anche essere sentito come giusto tanto dal punto di vista dell’autore quanto da quello della vittima e possa egualmente rispondere ad aspettative di efficienza. Se si vuol progettare una siffatta « giustizia penale a misura d’uomo » non solo riguardo ai presupposti materiali della punibilità in astratto e in concreto ma anche a quelli di un corrispondente processo penale, ivi compreso un adeguato ordinamento giudiziario, è naturalmente fin da principio illusorio pensare di portare a compimento una tale impresa nei limiti della presente trattazione. Per non suscitare eccessive aspettative, nel titolo di questo progetto si parla dunque soltanto di « Visione » nel significato di uno schizzo a grandi linee della problematica. Ho scelto tuttavia questo termine non solo a causa dell’esiguità del tempo a mia disposizione, ma ancor più perché io stesso sono ancora all’inizio delle mie riflessioni e dunque non posso avere in alcun modo la certezza che il cammino da me intrapreso si concluderà felicemente. Se io desidero nondimeno renderVi partecipi delle abbozzate riflessioni, ciò avviene non da ultimo a causa del dubbio — proveniente da una frequentazione di lunga data del diritto penale — se il modo in cui tentiamo di apprestare tutela all’uomo ed alla società umana non necessiti di talune correzioni di rotta, se non addirittura di un’impostazione nuova. Per non lasciarsi offuscare fin da principio la vista dallo stato delle diverse legislazioni o dal diritto consuetudinario, queste riflessioni vanno fatte senza alcun riguardo per le condizioni di un determinato Paese o sistema giuridico. In tal senso utopica risuona la domanda: ma noi — l’uomo, la società, lo Stato — abbiamo pro-
— 1066 — prio bisogno della giustizia penale? E, se sì, quali caratteri essa dovrebbe avere per adattarsi nel miglior modo possibile all’uomo come singolo, come essere sociale e come parte del genere umano? Vorrei accostarmi a tale questione con una riflessione che procede per gradi: in un primo momento si tratterà di verificare fino a che punto sia necessario, rispetto ai conflitti interpersonali e alle infrazioni al diritto, un intervento da parte di un’istanza sovraordinata (e innanzi tutto da parte dello Stato). Occorrerà quindi chiedersi se l’intervento dello Stato non possa limitarsi alla composizione delle liti ed alla riparazione del danno. Poiché tuttavia risulterà necessaria l’ulteriore previsione di sanzioni punitive, resta da chiedersi se ed in che misura tali sanzioni debbano proprio assumere carattere specificamente penale. Il che ci condurrà a problematizzare gli scopi della pena, come anche le tradizionali forme del processo ed infine ci darà motivo per diverse riflessioni in prospettiva di riforma. Ma prima di intraprendere questo ragionamento, resta innanzi tutto da chiarire il fondamentale punto di partenza. Postulati di partenza: l’uomo prima dello Stato. — Benché la ricerca di un diritto penale « a misura d’uomo » debba procedere svincolata il più possibile da qualsiasi presupposto e nell’intraprenderla si debba da parte nostra evitare, per quanto possibile, di farsi offuscare la vista dalle tradizionali apparenze, già dalla finalità orientata alla « adeguatezza all’uomo » della giustizia penale si possono tuttavia dedurre talune idee di fondo, di cui occorre prima acquisire consapevolezza, vale a dire: Primo: anche per quanto attiene alla progettazione e alla costruzione del diritto penale e di quello processuale penale, la tutela e il rispetto dell’uomo vanno posti al centro dell’attenzione. Secondo: a tal proposito l’uomo è tuttavia da considerare non solo come individuo ma anche come membro di una comunità. Da ciò derivano già immanenti barriere alla sua libertà: egli può esercitarla e pretenderne il rispetto solo in quanto non tocchi la medesima libertà e sfera giuridica dei suoi simili, da rispettare allo stesso modo. Da questo collegamento interpersonale derivano anche taluni obblighi, che egli assume non solo verso i suoi contemporanei ma anche nei confronti delle generazioni future: quanto a ciò l’individuo si trova al crocevia tra un collegamento orizzontale con i suoi simili ed una responsabilità verticale intergenerazionale verso gli antenati ed i posteri. Terzo: fin dove la tutela dell’uomo e dell’umanità esige l’intervento dello Stato, occorre non perdere di vista la funzione strumentale e sussidiaria di quest’ultimo: lo Stato non può divenire fine a se stesso ma deve sempre orientarsi alla tutela dell’uomo e al benessere della società umana. Non si può disconoscere che dietro tali postulati di partenza vi sia una convinzione giuridico-filosofica e politica la quale accorda all’uomo
— 1067 — una posizione di preminenza sullo Stato. Chi invece opti per una diversa gerarchia, potrà forse non essere d’accordo con tutto ciò che in seguito sarà detto. Spero tuttavia che le mie riflessioni possano apparire meritevoli di attenzione anche ai sostenitori di opposte posizioni, sia pur soltanto come occasione per pensare ad alternative migliori. Istituzionalizzazione della composizione delle liti e riparazione del danno. — Se non si vuol semplicemente prendere le mosse dall’esistente, ma piuttosto davvero penetrare fino alle radici della giustizia penale, non ci si potrà sottrarre all’interrogativo se si abbia assoluta necessità del diritto penale o se questo non debba meglio sostituirsi con altri strumenti, quali la composizione della lite e la riparazione del danno. La risposta ad un simile quesito può risultare agevole ovvero ardua a seconda dei casi. Da una parte risulta fin troppo agevole per quanti considerano il diritto penale necessario già per il fatto che questo sarebbe sempre esistito, non essendo una tale congettura dimostrabile sul piano storico senza soluzione di continuità. Ma risulta troppo agevole anche per quanti considerano superato il diritto penale già per il fatto che determinate sanzioni penali restano ancora debitrici di una dimostrazione certa della loro efficienza; poiché, a guardar più attentamente le cose, questi « abolizionisti » non vogliono affatto abolire del tutto il diritto penale, ma semplicemente sostituirlo con altri tipi di controllo sociale e di sanzioni. Se allora non ci si vuole accontentare di risposte superficiali o evasive, non è possibile eludere la fondamentale domanda se il consorzio umano possa rinunciare ad ogni tipo di divieto di determinate condotte e, in caso di sua violazione, ad ogni tipo di risposta sanzionatoria. Posti di fronte ad una simile domanda, probabilmente soltanto un irrealista che creda in un ideale di uomo o un ideologo che coltivi le illusioni di un’armonia sociale potranno tuttavia ammettere che il rispetto per il prossimo e per i suoi interessi possano realizzarsi senza alcuna coercizione. Ed infatti fino a quando si dovrà presupporre la fallibilità dell’uomo — e far ciò non è semplicemente un segnale negativo di rassegnazione ma un positivo prendere sul serio l’individualità umana — e fino a quando anche una società organizzata non sarà in grado di eliminare tutte le carenze sociali che la affliggono, conflitti interpersonali e sconfinamenti dagli effetti pregiudizievoli saranno inevitabili. Ma se davvero non si vogliono abbandonare a se stesse le parti in conflitto, perché altrimenti la domanda di compensazione e di rispetto per l’avvenire delle reciproche sfere di interessi resterebbe in balìa della legge del più forte, allora non si potrebbe fare a meno di istituzionalizzare in qualche modo l’attività di moderazione e mediazione e all’occorrenza anche quelle di composizione delle liti e di esecuzione forzata. Già il fatto di riconoscere una simile necessità, che peraltro, anche senza sovrastruttura statale, deriva già dallo status di uomo
— 1068 — come essere sociale, significa al contempo il riconoscimento di un’istituzione che, benché posta in ultima analisi al servizio dell’uomo, è tuttavia sotto certi aspetti a questo sovraordinata e pertanto già implica anche taluni elementi di un Interventionsrecht (diritto dell’intervento). Siffatto riconoscimento non comporta tuttavia ancora come conseguenza necessaria l’adozione di un determinato tipo di sanzioni né richiede un determinato tipo di processo. Intervento, compensazione o anche, ove occorra, imposizione coatta di essi, non significano dunque necessariamente e subito diritto penale. Certamente, tuttavia, già su questo terreno della composizione delle liti e della riparazione del danno possono verificarsi delle degenerazioni, qualora la rimozione del conflitto sia sottratta completamente al reo e alla vittima e trasferita ad un’istanza superiore e ciò venga in genere disposto allo scopo di evitare casi analoghi: qualora, dunque, i conflitti interpersonali siano in certo qual modo « socializzati ». Vi possono essere certamente buoni motivi per contrastare in questo modo una prosecuzione di vendette interpersonali o addirittura guerre per vendetta tra gruppi. Bisogna nondimeno avere chiaro che alla « esautorazione » dei diretti interessati ed alla monopolizzazione del potere legittimo in un’istanza superiore, ed infine nello Stato, è collegata una spersonalizzazione del conflitto e pertanto la composizione delle liti e la riparazione del danno non vengono più percepiti come un qualcosa che riguarda il singolo e di cui egli stesso assume anche, come sempre, la responsabilità. Ma questo pericolo non dovrebbe scongiurarsi — la domanda s’impone così già a questo punto in una prospettiva futura — attribuendo nuovamente, in un futuro modello di composizione delle liti e di riparazione del danno, maggior rilievo al carattere interpersonale dei conflitti? Controllo del comportamento tramite sanzione. — Tale interrogativo non va perso di vista neppure in occasione del passo successivo che le società umane sono solite compiere oltre la mera riparazione (sia essa spontanea o coartata) del danno: il controllo del comportamento tramite sanzione. Già questo passo, tuttavia, non è più per tutti scontato, in quanto già l’obbligo di riparazione avrebbe sufficiente capacità intimidatrice e le future trasgressioni andrebbero impedite con una migliore opera di prevenzione. Chi ritenga che si possa rinunciare, già per questo, a più energiche reazioni repressive nei confronti delle violazioni del diritto, si troverà tuttavia fatalmente esposto all’obiezione fondata sulla psiche umana come anche sulle esperienze di segno contrario della storia dell’umanità. Per qual motivo, ad esempio, dovrebbe rinunciare ad un furto chi, versando in precarie condizioni economiche, volesse rendersi partecipe della ricchezza del suo vicino, se non avesse da temere nient’altro che il dover restituire,
— 1069 — in caso di scoperta, il bene rubato? Se egli, oltre a ciò, non dovesse attendersi l’imposizione di una sanzione supplementare, per lo meno nella forma di una riprovazione — che tocca il suo onore —, potrebbe, attraverso il furto, conseguire un guadagno, senza dover subire, anche nel peggiore dei casi, una perdita che vada al di là della sua originaria posizione di partenza. Chi vuole contrastare simili tentazioni, dovrà non solo ricacciare il trasgressore nei suoi confini e gravarlo di un obbligo di risarcimento, ma prospettargli altresì un male ulteriore. Chi tuttavia ritenga di poter evitare anche questo attraverso la fissazione — per esempio nel campo della tutela della vita e dell’integrità fisica — di regole preventive di condotta, le quali già impedirebbero del tutto che si giunga ad una lesione, avrà poi da riflettere sul modo in cui garantire l’osservanza di tali regole di condotta: poiché nel caso di una loro violazione non vi sarebbe comunque ancora nulla da risarcire, il rispetto di esse dovrebbe ottenersi con altri mezzi. Tuttavia, non appena sia prevista, in tal caso, la perdita di determinati diritti ovvero altre conseguenze pregiudizievoli — come ad esempio la sospensione della patente di guida, obblighi di denuncia o anche soltanto formali ammonimenti —, si tratterà già di una specie particolare d’imposizione di sanzioni. E indipendentemente dal fatto che queste siano già da qualificare come specificamente penali o si muovano ancora su un terreno antistante al diritto penale o possa altrimenti adottarsi una terminologia differente, resta in ogni caso essenziale, ai fini delle nostre riflessioni, tenere a mente che il passaggio dal mero risarcimento del danno all’imposizione supplementare di un male — siano essi anche soltanto ammonimenti o misure rieducative, per non parlare delle sanzioni pecuniarie o di quelle limitative della libertà personale — riveste un significato non solo quantitativo ma anche qualitativo. Questo passaggio da una parte è senz’altro positivo, poiché certamente il rispetto della regola di condotta violata non potrebbe ottenersi in alcun altro modo che attraverso la predisposizione di particolari sanzioni (di qualunque natura esse siano). D’altra parte, però, nell’imposizione di un male ulteriore si insinua ancora una volta il germe di possibili degenerazioni, su alcune delle quali soltanto intendo a questo punto soffermarmi. — Quanto più il diretto risarcimento del danno tra autore e vittima passa in seconda linea e quanto più cresce l’importanza attribuita all’imposizione di un male ulteriore, tanto più si accentua la spersonalizzazione del conflitto che ne sta alla base. Benché una simile neutralizzazione assuma talvolta particolare importanza, con essa spesso si perviene tuttavia ad una sistemazione soltanto apparente e aumenta la distanza tra autore e vittima del reato: l’autore si vede unicamente responsabile nei confronti dell’istanza superiore, la vittima si sente invece lasciata sola con il suo danno.
— 1070 — — Tale spersonalizzazione del conflitto viene peraltro rafforzata con il ravvisare, ad esempio, nell’omicidio o nel furto non solo la lesione concreta di un altro soggetto ma anche un’aggressione alla vita o alla proprietà in astratto, se non addirittura un attacco contro la società o lo Stato in quanto tale. Sul piano sublime dell’astrazione, può avere certo ragione Kant con il suo ben noto aforisma: « quando derubi un altro, derubi te stesso » (Metafisica dei costumi, 454), perché chi ruba, con la sua aggressione alla proprietà altrui, aggredisce nel contempo la proprietà come istituzione e con ciò, in ultima analisi, nega anche la tutela della sua proprietà. In una visione di questo tipo, tuttavia, la vittima concreta può ritenersi oramai semplicemente uno strumento della tutela generale della proprietà, così come l’autore del reato può prendere ancor più le distanze dalla vittima individuale e con ciò si affievolisce ulteriormente la sua responsabilità come membro del consorzio umano. — Ma riguardo a tutte le sanzioni che vanno al di là della mera riparazione del danno manca soprattutto un criterio sicuro che consenta di dosare adeguatamente il male da infliggere: ci si deve limitare al semplice ammonimento? Si devono imporre prestazioni in denaro o si devono addirittura disporre limitazioni della libertà personale? Sull’imposizione di sanzioni in forma di diritto penale — Questi ed altri analoghi problemi, implicanti il rischio di ulteriori degenerazioni, divengono ancor più manifesti se si compie il passo successivo verso l’imposizione di sanzioni specialmente in forma di diritto penale. Su questo piano lo Stato finalmente si manifesta in tutto il suo potere: e ciò soprattutto riservando interamente a sé il monopolio decisionale e sanzionatorio; sicché la trasgressione da interpersonale diviene pubblica. Anche ciò, tuttavia, non pone problemi finché lo Stato si limiti ad un ruolo ausiliario e la sua potestà punitiva non divenga fine a se stessa. Tentazioni di questa natura sono in agguato in diverse direzioni. — Mediante la già segnalata astrazione di una « lesione del bene giuridico », col ravvisare ad esempio nel furto non soltanto un’offesa al singolo proprietario ma anche un pregiudizio alla proprietà in genere come Istituzione, il singolo fatto acquisisce una significatività che va ben oltre l’interazione fra autore e vittima del reato. E tale rilevanza diviene tanto maggiore quanto più lo Stato ravvisa nel singolo fatto un’aggressione contro se stesso: da qui, allora, non è più distante il passo occorrente per ravvisare nella singola pena un atto di autoaffermazione dello Stato e per dimenticare, però, con questo la vittima reale come persona umana. — Che se poi si tratta di uno Stato comunque privo di stabilità, che si vede da ogni parte minacciato da un alto tasso di criminalità, esso sarà incline ad assicurare il suo potere attraverso fattispecie di tutela avanzata della personalità dello Stato, con la conseguenza che gli spazi di libertà del singolo divengono ancor più limitati.
— 1071 — — Ancora: quanto più elevato è il rango dei beni giuridici e quanto più il danno ad essi arrecato viene inteso come aggressione contro lo Stato stesso, tanto più il diritto penale corre il rischio di presentarsi come l’esecutore di una (in apparenza) « superiore Giustizia ». Con ciò aumenta però la « santità » dello Stato: da « protettore » dell’uomo lo Stato si trasforma in una sorta di « entità superiore » quando, per qualcuno, non addirittura in una Divinità. — E come l’uomo ha da temere la « vendetta divina », similmente pare confarsi anche allo Stato il diritto di retribuzione: con l’equiparazione tra retribuzione ed attuazione della Giustizia si raggiunge allora il punto culminante dal quale il conflitto individuale tra autore e vittima si può oramai intendere quasi come occasione per l’esercizio del potere punitivo dello Stato e difficilmente ancora come piaga sociale da guarire realmente. Falsi percorsi del processo penale. — Non può certo suscitare meraviglia il fatto che nel passaggio dalla riparazione del danno all’imposizione supplementare di sanzioni in forma di pene si sia anche pervenuti alla formazione di un particolare processo penale. Se infatti da una parte la violazione criminale richiede una corrispondente reazione da parte dello Stato, allora le diverse fasi del procedimento devono essere provviste di strumenti d’inchiesta e mezzi di coercizione di natura ed efficacia tali da non renderli convenienti rispetto alla semplice composizione delle liti o alla compensazione del danno tra due privati cittadini. Ma quanto più incisivi divengono gli strumenti d’indagine del processo penale, tanto più d’altra parte aumenta la necessità di garanzie di tutela dell’imputato contro i possibili abusi da parte degli organi statali. Perciò ad un primo sguardo appare senz’altro comprensibile il fatto che, con lo sviluppo di un diritto sanzionatorio in forma specifica di diritto penale, si sia anche formato un processo penale differente da quello civile. Anche tale evoluzione, tuttavia, aveva il suo prezzo, di cui vi è gradualmente da temere che sia stato troppo elevato in vista della realizzazione di un processo « a misura d’uomo »: l’avere cioè degradato sempre più l’imputato ad oggetto del processo e l’avere escluso la vittima quasi del tutto da esso. In un tradizionale sistema inquisitorio, una tale evoluzione può forse non destare sorpresa, avendo in esso lo Stato, in persona del giudice e/o del pubblico ministero, accentrato completamente nelle proprie mani i poteri d’indagine, d’imputazione e di applicazione delle sanzioni e — salvo poche eccezioni — avendo oramai lasciato alla vittima quasi il ruolo di un testimone. A ben vedere, tuttavia, anche nel processo di parti o in altri sistemi processuali di tipo « accusatorio » difficilmente può ancora parlarsi di un’autonoma partecipazione dei soggetti direttamente interessati: anche se ciò sotto molti aspetti non può valere per il
— 1072 — processo penale italiano, riguardo a quello americano si deve in ogni caso osservare che all’imputato può toccare il ruolo di testimone, divenendo così un mezzo di prova; anche la vittima, negli Stati Uniti, è praticamente del tutto esclusa dal processo penale ed eventualmente non può neppure interloquire come testimone. In tal modo, il processo penale viene però ulteriormente spersonalizzato e svuotato del suo contenuto interpersonale. Ciò che tuttavia appare ancor più grave in vista di una composizione del conflitto « a misura d’uomo », è l’impossibilità, connessa alla separazione tra processo civile e penale, di dare al fatto, quale turbamento sociale, una risposta globale e unitaria sotto il profilo cronologico. Chi non potrebbe comprendere la delusione della vittima che, al termine di un processo penale, è costretta ad assistere alla condanna del reo ad una pena pecuniaria o detentiva mentre essa stessa rimane a mani vuote? E la prospettiva di ottenere, attraverso il giudizio civile, un risarcimento del danno non appare inoltre turbata dal fatto che il reo debba prima pagare la pena pecuniaria oppure, durante l’esecuzione della pena detentiva, venga privato della possibilità di riparare i danni? O in quale stato d’animo può trovarsi d’altra parte il reo che si sia già adoperato per l’integrale soddisfacimento della vittima e si veda ciò nondimeno esposto ad un processo penale dall’esito incerto? Anche qui emerge che ciò che può risultare utile ai fini dell’autoaffermazione dello Stato non soddisfa necessariamente anche i soggetti direttamente coinvolti. Vie d’uscita sbagliate. — Non può certo sorprendere il fatto che queste ed altre simili degenerazioni possano indurre all’affermazione che « punire è inefficace e inumano ». Se tale asserzione di Lüderssen (A. Kaufmann-Festschrift, 1993, 487) fosse esatta, bisognerebbe di conseguenza abolire l’intero diritto penale; come si potrebbe infatti conciliare con la dignità umana un punire di per sé inumano da parte dello Stato? Ma evidentemente neppure l’Autore può aver preso così sul serio la sua asserzione: per quanto attiene alla sua ricerca di « alternative al punire », si tratta invero non di una radicale abolizione del diritto penale, ma unicamente del suo arretramento ovunque il rispetto dei relativi beni giuridici possa ottenersi già tramite risarcimento e prevenzione. Ciò appare tuttavia possibile per questa via solo per determinati ambiti delittuosi, come il diritto penale economico e ambientale. Ma se anche allora si deve fare ancora ricorso — oltre che al semplice risarcimento del danno — ad obblighi supplementari come « punitive damages » (risarcimento aumentato in funzione di pena) o « community service » (servizio di pubblica utilità), non si rinviene alcuna reale alternativa al diritto penale neppure qualificando come « soziales Interventionsrecht » un tale sistema sanzionatorio: giacché in caso di imposizione ad una violazione di sanzioni con ulteriore contenuto afflittivo, se anche sotto diverso nome, si tratta pur sempre in
— 1073 — realtà di diritto penale. Nondimeno, a giustificazione di tali sforzi, è da considerare che essi, in contrasto con l’attuale tendenza all’espansione del diritto penale, mirano piuttosto a contenere quest’ultimo, avvicinando nuovamente la soluzione del conflitto ai soggetti interessati. Il tentativo, in sé lodevole, di contrastare l’attuale espansione del diritto penale può tuttavia anche condurre su false strade nella direzione opposta, come ad esempio accade quando si cerca di assicurare al diritto penale un autonomo ambito di esistenza, limitandolo alla repressione dei « classici » delitti ma poi di nuovo rafforzando, in quest’ambito più ristretto, il monopolio punitivo dello Stato soprattutto in un’accezione retributiva come anche attraverso la separazione tra autore e vittima del reato. Difficilmente si può forse dimostrare, in modo più chiaro che in questa situazione, dove può andare a parare un diritto penale primariamente orientato allo Stato anziché all’uomo: per mantenere il diritto penale come strumento di potere dello Stato, si corre il rischio che questo diventi fine a se stesso, con la conseguenza che anche riguardo alla sua riforma sembra trattarsi non tanto della tutela mediante il diritto penale quanto piuttosto della tutela del diritto penale. Prime correzioni di rotta. — A simili degenerazioni si può cercare di rimediare unicamente riportando, a livello di reazione statale alle violazioni ed al fine di un loro futuro impedimento, più risolutamente al centro dell’interesse l’uomo, sia quale autore che quale vittima del reato. Senza voler con ciò anticipare ulteriori riflessioni, già alla luce delle considerazioni finora esplicitate nella prospettiva di un diritto sanzionatorio « a misura d’uomo », sembrano tuttavia urgenti le seguenti correzioni di rotta. Primo. Per quanto possa essere corretto ravvisare in un omicidio, in un furto o in altra offesa a un individuo nel contempo un attacco contro la società o addirittura contro lo Stato come Istituzione, in essi non si può tuttavia perdere di vista il nucleo interpersonale della trasgressione. Il che già impedisce da un lato di estromettere completamente la vittima dal processo penale e di attribuirle tutt’al più ancora il ruolo di testimone e, dall’altro, di concepire il reo unicamente come oggetto di indagine e di sanzione. Secondo. Non da ultimo allo scopo di evitare che la vittima, con i suoi danni, si senta trascurata nel processo penale e possa dunque anche affievolirsi la responsabilità interpersonale del reo, si deve arrestare l’ulteriore sviluppo separato di un giudizio civile rivolto al risarcimento della vittima da una parte e, dall’altra, di un processo penale rivolto alla punizione del reo: benché appaia escluso un completo ritorno a un processo unitario civile e penale, le leve fondamentali vanno comunque azionate in modo che autore e vittima possano percepire la reazione dello Stato come risposta unitaria al conflitto sociale che sta alla base della violazione. La
— 1074 — riparazione del danno sarebbe dunque da intendere come parte della pena ed entrambe dovrebbero risultare, per quanto possibile, da un atto unitario e compiuto d’imposizione delle sanzioni. Terzo. Nella misura in cui al diritto penale anche in avvenire sia riservata una particolare funzione sanzionatoria, questo non può divenire per mezzo di ciò « un valore in se stesso », ma può trovare una sua giustificazione unicamente in quanto appare idoneo come strumento di lotta al crimine e può dunque essere utile alla tutela dell’uomo e della società umana. Anche gli scopi della pena devono quindi orientarsi all’uomo come singolo e come essere sociale. Orientazione delle sanzioni all’uomo. — Veniamo con ciò a un ordine di problemi il trattare dei quali è appena meno pericoloso che scoperchiare il « vaso di Pandora »; vi è infatti argomento sul quale si sia speculato e teorizzato di più che sul fondamento e sullo scopo che possono giustificare il diritto di punire? Non potendo ovviamente riprodurre, in così breve spazio, anche soltanto a grandi tratti questa « eterna discussione », mi sia consentito di indicare, per così dire come atto di fede, quei motivi e quegli scopi che mi sembrano compatibili con un diritto penale in una prospettiva « a misura d’uomo ». Se si parte — ed è una congettura di portata molto ampia — dall’idea che anche la giustizia non è fine a se stessa ma funge unicamente da criterio e strumento per creare e garantire pace e sicurezza fra gli uomini a condizione di una pari dignità e libertà, allora anche la pena non è da giustificare soltanto con la realizzazione di una giustizia come tale, ma presuppone — a seconda dei punti di vista — uno scopo preesistente o ulteriore. Se al centro dell’interesse si pone l’uomo come individuo, come essere sociale e « sovragenerazionale », tale scopo può essere di regola soltanto quadruplice: si deve in primo luogo far ottenere una riparazione all’individuo leso nei suoi diritti; in secondo luogo, per la restaurazione della pace sociale, occorre nuovamente stabilizzare i confini di libertà e le sfere di tutela resi precari dal fatto criminoso; e precisamente ciò deve avvenire tanto — terzo — attraverso un influsso esercitato sul singolo trasgressore quanto — quarto — attraverso un’azione sugli altri membri della collettività. Nella realizzazione di tali obiettivi, alla giustizia spetta indubbiamente un ruolo importante, ma giusto soltanto quello di una disciplina a carattere strumentale. Se si prendono sul serio tali criteri e finalità, derivano da essi una serie di conseguenze per la specie e per le dimensioni dell’intervento penale, delle quali saranno qui menzionate soltanto alcune che mi sembrano di particolare rilievo. Primo. Poiché occorre sempre dare in primo luogo soddisfazione alla vittima direttamente colpita, tanto più che senza di essa fin da principio
— 1075 — non potrebbe parlarsi di un’effettiva sistemazione del turbamento recato all’ordinamento giuridico, la pena presuppone il risarcimento, sia anche soltanto nel senso che un risarcimento del danno non sia reso impossibile dalla natura della pena. Per questo motivo — ad esempio — le pene pecuniarie vanno impiegate in primo luogo per tenere indenne la vittima e quelle detentive eseguite in maniera tale che il detenuto sia possibilmente sollecitato al risarcimento dei danni subiti dalla vittima o che comunque un tale risarcimento non sia reso impossibile. Secondo. Per fugare l’impressione che la norma violata sia irrilevante, la sua violazione non può rimanere priva di conseguenze. E sia pure soltanto mediante una formale riprovazione di essa, si devono comunque trasmettere l’ulteriore validità e il rispetto della norma in questione. Una tale stabilizzazione della norma sarà tanto più efficace quanto più rapida e manifesta risulterà l’applicazione della sanzione. Qualora invece ciò non appaia necessario, occorrerà renderne pubblici i motivi, allo scopo di ottenere chiarezza su finalità e limiti della norma da osservare. Terzo. Per quanto concerne l’azione da svolgere sul singolo autore, questo va comunque rispettato nella sua dignità umana come anche nella sua fallibilità: in primo luogo e soprattutto in quanto anche il delinquente, nonostante il fatto commesso, resta pur sempre uomo tra gli uomini e sono dunque da rifiutare tutte le ben note teorie secondo le quali con la commissione del fatto subentra automaticamente uno stato di « agiuridicità » oppure addirittura di « proscrizione » del reo. Ma, d’altra parte, il reo resta « umano » anche nel senso di sua « debolezza nei confronti del male » che è necessario individuare e per il cui superamento occorre operare in sede di esecuzione della pena. Quarto. Non si tratta però soltanto della tutela e della sicurezza dei nostri contemporanei ma anche del benessere delle generazioni future: come la generazione attuale trae profitto dall’operato delle precedenti generazioni — e non da ultimo dalla creazione di una comunità statale, per quanto imperfetta e bisognevole di miglioramento questa possa essere — così il sanzionare le violazioni del diritto deve avere come obiettivo anche la stabilizzazione di norme di tutela a favore delle generazioni future: quanto a ciò, la responsabilità che il reo deve avere ed assumere con la sua punizione si proietta nel futuro, così come anche l’appello alla coscienza giuridica della collettività, connesso alla punizione, presenta una dimensione futura. Come avranno già sicuramente notato i conoscitori della materia, in queste affermazioni — per nostra stessa ammissione appena abbozzate — è implicito il riconoscimento o il rifiuto dell’una o l’altra delle correnti teorie sulla pena. Ma che ne è a questo punto della retribuzione, che finora non è stata espressamente richiamata, quantunque essa non solo sia alla base di molte teorie penali ma domini in lontananza anche la prassi e
— 1076 — non da ultimo goda anche di una certa notorietà in diversi strati della popolazione? Ora, al pari della giustizia anche la retribuzione non può essere uno scopo ma unicamente un principio regolatore del potere punitivo dello Stato. Ciò significa che — al di là del risarcimento del danno cagionato nella prospettiva di una giustizia compensativa — l’inflizione di un male ulteriore non può giustificarsi già soltanto perché un delitto è stato commesso — ciò altro non sarebbe che retribuzione per la retribuzione, che tende a confondersi con la vendetta; piuttosto, la sanzione che va oltre il risarcimento del danno deve potersi giustificare per il fatto di avere, come obiettivo, la prevenzione di futuri delitti. In quanto a ciò, il diritto penale è innanzi tutto un diritto di scopo. — Anche questo legittimo obiettivo non può tuttavia esser perseguito ad ogni costo ma — al pari dell’esercizio di ogni diritto, se non vuol degenerare in abuso — deve orientarsi piuttosto, per tipo e dimensioni, a un criterio di giustizia. Per quanto difficile possa risultare la determinazione di questo criterio, a me sembra comunque essenziale una regola: che il male inflitto al condannato non possa eccedere la gravità del suo fatto e della sua colpevolezza. Che ciò venga allora qualificato come efflusso del principio di proporzionalità o come obbligo di equità oppure semplicemente come espressione di retribuzione o che si facciano concorrere tutti questi aspetti, è di secondaria importanza finché si concorda sul fatto che anche al trasgressore non si può far pagare più di quanto egli, in modo oggettivamente e soggettivamente imputabile, abbia realizzato nell’illecito. Se la retribuzione viene intesa in tal modo, allora essa non è, come in passato, scopo della pena ma piuttosto un principio regolatore che non sarà mai apprezzato abbastanza. — Il che non vale affatto soltanto per la specie e l’entità delle pene ma anche per i presupposti della punibilità e dunque per gli elementi essenziali del reato. Ed infatti — per indicare una soltanto tra le molte conseguenze ipotizzabili — se la pena non deve eccedere la misura di ciò che al trasgressore può essere contraccambiato secondo giustizia e se tale limite dipende non da ultimo dal grado della colpevolezza, la pena presuppone allora necessariamente la colpevolezza. Ciò comporta però come conseguenza che nell’ambito del diritto penale non può esservi comunque spazio per qualsiasi forma di « absolute » o « strict liability ». Dopo queste più generali considerazioni sugli scopi e sui limiti delle sanzioni penali, in realtà si dovrebbero ora trarre, in una prospettiva a « misura d’uomo », le conseguenze per l’organizzazione delle singole pene, compresa la fase della loro esecuzione. Non consentendolo i limiti assegnati, qui si prenderà soltanto brevemente posizione sulla pena di morte come estremo banco di prova del potere punitivo dello Stato. La pena di morte come « banco di prova ». — Benché in Italia, come anche in Germania, la pena di morte sia stata abolita da tempo, vorrei
— 1077 — nondimeno prendere brevemente posizione al riguardo. Ed infatti proprio attualmente se ne richiede a più riprese l’introduzione, come ad esempio è accaduto di recente in Belgio in occasione dei gravi fatti di violenza in danno di minori. Qualunque argomento possa essere addotto pro o contro la pena di morte — così per esempio, da una parte, la sua pretesa forza intimidatrice e la sua funzione di valvola per populistiche invocazioni della retribuzione oppure, dall’altra, i dubbi sulla sua efficienza o il timore di possibili errori giudiziari — a me sembra che, in una prospettiva orientata all’uomo, essa sia insostenibile soprattutto per due motivi. Già sotto il profilo dei tradizionali scopi della pena, la pena di morte è difficilmente sostenibile. Poiché anche a tale riguardo non può venire in considerazione una retribuzione fine a se stessa, e la rieducazione del condannato viene resa del tutto impossibile dalla sua eliminazione fisica, scopo della pena di morte potrebbe essere soltanto l’appello alla collettività. Nella misura in cui si tratta unicamente di far acquisire consapevolezza e di stabilizzare la norma violata, assumerebbe rilievo non tanto la specie di pena applicata quanto piuttosto l’atto in sé dell’imposizione della sanzione. Se dunque si ritiene di dover ricorrere in modo particolare alla pena di morte, ciò allora può essenzialmente avvenire soltanto per motivi di sicurezza o di intimidazione della collettività. — Il menzionato aspetto della sicurezza sarebbe tuttavia in fondo una testimonianza di debolezza da parte dello Stato: non dovrebbe forse questo essere in grado di imporsi al delinquente in modo diverso dalla sua eliminazione fisica? Dovrebbe in realtà far riflettere il fatto che spesso la pena di morte è da rinvenire proprio in quei Paesi ai quali, a causa di una costituzione di tipo totalitario o di altre disarmonie sociali (come si può riconoscere soprattutto dalla circostanza che la pena di morte colpisce specialmente gli appartenenti agli strati sociali inferiori), fanno difetto stabilità interna e uguaglianza. Ma se, proprio in mancanza di condizioni « degne dell’uomo », si infligge la pena di morte soltanto per motivi di sicurezza, non si manifesta così, con particolare evidenza, il fatto che un uomo venga strumentalizzato per scopi a lui estranei? — Questa degradazione ad oggetto diviene ancor più evidente ove la pena di morte sia utilizzata a scopo di intimidazione. Anche del tutto a prescindere dal fatto che in tal modo il rispetto per la vita umana — in quanto strumentalizzata a fini di prevenzione — viene a subire un indebolimento piuttosto che un rafforzamento, con la pena di morte in certo qual modo si oppone al « terrore » del delinquente il « controterrore » dello Stato. Ma quando uno Stato ritiene di poter intimidire soltanto col dare la morte a chi gli si consegna oramai inerme, esso rivela più debolezza che forza; e ciò indipendentemente dal fatto che questa venga eseguita in modo brutale oppure venga, mediante formalizzazione e appa-
— 1078 — rente umanizzazione, per così dire stilizzata in « controterrore ritualizzato »: l’esteriore superiorità nei confronti del singolo condannato, palesata attraverso l’intero apparato tecnico e personale predisposto per l’esecuzione, difficilmente riesce a nascondere l’interiore debolezza nei confronti della collettività. Ma anche se fosse dato rinvenire, negli scopi generali della pena, motivi plausibili in favore della pena di morte, resterebbe comunque da opporre ad essa quanto segue. Se vi è un modo in cui si nega l’uomo come tale, ciò accade per l’appunto con la pena di morte. Così come appartiene alla natura umana la disponibilità alla seduzione del male, allo stesso modo è parte integrante dell’essere umano anche la speranza del bene. In questo senso l’uomo non va mai inteso come qualcosa di compiuto bensì, per sua natura, come un « progetto » che necessita di continui ritocchi. Se gli si toglie di mano lo strumento per scrivere, prima che ciò accada ad opera della natura, l’uomo, nella sua irripetibile unicità e potenzialità, viene ad essere diminuito di un elemento essenziale e privato anche di una parte della sua dignità di uomo. Ma potrebbe ciò praticarsi, da parte dello Stato, con mezzi più radicali che mediante la pena di morte? Al condannato alla pena capitale non solo è tolta ogni speranza di ulteriore vita biologica ma è anche negata una chance di miglioramento e dunque è in fondo disconosciuta la sua stessa qualità di essere morale. Non posso considerare « a misura d’uomo » un tipo siffatto di giustizia penale. Principi-guida per un processo a misura d’uomo. — Accanto ai presupposti ed alle forme della reazione sanzionatoria, per una giustizia penale « a misura d’uomo » è naturalmente essenziale anche il processo. È stato necessario invocare le prime correzioni di rotta già in vista di un più accentuato coinvolgimento e risarcimento della vittima. Benché tuttavia, al di là di un simile riavvicinamento tra processo civile e processo penale, quest’ultimo mantenga ancora un suo peculiare significato, la sua finalità e la sua struttura andrebbero considerate alla luce della massima umanizzazione possibile. Non è dato in questa sede approfondire a che cosa ciò potrebbe condurre. Saranno però brevemente illustrati almeno tre principi-guida. Primo. Se l’uomo deve mantenere il primato sullo Stato, nel senso che lo Stato esiste per l’uomo e non viceversa, se dunque anche per quel che riguarda la composizione dei conflitti sociali, compresi il risarcimento dei danni derivanti dai delitti commessi e l’impedimento di futuri delitti, lo Stato deve limitarsi ad un ruolo sussidiario, allora anche il processo penale dev’essere organizzato in modo tale che alle parti direttamente in conflitto siano riservate le più ampie possibilità di codefinizione e gli organi dello Stato debbano quindi intervenire solo nel caso che dai diretti interessati non ci si possa attendere una equa composizione della lite e
— 1079 — una adeguata risposta sanzionatoria. Questo principio non richiede — ad esempio — come conseguenza necessaria che il modello processuale inquisitorio sia da sostituire senz’altro con quello di un processo di parti. Che invero anche in quest’ultimo la vittima possa essere completamente estromessa dal processo penale, mentre il suo ruolo è assunto dal pubblico ministero, rappresenta infatti una degenerazione, giustamente deplorata, del processo di parti. Tale principio può però certamente avere come conseguenza — e ciò tanto per il processo di parti quanto per quello inquisitorio — che il processo penale non sia per così dire calato sulle parti « dall’alto », ma che entrambe le parti siano coinvolte, in modo ben più accentuato di quanto non sia finora accaduto, nella ricerca della verità e nella formazione della decisione, affinché questa ottenga alla fine il massimo grado di consenso e dunque anche accettazione e rispetto maggiori. Secondo. In una prospettiva siffatta, orientata sul versante dei soggetti coinvolti e non tanto su quello delle interposte istituzioni, anche i « diritti umani » processuali, spesso reclamati, appaiono allora non più come limitazioni imposte dall’esterno al potere statale, bensì come elementi immanenti di una relazione interpersonale: la « correttezza » non è allora soltanto la molesta eccezione di un potere di indagine in sé illimitato ma già è elemento costitutivo del rapporto processuale con e tra le parti. Similmente la presunzione di innocenza non deve diventare soltanto una limitazione imposta ad uno Stato che si considera altrimenti onnipotente, ma deriva già dal principio per cui non si può trattare neppure un individuo sospettato per ciò che egli non è, non essendo stato ancora giudicato colpevole. Terzo. Anche la questione della partecipazione di laici alla giustizia penale, attualmente di nuovo in discussione in numerosi Paesi, in una prospettiva orientata all’uomo acquista una nuova dimensione: non si tratta allora più soltanto di chiedersi se i laici siano più o meno adatti dei giudici togati alla ricerca della verità, se da essi possa attendersi una maggiore spregiudicatezza oppure se, sotto il profilo di un più generale interesse educativo, attraverso il coinvolgimento dei laici ci si possa attendere un’estensione della conoscenza del diritto ed un rafforzamento della coscienza giuridica, si tratta piuttosto soprattutto di dare maggiore visibilità, nell’ottica dell’individuo più che in quella dello Stato, all’elemento interpersonale dei conflitti sociali e della loro composizione. Non è più allora lo Stato, che si staglia soltanto nelle sembianze di giudice togato, ma sono persone come noi, nelle vesti di giudici laici, che cercano affannosamente una corretta sistemazione dell’illecito commesso ed anche sperabilmente la maniera di impedine altri per il futuro. Prospettiva. — Ciò — al pari di talune altre affermazioni — può certamente apparire utopico. Molte cose, che qui si è potuto in genere sol-
— 1080 — tanto abbozzare a larghi tratti e senza peraltro includervi tutti gli ambiti della giustizia penale, sarebbero ancora da completare e da definire in modo più dettagliato. Così, ad esempio, sono perfettamente consapevole del fatto che la mia analisi si è focalizzata soprattutto sui classici delitti contro la persona e il patrimonio, mentre la tutela dei beni collettivi solleva problemi in parte del tutto diversi. E non da ultimo, all’interno dell’evidenziato antagonismo tra individuo e Stato, occorrerebbe naturalmente anche considerare quelle strutture sociali intermedie che rivestono enorme importanza ai fini di una convivenza su basi solidaristiche. Se io ciononostante ho voluto porVi di fronte ad una visione — per mia stessa ammissione ancora provvisoria e incompiuta — di una giustizia penale « a misura d’uomo », ciò non è avvenuto senza motivo. Ed infatti, anche se le utopie si realizzano completamente solo di rado, già la possibilità di una loro parziale realizzazione può tuttavia rappresentare un significativo progresso. A tal proposito potrebbe forse infonderci coraggio quanto uno dei più eminenti studiosi di politica criminale dell’era moderna, l’italiano Cesare Beccaria, ha posto come massima sul frontespizio della sua celebre opera « Dei delitti e delle pene »: ben presagendo che le sue richieste di riforma, e in particolare l’abolizione della tortura e della pena di morte, non potevano realizzarsi dall’oggi al domani, premise al suo libretto, destinato ad entrare nella storia, la frase di Francesco Bacone (tratta da: Serm. fidel. num. XLV): « In rebus quibuscumque difficilioribus non expectandum, ut quis simul, et serat, et metat, sed praeparatione opus est, ut per gradus maturescant » — « nelle cose difficili non ci si deve attendere che si possa seminare e insieme anche raccogliere, ma è necessaria un’opera di preparazione perché queste gradualmente maturino ». Anche lì al principio vi era soltanto un’utopia — ed in questo l’utopia è la madre del progresso. Se almeno per un ambito limitato della giustizia penale mi è riuscito di indicare taluni primi passi da compiere, considero raggiunto lo scopo delle mie riflessioni. Prof. Dr. Dr. h.c. ALBIN ESER, M.C.J. Università di Freiburg im Breisgau Direttore del Max-Planck-Institut für ausländisches und internationales Strafrecht
CONDOTTA ED EVENTO NELLA TEORIA DEL REATO (*)
SOMMARIO: I. LA CONDOTTA. — 1. Il tradizionale concetto di azione. Sua inattitudine a supportare sia i fatti colposi che quelli omissivi. Il concetto di condotta. — 2. L’ancoraggio al dogma della coscienza e volontà e il fenomeno degli automatismi. — 3. Critica della concezione finalistica e di quella causalistica dell’azione. In nota: la rilevanza dogmatica della concezione psicodinamica del dolo, come atteggiamento interiore antisociale. — 4. Critica della concezione dell’azione sociale. L’essenza dell’omissione e del fatto colposo. — 5. Le funzioni fondanti e delimitative del concetto di condotta umana. — 6. La c.d. concezione ‘‘personologica’’ dell’azione. Critica. Rapporti tra condotta e suitas. — II. L’EVENTO. — 7. Il concetto di evento. L’evento naturalistico in senso lato come concomitante e in senso stretto come susseguente alla condotta. Inconfigurabilità di reati c.d. di mera condotta. — 8. Diritto penale della condotta e diritto penale dell’evento. In nota: inconsistenza delle argomentazioni correntemente addotte a sostegno del diritto penale dell’evento. — 9. Il ruolo dell’evento naturalistico nella sistematica del reato. — 10. Le teoriche difficoltà per un coerente ancoraggio del principio di offensività all’evento. I c.d. reati di pericolo astratto. In nota: i reati di pura omissione, di attentato, di possesso, ostativi, etc. — 11. (Segue) I reati a dolo specifico, insormontabile scoglio per la teoria causale-oggettivistica. — 12. Necessità di un radicale adeguamento della nostra dogmatica alla cultura etico-giuridica dell’Unione Europea. — 13. La ‘‘rimozione’’ del momento etico dell’illecito penale, la crisi della pena e le prospettive della c.d. ‘‘modernizzazione’’ del diritto penale.
I.
LA CONDOTTA.
1. Il tradizionale concetto di azione. Sua inattitudine a supportare sia i fatti colposi che quelli omissivi. Il concetto di condotta. — Notoriamente il concetto di condotta costituisce il punto di partenza, il fulcro e la base di riferimento dell’intera ricostruzione dogmatica della teoria del reato. Il reato, è prima di tutto, condotta umana, sia essa attiva od omissiva: una condotta tipica, in quanto conforme ad una fattispecie dolosa o colposa, la quale trasgredisce un dovere imposto dalla legge penale a tutela di un interesse giuridico, e che, in assenza di cause di giustificazione, è altresì antigiuridica. Per lungo tempo la teoria del reato è rimasta influenzata da impostazioni e prospettive filosofiche, e precipuamente idealistico-hegeliane, con la conseguenza che il centro della ricostruzione dogmatica è stato indebi(*)
Contributo destinato agli Scritti in memoria di Gian Domenico Pisapia.
— 1082 — tamente ricoperto dal concetto di ‘‘azione’’, intesa come ‘‘realizzazione esteriore sorretta dalla previsione e dalla volontà del soggetto agente’’ (1). Nonostante che un simile concetto, calato nella realtà giuridica, si sia subito rivelato incapace di coprire vaste zone della fenomenologia delittuosa — quali soprattutto i fatti colposi, nei quali il risultato dell’azione non è coperto dalla volontà dell’agente, e i fatti omissivi, nei quali il reato si realizza senza alcuna realizzazione o manifestazione esteriore (2), e gli stessi fatti dolosi, quando non siano sorretti dall’intenzione, come avviene nel c.d. dolo indiretto e in quello c.d. eventuale — la dottrina ha continuato, e tuttora in buona parte continua, a polarizzare la teoria del reato sul concetto di azione (Handlung, secondo la terminologia tedesca). Dal concetto c.d. causale-meccanicistico-naturalistico di azione, teorizzato soprattutto dal von Liszt e dal Beling (3), nei primi anni del secolo, si è successivamente passati al concetto c.d. ontologico-finalistico di azione teorizzato nel secondo dopoguerra soprattutto dal Welzel (4), e, in seguito ancora, al concetto c.d. sociale di azione (5); con ciò dimostrando, in ultima analisi, quanto profondo, radicato e vischioso sia tuttora il legame tra la dogmatica e l’impostazione filosofica, a detrimento della esperienza giuridica, e quindi quanto condizionante sia ancora per la dottrina ogni pregiudiziale astratta, tendente a tenere lontana dal sano empirismo scientifico la ricostruzione giuridica del reato (6). Di fronte all’impossibilità di conciliare il concetto de quo con i fatti (1) Tale concetto è fatto risalire a HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, §§ 177 e 118, non tanto perché egli ne sia l’ideatore — già Aristotele nell’Etica nicomachea (III, 1 ss.), aveva basato l’azione umana sulla previsione e sulla volontà, in ciò seguito da Tommaso d’Aquino, nella Summa theologica I-II, 6-12 — quanto piuttosto perché la dogmatica giuridica tedesca ha la sua inequivoca origine nella concezione filosofica hegeliana. (2) Per questa critica v. soprattutto RADBRUCH, Der Handlungsbegriff in seiner Bedeutung für das Strafrechtssystem, 1903, p. 101 ss. (3) Grundzüge des Strafrechts, 1905, p. 28 ss.; ID., Die Lehre vom Verbrechen, 1906, p. 10 ss. (4) Das deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 129 ss. (5) Principalmente ad opera di JESCHECK, Lehrbuch des Strafrecht, 4a ed., Allg. Teil, 1988, p. 199 ss. (6) Non si sottraggono alla suggestione hegeliana del ‘‘primato’’ dell’azione neppure studiosi italiani recenti, quali il MARINUCCI, Il reato come azione, 1971, il quale, dopo aver sottoposto a corrosiva critica il concetto ‘‘ontologico’’ (rectius: naturalistico) di azione, nondimeno sente la necessità di ricostituirne il ‘‘primato’’ sul piano diverso, che altro non può essere se non normativo, dell’imputazione (p. 230 ss.). Cfr. altresì FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., 3a ed., 1995, pp. 184 ss., 485 ss., 557 ss., i quali seguono l’impostazione del problema dell’azione proposta dal Marinucci, ossia: sua frammentazione sul piano naturalistico, e ricostituzione sul piano ascrittivo-normativo. Ma una sistematica della teoria del reato basata su di una pretesa ‘‘realtà normativa’’ è quanto di più lontano possa esserci dall’unica realtà, qual è quella naturalistico-criminologica. Quella normativa non è che una dimensione legata alla sfera dei valori, la quale si sovrappone a quella dei dati naturalistici biopsico-sociologici.
— 1083 — di omissione, per un certo tempo era apparso ai più che si trattasse di una mera difficoltà terminologica, vale a dire della ‘‘resistenza’’ del termine ‘‘azione’’ ad ogni tentativo di usarlo in senso talmente ampio da ricomprendere in sé anche il suo esatto contrario, vale a dire l’omissione (7). Per superare l’impasse, alcuni autori, soprattutto tedeschi, sono così pervenuti all’escamotage di una fictio juris, nel senso di costruire un concetto ‘‘giuridico’’ di azione, in grado di ricomprendere in sé anche l’‘‘ipotesi omissiva’’ (8). Altri (9), invece, per reperire il genus concettuale comune ad azione ed omissione hanno preferito optare, assai più realisticamente, per il termine ‘‘condotta’’ (in tedesco Verhalten). Con ciò si è però raggiunto un risultato di natura solo formale; più che occuparsi dei contenuti, si è cioè badato a conseguire una maggiore precisione terminologica. Ci si è infatti preoccupati esclusivamente della coerenza logica della ricostruzione dogmatica, senza rendersi conto che il concetto di condotta, prima ancora di costituire un genus verbale, possiede una particolare valenza criminologica, in quanto in grado di fungere da referente di manifestazioni di attività umana riconducibili, oltre che alla sfera cosciente, altresì a quella incosciente, con riferimento alla personalità dell’agente nella sua interezza (10). Sotto questo punto di vista il concetto di condotta, o comportamento umano, consente anzitutto di spiegare, con una terminologica ‘‘Abbreviatur’’, perché una ‘‘negazione di A’’, ossia un ‘‘non-A’’, vale a dire una omissione, sia per il diritto altrettanto rilevante che l’‘‘affermazione di A’’, ossia un ‘‘A’’, vale a dire un’azione in senso proprio. Sia cioè in grado di rappresentare un ‘‘fatto’’ umano nell’uno come nell’altro caso. Al tempo stesso tale concetto fa luce su quel ‘‘misterioso’’ fenomeno per cui diviene rilevante per il diritto anche tutto ciò che non è sostenuto né da coscienza né da volontà, ossia il fenomeno colposo: sia quello della c.d. colpa incosciente (rectius: senza alcuna previa previsione), sia quello della colpa impropriamente detta cosciente (rectius: accompagnata da previa previsione, benché in sé egualmente incosciente al momento del fatto). (7) Sul punto, cfr., in particolare, RADBRUCH, op. loc. cit. (8) Così ad es. JESCHECK, op. loc. cit., p. 196 ss. (9) Così ad esempio, nella nostra dottrina: DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, 1930, p. 131; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, p. gen., 14a ed., 1997, p. 216 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, p. gen., 5a ed., 1996, p. 261 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, 3a ed., 1992, p. 158 ss. Peraltro, in questi autori, così come in altri che seguono tale indirizzo, affiora spesso e volentieri la tendenza ad usare il vecchio termine ‘‘azione’’ in luogo di quello di ‘‘condotta’’. (10) Su tale linea si sono invece mossi ARTHUR KAUFMANN, Schuld und Strafe, 1966, p. 57; ID., Die ontologische Struktur der Handlung, in Festschrift f. H. Mayer, 1966, p. 108 ss.; ID., Die finale Handlungslehre und die Fahrlässigkeit, in Jus, 1967, p. 151 ss.; HALL, Fahrlässigkeit im Vorsatz, 1955, p. 13 ss.; e lo stesso scrivente in Il ruolo etc., cit., p. 39 ss., e in numerosi altri scritti. Si è cioè avvertito come solo il concetto di condotta consenta di ancorare l’operato umano ai confini con l’inconscio, che è il suo reale motore.
— 1084 — Ora l’aver perso di vista che il concetto di condotta può svolgere in seno alla teoria del reato un ruolo che va ben al di là di quello, meramente formale e nominalistico, di ‘‘concetto superiore unitario’’ (Oberbegriff) da porre a base del sistema, ha finito con l’indurre certa dottrina ad una artificiosa e ultronea frammentazione e disarticolazione della teoria generale del reato in una serie di costruzioni ‘‘separate’’ dei tipi di reato in commissivi dolosi, commissivi colposi, omissivi dolosi, omissivi colposi (11). D’altro canto ciò ha portato a una altrettanto indebita svalutazione del momento criminologico-naturalistico dell’illecito, con conseguente slittamento del baricentro della teoria del reato dalla base naturalistica all’area normativa della tipicità e dell’antigiuridicità. Avviene cioè che, anziché porsi come indefettibile punto di partenza il quesito se, e in che modo, un accadimento sia oggettivamente e soggettivamente riconducibile alla condotta di qualcuno, per giungere a valutarlo nella sfera dell’antigiuridicità e della responsabilità solo in seconda istanza, codesta corrente dottrinaria procede invece con una sorta di inversione metodologica, preoccupandosi in primis di accertare la sussistenza di un’offesa al bene giuridico, giungendo a ciò attraverso la verifica degli estremi normativi di un’imputazione penale (12), e riducendo l’aspetto naturalistico a mero presupposto logico. Costruzioni del genere stanno sostanzialmente a confermare quanto sia radicata e persistente in dottrina la tendenza a ‘‘rimuovere’’ il duro impatto sulle données psico-naturalistiche del fatto, per ritirarsi sul terreno, certamente più rassicurante — perché aprioristico o ascrittivo — delle ‘‘valutazioni’’ normative. Ciò spiega anche la evidente difficoltà che incontra questo tipo di approccio dottrinario a inquadrare sotto i propri principi i pur numerosi casi di colpa c.d. incosciente, fino al punto di concepirla come priva ‘‘di un effettivo legame psicologico fatto-autore’’, e di alterare così il concetto di colpevolezza, collegandolo al modo di essere dell’agente, anziché al fatto (13). Il concetto unitario e unificatore di condotta viene accusato di costituire solo ‘‘un espediente nominalistico, come tale incapace di assurgere (11) MARINUCCI, op. cit., p. 135 ss., seguito da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., 3a ed., 1995, p. 166. (12) Così ancora, FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 186. (13) Vedi: FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 271. Questi autori non si avvedono che, per tal via, dato il numero esteso, tutt’altro che marginale, di reati commessi con colpa c.d. incosciente, essi vengono a spezzare ‘‘centralmente’’ la logica del diritto penale del fatto. La portata quantitativa dei casi di colpa senza previsione (detta impropriamente incosciente) viene dagli stessi AA. indebitamente minimizzata allorché li qualificano come ‘‘casi-limite’’, mentre al contrario si tratta di un fenomeno psicologico oltremodo rivelatore, di fronte al quale l’intera dogmatica dovrebbe fare i conti per rivedere radicalmente concetti e strumenti ormai vieti.
— 1085 — ad operazione concettuale dotata di serio fondamento scientifico’’ (14). Proprio al contrario, una siffatta censura è chiaramente frutto di una totale rimozione del contenuto psico-dinamico, e del significato comunque socialmente rilevante, insito in qualsivoglia comportamento umano. Ciò è da ascriversi ad un eccesso di formalismo normativistico, e basta da solo a spiegare la predetta ‘‘frantumazione’’ della sistematica del reato, con le conseguenti difficoltà di coerenza ricostruttiva soprattutto in materia di omissioni proprie e improprie e di fatti colposi. Se un concetto socio-naturalistico come quello di condotta viene considerato nulla di più di un flatus vocis, come riuscire a ricostruire e inquadrare organicamente, già sul terreno della suitas, ancor prima che su quello eziologico, casi di scuola, risolventisi in dati di fatto, quali quelli del casellante che non alza le sbarre del passaggio a livello perché negligentemente colto da un colpo di sonno o della madre che si addormenta soffocando inavvertitamente il bambino che le giace accanto? Insomma, come inquadrare il variegato fenomeno della mancanza di coscienza e di volontà rispetto all’evento che caratterizza le condotte colpose, sia commissive che omissive? E come riuscire a dare una base di effettività alle omissioni proprie senza cadere nella tentazione di rifugiarsi nell’empireo normativo? 2. L’ancoraggio al dogma della coscienza e volontà e il fenomeno degli automatismi. — Tutti e tre i concetti tradizionali di azione — quello causale, quello finalistico e quello sociale — mostrano nel modo più evidente il loro vizio di origine, vale a dire la loro comune matrice idealistico-hegeliana, proprio nel momento in cui si constata che, in seno alla dottrina, essi permangono solidamente ancorati al dogma della ‘‘coscienza e volontà’’ quale fondamento della loro rilevanza giuridico-penale. Per vero, la dottrina è da tempo concorde nel riconoscere la non ricollegabilità alla volontà di tutte quelle condotte (colpose) che consistono in sviste, dimenticanze, atti riflessi, istintivi, abituali, etc., in genere nei cosiddetti ‘‘automatismi’’ latu sensu, tanto che, a tale riguardo, in luogo della ‘‘volontà’’, si preferisce parlare di mera suitas, o attribuibilità del fatto alla personalità dell’autore (15). (14) FIANDACA-MUSCO, op. cit.; ma già MARINUCCI, op. cit., p. 97. (15) ANTOLISEI — cui notoriamente si deve, per la dottrina italiana, l’approfondimento di tale importante aspetto della teoria del reato (Sul concetto dell’azione nel reato, in Riv. pen., 1925, I, p. 505) — definisce la suitas come ‘‘attribuibilità al volere’’; al che deve obiettarsi che si tratta di un concetto normativo, il quale non trova riscontro alcuno sul piano naturalistico, e può tutt’al più valere nell’ambito del giudizio di colpevolezza. Per tale ragione, anziché di attribuibilità al volere, appare preferibile parlare di attribuibilità alla personalità del soggetto: cfr. il nostro: Coscienza e volontà nella teoria del dolo, in Arch. pen., 1966, p. 433. Riconosce in sostanza questo scambio tra il piano naturalistico e quello normativo dell’imputazione il MARINUCCI, op. cit., p. 203 ss., peraltro obliterando la necessità di reperire
— 1086 — Non ci si è però accorti che, in realtà, ipotesi siffatte non rappresentano una marginale, e quasi trascurabile, minorità tra le condotte non dolose, vale a dire tra le condotte colpose. Al contrario, tutte indistintamente le condotte colpose si risolvono in ‘‘meccanismi’’ di tal genere: esse sono tutte riconducibili a sviste, errori, dimenticanze, distrazioni, lapsus, etc., vale a dire, ad ‘‘incidenti’’ caratterizzati da quella carenza nella funzione di controllo propria dell’Io del soggetto — difetto di attenzione, rectius, leggerezza — che rappresenta l’essenza psicologica della colpa (16). Del resto, a ben vedere, che le azioni o le omissioni colpose, ossia le condotte colpose, possano essere commesse ‘‘senza coscienza e volontà’’ è lo stesso nostro legislatore a riconoscerlo, dal momento che ne prevede espressamente la possibilità non soltanto nel 1o comma dell’art. 43 c.p., 3o alinea, dove si assume come regola l’assenza sia della volontà che della consapevolezza per i fatti colposi, ma sinanco al 1o comma dell’art. 42, dove implicitamente si riconosce che possono sussistere condotte senza che siano sorrette da coscienza e volontà. Il fenomeno degli automatismi lato sensu non costituisce dunque affatto un avvenimento marginale, una sorta di ‘‘eccezione che conferma la regola’’ della coscienza e volontà; si tratta piuttosto di una realtà diffusa da cui traspare, con la massima evidenza, come ‘‘la regola’’ consista proprio nella mancanza di attenzione, il che equivale a dire nell’assenza della coscienza e della volontà. Invero, in molti casi una ‘‘azione volontaria’’ può pure di fatto essere rinvenuta, e, sul piano della catena causale, l’evento colposamente cagionato può anche essere ad essa indirettamente ricollegato. Ma ciò non avviene sempre e necessariamente, e, quando avviene, non è difficile constatare come una tale azione sia, di regola, al di fuori della fattispecie, e, quindi, della sfera della tipicità, e come la sua rilevanza sia perciò limitata ai soli fini della determinazione della colpevolezza, vale a dire dell’imputazione del fatto ai fini della tipologia della sanzione. Si pensi ai noti e discussi esempi della persona che, maneggiando un fucile carico, scivola e fa partire un colpo che ferisce un vicino; di chi ripone un fucile carico una realtà naturalistica quale substrato dell’imputazione, e con ciò la necessità di riconoscere come dato di riferimento l’aspetto anche inconscio della personalità dell’agente. (16) In tal senso: MEZGER, Diritto penale, trad. it., 1935, p. 367; BETTIOL, Diritto penale, p. gen., 10a ed., 1978, p. 456. Ancora più conferente per una appropriata analisi dell’essenza della colpa è il contributo di ALIMENA (in La colpa nella teoria generale del reato, 1947, p. 27 ss.; ID., Il concetto unitario del reato colposo, in questa Rivista, 1939, p. 349), secondo il quale fondamento della colpa è l’errore, nel cui ambito vanno sicuramente ricompresi gli atti mancati, le sviste, le dimenticanze, le distrazioni, i lapsus, ecc. Sull’assunto che tutti i fatti colposi sono caratterizzati da automatismi, ossia dall’assenza della coscienza e volontà, vedi il nostro Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, 1989, p. 34 ss., 42 ss. nonché il nostro Die subjektiven Elemente der Straftat aus kriminologischer Sicht, in ZStW, 1995, p. 342 ss.
— 1087 — causando in tal modo la morte di un bambino che, impadronitosi dell’arma, la fa esplodere e si uccide; del manovale che, stando su una banchina occupato a consegnare mattoni ad alcuni muratori, ne lascia inavvertitamente cadere uno che colpisce un passante e lo uccide; della madre che soffoca involontariamente nel sonno il bambino coricato accanto a lei; del fumatore che lascia cadere un mozzicone acceso provocando un incendio, e così via. Orbene, in tutti questi casi, la condotta préalable non soltanto non è illecita, ma neppure tipica (17); essa può giuridicamente rilevare ai soli fini della commisurazione della colpevolezza, ossia in sede diversa da quella dell’accertamento del fatto. 3. Critica della concezione finalistica e di quella causalistica dell’azione. In nota: la rilevanza dogmatica della concezione psicodinamica del dolo, come atteggiamento interiore antisociale. — Un primo passo per superare tali aporie derivanti dal dogma della volontà è stato dunque compiuto in dottrina — sia pure senza piena consapevolezza delle sue reali implicazioni — proprio da quegli autori che hanno preferito ancorare la teoria generale del reato al concetto generico di ‘‘condotta’’, invece che a quello di ‘‘azione’’ (18). Ciò ha consentito di recepire che i fatti colposi, e persino gran parte di quelli dolosi, quali quelli a dolo indiretto ed even(17) Per meglio renderci conto di tale specifica struttura, vale la pena analizzare in vitro l’esempio scolastico della madre che si addormenta soffocando accidentalmente nel sonno il bambino che ha al suo fianco. Qui sarebbe certo inesatto affermare — come fa ad esempio ANTOLISEI per casi analoghi (Manuale, cit., p. 337 s.) — che la madre è punita semplicemente per aver cagionato la morte del bambino con un movimento automatico; si tratterebbe invero di un inammissibile caso di responsabilità obiettiva, anche se può sussistere la suitas. È però altrettanto inesatto asserire che ella viene punita per essersi (imprudentemente) posto il bimbo a fianco prima di addormentarsi, e quindi per una sua precedente azione cosciente e volontaria (così PAGLIARO, Principi, cit., p. 310). In realtà, il porre il bambino sul letto a fianco a sé non costituisce di per sé alcuna azione rilevante a titolo di imprudenza: ai fini del giudizio di colpa ciò che rileva è invece l’omissione delle cautele doverose. Pertanto, a ben guardare, si tratta di una condotta composita, per così dire bifasica: un momento omissivo per aver trascurato, per una svista o dimenticanza, i doverosi atti cautelativi prima di addormentarsi (come ad es. spostare il bambino dal letto, o inframmettere un oggetto, come un cuscino o altro, tra sé e il medesimo e così via); un momento attivo nell’atto automatico che ha prodotto la morte del bambino. A nulla però varrebbe eccepire che, in ogni caso, se quest’ultimo è indubbiamente un atto privo di coscienza e di volontà, la prima fase della condotta ne sarebbe invece sorretta: anche gli errori, le sviste, le distrazioni e le dimenticanze costituiscono già di per sé degli ‘‘automatismi’’, al pari degli atti istintivi, riflessi o abituali. (18) Perfino WELZEL, che pure fa del concetto ‘‘di azione’’ la pietra angolare dell’intero suo sistema, ha sentito talora la necessità di ancorare azione ed omissione ad un unico genus: ‘‘In Wahrheit sind Handlung und Unterlassung einer Handlung zwei eigenständige Unterarten des menschlichen, vom zwecktätigen Willen beherrschbaren Verhaltens’’ (op. cit., p. 193). Sennonché, avendo egli definito la condotta in chiave meramente normativa, come ‘‘l’attività fisica o la passività dell’uomo subordinate alla capacità di direzione finalistica della volontà’’ (op. cit., p. 29), il suo concetto di condotta rimane, sul piano operativo
— 1088 — tuale, anziché consistere necessariamente in una ‘‘azione cosciente e volontaria’’ del soggetto, sono più adeguatamente inquadrabili sotto il più ampio concetto di condotta, proprio in quanto, per sua struttura concettuale, questa ha la caratteristica di poter anche essere di natura incosciente e involontaria. Chi dorme non ‘‘agisce’’, e neppure necessariamente ‘‘omette’’, ma, in ogni caso, realizza una condotta, ossia un comportamento umano che può essere socialmente rilevante. In effetti, un reale concetto unitario di condotta si rende possibile, e utile, solo se si rinuncia a fondarlo sul dogma della ‘‘coscienza e volontà’’, per calarlo nella dimensione che gli è propria, vale a dire non solo nella sfera cosciente e volontaria, ma altresì in quella zona-limite di natura preconscia, o subliminale, che sottostà ad ogni comportamento umano, e costituisce l’elemento fondamentale unificatore di ogni sua concreta manifestazione (19): condotta, dunque, intesa come Unterbergriff, o concetto di base, e non come Oberbegriff, o concetto superiore. In definitiva, l’errore comune sia alla teoria finalistica sia a quella train seno alla teoria generale del reato, un mero flatus vocis, essendo privo di una propria struttura naturalistica. (19) Cfr. il nostro: Il reato continuato nell’attuale disciplina legislativa, in Scritti in onore di S. Pugliatti, 1978, III, p. 944 ss. La dottrina italiana, tuttora ancorata a schemi empirici — e del tutto aliena da preoccupazioni di approfondimenti scientifici su di un tale settore — è solita non attribuire alcuna rilevanza a questa zona subliminale, ai confini con la sfera cosciente (ma che non appartiene ancora all’inconscio), su cui si radica il nisus criminoso, ed anzi paventa il rischio che a questo modo il centro di gravità del reato si sposti dalla colpevolezza per il fatto a quella per la condotta della vita o per il modo di essere dell’agente (vedi, per tutti, FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 271). Epperò, non riuscendo in tal guisa a intravedere ‘‘un effettivo legame psicologico fatto-autore’’ nei casi di colpa c.d. incosciente, viene a trovarsi nell’impossibilità di inquadrarli nella logica del diritto penale del fatto (vedi FIANDACA-MUSCO, op. cit., ibidem). Il che non è poco! Quel che si vuole indicare, in sostanza, col riferimento a codesti dati pre-razionali, rectius, preconsci, è che accanto al momento ideologico deve determinarsi nel soggetto un atteggiamento di interiore adesione al fatto, o alla serie di fatti, che il medesimo si accinge a realizzare (Gesinnung antisociale). Si tratta, insomma, di quell’atteggiamento intrapsichico che, nel quadro della moderna psicologia — dinamica e analitica — è stato da noi descritto, in tutta una serie di precedenti studi, come risultante dal meccanismo di base della criminosi, e che, in termini tecnico-giuridici, mutuati dalla nostra millenaria tradizione scientifica, abbiamo definito come animus nocendi. Esso costituisce la matrice psichica di ogni delitto doloso, e rappresenta l’essenza psicologica del dolo, preesistente e sottostante sia alla consapevolezza sia alla volontà, che del dolo stesso sono solo l’estrinsecazione dinamica, anche se non sempre necessaria, e comunque non sempre sufficiente, da sola, a indicarne la sussistenza. Non è superfluo osservare che lo spostamento del baricentro dell’attività etica umana dalla sfera della intenzionalità a quella della Gesinnung è stato realizzato da Emanuele Kant, con il fondamentale assunto che non è già il risultato, e neppure l’intenzione, bensi la Gesinnung a costituire ‘‘l’originario portatore del moralmente buono e cattivo’’. Tale assunto venne lucidamente sviluppato da Max SCHELER in Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 4a ed., 1954, specie p. 131 ss. Ed è dello Scheler l’affermazione che è totalmente erroneo ritenere che il diritto abbia a che fare solo con le azioni, e l’etica solo con la Gesinnung: ‘‘il diritto in realtà ha a che vedere con la azione sociale e con la Gesinnung
— 1089 — dizionale consiste nel porre al centro della teoria generale del reato il concetto di azione. Si tratta di un errore in quanto tale concetto, ha, come proprio presupposto strutturale, quel principio volontaristico che abbiamo visto essere inidoneo a porsi a fondamento della sistematica del reato. Addirittura nella visuale di Welzel (20) codesto principio viene esasociale della persona sociale’’ in relazione all’ordinamento giuridico costituito (op. cit., p. 592, nota 1). (20) Contro questa teorica del Welzel, noi abbiamo da tempo delineato una concezione detta ‘‘psicodinamica’’ del dolo, la quale fa leva sull’atteggiamento interiore antisociale o animus nocendi o Gesinnung antisociale. Si veda il primo scritto, del 1966: Coscienza e volontà nella teoria del dolo, in Arch. pen., 1966, p. 406 s. Essa è stata successivamente sviluppata in numerose e varie implicazioni, di parte generale come di parte speciale, in ulteriori nostri lavori, di cui ci permettiamo qui di richiamare i più significativi sull’argomento: La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, 1966, p. 113 s., specie pp. 115-117 e 133-139; ora in 2a ed., 1978, rist. 1988, pp. 141-179; Sulla configurabilità degli atti osceni come reato di pericolo, in Arch. pen., 1968, II, pp. 437 e 439; La valutazione dell’osceno nei delitti contro il pubblico pudore, in Giust. pen., 1970, fasc. II, p. 10 dell’estratto; L’elemento psicologico delle falsità nei bilanci delle società commerciali, in Foro pen., 1970, pp. 213217; Il reato di false comunicazioni sociali, 1974, pp. 100 s., 111 s., 123 s.; Il reato continuato nell’attuale disciplina legislativa, in Scritti in memoria di Salvatore Pugliatti, 1978, vol. III, p. 907 ss. e in questa Rivista, 1977, p. 115 ss.; Il significato della capacità a delinquere per l’applicazione della pena, in Scritti in memoria di G. Bellavista, 1979, vol. III, p. 1195 ss., e in questa Rivista, 1977, p. 1342 ss.; Il dolo eventuale nel delitto tentato, in Scritti in onore di G. Musotto, 1980, vol. III, p. 321 ss., e in L’ind. pen., 1978, p. 27 ss.; Note critiche sulla normativa del concorso di persone nel reato, in questa Rivista, 1983, p. 14 ss., e in Scritti in memoria di G. Delitala, 1985, vol. II, p. 829 ss.; voce Reato continuato, in Noviss. Dig. it., Appendice di aggiorn., 1985, IV, 353 ss.; Il ruolo dell’atteggiam. int. etc., cit.; Note in tema di delitto tentato, cit., p. 79 ss.; Dispense di diritto penale, 3a ed., 1998, p. 163 ss.; L’elemento soggettivo del reato etc., cit., p. 82 ss.; Die subjektiven Elemente der Straftat aus kriminologischer Sicht, in ZStW, 1995, vol. 107, p. 324 ss.; Presentazione al volume di G. Cerquetti ‘‘Tutela penale della pubblica amministrazione e tangenti’’, 1996, p. XI ss.; Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in questa Rivista, 1998, p. 36 ss.; voce Tentativo, in Dig., disc. pen., vol. XIV, 1998, p. 182 ss. Alcuni dei citati scritti, compresa la monografia Il ruolo etc., sono stati tradotti e pubblicati nelle principali riviste giuridico-penali della Germania, Spagna, Grecia e dell’America latina (Argentina, Brasile, Perù, Colombia, Messico). Altri scritti sono in corso di traduzione e pubblicazione. Si tratta di una prospettiva che — nonostante le ostinate resistenze di buona parte della nostra dottrina, la quale ha spesso del tutto frainteso le sue reali implicazioni, dal momento che esse vanno quasi sempre in direzione del tutto opposta a quella ritenuta, e pertanto indebitamente criticata — siamo vieppiù persuasi essere determinante per la corretta soluzione di una vasta serie di questioni sia dogmatiche che esegetiche, come per esempio: la distinzione tra autore e compartecipe (solo ravvisabile con certezza nella classica differenziazione tra animus auctoris e animus socii, seguita dalla giurisprudenza germanica); l’individuazione dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo (riconducibile solo al momento in cui l’effettiva capacità di delinquere si è evidenziata con atti sorretti dall’intento criminoso); la distinzione tra dolo civile e dolo penale, indispensabile per la discriminazione di molte fattispecie, soprattutto di frode (falso, truffa, etc.), dagli illeciti di rilevanza esclusivamente civilistica; il fondamento giuridico delle cause di giustificazione (che non può essere di natura oggettiva, non essendo affatto vero che nello stato di necessità, nell’adempimento di un dovere
— 1090 — sperato al massimo — persino in termini di reductio ad absurdum — in quanto a fondamento del concetto di azione viene postulata non solo la volontarietà, ma altresì la finalità, ossia l’intenzionalità, col risultato di non riuscire a ricostruire dogmaticamente non soltanto il fenomeno cole nella stessa legittima difesa, etc., sia assente comunque il danno sociale); l’elemento soggettivo delle contravvenzioni (necessariamente caratterizzato dall’assenza di dolo, talché potrà parlarsi tutt’al più di contravvenzioni volontarie, ma pur sempre colpose, come nei casi di c.d. colpa impropria); il dolo nei reati omissivi propri e impropri (caratterizzati dall’impossibilità di ricollegarli ad un preciso atto volitivo, come quelli di azione); l’irrilevanza dell’errore vincibile su legge penale (giustificabile unicamente in base a considerazioni di psicologia criminale) e la conseguente distinzione tra quest’ultimo e quello su legge extra-penale (deducibile solo dall’assenza dell’animus criminoso nel soggetto attivo); la responsabilità per dolo nell’aberratio ictus (configurabile solo se si esclude che l’essenza del dolo sia data dalla volizione, essendo questa viziata da un errore più radicale di quello ex art. 47 c.p.); l’effettiva natura e la ratio del dolo specifico (si pensi, ad es., ‘‘al fine di trarre profitto’’ nella fattispecie del furto, espressione troppo ampia — trattandosi di un qualsiasi profitto, anche non economico — al punto da perdere ogni effettiva consistenza, qualora non venga invece ricondotta a semplice esplicitazione normativa dell’animus furandi); il fondamento scientifico e la configurabilità dogmatica di un ‘‘dolo’’ per il non imputabile (problema insolubile sia sotto il profilo della definizione dell’imputabilità come capacità di intendere e di volere di cui all’art. 85 c.p. in rapporto alla coscienza e volontà di cui all’art. 43, sia nel quadro tradizionale di un dolo concepito come forma di colpevolezza); i rapporti logico-esegetici tra la ‘‘coscienza e volontà’’ di cui all’art. 42 — c.d. Suitas — e la medesima di cui all’art. 43; la compatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il vizio parziale o totale di mente; i limiti della esigibilità della ‘‘conoscenza’’ delle circostanze concomitanti al fatto di reato, tanto più che queste sono individuabili solo in concreto, e non nell’ambito della fattispecie normativa; l’errore sulle cause di giustificazione; la natura dell’effettivo elemento soggettivo dei reati commessi in stato di ubriachezza c.d. volontaria o colposa; la rilevabilità dell’errore sul fatto del non imputabile, ossia del soggetto incapace di intendere e di volere; il significato dogmatico e la funzione pratica della formula del dolus in re ipsa, e comunque delle c.d. presunzioni di dolo, nella prassi giudiziaria; la praticabilità esegetica della categoria del tipo normativo d’autore per l’esatta delimitazione delle fattispecie legali, e la loro concreta applicazione; la distinzione tra eccesso colposo e doloso nelle scriminanti; e via dicendo. Particolarmente evidente è l’importanza dogmatica di questa prospettiva sotto due profili. Anzitutto nella distinzione (fondamentale per l’intera teoria del reato, in quanto segna l’esatto spartiacque tra le categorie dei delitti dolosi e quelli colposi) tra dolo eventuale e colpa cosciente: nell’un caso come nell’altro fa difetto la ‘‘volontà’’ dell’evento, ed è quindi solo la c.d. ‘‘sicura fiducia’’, vale a dire la buonafede delittuosa, che può qualificare come colposa una condotta, sottraendola alla sfera del dolo eventuale. In secondo luogo, nella spiegazione dogmatica dei casi di c.d. colpa impropria, i quali, a stretto rigore formale, avrebbero tutti i titoli per essere classificati come forme di dolo, ben potendosi loro applicare la formula di cui al primo capoverso dell’art. 43 c.p.; in realtà è... improprio parlare di colpa ‘‘impropria’’, costituendo esse altrettante ipotesi conclamate di colpa in senso pieno: non potrà mai trattarsi di dolo per la semplice ragione che la volizione è elemento normale, ma non essenziale nella nozione del dolo; più esattamente, è elemento caratterizzante del solo dolo diretto o intenzionale. Ancor più numerose sono le questioni cui la concezione psicologica del dolo può recare un determinante contributo in seno alla parte speciale. Sempre a titolo di esempio, si pensi al dolo nei reati di falso e in quelli di frode in generale; al dolo nei delitti di c.d. espressione, quali l’ingiuria, la diffamazione, l’oltraggio, le forme di vilipendio, nella calunnia, nell’abuso dei mezzi di correzione, nei maltrattamenti in famiglia, negli atti osceni, nella corru-
— 1091 — poso, ma neppure quello omissivo, e gran parte dello stesso fenomeno doloso rappresentata dalle forme del dolo indiretto, e di quello eventuale, che con la finalità — come del resto finisce col riconoscere lo stesso Welzel — non hanno nulla a che vedere. zione dei minorenni, nella reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale; si pensi al problema dell’eutanasia, e via dicendo. È a nostro avviso già sufficiente considerare la molteplicità e la rilevanza delle aporie dogmatiche che tale concezione del dolo appare in grado di affrontare per rendersi conto come essa si dimostri più radicale e più producente per la sistematica del reato che non altre correnti concezioni formali, quale quella della coscienza e volontà del fatto accompagnata dalla coscienza della sua antisocialità (Antolisei, etc.), o quella della rappresentazione e volizione dell’evento, inteso come situazione fattuale lesiva tipica risultante dal reato (Nuvolone), teoriche che dimostrano la loro insufficienza soprattutto nei reati omissivi e in quelli di impeto, e contrastano entrambe, ad una ben attenta analisi, con l’art. 5 c.p. Essa evidenzia inoltre l’insostenibilità, già sul terreno della psicologia criminale, di altre teorie, quali quella della finale Handlungslehre (Welzel, Maurach, etc.) — che costituisce un’esasperazione della concezione formale, in quanto eleva ad essenza del dolo un elemento prettamente razionale, quale ‘‘il fine’’ dell’azione — e quella che concepisce il dolo come previsione o addirittura volizione dell’evento inteso in senso giuridico (Gallo, Bricola, Santamaria, Grosso, Neppi Modona, Fiore, etc.). Presenta anzi il pregio di risolvere in modo psicologicamente ineccepibile il grave problema dell’atteggiamento del soggetto attivo verso il torto, opportunamente affrontato da quest’ultima teorica, ma risolto, anche qui, con una esasperazione formalistica, del tutto avulsa dalla realtà criminologica, e in stridente contrasto, ancora una volta, con l’aspetto sostanziale del divieto ex art. 5 c.p. Una conferma della validità teorico-pratica della teoria psicodinamica qui sostenuta è da ravvisarsi nella famosa sentenza n. 374 del 23-24 marzo 1988 della Corte costituzionale, la quale ha immutato il testo dell’art. 5 del codice penale. A riguardo abbiamo dedicato una serie di considerazioni nel citato Il ruolo etc., pp. 75-79, cui rinviamo. Vale peraltro la pena sottolineare che il testo dei § 14, 23 e 20 della citata sentenza appaiono in aperta sintonia con la nostra concezione del dolo quale dolus malus o animus nocendi, nonché della colpa come atteggiamento psicologico di ‘‘disattenzione’’ o ‘‘indifferenza’’ verso le regole della convivenza sociale. Al § 14, 1o comma è detto: ‘‘Dal collegamento tra il primo e il 3o comma dell’art. 27, Cost. risulta [...] l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile, contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza [...]. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che appunto personalmente esprimano il predetto, riprovevole contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali ‘dispregiati’ [...]’’. Al § 23, 4o, 5o, 6o cpv., si legge, rispettivamente, quanto segue. ‘‘L’art. 5 c.p. ‘snatura’, togliendole fondamento, anche la residua materia che non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del fatto, etc.). Allorché l’agente ignora, del tutto incolpevolmente, la legge penale e, pertanto, incolpevolmente ignora la illiceità del fatto, non mostra alcuna opposizione ai valori tutelati dall’ordinamento: può il suo dolo costituire oggetto di rimprovero ex art. 27, 1o e 3o comma?’’. La colpevolezza deve investire anche ‘‘l’atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri di informazione o di attenzione sulle norme penali’’. ‘‘Né si tema che le conclusioni raggiunte delineino una forma di ‘colpa per la condotta della vita’: risalire alle ‘cause’ dell’ignoranza della legge penale, per verificarne l’evitabilità, costituisce verifica dell’esistenza, in concreto, almeno di un atteggiamento di indifferenza da parte dell’agente [...]. Tale verifica... mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del particolare episodio criminoso’’. Al § 20 si afferma infine: ‘‘è quasi impensabile che un soggetto ‘imputabile’ commetta i c.d. delitti naturali nell’ignoranza della loro illiceità’’; il che sta a confermare in toto il nostro basilare assunto della irrilevanza dell’errore conoscitivo di diritto in tale sfera di
— 1092 — D’altro canto però, anche la concezione classica fallisce allorché considera come azione ogni causazione di un evento dipendente da un atto o impulso della volontà umana, sia essa intenzionale o meno, in quel senso ‘‘minimo’’ secondo il quale ‘‘per l’accertamento dell’azione è sufficiente la certezza che il soggetto è divenuto volontariamente attivo’’ (Mezger). 4. Critica della concezione dell’azione sociale. L’essenza dell’omissione e del fatto colposo. — Alle aporie precedentemente descritte ha tentato di porre rimedio la teoria della c.d. azione sociale, la quale viene definita ‘‘comportamento umano socialmente rilevante’’, e, più esattamente, ‘‘ogni tipo di risposta umana alle richieste ambientali conosciute o conoscibili’’, comprendendo così in essa attività finalistiche effettive e attività rimaste allo stato potenziale, caratterizzate da una mancata reazione ad una aspettativa di attività. A tutta prima, una siffatta concezione sembra essere riuscita nell’intento di coprire sotto l’unico genus ‘‘azione’’ sia le condotte colpose che quelle omissive. A ciò però osta il rilievo che, secondo l’uso corrente del linguaggio — anche quello giuridico-forense — il termine ‘‘azione’’ sta a indicare una manifestazione esteriore sorretta da una conduzione effettiva, e non soltanto potenziale, del soggetto sul fatto (21). A parte ciò, concepire l’omissione come ‘‘mancata risposta ad una azione attesa’’ significa lasciare il terreno naturalistico per attribuire all’omissione una struttura normativa; e ciò anche quando l’‘‘attesa’’ fosse riferita a aspettative (leggi: norme) di carattere sociale, o pre-giuridico. Di modo che il concetto di omissione, nel quadro della concezione dell’azione sociale, oltre a patire di un palese artificio terminologico, in quanto solo impropriamente viene sussunto sotto il termine ‘‘azione’’, evidenzia altresì un vizio metodologico, dal momento che ci si serve di un riferimento normativo-valutativo per individuare un dato che invece va reperito, per definizione, solo sul terreno empirico. Il concetto di condotta deve insomma essere costruito in modo esente da contaminazioni ‘‘normative’’, e va quindi rinvenuto solo sul terreno naturalistico. Il che è ben possibile, purché però nel concetto di natura venga ricompreso non solo l’aspetto materiale-meccanicistico (physis), ma altresì quello psichico (psyche). ‘‘Condotta’’ non è altro che il sostantivo del verbo ‘‘condursi’’, ed è sinonimo di ‘‘comportamento’’, a sua volta sostantivo del verbo ‘‘comportarsi’’. Soggetto della conduzione è ciò che in psicologia dinamica, o del profondo, si denomina ‘‘Io’’, il quale è per l’appunto il centro psichico reati a causa dell’indole emozionale-affettiva del dolus malus (sul punto se ne veda applicazione in La reazione, etc., citato nella ristampa della 2a ed., 1988, pp. 141-179). (21) In tal senso, lucidamente, PAGLIARO, op. cit., p. 260 ss.
— 1093 — della personalità del soggetto, cui è deferita la funzione di mediazione della stessa tra i due poli contrastanti delle istanze interiori di controllo (Superio) e delle sollecitazioni dell’inconscio (Es), e del suo controllo e orientamento verso le situazioni del mondo esterno. Ora, il concetto psico-fisico di ‘‘conduzione’’ è di natura descrittiva ed obiettiva, del tutto indipendente da attese, imposizioni o sollecitazioni derivanti dall’ambiente esterno sociale o semplicemente fisico. Una osservazione come: ‘‘Tizio ha mangiato’’ oppure ‘‘Caio non ha mangiato’’ è di tipo totalmente empirico, e del tutto indipendente da rapporti sia giuridici che sociali, e dai conseguenti riferimenti a obblighi o divieti, di fare o di non fare, e relativi ‘‘addebiti’’ colposi. Sicché il fenomeno dell’omissione non si fonda sul mancato compimento di una azione ‘‘attesa’’, ma costituisce semplicemente un ‘‘non realizzare una determinata azione’’, indicata quest’ultima dall’osservatore come un dato puramente ipotetico o paradigmatico, come referente del tutto svincolato da valenze normative, siano esse sociali o più genericamente non-giuridiche (22). In breve, l’omissione consiste non già in un nihil facere, bensì in un non facere aliquid. Si è obiettato a tale concezione che concludere per la sussistenza di un qualche aspetto esteriore del comportamento omissivo non varrebbe a sostenerne la realtà naturalistica, anzi, al contrario, si risolverebbe proprio nella negazione di una realtà naturalistica (23). Ma la pur sottile censura non persuade: la constatazione di non aver fatto questo o quello non si risolve in un nihil naturalistico proprio perché la ‘‘natura’’ non si riduce al solo aspetto materiale-meccanicistico dell’esistere umano, ma comprende qualsiasi varietà di modulazioni dell’umano atteggiarsi o disporsi, di modo che questo giunge a possedere sempre una propria significazione psico-sociale, comunque esteriorizzata, sia nel fare che nel non fare ‘‘questo o quello’’. Ed è proprio in codesta obiettiva significazione — del tutto indipendente da valenze normative, e quindi resa in puri termini descrittivi, in quanto comunque emergente dal dato osservato, del ‘‘non-averecompiuto-una-determinata-azione’’, attesa o non attesa che questa sia, ossia posta come puro referente linguistico — che va vista, sic et simpliciter, l’essenza dell’omissione: lo stare in silenzio, il non giungere in orario alla stazione, il ‘‘saltare un pasto’’, il non prendere una droga o una medicina (22) Una concezione analoga dell’omissione è stata sviluppata da DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria del reato, 1950, p. 11 ss. In senso contrario: GALLAS, Zum gegenwärtigen Stand der Lehre vom Verbrechen, ora in Beiträge zur Verbrechenslehre, 1968, p. 26 ss.; cui aderisce MARINUCCI, op. cit., p. 97, nota 280, ma con argomentazioni non pertinenti. Per rendersi conto che il concetto di omissione è del tutto svincolato da un qualsiasi tipo di obbligo, basta riflettere che anche azioni non sottostanti a un obbligo (come: leggere) o del tutto estranee ad un obbligo (come: tossire o starnutire) possono dar luogo a illazioni di ‘‘omissioni’’ nel comune uso del linguaggio. (23) PAGLIARO, op. cit., p. 265.
— 1094 — che sia, il non essere presente a un appuntamento, il non dormire, il non svegliarsi ad una data ora, etc. costituiscono delle condotte omissive indipendentemente tanto dalla sussistenza di un obbligo, sia esso giuridico, o anche semplicemente sociale, quanto da una conseguente possibilità di una ‘‘incolpazione’’ o comunque di un ‘‘addebito’’ a carico dell’omittente. Si tratta dunque di una condotta umana in pieno senso socio-naturalistico, la quale, pur essendo priva di ogni substrato attivo, nel momento stesso in cui viene riferita al soggetto, è altresì necessariamente dotata di una specifica significatività. Solo un concetto socio-naturalistico di condotta consente di fornire alla teoria del reato un plafond unitario, di tipo descrittivo, e non meramente ascrittivo, come termine di referenza di un’imputazione normativa, senza che si sia costretti a ricorrere alla fictio di un concetto pre-giuridico ovvero ‘‘giuridico’’ di azione. Come già rilevato, una condotta o comportamento umano così concepito non costituisce più quell’Oberbegriff, o concetto superiore, capace di abbracciare e unificare l’agire e l’omettere in seno alla sistematica, tanto ricercato dalla dottrina; piuttosto rappresenta un Unterbegriff, ossia un concetto di base, quale minimo comune denominatore sottostante alle svariate, possibili forme di fatti umani: il necessario substrato senza il quale ogni ascrizione imputativa rischia di risolversi nella sottile, quanto banale tessitura di un teorema (24). Analoga a quella del fatto omissivo è la fenomenologia della condotta nel fatto colposo. Qui non è già un’azione in quanto tale, bensì solo la causalità di una condotta a venire in gioco e, si badi — di una condotta che di per sé è sempre incosciente e involontaria. Diciamo ‘‘di per sé’’ perché esistono forme di fatti colposi che, prima facie, possono presentarsi (24) Perciò a coloro (MARINUCCI, FIANDACA-MUSCO) che, seguendo qualche peregrina sollecitazione d’oltr’alpe (come ad es. quella di BUBNOFF, Die Entwicklung des strafrechtlichen Handlungsbegriff etc., 1966, in specie p. 154) — in qualche modo ispirata alla nota, ma alquanto ambivalente affermazione del Radbruch, secondo la quale il concetto fondamentale (Grundbegriff) del sistema penale dovrebbe essere la fattispecie, e non già l’azione — intendono fare a meno del concetto di azione come Oberbegriff, Grundelement, Verbindungselement e Grenzelement della teoria del reato (vale a dire delle funzioni fondanti, unificanti, colleganti e delimitanti tradizionalmente assolti da tale concetto), per finire in una prospettiva di totale frammentazione della teoria del reato, confidando solo nelle virtù taumaturgiche del fattore ‘‘normativo-imputativo’’ contenuto nel concetto di fattispecie, a questi autori va ribadito — per usare le parole di ROXIN (op. cit., p. 195) — che ‘‘anche quando si vuole iniziare la sistematica colla fattispecie, non si può tuttavia esimersi dal parlare di ‘‘azione tipica’’ o di ‘‘condotta tipica’’ e, a questo punto, — sempre a detta di ROXIN — ‘‘si risolleva subito il quesito su che cosa mai sia quella azione o quella condotta alla quale si accosta la designazione di tipicità’’. Come si vede, naturam expellis furca...! Insomma, si può anche convenire con l’assunto di SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch, 15a ed., 1970, p. 20, secondo cui ‘‘le sorti della dogmatica si decidono sul terreno della tipicità, antigiuridicità e colpevolezza’’. Ma qui non sono affatto in giuoco ‘‘le sorti’’, vale a dire i risultati del procedimento sistematico; qui si sta discutendo, sic et simpliciter, delle sue basi razionali e del suo punto di partenza. Il che non appare certo poca cosa!
— 1095 — come coscienti (c.d. colpa cosciente: rectius, colpa ‘‘con previsione’’) o volontarie (sono i casi che ‘‘impropriamente’’ vengono chiamati di ‘‘colpa impropria’’). Ma le prime forme colpose non sono altro che ipotesi di normale colpa, in quanto caratterizzate dalla inconsapevolezza del verificarsi dell’evento al momento del verificarsi del fatto (ossia dall’errore o dalla disattenzione), con la sola variante di essere accompagnate dalla circostanza aggravante (art. 61, n. 3, c.p.) della previsione ante factum della sua verificabilità. Mentre le seconde forme delittuose non significano altro che volontarietà dell’azione preesistente o concomitante realizzatasi de facto come causale, ma non già volontarietà della causazione dell’evento in quanto tale. Nelle une come nelle altre ipotesi l’incoscienza e la involontarietà della condotta tipica giuridicamente rilevante come colposa restano ferme, attenendo coscienza o volontarietà solo a momenti accessori o concomitanti alla stessa (25). Orbene, una condotta causale non accompagnata da coscienza e volontà, quale è alla base di ogni condotta colposa, altro non è che una condotta causale caratterizzata da una omissione di controllo da parte dell’Io sulle proprie pulsioni obiettivamente antisociali. Un fenomeno psichico di tipo omissivo — in sostanza una ‘‘disattenzione’’, ossia, per meglio dire, una ‘‘omissione di attenzione’’ — finisce in tal modo col rivelarsi alla base anche delle condotte colpose. Pure quando la causazione colposa di un evento sembra innestarsi su una condotta attiva (ad es.: una guida automobilistica ‘‘spericolata’’), in realtà essa è da ricollegarsi ad una fase o ad un momento di tipo omissivo durante lo svolgimento di tale conduzione attiva (‘‘non aver frenato in tempo’’ o ‘‘non essersi accorto di una persona che sopraggiungeva’’: quindi la condotta colposa qui non va ravvisata nella guida in sé, che, pur ‘‘spericolata’’, era tenuta con attenzione sufficiente, ma nella disattenzione inseritasi in un momento o in una fase della stessa). Nelle condotte apertamente omissive colpose (come, ad es., nelle dimenticanze) il fenomeno intrapsichico de quo si disvela poi in tutta la sua chiarezza: a parte obiecti manca totalmente un facere, mentre a parte subjecti mancano del tutto la coscienza e la volontà, ossia l’attenzione. Eppure si è di fronte a condotte dichiaratamente delittuose. Per ammettere ciò è pertanto giocoforza riconoscere, da una parte, che può aversi un comportamento umano significativo anche in un semplice ‘‘non fare questo o quello’’; e, dall’altra, che un soggetto può essere penalmente responsabilizzato anche se non ha preveduto né voluto un evento, ma per il sem(25) Per una ulteriore, più dettagliata, fenomenologia di fatti colposi solo apparentemente coscienti o volontari si fa rinvio al nostro Il ruolo etc., cit., p. 37 ss., dove vengono prese in esame le ipotesi di colpa c.d. specifica, le c.d. fattispecie soggettivamente orientate e le contravvenzioni c.d. a condotta volontaria.
— 1096 — plice omesso controllo dei propri meccanismi o automatismi interiori antisociali. 5. Le funzioni fondanti e delimitative del concetto di condotta umana. — Come definire dunque il concetto di ‘‘condotta umana’’? Un simile quesito dà indebitamente per scontato che tra i compiti inderogabili della dottrina vi sia anche la enucleazione e la conseguente definizione dei concetti c.d. ‘‘pregiuridici’’, ossia preesistenti all’opera del legislatore, vale a dire di tutto ciò che un grande giurista francese, quale fu il Geny, indicava col termine ‘‘les données’’: i dati prenormativi. Del resto, a ben vedere, persino concetti come dolo, colpa, colpevolezza, pena, tentativo, etc. esulano, a stretto rigore, dai compiti definitori della dottrina, tanto è vero che la maggior parte dei codici penali, sia moderni che pre-moderni, evita di definirli, presumendoli come ‘‘noti’’ all’interprete, ben consapevole dell’antico monito di Giavoleno: omnis definitio in jure periculosa, parum est enim ut non subverti possit! Tutto ciò non significa peraltro che un certo lavoro di chiarificazione e di enucleazione da parte e dell’interprete e dello studioso, anche su tale materia, sia inevitabilmente privo di valore o di utilità. In linea molto approssimativa, può intendersi per condotta o comportamento umano qualsiasi estrinsecazione, attiva o passiva, dell’esistere umano in quanto tale. In ultima analisi, ogni momento nella vita di un uomo, purché esente da coazione interiore o esteriore, si risolve in un comportamento. Con una siffatta precisazione abbiamo così ottenuto di fissare, in via di esclusione, una serie di punti fermi. Anzitutto, quello più ovvio ed elementare: l’impossibilità di includere in tale concetto l’operato degli animali. Ma del pari vanno esclusi — stando alla nostra legislazione vigente — gli atti delle persone giuridiche. Le sanzioni penali previste o prevedibili per l’operato delle persone giuridiche hanno sempre, come base e come punto di partenza, non già la realizzazione astratta di una fattispecie in quanto tale, bensì la sua realizzazione concreta attraverso una condotta umana. Un terzo motivo di delimitazione, e quindi di esclusione, fornito dal concetto sopra enunciato concerne tutto ciò che dall’essere umano non è stato ‘‘in qualche modo’’ (modalità di condotta) estrinsecato. Quindi, esclusione chiara e netta di forme di diritto penale le quali si limitino a colpire in primis, o peggio ancora, unicamente, il c.d. forum internum della persona, quali Willenstrafrecht, Gesinnungstrafrecht, Täterstrafrecht, ossia: diritto penale della volontà, dell’atteggiamento interiore, dell’autore. Insomma porre alla base della sistematica del reato un concetto di condotta inteso come ‘‘manifestazione o estrinsecazione’’ di un modo di vivere umano significa escludere in partenza che si possa colpire un
— 1097 — soggetto, non già solo per il fatto da lui compiuto, quanto piuttosto per le sue intenzioni, i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti interiori, il suo modo di essere, il suo carattere, la condotta della sua vita la quale ha fatto si che oggi sia quello che è. Diritto penale della condotta (o Handlungstrafrecht) significa, anzitutto e inequivocabilmente, diritto penale del fatto, e se il disvalore della condotta viene ancorato, attraverso le sue modalità, all’atteggiamento interiore, ciò avviene esclusivamente per fare la dovuta luce sul reale disvalore del fatto — onde evitare ogni subdola forma di responsabilità obiettiva o di Zufallhaftung — e non già per cadere in una sorta di colpa d’autore (26). Una quarta delimitazione emergente dal concetto di condotta sopra descritto è costituita dal suo carattere pienamente ed esclusivamente naturalistico-descrittivo, o, come altrimenti si dice, dalla sua ‘‘neutralità’’ in termini di valore, rispetto agli ulteriori ‘‘gradini’’ costituiti dai giudizi normativi della tipicità, dell’antigiuridicità, della Colpa in senso lato (dolo o colpa) e, successivamente, della colpevolezza. Esso non può cioè contenere in sé, né anticipare, alcun elemento attinente alla applicazione di criteri normativi (c.d. Wertneutralität), o comunque pertinente a successive fasi del giudizio. Questo punto fermo — che fu grande merito di Ernst Beling avere fissato già dal principio di questo secolo — può riassumersi in una parola: ruolo esclusivamente descrittivo della nozione di condotta, rispetto ai successivi momenti valutativi. Una funzione cioè che costituisce la prima linea di garanzia nel procedimento logico-giudiziale, precedendo quello di ‘‘ulteriore garanzia’’ rappresentato dalla conformità al tipo, ossia dalla tipicità (c.d. Garantiefunktion dalla fattispecie). Codesta neutralità rispetto alle valutazioni sociali costituisce — si è detto — la principale ragione ostativa all’accoglimento della concezione della c.d. azione sociale, intesa come ‘‘mancata reazione ad una aspettativa di attività’’. Termini come ‘‘mancato’’, ‘‘reazione’’, ‘‘aspettativa’’ sono di natura valutativo-ascrittiva, e non semplicemente descrittiva, e come tale stanno a significare un qualche cosa di più di un mero comportamento umano: è un comportamento umano diverso da quello che avrebbe dovuto essere. Ma con ciò siamo, come si vede, di già in un’altra sfera, quale quella dell’imputazione normativa. 6. La c.d. concezione ‘‘personologica’’ dell’azione. Critica. Rapporti tra condotta e suitas. — Abbiamo detto che condotta umana è ogni estrinsecazione, attiva o passiva, dell’essere umano. Una estrinsecazione attiva è un agere, ossia un’azione. Una estrinse(26) Di ciò non tiene conto una certa parte della dottrina quando crede di poter ‘‘liquidare’’ la nostra concezione come una forma di ‘‘diritto penale dell’autore’’ (cfr. ad es. FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 271).
— 1098 — cazione passiva è un non facere aliquid, ossia una omissione. Entrambe hanno carattere naturalistico; appartengono cioè alla sfera dei fatti umani. Quindi ci può essere un estrinsecarsi che non si traduce in un quid materiale. E persino l’estrinsecarsi attivo può non assumere carattere fisico, ma unicamente psichico, come nell’ingiuria o nel vilipendio verbale, o gestuale, dove certo v’è un flatus vocis o un ‘‘segnale’’ a sostegno dell’aggressione, ma non è certo in essi di per sé che può esserne ravvisato l’ictus offensivo, bensì nel loro intrinseco significato di messaggio. Si tratta insomma di una estrinsecazione aggressiva di natura psichica. Una siffatta precisazione consente ora di far luce su quello che rappresenta il nodo centrale del problema. Ci si chiede: chi cade a terra svenuto e, ‘‘così-facendo", cagiona la rottura di un vaso, ha posto in essere una condotta umana? Analogamente, deve qualificarsi come un comportamento umano quello di chi ‘‘agisce’’ sotto narcosi, o sotto ipnosi, o per un incontrollabile riflesso, o sotto assoluto costringimento fisico, o a causa di un incidente o di una forza imprevedibile e inevitabile, esogena o endogena (epilessia, delirio, sonnambulismo o comunque crampi o costrizioni incontrollabili del proprio fisico per dolori, fratture e via dicendo)? È da notare che il nostro codice, agli artt. 42, 1o comma, 45 e 46, dà mostra di considerare fatti di tal genere come delle vere condotte umane, considerandosi solo in dovere di risolvere aliunde il problema della responsabilità. In particolare, come si è già rilevato, dal 1o comma dell’art. 42 è dato inferire a contrario che un’azione od omissione sono tali anche se non vengono commesse con coscienza e volontà. Ma in questa materia il riferimento testuale non appare il punto decisivo, ben potendosi contestare la correttezza o la proprietà del linguaggio legislativo sulla base del consolidato principio lex jubet, non docet. Del resto la stessa nozione del dolo, quale sembra emergere dal 1o comma dell’art. 43, presta il fianco a una serie di critiche che stanno a confermare come, per l’interprete, le norme meramente definitorie non risultino vincolanti (27). Più conferente è invece chiedersi se, sulla base del linguaggio comune, sia o meno corretto intravedere, in casi come quelli suddescritti, un comportamento umano, nonostante l’assoluta irresponsabilità del soggetto per l’evento cagionato. Orbene, c’è in dottrina chi, autorevolmente, propone, a questo punto, una quarta nozione di condotta, la quale dovrebbe sostituire quella (27) A proposito del citato disposto basterà menzionare, a titolo di esempio, la non configurabilità in essa del dolo specifico, del dolo indiretto e di quello eventuale, l’impraticabilità della stessa da parte della dottrina che ‘‘crede’’ nella esistenza di reati di pura condotta, l’inconciliabilità coi casi di c.d. colpa impropria, dove, l’evento è voluto, e via dicendo.
— 1099 — tradizionale-causalistica, quella finalistica e quella sociale. Si tratta della c.d. concezione ‘‘personologica’’ teorizzata dal Roxin (28). Per condotta umana si dovrebbe intendere — secondo questo autore — ‘‘tutto ciò che un uomo, quale centro-di-azione psichico-spirituale, fa accadere’’. In altre parole, un fatto dovrebbe dirsi condotta di un uomo solo qualora ‘‘ricada sotto il controllo dell’Io, ossia della di lui istanza psichico-spirituale di autoconduzione’’. Più in breve, sarebbe condotta umana non già semplicemente qualsiasi estrinsecazione della energia vitale di un uomo, ma solo quella che acquisti il significato di una manifestazione della sua personalità. Non occorre però molto, giunti a questo punto, per accorgersi che il citato autore viene meno qui al principio sopra ricordato, e da lui stesso accettato (29), della funzione garantistica di ‘‘neutralità valutativa’’ spettante al concetto di condotta in seno alla sistematica del reato. Una cosa è constatare che una certa persona ha perso i sensi, e quindi, col suo comportamento nella sfera dei fatti ha cagionato la rottura del vaso, e altra, e ben diversa, è invece affermare che il soggetto, così comportandosi, ha commesso un fatto che ‘‘non appartiene alla sua personalità’’, che insomma — per usare una terminologia da tempo accolta dalla nostra dottrina — non è suus. Ed è chiaro che qui, sotto la constatazione del fatto, viene introdotto surrettiziamente un giudizio di valore, e addirittura già un primo presupposto — chiamiamolo meglio: pre-giudizio — di responsabilità. Per cui si ha addirittura uno spostamento di piani. Si tratta di vedere niente di meno se il fatto era dominabile o meno, controllabile o meno dal soggetto agente. Quindi non soltanto criteri normativi, ma financo valutazioni psico-sociologiche, e perfino componenti etiche entrano in giuoco, in una sorta di indebita anticipazione dei presupposti della valutazione dell’elemento soggettivo. Una siffatta soluzione non può essere quindi soddisfacente per chiunque voglia mantenersi fedele a quel rigore e quella coerenza metodologica che fu la indimenticabile lezione belinghiana. Ed è lo stesso Roxin ad ammetterlo implicitamente allorché, giunto alla fine del discorso, nel momento di tirare le somme, rendendosi conto della scarsa concludenza, ricorre ad una sorta di ‘‘excusatio’’ (per giunta non petita! ...), asserendo che, alla fin fine, ‘‘una costruzione concettuale siffatta non dovrebbe essere intesa come una soluzione di ripiego (Verlegenheitslösung), ma semplicemente un concetto ‘‘oltremodo comprensivo’’ [?!], da utilizzarsi da parte di chi non voglia ricorrere ad eccessi scientistici per fare violenza ad (28) Op. cit., p. 196; ma già in Einige Bemerkungen zum Verhältnis von Rechtsidee und Rechtsstoff in der Systematik unseres Strafrechts, in Radbruch-GS, 1968, p. 262. (29) ‘‘Der Handlungsbegriff soll gegenüber Tatbestand, Rechtswidrigkeit und Schuld neutral sein’’ (p. 179 op. cit.).
— 1100 — una materia così vasta e così complessa’’ (30). Evidentemente, dal momento che si diffida delle idee ‘‘chiare e distinte’’, neppure l’insegnamento di Cartesio, ancor prima di quello di Beling, in questo campo, ha fatto scuola! II.
L’EVENTO.
7. Il concetto di evento. L’evento naturalistico in senso lato come concomitante e come susseguente alla condotta. Inconfigurabilità di reati c.d. di mera condotta. — Evento del reato è notoriamente il risultato della condotta del soggetto attivo. Se tale risultato è visto come modificazione del mondo esterno, sia esso materiale (es. la morte nell’omicidio) o psichico (es. l’offesa alla persona nel delitto di ingiuria, quale accadimento obiettivo, ossia indipendente dalla percezione del soggetto passivo), si tratta di evento in senso naturalistico. Se invece tale risultato viene individuato nell’‘‘offesa’’ (lesione o messa in pericolo) recata al bene protetto dalla norma incriminatrice, allora si parla di evento in senso giuridico. Orbene, secondo la maggioranza della dottrina, solo quest’ultimo sarebbe presente in ogni reato; mentre il primo mancherebbe in molte fattispecie. Per di più è opinione diffusa in dottrina che il legislatore, nell’uso del termine evento, si riferisca in certi casi (vedi artt. 6, 40, 41, 2o comma, 42, 3o comma, 116 c.p.) al significato naturalistico, e in altri (vedi artt. 43, 49, 2o comma) a quello giuridico; e si giustifica tale mancanza di univocità con la circostanza che i relativi disposti sono stati frutto di differenti compilatori, i quali avrebbero trasferito nel testo la propria concezione. Particolarmente significativi, a sostegno della tesi ‘‘giuridica’’ — oggi seguita soprattutto dai fautori della c.d. concezione realistica dell’illecito — apparirebbero gli artt. 40, 43, 49, 2o comma, dove è chiaro l’intendimento del legislatore di considerare l’evento come sussistente in ogni reato: ‘‘l’evento da cui dipende l’esistenza del reato’’ (art. 40), il dolo e la colpa strutturati in riferimento all’evento per tutti i reati (art. 43), il ‘‘reato impossibile’’ riferito all’idoneità dell’azione a dar luogo all’evento dannoso o pericoloso, esistente in ogni reato (art. 49, 2o comma). Il legislatore — si afferma — non avrebbe qui potuto avere riguardo all’evento naturalistico senza trovar smentita nella realtà, dal momento che in larga parte delle fattispecie — quali quelle c.d. ‘‘di mera condotta’’ (es. eva(30) Op. cit., p. 208. Codesto tipo di ripiego metodologico è purtroppo frequente in Roxin. Lo si ritrova, ad es., anche — particolarmente evidente — nella sua teoria della imputazione obiettiva. Si tratta di tentativi di Ganzheitsbetrachtung (trattazione sintetica) di problemi che invece richiedono la massima attenzione analitica, oltre, naturalmente, al dovuto rigore metodologico.
— 1101 — sione, violazione di domicilio), quelle di tentativo, di consumazione anticipata (es. attentato al Presidente della Repubblica) — mancherebbe un risultato naturalistico della condotta (art. 40). Né, d’altronde, potrebbe ammettersi che nozioni di così generale portata, quali quelle dell’elemento soggettivo (art. 43) e del reato impossibile (art. 49, 2o comma) siano state strutturate dal legislatore con riferimento a una sola parte delle fattispecie delittuosa, vale a dire con esclusione di tutte quelle prive di evento naturalistico. Ora, se quest’ultimo asserto è pienamente conferente, il primo contiene invece una petizione di principio che non è difficile evidenziare. Si può infatti osservare che sia la lettera della legge che la mens legis non obbligano affatto ad aderire a codesta seconda — e del tutto diversa dalla prima — nozione di evento, qual è per l’appunto quella c.d. giuridica (31). Per dare ragione delle menzionate aporie è invero sufficiente distinguere, in seno alla concezione naturalistica dell’evento, un duplice significato: quello, in senso stretto, che fa riferimento al risultato cronologicamente scisso dalla condotta, e quindi susseguente, sia pure per un solo istante, alla stessa (es.: la morte nell’omicidio), e quello in senso ampio, comprensivo anche di quei risultati che sono concomitanti all’ultima fase della condotta (es. l’assenza del detenuto in carcere nell’evasione, la presenza del soggetto attivo nella violazione di domicilio), e che quindi si compenetrano con essa restando solo logicamente — ma non anche cronologicamente — scissi dalla medesima. Ed è noto che proprio questa è la concezione originaria del tuttora vigente codice Rocco, secondo la quale ogni reato ha come suo elemento costitutivo un evento naturalistico, o è diretto verso di esso (come nel tentativo e nei reati a consumazione anticipata). Concependo l’evento in senso naturalistico e in senso lato, diviene (31) Si cade così in una petitio principii quando si ritiene che disposti quali l’art. 43 e l’art. 49 si riferiscano a un evento in senso giuridico (così M. GALLO, Il dolo-oggetto e accertamento, 1953, passim, seguito in dottrina da numerosi altri autori) e che il codice penale vigente rifletterebbe la teoria di A. Rocco sull’oggetto giuridico del reato ‘‘messa in versi’’ (così ancora M. GALLO, L’elemento oggettivo del reato, 1966, p. 52), per cui la lesione o messa in pericolo (offesa) del bene protetto sarebbe stata dal legislatore configurata come un ‘‘risultato che sempre si aggiunge all’azione delittuosa’’ (FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 193). In realtà, di concetti di evento inteso in senso giuridico, e tanto meno di concetti quali lesione o offesa del bene tutelato, non v’è traccia alcuna né nel codice né nella Relazione al progetto definitivo. Si tratta infatti di una elaborazione logico-concettuale di matrice esclusivamente dottrinaria. La verità è che la grande maggioranza della dottrina — seguendo la costruzione fattane da Antolisei (L’azione e l’evento nel reato, 1928) — non si è mai posta il quesito se, in quei disposti e in altri eventualmente rinvenibili, il legislatore non avesse fatto altro che riferirsi unicamente a un evento naturalistico inteso in senso ampio, comprensivo di quello concomitante alla realizzazione della condotta. Ne è risultato che da lungo tempo la distinzione tra reati di pura condotta e reati di evento appare acquisita in seno alla dottrina col valore di un dogma inconfutabile.
— 1102 — allora chiaro, anzitutto, che tutti i reati ne sono coinvolti e che i citati disposti contemplano tutti l’evento naturalistico inteso in senso ampio; che inoltre è improprio parlare di ‘‘reati di mera condotta’’, trattandosi di reati ad evento concomitante, mentre per i c.d. reati di evento devesi parlare di reati ad evento susseguente; che infine, quando il legislatore prospetta l’ipotesi in cui l’azione configura per sé un reato, indipendentemente dall’evento (art. 41, 2o comma, 42, 1o comma), in realtà usa il termine evento in senso stretto; l’art. 41 si riferisce infatti solo a questa ipotesi, senza escludere peraltro che l’azione, considerata di per sé, possa comportare a sua volta una determinata modificazione esteriore, ossia un proprio evento concomitante, prescindendo da quello cronologicamente susseguente (es.: rimane l’evento, e quindi il reato, di porto abusivo d’armi [art. 669] anche quando si è assolti, per difetto di nesso causale, dall’omicidio). Cosicché mentre il rapporto di causalità, di cui all’art. 40 (vedi la rubrica dell’articolo), rappresenta una relazione solo logica tra fattore causale e risultato, ed è quindi raffigurabile in ogni reato consumato, nel quale cioè la condotta ha prodotto una qualche modificazione del mondo esterno, il successivo art. 41, riferendosi alla sola ipotesi di scissione cronologica tra evento e condotta, concerne più particolarmente il nesso di causalità. Si comprende altresì che se l’art. 40 non può riferirsi ai reati tentati né a quelli a consumazione anticipata, per l’ovvia ragione che in essi l’evento non si è verificato, e quindi ‘‘non è stato cagionato’’, di contro gli artt. 43 e 49 ben contemplano l’evento anche per tali due ipotesi (tentativo e consumazione anticipata), con la sola riserva che esso è qui solo virtuale (ossia nell’intendimento dell’agente) o, comunque, come nei casi di consumazione anticipata, al di fuori della fattispecie. Resta da precisare il ruolo svolto dall’evento nei reati omissivi. Per quanto riguarda i reati omissivi impropri, o commissivi mediante omissione, l’evento naturalistico è elemento costitutivo della fattispecie. Tale evento è inoltre rappresentato da un accadimento il quale è collegato alla condotta del soggetto non da un vero e proprio rapporto di causalità, bensì da un nesso di imputazione normativa che è la legge stessa a equiparare alla causalità (art. 40, secondo comma: ‘‘non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo’’). Per quanto invece concerne i reati di pura omissione, si tratta di ‘‘reati a consumazione anticipata’’, a seguito dei quali l’evento che la norma mira a impedire può verificarsi o meno; ma, qualora si verifichi, ciò avviene in ogni caso al di fuori della fattispecie, non essendo esso previsto dal legislatore quale suo elemento costitutivo. Così ad esempio, l’omissione di soccorso costituisce reato indipendentemente dall’eventuale risultato della morte, che rappresenta solo una circostanza aggravante, ossia un elemento accidentale. Ciò non toglie che in ambo i casi — di non
— 1103 — verificazione o di effettiva verificazione — l’evento de quo rientri nella previsione, e quindi nella prevenzione, normativa; semplicemente, il legislatore non ha inteso farne un elemento della fattispecie, ma solo anticipare la consumazione del reato al momento della realizzazione della condotta. In sede critica va comunque rilevato che la complessità della problematica dell’evento, quale quella esposta, è dovuta all’evidente orientamento causale-oggettivisitico del legislatore, il quale ha inteso strutturare la teoria del reato in chiave di diritto penale dell’evento, contrastando con ciò la ‘‘natura delle cose’’ (32). Si deve comunque riconoscere che, se da un lato la concezione dell’evento in senso giuridico risulta ultronea, e senza sufficiente fondamento testuale, d’altra parte il concetto ampio di evento, comprensivo anche del risultato concomitante alla condotta, oltre ad essere correttamente desumibile dall’interpretazione della legge, appare necessario per un’adeguata strutturazione teorica della fattispecie penale. Ciò appare particolarmente evidente dall’esame sia del 1o comma dell’art. 43 c.p. sia del 2o comma dell’art. 49 c.p., dove la locuzione ‘‘evento dannoso o pericoloso’’ deve necessariamente concernere la totalità dei reati, compresi sia quelli c.d. di pura condotta, sia quelli tentati e a consumazione anticipata. Ciò che soprattutto importa è mettere in evidenza come, per la logica della ‘‘Natur der Sache’’, il disvalore dell’illecito penale non possa altrimenti gravare se non sulla condotta, e non mai sull’evento. Per convincersene basterebbe già tener presente che l’evento naturalistico, qualora venisse inteso esclusivamente in senso stretto, ossia come elemento costitutivo autonomo, dinamicamente scisso dalla condotta, si rivelerebbe assente nella maggior parte dei reati. Ne consegue che proprio l’esistenza (32) La quale non è una ‘‘formula magica’’ utilizzata per la pseudo-soluzione dei problemi giuridici (come vorrebbe concepirla MARINUCCI, op. cit., p. 84), ma l’indispensabile strumento metodologico ‘‘in grado di condurre agevolmente, e in fondo ovviamente, ai significati sociali, i quali sono gli unici punti di collegamento per le valutazioni giuridiche’’ (così SCHMIDT Eb., Soziale Handlungslehre, in Festschr. f. K. Engisch, 1969, p. 352). Un’idea-cardine quale quella della Natur der Sache rappresenta certo la principale garanzia di fronte alle tentazioni, così diffuse tra i giuristi, verso l’astrazione e il formalismo; e non deve quindi stupire se di tanto in tanto essa viene irrisa. ‘‘Iurisprudentia est divinarum et humanarum rerum notitia (natura delle cose), justi et injusti scientia’’, afferma un antico broccardo romano: la giurisprudenza è la scienza della giustizia fondata sulla natura delle cose umane (reali) e divine (ideali). Tale principio costringe infatti determinate idee giuridiche a piegarsi di fronte alle esigenze del possibile e del reale; essa rappresenta quindi la resistenza sollevata dai rapporti sociali alla concreta realizzabilità delle idee giuridiche. Solone, a chi gli chiese se avesse impartito ai suoi cittadini le leggi migliori, così rispose: ‘‘Non certo le leggi migliori, ma quelle che essi sono meglio in grado di osservare’’. Cfr. sull’argomento le lucide considerazioni di Gustav RADBRUCH, Die Natur der Sache als juristische Denkform, in Festschr. f. R. Laun, 1948, p. 157 ss.; nonché ID., Einführung in die Rechtswissenschaft, 9a ed., 1952, p. 35 s.
— 1104 — della vasta categoria dei reati che la dottrina dominante impropriamente denomina ‘‘reati di mera condotta’’ — e che costituisce non già una minoranza, ma la maggioranza delle figure criminose — sarebbe sufficiente da sola a dimostrare, nel modo più eloquente, la validità del principio fondamentale del ‘‘diritto penale della condotta’’. Per riuscire a ravvisare in essa un qualche disvalore di evento, alla dottrina dominante non rimane infatti altra via che il ricorso all’artificioso espediente di una categoria concettuale ‘‘di pura creazione dottrinale’’, qual è quella dell’evento ‘‘in senso giuridico’’. Sicché per uscire dal vicolo cieco che da quelle figure criminose emerge, non resta ad essa che ricorrere ad una fictio, ossia ad un quid logicamente equipollente, ma con l’avvertenza che esso, pur mantenendo il nomen naturalistico dell’‘‘evento’’, deve essere inteso ‘‘in senso giuridico’’... 8. Diritto penale della condotta e diritto penale dell’evento. In nota: inconsistenza delle argomentazioni correntemente addotte a sostegno del diritto penale dell’evento. — Occorre comunque precisare che con l’espressione ‘‘diritto penale della condotta’’ non si vuole significare che l’evento, in quanto tale, ‘‘non concorra’’ in alcun modo o misura alla determinazione del disvalore complessivo del fatto di reato. Significa solo che il ‘‘baricentro’’ su cui grava il peso di detto disvalore va ravvisato nella condotta. Ciò traspare — come si è testé visto — con evidenza palmare nei reati c.d. ‘‘di mera condotta’’. Ma acquista addirittura carattere di ovvietà in materia di tentativo. Certo un omicidio consumato costituisce un reato più grave di uno meramente tentato, e nel primo caso la pena, di regola, deve essere maggiore; così almeno dispone — a differenza di altri sistemi giuridici i quali, meno perentoriamente, preferiscono rimettere la decisione alla discrezionalità del giudice — il nostro art. 56 c.p. Sennonché la dottrina è concorde nel ravvisare nel tentativo un reato perfetto (lo considera come reato ‘‘incompiuto’’ solo quando venga rapportato col momento della consumazione). Ora, perché un reato possa essere ravvisato come perfetto, occorre per lo meno che ‘‘il minimo sufficiente e necessario’’ affinché si possa parlare di un reato, si sia già realizzato. E dal momento che nel caso de quo non è la condotta a mancare, bensì l’evento, se ne deve dedurre che quest’ultimo potrà al più rappresentare un quid pluris aggravatore rispetto alla condotta, e al relativo disvalore, ma non potrà mai svolgere un ruolo costitutivo ed essenziale per il disvalore complessivo del fatto, rappresentato dall’offesa (33). (33) Considerazioni come quelle che nel diritto penale romano classico e in quello germanico il tentativo era, salvo eccezione, esente da pena, che nel nostro ordinamento il tentativo non è punibile nelle contravvenzioni e che nell’attuale codice tedesco il tentativo
— 1105 — Cosicché affermare il diritto penale della condotta significa semplicemente sottolineare, nel quadro dell’offensività, il ‘‘primato’’ della condotta, rispetto all’evento, sottraendo a quest’ultimo non già rilevanza, ma unicamente un ruolo di essenzialità agli effetti dell’offesa. Ma v’è ancora un altro equivoco da dissipare, favorito dall’equipollenza, invalsa nella dottrina, tra offesa ed evento in senso giuridico. L’offesa può infatti realizzarsi attraverso l’evento naturalistico oppure attraverso la condotta. Orbene nella prospettiva del ‘‘diritto penale dell’evento’’ il soggetto entra in contrasto col bene direttamente e unicamente attraverso la realizzazione dell’evento (l’evento ‘‘dannoso o pericoloso’’, sempre secondo la terminologia legislativa, di cui agli artt. 40, 43, 49 c.p.). Viceversa, per la concezione personalistica dell’illecito il vero portatore dell’offesa al bene, ossia del disvalore del fatto, non è l’evento, bensì la condotta. Per esemplificare, nell’omicidio doloso il soggetto offende il bene della vita in quanto ‘‘ha ucciso’’, e non in quanto ‘‘ha volontariamente cagionato l’evento-morte’’! La mera causazione della morte, anche quando sia volontaria (come, per esempio, quella socialmente adeguata, del soldato, che uccide il nemico in guerra, o anche quella del poliziotto, che spara su un rapinatore), non provoca di per sé alcun allarme sociale a titolo di omicidio doloso. È solo la condotta omicida (nel termine ‘‘omicidio’’ sussiste sempre un disvalore di condotta) a suscitarlo. Ne è riprova che si offende lo stesso bene anche quando si è soltanto tentato di uccidere (ossia si è solo iniziato l’iter dell’omicidio), e l’evento-morte non si è realizzato; e ciò financo nel caso che, in concreto, questo neppure potesse realizzarsi per qualche errore di esecuzione dell’agente, con la conseguenza che il bene, sempre visto in concreto, non è qui nemmeno posto in pericolo. Il fatto che il soggetto entra in contrasto col bene, ossia realizza il disvalore del reato, nel momento in cui compie l’azione, è poi assolutamene evidente in tutte le fattispecie formali, c.d. di mera condotta, come quelle di ingiuria, abuso di atti di ufficio, atti osceni, vilipendio, falso, corruzione, e via dicendo. Qui v’è sì un evento, ma — come si è rilevato — esso è concomitante alla (fase terminale della) condotta, e quindi coincide con la stessa. E il disvalore c’è sempre, anche quando a tale fase terminale la condotta non pervenga, come nell’ipotesi di tentativo; ragion per cui deve trattarsi, inevitabilmente, di disvalore di condotta. Un’ulteriore riprova dell’assunto è data dall’esistenza di altri reati per i delitti minori (Vergehen) lo è solo se espressamente previsto dal legislatore, lungi dallo smentire l’assunto, non fanno invece che confermarlo. Stanno solo a dimostrare che il tentativo è penalmente rilevante solo nei casi in cui la condotta meramente tentata presenti un disvalore tale da suscitare allarme sociale.
— 1106 — privi di evento in senso stretto, oltre al tentativo, come quelli omissivi propri e, in generale, quelli a consumazione anticipata. L’errore di fondo della concezione del diritto penale dell’evento consiste dunque nell’avere ipostatizzato in ogni reato, accanto alla eventuale causazione naturalistica di un evento materiale, altresì la necessaria causazione (ovviamente in senso metaforico) del c.d. ‘‘evento giuridico’’, un concetto questo che — non lo si ripeterà mai abbastanza — è creazione di pura fantasia dottrinaria (34). (34) In un nostro precedente scritto (Disvalore dell’evento e disvalore della condotta nella teoria del reato, in questa Rivista, 1991, p. 796 ss.) noi avevamo evidenziato le varie incongruenze concettuali e sistematiche cui si espone la logica dell’Erfolgsstrafrecht. Siffatta concezione ritiene infatti — a torto — di poter trovare fondamento nel nostro sistema su una serie di argomenti logico-testuali, tra i quali sono soprattutto da menzionare i seguenti: a) il maggiore disvalore (e quindi maggiore necessità di pena) che presenta il reato consumato rispetto a quello tentato; b) il requisito dell’idoneità degli atti a cagionare l’evento negli artt. 56 e 49, 2o comma, c.p.; c) i casi di c.d. responsabilità obiettiva e, in genere, della maggiore responsabilità per l’evento realizzato più grave di quello voluto; d) l’impostazione causalistica data dal legislatore al problema del concorso di persone del reato (artt. 110 e ss.); e) la commisurazione della pena in base alla gravità del reato, che dall’art. 133 c.p. è fatta dipendere, oltre che dalle modalità della condotta e dall’intensità del dolo e della colpa, anche dall’entità del danno e del pericolo cagionati alla persona offesa dal reato; f) l’esistenza di diverse fattispecie (come l’omicidio doloso, quello colposo e quello preterintenzionale, il danneggiamento, l’incendio, la strage, l’epidemia, etc.), che sono state strutturate dal legislatore in chiave causalistica (‘‘chiunque cagiona...’’); g) l’uso della locuzione ‘‘evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato’’ agli artt. 40 e 43, nonché parzialmente, 49, 2o comma, del codice. Orbene, nonostante che nel succitato nostro contributo tali argomenti siano stati ciascuno oggetto di dettagliata disamina e relativa confutazione, in dottrina — evidentemente nella persuasione che la più efficace forma di ‘‘replica’’ dialettica consista nell’evitare di prenderne atto — non ci si è fatto alcun carico di discuterne. Paradigmatico è a riguardo, tra i tanti in materia, il recente scritto di MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale 1, Nozione, struttura e sistematica del reato, 1995, interamente dedicato, in forma quanto mai apodittica — e senza minimamente affrontare il ‘‘problema’’ del perché una cotale visuale nostrana sia ormai rimasta del tutto isolata nel quadro delle dottrine d’oltralpe, dopo la ‘‘storica’’, decisiva, svolta welzeliana — alla riaffermazione di una sistematica del reato esclusivamente fondata sul disvalore dell’evento. Per fortuna accade piuttosto spesso, in sede scientifica, che ciò che si da aperta mostra di voler ignorare, trovi invece la migliore conferma della sua validità proprio in tale programmata ‘‘ignoranza’’. Si tratta semplicemente di un tentativo di indebita rimozione di contenuti dotati di una propria intrinseca ratio essendi, per i quali non c’è che da attendere, col tempo, un ‘‘ritorno del rimosso’’. Del resto, come si è detto, prospettive così esclusivistiche ed estremistiche in chiave di oggettivazione, sono state da alcuni decenni in tutto o in parte abbandonate in seno a letterature giuridiche importanti e vaste, quali quelle di lingua tedesca e ispanico-portoghese. Al punto che, con particolare riguardo all’area sudamericana, si nota da tempo una rilevante perdita di influenza della nostra dottrina rispetto a quanto invece avveniva in passato; il che, a nostro parere, è da imputarsi principalmente a cotale ragione. Non è da escludersi che, nonostante tutto il rigoglioso fiorire di ricerche e di sviluppi di cui ha saputo dar prova la nostra dottrina dal dopoguerra ad oggi, si nasconda, nel modo di orientare i propri principi di base, un qualche ostinato residuo di atteggiamento retrivo o
— 1107 — 9. Il ruolo dell’evento naturalistico nella sistematica del reato. — A quanto fin qui rilevato occorre aggiungere che nell’inevitabile processo di evoluzione del diritto penale, nonché della corrispondente teoria generale del reato — particolarmente evidente nella dottrina di lingua tedesca, e nelle aree (ispano-portoghese, greca, giapponese, sudcoreana, etc.) che la seguono — la nozione di evento naturalistico è destinata vieppiù a svolgere il ruolo di ‘‘modalità della condotta’’, assieme alle varie circostanze e a quelle altre connotazioni oggettive e soggettive della fattispecie elencate all’art. 133, prima parte, nn. 1 e 3, c.p., le quali tutte partecipano e concorrono alla determinazione della gravità del reato, vale a dire dell’entità del disvalore del fatto, e quindi dell’offesa. Tenuto conto, insomma, che l’illecito penale non è un illecito di lesione, bensì un ‘‘illecito modale’’, e, più precisamente, ‘‘a modalità di condotta’’, la realizzazione dell’evento appare destinata a configurarsi dogmaticamente come la principale e più significativa modalità di condotta, subito dopo la modalità-base rappresentata dall’elemento soggettivo. Una siffatta linea evolutiva è del resto già stata imboccata anche dal nostro legislatore. Ci riferiamo alla riforma del regime delle circostanze, di cui al 4o comma dell’art. 69 c.p., introdotta dalla legge 7 giugno 1974, n. 220. Come è noto, con tale nuova normativa l’evento aggravatore nei reati qualificati dall’evento è stato inserito, come circostanza a effetto speciale, nel giudizio di prevalenza o equivalenza, col risultato che in pratica al giudice è stato consentito di non tener conto della verificazione dell’evento qualora valuti che lo stesso presenti scarso, o addirittura nessun significato sintomatico rispetto al disvalore di condotta (come, ad es., quando il risultato sia da ascriversi, almeno in parte, alla casualità). Stando così le cose, è dato dedurre che con tale riforma è intervenuta una radicale ‘‘trasformazione di valenza’’ dell’evento stesso, nel senso che esso è finalmente andato assumendo significato e ruolo di circostanza, ossia di modalità tipica di condotta, se non addirittura di modalità atipica, alla stessa stregua delle modalità di cui al n. 1, prima parte, dell’art. 133. Ma v’è di più. Un siffatto nuovo corso ha trovato successivamente il suo logico coronamento nella ancor più recente modifica dell’art. 59, con la quale si richiede espressamente che, per poter mettere a carico del soggetto le circostanze aggravanti, occorre che queste siano effettivamente da lui conosciute (legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 1). ‘‘controriformistico’’, ammantato da un malinteso garantismo di ispirazione sedicente liberale, in realtà derivante da ideologie di altra marca, o da aree culturali meno sensibili al principio di legalità. Tendenze pseudoliberali e pseudogarantistiche, le quali hanno finito coll’alienare il significato del magistero punitivo riducendolo al rango di funzione di polizia, senza accorgersi che, proprio così facendo, vengono messi in crisi, e quindi resi inefficienti, i presupposti del ‘‘nuovo’’ Stato sociale, fondato sostanzialmente sul mero rovesciamento dei valori del ‘‘vecchio’’, che da più parti si auspica.
— 1108 — Ci si è cioè ulteriormente resi conto che, una volta stabilito che l’evento-circostanza poteva essere eliminato nel giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 qualora non rivestisse significato sintomatico circa il disvalore personalistico del fatto, non persisteva allora alcuna ragione per non estendere la eadem ratio di favor rei anche allo stesso regime di imputazione della circostanza in generale. Nel quadro di un’interpretazione evolutiva dell’art. 59, il principio personalistico sancito nell’art. 27, 1o comma della Costituzione, combinato con l’art. 45 c.p., portava insomma a concludere che non soltanto l’evento-elemento costitutivo, ma altresì l’evento-circostanza, e quindi la stessa circostanza in senso lato, non devono essere valutati a carico dell’agente, quando non siano da lui conosciuti o previsti; e ciò proprio in quanto sostanzialmente traducentisi, tutti, in modalità di condotta ex art. 133 c.p., prima parte. Abbiamo parlato di ‘‘evoluzione’’ della teoria del reato. In realtà, a guardare meglio, si tratta di un processo di ‘‘recupero’’, nel senso di una ‘‘presa di coscienza’’, di quelli che sono, e sono sempre stati, i contenuti emozionali specifici implicati nel crimine. Contenuti psico-criminologici che furono ben chiari alla dottrina dei romani e del diritto intermedio, ma che, a partire dal secolo scorso, in ossequio a malintese esigenze di ‘‘scientificità’’, si è tentato di rimuovere, con una indebita razionalizzazione, a favore di una ricostruzione dogmatica del diritto penale resa in chiave ‘‘pancivilistica’’, ossia etero-penalistica. Si è trattato — e si tratta tuttora, perdurando il processo psichico di rimozione — di una sistematica, quanto inconsapevole, opera di ‘‘alienazione’’ delle effettive componenti strutturali del fenomeno delittuoso; alienazione che è di continuo ostacolo ad un corretto riconoscimento di quelli che sono i reali termini dei vari problemi di teoria generale, sia del reato che della pena, e, di conseguenza, in misura ancora maggiore, al rinvenimento di una loro soddisfacente soluzione. A ben vedere, la concezione del diritto penale della condotta non rappresenta quindi né una ‘‘teoria nuova’’, né una ‘‘teoria moderna’’ del diritto penale, in quanto, in definitiva, essa mira semplicemente a ridare effettività al sistema penale restituendolo alla sua originaria ed intrinseca dimensione, la quale è, né altro può essere, che criminologica. Dovrebbe insomma risultare chiaro che il diritto penale non solo è attualmente, ma è sempre stato nel passato, e necessariamente, un sistema di norme incriminatrici di fatti la cui illiceità è determinata da un disvalore di condotta, legato all’infrazione di un precetto, e pertanto di una regola di condotta. Questo può essere affermato con riguardo all’intera storia, e persino alla preistoria, del diritto penale. La prima scintilla da cui è scaturito il processo di formazione del diritto penale coincide con l’istante in cui, ricevuto un torto, l’uomo ha reagito con la vendetta, ossia obbedendo alla profonda esigenza di una ritorsione. Detta esigenza primor-
— 1109 — diale, che costituisce indubbiamente la matrice inconscia della attuale ‘‘pena pubblica’’ — nasce invero dalla radicale sensazione che la condotta produttiva di un determinato evento lesivo sia di natura tale da non poter trovare adeguato soddisfacimento nel mero risarcimento, o restitutio in integrum, ma richieda una ‘‘reazione sociale di rigetto’’, diretta verso la persona che a tale evento ha dato causa. In effetti il mero verificarsi di un evento lesivo ad opera di altro uomo, anche se dipeso dalla di lui volontà, non conduce ancora, di per sè, al di là della linea di spartiacque che divide il diritto civile da quello penale: si entra nel terreno del diritto penale solo nel momento in cui si percepisce il carattere criminoso della condotta dell’agente che ha provocato l’evento lesivo, e il disvalore giuridico-penale che dalla stessa consegue. Ciò è tanto vero che solenni principi, quali quelli di stretta legalità, di tipicità, di determinatezza e di frammentarietà, vigenti nel diritto penale moderno, trovano la loro ragion d’essere appunto in quanto espressione dell’esigenza della determinazione delle soggettive e oggettive modalità di condotta penalmente rilevanti. Diversamente sarebbe stato sufficiente al legislatore incriminare le ‘‘lesioni di interessi tipici’’, in luogo delle ‘‘lesioni tipizzate di interessi’’, vale a dire in luogo delle ‘‘modalità di lesione’’, rectius ‘‘di condotta’’, così analiticamente enunciate nella parte speciale del codice. 10. Le teoriche difficoltà per un coerente ancoraggio del principio di offensività all’evento. I c.d. reati di pericolo astratto. In nota: i reati di pura omissione, di attentato, di possesso, ostativi, etc. — È ben noto come quella parte della dottrina che tralatiziamente insiste ad agganciare l’offesa diretta verso il bene tutelato al momento della realizzazione dell’evento, anziché a quello relativo alla condotta, vada facilmente incontro ad una serie di difficoltà che riteniamo insormontabili. Ad esempio, non riesce a ricostruire in modo persuasivo — nonché a giustificare adeguatamente in termini di legittimità costituzionale — le ipotesi di reati c.d. di pericolo ‘‘astratto’’, di quelli a dolo specifico, di quelli omissivi propri, privi cioè di evento naturalistico, di quelli di attentato, di quelli c.d. di possesso o di mero sospetto, etc. (35). (35) Si tratta, per l’appunto, dei principali scogli coi quali ebbe a misurarsi BRICOLA nella sua voce, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, 1973, p. 85 ss. dell’estratto. Essi si ritrovano, di recente, ridiscussi in MARINUCCI-DOLCINI — sotto angolazioni parzialmente diverse, ma con sostanziali analogie di fondo (op. cit., p. 196 ss.). Nello stesso ordine di idee — peraltro con soluzioni in parte più realistiche — FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 16 ss., 173 ss., etc. Nel testo ci limitiamo a prendere in esame la problematica relativa ai reati di pericolo astratto e a quelli a dolo specifico in quanto più strettamente attinente, da una parte, al neologistico concetto di evento in senso giuridico e al disvalore che si vuole ad esso ricollegato,
— 1110 — Poiché si tratta per l’appunto di ipotesi nelle quali un effettivo aggancio tra il momento dell’offesa e quello dell’evento appare ictu oculi inconcepibile, si è fatto ricorso, per riuscire in qualche modo a inquadrarli dogmaticamente, all’escamotage di una formula quale ‘‘anticipazione della sodall’altra al quesito centrale circa il primato del disvalore della condotta ovvero dell’evento nella sistematica del reato. Gli altri argomenti trattati dagli autori succitati — e in particolare dai MARINUCCI-DOLCINI — meritano comunque un cenno critico. Per quanto concerne il problema del reato omissivo proprio, la dottrina de quo si trova in evidente difficoltà in quanto, mancando qui non solo una condotta attiva, ma per di più un evento naturalistico, si chiede quale aggancio possa avere l’offesa al bene tutelato in tal genere di reati. Diversamente essa sarebbe costretta ad ammettere che, incriminando il mero inadempimento di un dovere, il legislatore punirebbe la mera disubbidienza come tale, anziché come offesa a beni giuridici. Noi non vediamo né il problema né la difficoltà. Posto che non è mai ad un evento naturalistico che deve agganciarsi l’offesa al bene (lo dimostra, ripetiamo, il tentativo), rimane sempre fermo che esiste una condotta di taluno il quale non ha compiuto un’azione attesa da una norma posta a tutela di un determinato bene. Quindi tutto il problema si riduce alla corretta individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma che ha posto il dovere di attivarsi. Così nell’omissione di soccorso il bene è la vita, ma visto in collegamento col dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione. Nell’omessa denuncia di reato il bene è la corretta amministrazione della giustizia, collegato col dovere di fornire la notitia criminis incombente su determinati soggetti (artt. 361, 362), e via dicendo. Il problema vero — sottaciuto dalla dottrina de qua — è che con l’individuazione dell’interesse giuridico tutelato non si va molto lontani nell’esegesi necessaria ad una corretta applicazione delle relative norme. Per quanto riguarda i reati di attentato, non vediamo ragione alcuna per cui essi debbano sottrarsi, in tutto o in parte, al principio di offensività. Non è già l’art. 56 c.p. che qui viene in causa, bensì l’art. 49, 2o comma il quale, sancendo il principio generale di idoneità all’evento naturalistico, detta al tempo stesso (ma senza prevederlo espressamente, come invece vorrebbe la c.d. concezione realistica dell’illecito) il presupposto perché una condotta assuma carattere offensivo. Piuttosto non è da condividere le conclusioni dei MARINUCCIDOLCINI, i quali vogliono anch’essi inammissibile il tentativo di attentato; nel caso di azione incompiuta il tentativo, con la relativa diminuzione di pena, può infatti anche qui ravvisarsi. Per quanto infine concerne i reati c.d. di possesso (es. possesso di grimaldelli) e di sospetto, anche qui la ingiustificata mancanza di un evento naturalistico rende impossibile per i citati AA. l’aggancio al bene in termini di offensività. Ipotizzano pertanto che l’offesa si nasconda in una sorta di ‘‘pericolo indiretto’’ per il bene (il che pare piuttosto una contradictio in adjecto) e giungono a conclusioni che non possono non apparire alquanto sorprendenti per un garantista, quale anche noi, sia pure in differente modo, riteniamo di essere: ‘‘Ciò che accomuna [...] gran parte dei reati di pericolo indiretto [...] è la configurazione come reati a sé stanti di atti preparatori [...] di altri fatti delittuosi’’ (op. cit., p. 238 s.). Sicché i reati di possesso o di mero sospetto sarebbero punibili, in via eccezionale, non come atti di esecuzione, bensì come meri atti preparatori — e ciò non sarebbe incompatibile al principio di offensività. Del resto — si afferma — ‘‘il legislatore utilizza la pena non solo per reprimere la offesa incarnata nel reato di pericolo indiretto, ma anche per prevenire la commissione di futuri reati: il diritto penale si carica così anche di finalità caratteristiche del diritto di polizia’’ (op. cit., p. 242). Inutile rilevare a questo punto quanto siffatte conclusioni lascino perplessi. Tanto più che appaiono ispirate da una prospettiva ideologica che si dichiara liberale, ma che, evidentemente, tale non è.
— 1111 — glia della tutela’’. Ma si omette di chiarire che il ricorso a una simile formula, in tanto potrebbe avere ragion d’essere, in quanto si abbia avuto previamente cura di dimostrare — e non solo limitandosi ad apoditticamente asserire — che ‘‘si è fuori della soglia della tutela’’ ogni qual volta si fuoriesca dal territorio della realizzazione di un evento. Di questo passo, logica vorrebbe che non solo le actiones liberae in causa, ma addirittura lo stesso tentativo e i reati c.d. a consumazione anticipata dovrebbero essere ricostruiti su codesta zona ‘‘extraterritoriale’’ e tanto chiaramente ‘‘decentrata’’. È però evidente, soprattutto per il tentativo, che, agli effetti dell’offensività, si tratta di una tutela tutt’altro che anticipata. In realtà basterebbe riconoscere, sic et simpliciter, che la soglia della tutela inizia colla condotta e può anche terminare con essa, perché il problema trovi la sua agevole soluzione. Quanto alla legittimità costituzionale di figure di reato come quelle suddescritte, per accertarla sarebbe sufficiente recepire l’assunto di chi vede nel 1o comma dell’art. 27 della Corte un implicito riconoscimento della natura personale dell’illecito penale, col conseguente spostamento del disvalore dall’evento alla condotta. Ora, per quanto riguarda i reati c.d. a pericolo astratto o presunto — allo stesso modo che quelli a dolo specifico e omissivi propri — occorre precisare che essi non solo sono ‘‘molto numerosi’’, ma ‘‘tendono a crescere progressivamente’’, e ‘‘in non pochi casi sono sanzionati con pene severe, e a volte molto severe’’ (36). La ragione di ciò è molto semplice: essa risiede nell’incessante dilatarsi del moderno principio di solidarietà, sancito all’art. 2 Cost., a spese di quello meramente individualistico, di stampa vetero-liberale. Oltre tutto, la piena legittimità costituzionale delle fattispecie de quibus è stata ripetutamente ribadita dalla stessa Corte costituzionale, e con motivazioni che ben si sintonizzano con quanto da noi sostenuto. A questo punto alla dottrina non resta altro che prendere atto di una realtà, la quale è già da tempo in atto, ma che è destinata ad accrescersi vieppiù in fieri. Né d’altra parte valgono i tentativi di restringere quantitativamente la portata delle fattispecie c.d. a pericolo presunto o astratto attraverso le sottigliezze, spesso bizantine, dello strumento ermeneuIn realtà, i reati di possesso e, in generale i delitti ostativi, o delitti-ostacolo, sono anch’essi costituiti da una condotta esecutiva, se vogliamo composita, di tipo attivo ed omissivo, ma non mai preparatoria! Essi accedono all’offensività direttamente in quanto tali, ossia in quanto condotta: e in ragione delle loro modalità presenteranno un maggior o minore disvalore offensivo nei confronti del bene. Che il bene tutelato sia aggredito con una lesione o con un pericolo, che il pericolo sia diretto o indiretto, astratto o concreto, molto concreto o poco concreto, e via dicendo, a nulla rileva, tanto più trattandosi di beni immateriali, per i quali è sufficiente constatare l’offesa, e nulla più. (36) Come testualmente riconoscono gli stessi MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 198.
— 1112 — tico (37). Già sono note le tradizionali difficoltà di distinguere tra reati di danno e reati di pericolo nella misura in cui il bene protetto perde di spessore materiale e si sublima in una entità di tipo ideale (come il pudore, l’onore, il prestigio, e via dicendo). A fortiori quanto mai relativa è la distinzione tra concretezza e astrattezza del pericolo, e tra maggiore o minore concretezza o astrattezza (38). Per giunta va preso atto che la portata di terminologie quali idoneità o pericolosità, astratta o concreta, non è univoca, e non solo nella dottrina; addirittura vi sono divergenze rispetto all’uso fattone dalla giurisprudenza. In materia di tentativo, per esempio, avviene spesso che i tribunali considerino idonei, ai sensi degli artt. 49 e 56, atti o azioni che invece la dottrina ritiene irrilevanti, perché valutati come ‘‘inidonei’’. Ciò dipende da una diversità di prospettiva: chi ad. es. porge per errore la tazzina non avvelenata in luogo di quella avvelenata compie certamente atti idonei, nonostante la contraria opinione della dottrina, la quale tenderebbe (indebitamente!) ad assolvere per insussistenza di un pericolo in concreto (39). In realtà, a decidere della meritevolezza di pena di un dato fatto non è mai la razionale considerazione circa la concretezza o meno del pericolo, quanto piuttosto la sussistenza di una turbativa della pacifica convivenza sociale’’ (40), vale a dire di ciò che tradizionalmente si suole indicare come ‘‘allarme sociale’’. Allorché in un dato momento storico, le esigenze di solidarietà sociale si fanno sentire al punto che una determinata condotta, per il suo disvalore — indipendentemente dal grado di concretezza della sua pericolosità — è tale da compromettere la fiducia della collettività nell’ordinamento giuridico, e con ciò il senso di sicurezza e la pace sociale, in una parola, un disvalore di condotta tale da suscitare allarme sociale, ecco allora che il fatto viene ad assumere, per ciò solo, meritevolezza di pena (41) (c.d. Eindruckstheorie). 11. (Segue) I reati a dolo specifico, insormontabile scoglio per la teoria causale-oggettivistica. — Una aporia ancor più sintomatica, tra le (37) Come è dato leggere, ad es., in MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 200 ss. (38) Cfr. in tal senso FIANDACA-MUSCO, Note sui reati di pericolo, ne Il Tommaso Natale, 1977, p. 179 ss.; ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 1981, p. 88 ss. (39) Sul punto: MALINVERNI, Il tentativo punibile, in Sc. pos., 1967, p. 424 ss.; MORSELLI, Note in tema di tentativo, in Arch. pen., 1987, p. 90; ID., voce Tentativo, in Dig., disc. pen., XIV, 1998, §10; ID., Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in questa Rivista, 1998, p. 53 e ss. (40) Sono parole dello stesso ROXIN, in Strafzweck und Strafrechtsreform, in BAUMANN, Programm für ein neues Strafgesetzbuch. Der Alternativ-Entwurf der Strafrechtslehrer, 1968, p. 77. (41) Così testualmente JESCHECK, op. cit., p. 462 s.
— 1113 — tante in cui si dibatte la concezione del diritto penale dell’evento sul piano dell’offensività, è data dalla presenza — sicuramente ‘‘imbarazzante’’ — di figure ‘‘anomale’’ di reato, quali quelle denominate a dolo specifico. Una siffatta categoria nasce di certo dalla ‘‘natura delle cose’’, e tuttavia — per ragioni facilmente spiegabili, se si tiene conto delle ‘‘premesse’’ da cui essa parte — la dominante dottrina, invece di riflettere e trarne le debite conseguenze, tende il più possibile a ridurla ai minimi termini, sul piano sia qualitativo che quantitativo, fino al suo limite di sussistenza, intendendola cioè come mera ‘‘intenzionalità volta verso un evento non necessario per la consumazione del reato’’. Si tratta invece di un fenomeno assai più ampio ed estremamente significativo, il quale abbraccia tutte quelle ipotesi di ‘‘elementi soggettivi della fattispecie’’ che la dottrina tedesca (Fischer, Hegler, Mezger) è andata ‘‘scoprendo’’ come essenziali per la integrale ricostruzione del reato fin dagli anni 1910, e che — lo si voglia riconoscere o meno — sono diffusamente disseminate in seno anche alle nostre fattispecie di parte speciale. Poiché la disamina dell’argomento esula dai limitati fini del presente studio, ci limiteremo ad affermare che, a parer nostro, per dolo specifico in senso proprio deve intendersi qualsiasi forma di esplicitazione normativa dell’elemento soggettivo (42). Così è certamente un reato a dolo generico l’omicidio di cui all’art. 575 c.p., ma sono da considerarsi a dolo specifico, oltre al furto (art. 624), anche l’ingiuria e la diffamazione (artt. (42) Tutto questo era pacifico nella dottrina italiana del secolo scorso, già a partire dal grande CARRARA, il quale aveva ben chiaro che l’elemento soggettivo era decisivo per la determinazione del danno criminale e ne evidenziava l’incidenza sull’oggettività giuridica, in Programma del corso di diritto criminale, p. gen., 1889, 7a ed., §§ 121, 151. Orbene codesta concezione estensiva del dolo specifico — che il CARRARA definiva come il criterio in grado di specializzare un determinato delitto, distinguendone la fisionomia giuridica da altri ‘‘che nella materialità lo somigliano’’ (Programma, cit., p. spec., 1863-1870, II v., § 1668, 601) — restò dominante in Italia addirittura fino agli anni 1950, se si pensa che nel classico Manuale dell’ANTOLISEI, ancora nella seconda edizione della parte generale (1949, p. 189), si poteva leggere quanto segue: ‘‘Una forma particolare di dolo specifico, a cui in generale viene prestata scarsa attenzione, si riscontra in alcuni reati, i quali sono caratterizzati non tanto da uno scopo determinato, quanto da una tendenza speciale dell’azione. Ciò si verifica in alcuni delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, come, ad esempio, negli atti osceni (art. 527) ed in genere nei delitti che consistono nel ‘‘vilipendio’’ di qualche cosa: del cadavere (art. 410), delle tombe (art. 408), della religione (art. 402), della bandiera dello Stato (art. 292), etc. Negli atti osceni l’oggettiva offesa del pudore deve essere espressione di una tendenza lasciva dell’agente; nei vilipendi il fatto deve essere determinato da una tendenza al disprezzo della cosa che è protetta dalla norma penale. La necessità di questo quid che va oltre la semplice volontà del fatto, si desume dalla natura intrinseca dei reati indicati e risulta dalle espressioni usate dal legislatore per contraddistinguerli’’ [il corsivo è nostro]. Di recente si sono esaurientemente occupati del problema del dolo specifico, nella chiara consapevolezza che la dottrina è con esso di fronte ad un elemento ‘‘dirompente’’ a fronte della dominante concezione oggettivisitica, che privilegia l’evento sulla condotta, PICOTTI, Il dolo specifico, 1993; GELARDI, Il dolo specifico, 1966. Noi abbiamo espressamente affrontato il problema nel nostro Il reato di false comunicazioni sociali, cit., p. 38 ss.
— 1114 — 594-595), per la presenza del verbo soggettivamente pregnante ‘‘offende’’, le false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.) per l’avverbio ‘‘fraudolentemente’’, i maltrattamenti in famiglia (art. 572) per il verbo ‘‘maltratta’’, l’istigazione a delinquere (art. 414) per il verbo ‘‘istiga’’, e moltissime altre figure criminose (come spionaggio, atti osceni, minaccia, aggiotaggio, vilipendio, e via dicendo). Ma attualmente la nostra dottrina preferisce seguire, come si è detto, una nozione ‘‘minimalistica’’ e quanto mai riduttiva del dolo specifico. Ciò nonostante, non manca di accorgersi della ‘‘pericolosa’’ frattura che il dare rilievo decisivo anche a una semplice intenzionalità non necessariamente realizzabile, nella configurazione della tipicità del fatto, viene inevitabilmente a creare in un sistema teorico qual è quello da noi dominante, saldamente ancorato a principi di materialità e di oggettiva lesività. Le critiche pertanto non potevano mancare. Così si è detto che: ‘‘un fatto meramente psichico, come uno scopo, un fine, un’intenzione non può, di per sé, incidere sulla realtà e non può quindi influire sull’integrità dei beni giuridici: ciò che può incidere sull’integralità dei beni sono solo gli eventi che formano l’oggetto degli scopi, dei fini, etc. perseguiti dall’agente’’ (43). Ed eccone la conclusione: ‘‘ne segue che, se gli scopi menzionati rilevassero solo come fatti psichici, l’edificio del reato in questi casi poggerebbe interamente sui ‘‘cattivi pensieri’’: l’agente verrebbe punito non per ciò che ha fatto, ma per quel che voleva fare, non per l’effettiva lesione o esposizione a pericolo dei beni giuridici, ma per la volontà di lederli o esporli a pericolo. Vere e proprie isole di soggettivismo nell’ambito di un diritto penale del bene giuridico, i reati a dolo specifico si esporrebbero in definitiva a serie censure di illegittimità costituzionale’’ (44). Ma per fortuna le cose stanno in modo ben diverso. Che un dato (non: un fatto) meramente psichico non possa, di per sé solo, incidere sulla realtà giuridica, né pertanto sul bene tutelato, è cosa pacifica, e mai negata da alcuno. Il reato, si è detto, è una condotta tipica e antigiuridica. Perché possa rilevare come tale, anzi, perché possa semplicemente sussistere una condotta umana, occorre però un quid, rectius, un ‘‘fattore’’ (ma non già: un fatto!) psichico che valga a colorarlo, a dargli significato. Tutto qui. Ora, ciò che impropriamente si denomina come (43) Così testualmente MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 213. Al tempo stesso essi hanno espresso, in efficace sintesi, che cosa si intende per ‘‘diritto penale dell’evento’’. (44) MARINUCCI-DOLCINI, op. loc. cit. Gli autori proseguono poi con il rituale grande monito, tanto diffuso nella nostra manualistica e di ben comprovato effetto allarmistico: ‘‘proprio la scoperta dei reati a dolo specifico ha innescato un processo di soggettivizzazione del diritto penale, culminato sotto il nazismo [...] e tuttora vivo [...] in seno alla dottrina tedesca’’. E con ciò il giudizio-pregiudizio sulla dottrina tedesca dal 1930 a oggi — almeno su taluno dei suoi apporti più originali e innovatori, che, oltre tutto, costituisce la linea-guida e il Leitmotiv della moderna sistematica penale di oltr’alpe — è completato, ad uso e consumo del giovane apprendista nostrano!
— 1115 — ‘‘fatto psichico’’, quando è supportato dalla condotta, e ne costituisce così una precisa ‘‘modalità tipica’’, non può più essere considerato un ‘‘qualcosa di meramente psichico’’, ma costituisce un elemento costitutivo della fattispecie, incidente sulla realtà criminologica, alla quale ‘‘cambia volto’’, influendo in tal modo sull’integrità dei beni giuridici; e lo fa direttamente, senza alcuna necessità di ‘‘filtrare’’ attraverso la ‘‘mediazione’’ di un evento, sia esso naturalisticamente o giuridicamente inteso. Il significato giuridico del fatto penalmente rilevante riposa proprio sulla modalità concreta, sia soggettiva che oggettiva, con cui si è svolta la sua condotta. In altri termini, il disvalore del fatto, nel senso della sua offensività nei confronti del bene tutelato è dato proprio da siffatte modalità di condotta, sia soggettive che oggettive. E tra queste modalità di condotta concorrenti a determinare il disvalore di condotta c’è, in primis, l’elemento soggettivo, vale a dire il dolo e/o la colpa. V’è pure — quando esista — anche l’evento in quanto cagionato, in funzione aggravatrice del disvalore stesso, nonché come elemento determinatore della ‘‘meritevolezza di pena’’ per i fatti colposi. Se poi, in concreto, il dolo o la colpa non sono solo generici, ma specifici — il che avviene quando il dolo è esplicitato nelle sue specifiche modalità da parte del legislatore, o la colpa è fatta esplicitamente derivare dalla inosservanza di norme specifiche — maggiore è la carica di disvalore acquisito dalla condotta, e più pregnante e determinante il suo significato di aggressione, ed è per ipotesi come queste che si parla, per l’appunto, di dolo specifico o di colpa specifica. Ma non v’è ragione alcuna di temere persecutorie punizioni per i soli ‘‘cattivi pensieri’’! In realtà, l’agente viene punito secondo le regole comuni, ossia per ciò che ha fatto e nella misura e nel modo con cui lo ha fatto, ossia secondo l’entità dell’offesa recata al bene giuridico. Offesa recata non però ‘‘a cagione dell’evento cagionato’’ e quindi attraverso di esso — posto che sovente esso rappresenta un accadimento la cui sussistenza, o comunque gravità, dipende, in tutto o in buona parte, dal caso (c.d. Zufallhaftung; esempi eloquenti ne sono gli incidenti stradali, che a parità di negligenza o imprudenza possono dar luogo a eventi totalmente diversi, dalla morte alla semplice ecchimosi) — quanto piuttosto attraverso la sua condotta trasgressiva e a cagione di questa, in quanto è proprio essa che, per principio e per postulato, si assume come ‘‘dominabile’’ (steuerbar), sia nella sua ‘‘fattibilità’’, sia nelle modalità della sua effettuazione. Quanto agli ormai vieti luoghi comuni rappresentati dalle censure di ‘‘soggettivismo’’ (45), è bene che la nostra dottrina non dimentichi che (45) Per la verità non è mancato qualche storico ‘‘geniale’’, il quale è giunto a ricollegare l’origine di Hitler alla sovversione del valore salvifico delle opere fatta da Lutero, il quale, assieme a una serie di grandi pensatori, quali Ockham, Cartesio, Spinoza e finalmente
— 1116 — oggi il vero pericolo, da gran tempo allignante ovunque nel nostro ordinamento, è rappresentato dalla responsabilità obiettiva c.d. occulta, e dalla pressoché incoercibile tendenza alle presunzioni in materia di dolo e di colpa, pericolo che trova incremento proprio dal persistere di codeste croniche idiosincrasie. Urge pertanto liberarsi, una volta per tutte, da pregiudizi o visuali così unilaterali e inveterati, di certo non consoni a quella ricerca che, almeno per antonomasia, è detta ‘‘scientifica’’ (46). Nel soggettivismo si è soliti ravvisare, notoriamente, un pericolo per le garanzie costituzionali dell’imputato. In realtà, proprio una maggiore considerazione dell’elemento soggettivo, correttamente e rigorosamente praticata, può viceversa offrire una barriera garantistica ancora più efficiente e definita che non l’attuale insistenza su di un rigido meccanismo di difesa di tipo oggettivistico. Richiedendo un effettivo e corretto accertamento dell’elemento soggettivo, nei suoi reali contenuti psicologici, e dopo che l’aspetto esteriore del fatto è già stato stabilito, non si fa altro che sollecitare da parte del giudice, un quid pluris, vale a dire una ulteriore linea di difesa per l’imputato. A queste condizioni il garantismo non potrà risultarne diminuito, ma al più accresciuto. Kant, ha rotto definitivamente gli schemi oggettivistici scolastici per introdurre quella dimensione profonda delle forze dell’Io, la quale ha dato la stura alla concezione moderna della vita. Nonostante la sua ovvietà, ci sia consentito di rilevare ciò, incidenter tantum, di fronte a chiunque, nella complessità del mondo moderno, nutra ancora tali segrete nostalgie ‘‘controriformistiche’’, fino a intravvedere ineluttabilmente inciso nel DNA del soggettivismo, insito nell’etica protestante, il gene illiberale del nazismo. (46) È particolarmente interessante riflettere su quali conseguenze pratiche intendono pervenire MARINUCCI-DOLCINI (op. cit., p. 218 ss.): ogniqualvolta la finalità ulteriore, non necessaria alla consumazione, è irraggiungibile per il soggetto agente, vuoi per suo errore vuoi per cause oggettive, il fatto perderebbe il suo carattere di offensività e il soggetto andrebbe impunito. Esempi: Tizio distrugge una cosa proprio al fine di conseguire il prezzo di un’assicurazione (art. 642 c.p.), ma il contratto si rivela scaduto, e quindi non più valido. Caio scassina una cassaforte e si impossessa di un documento (art. 624), successivamente rivelatosi inidoneo ai suoi fini. Sempronio sequestra Mevio (art. 650) a scopo di estorsione, ma Mevio si dimostra successivamente ‘‘povero in canna’’. Più persone si associano per delinquere (art. 416) ma l’organizzazione si rivela successivamente troppo ‘‘rudimentale per lo scopo’’. Altre persone si accordano per una cospirazione politica (art. 304), ma i fatti progettati si rivelano non alla loro portata per mancanza di cariche politiche o di poteri adeguati. Orbene, come si è detto, per i citati autori in tutti questi casi (con la sola eccezione del terzo, derubricabile a sequestro semplice) i soggetti andrebbero esenti da pena. Si dimentica peraltro che in tutti indistintamente i casi predetti, nel momento in cui l’agente ‘‘scopre’’ l’inanità della propria azione, questa è già stata interamente compiuta, l’evento previsto dalla legge per l’esistenza del reato si è realizzato, il fatto è quindi consumato, tipico e antigiuridico. Non si vede come un post-factum possa rendere infectum il factum! Paradossalmente codesta dottrina antisoggettivistica giunge ad attribuire alla intenzionalità soggettiva una così esorbitante importanza, al punto da ravvisare una inesistente ragione di esimente nell’ipotesi della sua mancata realizzazione a fatto compiuto!
— 1117 — 12. Necessità di un radicale adeguamento della nostra dogmatica alla cultura etico-giuridica dell’Unione europea. — Dovrebbe apparire chiaro, al punto in cui siamo giunti, che sostenere il primato del disvalore di condotta su quello dell’evento non significa affatto non solo svalutare, ma neppure sottovalutare il ruolo del bene giuridico, e tanto meno il principio di offensività nella teoria del reato, ruolo che fu ben chiarito nei primi anni del secolo dal von Liszt e che rimane il cardine centrale per il retto funzionamento dell’intero sistema giuridico-penale. Del resto, nella stessa attuale dottrina tedesca — pur notoriamente orientata in senso soggettivistico, tanto da avere in buona sostanza recepito la portata dei principi della teoria finalistica dell’azione — il principio della offesa al bene giuridico (Rechtsgutverletzung) è diffusamente riconosciuto come ‘‘fondamento della sistematica del reato e dell’interpretazione delle fattispecie’’ (47). Se in proposito un vero problema tuttora sussiste, esso riguarda piuttosto il modo di intendere e la portata logico-interpretativa di siffatto ruolo. I sostenitori del c.d. Progetto alternativo per il nuovo codice penale tedesco (c.d. AE), e tra questi, in primo luogo, il Roxin (48), hanno addirittura ritenuto di trovare in von Liszt l’autorevole antesignano della loro concezione del bene giuridico, inteso come limite ‘‘liberale’’ a garanzia dei poteri del legislatore, in chiave decisamente giusnaturalistica. Mentre, a ben vedere, il reale apporto del von Liszt è stato quello di evidenziare l’aspetto contenutistico dell’antigiuridicità (c.d. antigiuridicità materiale), ma ribadendo più volte, e a chiare lettere, che in caso di conflitto tra presenza di antigiuridicità formale e assenza di antigiuridicità materiale è la prima che deve in ogni caso prevalere (49). (47) JESCHECK, op. cit., p. 231. (48) Si veda, tra l’altro, il suo Franz von Liszt und die kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfs, in ZStW, 81, 1969, 613 ss. In Italia la letteratura ispirata ai postulati del Progetto alternativo è innumerevole e ben nota. Per una critica efficace di tali postulati è sufficiente un’attenta lettura del classico Lehrbuch dello JESCHECK, a cominciare dalla problematica relativa alla colpevolezza e alla pena. (49) ‘‘Liegt er vor, so ist der Richter durch das Gesetz gebunden; die Korrektur des geltenden Rechts liegt jenseits der Grenzen seiner Aufgabe’’: Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 24a ed., 1922, p. 140. Ma il ricorso abusivo all’autorità del von Liszt nell’intento di sostenere tesi o indirizzi ‘‘progressisti’’ da lui in realtà non concepiti, o non condivisi, non finiscono qui. Così si è creduto di poter deflazionare l’importanza della Gesinnung nella sistematica del reato richiamandosi al von Liszt, proprio quando, tutto al contrario, ne fu, proprio lui, il massimo assertore, avendo egli tanto insistito — in netto contrasto con la passata concezione — nell’individuare il contenuto materiale della ‘‘Schuld in der aus der begangenen Tat erkennbaren asozialen Gesinnung des Täters’’ (ibid., p. 160 e passim). Analogamente si è voluto vedere in von Liszt (e nella sua Zweckstrafe) un avversario della pena retributiva (così, ad es. ROXIN, op. cit.) mentre invece pochi come lui hanno percepito con lucida chiarezza che la pena è una reazione istintiva, necessaria e ineliminabile, per cui l’unica cosa auspicabile è poterla finalizzare verso mete positive, anche se, vista di per sé, essa ha
— 1118 — Importante è poi osservare che, nonostante la diffusa recezione del principio di offensività, in seno alla dottrina tedesca i sostenitori di un diritto penale dell’evento puro e semplice costituiscono ormai — al contrario che da noi — un gruppo del tutto marginale. Ciò sta a dimostrare che si tratta di due prospettive ben distinte e tra loro separabili, al punto che il principio di offensività appare senz’altro compatibile con la concezione personalistica dell’illecito, da tempo prevalente in Germania, e il conseguente diritto penale della condotta. La verità è che la esclusiva polarizzazione del disvalore del reato sull’evento, e comunque il suo aggancio al bene tutelato attraverso l’evento, così diffusa tuttora nella nostra dottrina, ha ben poco a che vedere con quel timore di un ‘‘eccesso di eticizzazione e di soggettivazione’’ dell’illecito che da ogni parte si solleva a difesa di un’impostazione del problema penale che, lungi dall’essere moderna, è in realtà ancorata a vetero-pregiudizi riecheggianti quelli in voga addirittura all’epoca della Controriforma. Il fenomeno è insomma frutto di una secolare tendenza nella strutturazione concettuale dell’illecito, tuttora viva soprattutto in perduranti correnti c.d. ‘‘guelfe’’, o comunque conservatrici, del nostro pensiero giuridico, e risalente fin dall’epoca delle interminabili diatribe casuistico-teologiche (si ricordi soprattutto la storica polemica di Pascal contro il molinismo nelle ‘‘Lettere provinciali’’), tendenza volta a lasciar cadere l’accento del malum sulle ‘‘opere’’, ‘‘bagatellizzando’’ il più possibile il momento etico-soggettivistico insito in ogni reato, quando sia rettamente inteso come condotta violatrice di un dovere penalmente imposto a tutela di un bene giuridico (cfr. la definizione del reato da noi data retro, § 1). Si può ben essere d’accordo sul fatto che la nozione di reato non deve essere concepita come ‘‘illecito di pura disubbidienza’’, quale lo intendeva il Binding. Così pure non v’è dubbio che — come già ebbe ad asserire von essenzialmente una funzione retributiva (von LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, trad. it., 1962, pp. 15, 16 ss., 21 ss., 25, 63, 64; ID., Lehrbuch, cit., p. 24 : ‘‘die Vergeltung ist Mittel zur Aufrechthaltung der Rechtsordnung’’, e ciò in quanto — riecheggiando Hegel — ‘‘die Macht der Rechtsordnung bewährt, das Rechtsbewusstsein des Volkes gekräftigt werden’’). Cfr. sul punto i nostri scritti: La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettiva retribuzionistica, in Riv. it., 1988, p. 48 ss. ed ora in corso di pubblicazione in Festschrift für E.A. Wolf; La funzione della pena alla luce della moderna prospettiva criminologica, in Ind. pen., 1991, p. 505 ss. (tradotto e pubblicato in spagnolo e in greco), dove, sulla base scientifica della moderna psicologia del profondo, abbiamo sostenuto che è proprio la retribuzione a svolgere una funzione positivo-integrativa, mentre la prevenzione generale non è altro che un ‘‘effetto indotto’’ della prima; assunto questo che, lungi dal contrastare, non fa che confermare quella visione di von Liszt alla quale sempre ci ispiriamo in tutta la nostra concezione giuridico-penale, compreso il concetto da noi accolto di offensività e di bene giuridico, e a cominciare dalla stesso tipo di approccio alla materia giuspenalistica, intesa anzitutto come oggetto di studio scientifico; per di più col metodo integrato dalla criminologia (gesamte Strafrechtwissenschaft!).
— 1119 — Liszt (50) — ‘‘il contenuto antisociale dell’illecito è indipendente dal suo apprezzamento da parte del legislatore, al punto che la norma giuridica lo trova, non lo crea’’. Ma ciò non toglie che, una volta che il legislatore abbia ‘‘trovato’’ il bene giuridico, lo stesso viene a sua volta ‘‘recepito’’ nell’ordinamento giuridico, divenendo così al tempo stesso l’oggetto del reato e del divieto, e pervenendo in tal modo a far parte della ratio legis normativa (51). Pertanto il disvalore del reato è in realtà racchiuso nel momento della ‘‘violazione del dovere imposto dal precetto’’, naturalmente dando per stabilito che tale precetto è imposto a tutela di un bene giuridico. Come bene ebbe ad affermare Mezger, il reato è produzione antigiuridica di un evento e non già produzione di un evento antigiuridico. Certo, se è aberrante concepire essenzialmente il reato come ‘‘mera trasgressione a una norma’’, altrettanto aberrante è però rappresentarsi la vita sociale — secondo una nota e suggestiva metafora welzeliana — come la vetrina di un museo dove siano esposti i c.d. beni giuridici sotto il cartello ‘‘don’t touch’’! Nondimeno, una volta messo definitivamente in chiaro che il precetto penale è posto a tutela di beni contro specifiche forme di aggressione, è la condotta trasgressiva in sé, e non già la offesa al bene in quanto tale, a rappresentare l’essenza, il l’UnwertsKern del reato. Un esempio quanto mai significativo della intrinseca ‘‘defaillance’’ di un’etica del risultato messa nel nostro sistema in contrapposizione con l’etica delle regole o, il che è lo stesso, di un diritto penale dell’evento a fronte di un diritto penale della condotta, viene vissuto da alcuni anni da tutti noi sulla scena, sia giuridica che politica, con lo sconvolgente fenomeno detto di ‘‘tangentopoli’’. Reati quali concussione e corruzione non possono essere dogmaticamente ricostruiti sotto il tradizionale usbergo della lesione al bene giuridico compiuto attraverso il risultato del profitto. E, giustamente, al centro della focalizzazione è stato ora posto il momento della ‘‘dazione’’. Si veda il bene giuridico protetto dalla rispettiva norma incriminatrice nell’imparzialità della P.A., ovvero nella fedeltà del pubblico agente, ovvero nella fiducia riposta nella P.A., ovvero ancora, con migliore approssimazione, nell’interesse statale alla probità, alla riservatezza, alla correttezza, alla fedeltà e all’imparzialità delle persone che esplicano pubbliche funzioni — interesse che si sintetizza nel buon andamento della P.A. cui accenna l’art. 97 Cost. — comunque si veda l’oggetto guridico tutelato, resta il fatto che l’offesa al medesimo passa necessariamente attraverso la specifica modalità di condotta del pubblico agente, vale a dire attraverso il disvalore di condotta. Qui insomma il reato sussiste, in quanto si dimostri che il soggetto si è comportato in modo non fedele, non probo, non riser(50) Lehrbuch etc., cit., p. 140. (51) Anche sui rapporti tra bene giuridico, oggetto giuridico, oggettività giuridica e ratio legis si fa rinvio al nostro Il reato di false comunicazioni etc., cit. da pp. 1-80; nonché al nostro Sulla c.d. concezione realistica etc., cit.
— 1120 — vato, non corretto, non imparziale. Concussione e corruzione rappresentano, a loro volta, due forme sostanzialmente diverse di attuazione di siffatto disvalore di condotta, essendo, tra l’altro, la corruzione caratterizzata dalla ‘‘cooperazione’’ con il privato, mentre la concussione lo è dalla sua ‘‘intimidazione’’ esplicita o implicita. Ma il fulcro del disvalore sia dell’una che dell’altra fattispecie è rappresentato non già dal momento del profitto, bensì da quello della ‘‘dazione’’, vale a dire della condotta, e delle sue specifiche modalità di aggressione. Etica e diritto sono, notoriamente, due sfere relativamente distinte dell’agire umano, Ma, per quanto concerne il diritto penale, la loro distinzione non può essere compiuta con un taglio netto. Concetti penalistici come imputabilità, colpevolezza, pena, colpa, dolo, e via dicendo, hanno il loro inconfondibile humus naturale nell’etica e non già nel pragmatismo. Che dire? Addirittura il diritto penale stesso, come ramo dell’ordinamento giuridico, perderebbe ogni significato se si andasse in una siffatta direzione pragmatico-funzionalistica (e non mancano ‘‘moderni’’ autori che ‘‘spingono’’ in tal senso, come Roxin, Jakobs, etc., e chi nella nostra dottrina ritiene di doverli seguire) mirante a confondere lo studio dell’ordinamento positivo mediante la dogmatica penale e il conseguente rigore del metodo tecnico-giuridico con le sollecitazioni critiche, e le relative confusioni ideologiche, proprie della politica criminale, ovvero con proposte di ‘‘funzionalismi’’ di vario genere, di tipo vuoi filosofico, vuoi sociologico. Quanto alla scelta nel quadro di una contrapposizione tra bene giuridico inteso in senso liberale, come dato ‘‘preesistente’’ al legislatore, e bene giuridico inteso invece in senso metodologico, come ‘‘compendio degli scopi del legislatore’’ o ratio legis, si tratta di un problema mal posto. È un problema dovuto per l’appunto alla indebita confusione tra un lavoro ricostruttivo esegetico-dogmatico e un lavoro ‘‘demolitivo’’ di critica politico-criminale. Purtroppo, un buon numero delle conclusioni della nostra dottrina penalistica attuale deve gran parte della sua gratuità a siffatta mistificazione di ruoli. Ancor più grave appare l’errore, o comunque il pericolo che si profila, se si riflette che analoga confusione di ruoli — quello applicativo e quello di critica politico-legislativa — sembra vieppiù diffondersi (ci riferiamo soprattutto al fenomeno c.d. di ‘‘Mani pulite’’) tra gli organi requirenti e giudicanti della magistratura. Sta di fatto che con l’ingresso del nostro Paese nell’Unione europea, per la nostra dottrina è giunto finalmente il momento di affrontare il dialogo con le formazioni culturali europee diverse dalla nostra, così impregnate di autentica ‘‘etica della responsabilità e delle regole’’ — tanto diversa dal pragmatismo dell’etica ‘‘del risultato’’ — e di ‘‘cultura della legalità’’, la quale non può non essere, prima di tutto, legalità formale; e ci riferiamo sia alle aree culturali di diretta tradizione protestante, sia a
— 1121 — quelle pur di tradizione cattolica, che di fatto sono, per ragioni storiche, geografiche, o di affinità culturale, strettamente influenzate dalle prime. Un dialogo siffatto non può non essere impegnativo anche per le strutturazioni strettamente dogmatiche, ed è quanto mai urgente rinvenire i punti di contatto e riconoscere gli estremi e gli strumenti indispensabili per un comune intendersi. Proprio in questa nostra ‘‘tendenza verso la bagattellizzazione del momento etico’’ dell’illecito penale — risolventesi nella negazione della sua essenza di violazione di un dovere-minimo di convivenza civile, e di cui l’indebita valorizzazione del risultato di per sé non è che un ‘‘sintomo’’ dottrinario — proprio in questa nostra inclinazione, tuttora così diffusa non solo in dottrina, ma spesso anche nella prassi (52), — e di cui sono da ravvisarsi in buona parte i germi di molti dei mali che, in misura maggiore o minore, ‘‘caratterizzano’’ la vita del nostro Paese, quali l’elusione delle norme assunta troppe volte a... sport nazionale, il crescente lassismo verso le regole fatto passare troppo spesso per ‘‘liberale’’ tolleranza, la perenne vocazione al compromesso, in quanto tale, troppo sovente senza remore o limitazioni (c.d. ‘‘inciucio’’), l’endemico fenomeno della mafia lato sensu, della corruzione (53), della scarsa efficienza, della superficialità, della disfunzione burocratica, e così via. Disfunzione burocratica e soprattutto giudiziaria, in cui i processi appaiono troppe volte destinati, attraverso le lungaggini dovute a ripetute ‘‘omissioni praeter legem’’, alla tappa finale della prescrizione, e le cui spesso fortunose sentenze di condanna — fatta salva qualche fase ‘‘sussultoria’’ — tendono a essere praticamente eluse o condizionate da una visione oramai disorientata dei compiti del magistero punitivo, a partire da uno jus puniendi, non più bene compreso, anzi malinteso, tanto che lo si tende vieppiù a mortificare o a eludere con l’accavallarsi di misure c.d. alternative, rectius, pseudo-esecutive. Si parla molto di ‘‘Stato sociale’’, dimenticando però che il primo accento dell’endiadi dovrebbe ricadere sul termine ‘‘Stato’’, e pertanto sul (52) Una reazione che — almeno sotto questo punto di vista — si dovrebbe poter sperare salutare è di recente avvenuta col già menzionato, ‘‘storico’’ evento della c.d. ‘‘tangentopoli’’ e delle c.d. ‘‘mani pulite’’. (53) È impressionante il risultato emerso da un recente sondaggio condotto da Datamedia (Corriere della sera, del 10 luglio 1998), secondo il quale soltanto il 10% su mille intervistati ritiene essere il reato di corruzione di una certa gravità, e, in seno a questo 10%, solo l’1,8% lo qualifica come ‘‘molto grave’’. Il che sta a dimostrare come l’impostazione dell’illecito penale in chiave di disvalore di evento abbia ben poco mordente nel caso di beni giuridici ‘‘impalpabili’’, ossia di così scarso contenuto materiale, come l’interesse statale all’imparzialità e al buon andamento della P.A. Ne è riprova una dichiarazione di Berlusconi in cui — appellandosi evidentemente a ciò che in termini tecnico-giuridici si definisce come ‘‘inoffensività del fatto tipico’’ — si sottolineava che i fatti a lui imputati non erano comunque punibili, per non avere essi ‘‘ danneggiato nessuno’’. Evidentemente, la lesione al bene può essere ‘‘sentita’’ solo in quanto passi attraverso la violazione della relativa ‘‘regola di condotta’’, vale a dire del dovere di imparzialità, di fedeltà, di probità, di correttezza, di riservatezza, più in breve, in relazione ‘‘inter homines’’.
— 1122 — concetto di autorità. Dovrebbe comunque essere chiaro che dove non c’è, o dove non arriva l’autorità dello Stato, con le sue autentiche regole di convivenza (leggi: ‘‘doveri’’ e non solo ‘‘diritti’’), regole non già mero frutto di una inesauribile inventiva (tanto nell’eseguire quanto nell’eludere), ma estratte soprattutto dalla ‘‘natura delle cose’’ e fatte recepire dall’individuo secondo una effettiva ‘‘etica della responsabilità’’ — vale a dire rispettosa non solo del valore in sé, ma altresì della norma posta a sua salvaguardia, e senza la quale il valore stesso difficilmente ottiene rispetto — dove un simile tipo di Stato non c’è o non arriva ad essere, allora non arriva né potrà mai arrivare, neppure un ‘‘sociale’’ autentico, degno di questo nome. 13. La ‘‘rimozione’’ del momento etico dell’illecito penale, la crisi della pena e le prospettive della c.d. ‘‘modernizzazione’’ del diritto penale. — Da ultimo mette conto ribadire che vi sono anche altre ragioni per rendere inaccettabile una ricostruzione del diritto penale in chiave puramente pragmatistica, nella quale le ‘‘classiche’’ coordinate valutative relative all’elemento soggettivo, alla colpevolezza e alla pena vengano sradicate da quello che è il quadro di origine in cui essi da sempre hanno trovato la loro profonda ragione d’essere. Esse trovano infatti il loro ineludibile fondamento in quel ‘‘complesso’’ intrapsichico, sia individuale che collettivo, nelle quali forze istintuali — quali l’Eros e il Thanatos — continuamente urgono verso l’esterno (oltre che, con maggiore evidenza psicopatologica, all’interno) e vanno di continuo controllate affinché non subentri il caos nella vita psichica, sia individuale che sociale. Prima ancora che una sanzione razionalmente e teleologicamente irrogata, la pena costituisce infatti un primordiale meccanismo di difesa intrapsichica a protezione dei nostri conflitti interiori, e conseguentemente a salvaguardia dal rischio che gli stessi equilibri intersoggettivi vengano infranti nella sfera sociale. I c.d. beni giuridici, almeno nel loro nucleo centrale, altro non sono che valori etico-sociali, individuali e collettivi, ai quali ciascuno di noi riconnette, al tempo stesso, ragione e possibilità di vita comune, a tutela di detti equilibri. Codesto humus etico su cui poggia la materia penalistica può essere sentito (e soppesato) non solo nei mala in se, ma altresì nei reati di mera creazione legislativa, e tra questi persino nelle semplici contravvenzioni: la violazione di una legge dello Stato diretta a salvaguardare le condizioni di una vita collettiva sicura ed efficiente deve comunque sollevare un sia pur minimo problema morale; se ciò non avviene non è ‘‘fisiologico’’ per la vita comune (54) (55). Quella parte della dottrina moderna, la quale mira decisamente, da un lato ad attribuire alla pena una valenza esclusivamente pragmatico-pre(54) Su ciò concorda in buona sostanza anche M. ROMANO, op. cit., p. 307. (55) Questo è il senso dell’asserto del Pontefice Pio XII nell’allocuzione rivolta al VI
— 1123 — ventiva, illudendosi di poterla facilmente sradicare dalla sua ineludibile radice retributiva, viene poi a trovarsi in insormontabili difficoltà allorché si tratta di giustificare dogmaticamente il concetto di colpevolezza (56). Semplicemente postulare la necessità di distinguere tra colpevolezza morale e colpevolezza giuridica non significa molto: tra i due concetti, rimane pur sempre un comune denominatore, costituito per l’appunto dalla parola ‘‘colpevolezza’’, la quale — sempre secondo la natura delle cose — sta a significare una categoria psichica in seno alla quale, lo si voglia o no, vive il centro etico dell’individuo. Se, come giustamente concordano i più (57), colpevolezza è sinonimo di riprovevolezza, occorre chiedersi allora: può esistere, agli effetti penali, una sorta di ‘‘rimprovero’’ esclusivamente giuridico, privo cioè di qualsivoglia valenza etica? In caso positivo, una eventuale entità logica del genere potrebbe realmente denominarsi un ‘‘rimprovero’’? E può esistere una ‘‘condanna’’ al carcere, sia essa a 1, a 3 o a 30 anni, a fronte la quale né dal giudice né dall’imputato venga sentita — o almeno debba essere sentita — la significazione etico-sociale che la sottende? Non va perso di vista che, in questa materia, non di res si tratta, bensì del destino umano e sociale di una persona. In secondo luogo, quando si crede di riuscire a legittimare la colpevolezza solo ‘‘grazie al suo rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventivo-rieducatrice’’ della pena, ci si è mai chiesti se non sia per caso in senso solo metaforico, o almeno poco appropriato, definire i delinquenti come dei soggetti ‘‘da rieducare’’, vale a dire dei ... ‘‘maleducati’’? Addirittura chiunque possieda un minimo di esperienza di problemi penitenziari potrebbe trovare la cosa al limite del ... grottesco! Se l’art. 27 della Costituzione, piuttosto che di ‘‘risocializzazione’’ preferisce usare un termine più eufemistico, quale ‘‘rieducazione’’, ciò non significa che chi si occupa, sul piano scientifico, di questa materia, non abbia il dovere di mettere in chiaro la vera realtà delle cose. Quanto ai modi, ai mezzi, ai tempi, ai procedimenti con cui una siffatta risocializzazione possa in concreto divenire attuabile, senza restare al livello di un puro wishful thinking (per la legge Gozzini vale, come si sa, l’equazione: Congresso internazionale di diritto penale, il 3 ottobre 1953: ‘‘This more profound understanding of punishment gives no less importance to the function of protection, stressed today, but it goes more to the heart of the matter. For it is concerned, not immediately with protecting the goods ensured by the law, but the very law itself. There is nothing more necessary for the national or international community than respect for the majesty of the law and the salutary thought that the law is also sacred and protected, so that whoever breaks it is punishable and will be punished’’. Questo è altresì il senso della c.d. ‘‘tolleranza zero’’ bandita dal sindaco Giuliani nella città di New York nei riguardi della microcriminalità. (56) A riguardo è sufficiente consultare le pagine che dedicano all’argomento FIANDACA-MUSCO, op. cit., pp. 268-282, nonché ROXIN, op. cit., p. 700 ss. (57) Tra questi, rappresentantivamente, anche i FIANDACA-MUSCO, op. cit., pp. 275 e 283.
— 1124 — ‘‘regolare condotta’’ = risocializzazione!) tutto questo è un grosso capitolo a sé. Basterà qui sottolineare che una colpevolezza penale riferita a dei soggetti semplicemente ‘‘maleducati’’ costituisce un solenne nonsense; avendosi a che fare — come ben si sa — con dei criminali, o, quanto meno, con dei ‘‘devianti’’ a livello delinquenziale. In terzo luogo, chi nutre vivaci speranze di poter legittimare la colpevolezza (e con essa la pena, che ne è la logica conseguenza!) in chiave esclusivamente general-preventiva, oltre a doversi chiedere per quale ragione sui soggetti che di fatto delinquono la minaccia della pena a nulla sia valsa, comprenderà anche come sia doveroso spiegare non solo alla dottrina, ma soprattutto a costoro la ragione per cui essi vengono puniti. E finirà per accorgersi che per i medesimi — i quali sono certamente i principali protagonisti — una spiegazione in chiave puramente generalpreventiva non sarà mai convincente, in quanto chiaramente non fa altro che strumentalizzarli, senza dare loro risposta alcuna (come già Kant aveva chiaramente percepito). Si ammette poi — sia pure obtorto collo — che non sarebbe possibile eliminare il requisito della colpevolezza perché altrimenti tanto varrebbe ‘‘punire’’ per la sola responsabilità oggettiva; sicchè essa colpevolezza fungerebbe da ‘‘argine garantistico’’ a presidio della libertà del privato di fronte a eventuali abusi statualistici. Il che è giusto, ma non ci si è chiesti se codesto ‘‘argine garantistico’’, questo ‘‘limite allo strapotere statuale’’ non sia per caso niente altro che l’inevitabile riflesso della natura etico-retributiva della pena, la quale esige una reale colpevolizzazione, essendo essa sola in grado di fornire una giustificazione all’azione repressiva dello Stato. Si ammette altresì che, per il raggiungimento degli scopi sia di prevenzione speciale (la cosiddetta ‘‘rieducazione’’ dei soggetti cosiddetti ‘‘maleducati’’) sia di quelli di deterrenza propri della prevenzione generale (c.d. negativa), occorre che la pena sia irrogata in misura ‘‘proporzionata’’ al reato. Non ci si è però accorti che questa ‘‘necessità’’ non è di natura contingente, ma ontologica. Invero, questo riconoscendo, non si è fatto altro che riconfermare la natura retributiva della pena, dal momento che la proporzionalità tra il fare (malum actionis) e il ricevere (malum passionis) altro non è che la caratteristica intrinseca, vale a dire l’essenza stessa compensativa e riequilibratrice della retribuzione (‘‘occhio per occhio’’...). Del resto non è senza significato che anche codesti moderni oppositori del contenuto retributivo della pena abbiano comunque cura costante di adoperare la parola ‘‘pena’’, che nei dizionari è, e rimane sinonimo di ‘‘castigo’’. Ed anche quando si ricorre a termini più generici o anodini, quali ‘‘sanzione’’, ‘‘misura’’ si è subito costretti, a scanso di equivoci, di aggiungere ad essi l’aggettivo ‘‘penale’’. Sta di fatto che è ormai di tutta evidenza come non solo in tema di eziologia criminale, ma altresì riguardo alla funzione politico-criminale
— 1125 — della pena domini oggi la massima confusione di idee e di nozioni, accompagnata da una impressionante improvvisazione dilettantistica, nonché ‘‘schizzofrenica’’, ora repressiva e ora abolizionistica (legge Gozzini, legge Simeone-Saracini, e via dicendo) in campo legislativo. In dottrina, dopo l’assalto alla concezione retributiva, si va osteggiando da più parti anche quella general-preventivo-intimidatrice. Si è così giunti a sostenere che esiste un altro concetto di prevenzione generale, c.d. positiva o integratrice, in quanto il risultato della irrogazione della pena sarebbe il consolidamento della fiducia dei cittadini nello Stato e della coscienza giuridica. Ma non ci si è accorti che proprio questo è invece il risultato della retribuzione, ed è ciò che sono andati dicendo per secoli i grandi pensatori, sostenitori della pena retributiva, e la stessa Chiesa cattolica, che ne mantiene intatta la valenza anche nel suo attuale Catechismo (nn. 2266 e 2267, ed. 1992 e 1997) (58). Quindi: non è la prevenzione generale, bensì la retribuzione rettamente intesa a svolgere (58) Si erano già espressi, approfonditamente, a favore della pena in senso retributivo, oltre all’attuale pontefice Giovanni Paolo II nell’Enciclica ‘‘Evangelium Vitae’’ (§ 56, 1995), anche — come si è rilevato — papa Pio XII in due allocuzioni (al VI Congresso internazionale di diritto penale, il 3 ottobre 1953 e al VI Congresso nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 2-5 dicembre 1954). Stupisce quindi come i critici della retribuzione, di parte cattolica, sottovalutino, fino a sottacere, tali ripetute e anche recenti riaffermazioni del principio de quo da parte della più alta autorità della Chiesa, che costituisce al tempo stesso la più sicura garanzia di ortodossia. Ancor di più stupisce la alacre disinvoltura con cui alcuni giovani studiosi cattolici — pur valorosi e animati dal miglior zelo conoscitivo — non hanno remore nel porre in discussione e financo contestare (spesso basandosi su analisi puramente linguistico-esegetiche, dimentiche della ratio, ossia dello spirito animatore del disposto) lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, documento di altissimo livello, coerente risultanza del Concilio vaticano II. Nella Costituzione apostolica con cui Giovanni Paolo II, in data 11 ottobre 1992, ne ordinava la pubblicazione, così i dichiarava testualmente al § 4: ‘‘... è un’esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, della Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa. Io lo riconosco come strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede’’. Quando si giunge ad affermare che il principio retributivo, negativamente inteso, sarebbe ‘‘estraneo’’ alla vera immagine di Dio e del suo messaggio di fondo sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo (KOCH, Um das Prinzip der Vergeltung in Religion und Recht des Alten Testament, 1972; WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, trad. it. di Eusebi, 1987), si dice cosa su cui si può forse giungere ad acconsentire, ma non senza qualche perplessità, per la presenza non di rado di passi contrastanti (basta pensare al dogma del giudizio finale che è materia di fede, contenuto nel ‘‘Credo’’). Ma si è in errore se si ritiene che la concezione retributiva — qual è certamente rinvenibile in vari passi della Bibbia — sia storicamente insorta ed abbia trovato alimento solo accidentalmente, e che la diffusa opinione della sua ‘‘centralità’’ in essa sia ascrivibile solo ad una falsa traduzione o interpretazione di certe parole fondamentali ebraiche, come Sedaka, paqad, shillem, etc. (una pregnante critica a codesta concezione del Wiesnet trovasi in LATTUADA, p. 188 s., nota 11, proprio nella raccolta Colpa e pena? 1998 curata dallo stesso Eusebi). La pulsione reattiva al male ricevuto è già nella natura umana, ed è antica quanto il mondo, senza bisogno alcuno di trovare conferma nelle Sacre Scritture e tanto meno nel pensiero di filosofi, a torto consi-
— 1126 — l’auspicata funzione integratrice! Certo attraverso la retribuzione si realizzano anche risultati (e non ‘‘finalità’’) di natura preventivo-generale. Ma si tratta di ‘‘effetti indotti’’. A chi ben guardi, la vera ragione della fiera, quanto irrazionale, resistenza che si va sollevando da buona parte della dottrina contro l’accettaderati come i grandi fautori del principio, quali Kant ed Hegel, essendo stata invece da millenni ‘‘communis opinio’’ del senso della giustizia. Si ha piuttosto il sospetto che autori come quelli sopra citati (ai quali va aggiunto lo stesso Eusebi, in diversi scritti, tra cui Cristianesimo e retribuzione penale, in questa Rivista, 1987, p. 275 ss.) si lascino trasportare da una visione non solo piuttosto edulcorata, ma addirittura eterodossa, di stampo che oseremmo dire ‘‘modernistico’’, se non addirittura pelagiano, di dogmi e problematiche fondamentali quali quelle relative alla caduta derivante dal peccato originale, alla necessità della grazia salvifica, al significato espiativo della Redenzione attraverso la morte sulla croce. Addirittura, problemi quello della teodicea, della predestinazione alla salvezza riservata gratuitamente ai soli eletti e accolta dall’ortodossia, e quello soterologico dei rapporti tra grazia e libertà — problemi teologico-psicologici mai sopiti, e di strettissima attinenza in materia di delitti e di relativa pena — appaiono del tutto rimossi, proprio a detrimento di una corretta soluzione del problema in chiave teologica. Forse una rilettura degli scritti dottrinari di Agostino sulla ‘‘Città di Dio’’, o di quelli contro le eresie pelagiane e semipelagiane, potrebbe risultare giovevole a riguardo assai più che il rilievo di qualche sua casuale lettera, impregnata di sentimenti di compassione (riportata da Wiesnet, op. cit., p. 141 s.) per casi specifici. Ma basterebbe ricordare che pur altissimi messaggi etico-religiosi a livello individuale — quali ‘‘non giudicate’’, ‘‘porgete l’altra guancia’’, ‘‘ama i propri nemici’’, e via dicendo — non hanno nulla a che vedere con la logica della convivenza in seno all’ordinamento giuridico di uno Stato (v. in tal senso anche RICCA, in Colpa e pena, cit., p. 158: accettare [di non retribuire] significherebbe [...] l’autodissoluzione, [...] il suicidio istituzionale’’. Tanto meno lo hanno concetti subliminativi come ‘‘presa in cura’’ (Fürsorge) proposto da Karl Barth o ‘‘riconciliazione’’ (Wiesnet) al posto di ‘‘retribuzione’’. La verità è che la concezione di Cristo come ‘‘Agnus Dei qui tollit peccata mundi’’ espiatore — e quindi ‘‘retributore’’ — colla propria morte sulla croce, del peccato originale — invano negato dall’eresia pelagiana — è comune all’intera tradizione cristiana, non solo cattolica, ma altresì ortodossa e protestante. Non servono particolari ricerche per trovarne sia il fondamento che la sintesi: basta leggere, con la dovuta attenzione, quella ‘‘Epistola ai romani’’ di San Paolo, la quale costituisce in certo qual modo la ‘‘Magna Charta’’ della dottrina cristiana. Lo scritto di Sant’Anselmo ‘‘Cur Deus homo’’ — criticamente segnalato dall’Eusebi, op. cit., p. 282 — altro non è che una chiara enunciazione di principi che, a partire da detta Epistola, furono energicamente ribaditi da Sant’Agostino e da tutta una serie di Concilii, fino ai nostri giorni, e che non vengono sostanzialmente negati dai moderni teologi, come al protestante Barth o il cattolico Rahnez e tanto meno dal Catechismo ufficiale. Pertanto asserire che la retribuzione sarebbe incompatibile con la visione cristiana — che indubbiamente è alto messaggio di amore, ma altresì modello di riscatto e istanza di giustizia e di giustificazione — costituisce una tesi non solo insostenibile, ma in aperto contrasto con l’ortodossia (energicamente ribadita, tra l’altro, dall’Enciclica ‘‘Pascendi’’ di Pio X ai primi di questo secolo, anche su di una siffatta problematica). Tra le immense pagine delle SS. Scritture non è affatto difficile rinvenire conferme della validità del nostro assunto. A titolo di esempio, semplice quanto eloquente, si rifletta sul famoso avvertimento di Cristo: « È più facile per un cammello entrare nella cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei Cieli ». Ebbene su quale altro principio si basa cotale monito che non sia quello della pena retributivamente intesa espressione della giustizia divina, la quale nega la salvezza e la vita eterna a coloro che hanno dimostrato pervicacia nella via del peccato? Ce ne dà conferma, tra i tanti, Paolo, in 2 Cor. 5.10: « Dobbiamo tutti
— 1127 — zione del tradizionale principio retributivo risiede in un equivoco di fondo, se non addirittura in una confusione metodologica tra le fasi della comminazione e dell’irrogazione della pena (= condanna) e quella c.d. esecutiva. Quest’ultima dovrebbe essere nella pratica ben distinta dalle prime due, sia nello spirito che nella sua effettiva applicazione. È su questo momento che devono concentrarsi gli sforzi di trattamento e di risocializzazione che il progresso della civiltà ha ben giustamente posto alla ribalta del problema della criminalità. Occorre insomma che la fase temporale dalla legge destinata all’applicazione della pena venga in pratica condotta col minimo di afflizione possibile — afflizione peraltro insita nella stessa privazione o limitazione della libertà, derivante dalla necessità della detenzione — e col massimo di finalizzazione positiva nei confronti del soggetto, e sia del tutto aliena da residui di una insana ritorsione vendicativa. Invece di seguire codesta strada obbligata, la quale è suggerita dal buon senso, ancor prima che dalla natura delle cose, si va parlando in varie direzioni, non solo di ‘‘modernizzazione del diritto penale’’ — e questo passi — ma addirittura di ‘‘perdita di legittimazione del diritto penale (59), di ‘‘ricerca delle pene perdute’’ (60), di ‘‘autunno del Patriarca’’ (61), e via dicendo. Certo è che con la collettiva ‘‘trahison des clercs’’ che da ogni parte va sorgendo, il senso del magistero penale ha perduto ed è destinato ancora a perdere buona parte della sua ‘‘mitologia’’ di facciata. Ma ci si tranquillizzi a riguardo: non saranno mai i filosofemi di un Luhmann, di un Lacey, o di un Garland o di uno Habermas a rinvigorire o, viceversa, a indebolire la fede collettiva nella necessità della pena e di un sistema punitivo. Queste si reggono, e assai bene, di vita propria, anche se certi docenti di diritto penale, nella quiete dei loro Schreibtischen, credono troppo facilmente di poterli fare magicamente apparire o disapparire ad libitum. Si reggono purtroppo sulla amara realtà. Anche perché permissivismo, indulgenzialismo o lassismo debbono comunque pur avere un limite, e in extremis lo troveranno, se non altro, nel sano istinto collettivo di sopravvivenza; a meno che non si voglia continuare all’infinito ad avvolgerci in una eterna camicia di Nesso, che altro non è se non una forma di inconscio e inconcludente masochismo collettivo. Se poi per ‘‘autunno del Patriarca’’ si intende il tramonto di una certa impostazione teorico-dogmatica del diritto penale cosiddetta ‘‘classica’’, comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione delle cose fatte quando era nel corpo, secondo quel che avrà operato, o bene o male ». (59) FIANDACA-MUSCO, in questa Rivista, 1994, p. 23 ss. (60) ZAFFARONI, En busca de las penas perdidas, 1989: si tratta di uno scritto sconcertante, nel quale l’illustre autore segna la sua ‘‘abiuria’’ da ogni tecnicismo giuridico, nonché dal dogmatismo tradizionale. (61) PALIERO, in questa Rivista, p. 1220 ss., il cui sottotitolo ‘‘rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?’’ è quanto mai eloquente.
— 1128 — di germanico conio, belinghiano o welzeliano che sia, nulla quaestio. Pánta rhéi! Gli schemi teorici servono alle finalità pratiche del momento storico. E anche il teutonico Tatbestandsfetischismus potrebbe pure incontrare un giorno il principio di ragionevolezza. Del resto non è difficile ammettere che in seno a dottrina e giurisprudenza delle aree francofone o anglofone, pur ignorando assai spesso perfino i nomi di un Beling o di un von Liszt, e rispettiva concettuologia dogmatica, nondimeno non risulta che si ‘‘faccia’’ del diritto penale in modo peggiore del nostro. Ma se per ‘‘Patriarca’’ si volesse invece intendere l’indissolubile trinomio, inciso nella vita sia individuale che collettiva: Torto + Colpa = Pena, e se ne prevedesse, per avventura, il tracollo, allora il discorso cambierebbe completamente. Codesto Patriarca, sia ben chiaro, non si scompone. Egli sa bene di essere l’intramontabile compagno dell’Umanità, a tutela del fondamentale principio neminem laedere, al tempo stesso indissolubilmente etico e giuridico, senza il quale non è neppure concepibile il faticoso procedere, pur attraverso inevitabili errori e distorsioni, della vita collettiva. Certo la fenomenologia di una parte marginale dei reati cambierà volto, ma il Patriarca non mancherà di percepirlo, e ‘‘opererà’’ di conseguenza, di solito provvedendo per ‘‘gemmazione’’ a produrre nuove fattispecie, procedendo dal grande e indistruttibile ‘‘tronco’’ che ben conosciamo, perché è quello stesso sul quale i giuristi da secoli — oseremmo dire da sempre — hanno lavorato. Un albero ‘‘appare’’ dal fogliame, ma si regge e vive sulle radici. Il discorso cambia però radicalmente, fino a invertirsi, se il vero significato di siffatte sovversioni fosse invece quello di abolire il sistema penale della ‘‘reazione’’ (c.d. Sanktionsrecht) per costituire al suo posto un qualche cosa di totalitariamente preventivo, ossia il c.d. soziales Interventionsrecht (Lüderssen, Hassemer, etc.), traducibile all’incirca come diritto dell’interventismo sociale. Certo avremmo qualcosa di ‘‘più nuovo’’ del vecchio Patriarca, ma anche di assai più ‘‘frizzante’’, e, in ogni caso, qualcosa di assai più imprevedibile, arbitrario e, diciamolo pure, di « totalitario ». Se così fosse, saremmo però di già entrati, senza accorgersene, nell’ultimo grande romanzo di Orwell! Giunti a questo punto non rimarrebbe più spazio né per una dogmatica costruttiva, né per una meno ambiziosa ars boni et aequi, e tanto meno per le consuete preoccupazioni garantistiche, ma solo si aprirebbero nuovi orizzonti alla letteratura, se non addirittura alla fiction. E, per dirla con Wittgenstein, per il giurista, il quale non possa o non debba più parlare, sarebbe finalmente giunto il momento di ... tacere! ELIO MORSELLI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Perugia
IL DIRITTO AL SILENZIO DELL’IMPUTATO SUL FATTO PROPRIO E SUL FATTO ALTRUI (*)
SOMMARIO: 1. Il diritto al silenzio dell’imputato nel processo penale. — 2. Rifiuto di collaborazione ed esigenze cautelari. — 3. Esercizio del diritto al silenzio ed esclusione di ricadute negative sulla posizione processuale dell’imputato. — 4. Possibile incidenza della scelta di collaborazione in ordine alla valutazione del quadro cautelare. — 5. Il problema del contenuto del diritto al silenzio rispetto al rischio dell’autoincriminazione. — 6. L’esigenza di distinguere tra garanzia del silenzio sul fatto proprio e sul fatto altrui. — 7. Meccanismi di tutela dell’imputato nel caso di dichiarazioni autoindizianti rese sul tema dell’altrui responsabilità. — 8. L’art. 513 comma 1o c.p.p. come ipotesi di tutela generica del diritto al silenzio dell’imputato nel proprio procedimento sul contenuto delle sue precedenti dichiarazioni. — 9. L’art. 513 comma 2o c.p.p. come ipotesi di tutela del diritto al silenzio dell’imputato nel separato procedimento connesso sul contenuto delle sue precedenti dichiarazioni relative al fatto altrui. — 10. Alcune proposte per il superamento delle ambiguità insite nell’attuale disciplina di tutela indifferenziata del diritto al silenzio (artt. 210 e 513 c.p.p.). — 11. La prospettiva del riconoscimento all’imputato dichiarante della veste testimoniale limitatamente all’oggetto delle precedenti dichiarazioni sul fatto altrui. — 12. Necessità di un equilibrato bilanciamento tra diritto al silenzio dell’imputato dichiarante, diritto al contraddittorio degli altri imputati ed esigenze di funzionalità del processo.
1. Quello del diritto al silenzio dell’imputato rappresenta uno dei temi più classici nella teoria generale del processo penale. Ed è anche uno dei temi rispetto ai quali — per quanto attiene alla concreta disciplina legislativa — risulta determinante la scelta di fondo operata da ogni sistema circa la posizione del soggetto sottoposto a procedimento penale di fronte all’autorità procedente, sotto il particolare profilo dei poteri esercitabili da quest’ultima in ordine alle opzioni (di parlare o di tacere) del primo. Che è, a sua volta, il riflesso dell’ancora più generale scelta tra concezione autoritaria e concezione liberale del processo: con significative ripercussioni, tra l’altro, sul terreno della libertà personale dell’imputato, come si è già avuto modo di illustrare in altra sede (cfr. Pol. dir., 1994, p. 531 s.). Al riguardo, per quanto semplicistiche possano essere certe distinzioni rispetto alla complessità dell’esperienza storica e comparatistica, converrà quanto meno ricordare che alla previsione (tipica del modello (*) Relazione presentata all’incontro su ‘‘Le risposte penali all’illegalità’’, organizzato dall’Accademia nazionale dei Lincei e dal Consiglio nazionale delle ricerche (Roma, 2 aprile 1998).
— 1130 — processuale inquisitorio) di un obbligo di parlare, e di dire la verità, in capo alla persona sottoposta ad interrogatorio, corrisponde tradizionalmente il potere dell’organo inquirente di usare anche gli strumenti coercitivi allo scopo di provocarne la confessione, fino all’impiego del carcere secondo l’antico canone che lo qualificava come species torturae. Mentre, d’altro lato, nei sistemi che riconoscono all’imputato il diritto di tacere e di rifiutare ogni collaborazione sul piano probatorio, a questa previsione (tipica del modello processuale accusatorio) corrisponde tradizionalmente una disciplina delle misure coercitive tale da escludere che, tra le finalità legittime delle stesse, possa esservi anche quella di ottenere dichiarazioni di natura confessoria. Sul punto la scelta di campo compiuta dal nostro codice (come già, del resto, dal codice abrogato, a partire dalla l. 5 dicembre 1969, n. 932, che aveva inserito un nuovo 3o comma nell’allora vigente art. 78 c.p.p.) appare univoca e precisa, nel senso di riconoscere all’imputato, oltreché alla persona sottoposta alle indagini preliminari (cui l’art. 61 c.p.p. estende i diritti e le garanzie spettanti al primo), un vero e proprio diritto al silenzio nei rapporti con l’autorità procedente. Questo diritto si esprime, com’è noto, attraverso l’esplicita attribuzione all’interrogato — tra le regole generali fissate per l’interrogatorio — della facoltà di non rispondere, rafforzata dal correlativo diritto ad essere avvertito della sussistenza di tale facoltà, salva l’ulteriore precisazione che, in ogni caso, il procedimento ‘‘seguirà il suo corso’’ (artt. 64 comma 3o e 65 comma 3o c.p.p.). E tali regole, espressamente richiamate ex art. 350 comma 1o c.p.p. in tema di sommarie informazioni di polizia, valgono per ogni specie di interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e, successivamente, dell’imputato: sia di fronte al pubblico ministero (ad esempio ai sensi degli artt. 294 comma 6o, 364 e 388 c.p.p.) sia di fronte al giudice per le indagini preliminari (ad esempio ai sensi degli artt. 294 comma 4o, 299 comma 3o-ter, 301 comma 2o-ter, 302 e 391 c.p.p.), sia in sede di udienza preliminare (artt. 421 comma 2o e 422 comma 3o c.p.p.). Le medesime regole, ulteriormente recepite dall’art. 210 comma 4o c.p.p. in relazione all’esame di persone imputate in un separato procedimento connesso, rispetto alle quali esiste una corrispondente esigenza di tutela del diritto al silenzio — salvo quanto si dirà tra breve circa i contenuti di tale diritto — devono poi applicarsi anche nel corso degli interrogatori cui le medesime persone possono essere sottoposte dal pubblico ministero ex art. 363 c.p.p. ovvero dal giudice nell’ambito dell’udienza preliminare ex art. 422 c.p.p. (nonché, a quanto pare, sebbene nulla si dica di specifico, nel corso delle sommarie informazioni di polizia previste dall’art. 351 comma 1o-bis c.p.p.). Si tratta, evidentemente, di una forma di garanzia indiretta del medesimo diritto nei confronti di queste persone, con riferimento alla possibile ricaduta delle loro eventuali dichiarazioni all’interno
— 1131 — del separato procedimento nel quale assumano la veste di imputato, in forza dei meccanismi previsti dall’art. 238 c.p.p. Una forma di tutela anticipata del diritto al silenzio, rispetto al momento tipico dell’interrogatorio, deve ravvisarsi, infine, nella disciplina dettata dall’art. 63 c.p.p. con riguardo all’ipotesi delle dichiarazioni indizianti rese dinanzi agli organi inquirenti da un soggetto che non venga sentito in qualità di imputato né di persona sottoposta alle indagini. Gli adempimenti imposti in situazioni del genere all’autorità procedente, volti a rendere edotto quel soggetto degli indizi emersi a suo carico, e soprattutto la regola di inutilizzabilità contra reum dettata a proposito delle suddette dichiarazioni, in quanto rese dal dichiarante prima di aver assunto consapevolezza della propria mutata posizione processuale, lasciano chiaramente intendere come il legislatore abbia voluto impedire qualunque tentativo di aggiramento dello ius tacendi spettante anche a tali soggetti. E, d’altra parte, in analoga prospettiva di ulteriore anticipazione della medesima garanzia si colloca anche la previsione dell’art. 198 comma 2o c.p.p. (richiamata dagli artt. 351 comma 1o e 362 c.p.p.), là dove si stabilisce che il testimone ‘‘non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale’’. 2. Tornando all’interrogatorio come sede tipica del rapporto dialettico tra l’autorità procedente e l’imputato (al quale d’ora in poi si farà riferimento per comprendervi, salvo diversa indicazione, anche la persona sottoposta alle indagini), non c’è dubbio che quello relativo alla facoltà di non rispondere riconosciuta al soggetto interrogato sia un vero e proprio diritto, ricollegabile nel quadro costituzionale all’esplicazione del diritto di autodifesa, sotto il particolare profilo della non collaborazione (art. 24 comma 2o Cost.), e radicato nella presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2o Cost.). Sullo sfondo si colloca la tematica che negli ordinamenti di stampo anglosassone viene ricondotta alla garanzia contro la self-incrimination (di cui è traccia espressa nell’art. 14 comma 3o lett. g Patto int. diritti civili e politici, dov’è sancito il diritto dell’accusato ‘‘a non essere costretto a deporre contro se stesso od a confessarsi colpevole’’), e che, nel nostro linguaggio, si esprime più tradizionalmente attraverso la formula nemo tenetur se detegere. Il tutto sul presupposto — meritevole di essere sottolineato, per quanto ovvio — della piena libertà morale della persona sottoposta ad interrogatorio: tanto è vero che proprio in questa prospettiva l’art. 64 comma 2o c.p.p. si preoccupa di stabilire che ‘‘non possono essere utilizzati’’, neppure con il consenso della medesima, ‘‘metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti’’. Essendo configurato dalla legge come espressione di un vero e pro-
— 1132 — prio diritto, ne discende che l’esercizio della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio non potrà mai tradursi in un pregiudizio per la persona che se ne sia avvalsa. In particolare, è da escludere che dall’esercizio di tale facoltà possano farsi discendere conseguenze contra reum: non solo sul piano della decisione di merito (per esempio ricavandone argomenti probatori a carico, ovvero indizi di colpevolezza, od anche soltanto fattori valutabili negativamente ex art. 133 c.p.), ma nemmeno sul piano dei provvedimenti di natura cautelare (per esempio in rapporto all’integrazione del presupposto del fumus commissi delicti previsto dall’art. 273 c.p.p., ovvero delle esigenze cautelari richieste ex art. 274 c.p.p.). Il discorso è diverso, ma esula da questa sede, nel caso in cui l’imputato si rifiuti di rispondere ad una o più domande nel corso dell’esame dibattimentale. In tal caso l’imputato ha consentito ad essere esaminato, pur potendo legittimamente sottrarsi a questa particolare procedura probatoria, con ciò rinunciando in sostanza a farsi scudo del diritto al silenzio ed accettando, invece, la logica dell’escussione diretta ad opera delle parti. Dopo di che, sebbene nulla possa ovviamente impedirgli, in concreto, di tacere rispetto ad alcune delle domande rivoltegli, non sembra dubbio che dal relativo rifiuto di rispondere (da verbalizzarsi, ai sensi dell’art. 209 comma 2o c.p.p.) possano desumersi elementi idonei ad essere valutati, sul piano probatorio, anche a suo carico. A parte quest’ultima precisazione, e cercando di circoscrivere il tema agli aspetti che qui maggiormente interessano, una prospettiva di particolare rilievo è quella offerta dall’incrocio tra le norme dettate a tutela del diritto al silenzio e quelle dirette a disciplinare i presupposti delle misure cautelari personali. Anche perché non è difficile ricavarne un punto fermo circa la finalità di queste ultime. In particolare, appare fuori discussione che nessuna misura cautelare possa venire disposta allo scopo di ottenere coattivamente la presenza dell’imputato al compimento di atti che ne presuppongano la partecipazione attiva (per esempio, attraverso dichiarazioni). E di qui discende che, a maggior ragione, nessuna misura potrà venire disposta, o mantenuta, allo scopo di conseguire, o comunque di sollecitare, la confessione dell’imputato contro la sua volontà. In questo senso, l’itinerario che ha condotto alla formulazione dell’art. 274 lett. a c.p.p. (sulla falsariga, del resto, delle direttive contenute nell’art. 2 n. 59 della legge delega) appare trasparente, ed è confermato dai lavori preparatori, dai quali risulta con chiarezza l’intento di circoscrivere la tradizionale ‘‘finalità istruttoria’’ delle misure cautelari al solo scopo di evitare il rischio dell’inquinamento probatorio. Più precisamente, nella Relazione al progetto preliminare del codice (1988) si è voluto porre in risalto che la sussistenza di ‘‘inderogabili esigenze attinenti alle indagini’’ (questa è la formula già impiegata dalla legge delega) in tanto acquista rilevanza sul terreno cautelare, quale presupposto per l’applicazione di
— 1133 — una misura a norma dell’art. 274 lett. a c.p.p., in quanto si tratti di fronteggiare situazioni di concreto pericolo ‘‘per l’acquisizione o la genuinità della prova’’. Non anche, invece, quando l’esigenza sarebbe quella di impedire che l’imputato si sottragga al compimento di specifici atti di natura probatoria; tanto è vero che, proprio a questo scopo, è stato di proposito escluso qualunque collegamento delle misure cautelari alla finalità del ‘‘compimento di atti determinati’’. Quest’ultima esigenza non è, ovviamente, ignorata dal legislatore, che però mira a soddisfarla per altra via: non facendo leva sullo strumento cautelare, bensì attraverso il ricorso all’istituto dell’accompagnamento coattivo, nelle forme e con i limiti di esercizio del potere coercitivo così finalizzato risultanti dagli artt. 132 e 376 c.p.p. Il quadro sistematico definito da queste previsioni è apparso di tale chiarezza, che nell’art. 274 c.p.p. non si è ritenuto di inserire (come pure era stato proposto) una formula analoga a quella a suo tempo accolta nell’art. 278 comma 3o del progetto preliminare del 1978, dov’era stato precisato che nessuna misura cautelare potesse venire disposta ‘‘al fine di ottenere la presenza dell’imputato ad atti diretti ad assumerne le dichiarazioni’’. Una precisazione del genere è apparsa superflua rispetto all’odierno contesto normativo e, d’altra parte, la Relazione al progetto preliminare del 1988 è esplicita nello stesso senso: specialmente là dove sottolinea che nel codice si è voluto ‘‘escludere rigorosamente ogni strumentalizzazione delle misure cautelari — ed in particolare della custodia cautelare — a finalità di stimolo ad una partecipazione attiva dell’imputato alla formazione del materiale probatorio’’, intendendosi così a maggior ragione ‘‘escludere nel modo più assoluto un’utilizzazione delle cautele a scopi, più o meno direttamente, estorsivi di confessioni’’. Il tutto, ove ciò non bastasse — come si preoccupa di aggiungere la medesima Relazione — sulla base dell’unanine convincimento relativo alla ‘‘inammissibilità’’, nel sistema del codice, di una ‘‘strumentalizzazione ‘confessoria’ delle cautele’’. 3. Se questo è un punto fermo dell’attuale codice (in coerenza con la sua ispirazione accusatoria, che non tollererebbe un uso delle misure cautelari per indurre l’imputato a confessare) ne risulta confermato, a maggior ragione, che il rifiuto dello stesso imputato di collaborare, attraverso l’esercizio del diritto al silenzio, non può mai costituire una circostanza idonea a giustificare il suo assoggettamento ad alcuna delle suddette misure, e tanto meno alla custodia in carcere. In altri termini, da una simile scelta dell’imputato il giudice non è legittimato a far discendere alcun elemento tale da assumere rilevanza né ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, né ai fini del mantenimento (rectius, del diniego della revoca) della medesima, una volta che sia stata applicata. E, del re-
— 1134 — sto, al di là dell’ovvio rilievo per cui l’esercizio di un diritto processuale non può mai produrre conseguenze negative a carico di chi se ne sia avvalso, è agevole constatare che il silenzio dell’imputato di fronte all’autorità interrogante non appare di per sé sufficiente ad integrare in concreto nessuna di quelle esigenze cautelari, in presenza delle quali soltanto l’art. 274 c.p.p. ammette la restrizione della libertà personale dell’imputato. Alla luce di quanto precede, appare decisamente superflua (ed anzi fuori luogo, perché controproducente nel quadro del sistema) la disposizione interpolata dall’art. 3 comma 1o l. 8 agosto 1995, n. 332 nell’art. 274 lett. a c.p.p., là dov’è precisato, con movenza vistosamente pedagogica, che le situazioni di ‘‘pericolo’’ ivi descritte ‘‘non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti’’. In realtà, non c’era alcun bisogno di esplicitare una precisazione del genere, essendo pacifico, per quanto si è detto, che l’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato (nelle sue diverse possibili articolazioni) non può mai essere assunto quale elemento idoneo ad esprimere una valenza contra reum ai fini dell’accertamento delle esigenze cautelari necessarie per l’adozione di una misura limitatrice della libertà personale. Proprio perciò questa maldestra interpolazione risulta non solo inutile, ma — per il fatto obiettivo di essere stata operata — potrebbe risultare anche foriera di un pericoloso effetto boomerang rispetto alle stesse intenzioni del legislatore del 1995. Infatti la circostanza che, pur non essendo necessaria, la suddetta precisazione sia stata inserita nel tessuto del codice, ed esclusivamente all’interno dell’art. 274 lett. a, potrebbe addirittura aprire il varco ad un’interpretazione fondata sul brocardo per cui ubi lex voluit, dixit. Nel senso, cioè, di indurre a ritenere che, non essendo stata ripetuta identica precisazione in rapporto alle altre ipotesi di ‘‘pericolo’’ considerate nelle lett. b e c del medesimo art. 274 c.p.p., l’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato potrebbe acquistare valore sintomatico ai fini dell’accertamento delle esigenze cautelari previste da tali ultime disposizioni. Sebbene non priva di qualche suggestione sul piano della mera esegesi, è questa una conclusione che deve essere decisamente respinta, perché in contrasto con i già richiamati princìpi generali in materia di garanzia del diritto al silenzio. E tuttavia il rilievo che, sia pure in linea astratta, la questione possa porsi, dimostra quanto rischino di essere fuorvianti certi interventi normativi poco meditati, e diretti soltanto a lanciare messaggi di contenuto politico, senza alcuna preoccupazione di coordinamento con il contesto complessivo del sistema. 4. Tornando, per l’appunto, alle scelte fondamentali del nostro processo penale, dev’essere ormai chiaro che nessuno può essere legittima-
— 1135 — mente sottoposto ad una misura cautelare (né, tanto meno, alla custodia in carcere) per il solo fatto del rifiuto di rispondere manifestato in sede di interrogatorio, qualora non sussista aliunde alcuna delle esigenze cautelari richieste dalla legge. Ma qui bisogna aggiungere che, secondo un parametro eguale e contrario, nessuna misura potrà essere revocata per il solo fatto che la persona ad essa sottoposta abbia reso confessione, o comunque collaborato con gli organi inquirenti, qualora continuino a sussistere le esigenze cautelari accertate all’epoca della sua adozione. Ciò vale, in via generale, per qualunque misura cautelare, e quindi deve anche valere, a più forte ragione, per la più grave di tali misure, cioè per la custodia carceraria. Va ribadito, dunque, che non è correttamente ravvisabile nel sistema alcuna diretta correlazione tra quest’ultima misura ed il comportamento tenuto dall’imputato sul terreno del diritto al silenzio. Più precisamente, la custodia in carcere, come ogni altra misura cautelare, dipende da presupposti ben definiti sotto il profilo del periculum libertatis, tra i quali non rientra in alcun modo la circostanza del rifiuto di rispondere (e, quindi, della mancata confessione) opposto dall’imputato nel pieno esercizio del suo diritto. Per converso, la circostanza che l’imputato non si sia avvalso di tale diritto (ed anzi, in ipotesi, abbia reso ampia confessione) non è di per sé idonea a configurarsi come elemento negativo di quei presupposti cautelari: i quali possono benissimo continuare a sussistere nella loro concretezza, legittimando con ciò la permanenza della misura carceraria, anche quando l’imputato abbia assunto un atteggiamento collaborativo nei confronti dell’autorità precedente. Tutto ciò non esclude, peraltro, che, in concreto, il fatto della confessione possa acquistare una sua specifica e molto consistente incidenza sulla valutazione del periculum libertatis che deve essere accertato, caso per caso, ai fini dell’applicazione o del mantenimento della misura cautelare. Questa possibilità di incidenza della confessione sul quadro cautelare non può essere negata, ed il suo apprezzamento rientra, ovviamente, nella sfera degli accertamenti rimessi al pubblico ministero nel momento della richiesta, ed al giudice nel momento della decisione, in ordine alla sussistenza dei presupposti della misura stessa. È vero, in particolare, com’è confermato anche da non isolate esperienze giudiziarie, che la circostanza della sopravvenuta confessione può concretamente influire nel senso dell’attenuazione, ed anche della vanificazione, di determinate situazioni di periculum libertatis già in precedenza accertate (si pensi, soprattutto, alle situazioni descritte nell’art. 274 lett. a e c c.p.p.), con il risultato di creare le premesse per la sostituzione, se non addirittura per la revoca, della misura applicata. Per converso, continua a non essere vera la proposizione reciproca, dal momento che il rifiuto della confessione, costituendo esercizio del diritto al silenzio, in quanto tale non può mai essere assunto ad elemento integrante di un periculum liber-
— 1136 — tatis che invece deve sussistere, ed essere accertato, indipendentemente dalla scelta di non collaborazione manifestata dall’imputato. In altri termini, la configurazione di quest’ultima scelta come espressione dell’esercizio di un vero e proprio diritto, con tutte le conseguenze che ne discendono, fa sì che non possa esservi contraddizione tra le due conclusioni che si sono delineate, per la verità solo in apparenza antitetiche. Ed infatti l’affermazione secondo cui, da un canto, il rifiuto dell’imputato di confessare non può mai essere considerato sintomatico di alcuna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p., non esclude, dall’altro, che l’eventuale condotta confessoria possa essere idonea ad influire sulla concreta situazione cautelare, fino al punto da far venir meno le esigenze poste a base della misura adottata. 5. Quanto al contenuto del diritto al silenzio, si deve prender atto che esso viene riconosciuto all’imputato senza introdurre differenze a seconda che si tratti del ‘‘fatto proprio’’ ovvero del ‘‘fatto altrui’’. Più esattamente, sebbene dal punto di vista della ratio ispiratrice sia innegabile che la garanzia di tale diritto — in quanto espressiva del principio nemo tenetur se detegere — si configuri come garanzia contro il rischio dell’autoincriminazione, e quindi riguardi a rigore soltanto il fatto proprio, essa viene però ritenuta per implicito estesa anche al fatto altrui. Alla base vi è la ben nota difficoltà di distinguere, sul piano dell’accertamento storico (soprattutto nel caso di concorso di persone nel reato, come pure in presenza di altre ipotesi di connessione di procedimenti), tra l’area del fatto proprio e l’area del fatto altrui, da cui si desume in via presuntiva la sussistenza di un interesse dell’imputato a non rendere dichiarazioni sul fatto altrui, per evitare gli spiacevoli riflessi che da tali dichiarazioni potrebbero derivargli anche in ordine al fatto proprio. Dev’essere chiaro, tuttavia, che in tanto ha senso riconoscere all’imputato il diritto al silenzio sul fatto altrui, in quanto si tratti di una garanzia funzionale alla tutela del diritto al silenzio sul fatto proprio. D’altra parte, la legge non ignora la sussistenza di situazioni nelle quali l’imputato debba essere sentito (anche in via esclusiva) come fonte di prova sul fatto altrui, sebbene non sempre venga dato adeguato rilievo a questa peculiarità. Così, per esempio, mentre di regola non si distingue, nella disciplina dell’interrogatorio, in ragione dell’oggetto su cui il medesimo verta (riconoscendo pur sempre all’interrogato il diritto al silenzio), ci si preoccupa invece di configurare in forma autonoma, tra le ipotesi di incidente probatorio, quella dell’esame della persona sottoposta alle indagini ‘‘su fatti concernenti la responsabilità di altri’’ (art. 392 comma 1o lett. c c.p.p.). E se anche in questo caso deve riconoscersi a tale persona la facoltà di non rispondere a singole domande (art. 209 comma 2o c.p.p.), senza dubbio assai più problematico sembra il riconoscimento alla mede-
— 1137 — sima del diritto di rifiutare l’esame (art. 208 c.p.p.), tanto più dovendosi tener conto come la stessa possa venire assoggettata ad accompagnamento coattivo ex art. 399 c.p.p. ai fini del compimento dell’atto, diversamente da quanto accade in dibattimento, a norma dell’art. 490 c.p.p., in relazione all’esame dell’imputato assente o contumace. Ciò che, del resto, appare coerente con l’ordinaria disciplina dell’esame dibattimentale dell’imputato, al cui interno si torna poco ragionevolmente a non distinguere (nemmeno nell’ipotesi di processo cumulativo, là dove soprattutto sarebbe opportuno introdurre precise distinzioni) con riferimento all’oggetto dell’esame stesso, riconoscendo in via generale all’imputato i consueti strumenti di tutela del diritto al silenzio, a cominciare dal rifiuto dell’esame: sia nel caso in cui l’esame riguardi il fatto proprio, sia anche nel caso in cui riguardi il fatto altrui. Circa la posizione dell’imputato in un procedimento connesso (o dell’imputato di un ‘‘reato collegato’’ ex art. 371 comma 2o lett. b), nei confronti del quale si proceda, o si sia proceduto, in via separata, è manifesto come questa sia la classica situazione in cui tale imputato viene esaminato, in una sede processuale diversa da quella che lo riguarda direttamente, su fatti relativi non alla propria, bensì all’altrui responsabilità. Ed un indice significativo di questa particolarità è costituito, infatti, a norma dell’art. 210 comma 2o c.p.p., dalla prevista possibilità dell’accompagnamento coattivo di tale imputato, che pertanto non potrà rifiutare di sottoporsi all’esame. Come si ricordava all’inizio, comunque, anche in queste ipotesi l’art. 210 comma 4o c.p.p. riconosce agli imputati di cui si tratta la facoltà di non rispondere alle varie domande in sede di esame dibattimentale (senza distinguere, ancora una volta, in base all’oggetto dell’esame stesso), e la medesima facoltà risulta attribuita a tali soggetti in ogni altra situazione in cui vengano sottoposti ad esame (in sede di incidente probatorio ex art. 392 comma 1o lett. d c.p.p.) ovvero ad interrogatorio nel corso della fase preliminare (artt. 363 e 422 c.p.p., cui si deve aggiungere, per quanto si diceva poco sopra, l’art. 351 comma 1o-bis c.p.p.). 6. Risulta confermato da quel che precede, dunque, come la tutela del diritto al silenzio dell’imputato, nelle diverse forme previste dalla legge, in rapporto alle distinte fasi del procedimento — e con ovvio riferimento alle differenti situazioni di cumulo o di separazione dei processi — sia disciplinata indipendentemente dalla circostanza che il medesimo venga richiesto di rendere dichiarazioni sul fatto proprio ovvero sul fatto altrui. Ne deriva, in sostanza, una sorta di livellamento della garanzia del diritto al silenzio, che finisce per essere riconosciuta esclusivamente in funzione della posizione formale dell’imputato (o dei soggetti ad esso equiparati), senza attribuire alcun risalto alle sue concrete scelte processuali, e nemmeno al ruolo che il medesimo possa assumere in quanto
— 1138 — fonte di prova sulle altrui responsabilità. Con il risultato di farne discendere conseguenze rigide, di fronte alle quali sono lecite non poche perplessità. In particolare, anche prescindendo da ogni possibile rilievo critico sulla irragionevolezza della dilatazione dell’ambito soggettivo dei titolari di tale garanzia (che nel caso di processi separati risulta meccanicamente estesa dall’art. 210 c.p.p. all’imputato di qualunque procedimento connesso, o addirittura di qualunque ‘‘reato collegato’’ ex art. 371 comma 2o lett. b c.p.p., in forza della troppo larga regola di ‘‘incompatibilità con l’ufficio di testimone’’ sancita dall’art. 197 lett. a e b c.p.p.), non si può ignorare come possano verificarsi situazioni rispetto alle quali parrebbero sorgere seri dubbi circa la concreta configurabilità dei presupposti logici del riconoscimento all’imputato del diritto al silenzio anche sul fatto altrui. Si pensi, per esempio, all’ipotesi-limite (che non è, peraltro, ipotesi di scuola) in cui l’imputato, avendo reso ampia ed intera confessione sul fatto proprio, intenda invece avvalersi della facoltà di non rispondere in ordine ai fatti concernenti la responsabilità degli imputati di concorso nello stesso reato, ovvero dei coimputati nell’ambito di un procedimento connesso. Ragionando in base alla ratio politico-legislativa dell’attribuzione del diritto al silenzio, essenzialmente riconducibile (come si è chiarito fin dall’inizio) all’esigenza di garanzia dell’imputato contro il rischio dell’autoincriminazione, non avrebbe senso, in realtà, continuare a riconoscere tale diritto all’imputato con riferimento al fatto altrui, dopo che il medesimo avesse del tutto liberamente deciso di non avvalersene, rendendo una completa confessione con riferimento al fatto proprio. Nel quadro di tali premesse, a ben vedere, la permanenza del diritto al silenzio sul fatto altrui in capo all’imputato confesso non sarebbe sorretta da alcuna giustificazione teorica, essendo ormai venuta meno rispetto a quest’ultimo — in virtù della sua stessa scelta — l’esigenza espressa dal canone per cui nemo tenetur se detegere. Sicché l’imputato non potrebbe legittimamente invocare, allo scopo, malintese ragioni di amicizia, di lealtà morale o di correttezza personale nei confronti di altri soggetti (imputati o non ancora imputati), dal momento che simili ragioni risulterebbero del tutto estranee alla sfera del diritto del medesimo di difendersi, attraverso il silenzio, rispetto al fatto proprio. In ipotesi del genere, ove si convenga sull’idea per cui il diritto al silenzio dell’imputato non può ‘‘coprire’’ il fatto altrui, se non quale strumento di autodifesa riguardo al fatto proprio, sembra difficile negare che — rispetto al fatto altrui — l’imputato stesso dovrebbe assumere un ruolo non dissimile da quello del testimone (oggi precluso, ovviamente, dalle regole di incompatibilità ex art. 197 lett. a e b c.p.p.), con tutti gli obblighi correlativi. Se così non avviene, è per via dell’evidente difficoltà di trasfe-
— 1139 — rire sul terreno della disciplina normativa un’attendibile individuazione delle situazioni fin qui considerate, distinguendo le une dalle altre attraverso una linea di confine idonea a definire fin dove debba spingersi l’area di necessaria tutela del diritto al silenzio dell’imputato sul fatto altrui, una volta che questo diritto non fosse stato esercitato in ordine al fatto proprio. Poiché, tuttavia, una simile distinzione a livello normativo corrisponderebbe ad una distinzione ineccepibile sul piano concettuale, sarebbe quanto mai opportuno che il legislatore si sforzasse di determinare — anche in via convenzionale — la correlativa linea di confine, stabilendo per esempio i presupposti affinché l’imputato confesso sul fatto proprio potesse, senza timore di pregiudizi contra se, rendere dichiarazioni di natura testimoniale sul fatto altrui. E, conseguentemente, imponendo a tale imputato, in presenza dei medesimi presupposti, di rendere le suddette dichiarazioni in veste di testimone, salva restando la necessaria previsione di apposite clausole dirette ad evitare che possano derivarne effetti pregiudizievoli per l’imputato così obbligato a deporre. 7. A tale proposito, non essendo consentito nel nostro sistema alcun impegno, da parte del pubblico ministero o del giudice, a garantire forme totali o parziali di immunità per l’imputato ‘‘dichiarante’’, o comunque a non procedere contro di lui al di là dei fatti dallo stesso confessati, occorrerebbe quanto meno provvedere a livello di regole probatorie: ad esempio nel senso di stabilire che, in situazioni processuali così caratterizzate, operi una clausola di inutilizzabilità a suo carico delle dichiarazioni autoindizianti rese dall’imputato con riferimento al fatto altrui, tutte le volte in cui in rapporto a tale tema di prova risultasse privato del diritto al silenzio, e quindi obbligato a deporre. In conformità, del resto, alla previsione inserita a suo tempo nell’art. 210 comma 5o prog. prel. c.p.p. (proprio con riguardo all’ipotesi in cui le persone ivi indicate non si avvalessero della facoltà di non rispondere), ed alla stregua del principio più generale, di cui è espressione anche l’art. 63 c.p.p., in forza del quale eventuali dichiarazioni autoindizianti rese in sede di audizione testimoniale non possono venire utilizzate a carico della persona che sia stata sentita senza il corredo delle garanzie tipiche della posizione dell’imputato. Tutto ciò prescindendo, ovviamente, da prospettive più vicine alla logica del diritto penale premiale, che pure de iure condendo potrebbero coltivarsi, in ipotesi ben definite, con riferimento a particolari categorie di delitti, rispetto ai quali si avvertisse come prioritaria, sul piano politico-legislativo, l’esigenza di un più ampio e penetrante accertamento processuale. Come sarebbe, per esempio, se ci si spingesse fino a configurare una speciale causa di non punibilità — opportunamente subordinata anche al verificarsi di altre specifiche condizioni — per l’imputato confesso,
— 1140 — allorché alla confessione sul fatto proprio si accompagnassero indicazioni tali da condurre all’individuazione degli altri responsabili dello stesso reato o di reati connessi. Sulla scia, tra l’altro, di modelli normativi non privi di qualche riscontro già nell’ambito della nostra legislazione in materia di criminalità eversiva (e, successivamente, ripresi in recenti e meno recenti progetti favorevoli ad una speciale causa di non punibilità per il delitto di corruzione), pur trattandosi di soluzioni maggiormente riconducibili ad esigenze di natura sostanzialistica piuttosto che processualistica. Dal punto di vista del processo, per quel che qui importa, di fronte all’ovvia constatazione che il diritto al silenzio si configura come un limite oggettivo alla formazione della prova ad opera della fonte legittimata ad avvalersene, ciò che conta è soprattutto evitare che l’esercizio di quel diritto (sacrosanto ed intangibile in quanto garanzia di autodifesa) da parte dell’imputato o dei soggetti ad esso equiparati ex art. 210 c.p.p. possa andare al di là dei confini che gli sono propri, col risultato di precludere l’acquisizione di informazioni probatorie anche in assenza di un’effettiva necessità di tutela dei medesimi contro il rischio dell’autoincriminazione. Ecco perché, mentre nel caso in cui il diritto al silenzio venga esercitato sul fatto proprio non c’è dubbio circa la priorità dell’interesse correlato al principio nemo tenetur prodere se ipsum, al contrario nel caso in cui venga esercitato sul fatto altrui sarebbe opportuno distinguere a seconda delle situazioni, bilanciando l’esigenza di garanzia autodifensiva dell’imputato (garanzia necessaria solo in rapporto al fatto proprio) con l’esigenza di non impedire l’accertamento probatorio rispetto al fatto altrui (sempreché, naturalmente, venga escluso ogni pregiudizio per l’imputato dichiarante). È questo un bilanciamento difficile, in quanto presuppone delicate scelte di politica legislativa, da coniugarsi con un rigoroso rispetto del criterio di ragionevolezza — per la verità non sempre rispettato in forza della disciplina vigente — ma proprio perciò non sembra che il legislatore possa ancora a lungo esimersi dall’operare un adeguato intervento in materia. 8. Un caso tipico dinanzi al quale emerge il problema di una necessaria distinzione circa la disciplina del diritto al silenzio dell’imputato a seconda che si riferisca al fatto proprio, ovvero al fatto altrui, è quello concernente le situazioni di cui si occupa l’art. 513 c.p.p. (così come sostituito dalla l. 7 agosto 1997, n. 267), con riferimento alle dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria su delega dello stesso ovvero al giudice nel corso della fase preliminare dall’imputato il quale, in sede dibattimentale, eserciti il proprio diritto al silenzio attraverso il rifiuto dell’esame. In ipotesi del genere (come pure nelle ipotesi in cui l’imputato rimanga contumace o assente) l’art. 513 comma 1o c.p.p. dispone bensì che il giudice del dibattimento, a richiesta di parte, dia lettura dei
— 1141 — verbali di tali dichiarazioni, precisando tuttavia che le medesime, se per un verso sono utilizzabili tout court nei confronti dell’imputato dichiarante, per converso non potranno essere utilizzate nei confronti di altre persone ‘‘senza il loro consenso’’. In questo modo, evidentemente, risulta sdoppiata la disciplina relativa all’utilizzabilità in giudizio delle dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato, a seconda del loro contenuto. Ove si tratti di dichiarazioni relative al fatto proprio, il successivo rifiuto dell’imputato di sottoporsi all’esame non produce alcun effetto vanificatorio circa la possibilità di impiego in giudizio di tali dichiarazioni (che, infatti, sono utilizzabili a seguito di lettura), mentre ne provoca l’inutilizzabilità contra alios quando le medesime riguardino il fatto altrui (salvo il consenso dei soggetti interessati). Ne deriva una situazione singolare, anzi sotto certi aspetti paradossale: per cui in simili ipotesi il diritto al silenzio riconosciuto all’imputato sul fatto proprio risulta circondato di minori garanzie — dal punto di vista delle ricadute su quest’ultimo — di quanto non sia previsto per il diritto al silenzio sul fatto altrui. Nel primo caso, infatti, le dichiarazioni contra se rese in precedenza dall’imputato sono senza dubbio utilizzabili a suo carico in dibattimento, a norma dell’art. 513 comma 1o c.p.p., laddove nel secondo caso le dichiarazioni riguardanti altre persone possono essere utilizzate a loro carico soltanto con il loro consenso. Come dire che, all’interno di questa disciplina, l’attribuzione all’imputato del diritto al silenzio mediante rifiuto dell’esame dibattimentale non è funzionale alla garanzia dello stesso imputato dichiarante rispetto al fatto proprio, ma produce esclusivamente l’effetto di impedire l’impiego processuale delle sue precedenti dichiarazioni nei confronti degli altri soggetti che ne sono stati coinvolti, non avendo essi potuto esercitare il contraddittorio sui temi oggetto di tali dichiarazioni. In un quadro normativo del genere, nel quale le dichiarazioni rese dall’imputato sul fatto proprio durante la fase preliminare sono comunque utilizzabili a suo carico (a seguito di lettura, anche se scelga la strada del rifiuto dell’esame), mentre le medesime dichiarazioni, in quanto attengano al fatto altrui, non sono di regola utilizzabili a carico dei terzi coimputati, c’è veramente da domandarsi che senso abbia il riconoscimento all’imputato del diritto al silenzio, in sede dibattimentale, anche rispetto al fatto altrui, quando su tale fatto abbia già reso dichiarazioni nella fase preliminare. Certamente nelle eventualità così descritte il diritto al silenzio sul fatto altrui non trova le sue radici in un’esigenza di garanzia (contro il rischio dell’autoincriminazione) rispetto al fatto proprio, posto che con riguardo a questo profilo l’esercizio del diritto al silenzio, attraverso il rifiuto dell’esame, non reca alcun vantaggio all’imputato in chiave di inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni.
— 1142 — Viene spontaneo, allora, il quesito perché mai, rispetto al fatto altrui (più esattamente, rispetto alle dichiarazioni già rese in sede di indagini preliminari o di udienza preliminare, nella parte avente ad oggetto la responsabilità altrui) non sia riconosciuta all’imputato, nell’ambito del dibattimento, una posizione assimilabile a quella del testimone, con tutte le ben note conseguenze che ne scaturiscono. Nella prospettiva, dunque, di articolare intorno a queste conseguenze (ivi compresa la possibilità di contestazione ex art. 500 comma 2o-bis c.p.p. nel caso di omessa risposta) una disciplina coerente con l’obbligo di verità entro tali limiti imposto al suddetto imputato. Per questa via si potrebbe conseguire un duplice obiettivo, fermo restando il diritto dell’imputato di mantenere il silenzio sul fatto proprio (nonché su ogni altra circostanza idonea ad aggravarne la responsabilità penale), e salva la previsione di una clausola di inutilizzabilità del tipo di quella già prefigurata rispetto agli elementi autoindizianti eventualmente forniti dall’imputato, ove obbligato a deporre in situazioni del genere. Da un canto, nel senso di assicurare lo svolgimento del contraddittorio, ad opera dei coimputati interessati, attraverso l’esame dell’imputato dichiarante sul contenuto delle precedenti dichiarazioni rese dal medesimo in ordine al fatto altrui; dall’altro, nel senso di consentire comunque la utilizzabilità come prova delle suddette dichiarazioni, una volta che l’imputato fosse stato sottoposto ad esame ‘‘testimoniale’’ sul loro contenuto, qualunque fosse stato l’esito di tale esame. 9. Ciò premesso, il discorso è analogo, per quel che qui importa, in rapporto alla situazione di cui si occupa il 2o comma dell’art. 513 c.p.p., con riferimento alle dichiarazioni rese nel corso della fase preliminare dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (cioè dagli imputati in un separato procedimento connesso, ovvero dagli imputati di un reato collegato, nei casi ivi previsti), allorquando tali persone si avvalgano della facoltà di non rispondere loro attribuita dal 4o comma del medesimo art. 210 c.p.p. In queste ipotesi, infatti, alla luce del nuovo testo dell’art. 513 comma 2o c.p.p. (che, sul punto, ha capovolto la conclusione cui era pervenuta la sentenza costituzionale n. 254 del 1992, peraltro in relazione al diverso impianto dell’originario art. 513 c.p.p.), la lettura dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rilasciate dalle suddette persone è di regola vietata, come conseguenza della scelta del silenzio, essendo ammessa soltanto ‘‘con l’accordo delle parti’’: in particolare, di quelle stesse parti che, altrimenti, potrebbero vedersi pregiudicate da tali dichiarazioni senza aver potuto esercitare il contraddittorio sul loro contenuto. Ne deriva che, in simili circostanze, la sola decisione delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. di avvalersi della facoltà di non rispondere (ovviamente sul fatto altrui, dato il particolare contesto processuale, e nono-
— 1143 — stante le dichiarazioni già rese al riguardo) è di per sé sufficiente ad escludere l’utilizzabilità delle loro precedenti dichiarazioni nei confronti degli imputati del processo principale, cui le medesime avessero fatto riferimento. Come dire che, in sostanza, la possibilità dell’impiego processuale di tali dichiarazioni viene fatta dipendere dall’opzione del tutto discrezionale — e quindi, in definitiva, anche arbitraria — delle suddette persone di rispondere, o di non rispondere, in sede di esame, senza introdurre alcuna distinzione a seconda delle ragioni che possano averle indotte a scegliere la via del silenzio. Senza dare alcun risalto, tra l’altro, nemmeno alle ipotesi in cui tale scelta costituisca l’effetto di violenze, di minacce o di altre forme di grave condizionamento esercitate sul dichiarante allo scopo di indurlo a tacere, con l’evidente proposito di alterare lo svolgimento del contraddittorio. E ciò sebbene proprio con riferimento a queste eventualità (del resto esplicitamente prese in considerazione, rispetto all’esame testimoniale, dall’art. 500 comma 5o c.p.p., pure in rapporto al precedente comma 2o-bis) vada sempre più diffondendosi, anche a livello internazionale, la tendenza incline a ritenere irragionevole che il silenzio serbato dal dichiarante nel corso dell’esame dibattimentale, in quanto motivato da simili indebite ‘‘pressioni’’, debba di per sé precludere l’utilizzabilità delle dichiarazioni da lui rese all’autorità giudiziaria nelle fasi anteriori al dibattimento: com’è dimostrato, per esempio, dall’orientamento in tal senso espresso dalla recente raccomandazione R(97)13 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Ma le maggiori perplessità derivano dalla constatazione che, essendo stata attribuita la facoltà di non rispondere alle persone cui allude l’art. 210 comma 4o c.p.p. indipendentemente da qualunque riferimento al fatto proprio ovvero al fatto altrui, allo stesso modo l’esercizio di tale facoltà nelle situazioni descritte dall’art. 513 comma 2o c.p.p. produce i suoi effetti (in chiave di normale divieto di lettura e, quindi, di utilizzabilità, delle dichiarazioni precedentemente rese) prescindendo dalla circostanza che il dichiarante se ne sia avvalso allo scopo di tutelare se stesso rispetto al fatto proprio. Anzi, poiché è nella logica delle cose che le persone indicate ex art. 210 c.p.p. vengano sottoposte ad esame, nel separato procedimento, essenzialmente su circostanze concernenti l’altrui responsabilità, se ne deve desumere che, in linea di massima, ove esse si avvalgano della facoltà di non rispondere, si tratti di un tipico caso di esercizio del diritto al silenzio con riguardo al fatto altrui. Se questo è esatto, tuttavia, non si vede davvero quale ratio possa giustificare, in situazioni del genere, l’attribuzione a tali soggetti della facoltà di non rispondere in ordine al contenuto delle loro precedenti dichiarazioni. Tanto più che, nell’ambito del diverso processo che li vede imputati in causa propria, le suddette dichiarazioni potrebbero senza dubbio essere lette, ed utilizzate a loro carico, a norma dell’art. 513 comma 1o
— 1144 — c.p.p.; mentre, qualora quest’ultimo processo già si fosse concluso con una sentenza divenuta irrevocabile (per esempio a seguito di patteggiamento), a maggior ragione non vi sarebbe motivo per il riconoscimento della garanzia del silenzio nelle ipotesi in questione. Una siffatta garanzia potrebbe, semmai, spiegarsi esclusivamente con riferimento alle eventuali ammissioni autoindizianti (o, comunque, idonee ad aggravare le rispettive posizioni nel separato processo a loro carico, per effetto dell’acquisizione ex art. 238 c.p.p.), cui i soggetti in questione fossero indotti nel corso dell’esame ai sensi dell’art. 210 c.p.p., sia pure circoscritto al tema delle dichiarazioni sul fatto altrui già dagli stessi rese nella fase preliminare. Senonché, ad evitare un simile rischio, dovrebbe essere sufficiente la previsione, a tutela di tali persone, di una clausola di inutilizzabilità contra se delle suddette ammissioni, secondo lo schema ormai più volte prospettato. 10. Giunti a questo punto, si capisce come le ipotesi descritte dall’art. 513 c.p.p., grazie al dato oggettivo rappresentato dalle dichiarazioni rese nella fase preliminare dall’imputato (nonché dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.) sul fatto proprio, ovvero sul fatto altrui, possano offrire lo spunto per distinguere all’interno dell’attribuzione legislativa di un diritto al silenzio genericamente inteso a favore di tali soggetti in sede dibattimentale. Nel senso, cioè, di diversificare le situazioni — facendo leva sul contenuto delle precedenti dichiarazioni — a seconda che quel diritto assolva, o non assolva, alla sua funzione essenziale di garanzia dell’imputato dal rischio di successive dichiarazioni autoincriminatrici sul fatto proprio. Si potrebbe allora prospettare, ragionando de iure condendo (sempreché, nel frattempo, non intervenga la Corte costituzionale a sanzionare i diversi profili di irragionevolezza della vigente normativa), una riforma della disciplina imperniata sull’odierno testo dell’art. 513 c.p.p., allo scopo di spezzare l’anomalo nesso tra l’esercizio dibattimentale del diritto al silenzio ad opera dell’imputato (o delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.) e la conseguente impossibilità di utilizzare, almeno di regola, le dichiarazioni rese da questi ultimi in ordine al fatto altrui. Un nesso che conduce al risultato, sotto vari aspetti sconcertante, per cui l’esercizio di un diritto attribuito a tutela dell’imputato contro il rischio della self-incrimination finisce per ‘‘giovare’’, anziché allo stesso imputato (contro il quale saranno pur sempre utilizzabili le precedenti dichiarazioni), esclusivamente ai soggetti terzi coinvolti dalle suddette dichiarazioni: in quanto, come si diceva poco sopra, impossibilitati ad esercitare il contraddittorio, mediante esame dell’imputato dichiarante, sul contenuto delle medesime. Sicché il vero problema risulta non tanto quello relativo alla garanzia del diritto al silenzio sul fatto altrui (oltretutto diversamente strutturato, senza apprezzabili ragioni, a seconda che si tratti dell’imputato nel pro-
— 1145 — cesso cumulativo, ovvero degli imputati in separato procedimento connesso), bensì quello relativo alla garanzia del contraddittorio in capo ai soggetti ‘‘chiamati in causa’’ per effetto delle dichiarazioni rese nella fase preliminare dall’imputato in re propria o dagli altri coimputati ex art. 210 c.p.p. A parte l’esigenza, in ogni caso prioritaria, di un adeguato ridimensionamento rispetto all’eccessivamente ampia area delle situazioni che, a norma dell’art. 197 lett. a e b c.p.p., determinano l’incompatibilità a testimoniare dei coimputati in procedimento connesso o degli imputati di reato collegato (con la conseguente eccessiva dilatazione delle ipotesi in cui tali soggetti possono avvalersi in sede dibattimentale, sia pure in forme diverse, del diritto al silenzio anche sul fatto altrui), un equilibrato intervento di riforma della disciplina in discorso potrebbe articolarsi attraverso alcune proposte (del resto non nuove), riconducibili a pochi ma essenziali passaggi: A) previsione che l’imputato (al pari, ovviamente, della persona sottoposta alle indagini) prima dell’interrogatorio di fronte al pubblico ministero, agli organi di polizia dallo stesso delegati ovvero al giudice, durante le indagini preliminari o l’udienza preliminare, oltre all’avvertimento circa la facoltà di non rispondere, debba venire altresì avvertito che, ove risponda, potrà poi essere obbligato a sottoporsi ad esame dibattimentale, ed a rispondere in quella sede, sulla parte delle proprie precedenti dichiarazioni concernente la responsabilità di altri; B) previsione che in sede dibattimentale (come pure in sede di incidente probatorio a norma dell’art. 392 comma 1o lett. c e d) sia l’imputato nel processo cumulativo, sia l’imputato nelle ipotesi ex art. 210 c.p.p., senza differenze di disciplina tra l’una e l’altra posizione, fermo restando il diritto al silenzio sul fatto proprio, acquistino veste di testimone rispetto al fatto altrui (con i relativi doveri di sottoporsi all’esame, se del caso a seguito di accompagnamento coattivo, e di rispondere secondo verità), nei limiti dell’oggetto delle dichiarazioni precedentemente rese in rapporto alla responsabilità di altri; C) previsione che, nel corso dell’esame dei soggetti in questione sul fatto altrui, entro i limiti appena precisati, ove il soggetto esaminato rifiuti od ometta di rispondere sulle ‘‘circostanze riferite’’ nelle precedenti dichiarazioni, le parti interessate possano servirsi di queste ultime per procedere a contestazione, nelle forme previste dall’art. 500 comma 2o-bis c.p.p., con conseguente acquisizione al fascicolo dibattimentale ex art. 500 comma 4o c.p.p. dei verbali delle dichiarazioni così utilizzate ai fini della loro possibile valutazione come prova a norma dell’art. 192 comma 3o c.p.p. (sempreché, ovviamente, in ipotesi del genere le parti non concordino sulla lettura dell’intero complesso delle dichiarazioni rese in precedenza sul fatto altrui dai soggetti sottoposti ad esame);
— 1146 — D) previsione che, in ogni caso (quand’anche non si accogliesse la proposta relativa all’applicabilità, nelle situazioni da ultimo considerate, del meccanismo di contestazione risultante dall’art. 500 commi 2o-bis e 4o c.p.p.), venisse sempre consentita l’acquisizione al processo e, quindi, la successiva utilizzabilità sul piano probatorio delle precedenti dichiarazioni dell’imputato e degli altri soggetti indicati nell’art. 210 c.p.p., allorché la scelta del dichiarante di non rispondere in sede di esame risultasse provocata da ‘‘violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità’’, secondo uno schema delineato sulla falsariga dell’art. 500 comma 5o c.p.p.; E) previsione, per quanto riguarda in particolare i collaboratori della giustizia nei procedimenti per delitti di terrorismo o di criminalità organizzata di stampo mafioso, i quali siano stati ammessi a fruire di speciali misure di protezione, che i medesimi possano subire la revoca delle suddette misure (secondo una prospettiva già accolta in un recente disegno di legge governativo) allorché non ottemperino all’impegno di sottoporsi ad esame dibattimentale, rispondendo alle conseguenti domande, sugli stessi temi cui si sia riferita l’attività di collaborazione, a cominciare dalle precedenti dichiarazioni relative all’altrui responsabilità; F) previsione, in armonia con la ratio della regola codificata nell’art. 63 c.p.p., di una clausola di inutilizzabilità a carico dell’imputato (sempre senza distinguere tra l’imputato nello stesso processo e l’imputato in separato procedimento connesso) delle dichiarazioni da lui rese in sede di esame (testimoniale, nei termini sopra precisati) sul fatto altrui, entro i limiti oggettivi segnati dal contenuto delle dichiarazioni risalenti alla fase preliminare, qualora vi comparissero elementi tali da recargli pregiudizio rispetto al fatto proprio, salva restando comunque la facoltà tipica del testimone di non deporre (art. 198 comma 2o c.p.p.) su fatti e circostanze dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale. G) previsione, infine, di un opportuno reticolo di norme penalistiche di raccordo volte a tener conto della peculiarità della posizione dell’imputato, allorché venga esaminato in veste testimoniale sul fatto altrui: in particolare, nel senso di estendere a suo carico la configurabilità del delitto di falsa testimonianza nelle ipotesi contemplate dall’art. 372 c.p. (ivi comprese, naturalmente, le cause di non punibilità ex art. 384 c.p.), cui dovrebbe corrispondere la configurabilità del delitto di subornazione nell’ipotesi in cui le condotte descritte dall’art. 377 c.p. si realizzassero, in analoghe situazioni, nei confronti del medesimo imputato. 11. Lungo una simile linea di razionalizzazione circa il significato della garanzia del diritto al silenzio dell’imputato in rapporto all’uso (spesso disfunzionale) che ne viene fatto con riferimento a temi concernenti la sfera dell’altrui responsabilità, si potrebbero ottenere alcuni importanti risultati.
— 1147 — In primo luogo, si farebbe un po’ di chiarezza rispetto ad una figura ambigua come quella dell’imputato che, avendo nella fase preliminare rilasciato dichiarazioni (più esattamente, le dichiarazioni di cui tratta l’art. 513 comma 1o c.p.p.) anche sul fatto altrui, si vede riconosciuto (nel processo che lo riguarda direttamente, come pure nel separato procedimento connesso) il diritto al silenzio in sede dibattimentale anche su tali dichiarazioni, indipendentemente dalla circostanza che, in concreto, le medesime risultino investire altresì il fatto proprio. Se è vero che, in situazioni del genere, l’unica plausibile ragione per il riconoscimento di quel diritto in rapporto al fatto altrui è quella di salvaguardare l’imputato dal pericolo di fornire elementi contra se sul fatto proprio, è questo, evidentemente, il terreno su cui insistere in prospettiva di riforma: anzitutto omologando — a tale scopo — la posizione dell’imputato da esaminarsi nel processo cumulativo (art. 513 comma 1o c.p.p.) con la posizione dell’imputato da esaminarsi in separata sede a norma dell’art. 210 c.p.p. (art. 513 comma 2o c.p.p.), in quanto posizioni assolutamente omogenee per quel che qui importa. Con la consapevolezza, in ogni caso, che il pericolo della self-incrimination risulterebbe assai ridotto ove l’imputato venisse esaminato esclusivamente entro i limiti oggettivi delle dichiarazioni rese in precedenza in ordine al fatto altrui, e comunque sarebbe fronteggiabile attraverso l’introduzione di opportune clausole di non utilizzabilità a suo carico degli elementi forniti nel corso dell’esame così circoscritto. In secondo luogo, sarebbe possibile superare per tale via la principale delle obiezioni che oggi si rivolgono contro la disciplina accolta nell’attuale art. 513 c.p.p., là dove fa discendere dall’insindacabile opzione dell’imputato dichiarante di avvalersi in giudizio del diritto al silenzio (nelle forme rispettivamente richiamate dal 1o e dal 2o comma) l’effetto di sottrarre al giudice dibattimentale la possibilità di tener conto delle precedenti dichiarazioni rese dal medesimo imputato con riferimento al fatto altrui. E l’obiezione appare ancor più fondata quando si pensi che, in analoghe circostanze, nel caso di ritrattazione o di modifica della versione illo tempore fornita dall’imputato dichiarante, può invece pacificamente operare il consueto meccanismo delle contestazioni ex art. 503 comma 3o c.p.p., con la successiva acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni impiegate a fini contestativi. In realtà, le innegabili esigenze di garanzia del contraddittorio (a tutela del coimputato chiamato in causa da dichiarazioni unilateralmente acquisite nella fase preliminare) cui si ispira il nuovo testo dell’art. 513 c.p.p. potrebbero venire soddisfatte in maniera altrettanto sicura (ma anche, nel contempo, senza pregiudizio dell’esigenza di evitare il rischio di un’aprioristica ‘‘dispersione’’ del contenuto delle suddette dichiarazioni), puntando su una diversa e meno ambigua soluzione. Vale a dire, ricollegando all’originaria scelta dell’imputato di rendere dichiarazioni prelimi-
— 1148 — nari sul fatto altrui l’assunzione della veste di testimone, da parte dello stesso imputato, nel corso dell’esame dibattimentale: naturalmente in rapporto all’oggetto, e rigorosamente entro i confini, di tali dichiarazioni. L’assunzione di una simile veste da parte dell’imputato comporterebbe infatti, nelle ipotesi appena descritte, e negli esclusivi limiti ad esse correlati, l’imposizione al medesimo imputato dell’obbligo di deporre sul contenuto delle proprie precedenti dichiarazioni concernenti il fatto altrui, ed in ogni caso aprirebbe la strada all’impiego di tali dichiarazioni secondo gli ordinari meccanismi delle contestazioni nel corso dell’esame testimoniale: ivi compresa, dunque, l’eventualità (art. 500 comma 2o-bis c.p.p.) in cui il dichiarante rifiutasse di rispondere su una o più delle ‘‘circostanze riferite’’ nelle suddette dichiarazioni. Con la conseguenza, da un canto, di consentire l’esercizio del contraddittorio (ancorché incompleto, ma ricco comunque di potenzialità sotto il profilo della dialettica difensiva) ad opera di tutte le parti interessate sulla fonte di prova, alla presenza della stessa; dall’altro, di rendere possibile un recupero in chiave di utilizzabilità, a livello probatorio, ferma restando la regola di valutazione ex art. 192 comma 3o c.p.p., delle dichiarazioni impiegate per le contestazioni, secondo le modalità acquisitive previste dall’art. 500 comma 4o c.p.p. (mentre non avrebbe più senso, nel nuovo contesto dell’esame testimoniale, un richiamo alla corrispondente disciplina dell’art. 503 commi 5o e 6o c.p.p., cui oggi rinvia l’art. 210 comma 5o c.p.p.). 12. In definitiva, sembra questa la strada per realizzare in sede dibattimentale un equilibrato bilanciamento tra l’esigenza di tutelare il diritto al silenzio dell’imputato (ovviamente con riferimento al rischio dell’autoincriminazione) anche in rapporto all’oggetto delle sue precedenti dichiarazioni estese al fatto altrui, e l’esigenza di tutelare il diritto degli altri imputati, in quanto destinatari delle accuse risultanti da tali dichiarazioni, ad esercitare il contraddittorio nei confronti dell’imputato da cui le medesime siano provenute. Il problema posto da quest’ultima esigenza è stato risolto dall’odierno testo dell’art. 513 c.p.p. in termini drastici, escludendo di regola l’utilizzabilità contra alios delle suddette dichiarazioni, tutte le volte in cui l’imputato dichiarante si fosse, in un modo o nell’altro, rifiutato al contraddittorio sulle circostanze in esse descritte con riguardo all’altrui responsabilità. Senonché, lungo tale direzione, ne risulta indebitamente sacrificato l’interesse, pur rilevante nel quadro costituzionale, a non disperdere i contenuti probatori delle medesime dichiarazioni, risultando la loro sorte (e, quindi, la conseguente possibilità per il giudice di formare anche sui relativi contenuti il proprio convincimento) affidata in via pressoché esclusiva, a parte l’improbabile consenso delle altre parti, alla decisione del tutto discrezionale dell’imputato dichiarante di avvalersi, o di non avvalersi, in giudizio della facoltà di non rispondere sul fatto altrui.
— 1149 — Al contrario, sarebbe coerente con la salvaguardia di tale interesse che l’utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese dall’imputato sul fatto altrui non venisse preclusa in radice a causa del semplice esercizio, da parte del dichiarante, di un malinteso ius tacendi dinanzi al giudice dibattimentale, bensì fosse ricollegata al diritto, per l’imputato ‘‘chiamato in causa’’, di esercitare il contraddittorio sui temi che lo riguardano: cioè di ‘‘interrogare o far interrogare’’ (questa è la formula dell’art. 6 comma 3o lett. d Conv. eur. diritti uomo, ripresa nell’art. 14 comma 3o lett. e Patto int. diritti civili e politici) il soggetto fonte delle dichiarazioni a carico, al quale ovviamente dovrebbe essere negata la facoltà di mantenere il silenzio in ordine al fatto altrui. Tanto più trattandosi, come si diceva, di un interesse di sicura rilevanza costituzionale, in quanto strettamente connesso all’esigenza di funzionalità del processo: che è un valore fortemente radicato nell’art. 112 Cost., oltreché negli altri princìpi costituzionali relativi all’esercizio della giurisdizione, e quindi meritevole di essere tutelato secondo canoni oggettivi, la cui operatività non può essere fatta dipendere da scelte insindacabili di uno o di tutti i soggetti processuali. Più precisamente, per quel che qui importa, appare davvero incongruo, anzi ai limiti dell’irrazionalità, che gli elementi acquisiti nella fase preliminare attraverso le dichiarazioni rese dall’imputato sul fatto altrui — dopo essere stati posti a fondamento dell’azione penale, perché ritenuti idonei a sostenere l’accusa in giudizio — possano venire vanificati in toto da un’opzione assolutamente libera dello stesso imputato dichiarante: qual è oggi, in particolare, quella dell’esercizio del diritto al silenzio in sede dibattimentale. Né tale incongruenza viene esclusa, sebbene possa risultare almeno in parte attenuata, per effetto dell’allargamento delle maglie dell’incidente probatorio, nelle ipotesi d’esame previste dall’art. 392 lett. c e d c.p.p., grazie alla caduta delle condizioni limitatrici che vi erano prescritte. Infatti è agevole rendersi conto che, soprattutto nel corso delle indagini per delitti di criminalità organizzata, o comunque destinate a coinvolgere un elevato numero di persone, il pubblico ministero — in quanto legato ad indifferibili necessità di strategia investigativa — non potrà di solito ‘‘permettersi’’ di richiedere lo svolgimento dei suddetti esami con rito incidentale, se non nelle fasi terminali delle indagini preliminari, o nelle fasi successive (e, in quelle fasi, potrà benissimo accadere che il dichiarante, sottoposto ad esame nel corso dell’incidente, manifesti la volontà di tacere sul contenuto delle proprie precedenti dichiarazioni intorno al fatto altrui). Sicché, ancora una volta, il discorso torna ad incentrarsi sulla ratio della previsione del diritto al silenzio. In sintesi, se si ritiene che il diritto al silenzio dell’imputato debba essere tutelato col massimo rigore in rapporto all’esigenza di garanzia dal rischio dell’autoincriminazione rispetto al fatto proprio, mentre non sussi-
— 1150 — ste alcuna ragione logica — come si ricordava all’inizio — che possa giustificarne la tutela al di fuori di tale esigenza, appare evidente l’anomalia del riconoscimento di quel diritto all’imputato anche rispetto al fatto altrui; ed a maggior ragione nelle ipotesi in questione, quando dal suo esercizio venga fatta discendere l’inutilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza, e del tutto liberamente, dallo stesso imputato proprio in ordine all’altrui responsabilità. Anche alla luce di questi ultimi rilievi ne risulta quindi ribadita, come soluzione conforme a ragionevolezza nel quadro dell’odierno sistema processuale penale, la proposta secondo cui — in eventualità del genere, ed entro i limiti oggettivi ormai più volte precisati — all’imputato dovrebbe venire sottratta per legge la possibilità di avvalersi del diritto al silenzio con riguardo al fatto altrui, e dunque, sotto tale profilo, la sua posizione dovrebbe venire equiparata a quella del testimone, con il conseguente obbligo di deporre secondo le forme dell’esame testimoniale (salva restando, ovviamente, la necessaria garanzia del medesimo rispetto ad eventuali dichiarazioni contra se scaturite nel corso di quell’esame). Al di fuori di una simile prospettiva non si vede davvero come il diritto di difesa dell’imputato dichiarante (sub specie di diritto al silenzio rispetto al fatto proprio) potrebbe conciliarsi con il diritto di difesa dell’imputato coinvolto dalle dichiarazioni rese dal primo (sub specie di diritto ad esaminare la fonte delle accuse a suo carico), e come l’esercizio di entrambi questi diritti potrebbe, sull’uno e sull’altro versante, contemperarsi con la tutela dell’esigenza di funzionalità dei processi impostati e sviluppati in base alle medesime dichiarazioni. Un’esigenza radicata in un valore costituzionale la cui realizzazione — occorre sottolinearlo ancora con forza — non può essere irragionevolmente rimessa alla libera scelta del suddetto dichiarante di parlare, o di tacere, in sede dibattimentale, sul tema dell’altrui responsabilità. VITTORIO GREVI
IL VOLTO UMANO DEL DIRITTO PENALE DI ALDO MORO (*)
1. Chiunque intenda discorrere intorno al pensiero di Aldo Moro, incontra, sempre, una difficoltà — che occorre superare — e una tentazione, da cui occorre guardarsi. Infatti, quale che sia il particolare oggetto di riflessione, è necessario pur sempre riformulare, in un altro linguaggio, i contenuti del suo pensiero; e la possibilità di riuscirvi e, soprattutto, di riuscirvi efficacemente, resta sempre più o meno ipotetica. Ma, ciò che più conta, si può correre il rischio — come ha scritto un noto critico d’arte — di ‘‘vedere ciò che si vuol vedere, e, pertanto, di non avere occhi per guardare’’ (1). Per evitare, dunque, incertezze e tentazioni in un compito così impegnativo, qual è quello di disegnare il ‘‘volto’’ del Suo diritto penale, è bene procedere ripercorrendo il lungo itinerario che si snoda nelle pagine della sua opera fondamentale, pubblicata nel 1947, su ‘‘L’antigiuridicità penale’’. Si tratta, tuttavia, di un cammino sul quale Moro si era già da tempo inoltrato, ben prima che egli si accingesse a scriverla: ed, a chi abbia cura di accostarsi al Suo pensiero attraverso lo studio preliminare delle sue lezioni di filosofia del diritto, non potrà certo sfuggire la estrema ed assoluta coerenza dello sviluppo ‘‘penalistico’’ delle posizioni già da lui assunte trattando, in generale, del problema del male e, in particolare, del problema dell’illecito giuridico. Pochi sanno, probabilmente, che, anzi, i lineamenti fondamentali dell’impostazione di quest’ultimo tema (che, per Moro, è, ovviamente, come egli stesso scrive, il ‘‘centro’’ del sistema penale) erano stati già compiutamente da lui indicati, allorché, giovanissimo (aveva appena 21 anni!) ebbe a svolgere una importante relazione proprio sullo specifico argomento dell’illecito giuridico, in occasione del 23o congresso Nazionale della Fuci, che si tenne a Firenze dal 4 al 9 settembre 1937 (2). Già in quella sede Egli annunciò la sua tesi fondamentale — che (*) Testo della relazione svolta dal Prof. Contento in occasione del Convegno tenutosi presso l’Università di Bari in occasione del ventennale della morte di A. Moro il 25 maggio 1998. (1) S. FIZZAROTTI, Per Paul Lemoine, in Il luogo amato dell’arte, Schena, 1997, p. 145. (2) Un breve resoconto della relazione può leggersi in D. DE LEONARDIS, L’umanità di Aldo Moro, Foggia, 1993, pp. 48-49.
— 1152 — nella ‘‘antigiuridicità’’ ritroveremo sviluppata e fermamente sostenuta e difesa contro tutti gli ‘‘attacchi’’ della dominante cultura giuridica del suo tempo — secondo la quale, il reato è nulla se non è un ‘‘fatto dell’uomo’’. E tale può considerarsi solo il fatto cui sia immanente la soggettività della Persona (3). Dunque, la proposta penalistica di Moro non può essere intesa soltanto come una nuova ed originale opzione dogmatica di ‘‘teoria generale’’ del reato. Benché a taluno possa apparire, o possa essere apparso (quello su ‘‘L’antigiuridicità penale’’) uno studio, per l’appunto, di ‘‘teoria generale’’, caratterizzato da una originale, quanto coraggiosa opzione per il metodo c.d. ‘‘della considerazione unitaria del reato’’ e di una altrettanto coraggiosa scelta di campo, in favore della teoria (relativamente ‘‘nuova’’, a quell’epoca, nell’ambito della nostra cultura giuridica) della c.d. ‘‘colpa (o colpevolezza) normativa’’, esso è ben più di questo. Esso è, infatti, la difesa, sul terreno del diritto penale, della sua concezione ‘‘etica’’ del diritto. Difesa tanto più strenua ed accorata quanto più, proprio nell’ambito del settore penale, il rischio dell’asservimento, di fatto, del sistema giuridico, a finalità di mera prevenzione generale, mediante il suo impiego come strumento di brutale repressione, era (come è accaduto in passato e come, in particolare, ahimé, sembra accadere tuttora, forse con ancora maggiore carica di potenzialità negativa) estremamente grave. Difesa, dunque, non di mere posizioni metodologiche, o di ‘‘teorie generali’’, né di scelte di semplice ‘‘politica criminale’’, ma della sostanziale, profonda, identità di natura della legge morale e di quella giuridica e quindi della necessaria centralità della persona che, fin troppo evidente nell’etica, doveva essere ribadita anche nell’ambito del diritto: che vuol dire — come vedremo — difesa della necessità di un diritto ‘‘umano’’, anche, e specialmente, nel settore dell’illecito e della responsabilità penale. Moro non avrebbe potuto essere, sul punto, più esplicito e chiaro. Attingendo dalla sua ‘‘antigiuridicità’’ (e basta sfogliare l’opera per coglierne, a piene mani, continue e costanti conferme) ritroviamo espressa la assoluta convinzione che ‘‘la vita sociale non può essere costruita, se non partendo dal valore autonomo della persona’’ (4); e poiché — come già aveva detto, nelle sue lezioni di Filosofia — ‘‘i rapporti, in ciò che hanno di umano, sono un modo di essere della coscienza, sicché di un loro essere ordinato non si può parlare, finché la interiorità dell’uomo sia assente’’ (5), ne segue che il diritto, se non può essere individualistico, (Moro è sempre vigile nel richiamare ad essere ben attenti a non scambiare l’individuo con la persona), ‘‘ha da essere, tuttavia, sempre umano e (3) Cfr. L’Antigiuridicità penale, Palermo, 1947, p. 62. (4) Cfr. L’Antigiuridicità, cit., p. 51. (5) Lezioni di Filosofia del diritto, Cacucci, Bari, 1978, p. 40.
— 1153 — personale’’ (6). E, più specificamente, egli afferma, ripetutamente, che la immanente soggettività dell’illecito è il limite invalicabile oltre il quale il fenomeno dell’agire contro il diritto risulta incomprensibile (7); che l’illecito, per essere tale, dev’essere ‘‘proprio’’ del soggetto, appartenergli, cioè, ‘‘come personale realizzazione, in attivo e consapevole contrasto’’ (8); cosicché, ‘‘una volta ritenuto (sono sempre Sue parole) che un intimo percorso spirituale debba sussistere, non si può più veramente distinguere la colpa giuridica da quella etica’’ (9). Perché è proprio la ‘‘personale contrarietà all’obbligo’’ ciò che conferisce al reato il pathos della riprovazione sociale (10); è quel ‘‘prendere posizione’’ di fronte ai valori in modo conscio, personale, eticamente apprezzabile (11); il non aver dato prevalenza ‘‘al motivo che rappresenta, nella forma dell’esigenza sociale, la voce oggettiva dell’eticità’’ (12). Solo così è possibile attribuire il fatto all’agente come suo. Senza colpevolezza (senza questa colpevolezza) conclude Moro, il fatto può essere dannoso, ma non illecito (13). Si potrebbe essere indotti a dubitare, tuttavia che questa ‘‘posizione’’ di Moro sia veramente tanto originale nel senso che, in fondo, essa potrebbe interpretarsi come una semplice scelta in favore della concezione c.d. ‘‘normativa’’ della colpevolezza e della esigenza — da questa postulata — che la colpevolezza debba essere sempre richiesta ed accertata come ‘‘limite’’ alla punibilità, nel solco di quel movimento di pensiero che si era andato sempre più decisamente opponendo alla c.d. ‘‘responsabilità per il fatto’’. Si tratterebbe, tuttavia, di un grave errore di prospettiva: per Moro, la antigiuridicità soggettiva, cioè la colpevolezza, non solo limita la punibilità, ma fonda la illiceità. Questa non può sussistere, neppure idealmente, (non è ‘‘comprensibile’’), senza di essa, senza, cioè, la appartenenza spirituale del fatto al soggetto. Anzi, Moro si spinge ad affermare che il giudizio sociale (di illiceità) presuppone sempre, e prima, quello personale: quello, cioè dello stesso soggetto, che, per primo, giudica se stesso dovendo essere consapevole, in modo limpido e sicuro, del significato negativo del suo fatto: l’illecito è dato solo quando si vuole ciò che non si può volere, sapendo di non poter volere (14). E poiché dunque — per Moro — ‘‘una sola è la norma efficacemente (6) Cfr., Antigiuridicità, cit., p. 51. (7) Cfr., Antigiuridicità, cit., p. 74. (8) Cfr., Antigiuridicita, cit., p. 79. (9) Cfr., Antigiuridicità, cit., p. 82. (10) Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 84. (11) Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 83. (12) Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 83. (13) Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 97. (14) Cfr. Antigiuridicità, cit., pp. 88-90.
— 1154 — operante nella vita umana, quella etica’’ (15) il diritto ‘‘vive la sua vicenda e compie il suo destino sempre prima nella profonda spiritualità del soggetto, e poi, nel mondo dei c.d. ‘‘rapporti esteriori’’. ‘‘Prescindere da questo modo di operare del diritto — scrive ancora Moro — significa trasformarne la vita in una strana e dura meccanica sociale di azioni e reazioni, dove ogni luce di umanità è spenta, abbagliati — ed è falsa prospettiva, — da quello che sembra essere il termine ultimo della vicenda giuridica, l’esteriore assetto ordinato della società, quasi che esso si possa produrre altrimenti che mediante un operare soggettivo, e perciò etico’’ (16). Allorché l’ordinamento nega questa irrinunciabile ‘‘umanità’’ dell’illecito, esso ‘‘opera con forze e strade che il mondo dello spirito non conosce’’. Il diritto, allora, non è più fatto umano, e a noi non resta che rinunziare ad intenderlo. Bisognerebbe, però, almeno sapere, con esattezza, — conclude Moro — a che cosa si rinunzia’’!! (17). Basterebbe quanto sinora si è ricordato per cominciare a intravedere con sufficiente chiarezza il volto ‘‘umano’’ del diritto penale di Aldo Moro, antesignano, come si sarà notato, sinanche della istanza di abolizione di quella norma che, al tempo in cui scriveva, sanciva l’irrilevanza dell’error iuris (obiettivo poi tenacemente perseguito, e con successo, dal primo dei suoi allievi, Renato Dell’Andro, allorché divenne giudice della Corte costituzionale), oltre che fautore della totale abolizione dei casi di responsabilità oggettiva. Ma vi sono, nel Suo pensiero, ulteriori notazioni e osservazioni di estremo rilievo, che conferiscono alla sua esigenza di ‘‘umanità’’ del diritto penale, un ancor più accentuato e deciso contenuto significativo. Allorché, infatti, Egli si occupa del tema, delicatissimo, circa il fondamento delle c.d. ‘‘cause di discolpa’’, e, segnatamente, della dottrina della c.d. ‘‘inesigibilità’’, e deve prendere posizione sulla questione della perdurante illiceità (oggettiva) del comportamento di colui che abbia agito nel contesto di una condizione di ‘‘anormalità’’ di vita, assume una netta, chiarissima posizione, opposta a quella di tutta la cultura dominante dell’epoca, nel senso di negare comunque, anche in questi casi, finanche la possibilità teorica di configurazione dell’illecito. Se questo ha da essere un fatto ‘‘umano’’, non può considerarsi tale quello realizzato nell’ambito di situazioni in cui non sembra umanamente esigibile, dal soggetto, il sacrificio della propria azione (18). Il legislatore, scrive ancora Moro, che pretendesse di non tener conto della ‘‘umana debolezza’’ (19), ostinandosi ad imporre obblighi anche là dove è certa la incapacità del soggetto di (15) (16) (17) (18) (19)
Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 105. Cfr. Antigiuridicità, cit., ivi. Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 103. Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 148. Cfr. Antigiuridicità, cit., ivi.
— 1155 — soddisfarli, mal servirebbe gli scopi ultimi del diritto, che deve non solo valere idealmente, ma realizzarsi anche concretamente nel mondo dell’esperienza storica (20). Ecco, dunque, perché l’atto compiuto nell’ambito di una particolare storica situazione individuale (di inesigibilità) è ‘‘originariamente’’ conforme al diritto: in quanto questo, ribadisce Moro, — riprendendo un acuto rilievo di von Ferneck, e cioè che ‘‘tutto il diritto riguarda situazioni particolari’’ — è dato per l’uomo singolo, concreto, e riguarda la sua vita e la sua esperienza (21). 2. Si è detto che Moro ha una concezione ‘‘etica’’ del diritto: e non si può più dubitarne, dopo quanto si è già avuto modo sinora di rilevare. Che, però, — è bene avvertirlo — non implica affatto che essa debba intendersi come aspirazione ad una sorta di ‘‘legalizzazione della morale’’, della quale Moro non manca, anzi, di avvertire quanto ‘‘questa esperienza sia pericolosa per i valori umani’’ (22). Del resto la sua condanna dello Stato etico dell’idealismo assoluto e totalitario, inteso cioè come fonte assoluta dell’eticità, è netta come è netta l’affermazione che ‘‘il valore etico’’ dello Stato sussiste, invece, solo in quanto esso sia capace di accogliere e sviluppare in armonia i valori proposti dai singoli, e, specialmente, in quanto esso non vada ‘‘spegnendo’’ la sua eticità, con l’esaurire l’autonomia di valori dei singoli e delle ‘‘parziali istituzioni’’ (o aggregati sociali minori) che deve, idealmente, ‘‘comporre in armonia’’ (23). Il diritto è, dunque, fatto della stessa sostanza dell’etica: ma non può identificarsi, in toto, con questa. Perciò Moro può scrivere che l’ordinamento è ‘‘umano ordinamento di una vita cui mancano le risorse degli eroismi sublimi che l’etica conosce, ma che non possono essere punti di riferimento, per comandi sociali rivolti alla media degli uomini’’ (24). Perciò il suo scetticismo sulla efficacia degli strumenti ‘‘giuridici’’ che siano solo formalmente tali, ma non traggano valore dalla loro conformità alla legge etica fondamentale, è sempre costante. Così, soprattutto, ad esempio, è illuminante ciò che scrive intorno ai limiti ‘‘intrinseci’’ di cui soffre il concetto della ‘‘coercizione’’ (e della ‘‘sanzione’’, in generale): alla quale — Egli scrive — ‘‘non è rimesso il compito della definitiva restaurazione dell’ordine etico-giuridico, ma solo quello, di tanto più modesto, di porre le condizioni che agevolino il ‘‘ritrovamento’’ del soggetto: che si opera, in definitiva, (solo) con gli strumenti insostituibili della li(20) (21) (22) (23) (24)
Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 148. Cfr. Antigiuridicità, cit., p. 149. Cfr. Antigiuridicità, cit., pp. 51-52. Lezioni di Filosofia del diritto, cit., pp. 217-218. Antigiuridicità, cit., p. 150.
— 1156 — bertà della persona umana’’ (25). E, più oltre,: ‘‘se l’uso della forza resta come fatto bruto, il diritto è fallito’’ (26). Siamo al 1942: ben prima, dunque, che il pensiero ‘‘penalistico’’ di Moro avesse avuto modo di esplicarsi appieno, nell’opera sulla antigiuridicità penale. Ma come negare che, in queste brevi righe, è già, tutta intera, indicata la sua ‘‘filosofia della pena’’ e la strada da percorrere? Si è detto che Moro non ha formulato una sua dottrina, sui fini della pena, ma ciò è esatto solo nel senso che non ci ha lasciato un’opera monografica destinata a questo tema immenso. Ciò nondimeno, la dottrina di Moro, sui fini della pena, è più che mai esplicita, e si svolge in assoluta coerenza, come abbiamo già osservato, con le ‘‘premesse’’ che in sede di filosofia del diritto, egli aveva già posto in ordine ai limiti di efficacia della ‘‘coazione’’ (o sanzione), cui abbiamo or ora fatto riferimento. La pena — come l’illecito — dev’essere anch’essa ‘‘personale’’: e non solo nel senso che nessun altro soggetto (diverso dall’autore dell’illecito) possa esserne destinatario, ma nel senso che essa dev’essere esperienza propria del condannato, cui è posto il compito di recuperare un ordine prima in se stesso, e poi nel rapporto con gli altri (27). Per ciò non sono ammissibili pene crudeli (anche la pena, come il reato, dev’essere misurata sul metro della ‘‘umanità’’) o sproporzionate. Per questo non può mai giustificarsi la pena capitale, che è ‘‘misura senza misura’’, eccesso inconcepibile, dettata dalla passione e dalla vendetta, non dalla ragione, e meno che mai dalla premura o dall’amore. Si è molto discusso sul fatto che Moro, alla Costituente, abbia votato a favore dell’emendamento Leone-Bettiol, che proponeva di modificare il testo, poi rimasto integro nella definitiva ed attuale formulazione, dell’art. 27 nella parte in cui esige che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Superficialmente, taluno potrebbe pretendere di dedurne che Moro fosse contrario ad assumere come direttiva costituzionale la ‘‘rieducazione’’, come finalità propria della pena. Si deve considerare, invece, che la notazione più significativa della proposta di emendamento Leone-Bettiol stava proprio nel sottolineare che le pene, anziché tendere alla rieducazione dovessero — solo — ‘‘non ostacolare il processo di rieducazione morale del condannato’’. Moro, dunque, non credeva al ‘‘mito’’, (rivelatosi poi tale), del ‘‘trattamento’’ come metodologia ‘‘risocializzatrice’’, e temeva (giustamente) che la ‘‘rieducazione’’ potesse, alla fine, essere scambiata con un mero ‘‘recupero’’ sociale, in senso ‘‘utilitaristico’’, al di fuori di ogni necessario sforzo o lavoro etico del soggetto. Ma era invece (25) Lezioni, cit., p. 46. (26) Lezioni, cit., ivi. (27) Cfr. F. TRITTO, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, in Aldo Moro e il problema della pena, Il Mulino, p. 38, p. 45 ss.
— 1157 — più che mai convinto che il ‘‘ritrovamento della verità’’ — che, Egli avverte — è cosa ben diversa dal non averla mai smarrita — non potesse mai realizzarsi per vie che ignorassero la intima spiritualità del soggetto cioè l’etica (28). Si è anche dubitato di quale fosse il pensiero di Moro, in ordine alla ‘‘pena perpetua’’, e ciò perché, come è noto, non ne fu ‘‘costituzionalizzato’’ il divieto, come, invece, per la pena di morte. Si è preteso di dedurne che Moro, dunque, fosse favorevole al mantenimento dell’ergastolo. Ma anche su ciò si è incorsi, a mio avviso, in un grave equivoco. In sede costituente, a Moro parve opportuno che fosse il legislatore ordinario a valutare il problema, probabilmente perché era ben conscio che l’orientamento prevalente dell’assemblea era contrario alla abolizione dell’ergastolo, ed un voto esplicito in questo senso avrebbe, indirettamente, rafforzato la legittimazione della pena perpetua condizionando anche le future scelte del legislatore ordinario. Ma nelle sue lezioni romane, come ricorda uno dei suoi allievi, Francesco Tritto (29), (ma potrei testimoniarlo io stesso) egli spiegò con chiarezza (e, ancora una volta, con coerenza) le ragioni profonde del suo dissenso. Non è lecito — Egli diceva — rendere la vita, essa stessa, pena: e tale è la vita priva non solo della libertà, ma finanche della speranza. Ridurre il soggetto in una condizione tale da dover considerare come ‘‘pena’’ lo stesso fatto di vivere, significa ostacolare gravemente lo sforzo di ‘‘ritrovamento’’ della verità e l’impegno etico del soggetto. Certo, questo non resta del tutto precluso: ma — come s’è notato — Moro ritiene che il diritto non possa fondarsi sugli ‘‘eroismi sublimi’’ che solo l’etica conosce. E d’altronde, Egli stesso, come cristiano, e quindi come attivo artefice di carità, non poteva non condividere quanto ebbe a dire, expressis verbis, Giuseppe Bettiol, nel partecipare a quel convegno appositamente promosso, nel terzo anniversario dalla morte, per ricordare il Maestro, dai suoi allievi romani, e cioè che ‘‘non c’è delinquente che non possa essere chiamato fratello, proprio nel momento in cui spara’’ (30). Di quant’altro, — ed è tanto! — si è detto e scritto, intorno al pensiero di Aldo Moro sulla pena, e sul suo (ipotetico) schieramento a favore (o meno) dei vari interventi normativi che, nel tempo, si sono succeduti (a partire dalla introduzione della possibilità della liberazione condizionale anche per gli ergastolani, sino alla riforma dell’ordinamento penitenziario e alla innovazione delle misure alternative alla detenzione) non è il caso, (28) Cfr., M. MARTINAZZOLI, Introduzione in Aldo Moro e il problema della pena, cit. p. 21. (29) Cfr. F. TRITTO, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, cit., pp. 45-46. (30) Cfr. BETTIOL, La concezione della pena in Aldo Moro, in Aldo Moro e il problema della pena, cit., p. 80.
— 1158 — tuttavia, di occuparsi in dettaglio (31). Quand’anche la promozione di tali istituti, di innegabile progressiva ‘‘umanizzazione’’ della pena, si dovesse ritenere estranea alla sua paternità spirituale (come, invece, molti indizi consentono di ritenere) le cose già dette sarebbero largamente sufficienti a suffragare il ‘‘disegno’’ generale, quel che ho chiamato ‘‘volto umano’’, del suo sistema penale. 3. Il quale discende — e con queste annotazioni ritengo di poter avviare a conclusione il mio discorso — a ben guardare, dalla inevitabile, coerente, inderogabile fedeltà al suo sistema morale. E non si tratta di certo di una fedeltà intesa come espressione di un integralismo acritico e, tanto meno, di un atteggiamento di mera osservanza confessionale. Basta riflettere sulle prime pagine del suo corso di Filosofia del diritto che inizia — lo si è più volte notato, e commentato, e sempre con rispetto, benché talvolta, non disgiunto da una certa sorpresa, — con una lezione su ‘‘Il problema della vita’’ per capire quali siano state le ‘‘fonti’’ del suo pensiero. Autorevoli ed insigni scienziati, (e credo di essere in debito di ricordare, innanzi tutto, Norberto Bobbio, cui si deve una accurata rievocazione dell’opera filosofica di Aldo Moro (32), così come Giuliano Vassalli ebbe a compierla per l’opera penalistica (33)), hanno formulato delle ipotesi, supponendo che Moro possa essersi ispirato a Maritain, o a Mounier, o ad entrambi (di cui, all’incirca a metà degli anni 30 erano infatti già apparsi gli scritti più significativi (L’Humanisme intégral (1936); Manifeste au service du personalisme (1936)). Così pure sono state ricordate singolari coincidenze con il pensiero di Giuseppe Capograssi che, già nel 1942, aveva pubblicato uno dei suoi saggi fondamentali sul ‘‘Significato dello Stato contemporaneo’’; nonché su ‘‘L’esperienza pratica e le sue forme fondamentali’’. Ma, mentre tali supposizioni restano mere ipotesi, quel che non è certamente casuale è che se Moro, Maritain, Mounier, Capograssi e tanti altri, per diverse ed autonome strade, hanno potuto giungere alle stesse conclusioni, a loro volta tutti evidentemente devono aver attinto alla medesima fonte, al pensiero cristiano, cioè, fonte di certezza vera e inestinguibile, incapace di generare diversità o, peggio ancora, deviazioni o infedeltà!! Né posso fare a meno di notare, a questo punto, come, per la stessa ragione, sinanche un ‘‘non scienziato’’, ma cattolico convinto, Mino Martinazzoli — che curò la pubblicazione degli atti del Convegno cui ho po(31) Sul punto v. G. VASSALLI, Le funzioni della pena nel pensiero di Aldo Moro, in Aldo Moro e il problema della pena, cit., p. 57 ss. (32) V. N. BOBBIO, Diritto e Stato negli scritti giovanili, relazione presentata al Convegno su Il pensiero e l’opera di Aldo Moro, Bari 16-17 giugno 1979, pubblicato in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, Milano, 1982. (33) V. G. VASSALLI, L’opera penalistica, ivi.
— 1159 — c’anzi accennato — poté scrivere, usando parole che potrebbero essere state scritte dallo stesso Moro — che ‘‘non c’è più misura per nulla, se la vita umana non è la misura’’ (34). Ritorna, dunque, e, direi, con urgenza, ed assume il posto centrale, il ‘‘problema della vita’’. Ma che cosa è, il problema della vita, in Aldo Moro? Per capire, basta leggere le prime righe della sua prima lezione, come dicevamo, ed aggiungervi le ultime: ‘‘per poter intendere la genesi ideale del diritto e dello Stato, dobbiamo partire da una rapida impostazione del problema della vita, il problema, cioè, morale’’. Dove, in quel ‘‘cioè’’, è detto già tutto. E si può intendere la pienezza della vita, solo in quanto vita etica, leggendo le ultime parole del testo: ‘‘certo è solo questa serena coscienza di una verità e di una gioia che accompagnano immancabilmente la vita, che dà significato e valore ad ogni vicenda, lieta e triste, e, inserendo, appunto, ogni esperienza nell’assoluto e nell’eterno... toglie l’inganno del tempo che travolge ogni cosa... Per ciò, è bello vivere’’ (35). Sono pagine come queste — ma solo esse — a poter dar conto della Fonte (l’unica) di Aldo Moro, la cui formazione giovanile è appunto, il prevalente oggetto di riscoperta, come impegno di questo convegno. E come non rilevare, a questo punto, la perfetta consonanza delle Parole che abbiamo appena ricordato, rivolte da Moro ai suoi studenti, con quelle che Egli rivolge al Suo caro amico Donato de Leonardis, in una delle tante lettere di cui la sig.ra Noretta gli consentì la pubblicazione ‘‘perché i figli potessero conoscere l’umanità del Padre’’? (36). Moro scrive, in un momento in cui vive l’esperienza di una solitudine ‘‘popolata di persone e di cose che non parlano al nostro Spirito’’ (37), per confidare all’amico di essere riuscito a veder chiaro quel che è essenziale nella vita, e quello che è, invece, vano e accessorio. Ed essenziale è che ‘‘poche persone, ricche della loro semplice interiorità — si tengano per mano, e si vogliano bene’’ (38). E non ritornano forse qui, prepotentemente, alla mente le parole di Giuseppe Capograssi, allorché scrive che il ‘‘segreto della vita è l’unica cosa semplice che ci sia ed è appunto il ‘‘voler bene’’, che non significa, poi, cosa diversa dal volere il Bene!! (39). Come non restare abbagliati, dunque, dagli infiniti orizzonti di luce che si dischiudono dinanzi a chi ‘‘ha occhi per guardare’’? Certo, le lezioni di Moro — come è stato già notato — non sono delle lezioni accademiche, e tanto meno didascaliche, nel senso usuale della pa(34) (35) (36) (37) (38) (39)
V. M. MARTINAZZOLI, Introduzione, cit., p. 25. Lezioni, cit., pp. 7, 16. DE LEONARDIS, L’umanità di Aldo Moro, Foggia, 1993, p. 10. DE LEONARDIS, op. cit., p. 141 ss. DE LEONARDIS, op. loc. cit. G. CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza comune, in Opere, II, Giuffrè, 1959.
— 1160 — rola, né i suoi scritti sono, altrettanto, di agevole e di piana lettura. Sono, per gran parte, discorsi vibranti, tesi, come ha già detto Bobbio (40), non solo (e non tanto) a far conoscere o a far riflettere, ma a persuadere, ad esortare, a scuotere, a suscitare emozioni, a formare convinzioni. Ebbene io credo di poter dire, senza falsa modestia, che l’auspicio formulato da Giuseppe Bettiol, e cioè che la Scuola da lui lasciata, a Roma e a Bari, potesse essere degna di questa paternità spirituale (41), può considerarsi avverato. Della umanità, e della lezione di umanità, di Renato Dell’Andro, suo primo, affezionato discepolo, non è certo lecito dubitare: così come credo non possa disconoscersi la ideale fedeltà di chi vi parla al Suo insegnamento e lo sforzo incessante compiuto per tramandarlo e diffonderlo (42), benché talvolta, ad un prezzo altissimo, qual è quello dell’incomprensione, nel tempo in cui viviamo: nel quale, ahimé, da troppi segni emerge, e sembrerebbe incontenibile, una sorta di rivolta contro la necessaria umanità del diritto, e soprattutto del diritto penale, di cui si invoca, invece, a gran voce, una sempre maggiore severità. Mi confortano, però, in questo sforzo di costante e coerente impegno di fedeltà al pensiero del Maestro, ancora una volta, le parole di Mino Martinazzoli: ‘‘La ferocia non ha durata, perché non ha verità. Ciò che è vero, ciò che ha durata, è quello che resiste, ed è impareggiabilmente forte’’ (43). GAETANO CONTENTO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bari
(40) BOBBIO, op. cit., p. 12. (41) BETTIOL, La concezione della pena, cit., p. 80. (42) Mi sia consentito ricordare il mio ‘‘Corso di diritto penale’’, Bari, 1996. (43) M. MARTINAZZOLI, Introduzione, cit., p. 24.
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E REATI ASSOCIATIVI: PROBLEMI E PROSPETTIVE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’esigenza di arricchire la tipicità della fattispecie associativa. — 3. L’opportunità di sostituire fattispecie associative generali con una pluralità di fattispecie differenziate. — 4. I reati associativi c.d. politici ed il progetto di riforma.
1. Il tema dei reati associativi è ormai da tempo al centro dell’attenzione della dottrina. La maggioranza degli studiosi, convinta della loro efficacia e comunque preoccupata di non indebolire la repressione della criminalità organizzata, è favorevole a mantenere la previsione normativa (1); e in questo senso si muove anche lo schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale elaborato dalla commissione Pagliaro. Una minoranza di studiosi tuttavia propone di eliminare dal nostro ordinamento tali fattispecie ritenute pericolose perchè carenti sul piano della tipicità e fonte, nella pratica, di distorsioni applicative ed abusi (2). Le preoccupazioni evidenziate sono reali e dovranno essere prese in considerazione in sede di riforma, ma non possono giustificare la proposta abolizionista. È opportuno precisare innanzitutto che, contrariamente a quanto taluno potrebbe ritenere, non stiamo vivendo una fase transitoria o di emergenza. La crescita quantitativa e qualitativa delle associazioni criminali è il riflesso della trasformazione strutturale che caratterizza tutta la vita economica moderna. Il futuro che ci attende è nel senso di una evoluzione verso forme più complesse ed articolate di aggregazioni organizzate. Si tratta di un fenomeno generale, irreversibile, che porterà anche nel settore (*) Lo studio è destinato agli scritti in memoria di G.D. PISAPIA. (1) C.F. GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 412 e ss. (2) In tal senso il Rapporto nazionale italiano di S. MOCCIA al Colloquio preparatorio, organizzato a Napoli dal Gruppo italiano dell’Association internationale de droit pénal, nei giorni 18, 19 e 20 settembre 1997 in vista del XVI Congresso internazionale di diritto penale che si svolgerà a Budapest nel 1999 su Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé. Cfr. altresì G. INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 234 ss. e 276 ss.
— 1162 — criminale ad associazioni transnazionali sempre più estese e totalizzanti capaci con i loro enormi profitti di condizionare in modo determinante i centri del potere politico ed economico. La « globalizzazione » della criminalità organizzata rappresenta la prospettiva drammatica degli anni 2000, mentre la criminalità individuale è destinata ad un ruolo sempre più secondario e marginale (3). Una tappa verso la globalizzazione è costituita dalle alleanze strategiche di più associazioni transnazionali che tendono a divenire stabili. Quest’ultima non è peraltro un’ipotesi fantasiosa. Le indagini giudiziarie di questi ultimi anni hanno accertato tale fenomeno nei più svariati settori, dal traffico internazionale degli stupefacenti a quello delle armi, dall’emigrazione di massa degli albanesi e dei curdi al traffico delle prostitute dall’Europa orientale a quella occidentale, e così via. Di fronte a questo quadro assai realistico è ingenuo pensare di abbassare la guardia abolendo le fattispecie associative che rappresentano spesso — non dimentichiamolo — l’unico modo per colpire i vertici di una organizzazione criminale indipendentemente dall’accertamento, spesso assai difficile, della loro partecipazione ai singoli delitti-scopo. Nè, a tal fine, abolito il reato associativo, sarebbe di alcuna utilità considerare l’esistenza dell’associazione criminosa come una semplice circostanza aggravante dei delitti-scopo (4). Un’aggravante del genere, soggetta peraltro al giudizio di bilanciamento, servirebbe solo ad inasprire il trattamento sanzionatorio degli esecutori materiali, che svolgono in genere un ruolo subalterno. I capi dell’organizzazione, almeno all’interno delle associazioni criminali di una certa complessità, difficilmente prendono parte alla realizzazione del singolo delitto-scopo; e lo stesso ordine di commetterlo risulterà dato dalle gerarchie intermedie che fungono di fatto da schermo protettivo invalicabile. In difetto di prova della partecipazione dei capi al delitto-scopo nessuna sanzione sarebbe loro applicabile e del tutto irrilevante risulterebbe — una volta aboliti i reati associativi — la prova anche sicura del ruolo qualificato svolto all’interno dell’associazione. La via da seguire dunque non è quella di eliminare le fattispecie associative, ma di perfezionarle, coniugando, quanto più è possibile, garanzie (3) Thomas WEIGEND nelle prime pagine della Relazione generale svolta a Napoli al Colloquio preparatorio sopra citato, si chiede se il sistema penale, divenuto ormai poco funzionale, non debba essere sostituito da un sistema basato su un nuovo assetto di principi, ‘‘la cui essenza — traduco alla lettera — non può essere ancora la punizione dei delitti già commessi, ma la prevenzione dei crimini mediante l’eliminazione delle strutture che lo determinano; esso non può essere ancora diretto agli individui, ma a gruppi o entità legali; il suo punto focale non può essere ancora la deterrenza o la riabilitazione individuale, ma la distruzione delle basi economiche di un’organizzazione criminale’’. Nel seguito della sua Relazione, tuttavia, WEIGEND finisce col mostrarsi molto cauto nei confronti di un’ipotesi così radicale, passando a considerare ‘‘se ed in che misura le regole ed i principi della parte generale del diritto penale possano essere adattate alla sfida posta dal crimine organizzato’’. (4) In tal senso, da ultimo, S. MOCCIA, nel Rapporto nazionale italiano, cit.
— 1163 — individuali e difesa della collettività. In tale ottica — come ho già avuto occasione di dire nel mio intervento al Convegno di Courmayeur sui reati associativi (5) — credo sia opportuno muoversi contemporaneamente in due direzioni e cercare, da un lato, di arricchire, per quanto è possibile, la tipicità delle fattispecie associative e, dall’altro, di circoscrivere e differenziare tali fattispecie, evitando di punire associazioni finalizzate alla realizzazione di delitti-scopo di modesto rilievo. 2. L’arricchimento della fattispecie sul piano oggettivo può essere perseguito in due direzioni. Una prima strada, già proposta in dottrina, è quella di richiedere espressamente nella norma incriminatrice che l’associazione abbia una struttura organizzativa stabile (6). È certamente utile evidenziare l’importanza dell’elemento dell’organizzazione per la sussistenza di qualunque associazione ed in particolare di un’associazione criminosa (7). È legittimo pero dubitare che la semplice esplicitazione di tale elemento, chiaramente implicito nel concetto di associazione, riesca a modificare lo stato delle cose. L’indirizzo giurisprudenziale del tutto prevalente, com’è noto, tende a minimizzare a parole (ma ad annullare nei fatti) l’elemento dell’organizzazione. Le espressioni usate talvolta cambiano, il risultato è però lo stesso. Alcune sentenze ritengono sufficiente ‘‘un vincolo associativo non circoscritto ad uno o più delitti’’, senza preoccuparsi di precisare cosa distingua il vincolo associativo dall’accordo di analogo contenuto; altre chiariscono che è necessaria una struttura organizzativa stabile, ma la svuotano di ogni contenuto nel momento in cui aggiungono che è sufficiente ‘‘un’organizzazione anche rudimentale, priva di ripartizione di ruoli e di funzioni’’ (8). Non viene comunque mai chiarito cosa debba essere accertato dai giudici di merito per ritenere sussistente questa ‘‘organizzazione rudimentale’’, che finisce il più delle volte con l’essere presunta. In tal modo vengono salvate dall’annullamento sentenze che si limitano a motivare l’esistenza del reato associativo con clausole di stile contenenti un generico riferimento al numero degli imputati e alla continuità dei reati commessi. La confusione tra il piano probatorio-processuale e quello penale è evidente. Tale confusione di piani finisce con l’annullare ogni diffe(5) Convegno su I reati associativi, organizzato nei giorni 10, 11 e 12 ottobre 1997 a Courmayeur dal Centro di prevenzione e difesa sociale. (6) G. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 274. Su questa strada si pone nella sostanza l’ordinamento svizzero che con la l. 18 maggio 1994 ha introdotto nel codice penale all’art. 260-ter il reato di kriminelle Organisation, usando il termine organizzazione come equivalente di associazione. (7) Sul concetto di organizzazione v. la voce Reati associativi, in Enc. giur., p. 4 e ss. (8) A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, 4a ed., Padova, 1996, p. 1050.
— 1164 — renza tra reato associativo e concorso di persone nel reato continuato, eliminando di fatto l’elemento dell’organizzazione, a parole riconosciuto. Si innesta peraltro una spirale perversa per cui gli stessi pubblici ministeri si sentono autorizzati ad omettere ogni indagine finalizzata ad accertare la struttura organizzativa anche quando tale accertamento sarebbe agevole. Esempio vistoso di interferenza circolare tra prassi ed interpretazione giurisprudenziale prima e poi tra interpretazione e prassi che finisce col dare, ahimé, giustificazione e sostegno alla tesi abolizionista. Occorre allora intervenire in modo più deciso nella formulazione della norma. Una soluzione ‘‘drastica’’ è quella di richiedere che la struttura organizzativa sia adeguata a realizzare il programma criminoso (9). In tal modo il giudice sarebbe costretto a verificare in concreto l’esistenza dell’organizzazione per poi accertare la sua adeguatezza al programma. È una buona regola, tuttavia, non sottovalutare i problemi probatoriprocessuali che discendono dalla tecnica di costruzione della fattispecie (10). In particolare richiedere in positivo l’elemento dell’adeguatezza dell’organizzazione darebbe spazio alle tesi difensive più esasperate, dirette a sostenere in ogni caso ed in ogni modo, se necessario anche dilatando il programma associativo, la non completa adeguatezza della struttura organizzativa. Il giudice sarebbe così costretto ad una sorta di probatio diabolica. E perciò, in quest’ottica, sarebbe meglio riferirsi all’adeguatezza in negativo ed escludere il reato in presenza di un’associazione che persegue il programma criminoso con una struttura del tutto inadeguata alla sua realizzazione. La seconda direzione da seguire per soddisfare le esigenze garantistiche sopra prospettate è quella di arricchire la tipicità delle fattispecie associative sul piano degli elementi oggettivi facendo ricorso a fattispecie a struttura mista o complessa. Sino a pochi decenni addietro non sembrava concepibile altra forma di reato associativo se non quello tradizionale, perfetto con la semplice costituzione del sodalizio criminoso. Ma in questi ultimi anni il legislatore, quando ha ritenuto necessario creare nuove fattispecie associative, ha fatto ricorso sempre più spesso a reati (che mi è parso giusto chiamare reati associativi a struttura mista) caratterizzati da una struttura associativa e da un’attività degli affiliati che va oltre il momento ‘‘preparatorio’’, la semplice attività di organizzazione dell’associazione, per proiettarsi all’esterno verso la realizzazione del programma strumentale o finale. E quel che è avvenuto per l’associazione segreta, per (9) V. PATALANO, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971, 94; G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, Bologna, 1997, 474. (10) Analogamente le riforme processuali non dovrebbero sacrificare oltre misura i principi fondamentali del diritto penale com’è avvenuto, purtroppo, con l’ultimo codice di procedura penale.
— 1165 — l’associazione di tipo mafioso e per il delitto di ricostituzione del disciolto partito fascista (11). 3. Ho già avuto occasione di segnalare che è pericoloso ed ingiusto sottoporre ad uno stesso trattamento sanzionatorio (ed a una stessa disciplina processuale) associazioni che si propongono di commettere delitti di modesta gravità ed associazioni finalizzate a commettere reati gravissimi. Si pensi all’art. 416 c.p., che punisce allo stesso modo, ad esempio, coloro che si associano per stampare pubblicazioni oscene e coloro che si associano per commettere sequestri di persona a scopo di estorsione. Con la conseguenza che in quest’ultimo caso la pena prevista per il reato associativo è di gran lunga inferiore rispetto a quella prevista per la commissione di un solo delitto-scopo; mentre nell’ipotesi di associazioni finalizzate alla perpetrazione di delitti di modesta gravità la pena per il reato associativo è molto più elevata di quella prevista per il delitto-scopo (pena che potrebbe anche essere solo quella della multa). E si ha un bel dire che il fenomeno associativo può trovare un oggetto di tutela (ordine pubblico in senso ideale) anche a prescindere dalla tipologia dei delitti-scopo: come è stato giustamente osservato, non è possibile costruire per i reati associativi un oggetto di tutela del tutto indipendente dalle caratteristiche dei reati-scopo (12). Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il nostro ordinamento prevede già oggi pene più severe, rispetto a quelle previste dall’art. 416 c.p., per l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, pene che non possono giustificarsi se non in funzione della particolarità dei delitti-scopo. In tema di riforma dei reati associativi è necessario dunque dare adeguato rilievo alla maggiore o minore pericolosità del programma criminoso. Si potrà giungere così ad escludere, in ossequio al principio di extrema ratio, la punibilità delle associazioni finalizzate a commettere delitti di modesta gravità. Già oggi d’altronde non sono punibili le associazioni finalizzate a commettere contravvenzioni: si pensi alle associazioni finalizzate all’esercizio di case da gioco o all’attività di gestione di rifiuti senza autorizzazione. Comunque la scelta di differenziare le fattispecie associative in considerazione del programma strumentale (metodo segreto, mafioso, ecc.) o del loro programma finale (tipo di delitto scopo) consentirà la previsione di pene differenziate più adeguate al disvalore di ciascun fatto. Sotto un profilo di politica penale è in questa direzione che deve (11) Sulle fattispecie associative a struttura mista v. Reati associativi, cit., p. 2 e ss., ma già in Beni e tecniche della tutela penale, 1987, pp. 157 e 158. (12) G. DE VERO, op. loc. cit.; G.A. DE FRANCESCO, in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, I, Torino, 1995, p. 22.
— 1166 — muoversi la riforma per soddisfare nello stesso tempo esigenze di ragionevolezza, di ‘‘tipicità’’ e di difesa della collettività. Sul piano della tecnica di costruzione della fattispecie la prospettiva indicata può essere attuata seguendo due strade. Una prima soluzione può essere quella di prevedere un reato base, destinato alle associazioni finalizzate a commettere delitti di media gravità, ed una serie di circostanze aggravanti per le associazioni che si ritengano più pericolose in ragione del programma criminoso. L’aumento di pena, naturalmente, potrà essere diversificato e si potrà prevedere un aumento maggiore nel caso di concorso di circostanze. La seconda soluzione è quella di prevedere in luogo di norme incriminatrici di portata generale, come l’attuale art. 416 c.p., distinte incriminazioni dirette a punire i fenomeni associativi più significativi, utilizzando le indicazioni che provengono dall’esperienza giudiziaria e dalle scienze criminologiche. Seguendo tale soluzione, il legislatore dovrà naturalmente tener conto della possibilità che associazioni criminose perseguano delitti rientranti nel programma di più fattispecie; e potrà prevedere, se riterrà giusto evitare il concorso formale di reati, una clausola di esclusione in favore del reato più grave. Se si segue la seconda soluzione, è da augurarsi che venga creato un titolo dedicato ai reati associativi che consenta di fissare criteri e principi generali validi per tali reati, eliminando particolarità e differenze, non sempre meditate, spesso casuali o poco ragionevoli, frutto di una legislazione frammentaria e non coordinata (13). Nel titolo dedicato alla criminalità organizzata potrebbero — e forse dovrebbero — essere inclusi anche i reati associativi c.d. politici. 4. Con riferimento ai reati associativi politici è stata giustamente invocata una semplificazione della disciplina, che attualmente, anche a se(13) L’esame congiunto dei vari fenomeni associativi — come ho già cercato di evidenziare — consentirà la previsione di fattispecie, procedure di accertamento, misure e sanzioni adeguate alla crescente gravità e complessità del fenomeno: si potranno ridurre le ipotesi di interferenza tra norme e comunque risolvere esplicitamente i problemi di concorso tra fattispecie associative largamente coincidenti; si potranno evitare diversità di previsioni, non sempre giustificate dalla peculiarità del fenomeno incriminato. Si pensi alla differente disciplina in tema di ‘‘promotori’’ delle associazioni, alla figura del ‘‘sovventore’’, prevista tra i ‘‘partecipi qualificati’’ nel delitto di banda armata, ed alla condotta di ‘‘proselitismo’’, prevista solo per le associazioni segrete. Si pensi altresì al fatto che l’art. 307 c.p. (Assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) non si applica nel caso di assistenza ai partecipi di un’associazione con finalità di terrorismo e di eversione; e che l’art. 418 c.p. (Assistenza agli associati), se può essere riferito all’art. 416-bis che lo precede, ben difficilmente può ritenersi applicabile alle associazioni criminose speciali previste in altri testi normativi (droga, contrabbando, ecc.). ‘‘Poco male, naturalmente, se questa disparità di disciplina, sebbene incongrua, fosse il risultato di una scelta consapevole: è però assai probabile che essa sia conseguenza non voluta della frammentarietà degli interventi legislativi e della mancanza di un quadro di riferimento o di una disciplina generale della materia’’ (L’associazione di tipo mafioso, 2a ed., Padova, 1987, pp. 159, 160).
— 1167 — guito dell’opera di integrazione normativa sviluppatasi dopo la caduta del fascismo, è caratterizzata da un caotico accavallarsi di fattispecie di analogo contenuto (14). Su questa strada si muove lo ‘‘Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale’’, elaborato dalla commissione presieduta da A. Pagliaro, che ha ricondotto i reati in questione a tre sole fattispecie: l’‘‘associazione eversiva’’, la ‘‘cospirazione politica’’ e l‘‘’associazione segreta’’ (15). Per quanto riguarda l‘‘’associazione eversiva’’ potrebbe essere messa in dubbio l’omogeneità delle varie ipotesi che vengono ricondotte ad una stessa disciplina: associazioni che perseguono finalità politiche di per sé vietate, associazioni che perseguono finalità politiche lecite con mezzi violenti e associazioni che perseguono queste ultime finalità mediante un’organizzazione di carattere militare. Sarebbe forse opportuno distinguere le tre ipotesi per punirle in modo diverso. Più forti sono le riserve con riferimento al reato di ‘‘cospirazione politica’’ che perpetua il difetto dell’attuale art. 305 c.p., ponendo sullo stesso piano associazioni che perseguono delitti contro la personalità dello stato di significato e disvalore profondamente diversi. Si ripropongono perciò i rilievi sopra formulati alla troppo ampia fattispecie di associazione per delinquere. Per l’‘‘associazione segreta’’ lo Schema di delega sembra costruire la fattispecie in chiave meramente associativa, non richiedendo che vengano poste in essere dagli associati attività dirette alla realizzazione del programma criminoso. Se così stanno le cose, si andrebbe verso un impoverimento della fattispecie sul piano della tipicità. È pertanto preferibile, a mio sommesso avviso, restare ancorati all’attuale associazione segreta, come prevista dall’art. 1 della l. 25 gennaio 1982, n. 17, che — com’è noto — richiede che gli associati abbiano posto in essere un’attività diretta ad ‘‘interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale’’. GIUSEPPE SPAGNOLO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bari
(14) T. PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 1 e ss. (15) V. art. 127 dello schema di delega, in Ind. pen., 1992, p. 666.
PRESUNZIONE D’INNOCENZA E CONSIDERAZIONE DI NON COLPEVOLEZZA. LA FUNGIBILITÀ DELLE DUE FORMULAZIONI (*).
SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. Il principio e la regola. — 2. Il principio: il dibattito tra le grandi scuole. — 3. Dal principio alla regola: le opinioni della Costituente. — 4. La regola: l’interpretazione abrogatrice. — 5. Per un nuovo approccio all’interpretazione: la prospettiva filosofico-analitica. — 6. La purificazione del linguaggio. — 7. Le premesse di partenza. — 8. L’interpretazione rigorosa. — 9. Due linguaggi diversi.
1. Premessa metodologica. Il principio e la regola. — Se assumiamo per definizione « la formulazione, per mezzo di altri termini, delle condizioni di applicazione di un termine » (1) (intendendo per termine un singolo vocabolo o una espressione composta da un complesso di vocaboli ben formato) (2); e se ulteriormente consideriamo che un linguaggio settoriale altamente specializzato, quale è quello giuridico, male tollera l’individuazione di uno stesso concetto da parte di più termini (nel senso poc’anzi inteso), allora occorre innanzitutto procedere, prima di affrontare l’oggetto della presente riflessione, ad una serie di fondamentali precisazioni. Nel tema de quo accade infatti che più espressioni siano utilizzate per identificare lo stesso concetto: si parla indifferentemente di « presunzione d’innocenza » e di « presunzione di non colpevolezza », senza attribuire alle diverse formule particolari sfumature di significato. O al massimo si riconosce nella « presunzione d’innocenza » la formula per così dire « vera », univoca nel significato ed ortodossa nelle potenzialità operative; indicando invece con la « presunzione di non colpevolezza » la ricezione costituzionale del principio, salvo poi a discutere sull’ampiezza di tale accoglimento. Quasi mai si fa menzione della formulazione positiva del principio, e cioè della « considerazione di non colpevolezza » (art. 27, secondo comma, Cost.). (*) Relazione presentata al XII Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale su « Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni » (FoggiaMattinata, 25-27 settembre 1998) (1) SCARPELLI, La definizione nel diritto, in Diritto e analisi del linguaggio, a cura dell’A., Milano, 1976, p. 183. Sulle definizioni legislative, per un esauriente quadro d’insieme, cfr. TARELLO, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, I, t. 2, Milano, 1980, pp. 153 ss. (2) Cfr. TARELLO, op. ult. cit., p. 153.
— 1169 — Per evitare incomprensioni, è di conseguenza doveroso procedere ad opportune ridefinizioni (3). Si danno due espressioni, lato sensu sinonime (« presunzione d’innocenza » e « presunzione di non colpevolezza »). Ad esse si ritiene poter aggiungere una terza, perché più aderente al dettato normativo (la ‘‘considerazione di non colpevolezza’’). Ad ognuna saranno attribuiti uno specifico significato ed un preciso ambito di operatività, pur rispettandone la comune natura giuridica, ben identificabile nella species dei principi (4). Con la formula della « presunzione d’innocenza » si intenderà il principio nella sua sfera etica, di impatto esclusivamente ideologico. Si accantonerà per un attimo la circostanza della sua positivizzazione a livello di normativa convenzionale; e la si considererà, per ragioni di carattere eminentemente storico, alla stregua di un principio inespresso, cioè privo di disposizione, elaborato e « costruito » dagli interpreti sulla base di precise opzioni assiologiche (5). Con la formula della « considerazione di non colpevolezza », invece, si indicherà la regola (cioè la norma) costituzionale, la quale, pur conservando ontologicamente la forza politica del principio, è al tempo stesso analizzabile su di un terreno precipuamente esegetico, in quanto espressamente prevista a livello costituzionale (6). Da ultimo, la formula della « presunzione di non colpevolezza » sarà utilizzata esclusi(3) Intendendosi per ridefinizione la precisazione circa il significato di un vocabolo o sintagma, al fine di eliminarne l’ambiguità e la vaghezza proprie dell’uso comune (sul punto, ed in genere sulla più ampia categoria delle definizioni stipulative, cfr. GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile e commerciale, I, t. 1, Milano, 1998, pp. 5-6). (4) Con riguardo ai principi, deve parlarsi di species, e non di genus; ne deriverebbe, in caso contrario, la conseguenza che i principi non sono norme. La tesi, che presuppone una distinzione forte tra norme e principi, non è accettabile: se per ‘norma’ « si intende, conformemente all’uso comune, qualunque enunciato rivolto alla guida del comportamento » (GUASTINI, op. ult. cit., pag. 272), lo stesso deve dirsi pure per i principi. La distinzione tra principi e norme, in realtà, « deve essere costruita come distinzione debole: i principi non sono altra cosa dalle norme, ma solo una specie particolare nel genere delle norme » (Ibid., p. 274). (5) Cfr. GUASTINI, op. ult. cit., p. 288. (6) Rileva in tal caso la figura del principio espresso, cioè esplicitamente formulato in apposita disposizione costituzionale o legislativa, dalla quale può essere ricavato mediante interpretazione (cfr. GUASTINI, op. ult. cit., p. 287). Sul valore di regola (cioè norma) della formula ‘‘considerazione di non colpevolezza’’ è indispensabile rifarsi alle acute osservazioni di GREVI, Il problema della lentezza dei procedimenti penali: cause, rimedi e prospettive di riforma, in Giust. pen., 1981, III, c. 595, ove si evidenzia come il « nostro legislatore, a differenza di quanto può capitare in altri ordinamenti, non è libero di adottare — in tema di « definitività » della sentenza di condanna — le soluzioni che gli sembrino più opportune, fino al punto da attribuire la relativa qualificazione alla sentenza pronunciata in primo grado. Vi si oppone (il corsivo è nostro per sottolineare appunto la forza di regola dell’art. 27 comma 2o Cost.) a ben vedere il secondo comma dell’art. 27 in questione, « in forza del quale ‘‘l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva’’, né sembra che
— 1170 — vamente per ragioni di comodità espositiva: perché poco aderente al dato normativo, innanzitutto (la tradizionale « presunzione », in luogo della « considerazione » di cui all’art. 27, comma secondo, Cost.), e perché facilmente soggetta a fraintendimenti ed incomprensioni. Con essa si individuerà quella corrente di pensiero volta ad attenuare la portata della norma costituzionale di cui all’art. 27, comma secondo, Cost. Un chiarimento terminologico in tal modo impostato si rimetterà poi sugli stessi assetti dell’intera riflessione: si distingueranno, infatti, un momento ideologico ed uno esegetico, pure con le inevitabili invasioni di campo dell’uno nell’altro; ad imporlo è la peculiantà del tema, e la sua natura poliforme: principio e (proprio in quanto tale) regola, valore etico e comando normativo. È indubbio che il principio partecipi degli stessi connotati genetici della norma (o regola, che dire si voglia); è anzi esso stesso norma, seppur con carattenstiche del tutto particolari. È altrettanto indubbio, però, che esso richieda al giurista un approccio diverso da quello consueto. Sono i suoi tratti distintivi ad imporlo: pure essendo una norma, costituisce un qualcosa di diverso rispetto a quest’ultima: per essere rispetto ad essa un prius logico, innanzitutto, e soprattutto perché al giurista chiede altro che il mero ricorso alle consuete tecniche interpretative. È diverso il piano: alle regole si ubbidisce, mentre ai principi si aderisce, come è stato incisivamente notato (7), poiché i principi non possono essere interpretati attraverso l’analisi del linguaggio, ma al massimo intesi nel loro ethos (8). In essi « non c’è nulla che abbia da essere estratto fuori ragionando sulle parole » (9), se non il mondo di valori e le grandi opzioni di civiltà di cui sono espressione (10). Di fronte ad un principio, di conseguenza, il giurista deve innanzitutto scegliere. Deve cioè preliminarmente decidere, prima di affrontarne gli aspetti propriamente giuridici, se accettarne l’humus culturale di riferimento. È una questione etica, prima ancora che interpretativa, e l’etica, tale ostacolo potrebbe venire superato, in sede di legislazione ordinaria, attraverso il conferimento del carattere di ‘‘definitiva’’ alla sentenza di condanna pronunciata in primo grado ». Cfr. altresì dello stesso Autore, sul punto, Una prospettiva realistica verso il nuovo codice di procedura penale, in Politica del diritto, 1980, p. 84. (7) Cfr. ZAGREBELSKY, II diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, p. 149. (8) Cfr. GIANFORMAGGIO, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su principi, in Riv. int. fil. dir., 1985, p. 66. (9) ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 148. (10) Una tesi, peraltro, ritenuta da alcuni non condivisibile, in quanto l’« interpretazione in astratto — cioè l’interpretazione testuale — è operazione logicamente necessaria per, e antecedente a, ogni interpretazione in concreto », risolvendosi una simile visione, allora, nella legittimazione di « un’interpretazione variabile delle disposizioni di pricipio, con esiti evidenti di incertezza del diritto e imprevedibilità delle decisioni giurisdizionali » (GUASTINI, op. ult. cit., p. 276, nota sub 12).
— 1171 — secondo una felice espressione, è « senza verità » (11). Un principio non è né vero né falso. Può essere solo condiviso o rigettato. La presunzione di innocenza appartiene di certo alla species dei principi. Non tanto perché è norma costituzionalizzata, quanto perché assolve ad un ruolo precipuamente costituzionale, « cioè costitutivo dell’ordine giuridico » (12). Accogliere in un dato ordinamento il principio in questione significa ben altro, o comunque molto di più, che disegnare in certi termini « la posizione dell’imputato rispetto all’accusa » (13). Significa invece, e molto più impegnativamente, abbracciare una specifica visuale processuale ed insieme una filosofia politica, ove assume un ruolo centrale il rapporto tra individuo e potere. Del resto, atteso che nelle relazioni tra individui e gruppi quanto maggiore è la libertà tanto minore è il potere, e viceversa, « è buona e quindi desiderabile e propugnabile di volta in volta quella soluzione che allarga la sfera della libertà e restringe quella del potere » (14). In ciò si coglie lo stretto legame tra presunzione d’innocenza e modello garantista di giurisdizione penale. Non ha cittadinanza, il principio in parola, in un contesto di stampo autoritario o totalitario, in un contesto, cioè, che massimamente persegue la punizione di tutti i colpevoli, piuttosto che la tutela di tutti gli innocenti (15). In questo caso è più consono, anzi logicamente coerente, l’opposto principio della presunzione di colpevolezza o del in dubio pro republica (16). Ma qualora — ed è opportuno ribadire la natura etica della scelta — si intraprenda la via dello Stato di diritto, inteso come « ordinamento in cui il potere pubblico, e specificamente quello penale, è rigidamente limitato e vincolato dalla (11) Cfr. SCARPELLI, L’etica senza veriità, Bologna, p. 1982. (12) ZAGREBELSKY, op. cit., p. 148. Ciò che rileva, infatti, è l’aspetto contenutistico della norma, piuttosto che quello formale, poiché non tutte le norme costituzionali possono essere ricondotte alla specie dei principi. Si pensi al caso della disciplina costituzionale della libertà personale: « Quando si dice che l’arresto deve essere convalidato dal giudice entro quarantotto ore [cfr. art. 13, terzo comma, Cost.], qui si ha a che fare con una regola; ma quando si dice che la libertà personale è inviolabile [cfr. art. 13, primo comma, Cost.], questo è un principio » (ZAGREBELSKY, op. cit., p. 148). (13) Cass., 27 luglio 1966, in Cass. pen. Mass. ann., 1967, p. 300. (14) BOBBIO, prefazione a FERRAIOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 3a ed., Roma-Bari, 1996, p. VIII. (15) Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 83. (16) Come apertamente auspicava MAGGIORE, Diritto penale totalitario nello stato totalitario, in Riv. dir. pen., 1939, p. 159, convinto assertore del c.d. diritto penale della volontà e, conseguentemente, fortemente critico nei confronti del principio di legalità penale, « la magna charta del delinquente », a suo dire (Ibid., p. 158): « Il giudice non sbaglierà mai, né farà uso arbitrario della sua potestà, quando, interpretando la volontà, sia pure formalmente inespressa, dello Stato e del suo capo, castigherà il delinquente che si ribella contro lo Stato. In caso di incertezza di diritto egli si accosterà al principio in dubio pro republica, che prende il posto, nello stato totalitario, all’antico in dubio pro reo » (Ibid., p. 159).
— 1172 — legge sotto il profilo sostanziale e sotto quello processuale » (17); qualora la tutela dell’innocente sia sopra ogni cosa privilegiata, anche a costo dell’immunità di qualche colpevole, allora occorre partire proprio dal principio della presunzione d’innocenza per tracciare le linee guida di un processo penale in tale senso orientato. Chi non ha avuto timore di cimentarsi in questa impegnativa quanto nobile impresa, dalla Scuola Classica fino ai nostri giorni (18), ha elevato il principio in questione a postulato etico di riferimento, in quanto « corollario logico del fine razionalmente assegnato al processo » (19). Ma chi ciò ha fatto, è bene ribadirlo, ha compiuto innanzitutto un’opzione di campo ideologica (20). La scelta si pone dunque in termini di doverosità. Più di trent’anni fa in dottrina a proposito delle « diatribe » sul contraddittorio, si avvertiva come « la radice del contrasto [fosse] ideologica »; ed essendo « risaputo che le ideologie contengono una carica emotiva insensibile alle discussioni raziocinate », prima di formulare proposte si precisava: « l’ordine d’idee qui seguito procede da una scelta: dalla premessa che sia moralmente doveroso adoperarsi per l’avvento di un processo concepito come dialogo di tre persone » (21). (17) FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 81. « È chiaro che il diritto penale minimo, cioè massimamente condizionato e limitato, corrisponde non solo al massimo grado di tutela delle libertà dei cittadini dall’arbitrio punitivo, ma anche un ideale di razionalità e di certezza. Ne risulta infatti esclusa la responsabilità penale tutte le volte che ne siano incerti e indeterminati i presupposti. Sotto questo aspetto esiste un nesso profondo tra garantismo e razionalismo » (Ibid.). (18) Si allude al pregevole lavoro di FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit. (19) LUCCHINI, Elementi di procedura penale, 2a ed., Firenze, 1899, p. 15. « L’affermazione di tale principio, se intesa nel suo pieno significato, rappresenta il cardine dell’ordinamento processuale moderno, poiché ad esso sono evidentemente collegate le più importanti garanzie che tutelano, direttamente, l’imputato e, mediatamente, la correttezza dell’accertamento. Il diritto alla difesa e al contraddittorio, I’inviolabilità della libèrtà personale la riserva di giurisdizione e l’imparzialità del giudice possono, senza sforzo, vedersi riassunte nella presunzione d’innocenza dell’imputato, o comunque in essa trovano la motivazione di fondo e l’elemento unificatore » (ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, Bologna, 1979, p. 5). (20) Ferrajoli (Diritto e ragione, cit.), dopo aver formalizzato, enucleandoli da undici parole chiave (pena, reato, legge, necessità, offesa, azione, colpevolezza, giudizio, accusa, prova e difesa: cfr. p. 67) i principi fondamentali del modello garantista di diritto penale (Nulla poena sine crimine, Nullum crimine sine lege, Nulla lex poenalis sine necessitate, Nulla necessitas sine iniuria, Nulla iniuria sine actione, Nulla actio sine culpa, Nulla culpa sine iudicio, Nullum iudicium sine accusatione, Nulla accusatio sine probatione, Nulla probatio sine defensione: cfr. p. 69), puntualizza: « Gli assiomi garantisti non esprimono proposizioni assertive, ma proposizioni prescrittive; non descrivono ciò che accade, ma prescrivono ciò che deve accadere. Si tratta, in altre parole, di implicazioni deontiche, la cui congiunzione dà vita a modelli a loro volta deontici, o normativi o assiologici. L’adozione di questi modelli presuppone dunque un’opzione etico-politica in favore dei valori da essi normativamente tutelati » (Ibid., p. 68). (21) CORDERO, Linee di un processo accusatorio, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, 1965, p. 64.
— 1173 — Lo stesso deve dirsi con riguardo al principio della presunzione d’innocenza: soltanto da una sua accettazione etica può derivare un successivo dispiegarsi delle sue enormi potenzialità operative, necessariamente coerente con le premesse, accantonando definitivamente quella prassi interpretativa banalizzante (22) che per decenni ne ha ostacolato l’espansione, facendo surrettiziamente leva sulla diversa formulazione che il principio ha ricevuto, una volta accolto, nella nostra Costituzione. Coerenza con le premesse, dunque; soprattutto, coerenza come valore (23). Soccorre ancora una volta la dottrina: « Il primo pregio di un sistema è la coerenza. Ciascuno fra i possibili sistemi ha una fisionomia: occorre quindi scegliere » (24). 2. Il principio: il dibattito tra le grandi scuole. — Quella della contrapposizione ideologica è una chiave di lettura obbligata nella trattazione e nella reale comprensione del principio della presunzione di innocenza. Su di essa, « opzione eticamente ‘‘forte’’ » (25), punto di partenza obbligato per ogni compiuta filosofia processuale, si sono confrontate tutte le grandi correnti del pensiero penalistico moderno, dalla Scuola Classica a quella Positiva fino all’indirizzo tecnico-giuridico. Una polemica che dapprima coinvolse lo stesso an del fenomeno, attesa l’assenza di un aggancio normativo di riferimento (26); e che successivamente si è assestata sul suo (22) Così PAULESU, voce Presunzione di non colpevolezza, in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, p. 672. (23) Sulla necessità di elaborare una teoria del diritto che, all’interno delle premesse ideologiche convenzionalmente assunte, sia il più possibile coerente e rigorosa, insiste FERRAJOLI, Interpretazione dottrinale e interpretazione operativa, in Riv. int. fil. dir., 1966, pp. 290-304; ID., Linguaggio assertivo e linguaggio precettivo, ivi, 1967, pp. 514-515. (24) CORDERO, Linee di un processo accusatorio, cit., p. 81. (25) PAULESU, voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 671. (26) A differenza dell’ordinamento francese, che all’art. 9 della Declaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 accolse il principio della presunzione d’innocenza (« Tout homme étant présumé innocent jusq’a ce qu’il ait déclaré coupable ») — peraltro contraddicendolo, di lì a poco, con il sistema processuale misto del 1808 — la legislazione italiana ha dovuto attendere fino alla Costituzione repubblicana del 1948 per una sua esplicitazione sul piano normativo. Sia lo Statuto Albertino, sia i codici del 1865 e del 1913 non contenevano nulla al riguardo, né ad essa potevano dirsi ispirati: sintomatico quanto affermato dal Carrara (Lineamenti di pratica legislativa penale, Torino, 1874, p. 47) a proposito del primo codice unitario: « Il Toscano viveva sotto la presunzione d’innocenza, l’Italiano vive oggi sotto la presunzione di colpa »; altrettanto sintomatiche, poi, le linee portanti del codice del 1913, ispirate a valori tutt’altro che aderenti al principio in questione (sul punto, cfr. DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, 1985, pp. 216 ss.; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., pp. 15 ss.; GHIARA, Presunzione d’innocenza, presunzione di ‘‘non colpevolezza’’ e formula dubitativa anche alla luce degli interventi della Corte Costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1974, p. 75; in senso parzialmente diverso, con riguardo alla disciplina della libertà personale nel codice del 1913, cfr. invece GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, pp. 10 ss.).
— 1174 — quomodo, a seguito della costituzionalizzazione del principio (art. 27, secondo comma, Cost.). Si possono perciò distinguere due momenti: quello antecedente, e quello successivo all’entrata in vigore della Costituzione. Aspra la contrapposizione nel primo; più sfumata nel secondo, ma non priva, per ciò solo, di significative implicazioni ideologiche. La Scuola Classica ha avuto il merito di sviluppare scientificamente le intuizioni del pensiero illuminista (27), riconducendo dapprima la presunzione d’innocenza ad una generica esigenza di legalità delle procedure (28), per poi valorizzarla — soprattutto ad opera di Francesco Carrara — attraverso un notevole allargamento della sua portata operativa (regola di trattamento dell’imputato, disciplina dell’onere della prova, regola di giudizio) (29), senza mai disconoscerne — ed anzi mettendo in risalto — la fondamentale valenza politica (30). Ma su premesse ugualmente politiche, o meglio di politica criminale, erano fondate le dure critiche al principio in questione da parte della Scuola Positiva: la presunzione (27) « La sicurezza dei cittadini », aveva affermato Montesquieu (Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, 1, Torino, 1973, pp. 321-322), « non è mai posta in pericolo maggiore che nelle accuse pubbliche o private. È dunque dalle leggi penali che dipende principalmente la libertà del cittadino », poiché « quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà ». Ma si pensi anche a Beccaria (Dei delitti e delle pene, a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1945, pp. 213-214), il quale proprio dalla presunzione d’innocenza (« Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti, co’ quali gli fu accordata ») traeva spunto per lanciare i suoi memorabili strali contro la pratica della tortura: « Qual è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? o il delitto è certo, o incerto: se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perché tale é, secondo le leggi, un uomo, i cui delitti non sono provati » (Ibid). (28) Cfr. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 14, il quale precisa in che senso il processo penale premoderno debba intendersi come basato sulla opposta presunzione di colpevolezza, come riteneva l’opinione comune del tempo: « È vero che, anteriormente all’imporsi della procedura moderna, non esisteva nel processo una chiara distinzione tra imputato e colpevole: ma più per la carente affermazione del momento giurisdizionale che per una razionale presunzione di reità. Non bisogna dimenticare che, nel proclamare l’innocenza dell’imputato fino alla condanna, si intendeva, in origine, mettere prevalentemente in rilievo l’esigenza di legalità della sanzione e del giudizio penale » (Ibid.). (29) Cfr. CARRARA, Il carcere preventivo e l’applicazione della pena, in ID., Opuscoli di diritto criminale, 2a ed., II, Prato, 1881, p. 500; ID., Immoralità del carcere preventivo, in ID., Opuscoli di diritto criminale, IV, Lucca, 1874, pp. 299 ss.; ID., Il diritto penale e la procedura penale, in ID., Opuscoli di diritto criminale, Prato, 1881, pp. 17 ss.; ID., Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, Lucca, 1863, § 828, p. 378. Le elaborazioni della Scuola Classica in tema di presunzione d’innocenza (si pensi anche a Carmignani, prima, e a Lucchini e Stoppato, poi) sono da ritenersi attualmente valide (cfr., tra gli altri, ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., pp. 31 ss.; ID., voce Presunzione di non colpevolezza, in Enc. Giur., XXIV, Roma, 1991, pp. 3 ss.; CHIAVARIO, Processo e garanzia della persona, 3a ed., II, Milano, 1984, pp. 15 ss.; DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, cit., pp. 250 ss.; PAULESU, voce Presunzione di non colpevolezza, cit., pp. 674 ss.). (30) Cfr. GHIARA, Presunzione d’innocenza, cit., p. 76.
— 1175 — d’innocenza, si diceva, « infiacchisce l’azione punitiva dello Stato », e « si rivela come un ostacolo a prendere efficaci risoluzioni contro gli inquisiti » (31); quasi « un’abile invenzione di un astuto delinquente camuffato da legislatore », come parafrasava polemicamente Lucchini (32). Erano conclusioni scontate, da ambedue i lati: se la Scuola Classica non nascondeva le proprie simpatie per il modello accusatorio d’oltremanica, la Scuola Positiva elevava quello inquisitorio a « vera essenza della procedura » (33), ancora più se corretto nel senso della « obiettività serena e severa di una ricerca clinica » (34). Soprattutto, v’erano alla base opposti approcci scientifici: era coerente, per i Positivisti, negare qualsiasi legittimità a una premessa generale quale è la presunzione d’innocenza, atteso — rispetto ai Classici — il diverso metodo da essi utilizzato (quello induttivo) nello studio del diritto e della procedura penale (35). La scuola tecnico-giuridica (36) scelse invece un’altra via. Contestando il principio nei suoi fondamenti politici, cssa sarebbe incorsa nello stesso preteso vizio metodologico rimproverato sia alla Scuola Classica che a quella Positiva (37). Per cui spostò l’angolo visuale, tentando, so(31) « A coloro che ripetono la solita vuota e assurda frase della presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva, rispondo che molte volte il giudizio è anticipato, e la condanna pronunziata dal tribunale della pubblica opinione » (GAROFALO, La custodia preventiva, in Scuola pos., 1892, II, p. 199). Per altri orientamenti positivistici, invece, la presunzione d’innocenza avrebbe un fondo di verità nell’istruzione, anche se sarebbe da respingere come assurda e superstiziosa in caso di flagranza di reato o di confessione, fino ad essere rovesciata da una sentenza di condanna anche non definitiva (cfr. FERRI, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Bologna, 1884, pp. 429 ss.; ID., Sociologia criminale, 4a ed., Torino, 1900, pp. 728 ss.). (32) LUCCHINI, I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale, Torino, 1886, p. 246. (33) GAROFALO, Criminologia, Torino, 1885, p. 341. (34) GAROFALO, op. ult. cit., p. 410. (35) Con la Scuola Positiva, infatti, si assiste ad un cambiamento radicale rispetto all’impostazione della Scuola Classica: « Mentre i classici utilizzavano il metodo deduttivo, ricostruendo il sistema penale sul terreno di una rigorosa impostazione logica che dalle premesse generali perveniva alle indicazioni di dettaglio, i positivisti seguono il metodo induttivo tipico della ricerca sul campo (metodo delle scienze fisiche e naturali) » (C.F. GROSSO, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano, in Storia d’Italia, Annali, XII, La criminalità, a cura di Luciano Violante, Torino, 1997, p. 15). Inevitabili le incomprensioni: « i ‘‘positivisti’’ sempre ripet[o]no essere le loro riforme essenzialmente pratiche. Ma pratico non può essere ciò che sfugge a ogni logica giustificazione, perché la pratica è l’attuazione o la consacrazione per eccellenza della logica umana » (STOPPATO, Sul fondamento scientifico della procedura penale, in Riv. pen., 1893, p. 322). (36) La cui prima compiuta enunciazione può trovarsi nella prolusione sassarese del 1910 di Arturo Rocco, in ID., Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1910, pp. 263 ss. (37) Ciò che Arturo Rocco rigettava delle due correnti era, infatti, la sovrapposizione tra diritto, antropologia, filosofia del diritto e politica, nonché la scarsa attenzione che esse prestavano alla realtà legislativa vigente. Era giunto il momento, affermava Rocco (Il pro-
— 1176 — prattutto ad opera di Vincenzo Manzini, la dequalificazione della presunzione d’innocenza da un punto di vista squisitamente logico-giuridico. Ma il mutamento di rotta fu solo apparente, e il risultato, sia consentito dirlo, alquanto deludente. Questo perché alla base vi era un grosso equivoco ed un palese vizio metodologico. Innanzitutto si deduceva la pretesa irrazionalità del principio dalla sua incompatibilità con alcuni istituti vigenti (38); si generava cioé in vitro, contravvenendo ai consueti canoni ermeneutici, un inaccettabile rapporto antinomico tra regola positiva e principio etico — peraltro non codificato —, liquidando sbrigativamente il secondo. Quando invece, posto che è la regola a doversi conformare al principio, da una simile operazione doveva semplicemente desumersi l’operatività dell’opposta presunzione di colpevolezza, piuttosto che l’irrazionalità della presunzione d’innocenza (39). Si faceva inoltre leva sulle inevitabili imperfezioni terminologiche della formula, sul concetto di ‘‘presunzione’’, in particolare (40), mostrando un rigorismo formale eccessivo ed inopportuno, se si tiene conto blema, cit., p. 275), di « tenersi fermi, religiosamente e scrupolosamente attaccati allo studio del diritto positivo vigente »; la scienza giuridica penale deve essere circoscritta a un « sistema di principi di diritto, a una teoria giuridica, a una conoscenza scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene » (Ibid., p. 290). Sul punto, cfr. le osservazioni di C.F. GROSSO, Le grandi correnti, cit., pp. 18 ss. (38) « Basti pensare ai casi di custodia preventiva, alla segretezza dell’istruttoria e al fatto stesso dell’imputazione. Dato che quest’ultima ha per presupposto sufficienti indizi di reità essa dovrebbe costituire, se mai, una presunzione di colpevolezza » (MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, 5a ed., Torino, 1956, p. 200, il quale riporta sostanzialmente immutate, nonostante il rinnovato assetto costituzionale, le opinioni espresse sin dal Manuale del 1912). Analogamente, Novelli, voce Custodia preventiva, in N. Dig. It., IV, Torino, 1938, p. 513: « quando vi è un procedimento in corso non sussiste una presunzione d’innocenza, perché in una società civile l’incolpazione di un reato non è presa in considerazione se non vi sono indizi sufficienti ». (39) L’erroneo orientamento, volto a ‘‘sterilizzare’’ l’ineliminabile carica politica dei principi, trovava conferma, sempre con riguardo alla presunzione d’innocenza, anche in MANASSERO, La libertà personale dell’imputato nel sistema del diritto processuale, Milano, 1925, p. 9, per il quale « i principi teorici e astratti, in tanto hanno valore, in quanto trovino riscontro in norme del diritto obiettivo ». Non è così: il principio, entità autoevidente, ha valore in sé, a prescindere da una sua concretizzazione pratica. E ciò è inconsapevolmente confermato dallo stesso Manzini (Trattato, cit., p. 201), il quale, con una incauta considerazione, distrugge con le sue stesse mani il fragile castello argomentativo: « E allora, perché non si applica il principio in tutte le sue logiche conseguenze? Perché non si abolisce la detenzione preventiva? ». Semplice: non di certo per ragioni logico-giuridiche, ma per precise opzioni ideologiche, rispetto alle quali le modalità della stessa detenzione preventiva sono soltanto una esplicitazione operativa. (40) « Le presunzioni sono mezzi di prova indiretta, per cui si perviene a un dato convincimento, assoluto o relativo, in base alla comune esperienza. Ora, si vorrà ammettere che l’esperienza storica collettiva insegni che la massima parte degli imputati è innocente? » (MANZINI, Trattato, cit., p. 200).
— 1177 — che simili espressioni sono spesso « alquanto banali » (41), « basate su sempre nuove ricezioni di terza o quarta mano » (42); « ma cionondimeno assai significative » (43). Ancora: circa il concetto di ‘‘innocenza’’, si diceva: « non è vero che il processo penale accerti sempre l’innocenza »; « l’accertamento della così detta innocenza avviene soltanto in determinati casi »; in altri « la colpevolezza rimane dubbia ». Si faceva in tale modo esplicito riferimento al proscioglimento per insufficienza di prove, incappando ancora una volta nel consueto errore metodologico: ed è inutile ricordare, tra l’altro, quanto si sia discusso, fino alle soglie della riforma del 1988, sull’aderenza della formula dubitativa ai parametri ex art. 27, secondo comma, della Costituzione (44). Si confondevano i piani, insomma, ma comunque non si riuscivano a celare le precise scelte ideologiche alla base di un simile ragionare. Dalle pieghe del discorso emergeva una profonda insofferenza nei confronti del pensiero penalistico liberale: parlare del riformismo illuminista in termini di « pseudodemocrazia superficiale, parolaia e confusionaria in tutto » (45); giustificare la permanenza della presunzione d’innocenza in base alla constatazione che l’uomo « preferisce rinunciare ad apparire persino intelligente, piuttosto che lasciarsi estirpare una di quelle cisti psichiche che sono le idee tradizionali » (46); e soprattutto affermare acriticamente, a mo’ di petizione di principio, che « il processo penale si presenta come un mezzo principalmente diretto a rendere possibile la punizione del colpevole », piuttosto che la tutela dell’innocente (47), significava sen(41) ZAGREBELSKY, II dintto mite, cit., p. 149. Si contesta, peraltro, che la vaghezza contraddistingua i principi rispetto alle norme; « è noto, al contrario: che la vaghezza è un elemento comune ad ogni enunciato prescrittivo, sia esso una norma specifica o un principio. Tutt’al più si può dire che i principi siano formulati in modo relativamente più vago delle rimanenti norme. Ma, da questo punto di vista, l’indeterminatezza è solo una questione di grado. E, disgraziatamente, non disponiamo di una unità di misura dell’indeterminatezza » (GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 277). (42) SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, trad. it. Milano, 1988, p. 150. (43) GHIARA, Presunzione d’innocenza, cit., p. 78. (44) Per una panoramica sul dibattito, cfr. su tutti AA.VV., La frode in assicurazione — L’assoluzione per insufficienza di prove — Atti del Convegno di Trieste (aprile 1967), Padova, 1967. (45) MANZINI, Trattato, cit., p. 198. Simili considerazioni si trovano poi, ad opera del ministro Alfredo Rocco, nella relazione al progetto preliminare del c.p.p. del 1930 (in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale VII, Roma, 1929, p. 22), dove la presunzione d’innocenza viene liquidata come « una stravaganza derivante da quei vieti concetti, germogliati dai principi della rivoluzione francese, per cui si portano ai più esagerati e incoerenti eccessi le garanzie individuali ». (46) MANZINI, Trattato, cit., p. 201, nota sub 1. (47) Singolare la motivazione: non per scelta ideologica, ma perché « è logico presumere che le imputazioni siano genericamente fondate sopra un sufficiente accertamento preliminare », « dato il carattere d’organo statale del pubblico ministero e l’assenza d’ogni interesse personaie nell’esercizio della sua funzione » (MANZINI, Trattato, cit., p. 198). Nasce in
— 1178 — z’altro riempire di contenuti politici, e a tinte forti, il vuoto e falso rigore logico adoperato (48). A una simile svalutazione del principio nessuno, tuttavia, si oppose, né probabilmente sarebbe stato possibile (49). Il codice di procedura penale del 1930, squadrato ‘‘a colpi d’ascia’’ dallo stesso Manzini (50), si uniformò egregiamente alle nuove direttive politiche. Fino ad arrivare all’Assemblea Costituente, nella quale, ripristinato il libero confronto delle idee, il tema della presunzione d’innocenza tornò a fare discutere. 3. Dal principio alla regola: le opinioni del Costituente. — La Costituzione repubblicana accoglie senza indugi il principio, rafforzandone in tal modo la legittimazione politica. È il nuovo contesto giuridico, oltre che politico, a giustificare una simile scelta: lo Stato costituzionale di diritto, nel quale anche il legislatore è sottoposto alla legge — quella costituzionale, appunto — si afferma sul precedente modello ottocentesco (51), e riconduce nell’alveo del diritto positivo quei canoni di giustizia e di ragione in precedenza esclusivo appannaggio del giusnaturalismo, e questi anni la figura di un pubblico ministero non parte, ma ‘‘organo di giustizia’’; e, visto il contesto, ha ragione Cordero a definirla un « eufemismo dei più sinistri fra quanti circolano nella retorica de iustitia » (Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, p. 85). (48) « la stessa asprezza polemica del rifiuto rendeva evidente che questo trovava spiegazione, non già in considerazioni meramente logiche e tecniche, bensì in considerazioni politiche, consistenti nel timore che i principi solennemente riconosciuti e sanciti potessero produrre fermenti, nelle ideologie e nel costume, tali da determinare resistenze all’attuazione delle nuove regole processuali, le quali apparivano difficilmente conciliabiii col principio politico liberale della presunzione d’innocenza » (GHIARA, Presunzione d’innocenza, cit., p. 81). (49) « L’indirizzo tecnico-giuridico diventò ben presto metodo di lavoro dominante tra i penalisti. Funzionale alla conservazione degli interessi codificati nella legislazione, limitativa del ruolo del giurista alla mera ricognizione ‘‘scientifica’’ del contenuto delle norme giuridiche, e al di fuori di qualsiasi processo di valutazione critica politico o sociale del loro contenuto, nascondersi dietro il tecnicismo diventò l’unico modo possibile di esprimersi e di continuare a insegnare diritto » (C.F. GROSSO, Le grandi correnti, cit., p. 22). E quando Paolo Rossi (Scetticismo e dogmatica nel diritto penale, 1938, rist. Milano, 1978) denunciò il dogmatismo, per avere permesso ai regimi autoritari di adattare la legge penale alle mutate situazioni politiche, rivendicando invece un approccio scettico al diritto penale, il regime dispose il sequestro della sua opera (Sul punto, cfr. C.F. GROSSO, Le grandi correnti, cit., p. 22, nota sub 32; NEPPI MODONA-PELISSERO, La politica criminale durante il fascismo, in Storia d’Italia, Annali, XII, cit., pp. 832 e 847). (50) Così, icasticamente, CORDERO, Procedura penale, cit., p. 85, al quale si rimanda per una efficace sintesi delle linee del codice (Ibid.). Il primo progetto fu elaborato personalmente da Vincenzo Manzini, su incarico conferitogli dal Guardasigilli Alfredo Rocco; fu successivamente esaminato dal ministro e poi riveduto dal Manzini sulla base delle osservazioni del Guardasigilli. Del tutto esautorato il Parlamento, che si limitò a concedere una delega in bianco; altrettanto il ceto forense, la magistratura e il mondo accademico (in argomento, cfr. CHIAVARIO, voce Codice di procedura penale, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 260). (51) Cfr. FERRAJOLI, Giurisdizione e democrazia, in Dem. dir., 1997, 1, pp. 286 ss.: « Nello stato costituzionale di diritto il legislatore non è onnipotente, nel senso che le leggi
— 1179 — ritenuti pertanto sottratti alla volontà creatrice dell’uomo (52). Al diritto ‘‘per regole’’ si sostituisce il ‘‘diritto per principi’’ (53); e la Costituzione, da parte sua, prende i tratti di un progetto insieme giuridico e politico, trasformando la politica stessa, diversamente che in passato, a strumento per l’attuazione del diritto (54). Ma ciò significa, ancora una volta, avere compiuto precise scelte ideologiche. Elevare un principio a dignità normativa equivale, cioè, a selezionarlo tra i vari esistenti, in virtù di una maggiore preferibilità etica. Ed è per questo che la scelta del Costituente di inserire tra le sue disposizioni il principio della presunzione d’innocenza sta inequivocabilmente a dimostrare il mutamento di rotta rispetto alla precedente ed autoritaria visione della macchina processuale, e soprattutto un rinnovato equilibrio nei rapporti tra individuo ed autorità. Per l’art. 27, secondo comma, Cost., peraltro, l’imputato ‘‘non è considerato colpevole’’, piuttosto che essere ‘‘presunto innocente’’: la nuova formula si presenta, dunque, lessicalmente e sintatticamente diversa da quella tradizionale. Da un lato, infatti, sono abbandonati i discussi concetti di ‘‘presunzione’’ e di ‘‘innocenza’’. Una simile scelta ha poi condizionato l’architettura stessa dell’espressione, imponendo una sua formalizzazione in negativo (55). Sul tenore letterale della disposizione costituzionale si è discusso a lungo, come del resto sulle ragioni che hanno indotto il Costituente ad abbandonare la formula tradizionale. Si è parlato di scelta « tecnicamente poco felice e ideologicamente ambigua » (56), di dizione apertamente compromissoria, tale da recare al suo stesso interno i germi di una possida lui emanate non sono valide solo perché vigenti, ma lo sono se per di più sono anche coerenti ai principi costituzionali » (Ibid., p. 287). (52) Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit, pp. 154 ss. (53) Così ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 151. (54) Cfr. FERRAJOLI, Giurisdizione e democrazia, cit., p. 287. (55) Date le coppie presunzione/considerazione e innocenza/colpevolezza, sono in astratto ipotizzabili le seguenti formulazioni: a) ‘‘l’imputato e presunto innocente’’; b) ‘‘l’imputato non è presunto colpevole’’; (o ‘‘è presunto non colpevole’’); c) ‘‘l’impuato è considerato innocente; d) ‘‘l’imputato non è considerato colpevole’’ (o ‘‘è considerato non colpevole’’). L’utilizzo del termine ‘‘colpevole’’ implica, ovviamente e necessariamente, la formulazione del principio in termini negativi. (56) Così PAULESU, voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 672. Sul punto v. per tutti MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, Torino, 1969, p. 16. Ove con grande acutezza si precisa che nei « riguardi dell’art. 27/2 della Costituzione, riconosciuto che esso deve pure esprimere una norma, dal fatto che esso nega certamente la presunzione di reità dell’accusato, non si può che ricavare, ‘‘a contrario’’ che esso contiene certamente la presunzione di una sua innocenza. Sull’interpretazione delle norme costituzionali incidono poi i valori politici. Ora, riconosciuto che in regime democratico il carattere accusatorio del processo deve essere accentuato, l’art. 27/2 della Costituzione, se equivoco deve essere interpretato evolutivamente nel senso in cui afferma la presunzione di innocenza dell’accusato ».
— 1180 — bile disgregazione del significato pratico (57); si è inoltre constatato come la Costituzione, paradossalmente, utilizzi una formula tanto vicina alle teorie fatte proprie dal fascismo (58), quasi a ribadire che « altro è dire che l’accusato non si deve ritenere un colpevole, altro è dire che lo si deve presumere innocente », come argomentava Ludovico Mortara sulla scia di Vincenzo Manzini (59). Il punto, evidentemente, è se il legislatore costituente abbia voluto accogliere intatto il principio della presunzione d’innocenza, oppure se, influenzato da tentativi decennali di dequalificazione, abbia voluto stemperarlo in una dizione meno drastica, più ‘‘morbida’’, per così dire. Di sicuro, il legislatore costituente avvertiva la necessità di un profondo rinnovamento della giustizia penale, e conseguentemente ravvisava nella presunzione di innocenza un punto di partenza obbligato. Sintomatico, al riguardo, l’inserimento della « presunzione di innocenza fino alla condanna » già in un preliminare « elenco sistematico dei diritti e dei doveri del cittadino », compilato da un comitato ristretto della prima sottocommissione (60). Ciononostante, in quel dibattito continuavano a pesare le conclusioni cui era giunto l’indirizzo tecnico-giuridico; ed era quasi palpabile il timore reverenziale nei confronti degli strali di Vincenzo Manzini ed Alfredo Rocco, che quel principio avevano avversato ed infine bandito dalla legislazione penale fascista; come non mancarono, nella discussione in seno all’Assemblea Costituente, voci nettamente contrarie all’accoglimento del principio, basate sulle consuete quanto fallaci argomentazioni (61). Fu questo duplice stato d’animo, molto probabilmente, a consigliare l’abbandono della formula tradizionale. Certamente si volle riaffermare — lo testimoniano alcuni autorevoli interventi (62) — la fonda(57) Cfr. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 21; ID., voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 2. (58) Così ILLUMINATI, voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 1. (59) MORTARA, sed. 5 marzo 1912, in Commento al codice di procedura penale edito dall’Utet, III, Torino, 1915, p. 153. (60) Il comitato ristretto, composto dagli onorevoli Basso, Cevoloto e Moro, riferì sulle proprie proposte alla prima sottocommissione nella seduta del 30 luglio 1946 (cfr. La Costituzione della repubblica nei lavori dell’Assemblea costituente, VI, Roma, 1971, p. 308). Da precisare che i lavori delle sottocommissioni furono registrati sotto forma di resoconto sommario. (61) Si allude all’intervento dell’on. Crispo (sed. 15 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavoro dell’Assemblea costituente, I, Roma, 1970, p. 902), secondo cui « la presunzione di innocenza è contrastata da tutte le norme della nostra legislazione penale. Non mi pare adunque che il principio possa essere affermato nella Costituzione ». (62) Cfr. on. Moro, prima sottocommissione, sed. 17 settembre 1946, secondo cui « si può discutere in sede dogmatica se e quando vi sia una presunzione di innocenza in senso stretto; ma in sede di Commissione preparatoria della Costituente si deve considerare il profilo politico della questione. Quindi la presunzione di innocenza, come una forma di garanzia della libertà individuale, rappresenta un principio che è necessario ammettere ».
— 1181 — mentale valenza politica del concetto, « condiviso da tutti » (63); ma, pure intuendosi i profondi legami tra svalutazione del principio e ideologia fascista (64), continuarono a ritenersi decisive certe obiezioni. Il dissenso non verteva sul profilo politico della presunzione d’innocenza, bensì « sulla [sua] più acconcia formulazione » (65), il fine non confessato, evidentemente, era quello di immunizzarla dalle tradizionali accuse di assurdità logico-giuridica. Sembra dunque eccessivo qualificare la norma come compromissoria, se il compromesso è ipotizzato da un punto di vista precipuamente contenutistico; così come sono espressamente documentati (66) i motivi per cui la formula, nel passaggio dalla prima sottocomissione alla commissione dei ‘‘Settantacinque’’, prese l’attuale conformazione, in luogo di quella tradizionale (67): « noi abbiamo ritenuto — affermò il presidente della prima sottocommissione — che usare questa formula sia un modo più chiaro per esprimere quel concetto che esprimono tutti coloro che presumono il reo innocente finché non sia stato definitivamente condannato » (68). In tutti gli interventi seguenti al mutamento di dizione si continuò a parlare di ‘‘presunzione d’innocenza’’ (69); e, se si può rimproverare al Costituente, come già rilevato, una ingiustificata sopravvalutazione delle argomentazioni dell’indirizzo tecnico-giuridico, è di certo innegabile lo sforzo compiuto per renderle inoperanti. L’unico errore consisteva nel supporre che un rafforzamento del principio nelle sue conseguenze pratiche dovesse necessariamente passare attraverso una sua ridefinizione lessicale-sintattica; ma è nel torto, verosimilmente, chi ritiene che la banalizzazione del principio sia stata di quel dibattito il risultato programmato ed effettivamente realizzato. Nello stesso senso i successivi interventi degli on. Lucifero, Lombardi e Mancini (cfr. La Costituzione, cit., VI, pp. 360 ss.). (63) On. Tupini (presidente), loc. ult. cit. (64) « La presunzione d’innocenza non ha soltanto valore giuridico, ma ha valore essenzialmente politico; e se ne coglie la prova tangibile nel codice di procedura penale emanato sotto il regime fascista; il quale, proprio perché la presunzione di innocenza toccava la libertà del cittadino, abolì ogni presunzione di innocenza » (on. Mancini, loc. ult. cit.). (65) Così l’on. Tupini, loc. ult. cit. (66) In senso contrario, cfr. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 20. (67) La prima sottocommissione aveva infatti approvato (sed. 17 settembre 1946) la formula ‘‘L’innocenza dell’imputato è presunta fino alla condanna definitiva’’. Nel passaggio alla commissione dei ‘‘Settantacinque’’ il comitato di redazione operò la modifica del testo dell’articolo, che venne successivamente approvato senza ulteriori modifiche. (68) On. Tupini, sed. 15 aprile 1947, in La Costituzione, cit., 1, pp. 904-905. Il presidente della prima sottocommissione rispondeva così all’on. Rescigno (ivi, pp. 901-902), il quale aveva proposto il seguente emendamento: ‘‘L’imputato si presume innocente sino alla sentenza, anche non definitiva, di condanna’’. Nel senso di cui al testo, cfr. anche DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, cit., pp. 236-237. (69) Il rilievo è di Dominioni, La presunzione d’innocenza, cit., p. 237.
— 1182 — 4. La regola: l’interpretatione abrogatrice. — Qualche anno dopo l’entrata in vigore della Costituzione, Piero Calamandrei, introducendo un suo saggio dal titolo La Costituzione e le leggi per attuarla (70), notava non senza una punta di amarezza: « Il titolo potrebbe far credere che negli ultimi anni (71) vi siano state in Italia non solo una Costituzione, ma anche una serie di ‘‘leggi per attuarla’’. In realtà siffatte leggi di attuazione non vi sono state; e la esposizione che segue potrebbe più appropriatamente intitolarsi la Costituzione inattuata, o ancor più esattamente come si fa a disfare una Costituzione » (72). ‘‘Come ci si disfa di un principio’’: questo, riassumendo — e prendendo in prestito l’espressione di Calamandrei — il sostanziale proposito della dottrina del dopoguerra nei confronti della presunzione d’innocenza. Si badi: senza i toni da crociata dei decenni precedenti. Era mutato l’obiettivo: non ci si imponeva più il compito espresso di affermare un valore, un’ideologia, ma, più sommessamente, quello di mantenere intatto lo status quo, e cioè la legislazione penale fascista, già elaborata e interpretata nel senso voluto dal regime, sia detto per inciso, da molti dei giuristi ancora sulla breccia nel dopoguerra (73). Come già accennato, il dibattito si sposta a questo punto dall’an del principio al quomodo della sua formulazione; si prende cioè atto che in qualche modo la presunzione di innocenza è stata recepita nell’ordinamento, e al massimo grado della gerarchia delle fonti (74); cionondi(70) Ora in ID., Questa nostra Costituzione, con introduzione di A. Galante Garrone, Milano, 1995, pp. 3 ss. (71) Il corsivo è nostro. (72) CALAMANDREI, La Costituzione, cit, p. 3. (73) Questa chiave di lettura costituisce un importante tassello per spiegare le ragioni della mancata ricodificazione nell’immediato dopoguerra, in aderenza ai principi costituzionali. Specie in difesa del codice penale — e rivendicando il ruolo di primo piano dagli stessi svolto — si levarono le voci dei più autorevoli giuristi del tempo, su tutti Leone (cfr. La scienza penale nell’ultimo ventennio, in Arch pen., 1945, pp. 23 ss.) e Delogu (cfr. L’elemento politico nel codice penale, ivi, 1945, pp. 161 ss.). Ma negli animi più sensibili l’imbarazzo c’era, e pesava. Ricorda Vittore Branca a proposito di Piero Calamandrei, che un simile atteggiamento (cfr. Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Firenze, s.d., pp. 51 ss.) aveva mantenuto con riguardo alla materia civilistica: « Era angosciato per i tormentosi ripensamenti sulla consulenza ‘‘tecnica’’ prestata — insieme a colleghi antifascisti come Camelutti e Redenti — nel ’39 a Dino Grandi, ministro di Grazia e Giustizia, nella redazione dei nuovi codici di procedura » (Branca, introduzione a Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 12). In argomento, cfr. le notazioni di AQUARONE, L’organizzazione dello stato totalitario, (1965), Torino, 1995, p. 289, nota sub 2; cfr. anche DOLCINI, voce Codice penale, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 284; NEPPI MODONA-PELISSERO, La politica criminale durante il fascismo, cit., pp. 843 ss.; PALAZZO, La politica criminale nell’Italia repubblicana, in Storia d’Italia, Annali, XII, cit., pp. 854 ss. (74) Spesso, peraltro, la manualistica del tempo trascurava di annoverare la Costituzione tra le fonti del diritto processuale penale: cfr. DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, cit., e la bibliografia ivi riportata.
— 1183 — mendo, si tende a ridimensionare la portata dell’art. 27, secondo comma, della Costituzione: dal suo tenore letterale, affermano i più, si evince semmai il rifiuto dell’opposto principio della presunzione di colpevolezza, piuttosto che la solenne affermazione della presunzione d’innocenza; « durante il processo, cioè, non esiste un colpevole, un reo, ma solo un imputato » (75); e questo ha voluto affermare la Costituente, « ponendosi nel mezzo delle opposte correnti » e « consacr[ando] nel documento legislativo un principio di pacifica, costante accettazione » (76). Che nel processo esista soltanto un imputato è ovvio, fino ai limiti del lapalissiano. Ma chi si esprimeva in tal senso non cadeva, a ben guardare, in una tautologia, poiché al termine ‘‘imputato’’ attribuiva significato e conseguenze ben precise. Per ‘‘imputato’’, cioè, non intendeva semplicemente il soggetto sottoposto a procedimento penale, bensì, ed in maniera più pregnante, quel soggetto che, per il solo fatto di essere sottoposto a procedimento penale, poteva subire del tutto legittimamente limitazioni anche notevoli alla originaria sfera di libertà (77). L’imputazione, secondo i fautori del « postulato di non colpevolezza » (78), giustificherebbe da sola una sorta di deminutio capitis del cittadino, dando vita ad uno status intermedio tra questi e il condannato. Con l’inaccettabile risultato di dare veste giuridica all’intuizione carneluttiana, di natura sociologica, del ‘‘processo come sanzione’’; del ‘‘punire per giudicare’’ che ineluttabilmente convive con il ‘‘giudicare per punire’’ (79); o del processo come « fonte autonoma di mali », secondo una altrettanto incisiva espressione (80). L’intento era quello di riconfermare gli assetti normativi in tema di (75) LEONE, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, 1961, pp. 476-477. Nello stesso senso, tra gli altri (ed oltre alle successive edizioni del Trattato di Manzini), FROSALI, La giustizia penale, in CALAMANDREI-LEVI (a cura di), Commentario sistematico della Costituzione italiana, 1, Firenze, 1950, pp. 234 ss.; GUARNERI, Le parti nel processo penale, Milano, 1949, pp. 189 ss.; MARUCCI, Presunzione d’innocenza dell’imputato e presunzione di inesistenza del delitto, in Giur. compl. Cass. pen., 1949, p. 119; DEL POZZO, La libertà personale nel processo penale italiano, Torino, 1962, p. 103. (76) Leone, loc. ult. cit., che in tal modo sviluppava le osservazioni da lui svolte già in seno all’Assemblea Costituente (« Mentre il principio di innocenza era di natura romantica, il principio attuale costituisce un’espressione di alcune esigenze concrete »: sed. pom. 27 marzo 1947, in La Costituzione, cit., I, p. 701). L’opinione di Leone fu a lungo considerata come « una sorta di interpretazione autentica del dettato costituzionale » (ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 21). (77) Cfr. DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 240. (78) Così NOBILI, Spunti per un dibattito sull’articolo 27, secondo comma della Costituzione, in Il Tommaso Natale, 1978, p. 846. (79) Cfr. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Roma, 1946, p. 8. Acute osservazioni di natura sociologica circa il rapporto tra presunzione d’innocenza e società possono trovarsi in Nobili, Spunti per un dibattito, cit., p. 831 ss.; sul processo come sanzione, « dove la presunzione di innocenza appare pressoché abolita », cfr. ORLANDI, Effettività della sanzione penale e principi processuali, in Crit. dir., 4/1997, pp. 217 ss. (80) SATTA, Il mistero del processo (1949), Milano, 1994, p. 26.
— 1184 — detenzione preventiva ereditati dal fascismo, strutturati in palese contrasto con una accettazione ortodossa del principio in questione; il vuoto teleologico che caratterizzava l’istituto — il cui ‘‘riempimento’’ era in definitiva rimesso alla discrezionalità del giudice, il quale bene poteva colorirlo di connotati sostanzialistici (81) — era legittimato dal riferimento al solo parametro di cui all’art. 13 della Costituzione. Azzardando pericolosi combinati disposti, il coevo tessuto normativo ne sarebbe uscito scardinato: era allora scontato, per chi sosteneva che « la funzione esemplare propria della pena viene assunta dalla custodia preventiva » (82), evitare innovative interazioni tra norme costituzionali pure tra loro oggettivamente complementari. Il secondo comma dell’art. 27, si concludeva sbrigativamente, « è una norma di carattere programmatico che si rivolge al futuro legislatore », e comunque « non tocca né riguarda l’efficienza dell’ultimo comma dell’art. 13 » (83). Qui l’allusione alla discutibile distinzione tra norme costituzionali precettive e norme costituzionali programmatiche è addirittura illuminante (84). 5. Per un nuovo approccio all’interpretazione: la prospettiva filosofico-analitica. Non c’è dubbio che un simile orientamento, maggioritario in dottrina almeno fino agli anni sessanta e fatto proprio, graniticamente, dalla stessa Corte Costituzionale, sia stato reso possibile da una ricezione del principio linguisticamente singolare; viene a questo punto da chiedersi quale legittimazione avrebbe potuto avere, nel nostro ordinamento, l’ideologia della ‘‘presunzione di non colpevolezza’’, se il Costituente avesse optato per la formulazione tradizionale del principio. Di fatto, la dizione di cui all’art. 27, secondo comma, ha generato in(81) Si pensi al mandato di cattura obbligatorio, la cui emissione richiedeva la semplice sussistenza di ‘‘sufficienti indizi di reità’’, nonché una discriminatoria valutazione delle ‘‘qualità morali della persona’’ (come dal testo emendato nel 1955): in questi casi la detenzione preventiva, in assoluto contrasto con l’art. 27, secondo comma, Cost., assumeva i contorni di immediata reazione nei confronti di un probabile colpevole (sul punto, cfr. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 49; GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., pp. 131 ss.). (82) DEL POZZO, La libertà personale, cit., p. 75. (83) DEL POZZO, La libertà personale, cit., p. 105. (84) Non a caso, chi sostiene senza indugi l’appartenenza dei principi al genus delle norme, inferisce come l’idea contraria « sia una distinzione (lato sensu) ideologica, che può essere piegata a scopi squisitamente politici »; e porta a sostegno di un simile assunto proprio la distinzione, operata all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, tra norme costituzionali precettive e norme costituzionali programmatiche (cioè tra norme e principi): « In quel contesto dottrinale e giurisprudenziale, l’opposizione tra norme e principi dissimulava, a ben vedere, una diversa opposizione: quella tra norme efficaci e norme inefficaci. Non si negava, cioè, che i principi (costituzionali) fossero, in qualche senso, norme: si negava che fossero norme efficaci, cioè immediatamente produttive di effetti giuridici » (GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., pp. 272-273).
— 1185 — comprensioni e salti all’indietro. Ma il vero problema — quello di pertinenza del giurista — è quello di stabilire se la sua ambiguità ideologica sia affermabile solo a posteriori, da un punto di vista meramente empirico, ovvero anche a priori, in base al senso (o alla molteplicità di sensi) da essa desumibile. Si tratta cioè di stabilire se ‘‘non considerare colpevole’’ un imputato equivalga, in tutto e per tutto, a negare in ogni modo la sua colpevolezza, o significhi invece — o anche — qualcos’altro. Si badi: anche a prescindere dalle reali intenzioni del Costituente. Il criterio storico d’interpretazione conta quel che conta: una volta emanata, la norma — per usare una celebre metafora — è come una nave che, giunta in alto mare, cerca, sotto la guida del capitano, la propria rotta. Si tratta, dunque, di verificare la fungibilità tra le due formulazioni, come impone il titolo di questa riflessione. Sennonché, in un’ottica squisitamente giuridica, un’operazione del genere presta il fianco a una obiezione difficilmente superabile: come è possibile porre sullo stesso piano, a fini interpretativi, una proposizione giuridica quale la ‘‘considerazione di non colpevolezza’’, con un parametro etico-politico come la presunzione di innocenza? Il fatto è che, per quanto elaborato sia il concetto, esso non è stato elevato a regola di diritto positivo (almeno ad un pari rango gerarchico) (85); e non può essere soggetto, di conseguenza, ad interpretazione — stricto sensu, si badi — giuridica. E del resto, se il legislatore l’avesse costituzionalmente accolta, in formulazioni del tipo: ‘‘L’imputato è presunto innocente fino... ’’, oppure: ‘‘L’innocenza si presume fino... ’’, un problema di fungibilità, ovviamente, non si porrebbe neppure. Muoversi esclusivamente in tal senso, inoltre, sarebbe sterile da un punto di vista operativo. L’analisi del principio — e qui ci si riferisce alla ‘‘presunzione d’innocenza’’ — ha valore esclusivamente assiologico; in una prospettiva strettamente giuridica — e qui rileva la ‘‘considerazione di non colpevolezza’’ — invece, contano le sue potenzialità effettive; una volta inserito nella Costituzione, interessano i suoi riverberi sulla legislazione ordinaria. Ciò non significa, peraltro, che una verifica sulla fungibilità delle due formulazioni — una giuridica, l’altra etica — sia inutile; ha però senso da un punto di vista eminentementc logico. Per cui conviene innanzitutto interpretare, attraverso l’analisi del linguaggio, l’art. 27, secondo comma della Costituzione, per trarre dal significato ottenuto le dovute conseguenze operative; stigmatizzando poi, se del caso, la mancata coerenza rispetto ad esso degli istituti di diritto positivo. Un problema di fungibilità si pone, certo, ma a latere rispetto alla primaria esigenza interpretativa, per confrontare, ad esempio, i risultati di carattere giuridico raggiunti con (85) Sull’impossibilità di una interpretazoine della disposizione costituzionale alla luce della normativa convenzionale, cfr. postea, p. 33.
— 1186 — quelli di natura logica cui giunse l’elaborazione classica. Per cui, prima di stabilire se ‘‘non colpevole’’ equivalga a ‘‘innocente’’, è doveroso dare una definizione di ‘‘non colpevole’’, stabilirne cioè il senso a fini operativi. Ha ragione chi lamenta, specie nella giurisprudenza costituzionale, una scarsa elaborazione tecnica del principio in questione (86), a fronte di ricorrenti quanto vuote enunciazioni generiche. Una valorizzazione del principio passa necessariamente attraverso una sua puntualizzazione semantica, indipendentemente da declamazioni circa la sua ‘‘civiltà’’ e ‘‘giustizia’’ (87). Affermazioni inutili ed irritanti, se poi da esse non si fa discendere alcun effetto concreto. La materia del contendere è essenzialmente questa: data un’espressione legislativa (‘‘non colpevole’’), manca l’accordo circa il suo significato. Da un punto di vista generale la questione è linguistica (rectius: semantica); ma assume i tratti di una questione interpretativa, una volta trasposta in sede giuridica. A ben guardare, peraltro, ogni questione interpretativa si risolve in una questione linguistica: ed anzi l’interpretazione, come è stato autorevolmente affermato, altro non è che analisi del linguaggio (88). In ciò si coglie la scientificità del discorso giuridico; se è vero che la scienza moderna ha spostato l’accento dalla verità delle sue proposizioni al loro rigore, e cioè alla coerenza di queste con tutte le altre proposizioni dello stesso sistema; e se la scienza non può dirsi possibile al di fuori di un linguaggio rigoroso convenzionalmente elaborato (89), allora le discussioni dei giuristi possono dirsi scientifiche soltanto quando avvengono attraverso un linguaggio rigoroso, che è scientifico in quanto basato su regole preordinate ed intersoggettivamente condivise. Sulle conseguenze pratiche dell’elaborazione di un linguaggio giuridico rigoroso è superfluo soffermarsi: basti pensare ai rapporti tra norma (cioè regola di condotta), univocità di significato che ne discende, certezza del diritto. È l’indirizzo filosofico-analitico (90) ad indicarci le tappe per l’elaborazione di un linguaggio rigoroso; da autorevole dottrina si ritiene in particolare che le tappe sono essenzialmente tre: quella della purificazione, quella del completamento, quella dell’ordinamento del linguaggio del legi(86) Cfr. DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 263. (87) Cfr. C. Cost., 18 maggio 1959, n. 33, in Giur. cost., 1959, p. 397. (88) Cfr. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, ora in SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, pp. 304. (89) Cfr. BOBBIO, op. ult. cit., p. 300. (90) Per un quadro generale della filosofia del diritto di indirizzo analitico, cfr., tra gli altri, PARESCE, voce Interpretazione (filosofia), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, pp. 196198 e 230-232; SCARPELLI, La filosofia. La filosofia dell’etica. La filosofia del diritto di indirizzo analitico in Italia, in Diritto e analisi del linguaggio, cit., pp. 21 ss.; BARBERIS, Di cosa parliamo, quando parliamo di filosofia analitica? in Scritti per Uberto Scarpelli, a cura di L. Gianformaggio e M. Jori, Milano, 1897, pp. 51 ss.
— 1187 — slatore (91). Purificazione, nel senso di « determinazione del significato delle parole che entrano a far parte della proposizione normativa » (92); completamento, nel senso di derivazione, dalle proposizioni normative espresse, di « tutte le conseguenze normative che sono da esse ricavabili mediante la pura e semplice combinazione delle proposizioni in base alle regole di trasformazione ammesse come lecite » (93); ordinamento, nel senso di « elaborazione sistematica del diritto », che tenga conto « della pluralità di significati che le parole assumono a seconda dei contesti o delle lingue in cui sono inserite » (94). Una precisazione pare a questo punto necessaria. Occorre subito ammettere, sulla scia di altra autorevole dottrina (95), che il progetto bobbiano, almeno per certi versi, è da considerarsi superato, per una ragione di non poco conto: la sua mancata comprensione dei peculiari meccanismi dello Stato costituzionale di diritto, specie per ciò che riguarda i rapporti tra principi costituzionali e normativa ordinaria (96). Concepiti sulla base di « un sistema di diritto positivo semplificato e unidimensionale, basato sull’onnipotenza del legislatore » (97), determinati momenti del percorso indicato da Bobbio — specie quello del completamento, volto essenzialmente alla risoluzione delle antinomie — difficilmente possono ritenersi (91) Cfr. BOBBIO, op. ult. cit., pp. 306 ss. (92) BOBBIO, op. ult. cit., p. 308. (93) BOBBIO, op. ult. cit., p. 314. (94) BOBBIO, op. ult. cit., p. 319. (95) FERRAJOLI, Filosofia analitica del diritto e dimensione pragmatica della scienza giuridica, in Scitti per Uberto Scarpelli, cit., pp. 363 ss. (96) Cfr. FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 367. Non più attuale, a detta dell’A., è l’impostazione generale assunta da Norberto Bobbio, di indubbia caratterizzazione ‘‘paleogiuspositivista’’ e ‘‘neopandettistica’’, che coerentemente si risolve in una « presunzione di regolarità giuridica dell’ordinamento », e dalla quale si fa necessariamente discendere, in capo al giurista, l’obbligo della risoluzione delle antinomie giuridiche. Negli Stati costituzionali di diritto, invece, — argomenta l’A. — non è più sufficiente, per potersi parlare di « validità » della norma, la mera ‘‘esistenza’’ della stessa, in forza della sua semplice conformità formale alle norme procedurali sulla sua produzione (cfr., su tutti, KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. it. Torino, 1990, pp. 238 ss.): occorre ulteriormente che essa sia coerente, circa il contenuto, con i principi di carattere sostanziale enunciati nella Carta fondamentale. E se è inevitabile — non foss’altro che per ragioni di carattere semantico — la presenza di irriducibili margini di ineffettività dei principi costituzionali, una volta trasposti a livello di normativa ordinaria, è anche vero che, proprio per questo, muta il compito del giurista analitico: « L’analisi del linguaggio risulta così investita di una funzione di accertamento, il più delle volte inevitabilmente valutativa, dei profili di illegittimità giuridica del suo medesimo oggetto: dei suoi profili di invalidità formale, ossia di difformità dalle regole sulla formazione dei segni giuridici, e dei suoi profili d’invalidità sostanziale, ossia d’incoerenza dei significati normativi prodotti con le regole sostanziali sulla loro produzione. Un compito opposto, evidentemente, a quello assegnatole da Bobbio, che invece raccomandava la purificazione e il superamento delle lacune e delle antinomie, secondo un modello che era ancora quello della vecchia metodologia pandettistica » (ibid., p. 369). (97) FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 367.
— 1188 — percorribili nell’analisi dei rapporti tra norme ordinarie e costituzionali (98). Eppure il rilievo non sembra qui conferente. Nel mutato assetto ordinamentale è la denuncia delle antinomie (spesso determinate dal fenomeno dei c.d. dislivelli normativi) (99), piùttosto che la composizione a tutti i costi delle stesse, il precipuo compito del giurista; ma a condizione, si badi, che il conflitto sussista tra norme situate su di un diverso livello gerarchico. Il ragionamento di Bobbio conserva attualità, allora, per lo meno nella definizione dei rapporti tra norme di pari grado, comprese quelle di rango costituzionale. Un esempio su tutti: il potenziale rapporto antinomico proprio nell’argomento in questione, tra l’art. 27 comma secondo, Cost. (che vieta qualsiasi restrizione della libertà personale ante iudicium) e l’art. 13 Cost. (che invece, seppure a certe condizioni, l’ammette); un conflitto certamente risolvibile con gli strumenti indicati da Bobbio, a nulla valendo, almeno in questa sede, le critiche poc’anzi menzionate, che pure sotto altri aspetti sono da ritenersi del tutto giustificate. L’oggetto della presente riflessione, in altre parole, non contempla relazioni tra enunciati legislativi di grado gerarchico diverso; ne deriva che la scelta metodologica che qui si compie rimane valida sia ai fini dell’interpretazione dell’art. 27 comma secondo, Cost. (e dunque ai fini della risoluzione del quesito circa la fungibilità delle formulazioni de quibus), sia per trarre, attraverso composite interazioni con le altre norme costituzionali dedicate alla disciplina del processo, le dovute conseguenze operative a livello di normativa ordinaria. Ragioni di economia espositiva e di aderenza al tema, peraltro, impongono una ben precisa delimitazione dell’indagine, non potendosi oltrepassare il tema relativo all’individuazione del significato della norma costituzionale in questione (la fase della c.d. purificazione). Ma il procedere nelle successive fasi sarebbe di notevole interesse: si contribuirebbe in tale modo a chiarire le implicazioni operative dell’art. 27 comma secondo, Cost., oltre che a dare una risposta al quesito poc’anzi menzionato, in tema di rapporti tra considerazione di non colpevolezza e disciplina costituzionale della libertà personale. (98) « La cosa è abbastanza sorprendente, se si pensa che il programma bobbiano segue di appena due anni l’emanazione della costituzione repubblicana, la quale è indubbiamente in contrasto con gran parte della precedente legislazione fascista ed avrebbe quindi dovuto sollecitare, ad opera della cultura giuridica, un imponente lavoro di critica, d’invalidazione e di ricostruzione » (FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 364). (99) Quello dei dislivelli normativi è un carattere tipico del linguaggio giuridico introdotto dal costituzionalismo: ogni norma di diritto positivo di rango non costituzionale « viene in rilievo al tempo stesso come norma nei riguardi dei fatti da essa regolati e come fatto — conforme o difforme, coerente o incoerente, e dunque valida o invalida — nei riguardi delle norme da cui essa stessa è regolata. E la stessa costituzione viene in rilievo come fatto, da un punto di vista estremo all’ordinamento, rispetto ai principi etico-politici da essa non incorporati o più o meno imperfettamente incorporati » (FERRAJOLI, op. ult. cit., pp. 364-365).
— 1189 — 6. La purificazione del linguaggio. — ‘‘Il linguaggio del legislatore non è necessariamente rigoroso: il primo compito del giurista è quello di renderlo più rigoroso’’ (100). La fase in questione, quella della purificazione, è di natura essenzialmente logico-grammaticale, ed ha lo scopo di definire una determinata parola, cioè di fissare l’insieme delle regole che ne stabiliscono l’uso. La parola che qui rileva è ‘‘colpevole’’: dal punto di vista del significante (101) si tratta di un aggettivo sostantivato, ottenuto per derivazione dalla radice colp- più il suffisso aggettivale -evole. In un’ottica giuridica, peraltro, è di maggiore utilità il suo significato: e il significato di un termine si ottiene, come insegna la semantica, dalla sintesi mentale di più elementi minimi, i cosiddetti tratti semantici (102). Dalla combinazione di più tratti semantici scaturisce la definizione di un dato termine, quell’insieme di regole, cioè, che presiedono ad una sua rigorosa utilizzazione. Possiamo convenzionalmente assumere, con riguardo al termine ‘‘colpevole’’ (S), i seguenti tratti semantici (t): essere umano (t1), accusato di un reato (t2), sottoposto a giudizio penale (t3), assoggettato a pena, anche se non effettivamente scontata (t4) (103). Ciascuno dei tratti semantici in questione è a sua volta composto da parole, a loro volta definite da altri tratti semantici; ma la scelta, come appare evidente, non è casuale: ognuno di loro, infatti, contiene parole che sono parte di una comune ed organica area di significato (c.d. campo semantico): quella relativa al processo penale (104). Né l’elencazione di cui sopra pretende di avere carat(100) BOBBIO, op. ult. cit., p. 307. (101) Ogni parola (ma in genere ogni segno attraverso cui avviene la comunicazionc) si compone di due elementi: il significante, che è elemento materiale e concreto, percepibile attraverso i sensi; e il significato, che è invece elemento concettuale ed astratto, che si può solo pensare e che si rimanda ad un referente, che esiste concretamente o teoricamente. Il rapporto che lega, in un dato segno, significante e significato, è di carattere convenzionale ed arbitrario, non spiegabile da un punto di vista logico (cfr. SENSINI, Gli strumenti linguistici, Milano, 1997, pp. 12 ss.). (102) Così, data la parola donna, i suoi tratti semantici possono individuarsi in essere vivente, umano, femmina, adulto. La presenza o l’assenza degli stessi tratti semantici ci permettono poi di definire altre parole; la parola uomo, ad esempio, condivide con la parola donna i tratti semantici essere umano, vivente, adulto; si differenzia per l’assenza dell’elemento femmina, sostituito dall’elemento maschio (cfr. SENSINI, op. ult. cit., pp. 68 ss.). (103) Formalizzando: S = t1 + t2 + t3 + t4. (104) Ogni campo semantico è composto di parole le quali, pur diverse l’una dall’altra sia per significante che per significato, sono collegate tra di loro dal particolare tipo di significato che esprimono: appartengono al campo semantico sopra illustrato, ad esempio, le parole interrogatorio, dibattimento, difensore, prova, e così via. I campi semantici, d’altro canto, non costituiscono insiemi chiusi in se stessi, ma aperti e collegati l’uno all’altro all’interno del lessico della lingua: si pensi all’espressione essere umano: essa può essere contemporaneamente ricompresa nel campo semantico delle specie animali (e in tante altre ancora, a ben vedere), oltre che in quello relativo al processo penale (sul punto, cfr. SENSINI, op. ult. cit., pp. 73 ss.).
— 1190 — tere esaustivo; essa, anzi, può essere ulteriormente specificata, di guisa che più sono i tratti semantici individuati, più aumenta l’univocità di significato di una parola. Senza contare poi che, dato un termine, il numero dei suoi tratti semantici cresce in proporzione della complessità del suo significato (105); ed è anzi il caso dei termini giuridici, appartenenti ad un linguaggio settoriale altamente specializzato. Una volta enucleato il significato del termine ‘‘colpevole’’ (‘‘essere umano che, accusato di un reato e sottoposto a giudizio penale, è assoggettato a pena, anche se non effettivamente scontata’’), si può procedere alla definizione dell’espressione derivata ‘‘non colpevole’’, sulla quale, come più volte accennato, non vi è concordia circa il significato. Dal punto di vista del significante, ‘‘non colpevole’’ (Z) (106) risulta dall’unione dell’aggettivo sostantivato ‘‘colpevole’’ con l’avverbio di valutazione ‘‘non’’ (107). Dal punto di vista del significato, invece — ed è quello che qui interessa — ‘‘non colpevole’’ condivide con ‘‘colpevole’’ gli stessi tratti semantici, eccetto uno: per enuclearne la definizione, e quindi il significato, occorre dunque sottrarre assoggettato a pena, anche se non effettivamente scontata (t4), ai tratti semantici essere umano (t1), accusato di un reato (t2), sottoposto a giudizio penale (t3), e sostituirlo con non assoggettato a pena (t4) (108). I due tratti semantici in questione, pure appartenenti alla stessa area di significato o campo semantico, denotano tra di essi una relazione di opposizione o rapporto di antonimìa che inevitabilmente si riverbera sul significato complessivo dell’espressione: ‘‘non colpevole’’, in definitiva, afferma il contrario di ‘‘colpevole’’. Si è così giunti al cuore del problema. Il dissenso, trasferito in sede semantica, verte sul particolare atteggiarsi dell’antonimìa in questione; per i sostenitori della tesi ‘‘intermedia’’, ‘‘colpevole’’ e ‘‘non colpevole’’ apparterrebbero alla categoria degli antònimi incompatibili: espressioni, cioè, che, pur non potendo essere al tempo stesso vere, possono però essere entrambe false. È un caso simile alla relazione che intercorre tra ‘‘al(105) Cfr. SENSINI, op. ult. cit., p. 69. (106) Si è preferito incentrare l’analisi su ‘‘non colpevole’’, anziché su ‘‘non è considerato’’. Innanzitutto perché il dissenso in dottrina e in giurisprudenza verte sull’accezione negativa dell’aggettivo, piuttosto che sul significato del verbo; e poi perché è tendenza dei linguaggi settoriali quella di ridurre al minimo l’uso dei verbi, procedendo alla sostituzione di questi ultimi con il nome corrispondente ovvero, quando ciò non è possibile, utilizzando verbi di significato generico, specificati mediante l’aggiunta del nome (cfr. SENSINI, op. ult. cit., pp. 635-636). (107) Il termine avverbio (dal latino adverbium, ‘‘che sta accanto a una parola’’), indica quella parte invariabile del discorso che si aggiunge ad un altro elemento dello stesso per modificarne il significato, qualificandolo o precisandolo. Assume le forme di avverbio di valutazione quando esprime una valutazione o un giudizio, affermando, mettendo in dubbio o negando — ed è il caso in questione — qualcosa (cfr. SENSINI, op. cit., pp. 384 ss.). (108) Formalizzando: Z = t1 + t2 + t3 − t4 + t4.
— 1191 — to’’ e ‘‘basso’’: un uomo non può essere, al tempo stesso, sia alto che basso; ma è anche vero che può benissimo non essere né alto, né basso. Come, del resto, dire ‘‘non è alto’’ non significa dire necessariamente ‘‘è basso’’. Per chi sostiene una simile tesi, antònimi veri e propri (c.d. antònimi disgiunti) sarebbero invece ‘‘colpevole’’ e ‘‘innocente’’, alla pari, per continuare nell’esemplificazione, di ‘‘vivo’’ e ‘‘morto’’: dire ‘‘non vivo’’ significa necessariamente dire ‘‘morto’’ (109). L’espressione ‘‘non colpevole’’, dunque, non negherebbe con decisione il termine ‘‘colpevole’’, ma avrebbe la semplice funzione di attenuarne il significato; in una simile prospettiva, ‘‘non colpevole’’ significherebbe, come si deduce da certe argomentazioni, non altro che ‘‘imputato’’, con tutte le implicazioni negative del caso, specie in tema di libertà personale. Il dilemma potrebbe essere suggestivamente risolto in questo modo: se ‘‘non colpevole’’ significa ‘‘imputato’’, la norma costituzionale suonerebbe pressappoco così: ‘‘l’imputato è considerato imputato fino a sentenza definitiva’’; in tutta evidenza, una tautologia dal punto di vista concettuale (ma con precise premesse ideologiche, abbiamo notato in precedenza), oltre che un nonsenso dal punto di vista normativo (110). Oppure può sbrigativamente dirsi, contro una simile impostazione, che « è pura questione d’enfasi: ‘‘innocente’’ equivale a ‘‘non colpevole’’ » (111), o ancora che trattasi di « questione di lana caprina: tertium non datur » (112); ma si rischia, a ben vedere, di cadere nella petizione di principio: la risoluzione del dubbio sarebbe in tale modo solo apparente. Né, d’altra parte, paiono convincenti quelle analisi che traggono l’univocità di significato della disposizione costituzionale da una sua interazione interpretativa con la normativa convenzionale, che opta espressamente per l’espressione ‘‘innocente’’: una simile operazione — sostanziantesi, sotto il profilo esegetico, in una sorta di « fenomeno di compensazione osmotica » (113) — (109) Sulle diverse specie di antònimi, cfr. SENSINI, op. ult. cit., pp. 79 ss. (110) Interpretando in tal senso la norma, « la conclusione risulta talmente scontata da rendere ultroneo il suo inserimento nella Costituzione » (PAULESU, voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 672). (111) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 449. (112) BELLAVISTA, Considerazioni sulla presunzione d’innocenza, ora in ID., Studi sul processo penale, IV, Milano, 1976, p. 84. Nella stessa direzione, cfr. PAULESU, op. ult. cit., secondo cui « tra ‘‘innocente’’ e ‘‘non colpevole’’ non è dimostrata l’esistenza di un terzo significato intermedio che possa rendere equivoca l’espressione ‘‘non colpevole’’ » (p. 673). (113) PAULESU, op. ult. cit., p. 673; nello stesso senso, cfr. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, II, Milano, 1984, pp. 122 ss.; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 26, il quale attribuisce alle disposizioni in questione (art. 6, n. 2, Convenzione europea dei diritti dell’uomo; art. 14, n. 3, Patto internazionale sui diritti civili e politici) la natura di « indiscuss[i] » « criteri interpretativi »; ID., voce Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 2; contro un simile approccio metodologico, invece, RICCIO-DE CARO-MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, Napoli, 1991, p. 79.
— 1192 — difficilmente regge di fronte al rilievo che si è in presenza di statuizioni collocate ad un diverso grado nella gerarchia delle fonti (114). Il fatto è, per quanto sconsolante ciò possa apparire, che entrambe le soluzioni sono ugualmente prospettabili. Rimanendo su di un simile terreno interpretativo, infatti, ciascuno potrà affermare che la sua sua interpretazione è quella ‘‘vera’’: cioè che ‘‘non colpevole’’ non equivale tout court a ‘‘innocente’’, da un lato; oppure, come afferma unanimemente la dottrina più recente, che tra ‘‘colpevole’’ e ‘‘non colpevole’’ (come, del resto, tra ‘‘colpevole’’ e ‘‘innocente’’) non è dimostrata l’esistenza di un terzo significato intermedio. Sennonché, più che la conclusione, è l’approccio metodologico fin qui utilizzato a mostrare evidenti limiti, fondato com’è su affermazioni inevitabilmente apodittiche; mentre, in un’ottica scientifica, ciò cui si deve tendere — e lo si è puntualizzato in precedenza — non è la verità di una proposizione, bensì il suo rigore; la sua coerenza, in altre parole, con premesse esattamente individuate, convenzionalmente assunte ed intersoggettivamente condivise. È ingenuo asserire l’esistenza di una interpretazione ‘‘vera’’ e di una ‘‘falsa’’ o ‘‘meno vera’’; in tale modo si scivola nell’opinabilità, che è il cancro di ogni scienza. Un’interpretazione non è più vera di un’altra; date certe regole, può essere al massimo più rigorosa. È chiaro allora, che tutto si gioca sulle regole basilari che si dichiarano assunte. Ancora una volta, ritorna il dilemma della scelta; ancora una volta, balzano agli occhi le sue implicazioni etico-politiche. Il contesto in questione — o campo semantico, che dire si voglia — non è altro che il processo penale; e i dubbi circa l’individuazione di un dato significato dipendono in massima parte, per quel che ci riguarda, dai differenti modi in cui il processo penale può astrattamente configurarsi. Li si chiami come si vuole: accusatorio o inquisitorio, garantista o autoritario, ciò che conta è che ciascuno di essi costituisce un insieme organico di premesse di partenza. La scelta iniziale, in quanto ideologica, non è razionalmente sindacabile; ma i successivi passaggi, di natura logica, quelli sì debbono esserlo. La soluzione del quesito iniziale, allora, certamente poggia sull’analisi del linguaggio della disposizione costituzionale; ma quest’ultimo è necessariamente influenzato dalle premesse etiche accolte. Premesse, peraltro, (114) Le convenzioni internazionali ratificate, secondo la dottrina dominante, hanno lo stesso rango degli atti normativi cui appartiene l’ordine di esecuzione (cfr. CHIAVARIO, La convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p. 50); a chi sostiene che esse avrebbero rango costituzionale, in virtù dell’accoglimento, da partc dell’art. 10, primo comma, Cost., del principio pacta sunt servanda (cfr. QUADRI, Diritto internazionale pubblico, 5a ed., Napoli, 1968, pp. 64 ss.), si risponde che, in una simile prospettiva, verrebbe legittimato il comportamento di maggioranze parlamentari non qualificate, che potrebbero utilizzare lo strumento del trattato internazionale al fine di aggirare le garanzie apprestate dal sistema costituzionale per la propria conservazione (così CHIAVARIO, La Convenzione, cit., p. 41, e dottrina ivi riportata).
— 1193 — che non possono essere poste dal giurista, a meno che non lo si voglia elevare a conditor juris; quali esse siano, egli può solo constatarle. Ed è chiaro, a questo punto, che ciò è possibile soltanto in quel documento insieme regolativo e politico che è la Carta costituzionale. 7. Le premesse di partenza. — Per comprendere appieno la portata della norma in questione, dunque, è di massima utilità l’interpretazione sistematica delle norme costituzionali in tema di giurisdizione penale come, del resto, autorevole dottrina aveva già anni addietro intuito (115). Ne emerge un modello sostanzialmente garantista: i suoi quattro assiomi di riferimento (Nulla poena, nulla culpa sine iudicio; nullum iudicium sine accusatione; nulla accusatio sine probatione; nulla probatio sine defensione) (116) si ricavano agevolmentc dalla lettura coordinata degli artt. 24, 25, 27, 101, 102, 104, 105, 111 e 112; per cui, in un’ottica costituzionale, per processo penale deve intendersi quella serie di attività compiute da giudici indipendenti nelle forme previste dalla legge e dirette alla formulazione, in pubblico contraddittorio tra accusa e difesa, di un giudizio consistente nella verificazione o falsificazione empirica di un’ipotesi accusatoria e nella conseguente condanna o assoluzione di un imputato (117). Il modello in questione è fondato su precise premesse epistemologiche: da un lato presuppone il convenzionalismo penale, e cioè la defini(115) Si allude a NOBILI, Spunti per un dibattito, cit., pp. 847 ss., il quale auspica una interpretazione congiunta dell’art. 27, secondo comma, Cost., con altre norme costituzionali, facendo notare come « una delle tecniche più efficaci per comprendere i precetti costituzionali si basa sulla lettura sistematica di due o più norme » (Ibid., p. 847). Sull’efficacia dell’interpretazione sistematica in materia costituzionale, cfr. PIERANDREI, L’interpretazione delle norme costituzionali in Italia, in Giur. cost., 1962, pp. 554 ss., nonché, in giurisprudenza, C. Cost., sentt. n. 15/1969 e 177/1971. (116) Secondo la lucida ricostruzione, di taglio analitico, che dà FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 69. (117) Il primo assioma, quello della giurisdizionalità in senso lato (nulla poena, nulla culpa sine iudicio), si realizza attraverso l’attribuzione in via esclusiva della potestà giudiziaria a un corpo di giudici ordinari (art. 102, primo e secondo comma, cost.), indipendenti e autonomi (artt. 104, primo comma, e 105 cost.), soggetti soltanto alla legge (art. 101, cpv., cost.), inamovibili (art. 107, primo comma, cost.), naturalmente precostituiti (art. 25, primo comma, cost.). Il secondo, quello della separazione del giudice dall’accusa (nullum iudicium sine accusatione) deriva dalla configurazione del pubblico ministero come titolare esclusivo dell’azione penale (art. 112, cost.), e dalla conseguente terzietà ed imparzialità del giudice rispetto alle parti in causa. Il terzo assioma (nulla accusatio sine probatione) è invece ricavabile proprio dall’art. 27 cost., secondo comma, il quale, considerando non colpevole l’imputato fino a condanna definitiva, cristallizza l’onere della prova in capo all’accusa; il quarto, infine (nulla probatio sine defensione), è desumibile dall’art. 24 cost., il quale, sancendo l’inviolabilità del diritto di difesa, accoglie il principio del contraddittorio tra accusa e difesa. Il coordinamento di quest’ultimo con i precedenti rende poi possibile la configurazione del modello processuale in termini di stretta giurisdizionalità, che è poi il modello garantista di cui al testo (cfr. FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 761 ss.).
— 1194 — zione in via potestativa delle forme di devianza punibile, sulla scia della formula hobbesiana auctoritas, non veritas, facit legem (e conseguentemente fuggendo, sotto il profilo sostanziale, da qualsiasi tentazione di natura cognitiva: morale, naturale, etc.); dall’altro costituisce esplicazione del cognitivismo giurisdizionale; se la norma sostanziale ha carattere costitutivo, nel modello garantista il giudizio penale ha carattere ‘‘ricognitivo’’ rispetto a quest’ultima, e ‘‘cognitivo’’ dei fatti da essa regolati. Veritas, non auctoritas, facit iudicium, come si è ben sintetizzato in dottrina (118). Ma il carattere essenziale del modello garantista — recepito, è opportuno ribadirlo, nella nostra Costituzione — è nel concetto di verità che esso fa proprio: non una verità sostanziale, assoluta, materiale, bensi una verità formale, debole, relativa perché umana, « che non pretende di essere la verità » (119). Il modello garantista respinge dunque il mito della verità come « corrispondenza », riconoscendogli al massimo la natura di principio limite, mai compiutamente raggiungibile. In aderenza alle più accreditate risultanze epistemologiche (120), anch’esso sposta l’accento dalla verità al rigore; ed eleva le regole procedurali da mere condizioni di validità delle decisioni giudiziarie, a vere e proprie condizioni di verità delle stesse (121). Un processo penale garantisticamente concepito vive dunque nel ragionevole dubbio che l’approdo finale sia ineluttabilmente fallace; un dubbio che diventa addirittura atroce, quando il predicato finale è la colpevolezza dell’imputato. È allora coerente che, quando il dubbio non sia già in itinere risolvibile, prevalga l’ipotesi più favorevole all’imputato: perché da un lato, e a differenza di ogni altro tipo di indagine, l’accertamento giurisdizionale è obbligatorio, e deve ad un certo punto concludersi; e dall’altro, perché « l’errore giudiziario non è mai fecondo », essendo le sue conseguenze in gran parte irreparabili, specie se esso è compiuto a danno dell’imputato (122). Appare allora evidente, in un simile contesto, la centralità della pre(118) FERRAJOLI, op. ult. cit., passim. Sul cognitivismo processuale, cfr. ibid., pp. 8 ss. (119) FERRAJOLI, op. cit., cit., p. 18. (120) « Il problema della ‘‘obiettività’’ della scienza si risolve attraverso non il conseguimento di una presupposta conoscenza assoluta ed incontrovertibile, ma il chiarimento più esatto possibile di quali sono le ipotesi di lavoro costituenti il motore della ricerca, quali i postulati impliciti nella conduzione dell’indagine, quale l’incidenza degli strumenti impiegati sugli scopi da raggiungere » (UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in ID. (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, p. 1). È doveroso, sull’argomento, rimandare a POPPER, Logica della scoperta scientifica, trad. it. Torino, 1995. (121) Sul problema della verità processuale, cfr. FERRAJOLI, op. ult. cit., pp. 18 ss.; cfr. anche UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, cit., pp. 1 ss.; ID., voce Prova (in generale), in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, pp. 296 ss. (122) FERRAJOLI, op. ult. cit., p. 31.
— 1195 — sunzione d’innocenza, elevata a vera e propria regola epistemologica. La sua funzione è quella di minimizzare il rischio insito nell’accertamento, e di trasferirlo dall’imputato alla società (123). Non è l’unica opzione possibile, certamente; è ben possibile che si ritenga eticamente preferibile addossare il rischio all’imputato, per fini di difesa sociale; ma una scelta del genere presuppone ben altri modelli processuali, radicalmente incompatibili con quello che qui si analizza. Il quadro sembra a questo punto chiaro. Facendo organicamente proprio il modello garantista di giurisdizione penale, la nostra Costituzione ha compiuto una scelta ben precisa: ha concepito il processo penale come accertamento della colpevolezza, e non dell’innocenza, innanzitutto, e soprattutto ha conferito ed esso natura strettamente cognitiva, e non potestativa, rigettando l’idea che il suo semplice svolgersi sia condizione sufficiente per una deminutio capitis dell’individuo. In una simile ottica ‘‘considerare non colpevole’’ un imputato fino a sentenza definitiva significa, almeno sino a quel punto, negare categoricamente la sua colpevolezza, e nient’altro: e la ragione sta tutta nelle premesse epistemologiche accolte. Assumere un significato dell’espressione ‘‘non colpevole’’ in termini di attenuazione, piuttosto che di negazione dell’opposto ‘‘colpevole’’, comporta, dal punto di vista delle conseguenze concrete, attribuire al processo in sé una qualche efficacia costitutiva, e non più cognitiva. E ciò non è accettabile per un sistema che nutre dubbi sulla verità (intesa come « corrispondenza ») della stessa decisione giudiziaria, che pure è il risultato di un complesso procedimento di verificazione e di falsificazione di una ipotesi accusatoria. A fortiori, allora, nessun effetto può concedersi all’imputazione, semplice ipotesi il cui procedimento di verificazione/falsificazione non si è ancora concluso. 8. L’interpretazione rigorosa. — Ecco allora risolta la questione interpretativa. In base alle regole garantistiche assunte — le uniche assumibili, del resto — ‘‘colpevole’’ e ‘‘non colpevole’’ risultano essere tra di loro antònimi disgiunti, nel senso che il significato dell’uno implica necessariamente la negazione del significato dell’altro, senza attenuazioni o gradazioni di sorta. E poiché antonimi disgiunti sono tra di loro anche ‘‘colpevole’’ e ‘‘innocente’’, ne deriva un rapporto di sinonimìa tra ‘‘non colpevole’’ ed ‘‘innocente’’, con conseguente fungibilità delle due formulazioni assunte in partenza. Si potrebbe da ultimo obiettare, in un’ottica squisitamente semantica, che il rapporto di sinonimìa non esclude, ma anzi presuppone lievi sfumature di significato tra i sinonimi, impedendone una perfetta interscambia(123)
Cfr. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 33.
— 1196 — bilità (124). È un’osservazione indubbiamente vera, ma che tuttavia, per quel che ci interessa, non coglie nel segno. Sul significato di un termine insistono componenti stilistiche, emotive, sociali, e così via, per cui la scelta di un termine piuttosto che di un altro risente del contesto linguistico di riferimento (125). Ora, le piccole differenze che pure possono cogliersi tra ‘‘non colpevole’’ e ‘‘innocente’’ sono più che altro di tono, e non di sostanza. ‘‘Non colpevole’’, in altre parole, non inficia l’intimo significato di ‘‘innocente’’; ne attenua semplicemente l’enfasi, senza alcuna implicazione concreta. E lo fa perché agisce in un contesto diverso rispetto a quello in cui fu elaborata la formulazione originaria: una Costituzione, in verità, è affare ben diverso, anche sotto l’aspetto del registro linguistico utilizzato, rispetto ai libelli polemici dei pensatori illuministi (126). 9. Due linguaggi diversi. — La conclusione cui si è giunti — non di certo ‘‘vera’’, ma almeno, si spera, ‘‘rigorosa’’ — non ne esclude certamente altre; sembra tuttavia l’unica possibile, date certe premesse. Tutto ruota intorno al concetto di processo che si assume: se esso ha natura cognitiva, come quello disegnato dalla Costituzione, di natura cognitiva devono essere tutte le norme ad esso dedicate. La soluzione qui accolta, allora, non fa altro che confermare la cognitività della regola della ‘‘considerazione di non colpevolezza’’, poiché ad essa non attribuisce alcun potere di modificazione in ordine allo status dell’imputato, che rimane innocente fino a sentenza definitiva. Dov’è, allora, l’errore della tesi opposta? Essenzialmente nel non essersi attenuta alle regole stabilite dal legislatore costituente (127). Nel desumere, cioè, la valenza costitutiva dell’art. 27, secondo comma, Cost., da un impianto processuale strettamente cognitivo, eliminando sostanziamente, in tale modo, il diaframma che divide la presunzione d’innocenza dall’opposta presunzione di colpevolezza: regola, quest’ultima, di innegabile portata costitutiva. (124) Cfr. BERRUTO, La semantica, Bologna, 1976, p. 61. (125) Cfr. BERRUTO, loc. ult. cit. (126) Dati il termine ‘‘innocente’’ (P), l’espressione ‘‘non colpevole’’ (Z) e gli ulteriori tratti semantici ‘‘registro linguistico letterario’’ (rl) e ‘‘registro linguistico giuridico’’ (rg), si può così formalizzare: P = t1 + t2 + t3 − t4 + t4 + rl − rg; Z = t1 + t2 + t3 − t4 + t4 − rl + rg. Può notarsi come la differenza tra i due termini non si coglie nei tratti semantici di contenuto, bensì in quelli stilistici. (127) È questa la seconda fase del momento di purificazione del linguaggio del legislatore: la confutazione delle diverse tesi interpretative. Se « il linguaggio scientifico è quello in cui tutte le parole sono definite e l’uso delle parole definite non contravviene alle regole che sono servite alla loro definizione », bisogna che una ricerca teoretica « svolga una critica delle regole logico-grammaticali di cui l’avversario si vale per la sua ricerca »; oppure (ed è il nostro caso) che « dimostri che l’avversario nell’uso di quella parola non si è attenuto alle regole stabilite, cioè è caduto nell’ambiguità o addirittura si è contraddetto » (BOBBIO, op. ult. cit., p. 310).
— 1197 — Ma un’altra obiezione che può farsi alla tesi opposta, quest’ultima di natura operativa, è l’essersi arroccata sull’aprioristica negazione di un accoglimento della presunzione d’innocenza, senza poi sviluppare compiutamente le proprie asserzioni. Se, infatti, al principio della presunzione d’innocenza possono attribuirsi conseguenze concrete bene definite, lo stesso non può dirsi con riguardo alla sua formulazione attenuata. E sul punto deve registrarsi la preoccupante inerzia della Corte Costituzionale, la quale, sposando senza mai un ripensamento la tesi ‘‘intermedia’’, per prima avrebbe dovuto caricarsi di un simile onere; sorge anzi il dubbio, sia consentito dirlo, che si sia trattato di un’inerzia teleologicamente orientata. In oltre quarant’anni di funzionamento della Corte sono state decine le ordinanze di remissione basate sull’art. 27, secondo comma (128); ma, a parte il dato allarmante delle sole due sentenze di accoglimento (129), dal coordinamento delle debolissime argomentazioni utilizzate con l’univoca direzione delle conclusioni accolte si deduce come l’assenza di un qualsiasi tentativo di elaborazione tecnica del principio sia stata funzionale ad un innegabile arbitrio sul piano applicativo. Sintomatica la dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie di sospetto di cui all’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, non seguita, come sarebbe stato coerente, da una pronuncia dello stesso tenore in merito all’affine figura di reato di cui all’art. 707 c.p. (130). Nello stesso contesto — quello dei reati di sospetto — dunque, la Corte si avventura in due opposte decisioni: quasi costretta a prendere atto della rozza ostilità della prima nei confronti dell’art. 27, secondo comma, essa si rifiuta poi, nel ‘‘salvare’’ ancora una volta la seconda (131), di affrontare compiutamente il delicato rapporto tra reati di sospetto e presunzione d’innocenza. Né depone in senso contrario, nella stessa decisione, la contemporanea dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 708 c.p., in quanto fondata su estranee (128) Più di ottanta sino al solo 1987, secondo i calcoli di RIGANTI, La presunzione di non colpevolezza: primi appunti per un’analisi giurisprudenziale, in Ind. pen., 1989, p. 687, nota sub 1. (129) C. Cost., sent. n. 1/1980, in Giur. cost., 1980, pp. 33 ss., che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1, terzo comma, l. n. 152/1975 (c.d. legge Reale), limitatamente all’avverbio ‘‘nuovamente’’; C. Cost., sent. n. 48/1994, in Giur. cost., 1994, pp. 271 ss., che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 12-quinquies, secondo comma, d.l. n. 306/1992, conv. nella l. n. 356/1992. (130) Cfr. C. Cost., sent. n. 370/1996, in Giur. cost., 1996, pp. 3351 ss., con note di INSOLERA e di MICHELETTI. (131) In precedenza, la norma era stata dichiarata illegittima nella sola parte in cui fa richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta (C. Cost., sent. n. 14/1971, in Foro it., 1971, I, p. 534, con nota di COPPI). Per il resto, la Corte ha ribadito più volte la sua costituzionalità: cfr. C. Cost., sent. n. 236/1975, in Giust. pen., 1976, 1, p. 113, con nota di Torrebruno; C. Cost., sent. n. 36/1990, in Cass. pen., 1990, p. 1014.
— 1198 — e discutibilissime considerazioni di politica criminale (132). Un simile iter può così riassumersi: si nega che una disposizione abbia accolto un dato principio; si omette, al tempo stesso, di sviluppare una compiuta analisi del diverso principio che la stessa avrebbe accolto; e nel frattempo si fondano le decisioni su argomentazioni nebulose, mai lineari, di solito adagiate sull’instabile terreno della contingenza politica. « Deprimenti eufemismi », si è affermato in proposito da autorevole dottrina (133). Se l’atteggiamento della Corte può definirsi mimetico, quello del legislatore sembra poi addirittura ostile nei confronti del principio. Potrebbe bastare su tutti un episodio, sul quale appare superflua ogni considerazione. Nel commentare il più volte menzionato art. 12-quinquies, d.l. 306 n. del 1992, il quale ricollegava la responsabilità penale alla mera assunzione della qualità di imputato o di indagato, si rassicurava da parte del governo che la norma « può alimentare qualche dubbio di costituzionalità, ma rappresenta uno strumento efficace e vigoroso, consigliato sia dalle forze dell’ordine che dalla Guardia di finanza » (134). Ed è storia di pochi mesi addietro l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un disegno di legge in tema di libertà personale nell’imminenza del giudizio definitivo di Cassazione, che tra l’altro « non esclude l’eventualità di ulteriori riflessioni con riguardo alla nota e complessa ipotesi della possibile (132) Cfr. INSOLERA, Un deludente epilogo, nota a C. Cost., sent. n. 370/1996, cit., p. 3371. (133) CORDERO, Procedura penale, 4a ed., cit., p. 460. E questo atteggiamento della Corte costituzionale risalta ancora di più — come efficacemente ricorda GREVI, in Custodia preventiva e difesa sociale negli itinerari politico-legislativi dell’emergenza, in Politica del diritto, 1982, pp. 238 ss. — in tema di rapporti tra considerazione di non colpevolezza e disciplina costituzionale della libertà personale. Evidenzia appunto l’Autore, come la Corte costituzionale « dopo aver per diversi anni — sia pure non senza qualche ambiguità, sulla scia della sentenza n. 64 del 1970 — ricondotto la carcerazione dell’imputato ad « esigenze di carattere cautelare », ossia « strettamente inerenti al processo », con la sentenza n. 17 del 1974 non ebbe esitazioni a mutare atteggiamento correlando il medesimo istituto all’esigenza di un « rafforzato presidio di difesa sociale ». Si prescinde in tale modo « da una seria valutazione di compatibilità tra i vari possibili fini della custodia preventiva e la posizione processuale di una persona di cui non sia ancora accertata la colpevolezza. Se sono vere queste premesse, appare a maggior ragione sorprendente non tanto, forse, che la Corte costituzionale abbia acceduto alla tesi della finalità « plurima » della custodia preventiva, quanto che vi abbia acceduto per via indiretta, attraverso affermazioni assimilabili ad obiter dicta, e comunque senza preoccuparsi di verificare la coerenza di tale impostazione con i principi costituzionali incidenti sulla tematica della libertà personale, a cominciare dalla presunzione di non colpevolezza (rectius: non considerazione di colpevolezza. Il corsivo è nostro). Come è avvenuto, per l’appunto, con le sentenze n. 17 e n. 21 del 1974, dalla cui motivazione non emerge alcun apprezzabile sforzo di inserimento nel contesto costituzionale dell’asserita dimensione cautelare ‘‘sostanziale’’ della custodia preventiva ». (134) La notizia è riportata nelle motivazioni di C. Cost., sent. n. 48/1994, cit., p. 286.
— 1199 — esecutività della sentenza di condanna confermata nel processo di appello » (135). L’emergenza, vera o supposta che sia, costituisce per il legislatore legittimo motivo per inaccettabili accantonamenti della disciplina costituzionale; non si nega mai la forzatura, ora prospettando a priori dubbi di costituzionalità, ora minimizzandoli in considerazioni circa la « complessità » della materia; cionondimeno si persevera nell’errore, magari elevando la polizia giudiziaria ad interprete privilegiata della Carta costituzionale, e in ogni caso confidando negli atteggiamenti bonari della Corte costituzionale, ‘‘sensibile’’ alle problematiche dell’emergenza. In un simile contesto sembra francamente un esercizio di stile ragionare sull’art. 27, secondo comma, porsi problemi circa la sua fungibilità con la formulazione tradizionale, scandagliarne le potenzialità operative. Simili atteggiamenti legislativi e giurisprudenziali, probabilmente, costituiscono il sintomo di un più allarmante dato sociologico, da più parti denunziato: che cioè la presunzione d’innocenza non alberga nella coscienza civile, a poco valendo la sua solenne affermazione nelle carte fondamentali (136). Si ripropone così il drammatico iato tra law in books e law in action, ed appare inevitabile giungere alla conclusione che i principi costituzionali recano con sé notevoli quanto ineliminabili margini di ineffettività. A questo punto il giurista non può fare altro che alzare le mani impotente. L’interpretazione, se intesa come analisi del linguaggio, comporta un unico inconveniente: che la risoluzione di una disputa è possibile soltanto se le regole poste siano intersoggettivamente condivise. Si nota in dottrina (137) come molto spesso certe controversie tra i giuristi, specie quelle che appaiono insolubili, in realtà non sono che dispute nascenti dalle diverse regole presupposte; e che, se non è raggiunto l’accordo sulle regole, il contrasto è a priori irrimediabile. È una premessa, si aggiunge, che i giocatori conoscono benissimo, ma che spesso sfugge ai giuristi. L’osservazione è calzante. Certi colpi di mano legislativi, un collaudato self-restraint giurisprudenziale in tema di presunzione d’innocenza non sono, a ben guardare, il frutto di un’analisi poco rigorosa del dato normativo, ma costituiscono, in realtà, il prodotto di ben altre regole di partenza. Ha fatto scuola il principio di ‘‘non dispersione’’ dei mezzi di prova: anche lì era un diverso concetto di verità ad essere presupposto, rispetto a quanto dettato dalla disciplina costituzionale; lì, cioè, le conclusioni erano rigorose, ma non di certo in base ad un assetto regolativo ga(135) Consiglio dei Ministri, riunione del 12 giugno 1998, in http://www.giustizia.it/news/fughe.htm, 15 giugno 1998. (136) Cfr., ad es., NOBILI, Spunti per un dibattito, cit., p. 832. (137) BOBBIO, op. ult. cit., pp. 309 ss.
— 1200 — rantisticamente orientato (138). L’amara conclusione è che, a cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, sulla presunzione d’innocenza continuano a parlarsi due linguaggi diversi e che, nonostante la storica svolta del 1988, continua a prevalere il linguaggio di Vincenzo Manzini. Quanto sosteneva era, a suo avviso, ‘‘consacrato’’ nell’art. 27 della Costituzione (139). La prassi, ma solo quella, continua a dargli ragione. VINCENZO GAROFOLI Straordinario di Procedura penale Facoltà di Giurisprudenza di Foggia
(138) Così TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1995, p. 612, ove si afferma che « deve dirsi falsa l’affermazione relativa all’esistenza di un principio di non dispersione dei mezzi di prova nel nostro sistema, nei termini intesi dalla Corte Costituzionale. È vero che anche nel nostro sistema si può parlare di tutela della esigenza di non dispersione della prova, ma essa non può essere un principio perché, quando si afferma che caratteristica essenziale del processo accusatorio è la formazione originaria della prova in dibattimento, si afferma un principio diametralmente opposto, giacché ciò implica che le parti di quel processo contraddicano esse e non altre tra di loro e che il giudice di quel processo e non altro giudice od organo, si faccia ministro di prova. Bando alle deroghe, il principio è questo e da esso, non dalle possibili deroghe, si deve partire quando si cerca di stabilire se in un ordinamento esista uno od altro principio ». (139) MANZINI, Trattato, cit. , p. 203.
I « TEMPI » DEL PROCEDIMENTO DI RIESAME DEI PROVVEDIMENTI DE LIBERTATE NELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA
SOMMARIO: 1. Il fattore ‘‘tempo’’ nel procedimento del riesame: aspetti problematici. — 2. Il termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame: il dies a quo. — 3. La ricezione degli atti da parte del tribunale del riesame: osservanza del termine previsto per la trasmissione degli atti e decorrenza del termine fissato per la decisione. — 4. Il termine per la decisione: la condizione perché possa dirsi osservato. — 5. (Segue): i rilievi critici mossi alla lettura delle Sezioni Unite. — 6. Il compromesso sotteso alle scelte del legislatore e della Suprema Corte.
1. Il fattore ‘‘tempo’’ costituisce un punto nevralgico della disciplina del procedimento del riesame: il controllo sui provvedimenti restrittivi della libertà personale, come del resto l’interrogatorio di garanzia effettuato ai sensi dell’art. 294 c.p.p., fornisce alla persona sottoposta a misura cautelare un valido strumento di attuazione del contraddittorio, sia pure differito, e, conseguentemente, di difesa della propria libertà personale solo se, ed in quanto, esperibile in tempi brevissimi (1). La rilevanza del fattore ‘‘tempo’’ per l’imputato o indagato privato della libertà personale spiega la rigorosa, sia pur eludibile, disciplina dei termini originariamente dettata dal legislatore, la riforma del 1995 volta ad imprimere ritmi ancora più serrati al procedimento del riesame, l’attenzione della dottrina per un tema apparentemente privo di risvolti problematici, le numerose pronunce giurisprudenziali che anche recentemente hanno tentato di definire i contorni, tutt’altro che nitidi, delle previsioni relative alle scansioni temporali del procedimento di riesame. Come è noto, secondo la previsione originaria, il procedimento per il riesame era scandito da due termini: uno — ordinatorio (2) — entro il (1) Il diritto di ottenere una verifica, ‘‘entro brevi termini, sulla legalità della detenzione’’, sancito espressamente dal quarto comma dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ha trovato concreta attuazione nel sistema delle impugnazioni avverso i provvedimenti de libertate, che il legislatore ha inteso adeguare ‘‘alle esigenze di garanzia, di tempestività e di efficienza delle decisioni’’ (v. Rel. prog. prel. del codice di procedura penale in Gazz. Uff. 24 ottobre 1988, n. 250, Supplemento ordinario, n. 2, p. 77). (2) Sulla natura ordinatoria del termine indicato nel quinto comma dell’art. 309 c.p.p., la giurisprudenza era unanime: cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 3 marzo-4 maggio 1993,
— 1202 — quale gli atti dovevano essere trasmessi al tribunale del riesame; l’altro — perentorio (3) — entro il quale doveva essere presa la decisione. L’autorità giudiziaria procedente (4), immediatamente informata ad opera del presidente del tribunale del riesame della proposizione del gravame, era tenuta a trasmettere gli atti al tribunale del riesame entro il giorno successivo, ma l’eventuale inosservanza di tale obbligo non era in alcun modo sanzionata. Viceversa, il provvedimento del giudice dell’impugnazione doveva intervenire entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. L’incertezza del dies a quo del termine perentorio di dieci giorni fissato per la decisione, non poteva non suscitare unanimi perplessità: tale termine era infatti ancorato alla ricezione degli atti che l’autorità giudiziaria procedente avrebbe dovuto inviare nel termine di un giorno, ma, non essendo prevista alcuna conseguenza in caso di trasmissione tardiva, l’organo giudiziario procedente avrebbe ben potuto, attraverso intenzionali dilazioni o a causa di oggettive difficoltà nell’invio degli atti, differire il procedimento di riesame e il suo epilogo — e quindi allungare la durata della misura coercitiva, se questa fosse stata successivamente annullata —, snaturando la funzione dell’istituto (5). Marras, in Cass. pen., 1994, p. 2166, n. 1363; Id., Sez. VI, 17 giugno-25 agosto 1993, Di Emidio, in CED, Cass. n. 194949; Id., Sez. fer., 20 agosto-9 settembre 1991, Mercurio, in Cass. pen., 1992, p. 3098, n. 1648; in dottrina v. AMATO, Commento all’art. 309, in AA.VV., Commentario del nuovo codice di proc. pen., diretto da AMODIO-DOMINIONI, vol. III, Torino, Milano, 1990, p. 203; GIANNONE, Commento all’art. 309 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di proc. pen., coordinato da CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, p. 275; CORDERO, Proc. pen., 2a ed., Milano, 1993, p. 504; CERESA-GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993. p. 121. (3) Nel senso della natura perentoria del termine, v., per tutte, Cass., Sez. VI, 23 agosto 1994, Barile, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 319: Id., Sez. II, 15 gennaio 1991, Di Somma, in Giur. it., 1991, II, p. 324; Id., Sez. VI, 5 novembre 1990-22 gennaio 1991, Conte, in Cass. pen., 1991, II, p. 611, n. 207. In dottrina v. AMATO, op. cit., p. 203; GIANNONE, op. cit., p. 275; CORDERO, op. cit., p. 504; contra, cfr. CERESA-GASTALDO, op. cit., p. 162 ss., il quale sottolinea che la perenzione dovrebbe operare nei confronti dell’attività soggetta al termine — vale a dire il giudizio —, mentre nel caso di specie la sanzione processuale colpisce il provvedimento impugnato. (4) L’art. 309 c.p.p. fa riferimento alla ‘‘autorità procedente’’ anziché alla ‘‘autorità che ha emesso il provvedimento’’ poiché non sempre le due figure coincidono. Se nella fase processuale l’autorità procedente è di norma quella che ha disposto l’applicazione della misura coercitiva, vale a dire il giudice per l’udienza preliminare o il giudice dibattimentale, nel corso delle indagini preliminari l’autorità procedente è il pubblico ministero, ma il titolare del potere di restrizione della libertà personale è il giudice per le indagini preliminari. V. sul punto, GIANNONE, op. cit., p. 265; ADORNO, Termine per la decisione del tribunale del riesame, trasmissione ‘‘frazionata’’ degli atti, richieste di riesame proposte separatamente da più indagati o imputati nel medesimo procedimento, in Cass. pen., 1995, p. 3430, nota 2; COSTA, ‘‘L’autorità giudiziaria procedente’’ al momento della richiesta di riesame e la decorrenza del termine di cui all’art. 309, comma 5, c.p.p, ivi, 1997, p. 783. V. anche in giurisprudenza Cass., Sez. II, 12 dicembre 1995-24 gennaio 1996, Raia, ivi, 1997, p. 782, n. 491. (5) Cfr., sul punto, GIANNONE, op. cit., p. 275, secondo il quale sarebbe stato preferi-
— 1203 — Le critiche mosse fin dall’inizio alla formulazione dell’art. 309 c.p.p., si rafforzarono alla luce della giurisprudenza diretta ad individuare il dies a quo del termine di dieci giorni a seconda delle modalità di trasmissione degli atti: se nessun problema sorgeva in ordine alla decorrenza del termine in caso di invio al tribunale del riesame di tutti gli atti necessari a fondare la decisione, qualche difficoltà, viceversa, era emersa in caso di trasmissione frazionata degli atti da parte dell’autorità procedente. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale il termine perentorio, entro il quale doveva intervenire la decisione del riesame, decorreva dalla ricezione anche solo parziale degli atti posti a fondamento della richiesta di misura cautelare (6). L’avallo delle Sezioni Unite (7) è andato tuttavia ad un diverso indirizzo giurisprudenziale (8), che, ritenendo preminenti rispetto alla funzionalità del riesame le esigenze del tribunale di completa cognizione degli atti, aveva individuato il dies a quo del termine perentorio nella data di ricezione da parte del tribunale di tutti — e non solo di parte degli — atti riguardanti il procedimento del riesame. Il rischio di una sostanziale vanificazione del breve termine perentorio fissato per la decisione del riesame, sia attraverso il differimento della trasmissione degli atti, sia attraverso l’invio parziale e in tempi diversi degli atti necessari, era la diretta conseguenza dell’interpretazione dell’art. 309, quinto e decimo comma, c.p.p., accolta dalla giurisprudenza e stigmatizzata dalla dottrina (9). bile individuare il dies a quo per la decisione del tribunale nel momento di presentazione della richiesta di riesame. V. inoltre CERESA-GASTALDO, op. cit., p. 118 e ss.; CRISTIANI, Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, p.78; CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, p. 523. (6) Cfr. Cass., Sez. I, 21 novembre 1991-27 gennaio 1992, Li Pera, in Cass. pen., 1993, p. 610, n. 372; Id., Sez. fer., 20 agosto-9 settembre 1991, Mercurio, cit., p. 3099; Id., Sez. VI, 18 giugno 1991, Milton, in Giur. it., 1992, II, c. 499; Id., Sez. VI, 13 giugno-9 luglio 1991, Risi, in Cass. pen., 1992, p. 2783-4, n. 1473; Id., Sez. II, 15 gennaio 1991, Di Somma, cit., p. 324 con nota adesiva di DELLA MARRA, Scarcerazione per parziale ritardata trasmissione degli atti al tribunale della libertà, in Giur. it., 1991, II, c. 323. In dottrina, in tal senso, GIANNONE, Misure cautelari personali (impugnazioni), in AA.VV., Commento al codice di proc. pen., coordinato da CHIAVARIO, 1o aggiornamento, Torino, 1993, p. 581. (7) V. Cass., Sez. Un., 18 giugno 1993, Dell’Omo e altro, in Giur. it., 1994, II, c. 551 con nota critica di ATZEI, Trasmissione frazionata degli atti e decorso del termine per il riesame di provvedimenti sulla libertà personale, ivi, c. 551. (8) Nel senso di un’interpretazione estensiva dell’art. 309, quinto e decimo comma cfr., tra le altre pronunce, Cass., Sez. VI, 2 luglio 1991, Mascolo, in Giust. pen., 1991, III. c. 671; Id., Sez. I, 20 giugno-25 luglio 1991, Le Rose, in Cass. pen., 1992, p. 2421, n. 1323: Id., Sez. VI, 20 febbraio-29 maggio 1991, Morabito, in Cass. pen., 1992, p. 992, n. 536. Successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite, cfr. Cass., Sez. I, 28 gennaio-16 marzo 1994, Baglio, in Cass. pen., 1995, p. 3429. (9) Cfr. DELLA MARRA, op. cit., c. 327-8; ATZEI, op. cit., c. 555; DE STEFANO, Sezioni unite, « tempi » del riesame e termine ex art. 294 c.p.p., in Cass. pen., 1994, p. 2638; ADORNO, op. cit., p. 3437. V. anche VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi delle decisioni
— 1204 — Individuato l’anello debole della catena nella presenza di un primo termine ordinatorio (10), il legislatore ha provveduto a rimuovere l’anomalia di un termine perentorio caratterizzato da un dies a quo mobile e non determinabile con certezza. Con la modifica dell’art. 309, quinto e decimo comma, c.p.p. introdotta dalla legge 8 agosto 1995 n. 332 (11), si è infatti ancorato il dies a quo del termine, perentorio, fissato per la decisione del riesame, ad un altro termine, ora perentorio, per la trasmissione degli atti. Secondo l’attuale disciplina il procedimento del riesame risulta scandito da tempi e obblighi stringenti: il presidente del tribunale della ‘‘libertà’’ cura che sia dato immediato avviso della presentazione dell’istanza di riesame all’autorità procedente; questa ha l’obbligo di trasmettere gli atti entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, al tribunale del riesame; il tribunale deve decidere entro dieci giorni dalla ricezione degli atti. Tanto il primo, quanto il secondo termine sono ora perentori e la loro inosservanza determina l’estinzione della misura coercitiva. La modifica attuata con la legge n. 332 del 1995 non va, tuttavia, esente da critiche non solo sotto il profilo formale (12), ma anche e soprattutto sotto il profilo sostanziale. Numerosi sono infatti i problemi che l’attuale formulazione della disciplina sul procedimento di riesame pone de libertate, in questa Rivista, 1993, p. 1148, che reputa l’intera disciplina dei termini apposti all’attività dei vari organi di controllo ‘‘del tutto inadatta allo scopo’’. Deve essere peraltro segnalata la diversa posizione di SPANGHER, Commento all’art. 16, legge 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di proc. pen., Padova, 1995, p. 231 s.: secondo l’Autore in realtà il sistema delineato dal legislatore, nella sua originaria formulazione, non lasciava spazio a dubbi, in quanto con riferimento alla trasmissione degli atti, ‘‘un’indicazione in termini di celerità... era ricavabile dall’art. 100 disp. att.’’ laddove si fa obbligo alla cancelleria o segreteria dell’autorità procedente di trasmettere gli atti inerenti al riesame, con precedenza assoluta su ogni altro affare e, comunque, entro il giorno successivo alla ricezione dell’avviso della proposizione dell’impugnazione. (10) V. ZAPPALÀ, Le misure cautelari, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Manuale di dir. proc. pen., vol. I, Milano, 1994, p. 498. (11) Numerosi i contributi che hanno illustrato le rilevanti modifiche apportate dalla legge n. 332 del 1995 oltre che al regime dei termini anche ad altri aspetti della disciplina del riesame: si veda, in proposito, CRISTIANI, op. cit.; GIANNONE, Commento all’art. 16 della legge 8 agosto 1995, n. 332, in Legisl. pen., 1995, p. 724; SPANGHER, op. cit., p. 226 ss.; D’AMBROSIO-FIDELBO, L’incidenza del fattore « tempo » nella disciplina delle misure cautelari personali, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, Milano, 1996, p. 113 ss.; GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995, n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995, n. 332, Milano, 1996, p. 37. Per un quadro completo dell’attuale disciplina del procedimento di riesame e delle relative problematiche affrontate in dottrina e in giurisprudenza v. inoltre, SPANGHER, Sub art. 309 c.p.p., in AA.VV., Codice di procedura penale commentato, a cura di GIARDA-SPANGHER, Milano, 1997, p. 1271 ss. (12) Critiche alla tecnica legislativa adottata per la riformulazione dell’art. 309, quinto e decimo comma, c.p.p. sono state mosse da GIANNONE, Commento all’art. 16, cit., p 728 e da GREVI, op. cit., p. 40.
— 1205 — per la prima volta o lascia irrisolti. In particolare molti interrogativi, proprio con riferimento ai tempi del procedimento del riesame, in questi ultimi anni si sono posti o riproposti all’interprete, e solo ora alcuni di essi sono stati chiariti dagli interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione che hanno in parte ridisegnato la disciplina del riesame, con riguardo ai tempi da osservare nel relativo procedimento, imprimendo, con qualche temperamento, ritmi ancora più serrati. 2. Con la riforma del 1995, il termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame da parte dell’autorità procedente, come si è detto, è divenuto perentorio (13). Da qui l’esigenza di stabilire il momento a partire dal quale inizia a decorrere il termine di cinque giorni per l’invio degli atti, l’unico rilevante, essendo priva di conseguenze l’inosservanza del termine inferiore di un giorno, pure previsto dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p. La giurisprudenza ha costantemente individuato il dies a quo del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame nel giorno in cui all’autorità procedente perviene l’avviso del presidente del tribunale, escludendo che il termine in questione possa decorrere dal giorno della presentazione della richiesta di riesame (14), o dalla richiesta degli atti da parte del giudice del riesame (15), oppure dal giorno di trasmissione dell’avviso stesso (16). Una diversa interpretazione — secondo i giudici di legittimità — sarebbe stata in contrasto con il dato letterale della disposizione ed avrebbe condotto all’assurda conseguenza sotto il profilo logico e giuridico di far discendere la ‘‘perdita di efficacia della misura dal decorso di un termine collegato a un fatto giuridico ignoto a chi del termine stesso sia tenuto all’osservanza’’ (17). Peraltro aderire a questa lettura della norma comportava il rischio di vanificare la portata della riforma operata in chiave garantista con la legge n. 332 del 1995. In assenza di precisi limiti cronologici fissati per il compimento dell’attività informativa del presidente del tribunale del riesame e di sanzioni processuali in caso di inos(13) Sulla natura perentoria del termine di cinque giorni previsto dall’art. 309, quinto comma c.p.p., cfr. Cass., Sez. VI, 24 ottobre-19 novembre 1996, Bagna, in CED, Cass. n. 206436; Id., Sez. VI, 26 marzo-28 maggio 1996, p.m. in proc. Fratelli, in CED, Cass. n. 204804. (14) Cfr., in proposito. Cass., Sez. VI, 24 aprile-4 giugno 1997, Pugliese F., in CED, Cass. n. 208295; Id., Sez. II, 12 dicembre 1995-24 gennaio 1996, Raia, cit., p. 782, n. 491; Id., Sez. II, 29 novembre 1995-24 gennaio 1996, p.m. in proc. Iurilli ed altri, in CED, Cass. n. 203746. (15) Cfr. Cass., Sez. VI, 13 gennaio-24 febbraio 1998, De Matteis, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 218 ss. (16) In questi termini Cass., Sez. Un., 25 marzo-30 giugno 1998, Savino, in CED, Cass. n. 210804. (17) Cass., Sez. VI, 13 gennaio-24 febbraio 1998, De Matteis, cit., p. 219.
— 1206 — servanza di tale obbligo (18), il funzionamento del meccanismo garantistico predisposto dal legislatore è rimesso allo scrupolo e alla diligenza del magistrato. Il sospetto di illegittimità costituzionale della disciplina così interpretata ha trovato corpo in una ordinanza di remissione degli atti alla Corte costituzionale (19), nella quale la Cassazione ha evidenziato il contrasto della norma con tre parametri costituzionali. La perdita di efficacia della misura cautelare per qualunque ritardo nella trasmissione degli atti, da un lato, e l’assenza di una previsione sanzionatoria in caso di inosservanza dell’obbligo di immediato avviso all’autorità procedente, dall’altro, si tradurrebbero in una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente omologhe con conseguente violazione del principio di ragionevolezza desumibile dall’art. 3 Cost. Il combinato disposto del quinto e decimo comma dell’art. 309 c.p.p., ancorando la decorrenza del rigoroso termine imposto per la trasmissione degli atti ad ‘‘una variabile indipendente dal resto della sequela procedimentale’’ (20), comporterebbe, inoltre, una compressione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e un concreto ‘‘pregiudizio per una reale, e non meramente formale e nominalistica, tutela della libertà personale’’ (21) in violazione dell’art. 13 Cost. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 232 del 1o giugno 1998 (22), ha riconosciuto che le previsioni così interpretate, non potrebbero sfuggire alle censure di incostituzionalità mosse dal giudice a quo: se la ratio dell’introduzione del nuovo termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti è quella di impedire che il termine fissato per la decisione decorra da un dies a quo determinato di fatto dagli organi (18) In giurisprudenza, in tal senso, v. Cass., Sez. I, 28 maggio-9 luglio 1996. Causo, in CED, Cass. n. 245421. (19) Cfr. ordinanza Cass., Sez. I, 9 giugno 1997, Morrone ed altri, in Gazz. Uff. 15 ottobre 1997, n. 42, I serie speciale, p. 58 ss. Per completezza pare opportuno sottolineare che pochi giorni prima, la medesima sezione della Cassazione aveva ritenuto infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 309, comma quinto c.p.p., nella parte in cui non prevede un termine rigido per l’avviso del presidente del tribunale all’autorità procedente, sanzionandone il ritardo con l’inefficacia della misura cautelare. Secondo questa pronuncia, infatti, tale adempimento ‘‘rientra tra quelli che possono considerarsi tempi tecnici del processo, sì che un eventuale ritardo anomalo, quantunque patologico, si rivelerebbe questione di mero fatto non tutelabile con l’incidente di costituzionalità’’. Inoltre ‘‘la disarmonica strutturazione dell’art. 309 c.p.p.’’ non è ritenuta ‘‘di per sé lesiva di garanzie costituzionali, non apparendo la scelta legislativa irrazionale, né essendo suscettibile di un’unica e costituzionalmente necessitata soluzione alternativa (Cass., Sez. I, 29 maggio-23 giugno 1997, Chiochia e altri, in CED, Cass. n. 207979). (20) Ord. Cass., Sez. I, 9 giugno 1997, Morrone, cit., p. 60. (21) Ibidem. (22) La sentenza della Corte costituzionale 1o giugno-22 giugno 1998, n. 232 può essere letta in Gazz. Uff. 1o luglio 1998, n. 26, I serie speciale, p. 80 ss.
— 1207 — giudiziari, non si può far decorrere il termine di trasmissione degli atti da adempimenti rimessi alla discrezionalità e alla sollecitudine degli organi procedenti. Se così fosse, in ultima analisi, l’organo cui è affidata la verifica della misura cautelare, potrebbe in realtà disporre del termine assegnatogli per la deliberazione. Gli argomenti addotti dal giudice a quo a sostegno della incostituzionalità della normativa in esame, la cui validità è stata riconosciuta anche dalla Consulta, non hanno tuttavia portato a una declaratoria di incostituzionalità, essendo stato possibile e preferibile optare per un’interpretazione delle disposizioni in questione, diversa da quella comunemente accolta e propugnata dalla giurisprudenza, compatibile con il testo e con il sistema e al tempo stesso conforme al dato costituzionale. Pregiudiziale, rispetto alla decisione sull’eccezione di incostituzionalità prospettata, risulta la valutazione relativa alla natura dell’obbligo di avviso immediato previsto in capo al presidente del tribunale del riesame. Si può escludere, ad avviso della Consulta, che il requisito dell’immediatezza richiesto nell’adempimento di tale obbligo configuri un vero e proprio termine in senso tecnico-giuridico, essendo i termini processuali stabiliti dall’art. 172, primo comma, c.p.p. a ore, giorni, mesi o anni. Ugualmente si nega che l’avviso immediato circa l’avvenuta presentazione della richiesta costituisca adempimento dotato di una sua funzione processuale, che determina l’inserimento nel procedimento di una nuova fase dotata di autonomo significato processuale e regolata da termini e forme. Viceversa, l’immediata comunicazione, che della proposizione dell’istanza deve essere data all’autorità procedente, costituisce solamente la ‘‘condizione materiale’’ che consente a tale organo di adempiere all’obbligo di trasmissione degli atti di cui dispone. La forma dell’avviso è libera, potendo essere utilizzato qualunque mezzo di comunicazione per informare l’organo procedente, e il contenuto è semplice, dovendosi sostanzialmente comunicare l’avvenuta presentazione dell’istanza di riesame. Ciò consente, ad avviso della Corte, di inoltrare l’avviso nello stesso momento in cui si riceve la richiesta di riesame: del resto, il requisito dell’immediatezza sta proprio a significare la mancanza di rilievo giuridico dell’eventuale intervallo temporale tra la presentazione della richiesta e l’avviso dell’avvenuta presentazione. Questo modo di intendere l’obbligo di immediato avviso, elaborato dalla Corte costituzionale, porta a conclusioni opposte rispetto a quelle costantemente formulate dalla giurisprudenza: il termine di cinque giorni, previsto per la trasmissione degli atti al giudice del gravame, non decorre dal giorno — indeterminato — in cui perviene l’avviso del presidente del tribunale del riesame, ma dallo stesso giorno in cui viene depositata in cancelleria la richiesta di riesame. Così interpretata la disciplina può dirsi, sotto questo profilo, conforme al dettato costituzionale. Ancorando il ter-
— 1208 — mine previsto per la trasmissione degli atti ad un momento predeterminato, certo e sottratto alla disponibilità dell’organo chiamato a giudicare sull’impugnazione, non solo si assicura un trattamento omogeneo ai soggetti sottoposti a misura cautelare che abbiano impugnato il provvedimento applicativo, ma si garantisce anche una effettiva tutela della libertà personale e il pieno esercizio del diritto di difesa in tempi rapidi e definiti. La Corte costituzionale non si nasconde i possibili ostacoli che di fatto possono impedire o ritardare la comunicazione all’autorità procedente contestualmente alla presentazione della richiesta di riesame e le difficoltà organizzative che possono sorgere per gli uffici giudiziari nell’applicazione della normativa in esame, così interpretata. Ciononostante, da un lato considera privi di rilievo giuridico i fattori che possono ostacolare l’immediata comunicazione dell’avvenuta presentazione della istanza di riesame di fronte all’esigenza di garantire la perentorietà del termine fissato per la trasmissione degli atti; dall’altro, ritiene prevalenti, rispetto alle esigenze organizzative degli uffici giudiziari, il principio del favor libertatis e l’esigenza di assicurare tempi rapidi nel riesame delle misure coercitive. La sentenza interpretativa di rigetto ha dunque restituito alla disciplina il suo significato originario, stravolto nella prassi. Il procedimento del riesame è scandito da due soli termini, entrambi perentori: uno di cinque giorni dalla presentazione dell’impugnazione, entro il quale l’autorità procedente deve inviare gli atti; l’altro di dieci giorni dalla trasmissione degli atti, entro il quale deve intervenire la decisione del tribunale del riesame. Non sono contemplati altri termini, né altri spazi temporali nella sequela di atti del procedimento del riesame. Il carattere dell’immediatezza, riferito alla comunicazione da parte del presidente del tribunale circa l’avvenuta presentazione del gravame, non si presta a fraintendimenti: l’avviso deve essere dato non appena sorge l’obbligo di comunicazione, vale a dire nel momento in cui la richiesta di riesame perviene al tribunale. Del resto questa lettura della norma era stata fin dall’inizio avanzata in dottrina: si era infatti da subito osservato che il ‘‘termine della trasmissione deve « scontare » il tempo occorrente per la comunicazione ... dell’avvenuta presentazione dell’impugnazione’’ (23), sottolineando, peraltro, come l’adempimento fosse ‘‘talmente elementare da potere essere espletato rapidamente, in genere lo stesso giorno della presentazione dell’impugnazione’’ (24). La pronuncia della Corte, che dovrebbe sradicare l’abitudine invalsa nella prassi di dilazionare l’avviso e la trasmissione degli atti, è quindi (23) GIANNONE, Commento all’art. 16, cit., p. 729. (24) Ibidem.
— 1209 — condivisibile. Il sacrificio della libertà personale viene limitato solo riducendo al minimo i tempi necessari al riesame del provvedimento coercitivo: per questo l’art. 309 c.p.p., opportunamente fissa in quindici giorni — di cui cinque per la trasmissione degli atti e dieci per la decisione — il lasso di tempo entro il quale al più tardi il soggetto sottoposto a misura cautelare ha diritto di ottenere la pronuncia del giudice dell’impugnazione. Ciò che suscita qualche perplessità non è tanto l’interpretazione proposta dalla Consulta e le conseguenze che ne derivano, quanto la previsione normativa in discussione la quale, se risulta apprezzabile per l’obiettivo prefissato — garantire la massima celerità del procedimento del riesame a tutela della libertà personale —, pare criticabile per il macchinoso iter con il quale tale obiettivo è perseguito. Tempi brevi possono essere garantiti solo a fronte di attività non eccessivamente complesse. Anche in considerazione della non sempre palese solerzia e delle possibili difficoltà organizzative degli uffici giudiziari, il legislatore avrebbe potuto optare per un meccanismo più semplice, e perciò, più efficace: sarebbe stato preferibile non tanto prevedere un brevissimo termine perentorio — ad horas — entro il quale comunicare l’avvenuta presentazione dell’impugnazione all’autorità procedente, quanto, come suggerisce la stessa Corte costituzionale, ridisegnare il procedimento del riesame individuando nell’autorità procedente l’organo competente a ricevere la richiesta di riesame. Eliminando la comunicazione del presidente del tribunale all’autorità procedente, si sarebbe semplificato significativamente l’iter in quanto l’organo, tenuto a trasmettere la documentazione al ‘‘tribunale della libertà’’ entro il termine perentorio di cinque giorni, sarebbe messo direttamente a conoscenza della presentazione dell’istanza di riesame, cioè della circostanza da cui decorre tale termine (25). La soluzione più semplice non è stata seguita dal legislatore, ma costituisce un’ottima ‘‘via di fuga’’, velatamente suggerita dalla stessa Con(25) Con riferimento alla previsione originaria, in dottrina, era stata apprezzata la scelta del legislatore di prevedere che la richiesta di riesame dovesse essere presentata nella cancelleria del tribunale della libertà, e non in quella del giudice a quo. L’immediato contatto tra il giudice dell’impugnazione e l’organo controllato impediva ‘‘tergiversazioni o strumentalizzazioni in qualche modo pregiudizievoli per la persona attinta dalla misura coercitiva, sotto il profilo temporale o persino della puntuale osservanza del principio della naturalità del giudice’’ (TAORMINA, Dir. proc. pen., vol. I, Torino, 1995, p. 492). Si è visto, peraltro, come la disciplina de qua si prestasse, in realtà, a dilazioni che solo con la modifica del legislatore e la lettura della Corte costituzionale possono dirsi scongiurate. Quanto invece al rispetto del principio della naturalità del giudice, non sembra che l’automatismo in base al quale viene determinato il tribunale del riesame investito del gravame, risulterebbe eluso qualora l’impugnazione fosse presentata all’autorità procedente. Nell’eventualità in cui la garanzia di tale automatismo potesse venir meno — qualora il collegio mutasse a seconda del giorno di trasmissione degli atti — si potrebbe prevedere un adempimento più articolato a carico dell’impugnante: la contestuale presentazione della richiesta di riesame al tribunale della libertà e all’autorità procedente.
— 1210 — sulta, qualora l’interpretazione della Corte venisse disattesa: in tal caso difficilmente l’art. 309 c.p.p. sfuggirebbe a una declaratoria di incostituzionalità o ad una ennesima modifica legislativa. 3. Un ulteriore problema interpretativo, sorto in relazione al primo dei due termini che segnano il procedimento del riesame, riguarda l’individuazione della condizione necessaria perché possa ritenersi osservato il termine fissato per la trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente al tribunale del riesame (26). L’ambivalenza della locuzione ‘‘trasmissione’’ usata dal legislatore legittima a chiedersi se entro il termine di cinque giorni gli atti debbano essere inviati dall’autorità procedente o debbano pervenire al tribunale del riesame (27). Secondo un’interpretazione letterale della disposizione in esame, ai fini dell’osservanza del termine di cinque giorni stabilito per la trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente è necessario e sufficiente che entro questo termine tali atti siano inviati all’organo giudicante (28). A sostegno di tale tesi sono stati portati argomenti sia di carattere letterale, sia di carattere logico. Sotto il primo profilo si è sottolineato come il termine ‘‘trasmettere’’ stia a significare l’atto di ‘‘inoltrare’’, ‘‘inviare’’, ‘‘spedire’’. Sotto il secondo aspetto è stato osservato come il legislatore con la previsione di due distinti termini perentori abbia voluto sanzionare l’inerzia del tribunale del riesame, nel caso della mancata decisione entro il termine di dieci giorni, l’inerzia dell’autorità procedente, nel caso della ritardata trasmissione degli atti. In questa prospettiva la data in cui l’organo giudicante riceve gli atti necessari alla decisione non è, dunque, rilevante, se non ai fini del decorso (26) Sembra opportuno accennare che la modifica del quinto comma dell’art. 309 c.p.p. ha suscitato dubbi interpretativi non solo in ordine al termine fissato per la trasmissione degli atti, ma anche con riguardo alle modalità di trasmissione degli atti stessi: qualora al momento della presentazione dell’istanza di riesame tutti o parte degli atti da trasmettere al giudice dell’impugnazione siano depositati presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento — che, come si è visto, nelle indagini preliminari non coincide con l’autorità procedente — ci si chiede se, per ovviare all’inconveniente, il pubblico ministero debba predisporre una copia degli atti inviati al gip, da trasmettere al tribunale della libertà nell’eventualità di riesame, oppure se sia il gip, in tal caso, ad assumersi l’obbligo di trasmettere gli atti depositati ai sensi dell’art. 293 c.p.p., in originale o previa formazione di copia. Su tale ‘‘difetto di coordinamento tra i nuovi quinto e decimo comma dell’art. 309 c.p. e il nuovo art. 293.3 c.p.p.’’ v. GIANNONE, Commento all’art. 16, cit., p. 729 s. (27) Naturalmente, qualora gli atti si trovino già presso il tribunale della ‘‘libertà’’, a seguito della richiesta di riesame avanzata da un coimputato, sarà necessaria e sufficiente la comunicazione dell’avvenuta trasmissione da parte dell’autorità procedente (v. Cass., Sez. I, 19 dicembre 1996-17 marzo 1997, Cipolletta ed altro, in CED, Cass. n. 207088; Id., Sez. I, 17 gennaio-5 marzo 1997, Abate, in CED, Cass. n. 206952; Id., Sez. V, 30 ottobre 1996-27 gennaio 1997, Pepe, in CED, Cass. n. 206832). (28) Cfr. Cass., Sez. III, 8 ottobre 1997, Sciascia, inedita; Id., Sez. I, 29 maggio-23 giugno 1997, p.m. in proc. Romeo, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 118.
— 1211 — del nuovo e diverso termine di dieci giorni previsto per la deliberazione dal nono comma dell’art. 309 c.p.p. (29). Non solo. Le eventuali disfunzioni che possano inceppare il sistema di trasmissione degli atti, sebbene si riverberino di fatto sul soggetto in vinculis, non sono colpite da sanzioni. Parallelamente a questo indirizzo si è andato affermando in giurisprudenza un orientamento secondo il quale l’effetto caducatorio si verifica se, entro il termine di cinque giorni previsto dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p., gli atti necessari per la decisione del riesame non siano pervenuti al ‘‘tribunale della libertà’’. La ratio legis della norma, ispirata alla massima celerità del procedimento de libertate, induce a intendere il termine ‘‘trasmettere’’ nel senso di ‘‘far pervenire’’: non è sufficiente che l’autorità procedente abbia semplicemente inviato gli atti, non potendosi prescindere dal momento del loro arrivo (30). Il contrasto giurisprudenziale profilatosi sul punto è stato risolto da una pronuncia delle Sezioni Unite che ha aderito all’interpretazione più consona alle esigenze di libertà del soggetto sottoposto a misura coercitiva (31), superando tanto l’argomento letterale, quanto quello logico sui quali si fonda la tesi contraria. Ad avviso della Corte, il significato del termine ‘‘trasmettere’’ può essere colto nella sua effettiva portata partendo dall’art. 12 delle preleggi che individua quali criteri ermeneutici da seguire nell’interpretazione della legge il ‘‘significato proprio delle parole secondo la connessione di esse’’ e la ‘‘intenzione del legislatore’’ (32). Sebbene di regola i due metodi siano seguiti ‘‘in modo concorrente e paritario’’, la chiave interpretativa costituita dalla intenzione del legislatore, che è indicativa della ratio legis, prevale qualora l’area semantica del termine da interpretare comprenda non uno, ma più significati. Ciò comporta, secondo la ricostruzione delle Sezioni Unite, che ‘‘tra due possibili alternative semantiche, l’una e l’altra egualmente plausibili sul piano lessicale, [prevalga] quella che, nella situa(29) Cfr. Cass., Sez. I, 29 maggio-23 giugno 1997, p.m. in Romeo, cit.. (30) Sia pure incidentalmente, per la prima volta, questa interpretazione è stata avanzata da Cass., Sez. III, 14 febbraio-14 marzo 1996, Morgera, in Cass. pen., 1997, p. 149, n. 107; tale tesi è stata poi sviluppata successivamente da Cass., Sez. II, 3 giugno-14 giugno 1997, La Mantia, in CED, Cass. n. 208080; Id.. Sez. II, 14 giugno 1997, p.m. in proc. Lucchese, inedita; Cass., Sez. II, 14 giugno 1997, p.m. in proc. Di Stefano, inedita. (31) Cfr. Cass., Sez. Un., 29 ottobre-17 dicembre 1997, p.g. in proc. Schillaci, in Cass. pen., 1998, p. 792 ss. Per un commento alla sentenza v. NUZZO, La « trasmissione degli atti » al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, ivi, p. 1920. (32) Sulla portata dell’art. 12 delle preleggi cfr. QUADRI, Applicazione della legge in generale, in AA.VV., Commentario del codice civile, a cura di SCIALOJA-BRANCA, Bologna, 1974, p. 194 ss.; RIZZO, sub art. 12 disp. prel., in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di PERLINGIERI, vol. I, Napoli, 1991 p. 87 ss.
— 1212 — zione descritta dalla norma, è la più aderente o la sola corrispondente allo scopo della legge’’ (33). Ai fini dell’interpretazione del quinto comma dell’art. 309 c.p.p. in cui l’espressione ‘‘trasmettere’’ può essere intesa, come si è visto, in modo diverso, a seconda che si voglia sottolineare il momento iniziale o quello finale dell’operazione traslativa, risulta, pertanto, fondamentale individuare la ratio della norma. Ora, non vi è dubbio che l’interesse protetto dalla disposizione de qua non sia quello dell’autorità giudiziaria a compiere l’invio degli atti entro un determinato termine, ma sia, viceversa, ‘‘l’interesse de libertate della persona sottoposta a misura coercitiva e la cui richiesta si vuole che sia, in ogni caso, definita entro brevissimi termini’’ (34), in ossequio all’art. 13 Cost. Di conseguenza ciò che assume rilevanza, ai fini dell’osservanza del termine di cinque giorni fissato dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p., è il momento in cui il tribunale del riesame riceve gli atti necessari alla decisione sull’impugnazione proposta. Neppure l’argomento di carattere logico avanzato a sostegno dell’orientamento contrario — secondo il quale la caducazione del provvedimento cautelare a seguito dell’inosservanza del termine previsto dall’art. 309 quinto comma, c.p.p., avrebbe la precipua finalità di sanzionare l’inerzia dell’autorità procedente, che dilazioni la trasmissione degli atti — può, a ragione, fondare una diversa lettura della norma. Non può essere sostenuto che il termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti risulterebbe rispettato e l’efficacia del provvedimento coercitivo sarebbe salva, se l’autorità giudiziaria provvedesse ad inviare la documentazione necessaria al tribunale del riesame nei cinque giorni dall’avviso, anche nel caso in cui tali atti non fossero pervenuti tempestivamente all’organo giudicante per altre cause. Nella disposizione in esame manca lo stesso presupposto necessario alla configurabilità di una sorta di decadenza correlata all’inerzia dell’autorità procedente: l’estinzione della misura cautelare è correlata esclusivamente al decorso del tempo, a nulla rilevando eventuali ‘‘addebiti... riferibili all’autorità giudiziaria, estranea all’interesse sotteso al meccanismo caducatorio’’ (35). Anche in questa prospettiva la Corte ribadisce così la rilevanza del momento della ricezione degli atti (36). L’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite appare condivisibile an(33) Cass., Sez. Un., 29 ottobre-17 dicembre 1997, p.g. in proc. Schillaci, cit., p. 795. (34) Ibidem, p. 796. (35) Ibidem. (36) Se può dirsi chiarito che, ai fini dell’osservanza del termine previsto dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p., sia necessaria la ricezione degli atti da parte del tribunale del riesame, viceversa ancora insoluto risulta il problema in ordine all’individuazione del momento in cui si perfeziona la ricezione degli atti in caso di trasmissione frazionata. In altri termini ci si chiede se sia necessaria la ricezione di tutti gli atti o sia sufficiente la ricezione di una parte di essi, da un lato, perché sia rispettato il termine di cinque giorni previsto per la tra-
— 1213 — che in considerazione delle implicazioni che ne derivano. Da un lato consente al soggetto in vinculis di constatare agevolmente e tempestivamente l’avvenuta scadenza del termine, con la conseguente perdita di efficacia della misura, diversamente da quanto accadrebbe se fosse rilevante il momento di invio degli atti all’organo giudicante: in questo caso si dovrebbe comunque attendere l’arrivo degli atti presso la cancelleria del tribunale per accertare la tardività della trasmissione e per il verificarsi degli effetti caducatori. Dall’altro, solo aderendo alla lettura proposta dalle Sezioni Unite si impedisce di far ricadere sul soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale le conseguenze derivanti da eventuali disfunzioni nel passaggio delle carte da un ufficio all’altro, oltre che, in ipotesi, dalla scelta dell’autorità procedente di dilazionare l’invio degli atti fino al limite dello scadere del termine. L’interpretazione del quinto comma dell’art. 309 c.p.p. prescelta dalla Suprema Corte conferma che il procedimento per il riesame di una misura coercitiva si deve svolgere ed esaurire nel tempo massimo di quindici giorni: cinque giorni dalla presentazione dell’impugnazione per far pervenire gli atti necessari alla decisione al tribunale del riesame e dieci giorni dalla ricezione di tali atti per deliberare nel merito. Il momento entro il quale gli atti devono pervenire nella sfera materiale e cognitiva dell’organo giudicante costituisce al tempo stesso il momento da cui comincia a decorrere il termine entro il quale questi deve provvedere sull’istanza di riesame (37). Tra la scadenza del primo termine previsto per la trasmissione degli atti e il dies a quo del secondo termine fissato per la decisione non c’è soluzione di continuità, non intercorre alcun lasso di tempo, smissione degli atti e quindi sia scongiurata la caducazione della misura coercitiva, dall’altro, perché possa decorrere il termine di dieci giorni fissato per la decisione. La questione non ha trovato soluzioni normative, né risposte univoche in giurisprudenza: nel senso che rilevi la ricezione di tutti gli atti v. Cass., Sez. I. 27 settembre-24 ottobre 1995, Cannone, in CED, Cass. n. 202614; Id., Sez I, 27 aprile-15 luglio 1995, Zema, in CED, Cass. n. 202140; Id., Sez. I, 29 novembre 1994-28 gennaio 1995, Alessandrello ed altri, in CED, Cass. n. 200040; nel senso della rilevanza della ricezione parziale degli atti cfr. Cass., Sez. I, 30 ottobre 199631 gennaio 1997, Dashamir, in CED, Cass. n. 206766 e in dottrina GREVI, op. cit., cit., p. 42: D’AMBROSIO-FIDELBO, op. cit., p. 176. (37) È infatti pacifico che il termine di dieci giorni fissato dal nono comma dell’art. 309 c.p.p., predisposto per effettuare gli adempimenti necessari all’instaurazione del contraddittorio e per la decisione, decorra dal giorno in cui gli atti siano pervenuti all’organo giudicante che tali adempimenti deve compiere per poi emettere la decisione: v. Cass., Sez. II, 3 ottobre 1996-27 marzo 1997, Rivilli ed altri, in CED, Cass. n. 207563; Id., Sez. I, 6 aprile-17 maggio 1995, Strambelli, in CED, Cass. n. 201283; Id., Sez. I, 4 aprile-17 maggio 1995, Giudice, in CED, Cass. n. 201282; Id., Sez. I, 24 marzo-28 aprile 1995, Paolantonio, in CED, Cass. n. 201182. È stato peraltro specificato che il termine de quo decorre dal momento in cui il giudice abbia l’effettiva disponibilità giuridica degli atti essenziali alla decisione e sia stato effettivamente in grado di esercitare le funzione che gli è attribuita: v. Cass., Sez. IV, 30 settembre 1996-21 gennaio 1997, Alfaoui, in CED, Cass. n. 206621; Id., Sez. I, 13 febbraio-31 marzo 1995, Privitera, in CED, Cass. n. 200773.
— 1214 — come, viceversa potrebbe verificarsi qualora si ritenesse sufficiente inviare gli atti entro cinque giorni dall’avviso per rispettare il termine stabilito dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p. Gli interventi delle Sezioni Unite e della Corte costituzionale sembrano dunque convergere verso una lettura dell’art. 309 c.p.p. volta a rendere effettivamente serrati i ritmi impressi al procedimento del riesame con la riforma del 1995. 4. Anche il secondo termine che scandisce l’iter procedimentale davanti al tribunale del riesame, quello entro il quale deve intervenire la decisione del giudice dell’impugnazione, ha dato luogo a difficoltà interpretative fin dall’entrata in vigore del codice. In particolare, nell’applicazione del decimo comma dell’art. 309 c. p.p. dall’inizio, è sorto, e si è riproposto con insistenza all’attenzione degli interpreti, nonostante la chiave di lettura fornita dalle Sezioni Unite (38) che sembrava averlo risolto, il problema relativo al tipo di attività richiesta al tribunale del riesame entro il termine prescritto, al fine di evitare la caducazione della misura coercitiva: se, cioè, entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, sia sufficiente che il tribunale del riesame provveda a deliberare, depositando il dispositivo del provvedimento oppure, viceversa, sia necessario che il giudice depositi l’ordinanza nella sua interezza, completa di dispositivo e motivazione (39). La tesi secondo la quale, perché possa ritenersi osservato il termine di cui al nono comma dell’art. 309 c.p.p., è necessaria e sufficiente la deliberazione sulla richiesta di riesame, si fonda su argomenti letterali: il testo della disposizione, infatti, non solo fa espresso riferimento alla sola ‘‘decisione’’ sull’impugnazione avanzata, ma richiama anche la disciplina prevista dall’art. 127 c.p.p. in tema di rito camerale e, quindi, indirettamente, le modalità di deposito dei relativi provvedimenti, indicate dall’art. 128 c.p.p., secondo il quale gli originali dei provvedimenti del giudice sono depositati in cancelleria entro cinque giorni dalla deliberazione (40). (38) V. Cass., Sez. Un., 17 aprile 1996-3 luglio 1996, Moni, in Giur. it., 1997, c. 185 ss. con nota di BOIDO, Deposito frazionato dell’ordinanza di riesame e rispetto del termine ex art. 309, comma 10o, c.p.p. (39) Altro è il problema se il deposito dell’ordinanza debba avvenire entro il termine costituito dall’ora di chiusura dell’ufficio al pubblico del decimo giorno seguente l’arrivo dei documenti (così Cass., Sez. V, 11 aprile-2 maggio 1995, Mendella, in Cass. pen., 1995, p. 2612) o viceversa possa avvenire nell’ultima ora, cioè nella ventiquattresima ora, del decimo giorno dalla ricezione degli atti necessari alla decisione, non essendo operante per il deposito dei provvedimenti del giudice il termine di cui all’art. 172, sesto comma, c.p.p. (Cass., Sez. Un., 27 settembre-14 dicembre 1995, Mannino, in CED, Cass. n. 202901; Cass., Sez. I, 28 marzo-7 maggio 1996, Cufeda ed altro, in CED, Cass. n. 204537). (40) In tal senso, cfr. in giurisprudenza Cass., Sez. III, 6 marzo-26 aprile 1996, Mora, in CED, Cass. n. 204989; Id., Sez. I, 6 febbraio-20 aprile 1995, Castiglia, in CED,
— 1215 — Secondo un diverso filone giurisprudenziale, per valutare l’osservanza del termine fissato per la decisione, non deve farsi riferimento alla data di deliberazione, ma a quella di deposito del provvedimento (41). Solo a partire da questo momento, infatti, la pronuncia acquista rilevanza esterna ed efficacia giuridica (42), in quanto, non essendo prevista la lettura, il deposito rappresenta l’unico strumento attraverso il quale le parti possono venirne a conoscenza e controllare l’osservanza del termine fissato dalla legge (43). Il diritto della persona sottoposta a provvedimento custodiale ad ottenere in tempi brevi la decisione sulla richiesta di riesame esige che nel termine di dieci giorni l’ordinanza decisoria venga giuridicamente ad esistenza, mediante il deposito in cancelleria (44): in questo caso o si configura la previsione contenuta nell’art. 309, decimo comma, c.p.p. come una deroga alla regola generale dettata dall’art. 128 c.p.p. (45) o oppure si ritiene assorbito nel termine di dieci giorni fissato per la decisione il termine ordinatorio di cinque giorni per il deposito stabilito dall’art. 128 c.p.p. (46). L’auspicio, avanzato dalla dottrina (47), di un chiarimento da parte del legislatore, volto a superare qualsiasi divergenza interpretativa sul punto, non ha trovato riscontro nella riforma del 1995. Il perdurare del conflitto giurisprudenziale ha portato ad una prima pronuncia delle Sezioni Unite (48) sul tema, nella quale si è ritenuto necessario e sufficiente, ad evitare l’estinzione della misura coercitiva, la deliberazione sulla richiesta di riesame e il deposito del dispositivo entro il termine di dieci giorni. Cass. n. 201118; Id., Sez. II, 25 maggio-3 giugno 1993, Guanieri, in Riv. pen., 1994, p. 808; Id., Sez. VI, 11 giugno 1992, Boni, in Riv. pen., 1993, p. 964. (41) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 13 febbraio 1996, Palmas, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 808; Id., Sez. II, 28 luglio-5 agosto 1994, Susi, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 319; Id., Sez. fer., 20 agosto-9 settembre 1991, Mercurio, cit., p. 3099, m. 1648; Id. Sez. I. 5-27 luglio 1991, Cardone, in Cass. pen., 1991, II, p. 450, m. 142; Id., Sez. I, 18 giugno 1990, Bertolo, in Giur. it., 1991, II. c. 286; con nota di SZEGÖ, Sulla decorrenza del termine per la decisione del tribunale della libertà in sede di riesame. In dottrina v. D’AMBROSIO-FIDELBO, op. cit., p. 175. (42) V., in questi termini AMODIO, Commento agli artt. 127 e 128 c.p.p., AA.VV., in Commentario del nuovo codice di proc. pen., a cura di AMODIO-DOMINIONI, vol. II, Milano, 1989, p. 93. (43) Cfr. SZEGÖ, op. cit., c. 287. (44) Così si è espressa anche la dottrina: cfr. CERESA GASTALDO, op. cit., p. 171; RAMAJOLI, Le misure cautelari (personali e reali), nel codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 155 ss.; GREVI, Scadenza del termine per la decisione da parte del tribunale del riesame ed orario di chiusura degli uffici giudiziari, in Cass. pen., 1995, p. 2615 e s. (45) V. GREVI, loc. ult. cit., p. 2616. (46) V. BARGIS, Misura cautelare caducata per tardato deposito della pronuncia sul riesame, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1063. (47) Ibidem. (48) V. Cass., Sez. Un., 17 aprile-3 luglio 1996, Moni, cit., c. 185.
— 1216 — Questi in sintesi i passaggi argomentativi della sentenza: l’intervallo temporale tra la deliberazione e il deposito del provvedimento, giustificato dal principio generale dell’obbligo di motivazione delle sentenze e delle ordinanze stabilito dall’art. 125 c.p.p, è regola costante tanto delle sentenze, quanto delle ordinanze e, conseguentemente, opera anche con riferimento all’ordinanza conclusiva del procedimento di riesame. Anche nelle ordinanze si distingue tra dispositivo e motivazione e il dispositivo presenta una propria autonomia. Nel caso di specie, il riferimento testuale alla decisione, che è ‘‘ontologicamente... realtà diversa rispetto sia al dispositivo, sia alla motivazione’’ (49), sta a significare come sia sufficiente che entro il termine di dieci giorni, la decisione si renda visibile e certa, in quella parte — il dispositivo — nella quale il tribunale del riesame materializza in sintesi la decisione (50). Attraverso il dispositivo si rende certo che la deliberazione è intervenuta nel termine. La motivazione dell’ordinanza, invece, può essere depositata nel termine ordinatorio di cinque giorni dalla deliberazione, in applicazione della regola generale dettata dall’art. 128 c.p.p., la cui osservanza è doverosa per il giudice ai sensi dell’art. 124 c.p.p. L’intervento delle Sezioni Unite tuttavia non ha messo fine ai contrasti in giurisprudenza (51), né ai dissensi in dottrina (52). La soluzione prospettata, infatti, è stata ritenuta lesiva dei diritti della persona assoggettata a misura coercitiva: da un lato incide sulle garanzie costituzionali poste a tutela della libertà personale, in quanto, ammettendo il deposito della motivazione oltre il termine di dieci giorni, priva l’imputato della possibilità di conoscere tempestivamente le ragioni dell’ordinanza che protrae la misura; dall’altro ostacola il pieno esercizio del diritto di difesa e comprime ulteriormente la libertà personale dell’imputato, procrastinando la verifica del provvedimento restrittivo davanti al giudice di legittimità, mediante ricorso per cassazione, proponibile solo dopo aver conosciuto la motivazione del tribunale del riesame. Sulla base di queste considerazioni critiche, la questione è stata ripro(49) Ibidem, c. 193. (50) Ibidem, c. 194. (51) Sulla scia della pronuncia delle Sezioni Unite, v. Cass., Sez. I, 14 ottobre 19976 febbraio 1998, Tomasello, in CED, Cass. n. 209465; Id., Sez. I, 9 luglio-24 settembre 1997, Suarino e altri, in CED, Cass. n. 208502; Id., Sez. V, 9 luglio-30 agosto 1997, p.m. e Rea, in CED, Cass. n. 209301; Id., Sez. I, 12 giugno-16 settembre 1997, Falcone, in CED, Cass. n. 208351; Id., Sez. I, 12 giugno-16 luglio 1997, Capasso, in CED, Cass. n. 208401; Id., Sez. VI, 30 aprile-11 luglio 1997, Vandi e altri, in CED, Cass. n. 209331; Id., Sez. IV, 10 dicembre-30 dicembre 1996, Vaccaro, in CED, Cass. n. 206613; Cass. Sez. IV, 14 settembre 1996-22 maggio 1997, Covello e altri, in CED, Cass. n. 207663; contra Cass., Sez. III, 13 dicembre 1996-7 febbraio 1997, Bella, in CED, Cass. n. 207500. (52) Cfr. BOIDO, op. cit., c. 186 ss.; CONFALONIERI, Sul deposito differito della motivazione nelle decisioni de libertate, in Giur. it., 1997, c. 275.
— 1217 — posta all’attenzione delle Sezioni Unite, che ha ribadito il principio già affermato nel precedente intervento del 1996, con una recente pronuncia (53) che non sembra in grado di sopire del tutto i dubbi e le divergenze sorte al riguardo. Tanto il criterio letterale, quanto quello logico-sistematico, seguiti dalla Corte in applicazione del canone ermeneutico fissato dall’art. 12 delle preleggi, porterebbero a concludere che, per evitare l’estinzione della misura coercitiva, sia sufficiente la deliberazione del tribunale sulla richiesta di riesame nel termine di dieci giorni, a prescindere dal deposito dell’ordinanza completa di motivazione. L’interpretazione accolta dalla Corte si fonda sulla lettera del decimo comma dell’art. 309 c.p.p., nel quale con il termine ‘‘decisione’’ si è inteso far riferimento, ad avviso del giudice di legittimità, al dictum del tribunale, vale a dire all’annullamento, alla riforma o alla conferma del provvedimento impugnato: diversamente il legislatore avrebbe fatto espresso riferimento al provvedimento nella sua interezza, comprensivo di dispositivo e motivazione, usando il termine onnicomprensivo di ‘‘ordinanza’’. Al tempo stesso, secondo le Sezioni Unite, la lettura proposta rispetta la ratio della norma in esame. È indubbio che il fine perseguito dal legislatore nel disciplinare il procedimento di riesame sia stato quello di garantire entro termini brevi la verifica giurisdizionale del provvedimento cautelare. E, sebbene sia doveroso dar conto delle ragioni su cui si fonda il provvedimento adottato, la garanzia giurisdizionale del riesame può dirsi soddisfatta quando la deliberazione sia intervenuta in modo certo entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti. La soluzione prospettata, del resto, risponde, ad avviso della Corte, anche ai criteri di razionalità e congruità: considerate tutte le attività che il tribunale è chiamato a compiere nei dieci giorni successivi alla ricezioni degli atti — fissazione dell’udienza, operazioni preparatorie all’udienza stessa, studio degli atti processuali, celebrazione dell’udienza, decisione —, sarebbe azzardato ritenere che entro tale termine sia richiesto anche il deposito della motivazione la cui complessità dipende direttamente dalla complessità del provvedimento impugnato, soprattutto dopo la modifica del 1995 (54). Interpretare diversamente l’art. 309, nono e decimo comma, c.p.p., (53) V. Cass., Sez. Un., 25 marzo-2 giugno 1998, Manno e altro, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 391. (54) Considerata la complessità dell’attività, attraverso la quale il giudice rende espliciti i criteri sottesi alla decisione, ci si chiede, se cinque giorni possano essere sufficienti per redigere la motivazione, rispettando il termine fissato dall’art. 128 c.p.p. Forse sarebbe preferibile anziché intervenire sui tempi allungandoli a discapito dell’imputato, affermare la necessità e l’opportunità di una motivazione concisa. È vero che la molteplicità degli elementi strutturali dell’ordinanza cautelare richiede una motivazione articolata e che la motivazione, per assolvere alla sua funzione, deve essere completa. Ciononostante si concorda con chi ritiene preferibile, per chi è privo della libertà personale, ‘‘una motivazione sintetica, fino al limite del consentito, ma subito’’ rispetto a ‘‘una motivazione fiorita, dopo’’ (Così BOIDO, op.
— 1218 — significherebbe infatti o introdurre una deroga all’art. 128 c.p.p., negando al tribunale il termine ulteriore di cinque giorni per stendere la motivazione, oppure ritenere assorbito tale termine in quello di dieci giorni previsto per la decisione, costringendo, di fatto, il tribunale a compiere le attività preliminari alla decisione e a deliberare in soli cinque giorni. 5. La Corte non trascura nell’articolata motivazione le critiche e le obiezioni avanzate da più parti, eppure lo sforzo compiuto al fine di confutarle non riesce a cancellare alcune perplessità di fondo, nonostante il ricorso ad argomenti talora suggestivi. Due i rilievi opposti alla tesi sostenuta dalle Sezioni Unite. Il primo si fonda sulla natura e sulla struttura del provvedimento ‘‘ordinanza’’: in questo tipo di atto del giudice mancherebbe il dispositivo o comunque questo risulterebbe privo di una sua autonoma significatività, come risulterebbe dal principio generale secondo il quale le ordinanze sono motivate a pena di nullità (art. 125, terzo comma, c.p.p.) e dalla norma specifica dettata con riferimento alle ordinanze restrittive della libertà personale che richiede una motivazione rigorosa e puntuale (art. 292 c.p.p.). Al riguardo la Corte sottolinea come proprio la necessità della motivazione stia a significare che questo elemento non costituisce in sé, né esaurisce il provvedimento ‘‘ordinanza’’. Al contrario la previsione dell’art. 125, terzo comma c.p.p. dimostrerebbe come la motivazione sia prevista ‘‘a completamento di un « nucleo » che conferisce al provvedimento giuridica esistenza ed identità, e rispetto al quale la mancanza di motivazione assume un effetto invalidante’’ (55): il dispositivo, appunto. Quanto alla impossibilità di scindere il dispositivo rispetto alla motivazione e di configurarlo come elemento autonomo dell’ordinanza, la questione, ad avviso della Corte non rileva nella verifica della correttezza giuridica dell’interpretazione proposta, la quale si fonda ‘‘esclusivamente sulla funzione che il dispositivo, una volta venuto ad esistenza ed acquistata certezza, assume secondo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 309’’ (56). La risposta delle Sezioni Unite non può tuttavia essere considerata risolutiva, poiché, a ben vedere, ciò che rileva, ai fini di una corretta interpretazione della disposizione in esame, non è tanto o non è solo la natura o la struttura dell’ordinanza, quanto la normativa dettata con riguardo alla pubblicazione dei provvedimenti del giudice, che la Corte non sembra tenere nel giusto conto. Gli atti successivi alla deliberazione, infatti, sono disciplinati puntualmente solo con riferimento alla sentenza. Secondo il disposto dell’art. cit., c. 188). Anche una motivazione succinta può essere esaustiva, chiara, puntuale: v., sul punto, CORDERO, Procedura penale, 1998, cit., p. 916. (55) Cass., Sez. Un., 25 marzo-2 giugno 1998, Manno, cit., p. 394. (56) Ibidem.
— 1219 — 544, primo comma, c.p.p., di regola, alla deliberazione, segue la redazione e la sottoscrizione del dispositivo, e, subito dopo, la stesura della motivazione. La sentenza è pubblicata mediante lettura in udienza del dispositivo e della contestuale motivazione, ai sensi dell’art. 545, primo e secondo comma, c.p.p. e depositata, immediatamente dopo, in cancelleria ex art. 548, primo comma, c.p.p. Solo qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi, la sequela procedimentale cambia: il dispositivo viene letto in udienza e successivamente viene depositata la motivazione redatta nei termini previsti dall’art. 544, secondo e terzo comma, c.p.p. In questi casi la pubblicazione della sentenza avviene in due tempi: la pubblicazione parziale e anticipata del dispositivo mediante lettura in udienza e la successiva pubblicazione dell’intera sentenza attraverso il deposito in cancelleria del provvedimento comprensivo della motivazione redatta nei termini di legge. La pubblicazione dei provvedimenti diversi da quelli emessi nell’udienza preliminare e nel dibattimento, vale a dire delle ordinanze previste dall’art. 128 c.p.p., avviene mediante il loro deposito in cancelleria nei cinque giorni successivi alla deliberazione: ‘‘non è contemplata alcuna alternativa al deposito integrale di esse, immediato o differito che sia’’ (57). Anche ammettendo l’esistenza del dispositivo e la sua autonomia rispetto alla motivazione, non si può ignorare che nel codice di procedura penale non vi sono disposizioni che prevedano un sistema di deposito frazionato dei provvedimenti del giudice diversi dalle sentenze. L’operazione ermeneutica della Corte che delinea, sulla scorta dell’art. 128 c.p.p., un sistema di deposito articolato delle ordinanze, in parallelo al sistema previsto per le sentenze (58), non pare, dunque, corretta. Il secondo rilievo critico mosso alla tesi della ‘‘dicotomia temporale’’ nasce dalla valutazione delle conseguenze che ne potrebbero derivare: far slittare il deposito dell’ordinanza completa di motivazione ad un momento successivo alla deliberazione, sia pure entro il termine ordinatorio di cinque giorni dalla decisione, in mancanza di una sanzione per l’inosservanza di tale termine, significa autorizzare il giudice ad effettuare il deposito oltre il termine, con il conseguente differimento del ricorso per cassazione. L’interpretazione prevalente in giurisprudenza sarebbe, pertanto, lesiva della libertà personale e del diritto di difesa. La Corte respinge l’obiezione per due ordini di motivi. Da un lato, afferma la mancanza di correlazione tra il procedimento di riesame e il giudizio davanti alla Corte di cassazione: le garanzie appre(57) BOIDO, op. cit., c. 187. (58) Ibidem. Secondo l’Autrice è questo l’iter seguito dalla Corte per affermare la soluzione del deposito frazionato delle ordinanze conclusive del procedimento del riesame e mediare, così, tra la necessità di garantire al giudice un tempo congruo per la stesura della motivazione e l’esigenza di assicurare una tempestiva decisione sull’impugnazione.
— 1220 — state dal legislatore variano non solo ‘‘a seconda del « valore » tutelato, ma dei livelli di compromissione a cui esso è esposto nei vari momenti e fasi procedimentali’’ (59). A differenza del riesame, che è caratterizzato da scansioni temporali serrate e da tempi brevi, il giudizio di legittimità è regolato da ritmi diversi: nessun termine è previsto per la trasmissione degli atti, la decisione deve intervenire nel termine, ordinatorio, di trenta giorni dalla ricezione degli atti, il deposito della sentenza è rimesso alla disciplina ordinaria. Se quindi i termini fissati per la definizione del giudizio di cassazione non sono brevi, né rigorosi, non essendo previste sanzioni processuali per la loro inosservanza, ‘‘non si comprende come la contestata dicotomia temporale tra decisione del tribunale e deposito dell’ordinanza (comprensiva di motivazione) possa essere censurata in quanto lesiva della libertà personale e del diritto di difesa’’ (60). In secondo luogo, la Corte rifiuta l’idea, sottesa alle critiche avanzate, secondo la quale l’ordinatorietà dei termini finirebbe con il tradursi nell’arbitrarietà e nel lassismo delle autorità procedenti. Se così fosse l’applicazione dell’art. 128 c.p.p. per il deposito della motivazione risulterebbe indubbiamente lesiva dei diritti di libertà personale e di difesa del soggetto in vinculis. Tuttavia l’ordinarietà dei termini se può dare luogo a fenomeni inquadrabili nella patologia giudiziaria, non può certo essere ritenuta ‘‘indefettibile presupposto della sua trasgressione’’ (61). La Corte con forza ribadisce come l’osservanza dei termini ordinatori non sia rimessa alla discrezionalità del giudice, ma anzi sia doverosa, ai sensi dell’art. 124 c.p.p., che impone in via generale l’obbligo di osservare le norme processuali; tant’è vero che la loro violazione, sebbene non comporti nullità o altre sanzioni e quindi non determini conseguenze sul piano processuale, può dar luogo a responsabilità civile, disciplinare e penale (62). (59) Cass., Sez. Un., 25 marzo-2 giugno 1998, Manno, cit., p. 395. (60) Ibidem. (61) Ibidem, p. 396. (62) Gli argomenti utilizzati per superare le obiezioni e i rilievi critici avanzati nei confronti dell’interpretazione accolta dalle Sezioni Unite, sono gli stessi cui la Suprema Corte fa ricorso per affermare la conformità della normativa, così interpretata, ai princìpi costituzionali. Non può dirsi che l’incertezza del deposito del provvedimento comporti un’irragionevole disparità di trattamento nei confronti dei soggetti che propongono riesame, e quindi una violazione dell’art. 3 Cost., poiché in realtà la previsione in esame non lascia spazio all’incertezza: la motivazione deve essere depositata nei cinque giorni successivi alla deliberazione e l’eventuale inosservanza del termine deve essere considerata come un’espressione di patologia giudiziaria, sanzionabile sul piano civile, disciplinare e penale. Non può ritenersi menomato il diritto alla libertà personale, tutelato dall’art. 13 Cost., in quanto il legislatore con una scelta discrezionale incensurabile ha assicurato una garanzia sostanziale del diritto di libertà mediante un controllo giurisdizionale da effettuare in un termine caducatorio entro il quale deve intervenire la decisione del tribunale che conclude il procedimento e ‘‘ne suggella il compimento con la necessaria certezza’’. Neppure può ravvisarsi un pregiudi-
— 1221 — Assolutamente condivisibile il monito con cui la Corte ricorda l’obbligo di osservare, in forza dell’art. 124 c.p.p., il termine ordinatorio, confinandone l’eventuale elusione nell’ambito della patologia giudiziaria. Tuttavia l’interprete non può ignorare la scarsa considerazione di cui godono, nella prassi, i termini in assenza di sanzioni invalidanti o caducatorie, quali che siano le cause di questo fenomeno. Né si può ritenere che l’unica conseguenza eventualmente derivante dall’inosservanza di un termine ordinatorio — la configurabilità di una responsabilità di carattere disciplinare a carico dei magistrati — giovi al soggetto in vinculis (63), il quale, finirebbe per subire il ritardo nel deposito del provvedimento, anche se fosse acclarata una responsabilità del magistrato inadempiente. Proprio con riguardo al pregiudizio sofferto dall’imputato, cui viene preclusa la proposizione in tempi rapidi del ricorso per cassazione, le argomentazioni della Corte, sia pure stringenti, non paiono del tutto convincenti. È vero che il procedimento del riesame è caratterizzato da scansioni temporali peculiari, da cui il procedimento davanti al giudice di legittimità si discosta nettamente. Tuttavia, la constatazione che nel giudizio a seguito di ricorso i tempi siano più lunghi e svincolati da termini perentori non giustifica il differimento del ricorso per cassazione, a causa del ritardo nel deposito dell’ordinanza del tribunale della ‘‘libertà’’. Al contrario porta a censurare la disciplina del giudizio di legittimità, che non sembra garantire appieno i diritti della persona sottoposta a misura coercitiva (64). Del resto la stessa Corte di cassazione ha riconosciuto l’eventualità che l’imputato veda frustrate le proprie aspettative, qualora il tribunale del riesame non abbia rispettato il termine fissato dall’art. 128 c.p.p., ed ha attribuito, in tal caso, al soggetto in vinculis la facoltà di proporre ricorso per cassazione anche avverso il solo dispositivo ritualmente depositato in cancelleria, ammettendo che i motivi nuovi, i quali possono essere successivamente presentati, prima della discussione, ai sensi dell’art. 311, quarto comma, c.p.p., possano riguardare anche capi o punti diversi da quelli cui si riferiscono i motivi originari (65). ‘‘Non può negarsi che sono zio del diritto alla difesa, essendo garantiti sia la conoscenza dei motivi su cui si fonda il provvedimento del tribunale del riesame, sia il diritto di impugnarlo in tempi ragionevoli e determinati con certezza, oltre che congrui rispetto al valore tutelato, in considerazione del livello di verifica ulteriore che il giudizio di cassazione rappresenta rispetto a quello di riesame. (63) V., BOIDO, op. cit., c. 188. (64) Secondo un orientamento dottrinale, la tutela del soggetto in vinculis sarebbe pienamente assicurata estendendo il meccanismo sanzionatorio costituito dalla perdita di efficacia della misura coercitiva all’attività di tutti gli organi di controllo: v., in questi termini, VALENTINI REUTER, op. cit., p. 1150. (65) Cfr. Cass., Sez. VI, 24 luglio-19 settembre 1997, Bokach, in Cass. pen., 1998, p. 1173.
— 1222 — molti gli « strappi » che in tal modo si apportano alla disciplina dei gravami’’ (66), senza peraltro offrire una soluzione soddisfacente del problema. Tuttavia la pronuncia della Corte testimonia il disagio che nasce dal ‘‘desiderio di tutelare l’imputato e l’esigenza di rispettare il decisum delle Sezioni Unite’’ (67) e costituisce un tipico esempio di un fenomeno, più ampio, che si manifesta ripetutamente nelle scelte di politica legislativa e nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, in materia de libertate: la ricerca costante di un temperamento tra la tutela della persona e l’efficienza del processo. 6. Anche le sentenze che recentemente hanno ridefinito le scansioni temporali del procedimento del riesame, valutate nel loro complesso, sono espressione del tentativo di conciliare le due opposte esigenze. Fissando la decorrenza del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti a partire dal giorno in cui la richiesta di riesame perviene alla cancelleria del tribunale della ‘‘libertà’’ e chiarendo che in quel lasso di tempo gli atti devono pervenire, e non semplicemente essere inviati, al giudice dell’impugnazione, la Corte costituzionale, in un caso, e le Sezioni Unite, nell’altro, hanno privilegiato la ratio sottesa all’art. 309 c.p.p. e, rendendo di fatto più serrati i tempi del riesame, hanno garantito una più ampia ed effettiva tutela del soggetto privato della libertà personale. In direzione opposta si è mossa, successivamente, la Cassazione a Sezioni Unite, consentendo al tribunale del riesame di depositare la motivazione dell’ordinanza conclusiva del procedimento di riesame nei cinque giorni successivi alla deliberazione, con una pronuncia dettata dall’evidente preoccupazione di lasciare ai magistrati, già tenuti ad osservare un termine per la decisione angusto rispetto alla quantità e alla complessità di atti da valutare, un ulteriore lasso di tempo per far fronte alla redazione della motivazione. Il rigoroso garantismo, che si respira nelle prime due pronunce prese in esame, lascia il posto nella più recente sentenza delle Sezioni Unite al timore che la carenza di organico e l’eccessiva mole di lavoro possano compromettere l’efficienza del processo penale e, quindi, in ultima analisi la tutela della collettività. L’impressione è che in questa sorte di tiro alla fune tra istanze contrapposte, ma ugualmente meritevoli di considerazione, l’esigenza di difesa sociale abbia talvolta la meglio. Lo stesso dato normativo, considerato nel suo complesso, lo testimonia. Da un lato la persona sottoposta a misura coercitiva è tutelata attraverso la previsione di uno strumento di difesa della propria libertà perso(66) SPANGHER, Ritardo nel deposito della motivazione da parte del tribunale del riesame: termini e contenuto del ricorso, in Cass. pen., 1998, p. 1175, il quale, apprezzando i lodevoli intenti che hanno guidato la Cassazione, manifesta perplessità in ordine alle implicazioni problematiche che tale pronuncia comporta. (67) Ibidem.
— 1223 — nale esperibile in tempi brevissimi, la cui inosservanza determina la inefficacia del provvedimento restrittivo. Dall’altro, è consentita l’immediata reiterazione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare coercitiva, non operando, in caso di caducazione della misura dovuta a ragioni formali, la preclusione processuale del ne bis in idem (68). Peraltro la reiterazione del provvedimento applicativo è ammessa anche prima che sia divenuto esecutivo il precedente provvedimento di liberazione (69). La perdita di efficacia della misura coercitiva, a seguito del mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 309, quinto e nono comma, c.p.p., infatti, non è automatica, ma deve essere fatta valere mediante un’istanza di scarcerazione o di cessazione della diversa misura coercitiva, ai sensi dell’art. 306 c.p.p. (70). In questo contesto normativo si stempera la rilevanza della scelta, cui è chiamato l’interprete, tra una lettura dell’art. 309 c.p.p. che garantisca tempi brevi per lo svolgimento del procedimento di riesame, contenendo l’intero iter in soli quindici giorni, e un’interpretazione che ammetta una dilazione, consentendo il deposito della motivazione oltre il quindicesimo giorno dalla presentazione dell’impugnazione. Di fronte al paradosso di una sanzione effettiva, ma di fatto eludibile, la previsione di scansioni temporali perde significato e la lettura in chiave più o meno garantista di tali disposizioni non necessariamente si traduce in una maggiore o minore tutela dell’imputato. Il pericolo, concreto, che l’inefficacia del provvedimento restrittivo rimanga soltanto sulla carta (71) si riflette sull’intera disciplina dei tempi del riesame, che rischia di costituire solo apparentemente una garanzia posta a tutela della libertà personale dell’imputato. PAOLA CORVI Ricercatrice presso la Cattedra di procedura penale Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
(68) Cfr, Cass., Sez. I, 10 ottobre-9 novembre 1995, Russo, in CED, Cass. n. 202965; Id., Sez. VI, 12 febbraio-30 marzo 1995, Baio, in CED, Cass. n. 201021 e, implicitamente, Cass., Sez. I, 6 giugno-8 agosto 1996, Nicosia, in CED, Cass. n. 205682; Id., Sez. I, 5 aprile-31 maggio 1996, Morra ed altro, in CED, Cass. n. 204824. (69) V. Cass., Sez. VI, 19 dicembre 1996-4 febbraio 1997, Pipicella, in CED, Cass. n. 208193. (70) V. Cass., Sez. Un., 17 aprile-31 luglio 1996, Moni, in CED, Cass. n. 205255, Id., Sez. I, 4-27 marzo 1997, Cappuccio, in CED, Cass. n. 207193; Id., Sez. I, 3 aprile-28 maggio 1996, De Masi, in CED, Cass. n. 204913. (71) Sul punto cfr. CERESA-GASTALDO, op. cit., p. 165 ss.
L’‘‘ABUSO INNOMINATO DI AUTORITÀ’’ NEL PENSIERO DI FRANCESCO CARRARA (*)
SOMMARIO: 1. L’ascendenza liberale dell’incriminazione di cui all’art. 323 c.p.: l’abuso innominato di autorità. — 2. L’abuso di autorità come delitto sociale lesivo del diritto universale. — 3. I profili strutturali. — 4. La nozione di ‘‘abuso’’. — 5. Considerazioni conclusive.
1. Nell’ambito del recente dibattito sulla riforma della fattispecie di abuso d’ufficio, si è sovente fatto riferimento all’origine liberale del reato ed alla necessità di valorizzare la funzione assunta storicamente dal nucleo di tale incriminazione (1). Si inserisce, ad esempio, in questa direzione la proposta di porre rimedio all’evidente ipertrofia della formulazione del 1990, creando due fattispecie al posto di una: la prima relativa agli abusi commessi per recare danno ad altri, avente come caratteristica « la non venalità (come, ad esempio nell’insegnamento di Carrara) nella (*) Testo ampliato dell’intervento presentato a Lucca il 29 novembre 1997 Presso il Centro di Studi Giuridici « Francesco Carrara » in occasione della giornata di studio sulla « Riforma dell’abuso di ufficio ». (1) Su tale aspetto del dibattito, v. PAGLIARO, Per una riforma delle norme sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1996, 535 e ss.; ID., Contributo al dibattito sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1996, 1405 e ss.; ID., Nuovi spunti sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1997, 501 e ss.; CAMAIONI, Trasfigurazione e morte dell’abuso d’ufficio?, in Cass. pen., 1997, 1938. Sul dibattito che ha preceduto la riforma del delitto d’abuso d’ufficio, oltre agli autori già citati v. E. GALLO, Aperto il dibattito sul delitto d’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1996, 271 e ss.; VINCIGUERRA, L’abuso d’ufficio: stato delle cose e ragioni della riforma, in Dir. pen. e proc., 1996, 858 e ss.; FIANDACA, Verso una nuova riforma del reato d’abuso d’ufficio?, in Quest. giust., 1996, 308 e ss.; A. ROSSI, Giudice penale e discrezionalità amministrativa. La riforma dell’abuso d’ufficio, in Quest. giust., 1996, 19 e ss.; PICOTTI, Continua il dibattito sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1997, 347 e ss.; MANES, Abuso di ufficio e progetti di riforma; i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle soluzioni proposte, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 1202 e ss. Sulla nuova fattispecie di cui all’art. 323 c.p. v. AA.VV., La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, Milano, 1997, con un’ampia sintesi dei lavori parlamentari a cura di A.A. Dalia; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, II, La legge di riforma 16 luglio 1997 n. 234, Milano, 1997; LAUDI, L’abuso d’ufficio: luci ed ombre di un’attesa riforma. Profili sostanziali, in Dir. pen. e proc., 1997, 1049 e ss.; PATALANO, Amministratori senza paura della firma con i nuovi vincoli alle condotte punibili, in Guida al dir., 1997, n. 29, 18 e ss.; PADOVANI, Commento all’art. 1, l. 16 luglio 1997, n. 234 (Modifiche dell’art. 323 c.p.), in Legislazione penale, 1997, n. 4, 741 e ss.
— 1225 — forma dell’essere diretto a danneggiare altri (come nell’art. 175 del codice Zanardelli, che richiedeva un atto arbitrario commesso ‘‘contro gli altrui diritti’’) »; la seconda concernente gli abusi commessi per arrecare vantaggi a sé o ad altri, nella forma dello sfruttamento privato dell’ufficio (2). In effetti, come sottolineato da Pagliaro, ai due tipi di abuso (‘‘a danno’’ e ‘‘a vantaggio’’) corrispondono radici storiche ed esigenze politico-criminali diverse (3). L’autonomia dell’abuso ‘‘a danno’’ risulta in linea con l’origine liberale del delitto d’abuso d’ufficio. Non vi è dubbio, infatti, che la disposizione che incrimina l’abuso funzionale dei pubblici ufficiali abbia radici liberali (4). Nella tradizione ottocentesca, la fattispecie dell’abuso di autorità s’inquadra nell’ambito del rapporto tra autorità e cittadini, incriminando i comportamenti finalizzati a cagionare a terzi un danno non patrimoniale (ovvero le prevaricazioni e le angherie pubbliche, come quella, ad es., commessa dell’agente di polizia che perseguita un suo nemico personale con perquisizioni illecite). Tale incriminazione trova riscontro in quasi tutte le codificazioni preunitarie (5): sulla base delle premesse filosofiche illuministiche e giusnaturalistiche elaborate da Romagnosi e di Beccaria, dal vasto genus dei reati maiestatici vennero, infatti, isolate alcune figure autonome e nominate (6). Mentre agli abusi di autorità più gravi, come la concussione e la corruzione, fu attribuito uno speciale nomen juris (c.d. abusi ‘‘nominati di autorità’’), tutti gli altri (non prevedi(2) Cfr. PAGLIARO, Per una riforma, cit., 537 e ss.; ID., Contributo al dibattito, cit., 1406 e ss.; ID., Nuovi spunti sull’abuso d’ufficio, cit., 502 e ss. Nella proposta di legge presentata dalla Commissione ministeriale, insediata dal Ministro Caianiello e presieduta dall’amministrativista Morbidelli, era stato in effetti proposto lo smembramento dell’abuso d’ufficio e la sostituzione dell’art. 323 c.p. con tre nuove ed autonome fattispecie incriminatrici rispettivamente denominate prevaricazione, favoritismo affaristico e sfruttamento privato dell’ufficio. Le iniziative parlamentari di riforma, privilegiate dal successivo Ministro, hanno invece ritenuto preferibile conservare un’unica fattispecie, ancorando la figura dell’abuso alle attività vincolate; sul punto v. D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, II, cit., 6 e ss., v. in particolare p. 147 e ss., ove è riportato per intero il testo della proposta di legge della Commissione citata. Sulla riformulazione dell’art. 323 c.p. ad opera del legislatore del 1990, v. per tutti PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, settima ediz., Milano 1995, 227 e ss.; SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, seconda ediz., Milano, 1995, 477 e ss. (3) Cfr. PAGLIARO, Per una riforma, cit., 536. (4) Sui precedenti storici dell’art. 323 c.p., v. BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in Scritti di diritto penale, I, Milano, 1997, 2245 e ss.; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, quinta ediz., V, Torino, 1982, 272; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio. L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 13, Milano, 1995, 9 e ss. (5) Su tale profilo v. BRICOLA, In tema di legittimità, cit., 2252 e ss. (6) Per una sintesi dell’evoluzione storica dei delitti contro la pubblica amministrazione dalle legislazioni romana e germanica sino al codice Zanardelli, v. TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione, Milano, 1973, 35 e ss.
— 1226 — bili e non previsti in modo ‘‘speciale’’) furono ricompresi e repressi nella formula generica e sussidiaria dell’abuso innominato di autorità che costituisce di fatto l’antecedente storico della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. Si trattava di una figura di abuso innominato di potere con la quale s’intendevano incriminare le prevaricazioni del potere statuale nei confronti dei cittadini (7). Così come il vigente art. 608 c.p., anche l’originario schema di abuso s’incentrava sulle distorsioni del potere coercitivo del pubblico ufficiale, che aveva per sua natura la capacità d’incidere sulla sfera giuridica altrui: oggetto dell’incriminazione risultavano infatti i cosiddetti atti d’imperio, espressione di un rapporto di supremazia di carattere pubblico, al quale era connaturata la legittimazione a dare ordini ed a pretendere obbedienza (8). In un primo tempo, il fuoco della tutela poggia sulla violazione dei diritti fondamentali (in particolare, della libertà) dell’individuo presa di mira dal pubblico ufficiale prevaricante (9). Nei codici preunitari (e specialmente in quello toscano) l’abuso di autorità è riferito ad una serie di delitti commessi da pubblici ufficiali contro la libertà (10): il centro nevralgico del rapporto tra autorità e individuo (e cioè della salvaguardia della posizione individuale rispetto ai pubblici poteri) è costituito infatti tradizionalmente dalla tutela della libertà personale. Non a caso nel codice Zanardelli l’abuso di autorità viene previsto all’art. 175 come condotta produttiva di un danno nei confronti dei privati cittadini (11). (7) Il codice Zanardelli prevedeva una fattispecie d’abuso di autorità (art. 175) distinta da quella d’interesse privato in atti d’ufficio (art. 176); sulla tendenza preunitaria a distinguere tra abuso di autorità e presa d’interesse privato in atti d’ufficio, v. D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, I, cit., 24 e ss.; per un commento all’art. 175 codice Zanardelli v. GAVAZZI, Dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di diritto penale, seconda ediz., IV, Milano, 58 e ss.; LOLLINI, Dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Enciclopedia del diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, VII, Milano, 1907, 95 e ss. (8) Così STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1978, 254. (9) Sui precedenti storici dell’art. 175 codice Zanardelli v. GAVAZZI, De delitti, cit., 61; LOLLINI, Dei delitti, cit. 96; sulle ragioni storiche e logico-concettuali che giustificano l’‘‘importanza preminente riconosciuta, tradizionalmente e tuttora, alla libertà personale nei confronti delle altre forme di libertà’’ v. FLICK, v. Libertà individuale (delitti contro), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 542. (10) Come si osserva nella Relazione della Commissione speciale del Senato del Regno sul codice penale del Ministro Zanardelli, 152, il codice Zanardelli ‘‘introduce invece sanzioni penali per gli abusi che non ledano solo tale bene ma anche altri diritti individuali e che ledono sempre la pubblica amministrazione appunto per il motivo che il mezzo con cui si commette la lesione è sempre l’abuso di quell’autorità di cui si scuote il prestigio; garanzia dell’individuo e della società contro qualsivoglia atto arbitrario per qualunque fine commesso e con lesione di qualsiasi diritto senza distinzione tra la libertà e gli altri diritti assicurati al cittadino in uno Stato civile e libero’’. (11) L’art. 175 del codice penale del 1889 prevedeva al primo comma che ‘‘il pubblico ufficiale, che, abusando del suo ufficio, ordina o commette contro gli altrui diritti qual-
— 1227 — Nel secolo XIX i soggetti attivi tradizionali dell’abuso di autorità sono anzitutto i giudici istruttori, i carcerieri, i birri, i cosiddetti ‘‘apparitori’’ e gli esecutori di giustizia, i magistrati politici e soltanto marginalmente, gli amministratori in senso stretto. Il processo di formazione di tale fattispecie incriminatrice è legato al ripudio di arcaiche prassi inquisitorie e coincide con l’iniziale riconoscimento dei diritti dell’arrestato, dell’imputato, del detenuto (12). È questa la cornice storica che fa da sfondo all’indagine di Carrara sull’abuso di autorità: l’analisi del Maestro si rivela di fondamentale importanza per comprenderne la struttura e la ratio politico-criminale (13). La lettura delle osservazioni contenute nella parte speciale del ‘‘Programma del corso di diritto criminale’’ consente sia di comprendere meglio l’evoluzione della fattispecie di abuso d’ufficio e le cause di tante distorsioni riscontrate sul piano applicativo, sia di valutare con maggior consapevolezza il significato ed i limiti della recente riforma (14). La figura carrariana di abuso di autorità s’inserisce perfettamente nella visione dello stato liberale ottocentesco, dedito essenzialmente all’amministrazione della giustizia ed alla tutela della sicurezza pubblica: l’apparato statuale è visto come uno strumento di protezione delle posizioni giuridiche dei privati nei confronti delle pubbliche prevaricazioni, e più precisamente come barriera contro gli attentati della pubblica amministrazione ai diritti dei cittadini (15). Nella prefazione e nei prolegomeni alla parte generale del Programma il concetto di abuso di autorità viene peraltro assunto del Maestro lucsiasi atto arbitrario non preveduto come reato da una disposizione di legge, è punito con la detenzione da quindici giorni ad un anno; e, qualora agisca per un fine privato, la pena è aumentata di un sesto, sostituita alla detenzione la reclusione’’; sulle differenze strutturali ravvisabili tra l’incriminazione dell’abuso di autorità contenuta nel codice penale del 1889, la figura d’abuso innominato in atti d’ufficio introdotta dal codice del 1930 e la riformulazione dell’art. 323 c.p. conseguente alla riforma del 1990, v. SEMINARA, Commento agli artt. 323, 323-bis (324) c.p., in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 1996, 227 e s. (12) Cfr. TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione, cit., 43. Come evidenziato da LOLLINI (Dei delitti, cit., 98), i casi più ricorrenti d’abuso d’autorità sono costituiti dall’arresto arbitrario, dalla pena ingiusta di un condannato ai ferri, dalla condotta dell’agente di finanza che perquisisce donne senza uniformarsi alla legge o dell’impiegato daziario che pretende più del dovuto. (13) Per un’introduzione allo studio del Programma, v. PADOVANI, Il legislatore alla scuola della ragione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, 706 e ss.; sul pensiero di Francesco Carrara v. DELOGU, ‘‘Vivo e morto’’ nell’opera di Francesco Carrara, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Atti del convegno internazionale, Milano, 1991, 59 e ss.; sulla dottrina del reato del Maestro lucchese v. per tutti PADOVANI, Francesco Carrara e la teoria del reato, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, cit., 253 e ss. (14) Il riferimento è a CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale (Esposizione dei delitti in specie), quinta ediz., V, Prato, 1883, §§ 2511 e ss., 65 e ss. (15) Sull’atteggiarsi della nozione di pubblica amministrazione nel secolo XIX v. per tutti TAGLIARINI, Il concetto di pubblica amministrazione, cit., 42 e ss.
— 1228 — chese in un significato lato, distinto dal profilo relativo alle specifiche prevaricazioni del pubblico ufficiale nei confronti dei cittadini. Nell’accezione generica, la nozione di abuso di autorità viene infatti utilizzata nell’ambito della radicale contrapposizione tra principio di legalità e principio di autorità (sostenuto dai teorici della difesa sociale) per sottolineare la patologia del sistema punitivo (16). Conformemente alla concezione deontologica del reato che sottende la dottrina carrariana, il primo abuso di potere in senso lato è quello commesso dal legislatore, il quale, nel porre divieti di natura criminale, è, infatti, tenuto ad adeguarsi ai dettami del diritto razionale, altrimenti pone in essere un ‘‘abuso di potere e la sua legge è ingiusta’’ (17). Se reato, pena e giudizio sono i ‘‘tre grandi fatti’’ costituenti l’obbiettivo della scienza penale, la missione di quest’ultima è appunto quella ‘‘di frenare le aberrazioni dell’autorità sociale nel divieto, nella repressione e nel giudizio, onde questa si mantenga nelle vie di giustizia e non degeneri in tirannia’’; cosicché ‘‘la scienza criminale ha per sua missione di moderare gli abusi dell’autorità nell’esercizio di quei tre grandi fatti’’ (18). Inteso in senso stretto, come reato del pubblico ufficiale, l’abuso di autorità è analizzato nella parte speciale del Programma, in riferimento alle garanzie di legalità in materia di libertà personale del cittadino, contro gli eccessi nella discrezionalità degli organi titolari dei poteri coercitivi (19). Il delitto di abuso di autorità assume, quindi, il significato di garanzia contro i poteri temuti, ovvero di difesa dei cittadini dalle aggres(16) Per tale profilo v. CARRARA, Difesa sociale e tutela giuridica. Empirismo e ragione, Lucca, 1872, 50 e s.; sul punto v. GREVI, Francesco Carrara e l’‘‘immoralità’’ del carcere preventivo, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, cit., 594. (17) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, decima ediz., I, Firenze, 1907, 62; sulla concezione deontologica del reato che sottende il Programma v. PADOVANI, Il legislatore alla scuola della ragione, cit., 712; ID., Francesco Carrara e la teoria del reato, cit., 262 e ss. (18) CARRARA, Programma, Parte generale, cit., I, 8; sul punto v. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, 193 e 224, nt. 1; contro i teorici della difesa sociale come fondamento e regolo del giure punitivo, Carrara ribadisce la propria diffidenza per l’attribuzione di eccessivi poteri discrezionali agli organi legittimati ad adottare provvedimenti in grado d’incidere sulla libertà personale dei cittadini, ed in particolare dei pubblici ufficiali che per uno zelo convertito in libidine corrono a carcerare ad ogni lieve sospetto (v. CARRARA, Difesa sociale e tutela giuridica, cit., 52; sul punto v. GREVI, Francesco Carrara e l’‘‘immoralità’’ del carcere preventivo, cit., 594). (19) Contro tali distorsioni Carrara invoca il riferimento legalistico a ‘‘formule dirette e proibitive’’ come quelle ‘‘che si adoperano comunemente verso tutti coloro che sono sudditi della legge’’, deplorando il permissivismo dei sistemi ispirati al principio di autorità, che, ‘‘con un metodo specialissimo ed artificiosamente studiato’’, affermano ‘‘potrà far questo o potrà fare quello’’. Il che conduce all’‘‘assoluta mancanza di divieto e di sanzione nella legge’’, e prepara larghissimo campo di scuse agli eventuali abusi di autorità’’ (CARRARA, Difesa sociale, cit., 50 e s.; sul punto v. GREVI, Francesco Carrara e l’‘‘immoralità’’ del carcere preventivo, cit., 595).
— 1229 — sioni alla libertà fisica e morale poste in essere dai pubblici funzionari (20); anche se la nozione di abuso di autorità proposta ricomprende anche gli atti di favoritismo non dettati da spirito di venalità. In accordo con la linea metodologica del Programma, Carrara prescinde dalle impostazioni adottate sul piano del diritto positivo (espressione dell’‘‘opinione di un giureconsulto’’) ed esamina il tema dell’abuso di autorità ‘‘in faccia ai principi scientifici senza nessun rispetto alle particolari disposizioni di uno o di altro codice il quale può aver modificato con la sua locuzione le regole teoriche’’ (21). Se la verità è inscritta nel codice immutabile della ragione, l’analisi scientifica deve tendere all’individuazione dell’archetipo razionale dell’abuso di autorità. A prima vista il quadro delineato nella parte speciale del Programma in materia di abuso di autorità appare limpido e rassicurante. Tale figura criminosa assume natura generica e sussidiaria, essendo la sua sfera d’operatività limitata, da un lato, dall’illecito disciplinare, dall’altro dal delitto di abuso nominato(naturale o sociale): essa identifica ‘‘i pochi casi nei quali l’abuso di autorità sembri meritare una repressione penale quantunque non abbia il substrato di un altro delitto e che perciò debba configurare un reato di per sé stante’’ (22). Ad una più attenta analisi si riscontrano implicazioni che riflettono già alcuni dei nodi problematici che caratterizzeranno la tormentata evoluzione del reato previsto all’art. 323 c.p. (prima fra tutte la difficoltà di determinare quando possa ritenersi compiuto un abuso meritevole di sanzione penale, ovvero la questione della riconoscibilità del disvalore sostanziale della distorsione del potere). Carrara si rende perfettamente conto della duttilità e del carattere proteiforme dell’abuso innominato di autorità e della facilità con cui esso si presta ad essere esteso, sino a ricomprendere le mere irregolarità. Tant’è vero che esorta a distinguere tale figura criminosa dal mero piano disciplinare, e ‘‘a descrivere e convenientemente punire’’ i pochi casi meritevoli di sanzione penale, ‘‘limitando in sostanza il concetto d’abuso di autorità come espressione di un titolo speciale di malefizio alla sua configurazione di reato principale e di per sé stante’’ (23). (20) La maggior parte delle ipotesi d’abuso di autorità di questo tipo prese in considerazione da Carrara s’inquadrerebbero oggi nei delitti contro la libertà fisica commessi dai poteri temuti (artt. 606-609 c.p.). Come rilevato da Mantovani, la categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la libertà fisica prevista dagli artt. 606-609 c.p. ‘‘emerge nella storia del nostro diritto penale (benché per taluna di dette figure possano rinvenirsi precedenti storici più remoti) coi codici toscano (artt. 184, 185, 360) del 1853 e sardo (artt. 198, 199, 238, 239) e, poi, col codice del 1889 (artt. 147, 149, 150, 152)’’ (v. MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro la persona, Padova, 1995, 366). (21) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2525, 91. (22) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2542, 112 e s. (23) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2542, 113. La dichiarata margi-
— 1230 — Pur apparendo una figura sussidiaria, l’abuso di autorità rivela già illimitate potenzialità espansive: l’equiparazione dell’abuso di danno a quello di vantaggio e l’accentuata soggettivizzazione della struttura, pongono i presupposti per una più estesa ed ampia applicazione della figura criminosa. Non solo: l’ispirazione giusnaturalistica dell’elaborazione si presta facilmente a manipolazioni e forzature interpretative in chiave formalistica ed autoritaria. A partire dalla peculiare ricostruzione dell’oggettività giuridica del reato in esame proposta dal Maestro. 2. Dalla classificazione del reato in esame emerge la concezione liberale ed individualistica che sottende l’impianto del Programma: l’abuso di autorità è inquadrato come ‘‘delitto sociale’’, ‘‘contro la pubblica giustizia’’, commesso da ‘‘persone pubbliche contro persone private’’. L’intento di delimitare il ricorso allo strumento penale e di non cedere all’‘‘istinto della morale’’ già manifestato nell’ambito della trattazione dei delitti naturali, deve fare i conti, nella sezione dei delitti sociali, con la necessità di evitare pericolose forme di permissivismo a favore dei pubblici ufficiali ed a danno dei cittadini (24). Nella seconda sezione, riservata appunto ai delitti sociali, assume priorità la considerazione dei diritti del consociato nella sua veste di cittadino dello stato, di cives (e solo indirettamente di singolo, di privato): ‘‘in questa seconda sezione subiremo sovente una lotta del tutto opposta alla Prima’’ — relativa appunto ai delitti sociali — ‘‘perché qui dovremo invece far forza a noi stessi al fine di essere severi, ed evitare che il senso morale perturbi la coscienza di cittadino e soverchi la contemplazione dei bisogni politici’’ (25). In quanto delitto sociale, anche l’abuso di autorità risale nella sua origine alla ‘‘legge di consociazione’’; l’essenza di tale reato è rappresentata infatti dall’aggressione alla ‘‘consociazione civile’’, che costituisce — a differenza che nei delitti naturali — il danno immediato (26). Il danno cagionato dall’abuso è universale, pubblico, in quanto appartiene a tutti i membri della congregazione sociale (‘‘il delitto sociale può offendere immediatamente un individuo ma offende sempre direttamente tutti i consociati nei diritti che hanno come cittadini dello Stato a vedere rispettata la giustizia, la sicurezza’’) (27). Essendo un reato sociale, l’abuso di autorità nalità della figura fa da contrappunto all’amara e realistica costatazione dell’impossibilità che molti dei modi d’abuso di autorità incontrino la meritata punizione. (24) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2542, 112, ove si critica il codice toscano per ‘‘l’aperto favore verso gli impiegati che è uno dei vizi più gravi (figlio dei tempi) di quel codice d’altronde bellissimo’’. (25) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2466, 7. (26) Cfr. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2467, 7 e § 2469, 10. Sulla nozione di danno immediato nella dottrina carrariana v. DELOGU, ‘‘Vivo e morto’’, cit., 116. (27) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, I, § 110 e 111.
— 1231 — può, quindi, esaurire la propria criminosità nella mera offesa del diritto universale, senza che nessun individuo sia stato minimamente leso nei propri diritti naturali. Si tratta di una costruzione teorica di stampo liberale: è il tentativo di caratterizzare la materia dei delitti sociali in chiave individualistica, conformemente all’ispirazione giusnaturalistica che sottende la teoria carrariana del reato. Ricalcando l’accurata opera classificatoria del Carmignani (28), Carrara inquadra l’abuso di autorità (ed altri delitti che oggi sarebbero inseriti nella categoria dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), nella classe dei delitti contro la pubblica giustizia (29). Nell’accezione assunta nel Programma, la pubblica giustizia costituisce, infatti, la prima ed unica ragione d’essere della società civile, della ‘‘consociazione umana’’ (‘‘la giustizia pubblica è costituita a difesa di tutti, cosicché offende tutti chi offende quella’’) (30). Tale nozione identifica l’ordinamento sociale ed abbraccia il complesso di tutte le funzioni statuali dirette a conservare la sicurezza sociale ed a garantire la tutela giuridica dei consociati, comprendendo sia gli atti di semplice amministrazione, sia quelli di giurisdizione (31). Contro ogni personificazione e contro ogni visione astratta e formalistica dell’ordinamento, Carrara ribadisce che il fondamento dell’attribuzione di autorità a determinati soggetti per la difesa dei singoli è costituito dalla tutela dei diritti individuali, ovvero dalla ‘‘suprema legge giuridica’’ (‘‘l’oggetto pertanto dei reati che si dicono contro la pubblica giustizia è sempre il diritto individuale; se non che invece di contemplarlo nell’individuo isolato egli si contempla nella moltitudine congregata’’) (32). A coloro i quali vengono conferiti ‘‘più larghi poteri’’, si prescrive ‘‘uno speciale rito nell’esercizio del proprio ministero, la cui violazione può dar luogo a varie figure criminose’’ (33). L’istituzione della pubblica giustizia può infatti essere aggredita dagli stessi individui investiti di un pubblico ufficio (detti magistrati, ovvero i giudici e gli impiegati dell’ordine politico-amministrativo) o di una pubblica funzione, che abusano di (28) V. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, Milano, 1865 (trad. ital. di C. DINGLI sulla quinta edizione di Pisa), 293 e ss.; ID., Dichiarazione dell’autore de’ progetti di codice penale e di codice di procedura penale, in Scritti inediti, V, Lucca, 1852, 97 e ss. (29) Cfr. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2471, 12; §§ 2476 e ss., 22 e ss. (30) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2478, 29. (31) Sull’uso del concetto di pubblica giustizia prima dell’entrata in vigore del codice Zanardelli, v. STORTONI, L’abuso di potere, cit., 23; (v. anche 293 sull’originaria commistione fra gli attuali delitti contro l’amministrazione della giustizia e quelli contro la pubblica amministrazione). (32) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2478, 29. (33) Cfr. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2477, 25.
— 1232 — quella ‘‘per servire a pravi fini e violare il diritto, mentre la medesima era conferita loro perché servissero e sostenessero il diritto’’ (34). Gli abusi dell’ufficio o della funzione posti in essere da una persona rivestita di una qualsiasi autorità pubblica (e diretti ‘‘al fine di avvantaggiare se stessa o soddisfare una sua passione con danno dei singoli’’) vengono inquadrati nella categoria dei delitti delle persone pubbliche contro le persone private. Tale complesso di reati comprende, da un lato, l’abuso di pubblici uffici (serie formata dall’abuso di autorità, dalla corruzione e dalla concussione); dall’altro, l’abuso di pubbliche funzioni (serie comprendente la calunnia, la prevaricazione, la falsa testimonianza, la simulazione di delitto, la subornazione) (35). Con la consueta efficacia, Carrara delinea l’essenza di tale categoria di reati: se l’esercizio dell’autorità pubblica deve essere diretto alla tutela giuridica dei singoli, che è l’ultimo fine sociale, ‘‘va a ritroso di cotesto fine ogni atto umano che si prevalga di tali ordinamenti come mezzo di violare il diritto. Evvi sempre in ciò una tradita fiducia: evvi l’anomalia paurosa che la forza costituita a difesa si rivolga ad offesa’’ (36). L’inquadramento proposto da Carrara riflette la difficoltà insita nel voler mantenere inalterata, nella sezione dei delitti sociali, la visione liberale del delitto come ente giuridico consistente nella violazione di un diritto soggettivo. Mentre il fondamento del dover essere del sistema penale (ovvero l’aggancio al diritto soggettivo come oggetto giuridico del reato deontologicamente inteso che delimita, in funzione selettiva, il ricorso allo strumento penale, a conferma della pretesa corrispondenza della legge positiva al diritto naturale) trova la sua più immediata e naturale espressione nell’ambito dei delitti naturali, nella sezione dei delitti sociali esso invece si stempera, assumendo contorni più elastici. In questo ambito, tutelandosi un diritto ‘‘mediato’’, indiretto, privo d’individualità, la barriera costruita sul diritto soggettivo viene posta in crisi: le nuove istanze e finalità dello Stato sociale estendono il raggio della tutela penale dall’amministrazione della giustizia e dalla sicurezza pubblica all’organizzazione ed alle funzioni. Alla transizione dallo Stato ‘‘guardiano’’ di stampo liberale allo Stato sociale e burocratico, corrisponde ‘‘il passaggio dal diritto soggettivo come oggetto esclusivo della tutela penale al bene giuridico, garanzia di stampo liberale, ma più suscettibile di dilatare l’ambito della sfera di punibilità’’ (37). La peculiare ricostruzione dell’oggettività giuridica dei delitti sociali costituisce l’ultimo baluardo della concezione liberale e giusnaturalistica: (34) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2482, 32. (35) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2509, 64. (36) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2509, 63. (37) BRICOLA, Introduzione a Francesco Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Del delitto, della pena, Bologna, 1993, 17.
— 1233 — il primato della tutela giuridica dei consociati si esprime nella visione del delitto sociale come lesione del ‘‘diritto universale’’ e della fiducia riposta nei pubblici funzionari. Ma dall’incriminazione della ‘‘tradita fiducia’’ alla tutela della fedeltà e probità del pubblico ufficiale il passo è breve: il processo formalistico di personificazione dello Stato in un’entità a sé stante ed astratta, maturato sotto la vigenza del codice Zanardelli, farà passare in secondo piano il significato garantistico della tutela dei diritti dei cittadini, agevolando poi, coll’avvento del codice Rocco, l’emersione del significato di sanzione della disobbedienza del funzionario. 3. Passando ad esaminare i lineamenti strutturali dell’abuso innominato di autorità (distinto, come già detto, dai due abusi nominati, ovvero la concussione e la corruzione), si deve precisare che la formula abuso di autorità è intesa da Carrara in senso specifico, come espressione particolare ‘‘di quelli abusi che, oltre ad essere mere trasgressioni disciplinari, o violazioni dei semplici doveri morali di ufficio, recano eziandio tale offesa al diritto da meritare una repressione penale e costituire perciò veri e propri reati; ma nel tempo stesso, non offrendo in loro una particolare odiosità meritevole di un apposito nome, rimangono sotto la generica appellazione’’ (38). Le ragioni dell’autonomia di tale figura di reato discendono dalla considerazione della peculiare finalità dell’agente (‘‘il criterio di questa particolarizzazione fu desunto fino nei più antichi tempi dalla diversità della passione movente’’) (39), e cioè la non venalità, che è il connotato distintivo della struttura dell’abuso innominato di autorità rispetto alle due forme nominate (corruzione e concussione): ‘‘si distinse l’animo di proprio lucro dallo sfogo di qualunque altra passione; e ravvisando a buona ragione come più riprovevoli e più pericolosi gli abusi di autorità che si commettessero per turpe veduta di guadagno e come meno gravi gli abusi commessi per causa di odio o favore, superbia, ferità d’animo, od altro affetto diverso dall’avidità; nacquero nel primo caso i titoli di corruzione e di concussione, rimanendo tutti gli altri sotto la generica designazione di abuso di autorità innominato quando questa era il solo elemento che dava al fatto l’essenza criminosa’’ (40). È stato in proposito osservato (38) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2511, 65 e s. (39) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2511, 66. (40) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2511, 66. Trattando del delitto di corruzione, l’autore illustra le ragioni della designazione con appositi nomi e della repressione maggiore dei reati dei pubblici ufficiali commessi per veduta di lucro (ovvero la maggiore gravità della natura patrimoniale della causa sceleris): ‘‘il danno politico cresce quando il pubblico ufficiale abusi dei suoi poteri per una turpe veduta di avidità. La ragione di ciò sta nella maggiore diffondibilità del danno mediato: perché in faccia ad un magistrato che ecceda per odio o vendetta contro un suo nemico, avranno poca ragione di temere tutti quei
— 1234 — che mentre nella concezione di Carrara l’abuso di autorità viene contraddistinto dal carattere non patrimoniale della causa sceleris, ‘‘il legislatore attuale si muove in una direzione diametralmente opposta, subordinando la configurazione del reato di abuso d’ufficio alla realizzazione di un’utilità economica’’ (41). La figura carrariana di abuso innominato e non venale comprende così sia le prevaricazioni dei pubblici ufficiali posti in essere a danno dei cittadini (abuso innominato ‘‘a danno’’), sia le distorsioni del potere rivolte a vantaggio di terzi (abuso innominato ‘‘a vantaggio’’). È rimasto celebre per la sua pregnanza il concetto costante dell’abuso innominato di autorità proposto dal Maestro (se pur riferito al solo abuso ‘‘a danno’’), in cui si sottolinea che la criminosità del reato in esame deve discendere unicamente dall’abuso dei poteri connessi al pubblico ufficio (42): ‘‘eliminate la venalità e supponete l’abuso doloso di un pubblico potere in danno del diritto altrui, senza che questa lesione del diritto costituisca di per sé stessa un reato, ed avrete il concetto costante dell’abuso di autorità innominato’’ (43). Sul piano giuridico, l’abuso di autorità può configurarsi o come una circostanza aggravante, o come un titolo speciale ed autonomo di reato. Nel primo caso, l’abuso è una una condizione o qualità che aggrava un reato comune, ovvero l’‘‘accessorio’’ di un altro reato che potrebbe essere commesso anche da un privato (assumendo così natura di aggravante, tenuto conto della maggiore odiosità derivante dalla qualità della persona). cittadini che sanno di non avergli dato cagioni di antipatia o che sperano di non eccitarne la malevoglienza: ma in faccia ad un magistrato che venda i suoi favori a chiunque lo paga non avvi cittadino che possa essere sicuro di ottenere giustizia, e che non debba temere un sopruso quando egli venga a contesa con un avversario facoltoso e di non delicata coscienza. Ecco perché dei reati dei pubblici ufficiali che si commettono per veduta di lucro si fecero in tutti i tempi specialità criminose distinte, si designarono con appositi nomi, e si usò maggiore energia di repressione contro le medesime’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2543, 115). Il riferimento alla turpitudine della veduta di guadagno è ricorrente nell’analisi di Carrara, che ricorda che ‘‘gli egiziani per designare nei geroglifici un magistrato rappresentavano un busto senza braccia a mostrare che i giudici non dovevano avere mani, cioè non ricevere doni’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2511, 66, nt. 1). (41) V. DELLA MONICA, L’ingiusto vantaggio patrimoniale, in AA.VV., La modifica dell’abuso d’ufficio, cit., 107, nt. 37. (42) Carrara ritiene che l’abuso di autorità presenti un requisito positivo (‘‘si deve trattare di un abuso di autorità grave abbastanza da meritare di essere represso come delitto e non con soli provvedimenti disciplinari’’) e un requisito negativo (‘‘che ciò non siasi fatto dal pubblico ufficiale col fine di procacciare a sé medesimo il godimento di un bene sensibile e che si tratti di un vero e proprio delitto nella sua specie, ma la criminosità risulti unicamente dall’aver abusato dei poteri conferiti al pubblico ufficio’’ (CARRARA. Programma, Parte speciale, V, cit., § 2512, 66 e s.). (43) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2512, 67; sul punto v. PADOVANI, L’abuso d’ufficio e il sindacato del giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, 78 e s.
— 1235 — L’abuso non conferisce al fatto né il nome (titolo sui generis), né l’essenza criminosa: si tratta di un reato comune, aggravato dalla qualità di pubblico ufficiale dell’agente. Nella seconda ipotesi considerata, l’abuso è un titolo autonomo di reato, un ‘‘ente giuridico isolato’’, ‘‘di per sé stante’’: tutta l’‘‘essenza della criminosità’’ consiste nell’abuso dei poteri, cosicché se lo stesso fatto venisse posto in essere da un privato esso non assumerebbe rilevanza penale. Nell’ambito di questa seconda ipotesi, Carrara distingue tra due casi: se l’abuso dà nome speciale (titolo sui generis), ma non l’essenza criminosa, si ha un abuso nominato (ad es., la concussione). Se invece l’abuso dà ‘‘essenza criminosa’’ e ‘‘nome speciale’’ al fatto, si ha l’abuso innominato di autorità (‘‘vi sono però dei casi, quantunque più rari, nei quali il diritto violato mediante l’abuso non è tale che la sua lesione bastasse senza la concomitanza di quello a costituire un delitto; ed allora bisognerà ben dire che l’abuso di autorità dà l’essenza al malefizio e figura come delitto principale di per sé stante’’) (44). Trattando in seguito della questione della ‘‘complicità’’ nel reato in esame, Carrara chiarisce che ‘‘le qualità personali dell’autore principale (...) danno al reato non solo il nome ma anche l’essenza criminosa. Il fatto non sarebbe altrimenti reato: è reato unicamente perché fu posto in essere da un pubblico ufficiale con abuso di autorità. È l’ipotesi pura dell’abuso di autorità innominato. È un carceriere che ha per zelo di uffizio sedotto un innocente detenuto a confessarsi colpevole’’ (45). (44) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2516, 75, il quale riporta i seguenti esempi: ‘‘l’agente della pubblica forza che incaricato dell’arresto di un debitore civile gli porga avviso acciò si salvi non può addebitarsi di favoreggiamento, perché colui non era un delinquente. Non potendo dunque usare in modo da qualificare il delitto principale mercé l’abuso di autorità dove delitto principale non esiste, e non volendo lasciare impunito quel fatto, bisogna ben dire che qui si ha un abuso di autorità per favore che costituisce un titolo di per se stante, perché qualunque altra persona con l’avvertire quel debitore ed agevolare la sua fuga, non avrebbe commesso reato. Il carceriere che carnalmente s’impacci con la detenuta innata e pienamente consenziente non commette che una fornicazione, poiché è un assurdo trovarvi la violenza presunta. L’assurdo di presumere la violenza a dispetto del più esplicito consenso della detenuta che era pienamente capace di consentire è palpabile. Suppongasi la meretrice detenuta la quale adescò il carceriere; suppongasi l’amasia del carceriere con la quale già aveva la pratica prima che cadesse in prigione; e poi dite se non è assurda la situazione del giudice che in faccia ad una femmina, la quale grida e ripete, io volli e voglio, si ostina a gridare, io presumo che tu non volessi. Si puniscano i fatti rei ma non si definiscano contro la patente verità delle cose. Non vi è dunque delitto principale a cui possa accedere come circostanza qualificatrice l’abuso dei poteri. E se vuole punirsi quel fatto non per ragione di offesa ad un diritto particolare (che tale offesa non vi è) ma per la ragione politica del pericolo che ciò faccia strada all’evasione della detenuta, bisogna ravvisarvi una mancanza in uffizio, e trovarne l’elemento criminoso unicamente nell’offesa al diritto universale. Si possono ripetere molti consimili, esempi i quali praticamente mostrano ciò che astrattamente si concepisce benissimo; vale a dire che il titolo d’abuso di autorità può stare come delitto di per sé stante, e non è sempre l’accessorio di un altro malefizio’’. (45) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2530, 98.
— 1236 — La figura criminosa in esame si fonda sulla violazione di un diritto la cui lesione, senza la presenza dell’abuso, non assumerebbe rilevanza penale e che risulta così grave da non poter essere risolta sul piano disciplinare (‘‘il carceriere che per odio contro un recluso lo tenga a più scarso cibo o peggiore commette certamente un delitto; mentre qualunque altra persona che per proprio incarico debba preparare il cibo ad alcuno se glielo prepara scarso e cattivo per una stizza o per vendetta di ricevuta offesa non potrà già tradursi in faccia al Tribunale correzionale. Guai alle fantesche se ciò si potesse!’’) (46). Carrara sottolinea che il fatto deve essere criminoso per il solo abuso dell’autorità, trattandosi di un delitto fine a sé stesso. Da ciò consegue la difficoltà di tracciare a priori la soglia di rilevanza minima dell’abuso punibile. Il difetto di meccanismi selettivi e la dichiarata diversità dall’illecito disciplinare sollevano un delicato interrogativo: quand’è che il tradimento della fiducia dei consociati assume una tale gravità da legittimare il ricorso alla repressione penale? L’idea dell’abuso in sé stesso pone, di fatto, i presupposti per il successivo sviluppo della fattispecie di abuso innominato in atti d’ufficio, allorquando quest’ultima, a partire dal codice Rocco, finirà per tutelare l’imparzialità della pubblica amministrazione come parametro comportamentale, intesa come valore assoluto. Configurandosi come fattispecie meramente sanzionatoria della violazione di un dovere di fedeltà, l’abuso innominato in atti d’ufficio perderà ogni reale dimensione lesiva, incriminando formalisticamente condotte lesive del prestigio della pubblica amministazione (47). Stretto tra il delitto naturale (o sociale nominato) e l’illecito disciplinare, l’abuso innominato di autorità rivela già il suo carattere distintivo, ovvero il profilo sfuggente della propria dimensione applicativa. Carrara sottolinea più volte l’indefinibilità e la conseguente impossibilità di una rigorosa delimitazione concettuale di tale delitto: ‘‘non è possibile dare di questo reato una circoscrizione meglio specializzata sotto il punto di vista della sua materialità o dei suoi effetti. Sotto questi due punti di vista il presente malefizio è indefinito e indefinibile’’ (48). ‘‘Se ne possono dare delle esemplificazioni’’: si va dall’arresto arbitrario di un cittadino ordinato dal giudice alle ‘‘sevizie usate contro l’arrestato dagli agenti della pubblica forza’’, dall’‘‘esasperata detenzione’’ eseguita da un carceriere alle ‘‘arti’’ usate da un giudice per indurre un innocente inquisito a dichia(46) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2516, 75. (47) L’art. 323 del codice Rocco venne formulato in modo tale da ricomprendere situazioni non aventi nessun rapporto né effettivo né potenziale con la lesione dei diritti dei cittadini: reprimendosi sia il danno sia il vantaggio, la ratio dell’incriminazione, non era più la lesione o la minaccia degli interessi dei singoli cioè il danno, bensì l’abuso dei poteri. (48) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2513, 68.
— 1237 — rarsi colpevole o per indurre un teste a deporre ‘‘nel modo che a lui piace’’ ovvero a qualunque ‘‘suggesto adoperato dai giudici nei loro interrogatori’’, ‘‘ma queste — sottolinea il Maestro — non sono che esemplificazioni e non si può apporre un limite alle medesime’’ (49). L’indefinibilità della condotta si riflette, peraltro, anche sul piano della quantità del reato: anche le circostanze del reato in esame sono infatti caratterizzate da un’inevitabile indeterminatezza (non a caso ricorrente anche nella vigente formulazione dell’art. 323 c.p.) (50). 4. L’abuso di autorità è un delitto generico e innominato perché è indefinibile la condotta di abuso: alla luce delle penetranti osservazioni di Carrara, non può dunque che essere accolta positivamente la definitiva estromissione del termine abuso dalla formulazione della fattispecie cui all’art. 323 c.p., posta in essere in sede di riforma. Carrara aveva ben chiara l’ambivalenza del significato di tale nozione e la sua lezione mantiene una limpidezza ed un’attualità sorprendenti. A fronte della diffusa e ricorrente tendenza ad assumere in chiave di abuso di potere ogni fattispecie criminosa, generalizzando ed estendendo il significato di tale espressione, il Maestro ci ricorda che l’abuso è in sé, sul piano ontologico, una semplice apparenza di nozione, una forma vuota di ogni contenuto (51). Come osservato da Stortoni, l’abuso, considerato in sé e per sé, senza alcuna possibilità di determinarsi normativamente con un coefficiente di certezza, si riduce ad un concetto meramente naturalistico quale quello di sviamento della destinazione naturale della cosa, che non è di alcuna utilità per il giurista, ove si osservi che la norma non è volta ad assicurare la destinazione naturale degli oggetti, ma la finalizzazione che il diritto stesso stabilisce (52). La distinzione tra ‘‘abuso ontologico’’ e ‘‘abuso giuridico’’ mantiene la propria validità non solo da un punto di vista strettamente linguistico: essa rispecchia la consapevolezza che il primo non rileva ai fini del di(49) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2513, 68; sulle ‘‘arti subdole del giudice’’ v. 69, nt. 2; sulle ‘‘male arti suggestive’’ v. 70, nt. 3. (50) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2541, 110 e s.: ‘‘la considerazione costante e generale del maggiore pregiudizio recato, la quale non può definirsi e circoscriversi per via di determinate figure, ma bisogna indicarla con la generica formula di effetti più gravi. Anche questo è intuitivo; e spieghisi una volta per sempre, nei delitti naturali è facile prevedere e designare l’effetto più grave, perché si conosce a priori lo speciale diritto aggredito; e così può dirsi che l’effetto più grave del ferimento starà nella durata della malattia, del furto nella quantità del tolto e via discorrendo. Ma l’abuso di autorità potendo eventualmente aggredire tutti quanti gli umani diritti è impossibile dettare una completa enumerazione degli effetti più gravi, perché ciò porterebbe ad una nuova enumerazione di tutti i reati’’. (51) Cfr. STORTONI, L’abuso di potere, cit, 6 e s. (52) V. STORTONI, L’abuso di potere, cit., 7.
— 1238 — ritto (53). In sostanza, il Maestro coglie l’insopprimibile carica normativa insita nel concetto d’abuso e l’impossibilità di determinare tale concetto prescindendo dall’oggetto che ne rappresenta il termine di riferimento necessario: il potere, l’autorità (54). Inteso in senso giuridico l’abuso non può essere pensato senza la violazione, e la negazione di diritti altrui; ciò che conta non è l’osservanza della destinazione naturale, bensì l’esercizio secondo la naturale destinazione che si concretizza nella lesione dei diritti della persona: ‘‘la parola abuso ha in sé stessa due significati diversi e grandemente distinti; l’uno dei quali può dirsi il senso ontologico, l’altro il senso giuridico. In senso ontologico si abusa di una cosa tutte le volte che si adopera ad un servizio diverso dalla sua naturale destinazione. In senso giuridico si abusa di una cosa anche adoprandola secondo la sua destinazione se ciò si faccia in un modo o per fini illeciti’’ (55). Applicando tale distinzione al reato in esame (‘‘l’abuso di autorità va appunto soggetto a questa doppia significazione’’), Carrara ci ricorda che ‘‘può dell’autorità abusarsi in senso ontologico quando si usi di un pubblico potere oltre i limiti che l’ufficio concede; e non ostante può non commettersi delitto, vale a dire non esservi abuso in senso giuridico, per la non criminosità dei modi e del fine, e il fatto restare nei limiti tutto al più di una mera mancanza disciplinare. E per l’opposito può non esservi abuso in senso ontologico perché l’autorità conceduta si eserciti entro i limiti della correlativa potenza; ed esservi ciò nonostante abuso di autorità in senso giuridico per la pravità dei modi o del fine’’ (56). L’abuso giuridico è commesso, ad es., dal giudice che ordina un arresto senza giusta causa o per esercitare una vendetta (57): Carrara è consapevole della connotazione soggettivistica del reato in esame (‘‘laonde è chiaro che l’abuso di autorità non sempre tragga la sua criminosità dalle condizioni materiali, ma spesso ancora dalle sole condizioni intenzionali: cosicché un atto, che potrebbe essere legittimo o almeno scusabile quando fosse eseguito per una ragionata opinione di legittimità, diventa criminoso quando lo si faccia per odio o favore, che è quanto dire con la coscienza di non doverlo né poterlo fare’’) (58). Carrara pone l’accento sul fine che muove il pubblico ufficiale ad agire, anticipando, per certi versi, la successiva teoria binaria dell’‘‘arbitrarietà oggettiva’’ (contrasto tra l’atto e le disposizioni di legge che lo re(53) V. STORTONI, L’abuso di potere, cit., 7. (54) STORTONI, L’abuso di potere, cit., 7. (55) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2514, 71 e s. (56) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2515, 72 e s. (57) Carrara sottolinea la necessità dell’intrinseca ingiustizia del fatto: ‘‘l’abuso di autorità innominato non può esistere se il fatto non è ingiusto nella sostanza’’, aggiungendo che i ‘‘modi’’ debbono trascendere ‘‘nella violazione di uno speciale diritto della persona’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2515, nt. 1). (58) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2515, 73.
— 1239 — golano) e ‘‘arbitrarietà soggettiva’’ (atto posto in essere entro la cerchia di un potere discrezionale, senza violazione di legge e dei limiti di competenza: sviamento di potere con la criminosa intenzione di recare danno a un privato) che la giurisprudenza avrebbe in seguito utilizzato per distinguere l’illecito penale da quello amministrativo. La curvatura soggettiva della nozione carrariana prelude inoltre alle innumerevoli distorsioni ed incertezze giurisprudenziali fondate proprio sull’eccessiva psicologizzazione della fattispecie d’abuso in atti d’ufficio (si pensi, ad es., alla ricorrente tendenza a distinguere quest’ultima fattispecie da quella d’interesse privato in atti d’ufficio sulla base del diverso elemento intenzionale). Il ruolo assorbente attribuito al dolo specifico dell’agente pone i presupposti per l’arretramento della linea di consumazione dal momento lesivo dei diritti dei cittadini al momento della realizzazione dell’abuso, facendo sì che questo si realizzi a prescindere da un’effettiva lesione dei diritti dei cittadini: ne è la riprova l’asserita impossibilità di concepire il tentativo d’abuso di autorità (c.d. ‘‘sparizione’’ del conato ‘‘per eccesso’’) (59). Come osservato da Bricola (se pur in riferimento alla figura, storicamente successiva, dell’abuso innominato in atti d’ufficio), l’arretramento della linea di consumazione del reato finisce per fare ‘‘perdere alla fattispecie un prezioso elemento per la sua determinazione’’, rivelandosi (paradossalmente, se si considera l’ispirazione garantistica di Carrara) uno strumento normativo d’ispirazione autoritaria, espressione di scarsa sensibilità per i bisogni di tutela del cittadino nei confronti dei pubblici poteri (60). Ponendo il baricentro del reato intorno al tradimento da parte del pubblico ufficiale della fiducia in lui riposta dalla collettività (e cioè sulla realizzazione di un fatto non sempre munito, in sé e per sé, dal punto di vista oggettivo, di un disvalore facilmente riconoscibile), si finisce per sva(59) Il problema del tentativo è esaminato alla luce di una duplice offesa: ‘‘si aggredì col mezzo un diritto universale la cui lesione costituisce un delitto per sé stante: e col fine si aggredì un altro diritto (o universale o particolare) la cui lesione non costituisce di per sé delitto. Qui tutta la criminosità sta nel mezzo e il reato è unicamente ed esclusivamente sociale. È il caso dell’abuso di autorità innominato (...) Nel fine può esservi un favore od una persecuzione ingiusta contro il privato. Ma non tutti gli atti ingiusti sono delitti e neppure è tale emettere un decreto o una sentenza iniqua. Diviene delittuoso l’atto o il decreto o perché ciò si è fatto con certi modi che in loro stessi costituiscono abuso punibile del potere pubblico o perché si è renduta venale la giustizia. In questi reati puramente sociali corre costante la regola anzidetta della cessazione del conato per causa di eccesso’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2535, 103 e s.); per una disamina della dottrina carrariana in materia di tentativo v. per tutti DEL CORSO, Atti preparatori ed atti esecutivi nel pensiero di Francesco Carrara, in Francesco Carrara nel centenario della morte, cit., 691 e ss. (60) V. BRICOLA, Sulla legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., cit., 2256 e s., il quale si sofferma sui rapporti tra ‘‘direzione lesiva dell’abuso e tassatività della fattispecie legale’’.
— 1240 — lutare in prima battuta il requisito della tipicità, per poi affidare all’indagine sul dolo specifico il compito di selezionare le forme di abuso meritevoli di repressione. Nell’impossibilità di delimitare la fattispecie sul versante obbiettivo, essa rischia così di ricadere su ipotesi di mera rilevanza disciplinare. Nel passaggio dall’abuso innominato di autorità a quello, parimenti innominato, in atti d’ufficio, vengono mantenuti i connotati che tendono a dilatare i contorni della struttura della figura criminosa. La fattispecie introdotta dal codice Rocco ricalca alcune delle caratteristiche strutturali della figura carrariana di abuso di autorità: l’orientazione finalistica, la curvatura soggettiva, nonché l’equiparazione dell’abuso a danno a quello di vantaggio (profili, invece, assenti nella formulazione del codice Zanardelli). Il modello carrariano di abuso di autorità presenta cioè i profili strutturali che saranno utilizzati e radicalizzati dal legislatore del 1930 in chiave opposta rispetto a quella liberale: l’indeterminatezza e la scarsa capacità selettiva della fattispecie, concepite in origine a protezione dei diritti dei cittadini, si convertiranno in strumenti assai utili per il controllo della fedeltà della pubblica amministrazione. I valori che sottendono i profili strutturali dell’abuso di autorità ottocentesco subiscono nel codice Rocco un processo di manipolazione: i presupposti per la progressiva alterazione del significato liberale e garantistico dell’abuso di autorità sono rappresentati dall’idea dell’abuso di autorità come tutela di un bene mediato, di secondo livello, dalla soggettivizzazione della fattispecie mediante il ruolo centrale assegnato al dolo specifico, dall’indeterminatezza della condotta e, soprattutto, dall’equiparazione dell’abuso ‘‘a danno’’ a quello ‘‘a vantaggio’’. Quest’ultima scelta comporta l’ulteriore dilatazione dell’ambito d’applicazione: se nell’abuso di autorità a danno è ancora possibile ancorare le possibilità del ricorso alla sanzione penale alla lesione dei diritti soggettivi del cittadino presa di mira dal pubblico ufficiale prevaricante, nell’abuso ‘‘a favore’’ la dimensione offensiva della condotta prescinde dalla tutela dei diritti dei singoli, sostanziandosi nell’arbitrarietà in sé dell’operato dell’agente. Nell’ambito dell’abuso ‘‘a favore’’ sono spesso contingenti istanze di giustizia sostanziale quelle che determinano la maggiore o minore ampiezza del raggio di selezione delle condotte rilevanti. La giustapposizione tra ‘‘affarismo’’ e ‘‘prevaricazione’’ provoca, altresì, difficoltà nella determinazione dell’oggetto di tutela: vengono infatti accomunati beni come la legalità, i diritti del cittadino, il prestigio della pubblica amministrazione, la fedeltà del funzionario, che sottendono concezioni antitetiche del rapporto cittadino-autorità. Tale rilievo trova conferme sul piano storico: la struttura relativamente determinata dell’abuso di autorità commesso contro l’altrui diritto previsto dal codice Zanardelli lascia il po-
— 1241 — sto nel codice Rocco, come rilevato da Pedrazzi, ad una ‘‘formulazione troppo ampia del dolo specifico che equipara il fine di recare ad altri un danno a quello di procurargli un vantaggio. Si mettono gli abusi commessi per opprimere i cittadini e quelli che mirano a favorirli, sia pure a scapito dell’interesse pubblico. Con il risultato che nell’ambito di una stessa figura di reato vengono a ricadere fatti tra loro lontanissimi, quanto a significato sociale e gravità: da un lato, per esempio, l’abuso gravissimo del giudice che scientemente pronunci una condanna ingiusta; dall’altro lato i piccoli favoritismi, come quelli, frequentemente colpiti dalla giurisprudenza, degli agenti carcerari, che si prestano a trasmettere ai detenuti lettere o pacchetti. Per cui la pena edittale appare volta a volta troppo severa o troppo mite’’ (61). Il divario ideologico ravvisabile tra l’impostazione carrariana e le finalità assegnate nel codice Rocco all’art. 323 c.p. è consistente: dal reato di abuso di autorità posto a tutela del diritto universale, si passa alla tutela delle prerogative della pubblica amministrazione, dalla violazione dei poteri a quella dei doveri (62). Ciò che storicamente viene tutelato è il diritto dello Stato, non quello dei cittadini: è lo Stato che si salvaguarda verso i funzionari e non il cittadino nei confronti dello Stato (63). (61) PEDRAZZI, Problemi e prospettive del diritto penale dell’impresa pubblica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 389; ‘‘a ben vedere — prosegue l’autore citato — solo nella prospettiva di una tutela dei soggetti privati ha senso circoscrivere l’incriminazione all’abuso dei poteri pubblicistici: perché solo nei confronti di questi poteri il privato versa in uno stato di soggezione poco propizio alla resistenza e alla difesa. Se invece ci si preoccupi d’impedire che la pubblica amministrazione favorisca i privati a scapito degli interessi pubblici affidati alle sue cure, perché distinguere a seconda che l’azione ammmistativa si esplichi sul piano del diritto pubblico oppure del diritto privato? L’infedeltà del funzionario che antepone l’interesse privato è in entrambi i casi la medesima’’ (PEDRAZZI, Problemi e prospettive, cit. 389). (62) Sull’esasperata tutela penale della pubblica amnunistrazione e sullo spostamento del baricentro dell’incriminazione sull’infedeltà dei pubblici funzionari, attuati dal codice Rocco, v. SEMINARA, Commento agli artt. 323-324 c.p., cit., 227 e ss. Per comprendere meglio il passaggio dall’accentuazione dell’evento dannoso per i terzi alla considerazione prioritaria della strumentalizzazione in sé delle funzioni (prestigio della pubblica amministrazione) è significativo, ad es., il fatto che mentre sotto il codice Zanardelli si riteneva che il consenso del privato danneggiato potesse assumere valore scriminante dell’abuso, dal codice Rocco in poi la vittima della prevaricazione pubblica non è più persona offesa ma solo danneggiata dal reato, risultando così tutelata solo in via indiretta. Con prospettiva eccessivamente ancorata a pregiudizi di stampo formalistico la giurisprudenza non ritiene rilevanti dal punto di vista penale eventuali lesioni o nocumenti indirettamente risentiti in seguito alla commissione dell’illecito da un soggetto privato (cfr. PULEIO, Il delitto d’abuso d’ufficio. Problematiche interpretative ed orientamenti della Corte di Cassazione, in Giust. pen., 1996, II, 185). La dottrina classica sosteneva che il soggetto passivo potesse essere anche il privato che avesse subito un danno dall’atto del pubblico ufficiale: nella vecchia formulazione del reato d’abuso (art. 175 codice Zanardelli), la lesione dell’altrui diritto era un momento della condotta. Oggi invece il privato danneggiato è un soggetto passivo secondario, non essenziale (cfr. SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 487). (63) Sulla funzione politico-criminale delle fattispecie d’abuso di potere v. l’acuta ricostruzione di STORTONI, L’abuso di potere, cit., 270 e ss.
— 1242 — 5. Di fronte all’oggettiva difficoltà di reperire un modello positivo d’incriminazione a cui fare concreto riferimento (‘‘non saprei qual codice presentare a modello per la nozione di questo malefizio’’), ‘‘la teorica dell’abuso di autorità innominato si deve — secondo Carrara — stringere in due sole operazioni’’: 1o Stabilire con una regola generale e costante applicabile a tutti i reati che la pena inflitta a ciascun delitto debba incontrare un aumento quando il delitto siasi commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei suoi poteri; 2o Ricercare i pochi casi nei quali l’abuso di autorità sembri meritare una repressione penale quantunque non abbia il substrato di un altro delitto e debba perciò configurare un reato di per sé stante; e questi descrivere e convenientemente punire, limitando in sostanza il concetto d’abuso di autorità come espressione di un titolo speciale di malefizio alla sua configurazione di reato principale e di per sé stante’’ (64). Emerge così la preoccupazione, di discendenza illuministica, di contenere entro i limiti dell’extrema ratio il ricorso allo strumento penale e di assegnare al piano disciplinare le irregolarità dei pubblici ufficiali che non mettono a repentaglio i diritti dei cittadini. Vengono individuate le limitate ipotesi di abuso che assumono il connotato di delitti contro la libertà fisica e morale dei cittadini: i pochi casi che, secondo Carrara, necessitano di essere descritti e puniti sono gli stessi già citati a proposito dell’indefinibilità della condotta (‘‘le sevizie e rigori eccessivi usati dagli agenti della pubblica forza negli arresti, o dai carcerieri nella custodia dei rei’’; ‘‘le arti subdole usate da un giudice o da un carceriere per indurre un inquisito a confessarsi colpevole’’; ‘‘la fornicazione alla quale l’ufficiale abbia indotto la donna che trovavasi sotto la sua mano’’) (65). Le ipotesi più gravi di abuso dei pubblici ufficiali contro la libertà fisica (e già incriminate dal codice toscano del 1853 e da quello sardo-italiano del 1859) (66) saranno previste anche nei codici del 1889 e del 1930 (limitando l’attenzione al codice Rocco, si pensi al reato specifico d’abuso d’autorità contro arrestati o detenuti ed al reato subspecifico di cui all’abrogato art. 520; ai titoli specifici di abuso di poteri inerenti alle funzioni di cui agli artt. 606 607, 609, e 615, nonché all’aggravante di cui all’art. 605 cpv., n. 2). Il nucleo di aggressioni alla libertà morale evidenziate da Carrara ri(64) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2542, 112. (65) CARRARA, Programma, Parte speciale, V, cit., § 2542, 113, il quale, in nota 2, ricorda ‘‘che la rea consuetudine d’infierire contro gli arrestati quando sono posti in catene è tradizionale ed ereditaria nella razza dei birri italiani: questa è forse una sequela delle leggi crudeli che un tempo, ponendo al bando i contumaci, permettevano ogni molestia che loro si recasse ed anco la loro stessa uccisione’’. (66) Sui precedenti storici dell’art. 608 c.p., v. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., V., 742 e s.
— 1243 — marrà invece relegato dietro lo schermo dell’art. 323 c.p., a riconferma delle difficoltà — già evidenziate da Carrara — di individuare, provare e punire tali forme di abuso: come rileva il Maestro, ‘‘tutt’al più soccorrono rimedi di natura procedurale’’. Si pensi alle condotte di pressione fisica o psicologica esercitate in sede d’indagini preliminari, alle indebite coercizioni morali, agli stringenti interrogatori, alle limitazioni al passeggio in comune in carcere, al voluto mantenimento dello stato d’isolamento continuo per asserite esigenze istruttorie (67). Tali condotte risultano prive di un effettivo referente normativo: in base alla dominante interpretazione dottrinale, sono esclusi dalla sfera d’operatività dell’art. 608 c.p. quei comportamenti che incidono sulla libertà morale dell’individuo detenuto, mediante la realizzazione con abuso di autorità di forme d’intimidazione e di pressione psicologica. Si tratta, indubbiamente, delle forme d’abuso più insidiose e più difficilmente verificabili. Ma se l’aggressione alla libertà fisica e morale dei cittadini costituisce storicamente il nucleo dell’incriminazione del reato d’abuso di autorità, la fattispecie d’abuso in atti d’ufficio si colloca agli antipodi della figura originaria. La sovrapposizione di nuove ed eterogenee finalità politico-criminale (quali il controllo dell’operato e della fedeltà della pubblica amministrazione) ad una struttura originariamente concepita per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini ha snaturato l’essenza dell’istituto che si è trasformato da strumento sussidiario e generico posto a tutela delle libertà dei cittadini a strumento di controllo della pubblica amministrazione. L’intento di conservare la fattispecie innominata salvaguardandone la tipicità e la determinatezza, si è rivelato vano: una vera e propria quadratura del circolo. Il deficit di tipicità e di determinatezza, la genericità e l’indefinibilità della figura innominata si conciliano solo con la tipologia criminosa delle cosiddette prevaricazioni. Al di fuori di esse, tali profili strutturali si rivelano dei veri e propri corpi estranei. Una delle cause della ‘‘degenerazione’’ della fattispecie dell’abuso in atti d’ufficio è proprio l’equiparazione dell’abuso a danno a quello di vantaggio. Illusoria si rivela infatti l’idea di riconvertire la struttura generica del reato facendo riferimento all’imparzialità della pubblica amministrazione. Tale referente risulta incompatibile ed estraneo rispetto alla struttura ed ai valori che fondano storicamente il reato d’abuso, ovvero un delitto dalla struttura a maglie elastiche e larghe, concepito per reprimere soprattutto i soprusi dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni. La fattispecie dell’art. 323 c.p. è sorta sulle fondamenta di una figura criminosa estranea alla dimensione dell’amministrazione economica, degli atti di gestione: il sostrato dell’abuso di autorità sono gli atti d’imperio, l’eser(67)
Sul punto v. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 366.
— 1244 — cizio di poteri coercitivi (68). E qui emerge un parallelismo singolare: come le osservazioni di Carrara in ordine alla necessità di prevedere un titolo speciale d’abuso di autorità si riferivano alle prevaricazioni poste in essere dai magistrati nei confronti dei cittadini, anche la recente riforma dell’abuso d’ufficio è stata dettata soprattutto dalla necessità di delimitare l’ingerenza del sindacato del giudice penale. In entrambi i casi il punctum dolens è rappresentato dalle modalità d’esercizio del potere giudiziario. Oggi si teme l’‘‘accanimento inquisitorio’’ verso i pubblici amministratori, allora ci si preoccupava di garantire le libertà fondamentali del cittadino. Ora come allora, l’abuso più sfuggente risulta quello dei magistrati: tenuto conto dell’inconsistenza dei meccanismi disciplinari e di controllo, si può dire che permangono tuttora sacche di impunità. Se a ciò si aggiunge l’opinabile e ambiguo riduzionismo adottato in sede di riforma (con l’eliminazione del vantaggio non patrimoniale dalle ipotesi d’abuso), si ha l’impressione di un vero e proprio regresso: nonostante l’asserita ispirazione liberale della riforma del reato d’abuso d’ufficio, l’intervento del legislatore del 1997 non pare certo porsi come obbiettivo primario la tutela giuridica dei cittadini. La discutibile impostazione minimalista e pseudogarantistica adottata in sede di riforma dell’art. 323 c.p. affida la tutela dell’imparzialità della pubblica amministrazione ad una cornice di esangue formalismo, estranea alle radici storiche della fattispecie ed all’insegnamento liberale di Carrara. ALBERTO GARGANI Perfezionato in Diritto penale presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento ‘‘S. Anna’’ di Pisa
(68) Per un’interessante disamina dell’evoluzione della figura criminosa in esame, v. SEMINARA, Riflessioni sul reato di abuso innominato in atti d’ufficio, nota a Pret. Legnano, 8 febbraio 1983, in Foro it., 1984, II, 342 e ss.
IL REGIME SANZIONATORIO DELLE PERQUISIZIONI ILLECITAMENTE COMPIUTE PER INIZIATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA
SOMMARIO: 1. Lo stato della questione all’epoca del codice 1930. — 2. Nuovi orientamenti giurisprudenziali dopo l’entrata in vigore del codice 1988. — 3. Lo stato della dottrina. — 4. Nostra opinione.
1. Il problema relativo all’efficacia o non del sequestro conseguente a perquisizione illecitamente compiuta motu proprio dalla polizia giudiziaria può ben essere definito annoso. E ciò ben si spiega, perché in materia vengono a confrontarsi due opposti ordini di esigenze: l’interesse, di rilevanza costituzionale, alla tutela di fondamentali libertà individuali e l’interesse, non meno basilare, alla difesa della società attraverso l’accertamento dei reati e l’identificazione dei rispettivi autori. La questione era controversa già vigente il codice di procedura penale del 1930, che circoscriveva i poteri di perquisizione autonoma degli organi esecutivi ai casi di flagranza e di evasione (art. 224 comma 1), e, dopo la sostituzione operata dall’art. 7 l. 18 giugno 1955, n. 517, prevedeva la comunicazione della perquisizione entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e la convalida, da parte di quest’ultima, nelle quarantotto ore successive (art. 224 comma 2). Al riguardo, si fronteggiavano diversi orientamenti. Secondo un indirizzo, che si basava sugli artt. 13 comma 3 e 14 comma 2 Cost. — il primo dei quali vuole revocati e privi di ogni effetto gli atti contra libertatem compiuti dall’autorità di polizia e non tempestivamente convalidati dal magistrato — alle perquisizioni abusivamente compiute di propria iniziativa dai soggetti in questione si sarebbe dovuta negare ogni validità, ivi compresa quella relativa alla utilizzabilità processuale delle cose rinvenute, con conseguente inefficacia del successivo sequestro (1). (1) BASCHIERI, D’ESPINOSA e GIANNATTASIO, La Costituzione italiana. Commento analitico, Firenze, 1949, 81-83; conf. v. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1972, 448; BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, in Ind. pen., 1976, 51; CAPPELLETTI e VIGORITI, I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1971, 640-641; FASÒ, La libertà di domicilio, Milano, 1967, 187-188; FILIPPI, La perquisizione domiciliare di polizia alla ri-
— 1246 — A sostegno di questa tesi si adducevano anche considerazioni di ordine politico-pratico, come l’insufficienza delle sanzioni civili, penali e disciplinari a costituire un adeguato deterrente per eventuali abusi degli organi di polizia (2). Tale orientamento parve trovar riscontro anche in alcune affermazioni della Corte costituzionale; la quale ritenne, dapprima, che ‘‘il canone secondo il quale al giudice è consentito di apprezzare secondo la sua esperienza il valore del materiale probatorio presuppone’’ non trattarsi ‘‘di prove vietate dalla legge’’ (3); poi, che ‘‘attività compiute in dispregio di fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito’’ (4). Altri (5) ravvisava, nella fattispecie di perquisizione compiuta dalla polizia giudiziaria al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, un caso d’inesistenza dell’atto; tale invalidità si sarebbe comunicata al successivo sequestro, essendo la perquisizione viziata l’antecedente necessario e funzionale di quest’ultimo atto. A prevalere, però, fu l’orientamento secondo cui perquisizione e sequestro sarebbero dovuti esser oggetto di due distinte valutazioni: l’illiceità della prima avrebbe comportato l’applicazione di sanzioni disciplinari e/o penali (ex art. 609 o ex art. 615 c.p.) a carico dell’autore, ma non — dovendosi avere riguardo, per tale punto, soltanto alle norme processuali — l’invalidità del successivo sequestro, espressione d’un potere istruttorio autonomamente spettante al magistrato; pertanto, la mancata convalida della perquisizione illecita avrebbe determinato l’inefficacia del relativo verbale, non, però, l’inutilizzabilità probatoria delle cose abusivamente reperite. In particolare, non si sarebbe potuto trarre argomento, per sostenere la tesi contraria, dalla frase ‘‘si intendono revocati e restano privi di ogni effetto’’, contenuta nell’art. 13 comma 3 Cost. (richiamato dall’art. 14 comma 2 della stessa Carta), in quanto una revoca ex lege avrebbe avuto senso rispetto agli atti che avessero dato luogo ad una situazione giuridica duratura, come, ad esempio, il fermo, ma non rispetto alla perquisizione, cerca di armi, in Giur. cost., 1974, 2712; SCAGLIONE, Le perquisizioni ad iniziativa della polizia giudiziaria, ne Il Tommaso Natale, 1976, 514; VIGORITI, Prove illecite e Costituzione, in Riv. dir. proc., 1968, 69-72. (2) V., pure in una prospettiva comparatistica, SCAPARONE, Agenti segreti di polizia, in questa Rivista, 1972, 162-166; cfr. anche ID., ‘‘Common law’’ e processo penale, Milano, 1974, 161-168; ID., Le indagini di polizia negli Stati Uniti d’America, in questa Rivista, 1974, 293-301. (3) Corte cost. 2 dicembre 1970, n. 175. (4) Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34. (5) RICCIO, Le perquisizioni nel codice di procedura penale, Napoli, 1974, 153-160.
— 1247 — la quale si sarebbe esaurita in un evento, in senso naturalistico, appartenente al passato (6). Fu, appunto, quest’ultima la tesi accolta da una costante giurisprudenza, dicendosi, fra l’altro, che ‘‘la mancata convalida da parte dell’autorità giudiziaria’’ non implica ‘‘la inefficacia di un altro distinto atto di polizia giudiziaria, quale il sequestro. Tra quest’ultimo atto, infatti, e’’ la perquisizione ‘‘sussiste soltanto un rapporto di natura cronologica, per cui l’eventuale invalidità’’ dell’una ‘‘non influisce sulla validità dell’altro’’ (7). 2. La questione si è riproposta dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988; ma le decisioni adottate sono state subito tali da far pensare ad un mutamento d’indirizzo. Così, è stato affermato: ‘‘il fatto che la perquisizione abbia avuto un esito positivo, perché conclusasi con il rinvenimento di alcuni documenti giudicati utili ai fini delle successive indagini, non può certamente esser ritenuto un evento idoneo a disperdere gli effetti conseguenti al riconoscimento dell’insussistenza originaria delle condizioni che legittimano il ricorso a quello specifico strumento di ricerca della prova: il conseguimento del risultato cui l’atto era predisposto non è sussumibile nella categoria delle sanatorie generali delle nullità, quando’’ ... ‘‘non ricorrono le condizioni di cui all’art. 183 c.p.p.’’. Si è, poi, aggiunto: sussiste ‘‘uno stretto rapporto funzionale tra l’atto di ricerca della prova (perquisizione) e la sua materiale apprensione (seque(6) CORDERO, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 119-132; v., inoltre, in tal senso, già ID., Prove illecite nel processo penale, in questa Rivista, 1961, 40-45; conf. anche le opere successive dello stesso autore; tra le quali si citano ID., Procedura penale, 9a ed., Milano, 1987, 926-928; ID., Guida alla procedura penale, Torino, 1986, 339. Per la stessa tesi v. anche DE GENNARO e BRUNO, L’iniziativa della polizia giudiziaria, Milano, 1969, 123-124; DI GIOVANNI, Perquisizione non convalidata e sua rilevanza probatoria, in Arch. pen., 1976, I, 54; FUMAGALLI, Inviolabilità della corrispondenza e poteri istruttori, in Jus, 1966, 373-376; PIOLETTI, Perquisizione, in Novissimo Dig. it., XII, Torino, 1976, 1002; PISANI, La tutela penale della ‘‘riservatezza’’: aspetti processuali, in questa Rivista, 1967, 794-798; SABATINI Gius., Prova (Diritto processuale penale e Diritto processuale penale militare), in Novissimo Dig. it., XIV, Torino, 1976, 318-319; SPIZUOCO, Mancata convalida della perquisizione operata dalla polizia ai sensi dell’art. 13 della Costituzione ed effetti circa la prova raccolta, in Giust. pen., 1951, I, 82-83; VASSALLI, La protezione della personalità nell’era della tecnica, in Studi in onore di E. Betti, V, Milano, 1962, 709-711. In senso critico riguardo a tale orientamento v. BALDUCCI, Perquisizione (diritto processuale penale), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 150-152; CARNELUTTI, Chiose, in Riv. dir. proc., 1961, 624-625. (7) Cass. 15 marzo 1984, Zoccali, in Cass. pen., 1985, 2074, 1361; cfr. pure Id. 24 marzo 1986, Di Fazio, ivi, 1987, 1771, 1495; Id. 12 novembre 1985, Marcinno, ivi, 354, 256; Id. 6 maggio 1982, Rubino, ivi, 1983, 1580, 1156; Id. 13 febbraio 1981, Facchinetti, ivi, 115, 80; Id. 11 aprile 1979, Provolo, in Cass. pen. Mass. ann., 1980, 1373, 1368; Id. 24 novembre 1977, Manusardi, ivi, 1978, 1409, 1454; Id. 17 febbraio 1976, Cavicchia, ivi, 1977, 947, 1141.
— 1248 — stro): tale rapporto non è più contestabile alla luce del sopravvenuto regime normativo. Questo, infatti, recependo la concezione relativistica della prova, in contrapposizione a quella positivistica, ha non solo reso vana ogni possibile schematizzazione, ma ha fissato una regola generale ineludibile, non soggetta ad alcuna decadenza o sanatoria, e cioè l’inutilizzabilità della prova (art. 191 c.p.p.), sia sotto il profilo genetico, cioè conseguente alla difformità dell’atto rispetto al modello legale del procedimento ammissivo, che sotto l’aspetto funzionale, riguardante lo stesso procedimento assuntivo della prova’’ (8). Nello stesso senso è stato negato che ‘‘possa ritenersi legittimo un sequestro operato a seguito di perquisizione illegittima, perché, per effetto del nesso di interdipendenza, si comunica all’atto successivo la nullità di quello che ne è l’antecedente cronologico, logico e funzionale’’ (9). Ed ancora, rilevato che ‘‘in tema di sequestro probatorio l’art. 252 impone automaticamente il sequestro delle cose (corpi di reato o pertinenti al reato) rinvenute a seguito di perquisizione’’, ne è stata tratta la conseguenza per cui ‘‘essendo legislativamente previsto un nesso di causalità fra la perquisizione e il sequestro probatorio, dalla eventuale invalidità della perquisizione deriva la invalidità del sequestro probatorio, ai sensi dell’art. 185, comma 1, c.p.p.’’ (10). Contrario orientamento giurisprudenziale, invece, collocandosi nella scia di quello invalso vigente il codice abrogato, appare basato sul principio dell’autonomia del sequestro rispetto all’anteriore perquisizione. In tal senso, è stato detto: ‘‘nessun rilievo preclusivo’’ svolge ‘‘in tema di sequestro l’accertata illegittimità della perquisizione, ove vengano acquisite prove aventi caratteristica di realità (res delicti), sia perché perquisizione e sequestro hanno differenti presupposti e diversa funzione giuridica, ancorché eventualmente convergenti sul piano dei risultati, sia perché, al di fuori di prove che regole processuali o sostanziali escludono in modo assoluto, tutte le altre sono coattivamente acquisibili, ed eventuali irregolarità nell’acquisizione, a parte misure di carattere disciplinare o penale, non impediscono che, in attesa della successiva emissione di valido sequestro, sulla cosa si realizzi quanto meno uno stato di ‘fermo reale’ analogo a quello che l’art. 354 c.p.p. riconosce nei poteri degli organi di polizia giudiziaria’’ (11). (8) Cass. 23 maggio 1992, Casini, in Cass. pen., 1993, 393-396, 240; conf. Id. 22 settembre 1995, Cavarero, ivi, 1996, 1545-1546, 899. (9) Cass. 17 ottobre 1994, Perri, in C.E.D. Cass., 200053; conf. Id. 11 aprile 1994, Santi, in Arch. della nuova proc. pen., 1994, 739; Id. 10 dicembre 1990, Rocchi, in Arch. pen., 1992, II, 67-68. (10) Cass. 23 febbraio 1992, Mattiuzzi, in Arch. della nuova proc. pen., 1993, 649; cfr. pure Pret. Macerata 14 maggio 1993, Guazzaroni, in C.E.D. Cass., 930304. (11) Cass. 22 maggio 1991, Lionetti, in Cass. pen., 1992, 1879-1880, 1006; conf. Id.
— 1249 — È stata quest’ultima, sostanzialmente, la soluzione recepita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione; le quali, infatti, hanno, si, riconosciuto che ‘‘allorquando una perquisizione sia stata effettuata senza l’autorizzazione del magistrato e non nei ‘casi’ e nei ‘modi’ stabiliti dalla legge, così come disposto dall’art. 13 della Costituzione, si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova’’ il quale ‘‘non è più compatibile con la tutela dell’inviolabilità del domicilio’’; che la perquisizione è ‘‘partecipe del complesso meccanismo acquisitivo della prova, a causa del rapporto strumentale ponentesi tra la ricerca e la scoperta di ciò che può essere necessario o utile ai fini delle indagini’’, onde ‘‘la perquisizione non è soltanto l’antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico’’ il quale ‘‘rende possibile il sequestro’’; e che ‘‘quando una perquisizione sia stata comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative’’ le quali ‘‘assicurano, in concreto, l’attuazione di quella ineludibile garanzia costituzionale’’ di cui all’art. 13 comma 2 Cost., si è di fronte ad ‘‘un procedimento acquisitivo della prova che reca l’impronta ineludibile della subita lesione di un diritto soggettivo, diritto che, per la sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la più radicale sanzione di cui l’ordinamento dispone, e cioè l’inutilizzabilità della prova così acquisita in ogni fase del procedimento’’; si è, però, nella stessa occasione, altresì affermato che, ove la ‘‘ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, è lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale’’ al ‘‘sequestro si sia pervenuti’’. In questa specifica ipotesi, il sequestro rappresenterebbe un ‘‘‘atto dovuto’, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali, quali che siano state, in concreto, le modalità propedeutiche e funzionali che hanno consentito l’esito positivo della ricerca compiuta’’. Insomma, ‘‘allorquando’’ ricorressero ‘‘le condizioni previste dall’art. 253 comma 1 c.p.p., gli aspetti strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo della prova, non’’ potrebbero ‘‘mai paralizzare l’adempimento di un obbligo giuridico che’’ troverebbe ‘‘la sua fonte di legittimazione nello stesso ordinamento processuale ed’’ avrebbe ‘‘una sua appagante giustificazione nell’esigenza che l’ufficiale di polizia giudiziaria non si sottragga all’adempimento dei doveri indefettibilmente legati al suo status’’. Tale deroga al principio per cui l’invalidità della perquisizione si estende al conseguente sequestro probatorio dovrebbe essere riferita ‘‘alla necessità primaria di interrompere il protrarsi di una situazione di intrin24 gennaio 1996 n. 6360, in C.E.D. Cass., 205373; Id. 27 dicembre 1995 n. 2793, ivi, 203594; Id. 26 luglio 1995 n. 2001, ivi, 202589; Id. 2 maggio 1995 n. 4827, ivi, 201267.
— 1250 — seca illiceità penale, quando non addirittura la permanenza nel reato o gli effetti del reato strettamente connessi’’ (12). 3. Omologa diversità di opinioni si riscontra nella dottrina relativa al codice 1988. Da un lato, infatti, si continua a sostenere che ‘‘perquisizione e sequestro compongono una sequela causale ma il secondo non dipende dalla prima, nel senso in cui tale relazione è postulata’’ dall’art. 185 comma 1 c.p.p.; pertanto, dove x fosse obiettivamente sequestrabile, i relativi poteri non dipenderebbero dal ‘‘come’’ del suo reperimento: potrebbe darsi che la ricerca coattiva risultasse illegittima, quanto a presupposti, persona dell’esecutore, modi, tempo, con conseguenti responsabilità disciplinari o, addirittura, penali; ma il reperto sarebbe acquisibile, dove non vigessero divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema (13). Altri (14), premesso che ‘‘in tanto è possibile procedere a sequestro in quanto ci sia una precedente perquisizione’’ la quale ‘‘abbia portato al rinvenimento di cose sequestrabili’’, ritiene che la ricerca costituisca ‘‘il presupposto immediato dell’atto di apprensione, venendo a porsi nei confronti del sequestro in una relazione di causa ad effetto ben più penetrante ed incisiva di una semplice ‘dipendenza logica’’’; in particolare, ‘‘verrebbe’’...‘‘ad instaurarsi, tra la perquisizione e il sequestro, quel ‘rapporto di dipendenza causale e necessaria, logica e giuridica’ che è usualmente richiesto per poter compiutamente parlare di nullità derivata’’. Pertanto, nell’eventualità in cui il sequestro seguisse una perquisizione illecitamente compiuta, esso sarebbe presumibilmente contagiato dalla stessa forma di invalidità che ha colpito l’atto a monte, cioè, dall’inutilizzabilità. Non manca nemmeno chi propende per una soluzione ‘‘intermedia’’, nel senso della necessità di ‘‘accertare se le norme che tutelano l’interesse all’organizzazione dell’attività lato sensu istruttoria non siano contemporaneamente indirizzate a garantire la genuinità dell’accertamento’’; biso(12) Cass., Sez. un., 27 marzo 1996, Sala, in Cass. pen., 1996, 3268-3274, 1811, con nota critica di VESSICHELLI. (13) CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, 581; conf. Id., Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Torino, 1992, 293; nello stesso senso v. pure AMATO Gius. e D’ANDRIA, Organizzazione e funzioni della polizia giudiziaria nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 107-108; BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Napoli, 1990, 256-258; LUPACCHINI, Se e come utilizzare una prova illecitamente ritrovata, in Dir. pen. e proc., 1996, 1126-1129; FORTUNA e DRAGONE, Le prove, in FORTUNA, DRAGONE, FASSONE, GIUSTOZZI E PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, 1995, 394; SANLORENZO, sub art. 354, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, IV, Torino, 1990, 145. (14) BASSO, sub art. 252, in Commento, cit., II, 1990, 731-738; conf. BELLANTONI, Perquisizioni, in Enc. giur., XXIII, Roma, 1990, 7; TAFI, Considerazioni sulle interazioni tra perquisizione e sequestro in una recente pronuncia di legittimità, in Arch. della nuova proc. pen., 1992, 244.
— 1251 — gnerebbe, cioè, ‘‘vedere se l’attività della polizia giudiziaria al di fuori dei presupposti non possa incidere sull’idoneità probatoria dei risultati’’. In particolare, il pubblico ministero ‘‘dovrebbe astenersi dal convalidare l’atto eseguito senza’’ le relative condizioni, ‘‘quando si avveda che la deviazione dal modello normativo ha generato risultati probabilmente non obiettivi’’. Quindi, la convalida ‘‘dovrebbe vertere sulla verifica della genuinità dei risultati ottenuti sulla base di un modus procedendi non corretto’’. Per quanto riguarda, poi, il sequestro operato a séguito di perquisizione irrituale, si rinvia ad un vaglio circa il tipo di interesse tutelato dalla norma costituente divieto ed al conseguente esame della necessità che la tutela di tale interesse sia ‘‘ultrattiva’’ (15). 4. Per la verità, dal nuovo codice emergono elementi che fanno pensare alla possibilità di un apprezzamento della validità del sequestro distinto da quello relativo alla perquisizione: la convalida del primo è prevista separatamente da quella della seconda (v., rispettivamente, art. 355 comma 1 e art. 352 comma 4); inoltre, il fatto che sia stabilita espressamente l’inutilizzabilità delle perquisizioni e dei sequestri compiuti presso i difensori in violazione delle relative garanzie (art. 103 comma 7) farebbe pensare che, al di fuori di tali ipotesi, debba valere la regola generale dell’utilizzabilità. Tuttavia, a nostro sommesso avviso, un significato profondamente innovatore, con riferimento al problema de quo, ha la disposizione del codice vigente secondo cui ‘‘le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate’’ (art. 191 comma 1). Posto che l’inutilizzabilità può derivare anche dalla violazione di regole attinenti al quomodo dell’atto di acquisizione probatoria (16), anche a voler ritenere che il comma da ultimo citato si riferisca solo a divieti derivanti da disposizioni processuali (17), non è detto che disposizioni siffatte debbano necessariamente esser desunte dal tessuto codicistico; ed allora, una regola probatoria di esclusione pare ricavabile proprio dall’art. 13 comma 3 Cost., laddove stigmatizza come ‘‘privi di ogni effetto’’ i provvedimenti contra libertatem dell’autorità di polizia non tempestiva(15) GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, 219; conf. BARGIS, Perquisizione, in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, 50. (16) Cfr. NOBILI, Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, 646. (17) V. in tal senso CORDERO, Procedura, cit., ed. 1995, 581; conf. GALANTINI, op. cit., 205; NAPPI, Guida al Codice di procedura penale, 6a ed., Milano, 1997, 150-151. Contra, nel senso che, ai fini dell’inutilizzabilità rilevano anche i divieti posti da norme penali sostanziali, v. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 157; conf. pure SIRACUSANO, Le prove, in SIRACUSANO, GALATI, TRANCHINA E ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, 2a ed., I, Milano, 1996, 364.
— 1252 — mente convalidati dal magistrato. Né sembra che, a tal proposito, si possa distinguere tra atti i quali, come il fermo e l’arresto, danno luogo ad una situazione permanente di limitazione della libertà personale ed atti i quali si esauriscono nel produrre un effetto giuridico che appartiene al passato (18); anzitutto, il generico dettato del capoverso da ultimo citato non si mostra tale da consentire siffatta distinzione; inoltre, proprio nel caso di perquisizione illecita la norma risultante dal medesimo comma si rivela di particolare valore ed efficacia, in quanto perviene ad escludere che un’abusiva compressione del diritto individuale possa riverberarsi negativamente sulla posizione procedimentale della persona sottoposta ad indagini o imputata. Del resto, un divieto probatorio potrebbe essere desunto già dalle prime due parti degli artt. 13 e 14 Cost.; le quali, stabilendo l’inviolabilità, rispettivamente, della libertà personale e di quella domiciliare, sembrano implicare che quanto reperito in violazione delle disposizioni di legge poste a garanzia di tali libertà non sia utilizzabile a fini procedimentali (19); o dai primi due capoversi degli stessi articoli, laddove fissano una riserva assoluta di legge in tema di ‘‘casi’’ e ‘‘modi’’ relativi alla restrizione della libertà personale e domiciliare. Ove si ritenga di poter desumere una siffatta regola d’esclusione, è dato pervenire al concetto di ‘‘prova incostituzionale’’, da riferire a ‘‘qualsiasi prova o mezzo di prova’’... ‘‘le cui modalità di formazione, di acquisizione o di assunzione — a prescindere dalla qualificazione dell’illecito e indipendentemente dalla presenza di specifici divieti, enunciati dalle norme processuali ordinarie — siano comunque in contrasto con le garanzie fondamentali della persona o del giudizio, che la Costituzione riconosce ed assicura ad ogni individuo, nell’ambito’’ del ‘‘processo ‘equo’ e ‘giusto’ ’’ (20). Del resto, l’inutilizzabilità della perquisizione illegittima di polizia (18) CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., 126. Il PIERRO, invece, ravvisa, una regola di esclusione probatoria nel dettato dell’art. 13 comma 3 Cost. (v. in Una nuova specie di invalidità l’inutilizzabilità degli atti processuali penali, Napoli, 1992, 35-36). (19) Si è osservato in tal senso: ‘‘i diritti a contenuto negativo di cui agli artt. 13’’ e ‘‘14 Cost.’’ ... ‘‘sono riferiti a ipotesi fattuali di libertà assolute e indipendenti dal fenomeno normativo, pur se da questo riconosciute e come tali tutelate, onde la loro compressione è direttamente proporzionata all’intervento normativo (autorizzante la stessa). In assenza di questo, per contro, le libertà raggiungono la massima espansione, cosicché la qualifica di inviolabile, ad essa riferita, comporta la impossibilità giuridica di compressione in assenza di attività normativa, di tal guisa che le stesse dispiegano, per il solo fatto della loro esistenza, un’efficacia immediata e diretta nell’ordinamento, non solo limitando la conferibilità del potere di menomazione delle stesse, ma assicurandone l’inesistenza’’ (ALLENA, Riflessioni sul concetto di incostituzionalità della prova nel processo penale, in questa Rivista, 1989, 521). (20) COMOGLIO, Perquisizione illegittima ed inutilizzabilià derivata delle prove acquisite con il susseguente sequestro, in Cass. pen., 1996, 1548; cfr. anche GRIFANTINI, Inutilizzabilità, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, 249, 250.
— 1253 — potrebbe essere desunta anche dalla legislazione ordinaria, in particolare, dall’art. 352 c.p.p., che, fissando, nei primi due commi, i ‘‘casi’’ di possibile perquisizione ad iniziativa degli organi esecutivi, contiene un implicito diniego di potere per le fattispecie ricadenti al di fuori di tali ipotesi. Si aggiunga che non si capirebbe per quale ragione, se la perquisizione illecita potesse dar luogo a esiti validamente impiegabili in sede procedimentale, il rispettivo autore dovrebbe esser punito con sanzioni disciplinari e/o penali: questi subirebbe, così, una pena per aver fatto qualcosa di positivo ai fini dell’accertamento del reato e della scoperta del colpevole; l’unitarietà dell’ordinamento conduce, quindi, a ritenere che al trattamento dell’esecutore debba corrispondere una invalidità della perquisizione illecitamente compiuta. Una volta ritenuta detta inutilizzabilità, non può non considerarsi affetto dalla stessa specie d’invalidità, in via derivata (21), anche il sequestro: l’art. 252 c.p.p., con lo stabilire che ‘‘le cose rinvenute a seguito della perquisizione sono sottoposte a sequestro’’, stabilisce un nesso di obbligatoria ed automatica conseguenzialità tra il primo atto e il secondo, onde vien fatto di credere che l’inutilizzabilità dell’una si comunichi all’altro (22). Dunque, contrariamente a quanto ritenuto dalle Sezioni unite (23), è proprio l’esistenza dell’obbligo di sequestrare il corpo del reato e le cose pertinenti al reato rinvenute con la perquisizione (v. art. 253 comma 1) che, determinando un rapporto di dipendenza causale necessaria, logica e giuridica, tra la ricerca e l’apprensione, comporta l’estensione a quest’ultima dell’invalidità di quella. Si deve, quindi, concludere per l’inutilizzabilità delle cose sequestrate attraverso una perquisizione illecita, anche se potrebbe essere obiettato che la soluzione qui accolta contrasta con le esigenze di politica criminale, che sarebbero irrimediabilmente compromesse se prove decisive per l’accertamento dei reati e per l’identificazione dei rispettivi autori dovessero essere ignorate a causa d’un vizio formale dell’attività diretta al reperi(21) Nel senso che l’invalidità di un atto procedimentale si trasmette all’atto susseguente nella stessa specie in cui investe l’atto anteriore cfr. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, ristampa inalterata, Milano, 1972, 80; v. anche MAGI, Atti di investigazione ed invalidità derivata, in Arch. pen., 1992, II, 68 ss. (22) ‘‘Non soltanto’’..., ‘‘secondo l’id quod plerunque accidit, ad una perquisizione normalmente segue un provvedimento di sequestro, ma tale provvedimento, dovendo essere motivato (ex art. 253 c.p.p.) non potrà che fare riferimento alle risultanze della previa perquisizione. Sarebbero così soddisfatti i due requisiti’’...‘‘perché ‘un atto del processo possa dirsi giuridicamente condizionato da un precedente atto probatorio’: che l’atto sia motivato e che dalla sua motivazione risulti in modo chiaro l’influenza del precedente atto invalido’’ (MOLINARI, Invalidità del decreto di perquisizione, illegittimità del sequestro, in questa Rivista, 1994, 1139-1140). (23) Cass., Sez. un., 27 marzo 1996, Sala, cit.
— 1254 — mento delle medesime (24). È, però, agevole replicare che ‘‘a conseguenze altrettanto assurde ma indubbiamente esatte si giunge allorquando la prova’’ decisiva ‘‘sia data da intercettazioni telefoniche tanto inequivocabili al fine della dimostrazione della responsabilità degli indagati quanto inutilizzabili per essere state eseguite in violazione delle disposizioni di legge’’ (25). Né, ai fini dell’utilizzabilità delle prove acquisite sul presupposto di una perquisizione illecita, si può distinguere a seconda che tale atto abbia influito o no sulla genuinità dei reperti (26); a parte che, consistendo la perquisizione nella ricerca a sorpresa di prove reali (costituenti corpo del reato o pertinenti al reato), risulta difficile immaginare com’essa possa influire negativamente su detta genuinità, a dover esser presa in considerazione, qui, è la tutela di fondamentali diritti dell’individuo, quali la libertà personale e quella domiciliare. Ciò che conta, ai fini dell’esclusione della valenza probatoria dei risultati illecitamente raggiunti, è il fatto dell’avvenuta violazione di tali situazioni giuridiche soggettive, senza che possa rilevare la bontà o no degli scopi conseguiti. PAOLO MOSCARINI Associato di Procedura penale nell’Università di Siena
(24) CORDERO, Procedura, cit., ed. 1995, 722. (25) LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Ristampa aggiornata al settembre 1997, Torino, 1997, 236. (26) GALANTINI, op. cit., 220.
IN TEMA DI ONERE DELLA PROVA NEL PROCESSO PENALE
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il fondamento normativo dell’onere della prova: la presunzione di innocenza. — 3. La configurazione teorica dell’onere della prova. — 4. Il dibattito dottrinale vigente il codice di procedura penale del 1930. — 5. I principi fondamentali del codice di procedura penale del 1988. — 6. L’onere della prova in senso formale. — 7. L’onere della prova in senso sostanziale.
1. Premessa. — Negli ultimi anni il tema dell’onere della prova nel processo penale è oggetto di un rinnovato e crescente interesse scientifico. Se vigente il codice di procedura penale del 1930 prevaleva in dottrina l’opinione che negava la configurabilità dell’onere della prova nel processo penale, l’entrata in vigore del codice del 1988 ha dato inizio ad un graduale ripensamento della problematica alla luce del mutato quadro normativo di riferimento. Mentre qualche autore (1) nega ogni e qualsiasi rilievo al principio dell’onere della prova, altri studiosi (2) ravvisano in varie norme del codice del 1988 sicuri riferimenti che ne attestano l’esistenza, esistenza strettamente collegata al riconoscimento del « diritto alla prova » delle parti ed alla conseguente loro responsabilizzazione. A chi individua nell’onere della prova un onere esclusivamente formale di indicazione e produzione dei mezzi di prova, che « non fissa, in quanto tale, alcuna regola di giudizio, improntata al rischio della prova mancata » (3), si contrappone l’opinione secondo cui « ogni processo... pone questioni sul rischio della prova mancata, indipendentemente dai meccanismi istruttori » (4). (1) G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, p. 98 s. Secondo l’Autore si tratta soltanto di « una formula evocativa, eco di un dibattito ormai spento riguardante un problema che, in ambito penale, sembra avere perso gran parte del suo fascino » (p. 100). (2) E. AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. XXXVII s.; P.P. PAULESU, Presunzione di non colpevolezza, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 687. (3) Così D. SIRACUSANO, Prova (III nel nuovo codice di procedura penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 1991, p. 6. (4) Così F. CORDERO, Procedura penale, 3a ed., Milano, 1995, p. 845. L’Autore os-
— 1256 — Occorre quindi verificare in concreto, con riferimento alla normativa vigente, l’esistenza e l’effettiva portata del principio in ambito processualpenalistico. Nell’affrontare la questione è necessario assumere quale punto di partenza il dettato dell’art. 27, comma 2, della Costituzione, che costituisce il principale fondamento normativo dell’onere della prova. 2. Il fondamento normativo dell’onere della prova: la presunzione di innocenza. — L’art. 27, comma 2, della Costituzione afferma che « l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva ». Come è noto, il Costituente ha accolto una formulazione « in negativo », in luogo di quella tradizionale (5) secondo cui l’imputato è presunto innocente, per sottolineare la compatibilità costituzionale della custodia cautelare prima della sentenza irrevocabile di condanna (6). Ciò ha fatto sì che in dottrina si manifestassero opinioni divergenti in ordine all’effettivo significato del principio costituzionale. Alcuni studiosi (7) hanno sostenuto che la formula adottata non esprime alcuna presunzione di innocenza e hanno ridimensionato la portata del principio, intendendola come la semplice constatazione della situazione « neutrale » dell’imputato nel corso del processo, non considerato colpevole, ma neppure innocente. La Corte costituzionale (8) ha aderito a questa interpretazione riduttiva, escludendo che l’art. 27, comma 2, Cost. abbia previsto una presunzione di innocenza, dal momento che durante il processo non esiste un colpevole né un innocente, ma soltanto un imputato. Secondo tale indirizzo, dunque, la condizione di « non colpevole » serva che « esiste onere probatorio anche dove lo spettro cognitivo abbia la massima estensione, essendo acquisibile ope iudicis ogni materiale ». (5) La formulazione « in positivo » era adottata già nell’art. 9 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea costituente francese nel 1789. (6) Secondo A. MALINVERNI, Principi del processo penale, Torino, 1972, p. 474, la norma porta « i segni della battaglia fra i fautori e gli oppositori della presunzione di innocenza dell’accusato ». Per un approfondito esame dei lavori dell’Assemblea costituente v. G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 20 s. e O. DOMINIONI, La presunzione d’innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, 1985, p. 232 s. (7) V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. I, 4a ed., Torino, 1952, p. 202 s.; R.A. FROSALI, Sistema penale italiano, vol. IV, Torino, 1958, p. 178; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Napoli, 1961, pp. 476-477. Recentemente è stato sostenuto che « l’art. 27 comma 2 Cost. pone un principio, non una presunzione » e che, « ad osservarlo con un certo disincanto, quel principio si rivela — ad un tempo — del tutto ovvio e del tutto assurdo ». Così F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 228 s. (8) C. cost., sent. 22 giugno-6 luglio 1972, n. 124, in Giur. cost., 1972, p. 1325.
— 1257 — non si identificherebbe con quella di « innocente », con il rischio, però, di privare la norma costituzionale di qualsiasi effetto giuridico (9). Un’altra corrente dottrinale (10) ha invece affermato l’equivalenza delle due formule, superando la dicotomia « innocenza »-« non colpevolezza », scarsamente plausibile sia dal punto di vista semantico sia sotto il profilo squisitamente logico (11). Le due espressioni costituiscono infatti semplici varianti lessicali del medesimo concetto (12): negare la colpevolezza non può significare altro che riconoscere l’innocenza. Quest’ultima interpretazione del precetto costituzionale trova autorevole conforto nella formulazione del medesimo principio nelle carte internazionali sui diritti dell’uomo ratificate dall’Italia. L’art. 6 n. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (13) e l’art. 14 n. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (14) affermano in positivo la presunzione di innocenza. Quale che sia la loro collocazione nella gerarchia delle fonti, è certo che tali norme, essendo state ratificate dal nostro Paese, risultano fonti di diritto interno, comportando il recepimento, quanto meno con efficacia di legge ordinaria, della presunzione di innocenza (15). Secondo l’opinione più diffusa, nella presunzione prevista dall’art. 27, comma 2, Cost. è possibile cogliere un duplice significato: una regola di trattamento dell’imputato e una regola probatoria o di giudizio, strettamente collegate dal punto di vista logico (16). Sotto il primo profilo, la norma costituzionale vieta di assimilare (9) Cfr. A. MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol. III, Torino, 1969, p. 16. (10) G. BELLAVISTA, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1956, p. 116; M. PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storico-sistematiche, in Foro it., 1967, V, c. 77; A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 474. (11) Cfr. G. ILLUMINATI, Presunzione di non colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, Roma, 1991, pp. 1-2. V. pure P.P. PAULESU, Presunzione di non colpevolezza, cit., p. 673. (12) Cfr. M. PISANI, L’assoluzione, cit., c. 77. (13) « Ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata ». (14) « Ogni individuo accusato di un reato ha il diritto di essere presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente ». (15) Cfr. M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p. 51; A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 474; G. ILLUMINATI, Presunzione, cit., p. 2. Recentemente la Corte costituzionale ha affermato che le norme della Convenzione europea e del Patto internazionale « sono state introdotte nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione », ma sono « insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria » (C. cost., sent. 12-19 gennaio 1993, n. 10, in Giur. cost., 1993, p. 52). (16) Cfr. G. ILLUMINATI, Presunzione, cit., p. 2.
— 1258 — l’imputato al condannato e conseguentemente di limitare, nel corso del processo, la sua libertà personale con finalità di anticipazione della pena. Sotto il secondo profilo, presumere l’innocenza dell’imputato equivale ad affermare che egli non è tenuto a dimostrare la sua innocenza, ma spetta all’accusa dare la prova della sua responsabilità: « per giungere alla condanna occorre provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il contrario di quanto è garantito dalla presunzione costituzionale » (17). Nonostante l’apparente ovvietà di quest’ultimo corollario (18), vedremo in prosieguo (19) quante opposizioni abbia incontrato l’affermazione di una regola di giudizio che ponga l’onere della prova a carico dell’accusa. 3. La configurazione teorica dell’onere della prova. — L’onere di provare un fatto in un processo si risolve essenzialmente nell’onere di convincere il giudice dell’esistenza del fatto stesso (20). Il momento in cui viene fornita la prova del fatto, tuttavia, di regola non coincide con quello in cui il giudice si convince dell’esistenza o meno dello stesso, giacché il suo convincimento è conseguente alla valutazione che egli dà delle prove (21). Si tratta di due momenti diversi del procedimento: la fase dell’introduzione delle prove e quella della loro valutazione e della decisione. Si distingue così dal punto di vista delle parti tra l’onere di introdurre nel processo i mezzi di prova (onere formale, detto anche processuale) e l’onere di convincere il giudice dell’esistenza del fatto affermato (onere sostanziale) (22). Nel primo caso l’istituto ha funzione di stimolo all’attività processuale delle parti. La parte che allega un fatto, affermandolo come storicamente avvenuto, deve introdurre nel processo elementi di prova idonei a dimostrarne la veridicità. Con ciò non si allude ad un dovere della parte (23), che resta libera di decidere il proprio comportamento processuale, ma si vuole indicare che per essa è « vantaggioso » introdurre i mezzi di prova che consentono di provare i fatti affermati e posti a fon(17) Così M. PISANI, Sulla presunzione di non colpevolezza, in Foro pen., 1965, p. 3. (18) Cfr. V. MANZINI, Trattato, cit., vol. III, p. 169, secondo cui « ... è naturale che il così detto onere della prova, cioè il carico di fornirla, spetti a chi accusa... ». L’Autore subito dopo precisa tuttavia che « la massima che l’onere della prova spetta a chi accusa è un semplice principio logico, una mera affermazione di senso comune, piuttosto che una regola di diritto » (p. 170). (19) V. infra, § 4. (20) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 477. (21) Cfr. M. TARUFFO, Onere della prova, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIII, Torino, 1995, p. 66. (22) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., pp. 478-479. (23) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 845.
— 1259 — damento della propria posizione o, in termini negativi, è « svantaggioso » arrivare al termine del processo senza averli introdotti. Nel momento della « decisione » l’onere della prova opera, invece, come criterio per l’accertamento dei fatti ignoti, in quanto individua i soggetti che subiscono il pregiudizio derivante dalla mancata prova degli stessi. L’onere sostanziale della prova di un determinato fatto fa dunque carico alla parte a cui la decisione risulterebbe sfavorevole se quel fatto fosse ritenuto non esistente (24). Tra i due momenti esiste certamente un nesso molto forte. Una regola di giudizio che addossi ad una parte il rischio della mancata prova di un fatto costituisce infatti un forte stimolo per la parte stessa a fornirne la prova (25); tale regola responsabilizza le parti a ricercare le fonti ed introdurre i mezzi di prova, a non confidare nel potere suppletivo eventuale del giudice o nell’attività d’ufficio della polizia giudiziaria, non sempre interessata ad accertare tutti i fatti. Non c’è tuttavia un collegamento necessario, né positivo né negativo (26). Non sussiste infatti un rapporto immediato tra l’assunzione di un mezzo di prova e l’accertamento giudiziale dell’esistenza del fatto né, del resto, tra l’inerzia e la « mancata prova ». Per un verso l’adempimento dell’onere formale non garantisce affatto una decisione finale favorevole, ma si limita a creare una situazione processuale idonea, nella prospettiva della parte, al conseguimento di tale risultato (27). Si ha infatti la mancata prova di un fatto non solo quando sullo stesso non sono state dedotte o comunque assunte prove, ma anche nel caso in cui gli elementi probatori acquisiti non ne abbiano dimostrato l’esistenza (o non abbiano comunque convinto il giudice). Sotto altro profilo, se la parte onerata non introduce mezzi di prova è, con ogni probabilità, destinata a soccombere, ma il mancato convincimento del giudice non è una conseguenza diretta né necessaria dell’inadeguata (o addirittura mancante) deduzione probatoria, ben potendo il giudice trarre il suo convincimento anche da mezzi di prova introdotti dalle parti non onerate o acquisiti ex officio (28). L’onere della prova non comporta che il giudice possa ricavare l’esi(24) Cfr. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 846. (25) « ... sulla regola di giudizio — e sulle aspettative che ne derivano circa il contenuto della decisione — si modellano le iniziative probatorie delle parti ». Così G. ILLUMINATI, Presunzione, cit., p. 7. (26) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 478. (27) Cfr. G. DE STEFANO, Onere (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol. XXX, Milano, 1980, p. 114. (28) Cfr. M. TARUFFO, Onere della prova, cit., pp. 73-74; A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 478. F. CORDERO, Procedura, cit., p. 845 parla al riguardo di « onere imperfetto, perché l’interessato inerte non ha ancora perso ».
— 1260 — stenza di un fatto dalle sole prove fornite dalla parte onerata (29): tutto il materiale probatorio acquisito al processo è globalmente e complessivamente utilizzabile dal giudice per formare il suo convincimento. La soccombenza si verifica soltanto qualora, in sede di decisione finale, il fatto, che la parte afferma esistente, risulti indimostrato. L’insussistenza di un collegamento necessario tra l’osservanza o meno dell’onere di introdurre i mezzi di prova e l’esito finale del processo non fa comunque venir meno la funzione dell’onere sostanziale consistente in uno stimolo all’adempimento dell’onere formale. La parte che ha interesse a che sia fornita la prova di un fatto sa di doversi attivare in tal senso, in quanto l’acquisizione d’ufficio, al pari di quella ad opera delle altre parti, costituisce una mera « eventualità » sulla quale non è possibile fare affidamento. La parte inerte si assume dunque il « rischio » della sua inattività. 4. Il dibattito dottrinale vigente il codice di procedura penale del 1930. — Vigente il codice di procedura penale del 1930 larga parte della dottrina (30), pur con diversità di sfumature, negava la possibilità di configurare l’onere della prova nel processo penale. Il maggior ostacolo veniva ravvisato nella incompatibilità dell’istituto con il modello probatorio delineato dal codice del 1930, imperniato sui principi dell’iniziativa probatoria officiosa e della libera ricerca della verità materiale (31). In tale sistema il giudice aveva il dovere, indipendentemente dalle istanze delle parti, di ricercare, ammettere ed assumere le prove necessarie all’accertamento della verità, mentre le parti stesse non erano titolari di un diritto al compimento di determinate attività istrutto(29) In senso contrario v. R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova (aspetti diversi di un fenomeno unico o fenomeni autonomi?), in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 399 s., secondo cui « l’onere della prova è incompatibile non solo con la ‘‘ricerca’’ d’ufficio della verità, ma anche con un meccanismo processuale che tenga conto della prova non offerta dall’interessato », in quanto « asserito un onere della prova, il soggetto onerato dovrebbe soccombere tutte le volte in cui la prova medesima non è acquisita per effetto della sua propria attività processuale ». Un fenomeno del genere non è tuttavia riscontrabile negli ordinamenti moderni. Cfr. F. CORDERO, Il giudizio d’onore, Milano, 1959, p. 89. (30) E. FLORIAN, Principi di diritto processuale penale, 2a ed., Torino, 1932, p. 344 s.; Gius. SABATINI, Sull’onere della prova nel processo penale, in Giust. pen., 1952, III, c. 404 s.; G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, p. 25; R.A. FROSALI, Sistema penale, cit., vol. IV, p. 250 s.; G. LEONE, Trattato, cit., vol. II, p. 328; G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 18 s.; A. MELCHIONDA, Prova (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 661 s. In senso analogo i giudizi dei processualcivilisti sul codice di procedura penale: v. per tutti G.A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 228 s. (31) Cfr. A. MELCHIONDA, Studio sull’onere della prova nel processo penale, in Critica pen., 1969, p. 194 s.
— 1261 — rie. Si affermava in dottrina che l’istituto dell’onere della prova presupponeva un « giudice inattivo » (32) e pertanto non era configurabile quando al giudice era attribuita una « facoltà istruttoria suppletiva autonoma » (33). Tale argomento, fondato su una pretesa libertà illimitata del giudice nella ricerca della verità, poteva tuttavia condurre a negare l’esistenza solamente dell’onere formale e non anche di quello sostanziale. La prevalenza dei poteri inquisitori del giudice escludeva l’esistenza in ambito probatorio di un potere dispositivo delle parti, al quale l’onere formale in qualche misura si ricollega, ma non certamente l’operatività di una regola di giudizio sulla decisione del fatto incerto. Ulteriore fondamento alla tesi dell’inesistenza dell’onere della prova veniva ravvisato nella peculiare posizione del pubblico ministero nel processo. Essendo soggetto pubblico, istituzionalmente obbligato all’osservanza della legge, il pubblico ministero — si affermava — agisce solo per dovere e non per interesse (34), è organo di giustizia e non parte (35). Non si potrebbe dunque parlare di un conflitto di interessi del pubblico ministero con l’imputato (36); in altri termini non sarebbe configurabile una lite, considerata condizione essenziale perché l’onere possa funzionare come meccanismo di stimolo delle parti. L’assunto appare in realtà privo di consistenza. Si può convenire sul fatto che il pubblico ministero non è un organo necessariamente di accusa (37): perseguendo un interesse pubblico, egli ha, infatti, un obbligo istituzionale di accertare la verità (38), un dovere di correttezza e di lealtà in base al quale deve mirare alla condanna soltanto del colpevole. È tuttavia altrettanto sicuro che il pubblico ministero, nel momento in cui, esercitando l’azione penale, afferma la colpevolezza dell’imputato e ne chiede la condanna, mostra un interesse, sia pure non personale, in contrasto con quello dell’imputato e si assume l’onere di provarne la responsabilità (39). A ben vedere il motivo più valido per negare l’esistenza dell’onere formale nel sistema processuale del codice del 1930 era il mancato riconoscimento, in concreto, del diritto alla prova. (32) Così V. MANZINI, Trattato, cit., vol. III, p. 169. (33) E. FLORIAN, Principi, cit., p. 345. (34) F. CARNELUTTI, Prove civili e prove penali, in Studi di diritto processuale, vol. I, Padova, 1925, p. 210. Per analoghe considerazioni con riferimento al codice di procedura penale del 1988 v. A. MELCHIONDA, Prova in generale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg., Milano, 1997, p. 852. (35) Contra G.P. AUGENTI, L’onere della prova, Roma, 1932, p. 245. (36) G.A. MICHELI, L’onere della prova, cit., p. 234. (37) Cfr. G. CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale, 3a ed., Milano, 1969, p. 96 s. (38) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 477. (39) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 476.
— 1262 — Se concettualmente l’onere presuppone che il soggetto onerato abbia la reale possibilità di evitare le conseguenze negative collegate al suo mancato adempimento (40), nel caso in esame le parti dovrebbero avere effettivamente diritto al compimento degli atti processuali che esse reputano necessari. Nel sistema processuale previgente, invece, l’esistenza di un diritto alla prova, fortemente sostenuta ed argomentata dalla dottrina sulla base delle norme costituzionali ed internazionali (41), si traduceva nella prassi giudiziaria in non più di una mera aspettativa. Le parti potevano solamente formulare istanze probatorie che il giudice non era obbligato ad accogliere, avendo ampia discrezionalità tanto sui criteri di ammissione quanto sui tempi e sulle modalità della decisione (42). Da un lato, infatti, le norme facevano costante riferimento al generico parametro della « necessità ai fini dell’accertamento della verità »; dall’altro neppure era garantita una decisione immediata e distinta da quella conclusiva della fase. Il carattere prevalentemente inquisitorio del codice del 1930 ha indotto parte della dottrina (43) a ritenere esistente l’onere della prova nel momento della sola decisione, elaborandone una nozione fondata esclusivamente sulla regola di giudizio, sul rischio della mancata prova. 5. I principi fondamentali del codice di procedura penale del 1988. — Il codice di procedura penale del 1988 ha introdotto importanti innovazioni nella disciplina delle prove, tanto da far parlare di una vera e propria « rifondazione » (44) della materia. Da un lato il procedimento probatorio è stato regolamentato nei momenti fondamentali della ricerca, dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione della prova. Da un altro lato è stato accolto, pur con alcune eccezioni, il principio dispositivo (45): le parti hanno l’onere di ricercare le fonti di prova e di introdurre i mezzi (40) Cfr. M. TARUFFO, Onere della prova, cit., p. 67. (41) Cfr. G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p. 3 s.; M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, 3a ed., vol. II, Milano, 1984, p. 99 s. (42) F. CORBI, La disciplina dell’ammissione della prova nel processo penale, Milano, 1975, p. 238 s. in chiave critica individuava i principi regolatori del fenomeno dell’ammissione della prova nel « principio della riserva della prova al giudice », nel « principio della mancanza di autonomia della decisione sull’ammissione » e nel « principio della sussidiarietà dell’intervento delle parti ». (43) Cfr. G. DELITALA, Il « fatto » nella teoria generale del reato, Padova, 1930, p. 140, n. 2; G. BETTIOL, Presunzioni ed onere della prova nel processo penale, in questa Rivista, 1936, p. 253 s. (44) L’espressione è utilizzata da M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, p. 381. (45) Secondo E. AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, cit., p. XXXVII, « il nuovo sistema si caratterizza... come un processo di parti fondato sul principio dispositivo probatorio ».
— 1263 — di prova nel processo, nonché, ove si tratti di dichiarazioni, quello di formulare le domande (46). La ricerca delle fonti di prova spetta alle parti: in primo luogo al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria, che nella fase delle indagini preliminari compiono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le investigazioni necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ma anche alla difesa, avendo l’art. 38 disp. att. c.p.p., pur nella sua incompletezza, definitivamente legittimato l’indagine difensiva (47). Circa l’ammissione delle prove la regola generale, prevista dall’art. 190, comma 1, c.p.p., secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, comporta un vero e proprio ribaltamento di prospettiva rispetto al modello processuale previgente, basato, come detto, sull’iniziativa officiosa del giudice, alla quale oggi il comma 2 dell’art. 190 riserva invece un ruolo esclusivamente residuale. L’iniziativa probatoria, precedentemente monopolio del giudice, viene adesso attribuita in via prioritaria alle parti, alle quali è riconosciuto il « diritto alla prova », e cioè il diritto ad ottenere l’ammissione di tutte le prove richieste che non siano vietate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti. L’art. 190 c.p.p. non si limita infatti all’enunciazione del principio, ma individua gli specifici criteri in base ai quali deve essere accolta la richiesta di ammissione di un mezzo di prova, obbliga il giudice ad una pronuncia immediata sulle richieste delle parti e pone il contraddittorio quale passaggio obbligato per la revoca dei provvedimenti sull’ammissione della prova. È inoltre significativo che il codice richieda l’attuazione del contraddittorio tra le parti prima di qualsiasi ordinanza che comporti il diniego di acquisizioni probatorie (artt. 190 commi 1 e 3, 495 commi 1 e 4, 603 comma 5) (48). Anche nel momento dell’assunzione della prova il ruolo primario è svolto dalle parti, che, all’interno dei rispettivi « casi », presentano le proprie prove al giudice nell’ordine che ritengono più opportuno, « senza essere vincolate ad una successione predeterminata delle acquisizioni probatorie » (49), e formulano le domande. Al giudice spetta il controllo sull’ammissibilità delle domande. Rispetto al sistema previgente, dunque, il baricentro si sposta decisa(46) Cfr. G. FRIGO, sub art. 496, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. V, Torino, 1991, p. 199. (47) Cfr. P. TONINI, sub art. 22, in AA. VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 296 s. (48) Cfr. G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 14. (49) A. AVANZINI, L’esame dibattimentale delle fonti di prova personali, in La conoscenza del fatto, cit., p. 52.
— 1264 — mente dal potere d’ufficio del giudice all’iniziativa delle parti. Così operando, il legislatore mostra una chiara propensione per l’adozione del principio dispositivo (50): la disponibilità della prova è stata ritenuta la tecnica più idonea ad assicurare il contraddittorio ed a garantire la terzietà, anche psichica, del giudice. L’iniziativa probatoria viene affidata alle parti nella consapevolezza che il metodo dialettico e il contraddittorio sono i migliori strumenti per la ricerca e l’accertamento della verità, che emerge meglio dall’attività di parti contrapposte che non dalla solitaria ricerca di un giudice (51). Il codice di procedura penale del 1988 ha comunque accolto un principio dispositivo « attenuato », in quanto il potere attribuito alle parti non giunge a condizionare irrimediabilmente l’accertamento giudiziale. Terzietà ed imparzialità non significano passività, indifferenza del giudice rispetto alla definizione del processo secondo giustizia (52). L’istruzione non è un « affare delle parti » rispetto al quale il giudice ha funzione notarile, di mero arbitro. Quando le parti non abbiano esaurientemente illustrato il thema probandum il giudice può infatti intervenire d’ufficio sia formulando domande (art. 506, comma 2) sia assumendo nuovi mezzi di prova (art. 507). Diversamente da quanto accade nel giudizio civile, il principio dispositivo non si accompagna affatto al potere delle parti di disporre dell’oggetto del processo. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., impedisce di attribuire al pubblico ministero il potere di disporre dell’imputazione. Nemmeno l’imputato può disporre del proprio diritto di libertà, in quanto, a differenza del processo civile, la confessione non ha valore di prova legale. Nel nostro ordinamento il principio dispositivo non attiene dunque alla tutela giurisdizionale, ma esclusivamente alla tecnica di accertamento del fatto (53) e risulta comunque temperato da alcuni poteri residuali di iniziativa probatoria riservati al giudice. 6. L’onere della prova in senso formale. — Il testo del nuovo codice contiene varie norme che attuano il principio del diritto alla prova posto (50) Cfr. E. AMODIO, Il dibattimento nel nuovo rito accusatorio, in Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 203. Contra A. MELCHIONDA, Prova in generale (dir. proc. pen.), cit., p. 853, il quale nega l’esistenza di un « potere dispositivo » in tema di prove. (51) Cfr. P. FERRUA, Studi sul processo penale. II Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 185. (52) Anche negli ordinamenti di common law la cosiddetta « sporting theory », che attribuisce al giudice il ruolo di mero « arbitro sportivo » della contesa fra le parti, è stata da tempo superata. Cfr. M. SCAPARONE, « Common law » e processo penale, Milano, 1974, p. 147 s. (53) Cfr. E. AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, cit., p. XL.
— 1265 — dall’art. 190, evidenziando altresì l’esistenza di un onere di iniziativa probatoria delle parti (54). L’art. 468 c.p.p. pone, a pena di inammissibilità, uno specifico onere di indicazione, che investe determinati mezzi di prova, le relative fonti personali e l’oggetto di prova (55). Tale onere fa carico alle parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici ed è assolto mediante il deposito preventivo di un’apposita lista. L’art. 493 c.p.p. disciplina l’esposizione introduttiva ponendo a carico delle parti l’onere di indicare i fatti che intendono provare, in relazione ai quali il giudice valuta la non manifesta irrilevanza (56), e di richiedere l’ammissione dei mezzi di prova. Il sistema è tendenzialmente ispirato al principio della contestualità della deduzione probatoria: le parti devono formulare tutte le loro istanze istruttorie nell’esposizione introduttiva e il giudice con l’ordinanza di ammissione determina il contenuto dei « casi » (57). L’esposizione introduttiva è articolata in modo da riservare l’esordio al pubblico ministero, che uscirà « allo scoperto per sottoporre al giudice ed alla controparte la trama della sua ipotesi accusatoria » (58), mentre l’ultima parola spetta alla difesa dell’imputato. L’art. 496 c.p.p. prevede la stessa scansione temporale per l’istruzione dibattimentale, che inizia dunque con le prove richieste dal pubblico ministero (59) e si conclude con quelle della difesa. Le parti devono precisare l’ordine di assunzione dei mezzi di prova all’interno dei rispettivi « casi » (60). Emblematica appare la differenza rispetto al codice del 1930, in base al quale prima di iniziare l’assunzione delle prove si procedeva all’interro(54) Cfr. P. TONINI, L’attività di investigazione privata nel nuovo processo penale, in L’investigazione privata nel nuovo processo penale, a cura di P. Tonini, Padova, 1990, p. 253 s.; v. anche P.P. PAULESU, Presunzione, cit., p. 685 s. (55) Cfr. A. AVANZINI, L’esame dibattimentale, cit., p. 52 s. (56) Come osserva A. AVANZINI, I limiti dell’esposizione introduttiva e il controllo del giudice, in Dir. pen. e proc., 1996, 3, p. 361, « l’indicazione dei fatti rappresenta la soglia minima e necessitata, al disotto della quale non sarebbe assolto l’onere di definizione dell’oggetto dei mezzi di prova richiesti ». (57) Cfr. G. FRIGO, sub art. 496, cit., pp. 207-208. Nel processo di common law la difesa può invece attendere l’esito del case for the prosecution prima di decidere se aprire o meno il proprio caso (case for the defence) e quali prove introdurre. Cfr. V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1987, p. 141. (58) E. AMODIO, Il dibattimento nel nuovo rito accusatorio, cit., p. 198. (59) Secondo G. FRIGO, sub art. 496, cit., p. 208 « la precedenza al ‘‘caso’’ dell’accusa corrisponde all’onere probatorio, che appunto al pubblico ministero compete e che discende dalla presunzione di innocenza dell’imputato ». (60) Il diritto della parte di stabilire liberamente l’ordine interno del proprio « caso » « ha il suo referente testuale... nel 1o comma dell’art. 497, che, pur riferendosi solo all’ordine dei testimoni, altro non è se non l’espressione di una regola generale discendente dalla logica del sistema dei ‘‘casi’’ ». Così G. FRIGO, sub art. 496, cit., p. 209.
— 1266 — gatorio dell’imputato, che veniva « invitato a indicare le sue discolpe » (art. 441 c.p.p. 1930). L’art. 507 c.p.p. concretizza, invece, il disposto del comma 2 dell’art. 190, prevedendo una deroga alla regola generale secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte: « terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova ». In ordine ai limiti di operatività della norma in esame sono emersi, sia in dottrina sia in giurisprudenza, forti contrasti interpretativi (61), risolti poi da un intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione (62) e da una successiva sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale (63). Nell’interpretazione dei supremi organi giurisdizionali il potere officioso del giudice concerne tutte le prove comunque non precedentemente assunte, comprese quelle che le parti non hanno tempestivamente dedotto, ed anche in assenza di qualsiasi precedente acquisizione probatoria, a condizione che esse risultino dagli atti del giudizio e la loro assunzione appaia decisiva (64). È pure necessario che le parti siano poste in condizione di ottenere l’ammissione delle eventuali prove contrarie (65). Di fronte a tali riferimenti normativi non sembra possibile negare l’esistenza di un onere di iniziativa probatoria delle parti semplicemente richiamandosi ad una pretesa libertà del giudice di procedere all’accertamento della « verità materiale ». In realtà la contrapposizione tra verità materiale e verità formale, ritenute tipiche l’una del processo penale e l’altra del giudizio civile, appare arbitraria se non addirittura fuorviante (66). Ogni processo, pur nella diversità dei mezzi di accertamento, aspira alla ricerca ed all’accertamento della verità, di una verità tendenzialmente (61) Per una sintetica esposizione delle tesi contrapposte v. F.M. IACOVIELLO, Processo di parti e poteri probatori del giudice, in Cass. pen., 1993, p. 286. (62) Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, in Cass. pen., 1993, p. 280. (63) Corte cost., sent. 24-26 marzo 1993, n. 111, in Giur. cost., 1993, p. 901. (64) Il requisito dell’assoluta necessità « può dirsi esistente... in quanto il mezzo di prova risulti dagli atti del giudizio e la sua assunzione appaia decisiva ». Così Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., p. 284. (65) « ... all’ammissione di una prova nuova ai sensi dell’art. 507 il giudice non potrebbe non far seguire l’ammissione anche delle eventuali prove contrarie ». Così Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., p. 284. Diversamente verrebbe violato il diritto alla controprova, costituzionalmente tutelato dall’art. 24 Cost. In tal senso v. P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1994, pp. 1070-1071. (66) La netta contrapposizione tra verità materiale e verità formale era sostenuta da V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, Torino, 1932, pp. 184-185.
— 1267 — oggettiva, « presupposto per poter adeguatamente decidere quale sia la legge applicabile nel caso concreto » (67). Nessun modello probatorio garantisce, tuttavia, l’effettivo accertamento della verità reale. Il fatto non può essere constatato, in quanto appartiene ad un passato non riproducibile sperimentalmente (68); il giudice infatti « ricostruisce un passato che fu reale sulla base... dei fatti probatori del presente » (69). All’inizio del processo il fatto non è certo, ma ignoto, e deve pertanto essere ricostruito dal giudice secondo le regole che disciplinano il procedimento probatorio (70), utilizzando gli strumenti di convincimento previsti dalla legge (71). Data l’importanza dell’accertamento dei fatti, momento essenziale per l’applicazione del diritto al caso concreto, è infatti inevitabile un intervento legislativo che disciplini le modalità di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova (72), in modo da permettere la ricostruzione più attendibile possibile del fatto storico. Parte della dottrina (73) nega peraltro l’esistenza dell’onere della prova, rilevando che la Corte costituzionale ha affermato che il principio dispositivo in materia di prova « non trova riscontro né nei principi della legge delega né nel tessuto normativo concretamente disegnato dal codice » (74) e che l’art. 507 c.p.p., così come interpretato dalle Sezioni unite e dalla Consulta, consente al giudice di assumere d’ufficio anche mezzi di prova dai quali le parti siano decadute. Come già osservato (75), tuttavia, l’onere della prova non comporta che il giudice debba convincersi dell’esistenza di un fatto sulla base dei soli mezzi di prova introdotti dalla parte onerata, ben potendo egli trarre elementi di prova anche da quelli introdotti dalle altre parti o assunti d’ufficio (76). (67) G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 7. (68) Cfr. E. FASSONE, Dalla « certezza » all’« ipotesi preferibile »: un metodo per la valutazione, in questa Rivista, 1995, p. 1109. (69) Così P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1078. (70) « La prova consiste in un fatto noto da cui si desume l’esistenza di un altro fatto, ignorato e che si vuole accertare ». A. MALINVERNI, La sentenza di non luogo a procedere ed i problemi della prova, in Giust. pen., 1992, III, c. 194. (71) Si parla in dottrina di « verità giudiziale ». Cfr. G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 129; L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 131. (72) Cfr. G. UBERTIS, La ricerca della verità, cit., p. 16. (73) E. AMODIO, Rovistando tra le macerie della procedura penale, in Cass. pen., 1993, p. 2942; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1994, p. 264; L. MARAFIOTI, L’art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale, in questa Rivista, 1993, p. 842 s.; G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 98 s. (74) Corte cost., sent. n. 111 del 1993, cit., p. 916. (75) V. supra, § 3. (76) Cfr. P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1072, se-
— 1268 — Del resto l’interpretazione estensiva dell’art. 507 c.p.p. non appare tale da sconvolgere il modello probatorio delineato dal codice del 1988, che resta ispirato ad un principio dispositivo « attenuato ». Infatti è assicurata la priorità dell’iniziativa delle parti in quanto il giudice può esercitare il potere d’ufficio solo quando si è conclusa l’attività probatoria delle parti, se vi è stata (77). L’ambito di operatività del potere d’ufficio del giudice risulta così inversamente proporzionale alla professionalità delle parti (78) che, esercitando correttamente il loro diritto alla prova, limitano fino ad escluderla la possibilità di intervento ex officio del giudice. Il giudice non può « avvalersi dell’art. 507 per verificare solo una propria ipotesi ricostruttiva sulla base di mezzi di prova non dotati di sicura concludenza » (79). La condizione della rilevabilità ex actis del mezzo di prova da assumere e della sua decisività appare idonea ad « evitare incontrollabili iniziative giudiziarie » (80). L’art. 507 c.p.p. non individua un potere di autonoma investigazione del giudice dibattimentale, che non può « impegnarsi nell’accertamento di fatti e circostanze diversi da quelli dedotti nell’imputazione dal pubblico ministero » (81). Si tratta dunque di un’iniziativa probatoria suppletiva, complementare, cronologicamente successiva all’eventuale attività delle parti, subordinata ad una situazione di necessità, ad un’istruzione dibattimentale non esauriente, quando dagli atti emergano tematiche non sondate o non sufficientemente approfondite. Pertanto l’interpretazione estensiva dell’art. 507 non comporta l’insussistenza a carico delle parti dell’onere formale di introdurre i mezzi di prova idonei a dimostrare i fatti allegati. Tanto l’assolvimento quanto il mancato assolvimento di tale onere ha rilevanza giuridica. Alla parte che richiede l’ammissione dei mezzi di prova osservando le formalità ed i termini previsti nel codice, e così adempie l’onere della prova formale, è assicurato il conseguimento di un risultato giuridicacondo cui « non è possibile... enucleare dall’art. 27, 2o comma, Cost. un diritto dell’imputato ad esigere che le prove a carico siano fornite esclusivamente dall’accusatore o comunque dalle parti ». (77) La locuzione « terminata l’acquisizione delle prove » indica « il momento iniziale... e non il presupposto per l’esercizio del potere del giudice ». Così Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., p. 285. (78) G. ICHINO, Il giudice del dibattimento e la formazione della prova, in Quaderni C.S.M., 1989, n. 27, vol. I, p. 501; P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1073. (79) Così Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, cit., p. 284. (80) D. SIRACUSANO, Le prove, in D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1994, p. 380. (81) Così si esprime la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., suppl. ord. n. 2, 24 ottobre 1988, p. 60.
— 1269 — mente rilevante: l’ammissione dei mezzi di prova richiesti che non siano vietati dalla legge, manifestamente superflui o irrilevanti (82) e quindi l’assunzione delle prove ritenute idonee a convincere il giudice. La parte « inadempiente » subisce invece un immediato pregiudizio, consistente nella perdita del diritto all’acquisizione probatoria. Essa può ancora chiedere al giudice di esercitare il potere previsto dall’art. 507 c.p.p., ma questi non è obbligato a disporre l’assunzione delle prove: l’esito positivo della sollecitazione è subordinato al requisito dell’assoluta necessità ai fini della decisione, al fatto che il giudice ritenga l’istruzione non esauriente. Il mancato adempimento dell’onere formale fa sì che il diritto della parte all’ammissione di tutte le prove che non siano vietate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti si affievolisca in una « ben diversa facoltà di istanza — di ‘‘supplica’’, si potrebbe quasi dire — il cui sbocco positivo è tutt’altro che sicuro » (83). 7. L’onere della prova in senso sostanziale. — La presunzione di innocenza dell’accusato costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento al quale si riconnettono le più significative garanzie del « giusto processo ». Trattandosi di una presunzione, essa attiene anzitutto al diritto delle prove (84) e la sua prima conseguenza investe l’onere della prova. Come già rilevato, presumere l’imputato innocente equivale infatti ad affermare che egli non è tenuto a dimostrare la sua innocenza, ma spetta all’accusa dare la prova della sua responsabilità (85). Si tratta ovviamente di una presunzione legale iuris tantum, che vale fino a prova contraria (86). L’imputato non ha dunque necessità di provare alcunché fin quando la sua reità non sia stata provata dall’accusa. Tuttavia, una volta che il pubblico ministero ha dimostrato l’esistenza degli elementi costitutivi del reato, assolvendo così l’onere della prova, spetta alla difesa fornire prove che contrastino efficacemente quelle portate dall’accusa, dimostrando la mancanza di credibilità delle fonti ovvero l’inattendibilità degli elementi (82) Cfr. V. GREVI, Prove, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 4a ed., Padova, 1996, p. 242. (83) Così P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1069. (84) M. DELMAS-MARTY, La prova penale, in Indice pen., 1996, p. 615. (85) Cfr. C. cost., sent. 20-24 maggio 1991, n. 221, in Giur. cost., 1991, p. 1950, che, dichiarando infondata una questione di legittimità costituzionale degli artt. 208, 503, 506, 567 c.p.p., ha affermato che « la subordinazione dell’esame dell’imputato alla sua richiesta o al suo consenso assicura la conservazione del suo stato e della sua posizione in seno al dibattimento e impedisce che egli si trasformi in testimone volontario, fermo restando che non è affatto tenuto a discolparsi e che l’accusa deve provare la sua colpevolezza ». (86) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 474; A. GAITO, Onere della prova e processo penale. Prospettive di indagine, in Giust. pen., 1975, III, c. 521.
— 1270 — di prova di accusa o ancora fornendo prove a discarico. Se la difesa riesce a convincere il giudice, l’onere della prova torna a gravare sull’accusa, e così via (87). Fino alla sentenza definitiva l’onere della prova segue la dialettica delle parti e fa carico, di volta in volta, a quella contro cui la prova è stata raggiunta (88). Poiché, come detto, il momento in cui viene fornita la prova del fatto di regola non coincide con quello in cui il giudice si convince dell’esistenza dello stesso, le parti sono chiamate ad anticipare la valutazione del giudice, formulando un giudizio prognostico circa l’idoneità o meno degli elementi addotti a convincerlo (89). Si tratta di un giudizio di probabilità, in quanto fino al momento della decisione non è possibile sapere con certezza se l’onere di convincere il giudice è stato o meno soddisfatto. Ciò che le parti devono provare è, in sintesi, la reità o l’innocenza dell’imputato. Al fine di dare concretezza alla regola di giudizio occorre tuttavia stabilire con precisione quali fatti ciascuna parte deve provare e, di conseguenza, come viene ripartito il rischio della mancata prova. Il soggetto onerato della prova di un determinato fatto è colui che, ove quel fatto risulti indimostrato, subisce una decisione a suo pregiudizio. All’accusa spetta in primo luogo la prova della sussistenza del fatto criminoso e della sua commissione da parte dell’imputato, ma, sotto un profilo più generale, l’onere della prova comprende tutti gli elementi sfavorevoli all’imputato, comprese le circostanze aggravanti e gli indici di capacità criminale e di pericolosità (90). Spetta alla difesa provare che il fatto non è avvenuto, che l’imputato non ne è l’autore, che sussistono cause di giustificazione e di non punibilità, nonché la presenza di circostanze attenuanti e degli indici di attitudine sociale, in una parola tutti i fatti dai quali possono comunque derivare conseguenze favorevoli per l’imputato (91). Il criterio così delineato di ripartizione dell’onere della prova è analogo a quello previsto nel processo civile dall’art. 2697 del codice civile, che pone a carico dell’attore la prova dei fatti costitutivi del diritto azionato e a carico del convenuto quella dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi (92). Data la diversità strutturale fra il giudizio civile, in cui si controverte (87) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 476; P. TONINI, La prova penale, Padova, 2a ed., 1998, p. 22. (88) « ... gli oneri variano caleidoscopicamente... ». Così F. CORDERO, Procedura, cit., p. 850. (89) Cfr. A. MALINVERNI, La sentenza di non luogo a procedere, cit., c. 196. (90) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 480. (91) Cfr. A. MALINVERNI, Principi, cit., p. 480. (92) Recentemente Cass., Sez. IV, 27 marzo 1997, Proc. gen. App. Catanzaro in proc. Riccelli, in Cass. pen., 1997, p. 2875, ha affermato che il parametro logico-giuridico fornito dall’art. 2697 c.c. è « assurto a valore di principio generale del diritto processuale ».
— 1271 — su interessi equivalenti, e quello penale, laddove è riconosciuto prevalente il diritto dell’imputato alla propria libertà, tale criterio non può essere applicato automaticamente, e cioè trasferito sic et simpliciter, nel processo penale: la regola di giudizio dell’onere della prova deve combinarsi con il principio secondo cui il dubbio su un qualsiasi elemento comporta il proscioglimento dell’imputato (in dubio pro reo) (93). Tale principio è oggi codificato agli artt. 530 e 531 c.p.p. A norma dell’art. 530 il giudice pronuncia sentenza di assoluzione sia quando manca, sia quando è insufficiente o contraddittoria la prova di reità (comma 2), nonché quando l’esistenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità sia provata o dubbia (comma 3) (94). Il secondo comma dell’art. 531 prevede poi la pronuncia della sentenza di non doversi procedere anche in caso di dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato. L’adattamento all’ambito penale del criterio processualcivilistico è possibile distinguendo la questione dell’onere della prova, che individua il soggetto su cui ricade il rischio della prova mancata, da quella concernente la « quantità » di prova necessaria per assolvere l’onere, e cioè per convincere il giudice (95). Ferma restando la ripartizione fra accusa e difesa sopra delineata, il quantum di prova richiesto alle parti non è identico come nel processo civile, ma risulta differenziato (96). Rispetto ai fatti « costitutivi » la regola è la stessa del processo civile: l’accusa deve provarli al di là di ogni ragionevole dubbio, in quanto l’art. 530, comma 2, c.p.p. equipara la prova insufficiente o contraddittoria alla mancata prova. Per quanto poi concerne i fatti « impeditivi » ed « estintivi », nel processo civile essi devono essere accertati perché il giudice respinga la domanda dell’attore; pertanto il convenuto deve eliminare il dubbio sulla loro esistenza. Nel processo penale, invece, ai fini del proscioglimento dell’imputato è sufficiente che egli faccia sorgere un ragionevole dubbio sull’esistenza del fatto a lui favorevole (97). L’art. 530, comma 3, e l’art. (93) G. ILLUMINATI, La presunzione, cit., p. 117. (94) È stato così superato il contrasto tra la giurisprudenza e la maggior parte della dottrina in ordine alla possibilità dell’assoluzione per insufficienza di prove sull’esistenza delle scriminanti. (95) A. MALINVERNI, L’assoluzione, cit., p. 35. (96) G. ILLUMINATI, La presunzione, cit., p. 117; P. TONINI, La prova penale, cit., p. 24. (97) Poiché l’imputato non ha poteri coercitivi di ricerca delle fonti di prova, allo scopo di far sorgere nel giudice un ragionevole dubbio sull’esistenza di un fatto impeditivo (ad es., una causa di giustificazione o un alibi) egli potrebbe anche limitarsi ad un’allegazione che ponga in maniera sufficientemente dettagliata un determinato tema di prova (ad es., in caso di alibi, indicando il luogo esatto in cui si trovava e descrivendo con precisione le persone presenti). Cfr. P. TONINI, La prova penale, cit., pp. 25-26.
— 1272 — 531, comma 2, c.p.p. equiparano infatti il dubbio sulle cause di giustificazione, sulle cause personali di non punibilità e sulle cause di estinzione del reato alla prova delle stesse. Non è tuttavia consentito al giudice assolvere l’imputato quando la prova dei fatti predetti manchi del tutto (98). La regola dell’onere della prova pone fra le parti una ripartizione del rischio della prova « mancante », ma non di quella « incerta ». Mentre il fatto ignoto comporta una decisione sfavorevole alla parte onerata della prova di esso, l’incertezza si risolve sempre a favore della difesa in virtù del principio in dubio pro reo. Infatti l’incertezza dei risultati probatori impedisce di superare il dato di partenza, costituzionalmente garantito, che è rappresentato dall’innocenza dell’imputato. CORRADO QUAGLIERINI dell’Università di Firenze
Sull’onere di allegazione a carico dell’imputato v., con riferimento al codice di procedura penale del 1930, D. SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, Milano, 1959, p. 199 s. (98) « L’esimente ignota non esiste, alla lettera, nel quadro decisorio ». Così F. CORDERO, Procedura, cit., p. 853. V. pure E. MARZADURI, sub art. 530, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. V, Torino, 1991, p. 525.
CONCORSO EVENTUALE DI PERSONE E REATI ASSOCIATIVI
SOMMARIO: 1. Il concorso di persone nel reato: cenni. — 2. Il concorso ex art. 110 c.p. nei reati associativi. Posizione del problema e orientamenti giurisprudenziali. - 2.1. Critica di un modello di concorso esterno. - 2.2. La natura occasionale del vincolo tra i concorrenti ed i reati associativi. - 2.3. Il concorso di persone: tra funzione estensiva dell’ordinamento e funzione estensiva delle singole fattispecie penali. - 2.4. Il bene giuridico nei reati associativi e la tipicità dell’offesa. - 2.5. L’identificazione della condotta atipica di concorso esterno ed i confini del concetto di partecipazione tipica. — 3. L’elemento psicologico nel concorso esterno. - 3.1. La compatibilità del dolo specifico del partecipe con il dolo eventuale del concorrente esterno. - 3.2. Le conseguenze pratiche di una teoria estensiva della punibilità. — 4. Concorso morale: cenni. — 5. La sentenza della Corte di cassazione a Sezioni unite: alcune considerazioni critiche.
1. L’argomento oggetto d’indagine richiede una breve premessa sul concorso eventuale di persone nel reato, disciplinato dagli artt. 110 e segg. c.p. (1). Aspetto meritevole d’attenzione è quello della discussa compatibilità del concorso di persone nel reato con il principio costituzionale di stretta legalità. L’analisi giuridica prende spunto dalla distinzione esistente tra l’autore della fattispecie criminosa concorsuale ed il partecipe. Come è noto, infatti, si può concorrere nel reato o ponendo in essere una condotta integrante ex se la fattispecie criminosa (si suole, in questo caso, indicare il concorrente col nome di autore, o di coautore), ovvero mediante una condotta che — pur non essendo inquadrabile autonomamente nella norma penale incriminatrice — sia collegata a quella degli altri concorrenti, in modo da contribuire alla realizzazione della fattispecie criminosa (in questa seconda ipotesi si delineano le figure del complice, dell’istigatore, dell’ausiliatore, ecc...). Per inequivoca volontà del legislatore del 1930, l’istituto del con(1) Sul tema la bibliografia è amplissiva: cfr., tra le principali monografie, PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952; RANIERI, Il concorso di più persone in un reato, Milano, 1952; M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957; DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano, 1957; BOSCARELLI, Contributo alla teoria del concorso di persone nel reato: le fattispecie di concorso, Padova, 1958; PECORARO ALBANI, Il concorso di più persone nel reato, Milano, 1961; LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, 1964.
— 1274 — corso di persone nel reato ha ricevuto una disciplina unitaria caratterizzata dall’assenza di qualsiasi differenziazione, all’interno della fattispecie concorsuale, tra condotte dotate di tipicità normativa e condotte atipiche (2). L’importanza della predetta distinzione rispetto all’argomento in esame si coglie in tutta la sua rilevanza, quando si osservi che l’ipotetico concorrente nei reati associativi deve necessariamente porre in essere una condotta diversa da quella prevista per il socius, vale a dire che non può esserne l’autore poiché questa qualità è riconoscibile soltanto ai singoli associati. Tornando alla problematica più generale sul concorso di persone nel reato, da più parti è stata messa in dubbio la compatibilità dell’istituto con il principio costituzionale di stretta legalità, sotto lo specifico corollario del principio di tassatività, non essendo indicato (nell’art. 110 c.p.) alcun parametro di tipizzazione delle condotte di partecipazione non rientranti nello schema della norma incriminatrice di parte speciale (3). Infatti, la formulazione dell’art. 110 c.p. è quantomai vaga (se non tautologica) nella parte in cui sancisce che ‘‘quando più persone concorrono nel medesimo reato ciascuna di loro soggiace alla pena per questo stabilita’’. Tuttavia, il verbo concorrere non vale a specificare i criteri giuridici (né quelli logici) cui fare riferimento per l’individuazione della condotta del concorrente (4). La disciplina del concorso criminoso, oltre a mostrare elementi d’incompatibilità con il principio di stretta legalità, può — al contempo — apparire in contrasto con il principio di personalità della penale responsabilità, precisamente sotto il profilo della mancata specificazione legislativa (2) Veniva messa in discussione, pertanto, la stessa necessità di distinguere, all’interno dell’istituto, tra condotte concorrenti dotate di tipicità normativa e condotte atipiche di concorso (complice, ausiliatore, istigatore), in ossequio al dogma dell’equivalenza causale o, come è stato affermato, ‘‘sotto la macina livellattrice di una malintesa teoria dell’equivalenza delle condizioni’’ (DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, p. 190). Il criterio previsto dal codice Zanardelli, invece, tipizzava normativamente le varie ipotesi di condotte concorsuali ‘‘secondarie’’, come del resto avviene attualmente in altri paesi europei. La necessità della distinzione è recuperata dalla dottrina moderna, che auspica un ritomo al sistema della tipizzazione normativa delle ipotesi di partecipazione secondaria ed ha elaborato numerose teorie volte a giustificare il rapporto esistente tra le condotte principali e quelle secondarie di partecipazione criminosa. (3) Sul tema si vedano le interessanti osservazioni di DONINI, op. cit., p. 175 ss.; VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identifcazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, p. 1358 ss.; SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987; G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 100. (4) Cfr. BRICOLA, Commento all’art. 25, commi 2 e 3, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, 1981, p. 53 ss.; CONTENTO, Magistrature, giurisprudenza penale e potere politico, in Ind. pen., 1981, p. 45 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 3a, Bologna, 1995, p. 441.
— 1275 — del limite (qualitativo e quantitativo) di compartecipazione punibile. Per tale motivo, l’entità dell’apporto atipico al fatto criminoso altrui non trova parametri normativi volti a definire il confine tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui (5). In questa sede ci si limita, ovviamente, alla semplice enunciazione di una problematica giuridica di cui è nota l’ampiezza. È innegabilmente vero che la disciplina del concorso criminoso svolga una concreta funzione estensiva dell’ordinamento (6) — attuata mediante l’integrazione delle singole fattispecie di parte speciale — sia in virtù dell’accessorietà delle condotte atipiche rispetto a quella principale dell’autore (7), sia — secondo un altro orientamento dottrinale — attraverso la creazione d’autonome fattispecie plurisoggettive eventuali (8). La funzione estensiva dell’ordinamento del concorso criminoso vale, però, a riaffermare la problematica costituzionale sopra accennata e non certo a risolverla. A tal proposito, si è opportunamente precisato che l’effetto estensivo dell’istituto in esame non debba finire per stravolgere ‘‘la tipicità originaria delle singole fattispecie penali’’ (9). 2. In questo quadro s’inserisce il tema del concorso esterno nei reati associativi che — come detto — presuppone la realizzazione di una condotta atipica da parte del presunto concorrente. Infatti, il concorrente estraneo all’associazione, se realizzasse la condotta prevista per gli autori di detti reati, diverrebbe, evidentemente, socius dell’associazione criminosa e non concorrente ex art. 110 c.p. La fattispecie tipica è rappresentata dalle singole condotte di parteci(5) Cfr., in particolare, DONINI, La partecipazione, cit., p. 175 ss. (6) Sul punto la dottrina è quasi concorde; di diverso sono soltanto coloro i quali ritengano di aderire alla configurazione monistica del concorso criminoso, teoria con la quale si assume che chiunque contribuisca alla realizzazione del reato ne sia autore (c.d. concezione estensiva d’autore). Partendo da questa prospettiva, il concorrente è punibile già in virtù della norma incriminatrice di parte speciale. (7) Varie teorie dell’accessorietà sono state propugnate dalla dottrina a seconda che la configurabilità del concorso sia legata alla sussistenza di un fatto tipico (minima), ovvero antigiuridico e colpevole (limitata) o, infine, tipico antigiuridico e colpevole (estrema); LATAGLIATA, op. cit., p. 125 ss.; MORSELLI, Note critiche sulla normativa del concorso di persone nel reato, in questa Rivista, 1983, p. 415; PEDRAZZI, op. cit., p. 66 ss.; RANIERI, op. cit. p. 173 ss. (8) La teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, sostenuta da gran parte della dottrina moderna (cfr., soprattutto, DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva, cit. e M. GALLO, Lineamenti di una teoria, cit.), attribuisce all’istituto in esame una funzione creativa di autonome fattispecie rispetto alle singole disposizioni di parte speciale, quest’ultime incentrate sull’autore singolo. Pertanto, le condotte di partecipazione atipiche rileverebbero penalmente non per la loro accessorietà ad una condotta principale, bensì per la loro tipicità rispetto al fatto concorsuale visto autonomamente come nuova entità. (9) VIGNALE, Ai confini della tipicità, cit., p. 1359, nota 3, ed ivi citato M. GALLO, Lineamenti di una teoria, cit., p. 19 ss.
— 1276 — pazione ad un’associazione criminosa (secondo la costruzione monosoggettiva prevista per tali reati dal nostro ordinamento) (10), ovvero anche da quella del promotore, dell’organizzatore e del capo della societas sceleris; su queste ultime figure di partecipazione qualificata non appare opportuno dilungarsi, in quanto poco rilevanti per il tema in oggetto (11). Un rapido sguardo allo stato della giurisprudenza sul tema evidenzia un andamento abbastanza oscillante in ordine alla configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione, almeno prima che sul punto intervenissero le Sezioni unite della Corte di cassazione (12). Infatti, prima di quest’importante pronuncia, la Suprema Corte (ma anche la giurisprudenza di merito) ha più volte negato con molteplici argomentazioni la configurabilità giuridica del concorso ex art. 110 c.p. nei reati associativi (13). Un diverso orientamento giurisprudenziale ha ritenuto configurabile il concorso esterno nel reato associativo, ma solo nelle ipotesi di concorso morale (14). A tal proposito si è formulato il noto esempio (15) di un padre (vecchio mafioso, ormai da tempo uscito dall’associazione criminale) che, sollecitando il figlio ad entrare a fare parte della societas sceleris, (10) Sul punto la giurisprudenza è abbastanza costante: cfr., per tutte, Cass., 13 febbraio 1990, in Giust. pen., 1991, II, c. 147, m. 141; contra: VALIANTE, Natura plurisoggettiva della partecipazione all’associazione criminale, in questa Rivista, 1987, p. 50 ss.; INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, p. 148. (11) Appare, infatti, in concreto difficilmente configurabile un concorso esterno in tali particolari figure, tanto è vero che non è dato riscontrarne alcun esempio, almeno nella più recente giurisprudenza. Tuttavia, anche a volere configurare ipotesi di concorso esterno nelle fattispecie di organizzazione, promozione, o direzione dell’associazione criminosa, appare del tutto improbabile che il concorrente esterno non venga di fatto considerato, quantomeno, semplice associato e, quindi, punibile in qualità di partecipe all’associazione per delinquere. Contra, TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, p. 333 ss. Sul punto cfr. INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragion di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., 1995, II, c. 430; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 149. (12) Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss., con nota di IACOVIELLO. (13) Cass., 19 gennaio 1987, in Cass. pen., 1989, p. 34; Cass., 4 febbraio 1988, ivi, 1989, p. 1988; Cass., 21 marzo 1988, ivi, 1991, p. 223; Cass., 18 maggio 1994, ivi, 1994, p. 2680. (14) Cass., 21 marzo 1988, in Cass. pen., 1991, p. 223; Cass., 27 giugno 1989, in Riv. pen., 1990, p. 382; Cass., 18 marzo 1994, in Cass. pen., 1994, p. 2685: Trib. Agrigento, 13 luglio 1987, in Foro it., 1989, II, p. 54 ss., con nota di INGROIA. In dottrina, contrari alla configurabilità del concorso esterno: CONTENTO, Il concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, contributo dattiloscritto alla ricerca CNPDSCNR sulla riforma della parte generale del c.p.; INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, cit., p. 143 ss.; ID., Il concorso esterno nei delitti associativi, cit., c. 423; F. SIRACUSANO, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1870 ss.; MANNA, L’ammissibilità del concorso ‘‘esterno’’ nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in questa Rivista, 1994, p. 1189; MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, 1995. (15) SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 135.
— 1277 — concorra nel reato da questi commesso a titolo di concorso morale. L’istigatore, infatti, pur non realizzando la condotta del reato associativo (in altre parole, pur non partecipando), finirebbe per concorrere nel reato posto in essere dall’autore, se la sua azione (di spinta psicologica) possa essere collegabile con la condotta punibile (in altre parole quella dell’essere socius) da altri posta in essere. Secondo quest’ultimo orientamento — fuori del campo del concorso morale — non vi sarebbe spazio giuridico per ipotesi di concorso ex art. 110 c.p. nel reato associativo. Come si è anticipato, buona parte della dottrina e della giurisprudenza ha avvalorato la soluzione che ritiene ammissibile il concorso di persone nei reati associativi, senza porre alcuna distinzione tra concorso materiale e concorso morale. Questa tesi è adesso sostenuta anche dalla Cassazione a Sezioni unite, che è intervenuta sul tema per sciogliere il contrasto giurisprudenziale formatosi (16). 2.1. È utile approfondire alcuni punti in relazione a questa estesa ammissibilità dell’istituto del concorso criminoso nei reati di associazione. Si deve, anzitutto, evidenziare che i reati associativi si caratterizzano per la necessaria partecipazione di più soggetti alla fattispecie criminosa (cc.dd. a concorso necessario). In detti reati, però, il fatto tipico punibile è rappresentato dalla singola condotta di partecipazione. Il concetto è limpidamente espresso in un passo di una sentenza (17) della Corte di cassazione. ‘‘Sembra opportuno ricordare’’, si legge nella citata sentenza, ‘‘che il nostro sistema non prevede (come avviene in altri Paesi, anche europei) reati dell’associazione (‘reati associativi’), ma una serie di reati ‘di associazione’, con i quali, pur mirando a colpire nella loro esistenza quelle associazioni che sono ritenute incompatibili con l’ordinamento, colpisce i (16) Cass., 8 luglio 1983, in Cass. pen., 1985, p. 866; Cass., 8 febbraio 1984, ivi, 1986, p. 38, m. 4; Cass., 13 giugno 1987, in Cass. pen. mass. uff., 1987, n. 177.889 (con ivi altri richiami); Cass., 4 febbraio 1988, in Cass. pen., 1989, p. 1988, m. 1549; Cass., 5 ottobre 1994, ivi, 1995, p. 842 ss. In dottrina, seppure con posizioni variamente differenziate, sono favorevoli alla configurabilità del concorso ex art. 110 c.p. nei reati associativi: G.A. DE FRANCESCO, voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. pen., I, Torino, 1987; DE LIGUORI, Concorso eventuale e reati associativi, cit., p. 36 ss.; GROSSO, Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in questa Rivista, 1993, p. 1185 ss.; IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, p. 858 ss.: MILITELLO, Agevolazione e concorso nel progetto 1992, in Indice pen., 1993, p. 581 ss.; PACI, Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, in Cass. pen., 1995, p. 542 ss.; SPAGNOLO, op. cit., p. 135 ss.: TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 327 ss.; VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’ nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico-criminali, in questa Rivista, 1995, p. 1303 ss.; ID., Il tormentato cammino del concorso ‘‘esterno’’ nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, c. 561 ss. (17) Cass., 19 gennaio 1987, in Cass. pen., 1989, p. 34.
— 1278 — singoli per il fatto della loro partecipazione e gradua la loro responsabilità in funzione del ruolo da ciascuno svolto nell’attività dell’associazione’’. Come si vedrà in seguito, i sostenitori della configurabilità del concorso eventuale nei reati di associazione prendono le mosse da un argomento logico (18), che contiene in sé il vizio di non considerare la netta distinzione esistente tra i reati di associazione ed i reati dell’associazione; questi ultimi — come detto — non previsti dal nostro ordinamento (19). Con questa tesi, infatti, si tende a racchiudere la fattispecie di concorso esterno entro uno schema logico-giuridico individuabile in tutte quelle condotte di quei soggetti, i quali — pur non facendo parte dell’associazione — prestino alla stessa un contributo (seppure in via occasionale) eziologicamente idoneo a rafforzare l’associazione medesima, ovvero utilmente indirizzato a consentire alla societas sceleris il raggiungimento dei suoi scopi. L’osservazione che dovrebbe balzare subito agli occhi — con riferimento a questo modello interpretativo — è che, in tal modo, si determina un atipico concorso tra l’extraneus e l’associazione intesa come entità superindividuale. Si assiste, cioè, ad un processo di ‘‘soggettivizzazione’’ della societas sceleris, che conduce ad attribuire alla stessa una veste giuridica autonoma rispetto ai fatti di singola partecipazione, e si finisce per porre in relazione causale la condotta del concorrente esterno con l’intera realtà associazione (20). Questo discutibile processo di personificazione del fenomeno associativo è più coerente in figure giuridiche di modello civilistico, che non certo penalistico (societas delinquere non potest) (21) e — a ben vedere — la critica vale anche quando si faccia riferimento agli scopi dell’associazione, in quanto gli scopi — cui l’extraneus darebbe un contributo — si distaccano dalla singola partecipazione e si allontanano anche dal quadro normativo di riferimento, perché gli stessi non rappresentano giuridicamente l’evento dei reati in questione. Per altro verso, se si vuole rispettare un criterio di confluenza di tipo causale-condizionalistico (al fine di valutare la sussumibilità della con(18) Argomento ripreso anche nella sentenza delle Sezioni unite della Cass., 5 ottobre 1994, cit. (19) Sull’argomento, per un approfondito esame della prospettiva dogmatica, cfr. PALAZZO, Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in questa Rivista, 1976, p. 418 ss. In senso conforme al testo, e cioè alla necessità di distinguere concettualmente il reato associativo ed il reato di associazione, Trib. Agrigento, 23 luglio 1987, cit. (20) Sembra seguire questo modello VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’, cit., p. 1327 ss., ove si assume che il ‘‘mega evento associazione’’ sia idoneo a rappresentare l’elemento di riferimento eziologico della condotta del concorrente esterno, proponendosi, inoltre, di impiegare due diversi modelli di imputazione causale, a seconda che si debba fare riferimento al socius ovvero all’extraneus. (21) Sul tema, in generale, cfr. BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 954 ss.; più in particolare, PALAZZO, Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, cit., p. 418 ss.
— 1279 — dotta atipica nella fattispecie concorsuale), allora il secondo termine della relazione eziologica dovrà essere ricercato necessariamente all’interno degli elementi che conferiscono tipicità alla fattispecie criminosa, e non in sue arbitrarie estensioni. Sulla scorta di questa considerazione gli elementi da porre in relazione eziologica dovranno essere, da una parte, la condotta atipica (causante) e, dall’altra, gli elementi tipici della fattispecie incriminatrice (22). È bene precisare, però, che il reato di associazione è privo di evento naturalistico, in quanto lo stesso rientra tra i reati formali (22) In ordine all’elemento del contributo del singolo concorrente nella realizzazione del reato, la dottrina è ampiamente divisa, soprattutto, riguardo alla scelta del criterio condizionalistico da applicare all’istituto del concorso criminoso. Sul punto non sono mancati dissensi sulla stessa applicabilità di criteri condizionalistici all’istituto medesimo (cfr. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, in studi di dir. pen. raccolti da G. Delitela, Milano, 1966, p. 51 ss.; ID., Principi di diritto penale, parte generale, 5a ed., Milano, 1996, p. 555 ss.). La giurisprudenza prevalente si è attestata su una posizione che ritiene necessario un apporto del singolo partecipe apprezzabile sotto il profilo causale nella realizzazione del reato, seppure con le più diverse sfumature in ordine al criterio condizionalistico da applicare. Indipendentemente da un precisa presa di posizione sul tema (riguardante la scelta del criterio condizionalistico da applicare all’istituto del concorso di persone) appare pregiudiziale, per affrontare il tema del concorso esterno in associazione, rispondere ad alcune domande. Infatti, ci si dovrebbe chiedere: ma di che cosa deve essere causa la condotta del concorrente extraneus all’associazione? Ovvero — in termini specularmente opposti — quali effetti devono scaturire dalla condotta dell’extraneus all’associazione, affinché possa dirsi integrato il concorso criminoso in detti reati? Infine, rispetto a quali elementi (normativo-fattuali) della fattispecie criminosa deve essere valutato il contributo causale della condotta dell’extraneus? In altre parole, si devono predeterminare i termini di relazione causale da prendere in giuridica considerazione (cfr., sul tema, VIGNALE, op. cit., p. 1360 ss.). Orbene, l’astratta applicabilità del concorso criminoso a tutti i reati previsti dalla legislazione penale (compresi quelli necessariamente plurisoggettivi) non deve sottrarre l’interprete dal rendere intelligibile il criterio di individuazione del campo di effetti conseguenti alla condotta del concorrente, cioè la predeterminazione del secondo termine di relazione causale. Questo campo di effetti, infatti, deve essere predeterminato o — quanto meno — devono essere predeterminati i criteri che conducono alla sua individuazione, proprio in ossequio al principio di legalità. La fattispecie criminosa si compone di una condotta cosciente e volontaria posta in relazione causale rispetto ad un fatto che può consistere in un evento naturalistico, oppure riconnettersi ad un fatto giuridico formale. Ebbene, questi elementi — condotta, nesso di causalità ed evento naturalistico (se, ed in quanto, normativamente configurato) — devono rappresentare gli unici parametri di riferimento eziologico nell’applicazione dell’istituto del concorso di persone nel reato. Un’interpretazione elusiva del citato criterio di individuazione del secondo termine di relazione causale dà luogo, a nostro sommesso avviso, ad una palese violazione del principio di stretta legalità, poiché in tal modo si consente un’inammissibile estensione della tipicità originaria della norma incriminatrice. Ciò che si contesta, nella comune applicazione del concorso esterno nel reato associativo, è la possibilità di scegliere l’associazione quale secondo termine di relazione causale anziché le singole condotte di partecipazione punibili. A ben vedere, infatti le condotte tipiche sono quelle del promotore, dell’organizzatore, del capo, ovvero quelle monosoggettive del singolo partecipante, e si tratta in tutti questi casi di reati formali o di pura condotta. Nella configurazione normativa, l’associazione criminosa (come entità superindivi-
— 1280 — o di pura condotta; perciò, il frutto delle condotte tipiche (l’associazione) non può rappresentare il secondo termine di relazione causale della condotta del concorrente esterno, vale a dire che l’associazione personificata non può rappresentare il ‘‘luogo’’ in cui osservare un qualche effetto giuridicamente rilevante, perché in tal modo si costruirebbe artificiosamente un evento naturalistico non previsto dalla norma incriminatrice. La condotta atipica del concorrente esterno, quindi, non può essere posta in relazione con l’intera realtà associativa, perché quest’ultima non rappresenta giuridicamente l’evento dei reati in parola. Invero — nei reati privi di evento naturalistico — l’unico termine di riferimento causale giuridicamente rilevante può essere rappresentato dalla sola condotta dell’autore (o degli autori) del reato. Una diversa impostazione determina un’indebita estensione della fattispecie tipica, attuata mediante l’arbitraria scelta del ‘‘campo di effetti’’ su cui viene proiettata la condotta atipica. La singolare forma di partecipazione criminosa, avanzata dai sostenitori dell’ammissibilità del concorso esterno in associazione, incentrata sul contributo dato dall’extraneus all’intera realtà associativa, incontra la critica sopra prospettata, in quanto il nostro ordinamento non prevede reati dell’associazione, ma solo reati di associazione (23); quindi l’unico termine di riferimento causale giuridicamente rilevante (ai fini della sussiduale) non rappresenta né la condotta oggetto di incriminazione, né il suo evento; quindi la societas sceleris, nel suo complesso, non può rappresentare il secondo termine di relazione eziologica, cioè il termine di riferimento rispetto al quale valutare l’influenza della condotta atipica dell’extraneus (di diverso avviso, VISCONTI, Il concorso ‘‘esterno’’ nell’associazione mafiosa, cit., p. 1328, ove si afferma che il secondo termine di relazione causale possa essere rappresentato dal ‘‘mega evento associazione’’). Seguendo questo criterio, peraltro, si superano molte di quelle difficoltà, in cui ci si viene a trovare quando si debba valutare la sussistenza (o meno) di una fattispecie di concorso realizzata mediante condotta atipica. Infatti, le condotte atipiche (condotte causanti) scontano già il pregiudizio insito nella loro indeterminatezza (proprio perché atipiche). Tuttavia, se anche il secondo termine di riferimento eziologico assume la caratteristica della variabilità, allora si può finire per sconfinare nella concreta lesione del principio di stretta legalità. Ciò accade, ad esempio, quando si ponga in relazione causale la condotta atipica con un elemento normativamente estraneo alla tipicità della fattispecie incriminante. Per concludere, nell’applicazione dell’istituto del concorso, tanto più ci si discosta dagli elementi tipici della fattispecie incriminante, tanto più si finisce per fare assumere all’istituto una funzione estensiva della tipicità originaria delle singole fattispecie penali. Una ponderata applicazione del criterio causale, quale criterio di selezione per la sussistenza di un’effettiva confluenza eziologica delle condotte atipiche rispetto al reato di associazione per delinquere, conduce ad un approccio al tema scevro da una preconcetta esclusione della configurabilità del concorso eventuale nei reati associativi. A ben vedere, però, una corretta applicazione di tale criterio di confluenza contribuirebbe a mitigare il pregiudizio per il principio di legalità, che ha già connotati di notevole fragilità all’interno dell’istituto del concorso criminoso, contribuendo ad annullarne le innate potenzialità lesive del diritto di ogni cittadino di conoscere, anzitempo, il limite che separa il campo della liceità da quello della illiceità. (23) Cfr. Cass., 19 gennaio 1987, cit., p. 35; Trib. Agrigento, 23 luglio 1987, cit.
— 1281 — stenza del concorso esterno) potrà essere individuato nelle singole condotte di partecipazione nel reato di associazione e poste in essere dagli autori dei reati in oggetto (24). A queste considerazioni non si può replicare, peraltro, sostenendo che i reati senza evento naturalistico possano avere quale elemento di riferimento eziologico il c.d. evento giuridico, vale a dire l’antigiuridicità intrinseca al comportamento e che s’identifica nella lesione del bene giuridico oggetto di tutela penale, poiché — in tal modo — si determinerebbe un’evidente violazione di uno dei principi fondamentali del nostro sistema penale, cioè quello di frammentarietà. S’insegna, in virtù di tale principio, che la lesione del bene giuridico assurge a rilievo penale solo quando si accompagni anche al concetto di tipicità, intesa come specificazione normativa della ‘‘modalità di lesione’’ (25). Tuttavia, nei reati di associazione la modalità lesiva del bene giuridico tutelato è stata indicata dal legislatore nella condotta di partecipazione in qualità di socius ad un’associazione per delinquere. Non si può prospettare, quindi, una diversa ‘‘modalità lesiva’’ senza sostituirsi (di fatto) al legislatore. Quanto detto non esclude, ovviamente, che nella modalità lesiva tipica si possa concorrere con condotte diverse da quella prevista dalla norma penale (per l’appunto attraverso le norme che disciplinano il concorso di persone nel reato); tuttavia, il criterio di confluenza — impiegato a tal fine — non può essere utilizzato per aggirare la tipicità della fattispecie incriminatrice. Conseguentemente, le condotte, che non abbiano ex se quel tipo di modalità lesiva, per divenire punibili (a titolo concorsuale) devono essere poste in relazione con quelle che abbiano quella specifica modalità lesiva, ovvero con l’evento naturalistico — che dalle condotte tipiche consegue — ma solo quando quest’ultimo sia oggetto di configurazione normativa. Sulla scorta di queste osservazioni appare di tutta evidenza la lesione che si apporta al principio di stretta legalità, quando si avalli una interpre(24) Il rilievo, che non tutti i reati siano strutturati con un evento naturalistico, ha fatto propendere parte della dottrina a ritenere i criteri causali o condizionalistici non sempre utilizzabili al fine di tipizzare (con lo strumento normativo di cui all’art. 110 c.p.) la condotta del partecipe. Si è rilevato, infatti, che nei reati di pura condota tale relazione eziologica non sarebbe concretamente ipotizzabile (cfr. A. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe, cit., p. 51 ss.; ID., Principi di diritto penale, cit., p. 555 ss.). Per quanto autorevolmente sostenuta questa tesi non è maggioritaria in dottrina, mentre la giurisprudenza ha più volte ribadito la necessità di stabilire un criterio eziologico di confluenza concorsuale. All’obiezione avanzata — in ordine all’inutilizzabilità di criteri condizionalistici nei reati senza evento naturalistico — è stato condivisibilmente replicato (cfr. VIGNALE, Ai confini della tipicità, cit., p. 1363), che il nesso eziologico, in questi reati, ben possa essere rapportato alla sola condotta dell’autore. (25) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 34: ‘‘il disvalore penale di un comportamento si riconnette proprio alle modalità di aggressione del bene protetto’’.
— 1282 — tazione che àncora il criterio di confluenza concorsuale alla mera lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Queste considerazioni assumono anche maggiore pregnanza quando si osservi che i reati in esame sono stati disegnati dal legislatore come fattispecie criminose a condotta libera, perciò il contributo del terzo dovrebbe essere misurato rispetto ad un evento giuridico, pur in mancanza di alcun riferimento concreto in ordine all’oggetto di detto bene o di alcuna specificazione della condotta idonea ad offenderlo, se non quella onnicomprensiva dell’essere socius, ovvero — per restare ancorati al dato normativo — quella di ‘‘partecipare all’associazione’’. Si sconfina, in tal modo, nella pura astrazione, tutto ciò aggravato (ammesso che di più si possa) dall’ineffabilità del concetto di ordine pubblico, cioè del bene giuridico tutelato dalle norme nei reati di associazione. In ultima analisi, si dovrebbe misurare il contributo della condotta dell’extraneus rispetto ad un oggetto giuridico già di per sé inafferrabile e di cui lo stesso legislatore non ha indicato con precisione i modi per la sua effettiva lesione (26). Si potrebbe, quindi, concludere che in questo caso si determina l’incontro tra due modelli normativi (artt. 110 e 416 c.p.) in cui è facile scorgere notevoli carenze in ordine al rispetto dei canoni costituzionali di tassatività e determinatezza; perciò, l’effetto sinergico, che si produce dalla loro simbiotica applicazione, è letteralmente devastante del principio di stretta legalità (27). 2.2. Nella prospettiva sopra esposta si determina, inoltre, una distorta rappresentazione del vincolo che normalmente unisce i soggetti concorrenti nel reato. Questo vincolo deve avere i connotati della ‘‘occa(26) Sul contenuto offensivo dei reati associativi, cfr.: DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 78 ss.; G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive, cit., p. 65 ss.; IACOVELLO, Ordine pubblico e associazione per delinquere, in Giust. pen., 1990, II, c. 42 ss.; ID., L’organizzazione criminogena prevista dall’art. 416 c.p., in Cass. pen., 1994, p. 574, dove, tra l’altro, si afferma: ‘‘Solo che qui è il bene giuridico, prima ancora che il pericolo, ad essere astratto. L’astrattezza del pericolo non è che il riflesso dell’astrattezza del bene giuridico. In questo caso il pericolo è veramente astratto, ma nel senso che astrae dal reale. Invero, quando il bene giuridico e impalpabile, per non dire metafisico (nel senso di refrattario ad ogni procedura di controllo empirico), l’offesa al bene non è verificabile e neppure è concepibile un giudizio di idoneità offensiva della condotta incriminatrice. Allora occorrono scorciatoie intellettuali per porre un legame tra condotta criminosa e bene giuridico: soccorre all’uopo la tecnica normativa del pericolo presunto: il pericolo è presunto, perché il bene è inoffendibile’’. (27) Cfr., per un’acuta critica del modello normativo dell’art. 110 c.p., in relazione alla responsabilità dei membri dell’associazione nei singoli reati scopo, G.A. DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive nella risposta penale alle forme di cooperazione in attività mafiosa, in Cass. pen., 1996, p. 3487 ss.
— 1283 — sionalità’’, poiché tale caratteristica — secondo autorevole dottrina (28) — permette di distinguere l’istituto del concorso di persone, per l’appunto, dai reati di associazione (29). Conseguentemente, il vincolo occasionale nella commissione di uno o più reati deve essere riscontrabile tra il socius e l’extraneus concorrente e non, invece, tra quest’ultimo e l’intera realtà associativa personificata. Il difetto principale della configurazione giuridica sopra criticata — sinteticamente espressa nel contributo volontario ed occasionale prestato da un soggetto esterno all’associazione criminosa — consiste nell’individuare (o nel far sorgere) un atipico vincolo, seppure occasionale, tra un extraneus e l’associazione medesima. A ben vedere, seguendo questa tesi non sarebbe necessario che i socii intranei siano coinvolti nel contributo apportato dal terzo all’associazione. Questo rapporto, infatti, non è ricostruito in chiave di accessorietà della loro partecipazione, ma in chiave di apporto funzionale o, se si vuole, in termini di efficienza causale rispetto all’intera realtà ‘‘associazione’’. Pertanto, non sarebbe, in ipotesi, affatto necessario che i soci concorrano con la loro condotta con quella del terzo estraneo, e ciò proprio perché il contributo del terzo può essere reso direttamente all’associazione senza alcun collegamento con la condotta dei soci. Orbene, ammesso per assurdo che un tale vincolo (tra l’extraneus e l’associazione) possa essere giuridicamente configurato, quel che non viene adeguatamente posto in luce è che l’associazione rappresenta la fattispecie oggetto di reato e non il soggetto con cui poter partecipare dall’esterno o, per meglio dire, con cui si possa concorrere. Si può, infatti, ipotizzare il concorso di una persona con un’altra persona per realizzare un reato, ma non si può ipotizzare il concorso di una persona con il reato (vale a dire l’associazione per delinquere) per realizzare il reato medesimo. Ebbene, l’evidente antinomia — sopra provocatoriamente prospettata — è la conseguenza indiretta di una prassi linguistica, che ha portato a personalizzare le associazioni criminali, alle quali è ormai consuetudine assegnare un nome specifico (cosa nostra, sacra corona unita, ’ndrangheta, camorra, ecc...); perciò si sente comunemente dire, per esempio, che: ‘‘tale associazione ha effettuato un vasto traffico di sostanze stupefacenti’’; ‘‘tale associazione ha riciclato’’. Tuttavia, l’innegabile utilità pratica e sociologica di queste sintetiche espressioni non può ottenebrare la dimensione del tutto umana del reato. Se si affermasse che una determinata persona abbia concorso con un’associazione in un determinato reato (per esempio un omicidio, una (28) FIANDACA-MUSCO, Dir. pen., parte gen., cit., p. 437. (29) Cfr.: DEL CORSO, I nebulosi confini tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, in Cass. pen., 1985, p. 623 ss.; DE VERO, Tutela penale, cit., p. 264 ss.; RAMPIONI, Nuovi profili del reato continuato, in questa Rivista, 1978, p. 648 ss.
— 1284 — strage, un traffico di sostanze stupefacenti, ecc.) e non, invece, con i membri singolarmente individuati, ebbene, probabilmente tal errata rappresentazione del concorso di persone nel reato sarebbe notata anche da chi non è particolarmente addentro in argomenti giuridici. Infatti, il concorso nei reati scopo di un’organizzazione criminale si determina tra il concorrente estraneo all’associazione e quei soci della societas sceleris (individualmente determinati), i quali abbiano specificamente partecipato alla loro realizzazione (30). Non a caso l’istituto disciplina il concorso di persone nel reato e, con il termine persone, la norma si riferisce al contenuto ‘‘biologico’’, e non giuridico, che alla medesima espressione potrebbe essere attribuito. Tuttavia, quando si affermi, in forma ellittica, che un soggetto concorre dall’esterno nel reato di associazione criminosa (e s’individua nell’associazione personificata l’elemento di riferimento causale di detto concorso), allora, s’incorre nell’errore di prestare spazio ad un ‘‘antropomorfismo associativo’’ sconosciuto nel nostro diritto penale, nel quale vige, al contrario, una dimensione del tutto ‘‘umana e personale’’ del reato. Orbene, su queste osservazioni sembra facile ottenere consenso, trattandosi di deduzioni fondate su principi di carattere generale ed unanimemente condivisi. Tuttavia, non si può tralasciare l’analisi di una possibile obiezione tendente a porre in luce che il linguaggio utilizzato dalla giurisprudenza possa essere (seppure impropriamente) metaforico, per cui si potrebbe sostenere che la descrizione sintetica del contributo esterno all’intera realtà associativa personificata sottintenda, in effetti, non già un apporto all’associazione in quanto tale, bensì un contributo in favore di una pluralità di associati, seppure, in forma indifferenziata. L’obiezione, però, non intacca le ragioni di una riflessione di fondo e cioè che il binomio linguaggio-realtà finisce spesso per avere rapporti simbiotici di notevolissimo rilievo, per cui la distorsione del linguaggio può finire per incidere sensibilmente sulla rappresentazione della realtà e ciò, soprattutto, quando l’improprietà linguistica si inserisca in un procedimento valutativo dei comportamenti umani (con tutte le implicazioni pratiche che ne derivano). Conseguentemente, svelare la distorsione del linguaggio assume una dimensione che trascende il puro esercizio scolastico ed afferisce ad un concreto smaltimento di quelle fattispecie impropriamente concorrenti, poiché impropriamente metaforiche e, quindi, giuridicamente errate. Infatti, con quanto sopra affermato, non si vuole sostenere che — all’interno dello schema interpretativo contestato — non possano essere individuati specifici contributi esterni, che possano trasfondersi in un apporto funzionale alla partecipazione altrui. Tuttavia, la cri(30) Sull’argomento cfr., in particolare, G.A. DE FRANCESCO, Paradigmi generali, cit., p. 3489 ss.
— 1285 — tica mossa mantiene tutta la sua validità teorica, oltre che la sua efficacia pratica, perché conduce ad escludere l’integrazione del concorso esterno in moltissimi casi — al vaglio della giurisprudenza negli ultimi anni — in cui la distorsione linguistica ha prevalso sulla corretta interpretazione dell’istituto del concorso nei reati di associazione. 2.3. È bene riaffermare che l’istituto del concorso consente l’estensione della condotta (quale modello legale tipico di commissione del reato), ma non può consentire l’estensione della fattispecie di reato in cui si concorre, vale a dire degli elementi normativi che, conferendogli tipicità, devono essere posti a riferimento nella valutazione eziologica della condotta del concorrente extraneus. Una diversa interpretazione, oltre che di dubbia costituzionalità, è molto rischiosa e gravida di conseguenze giuridiche inaccettabili: una tra le più evidenti è quella che il presunto concorrente potrebbe essere punito per un fatto non previsto dalla legge come reato (o da quel reato), in quanto la sua condotta sarebbe proiettata non sugli elementi che conferiscono tipicità alla fattispecie, ma su una loro arbitraria estensione, e per ciò stesso, quindi, in un’ipotesi atipica. La sintetica rappresentazione della condotta di concorso esterno avanzata dai sostenitori della tesi sopra criticata, a ben vedere, può essere un valido esempio di proposta de iure condendo di nuova norma incriminatrice, che potrebbe essere così formulata: ‘‘Chiunque, pur non partecipando ad un’associazione per delinquere, tuttavia, ponga in essere una qualunque attività, che sia idonea a rafforzare l’associazione stessa, ovvero, a consentire il raggiungimento dei suoi scopi, è punito con la pena...’’. In tal senso, ove tale norma fosse contenuta nel nostro ordinamento, non sarebbe neppure necessario ipotizzare un vincolo di concorso tra l’extraneus e gli autori del reato di associazione, in quanto, non dovendo seguire il modello concorsuale (appunto, in virtù dell’esistenza di un’autonoma fattispecie incriminatrice), l’apporto del terzo extraneus potrebbe essere del tutto sganciato (sia sotto il profilo psicologico, sia eziologico) da quello dei socii intranei. Queste osservazioni dimostrano, però, quanto sia fallace una tesi del concorso esterno nel reato di associazione (nei termini sopra prospettati), e ciò perché non si può sganciare il contributo del terzo da quello del socio in assenza di una nuova norma incriminatrice che consenta questo nuovo modello di autonoma imputazione. Una norma con questo contenuto non è inserita nel nostro ordinamento (31), neppure per via dell’ef(31) A ben vedere una norma di tal tenore è inserita nel nostro ordinamento e precisamente nell’art. 7 della l. n. 203/91 che recita: ‘‘Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., ovvero al
— 1286 — fetto estensivo insito nell’istituto del concorso criminoso, perciò l’applicazione (nei predetti termini) dell’istituto concorsuale ai reati di associazione non sortisce soltanto l’effetto estensivo dell’ordinamento, ma determina anche l’estensione della tipicità originaria delle singole fattispecie penali (32), ponendo l’interprete nella funzione di ‘‘creatore del precetto penale’’. 2.4. Altra prospettiva da non sottovalutare è quella attinente al bene giuridico oggetto di tutela nel reato di associazione per delinquere e alla struttura permanente dei reati in esame (33). Questi reati sono posti a tutela dell’ordine pubblico e svolgono una funzione di tutela anticipata, in quanto si determina la punibilità per il solo fatto di partecipare ad una struttura potenzialmente lesiva e perturbatrice dell’ordine pubblico. Ciò indipendentemente dalla specifica realizzazione dei cc.dd. reati fine: questi ultimi, oltre a ricevere un trattamento punitivo del tutto distinto, potrebbero non essere realizzati dal singolo partecipante. Sulla base di tale costruzione i reati di associazione si connotano per essere di pericolo presunto, con un notevole avanzamento della soglia di tutela penale (34). Altra caratteristica, legata alla tipologia dei reati in oggetto, è quella della loro struttura permanente. Quest’ultima caratteristica si deve porre in stretta correlazione con il bene giuridico tutelato, in quanto il pericolo per l’ordine pubblico scaturisce (anche e soprattutto) dalla citata permanenza del reato. Pur non addentrandoci oltre nell’analisi, è necessario confrontare gli effetti di quanto sopra esposto con il tema del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere. Accettando, infatti, la tesi della configurabilità del concorso in associazione — nei termini sopra criticati — si ha modo di osservare anche uno sfalsamento con il bene oggetto di tutela penale, poiché l’ipotetico concorrente esterno (il quale apporti un contributo occasionale ed eziologicamente idoneo a rafforzare l’associazione, ovvero idoneo ad agevolare la realizzazione dei suoi scopi) non pone in fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà’’. La configurazione giuridica data alla condotta agevolatoria dell’associazione di tipo mafioso (e non del singolo associato), cioè la previsione di una circostanza aggravante, è apparso un argomento a favore della tesi contraria alla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Cfr., in particolare, F. SIRACUSANO, op. cit., p. 1870 ss., cui sembra replicare la sentenza della Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, cit., con argomentazioni critiche, peraltro, convincenti. (32) M. GALLO, Lineamenti di una teoria, cit., p. 19. (33) Cfr. i rilievi di IACOVELLO, L’organizzazione criminogena prevista dall’art. 416 c.p., in Cass. pen., 1994, p. 574 ss. (34) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, vol. I, 1a ed., Bologna, 1988, p. 354.
— 1287 — pericolo il bene giuridico oggetto di tutela, quando si osservi che la lesione degli interessi penalmente tutelati deve accompagnarsi necessariamente anche alla tipicità, intesa come specificazione normativa della modalità di lesione. In questo caso la norma incriminatrice ha previsto, quale modalità di lesione del bene giuridico tutelato, l’inserimento (in qualità di socius) del soggetto attivo del reato all’interno dell’associazione criminosa. La stessa circostanza che il contributo del concorrente esterno, seppure atipico, debba essere occasionale (se tale non fosse si verterebbe in una condotta di partecipazione pleno iure), determina una diversa modalità lesiva della condotta dell’extraneus rispetto al bene oggetto di tutela penale. Ora, la diversità esistente, tra la struttura permanente (35) dei reati in esame e l’occasionalità del concorso criminoso, non determina un’incompatibilità assoluta tra le due figure giuridiche, almeno nella misura in cui la condotta occasionale del concorrente extraneus sia correttamente posta in correlazione causale con la condotta (tendenzialmente permanente) del concorrente necessario. L’incompatibilità strutturale riemerge, però, quando si ponga in relazione causale la condotta occasionale dell’extraneus con l’intera realtà associativa. In tal modo, infatti, si determina un impiego giuridicamente scorretto del criterio di confluenza eziologica posto a fondamento del concorso criminoso, perché — come sopra esposto — la condotta occasionale dell’extraneus deve porsi in relazione con il fatto di partecipazione, in quanto solo quest’ultimo integra la fattispecie incriminante, secondo il tipo di modalità lesiva prevista dal legislatore. Si potrebbe sottolineare che per scopo dell’associazione debba intendersi anche quello dell’esistenza (e persistenza) della struttura organizzativa, in cui si materializza il reato associativo (36), per cui anche un generico ed occasionale contributo dato dall’extraneus all’intera associazione sia idoneo ad offendere il bene giuridico oggetto di tutela penale. Si tratta, però, di esemplificazioni di condotte offensive del bene giuridico tutelato attraverso un diverso modello di tipicità da quello indicato dal legislatore e, pertanto, non autonomamente punibili, se non mediante un corretto (35) Sul punto, cfr. SPAGNOLO, op. cit., p. 116 ove si afferma: ‘‘La consumazione del reato in questione è legata tuttavia non solo all’esistenza dell’associazione formata da almeno tre persone, ma anche al sorgere ed al permanere dell’offesa all’ordine pubblico ed alla libertà morale dei consociati’’; F. SIRACUSANO, op. cit., p. 1183: ‘‘In effetti, le costruzioni che tenderebbero a fare leva solamente sull’apporto ‘non istituzionalizzato’ dell’associato finiscono per trascurare che la permanenza del reato associativo esige dagli associati qualcos’altro’’. (36) Sul tema, cfr. G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive, cit., p. 54 ss., in cui si sottolinea la rilevanza dell’elemento organizzativo nei reati associativi, in mancanza del quale verrebbe meno la stessa ragione punitiva dei medesimi reati.
— 1288 — criterio di confluenza eziologica in una fattispecie concorsuale (37). Quando ciò non avvenga attraverso il concorso materiale nella realizzazione della condotta tipica, allora, si potrebbe rientrare in un’ipotesi di concorso psicologico, pur con tutte le riserve e precisazioni che saranno trattate in seguito sul tema del concorso morale. Il contributo di tipo psicologico infatti, non può essere recepito dall’associazione — che non ha facoltà percettive autonome — ma solo dai suoi singoli partecipanti. Quindi, ove la condotta dell’extraneus sia diretta a rafforzare la volontà del socius nel fatto di partecipare, allora, potrà affermarsi che la stessa concorra a determinare la fattispecie di reato che, de iure condito, rimane sempre quella della partecipazione dei singoli all’associazione. Il criterio, che deve ispirare l’interprete per vagliare la configurabilità del concorso criminoso, non può essere orientato nella ricerca di un’ipotesi di condotta alternativa a quella indicata nella norma incriminatrice (ovvero dotata di contenuti offensivi del bene giuridico tutelato, ma per via di un diverso modello di lesività rispetto a quello indicato dal legislatore), ma deve essere teso a dimostrare il rapporto esistente tra una condotta atipica e gli elementi che conferiscono tipicità alla fattispecie incriminante. Nei reati in oggetto, questa tipicità si condensa nella condotta di ‘‘associarsi’’ o di ‘‘partecipare’’ ad una societas sceleris. 2.5. Un altro aspetto, che deve essere brevemente affrontato, riguarda le notevoli difficoltà incontrate dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’identificare la condotta tipica di partecipazione ad un’associazione per delinquere (38). Le tesi che si contendono il campo possono essere riassunte principalmente in una nozione ‘‘ristretta’’ di partecipazione, ed in una nozione ‘‘allargata’’. Con la prima ipotesi si sostiene che non tutte le condotte, che apportino un contributo all’organizzazione criminale, siano idonee ad integrare la fattispecie punibile, essendo a tal fine necessario, oltre che la prestazione di un contributo materiale all’organizzazione, anche la reciproca accettazione dei ruoli e delle qualità connesse alla partecipazione. In altre parole, al contributo materiale si deve accompagnare la concreta integrazione di un vincolo associativo, inteso come affectio societatis. Nella seconda ipotesi — vale a dire quella che fa riferimento ad una nozione c.d. ‘‘allargata’’ del concetto di partecipazione all’associazione — si delinea la tesi che ogni contributo (cosciente e volontario) conferito da parte di un soggetto all’associazione sia idoneo ad integrare la fattispecie di partecipa(37) Sul principio di frammentarietà, cfr. FIANDACA-MUSCO, Dir. pen. parte gen., cit., p. 31 ss. (38) Sul tema, con ampi approfondimenti, cfr. G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive, cit., 1992, p. 138 ss.
— 1289 — zione punibile. Quanto detto, indipendentemente da un effettivo inserimento del soggetto attivo nell’organizzazione criminale, e da un’assegnazione di ruoli e funzioni; quindi, per facta concludentia. L’adesione ad una concezione ‘‘ristretta’’ del concetto tipico di partecipazione alla societas sceleris (certamente da preferire per non degradare il reato associativo ad un mero accordo criminoso) impone che la condotta non possa essere identificata ex se, cioè senza tenere conto dei parametri valutativi interni dell’organizzazione criminale. Non è, infatti, pensabile che un soggetto possa essere considerato associato, ad esempio alla mafia, se non sia ritenuto tale da alcuno degli aderenti al sodalizio, ciò in quanto questo tipo di valutazione non può tralasciare il punto di vista interno della struttura organizzativa in rapporto alla quale l’associato assume (o non assume) il proprio ruolo (39). Probabilmente, alla fonte di tutte le disquisizioni sul punto, v’è una non corretta formulazione delle norme incriminatrici, che non specificano il contenuto delle condotte (‘‘per il solo fatto di partecipare...’’ art. 416 c.p.; ‘‘chiunque fa parte di un’associazione...’’ art. 416-bis c.p.). Se è ben vero che l’ordinamento non può pretendere di definire con precisione la figura di associato (prescindendo dalle molteplici forme organizzative interne, che pure caratterizzano le strutture associative), in tal modo, però, si è lasciato alla pura fantasia dell’interprete sia il modello di condotta punibile, sia l’oggetto su cui proiettarla. Sulla scorta di queste osservazioni parte della dottrina (40) ha propugnato la tesi della necessità (de iure condendo) di un’esplicita specificazione — all’interno delle fattispecie incriminatrici — dell’elemento organizzativo, affinché lo stesso possa rappresentare l’elemento normativo catalizzante sul quale riferire oggettivamente la tipicità della condotta di partecipazione, e sul quale fondare — con maggiore spessore — la materialità della fattispecie. Relativamente al tema del concorso esterno, accettando la visione ‘‘restrittiva’’ del concetto di partecipazione, il problema si condensa in una domanda: come si deve considerare la posizione del soggetto, il quale presti un contributo all’associazione nel suo complesso, pur in mancanza di un vero e proprio vincolo associativo? In altre parole, si pone in termini problematici la qualificazione giuridica di quei comportamenti, che, pur rivestendo una ‘‘consistenza ontologica associativa’’, siano carenti di quell’ulteriore elemento (sinteticamente (39) SPAGNOLO, L’associazione, cit., p. 86, ove si sottolinea la necessità di un’accettazione da parte dei membri o degli organi dell’associazione. Con analoghe argomentazioni, cfr. G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive, cit., p. 142 ss. (40) G.A. DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive, cit., p. 148; DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, Atti del XXI Convegno su I reati associativi, Courmayeur, 1997, p. 12 del dattiloscritto.
— 1290 — indicato con l’espressione affectio societatis) in cui si raccoglie quel complesso di rapporti che legano gli affiliati alla struttura associativa (ed i soci tra loro), determinando quella reciproca accettazione del ruolo e delle funzioni tipiche del socius. Nel percorso logico, che seleziona la risposta, potrebbe innestarsi anche il tema controverso della configurabilità del ‘‘tentativo di partecipazione’’, che potrebbe rappresentare una risposta alla domanda sul ‘‘cosa fare’’ delle condotte ‘‘ontologicamente associative’’ che non raggiungano quel grado di completezza tale da farle rientrare nel pur ampio concetto di ‘‘partecipazione’’ all’associazione. Si entra, però, nel campo astratto del ‘‘pericolo del pericolo’’ e, forse, questa soluzione finirebbe per rappresentare (soprattutto nella sua pratica applicazione) un rimedio peggiore del male. Fuori da quest’ultima prospettazione si deve, però, concordare nel rispondere che la condotta ‘‘ontologicamente associativa’’ potrà anche non avere i requisiti per integrare la fattispecie di partecipazione ‘‘piena’’ all’associazione criminale, ma che non per questo dovrà rappresentare un’ipotesi di concorso esterno; infatti, non è soltanto sul piano della pura distinzione del binomio tipicità-atipicità della condotta che si misura la sussistenza o meno dell’ipotesi di concorso esterno. A ben vedere, sulla tipicità della condotta — di qualsivoglia natura e forma essa sia — si misura soltanto l’integrazione della fattispecie tipica e non anche la sussistenza del concorso esterno. Partendo da questa prospettiva di osservazione si può ulteriormente specificare che, se l’atipicità della condotta dell’extraneus è elemento necessario per l’integrazione del concorso esterno, ciò nonostante, l’atipicità della condotta non è anche elemento sufficiente per integrare il concorso esterno. Muovendo da questi presupposti si può sostenere che la scelta tra le due tesi di condotta tipica (‘‘ristretta’’ o ‘‘allargata’’) non sposti i termini del procedimento di sussunzione della condotta atipica sub specie concorso esterno nel reato associativo. Infatti, questa controversa figura giuridica non si installa all’interno dei ‘‘vuoti’’ lasciati dalle (più o meno) larghe maglie della rete descrittiva della norma incriminatrice, ma deve essere individuata attraverso un corretto rapporto tra la condotta dell’extraneus e la condotta tipica dell’associato, lasciando impregiudicata la disputa intorno alla corretta individuazione di quest’ultima. Orbene, se è corretto sostenere che l’entità dell’estensione delle maglie descrittive della fattispecie tipica non assume una funzione selettiva delle condotte di concorso esterno, allora aderire all’una o all’altra concezione non è elemento decisivo al fine di individuare la fattispecie di concorso esterno, pur concordando che la concezione più restrittiva sia da preferire. L’adesione a quest’ultima concezione, però, non lascia aperto il campo a tutta una serie di condotte ‘‘quasi tipiche’’ all’interno delle quali
— 1291 — si collocherebbero — o si dovrebbero riconoscere con maggiore facilità — le fattispecie di concorso esterno. Anzi, è proprio su questo passaggio logico che si deve dissentire, perché è giuridicamente censurabile una procedura di selezione delle condotte di partecipazione esterna, che passi soltanto attraverso un criterio di pura esclusione dalla condotta tipica (qualunque essa sia, o la si voglia considerare). È stato sostenuto, infatti, che — aderendo ad un concetto ‘‘allargato’’ di condotta di partecipazione all’associazione — si restringerebbe correlativamente lo spazio (fino quasi ad annientarlo) per la configurabilità d’ipotesi di concorso esterno e viceversa, ove si accedesse ad una nozione più ‘‘ristretta’’ di partecipazione, si amplierebbero le possibilità per ipotesi di concorso esterno (41). La riflessione è suggestiva, ma non appare esatta, almeno alla luce di quanto sostenuto nei precedenti paragrafi. Più esteso è, infatti, il profilo oggettivo della condotta tipica e — correlativamente — tanto maggiore sarà la possibilità di ipotizzare un concorso esterno, e così viceversa, più ristretto è il profilo della tipicità della condotta, tanto minore sarà la possibilità di concorrervi. Infatti, ad una maggiore estensione della condotta tipica corrisponde un maggior numero di contributi atipici ipoteticamente configurabili per la sua realizzazione. Su quest’ultima osservazione — di carattere quasi ‘‘geometrico’’ — non si può dubitare; tuttavia, da questa considerazione si trae un argomento che vale a dimostrare la fallacia del modello di concorso avanzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza sopra ricordata, svelandone il vizio logico su cui lo stesso è fondato. Il vizio, infatti, risiede nel volere individuare condotte diverse da quella tipica dell’essere socius e rendere le stesse penalmente sanzionabili (con lo strumento normativo dell’art. 110 c.p.), in virtù della somiglianza con le condotte tipiche (in quanto ritenute socialmente meritevoli di eguale punizione). Certamente, in quest’ultima criticabile prospettiva, tanto più ampio è il concetto di partecipazione all’associazione, tanto più difficile risulta l’individuazione di condotte ‘‘rassomiglianti’’ alle prime, che non siano già ricomprese nella fattispecie tipica. Senonché, il compito dell’interprete non consiste nell’individuare soluzioni tali da consentire la punibilità di condotte ‘‘quasi tipiche’’, bensì quello di verificare — alla stregua dei criteri di confluenza concorsuale — se una condotta atipica influisca sulla realizzazione di quella tipica ovvero contribuisca alla realizzazione dell’evento naturalistico se, ed in quanto, normativamente configurato. (41) Sembra sostenere questa tesi IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, cit., p. 958 ss. Sul punto, seppure senza una precisa presa di posizione, cfr. FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, II, c. 476.
— 1292 — Queste considerazioni, quindi, portano ad asserire che determinare le ‘‘dimensioni’’ della condotta di partecipazione all’associazione non rappresenta il punto decisivo per la soluzione ai quesiti sopra posti. Come detto, l’atipicità della condotta è elemento necessario, ma non è anche elemento sufficiente per l’ipotetica integrazione del concorso esterno. Non si può negare, tuttavia, che — aderendo alla tesi ‘‘estensiva’’ — si potrebbe far leva sulla pura constatazione che nella stessa previsione normativa non sia stata delineata la condotta del partecipe; pertanto tale reato rientrerebbe tra quelli cc.dd. a forma libera (42). Seguendo tale ottica (estensiva a dismisura del concetto di partecipazione) si è fatta conseguire una domanda, e precisamente: ma se il fatto di partecipazione non è contenuto negli elementi normativi descrittivi di tale condotta, allora, come sarebbe mai possibile configurare una condotta atipica, rispetto ad un’altra, in mancanza di parametri distintivi? Il dubbio, quindi, rifluirebbe proprio sul valore della ‘‘distinguibilità’’ tra autori del reato associativo e presunti concorrenti esterni. L’argomento, tuttavia, finisce col provare troppo. Infatti, se la differenziazione non appare praticabile in fase d’interpretazione normativa, allora, non si vede perché questa debba essere creata dall’interprete nel momento applicativo, distinguendo apoditticamente tra una responsabilità a titolo di partecipazione piena nel reato associativo ed una responsabilità a titolo di concorso esterno. Sembra, invero, che si tenda a confondere il piano processuale della prova della partecipazione piena all’associazione con quello d’ordine sostanziale della configurabilità del concorso esterno; perciò, non riuscendo a provare la prima ipotesi si finisce — pragmaticamente — per ritenere integrabile la seconda (43). Si tratta, in ultima analisi, nella maggior parte dei casi pratici, di una vera e propria scorciatoia probatoria (44) normalmente legata all’insufficienza di elementi di accusa volti alla dimostrazione della piena partecipazione dell’imputato alla societas sceleris. (42) La stessa formulazione normativa lascia tali margini di discrezionalità all’interprete, tanto che da più parti si è osservato il ‘‘grave deficit di tipicità’’ della fattispecie incriminatrice. Cfr., sul punto: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 354 con ivi altri richiami; F. SIRACUSANO, op. cit., p. 1874. (43) Su questa criticabile posizione sembrano attestarsi le riflessioni di GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1191, per il quale: ‘‘La figura del concorrente esterno all’associazione è d’altronde particolarmente funzionale alla rilevanza penale delle situazioni nelle quali è certa (o risulta comunque fortemente indiziata) l’esistenza del contributo alla cosca, ma nelle quali sono più deboli gli indizi di una vera e propria appartenenza alla stessa’’. (44) Sul tema, in particolare, cfr.: INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 97, ove peraltro si afferma: ‘‘La normativa di cui agli artt. 110 e ss. c.p. va però applicata con particolare cautela, essendovi il rischio che alla disciplina del concorso eventuale si finisca per ricorrere allorché l’insufficienza del materiale probatorio a disposizione induca ad ‘aggirare’ la prova della condotta di partecipazione’’; INSOLERA, Il concorso esterno nei reati associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, cit., p. 430.
— 1293 — Tale soluzione non appare soddisfacente, seppure l’eccessivo realismo giudiziario abbia portato ad una ‘‘iperproduzione’’ di simili imputazioni proprio al fine di estendere la disciplina dell’art. 416-bis c.p. alla sfera della contiguità (se non, addirittura, della connivenza), pur in assenza del c.d. vincolo associativo che rappresenta la sublimazione della condotta tipica (45). Le ragioni, che hanno condotto a tali forzature, sono individuabili in un discutibile e supposto vuoto di tutela penale che renderebbe privi di sanzione tutta una serie di comportamenti (quasi tipici) non rientranti nella fattispecie tipica. Sulla scorta di queste premesse si è ritenuto di individuare nell’istituto del concorso criminoso la soluzione idonea a colmare il deficit di previsione normativa. L’istituto in parola è stato utilizzato come un vero e proprio grimaldello del principio costituzionale di stretta legalità (46), inventando una soluzione interpretativa ad un malinteso vuoto legislativo. Non si vuole escludere, peraltro, che possa sfuggire a sanzione qualche specifico esempio meritevole di punizione, pur rientrando nell’elastico concetto di contiguità al fenomeno associativo. Questo, però, è un problema di politica criminale che deve (o, meglio, dovrebbe) essere risolto a livello normativo e non può essere affidato all’interprete, se non sopprimendo in via di fatto il principio di stretta legalità (47). Si deve, inoltre, ricordare l’esistenza nel nostro ordinamento di molteplici figure giuridiche applicabili nei singoli casi (artt. 416-ter, 418, 378, 379, 648, 648-bis e ter c.p., o anche, il concorso nei singoli reati scopo, seppur aggravati ex art. 7 l. n. 203/91) e troppo spesso dimenticate, forse perché poco efficaci rispetto alla temibile, e poco comprensibile (anche dall’opinione pubblica) amebica figura del concorso in associazione. Per concludere, si vuole utilizzare l’istituto del concorso di persone nel reato in funzione di ‘‘strumento’’ per estendere interpretativamente la norma incriminatrice ad ipotesi dalla stessa non previste, ampliandone la sfera di punibilità, anche in ragione di un maggiore disvalore assunto ne(45) Con grave pregiudizio, peraltro, del principio di uguaglianza prevedendosi identiche conseguenze sanzionatorie per ipotesi che presentano notevoli differenziazioni in termini di disvalore e offesa al bene giuridico tutelato (cfr., sul punto: CONTENTO, Il concorso di persone nei reati associativi, cit.; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 149). (46) Su questa criticabile prospettiva sembrano muoversi le riflessioni di GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1191, ove si afferma: ‘‘Precise (e ovvie) ragioni di politica legislativa penale inducono pertanto a ritenere importante che i giudici nella lotta alle cosche abbiano la possibilità di utilizzare anche l’istituto del concorso eventuale nel reato associativo’’ (ed ancora a p. 1192) ‘‘... individuare l’autonomo rilievo del concorso eventuale in reato associativo può essere importante per consentire l’incriminazione delle c.d. contiguità mafiose dei politici, degli imprenditori, dei professionisti, dei magistrati, dei funzionari delle pubbliche amministrazioni, ecc.’’. (47) Sull’opportunità di creare nuove fattispecie (anche di natura ‘‘circostanziale’’), anziché utilizzare la formula generale dell’art. 110 c.p., cfr. G.A. DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive, cit., p. 3500.
— 1294 — gli ultimi anni da alcune condotte, e ritenendo troppo blande le sanzioni già previste dalle norme vigenti. A quanto detto si è aggiunto il profilo del pregiudizio insito nell’infamia della contestazione del concorso esterno in associazione mafiosa, dove l’apprezzabilità della distinzione concettuale (tra essere concorrente esterno nel reato d’associazione mafiosa, ed essere un partecipe nel reato d’associazione mafiosa e, quindi, ‘‘essere mafioso’’), appare soltanto un mero artifizio retorico. 3. Il profilo soggettivo dell’argomento oggetto di studio non è meno problematico di quello materiale sopra illustrato. Solo per chiarezza espositiva si ricorderà che, all’interno dell’elemento soggettivo nella fattispecie di concorso, si suole distinguere: 1) la coscienza e volontà di porre in essere la condotta mediante la quale si concorre (o che si assume essere di compartecipazione criminosa); 2) la coscienza e volontà di cooperare insieme con altri nella realizzazione della fattispecie criminosa (48). Non è necessario, come è noto, la ricorrenza di un ‘‘previo accordo’’ tra i concorrenti, ma è sufficiente la semplice coscienza del partecipe di contribuire con la propria condotta alla realizzazione del reato. All’interno del tema del concorso esterno gli aspetti di maggiore difficoltà riguardano il punto relativo all’accertamento del dolo inerente alla coscienza ed alla volontà di cooperare insieme con altri (viribus unitis) nella realizzazione criminosa (49). Si potrebbe sostenere che, se il dolo dell’extraneus fosse esteso sino al punto da ricomprendere la coscienza e la volontà di creare (o di mantenere in vita) la compagine sociale, allora, si dovrebbe concludere attribuendo al presunto concorrente esterno lo status di vero e proprio associato. In questo caso, infatti, il dolo del partecipe extraneus corrisponderebbe perfettamente ai requisiti normativi del dolo del socius e, in assenza di una descrizione normativa della condotta (che — come detto — è libera), s’integrerebbe l’ipotesi di partecipazione piena e non quella di concorso esterno. Questo modo di procedere non è, in verità, condivisibile. Innanzitutto, come si è analizzato nel precedente paragrafo, ai fini della parteci(48) Principio pacifico in giurisprudenza, cfr.: Cass., 29 settembre 1987, in Riv. pen., 1988, p. 848; Cass., 9 febbraio 1987, ivi, 1988, p. 74; Cass., 11 ottobre 1984, in Giust. pen., 1985, II, c. 341. Per la dottrina. cfr.: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 456; M. GALLO, op. cit., p. 95 ss.; PEDRAZZI, Il concorso di persone, cit., p. 74. (49) Un primo argomento di riflessione potrebbe essere costituito dall’identificazione soggettiva dei ‘‘cooperanti’’. Si potrebbe infatti discettare intorno alla necessità che l’extraneus concorrente abbia coscienza di cooperare con i singoli membri dell’associazione criminosa ovvero con tutti insieme (considerati collettivamente) o, in ultima analisi, con l’intera realtà associativa ‘‘personificata’’. Sul punto, cfr. G.A. DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive, cit., p. 3502.
— 1295 — pazione quale socius ad un’associazione per delinquere si deve ritenere necessario l’inserimento del soggetto all’interno dell’organizzazione associativa, requisito che va al di là della mera volontà di partecipazione. Inoltre, per una corretta impostazione ermeneutica, il profilo materiale del concetto di partecipazione deve potersi ricavare dalle norme che disciplinano i reati d’associazione, almeno al fine di riaffermare il principio fondamentale del nostro diritto penale, che si fonda sulla materialità e sulla tipicità del fatto punibile. Il tema che qui si affronta, però, riguarda la configurabilità del concorso esterno nei citati reati e, per quanto sopra evidenziato, l’applicabilità del citato istituto non è stata aprioristicamente negata, ma si è voluto leggere in chiave critica il diffuso orientamento che pone le basi logiche e giuridiche di tale concorso nell’apporto dato dall’extraneus all’intera realtà associativa personificata. Non si è voluto escludere, quindi, che, ponendo in corretta relazione causale la condotta dell’extraneus con la condotta tipica dell’intraneus, possa integrarsi la fattispecie concorsuale in oggetto. In questo caso, tuttavia, appare evidente che il dolo dell’extraneus dovrebbe avere come riferimento oggettivo la partecipazione altrui e non la propria. Ciò che appare di difficile configurazione, però, è proprio l’individuazione di condotte (dotate di materialità ed al di fuori del concorso morale), che siano anche eziologicamente collegabili con quella dell’associato nel fatto tipico di partecipare all’associazione. Esempi, a ben vedere, possono pure essere avanzati, ma questi sono normalmente privi di rilievo pratico e non meritevoli dell’impegno profuso da dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni intorno al contestato istituto (50). Con molta probabilità, inoltre, questi esempi non sfuggirebbero a censura rispetto ad una critica volta a ricercare in essi quei necessari, e seppur minimi, requisiti di offensività rispetto al fatto principale, tali da farli considerare meritevoli di uguale pena. Queste ipotesi sono normalmente già oggetto d’autonome fattispecie incriminatrici e ciò, ovviamente, non confliggerebbe con la possibilità che le stesse possano integrare anche ipotesi di concorso esterno, secondo le regole proprie del concorso formale. A ben vedere, però, la giurisprudenza degli ultimi anni non ha preso in considerazione simili fattispecie — che per la loro intrinseca rilevanza e (50) Un caso di concorso materiale potrebbe configurarsi nell’attività dell’extraneus, autista di un associato, che conduca in macchina il socius alle riunioni dell’organizzazione, prestando in tal modo un contributo al ‘‘fatto della partecipazione altrui’’, ovvero nell’ipotesi (più suggestiva) della condotta del soggetto che sorregga la mano, di chi sta per affiliarsi nell’associazione mafiosa ‘‘cosa nostra’’, nell’atto di farsi ‘‘pungere il dito’’ e quindi concorrere con tale condotta ‘‘materiale’’ al fatto dell’affiliazione dell’associando (sempre che non risulti dimostrato che lo stesso non sia a sua volta un associato) e sempre a volere trascurare il requisito ed il grado di ‘‘offensività’’ e di ‘‘adeguatezza causale’’ dei citati esempi.
— 1296 — marginalità non avrebbero meritato tante attenzioni — ma si è affannata intorno ad altre figure, precisamente quelle in cui si è ritenuto sussistente un vuoto di tutela penale in relazione all’apporto materiale prestato all’intera realtà associativa. Questo sforzo interpretativo, peraltro, non è stato contrassegnato dal rispetto dei seppur minimi requisiti di convergenza causale insiti nell’istituto del concorso, ma da uno sconvolgimento dei criteri di confluenza su cui lo stesso si fonda, determinando un intollerabile ‘‘effetto moltiplicatore’’ delle attitudini estensive dell’istituto medesimo, ciò con grave pregiudizio del principio di stretta legalità. Tornando, quindi, al tema dell’elemento psicologico si può affermare, coerentemente alla tesi qui sostenuta, che una condotta tesa a rafforzare dall’esterno una societas sceleris nel suo insieme non diviene per ciò solo punibile a titolo di concorso eventuale nel reato di associazione, malgrado sia posta coscientemente e volontariamente. Fuori di una partecipazione quale socius, la condotta in ipotesi ‘‘rafforzatrice dell’associazione’’ nel suo complesso, ma non influente sotto il profilo causale sulla condotta tipica dei singoli partecipanti all’associazione, non avrebbe il supporto eziologico rispetto agli elementi che conferiscono tipicità alla fattispecie e, pertanto, la sua valutazione in termini concorsuali non potrebbe affidarsi alla sola circostanza di essere accompagnata dal dolo; ciò in applicazione del principio ‘‘nullum crimen, nulla poena, sine lege’’ (51). Le condotte di partecipazione esterna al reato associativo, almeno molte di quelle normalmente delineate dalla giurisprudenza, difettano del substrato materiale (per mancanza di nesso eziologico con la condotta tipica dell’autore) per meritare, quindi, un approfondimento di tipo soggettivo. 3.1. Volendo seguire in chiave critica la tesi opposta — sopra ampiamente analizzata — è necessario prestare una particolare attenzione quando ci si imbatta in casi pratici dai quali si evinca che il contributo rafforzativo della realtà associativa sia il frutto, o una conseguenza indiretta, della condotta dell’extraneus. A tal proposito bisogna affrontare le discutibili conseguenze cui si va incontro sostenendo che la distinzione, tra la figura del partecipe intraneus e quella del concorrente extraneus, risiederebbe solo nell’elemento psicologico. In questa prospettiva d’analisi, si afferma che il socio abbia quale scopo quello di fare conseguire all’associazione i fini suoi propri, mentre il (51) Dette condotte potranno poi essere del tutto lecite, ovvero singolarmente illecite, perché, per esempio, riconducibili a fattispecie quali quelle di cui agli artt. 378, 379, 418, 648, 648-bis c.p., oppure concorrenti di reati commessi in attuazione del programma criminoso ed a tale titolo penalmente perseguibili, sempre che ne ricorrano i requisiti oggettivi e soggettivi.
— 1297 — concorrente esterno, pur perseguendo fini del tutto personali, avrebbe coscienza del fatto che la sua condotta finirebbe per offrire un contributo alla societas sceleris (52). Si tratta a ben vedere di conciliare il dolo specifico del partecipe, con il dolo eventuale del concorrente (53). Come è noto, le norme che disciplinano i reati in esame richiedono la sussistenza del dolo specifico e ciò è pienamente giustificato, soprattutto, alla luce dell’importante contributo fornito da tale elemento psicologico nel dotare queste figure delittuose di un seppur minimo grado di configurazione tipica, supplendo, così, alle notevoli deficienze in tema di descrizione della condotta. Queste fattispecie, infatti, sono fin troppo incentrate sul modello del ‘‘tipo di autore’’. Partendo da questa premessa potrebbe apparire giuridicamente non corretto ammettere il concorso esterno mediante condotte prive di tale specifico elemento psicologico. Senonché, sotto un profilo strettamente giuridico, si può correttamente sostenere che il dolo del concorrente non debba essere di eguale intensità di quello dell’autore, e sulla puntualità di tale rilievo non si può dubitare (54). Infatti, come è stato più volte affermato, si può ben concorrere con dolo generico o con dolo eventuale in un reato normativamente configurato a dolo specifico, e ciò purché il concorrente abbia coscienza che altri, cui si presta volontariamente il proprio contributo, intenda raggiungere (viribus unitis) la finalità oggetto di configurazione normativa. Anche in questi casi, però, l’analisi in ordine alla ricorrenza dell’elemento psicologico del reato di concorso (quale che esso sia) dovrà essere preceduta da un’attenta disamina in ordine alla ricorrenza di una condotta idonea ad integrare la fattispecie concorsuale. Ebbene, nell’esempio sopra riportato — del soggetto che, volendo perseguire un interesse del tutto personale, si rappresenti anche la circostanza che la realizzazione del suo interesse possa rifluire in un contributo all’associazione — quello che manca è proprio una corretta correlazione causale del contributo materiale dell’extraneus con gli elementi che confe(52) GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., p. 1192; DE LIGUORI, op. cit., p. 37. (53) GROSSO, op. ult. cit., p. 1192, ove si afferma: ‘‘... a fondare responsabilità ex art. 110 c.p. sarà sufficiente, secondo i principi generali che il concorrente esterno, agendo per i suoi scopi personali, si rappresenti, quanto meno in termini di possibilità (dolo eventuale), di intrattenere rapporti con la mafia, e di apportare alla stessa un contributo rilevante sul terreno dell’aiuto prestato alla conservazione o al rafforzamento della sua organizzazione’’. Contrario a tale conclusione SPAGNOLO, op. cit., p. 140, ove si legge: ‘‘Sul piano soggettivo i partecipi agiscono per realizzare i propri scopi attraverso l’associazione; il concorrente per far sì che l’associazione realizzi i suoi fini. In entrambi i casi pertanto è escluso che possa essere sufficiente il dolo eventuale’’. (54) Sul principio che nei reati a dolo specifico non sia richiesto eguale intensità di dolo da parte di tutti i concorrenti si sofferma la sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, 5 ottobre 1994, cit., ove si conclude in termini analoghi a quanto sostenuto nel testo.
— 1298 — riscono tipicità alla fattispecie di reato. La disamina, in ordine alla compatibilità del dolo eventuale (ricorrente in tali esempi) con il dolo specifico (richiesto dalla fattispecie incriminatrice) non avrebbe senso alcuno, in quanto ciò che difetta in questi casi è proprio una ‘‘condotta di concorso’’ giuridicamente rilevante. Ove questa tesi non dovesse essere condivisa, certamente, il modello sopra prospettato determinerebbe una micidiale estensione della punibilità, rendendo illimitata la discrezionalità del giudice. Infatti, nella prospettiva sopra criticata non solo si perderebbe di vista la condotta del partecipe intraneus, che rappresenta il modello di riferimento oggettivo, ma, addirittura, si perderebbe di vista anche il modello di riferimento soggettivo. Quindi, riferire all’intera realtà associativa ‘‘personificata’’ il contributo dell’extraneus val quanto annientare la tipicità, sia oggettiva che soggettiva, della fattispecie incriminante, consentendo un giudizio privo di limiti e, quindi, arbitrario. 3.2. Uscendo dall’analisi strettamente giuridica del tema, consapevoli dei riflessi di ordine sociale e culturale derivanti dall’applicazione pratica dell’istituto del concorso criminoso ai reati associativi, è utile una digressione distaccata dall’aspetto teorico, ma non per questo meno rilevante. In un momento storico in cui l’emergenza nell’azione di contrasto delle organizzazioni criminali è valsa ad estendere ad libitum i limiti della punibilità, si è cercato di ricomprendere nella sfera del penalmente rilevante anche le condotte che abbiano indirettamente contribuito a determinare l’effetto espansivo del ‘‘fenomeno’’ criminalità organizzata. Si è, così, impropriamente trasformata la responsabilità politica, culturale e sociale in responsabilità penale e ciò con grave pregiudizio del principio di stretta legalità, sol che si abbia presente che le cause (che, in ipotesi, abbiano favorito l’espansione del citato fenomeno) sono indeterminabili, o — a tutto voler concedere — difficilmente graduabili in termini di maggiore, o minore, influenza sull’effetto. Peraltro, la constatazione dell’effetto non è prova della causa, o del tipo di causa. Partendo da una prospettiva estrema, anche l’atteggiamento passivo e timoroso della vittima rafforza il proposito criminoso dell’aggressore e, quindi, ne agevola oggettivamente la realizzazione criminosa (concorrendo, in tal modo, a determinarla). In quest’esempio, volutamente paradossale, non può intravedersi quel minimo requisito di colpevolezza per ritenere il contributo agevolatorio punibile; tuttavia, se l’aggressore lascia un margine di vantaggio all’aggredito, perciò che questi possa dirsi (anche indirettamente) avvantaggiato, ecco che la prospettiva potrebbe sensibilmente mutare. È il caso dell’imprenditore, che subisca atti d’intimidazione ed estorsivi da parte di componenti di un’associazione criminale e che acceda alle richieste estorsive rivoltegli, con ciò raggiungendo anche un pro-
— 1299 — prio vantaggio (per esempio consentendo alla propria impresa di continuare a lavorare in una certa parte del Paese ad alto tasso di criminalità). Ora quest’esempio, che non è assolutamente lontano dalla realtà processuale dei nostri giorni, e che potrebbe essere commisurato in altri campi dei rapporti sociali in cui le organizzazioni criminali necessariamente operano, rappresenta la dimostrazione di quanto sia rischiosa un’impostazione sociologica, più che giuridica, che ponga al culmine dell’analisi l’effetto, anziché le cause criminogene rispetto a singoli specifici episodi dai quali poi trarre anche la specifica volontà di cooperare nella realizzazione delittuosa. È evidente che scendere a patti con gli esponenti di un’organizzazione criminale, temendone la forza d’intimidazione, finisce indirettamente per contribuire al rafforzamento della societas sceleris; anzi, per le associazioni di tipo mafioso, potrebbe affermarsi che tale contributo oggettivo finisca per consentire il raggiungimento, in parte qua, dello scopo sociale, atteso che esse devono fondarsi proprio sulla forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per acquisire profitti e vantaggi ingiusti. Orbene, di tale contributo indiretto si può avere anche coscienza, ma far scaturire da ciò l’ipotesi di concorso nel reato appare una conseguenza paradossale, perché significa punire la vittima di una violenza per l’eccessivo pavore mostrato al suo aggressore. Sono queste, però, le conseguenze estreme cui può condurre l’accettazione di una tesi, che veda il contributo dell’extraneus causale rispetto al reato associativo e, quindi, punibile ex artt. 110 e 416 c.p., soprattutto, quando nel concetto di volontario possa ricomprendersi anche il dolo eventuale, o indiretto, rispetto ad una condotta che oggettivamente finisca per arrecare un contributo alla realtà associativa. Si può determinare, inoltre, un dissidio tra coscienza e volontà di difficile individuazione a livello processuale. Infatti, l’aggredito può avere certamente coscienza del fatto che, non resistendo all’aggressore, lo avvantaggi, ma ciò non significa affatto che abbia la volontà di avvantaggiarlo. Soccorrono, allora, scorciatoie intellettuali che si estrinsecano in due modelli contrapposti: lo stereotipo della vittima e lo stereotipo del colluso, dove la sottilissima linea, che separa il primo dal secondo, è rappresentata dalla loro rispettiva ‘‘capacità di resistenza potenzialmente opponibile all’aggressore’’; i confini di questa sottilissima linea di demarcazione sono affidati alla mera discrezionalità di chi è chiamato a giudicare. Quanto detto risponde ad una logica, in cui la costruzione giuridica in oggetto affonda le proprie radici culturali, e precisamente quella di cercare di porre rimedio da quanto emerge da un’analisi sociologica (peraltro condivisibile), nella quale si osserva che le organizzazioni criminali hanno assunto il noto grado di pericolosità ed efficienza, sia perché non sono state adeguatamente contrastate sotto il profilo preventivo e repressivo,
— 1300 — sia perché sono riuscite ad ottenere un minimo di accettazione sociale, talvolta attraverso metodi intimidatori e violenti, ma anche con la creazione di centri di interessi economici e politici, dove il confine — tra il male minacciato ed il vantaggio conseguito — può non essere facilmente graduabile o, meglio, può essere posto in maggiore risalto l’aspetto del vantaggio rispetto a quello della coartazione della volontà, a seconda della prospettiva di chi osserva il fenomeno di assuefazione culturale e sociale registrata negli anni passati, nel corso della prorompente crescita della criminalità organizzata. Seguendo tale ottica, però, il giudizio può facilmente trasmodare nell’arbitrio e, comunque, la correttezza del presupposto sociologico non vale a legittimare la deroga ai principi di legalità e di personalità della penale responsabilità, che si consente mediante la costruzione giuridica del concorso in associazione nei termini in cui è configurato. Se vi sono delle condotte che secondo i valori etici, culturali e sociali negli ultimi tempi affermatisi sono divenute meritevoli di maggiore attenzione criminologica, allora, è bene che sia il legislatore ad occuparsi dei criteri correttivi fissando in nuove norme — rispondenti ai requisiti di tassatività e determinatezza — le condotte cui attribuire tale maggiore disvalore sociale (55). In questo campo l’interpretazione giudiziale, infatti, rappresenta la porta più vicina all’arbitrio ed in questo senso può affermarsi che anche per raggiungere il più nobile dei fini si possono creare abnormi ingiustizie. 4. Non è certo il caso affrontare approfonditamente, in questa sede, le complesse problematiche connesse al concorso morale, se non per qualche cenno (56). La circostanza, che ha determinato le minori resistenze teoriche all’ammissibilità del concorso morale nel reato di associazione (rispetto alle maggiori delineate per il concorso materiale), trova fondamento giustificativo nel rilievo che — in questo caso — è più facile ipotizzare un’influenza della condotta dell’extraneus su quella dell’intraneus, senza che la condotta atipica del primo possa essere sovrapposta a quella tipica del secondo. Questa sovrapposizione, infatti, rende difficoltosa la distinzione e, quindi, la qualificazione giuridica delle condotte. Ciò, peraltro, non deve lasciare spazio ad interpretazioni che allontanino dalla dimostrazione di un rapporto (seppure, di tipo psicologico) tra il concorrente morale e l’autore materiale del reato. Ebbene, i problematici quesiti (insiti nell’accertamento del rapporto (55) Sulla necessità di una specificazione normativa, che valga a mitigare gli effetti estensivi del concorso di persone nel reato, cfr. G.A. DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive, cit., p. 3487 ss. (56) Sul tema, cfr. MORMANDO, Prime riflessioni sulla condotta di istigazione, in questa Rivista, 1994, p. 538 ss., con ivi ampie note e riferimenti bibliografici.
— 1301 — causa-effetto, che deve sottostare all’esame del concorso di persone nel reato) si amplificano a dismisura nelle fattispecie di concorso morale, proprio perché — in questa particolare ipotesi di concorso — si fuoriesce del tutto dalla sfera naturalistica dal quale il rapporto di causalità è mutuato, tanto da far propendere parte della dottrina per un’interpretazione — di questa particolare forma di concorso — sganciata da un rigido criterio causale (57). Questa osservazione conduce ad ulteriori riflessioni, che si ricavano nell’ambito del diverso presupposto che presiede alla distinzione esistente tra la figura del determinatore (cioè di chi faccia sorgere in altro soggetto un proposito criminoso) e la figura dell’istigatore (cioè di chi rafforzi nel soggetto agente un proposito criminoso già ‘‘nato’’, magari già in fase esecutiva). Prendendo spunto da tale distinzione, sembra potersi affermare che i problemi — insiti nell’accertamento di un rapporto causa-effetto nel campo delle relazioni psicologiche — trovino minori difficoltà di comprensione relativamente alla figura del determinatore, che non in quella dell’istigatore. Inoltre, la figura del determinatore, anche se di più semplice illustrazione (nel noto esempio del padre, che convinca il figlio ad associarsi), assume, sotto il profilo pratico, un ruolo marginale (58). Istigatore è, invece, chi rafforza — con la propria condotta — il socio nel fatto di partecipare all’associazione, influendo sulla psiche del singolo o dei singoli associati, i quali traggano dalla condotta istigatoria nuovo o maggiore impulso nel mantenere fermo il loro intendimento criminoso. In quest’ultimo caso si pongono, tuttavia, problemi interpretativi di notevolissimo rilievo, precipuamente in ordine alla complessità dell’accertamento del rapporto che dovrebbe instaurarsi tra la condotta dell’extraneus e la condotta dell’associato e, soprattutto, in ordine alla capacità dell’istigatore a determinare il mantenimento del vincolo associativo da parte dell’intraneus (che sia capace, cioè, di produrre un’apprezzabile vis psicologica rafforzativa rispetto alla preesistente ed autonoma volontà del socius di continuare a fare parte dell’associazione). La prospettiva teorica, di innegabile complessità, viene di gran lunga superata (in termini di difficoltà di accertamento) da quella processualprobatoria. Stabilire, infatti, la vis rafforzativa di una condotta rispetto a quella già posta in essere dall’associato non è accertamento da poco conto. (57) Secondo questa impostazione si muovono le riflessioni di VIOLANTE, Istigazione, (voce) dell’Enc. del dir., Milano, 1972, vol. XXII, p. 993; VIGNALE, Ai confini della tipicità, cit., p. 1405. (58) A ben vedere, infatti, quest’ultima figura contiene in sé notevoli ambiguità interpretative, che l’allontanerebbero dal tema del concorso esterno nei reati associativi, potendosi trovare punti di contatto con la fattispecie tipica del promotore ovvero, a seconda delle modalità con cui è posta in essere, configurare il reato di istigazione a delinquere ai sensi dell’art. 414 c.p.
— 1302 — Si attribuiscono all’interprete margini e spazi deduttivi talmente ampi da non risultare obiettivamente in alcun modo controllabili, per cui alla medesima fattispecie si possono applicare soluzioni del tutto opposte ed assolutamente equivalenti. Prescindendo, infatti, dall’esemplificazione di una condotta scolastica di cui si abbia prova certa (per esempio, nel caso di un’intercettazione telefonica dalla quale emerga l’intenzione di un socio di recedere dal vincolo associativo ed un amico lo convinca con ‘‘tutte le sue forze’’ a persistere nel rapporto, riuscendo ad avere successo in questo suo intendimento), ciò che pone, invece, difficoltà probatorie insormontabili è determinare, con sufficiente grado attendibilità, la valenza istigatoria di condotte poste in essere da soggetti estranei all’associazione (condotte normalmente dotate di forte carica di ambiguità) dalle quali possa trarsi, seppure indirettamente, un effetto rafforzativo del proposito criminoso altrui. Per rendere meno astratto il discorso, avuto riguardo alle attività del politico, dell’imprenditore, del giudice, dell’avvocato, del sanitario, che con le più varie condotte finiscano per interagire a favore dell’associazione (o dei suoi scopi), pur non facendone parte, ebbene: può affermarsi che tali condotte siano idonee a rafforzare il proposito criminoso dei singoli associati (nel mantenere lo status di soci), e quindi punibili a titolo di concorso morale? A parte ogni considerazione sulla valenza causale di comportamenti che indirettamente possano essere idonei a rafforzare il proposito criminoso dell’associato, quello che appare iperbolico è misurare il grado di tale efficienza eziologica (o, se si vuole, solo psicologica). Infatti, ciò che rende particolarmente arduo il compito dell’interprete è che — nella misurazione di questa influenza psicologica — lo stesso deve necessariamente tenere conto della quantità di autonoma volontà esistente nei singoli associati a mantenere il vincolo associativo, cioè nel volerlo mantenere indipendentemente dall’apporto dell’extraneus. Riconoscere (o meno) nelle singole fattispecie ipotizzabili un esempio di omnimodo facturus, che renderebbe penalmente irrilevante il contributo morale del terzo, dipenderebbe il più delle volte dalla mera discrezionalità di chi è chiamato a giudicare. Peraltro, quando l’indagine sopra detta venisse rivolta a realtà associative di notevole forza organizzativa e di grande efficienza criminosa, allora, la valutazione dell’incidenza psicologica della condotta dell’extraneus su quella dell’intraneus diverrebbe proporzionalmente (e, quindi, paradossalmente) ben più difficoltosa. Sotto il profilo psicologico, inoltre, bisogna approfondire l’oggetto della volizione e della rappresentazione che il terzo extraneus abbia degli effetti della propria condotta — assunta in ipotesi come rafforzativa del proposito criminoso dei singoli associati —, altrimenti si può pervenire al-
— 1303 — l’assurda conclusione di ritenere oggettivamente responsabili tutti coloro i quali si trovino, per qualunque motivo, ad avere un rapporto con gli esponenti dell’associazione criminosa. Anzi si potrebbe rilevare che, in tal modo, si potrebbe essere chiamati a rispondere di concorso in associazione (magari anche di stampo mafioso) senza avere mai avuto personali rapporti con alcuno dei singoli associati, ovvero, sol perché — con la propria condotta — si sia fatto conseguire un vantaggio all’associazione e, conseguentemente, si sia offerto un indiretto contributo rafforzativo della volontà dei singoli soci a mantenere in vita il proprio vincolo associativo. Si deve rilevare, tuttavia, che il rapporto psicologico, che determina il rafforzamento del proposito criminoso dell’associato, non può essere indiretto e cioè transitare nella psiche del socio per effetto di un contributo dato all’associazione nel suo complesso, perché il messaggio istigatorio impone non un previo accordo, ma quantomeno una consapevolezza della cooperazione (in termini di volizione del fatto tipico) da parte di entrambi i concorrenti. Per la compartecipazione morale non è sufficiente una generica volontà di suscitare, o rafforzare, le altrui inclinazioni delittuose, bensì occorre avere di mira un determinato reato, sia dal punto di vista rappresentativo che volitivo. Ora, negli esempi più ricorrenti in giurisprudenza riguardanti le figure dell’avvocato, del giudice, del politico, del medico, dell’imprenditore, che attraverso condotte a vario titolo qualificabili (alcune delle quali autonomamente delittuose, altre deontologicamente censurabili ed altre, infine, intrinsecamente lecite) finiscano per offrire un contributo all’associazione nel suo complesso, ebbene, da queste condotte, non si può ricavare — sic et simpliciter — un effetto istigatorio riferibile al socio nel fatto tipico di partecipare. Infatti, queste condotte non prendono di mira il fatto della partecipazione altrui ad un’associazione ma, semmai, hanno obiettivi diversi che possono essere i più vari, normalmente legati ad uno specifico interesse personale (denaro, prestigio, vantaggi politici elettorali, timore di rappresaglie, esercizio legittimo di un diritto, ecc...) e che, il più delle volte, nulla hanno a che vedere con la partecipazione del socio (o dei soci) all’associazione per delinquere. In quest’ottica non si può sottacere l’assoluta leggerezza con la quale la giurisprudenza degli ultimi anni abbia omesso di prestare la dovuta attenzione nel distinguere tra le condotte dotate di un intrinseco contenuto illecito e le condotte intrinsecamente lecite (59). (59) Sul punto si riportano le pregevoli osservazioni di DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, cit., p. 23 del dattiloscritto: ‘‘Sotto questo profilo colpisce, in particolare, come nei riferimenti ormai consueti di dottrina e giurisprudenza ai possibili ambiti di rilevanza di un concorso esterno, comprensivi dell’esercizio di attività professionali, economico-imprenditoriali e di rappresentanza politica, residui spesso un margine di ambi-
— 1304 — Da quanto detto si deve trarre la conclusione che la fattispecie del concorso morale nel reato d’associazione potrà essere accettata soltanto in quei singoli casi in cui vi sia un diretto rapporto tra un terzo ed un socio (o un gruppo di soci individualmente determinati), unito alla dimostrazione che la condotta dell’extraneus sia specificamente diretta ad ispirare (ovvero a rafforzare) l’intento criminoso tipico dell’intraneus nel fatto di partecipare ad un’associazione per delinquere e, infine, solo quando tale condotta istigatoria abbia un’effettiva incidenza psicologica sulla commissione del fatto di reato (cioè fuori dall’ipotesi dell’omnimodo facturus). 5. Come si è più volte detto, le Sezioni unite della Corte di cassazione (60) si sono espresse nel senso della configurabilità del concorso dell’extraneus nei reati di associazione. L’autorevolezza dell’organo giurisdizionale pronunziatosi non deve, tuttavia, scoraggiare manifestazioni di dissenso rispetto alla soluzione prescelta e nella quale si ripercorrono — in senso diametralmente opposto — le argomentazioni oggetto di ampia critica nei precedenti paragrafi. Il principale vizio della sentenza è di natura metodologica e si racchiude nell’avere concentrato tutti gli sforzi argomentativi nel confutare le molteplici tesi opposte alla configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, traendo, quindi, la conclusione citata senza al contempo verificare — sottoponendola ad altrettanto stringente analisi critica — la correttezza della tesi prescelta. Influisce negativamente, infatti, sul ragionamento operato dalla Suprema Corte la circostanza che le tesi avanzate da guità circa la qualificazione intrinseca del contributo in questione, se cioè si tratti, al di là dell’ipotizzata influenza agevolatrice, di comportamenti di per sé illeciti ovvero costituenti autentico esercizio della legittima attività in parola. Le perplessità crescono quando dalle esemplificazioni addotte risulta chiaramente, quale che sia la risposta infine fornita al quesito sull’ammissibilità del concorso esterno, la ‘fungibilità’ delle diverse situazioni ipotizzate: a proposito dell’attività che possa essere svolta ‘in favore’ del sodalizio criminale da parte, ad esempio, dell’esercente la professione forense, vengono disinvoltamente poste sullo stesso piano la prestazione continuativa di consulenza legale ed il concorso in corruzione in atti giudiziari (ciò che volgarmente si definisce ‘aggiustamento’ dei processi). Vero è che taluni orientamenti più sensibili alle ragioni della certezza delle qualificazioni giuridico-penali si sforzano di dimostrare, attraverso vari argomenti interpretativi di tipo sistematico, come il concorso esterno non sia configurabile in rapporto alle condotte non intrinsecamente delittuose; ma il punto è un altro. Più che mostrare ritegno ad ammettere la riferibilità al concorso esterno in reato associativo di attività di per sé costituenti esercizio di facoltà legittime, bisognerebbe prendere atto di tale eventualità e denunciare quindi il profilarsi di un lacerante conflitto di norme, da risolvere con assoluta chiarezza ed immediatezza sulla base dei criteri rinvenibili nell’ordinamento giuridico. Se poi residuassero margini di incertezza al riguardo — essendo noto che l’applicazione dell’art. 51 c.p. è talora più problematica di quanto non lasci trasparire l’assolutezza del suo tenore — dovrebbe invocarsi un chiarimento legislativo, assolutamente improcrastinabile per ristabilire in tale delicata materia un sufficiente riguardo per le ragioni della legalità’’. (60) Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, cit.
— 1305 — coloro i quali si oppongono alla configurabilità del concorso esterno nei reati associativi (oggetto di ampia critica nella sentenza citata) siano anch’esse erronee, se non nelle conclusioni, quantomeno, nelle premesse. Orbene, se ci si limita a vagliare il rigore e la valenza delle argomentazioni addotte dalla Suprema Corte nel respingere le tesi avanzate in altri precedenti giurisprudenziali (e dai ricorrenti nel caso prospettato innanzi alle S.U.), si deve concludere per la piena condivisibilità del ragionamento confutatorio operato dalla Corte. Non sempre, però, la confutazione di una tesi erronea indica la giusta soluzione al problema posto. Infatti, le tesi della non configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, criticate nella sentenza citata, si basano principalmente su tre ordini di argomenti e precisamente: 1) non essendo possibile distinguere le condotte dei concorrenti necessari da quelle dei concorrenti eventuali, allora, ogni ipotesi di concorso esterno nel reato associativo finirebbe per rappresentare ipotesi di partecipazione piena; 2) la configurazione del dolo (specifico) nei reati associativi impedirebbe la configurabilità del concorso esterno, in quanto, se la condotta del concorrente extraneus fosse corredata dal dolo specifico richiesto dalla norma, questi dovrebbe essere considerato associato pleno iure, e non extraneus; 3) infine, ove il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice non si dovesse riscontrare nell’elemento psicologico del concorrente extraneus, allora, questi non potrebbe rispondere del reato associativo. Infatti, si sostiene che — in virtù del principio di unitarietà del reato di concorso — tutti i concorrenti debbano avere il medesimo dolo richiesto dalla fattispecie. Queste tre obiezioni non sono condivisibili, e di ciò si è avuto modo di discutere nei precedenti paragrafi; tuttavia, questa constatazione non è sufficiente, da sola, a provare la correttezza della soluzione indicata dalla Suprema Corte. Il giudice di legittimità, infatti, ha finito per incorrere nell’errore — sopra più volte evidenziato — di porre in relazione causale la condotta atipica del concorrente extraneus con l’intera realtà associativa personificata, o con gli scopi della medesima, anziché con le singole fattispecie di partecipazione (che rappresentano singulatim la condotta del reato incriminato). Nella citata decisione, inoltre, si è profuso un particolare impegno argomentativo diretto a negare la perfetta ‘‘sovrapponibilità’’ della condotta tipica, rispetto a quelle atipiche del concorrente, ciò al dichiarato fine di dimostrare la sussistenza di elementi di differenziazione tra le due diverse ipotesi e, quindi, tali da conferire ad entrambe una sfera di autonomia logica idonea a determinare un diverso titolo di concorso: nell’un caso necessario, nell’altro eventuale. In tal modo, la Corte ha invalidato la tesi
— 1306 — (errata), che vede in ogni ipotesi di concorso esterno una fattispecie di partecipazione piena, ma ha finito per glissare il tema centrale del problema e cioè la corretta analisi del rapporto che deve sussistere tra la condotta dell’extraneus e gli elementi che conferiscono tipicità alla fattispecie di reato, finendo per incorrere nell’errore di rapportare il contributo dell’extraneus all’intera realtà associativa personificata. Un’altra importante critica riguarda un argomento contenuto nella citata decisione, che si distingue per originalità e per stravaganza, precisamente quando si afferma che: ‘‘Il concorrente eventuale è per definizione, colui che non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma, al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare i vuoti in un determinato ruolo, sia soprattutto, nel momento in cui la ‘fisiologia’ dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo limitato, di un esterno’’. A questa premessa la Corte aggiunge: ‘‘Certo anche in questo caso potrebbe risultare che l’associazione ha assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti patologici della sua vita. Ma resta il fatto che, pur tenendo conto di tutti i possibili distinguo e con tute le approssimazioni possibili, lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell’emergenza nella vita dell’associazione o, quanto meno, non lo spazio della ‘normalità’ occupabile da uno degli associati’’. Ora, è utile evidenziare che il vizio — di cui si è ampiamente parlato nei precedenti paragrafi — raggiunge limiti quasi paradossali, quando, si discute dell’associazione in termini animistici dotandola di facoltà quali la parola (‘‘... l’associazione non chiama a far parte, ma... si rivolge...’’), ovvero, di una fisiologia e, quindi, di una patologia (fibrillazione), o anche di facoltà volitive (‘‘... potrebbe risultare che l’associazione ha assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti patologici della sua vita’’). Ebbene, con queste criticabili affermazioni la Suprema Corte cerca di porre un limite interpretativo in ordine al finora trascurato problema dell’adeguatezza causale dell’apporto del concorrente esterno. Adeguatezza causale dell’apporto materiale dell’extraneus, che sia idoneo a giustificare (sotto un profilo strettamente giuridico) l’applicazione della disciplina del concorso criminoso e che sia, inoltre, idoneo (sotto un meno nobile, ma non meno importante, profilo pratico) a giustificare l’applicazione di una pena di uguale entità al concorrente esterno ed al socius intraneus. Certamente, avere posto un limite concettualmente così importante, indicato nella sentenza nella situazione di ‘‘patologia’’ o di ‘‘emergenza’’ in cui si deve trovare la struttura associativa, dovrebbe valere ad escludere un approccio al tema esclusivamente in termini formali, restringendo il campo di applicazione dell’istituto a casi di un certo spessore causale. Ci
— 1307 — si potrebbe domandare, allora, se questi argomenti non rappresentino una sorta di pallido ‘‘pentimento operoso’’ per recuperare, in parte, gli effetti distorcenti che scaturiscono dall’applicazione dell’istituto del concorso eventuale ai reati di associazione. Il modello interpretativo offerto dalla Suprema Corte, pur nella sua criticabile semplificazione, potrebbe appagare un lettore riluttante all’eccessiva estensione della punibilità che, inevitabilmente, consegue alla figura del concorso esterno nel reato associativo. Approfondendo il campo d’indagine, però, ci si rende conto della fallacia di tale impostazione. Grave è, però, l’approssimazione con cui la Suprema Corte ritiene di dovere esprimere il concetto di patologia e di emergenza dell’associazione: ci si affida, infatti, nella sentenza, a ‘‘tutti i possibili distinguo ed approssimazioni possibili’’ per determinare gli elastici concetti di patologia e di emergenza della vita dell’associazione e che, a ben vedere, sono concetti di un’evanescenza straordinaria. Il rischio è quello che la giurisprudenza ventura — attesa l’indeterminatezza dei concetti espressi dalla Suprema Corte — si orienti in una metodologia di indagine, che ponga al culmine dell’analisi l’effetto di una causa ignota, o indeterminabile, cioè la valenza causale del contributo di un extraneus ad un’associazione criminosa (seppure in fase di ‘‘emergenza’’), pur in assenza di certezze in ordine al primario problema dell’imputazione causale, cioè del rapporto che deve esistere tra le condotte oggetto di giudizio (causa) e le conseguenze osservate meritevoli di punizione (effetto). In questi casi, infatti, ci si trova di fronte ad un reato in cui manca l’evento naturalistico cui riferire il rapporto di causa-effetto e, quindi, l’operazione di imputazione causale diviene, non soltanto difficile, bensì, impossibile. Inoltre, non sarebbe neppure chiaro quali effetti, o conseguenze, della condotta del concorrente esterno si debba osservare, perché l’associazione è tale per l’attività dei suoi componenti, per cui il contributo causale dell’extraneus (visto dal lato del suo effetto sul sodalizio) appare sempre interagire su una materia che è ‘‘viva’’ in virtù di condotte poste e volute da altri. Si può parlare, quindi, di concetti quali adeguatezza causale, ma non si sa, ancora, a quali effetti riferire tale adeguatezza, mentre ciò sarebbe indubbiamente necessario, in quanto nel concetto di causa adeguata è insito sempre la conoscenza, o la predeterminazione, dell’effetto. Ma qui, a ben vedere, ad essere indeterminato è proprio l’effetto, in quanto il fenomeno associazione, che è il frutto dell’associarsi, è qualcosa di impalpabile, di immateriale e, per di più, è tale per condotte e volontà altrui. Conseguentemente, se appare già difficilissimo dare ‘‘un corpo’’ a ciò che per definizione è ‘‘etereo’’, figuriamoci quanto possa essere difficoltoso individuare il momento in cui quel ‘‘corpo è anche gravemente malato’’! Come si vede si torna sempre allo stesso punto dal quale siamo par-
— 1308 — titi e cioè il trascurato problema della predeterminazione degli elementi da porre in relazione causale: da una parte si pone la condotta dell’extraneus (e su ciò si è tutti d’accordo), dall’altra, invece, si intravede una biforcazione: le Sezioni Unite ritengono che elemento di riferimento di quella causa (cioè la condotta dell’extraneus) debba essere l’associazione vista come entità superindividuale (seppure, in un momento di ‘‘emergenza patologica’’); mentre, a nostro avviso, se si vuole rispettare il principio di legalità, l’unico effetto giuridicamente rilevante, che quella causa può produrre, è una concreta influenza sulla condotta posta in essere dall’intraneus nel fatto di partecipare. Infatti, nel nostro ordinamento non è previsto il concorso tra una persona ed un ente superindividuale, ma il concorso di persone nel reato e — dalla lettura della motivazione della sentenza in commento — non sembra che questo aspetto sia stato neppure incidentalmente analizzato. Il vizio della sentenza è, però, ancora più profondo e si concentra nella premessa del ragionamento della Suprema Corte, precisamente nella parte in cui si afferma che: ‘‘il concorrente eventuale è, per definizione, colui che non vuole far parte dell’associazione’’. Si stabilisce, così, un principio di diritto (sic!) che vuole sancire la punibilità di chi, oltre a non essere associato (e, quindi, non realizza la condotta tipica), addirittura non vuole esserlo, stravolgendo l’idea che ciascuno di noi possa essersi fatto del principio di colpevolezza in relazione al fatto tipico. Partendo da queste premesse non ci si poteva aspettare, di certo, conclusioni migliori. Avv. FRANCESCO BERTOROTTA
COMMENTI E DIBATTITI
LE RADICI CRISTIANE E LAICHE DEL DIRITTO PENALE STATUALE
SOMMARIO: 1. Le matrici culturali della penalistica italiana. Dalla ‘‘Scuola classica’’ al ‘‘realismo penale’’ di Francesco Antolisei. — 2. Una ipotesi di studio: il liberalismo giuridico come secolarizzazione di valori autenticamente cristiani. - 2.1. L’etica kantiana tra valori cristiani e diritto penale laico. - 2.2. Nulla poena sine culpa. L’eredità dell’Aquinate nella dogmatica penale contemporanea. - 2.3. Il rilievo della ‘‘dignità umana’’ nella legislazione penale. Dalla colpevolezza ‘‘psichica’’ alla colpevolezza ‘‘normativa’’. — 3. Elementi ed influenze del pensiero giuridico cristiano negli ordinamenti penali moderni. - 3.1. Il principio della Gesinnung quale riscoperta del foro interno della coscienza nella dinamica della imputabilità. - 3.2. Responsabilità penale personale e principio ‘‘agostiniano’’ della scusabilità della ignoranza incolpevole. - 3.3. Dalla pretesa simmetria penale ‘‘veterotestamentaria’’ al ‘‘neoretribuzionismo’’ statuale. 1.
Le matrici culturali della penalistica italiana. Dalla ‘‘Scuola classica’’ al ‘‘realismo penale’’ di Francesco Antolisei.
Esiste un’intima relazione fra la diacronicità degli ordinamenti penali e il substrato culturale e storico che li accompagna. Ogni nuova soluzione, che ha inciso sul e corretto il corso del pensiero penalistico moderno non è mai maturata per solo effetto di germi di sviluppo dei concetti giuridici, ma per impulso di nuove visioni del mondo, di ‘‘nuove maniere di considerare lo Stato, il diritto, l’uomo, la pena, e per la forza di nuovi principi di giustizia materiale, di nuovi sistemi, valori etico-politici, di nuove concezioni gnoseologiche e metodologiche’’ (1). Per tutti questi motivi la ratio ispiratrice degli ordinamenti penali vigenti negli Stati europei può comprendersi solo se connessa al processo di razionalizzazione progressiva, avvenuto a partire dal XVII secolo, in forza del quale il pensiero di ispirazione religioso è stato a poco a poco escluso dal campo della giustizia. Dalla scuola napoletana del Genovesi e del Filangeri al gruppo milanese del ‘‘Caffé’’, si è sviluppata una geografia delle idee, attenta soprattutto ai problemi di ordine politico, economico e giuridico. Il risultato, che ne è conseguito per la scienza penalistica europea, è stato la formulazione programmatica dei presupposti ‘‘per una teoria giuridica del reato e della pena nonché del processo, nel quadro di una concezione liberale dello Stato di diritto basata sul principio utilitaristico della massima felicità divisa nel massimo numero, e sulle idee del contratto sociale e della divisione dei poteri’’ (2). La ricerca di un nuovo patto sociale fondato su di un umanesimo laico consapevole dei limiti intrinseci dell’uomo, ma nel contempo fiducioso nell’affermazione delle capacità della ragione di ordinare il mondo, spiega le ragioni laiche dello ius coercendi. Il contratto sociale è alla base della autorità dello Stato e delle leggi: ‘‘la sua funzione, che deriva dalla necessità di difendere la coesistenza degli interessi individuali nello Stato civile, costituisce anche il li(1) A. BARATTA, Filosofia e diritto penale. Note su alcuni aspetti dello sviluppo del pensiero penalistico in Italia da Beccaria ai giorni nostri, in Riv. int. fil. dir., 1972, p. 30. (2) A. BARATTA, op. cit., p. 31.
— 1310 — mite logico di ogni legittimo sacrificio della libertà individuale attraverso l’azione dello Stato stesso’’ (3). Nella difesa della società voluta contrattualmente e realizzata per assicurare la convivenza e lo sviluppo autonomo e libero di ogni consociato è il motivo di fondo della penalistica laica. Infatti per Beccaria (4), come per Romagnosi, il fine della pena si riassume nella difesa sociale. Essa rappresenta la controspinta al crimine; perciò, afferma Romagnosi nella Genesi del diritto penale (5), ‘‘se dopo il primo delitto si avesse una morale certezza che non siane per succedere verun altro dappoi, la società non avrebbe diritto veruno a punirlo’’ (6). Il principio della difesa sociale costituisce, dunque, la chiave di volta per comprendere la filosofia del diritto penale liberale e per tracciare la linea di confine fra il pensiero giuridico positivista e quello cattolico. Troppo sovente si confonde infatti, quasi fossero sinonime, l’idea della necessità sociale con quella della difesa sociale. Sono invece categorie nettamente distinte: la difesa sociale è un ‘‘criterio di netta derivazione naturalistica basato sul contrasto ‘‘azione-reazione’’, che prescinde da ogni risoluzione in termini di valore; ‘‘un istinto naturalistico di conservazione che spinge necessariamente ogni organismo a reagire contro stimoli esterni che possono compromettere le sue condizioni di vita e di sviluppo’’ (7). Il movimento di ‘‘difesa sociale’’ finisce così per propugnare un diritto penale coe(3) Ibidem, p. 32. (4) Il fine della pena non è altro per C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Milano, 1973, § XII, p. 47, ‘‘che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentosa sul corpo del reo’’; cfr. anche G. NEPPI MODONA, L’utile sociale nella concezione penalistica di Cesare Beccaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 503. (5) Cfr. G.D. ROMAGNOSI, Genesi del Diritto penale, in L. MANNORI, Uno Stato per Romagnosi. Il progetto costituzionale, vol. XVIII, Milano, 1984, p. 77. L’opera ha conosciuto varie edizioni: in particolare quella, del 1824 aumentata di un fondamentale terzo tomo, ha modificato sensibilmente la fisionomia generale dell’opera, risultata, rispetto a quelle del 1791 e del 1807, di apporti sociologici, criminologici e giuspolitici che tuttavia non intaccarono, come precisa L. MANNORI, Uno Stato per Romagnosi. Il progetto costituzionale, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, cit., p. 78, ‘‘la fondamentale componente utilitaristica, mutuata dall’ambiente illuministico padano, che rimarrà saldamente alla base di tutto quanto il pensiero del Nostro, fino alle sue produzioni più tarde’’. (6) Cfr. A. BARATTA, op. cit., p. 33. L. MANNORI, Uno Stato per Romagnosi. Il progetto costituzionale, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, cit., p. 78, osserva come nella Genesi del Diritto penale Romagnosi, utilizzando un metodo minutamente definitorio ed analitico, abbia offerto al lettore ‘‘i principali apporti penalistici del pensiero illuminista, ricomposti in una coerente e compatta unità sistematica’’. (7) G. BETTIOL, Sulla ‘nuova difesa sociale’ considerata da un punto di vista cattolico, in Homenaje al P. Julian Pereda S.J., Bilbao, 1965, p. 115; P. NOLL, La fondazione etica della pena, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, Milano, 1989, p. 39, sottolinea che ‘‘è opportuno considerare separatamente le affermazioni fra loro assai divergenti dei singoli membri della ‘‘Società internazionale di Difesa sociale’’, in modo da sottrarsi ad un giudizio globale. La stessa critica di Frey, Lange ed altri si rivolge in via principale, seppur non esclusivamente, contro la corrente estrema del movimento, impersonata da Gramatica e De Vincentiis [...] la quale propugna la sostituzione del diritto penale con un sistema di misure di sicurezza aventi carattere puramente preventivo, eticamente neutrali e ritagliate sulla personalità dell’agente [...] L’indirizzo moderato, quale si esprime in Ancel e Graven, postula invece idee che ad esempio nel codice penale svizzero, sono in ampia parte già realizzate, con risultati complessivamente buoni [...]. Le asserzioni
— 1311 — rentemente orientato alla prevenzione sociale, in continuità con le teorie di Lombroso e Ferri e col cosiddetto diritto penale di List, il quale bandisce ogni fondazione metafisica ed aprioristica della pena. La conseguenza è la esclusione di concetti quali il libero arbitrio, la colpevolezza, l’espiazione dalla ricostruzione dommatica della pena. L’insegnamento della ‘‘difesa sociale’’ sostiene pertanto una concezione del delitto e del delinquente puramente naturalistica ed accentuatamente positivistica, debitrice di un pensiero esclusivamente causal-razionalistico (8). La ‘‘necessità sociale’’ di tradizione cattolica si appella, al contrario, ad una visione o concezione sociale del diritto strettamente legata a valori morali, che ‘‘intende tutelare e garantire quando considera la pena come reazione dell’ordine giuridico in funzione della conservazione di un ordine sociale, dato l’inscindibile connubio diritto-società’’ (9). La centralità dell’ utilitarismo nella riflessione penale ottocentesca segna, in questo modo, il distacco definitivo della pena, ma più in generale del diritto penale, dai vettori teologici del peccato e della colpa. Ciò emerge con particolare evidenza, oltreché nella Genesi, anche nell’Introduzione allo studio del Diritto Pubblico Universale, nella quale Romagnosi fonda la propria riflessione non solo su di una medesima concezione del dato giuridico, sul medesimo rapporto fra fatto e valore, ma, soprattutto, ‘‘su uno stesso utilitarismo morale, tipico del sensismo maturo del tardo Settecento’’ (10). In questa prospettiva la sanzione penale e gli altri istituti penalistici furono ripensati pragmaticamente quali strumenti di ingegneria sociale, liberi da ipoteche morali ed ordinati alla difesa del consorzio sociale liberamente e responsabilmente voluto dai consociati-contraenti, perché unico sistema per vedere assicurati i propri diritti personali e reali di uomo — etico e di uomo — mercante (11). fondamentali della società si sostanziano nel rifiuto dell’idea retributiva e nella proposizione di un diritto penale costruito su precise cognizioni criminologiche e prevalentemente orientato in un senso specialpreventivo, il quale rispetti i principi dello Stato di diritto e la personalità del condannato [...]. Rispetto a queste asserzioni certamente alquanto generiche, un rifiuto aprioristico e generalizzato non sarebbe di certo sostenibile. Non posso in ogni caso condividere il punto di vista scettico espresso anche dai sostenitori moderati della Difesa sociale nei confronti dell’ ‘idea di colpevolezza e di responsabilità penale’, in quanto contraddirebbe i ‘postulati della criminologia’ [...]. Libertà, colpa e responsabilità non sono concetti di pura elaborazione speculativa, bensì realtà del rapporto interpersonale anche empiricamente verificabili’’. (8) E. NAEGELI, Il male e il diritto penale, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di L. Eusebi, cit., p. 78. (9) Ibidem, p. 115. Su questa distinzione riposa la codificazione penale italiana del 1930. Il Codice Rocco perpetua infatti una istanza già largamente accolta nelle codificazioni europee della Restaurazione, ma che sin dal periodo dell’illuminismo, con l’affermarsi delle teorie del contratto sociale, aveva portato ad attribuire ai delitti contro lo Stato la posizione preminente, trattandosi, osserva M. ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del titolo XII del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 60, ‘‘dei delitti tendenzialmente più gravi immaginabili, poiché tali da porre in pericolo la libertà civile e da far ripiombare la società nell’originario stato di natura’’. (10) L. MANNORI, op. cit., p. 81. (11) ‘‘La morale, la politica’’, osserva G.D. ROMAGNOSI, Istituzioni di Civile Filosofia, ossia di Giurisprudenza Teorica, t. XIX, Bergamo, 1862, p. 319, ‘‘e il diritto debbono riposare sulle leggi certe e solide della natura umana come l’agricoltura, la meccanica riposano sulle leggi della natura fisica. Folle o impostore è colui che pretende di sostituire le sue fantasie ai fatti imperiosi della provvidenza. Tempo è ormai di abbandonare le favole o d’una impaziente o superficiale filosofia o di un cieco ed arrogante misticismo. Niuno deve essere creduto sulla parola, ma deve addurre prove chiare e convincenti, e tanto più convincenti quanto più gravi sono gli interessi di cui si tratta ed aspra è la lotta che debbono sostenere’’.
— 1312 — Con l’illuminismo, il processo di laicizzazione del diritto penale ha determinato, dunque, la desacralizzazione della potestà coattiva, realizzata recidendo il nodo che da millenni si era formato fra peccato e delitto, fra crimine e colpa. Lo scopo primario dello strumento penale ha finito così per limitarsi ad assicurare le condizioni essenziali di convivenza attraverso la difesa dei beni ritenuti socialmente meritevoli di protezione giuridica (beni giuridici). Nell’idea di ricorrere allo strumento penale soltanto nei casi di ’stretta necessità’ può essere infatti ravvisata l’ascendenza illuministica della penalistica contemporanea. È d’obbligo infatti ‘‘il riferimento alle rispettive teorizzazioni di Beccaria, in Italia, e di Feuerbach in Germania, accomunate nello sforzo di combattere le concezioni penalistiche dell’ancién régime che finivano col sovrapporre religione, morale e diritto’’ (12). L’utile collettivo e la certezza giuridica attraverso cui passa la sicurezza sociale hanno segnato in questo modo i limiti di sviluppo del processo di liberazione del diritto penale dai vincoli morali e religiosi. Ciò ha significato fondare il valore ed il disvalore delle azioni umane sul calcolo razionale della loro utilità o disutilità obiettiva, ‘‘abbandonando il preconcetto che la pena fosse un’espiazione, per ridurla ad un mezzo di prevenzione generale mediante la intimidazione’’ (13). In realtà l’operazione concettuale descritta è il frutto di un processo storico-culturale più complesso, ‘‘che domina la storia delle idee all’incirca dal Quattrocento fino al Settecento; ad esso hanno dato un contributo fondamentale l’Umanesimo, la Scuola moderna del diritto naturale, l’illuminismo, e il moderno liberalismo giuridico che ha presupposto questo insieme di principi’’ (14). Il movimento ideologico, dunque, che si è sviluppato a cavallo fra Settecento ed Ottocento, ne ricaverà una scienza sociale ramificata e complessa, che servirà da base per porre a più riprese la candidatura dei filosofi alla direzione dello Stato, ‘‘in nome del valore assolutamente oggettivo e neutrale del loro metodo di composizione degli interessi, conseguito attraverso una considerazione rigorosamente empirico-positiva della materia sociale’’ (15). Ne deriva che, se interpretato correttamente, il processo di secolarizzazione, che ha investito la legislazione e la dommatica penale, non ha significato rifiuto o negazione della dimensione religiosa del trascendente, ma semmai la separazione dei campi. Il processo di secolarizzazione ha recuperato il senso del dualismo cristiano fra trascendenza e storia, fra Dio e mondo, fra Stato e Chiesa, che verrà compromesso più tardi dal monismo idealistico e materialistico della filosofia hegeliana e marxiana (16). Nei limiti di queste categorie di filosofia del diritto penale si è sviluppata la sintesi della classica costruzione di Francesco Carrara (17), che segna il sorgere della moderna scienza del diritto penale italiano (18). La centralità, nel pensiero del Carrara e prima ancora del (12)
G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1990, 3a ed.
p. 2. (13) T. PADOVANI, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 561; cfr. anche A. TESAURO, v. Colpevolezza, in Foro pen., 1960, pp. 1 ss.; J. DE ASUA, La colpevolezza normativa e il giudizio di rimproverabilità, in La Scuola positiva, 1963, pp. 25 ss. (14) M.A. CATTANEO, Cristianesimo e pensiero giuridico liberale, in Cristianesimo secolarizzazione e diritto moderno, a cura di L. Lombardi Vallauri-G. Dileher, Milano, 1981, p. 1218. (15) L. MANNORI, op. cit., p. 84. Cfr. anche V. FERRONE, Scienza, natura, religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, 1982, pp. 457 ss.; si veda anche W. TEGA, Il newtonianismo dei filosofi, in Riv. fil., III, 1975, pp. 369 ss. (16) M.A. CATTANEO, op. cit., p. 1219. (17) Cfr. F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Lucca, 1871. (18) Cfr. A. BARATTA, op. cit., p. 34. Sul punto cfr. anche F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1980, 8a ed., pp. 18 ss., ed ancora G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., pp. 13 ss.
— 1313 — Carmignani, della riflessione sul delitto inteso quale ‘‘ente giuridico’’, determina la gemmazione di principi che danno profilo ai caratteri più salienti della dommatica penale moderna, quali: la rigorosa delimitazione della sfera giuridica da quella morale, il rilievo, nella economia del reato, della volontà intelligente e libera e, da ultimo, la netta bipartizione fra elemento soggettivo ed elemento oggettivo, ‘‘che resterà la classica matrice di ogni successiva considerazione analitica’’ (19). Essa ha così contribuito ad ipostatizzare tanto il fatto criminoso che il soggetto attivo del reato, con la conseguenza di astrarre nella considerazione giuridica il fatto di reato dal contesto ontologico che lo lega, da una parte, all’intera personalità del delinquente, alla sua storia biologica e psicologica, dall’altra alla totalità naturale e sociale nella quale la sua esistenza è inserita. Il rifiuto da parte della Scuola positiva del Ferri (20) e del Garofalo di ogni forma di ipostatizzazione razionalistica a favore di una totalità biologica e sociale dell’individuo conteneva, pur sempre, una dose elevata di astrattezza e un tale eccesso di determinismo, da rendere l’autore del reato una realtà altrettanto astratta, frutto più di equazioni biologico-sociali che di una attenta ricerca criminologica. In verità, la scienza sia classica che positiva, in coerenza con i propri presupposti culturali razionalistici, avevano a cuore soprattutto la tutela del corpo sociale giuridicamente ed assiologicamente ordinato. Le ragioni di ordine sociale ed economico, in una società in fase di decollo industriale, finirono col prevalere sulle esigenze pedagogiche e personalistiche, proprie del pensiero cristiano, benché tentativi di disciplina penale dal contenuto non esclusivamente retributivo si affermassero, in Inghilterra, attraverso l’istituto della ‘‘probation’’ (21) ed in Italia con i c.d. ‘‘sostitutivi penali’’ (22), con i quali si cercò di proporre un modello di intervento penale sganciato dalla stretta logica liberistica a favore del valore di utilità sociale. Il solco tracciato dal pensiero laico ha poi costituito l’alveo nel quale si è sviluppato anche il ‘‘tecnicismo-giuridico’’ di Arturo Rocco. L’affermazione della capacità della ragione di ordinare il mondo con le sole sue forze; il richiamo non pessimistico ai limiti intrinseci all’uomo e l’affermazione della autonomia della scienza giuridica costituiscono infatti la sostanza del manifesto del ‘‘tecnicismo-giuridico’’. Tuttavia, la ricerca spasmodica di una pre(19) A. BARATTA, op. cit., p. 36. (20) Come sottolinea R. CERAMI, Origine ed evoluzione dei sistemi d’intervento punitivo statuale, in Giust. pen., I, 1994, c. 280, ‘‘nel progetto preliminare di codice penale italiano, elaborato dal Ferri nel 1921, furono realizzate tutte le istanze della Scuola positiva. Vi era il netto rifiuto della concezione del reato come ente giuridico; non si teneva conto della gravità del reato, ma della maggiore o minore pericolosità del delinquente, le sanzioni non avevano un carattere retributivo; era previsto un sistema di misure di sicurezza, chiamato a sostituire quello basato sulla pena detentiva a termine fisso, mediante la segregazione a tempo relativamente o assolutamente indeterminato’’. (21) Cfr. R. CERAMI, op. cit., c. 280, il quale sottolinea che con il termine ‘‘probation’’ si vogliono indicare le forme di trattamento lato sensu punitivo in ambiente libero. L’antecedente storico del ‘‘probation order’’ in Inghilterra è il ‘‘binding order’’, per il quale era riconosciuto al giudice il potere di lasciare in libertà un individuo riconosciuto colpevole di un reato minore ‘‘petty offense’’, ovvero un individuo ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico, come osserva Cerami, ‘‘anche indipendentemente dalla commissione di un reato, imponendogli l’obbligo di mantenere buona condotta, di prestare o meno una cauzione idonea e di pagare comunque una certa somma di denaro nel caso d’inosservanza dell’obbligo principale’’. (22) R. CERAMI, op. cit. c. 281, precisa, in particolare, che si tratta di misure a carattere educativo, familiare, economico, amministrativo, politico, giuridico, ‘‘che debbono diventare i primi e principali mezzi di quella preservazione sociale dalla criminalità, a cui le pene serviranno ancora, ma in via secondaria’’.
— 1314 — sunta purezza della scienza penale scissa da ogni legame con le discipline politiche, sociologiche, criminologiche ed economiche proposta dal Rocco nel 1910, nella prolusione sassarese su Il problema e il metodo della scienza del diritto penale (23), ha di fatto prodotto una involuzione della scienza penalistica. Essa si è chiusa su se stessa e si è principalmente ridotta ad un sistema di principi giuridici ciechi a qualsivoglia riflessione assiologica (24). Se dunque si voglia, a conclusione di questo breve iter storico sul fondamento ideologico e dommatico della penalistica italiana contemporanea, prospettare un quadro dello sviluppo della scienza criminale dagli anni ’30 in poi, potremmo rilevare che tutti gli sforzi dottrinali concorrono al recupero del legame della norma con la realtà, e tentano di ricostruire una alternativa critica alla prevalenza dell’indirizzo tecnico-giuridico. Delitala con: ‘‘Il ’fatto’ nella teoria generale del reato’’ (25), Cammarata (26) e da ultimo Antolisei, pur muovendosi nell’alveo dei principi di matrice liberale-illuministica, hanno avviato un processo di avvicinamento della scienza giuridica alle questioni di fondo di gnoseologia, di antropologia filosofica, di filosofia e teoria del diritto, di filosofia pratica e politica. In questo quadro di più sentita apertura ideologica ed epistemologica la dorsale laica, che sembra percorrere ed innervare la dommatica penale italiana, si incrina lasciando filtrare sensibilità culturali ed interpretazioni dottrinali di matrice diversa. Si pensi alla grande importanza avuta dalla ‘‘giurisprudenza dei valori’’ propugnata da Bettiol (27) in tanti scritti significativi, o la riscoperta del valore della persona umana nel diritto penale di Marcello Gallo, e, più in generale, della scuola penalistica torinese, grazie ai cui approfondimenti la scienza criminale si è avvicinata ai valori della tradizione cristiana, che il modello liberale per molto tempo aveva relegato in ombra. 2.
Una ipotesi di studio: il liberalismo giuridico come secolarizzazione di valori auenticamente cristiani.
2.1. L’etica kantiana tra valori cristiani e diritto penale laico. — Il processo di laicizzazione sembra avere sterilizzato ogni angolo della scienza penale da condizionamenti di natura etico-religiosa, così da generare un sistema coercitivo autenticamente liberale sciolto da ogni legame di origine cristiana e da ogni forma di Denkform metafisico-teologica, in coerenza, del resto, alla prospettiva antimetafisica assunta da un fronte della cultura filosoficogiuridica: si pensi a Kelsen o ad Hügerstrom, maestro del realismo scandinavo. Questa corrente dottrinale ha finito con l’intimidire il giurista contemporaneo, ed il penalista in particolare, portandolo sempre più di rado a ‘‘ricorrere nel suo argomentare a dati che non siano strettamente positivi, e direttamente radicati nel sociale, inteso nella sua forma più immediata e circoscritta’’ (28). La scienza penale ha tuttavia dimostrato di essere ancora sensibile a forme di pensiero e categorie di natura non esclusivamente razionalista. Fra il fronte del pensiero laico e quello cristiano hanno infatti avuto origine, nel corso del tempo, un gioco di (23) Cfr. A. BARATTA, op. cit., p. 44. (24) Come osserva R. CERAMI, op. cit., p. 45, Arturo Rocco sosteneva la necessità di ridurre lo studio del diritto penale alle norme che lo costituivano, riducendo così la scienza giuridica penale, principalmente se non esclusivamente ad un sistema di principi di diritto, ‘‘ad una teoria giuridica, ad una conoscenza scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene, ad uno studio insomma generale e speciale del delitto e della pena sotto l’aspetto giuridico come fatto o fenomeno regolato dall’ordinamento positivo’’. (25) G. DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato, Padova, 1930. (26) Cfr. A. CAMMARATA, Il significato e la funzione del ‘‘fatto’’ nella esperienza giuridica, Tolentino, 1929. (27) Cfr. BARATTA op. cit., p. 49. (28) F. D’AGOSTINO, Fondamenti filosofici e teologici della sanzione penale, in Monitor eccl., 1989, p. 1.
— 1315 — riflessi ed un intrecciarsi di richiami, tali da rendere la laicizzazione del potere coercitivo un processo articolato, complesso e spesso contraddittorio. Come osserva acutamente Benjamin, ‘‘solo i più ingenui possono continuare oggi a credere che il mirabile sistema delle scienze umane, costruito a partire da un esplicito rifiuto di qualsivoglia fondamento metafisico, sia in grado di condurre da solo una adeguata ‘partita epistemologica’, nessuna dimensione del sapere contemporaneo può fare a meno di un occulto, ma non meno reale, fondamento assoluto’’ (29). Ciò non significa certo proporre una teologicizzazione o una metafisicizzazione del diritto e della scienza giuridica, ma piuttosto insistere sulla circostanza che la legittima autonomia delle scienze umane coinvolge non tanto i fondamenti quanto soltanto le articolazioni applicative o esperienziali. Queste osservazioni, osserva D’Agostino, ‘‘valgono soprattutto in ambito penale, dove ogni tentativo di ricostruire una dommatica penale sulla base di soli elementi empirici come la prevenzione, la difesa sociale, l’intimidazione o la rieducazione sociale del reo, sembra assolutamente fragile, sia perché arriva rapidamente a negare se stessa come teoria giuridica, sostituendo al compito specifico dei giuristi quello dei cultori di scienze umane, sia perché quando se ne sottopongono progetti e pretese all’unico tribunale che veramente conti agli occhi di un non metafisico, quello della verifica dei fatti [...] se ne rivela rapidamente la piena [...] inconsistenza’’ (30). Ciò sembra trovare conferma nella riflessione del Cattaneo secondo cui più elementi, che per il momento mi limito ad assumere come meri indizi di cui andrà accertata più oltre la fondatezza, sembrano fondare il teorema secondo cui il liberalismo giuridico non sia stato altro che ‘‘la manifestazione, in versione ‘secolarizzata’ di valori autenticamente cristiani, talora dimenticati e misconosciuti dalle confessioni religiose cristiane’’ (31). Il primo indizio che concorre a fondare questo teorema va ricercato nella teorica etica di Kant, che risente per vari aspetti degli influssi e condizionamenti della teologia protestante. La Critica della Ragion pratica non conosce infatti frattura fra dimensione morale e religiosa, ma rivela una piena sintonia fra imperativo etico e volontà divina. Si definiscono così i termini del criticismo etico kantiano, che nella seconda formulazione dell’imperativo categorico relativo al primato della umanità quale fine in sé, trova la sua espressione giuridicamente più significativa. La punizione giuridica per il filosofo tedesco non può infatti ‘‘essere decretata semplicemente come un mezzo per raggiungere un bene, sia a profitto del criminale stesso, sia a profitto della società civile, ma deve soltanto essergli applicata perché egli ha commesso un delitto. E ciò perché l’uomo non deve mai essere trattato come un puro mezzo in servizio dei fini di un altro, ed essere confuso con gli oggetti del diritto reale, contro di che egli è garantito dalla sua personalità innata [...]. Egli deve essere trovato meritevole di punizione, prima ancora che si possa pensare a ricavare da questa punizione qualche utilità per lui stesso o per i suoi concittadini’’ (32). Questo brano contiene l’espressione più significativa del pensiero giuridico kantiano in campo penale; il rifiuto della concezione utilitaristica della pena, che sacrifica i diritti individuali all’interesse generale della società, e l’esclusione della prevenzione generale quale fine esclusivo della pena, perché, col punire il colpevole quale semplice esempio nei confronti degli altri, si viene a ledere la sua dignità, e si finisce col trattare l’essere umano quale mero mezzo per un fine a lui estraneo (33). Il vero fine oggettivo della moralità per Kant è infatti l’umanità presente come volontà razionale in tutti gli uomini (34): ‘‘Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona (29) W. BENJAMIN, Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, 1962, p. 72. (30) F. D’AGOSTINO, op. cit., p. 1. (31) M.A. CATTANEO, Cristianesimo e pensiero giuridico liberale, cit., p. 1221. (32) I. KANT, Kritik der Praktischen Vernunft, tr. it., Critica della ragione pratica, p. I, 1, I, c. I, Milano, 1982, pp. 224-227. (33) Cfr. M. CATTANEO, Sulla filosofia penale di Kant e di Hegel, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, cit., pp. 118 ss. (34) U. PERONE-G. FERRETTI-C. CIANCIO, Storia del pensiero filosofico, vol. II, Torino,
— 1316 — come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine e non mai unicamente come mezzo’’ (35). Da ciò la convinzione che la punizione giuridica non può mai essere comminata semplicemente come mezzo, ‘‘bensì sempre e soltanto perché egli ha commesso un delitto, dato che l’uomo non può mai essere trattato come puro mezzo per fini di un altro uomo ed essere confuso con gli oggetti del diritto privato, contro il che lo tutela la sua personalità innata’’ (36). In questo passaggio della Fondazione della metafisica dei costumi sono riassunti alcuni punti chiave del liberalismo kantiano che hanno poi avuto una significativa influenza sulla penalistica laica. Infatti, prima ancora che nei principi di libertà, uguaglianza, indipendenza dei poteri, il liberalismo di Kant (37) afferma in modo primario il valore dell’uomo (38) come fine da cui far discendere quale corollario il fatto ‘‘che lo Stato non deve mai essere un fine in sé, ma un mezzo in favore dell’uomo’’ (39). Nell’ attenzione riservata alla persona è dato dunque ravvisare il filone di pensiero che da Kant, attraverso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo giunge alla Redemptor Hominis di Giovanni Paolo II, ove la tradizione kantiana, incentrata sul valore della dignità umana, si salda con la più autentica tradizione cristiana. In sostanza, osserva Cattaneo, ‘‘nell’Enciclica Redemptor Hominis il principio kantiano dell’uomo come fine viene saldamente radicato alla sua redenzione da parte di Cristo, viene fondato sulla stretta unione dell’uomo con la persona di Cristo’’ (40). Prende dunque forma un fronte di pensiero che, dal criticismo kantiano attraverso la tradizione cattolica e protestante, giunge nel cuore degli ordinamenti giuridici moderni al fine di assicurare il processo di umanizzazione del diritto. 1977, pp. 370 ss. Si confronti anche M. CAMPO, Schizzo storico della esegesi e critica kantiana. Dal ‘‘ritorno a Kant’’ alla fine dell’Ottocento, Varese, 1959; si veda inoltre J. MARÉCHAL, Le point de depart de la métaphisique, voll. I-III, Parigi, 1922-1926, il quale ha cercato di utilizzare l’impostazione critico-trascendentale di Kant per una migliore fondazione della filosofia tomista, dando origine a un tentativo di sintesi fra metafisica classica e pensiero moderno, che ha avuto notevoli sviluppi in campo neoscolastico. In particolare sul pensiero religioso si veda C. DENTICE, Il razionalismo religioso di E. Kant, Bari, 1920 e ancora, A. LAMACCHIA, La filosofia della religione in Kant, Bari, 1969. Si veda anche L. EUSEBI, La nostalgia di Kant e di Hegel e l’irriducibilità del problema penale a una questione di giustizia distributiva, in La pena in crisi. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, pp. 7 ss. (35) I. KANT, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Hamburg, (ristampa anastatica), 1965, tr. it., Fondazione della metafisica dei costumi, Torino, 1965, pp. 53 ss. (36) I. KANT, op. ult. cit., p. 49. (37) Vi fa però eccezione, in modo che non può stupire, la sua posizione sul reato di infanticidio. M. A. CATTANEO, op. cit., p. 124 osserva al riguardo come in contrasto con i principi umanitari sia particolarmente il caso dell’infanticidio, ‘‘il quale — come l’uccisione in duello — benché sia di per sé meritevole di punizione, non può essere punito con la pena di morte (perché qui la legislazione statale viene ad urtare con la legge dell’onore). Kant afferma addirittura: ‘‘Il bambino venuto al mondo fuori dal matrimonio è al di fuori della legge (perché la legge è il matrimonio), e per conseguenza è anche fuori dalla protezione della legge. Egli si è per così dire insinuato nella società civile [...] di modo che questa può ignorare la sua esistenza e di conseguenza anche la sua distruzione, e d’altra parte non vi è nessun decreto che possa eliminare il disonore della madre, dopo la conoscenza del parto illegittimo’’. (38) Ulteriore deroga al valore della persona si constata nella riflessione del filosofo tedesco sui delitti sessuali. Cfr. M.A. CATTANEO, op. ult. cit., p. 125. (39) M.A. CATTANEO, op. cit., p. 1212. (40) M.A. CATTANEO, op. cit., p. 1217.
— 1317 — È evidente che la tendenza a fare scomparire la ferocia, che caratterizzava il sistema penale dei paesi europei fino alla fine del Settecento, nonché lo sforzo di collocare l’uomo al centro dell’attenzione istituzionale, costituiscono la traduzione concreta, sul piano giuridico e sociale, di alcuni elementari principi cristiani (41). Il profilo antropologico pronunciato del pensiero kantiano costituisce poi l’occasione per meditare su di un altro importante profilo. La presenza nell’uomo di una legge morale, osserva Kant, rileva l’esistenza di alcune realtà metafisiche che stanno totalmente al di là del mondo fenomenico dell’esperienza. Tra di esse particolare importanza ricopre la ‘‘libertà’’, condizione indispensabile dell’esistenza stessa della legge morale. La libertà diviene infatti il mezzo attraverso cui partecipare ad una realtà non solo fenomenica, dominata dalla legge della causalità necessitante, ma libera e responsabile (42). Ne consegue che anche il grado di imputabilità deve essere graduato sulla maggiore o minore libertà nel compiere l’atto delittuoso, cosicché le condizioni di punibilità di un atto delittuoso vanno ricercate, per Kant, non solo nel fatto che l’imputato sia il vero autore del delitto, ma soprattutto che l’azione delittuosa sia stata posta in essere volontariamente e intenzionalmente, con libertà (43), e che siano del tutto assenti le cause di giustificazione. Il binomio responsabilità-libertà, che viene in questo modo a configurarsi, costituisce un importante punto di intreccio fra liberalismo giuridico e giusnaturalismo cristiano, dal momento che uno dei fini della giuridicità orientata cristianamente sta proprio nella giustizia intesa come virtù fondata su scelte di libertà responsabile (44). Tutta la tematica dei diritti fondamentali del cristiano all’interno dell’ordinamento giuridico ecclesiale, come elaborata successivamente al Vaticano II, considera la ‘‘responsabilità’’ come radice ontica della libertà. ‘‘Dove non c’è libertà — osserva Hervada — non c’è doverosità ma necessità: la libertà è responsabilità, pertanto non solo è compatibile con l’esistenza dei doveri, ma questi da essa derivano [...] come esigenze di coerenza dello stesso essere cristiano’’ (45). È di tutta evidenza il parallelismo che può instaurarsi tra la riflessione cristiano-canonistica ed il pensiero penale moderno. Mi riferisco in particolare alla concezione normativa di colpevolezza elaborata nella dottrina tedesca dal Welzel (46). Con essa, infatti, la colpevolezza ha cessato di essere una qualità della azione per trasformarsi in qualità del processo in(41) G.M. FLICK, Persona umana e diritto penale, in Iustitia, 1977, p. 105, precisa che ‘‘proprio muovendo da quella umiltà, sia in occasione dell’incontro del 1965 che del convegno dei giuristi cattolici del 1950, già si sottolineava la necessità di evitare le teorizzazioni esasperate ed assolutizzanti, e di riconoscere le componenti e le aspirazioni sia di giustizia, sia di utilità, del diritto penale; si sottolineava infine la necessità, ultima ma non ultima, di garantire il rispetto della persona umana nell’esecuzione della sanzione, in una prospettiva irrinunziabile di umanizzazione e di individualizzazione di quest’ultima, nella duplice ipotesi della pena e della misura di sicurezza’’. (42) Cfr. U. PERONE-G. FERRETTI-C. CIANCIO, Storia del pensiero filosofico, cit., p. 375. (43) Come osserva E. NAEGELI, Das Böse und das Strafrecht, Kindler, München, 1966, tr. it., Il male e il diritto penale, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, cit., p. 95, ‘‘l’uomo è l’essere capace di rendersi colpevole. Ma non è pensabile una colpevolezza senza una qualche libertà umana di volere, o, per meglio dire, di decidere’’. Sullo stesso punto si è espresso K. RAHNER, Schuld-Verantwortung-Strafe in der Sicht der Katholischen Theologie, in Schriften zur Theologie, VI, Einsiedeln, 1965, pp. 238-261, tr. it. Colpa-responsabilità-punizione nel pensiero della teologia cattolica, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, cit., p. 147, secondo cui ‘‘è tanto ovvio che può esistere una colpa in senso teologico solo quando esistono prima libertà e responsabilità’’. (44) Cfr. J. HERVADA, Diritto costituzionale canonico, Milano, 1989. (45) J. HERVADA, op. cit., p. 109. (46) Cfr. H. WELZEL, Il nuovo volto del sistema penale, in Jus, I, 1952, pp. 48-49.
— 1318 — tellettivo e volitivo del soggetto. Così concepita, la colpevolezza ha riguardato il momento formativo della volontà: il soggetto, invece di volere l’azione illecita (momento di libertà) potrebbe foggiarsi una volontà di azione conforme alla norma (momento di responsabilità). ‘‘Tutta la colpevolezza è pertanto colpevolezza di volontà. Solo quello per cui l’uomo può fare volontariamente qualcosa può essergli rimproverato a titolo di colpevolezza’’ (47). Si trasforma pertanto il profilo ontologico di quest’ultima nella libertà del volere che, unica, consente di indirizzare l’azione e di formulare un giudizio di valore. Welzel osserva infatti come la nozione di colpevolezza non possa risolversi nella mera frattura fra oggettività dell’azione ed ordinamento, ma vada piuttosto ricostruita sulla base del rimprovero per la mancata omissione dell’azione antigiuridica (48). Se i dati esaminati sinora fanno supporre che vi sia stata una influenza del criticismo kantiano nell’ assicurare il passaggio di valori e modi di pensare cristiani nel pensiero giuridico laico, è altresì vero che questa osmosi appare meno chiara e più contraddittoria su altri profili fondamentali della moderna teoria generale del diritto penale. Penso soprattutto alla concezione rigidamente retributiva della pena (49), rispetto alla quale l’assunzione del modello soteriologico anselmiano (50), pur confermando la presenza di una radice cristiana classica nell’impianto teorico kantiano nel suo ispirarsi ad una logica rigidamente retributiva, che sacrifica al valore della ‘‘satisfactio’’ quello dell’ ‘‘amore’’, colloca da ultimo la riflessione di Kant sulla funzione della pena in contrasto con l’interpretazione più autentica dell’Antico Testamento. Si riconosce pur sempre, infatti, nel modello ebraico della tsedàqàh (51), quanto a dire nella giustizia risanatrice di Jahvé e non nel modello retributivo del ius talionis, l’essenza del potere coercitivo cristiano. Tutta la tradizione ebraico-cristiana insegna che la giustizia separata dalla misericordia si trasforma ineluttabilmente in un altro da sé divenendo freddo calcolo, nel quale la dimensione umana del diritto viene ben presto soffocata. ‘‘La stessa altissima tradizione, però, non ci ha dato mai motivo per credere che la misericordia possa fare a meno della giustizia, divenendo così cieca e imprudente [...] è proprio quando viene avulsa dalla giustizia che la misericordia diviene cecità ontologica, incapacità di comprendere la verità delle cose, ottusità, di fronte alla quale non può che valere l’ammonimento anselmiano: nondum considerasti quanti ponderis sit peccatum’’ (52). La tsedàqàh (53) si profila dunque come qualcosa di più di una iustitia o diàkaiosynè meramente retributiva, e strettamente giudiziaria: ‘‘Essa ricomprende un più ampio spettro di (47) D. SANTAMARIA, v. Colpevolezza, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 659. (48) H. WELZEL, op. cit., p. 49. (49) Che l’idea retributiva nella dottrina penalistica tedesca, osserva P. NOLL, Die ethische Begrundung der Strafe, Tubingen, 1962, tr. it., La fondazione etica della pena, in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, cit., p. 31, ‘‘sia considerata dalla maggior parte degli autori come il fondamento più sicuro della pena, ed in particolare come l’unico eticamente inoppugnabile, va senza dubbio ascritto all’influsso dell’eminente autorevolezza di Kant e di Hegel. Da quando Kant scrisse le sue famose e citatissime proposizioni, regna l’opinione, praticamente incontrastata sul piano filosofico, secondo la quale solo la retribuzione potrebbe offrire alla pena un fondamento etico assoluto svincolato da giustificazioni puramente relative tributarie di qualsivoglia finalità’’. (50) L. EUSEBI, Cristianesimo e retribuzione penale, cit., p. 284, precisa come per Anselmo ‘‘Dio non può non volere la salvezza dell’uomo, ma questa è possibile solo pagando il debito, ossia restituendo a Dio l’onere sottratogli con il peccato. Ora, non essendo in grado l’umanità di prestare una soddisfazione sufficiente, Dio deve mandare il suo Figlio affinché, assunta la natura umana, paghi con la morte il prezzo del riscatto’’. (51) Vedi il par. 3.3, a proposito della concezione di pena nell’ A.T. (52) F. D’AGOSTINO, op. cit. p. 8. (53) Cfr. E. WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto fra cristianesimo e pena, cit., p. 18 ss.
— 1319 — modalità comportamentali umane, senza separazione fra giustizia e misericordia’’ (54). Il modello di sanzione proposto dall’Antico Testamento si avvicina, insomma, più alle modalità ‘‘di un castigo voluto da genitori preoccupati’’ (55), che non ad una sanzione retributiva divina come prospettata dal filosofo tedesco. Nel termine ‘‘colpire’’ viene sperimentato, infatti, l’estremo slancio pedagogico di Jahvé verso l’uomo, e non la sua volontà di punizione. A questo punto si potrebbe anche affermare che, sotto l’almeno specifico profilo finalistico della pena, la teorica kantiana, lontana dalla oeconomia amoris (56) di chi giudica e di chi punisce, ha portato la dommatica penale liberale lontano dallo spirito originario del messaggio neotestamentario e ha invece favorito il consolidarsi di un profondo solco retribuzionista che la scienza penale ha superato soltanto in parte. Altrettanto ambigua risulta essere l’influenza del pensiero kantiano sul processo di secolarizzazione del diritto penale, attuatosi attraverso la separazione fra la sfera del delitto e quella del peccato. Attraverso la formalizzazione di tale dualismo è trascorso il fenomeno di laicizzazione; e tuttavia, la riflessione giuridica kantiana giunge a questo esito muovendo dal dualismo della teologia paolina. Nell’etica kantiana, in particolare nella distinzione fra moralità e legalità, è presente l’influenza di S.Paolo con la sua tipica contrapposizione fra Spirito e Legge. Con grande precisione Pigliaru (57) ha potuto indicare i termini fondamentali del problema etico proprio nei nomi di S.Paolo e di Kant: ‘‘Un’etica che al momento giusto sa di fondarsi su un concetto fondamentale ed incontrovertibile, l’assunzione del principio che si può e si deve porre a base della propria azione, il principio assoluto di una morale che non vuole trovare altro che in se stessa il proprio appagamento’’ (58). La complessa eredità liberale-protestante che Kant ha lasciato al pensiero giuridico europeo impone ora di verificare se la dottrina cristiana abbia o non influenzato il pensiero giuridico liberale, cosa probabilmente vera, sebbene con sfumature diverse, come dimostra il giusnaturalismo insieme cattolico ed illuminista di Francesco Carrara (59), e, soprattutto, di accertare fra l’orientamento agostiniano-protestante e quello tomista-cattolico, quale in ambito cristiano abbia influito con maggiore forza. È comunque possibile affermare fin da ora che la concezione illuministica e liberale del diritto, caratterizzato dalla esteriorità e dalla coercibilità, secondo il filone che va da Thomasius a Kant, corrisponde senza dubbio ad una fondamentale intuizione di natura essenzialmente cristiana (60). 2.2. ‘Nulla poena sine culpa’. L’eredità dell’Aquinate nella dogmatica penale moderna. — Anche la scienza giuridica conosce una sorta di geologia dei principi. Il modello di un ordinamento giuridico che si rinnova continuamente e annulla il proprio passato non riproduce affatto il divenire del diritto, che percorre con ritmo più lento le ere dei valori. Lo sviluppo ordinamentale non è sufficiente a cancellare le tracce del passato: il giurista quale fossile, muto testimone di un tempo ormai morto, o quale radice ancora vitale, deve spesso confron(54) E. WIESNET, op. cit., p. 25. (55) Ibidem, p. 26. (56) Cfr. F. CARNELUTTI, Meditazione sulla essenza della colpa, in Riv. it. dir. pen., 1955, p. 7. Questa, in ultima analisi, è la visione tomista della sanzione. Per l’Aquinate infatti, rileva L. EUSEBI, op. cit., p. 285, ‘‘l’obiettivo della redenzione non è primariamente la restituzione dell’ordine oggettivo amato da Dio per se stesso, ma il cambiamento della volontà umana che ha abbandonato l’amore. Il Dio di Tommaso non ama in ultima analisi l’ordine ma l’uomo’’; sul punto si veda anche S. COTTA, Diritto e morale, in Ius Ecclesiae, 2, 1990, pp. 419-432. (57) A. PIGLIARU, La resistenza come virtù dell’individuo, in La piazza e lo Stato, Sassari, 1961, p. 68. (58) M.A. CATTANEO, op. cit., p. 1219. (59) Cfr. M.A. CATTANEO, op. cit., p. 1247. (60) Ibidem, p. 1247.
— 1320 — tarsi con un presente normativo, carico di passato e gravido di futuro. Sussiste una sorta di movimento circolare nel quale passato e presente giuridico si intersecano e si rendono fungibili in un gioco di influssi reciproci, che rendono lo sviluppo del materiale normativo pluridirezionale e plurisemantico. È possibile intuire nella filigrana del principio di responsabilità penale, di cui all’art. 27 cost. italiana, la traccia del pensiero tomista. Questo indizio prende corpo dall’esame degli elementi sostanziali della pena elaborati dall’Aquinate. Se anche manchi, in Tommaso, una definizione formale di pena, nella Summa si trovano tuttavia espressi chiaramente numerosi elementi costitutivi di essa, tanto che il venir meno anche di uno solo, comporta che si debba parlare di pena solo in senso improprio. Vengono infatti in considerazione: l’elemento materiale, che viene fatto coincidere con la nozione di male: ‘‘De ratione poenae est quod sit malum [...] privatio boni’’ (61); l’elemento formale che richiama il principio ‘nulla poena sine culpa’: ‘‘Est de ratione poenae [...] quod pro aliqua culpa inferatur’’ (62); e, per ultimo, la causa efficiente o aspetto psicologico che consta nel fatto che la pena è in contrasto con la volontà di chi la subisce: ‘‘Est de ratione poenae [...] quod sit contraria voluntati’’ (63). In particolare, ai fini della presente ricerca, assume notevole interesse l’identità fra ‘‘l’elemento formale’’ e il principio di ‘‘responsabilità penale personale’’. La perentoria convinzione dell’Aquinate che la pena presupponga la colpa trova infatti il suo pendant nella considerazione che l’applicazione della pena, in forza dell’art. 27 cost., presupponga l’attribuibilità psicologica del singolo fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto. Tale simmetria sembra essere confermata dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988, nella quale si è osservato che la responsabilità personale non è un principio moderno, ‘‘ma un principio che, già nel 1500 e 1600, il diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell’anima, aveva reso effettivo (64). Sulla base di questi presupposti si deve concludere che la imputazione, tanto per il diritto penale statuale che per il diritto canonico, si arresta ‘‘laddove il soggetto non sia in grado di signoreggiare il verificarsi degli eventi: il che vuol dire dunque, che il rimprovero di colpevolezza implica che si presupponga come esistente una possibilità di agire diversamente da parte del soggetto cui il fatto viene attribuito’’ (65). Prende così corpo un ulteriore indizio circa il processo d’infiltrazione del pensiero cristiano nel tessuto normativo penale statale. Non si può infatti negare la sussistenza di un rapporto ben più che di semplice analogia fra il pensiero tomista e la moderna causalità giuridica, la quale, nella formula: ‘‘puniri non est malum, sed fieri poena dignum’’, trova ancor oggi la sua ultima giustificazione legale. Per il costituente del ’48, come già per l’autore della Summa, v’è la convinzione che la colpa costituisca la sola causa giuridica che giustifica e legittima l’applicazione della sanzione penale (66). ‘‘Alla categoria della colpevolezza nella sua operatività concreta appare pertanto affidata, in maniera del tutto particolare, quella contemperazione fra punti di vista diversi — di tutela della società e di rispetto dell’ individuo — che costituisce istanza fondamenale delle analisi più avvertite sui fini della pena’’ (67). (61) TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentes, III, p. 141. (62) TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 46, 6, tr. it., Firenze, 1949. (63) Ibidem. Si veda inoltre V. FERRARA, Attualità della dottrina tomista su alcune fondamentali nozioni di diritto penale, in Apollinaris, 1979, p. 529. (64) Cfr. sentenza Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, in Foro it., 1988, I, c. 1400. (65) G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 155. Si veda anche F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., pp. 271 ss.; R. VENDITTI, v. Colpevolezza, in Nss. Dig. it., III, Torino, 1957, pp. 555 ss.; C. ROXIN, Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, pp. 16 ss. (66) Cfr. V. FERRARA, op. cit., p. 539. (67) L. EUSEBI, Funzione della pena e funzione limitativa della colpevolezza, in La pena in crisi. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, p. 127.
— 1321 — Questo altissimo principio di civiltà giuridica è percorso da una ratio che trova nel valore cristiano della dignità umana un fattore che, a ben vedere, è laico e cristiano al tempo stesso. Un importante riscontro si ha, ad esempio, negli interventi alla Costituente di Aldo Moro, che, nel difendere le ragioni del principio di responsabilità personale, ebbe a sottolineare come quest’ultimo costituisca ‘‘un’affermazione di libertà e di civiltà. Si risponde per il fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio. Questo è il principio del diritto moderno che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare quello che si chiama il fatto materiale’’ (68). Questo principio si ritrova espresso esplicitamente nel § 46 del codice penale tedesco, nel quale si dispone che ‘‘la colpevolezza dell’autore del reato è fondamento per la commisurazione della pena’’. Per le persone che non sono responsabili, che non hanno cioè agito in modo colpevole, la legge prevede determinate misure di rieducazione e di sicurezza (69). Un’ulteriore illuminante conferma di questa dottrina si ha nella sentenza del Bundesgerichtshof del 1952, nella quale si è affermata la priorità della colpevolezza rispetto alla pena. Con il giudizio di disvalore della colpevolezza viene infatti rimproverato al soggetto di aver agito in modo non conforme al diritto: ‘‘il fondamento intimo del rimprovero di colpevolezza — osserva la sentenza — consiste nel fatto che l’uomo è dotato di autodeterminazione libera, responsabile ed etica ed è dunque capace di decidere di comportarsi in modo lecito e non illecito, di orientare in altre parole la propria condotta secondo le norme del dovere giuridico e di evitare invece ciò che è giuridicamente vietato’’ (70). Ma questa posizione — come meglio si analizzerà nello studio del principio di Gesinnung — è stata messa in discussione dalla dottrina tedesca medesima. Alla posizione normativista si è andata infatti via via contrapponendo quella psicologica, ed oggi, in Germania, il principio di colpevolezza risulta un concetto complesso, ‘‘che comprende sia l’oggetto della valutazione che la valutazione dell’oggetto. In questo senso si distingue la fattispecie della colpevolezza (l’oggetto della valutazione), la rimproverabilità (come la valutazione stessa) e la colpevolezza come concetto che comprende e riassume entrambi’’ (71). La convinzione tomista (72) che non vi possa essere pena per l’uomo, anche solo a livello di contrarietà alla propria volontà, se non a causa di una colpa precedentemente compiuta: ‘‘quod poena non sit in homine, etiam secundum quod est contra voluntatem, nisi culpa praecedente’’ (73), introduce un ulteriore elemento di confronto con la moderna dommatica penale europea. S.Tommaso oltre a cogliere la relazione fra colpa e pena, ha infatti introdotto nella propria ricostruzione teorica l’elemento della proporzionalità: ‘‘Essendo la pena una reazione alla colpa ed essendo ogni reazione uguale e contraria alla sua azione, ne segue che tra colpa e pena debba esistere una proporzione di uguaglianza e contrarietà’’ (74). (68) Cfr. La Costituzione nei lavori prepratori, vol. VI, p. 367 (seduta del 18 settembre 1946), in G. Branca-A. Pizzorusso, Commentario alla costituzione. Rapporti civili, artt. 27-28, Bologna, Zanichelli, 1991, p. 7. (69) Cfr. M. MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano, Torino, 1993, p. 164; cfr. anche H. HIRSCH-T. WEIGEND, L’evoluzione della teoria della colpevolezza nella Repubblica Federale Tedesca, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 3 ss. (70) Cfr. M. MAIWALD, op. cit., p. 168. (71) Cfr. K. VOLK, Introduzione al diritto penale tedesco. Parte generale, Padova, 1993, pp. 27 ss. (72) Cfr. F. OLGIATI, Il concetto di giuridicità in San Tommaso d’Aquino, Milano, 1943; S. COTTA, Il concetto di legge nella ‘‘Summa Theologiae’’ di San Tommaso d’Aquino, Torino, 1955. (73) Cfr. V. FERRARA, op. cit., p. 530. (74) V. FERRARA, op. cit., p. 540.
— 1322 — La sensibilità dell’Aquinate (75) nell’esigere la proporzionalità nella reazione al crimine anticipa con sorprendente modernità la più aggiornata riflessione sulla funzione della colpevolezza, che separa la riflessione sul profilo soggettivo del reato dal problema della funzione della pena e ricerca i criteri di imputazione senza farsi condizionare dal finalismo preventivo dell’ordinamento (76). Il vero problema non è più lo scopo della pena, identificato esclusivamente nella protezione dell’ordinamento, quanto il ricorso ad essa, solo in presenza della colpevolezza del reo. ‘‘Costituisce così un’istanza etica l’esigenza che la pena sia ammessa soltanto nei limiti in cui sia assolutamente indispensabile alla tutela dell’ordinamento collettivo e dei beni giuridici, ed altresì risulti adeguata alla colpevolezza oltre che il più possibile ‘sensata’’ (77). La differenza sostanziale che intercorre tra la nozione tomistica di pena e quella del CIC, sta nel fatto che, nella nozione tomistica, ‘‘manca completamente l’accenno alla finalità della pena ed il motivo è riposto nel fatto che [...] la pena consegue degli effetti che possono essere intesi come dei fini estrinseci speciali. Ma il fine intrinseco della pena è essenziale alla pena stessa già per quella sua relazione alla colpa di cui abbiamo fatto cenno’’ (78). Per Tommaso, come per il penalista contemporaneo, un diritto penale che ragioni in termini esclusivamente retributivi potrebbe giustificare l’esistenza di un sistema di pene sproporzionate all’entità della colpa, in modo da svolgere una funzione preventiva più incisiva. Ma simile scelta potrebbe condurre a soluzioni normative contrarie alla dignità umana, strumentalizzata in tal modo a fini di politica criminale (79). Al contrario, il criterio di ‘‘proporzionalità’’ proposto da San Tommaso e il principio di ‘‘personalità’’, sancito dall’art 27 cost. italiana, assicurano che l’entità della pena non superi mai il limite corrispondente alla entità della colpevolezza individuale (80). Nel diritto penale la colpevolezza ‘‘conformemente al principio ‘nulla poena sine culpa’, può rivestire esclusivamente la funzione di limite dell’intervento punitivo’’ (81). Se non si puniscono più i bambini, gli incapaci e i malati di mente; se, oggi, sulla base di approfondite conoscenze psichiatriche, tendiamo a rinunciare alla pena anche in presenza di meri disturbi psichici, il motore di questo sviluppo, di sicura matrice cristiano-tomista, ereditato poi dal giusnaturalismo liberale, è stato una sempre più coerente attuazione del principio di colpevolezza. Se si sono progressivamente eliminati — osserva Roxin — dalla dogmatica penale ‘‘i residui della responsabilità per il mero evento, se oggi si riconosce che il versari in re illicita non può legittimare alcuna forma di punibilità, che nei delitti aggravati dall’evento quest’ultimo dev’essere causato quantomeno con colpa e che l’errore inevitabile sulla norma penale deve condurre ad escludere la pena, tutti questi innegabili progressi costituiscono il frutto del pensiero penalistico orientato alla colpevolezza’’ (82). Il principio, che impone per una colpa lieve una pena mite, e impedisce così che la li(75) Grazie all’influsso di S. Tommaso, sottolinea P. NÖLL, op. cit., p. 30, ‘‘l’idea di retribuzione in quanto fondamento della pena non ha mai assunto nella teologia cattolica un predominio così univoco come nella teologia protestante’’. (76) L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 45. (77) E. NAEGELI, Il male e il diritto penale, cit., p. 102. (78) V. FERRARA, op. cit., p. 531. (79) Si confronti al riguardo il par. 3.3 sul problema del ‘‘neo-retribuzionismo’’. (80) Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., p. 159. (81) E. NAEGELI, op. cit., p. 99. (82) C. ROXIN, Sul problema del diritto penale della colpevolezza, cit., p. 16; del medesimo autore si veda anche Strafrecht, Allgemainer Teil, Grundlagen der Aufbau der Verbrechenslehre, I, München, 1992, pp. 134 ss.; J. DE ASUA, Les problemes modernes de la culpabilité, in Studi per J.Constant, Liegi, 1971.
— 1323 — bertà dell’individuo venga sacrificata all’interesse dell’intimidazione generale (83), trova nel pensiero cristiano la più compiuta espressione ed elaborazione. Ne è ulteriore conferma il discorso tenuto da Pio XII ai partecipanti al VI Congresso internazionale di diritto penale, nel quale è stato ribadito che ‘‘tra le garanzie volute dal diritto niente è forse così importante e così difficile da ottenere quanto la determinazione della colpevolezza. In diritto penale, osservava il Pontefice, dovrebbe essere un principio inconcusso che la pena in senso giuridico suppone sempre una colpa. Il principio di causalità puro e semplice non merita di essere riconosciuto come un principio giuridico che basta da solo’’ (84). Il Pontefice, infatti, pur nel quadro di una concezione prevalentemente retributiva della pena, dimostrava di voler ancorare la pena più all’idea di colpevolezza che non al principio retributivo (85). Il tentativo in ambito statuale e canonico di strutturare la commisurazione della pena alla misura di una colpevolezza, mai nettamente individuabile, costituisce un indubbio progresso rispetto al principio antico del taglione; ma bisogna assumere anche critica consapevolezza del ‘‘fatto che l’orientamento della pena alla misura della colpevolezza rappresenta pur sempre, per la reazione statuale, un criterio assai imperfetto, il quale può assumere solamente il carattere di soluzione transitoria nell’ambito della evoluzione del diritto’’ (86). 2.3. Il crescente rilievo della ’’dignità umana’’ nella legislazione penale. Dalla colpevolezza ‘‘psicologica’’ alla colpevolezza ‘‘normativa’’. — A completamento di questo primo esame, ordinato a raccogliere gli indizi più evidenti di una matrice cristiana della scienza e legislazione penale statuale, viene in rilievo il processo di ‘‘umanesimo’’ giuridico del diritto penale, statuale e canonico, fondato sulla crescente rilevanza attribuita alla dignità dell’uomo. La dottrina sociale cristiana e il diritto canonico esigono che ‘‘l’ordine sociale [...] e il suo progresso debbano sempre lasciar prevalere il bene delle persone, giacché nell’ordinare le cose ci si deve adeguare all’ordine delle persone e non il contrario, secondo quanto suggerisce il Signore stesso quando dice che il Sabato è fatto per l’uomo e non l’ uomo per il Sabato’’ (87). In questa prospettiva l’uomo diviene il centro nevralgico verso cui deve convergere e da cui deve svilupparsi ogni rapporto sociale e normativo ed ogni singola istituzione. Decentrare o escludere questo riferimento, significa squilibrare l’assetto istituzionale in modo tale che ‘‘il pendolo oscillerà con violenza o verso l’individualismo o verso lo statalismo, dissolvitore della società il primo, della persona il secondo’’ (88). Sotto questo profilo particolare va dunque condotta l’esegesi del can. 1311 del CIC dell’83. La norma segna il punto di frattura e di contraddizione fra una ecclesiologia (89), attenta alla centralità della persona, che non scinde la figura del delinquente da quella del fe(83) C. ROXIN, Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 373. (84) PIO XII, Principi fondamentali del diritto penale, in Arch. pen., I, 1953, p. 429. (85) P. NÖLL, op. cit., p. 35. (86) E. NAEGELI, op. cit. p. 36. (87) Gaudium et Spes n. 26. (88) G. DI MATTIA, Il diritto penale canonico a misura d’uomo, in Rev. Esp. de Derecho Can., 1990, p. 640. Si veda anche, su questo tema: J. MARITAIN, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétieneté, in J. et R. MARITAIN, Oeuvres Complètes, Fribourg, Suisse-Paris, 1984, pp. 293-643; F. COCCOPALMERIO, La normatività penale della Chiesa, in AA.VV., La normatività del nuovo Codice, Brescia, 1985, pp. 297343; si veda inoltre L. GEROSA, v. Delitto e pena nel diritto canonico, in Dig. pen., IV, 1990, pp. 1. ss.; M. VENTURA, Pena e penitenza nel diritto canonico postconciliare, Napoli, 1996, pp. 11-27. (89) Cfr. J. WERCKMEISTER, Théologie et droit penal: autour du scandale, in Rev. de droit can., 1989, pp. 94 ss.
— 1324 — dele e fa dell’uomo il punto di forza ‘‘verso cui deve convergere e da cui deve partire ogni rapporto e istituzione intesi a regolare la vita, lo sviluppo, il progresso dello stesso uomo e della società’’ (90), e l’ecclesiologia tridentina, che nella concezione costituzionale della Chiesa come societas iuridice perfecta individuava la giustificazione ed il fondamento dello ius coercendi. Dalla tensione generata da questa contraddizione scaturisce il profilo chiaroscurale della normativa penale canonica che, se per taluni aspetti rimane ancorata ai vecchi schemi dell’IPE, (Ius Publicum Ecclesiasticum) per altro verso elabora, nella dimensione costituzionale stessa, i valori più avanzati della ecclesiologia post-conciliare. Al riguardo è significativa l’attenzione riservata dal legislatore canonico dell’83 al soggetto e ai suoi diritti fondamentali (91). Il delinquens è ancora un christifidelis titolare di diritti e di doveri che a pieno titolo fa parte del Popolo di Dio. ‘‘I due termini: christifidelis e delinquens costituiscono il punto di irradiazione e di convergenza del sistema penale canonico. Al primo fa capo la ricchezza e la novitas, di cui è portatore il nuovo Codex con l’affermazione della dignità e dei diritti della persona (cann. 96 e 208); al secondo, che ci presenta una situazione patologica, soccorre la normativa penale, intesa a ricuperare e a salvaguardare il suo ‘‘essere’’ christifidelis, membro sempre vivente della comunione ecclesiale’’ (92). Emerge qui, in tutta la portata, la forza innovativa del can. 1311 che apre la nuova legislazione penale. Il codice del ’17, nel can. 2214 §§ 1, enfatizzava la potestas imperii sui destinatari della norma intesi quali subditi canonum; il codice dell’83 concentra invece l’attenzione sulla figura del christifidelis pur delinquens. Il diritto penale canonico viene in tal modo a partecipare al più ampio processo di eticizzazione del diritto penale, sensibile ormai alla centralità del dato antropologico. ‘‘Se oggi infatti viene sottolineato con tanta frequenza che l’uomo deve stare al centro del diritto penale, questo può significare soltanto, se si vuole ragionare con autentico rigore, che anche il delinquente ha diritto di essere accettato come uomo, valutato nella sua totalità: e ciò significa anche con il suo lato scuro’’ (93). Il riscontro del mutato equilibrio ecclesiologico si ha nella eliminazione dal nuovo codex di alcune forme di sanzione, che intaccavano la onorabilità e la dignità della persona, quali la infamia juris, la privatio sepulturae ecclesiasticae (cann. 2291 § 4 e § 5; 2293; 2314) e, ultima, la degradatio realis il cui rito ‘‘si serventur solemnia praescripta in Pontificali Romano (cann. 2298, e 2305 § 3)’’ evocava, sfacciatamente, procedure inquisitorie (94). A partire dal Concilio Vaticano II, il cardine antropologico diviene la categoria attraverso cui leggere le dinamiche dello ius coercendi. Nel sistema penale la persona umana, come in filigrana, palesa la propria limpida o alterata trasparenza: ‘‘La norma penale, infatti, diventa l’unità di misura per discernere quale valore assume la persona umana in quella determinata comunità politica o ecclesiale’’ (95). Il rinnovato umanesimo della codificazione penale della Chiesa riconosce nel delinquens sempre un fedele, dal momento che l’atto illecito non ne intacca la ontologica cittadinanza divina. Egli non è un corpo da segregare o da mortificare, ma un’anima da riconciliare con Dio e con la società stessa. Il detenuto, ha osservato Barth in ambito protestante, ‘‘non è (90) G. DI MATTIA, op. cit., p. 642. (91) Cfr. J. HERVADA, Diritto costituzionale canonico, cit., pp. 138 ss. (92) G. DI MATTIA, Diritto penale e nuovo CIC: sostanza e forma, in Apollinaris, 1984, p. 176. (93) E. NAEGELI, Il male e il diritto penale, cit., p. 33. (94) G. DI MATTIA, op. ult. cit., p. 166. Sul punto si veda anche: P. CIPROTTI, Qualche punto caratteristico della riforma del diritto penale canonico, in Ephemerides. iuris. can., 1, 1990, pp. 111 ss.; G. BETTIOL, Sullo spirito del diritto penale canonico dopo il Concilio Vaticano II, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, pp. 108 ss. (95) G. DI MATTIA, op. cit., p. 166.
— 1325 — solo un criminale, ma anche un uomo. Il rapporto pastorale si instaura nel modo migliore con lui se muove dal piano della sua umanità (famiglia, rapporti domestici, ecc.)’’ (96). La coelestis amicitia, cui va informato il potere coercitivo del legislatore ecclesiastico universale o particolare, trova nella difesa del singolo il significato più autentico: di fronte al christifidelis-delinquens la sacralità della persona umana non solo non viene mai meno, ma assume ‘‘una accentuazione più attenta e più delicata, perché, in quello stato, egli diventa un inerme, maggiormente bisognoso del calore e del vigore della communio ecclesialis’’ (97). Alla spiccata vocazione alla soggettivazione del diritto penale canonico fa piena eco l’allontanamento della penalistica statuale da schemi giuridici deterministici, che ha portato ad una precisa esaltazione del fattore umano nella duplice dimensione della libertà e della responsabilità. Ciò è dato constatare in alcune norme della legislazione penale italiana, ove, a un cospicuo incremento delle fattispecie penali imperniate su requisiti di stampo soggettivo, è corrisposta, in ambito dottrinale, una più accentuata svalutazione del ruolo spettante al momento oggettivo. Lo sviluppo della dottrina dell’Unrecht personale è anzi giunta negli ultimi anni, ‘‘ad un punto tale, che il disvalore di evento deve oggi, di regola, lottare per conquistare il proprio posto all’interno dell’aspetto contenutistico dell’illecito’’ (98). Penso ad es. alla centralità riservata dall’art. 42, 1o comma, del c.p. alla ‘‘coscienza’’ e alla ‘‘libertà’’ del soggetto agente. Essi costituiscono infatti gli elementi imprescindibili, cui ancorare l’azione repressiva dello Stato, e dimostrano significativamente l’attenzione riservata al profilo soggettivo del reato. La norma, osserva Nuvolone, ‘‘individua il secondo presupposto nella colpevolezza dopo l’imputabilità: e, cioè, l’appartenenza, o ‘‘suitas’’ della condotta al soggetto. La condotta dev’essere, cioè, espressione della personalità dell’agente, e non esserne semplicemente un’estrinsecazione materiale’’ (99). Tutto ciò trova ulteriore conferma nella giurisprudenza della Cassazione, che qualifica ‘‘coscienti’’ e ‘‘volontarie’’ soltanto le azioni ed omissioni, che risultino ricollegabili al soggetto che le ha poste in essere, cosa che si verifica non solo quando l’autore ha inteso espressamente realizzare quella determinata condotta, ma anche quando non ha compiuto quanto era in lui possibile per evitare il verificarsi del fatto vietato dalla legge’’ (100). L’impostazione personalistica del diritto penale vigente considera volontario non solo il comportamento che trae origine da una consapevole determinazione, ‘‘ma anche quello che deriva da inerzia giacché anche siffatto atteggiamento psicologico rientra nella sfera del dominio volitivo del soggetto, secondo la risultante del mancato esercizio dei poteri di impulso e di inibizione che ogni individuo psichicamente normale possiede’’ (101). A decisiva conferma della svolta per un diritto penale orientato sempre più verso atteggiamenti di coscienza concorre — a mio giudizio — l’ampliamento della sfera operativa dell’art. 133 c.p.. La scelta di una rilettura dell’articolo orientata costituzionalmente dà conto della centralità del binomio coscienza-colpevolezza, ed offre, insieme, il duplice vantaggio di (96) K. BARTH, K. Barth und sie Straffalligenpflege, in Die Stimme der Gemeinde, Hulbmonostschrift der bekennenden Kirche, 1960, 12, pp. 570-572; tr. it., La pena non può riparare il male, in La funzione della pena, cit., p. 145. (97) G. DI MATTIA, op. cit., p. 176. Si veda inoltre F. LUZZI, Diritto penale canonico e diritto penale secolare, in Scritti giuridici in memoria di M. Barberio Corsetti, Milano, 1965, p. 394. (98) N. MAZZACUVA, Il ‘‘soggettivismo’’ nel diritto penale: tendenze attuali ed osservazioni critiche, in Foro it., II, 1983, c. 46. (99) P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 291; si veda anche S. RANIERI, Colpevolezza e personalità del reo, Milano, 1933, M. DELMAS-MARTY, Le flou du droit. Du code pénal aux droits de l’homme, tr. it., Dal Codice penale ai diritti dell’uomo, Milano, 1992, pp. 99. ss. (100) Sentenza Cass. pen., sez. II, 29 gennaio 1969, in Foro it., II, cc. 610-612. (101) Ibidem, p. 231.
— 1326 — sfuggire all’ incertezza dottrinale se criterio principale di commisurazione della pena sia la gravità del reato o la capacità a delinquere, e di restituire credibilità alla norma stessa, il cui bilancio può dirsi essere stato ampiamente fallimentare: lo dimostra la non riuscita sua applicazione nella giurisprudenza, ove i parametri di gradazione della pena offerti dall’articolo sono stati sovente sostituiti in gran parte da scelte sanzionatorie affidate, in sostanza, ‘‘all’intuito del giudice quando non addirittura al suo incontrollabile arbitrium’’ (102). Si viene così proponendo una interpretazione dell’art 133 c.p. ancorata saldamente all’art. 27 cost. Con l’avvenuta costituzionalizzazione del principio nulla poena sine culpa, il requisito della colpevolezza finisce per svolgere, coerentemente, una funzione preminente anche nella fase di commisurazione della pena. In tal modo la ‘‘intensità del dolo e la gravità della colpa prevarranno sugli indici della gravità del danno e del pericolo, in misura tale da impedire al giudice di irrogare pene superiori a quelle proporzionate al grado di colpevolezza. ‘‘Nell’ambito del 1o comma dell’art. 133, è dunque alla colpevolezza che spetta il ruolo di criterio-guida per la determinazione della misura massima della pena’’ (103), così come al requisito di colpevolezza si delega il compito di fissare il limite interpretativo al parametro della capacità a delinquere; il fine risocializzante del reo dovrà tener sempre conto del carattere personale della responsabilità del reo. Sotto questo punto di vista, una pena che miri a svolgere una funzione risocializzante dovrà infatti non oltrepassare la misura della colpevolezza: ‘‘Una pena eccedente rispetto al grado di colpevolezza non sarebbe compresa dal condannato che la vivrebbe come ingiusta, per cui risulterebbe pregiudicata la prospettiva del recupero sociale’’ (104). A rafforzare l’asse ‘‘personalistico’’ della vigente normativa penale concorre la legge 7 febbraio 1990, n. 19, con cui si è novellato l’art. 59 c.p. in materia di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti (105). Gli artt. 1 e 3 ribadiscono in particolare due importanti principi, nel segno di una accentuata valorizzazione della persona. Da un lato, l’art. 1 (106) valuta a favore dell’agente le circostanze che attenuano o escludono la pena, anche se quest’ultimo le ignorasse, mentre, a pendant, le circostanze aggravanti vengono valutate a carico dell’agente ‘‘soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa’’ (107); dall’altro l’art. 3, nell’abrogare l’art. 118 del c.p. prevede che ‘‘le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono’’ (108). Più contradditorio e forzato è ricercare invece il profilo personalistico della sanzione penale in riferimento alla legislazione della ‘‘emergenza’’. Questa interpretazione, sostenuta da alcuni autori (109), non coglie l’autentico significato della legislazione penale degli anni Settanta in materia di ordine pubblico, come risulta agevolmente anche da un esame superficiale della legge n. 152 del 1975 (legge Reale) e del restante pacchetto normativo promulgato in quegli anni in materia di ordine pubblico. La marcata connotazione soggettiva, desu(102) G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 448. (103) Ibidem, p. 449. (104) Ibidem, p. 450. (105) Legge 7 febbraio 1990, n. 19, in G.U.,13 febbraio 1990, no. 36, pp. 3 ss. (106) Art. 1 legge n. 19 del 1990 : ‘‘Il primo comma dell’art. 59 del codice penale è sostituito dai seguenti: le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dall’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti. Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa’’. (107) Ibidem. (108) Art. 3 legge n. 19 del 1990, cit., p. 4. (109) N. MAZZACUVA, op. cit., c. 47.
— 1327 — mibile indirettamente dalla genericità dei contorni della fattispecie criminosa, e la svalutazione del profilo oggettivo del reato a vantaggio della centralità del soggetto, adottate a dimostrazione dell’avvenuta personalizzazione del diritto penale, non costituiscono in realtà segni di attenzione verso la persona, ma l’espediente tecnico per anticipare il momento della colpevolezza e della punibilità a vantaggio della ragione di Stato. Il limite che tocca in radice questa legislazione e la sottrae alla ratio della soggettivazione è il sacrificio manifesto del diritto di libertà personale sull’altare dell’ordine pubblico (110): lo dimostra adeguatamente l’art. 3 della legge n. 152 del 1975, che sostituisce al presupposto precedente dei ‘‘gravi indizi’’, quello dei ‘‘sufficienti indizi’’. Mentre i primi, valutati complessivamente, raggiungono una gravità tale da far formulare un giudizio di probabilità circa la commissione del reato da parte del soggetto, i ‘‘sufficienti indizi’’ risultano invece quelli che, ‘‘valutati complessivamente, risultano tali da portare ad un giudizio di ragionevole probabilità’’ (111). Nonostante i tentativi di attribuire a questi ultimi un’autonomia concettuale ed operativa sul piano probatorio, la dottrina più accorta è concorde nel ritenere che essi non siano affatto differenziabili dal mero sospetto della commissione di un reato. La vigente legislazione di emergenza finisce per dover essere interpretata in tal modo più nell’ottica del sospetto e del dispregio del principio di colpevolezza, che non della difesa del profilo personalistico dell’illecito. I segmenti normativi esaminati dimostrano, dunque, come la ‘‘colpevolezza’’ funga da vera e propria Wendung (112), capace di discriminare il versante ‘‘oggettivistico’’ del diritto criminale da quello ‘‘personalistico’’. L’attenzione riservata dal diritto penale alla persona si manifesta soprattutto nella evoluzione avvenuta, negli anni Trenta, dal modello di colpevolezza ‘‘psicologico’’ al modello di colpevolezza ‘‘normativo’’. Per tutto l’Ottocento sia la Scuola classica che quella positiva hanno elaborato un concetto di colpevolezza ancorato esclusivamente al nesso psichico. Il Vannini, il Bellavista, il Radbruch in Germania, considerarono la colpevolezza alla stregua di un mero rapporto psicologico fra azione ed autore. Era assente qualsiasi riferimento alle motivazioni dell’agire o alle condizioni dell’attore (113). Ricomprendere sotto la medesima voce sia il dolo che la colpa e ridurre la colpevolezza a mero rapporto psichico fra autore e crimine, significava muovere da una antropologia meramente biologica e meccanica, che nulla concedeva ai moti interni della coscienza. Un fascio di nervi governato dalle immutabili leggi genetiche costituiva il fulcro soggettivo della colpevolezza psicologica, preoccupata soprattutto di ricostruire il rapporto tra fatto ed autore, secondo un modulo oggettivo che finiva coll’esaltare il fatto a tutto discapito delle ragioni personali giustificatrici dell’azione (114). Questo atteggiamento, evidenzia Padovani, ‘‘portò a concepire la colpevolezza, (110) F. BRICOLA, Politica criminale e politica penale dell’ordine pubblico (a proposito della legge 22 maggio 1975, n. 152), in La Questione crim., 1, 1975, p. 240; si veda inoltre M. LAUDI, La legislazione dell’emergenza. Commenti ed atti ufficiali riuniti da G. Conso, Milano, 1984, p. 91 ss.; N. MAZZACUVA, op. cit., c. 49; G. NEPPI MODONA, La riforma della parte generale del codice penale, il principio di lesività ed i rapporti con la parte speciale, in G. VASSALLI, Problemi generali di diritto penale, Milano, 1982, p. 82. (111) F. BRICOLA, op. ult. cit., p. 252. (112) H.H. JESCHECK, Giuseppe Bettiol e la scienza penalistica tedesca, in Indice pen., 1993, p. 14; cfr. anche G. BETTIOL, Colpa d’autore e certezza del diritto, in Fest. Bockelmann, München, 1979, p. 340; E. MORSELLI, Il reato continuato nella attuale disciplina legislativa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, p. 139. (113) Cfr. R. VENDITTI, op. cit., p. 560. (114) T. PADOVANI, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, cit., p. 564; cfr. anche F. TAGLIARINI, L’imputabilità nel progetto di nuovo codice penale, in Indice pen., 1994, p. 453 ss.; cfr. anche D. PETRINI, L’elemento psicologico nel reato di cui agli artt. 586; 83 c.p., in Cass. pen., 24, 1984, pp. 1-7.
— 1328 — nella sua struttura puramente psichica, come un nesso astratto necessario per stabilire l’an della responsabilità, ma che, programmaticamente, doveva essere tenuto ben distinto da ogni valutazione del quantum di essa, ancorata soltanto ad elementi obiettivi, od almeno obiettivabili. Così Beccaria non esita ad affermare che ‘errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini, e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni, delle circostanze’; e riporta perciò ‘la vera misura dei delitti’ al ‘danno della società’’’ (115). L’esigenza, tipicamente dogmatica, di elaborare un concetto ‘‘unitario’’ di colpevolezza, che la dottrina psicologica non era stata capace di costruire, e la necessità di risolvere il problema della graduabilità di quel concetto unitario secondo un criterio assiologico, che la dommatica classica aveva sistematicamente rifiutato, spiega le ragioni storiche dell’affermarsi della concezione ‘‘normativa’’ della colpevolezza e l’inserimento nel lessico penalistico del principo di riprovevolezza, con cui muta la qualità soggettiva dello ius coercendi. La colpevolezza diviene Vorwerfbarkeit, la qualità della azione antigiuridica, che — come osserva Welzel — ‘‘permette di rimproverare personalmente l’agente per non aver egli omessa l’azione medesima [...]’’ (116). Un’analisi impostata così necessita di un chiarimento di fondo. La riduzione della colpevolezza a riprovevolezza potrebbe indurre a identificare quest’ultima con il rimprovero e concepire la colpevolezza come giudizio. Ciò non nuoce finché non si arrivi ‘‘all’idea astrusa che la colpevolezza non sia una qualità assiologica dell’azione del soggetto, ma abbia sede nel cervello di chi giudica l’azione’’ (117). Occorre dunque essere sempre coscienti della distinzione fra la valutazione ed il proprio oggetto: la riprovevolezza dall’azione riprovevole. ‘‘Colpevolezza in senso proprio è solo la riprovevolezza, come valutazione della volontà che anima la condotta; oggetto della valutazione è la volontà antigiuridica di azione (e per suo tramite l’intera azione antigiuridica)’’ (118). In questo significato più profondo, la colpevolezza non è soltanto una parte del fatto illecito, ma espressione del rapporto che intercede tra il fatto e la personalità del soggetto stesso. Anche la colpevolezza viene pertanto ad assumere, al pari del reato, valore sintomatico. Tale posizione appare scontata per il diritto positivo italiano il quale, secondo una più approfondita interpretazione dell’art. 133 c.p. (119), considera tra gli indici della capacità a delinquere anche l’intensità del dolo e il grado della colpa, ‘‘dai quali la colpevolezza non può essere staccata senza perdere il suo valore per ridursi ancora una volta al giudizio del terzo che disapprova’’ (120). A conclusione di questa analisi, si può dunque affermare che, attraverso la teoria normativa, si è assistito alla rivalutazione, in ambito laico, di due valori comuni alla tradizione cristiana: quello ‘‘personalistico’’ e quello del ‘‘foro interno’’, che la cultura laica liberale aveva escluso dal diritto ritenendo indebita ogni forma di ingerenza dello Stato nella personalità interiore del soggetto. La colpevolezza, interpretata correttamente, finisce, da un lato, coll’essere una garanzia di civiltà per la proporzionalità richiesta fra pena e delitto, secondo la più autentica tradizione tomista; dall’altro, con l’esaltare la soggettività reclamando in ciascun individuo un maggiore senso di responsabilità (121). (115) T. PADOVANI, op. cit., p. 561. (116) H. WELZEL, Il nuovo volto del sistema penale, cit., p. 49. (117) Ibidem, p. 49. (118) Ibidem. (119) Cfr. par. 2. 3, pp. 8 ss. (120) S. RANIERI, Il problema della colpevolezza e l’avvenire del diritto penale, in La Scuola positiva, 1964, p. 176. (121) D. SANTAMARIA, v. Colpevolezza, cit, p. 655.
— 1329 — 3.
Elementi ed influenze del pensiero giuridico cristiano negli ordinamenti penali moderni.
3.1. Il principio della ‘‘Gesinnung’’quale riscoperta del foro interno della coscienza nella dinamica della imputabilità. — Questa seconda parte della mia ricerca ha l’obiettivo di accertare la fondatezza degli indizi evidenziati nelle pagine precedenti, per verificare la reale consistenza di una radice cristiana nel diritto penale statuale. Esiste infatti, osserva Bettiol, ‘‘un diritto penale liberale. Esiste un diritto penale radicale. Esiste un diritto penale socialista e comunista, [ma] esiste un diritto penale cristiano?’’ (122). Per rispondere all’interessante quesito occorre anzitutto — come è del resto per Bettiol — essere consapevoli di come il diritto penale sia ‘‘una scienza culturale e non una scienza naturalistica’’ (123), che vive immerso nei valori culturali di cui subisce l’influenza. Ciò implica, sotto il profilo metodologico, una attenzione particolare al profilo culturale della complessa realtà giuridica. Ma la diversità del fenomeno normativo è così grande, che la possibilità di comparare concetti giuridici appartenenti a differenti sistemi normativi può apparire impresa ardua di incerto esito. Come si possono infatti mettere a confronto culture giuridiche — osserva Sobanski — ‘‘se manca una definizione comune di diritto, che dovrebbe appunto essere l’oggetto di tale verifica?’’ (124). Se si accettano queste premesse, ogni singola esperienza giuridica rappresenta un mondo autosufficiente fondato su di un concetto autonomo di diritto definibile unicamente dal di dentro sulla base di propri concetti, criteri e raffigurazioni (125), e per di più refrattario ad ogni approccio comparativo. Sembra essere, questo, l’approccio metodologico scelto da un largo fronte della canonistica laica che, a partire dalle riflessioni del Fedele sul metodo nello studio del diritto canonico, ha da sempre sollevato ampie riserve su ogni forma di probabile intersezione ed osmosi fra giuridicità statuale e diritto canonico. Il canonista — osservava Fedele — ‘‘che voglia [...] servirsi, nelle sue ricerche, di categorie, schemi e procedimenti logici moderni, non deve mancare della squisita sensibilità di intuire entro quali limiti può valersene. Egli, infatti, non può ignorare che il pericolo di contaminare, per così dire, il pensiero che intende ricostruire con concetti affatto incompatibili con l’espressione essenziale di questo pensiero è maggiore nel campo del diritto canonico che non in quello del diritto romano, poiché, [...] un nuovo ed insuperabile limite è imposto al canonista e consiste nelle insopprimibili peculiarità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, il più delle volte fondate su principii dogmatici o teologico-morali, naturalmente immutabili’’ (126). La resistenza verso ogni forma di convergenza fra la secolarità della esperienza giuridica statuale e la oeconomia caritatis della normatività ecclesiale, sembra per un verso cedere dinanzi alla evidenza del fatto che il diritto canonico si è da sempre formato nel contatto con la cultura giuridica esistente. Il diritto dei cristiani non dipendeva ‘‘dal diritto di ‘questo mondo’ e non era limitato alla sua comprensione del mondo, esso rimaneva aperto a diversi concetti e forme giuridiche sorti e formati nel mondo ed utili all’espressione di contenuti sociali dell’esperienza cristiana, alla organizzazione delle assemblee e delle comunità’’ (127). La probabilità non remota di un processo osmotico pluridirezionale fra giuridicità ecclesiale e normatività statuale consente allora la ricerca di punti di congiunzione giuridica fra il diritto penale canonico e quello statuale. Sono consapevole che l’uso non vigilato, da parte del canonista di metodi ‘‘transpositori’’ fondati sulla convinzione di potere esaminare le culture giuridiche dall’esterno, per mezzo di categorie e concetti propri della cultura giuridica del ricercatore e non di quella oggetto di ricerca, presenti difficoltà oggettive dovute in prin(122) G. BETTIOL, Sul diritto penale cristiano, in Indice pen., 1980, p. 465. (123) Ibidem, p. 465. (124) R. SOBANSKI, Diritto canonico e cultura giuridica, in Scienza giuridica e diritto canonico, a cura di R. Bertolino, Torino, 1991, p. 125. (125) R. SOBANSKI, op. cit., p. 125. (126) P. FEDELE, Lo spirito del diritto canonico, Padova, 1962, p. 2. (127) R. SOBANSKI, op. cit., p. 139.
— 1330 — cipal modo alla peculiarità della fenomenologia giuridica della Chiesa. Il diritto penale canonico, si è sviluppato in modo autonomo e ‘‘non ha conosciuto’’ — osserva Bettiol — ‘‘quelle rivoluzioni profonde determinate dalle ideologie che hanno fatto emergere i diritti dell’uomo e del cittadino nelle varie dichiarazioni a cominciare da quella francese della fine del secolo XVIII’’ (128). Ma sarebbe altresì eccessivo ritenere che lo sviluppo del diritto statuale e di quello canonico sia avvenuto lungo linee parallele, in una dimensione di reciproco silenzio; le traiettorie di sviluppo dei due sistemi criminali si sono intersecate nel corso della storia e hanno dato vita a processi di reciproco condizionamento (129), sia sul piano logico-linguistico delle fonti di esistenza e di conoscenza del diritto, delle modalità di costruzione dei sistemi del diritto e della loro struttura, sia su quello assiologico dei valori e delle valutazioni fondamentali della cultura giuridica. Non è mia intenzione ricercare la presenza del diritto canonico come fattore costitutivo dei vigenti diritti criminali (utrumque ius), o quale valore giuridico dell’ordinamento civile, ma più limitatamente accertare l’esistenza, nel tessuto normativo penale dello Stato, di processi logico-giuridici, di valori metagiuridici e di schemi culturali comuni. Viene in questo modo in considerazione, quale primario punto di congiunzione fra cultura penale secolare e disciplina criminale della Chiesa, l’ampio spazio riservato, tanto dal penalista che dal canonista, alla ‘‘dimensione interiore del diritto’’. Al riguardo, muovendo dalla esperienza normativa ecclesiale, è dato rilevare fin da subito come i caratteri della ‘‘dinamicità’’ e della ‘‘apertura’’ (130) nel diritto canonico non pregiudicano la ‘‘continuità’’ operativa, in quanto, osserva acutamente Berlingò, ‘‘esso non è tenuto insieme da vincoli puramente estrinseci [...], ma piuttosto da una convergenza particolarmente accentuata (e sia pure tendenziale) fra le componenti oggettive e soggettive, fra l’esperienza ‘esteriore’ dell’insieme e quella ‘interiore’ del singolo’’ (131). Si pensi alla dinamica delle pene ‘‘latae sententiae’’, traducibili nel loro dinamismo solo se inserite nel più ampio processo di interiorizzazione della norma giuridica e di adesione interiore del soggetto alle ragioni ultime della sanzione. Solo lo sforzo richiesto al fedele di riportare ad unità l’estrinseca osservanza ed interiore adesione alla norma, spiega il ribaltamento del percorso punitivo sotteso alla procedura latae sententiae. La sanzione non proviene dall’esterno, ma dall’interno di ogni essere umano. A ragione sostiene Ratzinger che ‘‘il giudizio (finale) è semplicemente la verità stessa, il suo rivelarsi (per cui) l’uomo diviene in ultimo giudice di sé medesimo. Cristo non condanna; è soltanto l’uomo che può porre un limite alla propria salvezza’’ (132). (128) G. BETTIOL, Sul diritto penale cristiano, op. cit., p. 467. (129) J. GAUDEMET, Il diritto canonico nella storia della cultura giuridica europea, in Scienza giuridica e diritto canonico, cit., p. 3-29. Cfr. G. BETTIOL, op. ult. cit., p. 466, il quale sostiene che ‘‘dopo il Concilio Vaticano II il diritto penale della Chiesa è entrato in crisi e forse più non esiste perché, avendo spiritualizzato al massimo i rapporti tra il fedele e l’Ecclesia interni e i rapporti tra il fedele e della Chiesa in nome del Corpus misticum, il diritto canonico ne ha risentito nel suo tradizionale rigore che tanto ha contribuito alla formazione del diritto europeo continentale e particolarmente il diritto penale canonicos’’. (130) Cfr. S. BERLINGÒ, Diritto canonico, Torino, 1995, p. 76. (131) S. BERLINGÒ, op. cit., p. 76; G. SARACENI, Riflessioni sul foro interno, Milano, 1961, p. 117 precisa che si deve intendere ‘‘il ‘foro interno’ nella più ristretta zona o se più piaccia, nella particolare e più limitata espressione delle reazioni della coscienza nei confronti di concreti atti giuridici, emanati in qualsiasi ordinamento sociale, per la valutazione dell’oggetto proposto dai medesimi atti [...]’’; cfr anche, dello stesso Autore: Per una visione giuridica della pastorale nella Chiesa post-Conciliare, in Studi in onore di P. Fedele, Milano, 1984, pp. 736 ss.; si veda inoltre V. DE PAOLIS, Coordinatio inter forum internum et externum in novo iure poenali canonico, in PRMCL, 1983, pp. 402 ss. (132) K. RATZINGER, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi, 1975, pp. 216 ss., in L.
— 1331 — D’altro canto, insistere esclusivamente sulla interiorità alimentando l’equivoco che la giuridicità canonica si occupi soltanto di atti meramente interni, obliando il profilo esteriore dell’azione, sarebbe fuorviante e scorretto. La fenomenologia del foro interno della coscienza è senza dubbio centrale nella dinamica del diritto canonico, ma solo nella misura in cui si fenomenizza nella storia e riesce a tradursi ‘‘in un ordine oggettivo di giustizia ostensibile a, e verificabile da tutti gli uomini’’ (133), secondo un ordine di coesione che assicuri la corrispondenza del comportamento esteriore agli atteggiamenti interiori. Ma il foro interno non costituisce una riserva esclusiva della giuridicità canonica. Non è infatti sostenibile che la ‘‘prescrizione di atti interni sia una caratteristica esclusiva dell’ordinamento canonico, perché ‘‘in qualunque ordinamento, ovunque debba o voglia aversi riguardo anche ad elementi spirituali, si pone l’esigenza di prescrivere atti interni’’ (134). Mi riferisco in particolare al ‘diritto penale dell’atteggiamento interiore’ (Gesinnungsstrafrecht), elaborato in Germania sul finire degli anni Cinquanta dallo Schmidhauser attraverso uno studio approfondito sui diversi momenti di Gesinnung nel diritto penale. Aspetto peculiare di questa teoria è stato di porre in evidenza il momento personalistico del reato in funzione della colpevolezza e di dare avvio alla elaborazione di un diritto penale dell’atteggiamento interiore, ‘‘che ormai ha acquisito un diritto di presenza dogmatica nella penalistica scientifica accanto ad un diritto penale dell’evento, ad uno della volontà e ad uno sintomatico del diritto positivistico criminologico’’ (135). Con il termine Gesinnung la dottrina tedesca ha inteso amplificare l’importanza, all’interno della genesi criminale, dell’atteggiamento di coscienza dell’agente rispetto ad un determinato bene giuridico e alla sua modalità di violazione, che non può lasciare indifferente il legislatore e l’interprete, ‘‘qualora il fatto in ogni suo elemento abbia ad essere pienamente valutato ai fini di una imputazione personalistica’’ (136). Agire con ‘‘crudeltà’’ o ‘‘efferatezza’’, al fine di ‘‘oltraggiare’’ o ‘‘disprezzare’’, sono altrettante modalità e colorazioni dell’azione che non possono passare inosservate come si trattasse di appendici trascurabili dell’azione; di elementi accidentali del reato. Con il Gesinnungsstrafrecht la coscienza diviene lo specchio della realtà che circonda l’attore. L’esistenza che si consolida intorno ad ogni essere partecipa infatti alla formazione della colpevolezza. Non si può quindi comprendere il principio suddetto se non si prende coscienza della impostazione filosofica esistenzialista che ne sta alla base, la quale poi è, in sostanza, una impostazione di coscienza, ‘‘nel senso che il personalismo intorno al quale essa gravita non può non ritrovare il suo punto di riferimento se non nell’atteggiamento spirituale del soggetto agente [...]’’ (137), secondo un ordine di coesione che assicuri la coerenza del comportamento esteriore agli atteggiamenti interiori. L’origine e la natura di questo principio, nei tratti essenziali, non danno però adeguata ragione del motivo per cui la dottrina del diritto penale dell’atteggiamento interiore dovrebbe costituire una prova del fatto che, entro il tessuto dottrinale penale conviva, accanto ad un impianto laico, una costruzione dommatica di matrice cristiana. In nessuna parte della dottrina o della giurisprudenza v’è un richiamo esplicito alla matrice cristiana della teoria dell’atteggiamento interiore. Essa va quindi ricostruita attraverso lo studio degli aspetti essenziali del principio e confrontata con gli archetipi classici del pensiero giuridico canonico. EUSEBI Cristianesimo e retribuzione penale, cit. p. 288. Cfr. anche H.von BALTHASAR, Giudizi divini nell’Apocalisse, in Communio, 1985, p. 15; G. SICARI, Il giudizio e il suo esito, in Communio, 1985, p. 9. (133) S. BERLINGÒ, op. cit., p. 81. (134) Cfr. S. BERLINGÒ, ibidem., p. 78. (135) G. BETTIOL, Sul diritto penale dell’atteggiamento interiore, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, p. 7; cfr. anche G. BETTIOL, Il problema penale, Palermo, 1947, pp. 94-105. (136) G. BETTIOL, op. cit. p. 6. (137) Ibidem, p. 7.
— 1332 — Si scopre, così, in primo luogo, una comune attenzione del diritto penale canonico e di quello dell’atteggiamento interiore verso la giuridicizzazione del foro interno. Tanto la penalistica canonica quanto quella dell’atteggiamento interiore concorrono, quantunque autonomamente, ad inserire nella dimensione di giuridicità i tratti ‘‘emotivi’’ e ‘‘sentimentali’’ del comportamento umano. La Gesinnung non appartiene alla colpevolezza ma, nella sua natura emozionale, rappresenta la base psicologica comune della categoria normativa della Täterschaft o suitas. Come avviene per le pene latae sententiae o per la ‘‘grave imputabilità’’ di cui al can. 1321 anche la Gesinnung descrive un processo di interiorizzazione e di rivitalizzazione emozionale del diritto. Solo un dolo ‘‘rivitalizzato con la sua componente emozionale può infatti operare come ‘Kernstuck’ del torto penale’’ (138). Ciò che differenza il diritto penale canonico e dell’atteggiamento interiore dal modello tradizionale di reato è la diversità del processo mentale attraverso cui si forma la coscienza della giuridicità o antigiuridicità del fatto. Se per la dottrina tradizionale il reato è la produzione di un evento antigiuridico, per la impostazione emozionale-finalistica del diritto canonico e della teoria dell’atteggiamento interiore esso consiste nella ‘‘produzione antigiuridica di un evento’’ (139). Sia la giuridicità penale della Chiesa che quella dell’atteggiamento interiore finiscono così per essere diritti della ‘‘solitudine’’. Con questa suggestiva immagine si vuole evidenziare il processo di interiorizzazione che implica un rientrare in noi stessi per ritrovare le ragioni ultime dell’azione, ‘‘le quali non sono psicologiche in senso naturalistico, ma [...] morali’’ (140). Il dolo diviene un dolus malus, ossia un dolo informato assiologicamente e fondato su di un giudizio di valore. Dice bene Bettiol: ‘‘Siffatto disvalore, si badi non è ancora di tipo normativo (etico-sociale-giuridico), esso rimane sul terreno psicologico-naturalistico, dal momento che sta a significare, in contrasto con una notazione puramente neutro-descrittiva, il carattere non solo aggressivo, ma anche distruttivo dell’atteggiamento interiore del soggetto, in quanto animus nocendi [...]. La distorsione insita nel dolo [dunque] è di natura non già razionale-conoscitiva, sibbene emozionale affettiva’’ (141). La forza motrice dell’azione in questi casi non risiede negli stimoli naturali ma nelle esigenze che ne conseguono: ‘‘qui i motivi non contano più; contano le valutazioni di coscienza che urgono nell’uomo, vale a dire il valore che l’uomo attribuisce ad un determinato fine e l’impegno che sente per rispettare o negare il valore stesso. Sotto questo profilo il diritto si sublima nell’etica’’ (142). Il diritto penale canonico come il Gesinnungsstrafrecht finiscono per avere in tal modo comune il fatto di porre, al centro della indagine, la persona eticamente e singolarmente intesa colta nel farsi della propria interiorità (143). L’enfasi, che la teoria dell’atteggiamento interiore dimostra verso il foro di coscienza, testimonia il passaggio avvenuto nella dottrina penalistica statuale da un modello coercitivo ‘‘estrovertito’’ di matrice cattolica, pervaso da un fiero spirito di ‘‘controriforma’’ preoccupato soprattutto di soddisfare le esigenze garantistiche (144), ad uno schema ‘‘introvertito’’ di origine protestante, ‘‘che mette in primo piano (138) E. MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, p. 50. (139) Ibidem, p. 31. (140) G. BETTIOL, Stato di diritto e ‘‘Gesinnugsstrafrecht’’, in Indice pen., 1973, p. 453. Si confrontino inoltre, dello stesso Autore: Aspetti e problemi dell’attuale scienza penalistica italiana, in Ind. pen., 1974, pp. 284 ss.; Sul diritto penale militare dell’atteggiamento interiore, in Rass. gius. mil., 1978, p. 149. (141) E. MORSELLI, op. cit., p. 71. (142) G. BETTIOL, op. ult. cit., p. 456. (143) G. BETTIOL, op. cit., p. 456; cfr. anche G. BETTIOL, La concezione della pena in Aldo Moro, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 1268. (144) Cfr. E. MORSELLI, op. ult. cit., p. 12.
— 1333 — l’atteggiamento interiore [...] secondo il detto agostiniano: ‘‘noli foras ire; in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas’’. Non è casuale che la Gesinnung nasca e si sviluppi nella Germania luterana. L’importanza riconosciuta alla interiorità fa sì che non vi siano difficoltà a mettere in evidenza il dolo ‘‘e a ravvisare in esso il portatore del significato del fatto stesso’’ (145), là dove la penalistica laica sente come pericoloso per la dignità umana qualsiasi processo di soggettivazione dell’illecito penale, ‘‘al punto da preferire di incorrere nella facile possibilità di punire un soggetto a titolo di mera responsabilità oggettiva, ossia senza né dolo né colpa, piuttosto che esporsi al rischio opposto di responsabilizzarlo in pratica per il suo modo di essere nel quadro di una concezione ‘sintomatica’ del reato’’ (146). Bettiol stesso riconosceva l’indubbia portata rivoluzionaria derivante dall’inserimento della Gesinnung nella sistematica del reato: ‘‘la nozione ha in sé una carica esplosiva da mandare in pezzi tutte le vecchie impalcature logico-sistematico-formali’’ (147). Ciò spiega come la maggioranza della dottrina (148) abbia opposto una dura resistenza verso un’istanza così ‘‘rivoluzionaria’’ con il sottolineare l’indebolimento dal punto di vista garantistico, che verrebbe a subire l’ordinamento penale qualora immettesse nel proprio tessuto normativo il principio della Gesinnung. V’è, in altri termini, il timore che il diritto penale dell’atteggiamento interiore dia luogo ad una frattura insanabile dei principi garantistici fondamentali, soprattutto a riguardo dei diritti individuali assicurati dalla Costituzione. ‘‘Si paventa insomma’’ — osserva Morselli — ‘‘che attraverso la strada della rilevanza dell’atteggiamento interiore, si pervenga a punire anche fatti inoffensivi di beni giuridici, ovvero fatti ‘di pura disobbedienza’, e addirittura si giunga, in tal modo, a tradire un altro grande principio, quello c.d. di materialità [...] per cadere in un diritto penale dell’autore’’ (149). Varcare la soglia dell’atteggiamento interiore potrebbe significare un allentamento dei margini di difesa dell’individuo e scivolare verso forme totalitarie di tutela penale, in quanto divengono rilevanti anche i meri atteggiamenti d’ordine interiore estrinsecantisi in fatti che possono anche non essere, in concreto, lesivi dei valori tutelati. I dubbi sono più che legittimi. È però altresì vero che essi sono alimentati da una parziale e non del tutto esatta conoscenza dell’istituto. Occorre anzitutto precisare che il diritto penale dell’atteggiamento interiore non va inteso come lo concepiva il von Listz, ‘‘vale a dire come una caratteristica permanente della personalità [...], ossia un tratto caratteriale del soggetto attivo, col rischio di cadere in una sorta di Charakterschuld, se non, addiritura, come ha fatto Erik Wolf, in un Täterstrafrecht’’ (150). Per Gesinnung si deve al contrario intendere, come si è avuto agio di precisare nelle pagine precedenti, la Einzelntatgesinnung ovvero l’atteggiamento interiore attualizzato ed incorporato nel concreto fatto delittuoso, come scaturisce dal già citato §§ 46 del codice penale tedesco-federale: ‘‘Gesinnung die aus der Tat spricht’’, ossia l’atteggiamento che scaturisce ed emerge dal fatto. In ciò non si è d’altronde lontani dalla stessa costellazione di moventi o motivi a delinquere, che il nostro art. 133 c.p. impone di tener presente nella valutazione della capacità a delinquere e, indirettamente, della gravità del reato. La Gesinnung, se correttamente interpretata, lungi dall’agire quale fattore antigaranti(145) Ibidem, p. 12. (146) E. MORSELLI, op. cit. p. 13. (147) Ibidem, p. 87. (148) Cfr. S. MAZZACUVA, Il soggettivismo nel diritto penale: tendenze attuali ed osservazioni critiche, in Foro it., 1983, V, cc. 45 ss.; del medesimo Autore cfr. anche: Disvalore d’azione e disvalore di evento nella ‘‘descrizione’’ dell’illecito penale: aspetti problematici, in Funzioni e limiti del diritto penale, 1984, pp. 247 ss.; E. GALLO, v. Attentato (delitto di), in App. del Nss. Dig. it., 1980, p. 566. (149) E. MORSELLI, op. cit., p. 86. (150) Ibidem, p. 88.
— 1334 — stico, presuppone il principio di ‘‘materialità’’, cosicché il diritto penale dell’atteggiamento interiore opera solo ‘‘dopo che l’oggettività materiale del fatto sia previamente accertata come offensiva’’ (151). Si aggiunga che il ruolo dell’atteggiamento interiore non può svolgersi che in termini restrittivi della responsabilità: ‘‘in base ad esso infatti non ci si appaga dell’accertamento della generica ‘coscienza e volontà’ del fatto, ma si esige altresì l’individuazione di un quid pluris soggettivo: per l’appunto quell’atteggiamento interiore di mala fides criminosa che la dottrina, e in parte anche la giurisprudenza nella loro tralatizia prospettiva formalistica e razionalistica tendono fortemente a trascurare e rimuovere. Non sarà [allora] difficile cogliere come tutto ciò non possa che giovare sia alla certezza del diritto sia ai diritti di libertà dell’individuo, e, in tal modo, finisca col tradursi in una linea di garantismo più ferma e più precisa di quella che oggi, con tanto fervore, si intende difendere’’ (152). Qualunque sia la valutazione che si voglia attribuire a questa dottrina, non si può negare che il passaggio, con la dottrina dell’atteggiamento interiore, da un ‘‘causalismo’’ della estroversione ad un ‘‘finalismo’’ dell’introversione (153) avvicina il principio di Gesinnung ai dinamismi della penalistica ecclesiale. La normativa dell’art. 133 c.p. e del § 24 del codice penale tedesco da un lato, e il can. 1325 dall’altro introducono infatti una concezione ‘‘emozionale’’ di colpevolezza, fondata su di un medesimo processo di rivitalizzazione unitaria dall’interno del dolo e della colpa. Un concetto reale unitario di condotta si rende possibile solo nel momento in cui si rinuncia a fondarlo sul dogma della volontà, e lo si cala nella dimensione psicologica che gli è propria, ‘‘vale a dire al di là della sfera cosciente e volontaria, in quella zona dell’atteggiamemto interiore, che sottostà ad ogni comportamento umano, e costituisce l’elemento fondamentale unificatore di ogni sua concreta manifestazione’’ (154). I concetti di dolo e colpa si definiscono su questi presupposti: sull’impegno di coscienza che sta, in definitiva, alla radice dell’azione del soggetto. I concetti stessi di ‘‘buona fede’’ o di ‘‘incommodo’’ o di ‘‘poena latae sententiae’’ sono male interpretabili al di fuori di un riferimento ad uno stato di coscienza. (155). Nella teoria elaborata da Bettiol è ravvisabile il punto di massimo approccio della coscienza ai valori (156), che è stato continuamente proprio del diritto canonico: su di questo viene a fondersi la struttura personalizzata della responsabilità penale, qualificata da una concezione storica dell’uomo che non è pura natura ma storia, ‘‘in quanto opera e si muove per dei valori, nel quadro degli stessi e in vista degli stessi’’ (157). 3.2. Responsabilità penale personale e principio ‘‘agostiniano’’ della scusabilità della ignoranza incolpevole. — La sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, con la (151) Ibidem, p. 89. (152) Ibidem. (153) Cfr. E. MORSELLI, op. cit., p. 14. (154) Ibidem., p. 40. (155) Cfr. G. BETTIOL, op. cit., p. 456; cfr. anche G. BETTIOL, Verso un nuovo romanticismo giuridico, in Riv. it. 1979, p. 369. (156) Come evidenzia H. H. JESCHECK, Giuseppe Bettiol e la scienza penalistica tedesca, cit., pp. 8-9, ‘‘La sfera dei valori di Bettiol poggiava in primo luogo sulla fede nella concezione, di derivazione giusnaturalistica, dell’uomo come personalità morale. ‘Il valore’ — così diceva — ‘è la natura delle cose espressa in termini intelleggibili affinché’ l’uomo se ne possa servire per i suoi fini morali’. [...] Il più profondo ancoraggio dei valori, tuttavia, veniva da Bettiol individuato solo nell’etica cristiana, per il cui significato come fondamento del diritto penale si richiamava a Francesco Carrara, il quale, a proposito degli uomini come creature di Dio, scrisse: ‘una legge morale nacque con loro: la legge di natura. La quale chi nega, rinnega Dio’’. (157) G. BETTIOL, op. cit., p. 455.
— 1335 — quale è stato dichiarato incostituzionale l’art. 5 c.p. (158), porta a compimento una riflessione sul problema della inescusabilità dell’ignoranza che a partire dagli anni Sessanta vide contrapposte due differenti interpretazioni: quella fondata sulla semplice presunzione di conoscenza valida fino a prova contraria, e quella, ben più impegnativa, di chi denunziò fin da subito l’incostituzionalità della norma del codice penale. La sentenza, nel confutare i tradizionali fondamenti dell’inescusabilità dell’errore di diritto, evidenzia fin da subito la scelta del rifiuto di continuare a privilegiare il vecchio principio della incondizionata obbligatorietà della legge (159), proprio di una concezione statualistica ed autoritaria, incompatibile con l’istanza di bilanciamento e di esigenze contrapposte (difesa sociale e garanzie personali) che deve invece caratterizzare ed ispirare un diritto penale liberaldemocratico moderno. La Corte ha infatti sottolineato che, qualora si accettasse ‘‘il principio dell’assoluta irrilevanza della ignoranza della legge penale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giuridici a scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche per comportamenti [...] non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell’ordinamento’’ (160). Ma il contenuto della pronuncia costituzionale risulta interessante soprattutto perché fa emergere, indirettamente, alcuni punti di congiunzione giuridica con il diritto penale canonico e con alcuni tra gli aspetti più rilevanti della fenomenologia giuridica di tradizione cristiana. Un primo profilo di sicuro interesse, che è possibile cogliere dalla lettura della pronuncia della Corte, è la implicita accettazione della concezione normativa di colpevolezza dedotta dall’interpretazione dell’art. 27 cost. La nozione di ‘‘rimproverabilità’’ del fatto assume nell’economia del giudizio della Corte un valore centrale, ‘‘al punto da costituire il solido ancoraggio cui fissare l’illegittimità parziale dell’art. 5 c.p., che nella sua assolutezza contrasta con i principi costituzionali che governano i ‘requisiti’ subiettivi minimi di imputazione’’ (161). La Corte costituzionale finisce così per dare rilievo e dignità costituzionali ad un modello di colpevolezza che spinge il proprio raggio d’intervento al di là del mero fatto materiale perché esige che esso sia commesso colpevolmente. Si è infatti da più parti sottolineata la esigenza che il principio personale di responsabilità penale vada inteso includere il riferimento alla colpevolezza, in materia almeno di error e ignorantia iuris. L’affermazione appare in contrasto con la sentenza della Corte cost. n. 74 del 1975 (162), e con altre sentenze del giudice costituzionale sull’art. 27 cost. ancorché non attinenti all’error iuris o all’ignorantia iuris. La Corte costituzionale riconosce il principio di riprovevolezza del comportamento come essenza della colpevolezza, secondo una sensibilità che riallaccia il giudizio di incostituzionalità all’ interpretazione normativista dell’elemento soggettivo del reato. ‘‘Al di fuori della greggia finalità ‘deterrente’ [...] ogni funzione razionale della pena’’ — osserva Vassalli — ‘‘[...] vuole che l’attribuzione di responsabilità si fondi sulla rimproverabilità del comportamento e dunque nella specie, sulla possibilità di conoscere (e di intendere) il divieto. La cosiddetta concezione normativa della colpevolezza fa così il suo ingresso a vele spiegate nella nostra giurisprudenza costituzionale: ferma l’esigenza del nesso psichico tra autore e fatto [...] questa non basta: per la pena occorre la ripro(158) Sentenza Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit., cc. 1385 ss. (159) Cfr. G. FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge: ‘‘prima lettura’’ della sentenza n. 364 del 1988, in Foro it., 1988, I, c. 1386. (160) Sentenza Corte cost. 24 marzo n. 364 1988, cit., c. 1390. (161) A. ALESSANDRI, Art. 27 primo comma Cost., in Commentario della Costituzione, Bologna, 1991, p. 21. (162) Sentenza Corte cost. 25 marzo 1975, n. 74, in Giur. cost., I, 1975, pp. 770774.
— 1336 — vevolezza in concreto’’ (163). Va da sé che quest’ultima presuppone parametri di riferimento che la Corte individua con sicurezza nei valori metapositivi di natura etico-politica, ma soprattutto includendo il problema della conoscenza del diritto nel binomio colpevolezza-esigibilità. L’idea di colpevolezza che la Corte matura vuole essere quindi lontana dalle rigidità formalistiche e recuperare una concezione ‘‘materiale’’ della sfera di imputabilità, in grado di fissare i requisiti della imputazione sulla base di parametri metapositivi desumibili ‘‘da un sistema costituzionale gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria’’ (164). In questo ancorare la colpevolezza a tavole di valori metapositivi è possibile rinvenire una prima traccia di una linea evidente di pensiero che avvicina il diritto penale canonico a quello statuale, che risiede specialmente nel riconoscimento della scusabilità della ignorantia iuris inevitabile. L’attenzione riservata ai parametri etici e alla sostanza della costituzione materiale implica una forma mentis che è alla base del ragionamento giuridico ecclesiale, sempre in equilibrio fra interiorità [eticità] e esteriorità giuridica [positività]. L’analogia con la giuridicità penale canonica può fondarsi anche sul profilo di conoscenza esigibile richiesta dal giudice costituzionale affinché si configuri la colpevolezza. L’inserimento nello schema della sentenza del fattore di esigibilità svaluta infatti la dimensione di formalismo del diritto statuale per esaltarne la componente elastica e mediatrice, secondo schemi e procedure comuni al diritto canonico. Nella logica contrattualistica, entro cui va letta la sentenza, all’obbligo dello Stato di informare i cittadini su cosa sia vietato o comandato, fa riscontro l’onere dei singoli di informarsi sulle leggi e di attivarsi per conoscerle prima di agire. Ciò comporta l’esclusione della colpevolezza e, quindi, della imputabilità, quando il cittadino nei limiti del possibile ‘‘si è dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, 1o comma cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge’’ (165). In questa situazione la sua ignoranza può essere giudicata inevitabile e pertanto scusabile, in quanto risulterebbe inesigibile una diversa forma di comportamento. Tutto ciò è particolarmente evidente nell’ordinamento penale tedesco nel quale l’elemento della esigibilità è preteso costitutivo della colpevolezza. I tre elementi centrali del concetto di colpevolezza sono infatti: la imputabilità, la coscienza della antigiuridicità del fatto e, ultima, l’esigibilità di un comportamento conforme alla norma (166). Essi testimoniano della profonda influenza avuta dal pensiero protestante sulla dogmatica tedesca, le cui origini vanno probabilmente fatte coincidere ‘‘con quel mosaico ancora incerto e dai contorni scientifici indefiniti che fu la Practica Nova Imperialis Saxsonica rerum criminalium di Benedict Carpzov, pubblicata nel 1635 e che in effetti procurò al suo Autore [...] la fama di vero e proprio fondatore di una scienza penalistica tedesca di diritto comune’’ (167). Da Carpzov a von Listz, per quanto le esigenze scaturite dai processi di industrializzazione abbiano favorito un movimento di laicizzazione del diritto penale, rimane viva nella dottrina criminalistica germanica una forte tensione morale impegnata nella ricerca di un equilibrio capace di armonizzare la disciplina normativa con la coscienza individuale dei consociati, ‘‘non pretendendo da questi ultimi nulla che, pur richiesto da una norma, potesse sfuggire al rimprovero e all’obbligo di espiazione nel momento del rapporto diretto con la autorità divina’’ (168). (163) G. VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., II, 1988, p. 10; M. JASONNI, Contributo allo studio della ‘‘ignorantia iuris’’ nel diritto penale canonico, Milano, 1983. (164) G. FIANDACA, op. cit., c. 1389. (165) G. FIANDACA, op. cit., c. 1406. (166) K. VOLK, Introduzione al diritto penale tedesco. Parte generale, cit., p. 89. (167) G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 43; R. COPPOLA, Il concetto di non esigibilità nell’ordinamento canonico, in Scritti in memoria di O. Giacchi, I, Milano, 1984, pp. 270 ss. (168) G. FORNASARI, op. cit., p. 46.
— 1337 — L’effettiva possibilità di conoscere la legge penale è un requisito subiettivo minimo di imputazione, ma altresì una forma particolare, del tutto laica, di temperanza giuridica radicata su riflessioni realistiche. Infatti la completa interpretazione delle leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni. Sostiene giustamente Mantovani: ‘‘chi adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedibili e ciononostante venga a trovarsi in stato di ignoranza della legge penale, non può essere trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza viola gli stessi doveri’’ (169). La ricchezza di contenuto della sentenza costituzionale amplia il raggio di interesse sino a cogliere con rinnovata sensibilità il collegamento fra il principio di legalità e quello di conoscibilità della legge. La legalità esige che il diritto penale divenga la extrema ratio di tutela della società e sia costituito da norme non numerose, formulate chiaramente, e tali ‘‘da essere percepite anche in funzione di norme extrapenali di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare’’ (170). Il forte richiamo alla consapevolezza dell’agente nei confronti della norma avvicina maggiormente la sostanza giuridica della sentenza della Corte costituzionale a forme logicogiuridiche del diritto ecclesiale, cioè all’animus recipiendi che il diritto canonico richiede espressamente per la consuetudine e che, più in generale, informa l’impegno di corresponsabilità e partecipazione dei fedeli nella aedificatio della chiesa (171). La diversità che sussiste fra ordinamento giuridico statuale ed ordinamento ecclesiale circa i presupposti teorici che fondano l’appartenenza della persona fisica al sistema giuridico e politico è sostanziale. Ma l’enfasi riconosciuta al dovere di ‘‘responsabile partecipazione politica’’ (172) genera, nel cittadino come nel fedele, una forma di responsabilità giuridica eguale verso le regole. ‘‘Far sorgere l’obbligo giuridico’’ — osserva la Corte — ‘‘di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo stato democratico offre al cittadino e a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati’’ (173). La rottura avvenuta con la sentenza n. 364 del 1988 con un passato formalistico di tradizione romanistica è effetto di una mutata sensibilità della cultura giuridica contemporanea (169) F. MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, in Riv.it. dir. proc. pen., 1990, p. 386. (170) G. VASSALLI, op. cit., p. 11. (171) Come sostiene G. MICHIELS, Normae generales iuris canonici. Commentarius Libri I Codicis iuris canonici, vol. I, Parisiis-Tornaci-Romae, 1949, p. 172, la capacità di recepire la legge richiede il soddisfacimento di una serie di requisiti: ‘‘1) ut ordinatio [...] procedat ex jurisdictione politica, quae immediate ad communem gubernationem pertineat et ad bonum commune inserviat; 2) ut sit revera praeceptum ratione termini cui commune seu aliquanter generale; 3) ut sit praeceptum in se stabile’’; cfr. inoltre G. COMOTTI, La consuetudine nel diritto canonico, Padova, 1993, pp. 134 ss. Sul principio di partecipazione vedasi R. BERTOLINO, Il nuovo diritto ecclesiale tra coscienza dell’uomo e istituzione: saggi di diritto costituzionale canonico, Torino, 1989, pp. 145-172. (172) La Chiesa-istituzione, osserva J. HERVADA, op. cit., p. 172, ‘‘come società organicamente strutturata fondata sulla comunione ecclesiale si fonda su di una interazione fra fattore soggettivo e fattore oggettivo. Esige cioè un incontro ordinato di esseri liberi, solidali e partecipi di una fede e di fini comuni’’. (173) G. VASSALLI, op. cit., p. 12; cfr. anche C.A. MAFFI, A proposito dell’ignoranza invincibile della illiceità, in Riv. pen., 1990, pp. 609-610.
— 1338 — che in alcuni aspetti presenta spiccate analogie con la sensibilità giuridica ecclesiale. Mi riferisco in particolare al venir meno dei timori di ordine politico, tipici del pensiero liberale, che giustificavano il rigoroso principio della ignorantia legis non excusat (174). A favorire la vigenza dell’art. 5 c.p. è sempre stata una ragione schiettamente politica: la netta prevalenza accordata all’interesse pubblico, che richiedeva una osservanza ed applicazione incondizionata della legge penale, ‘‘sino al punto di trascurare del tutto le motivazioni individuali, anche di natura psicologica, che influenzano la genesi della singola condotta criminosa’’ (175). Era, questa infatti, la preoccupazione che assillava la Scuola classica quando il Carrara ammoniva che, qualora agli accusati fosse concesso il permesso di accampare quale scusa l’ignoranza della legge, essa sarebbe divenuta succube della volontà capricciosa del singolo con la conseguenza di esporre ‘‘a ruina tutto lo edificio del giure positivo’’ (176). L’attenuarsi dei timori di ordine pubblico ed ordinamentale ha determinato lo sviluppo di un diritto penale meno statico, più attento alle esigenze della persona che, come riconosce la Corte nella sentenza del 1988, è valore primario fra quelli costituzionalmente protetti. La Corte enfatizza la centralità del principio di colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale, e ricorda ‘‘non solo che tale sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su ‘congrui’ elementi subiettivi’’ (177). Si sviluppa una coscienza nuova nell’ambito della penalistica e del diritto costituzionale (costituzionalismo dei valori), fondata sulla ricerca di un punto di equilibrio fra inescusabilità assoluta e scusabilità assoluta, che Tommaso d’Aquino con moderna sensibilità aveva già individuato con la distinzione fra ignorantia involuntaria e voluntaria, concludendo che, mentre l’ignorantia affectata e quella voluntaria negligentiae non scusavano, la ignorantia per accidens ‘‘excusat non a toto, sed a tanto’’ (178). V’è così una radice antica, in parte irriflessa, alla base della pronuncia della Corte costituzionale. In essa si ritrova, arricchito dal linguaggio costituzionale e penalistico moderno, lo spirito di giustizia e di temperanza che rompe con il determinismo positivista. L’allontanamento dagli schemi illuministici ha permesso la riscoperta di una interpretazione più complessa della responsabilità penale personale (179), punto d’incontro fra la sensibilità laica, attenta al dato sociale e istituzionale, e quella canonico-cristiana, più duttile verso il piano antropologico. Il superamento del pragmatismo giuridico di origine romanistica operato dalla Corte lascia intravedere, in filigrana, le origini cristiane della disciplina attuale. Già in Sant’Agostino si rinviene ‘‘un espresso riferimento all’ignoranza incolpevole ed al conseguente rilievo scusante della privazione di rappresentazione di una data realtà non ri(174) Non essendo questa la sede per ricostruire il quadro completo delle tesi via via adottate per giustificare il rigoroso principio di matrice romanistica dell’ignorantia legis non excusat [...] ci si può limitare — osserva G. FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale, cit., c. 1385 — ‘‘a osservare che al di là dei discutibili espedienti dogmatici utilizzati per dare ‘copertura’ al principio stesso [...] , a esercitare un peso decisivo è sempre stata, in realtà, una ragione schiettamente politica: e cioè, la netta prevalenza accordata all’interesse pubblico inerente ad una incondizionata osservanza e applicazione della legge penale, sino al punto di trascurare del tutto le motivazioni individuali, anche di natura psicologica [...]’’. (175) G. FIANDACA, op. cit., c. 1388. (176) Ibidem. (177) Sentenza Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit. c. 1399. (178) SAN TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, q. 3, a. 8, in Opera Omnia. Iussu Leonis XIII P.M. edita, tom. XXIII, Roma-Paris, 1982, pp. 82-84. (179) G. FIANDACA, op. cit., c. 1393.
— 1339 — conducibile alla volontà dell’agente, sullo stesso esempio di Cristo’’ (180). Più in particolare il vescovo di Ippona osservava che ‘‘non omnis ignorans est immunis a poena. Ille enim ignorans potest excusari a poena qui quod disceret non invenit. Illi autem hoc ignosci non poterint, qui, habentes a quo discerent, operam non dederunt’’ (181). Nel corso del dodicesimo secolo si riaffaccia, in una parte della teologia, la necessità, palesata già in epoche precedenti, di non attribuire efficacia scusante all’ignoranza del diritto di natura, la cui indubbia appartenenza alla coscienza umana dovrebbe essere fuori discussione. Alain De Lille, con altri teologi tra cui Prevostino da Cremona, rifacendosi ai testi paolini riconosceva rilevanza all’ignoranza del diritto di natura, ‘‘solo nella ipotesi che essa non potesse essere evitata e sempre che non derivasse da una precedente condotta di vita colpevole, per la quale ipotesi egli credeva di poter riconoscere una imputabilità parziale in riferimento all’entità della colpa che avesse provocato lo stato d’ignoranza’’ (182). Con Pietro Lombardo si avrà la chiarezza e sistematicità giuridica che anticipano le più moderne ricostruzioni teoriche. Il Magister sententiarum distingue tre ipotesi di ignoranza: quella di chi ‘‘scire nolunt’’, di chi ‘‘scire volunt, sed non possunt’’, e quella di coloro che ‘‘quasi simpliciter nesciunt non renuentes vel proponentes scire’’ (183). Di queste la prima è inescusabile, la seconda invincibile e quindi scusabile, la terza è idonea per sé a giustificare una attenuazione della pena. Anche Graziano (184) e, tra i decretalisti, Rolando Bandinelli, finiscono col cogliere ed avvertire il fatto che l’ignoranza invincibile ha forza scusante, purché non sia crassa o supina, mentre nell’ipotesi di ignoranza senza colpa ‘‘si dovrebbe verificare se la ignoranza proceda da una colpa precedente, dovendosi riconoscere, in siffatta situazione, alla ignoranza rilievo scusante alla Chiesa e non anche avanti a Dio’’ (185). La omogeneità di risposte offerta dalla decretalistica del dodicesimo secolo nasconde, in verità, un approccio dogmatico più complesso e contraddittorio, impegnato com’era a ricercare un equilibrio tra i dati scritturistici e le istanze politico-istituzionali dell’ordinamento ecclesiale dell’epoca. Il principio della responsabilità penale personale e dell’ignorantia legis (180) C. VECCHIARELLI, ‘‘L’ignorantia legis’’ e ‘‘l’error iuris’’ nell’ordinamento dello Stato ed in quello della Chiesa. Prospettive di riforma, in Eph. iur. can., 1, 1989, p. 505. (181) SANT’AGOSTINO, De octo quaestiones ex veteri testamento, in Corpus christianorum. Series latina, vol. XXXIII, Sancti Aurelii Augustini opera, pars. V, Turnolti, 1958, p. 469; si veda anche F. X. WERNZ-P. VIDAL, Jus Canonicum, tom. VII, Jus Poenale Ecclesiasticum, Romae, 1937, p. 94, il quale sottolinea che ‘‘in iure canonico iam ante Gratianum praevalevit regula, legis violationem non imputari nisi coscienter fuerit facta ideoque cum scientia legis, nisi scientia legis esset obligatoria quae sine culpa negligi non posset’’. (182) C. VECCHIARELLI, op. cit., p. 506; cfr. anche M. FALCO, Introduzione allo studio del ‘‘codex iuris canonici’’, a cura di G. Feliciani, Bologna, 1992, p. 356. (183) Ibidem. (184) Se è infatti normale, osserva V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica. La discussione del problema in Graziano e nella decretistica, Milano, 1971, p. 186, ‘‘che la non conoscenza di un fatto altrui configuri una ignoranza ‘‘probabilis’’, e se questa non è punibile ne discende che il fatto altrui che si ignora non provoca la punizione dei terzi. Tutto questo però sembrerebbe in contrasto con le conclusioni di Graziano, unanimemente accettate, che la ignoranza in ogni caso non esclude la estensione di alcune pene, a meno che non esista una dispensa, cioè in via d’eccezione: ma proprio la presenza contemporanea dell’ignoranza e del fatto altrui viene considerato valido motivo per introdurre a giustificare, per queste fattispecie, la dispensa. Per tale ragione, sostanzialmente, l’eccezione diventa una regola, e taluni autori giungono ad affermare che la dispensa è addirittura automatica ed obbligatoria, quando i presupposti, cui si è accennato, siano presenti’’. (185) C. VECCHIARELLI, op. cit. p. 508.
— 1340 — magistralmente espresso dall’Ostiense nella formula ‘‘peccata suos debent tenere authores, quanto a dire che le conseguenze dei delitti non devono coinvolgere direttamente i terzi innocenti (186), si era posto infatti fin da subito in contrasto con più pressanti esigenze politiche che avevano finito col generare in diritto canonico manifeste eccezioni al principio. In realtà, il fenomeno è comprensibile in tutta la portata solo se si tenga conto di come il diritto penale canonico svolgeva in questo periodo storico un ruolo di mediazione fra la tradizione romanistico-cristiana, informata al principio della responsabilità penale personale, e quella abituale nelle popolazioni germaniche, che di solito non indagavano sul versante psicologico del reato, arrivando spesso a coinvolgere in una responsabilità obiettiva interi gruppi familiari dell’offeso e dell’offensore, gli uni spinti a farsi giustizia, gli altri a respingere la vendetta. La Chiesa muove la propria riflessione in campo penale lungo una linea di pensiero dettata da un profondo pragmatismo, in un estremo sforzo di mediazione fra istanze politiche, tradizione cristiana, ed esperienze giuridiche estranee alla tradizione romanistica. Le vistose eccezioni al diritto germanico introdotte dal diritto canonico attraverso l’istituzione delle ‘‘tregue’’, del ‘‘diritto di asilo’’, dell’‘‘intermediazione degli ecclesiastici’’, e — ciò che più conta — per mezzo della valorizzazione della coscienza personale, ‘‘per cui a poco a poco si introducono criteri di valutazione attenti all’individuo e al suo atteggiamento psichico al momento del reato’’ (187), spiegano le significative deroghe che i decretalisti apportarono nel sistema penale della Chiesa. La sitemazione tecnico-giuridica del diritto penale canonico risentiva infatti dei contrasti che percorrevano la realtà politico-sociale del XII secolo. Lo strumento sanzionatorio finiva con l’essere utilizzato al di là delle logiche conseguenze indicate dalle direttrici del sistema. Un sistema sanzionatorio rivolto in modo eminente a proseguire la lotta contro la ‘‘simonia’’ (188) ed il ‘‘nicolaismo’’, in contrasto con le affermazioni teoriche della rilevanza esclusiva della volontà del singolo (189) come veicolo di responsabilità penale, finivano con caratterizzare il volto dell’ordine sanzionatorio della Chiesa ripiegato, come già testimoniano le prime riflessioni di Graziano (190) e di Uguc(186) Cfr. V. PIERGIOVANNI, op. cit., p. 2. (187) Ibidem, p. 9; cfr. anche A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, V, in Storia del diritto penale, Torino, 1892; si veda C. CALISSE, Storia del diritto penale italiano dal secolo VI al XIX, Firenze, 1895, pp. 1-166 e dello stesso autore, Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVII, in Enc. del dir. pen. it., a cura di E. Pessina, vol. II, Milano, 1906, pp. 3 ss.; P. DEL GIUDICE, Diritto penale germanico rispetto all’Italia, in Enc. del dir. pen. it., vol. I, cit., pp. 431-609; G. ASTUTI, Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti. Età romano barbarica, Padova, 1968, pp. 91 ss. (188) Per quanto concerne la simonia, V. PIERGIOVANNI, op. cit., p. 204, sostiene come fosse opinione diffusa che sul terzo innocente si ripercuotesse la colpa altrui non per quanto attiene al reato, ‘‘ma limitatamente alla pena, che in questo caso, è rappresentata dalla perdita di una carica precedentemente ottenuta. Su questa posizione sembrano tutti d’accordo, e l’unico che potrebbe far sorgere delle perplessità è Stefano di Tournai, il quale, dopo aver sostenuto che il reato paterno può addossare al figlio una pena temporale, pone come esempi tipici la lesa maestà e la simonia, al pari dei veri colpevoli. (189) Si trattava in genere di membri della famiglia puniti solidalmente con il reo o posti in condizioni di inferiorità e di discriminazione sociale. I fini, osserva ancora V. PIERGIOVANNI, op. cit., p. 13, ‘‘sono molteplici e vanno dalla pressione psicologica che la sofferenza di persone a lui legate può esercitare sul colpevole, alla necessità di evitare in futuro fenomeni di imitazione, ed infine, soprattutto quando non si tratti di familiari, il tentativo di provocare la reazione delle vittime’’. (190) Nel Decreto di Graziano l’esempio più significativo è quello dei figli puniti per colpa dei genitori e degli avi, ma altre ipotesi vi si possono aggiungere. Esse arricchiscono, osserva V. PIERGIOVANNI, op. cit., p. 30, ‘‘la casistica del fenomeno e costringono l’interprete
— 1341 — cione da Pisa (191), sugli ideali morali e politici della riforma gregoriana, finalizzata, attraverso la lotta a questi due reati, ‘‘a rinsaldare la disciplina spirituale ed a rafforzare le strutture interne della Chiesa’’. (192). Questa complessa eredità normativo-ecclesiale sul principio di responsabilità penale personale fa da sfondo alla disciplina del can. 2202 del CIC del 1917 e dei cann. 1323 n. 2, 1324 n. 9, 1325, del CIC del 1983, che anticipano la sostanza della pronuncia costituzionale italiana e palesano tutta la diversità fra la rigida disciplina dell’art. 5 c.p., che non ammetteva deroghe o limitazioni al perentorio principio di inescusabilità dell’ignoranza e dell’errore di diritto in parte ingiusto, e quella prevista nei codici di diritto canonico del ’17 e dell’ 83 nei quali si distingue, a ragione, tra ‘‘ignoranza incolpevole’’ ed ‘‘ignoranza colpevole’’: ‘‘considerata rilevante la prima, irrilevante la seconda e tale da condurre ad una conseguente attenuazione della pena in considerazione del fatto che ‘imputabilitas minuitur plus minusve pro ignorantiae ipsius culpabilitate’ ’’ (193). La sensibilità dimostrata dal nuovo codice di diritto canonico rispetto a quello del ’17, in verità per sé già sensibile al problema della scusabilità dell’ignoranza incolpevole, colloca la normativa canonica nell’alveo di un processo di modernizzazione e razionalizzazione dell’intervento punitivo da interpretarsi in chiave rieducativa e risocializzante, come è finalmente avvenuto anche in Italia, attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione (194). Nel succedersi di più pronunce si è infatti finito con l’adeguare l’ordinamento penale italiano alla normativa vigente nella maggioranza degli ordinamenti penali europei introducendo nel contempo un elemento di flessibilità nell’ordinamento. Il principio sostenuto dalla Corte ha tuttavia generato i primi e gravi contrasti giurisprudenziali, dovuti alla scarsa determinatezza della nozione di ignoranza ‘‘inevitabile’’. La dottrina si chiede ora se l’opportuna elaborazione da parte della Corte del principio di colpevolezza non abbia paradossalmente creato una norma a sua volta incostituzionale per difetto di tassatività (195), perché, lo osserva acutamente Bricola, ‘‘contrasterebbe con il vincolo di legalità in tema di limiti scriminanti a carattere soggettivo una regolamentazione dell’errore di diritto che conferisca al giudice il potere (discrezionale) di escludere la pena, nel caso di errore non addebitabile a tentare una sistemazione complessiva e atta a giustificare teoricamente l’utilizzazione politicamente opportuna di tale strumento punitivo. [...] Nella ‘‘quaestio quarta’’ della ‘‘Causa’’ prima e nella ‘‘quaestio tertia’’ della ‘‘Causa’’ ventiquattresima, Graziano si occupa diffusamente di tutti i contrastanti aspetti del problema e, dopo un particolareggiato esame dei testi scritturali, propone una soluzione. Egli parte da casi particolari — che nella specie sono la ignoranza del reato paterno da parte del figlio, e la scomunica di tutta la famiglia per la colpa del ‘‘pater — ed attraverso essi offre la chiave per interpretare tutti i casi assimilabili’’. (191) Per Uguccione l’efficacia dissuasiva e vendicativa della pena sarebbe risultata per il padre ben maggiore, qualora avesse coinvolto anche il figlio. Si veda al riguardo A.M. STICKLER, v. Uguccio de Pise, in Dict. de droit. can. VII, Paris, 1965, pp. 1335-1362; dello stesso Autore si veda anche, Problemi di ricerca e di edizione per Uguccione da Pisa e nella decretistica classica, in Congrés de droit canonique médiéval, Louvain, 1959, pp. 111-122.; L. PROSDOCIMI, La ‘‘Summa decretorum’’ di Uguccione da Pisa e nella decretistica classica, in Studia Gratiana, III, 1955, pp. 349-374. (192) V. PIERGIOVANNI, op. cit., p. 14. (193) Ibidem, p. 509. (194) Sentenza Cass. pen., sez. III, 21 dicembre 1990, in Giust. pen., 1991, II, cc. 357-358; sentenza Cass. pen., sez. IV, 20 maggio 1993, in Giust. pen., 1994, II, cc. 81-82; si veda inoltre A. CADOPPI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di ‘‘ignorantia legis’’, in Foro it., 1991, II, cc. 415-421. (195) A. CADOPPI, op. cit., c. 421.
— 1342 — a colpa. Una causa soggettiva di esclusione dell’illecito sarebbe certamente incostituzionale’’ (196). 3.3. Dalla pretesa simmetria penale ‘veterotestamentaria’ al ‘neoretribuzionismo’ statuale. — Un ulteriore punto di congiunzione giuridica, ove è dato sperimentare la comune sensibilità del diritto penale statuale e del pensiero giuridico di tradizione cristiana, concerne il fine della pena. V’è al riguardo una sorta di triangolo concettuale, entro il quale è possibile sviluppare la riflessione del probabile influsso cristiano sulla concezione statuale della pena. Lungo un lato della riflessione si colloca la teorica penale di Aldo Moro; sul versante opposto si inserisce l’interpretazione del dato biblico relativo al potere coercitivo. Solo un esame preventivo dei distinti profili dogmatici consentirà, alla fine, la valutazione critica sul grado di influenza del pensiero giuridico e teologico cristiano sulla concezione di pena maturata negli ordinamenti liberaldemocratici. I valori di libertà, di giustizia, e di dignità della persona costituiscono i punti cardinali della teorica di Aldo Moro (197). Essi si contrappongono all’arbitrio, alla violenza e schiavitù della persona e sostanziano, sotto il profilo morale, il fondamento stesso del diritto penale. Per Moro non è la forza bruta o la volontà di opprimere o la violenza legalizzata, la radice da cui derivare la ratio dello ius coercendi ma, al contrario, il diritto naturale scaturito dalla natura razionale dell’uomo. Solo così, infatti, la libertà di ciascuno può coesistere con la libertà di tutti in una società aperta. V’è nel pensiero penale di Moro un’enfasi particolare riservata al concetto di libertà, che costituisce l’essenza stessa del diritto penale. Si tratta, in particolare, di una libertà legata non solo all’individuo, nel solco della tradizione del pensiero liberale, ma alla libertà della società, ‘‘che non opprime ma esalta ed aiuta l’individuo’’ (198). Una libertà non fine a se stessa, ma consapevole di operare in funzione del riconoscimento della personalità etica dell’uomo che è ‘‘intoccabile perché sacra’’ (199) e costituisce non un frammento del cosmo, ma il suo centro; un centro, che la comunità deve salvaguardare prima nell’interesse individuale e poi per quello sociale . La pena non si riduce ad un provvedimento di profilassi sociale, ‘‘che deve disinfettare la società, ma è un provvedimento che deve scuotere l’animo del reo perché comprenda il male che ha fatto. Malum passionis propter malum actionis non nella sua primitiva grettezza che poteva anche giustamente turbare, ma nella sua evoluzione storica illuminata da nuove norme di civiltà’’ (200). La concezione penale di Moro ispirata alla libertà e alla temperanza si specchia e trova ragione d’essere nel vertice della concezione penale veterotestamentaria. In Moro, infatti, si ritrovano i tratti essenziali e più autentici della concezione sanzionatoria presentata nelle Scritture. In particolare, l’attenzione che lo statista ha dedicato alla funzione risocializzante della pena si ricollega alla esegesi teologica più aggiornata, che nega la simmetria retribuzionista voluta attribuire all’Antico Testamento. L’influsso biblico più diretto sulla fondazione della pena è rappresentato dalle formulazioni retributive richiamate nell’Esodo (Es. 21, 23) e (196)
F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, p. 320, nota
201. (197) Osservava infatti A. MORO, Antigiuridicità penale, Palermo, 1947, p. 51, ‘‘che la vita sociale, se è, com’è certamente, fatto umano e spirituale invece che brutale meccanismo di forza fisica in opera, non può essere costruita, se non partendo dal valore autonomo della persona. Ciò non vuol dire naturalmente che questa possa respingere da sé l’esigenza sociale e rinchiudersi in un suo mondo solitario ed egoistico, che sarebbe grossolano errore, ma soltanto che ogni svolgimento in aderenza a quel supremo dovere di solidarietà non è fatto, ma atto, svolgimento appunto della persona’’. (198) G. BETTIOL, La concezione della pena in Aldo Moro, cit., p. 1265. (199) G. BETTIOL, op. cit., p. 1268. (200) Ibidem, p. 1269.
— 1343 — nel Levitico (Lv 24, 19) (201). Ma gli interpreti sono ormai persuasi nel credere che i modelli punitivi arcaici dell’Antico Testamento risultino sostanzialmente estranei al contenuto specifico del messaggio biblico. Secondo quanto sostiene Eusebi, ‘‘nell’intera storia della salvezza sarebbe rinvenibile, piuttosto, l’immagine del Dio creatore che cerca solo la conversione dell’uomo e non la sua rovina’’ (202). Non è possibile racchiudere la giustizia penale veterotestamentaria nei limiti di un procedimento espiatorio, poiché i tratti violenti del Dio biblico non rappresenterebbero altro che proiezioni umane di una società in cammino verso una condizione di non violenza incentrata sul valore della tsedàqàh, che la versione greca di dikàiosyné e quella latina di iustitia hanno svuotato del significato più autentico. È ormai invalsa l’abitudine di interpretare i concetti di ‘‘giustizia’’ e di ‘‘pena’’ secondo le categorie di pensiero occidentali legate o alla tradizione latina ed in particolare ulpianea di giustizia, intesa quale costante ed immutabile volontà di attribuire a ciasciuno il suo diritto, o a quella tedesca, incentrata sulla nozione luterana di Gerechtigkeit. Lo sviluppo irriflesso e condizionato del pensiero penale occidentale finisce col precludere la comprensione dell’originario nucleo elaborato dal pensiero tedesco ed europeoebraico (203). Soltanto attraverso i concetti di ‘‘premura’’ e di ‘‘misericordia’’ è possibile scoprire il significato originale di tsedàqàh e di pena. Come avviene nella teologia di Giacobbe, dove Dio giudica il figlio di Isacco ma non lo manda in rovina, bensì lo risolleva e lo salva dal giudizio, il giudizio di Javhé non è di tipo retributivo: esso non uccide ma risolleva. L’uomo esperimenta che ‘‘la premura e la misericordia di Javhé restano inalterate anche nel giudizio. Nella tsedàqàh, quindi è sempre Jahvé che assume l’iniziativa. Anche di fronte alla colpa e al delitto, Dio non ritira il suo originario ‘‘si’’ di accoglienza e protezione’’ (204). Soprattutto in alcuni Salmi (205) il significato biblico di pena manifesta la sua più profonda essenza. Il valore della ‘‘misericordia’’ diviene il baricentro dell’idea di giustizia. La tsedàqàh finisce insomma con l’avere il proprio vertice nella volontà e nell’azione di salvezza, non nella retribuzione; la pena dell’Antico Testamento consente infatti all’uomo di (201) ‘‘Se alcuni vengano a rissa, e uno percuote una donna gravida, che abortisce, ma resta in vita, quegli rifà il danno, e il giudizio degli arbitri (Es. 21, 22). Ma se quella ancora viene a morire, renderà vita per vita’’ (Es. 21, 23). ‘‘Chi offenderà nella persona qualunque de suoi concittadini sarà fatto ad esso, come egli ha fatto altrui’’ (Lv. 24, 19). (202) L. EUSEBI, Cristianesimo e retribuzione penale, cit., p. 277. Come sottolinea efficacemente H. U. von BALTHASAR, L’ultimo atto, vol. V della Teo Drammatica, Milano, 1986, p. 235, ‘‘nello stesso Israele viene ad un certo punto dimenticato il vero fondamento della legge: mishpat, misericordia e fedeltà (Mt 23, 23) e con esso pure il comandamento fondamentale dell’illimitato amore per Dio che si trova dietro la fedeltà legale (Mt 12, 37; Mc 12, 28-34; Lc 10, 27). Questo comandamento d’amore formulato in modo così [...] radicale per il Vecchio Testamento (Dt 6, 4-9), come risposta all’amore divino [...], era stato a tal punto offuscato dalla legge ‘‘introdottasi nel frattempo’’ (Rm 5, 20) con la sua simmetrica giustizia rimunerativa-punitiva che l’insistente avvertimento di Gesù al riguardo agisce come una riscoperta’’; cfr. anche R. GIRARD, Il capro espiatorio, Milano, 1987 e, del medesimo Autore, La violenza e il sacro, Milano, 1986; E. CANETTI, Masse und Macht, Hamburg, 1960, tr. it., Massa e potere, Milano, 1990, pp. 357 ss. (203) Cfr. E. WIESNET, Pena e retribuzione, cit., p. 12. (204) Ibidem, p. 12. (205) Il Salmo 103 è particolarmnente importante per comprendere l’essenza della giuridicità penale testamentaria cristiana: ‘‘Il Signore agisce con giustizia / e con diritto verso tutti gli oppressi (v. 6) / Buono e pietoso è il Signore / lento all’ira e grande nell’amore. / Non ci tratta secondo i nostri peccati / non ci ripaga secondo le nostre colpe.’’, in E. WIESNET, op. cit. p. 25.
— 1344 — rinnovare il suo rapporto con Dio cosicché il dono del perdono e della riconciliazione divengono presupposto di un nuovo vivere secondo giustizia: ‘‘Non è l’uomo che da sé solo produce, mediante il proprio agire, la riconciliazione. Al contrario, egli esperimenta di dipendere in modo radicale dal premuroso rivolgersi a lui da parte di Jahvé’’ (206). La rinuncia al retribuzionismo diviene la chiave di lettura della soteriologia più aggiornata, la quale respinge con forza ogni tentativo di spiegare il dolore della croce come punizione (207). Si eclissa la soteriologia anselmiana fondata sulla convinzione che il sacrificio di Cristo fosse una forma di riscatto da pagare per colpa dell’umanità e si afferma, di contro, il modello tomista che rifiuta in linea di principio l’idea di un’azione punitiva che plachi l’ira di Dio (208). Anche la lettura attenta di Paolo da parte di K.Barth nella Kirchliche Dogmatik riscopre il significato non retributivo della pena in concordanza con il pensiero penale di S.Tommaso. Il teologo svizzero evidenzia, in particolare, come nella Lettera ai Romani (Rm 13, 4) Paolo parli della exousia della autorità dello Stato, il quale ‘‘non porterebbe la spada invano, bensì al servizio di Dio, come vindice della sua ira contro chi commette il male. Ora su Rm 13, 1-7 è stata da tempo fondata dalla teologia una teoria della pena orientata al principio retributivo, e solo in epoca recente ha iniziato ad imporsi l’avviso che la suddetta interpretazione sia andata del tutto al di là delle parole di Paolo. Questi parlava dell’atteggiamento dei cristiani rispetto allo Stato, e precisamente dei cristiani di allora rispetto allo Stato di allora, non della natura dello Stato, e nemmeno di come il medesimo debba agire o debba punire. La morale dello Stato non può essere diversa, per l’etica cristiana, dalla morale individuale’’ (209). Ne consegue che se al singolo è fatto veto di retribuire, anche lo Stato ne è impedito. Non è infatti la morale, ma la situazione oggettiva e particolare che diverge da quella del singolo. Il singolo che perdona rinuncia solo a beni propri, mentre lo Stato, se perdonasse chi viola la legge, farebbe torto ad altri uomini, ‘‘che deve proteggere non solo da quel determinato agente di reato, ma dal reato in sé. Tuttavia, non deve punire per fini di retribuzione, bensì per garantire l’ordine. Lo Stato ha il dovere di punire se ed in quanto sia costretto a punire, ma non deve andare al di là di un simile compito’’ (210). Il modello asimmetrico così delineato di giustizia penale non sembra essere stato del tutto recepito dalla codificazione canonica dell’83, che comprende nel medesimo sistema punitivo sia la pena medicinale, dal chiaro intento emendativo, che quella espiatoria dalla funzione più esplicitamente retributiva (can. 1336 § 1). Così, come, nonostante il richiamo alla colpevolezza e dignità umana, il pensiero cattolico sul diritto penale viene ancora descritto (206) E. WIESNET, op. cit. p. 25. Cfr. al riguardo E. NAEGELI, op. cit., p. 87, il quale sottolinea che ‘‘l’espiazione mira piuttosto ad una riconciliazione. Originariamente si trattava della riconciliazione col mondo degli Dei, che doveva essere placato attraverso il sacrificio espiatorio. Nel significato attuale espiazione vuol dire riconciliazione con se stesso, col proprio intimo, con l’Essere che è legato al Trascendente: ma anche riconciliazione ‘‘con l’ordinamento violato, con la società. La riconciliazione ricerca l’accomodammento di un rapporto degenerato nel disordine, eliminando così il male commesso’’. (207) A questo riguardo H. U. von BALTHASAR, op. cit., p. 237 spiega come ‘‘il Crocifisso non soffre semplicemente l’inferno meritato dai peccatori; egli soffre qualcosa che è al di là e al di sotto di essi: un abbandono da parte di Dio in pura obbedienza di amore, di cui Egli soltanto è capace in quanto è il Figlio, e che abbraccia da sotto qualitativamente ogni possibile inferno [...]. È la presa o l’abbraccio con cui il Figlio di Dio afferra come da sotto [...] con l’esperienza dell’abbandono di Dio in croce [...] tutto il peccato dell’umanità e le sue conseguenze per realizzare così [...] la redenzione, il perdono, la riconciliazione [...]. (208) Cfr. L. EUSEBI, op. cit., p. 285; vedi anche F. D’AGOSTINO, Fondamenti filosofici e teologici della sanzione penale, cit., pp. 3 ss. (209) P. NÖLL, La fondazione etica della pena, cit., p. 37. (210) Ibidem, p. 37.
— 1345 — attraverso le espressioni di tipo retributivo di Papa Pio XII (211). Ciò è da imputare probabilmente alla eredità, ancora troppo forte, che lega la codificazione e teoria penale cattolica alle teorie penali ‘‘miste’’ di fine Ottocento, che trova conferma sia nella formula del can. 1341 che nel testo del catechismo della Chiesa cattolica del 1993 dove nell’ esegesi del ‘‘quinto comandamento’’ traspare con netta evidenza come il fine retributivo finisca col prevalere sulla logica medicinale-emendativa che occupa al contrario una posizione di evidente subordinazione. Infatti, precisa il testo, la ‘‘pena ha valore medicinale: [solo] nella misura del possibile [...]’’ (212). È di tutta evidenza la marginalità della dimensione riconciliativa che cede dinnanzi alle esigenze di ordine pubblico e del bene comune della società. L’insegnamento tradizionale precisa che il Catechismo della Chiesa cattolica ‘‘ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte. Per analoghi motivi, i detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità. [...] La pena [infatti], ha lo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa’’ (213). Solo la mole di documenti elaborati dall’episcopato mondiale spezza questa omogeneità retribuzionista di matrice kantiana, come dimostrano, ad esempio, i vescovi francesi che nel 1978 si sono espressi contro la pena capitale sottolineando che il criminale, per quanto colpevole, è pur sempre un uomo; se nel passato ha conosciuto il delitto, ‘‘l’avvenire rimane una possibilità aperta. Quali che siano le sue cattive tendenze, il compito della società è quello di aiutarlo a ritrovare la sua dignità, a riabilitarsi’’ (214). Si pensi ad un intervento del marzo del 1979 della CEI (215), quando in piena emergenza terroristica venne ribadito il rifiuto della pena di morte e confermato il principio per cui ‘‘l’immagine dell’uomo, anche quando fosse offuscata da gravissime colpe [...] rimane sacra, e deve essere redenta [poiché] il male non si vince con il male [ma] con la fermezza, la forza e l’intelligenza dell’amore’’ (216). Le riflessioni condotte fin qui servono dunque a completare la triangolazione interpretativa e a verificare in che misura il pensiero cristiano sulla pena, come appena delineato, abbia inciso sul diritto penale laico. Ma occorre chiedersi ancora se il binomio conversione-riconciliazione sia stato mutato nella formula reintegrazione-risocializzazione, e se sia del tutto vero che la funzione emendativa escluda quella retributiva. Occorre inoltre verificare se corrisponda a verità il fatto che un sistema penale per dirsi cristianamente orientato debba rinunciare alle premesse retributive secondo un processo di totale adesione al modello emendativo (217). Al riguardo sembra chiarificatore l’insegnamento anselmiano dell’espia(211) Cfr. L. EUSEBI, op. cit., p. 293. (212) Catechismo della Chiesa cattolica. Sez. II, cap. I. Il rispetto della vita umana: la Testimonianza della Storia Sacra, n. 2266, Roma, 1993, p. 557. (213) Ibidem. (214) L. EUSEBI, op. cit., p. 229. si veda anche: C.M. MARTINI, Il carcere e i carcerati. Prospettive bibliche e pastorali, in AA.VV., La normativa nel Nuovo Codice, 1983, pp. 286 ss.; cfr. E. DOLCINI, La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, p. 472. (215) Cfr. Il messaggio del Consiglio permanente CEI per una cultura della vita, in Enchiridion CEI, vol. III, Bologna, 1980-1985. (216) Ibidem, p. 291. (217) Non il contraccambio del male, osserva F. STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in Diritto penale in trasformazione, a cura di G. Marinucci e D. Dolcini, Milano, 1985, p. 322, ‘‘è il momento essenziale dell’espiazione, ma la riconciliazione con l’ordine dei valori e della giustizia trasgredita e con la comunità degli uomini che è stata lesa. Con l’espiazione devono essere ripresi e ricostruiti i rapporti con l’ambiente che sono stati
— 1346 — zione, fondato sulla perfetta simmetria di colpa e pena, che richiama l’equilibrio fra giustizia e misericordia. Una teorica che fondasse il finalismo della pena esclusivamente su basi vendicative (male per male) sarebbe, in prospettiva cristiana, troppo povera e riduttiva: ma anche una dottrina che facesse del messaggio cristiano il proprio referente ideale, dovrebbe concludere che la esclusione del profilo retributivo della giustizia in nome di un frettoloso appello alla misericordia non solo pecca di ingenuità e di realismo, ma non è in grado di rendere ‘‘il dovuto omaggio alla misericordia stessa, perché sarebbe troppo portata a confondere quest’ultima con il Brey des Herzens, la ‘pappa del cuore’ per usare la durissima ed icastica espressione hegeliana’’ (218). Giustizia e misericordia come retribuzione e riconciliazione sono i fattori non scindibili di un unico disegno penale. Un giusto equilibrio fra esigenze retributive e istanze riconciliative evita, o almeno riduce, il rischio che la pena si limiti ad essere mera liquidazione del reo o della sua azione criminale: essa invece conserva sempre, anche nell’ aspetto strettamente punitivo, una giusta considerazione della identità umana e del rispetto del condannato. ‘‘È per questo che tante polemiche contro il retributivismo penale mancano il loro bersaglio: non perché non sia più che giusto stigmatizzare una visione crudele e vendicativa della pena, ma perché la visione retributiva della pena, rettamente intesa, non è né vendicativa né crudele. Vanno dunque messe in discussione alcune argomentazioni addotte dagli antiretributivi per evitare il rischio che una acritica teorizzazione del fine emendativo della pena finisca con lo svuotare dall’interno la logica giuridica della pena, sostituendola con altre prospettive di gestione sociale del fenomeno criminale’’ (219). V’è allora da chiedersi se, in ambito statuale, l’equilibrio fra istanza retributiva ed emendativa si sia realmente attuato o se, al contario, abbia conservato lo stato di mera ipotesi. La risposta va ricercata attraverso l’evoluzione del tessuto penale vigente. In particolare, in Italia a partire dagli anni Settanta ha avuto origine un processo di natura pendolare che ha fatto oscillare il fine della pena tra istanze rieducativo-riconciliative ed esigenze più strettamente retribuzioniste, in un difficile sforzo di attuazione polifunzionale della pena. La funzione esclusivamente rieducativa solleva da sempre, infatti, perplessità e resistenze alimentate dal sospetto, già vivo nel dibattito dell’Assemblea Costituente, di rischiose violazioni in chiave autoritaria della libertà morale del condannato e finisce col giustificare la prevalenza delle concezioni retributive e la insistenza sulla funzione general-preventiva della pena. Il primato della visione retributiva incomincia ad essere progressivamente scalzato solo a partire dagli anni Sessanta. Non viene in realtà contestata l’essenza retributiva della sanzione criminale, ‘‘ma l’affermarsi della concezione polifunzionale della pena consente di attribuirle diverse finalità tanto satisfattorie, quanto generalpreventive’’ (220). Nonostante la stabilità di orientamento della giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 12 del 1966 sino alla recentissima n. 168 del 1994 circa la concezione polifunzionale della pena, legislatore, autorità giudiziaria e dottrina hanno concorso a rendere instabile e mutevole il ruolo della pena all’interno del sistema configurando un disegno incoerente, che vizia alla radice il regime sanzionatorio vigente. Al prevalere, infatti, negli anni Settanta, degli obiettivi di prevenzione speciale e al decisivo potenziamento delle finalità rieducative della pena in fase esecutiva, che troverà largo spazio nella riforma penitenziaria del interrotti’’. Si veda anche G. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 481; F. BRICOLA, Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel progetto di riforma, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, 1974, pp. 41 ss. (218) F. D’AGOSTINO, op. cit., p. 14. (219) Ibidem, p. 16. (220) G. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 1995, p. 318; F.C. PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1985, pp. 270 ss.
— 1347 — 1975, ulteriormente potenziati con le leggi n. 689 del 1981 e n. 663 del 1986 (legge Gozzini), fa riscontro la difficoltà di darne pratica attuazione e del porre in essere gli istituti alternativi alla pena detentiva. Ciò che entra in crisi è la ideologia stessa della rieducazione, che finisce con lo scontrarsi con le difficoltà ‘‘di attuazione [...] della riforma penitenziaria e con la crescente aggressività delle varie manifestazioni della criminalità organizzata, comune e politica: sullo scenario delle funzioni della pena si assiste così ad un rilancio delle esigenze di prevenzione generale’’ (221) e al consolidarsi del principio di ultima ratio, nel cui solco si inseriscono il dibattito sul rapporto fra proporzionalità e prevenzione speciale; la riflessione sulla prevenzione generale c.d. negativa e su quella generale c.d. positiva; ma soprattutto le concezioni ‘‘neoretribuzioniste’’, attente specialmente a calibrare l’intervento sanzionatorio sulla base dei bisogni emotivi di punizione trasmessi dall’opinione pubblica per potere assicurare un sufficiente ed accettabile livello di stabilizzazione sociale. In tal modo la persona che delinque finisce col correre il rischio di trasformarsi in mero strumento funzionale ad esigenze che non la coinvolgono affatto. La tensione al suo reinserimento nella società non appare essenziale per i fini del sistema punitivo; il senso di una corresponsabilità diffusa alla genesi della devianza risulta offuscato e i criteri stessi di attribuzione della colpevolezza perdono di autonomia rispetto alla necessità di stabilizzazione sociale. Il profilo polifunzionale stenta dunque a realizzarsi, percorso com’è da una grave discrasia fra fase edittale e momento esecutivo.Gli strumenti penali introdotti con i più recenti pacchetti normativi (legge 12 luglio 1991, n. 203; d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in legge: legge n. 336 del 1992) non fanno altro che evidenziare la patologica divaricazione fra istanze preventive ed esigenze rieducative, fra ‘‘la pena determinata dal giudice con la sentenza di condanna e quella che effettivamente il condannato verrà chiamato a scontare’’ (222). La funzione socialpreventiva assume un rilievo preminente in misura surrettizia, in quanto operante solo in sede di esecuzione penale: ‘‘il generale contesto normativo del sistema sanzionatorio continua infatti a basarsi, nei due momenti antecedenti della comminatoria edittale e della concreta applicazione della pena da parte del giudice di cognizione, sui principi della retribuzione [...] e della prevenzione generale’’ (223). Il giudice finisce con essere investito di un ampio potere discrezionale sul se ed il quantum della pena, acuendo in questo modo la crisi di legalità e tipicità che sembra percorrere l’attuale sistema sanzionatorio. Più in generale quest’ultimo rischia di far perdere il prezioso bagaglio legislativo e culturale che ha accompagnato la riforma del 1975 e di favorire il diffondersi di tesi ‘‘neoretribuzioniste’’, che finiscono con lo sbilanciare l’asse sanzionatorio su posizioni di pura logica retribuzionista. Ma questa impostazione poco ha a che fare non solo con una visione cristiana, ma con quella laica del diritto penale, come mi sono sforzato di dimostrare lungo questa riflessione, poiché viene meno il presupposto imprescindibile del valore della dignità umana. Perché è proprio vero che il modello ‘‘neoretribuzionista’’ non dà spazio ‘‘ad alcuna considerazione per la persona, in quanto null’altro è che un’occasione per riaffermare altri valori e (221) Ibidem, p. 332. Si veda anche, V. GREVI, L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza (1986-1993), Padova, 1994, pp. 25 ss.; T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, pp. 419 ss.; cfr. E. DOLCINI, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 55. ss. (222) Ibidem, p. 326; cfr. anche F. C. PALAZZO, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto scopi e prospettive di un ulteriore provvedimento di decarcerizzazione, in Politica del diritto, 1986, p. 244. (223) Ibidem, p. 326; cfr. anche E. FASSONE, Luci e ombre della ‘‘legge Gozzini’’, in Questione Giustizia, 1987, pp. 654 ss.; F.P.C. IOVINO, Osservazioni sulla recente riforma dell’ordinamento penitenziario, in Cass. pen., 1993, pp. 1257 ss.
— 1348 — per ottenere scopi che soltanto accidentalmente hanno a che fare con quella persona, la quale è trattata [...] alla stregua di un’occasione, o pretesto, o strumento di cui altri uomini [...] si servono’’ (224). dott. ROBERTO MAZZOLA
(224) L. EUSEBI, op. cit., p. 299; cfr. anche L. EUSEBI, La ‘‘nuova’’ retribuzione. Pena retributiva e teorie preventive, sez. I, in Riv. dir. proc. pen., 1983, pp. 914 ss.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
LA CONVENZIONE OCSE DEL 1997 SULLA LOTTA CONTRO LA CORRUZIONE DEI PUBBLICI UFFICIALI STRANIERI NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI INTERNAZIONALI (*)
SOMMARIO: 1. Il ruolo dell’OCSE nella lotta alla corruzione nel commercio internazionale. — 2. Dalla creazione del Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione (1989) alla Raccomandazione ministeriale del 23 maggio 1997. — 3. Il negoziato e la stipula della Convenzione. — 4. Caratteri generali della Convenzione. — 5. Il reato di corruzione attiva del pubblico ufficiale straniero e la responsabilità delle società. — 6. Criteri giurisdizionali, prescrizione e antiriciclaggio. — 7. Gli obblighi non penali in tema di contabilità e bilanci delle imprese. — 8. Mutua assistenza e estradizione. — 9. Entrata in vigore e monitoraggio dell’adempimento. — 10. L’attuazione in Italia. 1. La Convenzione dell’OCSE ‘‘sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali’’ firmata a Parigi il 17 dicembre 1997 rappresenta il primo risultato tangibile sul piano globale di una serie di iniziative internazionali che hanno preso forza man mano che scandali ed inchieste in vari paesi hanno posto il problema della corruzione negli affari internazionali all’attenzione pressante dell’opinione pubblica. mondiale. Mentre proseguono attivamente i lavori a Strasburgo per la elaborazione di una convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione in generale, l’Unione Europea ha approvato il 26 maggio 1997 una Convenzione sulla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione Europea (1). La Convenzione dell’OCSE anche se meno ampia quanto ai reati coperti (essa incrimina solo la corruzione attiva e non anche quella passiva come è il caso per quella dell’Unione Europea) è però più significativa perché è stata firmata da tutti i paesi membri dell’OCSE ed è aperta all’adesione di qualsiasi altro paese. I lavori dell’OCSE sul tema hanno preso avvio sin dal 1989 su iniziativa degli Stati Uniti, le cui imprese erano preoccupate per essere le sole soggette a sanzioni penali per bustarelle pagate all’estero in forza del ‘‘Foreign Corrupt Practices Act’’ americano del 1978. In praticamente tutti gli altri paesi il reato di corruzione mira a proteggere solo la integrità della pubblica amministrazione locale. Mancano norme penali apposite che vietino di corrompere funzionari di altri paesi, anche se questo comportamento presenta un interesse diretto anche per paesi diversi da quello del funzionario, soprattutto quando grazie alla corruzione una impresa ottiene un mercato all’estero a scapito dei suoi concorrenti più meritevoli di paesi terzi. Non vi sono solo argomenti di tipo mercantilistico che giustificano una estensione del raggio di azione delle norme contro la corruzione in direzione internazionale. Il (*) Scritto destinato agli studi in onore di Francesco Capotorti. (1) Gazz. Uff. CE C 195 del 25 giugno 1997, adottata a norma del titolo VI art. K.3(2)(c) del Trattato sull’Unione Europea (‘‘terzo pilastro’’, cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni).
— 1350 — mondo è caratterizzato da una stretta interdipendenza delle economie, dalla cooperazione finanziaria a favore dei paesi in via di sviluppo, con un impiego di consistenti risorse pubbliche e private, e dall’emergere di valori comuni di buon governo, trasparenza dell’azione amministrativa e democrazia. In questo contesto il disinteresse da parte dei maggion paesi, che dispongono di strumenti di intervento efficaci sul lato dell’offerta, cioè nei confronti delle loro imprese che esportano ed investono all’estero, appare difficilmente difendibile. Dall’altra parte si oppone che spetta in via principale a ciascuno Stato ‘‘tenere in ordine la propria casa’’ e che la prassi e le sensibilità non sono dappertutto uguali rispetto ad un fenomeno che è strettarnente collegato all’organizzazione politica ed amministrativa di ciascun paese. Azioni unilaterali di un paese terzo, che incrimini comportamenti che si svolgono fuori dal suo territorio, anche se l’applicazione delle norme penali avviene naturalmente solo nel proprio ambito, si prestano facilmente a critiche di ingerenza, tanto più quando sono coinvolti i vertici politici di un paese straniero. Questa azione unilaterale può anche rilevarsi in pratica inefficace e quindi al limite controproducente per le imprese del paese che incrimini isolatamente la corruzione effettuata da parte loro all’estero. I limiti giuridici e di fatto (per esempio quanto alla raccolta delle prove) all’esercizio anche indirettamente extraterritoriale della giurisdizione penale nazionale sono ben noti, soprattutto quando manchi una collaborazione effettiva delle autorità degli altri paesi coinvolti. La libertà di commercio e di investimento, l’uso di gruppi societari che comprendono filiali in centri off-shore e il ricorso ad intermediari compiacenti permettono alle imprese di eludere i divieti emanati nel paese della loro sede centrale. In effetti la legislazione americana è stata da alcuni considerata non pienamente efficace per questi motivi e tale da poter essere elusa, nonostante le possibilità d’azione che hanno gli Stati Uniti come potenza economica e politica globale, ben maggiore di quelle di cui dispongono la maggior parte degli altri paesi al fine di applicare seriamente leggi penali del genere. Si trattava quindi di organizzare una reale cooperazione dei principali attori nell’economia internazionale per varare uno strumento legale efficace che contenesse impegni reciproci comparabili nella lotta al fenomeno sul piano giuridico, costruendo il consenso sulla desiderabilità di lavorare insieme in questa direzione (2). 2. A questo fine il Gruppo di lavoro ad hoc costituito all’OCSE nel 1989 ha dapprima effettuato una ricognizione comparata delle legislazioni nazionali e dei concetti fondamentali che stanno alla base del reato di corruzione e dell’esercizio della giurisdizione nazionale in tema di reato commesso in tutto o prevalentemente all’estero. L’OCSE dispone di un limitato potere di assumere decisioni vincolanti per i propri membri, che richiedono comunque l’unanimità. Per questa ragione ci si è orientati anzitutto verso uno strumento di ‘‘soft law’’, cioè di una raccomandazione che invitasse gli Stati membri ad affrontare il fenomeno con azioni dissuasive anche fuori dal campo del diritto penale, per togliere ogni incentivo alle imprese che ricorressero a queste pratiche. In questo contesto un punto di attrito è stato quello della deducibilità fiscale dei pagamenti a titolo di corruzione all’estero, che alcuni paesi ammettevano (ed ammettono) in varie forme come spese inerenti all’ottenimento del contratto. Anche se il valore pratico di questa deducibilità è discusso, appare contraddittorio riconoscere come spese legittime pagamenti che almeno sul piano morale e della correttezza degli affari sia il mondo economico che gli Stati considerano essere quantomeno impropri. Questa questione coinvolge quella più generale della contabilità aziendale e dei relativi controlli, visto che di solito questi pagamenti sono mascherati attraverso artifizi contabili o l’uso di documenti e causali false o non trasparenti. (2) Vedi in generale C. YANACA SMALL, Les paiements, illicites dans le commerce international et les actions entreprises pour les combattre, in Ann. Fr. droit international, 1994, p. 792 ss.; N. PARISI (a cura di), La cooperazione giuridica internazionale nella lotta alla corruzione, Milano, 1996.
— 1351 — Nel 1994 il Consiglio dell’OCSE a livello ministeriale adottò una prima raccomandazione in materia con la quale si invitavano gli Stati membri ad adottare ‘‘effective measures to deter, prevent and combat the bribery of foreign public officials in connection with international business transactions’’. Queste misure avrebbero dovuto riguardare le politiche e le legislazioni domestiche (diritto penale e commerciale, la fiscalità dove essa favorisse la corruzione, la disciplina degli appalti pubblici) e il rafforzamento della cooperazione internazionale. Si trattava di un primo segnale importante, completato dal rinnovo del mandato al Gruppo di lavoro, presieduto efficacemente sin dall’inizio dal Prof. Mark Pieth dell’Università di Basilea e composto da delegati, per lo più esperti, di tutti i paesi membri. Il Gruppo veniva incaricato di esaminare il seguito che gli Stati membri avrebbero dato alla raccomandazione, di studiare le aree critiche dove iniziative più vigorose potessero essere attuate e di formulare norme penali coordinate per combattere il fenomeno. Restava aperta la questione se ‘‘al fine di incriminare la corruzione dei funzionari stranieri in modo efficace e coordinato’’ si dovesse negoziare una classica convenzione internazionale di diritto penale, o se potesse bastare una raccomandazione agli Stati membri perché adottassero norme interne autonome, modellate secondo uno schema elaborato dal Gruppo per garantire una uniformità di base. Il Gruppo procedeva quindi, in modo originale, a negoziare i contenuti minimi uniformi che avrebbero dovuto contrassegnare la normativa in oggetto, indipendentemente dal fatto che essa fosse destinata a confluire in una convenzione o a servire da modello di leggi interne. Questo compito veniva affidato ad un sottogruppo di esperti, presieduto dal presente autore, che completava il suo lavoro in tre sessioni tra l’autunno del 1996 e la primavera del 1997, formulando in otto paragrafi un elenco di ‘‘Agreed Common Elements of Criminal Legislation and Relared Action’’. Il Gruppo proseguiva intanto i suoi lavori in tema di non deducibilità dei pagamenti per tangenti (così come concordato col Comitato OCSE degli Affari Fiscali), la contabilità aziendale e i suoi controlli, gli appalti pubblici. 3. Le proposte del Gruppo sono state fatte proprie dal Consiglio ministeriale dell’OCSE del 23 maggio 1997 con la Revised Recommendation on Combating Bribery in International Business Transactions (doc. C (97) 123), dove venne risolto con un compromesso la scelta tra la convenzione e la raccomandazione come strumento di diritto penale, e alla quale sono allegati gli ‘‘Agreed Common Elements’’ di cui sopra. È opportuno ricordare che la tesi del ricorso alla raccomandazione era sostenuta dagli USA, i quali, essendo già dotati di una legislaziolle in materia, premevano perché gli altri Stati membri si dotassero al più presto di norme penali in materia modellate secondo gli Agreed Common Elements. Essi temevano che la scelta della via di una convenzione avrebbe comportato ulteriori ritardi, sia per il relativo negoziato, che in attesa delle ratificazioni e della entrata in vigore. Altri paesi invece, soprattutto la Francia e la Germania, insistevano per la convenzione come unico strumento che garantiva in modo vincolante che gli Stati avrebbero assunto obblighi ben precisi ed equivalenti in materia. Altri paesi, in particolare l’Italia, si ponevano in una posizione intermedia: pur riconoscendo che normative nazionali adeguate potevano essere adottate in forza di una raccomandazione, essi sottolineavano la maggiore efficacia di una convenzione sia sul piano applicativo che nei confronti dei parlamenti nazionali e dell’opinione pubblica come segno di un concreto impegno contro la corruzione internazionale. Il compromesso raggiunto è consistito nel raccomandare agli Stati membri di adottare in ogni caso legislazioni nazionali entro la fine del 1998 e, nel frattempo, di aprire immediatarnente dei negoziati per la conclusione di una convenzione entro la fine del 1997, col proposito che essa potesse entrare in vigore entro la fine del 1998. Con la realizzazione di quest’ultimo programma naturalmente l’adozione di autonome leggi nazionali risulterebbe superflua. Gli Agreed Common Elements dovevano costituire la base sia delle eventuali leggi nazionali che della convenzione. Sulla base del lavoro già svolto dal Gruppo e dell’impegno politico assunto dagli Stati
— 1352 — membri nel Consiglio OCSE il Gruppo, trasformato in una conferenza negoziale degli Stati membri, insieme ai non membri che già partecipavano ai lavori del Gruppo, poté concordare il testo convenzionale entro novembre 1997, cui è seguita la cerimonia di firma il 17 dicembre (3). Nonostante l’esistenza degli Agreed Common Elements che delimitavano il contenuto della materia da includere nella convenzione, il negoziato fu serrato sia per la presenza di alcune residue divergenze importanti, che per le contrastanti interpretazioni che venivano date a varie disposizioni da diverse delegazioni, alla luce anche delle diverse tradizioni nazionali, per esempio in tema di giurisdizione e di responsabilità penale delle persone giuridiche. I negoziatori risolsero in parte queste difficoltà formulando delle note esplicative, poi trasformate in ‘‘Commentaries’’ alla Convenzione, adottati insieme al testo convenzionale da parte della Conferenza negoziale (4). Questi Commenti non fanno parte però del testo e non sono stati firmati. Inoltre essi non sono organici, come è il caso per esempio dei Rapporti esplicativi delle convenzioni del Consiglio d’Europa, ma si riferiscono solo ad alcuni degli articoli della convenzioni o a singole clausole. Il valore giuridico di questi Commentaries per la interpretazione della convenzione può prestarsi a discussione. A nostro avviso non si tratta di lavori preparatori, cui si può far ricorso come mezzo supplementare di interpretazione di un trattato in base all’art. 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, bensì di un elemento del ‘‘contesto’’ della sua stipulazione rilevante ai fini interpretativi in base all’art. 31. Nell’ambito del contesto l’art. 31 menziona specificamente gli accordi relativi al trattato stipulati tra tutte le sue parti in connessione con la sua conclusione. Dubito che i Commentaries possano considerarsi un vero e proprio accordo in forma semplificata, se non altro perché la volontà dei contraenti era di non inserire nella convenzione quanto formulato nei Commentaries. Il contesto non si limita però a un tale accordo relativo ad un trattato. I Commentaries costituiscono quindi una guida per precisare in caso di dubbio la portata della convenzione anche se non si tratta d’altra parte di una interpretazione autentica e vincolante. 4. La Convenzione si caratterizza innanzitutto, in modo innovativo, dal fatto che gli Stati di provenienza delle imprese, soprattutto multinazionali, si sono con essa impegnati a prevenire e reprimere il pagamento di tangenti da parte delle loro imprese, incriminando la corruzione attiva diretta verso paesi sia firmatari che terzi, indipendentemente dall’applicazione delle leggi penali di questi ultimi alla corruzione passiva dei loro funzionari. Gli Stati (3) Nel corso di quest’ultima fase del negoziato il Consiglio dell’Unione europea ha adottato per la prima volta nella storia due posizioni comuni ai sensi dell’art. K.3 del Trattato di Maastricht che le delegazioni degli Stati membri hanno espresso nel negoziato ai sensi dell’art. K.5. La prima posizione più generica è del 6 ottobre 1997 (Gazz. Uff. CE L 279 del 13 ottobre 1997); la seconda, del 13 novembre 1997 (Gazz. Uff. CE L 320 del 21 novembre 1997), ha precisato le posizioni ‘‘che gli Stati membri intendono sostenere’’ nel quadro dei negoziati all’OCSE ed al Consiglio d’Europa su vari punti aperti e rilevanti, soprattutto per assicurare la compatibilità dei testi in fase di elaborazione con i principi accolti nell’ambito dell’Unione. Nel corso del negoziato all’OCSE si è posto il problema di come le delegazioni degli Stati membri possano mantenere la necessaria flessibilità negoziale al fine di pervenire alla conclusione di un trattato quando siano vincolati da una posizione comune, adottata all’unanimità e per di più ufficialmente nota dalla Gazzetta Ufficiale. In tema v. N. PARISI, D. RINOLDI, Giustizia e affari interni nell’Unione Europea, Torino 1996. (4) L’OCSE ha pubblicato in opuscolo, sia in inglese che in francese, il testo ufficiale della Convenzione (docDaffe/lme/Br(9/)16) seguito dai Commenti (doc. 17). Per un primo esame v. P. PIERROS e C. HUDSON, The Hard Graft of Tackling Corruption in International Business Transactions, in J. World Trade 1998, 2, p. 77 ss.; R. ZEDALIS, How Does the New OECD Convention on Bribey Stack Up Against the FCPA?, ibid., 1998, 3, p. 167 ss. Per una approfondita disamina anche della prospettiva della esecuzione in Italia delle convenzioni UE e OCSE, v. SALAZAR, Recenti svipulli nella lotta alla corruzione (... e conseguenti obblighi di recepimento da parte italiana), in Cass. penale, 1998, p. 1529 ss.
— 1353 — contraenti non intendono con ciò accettare la corruzione di questi e l’eventuale tolleranza di simili comportamenti da parte dei paesi di appartenenza. Essi hanno preso atto che perseguire anche il funzionario avrebbe sollevato problemi di giurisdizione irrisolvibili e li avrebbe esposti all’accusa di interferenze nella sovranità di altri Stati (5). Alla base di questa impostazione sta anche un intento economico commerciale, quello cioè di evitare che la concorrenza internazionale sia falsata dal ricorso a strumenti considerati inammissibili. L’obiettivo è quello, per usare una espressione popolare nella terminologia inglese, di garantire il ‘‘levelling of the playing field’’, cioè regole del gioco comuni per le imprese di diversa provenienza nei mercati internazionali in questa materia. L’uniformazione di regole in materia penale, per di più per iniziativa di un gruppo di paesi leader, piuttosto che a seguito dell’azione di una organizzazione a carattere universale non è comune. Essa indica una nuova direzione nella disciplina multilaterale del commercio internazionale in genere, anche se vi sono precedenti, per esempio in tema di lotta al riciclaggio. La Convenzione OCSE, aperta comunque all’adesione di altri Stati come indica l’art. 13.2 ed è stato propugnato dalla Raccomandazione del 1997, potrà costituire un esempio per ulteriori iniziative. Prima di entrare nel merito del testo va segnalato un’altra caratteristica generale della Convenzione. Essa segue da vicino il modello delle convenzioni penali multilaterali, quali quelle del Consiglio d’Europa o contro il terrorismo nel definire il reato, le basi giurisdizionali, regole accessorie e nell’organizzare la mutua cooperazione penale tra gli Stati aderenti in tema di assistenza e estradizione. La Convenzione OCSE si discosta però dal modello tradizionale per vari aspetti. In primo luogo le sue norme non sono self-executing, almeno le principali. In particolare la norma incriminatrice della corruzione di pubblico ufficiale straniero, di cui all’art. 1, richiederà in genere una riformulazione per essere introdotta nei codici penali degli Stati aderenti. Anche le altre norme in tema di misura e tipo delle pene (sanzioni), giurisdizione e prescrizione non sono formulate in modo completo ma indicano i contenuti fondamentali cui le norme di esecuzione nazionali dovranno attenersi. Questa impostazione non è casuale. I negoziatori hanno dovuto prendere atto che i sistemi penali dei vari Stati si ispirano a criteri diversi su temi molto rilevanti quali la soggezione delle persone giuridiche al diritto penale, I’estensione della giurisdizione anche in base al criterio della nazionalità del reo o invece solo su base territoriale, l’obbligatorietà o meno dell’azione penale. Visto lo scopo della Convenzione, menzionato anche nel preambolo, di combattere efficacemente il fenomeno della corruzione mediante misure che siano equivalenti, gli Stati parte possono adempiere ai loro obblighi tramite misure diverse, a seconda della loro struttura normativa, purché idonee a raggiungere il risultato voluto (6). In secondo luogo la Convenzione contiene anche norme non penali, in particolare in materia di contabilità aziendale, con funzione preventiva e di trasparenza. Infine la Convenzione prevede una sorveglianza multilaterale ad opera del Gruppo OCSE sulla corruzione, per promuovere la piena attuazione della Convenzione mediante periodici esami delle misure prese e della loro concreta applicazione da parte degli Stati. Questo meccanismo sostituisce la previsione di una procedura di soluzione delle controversie, spesso presente nelle convenzioni penali. Esso appare più duttile ed efficace per assicurare il rispetto dei reciproci impegni ed in genere il raggiungimento degli scopi della Convenzione. Essa mira, lo si ribadisce, non solo all’introduzione di norme penali in materia negli Stati firmatari ma più precisa(5) La lotta alla corruzione nei paesi beneficiari di assistenza internazionale multilaterale viene ora perseguita con altri strumenti come la condizionalità degli aiuti e l’assistenza alla riorganizzazione delle loro amministrazioni alla luce del principio di ‘‘good governance’’, cfr. WORLD BANK, Helping Countries to Combat Corruption, 1997. Per il contesto europeo v. la Comunicazione della Commissione Una politica dell’Unione contro la corruzione, COM (97) 192 del 21 maggio 1997. (6) In quest’ottica la Convenzione non consente riserve anche se questa esclusione è sancita solo nel preambolo.
— 1354 — mente a ‘‘deter, prevent and combat’’ la corruzione internazionale, un fenomeno corposo e preoccupante, con misure efficaci. 5. Venendo al contenuto del testo, la Convenzione comporta innanzitutto all’art. 1 l’obbligo di considerare reato la corruzione del pubblico ufficiale straniero così come avviene per quella rivolta ai funzionari nazionali. Essa è completata da norme di contorno, preventive, repressive e di monitoraggio in sede OCSE che implicano l’adozione di una serie di norme di notevole portata, che di fatto necessiteranno un aggiornamento anche degli strumenti relativi alla corruzione domestica. In conformità all’impostazione non self-executing della Convenzione il Commentario precisa che la disposizione può essere attuata in vario modo, sia in base ad una normativa che punisca la corruzione in genere, sia estendo l’applicazione del reato di corruzione di funzionario nazionale, sia mediante una norrna ad hoc, come è il caso della legislazione U.S.A. L’art. 1.1 del testo definisce la corruzione del pubblico ufficiale straniero come l’offerta, la promessa o il pagamento intenzionale, direttamente o tramite un intermediario, di un vantaggio indebito, pecuniario o altro, ad un tale funzionario, per questi o per un terzo, al fine che egli agisca o ometta di agire nello svolgimento di funzioni ufficiali, in vista dell’ottenimento o della conservazione di un affare o di una altro vantaggio indebito nelle transazioni commerciali internazionali (7). In base all’art. 1.2 deve essere perseguita anche la complicità (il concorso) e l’incitamento alla corruzione, ivi compresa testualmente la ‘‘autorizzazione’’. Per esempio una autorizzazione da parte della società madre ad una consociata estera a pagare una tangente comporterà l’estensione della giurisdizione e della legge penale a carico della prima e/o dei suoi dirigenti responsabili. Il pubblico ufficiale straniero è definito all’art. 1.3 come qualunque persona che ricopra un ufficio legislativo, amministrativo o giudiziario in un paese straniero, o che vi eserciti comunque una funzione pubblica, anche per una impresa o un ente pubblico, oltre ai funzionari di organizzazioni internazionali. Si tratta quindi di una definizione ampia che dà rilievo sia alla qualifica soggettiva che all’esercizio obiettivo di funzioni pubbliche, secondo l’impostazione seguita da molti diritti penali nazionali, incluso quello italiano. Questa definizione mira a tener conto, in particolare, che l’ambito delle funzioni di rilievo economico esercitate direttamente dallo Stato è diverso da paese e paese e che, attualmente, con l’avanzare delle privatizzazioni, vengono sempre più affidate al settore privato funzioni che hanno obiettivamente natura pubblica (criterio della ‘‘equivalenza funzionale’’ tra le norme incriminatrici nazionali adottate in sede d’attuazione). In effetti l’estensione del reato a comportamenti di dirigenti di imprese giuridicamente private ma controllate dallo Stato ha dato luogo a discussioni e non è stato possibile inserire nel testo ulteriori precisazioni. Il Commentario precisa che si intende per ‘‘pubblica’’ una impresa sulla quale uno Stato può esercitare una influenza dominante, il che può avvenire attraverso vari strumenti. Viene precisato peraltro che un responsabile di una impresa del genere non esercita un funzione pubblica quando l’impresa opera su basi commerciali normali come un’impresa privata senza sostegno dello Stato. Quanto all’autore del reato il testo convenzionale affronta agli artt. 2 e 3 il nodo della responsabilità delle imprese che paghino o nel cui interesse vengano pagate tangenti, alla luce del fatto che solo in alcuni ordinamenti è riconosciuta la responsabilità penale delle società. È anzitutto prescritto che la nuova figura di reato sia punita da ogni Stato con pene se(7) Gli U.S.A. non sono riusciti ad ottenere l’adesione degli altri paesi all’estensione della norma incriminatrice ed in genere della Convenzione anche al finanziamento illecito dei partiti politici, una fattispecie disciplinata in modo divergente da paese a paese e non sempre considerata penalmente rilevante. Naturalmente se il pagamento ad un partito o a suoi esponenti è il veicolo di una operazione di corruzione in senso proprio questa cadrà nell’ambito della Convenzione. La questione resta comunque all’ordine del giorno del Gruppo di lavoro.
— 1355 — vere, anche detentive, in linea con quanto previsto per la corruzione dei propri pubblici ufficiali, con applicabilità delle misure e delle pene accessorie del sequestro e della confisca (8). Gli Stati che non conoscono la responsabilità penale delle società, come è il caso per l’Italia, dovranno inoltre introdurre a loro carico sanzioni non penali, anzitutto pecuniarie, efficaci, proporzionate e dissuasive in relazione alla corruzione in oggetto. Non è invece prescritto di introdurre la responsabilità penale delle persone giuridiche ai fini della Convenzione nei paesi in cui questa non è conosciuta, una modifica che sarebbe di ben maggiore portata. Certo è che il regime complessivo nei paesi in cui le società sono soggette al diritto penale rispetto a quelle in cui esse non lo sono rischia di divergere anche notevolmente. organizzare un sistema di repressione ed applicazione di sanzioni non penali a carico di società, dove questo sistema non esiste in via generale, può non essere agevole. Vi è poi la questione della giurisdizione in questa materia amministrativa non penale e, finalmente, quella del tipo e severità delle sanzioni. Sotto quest’ultimo profilo le sanzioni non penali, quali la preclusione dalla partecipazione a gare d’appalto o la decadenza dalle cariche sociali per gli amministratori, responsabili anche solo per omessa vigilanza, potrebbero risultare più efficaci di sanzioni, anche penali, ma a carico solo dei dirigenti responsabili (9). 6. Altro punto delicato è quello dei criteri di giurisdizione, che è stato lungamente dibattuto nel negoziato al fine di raggiungere un equilibrio di obblighi tra gli Stati firmatari e un’applicazione bilanciata ed efficace delle norme repressive. In effetti mentre numerosi paesi, dal sistema giuridico di tipo europeo continentale, come la Francia, la Germania e l’ltalia, riconoscono la nazionalità del reo come criterio di giurisdizione e perseguono quindi a certe condizioni anche il reato del cittadino commesso all’estero, la giurisdizione penale è esercitata su base solo territoriale negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e negli altri paesi di ‘‘common law’’. L’art. 4 della Convenzione impegna gli Stati a perseguire il reato applicando i propri tradizionali criteri giurisdizionali. L’equilibrio nella repressione tra paesi a sistema diverso dovrebbe essere raggiunto tramite le sanzioni non penali a carico delle imprese, dove si prescinde da vincoli di stretta territorialità, quando le tangenti siano loro imputabili anche se promesse o pagate all’estero tramite consociate non affidate alla direzione di loro cittadini. La Convenzione impone all’art. 6 che i termini di prescrizione siano adeguati alle necessità delle indagini e dei processi per questi reati, che richiedono, anche a causa delle rogatorie, tempi più lunghi che per i consimili reati interni. Il testo non si limita dunque qui, diversamente che per altre disposizioni, a richiedere l’estensione delle norme nazionali generali in tema al nuovo reato ma richiede l’introduzione di norme comunque efficaci. All’art. 7 la Convenzione rende applicabili le norme antiriciclaggio alla corruzione all’estero quando la corruzione interna sia considerata reato presupposto per l’applicazione di questa normativa, come è già il caso in molti paesi, tra cui l’Italia, e sta diventando norma in molti altri Stati (10). È questo un punto fondamentale per l’applicazione efficace della Con(8) Il testo non definisce le ‘‘transazioni commerciali internazionali’’. L’art. 1.1 indica peraltro che la corruzione deve avvenire ‘‘al fine di ottenere o conservare un business/marché o un altro vantaggio indebito nel commercio internazionale’’. Non sono coperte quindi solo operazioni transfrontaliere di esportazione, appalto o investimento ma anche contratti e affari collegati, anche se successivi. (9) La Convenzione dell’Unione europea affronta la questione in modo diverso all’art. 6 ‘‘Responsabilità penale dei dirigenti delle imprese’’. Si sancisce qui la responsabilità penale di dirigenti o altri responsabili in caso di atti di corruzione ‘‘commessi da persona soggetta alla loro autorità e per conto dell’impresa’’. La fattispecie da coprire secondo la Convenzione OCSE è comunque la stessa. (10) V. P. BERNASCONI, La confisca e la punibilità del riciclaggio del provento della corruzione di pubblici funzionari, in Dir. penale dell’economia, 1996, p. 539 ss.; M. PIETH, The Prevention of money Landering: A Comparative Analysis, in Eur. J. of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 1998, p. 159 ss.
— 1356 — venzione. È ben noto infatti che i pagamenti di corruzione a funzionari stranieri di alto rango per importi consistenti vengono effettuati ‘‘estero su estero’’ mediante i canali bancari e l’uso di intermediari finanziari in paesi terzi, di solito i centri finanziari off-shore dotati per lo più di rigidi segreti bancari e poco propensi alla collaborazione internazionale. Anche se il paese dove avviene la movimentazione della tangente riconosce il reato di corruzione al proprio interno, come è regola, se la somma riguarda un fatto di corruzione verificatosi in un altro paese allo stato della legislazione (così per esempio in Svizzera) il pagamento è lecito e le norme antiriciclaggio non sono applicabili. Con l’adesione alla Convenzione di paesi OCSE come il Lussemburgo e la Svizzera, per non parlare di altri, la normativa antiriciclaggio locale risulterà applicabile se già estesa al reato di corruzione in genere o quando lo dovesse diventare. Ne risulterà quindi un notevole rafforzamento dell’apparato repressivo anche in sede di cooperazione internazionale. Il Commentario alla Convenzione chiarisce che ci si riferisce all’importo della tangente sia prima che sia stata pagata (cioè alla provvista accantonata già per lo scopo illecito) che dopo che essa sia stato trasferito nella disponibilità del beneficiario corrotto. È questa una precisazione significativa. Poiché la Convenzione incrimina solo la corruzione attiva era importante chiarire che la movimentazione dei fondi da parte del beneficiario dopo averli ottenuti non sottrae questa operazione alla normativa antiriciclaggio, perché si tratta sempre del frutto di un reato, quello appunto di corruzione attiva di funzionario straniero. 7. Di fondamentale importanza nel contesto del trattato e di grande rilievo pratico e sicuramente innovativo è il disposto dell’art. 8 in tema di contabilità delle società, che fuoriesce dall’ambito penalistico ed ha una funzione soprattutto preventiva. Esso prescrive che al fine combattere efficacemente la corruzione internazionale ‘‘ciascuna Parte adotterà tutte le misure necessarie nel quadro delle sue leggi e regolamenti in tema di tenuta di contabilità, redazione di bilanci, informazioni finanziarie, norme contabili e verifica dei conti, per vietare alle società soggette a tali obblighi le contabilità extra bilancio, operazioni non registrate o non sufficientemente identificate, la registrazione di spese inesistenti e di voci passive non correttamente identificate al fine di corrompere pubblici ufficiali stranieri’’. Questi obblighi devono essere tutelati con sanzioni civili, amministrative o penali efficaci in caso di omissione o falsificazione nei libri, documenti, conti e situazioni finanziarie di queste società. Si tratta di obblighi già presenti nelle legislazionu nazionali in materia e nei principi contabili applicabili, quanto meno in relazione a società per azioni, di grandi dimensioni o quotate in borsa. La norrna però dovrebbe portare ad un riesame della efficacia dei controlli (interni e in sede audit) in materia. Ciò anche tenuto conto, come ricorda il Commentario, della potenziali passività che possono derivare alle imprese ed ai controllori e revisori in caso di carenza di controlli anche preventivi. L’attuazione corretta di questi obblighi coinvolge non solo gli obblighi civilistici in tema di contabilità e di bilancio e i criteri delle relative verifiche (materia che nell’Unione Europea è in gran parte di competenza comunitaria), ma riguarda anche le sanzioni penali in caso di omissioni gravi, quale il reato di falso in bilancio e analoghi. 8. Alla mutua assistenza, di importanza pratica fondamentale dato l’uso normale di canali finanziari internazionali per il pagamento di tangenti, è dedicato l’art. 9 sulla cooperazione giudiziaria internazionale. È qui sancito l’obbligo dei paesi firmatari di concedersi reciprocamente tale cooperazione nel modo più ampio, pronto ed efficace, anche in sede non penale, tenendo le autorità richiedenti informate dell’andamento delle rogatorie. Questo impegno vincolante sarà certo prezioso (se rispettato) per la magistratura dei paesi richiedenti assistenza in questa materia, spesso frustrata dalla mancata collaborazione dall’estero. L’apparato penalistico è completato dalle usuali norme in tema di estradizione, che includono l’obbligo di promuovere direttamente l’azione penale da parte dei paesi che non concedono l’estradizione dei loro cittadini (art. 10.3).
— 1357 — Vi sono peraltro nella convenzione delle norme innovative su varie questioni che dal punto di vista dell’applicazione pratica non sono certo marginali. Così l’art. 5 (Enforcement/Mise en oeuvre) mira a limitare il rischio di diseguale attuazione della Convenzione nei vari Stati contraenti per il fatto che in molti l’esercizio dell’azione penale non è obbligatorio. Si sancisce che la discrezionalità dell’azione non può dipendere da considerazioni di interesse economico nazionale, di relazioni politiche internazionali o dalla qualifica dei soggetti coinvolti. All’art. 9.1 si sancisce che le rogatorie vanno espletate con sollecitudine e che l’autorità richiedente deve essere informata della necessità di fornire ulteriori informazioni o documentazione e dell’andamento della procedura. Questa disposizione appare opportuna stante l’esperienza di rogatorie in materia di corruzione che spesso vengono ‘‘insabbiate’’ in alcuni paesi con la conseguenza che l’azione penale non può essere proseguita utilmente nel paese procedente quando la documentazione, in particolare bancaria, si trova tutta all’estero. Nello stesso spirito l’art. 9.3 esclude che la assistenza in materia penale possa essere rifiutata solo a tutela del segreto bancario nello Stato richiesto. Da notare ancora che l’art. 10.4 dispone che la doppia incriminazione, spesso prescritta nel paese richiesto per dar corso all’estradizione, si intende sussistere quando la corruzione del funzionario straniero per cui essa è formulata corrisponde alla corruzione domestica nel paese richiesto. Sempre al fine di facilitare la mutua cooperazione, che in reati internazionali è decisiva per esercitare effettivamente e tempestivamente l’azione penale, l’art. 11 prevede la possibilità di comunicazioni dirette (e non per via diplomatica) tra le competenti autorità designate dagli Stati contraenti . 9. Tra le norme finali della Convenzione di particolare importanza è quella sull’entrata in vigore, che riflette le preoccupazioni espresse nel negoziato e il comprolllesso di cui alla Raccomandazione del Consiglio OCSE del 23 maggio 1997 ricordato più sopra. Essa è che è il risultato di un serrato negoziato finale su insistenza dei paesi dell’Unione Europea (in conformità alla seconda posizione comune) e del Giappone che fosse assicurata l’entrata in vigore con la partecipazione sin dall’inizio dei principali paesi esportatori. Il meccanismo è in sintesi il seguente. La Convenzione può entrare in vigore solo con la partecipazione di cinque paesi tra i primi dieci esportatori dell’OCSE, in base ad una statistica allegata. Ciò comporta in concreto che debbano aderire in ogni caso gli U.S.A. ed inoltre quattro almeno dei seguenti paesi: Germania, Giappone, Francia, Regno Unito, Italia, Belgio, Corea, Canada, Paesi Bassi (11). In mancanza, a partire dall’inizio del 1999, la Convenzione potrà entrare in vigore su base bilaterale tra paesi che abbiano depositato il proprio strumento di ratifica dichiarandosi disposti ad accettarla su questa base. La Convenzione è anche aperta all’adesione di paesi non OCSE, adesione che è stata sollecitata dal Consiglio dell’organizzazione nella Raccomandazione del 23 maggio 1997 e di nuovo dagli Stati Firmatari in sede di conclusione. A tal fine basta ed è richiesto che essi siano ammessi al Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione, che è aperto anche a Stati non membri dell’OCSE, al fine che essi aderiscano anche agli impegni più generali in tema di lotta alla corruzione di cui alla Raccomandazione stessa e partecipino al meccanismo di contlollo che è gestito dal Gruppo (12). (11) In base alle ratifiche depositate a fine dicembre 1998, tra cui quelle del Giappone, Germania, Stati Uniti e Regno Unito, è scattato il periodo di 60 gioni per l’entrata in vigore della Convenzione. (12) I paesi non membri che partecipano al Gruppo, hanno partecipato al negoziato ed hanno firmato la Convenzione sono l’Argentina, il Brasile, la Bulgaria il Cile e la Slovacchia.
— 1358 — Un giudizio finale sulla portata effettiva della Convenzione, in una materia in cui l’efficacia di qualunque iniziativa repressiva e sanzionatoria ha da sempre suscitato perplessità, dato che la criminalità economica si muove su scala globale mentre gli Stati agiscono in ordine sparso, non può prescindere dalla creazione di un meccanismo di monitoraggio costante, affidato dall’art. 12 al Gruppo di lavoro già operante all’OCSE sulla corruzione nel commercio internazionale. Spetterà a questo organo valutare periodicamente il rispetto degli obbliglli assunti dagli Stati contraenti e l’efficacia concreta della sua applicazione per contrastare davvero il fenomeno, secondo l’impegno solennemente preso da tutti i paesi industrializzati all’OCSE di rendere il proprio ambito ‘‘off-limits’’ per queste pratiche. 10. Per quanto riguarda l’Italia, il Consiglio dei Ministri ha approvato a fine novembre 1998 il disegno di legge per l’autorizzazione alla ratifica e l’esecuzione della Convenzione OCSE e insieme della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (PIF) del 26 luglio 1995, del primo protocollo per l’interpretazione da parte della Corte di Giustizia (26 novembre 1996), della Convenzione relativa alla lotta alla corruzione nell’ambito UE del 26 maggio 1997. Per quanto attiene all’esecuzione della Convenzione OCSE, il nuovo art. 322-bis c.p., secondo comma, estende i reati di corruzione attiva e relativa istigazione, di cui agli art. 321 e 322 c.p., primo e secondo comma, ai casi in cui il denaro o altra utilità siano dati offerti o promessi a soggetti che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico esercizio nell’ambito di Stati esteri o di organizzazioni internazionali, al fine specifico di procurare a se o altri un ingiusto vantaggio nell’ambito di operazioni economiche internazionali. Il nuovo art. 322-ter c.p. prevede la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato o per equivalente. Quanto alla responsabilità delle persone giuridiche (art. 2 e 3.2. della Convenzione) la legge d’attuazione richiama le norme generali esistenti (responsabilità pecuniaria solidale) in attesa di eventuali successivi più completi adeguamenti. Per la cooperazione giudiziaria (art. 11 della Convenzione) è indicata come autorità competente il Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione generale degli affari penali. GIORGIO SACERDOTI (*) Ordinario di Diritto internazionale Università L. Bocconi, Milano (*) L’autore è stato ed è delegato dell’Italia, come esperto del Ministero degli Esteri, nel Gruppo di lavoro dell’OCSE. Ha partecipato al negoziato della Convenzione in particolare quale presidente del ‘‘gruppo di esperti sulla incriminazione della corruzione internazionale’’ nel 1996-97. Le opinioni di cui al testo sono espresse a titolo personale.
CONVENTION ON COMBATING BRIBERY OF FOREIGN PUBLIC OFFICIALS IN INTERNATIONAL BUSINESS TRANSACTIONS Paris, 17 December 1997 Preamble The Parties, Considering that bribery is a widespread phenomenon in international business transactions, including trade and investment, which raises serious moral and political concerns, un-
— 1359 — dermines good governance and economic development, and distorts international competitive conditions; Considering that all countries share a responsibility to combat bribery in interaational business transactions; Having regard to the Revised Recommendation on Combating Bribery in International Business Transactions, adopted by the Council of the Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) on 23 May 1997, C(97)123/FINAL, which, inter alia, called for effective measures to deter, prevent and combat the bribery of foreign public officials in connection with international business transactions, in particular the prompt criminalisation of such bribery in an effective and co-ordinated manner and in conformity with the agreed common elements set out in that Recommendation and with the jurisdictional and other basic legal principles of each country; Welcoming other recent developments which further advance international understanding and co-operation in combating bribery of public officials, including actions of the United Nations, the World Bank, the International Monetary Fund, the World Trade Organisation, the Organisation of American States, the Council of Europe and the European Union; Welcoming the efforts of companies, business organisations and trade unions as well as other non-governmental organisations to combat bribery; Recognising the role of governments in the prevention of solicitation of bribes from individuals and enterprises in international business transactions; Recognising that achieving progress in this field requires not only efforts on a national level but also multirateral co-operation, monitoring and follow-up; Recognising that achieving equivalence among the measures to be taken by the Parties is an essential object and purpose of the Convention, which requires that the Convention be ratified without derogations affecting this equivalence; Have agreed as follows: Article 1 - The Offence of Bribery of Foreign Public Officials 1. Each Party shall take such measures as may be necessary to establish that it is a criminal offence under its law for any person intentionally to offer, promise or give any undue pecuniary or other advantage, whether directly or through intermediaries, to a foreign public official, for that official or for a third party, in order that the official act or refrain from acting in relation to the performance of official duties, in order to obtain or retain business or other improper advantage in the conduct of international business. 2. Each Party shall take any measures necessary to establish that complicity in, including incitement, aiding and abetting, or authorisation of an act of bribery of a foreign public official shall be a criminal offence. Attempt and conspiracy to bribe a foreign public official shall be criminal offences to the same extent as attempt and conspiracy to bribe a public official of that Party. 3. The offences set out in paragraphs 1 and 2 above are hereinafter referred to as « bribery of a foreign public official ». 4. For the purpose of this Convention: a) « foreign public official » means any person holding a legislative, administrative or judicial office of a foreign country, whether appointed or elected; any person exercising a public function for a foreign country, including for a public agency or public enterprise; and any official or agent of a public international organisation; b) « foreign country » includes all levels and subdivisions of government, from national to local; c) « act or refrain from acting in relation to the performance of official duties » includes any use of the public official’s position, whether or not within the official’s authorised competence.
— 1360 — Article 2 - Responsibility of Legal Persons Each Party shall take such measures as may be necessary, in accordance with its legal principles, to establish the liability of legal persons for the bribery of a foreign public official. Article 3 - Sanctions 1. The bribery of a foreign public official shall be punishable by effective, proportionate and dissuasive criminal penalties. The range of penalties shall be comparable to that applicable to the bribery of the Party’s own public officials and shall, in the case of natural persons, include deprivation of liberty sufficient to enable effective mutual legal assistance and extradition. 2. In the event that, under the legal system of a Party, criminal responsibility is not applicable to legal persons, that Party shall ensure that legal persons shall be subject to effective, proportionate and dissuasive non-criminal sanctions, including monetary sanctions, for bribery of foreign public officials. 3. Each Party shall take such measures as may be necessary to provide that the bribe and the proceeds of the bribery of a foreign public official, or property the value of which corresponds to that of such proceeds, are subject to seizure and confiscation or that monetary sanctions of comparable effect are applicable. 4. Each Party shall consider the imposition of additional civil or administrative sanctions upon a person subject to sanctions for the bribery of a foreign public official. Article 4 - Jurisdiction 1. Each Party shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the bribery of a foreign public official when the offence is committed in whole or in part in its territory. 2. Each Party which has jurisdiction to prosecute its nationals for offences committed abroad shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction to do so in respect of the bribery of a foreign public official, according to the same principles. 3. When more than one Party has jurisdiction over an alleged offence described in this Convention, the Parties involved shall, at the request of one of them, consult with a view to determining the most appropriate jurisdiction for prosecution. 4. Each Party shall review whether its current basis for jurisdiction is effective in the fight against the bribery of foreign public officials and, if it is not, shall take remedial steps. Article 5 - Enforcement Investigation and prosecution of the bribery of a foreign public official shall be subject to the applicable rules and principles of each Party. They shall not be influenced by considerations of national economic interest, the potential effect upon relations with another State or the identity of the natural or legal persons involved. Article 6 - Statute of Limitations Any statute of limitations applicable to the offence of bribery of a foreign public official shall allow an adequate period of time for the investigation and prosecution of this offence. Article 7 - Money Laundering Each Party which has made bribery of its own public official a predicate offence for the purpose of the application of its money laundering legislation shall do so on the same terms for the bribery of a foreign public official, without regard to the place where the bribery occurred. Article 8 - Accounting 1. In order to combat bribery of foreign public officials effectively, each Party shall take such measures as may be necessary, within the framework of its laws and regulations
— 1361 — regarding the maintenance of books and records, financial statement disclosures, and accounting and auditing standards, to prohibit the establishment of off-the-books accounts, the making of off-the-books or inadequately identified transactions, the recording of non-existent expenditures, the entry of liabilities with incorrect identification of their object, as well as the use of false documents, by companies subject to those laws and regulations, for the purpose of bribing foreign public officials or of hiding such bribery. 2. Each Party shall provide effective, proportionate and dissuasive civil, administrative or criminal penalties for such omissions and falsifications in respect of the books, records, accounts and financial statements of such companies. Article 9 - Mutual Legal Assistance 1. Each Party shall, to the fullest extent possible under its laws and relevant treaties and arrangements, provide prompt and effective legal assistance to another Party for the purpose of criminal investigations and proceedings brought by a Party concerning offences within the scope of this Convention and for non-criminal proceedings within the scope of this Convention brough’by a Party against a legal person. The requested Party shall inform the requesting Party, without delay, of any additional information or documents needed to support the request for assistance and, where requested, of the status and outcome of the request for assistance. 2. Where a Party makes mutual legal assistance conditional upon the existence of dual criminality, dual criminality shall be deemed to exist if the offence for which the assistance is sought is within the scope of this Convention. 3. A Party shall not decline to render mutual legal assistance for criminal matters within the scope of this Convention on the ground of bank secrecy. Article 10 - Extradition 1. Bribery of a foreign public official shall be deemed to be included as an extraditable offence under the laws of the Parties and the extradition treaties between them. 2. If a Party which makes extradition conditional on the existence of an extradition treaty receives a request for extradition from another Party with which it has no extradition treaty, it may consider this Convention to be the legal basis for extradition in respect of the offence of bribery of a foreign public official. 3. Each Party shall take any measures necessary to assure either that it can extradite its nationals or that it can prosecute its nationals for the offence of bribery of a foteign public official. A Party which declines a request to extradite a person for bribery of a foreign public official solely on the ground that the person is its national shall submit the case to its competent authorities for the purpose of prosecution. 4. Extradition for bribery of a foreign public official is subject to the conditions set out in the domestic law and applicable treaties and arrangements of each Party. Where a Party makes extradition conditional upon the existence of dual criminality, that condition shall be deemed to be fulfilled if the offence for which extradition is sought is within the scope of Article 1 of this Convention. Article 11 - Responsible Authorities For the purposes of Article 4, paragraph 3, on consultation, Article 9, on mutual legal assistance and Article 10, on extradition, each Party shall notify to the Secretary-General of the OECD an authority or authorities responsible for making and receiving requests, which shall serve as channel of communication for these matters for that Party, without prejudice to other arrangements between Parties. Article 12 - Monitoring and Follow-up The Parties shall co-operate in carrying out a programme of systematic follow-up to monitor and promote the full implementation of this Convention. Unless otherwise decided
— 1362 — by consensus of the Parties, this shall be done in the framework of the OECD Working Group on Bribery in International Business Transactions and according to its terms of reference, or within the framework and terms of reference of any successor to its functions, and Parties shall bear the costs of the programme in accordance with the rules applicable to that body. Article 13 - Signature and Accession 1. Until its entry into force, this Convention shall be open for signature by OECD members and by non-members which have been invited to become full participants in its Working Group on Bribery in International Business Transactions. 2. Subsequent to its entry into force, this Convention shall be open to accession by any non-signatory which is a member of the OECD or has become a full participant in the Working Group on Bribery in International Business Transactions or any successor to its functions. For each such non-signatory, the Convention shall enter into force on the sixtieth day following the date of deposit of its instrument of accession. Article 14 - Ratification and Depositary 1. This Convention is subject to acceptance, approval or ratification by the Signatories, in accordance with their respective laws. 2. Instruments of acceptance, approval, ratification or accession shall be deposited with the Secretary-General of the OECD, who shall serve as Depositary of this Convention. Article 15 - Entry into Force 1. This Convention shall enter into force on the sixtieth day following the date upon which five of the ten countries which have the ten largest export shares (see annex), and which represent by themselves at least sixty per cent of the combined total exports of those ten countries, have deposited their instruments of acceptance, approval, or ratification. For each signatory depositing its instrument after such entry into force, the Convention shall enter into force on the sixtieth day after deposit of its instrument. 2. If, after 31 December 1998, the Convention has not entered into force under paragraph 1 above, any signatory which has deposited its instrument of acceptance, approval or ratification may declare in writing to the Depositary its readiness to accept entry into force of this Convention under this paragraph 2. The Convention shall enter into force for such a signatory on the sixtieth day following the date upon which such declarations have been deposited by at least two signatories. For each signatory depositing its declaration after such entry into force, the Convention shall enter into force on the sixtieth day following the date of deposit. Article 16 - Amendment Any Party may propose the amendment of this Convention. A proposed amendment shall be submitted to the Depositary which shall communicate it to the other Parties at least sixty days before convening a meeting of the Parties to consider the proposed amendment. An amendment adopted by consensus of the Parties, or by such other means as the Parties may determine by consensus, shall enter into force sixty days after the deposit of an instrument of ratification, acceptance or approval by all of the Parties, or in such other circumstances as may be specified by the Parties at the time of adoption of the amendment. Article 17 - Withdrawal A Party may withdraw from this Convention by submitting written notification to the Depositary. Such withdrawal shall be effective one year after the date of the receipt of the notification. After withdrawal, co-operation shall continue between the Parties and the Party which has withdrawn on all requests for assistance or extradition made before the effective date of withdrawal which remain pending.
— 1363 — COMMENTARIES ON THE CONVENTION ON COMBATING BRIBERY OF FOREIGN PUBLIC OFFICIALS IN INTERNATIONAL BUSINESS TRANSACTIONS Adopted by the Negotiating Conference on 21 November 1997 General: This Convention deals with what, in the law of some countries, is called « active corruption » or « active bribery », meaning the offence committed by the person who promises or gives the bribe, as contrasted with « passive bribery » the offence committed by the official who receives the bribe. The Convention does not utilise the term « active bribery » simply to avoid it being misread by the nontechnical reader as implying that the briber has taken the initiative and the recipient is a passive victim. In fact, in a number of situations, the recipient will have induced or pressured the briber and will have been, in that sense, the more active. This Convention seeks to assure a functional equivalence among the measures taken by the Parties to sanction bribery of foreign public officials, without requiring uniformity or changes in fundamental principles of a Party’s legal system. Article 1. - The Offence of Bribery of Foreign Public Officials: Re paragraph 1: 3. Article 1 establishes a standard to be met by Parties, but does not require them to utilise its precise terms in defining the offence under their domestic laws. A Party may use vanous approaches to fulfil its obligations. provided that conviction of a person for the offence does not require proof of elements beyond those which would be required to be proved if the offence were defined as in this paragraph. For example, a statute prohibiting the bribery of agents generally which does not specifically address bribery of a foreign public official, and a statute specifically limited to this case, could both comply with this Article. Similarly, a statute which defined the offence in terms of payments « to induce a breach of the official’s duty » could meet the standard provided that it was understood that every public official had a duty to exercise judgement or discretion impartially and this was an « autonomous » definition not requiring proof of the law of the particular official’s country. 4. It is an offence within the meaning of paragraph 1 to bribe to obtain or retain business or other improper advantage whether or not the company concerned was the best qualified bidder or was otherwise a company which could properly have been awarded the business. 5. « Other improper advantage » refers to something to which the company concerned was not clearly entitled, for example, an operating permit for a factory which fails to meet the statutory requirements. 6. The conduct described in paragraph 1 is an offence whether the offer or promise is made or the pecuniary or other advantage is given on that person’s own behalf or on behalf of any other natural person or leeal entity. 7. It is also an offence irrespective of, inter alia, the value of the advantage, its results, perceptions of local custom, the tolerance of such payments by local authorities, or the alleged necessity of the payment in order to obtain or retain business or other improper advantage. 8. It is not an offence, however, if the advantage was permitted or required by the written law or regulation of the foreign public official’s country, including case law. 9. Small « facilitation » payments do not constitute payments made « to obtain or retain business or other improper advantage » within the meaning of paragraph 1 and, accordingly, are also not an offence. Such payments, which, in some countries, are made to induce public officials to perform their functions, such as issuing licenses or permits, are generally illegal in the foreign country concerned. Other countries can and should address this corrosive phenomenon by such means as support for programmes of good governance. However,
— 1364 — criminalisation by other countries does not seem a practical or effective complementary action. 10. Under the legal system of some countries, an advantage promised or given to any person, in anticipation of his or her becoming a foreign public official, falls within the scope of the offences described in Article 1, paragraph 1 or 2. Under the legal system of many countries, it is considered technically distinct from the offences covered by the present Convention. However, there is a commonly shared concern and intent to address this phenomenon through further work. Re paragraph 2: 11. The offences set out in paragraph 2 are understood in terms of their normal content in national legal systems. Accordingly, if authorisation, incitement, or one of the other listed acts, which does not lead to further action, is not itself punishable under a Party’s legal system, then the Party would not be required to make it punishable with respect to bribery of a foreign public official. Re paragraph 4: 12. « Public function » includes any activity in the public interest, delegated by a foreign country, such as the performance of a task delegated by it in connection with public procurement. 13. A « public agency » is an entity constituted under public law to carry out specific tasks in the public interest. 14. A « public enterprise » is any enterprise, regardless of its legal form, over which a government, or governments, may, directly or indirectly, exercise a dominant influence. This is deemed to be the case, inter alia, when the government or governments hold the majority of the enterprise’s subscribed capital, control the majonty of votes attaching to shares issued by the enterprise or can appoint a majonty of the members of the enterpnse’s administrative or managenal body or supervisory board. 15. An official of a public enterprise shall be deemed to perform a public function unless the enterprise operates on a normal commercial basis in the relevant market, i.e., on a basis which is substantially equivalent to that of a private enterprise, without preferential subsidies or other privileges. 16. In special circumstances, public authority may in fact be held by persons (e.g., political party officials in single party states) not formally designated as public officials. Such persons, through their de facto performance of a public function, may, under the legal principles of some countries, be considered to be foreign public officials. 17. « Public international organisation » includes any international organisation formed by states, governments, or other public international organisations, whatever the form of organisation and scope of competence, including, for example, a regional economic integration organisation such as the European Communities. 18. « Foreign country » is not limited to states, but includes any organised foreign area or entity, such as an autonomous territory or a separate customs temtory. 19. One case of bribery which has been contemplated under the definition in paragraph 4.c is where an executive of a company gives a bribe to a senior official of a government, in order that this official use his office — though acting outside his competence — to make another official award a contract to that company. Article 2. - Responsibility of Legal Persons: 20. In the event that, under the legal system of a Party, criminal responsibility is not applicable to legal persons, that Party shall not be required to establish such criminal responsibility. Article 3. - Sanctions: Re paragraph 3: 21. The « proceeds » of bribery are the profits or other benefits derived by the briber from the transaction or other improper advantage obtained or retained through bribery.
— 1365 — 22. The term « confiscation » includes forfeiture where applicable and means the permanent deprivation of property by order of a court or other competent authority. This paragraph is without prejudice to rights of victims. 23. Paragraph 3 does not preclude setting appropriate limits to monetary sanctions. Re paragraph 4: 24. Among the civil or administrative sanctions, other than non-criminal fines, which might be imposed upon legal persons for an act of bribery of a foreign public official are: exclusion from entitlement to public benefits or aid; temporary or permanent disqualification from participation in public procurement or from the practice of other commercial activities; placing under judicial supervision; and a judicial winding-up order. Article 4. - Jurisdiction: Re paragraph 1: 25. The territorial basis for jurisdiction should be interpreted broadly so that an extensive physical connection to the bribery act is not required. Re paragraph 2: 26. Nationality jurisdiction is to be established according to the general principles and conditions in the legal system of each Party. These principles deal with such matters as dual criminality. However, the requirement of dual criminality should be deemed to be met if the act is unlawful where it occurred, even if under a different criminal statute. For countries which apply nationality jurisdiction only to certain types of offences, the reference to « principles » includes the principles upon which such selection is based. Article 5. - Enforcement: 27. Article 5 recognises the fundamental nature of national regimes of prosecutorial discretion. It recognises as well that, in order to protect the independence of prosecution, such discretion is to be exercised on the basis of professional motives and is not to be subject to improper influence by concerns of a political nature. Article 5 is complemented by paragraph 6 of the Annex to the 1997 OECD Revised Recommendation on Combating Bribery in International Business Transactions, C(97)123/FINAL (hereinafter, « 1997 OECD Recommendation »), which recommends, inter alia, that complaints of bribery of foreign public officials should be seriously investigated by competent authorities and that adequate resources should be provided by national governments to permit effective prosecution of such bribery. Parties will have accepted this Recommendation, including its monitoring and follow-up arrangements. Articie 7. - Money Laundering: 28. In Article 7, « bribery of its own public official » is intended broadly, so that bribery of a foreign public official is to be made a predicate offence for money laundering legislation on the same terms, when a Party has made either active or passive bribery of its own public official such an offence. When a Party has made only passive bribery of its own public officials a predicate offence for money laundering purposes, this article requires that the laundering of the bribe payment be subject to money laundering legislation. Article 8. - Accounting: 29. Article 8 is related to section V of the 1997 OECD Recommendation, which all Parties will have accepted and which is subject to follow-up in the OECD Working Group on Bribery in International Business Transactions. This paragraph contains a series of recommendations concerning accounting requirements, independent external audit and internal company controls the implementation of which will be important to the overall effectiveness of the fight against bribery in international business. However, one immediate consequence of the implementation of this Convention by the Parties will be that companies which are re-
— 1366 — quired to issue financial statements disclosing their material contingent liabilities will need to take into account the full potential liabilities under this Convention, in particular its Articles 3 and 8, as well as other losses which might flow from conviction of the company or its agents for bribery. This also has implications for the execution of professional responsibilities of auditors regarding indications of bribery of foreign public officials. In addition, the accounting offences referred to in Article 8 will generally occur in the company’s home country, when the bribery offence itself may have been committed in another country, and this can fill gaps in the effective reach of the Convention. Article 9. - Mutual Legal Assistance: 30. Parties will have also accepted, through paragraph 8 of the Agreed Common Elements annexed to the 1997 OECD Recommendation, to explore and undertake means to improve the efficiency of mutual legal assistance. Re paragraph 1: 31. Within the framework of paragraph 1 of Article 9, Parties should, upon request, facilitate or encourage the presence or availability of persons, including persons in custody, who consent to assist in investigations or participate in proceedings. Parties should take measures to be able, in appropriate cases, to transfer temporarily such a person in custody to a Party requesting it and to credit time in custody in the requesting Party to the transferred person’s sentence in the requested Party. The Parties wishing to use this mechanism should also take measures to be able, as a requesting Party, to keep a transferred person in custody and return this person without necessity of extradition proceedings. Re paragraph 2: 32. Paragraph 2 addresses the issue of identity of norms in the concept of dual criminality. Parties with statutes as diverse as a statute prohibiting the bribery of agents generally and a statute directed specifically at bribery of foreign public officials should be able to cooperate fully regarding cases whose facts fall within the scope of the offences described in this Convention. Article 10. - Extradition Re paragraph 2: 33. A Party may consider this Convention to be a legal basis for extradition if, for one or more categories of cases falling within this Convention, it requires an extradition treaty. For example, a country may consider it a basis for extradition of its nationals if it requires an extradition treaty for that category but does not require one for extradition of non-nationals. Article 12. - Monitoring and Foollow-up: 34. The current terms of reference of the OECD Working Group on Bribery which are relevant to monitoring and follow-up are set out in Section VIII of the 1997 OECD Recommendation. They provide for: i) receipt of notifications and other information submitted to it by the [participating] countries; ii) regular reviews of steps taken by [participating] countries to implement the Recommendation and to make proposals, as appropriate, to assist [participating] countries in its implementation; these reviews wili be based on the following complementary systems: — a system of self evaluation, where [participating] countries’ responses on the basis of a questionnaire will provide a basis for assessing the implementation of the Recommendation; — a system of mutual evaluation, where each [participating] country will be examined in turn by the Working Group on Bribery, on the basis of a report which will provide an objective assessment of the progress of the [participating] country in implementing the Recommendation.
— 1367 — iii) examination of specific issues relating to bribery in international business transactions; (...) v) provision of regular information to the public on its work and activities and on implementation of the Recommendation. 35. The costs of monitoring and follow-up will, for OECD Members, be handled through the normal OECD budget process. For non-members of the OECD, the current rules create an equivalent system of cost sharing, which is dcscribed in the Resolution of the Council Concerning Fees for Regular Observer Countries and Non-Member Full Participants in OECD Subsidiary Bodies, C(96)223/FINAL. 36. The follow-up of any aspect of the Convention which is not also follow-up of the 1997 OECD Recommendation or any other instrument accepted by all the participants in the OECD Working Group on Bribery will be carried out by the Parties to the Convention and, as appropriate, the participants party to another, corresponding instrument. Article 13. - Signature and Accession: 37. The Convention will be open to non-members which become full participants in the OECD Working Group on Bribery in International Business Transactions. Full participation by non-members in this Working Group is encouraged and arranged under simple procedures. Accordingly, the requirement of full participation in the Working Group, which follows from the relationship of the Convention to other aspects of the fight against bribery in international business, should not be seen as an obstacle by countries wishing to participate in that fight. The Council of the OECD has appealed to non-members to adhere to the 1997 OECD Recommendation and to participate in any institutional follow-up or implementation mechanism, i.e., in the Working Group. The current procedures regarding full participation by non-members in the Working Group may be found in the Resolution of the Council concerning the Participation of Non-Member Economies in the Work of Subsidiary Bodies of the Organisation, C(96)64/REV I/FINAL. In addition to accepting the Revised Recommendation of the Council on Combating Bribery, a full participant also accepts the Recommendation on the Tax Deductibility of Bribes of Foreign Public Officials, adopted on 11 April 1996, C(96)27/FINAL.
CONVENZIONE SULLA LOTTA ALLA CORRUZIONE DI PUBBLICI UFFICIALI STRANIERI NELLE OPERAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI Parigi, 17 dicembre 1998 Preambolo Le Parti, Considerando che la corruzione è un fenomeno diffuso nelle operazioni economiche internazionali, ivi comprese le operazioni commerciali e gli investimenti, che desta serie preoccupazioni morali e politiche, mina la corretta gestione degli affari pubblici e lo sviluppo economico, e altera le condizioni internazionali in materia di concorrenza; Considerando che la responsabilità della lotta contro la corruzione nelle operazioni economiche internazionali incombe su tutti i Paesi; Vista la Raccomandazione in versione rivista sulla lotta alla corruzione nelle operazioni economiche internazionali, adottata dal Consiglio dell’OCSE il 23 maggio 1997, C(97)123/FINAL, che, fra l’altro, ha invocato misure efficaci per scoraggiare, prevenire e combattere la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri in relazione alle operazioni economiche internazionali, ed in particolare la pronta incriminazione di tale corruzione in maniera
— 1368 — efficace e coordinata in conformità con gli elementi comuni concordati, di cui alla citata Raccomandazione ed ai principi giurisdizionali e agli altri principi giuridici fondamentali di ciascun Paese; Accogliendo con favore i recenti sviluppi che promuovono ulteriormente l’intesa e la cooperazione internazionale nella lotta alla corruzione di pubblici ufficiali, in particolare le azioni delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dell’Organizzazione degli Stati americani, del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea; Accogliendo con favore gli sforzi delle imprese, delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali e di altre organizzazioni non governative nella lotta alla corruzione; Riconoscendo il ruolo dei governi nella prevenzione della richiesta di « tangenti » da parte di individui e imprese nelle operazioni economiche internazionali; Riconoscendo che ogni progresso in questo campo richiede non soltanto sforzi a livello nazionale, ma anche attività multilaterali di cooperazione, di sorveglianza e di seguiti; Riconoscendo che assicurare l’equivalenza fra le misure che devono essere adottate dalle Parti costituisce oggetto e scopo essenziale della Convenzione, il che richiede che essa sia ratificata senza deroghe che possano intaccare questa equivalenza: Hanno convenuto quanto segue: Articolo 1 - Reato di corruzione di pubblici ufficiali stranieri 1. Ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie affinché la propria legge consideri come illecito penale il fatto di chi intenzionalmente offra, promessa o dia qualsiasi indebito beneficio pecuniario o di altra natura, direttamente o per mezzo di intermediari, ad un pubblico ufficiale straniero, per sé o per un terzo, affinché l’ufficiale compia o si astenga dal compiere atti in relazione a doveri d’ufficio, per conseguire o conservare un affare o un altro vantaggio indebito nell’ambito del commercio internazionale. 2. Ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie per stabilire che rendersi complice di un atto di corruzione di un pubblico ufficiale straniero, l’istigazione, il favoreggiamento o l’autorizzazione a compiere tale atto, costituiscono illecito penale. Il tentativo e l’associazione ai fini della corruzione di un pubblico ufficiale straniero sono considerati illeciti penali alla stessa stregua del tentativo e dell’associazione ai fini della corruzione di un pubblico ufficiale della predetta Parte. 3. I reati di cui ai precedenti paragrafi 1 e 2 sono qui di seguito denominati « corruzione di pubblico ufficiale straniero ». 4. Ai fini di questa Convenzione: a) l’espressione « pubblico ufficiale straniero » indica qualsiasi persona, nominata od eletta, che esercita una funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria in un Paese straniero; qualsiasi persona che esercita una funzione pubblica per un Paese straniero, per un ente pubblico o un’impresa pubblica; qualsiasi funzionario od agente di un’organizzazione internazionale pubblica. b) « Paese straniero » include tutti i livelli e le suddivisioni amministrative, da quelle nazionali a quelle locali; c) « compiere o astenersi dal compiere atti in relazione a doveri d’ufficio » include qualsiasi utilizzazione della posizione di pubblico ufficiale, nell’ambito o meno delle competenze dello stesso. Articolo 2 - Responsabilità delle persone giuridiche 1. Ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per la corruzione di pubblico ufficiale straniero. Articolo 3 - Sanzioni 1. La corruzione di pubblico ufficiale straniero deve essere passibile di sanzioni penali, efficaci, proporzionate e dissuasive. La gamma delle sanzioni applicabili deve essere compa-
— 1369 — rabile con quella prevista per la corruzione di pubblici ufficiali della Parte e deve, nel caso di persone fisiche, comprendere la privazione della libertà sufficiente a consentire una mutua assistenza giudiziaria e l’estradizione. 2. Nel caso in cui, secondo il sistema giuridico di una Parte, la responsabilità penale non è applicabile alle persone giuridiche, la Parte in questione deve assicurare che le persone giuridiche siano passibili di sanzioni non penali efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie, in caso di corruzione di pubblico ufficiale straniero. 3. Ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie affinché la ‘‘tangente’’ ed i proventi derivanti dalla corruzione di pubblico ufficiale straniero, o beni il cui valore corrisponde a quello di tali proventi, siano soggetti a sequestro, confisca o affinché sanzioni pecuniarie di simile effetto siano applicabili. 4. Ciascuna Parte deve prendere in considerazione l’imposizione di ulteriori sanzioni civili od amministrative nei confronti di una persona soggetta a sanzione per corruzione di pubblico ufficiale straniero. Articolo 4 - Giurisdizione 1. Ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie per stabilire la propria giurisdizione in materia di corruzione di pubblico ufficiale straniero quando il reato è commesso in tutto o in parte sul proprio territorio. 2. Ciascuna Parte che persegue i propri cittadini per reati commessi all’estero, deve adottare le misure necessarie per stabilire la propria giurisdizione relativamente alla corruzione di pubblico ufficiale straniero, secondo gli stessi principi. 3. Quando più Parti hanno giurisdizione su un presunto reato di cui alla presente Convenzione, tali Parti, su richiesta di una di esse, si consultano per stabilire quale di esse sia meglio in grado di esercitare l’azione penale. 4. Ciascuna Parte deve esaminare se i vigenti presupposti giurisdizionali sono efficaci per la lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri, ed adottare in caso contrario misure correttive adeguate. Articolo 5 - Applicazione 1. Le indagini e l’azione penale per corruzione di pubblico ufficiale straniero sono soggette alle norme ed ai principi applicabili di ciascuna Parte. Esse non devono essere influenzate da considerazioni di interesse economico nazionale, dai possibili effetti sulle relazioni con un altro Stato o dall’identità delle persone fisiche o giuridiche interessate. Articolo 6 - Prescrizione 1. La disciplina della prescrizione del reato di corruzione di pubblico ufficiale straniero deve prevedere un termine di decorso adeguato per le indagini ed il perseguimento del reato. Articolo 7 - Riciclaggio di capitali 1. Ciascuna Parte che abbia considerato la corruzione di pubblici ufficiali nazionali quale reato presupposto, deve adottare analoga previsione, ai fini dell’applicazione della propria legislazione sul riciclaggio di capitali, in caso di corruzione di pubblico ufficiale straniero, ovunque la corruzione sia avvenuta. Articolo 8 - Disposizioni in materia di contabilità 1. Per combattere la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri in modo efficace, ciascuna Parte deve adottare le misure necessarie, nel quadro, delle proprie leggi e regolamenti concernenti la tenuta di libri e scritture, la diffusione di rendiconti finanziari, le norme sulla contabilità e la verifica dei conti, per vietare la istituzione di contabilità fuori bilancio, l’effettuazione di operazioni non registrate o non adeguatamente identificate, l’iscrizione di spese inesistenti, l’iscrizione di passività il cui oggetto sia indicato in modo scorretto e l’uso
— 1370 — di documenti falsi, da parte di imprese soggette a dette leggi e regolamenti, allo scopo di corrompere pubblici ufficiali stranieri o di occultare tale corruzione. 2. Ciascuna Parte deve prevedere sanzioni civili, amministrative o penali efficaci, proporzionate e dissuasive per tali omissioni e falsificazione di libri e scritture contabili e delle comunicazioni finanziarie di tali imprese. Articolo 9 - Mutua assistenza giudiziaria 1. Ciascuna Parte, nella massima misura consentita dalle proprie leggi e dai trattati e accordi internazionali di cui è parte, deve prestare alle altre Parti pronta ed efficace assistenza giudiziaria ai fini di indagini e procedimenti penali avviati da una Parte in merito a reati di cui alla presente Convenzione nonché ai fini di procedimenti non penali di cui alla presente Convenzione avviati da una Parte contro una persona giuridica. La Parte richiesta informa senza ritardo la Parte richiedente su ulteriori elementi o documenti necessari a sostegno della domanda di assistenza, e, su domanda, del seguito dato a tale richiesta. 2. Se una Parte subordina la mutua assistenza giudiziaria al requisito della doppia incriminazione, quest’ultima è considerata sussistere se il reato per il quale viene richiesta assistenza rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione. 3. Una Parte non potrà rifiutare di prestare mutua assistenza giudiziaria in materia penale nell’ambito della presente Convenzione invocando il segreto bancario. Articolo 10 - Estradizione 1. La corruzione di pubblico ufficiale straniero deve essere considerata inclusa tra i reati che danno luogo a estradizione secondo le leggi nazionali delle Parti e le Convenzioni di estradizione in vigore tra di esse. 2. Se una Parte che subordina l’estradizione all’esistenza di una Convenzione di estradizione riceve una richiesta di estradizione da un’altra Parte con la quale non ha una Convenzione di estradizione, essa può considerare la presente Convenzione come base giuridica per l’estradizione relativamente al reato di corruzione di pubblico ufficiale straniero. 3. Ciascuna parte deve adottare le misure necessarie per poter estradare i propri cittadini o poterli perseguire per il reato di corruzione di pubblico ufficiale straniero. Una Parte che rifiuta la richiesta di estradizione di una persona per corruzione di pubblico ufficiale straniero solo per il fatto che la persona è un suo cittadino deve sottoporre il caso alle proprie autorità competenti ai fini dell’azione penale. 4. L’estradizione per la corruzione di pubblico ufficiale straniero e soggetta alle condizioni stabilite dal diritto interno e dalle Convenzioni e dagli Accordi applicabili di ciascuna Parte. Se una Parte subordina l’estradizione all’esistenza di una doppia incriminazione, tale condizione sarà considerata adempiuta se il reato per il quale l’estradizione è richiesta rientra nel campo di applicazione dell’articolo 1 della presente Convenzione. Articolo 11 - Autorità responsabili 1. Ai fini della consultazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, della mutua assistenza giudiziaria di cui all’articolo 9 e dell’estradizione di cui all’articolo 10, ciascuna Parte deve indicare al Segretario Generale dell’OCSE un’autorità o le autorità responsabili della trasmissione e della ricezione delle richieste, che fungeranno da canale di comunicazione per la Parte in materia, fatti salvi altri Accordi tra le Parti. Articolo 12 - Sorveglianza eseguiti 1. Le Parti coopereranno nell’attuazione di un programma di seguiti sistematici per sorvegliare e promuovere la piena attuazione della presente Convenzione. A meno di diversa decisione adottata all’unanimità dalle Parti, il detto programma sarà assolto dal « Gruppo di Lavoro dell’OCSE sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali », conformemente al mandato ricevuto, o da altro organo, conformemente al relativo mandato, che
— 1371 — possa al primo subentrare nelle funzioni, e le Parti sosterranno i costi del programma secondo le norme applicabili a tale organo. Articolo 13 - Firma e Adesione 1. Fino alla sua entrata in vigore, la presente Convenzione è aperta alla firma dei Paesi membri dell’OCSE e dei Paesi non membri che siano diventati, o siano stati invitati a diventare, partecipanti a pieno titolo del « Gruppo di Lavoro sulla corruzione nelle operazioni commerciali internazionali ». 2. Successivamente alla sua entrata in vigore, la presente Convenzione sarà aperta all’adesione da parte di qualsiasi Paese non firmatario divenuto membro dcll’OCSE o partecipante a pieno titolo al « Gruppo di Lavoro sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali » o a qualsiasi organo che a questo subentri nelle funzioni. Per ogni Paese non firmatario, la Convenzione entrerà in vigore il 60o giorno successivo alla data del deposito del relativo strumento di adesione. Articolo 14 - Ratifoca e Deposito 1. La presente Convenzione è soggetta all’accettazione, all’approvazione o alla ratifica dei firmatari, in conformità alle rispettive leggi nazionali. 2. Gli strumenti di accettazione, approvazione, ratifica o adesione saranno depositati presso il Segretario Generale dell’OCSE, che fungerà da Depositario della presente Convenzione. Articolo 15 - Entrata in vigore 1. La presente Convenzione entrerà in vigore il 60o giorno successivo alla data in cui 5 dei Paesi che detengono le 10 maggiori quote di esportazione secondo l’allegato documento DAFFE/IME/BR(97)18, e che rappresentano, tra di loro almeno il 60% del totale delle esportazioni dei detti 10 Paesi, avranno depositato i loro strumenti di accettazione, approvazione o ratifica. Per ciascuno Stato finanziario che depositerà il proprio strumento successivamente alla suddetta entrata in vigore, la Convenzione entrerà in vigore il 60o giorno successivo alla data di tale deposito. 1. Se alla data del 31 dicembre 1998 la Convenzione non sarà entrata in vigore secondo quanto stabilito nel paragrafo 1, qualunque Stato firmatario che avrà depositato il proprio strumento di accettazione, approvazione o ratifica, potrà dichiarare per iscritto al Depositario di essere pronto ad accettare l’entrata in vigore della Convenzione secondo quanto disposto dal presente paragrafo. La Convenzione entrerà in vigore per il predetto firmatario il 60o giorno successivo alla data in cui sarà stata depositata una tale dichiarazione da parte di almeno due Paesi firmatari. Per ciascuno Stato firmatario che depositerà una tale dichiarazione successivamente alla suddetta entrata in vigore, la Convenzione entrerà in vigore il 60o giorno successivo alla data di siffatto deposito. Articolo 16 - Emendamenti 1. Ciascuna Parte può proporre emendamenti alla presente Convenzione. La proposta di emendamento sarà sottoposta al Depositario che la comunicherà alle altri Parti almeno 60 giorni prima di convocare un incontro delle Parti per esaminarla. L’emendamento adottato con il consenso delle Parti, o con qualsiasi altra modalità decisa con il consenso delle Parti, entrerà in vigore 60 giorni dopo il deposito di uno strumento di ratifica, accettazione od approvazione di tutte le Parti, o alle altre condizioni eventualmente stabilite. Articolo 17 - Recesso 1. Una Parte può recedere dalla presente Convenzione con una notifica scritta al Depositario. Il recesso ha effetto un anno dopo la data di ricezione della notifica. Dopo il recesso, la cooperazione continua tra le Parti e la Parte che è receduta relativamente alle richieste di assistenza ed estradizione non ancora definite presentate prima della data in cui il recesso diviene efficace.
— 1372 — COMMENTARIO ALLA CONVENZIONE SULLA LOTTA CONTRO LA CORRUZIONE DI PUBBLICI UFFICIALI STRANIERI NELLE OPERAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI Adottato dalla Conferenza Negoziale il 21 novembre 1997 Osservazioni generali: 1. La presente Convenzione ha come oggetto ciò che, nelle legislazioni di alcuni paesi viene chiamata « corruzione attiva », cioé il reato commesso dalla persona che promette o paga la tangente, mentre la « corruzione passiva » è il reato commesso dal funzionario che riceve la tangente. La Convenzione non utilizza l’espressione « corruzione attiva » unicamente per evitare una intepretazione sbagliata da parte del lettore non tecnico, dalla quale si potrebbe dedurre che il corruttore ha preso l’iniziativa e che il beneficiario quindi è una vittima passiva. In realtà, in numerose situazioni il beneficiario avrà indotto o fatto pressioni sul corruttore e sarò stato, in questo senso, il più attivo dei due. 2. La presente Convenzione ha come scopo di assicurare una equivalenza funzionale fra le misure adottate dalle Parti per punire la corruzione di pubblici ufficiali stranieri, senza richiedere uniformità o modifiche dei principi fondamentali del sistema giuridico di una Parte. Articolo 1. - Il reato di corruzione di pubblici ufficiali stranieri: Sul paragrafo 1: 3. L’articola 1 stabilisce una norma che le Parti devono rispettare, ma non le obbliga a riprendere la sua specifica formulazione per definire il reato nelle rispettive legislazioni interne. Una Parte può adempiere i propri obblighi procedendo in modi diversi qualora la condanna di una persona per corruzione non richieda di fornire altri elementi di prova oltre a quelli che sarebbero, richiesti se il reato fosse definito come nel paragrafo in oggetto. Per esempio, una legge generale in materia di corruzione di funzionari, che non si riferisca in modo specifico alla corruzione di un pubblico ufficiale straniero, e una disposizione di legge limitata alla corruzione di un pubblico ufficiale straniero sarebbero ambedue conformi al presente articolo. Parimenti, una legge che definisce il reato in termini di pagamenti effettuati « al fine di indurre alla violazione di un obbligo del pubblico ufficiale potrebbe essere conforme alla norma, a condizione che fosse chiaro che ogni pubblico ufficiale » ha il dovere di esercitare il proprio giudizio o la propria discrezionalità in modo imparziale e che si tratta dunque di una decisione « autonoma » che non richiede il riferimento al diritto del paese specifico del pubblico ufficiale. 4. Ai sensi del paragrafo 1, è reato corrompere per ottenere o conservare un affare o altro vantaggio indebito, anche se l’impresa ha presentato la migliore offerta o se avesse potuto comunque ottenere l’appalto in modo legale. 5. L’espressione « altro vantaggio indebito » si trasferisce ad un vantaggio a cui la società interessata non aveva chiaramente diritto, per esempio, un permesso per una fabbrica di esercitare una attività senza che vengano soddisfatti i requisiti di legge. 6. L’atto descritto nel paragrafo 1 è considerato reato, sia che l’offerta o la promessa sia fatta o che il denaro o altri benefici siano concessi per conto di tale persona o per conto di qualsiasi altra persona fisica o giuridica. 7. L’atto costituisce ugualmente reato indipendentemente, inter alia, dal valore del vantaggio o dal risultato ottenuto, dall’opinione acquisita circa le consuetudini locali, dalla tolleranza di tali pagamenti da parte delle autorità locali, o dalla pretesa necessità del pagamento al fine di ottenere o conservare un affare o altro vantaggio indebito. 8. L’atto non costituisce reato qualora il vantaggio sia permesso o richiesto da disposizioni scritte di legge o di regolamento, nonché dalla giurisprudenza del paese del pubblico ufficiale straniero. 9. Ai sensi del paragrafo 1, i piccoli pagamenti « di facilitazione » non costituiscono
— 1373 — pagamenti effettuati « per ottenere o conservare un affare o altri vantaggi indebiti » e, di conseguenza, non costituiscono, infrazione ai sensi di tale disposizione. Tali pagamenti che, in alcuni stati, sono fatti al fine di indurre i pubblici ufficiali ad adempiere alle proprie funzioni, come rilasciare licenze o permessi, sono in genere illeciti nello stato straniero interessato. Gli altri paesi possono e dovrebbero affrontare questo corrosivo fenomeno tramite appropriate misure quali il sostegno a programmi di corretta amministrazione pubblica. Tuttavia, l’incriminazione da parte di altri paesi non sembra essere una misura complementare pratica e efficace. 10. Secondo il sistema giuridico di alcuni stati un beneficio dato o promesso ad una persona, in previsione del fatto che verrà nominato quale pubblico ufficiale di un paese straniero, ricade nell’ambito dei reati di cui all’Articolo 1, paragrafo 1 o 2. Le legislazioni di molti paesi distinguono tecnicamente questo caso dai reati previsti dalla presente Convenzione. Tuttavia esiste una preoccupazione e un proposito comune di affrontare tale fenomeno nel corso di successivi lavori. Sul paragrafo 2: 11. I reati previsti al paragrafo 2 sono intesi secondo la loro normale definizione data dal diritto interno. Di conseguenza, se, nel diritto interno di una Parte, l’autorizzazione, l’induzione, o uno qualsiasi degli altri atti elencati non è punibile se non produce effetti, tale Parte non è tenuta a incriminarlo a titolo di corruzione di un pubblico ufficiale straniero. Sul paragrafo 4: 12. L’espressione « funzione pubblica » comprende qualsiasi attività esercitata nel pubblico interesse, delegata da un paese straniero, quale l’esenzione di compiti su delega di tale paese collegati alla stipulazione di appalti pubblici. 13. L’espressione « ente pubblico » indica un organismo costituito secondo il diritto pubblico per compiere determinate attività di pubblico interesse. 14. L’espressione « impresa pubblica » indica una impresa, qualunque sia la sua forma giuridica sulla quale uno o più stati possono esercitare, direttamente o indirettamente, una influenza dominante. Ciò avviene, per esempio, quando uno o più stati possiedono la maggioranza del capitale sottoscritto di una impresa, quando detengono la maggioranza dei voti in base alle azioni emesse dall’impresa o quando possono nominare la maggioranza dei membri dell’organo amministrativo, direzionale o di sorveglianza dell’impresa. 15. Si presume che un responsabile di una impresa pubblica eserciti una funzione pubblica, a meno che l’impresa operi in seno al mercato su una normale base commerciale, per esempio, su una base che è sostanzialmente equivalente a quella di una impresa privata, senza sussidi preferenziali o altri privilegi. 16. In particolari circostanze, l’autorità pubblica può essere nei fatti esercitata da persone (per esempio, funzionari di partiti politici in paesi a partito unico) che non sono dal punto di vista formale dei pubblici ufficiali. Esercitando de facto una funzione pubblica, esse possono essere considerate, secondo i principi giuridici di alcuni paesi, come pubblici ufficiali stranieri. 17. L’espressione « organizzazione internazionale pubblica » indica qualsiasi organizzazione internazionale formata da stati, governi o altre organizzazioni internazionali pubbliche, qualunque ne sia la forma e l’ambito di competenza, ivi compresa, per esempio, una organizzazione di integrazione economica regionale quale le comunità europee. 18. L’espressione « paese straniero » non è limitata agli stati, ma include qualsiasi zona o entità organizzata, quale un territorio autonomo o un territorio doganale separato. 19. Secondo la definizione di cui ai paragrafo 4 c), un caso di corruzione contemplato è quello in cui un dirigente di una impresa corrompe un alto funzionario di un governo, perché egli usi la sua carica — sebbene ciò non rientri nell’ambito della sua competenza — affinché un altro funzionario pubblico attribuisca un contratto a tale impresa. Articolo 2. - Responsabilità delle persone giuridiche 20. Se, nel sistema giuridico di una Parte, la responsabilità penale non è applicabile alle persone giuridiche, essa non sarà tenuta a istituirla.
— 1374 — Articolo 3. - Sanzioni: Sul paragrafo 3: 21. I « proventi » della corruzione sono i profitti o altri vantaggi ottenuti dal corruttore a seguito della transazione o altri vantaggi indebiti ottenuti o conservati tramite l’atto di corruzione. 22. Il termine « confisca » comprende, dove applicabile, la perdita di diritti e significa una privazione permanente di beni su ordine di un tribunale o di altra autorità competente. Questo paragrafo non pregiudica i diritti delle parti lese. 23 Il paragrafo 3 non preclude la possibilità di stabilire limiti appropriati alle sanzioni pecuniarie. Sul paragrafo 4: 24. Le sanzioni civili e amministrative, diverse dall’ammenda non di natura penale, che possano essere imposte alle persone giuridiche per un atto di corruzione di un pubblico ufficiale straniero sono fra l’altro: l’esclusione dal diritto di godere di benefici o sussidi pubblici; il divieto permanente o temporaneo di partecipare ad appalti pubblici o di praticare una attività commerciale; la messa sotto controllo giudiziario; la liquidazione giudiziaria. Articolo 4. - Giurisdizione: Sul paragrafo 1: 25. La giurisdizione territoriale dovrebbe essere interpretata in senso largo, in modo tale che non è richiesto un collegamento materiale con l’atto di corruzione. Sul paragrafo 2: 26. La giurisdizione fondata sulla nazionalità deve essere esercitata in base ai principi generali e alle condizioni applicabili nelle legislazioni di ciascuna Parte. Tali principi riguardano per esempio la doppia incriminazione. Tuttavia, il requisito della doppia incriminazione deve ritenersi soddisfatta se l’atto è illecito nel luogo in cui è commesso, anche se su quel territorio la sua qualifica penale è diversa. Per quei paesi che applicano la giurisdizione basata sulla nazionalità solo ad alcuni tipi di reati, il riferimento ai « principi » include i principi sui quali si basa la scelta di tali reati. Articolo 5. - Applicazione: 27. L’articolo 5 riconosce il carattere fondamentale delle legislazioni nazionali per quanto riguarda la discrezionalità dell’azione penale. Riconosce ugualmente che, al fine di proteggere l’indipendenza dell’azione penale, tale discrezionalità deve essere valutata sulla base di criteri professionali e non deve essere sottoposta ad una influenza illecita motivata da preoccupazioni di natura politica. L’articolo 5 è completato dal paragrafo 6 dell’Allegato della versione rivista della Raccomandazione dell’OCSE del 1997 sulla lotta alla corruzione nelle operazioni economiche internazionali, C(97)123/FINALE (qui di seguito chiamata « Raccomandazione OCSE del 1997 »), che raccomanda, fra l’altro, che le autorità competenti indaghino seriamente sulle denunce per corruzioni di pubblici ufficiali stranieri e che le autorità nazionali mettano a disposizione risorse adeguate al fine di permettere di lottare efficacemente contro questo tipo di corruzione. Le Parti avranno accettato questa Raccomandazione, incluse le modalità di sorveglianza e seguiti. Articolo 7. - Riciclaggio di capitali: 28. Nell’articolo 7, l’espressione « la corruzione dei propri pubblici ufficiali » va intesa in senso ampio, in modo che la corruzione di un pubblico ufficiale straniero deve costituire un reato presupposto ai fini della legislazione sul riciclaggio di capitali alle stesse condizioni, qualora una Parte abbia considerato reato presupposto la corruzione attiva o passiva del proprio pubblico ufficiale. Se una Parte considera solo la corruzione passiva del proprio pubblico ufficiale quale reato presupposto ai fini dell’applicazione della propria legislazione re-
— 1375 — lativa al riciclaggio di capitali questo articolo richiede che il riciclaggio del pagamento della tangente sia soggetto alle disposizioni di legge in materia di riciclaggio di capitali. Articolo 8. - Disposizioni in materia di contabilità: 29. L’articolo è collegato al paragrafo V della Raccomandazione OCSE del 1997, che tutte le Parti avranno approvato e che è oggetto di verifica in seno al Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali. Questo paragrafo contiene una serie di raccomandazioni relative agli obblighi in materia di contabilità alle revisioni esterne indipendenti e ai controlli interni delle società, la cui attuazione sarà importante al fine dell’efficacia globale della lotta contro la corruzione nelle operazioni economiche internazionali. Una conseguenza immediata della attuazione di questa Convenzione da parte delle Parti sarà che le società che sono tenute a fornire nei rendiconti finanziari informazioni sugli accantonamenti per rischi per un ammontare significativo, dovranno tener presente la globalità dei rischi per effetto della presente Convenzione, in particolare degli articoli 3 e 8, nonché le altre perdite che potrebbero verificarsi a seguito di una condanna della società o dei suoi funzionari per corruzione. Questo presenta anche delle conseguenze dal punto di vista delle responsabilità professionali dei revisori dei conti in caso esistano indizi di atti di corruzione di pubblici ufficiali stranieri. Inoltre, i reati di natura cantabile di cui all’articolo 8 si verificano in genere nel Paese di origine della società mentre il reato di corruzione può essere stato commesso in un altro Paese, ciò che permette di colmare alcune lacune nella portata effettiva della Convenzione. Articolo 9. - Mutua assistenza giudiziaria: 30. Le Parti avranno ugualmente accettato, ai sensi del paragrafo 8 degli elementi comuni concordati allegati alla Raccomandazione OCSE del 1997, di individuare e adottare misure in grado di aumentare l’efficienza della mutua assistenza giudiziaria. Sul paragrafo 1: 31. Nell’ambito del paragrafo 1 dell’articolo 9, le Parti dovrebbero, su richiesta, facilitare o incoraggiare la presenza o la disponibilità di persone, in particolare di persone in stato di detenzione, che acconsentano a dare la propria collaborazione nell’ambito delle inchieste o dei procedimenti. Le Parti dovrebbero adottare misure che permettano loro, in determinati casi, di trasferire temporaneamente un detenuto verso una Parte che ne faccia la richiesta e di tener conto del periodo passato in stato di detenzione nel territorio della Parte richiedente ai fini dell’esecuzione della pena alla quale tale persona è stata condannata nel territorio della Parte richiesta. Le Parti che desiderano usare tale meccanismo dovrebbero anche adottare misure che permettano loro, quali Parti richiedenti, di assicurare il mantenimento in stato di detenzione e il ritiro della persona trasferita senza la necessità di avvalersi di procedure di estradizione. Sul paragrafo 2: 32. Il paragrafo 2 riguarda il problema dell’identicità di norme relative alla doppia incriminazione. Le Parti, le cui disposizioni di legge sono molto diverse, in quanto vanno da norme contro la corruzione di funzionari di carattere generale, a disposizioni che trattano espressamente la corruzione di pubblici ufficiali stranieri, dovrebbero poter cooperare pienamente nel quadro della prescritta Conversione per quanto riguarda quei casi che rientrano nei reati previsti dalla presente Convenzione. Articolo 10. - Estradizione: Sul paragrafo 2: 33. Una Parte può considerare la presente Convenzione quale base giuridica per l’estradizione se, per una o più categorie di casi rientranti nell’ambito della presente Convenzione, richiede una convenzione di estradizione. Per esempio, un Paese che richieda una convenzione di estradizione per estradare i propri cittadini, ma non per estradare gli stranieri, può considerare la presente convenzione come base per l’estradizione dei propri cittadini.
— 1376 — Articolo 12. - Sorveglianza e i seguiti: 34. L’attuale mandato del Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione riguardante la sorveglianza e i seguiti è previsto nella sezione VIII della Raccomandazione OCSE del 1997. Esso prevede: i) ricevimento delle notifiche e altre informazioni sottoposte dai Paesi [partecipanti]; ii) un esame regolare delle misure adottate dai Paesi [partecipanti] per l’attuazione della Raccomandazione e per la formulazione di proposte adeguate al fine di aiutare i Paesi [partecipanti] in tale attuazione; questi esami saranno basati sui seguenti procedimenti complementari: — un procedimento di autovalutazione; le risposte dei Paesi [partecipanti] a un questionario forniranno una base per accertare l’attuazione della Raccomandazione; — un sistema di valutazione reciproca; ogni Paese [partecipante] è esaminato a turno dal Gruppo di lavoro sulla corruzione, sulla base di un rapporto che fornirà una valutazione oggettiva dei progressi compiuti dal Paese [partecipante] nell’attuazione della Raccomandazione. iii) esame di problemi specifici relativi alla corruzione nelle operazioni economiche internazionali; (...) v) informazione regolare del pubblico sui lavori, sulle attività svolte e sull’attuazione della Raccomandazione. 35. I costi della sorveglianza e dei seguiti saranno decisi, per quanto riguarda i Paesi membri dell’OCSE, secondo le procedure di bilancio dell’OCSE. Per quanto riguarda i Paesi non appartenenti all’OCSE, le norme attualmente in vigore stabiliscono un sistema equivalente di suddivisione dei costi, descritto nella Risoluzione del Consiglio relativa alle quote per i paesi con statuto di osservatori regolari e ai partecipanti a pieno titolo ai lavori degli organi sussidiari dell’OCSE non appartenenti all’organizzazione, C(96)223/FINAL. 36. La valutazione degli aspetti previsti dalla presente Convenzione che non sono enunciati nella Raccomandazione OCSE del 1997 né in qualsiasi altro strumento accettato da tutti i partecipanti a pieno titolo nel Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione, sarà effettuata dalle Parti alla presente Convenzione e ai suddetti strumenti. Articolo 13. - Firma e adesione: 37. La Convenzione sarà aperta agli Stati che non sono membri dell’OCSE i quali partecipano a pieno titolo al Gruppo di lavoro OCSE sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali. La loro piena partecipazione a questo Gruppo di lavoro è incoraggiata e organizzata tramite procedimenti semplici. Di conseguenza l’obbligo di una piena partecipazione ai lavori del Gruppo di lavoro, che deriva dai legami della Convenzione con altri elementi della lotta contro la corruzione delle operazioni economiche internazionali, non deve essere considerato un ostacolo da parte di quei Paesi che desiderano partecipare a questa azione. Il Consiglio dell’OCSE ha chiesto ai Paesi non membri di aderire alla Raccomandazione OCSE del 1997 e di prendere parte ai meccanismi istituzionali di valutazione o di attuazione, cioé alle attività del Gruppo di lavoro. Le attuali procedure che riguardano la piena partecipazione dei paesi non membri ai lavori del Gruppo di lavoro possono essere reperite nella Risoluzione del Consiglio riguardante la partecipazione delle Economie non appartenenti all’OCSE ai lavori degli organi sussidiari della Organizzazione, C(96)64/REVI/FINAL. Oltre ad accettare il testo rivisto della Raccomandazione del Consiglio sulla lotta alla corruzione, il partecipante a pieno titolo accetta ugualmente la Raccomandazione sulla deducibilità fiscale delle tangenti pagate a pubblici ufficiali stranieri, adottata l’11 aprile 1996, C(96)27/FINAL.
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
I CORTE DI CASSAZIONE — Sezioni unite penali — 28 maggio 1997 (dep. 20 giugno 1997) Pres. La Torre — Rel. Marvulli — P.M. (concl. diff.) — Ric. Lisuzzo Applicazione della pena su richiesta delle parti — Prescrizione del reato quale conseguenza dell’accordo sulla comparazione delle circostanze attenuanti e aggravanti — Possibilità per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato a norma dell’art. 129 c.p.p. — Esclusione (C.p.p. artt. 129, 444). Qualora, per effetto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti posto a base di una richiesta concordata di applicazione della pena, il reato in ordine al quale viene richiesta la pena risulti prescritto, il giudice del patteggiamento non può dichiarare l’estinzione del reato a norma dell’art. 129 c.p.p. E invero, il provvedimento conclusivo del procedimento previsto dagli artt. 444 e ss. c.p.p., non è una sentenza di accertamento e condanna. Essa, infatti, non implica, né presuppone l’accertamento della sussistenza del fatto-reato e della sua riferibilità a un determinato soggetto, sicché dalla sua pronuncia non possono che scaturire gli effetti che sono indissociabili dal suo fisiologico contenuto, e questo non può che essere l’applicazione della pena nella misura indicata dalle parti, una volta che sia dal giudice ritenuta congrua. Sia il contenuto della sentenza che il procedimento che questa conclude non possono prescindere dal contenuto complessivo dell’accordo: allorquando le parti presentano al giudice la concorde richiesta di applicazione di una determinata pena anche per effetto del riconoscimento di determinate attenuanti e del rilievo da attribuirsi alle stesse nel giudizio di comparazione con possibili aggravanti, risulta evidente che anche quella indicazione è soltanto strumentale rispetto alla concreta determinazione di una pena applicabile e tale indicazione è anch’essa il risultato di un accordo, ma non certo di un accertamento giudiziale. E sarebbe arbitrario utilizzare una parte di quell’accordo, svuotandolo del suo complessivo contenuto e disarticolandolo dalla finalità essenziale cui era predisposto, per approdare ad una conclusione del procedimento che è esattamente il contrario di quella che le stesse parti hanno concordemente dichiarato di voler perseguire (1).
— 1378 — II CORTE DI CASSAZIONE — Sezioni unite penali — 25 marzo 1998 (dep. 8 luglio 1998) Pres. La Torre — Rel. Gemelli — P.M. (concl. conf.) — Ric. Palazzo Applicazione della pena su richiesta delle parti — Sentenza applicativa della pena richiesta — Assoggettabilità a revisione — Esclusione (C.p.p. 444, 630). L’istituto della revisione è inammissibile con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta. L’estensione dell’istituto della revisione alla sentenza di patteggiamento potrebbe infatti dipendere solo dalla sua equiparabilità (a tal fine) ad una pronuncia di condanna con accertamento pieno e incondizionato dei fatti e delle prove. Ma la sentenza di patteggiamento, pur essendo espressione della funzione giurisdizionale, non consegue a un giudizio di colpevolezza basato sull’accertamento della fondatezza dell’accusa e della responsabilità dell’imputato (2).
I (Omissis). — OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO. — 1. Lisuzzo Filippo era stato tratto a giudizio del Tribunale di Palermo per rispondere del reato previsto dagli art. 468 e 61 c.p.: era accusato di avere contraffatto i sigilli dell’ENEL sul contatore installato nell’esercizio pubblico da lui gestito, al fine di far risultare un consumo di energia elettrica inferiore a quello reale, fatto accertato in data 9 aprile 1986. L’imputato, prima dell’apertura del dibattimento, chiedeva che il procedimento venisse definito nelle forme previste dall’art. 444 c.p.p. e proponeva come pena-base, applicabile al reato contestatogli, quella di un anno, mesi tre di reclusione e lire 900.000 di multa, diminuita di un terzo per le attenuanti generiche, da ritenersi prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p. e, quindi ulteriormente ridotta a mesi otto di reclusione ed a lire 400.000 di multa per effetto della diminuente conseguente alla scelta del rito. Il pubblico ministero offriva il suo consenso alla proposta formulata dall’imputato ed il Tribunale di Palermo con sentenza in data 15 aprile 1996 ritenuta corretta la qualificazione giuridica del fatto contestato e giudicata congrua la pena proposta, accoglieva la richiesta nei termini concordati tra le parti. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione e, con un unico motivo, ha denunciato la mancata applicazione degli art. 157 c.p. e 129 c.p.p., sostenendo che una volta riconosciuta la prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata, il reato a lui ascritto risalente ad epoca anteriore al 9 aprile 1986, doveva essere dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, e tale declaratoria, omessa dal tribunale doveva essere pronunciata dalla Corte di Cassazione, previo annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza. Il ricorso veniva assegnato alla quinta sezione penale della Corte, ma questa
— 1379 — con ordinanza del 21 gennaio 1997 lo rimetteva alle Sezioni unite, avendo rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla soluzione del problema sollevato dal ricorrente: in alcune decisioni (cfr. Sez VI — 22 settembre 1995, ric. Marzocco; Sez. VI — 18 dicembre 1996, ric. Longi, etc.) si era affermato che allorquando il reato contestato risulti prescritto in conseguenza delle attenuanti e del giudizio di comparazione, oggetto dell’accordo intervenuto tra le parti sul procedimento speciale previsto dagli art. 444 e ss. c.p.p., la prescrizione dev’essere dichiarata, in virtù di quanto disposto dall’art. 129 c.p.; in altre, più numerose decisioni (cfr. Sez VI — 23 ottobre 1995, ric. Brughera; Sez. IV — 18 gennaio 1996, ric. Fontanive; Sez. IV — 7 novembre 1996, ric. Episcopo; Sez. IV — 4 ottobre 1994, ric. Pozzati; Sez. IV — 7 giugno 1994, ric. Correnti, etc.), si era invece prospettata un’opposta conclusione in base a diverse considerazioni. In tutte le decisioni che a quest’ultimo risultato erano pervenute era stata affermata l’impossibilità di utilizzare il procedimento previsto dall’art. 444 c.p.p. per una finalità diversa rispetto a quella alla quale esso è specificatamente predisposto, e cioè l’applicazione di una pena per un determinato reato, con la conseguenza che le cause che possono giustificare il proscioglimento dell’indagato o dell’imputato, nei limiti imposti dall’art. 129 c.p.p., debbono preesistere all’accordo intervenuto tra le parti sulla misura della pena applicabile e sui criteri utilizzati per pervenire a tale determinazione, e, quindi, prescindere dal contenuto dell’accordo. In alcune decisioni, pur esse pervenute alla stessa conclusione, (c.p. Sez. VI — 23 ottobre 1995, ric. Brughera) si è altresì osservato che il carattere sommario della cognizione del giudice nel procedimento speciale previsto dagli art. 444 e ss. c.p.p., preordinato alla verifica della congruità della pena indicata dalle parti, era incompatibile rispetto all’accertamento degli elementi che concorrono ad integrare una determinata fattispecie penale, siano essi essenziali o soltanto accessori e tale ravvisata incompatibilità è stata assunta nell’ambito di una vera e propria rinuncia ad avvalersi della prescrizione quale causa estintiva del reato: si è infatti affermato che una volta manifestata la volontà di definire il procedimento penale con quelle particolari modalità, preordinate all’applicazione di una determinata pena, tale scelta, per il suo contenuto e per gli effetti che ne conseguono, implicherebbe una rinuncia ad avvalersi di quella causa estintiva del reato. Pertanto, considerato che il contrasto giurisprudenziale esistente su tale problema si era manifestato, e con progressiva accentuazione, proprio in relazione ai limiti del potere decisorio del giudice nell’ambito di quel procedimento speciale, di così frequente applicazione, la Sezione remittente riteneva opportuno avvalersi della facoltà prevista dall’art. 618 c.p.p. Il primo Presidente Aggiunto di questa Suprema Corte, acquisito il parere del Procuratore Generale che concludeva per l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza e per la conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, assegnava il ricorso alle Sezioni unite, fissando l’odierna udienza per la trattazione in camera di consiglio. E le Sezioni unite, a conclusione dell’odierna udienza hanno deciso nei termini di seguito esposti. 2. La questione, oggetto della rimessione alle Sezioni unite, consiste nel verificare se rientra nell’ambito del procedimento previsto dagli art. 444 e ss. c.p.p.
— 1380 — l’ipotesi in cui la prescrizione del reato contestato sia conseguenza della valutazione positiva dell’accordo intervenuto tra le parti in ordine al riconoscimento di attenuanti che, ritenute prevalenti su una o più aggravanti, riducono l’originaria pena edittale, facendo così scaturire un più breve termine di prescrizione. È doveroso riconoscere, innanzi tutto, che i contrapposti orientamenti che si sono manifestati nella giurisprudenza di questa Corte, pur offrendo un ampio ventaglio di argomentazioni a sostegno di ciascuna delle due tesi prospettate, sono indubbiamente conseguenti all’oggettiva difficoltà di coordinare le peculiari caratteristiche del procedimento speciale disciplinato dagli artt. 444 s. c.p.p. con tutto il sistema normativo vigente. I limiti intrinseci di un meccanismo processuale così difficile da costruire e da disciplinare in un sistema ispirato da una ben diversa tradizione culturale e scientifica, hanno finito per avere una accentuata manifestazione a causa dell’ovvia necessità di non limitarne l’applicazione posto che proprio le prospettive applicative in chiave deflattiva hanno rappresentato l’unica ragione giustificatrice della sua ammissibilità nel nostro ordinamento processuale. Ma proprio perché tali prospettive applicative non potevano che assumere una rilevante dimensione, si è finito per incrementare l’eccentricità del procedimento rispetto al sistema rendendo certamente non agevole all’interprete il compito di delineare, e con appagante certezza, gli effetti conseguenti alla sua adozione senza dover travalicare i limiti imposti dai principi processuali aventi rilevanza costituzionale, coordinandoli con tutto l’ordinamento positivo. Orbene anche in relazione al problema la cui soluzione è stata rimessa a questo Supremo Collegio appare evidente che la scelta tra i due contrapposti indirizzi giurisprudenziali non possa in alcun modo prescindere dalla costruzione normativa di quel procedimento speciale, dalle finalità che con la sua introduzione nel sistema il legislatore ha voluto perseguire, e, soprattutto, dai limiti oggettivi e funzionali che in quel procedimento sussistono in relazione ai poteri valutativi e decisori del giudice. Impostato in tali termini il metodo d’indagine — l’unico idoneo al conseguimento dei risultati interpretativi affrancati dal rischio della loro arbitrarietà — la Corte ritiene di poter offrire una soluzione negativa al problema sottoposto al suo esame. È agevole osservare innanzi tutto che il procedimento speciale previsto dagli artt 444 s. c.p.p. è utilizzabile per consentire alle parti di addivenire ad un ‘‘accordo’’ sulla pena concretamente applicabile per un determinato reato e, a fronte dei benefici che tale scelta comporta, è essa stessa indissociabile da una rinuncia al ‘‘giudizio’’ e quindi all’acquisizione delle prove ed alla loro valutazione nella pienezza del contraddittorio. Se è vero che proporre l’applicazione di una determinata pena non equivale, come già questa Corte a Sezioni unite ha già avuto modo di affermare (rif. sentenza 26 febbraio 1997, Bahrauni) ad una formale dichiarazione di riconoscimento esplicito della propria responsabilità penale è altrettanto vero che quella richiesta non si esaurisce in una sola dichiarazione di volontà — la scelta discrezionale di un procedimento che pur comportando l’applicazione di una pena, affranca il soggetto dalla sottoposizione ad un giudizio penale — ma contiene anche una dichiarazione di scienza perché chi quella proposta offre, come ipotesi di un possibile accordo, sa che ogni decisione dovrà essere assunta allo stato degli atti
— 1381 — ossia senza la necessità di acquisizioni probatorie e quindi senza poter più fruire dei possibili od eventuali vantaggi che potrebbero discendere nel vasto ventaglio delle decisioni assumibili dal giudice e neppure vincolate dalle richieste delle parti, dai presupposti di fatto emergenti dalle prove acquisibili in dibattimento, nonché dall’altrettanto ampia possibilità della loro valutazione. L’eccentricità di quel procedimento speciale rispetto a tutto il nostro sistema processuale è determinata dal fatto che la decisione non solo viene assunta sulla base soltanto degli atti messi a disposizione dal pubblico ministero, ma addirittura in relazione ad un progetto di sentenza, che si identifica nella cristallizzazione dell’accordo intervenuto tra le parti, progetto di fronte al quale il giudice non ha alternative diverse rispetto all’accoglimento o al rifiuto ed entrambe le decisioni non possono che riguardare il contenuto complessivo dell’accordo, una volta che questo è stato raggiunto ed è stato manifestato. Ne consegue che così come la scelta del procedimento opera come condizione imprescindibile per la sua ammissibilità, altrettanto avviene per la sua conclusione, strettamente correlata al contenuto dell’accordo: e rispetto a tale accordo l’indicazione della pena concretamente applicabile non è che la risultante conclusiva e, come tale, indissociabile dal suo contenuto e dalle finalità perseguite dalle parti, tanto è vero che il controllo che il giudice è tenuto ad esercitare sulla congruità della pena dalle parti indicata e sulla legittimità e correttezza dei criteri seguiti per il suo calcolo è sempre esauribile nell’ambito del contenuto unitario e complessivo dell’accordo intervenuto tra le parti. Con ciò non si intende affatto contestare che il secondo comma dell’art. 444 c.p.p. subordina l’applicazione della pena al fatto che non debba essere pronunciata una sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 dello stesso codice. Ma è proprio dal contenuto di entrambe tali disposizioni che è agevole dedurre, come è stato, per altro, già osservato da una parte della dottrina, che, una volta raggiunto l’accordo tra le parti per l’applicazione della pena, l’imputato o l’indagato potrà essere prosciolto quando siano le risultanze già acquisite attraverso le indagini espletate dal pubblico ministero a dimostrare la non punibilità o la mancanza di qualsiasi prova a carico. Non va dimenticato che l’art. 444 c.p.p. non solo limita le possibilità del proscioglimento nell’ambito riduttivo delineato dall’art. 129, ma neppure consente al giudice di restituire gli atti al pubblico ministero allorquando ravvisasse un’oggettiva incompletezza delle indagini: ed è stata questa la ragione di fondo che ha indotto la giurisprudenza di questo Supremo Collegio (cfr. sentenza 27 marzo 1992, ric. Di Benedetto; sentenza 4 giugno 1996, ric. De Leo; sentenza 26 febbraio 1997, Bahrouni), in sintonia con le esplicite indicazioni della Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 251 del 6 giugno 1991; sentenza n. 499 dell’11 dicembre 1995, sentenza n. 155 del 13 maggio 1996), ad affermare che l’applicazione della pena su richiesta delle parti non implica un accertarnento positivo sulla sussistenza del fatto-reato, e, quindi, dei suoi elementi costitutivi, né sulla riferibilità dello stesso ad un determinato soggetto. Del resto, nella stessa relazione al progetto preliminare del nuovo codice (cfr. p. 107) non si era mancato di osservare che nel patteggiamento ‘‘il compito del giudice è quello di accertare, sulla base degli atti — e, quindi, non nell’accordo strumentale per l’applicazione della pena — se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se è esatto il quadro nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilità penale’’.
— 1382 — Né va dimenticato che la Corte Costituzionale allorquando aveva ravvisato l’illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 444 c.p.p. (cfr. sentenza n. 313 del 3 luglio 1990) nella parte in cui quella norma non prevedeva che potesse essere rigettata la richiesta formulata dalle parti qualora la pena dalle stesse indicata apparisse non congrua rispetto alle finalità previste dall’art. 27 della Costituzione, e, quindi, proprio nella decisione nella quale veniva sottolineata la funzione ricognitiva e decisoria del giudice rispetto al contenuto stesso dell’accordo delle parti, pur avendo affermato che il controllo giurisdizionale sulla definizione giuridica del fatto non può essere limitato alla sola verifica della ‘‘cornice di legittimità’’, aveva altresì precisato che il giudice, ai fini della verifica della sussistenza di una possibile causa di proscioglimento ‘‘deve trarre il suo convincimento proprio dalle risultanze degli atti, e non dal modo con cui le parti le hanno valutate: ne consegue che se da un lato un giudice attraverso il controllo sulla congruità della pena indicata dalle parti non resta estraneo alla sua concreta applicazione, dall’altro lato, e cioè sul fronte della verifica delle condizioni per l’applicazione dell’art. 129 c.p. ogni suo potere decisorio non può che essere delimitato nell’ambito dell’accertamento diretto di una causa di non punibilità, e cioè, utilizzando soltanto ‘‘gli atti acquisiti al procedimento’’. Inoltre la Corte Costituzionale in quella stessa sua decisione aveva avuto modo di sottolineare, in conformità con la disciplina normativa dell’istituto, la priorità dell’obbligo che incombe al giudice di esaminare, sulla base degli atti messi a disposizione dal pubblico ministero, la possibile ricorribilità di una causa di proscioglimento, con la conseguenza che ‘‘soltanto dopo che risultasse negativa tale doverosa verifica’’ il giudice dovrà procedere al controllo sulla legittimità e sulla congruità della pena, oggetto dell’accordo intervenuto tra le parti. Del resto, è proprio la stessa costruzione normativa di quel procedimento speciale a dissociare l’area di operatività dell’art. 129 c.p.p. dal contenuto dell’accordo al quale le parti sono pervenute, posto che in tanto la pena concordata potrà formare oggetto di verifica da parte del giudice in quanto il preliminare e condizionante accertamento sulle possibili cause di proscioglimento sia stato dal giudice esercitato utilizzando gli atti di cui dispone e questo accertamento abbia avuto un risultato negativo. D’altronde, come già nella citata sentenza la Corte Costituzionale aveva avuto modo di precisare, se l’imputato ritenesse di poter utilizzare elementi probatori diversi da quelli acquisiti al procedimento, idonei per dimostrare la propria innocenza, ovvero sufficienti per accertare l’esistenza di una causa di non punibilità o d’improcedibilità dell’azione penale, ‘‘nessuno lo obbligherebbe a richiedere l’applicazione di una pena’’, avendo egli a disposizione, per tale eventualità, la possibilità di far ricorso al giudizio ordinario: ed allora se la scelta di quel procedimento speciale implica la rinuncia ad avvalersi, con la garanzia del contraddittorio, della facoltà di contestare l’accusa, ne consegue che soltanto dopo che si sia esaurito il controllo del giudice sulle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p. può entrare in gioco l’accordo tra le parti sulla pena da applicare ed il controllo residuale del giudice non può avere altra finalità se non quella di verificare la legittimità del procedimento seguito per proporre una determinata pena. In altri termini, l’alternativa del proscioglimento è completamente affidata all’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice del merito, ed essa non può in alcun modo subire il condizionamento che può scaturire dal contenuto dell’accordo, per
— 1383 — l’evidente ragione che tale accordo si dissocia da quell’alternativa, essendo esso funzionale non a riconoscimento di una causa di non punibilità, bensì soltanto all’applicazione di una determinata pena. Se si addivenisse ad una diversa conclusione si finirebbe per sovrapporre un’accertamento preliminare che il giudice, di ufficio, sulla base degli atti disponibili, deve compiere, quale che sia il contenuto dell’accordo tra le parti, alla successiva ricognizione del contenuto di tale accordo, ricognizione che soggiace a ben diversi criteri, correlati alla sua altrettanto diversa finalità, per poi dissociare tale finalità dal contenuto, sì da utilizzarne solo una parte, e cioè quella che è servita proprio per il calcolo della pena concretamente applicabile, per farne discendere effetti incompatibili con le finalità del procedimento, al quale, per libera e consapevole scelta, le parti hanno fatto ricorso. L’inaccettabilità di tali conseguenze è resa manifesta dall’irriducibile contraddizione che si verrebbe a creare tra il contenuto di un accordo sull’applicazione di una pena e la declaratoria di una causa estintiva del reato che trovi la sua fonte esclusiva di legittimazione proprio in una parte del contenuto di quell’accordo, con l’aberrante conseguenza che il consenso manifestato dal pubblico ministero per l’applicazione di una determinata pena finirebbe per esprimere una rinuncia all’esercizio stesso dell’azione penale. Inoltre, il ricorso a quel procedimento finirebbe per essere un vero e proprio espediente per sottrarre al giudice la verifica della fondatezza sulla richiesta di determinate attenuanti, ovvero sul giudizio di comparizione, per ottenere una declaratoria di non punibilità attraverso la presentazione di un semplice progetto di pena, concordato con il pubblico ministero sull’esclusiva prospettiva della sua concreta applicabilità, con la conseguenza che le circostanze attenuanti prospettate dalle parti, o il giudizio di comparizione dalle stesso proposto, frutto di un accordo ‘‘quoad poenam’’, verrebbero sottratte alla valutazione giurisdizionale della loro fondatezza e si accrediterebbero sul piano del loro riconoscimento giudiziale con il crisma della certezza della sussistenza dei loro presupposti, benché questi non siano stati accertati, ma per il sol fatto di aver formato oggetto di un accordo, e, nel contempo, si svuoterebbe tale accordo del suo complessivo contenuto, disarticolandolo dalle finalità in vista delle quali si era concluso e si era manifestato. Né tale oggettiva inconciliabilità può essere dissipata dal rilievo che pure è stato prospettato in alcune decisioni di questa Corte che sono pervenute ad una diversa conclusione, e secondo il quale poiché il termine di prescrizione va calcolato in relazione alla pena prevista per il reato ritenuto con la sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 157 c.p., e non già con riferimento alla pena stabilita per il reato contestato, da ciò conseguirebbe che il giudice, anche a conclusione del procedimento previsto dall’art. 444 c.p.p., non potrebbe derogare a tale generale principio. Tale rilievo, condivisibile in relazione alla premessa sulla quale è fondato si rivela del tutto inidoneo a giustificare la conclusione che ne è stata tratta per la semplice ragione che il provvedimento conclusivo del procedimento previsto dagli artt. 444 e ss. c.p.p., non è una sentenza di accertamento e condanna, come già questa Corte, a Sezioni unite, ha più volte ribadito (cfr. sentenza 4 giugno 1996, ric. De Leo; sentenza 26 febbraio 1997, ric. Bahrouni). Essa, infatti, non implica, né presuppone l’accertamento della sussistenza del fatto-reato e della sua riferibilità ad un determinato soggetto, sicché dalla sua pro-
— 1384 — nuncia non possono che scaturire gli effetti che sono indissociabili dal suo fisiologico contenuto, e questo non può che essere l’applicazione della pena nella misura indicata dalle parti, una volta che sia dal giudice ritenuta congrua. Sia il contenuto della sentenza che il procedimento che questa conclude non possono prescindere dal contenuto complessivo dell’accordo: allorquando le parti presentano al giudice la concorde richiesta di applicazione di una determinata pena anche per effetto del riconoscimento di determinate attenuanti e del rilievo da attribuirsi alle stesse nel giudizio comparativo con possibili aggravanti, risulta evidente che anche quella indicazione è soltanto strumentale rispetto alla concreta determinazione di una pena applicabile e tale indicazione è anch’essa il risultato di un accordo, ma non certo di un accertamento giudiziale. E sarebbe arbitrario utilizzare una parte di quell’accordo, svuotandolo del suo complessivo contenuto e disarticolandolo dalla finalità essenziale cui era predisposto, per approdare ad una conclusione del procedimento che è esattamente il contrario di quello che le stesse parti hanno concordemente dichiarato di voler perseguire. È poi del tutto irrilevante l’osservazione che pure è stata fatta per giustificare una diversa decisione e secondo la quale le stesse finalità deflattive del procedimento in esame renderebbero superfluo il ricorso ad un giudizio ordinario, in presenza degli stessi presupposti, posto che anche quest’ultimo non potrebbe non concludersi con una declaratoria di estinzione del reato. Tale rilievo critico si identifica, a parere del Collegio, in una vera e propria petizione di principio: esso dà per dimostrato ciò che è tutto ancora da dimostrare, e cioè che il giudice del dibattimento, a conclusione di un giudizio ordinario, una volta non ratificato l’accordo tra le parti, dovrà comunque concedere all’imputato quelle attenuanti che facevano parte integrante dell’accordo o riconoscere quel giudizio di comparazione con eventuali aggravanti negli stessi termini concordati tra le parti, quasi che il contenuto dell’accordo, pur non recepito dal giudice a conclusione del procedimento previsto dagli art. 444 e ss. c.p.p. possa condizionare ogni successiva decisione, da assumere in un diverso giudizio previa ‘‘plena cognitio’’. Vero è, invece, che la concessione di attenuanti ed il loro conseguente giudizio di comparazione sono statuizioni rimesse, nel giudizio penale, al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio è legato all’accertamento dei presupposti che quelle statuizioni possono giustificare: potere invece, che è precluso al giudice del ‘‘patteggiamento’’, essendo le attenuanti non da lui ‘‘concesse’’ ma ‘‘concordate’’ dalle parti. Né va dimenticato che allorquando le attenuanti ed il loro rapporto comparativo con eventuali aggravanti abbiano formato oggetto di un accordo tra imputato o indagato e pubblico ministero, e, ciò nonostante il procedimento non si sia concluso nelle forme previste dall’art. 444 c.p.p., cioè con l’applicazione della pena richiesta dalle parti, quell’accordo resta privo di qualsiasi rilevanza giuridica, ed è, quindi, improduttivo di qualsiasi effetto; con la conseguenza che una proposta di patteggiamento, comunque formulata, se non è dal giudice accolta non può mai condizionare la libertà di giudizio che l’esercizio della giurisdizione, con ‘‘plena cognitio’’, richiede. Infine, ultroneo appare rispetto alla soluzione del problema rimesso all’esame di queste Sezioni unite il rilievo, pur prospettato in alcune decisioni di questa Corte (cfr. Sez. VI — 18 dicembre 1996, ric. Longi), secondo il quale le circostanze del reato non essendo soltanto cause modificatrici della pena, bensì anche
— 1385 — elementi accessori della fattispecie, idonei per la sua appropriata valutazione, una volta riconosciute, non potrebbero che produrre tutti gli effetti ad esse conseguenti. Il rilievo, se pur condivisibile in relazione al ruolo che rivestono le circostanze del reato nel nostro ordinamento positivo, non può in alcun modo giustificare le conclusioni che se ne sono volute trarre, per l’ovvia considerazione che nel procedimento speciale del quale ci si occupa le attenuanti, come è già stato precisato, non sono concesse dal giudice dopo la verifica dell’esistenza dei loro presupposti, non in conseguenza di una ‘‘plena cognitio’’ sul fatto, sulle sue modalità, sulla personalità o sulla capacità a delinquere dell’autore, ma formano soltanto oggetto di un accordo che è correlato all’applicazione di una determinata pena; con la conseguenza che il controllo che il giudice deve compiere sul contenuto dell’accordo è finalizzato alla verifica della congruità della pena proposta: e la verifica sulla congruità della pena è cosa ben diversa dall’accertamento diretto al riconoscimento giudiziale della ‘‘fondatezza’’ dei presupposti che debbono sussistere per poter giustificarne l’esistenza. Non a caso, infatti, il secondo comma dell’art. 444 c.p.p. impone al giudice soltanto un controllo sulla ‘‘correttezza’’ della qualificazione giuridica del fatto e sull’applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, controllo che è ben diverso dalla verifica sulla ‘‘fondatezza’’ dei presupposti che integrano le circostanze che il giudice può concedere, in conseguenza di una completa ed esauriente valutazione delle prove acquisite nel corso del giudizio, ma non acquisibili né valutabili nel procedimento del tutto ‘‘speciale’’ ex art. 444 c.p.p. Orbene, la contraddittorietà già rilevata da questo Supremo Collegio nella utilizzazione processuale di una parte dell’accordo intervenuto tra le parti per finalità diverse rispetto a quelle cui l’accordo era preordinato, era già stata colta da una parte della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. VI, 23 ottobre 1995, ric. Brughera), tant’è che si era considerata la richiesta di applicazione della pena come una vera e propria rinuncia alla prescrizione del reato. Una tale conclusione, pur se indicata come l’esito della segnalata e inammissibile contradditorietà non sembra il percorso giuridicamente più sicuro per superarla. Ciò in quanto nella scelta di quel procedimento speciale riesce difficile riconoscere una rinuncia ad una causa estintiva del reato che, come la prescrizione, non rappresenta un mero espediente processuale, ma, come ha esattamente rilevato la Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 275/1990), è soltanto il risultato di ‘‘un evento oggettivo’’, indipendente dalla discrezionalità, e cioè il decorso del tempo ritenuto dal legislatore eccessivo rispetto all’interesse a perseguire un determinato reato. L’indubbia difficoltà a qualificare come valida ed efficace rinuncia alla prescrizione la scelta di quel procedimento, perché funzionalmente diretto all’applicazione della pena, assume una più accentuata consistenza allorché la causa estintiva non preesiste alla scelta del procedimento, ma è conseguente all’accordo intervenuto tra le parti e ratificato dal giudice, sia pure nell’ambito riduttivo dei poteri decisori attribuitigli in relazione alla possibile conclusione del procedimento. Ed è quanto meno discutibile che dalla richiesta di applicazione della pena, formulata dalla parte, possa desumersi una non esplicita sua volontà di rinunziare alla prescrizione del reato come configurato nella suddetta richiesta. Ma se tutto ciò è vero, è altrettanto certo che quella ravvisata incompatibilità tra l’accordo intervenuto tra le parti per l’applicazione di una pena e l’utilizza-
— 1386 — zione processuale di una parte di quell’accordo per fini diversi rispetto a quelli che l’accordo era diretto a perseguire, non può essere fondatamente contestata. E l’ordinamento processuale offre all’interprete lo strumento appropriato per far valere l’incompatibilità di un comportamento processuale rispetto ad una pronuncia inconciliabile con la scelta compiuta: trattasi della preclusione processuale sulla cui nozione la dottrina, da tempo, ha fornito un’adeguata e consolidata indicazione, e sulla cui applicabilità la giurisprudenza ha offerto un ampio ventaglio di ipotesi, tutte riconducibili alla determinazione di un fatto giuridico impeditivo di effetti, perché incompatibili con determinate scelte processuali. Ed allora se la preclusione processuale deve essere ravvisata tutte le volte in cui una determinata attività non può svolgersi a causa di ostacoli che si frappongono alla sua esplicazione, e se tali ostacoli debbono identificarsi in un’attività processuale anteriore, incompatibile con quella successiva, è agevole rilevare che da un accordo per l’applicazione della pena, una volta manifestatosi, non possa poi utilizzarsi solo una parte del suo contenuto e per finalità che sono oggettivamente incompatibili sia con le funzionali prospettive attribuite dal legislatore a quello strumento processuale, e sia con le stesse concrete finalità che le parti hanno dichiarato di voler conseguire. Realizzatosi l’accordo per l’applicazione della pena, così come è precluso alle parti modificarne i termini o presentare al giudice progetti alternativi di possibili decisioni, a maggior ragione non può che essere precluso utilizzare una parte soltanto dell’accordo e per scopi che sono, più che inconciliabili, in perfetta antitesi con la stessa richiesta di applicazione della pena. 3. Dalle su esposte argomentazioni discende che il ricorso proposto da Lisuzzo Filippo è inammissibile. Risulta dall’impugnata sentenza che l’imputato si rese promotore della richiesta di patteggiamento e sulla sua proposta ottenne il consenso del pubblico ministero. L’accordo intervenuto tra le parti e dal giudice recepito nella sua complessa articolazione, una volta conseguito lo scopo cui era diretto, ha cristallizzato una situazione giuridica secondo le finalità dichiarate dai protagonisti dell’accordo. E così come era precluso al Tribunale di Palermo utilizzare una parte di quell’accordo per finalità incompatibili con il suo contenuto e con gli scopi alla cui realizzazione quell’accordo, in quel procedimento, era preordinato, analoga preclusione non può che operare in questa sede, una volta riconosciuto dallo stesso ricorrente che la causa estintiva del reato potrebbe essere ravvisata solo a condizione che l’accordo per l’applicazione della pena, ottenuto anche attraverso il riconoscimento delle attenuanti generiche considerate prevalenti sulla contestata aggravante, venisse utilizzato soltanto ai fini della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Consegue alla declaratoria d’inammissibilità la condanna del ricorrente alle spese del procedimento ed al versamento della somma di un milione in favore della Cassa delle Ammende.
II (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Con ordinanza in data 20 gennaio 1994 la Corte di Appello di Palermo ha dichiarato inammissibile la richiesta
— 1387 — di revisione della sentenza in data 24 gennaio 1994 del Tribunale di Palermo, emessa nei confronti di Paolo Palazzo, con applicazione della pena (artt. 444 e ss., c.p.p.) di un anno, sei mesi, venti giorni di reclusione e lire 800.000 di multa, col beneficio della sospensione condizionale, in ordine ai reati di associazione per delinquere e ricettazione. Il Palazzo aveva dedotto il contrasto fra la sentenza suindicata e la successiva emessa dallo stesso Tribunale, per la medesima vicenda, in data 13 giugno 1996 all’esito del giudizio ordinario nei confronti dei coimputati, tra i quali Nicolò Sorrentino, assolto per non avere commesso il fatto dalle stesse imputazioni a lui ascritte, basate sugli identici elementi di fatto e su una situazione probatoria strettamente collegata alla sua posizione. Riteneva la Corte suddetta che non ricorresse un’ipotesi d’inconciliabilità fra i fatti oggetto delle due sentenze, bensì una diversa valutazione di una medesima situazione probatoria. Il Palazzo proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione della legge penale e per vizi logici della motivazione. L’assoluzione del Sorrentino, per difetto di riscontri della chiamata di correo operata da Antonino Stagno, dai reati nei quali egli aveva concorso, secondo l’impostazione accusatoria per aver fatto da tramite nella consegna di assegni di provenienza delittuosa ad altri, rendeva evidente, secondo il ricorrente, la sussistenza dell’ipotesi prevista dalla lettera a) dell’art. 630 c.p.p. che consentiva di sottoporre al giudizio di revisione la sentenza di patteggiamento, fondata proprio sulla chiamata in correità dello Stagno. Il ricorso veniva assegnato alla I Sezione penale della Corte di Cassazione. Il Procuratore Generale in sede chiedeva, in via principale, la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, non essendo suscettibile di revisione la sentenza di patteggiamento e comunque non potendo procedersi attraverso il giudizio di revisione alla verifica della mancanza dei riscontri individualizzanti della chiamata di correo, già di per sé idonea ad escludere l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., avendo l’imputato volontariamente desistito dal contestare l’accusa rinunciando alla verifica dibattimentale. In subordine, stante il contrasto di giurisprudenza sull’applicabilità dell’istituto della revisione alla sentenza di patteggiamento, chiedeva che l’esame del ricorso fosse rimesso alle Sezioni unite. Con memoria del 15 ottobre 1997 il difensore del ricorrente replicava, alla richiesta del P.G. di dichiararsi inammissibile il ricorso, che ‘‘anche una sentenza di patteggiamento può porsi in contrasto con la verità’’, sicché può generare una decisione ingiusta, eliminabile col giudizio di revisione, essendo il consenso delle parti influenzato dal materiale probatorio esistente in un determinato momento del procedimento. Sarebbe contrario all’ordinamento processuale e prima ancora a quello costituzionale mantenere ferma l’efficacia del consenso al patteggiamento della pena quando muti il presupposto di fatto ‘‘per la sopravvenienza di nuovo significativo materiale utile alla prova’’. Tanto che anche per i decreti penali divenuti irrevocabili è prevista la possibilità di revisione. Con ordinanza in data 15 ottobre 1997 la Prima Sezione penale, rilevato il contrasto giurisprudenziale indicato dal P.G., ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, osservando che i valori della verità e della giustizia, connaturati al processo penale, escludono la cristallizzazione dell’accordo delle parti quando muti il suo
— 1388 — presupposto di fatto per la sopravvenienza di un significativo ‘‘novum’’ probatorio o per l’inconciliabilità di giudicati. L’equiparazione della sentenza di applicazione della pena alla pronuncia di condanna (art. 445, primo comma, c.p.p.), tranne in casi espressamente previsti dalla legge e che non si rinvengono in relazione alla revisione, secondo i rimettenti ha la precisa funzione di assicurare l’omogeneità sul piano degli effetti fra i due tipi di decisione: una diversa interpretazione confliggerebbe con l’esigenza di giustizia che deve connotare ogni accertamento giudiziale, rendendolo compatibile con i principi fondamentali del sistema proccessuale. La linea che la disciplina del patteggiamento ha finito per assumere con la recente elaborazione giurisprudenziale della Corte Suprema, in particolare delle Sezioni unite, dà adito, secondo la Sezione rimettente, a dubbi non manifestamente infondati di costituzionalità, relativi all’intero istituto dell’applicazione della pena, in riferimento a valori costituzionali di primaria importanza. Con ulteriore requisitoria scritta del 26 febbraio 1998 il P.G. ha evidenziato le ripetute pronunce della Corte Costituzionale relative al processo penale, preordinato all’accertamento della verità materiale, con la configurazione del P.M. come organo di giustizia deputato a tale ricerca e con l’affermazione dell’estraneità al sistema costituzionale di un processo ispirato ad una logica pattizia; ed ha concluso dubitando della compatibilità del patteggiamento con i principi costituzionali contenuti negli artt. 3, 24, 25, 27, 101, 111 e 112 della Costituzione. Per la decisione del ricorso, assegnato alle Sezioni unite dal Primo Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, è stata fissata l’udienza camerale del 25 marzo 1998. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La questione di diritto che ha dato luogo alla rimessione alle Sezioni unite è se sia ammissibile il giudizio di revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Le decisioni affermative si basano sulla funzione del rispetto della verità che l’ordinamento attribuisce all’accertamento penale, come linea di tendenza tesa ad escludere ogni interpretazione che obblighi a mantenere ferma la situazione scaturita dal cristallizzarsi del quadro probatorio risultante al momento dell’accordo sulla pena, quando esso (successivamente) riceva una radicale smentita; e l’idoneità della sentenza di patteggiamento a passare in giudicato renderebbe irrilevante il riferimento contenuto nell’art. 648 c.p.p. alle sole ‘‘sentenze pronunciate in giudizio’’, per la possibilità di applicare l’istituto della revisione anche ai decreti penali di condanna che toglie vigore alle argomentazioni di quanti vorrebbero far discendere dal diverso regime della prova proprio del patteggiamento argomenti contrari all’ammissibilità della revisione (Cass., Sez. VI, 26 ottobre 1993, Trommacco). Altre decisioni che pervengono ad analoghe conclusioni fanno leva sull’equiparazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna (art. 445, primo comma, c.p.p.), salva diversa disposizione di legge che non si rinviene nel caso in esame (Cass., Sez. VI, 15 aprile 1994, Costagliola), pur distinguendo, con riferimento alla prova nuova (art. 630, lett. c) c.p.p.), che tale non può essere quella che, proprio in ragione dell’accoglimento della richiesta di applicazione della pena, non sia stata oggetto di valutazione da parte del giudice per volontaria determinazione delle parti che in tal modo ne hanno impedito l’acquisizione e la va-
— 1389 — lutazione: sarebbe contrario alla logica del sistema far rientrare in sede di revisione prove già acquisibili al momento della richiesta stessa (Cass., Sez. II, 12 dicembre 1994, Muffari). Per quanto attiene al contrasto di giudicati (art. 630, lett. a), c.p.p.), è stato affermato che il patteggiamento costituisce un negozio giuridico processuale, ma i limiti che l’ordinamento pone al potere dispositivo delle parti, attraverso i poteri conferiti al giudice, non privano il provvedimento delle caratteristiche essenziali a farlo ritenere ‘‘sentenza di condanna’’ (Cass., Sez. IV, 31 marzo 1995, Palmisciano). L’orientamento di segno contrario, che ha escluso la compatibilità fra l’accertamento derivante dalla notifica dell’accordo delle parti e quello contenuto nella sentenza emessa all’esito del giudizio ordinario, ha però precisato che l’esigenza di giustizia sostanziale diretta a superare il contrasto fra giudicati potrebbe essere attuata applicando analogicamente l’ottavo comma dell’art. 669 c.p.p. (Cass., Sez. III, ordinanza 10 luglio 1996, Petrino). 2. Per risolvere la questione è necessario osservare che la revisione, che presuppone il ‘‘giudicato’’, è stata espressamente disciplinata dal legislatore quale istituto applicabile unicamente alle sentenze di ‘‘condanna’’ ed ai decreti penali di ‘‘condanna’’ divenuti irrevocabili (art. 629 c.p.p.), ovverosia alle sole decisioni che comportano il riconoscimento della responsabilità dell’imputato per un determinato reato e l’applicazione della relativa pena (Cass., Sez. I, 9 novembre 1994, Ponzetta), sicchè l’estensione dell’istituto alla sentenza di patteggiamento può discendere solo dalla sua equiparabilità (a tal fine) ad una pronuncia di condanna con accertamento pieno e incondizionato dei fatti e delle prove, quale necessaria premessa per ritenere l’imputato responsabile ed applicargli la pena (Corte Costituzionale, sentenza n. 251/1991). 3. Benché non siano mancati contrasti, per divergenti orientamenti interpretativi, sulla natura della sentenza di applicazione della pena a richiesta delle parti fra pronunce della Corte Costituzionale e decisioni della Corte di Cassazione, è stata tuttavia raggiunta una convergenza sostanziale sul punto della diversità ontologica fra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna. La sentenza di patteggiamento (art. 444 c.p.p.) non contiene un accertamento del reato ed un giudizio di colpevolezza: è una pronuncia, sulla base degli atti, di applicazione della pena sull’accordo delle parti, ratificato dal giudice dotato di autonomi e consistenti poteri di controllo, dei quali deve dare adeguata ragione (Corte Costituzionale, sentenza n. 313/1990 e Cass., Sez. un., sentenza 27 marzo 1992, Di Benedetto); è espressione della funzione giurisdizionale ma non consegue ad un giudizio di colpevolezza basato sull’accertamento della fondatezza dell’accusa e della responsabilità dell’imputato, con la pena indicata dalle parti che non può essere modificata dal giudice i cui poteri, autonomi ma circoscritti (art. 444, secondo comma, c.p.p.), si restringono, ove non debba pronunciare sentenza di proscioglimento, a norma dell’art. 129 c.p.p., alla valutazione della correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché della congruità della pena (Corte Cost., sentenza n. 313/1990). Funzione del giudice, dunque, limitata dall’esercizio del diritto di veto nel caso in cui ritenga non applicabile l’accordo (Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni).
— 1390 — Consegue la non equiparabilità della sentenza di patteggiamento a una ‘‘pronuncia di condanna’’, se non nella parte che la giustifica per l’affinità che s’individua nel solo punto relativo all’applicazione della pena (Sez. un., 8 maggio 1996, De Leo), non potendo derivare altri effetti per l’assenza della componente capace di produrli, costituita dal riconoscimento giudiziale completo della responsabilità dell’imputato. E non muta la natura della sentenza emessa a norma dell’art. 444 c.p.p. se la pronuncia avvenga all’esito del dibattimento (art. 448, primo comma, c.p.p.) ritenendo il giudice ingiustificato il dissenso del P.M., in quanto anche in tal caso occorre riportarsi al momento della presentazione della richiesta ed alla situazione probatoria (lato sensu) di allora ai fini dell’applicazione del rito speciale. Né è senza significato che già nella stessa intitolazione dell’istituto (‘‘Applicazione della pena su richiesta delle parti’’) il legislatore ha negato a questo specialissimo rito la qualifica di ‘‘giudizio’’, riconosciuta invece — oltre che, ovviamente, a quello ordinario — agli altri procedimenti speciali (‘‘abbreviato’’, ‘‘direttissimo’’, ‘‘immediato’’). Si aggiunga, peraltro, che anche nella parte riguardante l’irrogazione della pena (inflitta dal magistrato nei casi di procedimento previo giudizio, o da lui applicata ‘‘su richiesta delle parti’’ nel caso di patteggiamento), ossia in quella che è la sola area di equiparabilità fra la sentenza ex art. 444 e la ‘‘pronuncia di condanna’’ (art. 445, primo comma), i due modelli processuali non mancano di registrare ulteriori profonde differenze. Infatti, per bilanciare la rinuncia delle parti al ‘‘diritto alla prova’’ (art. 190 c.p.p.), la sentenza di patteggiamento non comporta la condanna al pagamento delle spese processuali, né l’applicazione di pene accessorie o di misure di sicurezza (tranne la confisca obbligatoria); non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi (art. 445, primo comma, c.p.p.), non comporta l’iscrizione — ulteriore, rilevante conferma della non generale comparabilità alla sentenza di condanna — nel certificato generale e penale rilasciato dal casellario giudiziale a richiesta degli interessati (art. 689, secondo comma, lett. a), n. 5, c.p.p.); e soprattutto — caso unico — il reato si estingue alle condizioni previste e così pure gli effetti penali e, in specifiche ipotesi, l’applicazione della pena non è di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale (artt. 163 e 164 c.p. e 445, secondo comma, c.p.p.). 4. Si è obiettato che non sono le parti a poter disporre dell’interesse pubblico alla punizione del reato, poiché è compito esclusivo del giudice ad altri non delegabile né in alcun modo surrogabile l’accertamento giudiziale della responsabilità penale. Al riguardo è da osservare che l’affermazione, teoricamente esatta nella sua astratta portata, non è di per sé idonea a modificare la struttura dell’istituto quale è stato concepito e voluto dal legislatore. Se con essa, infatti, si vuol dire che l’accertamento giudiziale della responsabilità non è surrogabile nè identificabile col riconoscimento di colpevolezza che sarebbe implicito nella richiesta del patteggiante, il rilievo è tanto condivisibile che queste Sezioni unite (sentenza 8 maggio 1996, De Leo) si son date già cura di sottolinearlo proprio per escludere che la relativa sentenza possa ritenersi fondata su un accertamento di responsabilità ‘‘ope iudicis’’. Se, viceversa, si vuol dire che un tale accertamento sussiste perché in tesi non può non sussistere scambiando così il ‘‘dover essere’’ con ‘‘l’essere’’, resta allora da dimostrare come un tale enunciato sia conciliabile con una disciplina legislativa che, al contrario, limita l’intervento del giudice alla verifica di ‘‘correttez-
— 1391 — za’’ della richiesta o dell’accordo sulla pena — salva solo l’eventualità del proscioglimento ex art. 129 c.p.p. — nei sensi sopra indicati (art. 444, secondo comma). È, peraltro, da rilevare che il diritto alla prova nel procedimento penale, con la connessa disponibilità delle parti, è principio generale (art. 190 c.p.p.), espressamente ribadito dalla Corte Costituzionale con la facoltà dell’imputato di rinunciare alla prescrizione o all’amnistia (sentenze n. 175/1991 e n. 275/1990) per provocare un accertamento completo dei fatti. La legge deve garantire le condizioni per l’esercizio dei diritti fondamentali dell’imputato (artt. 13 e 24 della Costituzione) ma ciò non autorizza a configurare il diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, come obbligatorio, attinendo la tutela costituzionale alla garanzia delle condizioni di esercizio (Corte Cost., sentenza n. 313/1990). E, per altro verso, non va trascurato che nel rito speciale del patteggiamento l’accordo negoziale si arresta di fronte all’interesse pubblico che impone al giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p. È, dunque, innegabile il diritto delle parti a rinunciare a contestare l’accusa e ad ampliare il quadro probatorio sull’esistenza del fatto-reato e sulla sua riconducibilità ad un determinato soggetto, così determinando — punta massima del processo accusatorio — l’esaurirsi di ogni verifica nell’ambito dei risultati incompleti e provvisori acquisiti nelle indagini preliminari (in funzione surrogatoria della prova), tanto che — fra l’altro — la decisione non ha efficacia vincolante nei giudizi civili e amministrativi, non essendo trasferibile in quelle sedi col crisma del ‘‘giudicato’’ un esito giudiziale che non ha il carattere della completezza e dell’oggettiva certezza processuale acquisite nel contraddittorio delle parti (Cass., Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni). 5. Il procedimento disciplinato dagli artt. 444-448 c.p.p. è stato più volte sottoposto, sotto vari aspetti, al vaglio del giudizio di legittimità costituzionale. L’intervento della Corte Costituzionale ha inciso sui poteri di valutazione del giudice in ordine alla congruità della pena (sentenza n. 313/1990) in un contesto processuale che connota la sentenza di patteggiamento quale decisione non avente natura di condanna (sentenza n. 251/1991), in difetto di una valutazione completa dei fatti e delle prove che nel normale giudizio costituisce la necessaria premessa per l’applicazione della pena (sentenza n. 499/1995); sicché la pronuncia si profila come espressione di definizione pattizia del processo (sentenza n. 265/1994), cui non puo essere di ostacolo l’ingiustificato dissenso del P.M. (art. 448, primo comma, c.p.p.), con l’accordo delle parti sulla pena, cui conseguono ampi vantaggi d’ordine sostanziale e processuale per l’imputato, nell’ambito di una scelta legislativa non irrazionale nè ingiustificata, coerente col carattere premiale del rito alternativo per bilanciare la rapida definizione dei processi (C. Cost., ordinanza n. 297/1997). Il giudice delle leggi, dunque, pur adattando talora il procedimento alternativo ai principi costituzionali, ne ha confermato la legittima idoneità ad adempiere la funzione deflattiva del dibattimento col suo inserimento nel sistema processuale, nel quale indubbiamente si colloca, in maniera eccentrica. Le questioni relative a specifici aspetti di costituzionalità, soltanto enunciate dal P.G. requirente e non sviluppate, attengono a profili già esaminati dal giudice delle leggi e ritenuti infondati in riferimento alla riserva di legge e di giurisdizione (artt. 13, 25, 101, 102, 111, 112 della Costituzione) ed ai principi di uguaglianza,
— 1392 — di inviolabilità del diritto di difesa, di legalità e di presunzione di non colpevolezza (artt. 3, 24, 25, 27 della Costituzione). La logica negoziale che sottende all’istituto dell’applicazione della pena a richiesta delle parti, ha avuto, dunque, l’avallo della Corte Costituzionale. Il dubbio sulla compatibilità della disciplina del patteggiamento nel suo complesso con i valori primari della Costituzione, adombrato dal P.G. e dalla Sezione rimettente, trova ostacolo nell’inammissibilità di un giudizio di legittimità costituzionale relativo ad un intero istituto; sono improponibili le questioni formulate in termini tali da comportarne la completa revisione (Corte Costituzionale, ordinanza n. 399/1997) sicché dovrebbe esserne riscritta ‘‘ex novo’’ la disciplina, in quanto incidenti sui meccanismi predisposti dal codice di rito che, in riferimento al procedimento speciale in oggetto, lo stesso giudice delle leggi ha ritenuti legittimi per la loro funzione di articolare un opportuno equilibrio fra la struttura negoziale dell’applicazione della pena, basata sull’iniziativa delle parti, e gli irrinunciabili accertamenti e controlli giurisdizionali, la cui disciplina è riservata alla sfera della discrezionalità del legislatore (Corte Cost., ordinanza n. 399/1997 e sentenze nn. 265/1994, 129/1993, 92 e 187/1992). Tanto che si è consolidato l’orientamento giurisprudenziale di queste Sezioni unite (sentenza 28 maggio 1997, Lisuzzo) sulla natura dell’istituto del patteggiamento e sull’equiparabilità della sentenza che ratifica l’accordo alla sentenza di condanna soltanto nell’applicazione della pena. 6. La sentenza di patteggiamento, la cui disciplina è normativamente articolata in modo tale da non implicare un positivo accertamento di responsabilità penale (Relazione al progetto preliminare del cod. di proc. pen., Libro VI, titolo II, pag. 108), rivela la sua eccentricità, in riferimento all’intero sistema, nel distacco dal paradigma della sentenza di condanna previo accertamento giudiziale della responsabilità. Proprio se essa, com’è strutturata, si ritenesse in linea generale equivalente, vale a dire idonea a produrre tutti gli effetti di una normale sentenza di condanna, potrebbero sorgere ragionevoli dubbi di legittimità costituzionale, in quanto la responsabilità penale e l’applicazione della pena resterebbero collegate ad un accertamento del tutto incompleto. Occorre, dunque, prendere atto ed accettare come normativamente predisposti i diversi tipi di accertamento, nella loro ontologia e con i conseguenti limiti oggettivi e funzionali, intrinseci e riflessi, che sono, nei riti alternativi, proiezione dei relativi meccanismi processuali correlati ai risultati e connessi alle finalità perseguite dal legislatore con la loro introduzione nel sistema. La funzione giurisdizionale piena del giudice del dibattimento si arresta nel giudice che pronuncia la sentenza di patteggiamento, limitata agli spazi valutativi e decisori riconosciutigli dall’ordinamento, al controllo della congruità della pena, dopo che abbia escluso l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. ed abbia valutato positivamente il quadro di legalità dell’accordo. Inevitabilmente, dunque, gli ampi vantaggi conseguiti dall’imputato non possono non essere correlati, per la naturale imperfezione del meccanismo probatorio del rito alternativo, ai rischi volontariamente accettati, con la rinuncia al giudizio ordinario e quindi all’acquisizione delle prove nella pienezza del contraddittorio, in un’ottica legislativa di rapida definizione dei processi. Occorre convincersi che il controllo sulla correttezza dell’accordo non può equivalere al controllo sulla fondatezza. Le parti affrontano consa-
— 1393 — pevolmente il rischio ben calcolato e, per l’imputato, ben compensato. Assume un significato del tutto particolare, pertanto, il rilievo che il ‘‘grado di verità’’ è costantemente correlato al metodo attraverso il quale viene svolta la ricerca, risultando esso maggiore o minore quanto più o meno ‘‘plena’’ sia la ‘‘cognitio’’ riservata al giudice, così da ridursi al minimo — per le ragioni innanzi esposte — proprio nel procedimento di ‘‘applicazione della pena su richiesta delle parti’’, che da quella ricerca, anzi, prescinde del tutto a livello giusdicente. Il che pone questo specialissimo rito in una posizione nettamente e ontologicamente differenziata: non solo rispetto al giudizio ordinario, dove il massimo della ‘‘cognitio’’ giudiziale tende al massimo di ricerca della verità ‘‘processuale’’, ossia quanto più vicino possibile alla verità ‘‘reale’’; ma anche rispetto agli altri riti speciali, dove non manca un pur sommario, accertamento giudiziale dei fatti e della responsabilità, che invece difetta nel rito del patteggiamento. E ciò, appunto, a causa delle scelte volontariamente operate dalle parti in un calcolato bilanciamento fra sicuri, rilevanti vantaggi e rischi eventuali che la certezza giudiziale possa non coincidere con la realtà storica, la cui ricerca non si è deliberatamente affrontata e che rimane comunque al di fuori del ‘‘dictum’’ del giudice, il quale infatti si limita senza previa declaratoria di responsabilità — ad applicare la pena (non da lui scelta, ma da altri) ‘‘indicata’’, enunciando che ‘‘vi è stata richiesta delle parti’’ (art. 444, secondo comma, c.p.p.). 7. Corollario dei principi suesposti è l’inapplicabilità dell’istituto della revisione alla sentenza di patteggiamento per l’intrinseca inidoneità di questa a potersi rapportare ad eventi, siano costituiti dalla sopravvenienza di nuove prove o dall’inconciliabilità con una sentenza di condanna irrevocabile, o dal verificarsi delle altre ipotesi previste dall’art. 630 c.p.p.: l’ontologica diversità delle situazioni, con l’impossibilità di confrontare dati disomogenei, non concorrendo due ipotesi di compiuto accertamento dei fatti e di dichiarazione di colpevolezza, esclude che la sentenza di applicazione della pena possa costituire oggetto di revisione. Non può logicamente eseguirsi, in difetto di un ‘‘conflitto di prove’’, un raffronto tra un ‘‘novum’’ costituito da un significativo materiale probatorio ed un’inesistente acquisizione probatoria che (di norma) connota la sentenza di patteggiamento; ovvero un raffronto tra un diverso accertamento dei fatti contenuto in un’altra sentenza ed una situazione processuale in cui omologo accertamento non vi sia stato per volontaria rinunzia di parte: con la revisione non può verificarsi la metamorfosi della sentenza prevista dall’art. 444 c.p.p. in una sentenza di accertamento e di condanna. Pur in presenza di ipotesi particolari di segno opposto, introdotte nel sistema per ragioni contingenti, che prevedono la possibilità della revisione ‘‘in peius’’ (artt. 10, primo, secondo e terzo comma, l. 29 maggio 1982, n. 304 e 8, terzo, quarto, e quinto comma, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. nella l. 12 luglio 1991, n. 213), la revisione disciplinata dal codice di rito attiene alla sostituzione di un accertamento di responsabilità penale con un accertamento favorevole al condannato, per la corrispondenza tra le ipotesi di proscioglimento e quelle relative alla revisione (arg. ex artt. 630 e 631 c.p.p.) quanto a regole di giudizio. La revisione implica un contrasto di prove o di accertamenti giudiziali (in tali categorie ‘‘lato sensu’’ sono inquadrabili tutti i casi previsti dalla legge) e comporta la ripresa del processo definito con una decisione passata in giudicato, conseguita dall’accertamento dei fatti e della responsabilità, con la conclusiva ‘‘condanna’’ del-
— 1394 — l’imputato. È dunque impossibile riprendere un giudizio laddove il processo si è svolto e concluso senza una ‘‘plena cognitio’’; ed è improponibile un conflitto tra ‘‘prove’’ ed elementi che per definizione normativa tali non sono (art. 444, secondo comma, c.p.p.: ‘‘sulla base degli atti’’). La conclusione non costituisce un’antinomia dell’ordinamento processuale — penalistico —, stante la diversità di regole che connotano il sistema con la disciplina dei procedimenti speciali, diversificata dalle regole che disciplinano il procedimento ordinario e adottata dal legislatore nella sua discrezionalità normativa, che ha superato il vaglio del giudizio di legittimità costituzionale, nella previsione di una definizione anticipata del processo a seguito di un accordo irrevocabile delle parti, ratificato dal giudice non acriticamente ma a seguito di valutazioni delle quali deve dare adeguata ragione (Sez. un., sentenza 27 marzo 1992, Di Benedetto e Corte Cost., sentenza 2 luglio 1990, n. 313). L’accordo delle parti nel procedimento disciplinato dagli artt. 444 e ss. c.p.p., fase intermedia di una più ampia fattispecie a formazione progressiva si perfeziona con l’intervento del giudice, dotato di pur significativi poteri di controllo (Cass. Sez. III, sentenza 11 aprile 97, Di Costanzo), prescinde dall’accertamento di una ‘‘situazione probatoria ’’ affiorata nel momento procedimentale in cui il negozio diventa efficace: non può di conseguenza influirvi un ‘‘novum’’, sia per la rilevata impossibilità di un confronto tra dati disomogenei, sia per l’irrevocabilità del consenso al medesimo negozio processuale. In siffatta situazione, non innestandosi un ‘‘giudizio’’ in un ‘‘altro giudizio’’, le esigenze di staticità derivanti dal consolidarsi del ‘‘decisum’’ contenuto nella sentenza di patteggiamento non possono essere sostituite dalle esigenze dinamiche sottese alla revisione del processo. Avendo rinunciato all’introduzione di prove utili all’accertamento dei fatti e della sua responsabilità per ottenere un trattamento penale di rilevante vantaggio, non può poi l’imputato (rectius: il condannato) eludere i rischi della sua libera scelta: ove si ritenesse non preclusa, con la volontaria accettazione dell’accordo sulla pena, l’applicabilità della revisione alla sentenza di patteggiamento — ritenendo l’istituto previsto dagli artt. 629 e ss. c.p.p. alla stregua di un’assicurazione sul rischio —, si verificherebbe inevitabilmente una grave discrasia nell’equilibrio delle parti, venendosi a trovare irrimediabilmente in posizione processuale sfavorevole il P.M. che ha dato il suo consenso irrevocabile al patteggiamento richiesto dall’imputato, in quanto si troverebbe preclusa ogni possibilità di articolare un ‘‘novum’’ in senso accusatorio da controbilanciare, proprio a causa della rinuncia a suo tempo operata ad introdurre elementi di prova idonei a sostenere l’accusa. Inoltre, il radicare la revisione su prove, la cui ricerca è stata volontariamente impedita dall’accordo intervenuto fra le parti, introdurrebbe un’evidente contraddizione nel sistema, procedendosi ad un ‘‘giudizio’’ (arg. ex art. 636 c.p.p.) che col patteggiamento si è voluto escludere e che dovrebbe ora svolgersi con le forme ordinarie per l’acquisizione di (quelle stesse) prove che, la rinuncia alla loro contestazione dibattimentale ha verosimilmente ormai disperse, o rese prive della reale efficacia dimostrativa che solo l’immediatezza dell’acquisizione e la valutazione nel contraddittorio delle parti in quel contesto iniziale avrebbero potuto avere. Ed ancor più arduo è ipotizzare un giudizio di revisione che lasci intatto l’accordo sul patteggiamento e faccia riprendere l’iter procedimentale da quel momento, rimettendo in questione esclusivamente, con la sola acquisizione della
— 1395 — prova sopravvenuta o con l’intervento di un’altra sentenza penale irrevocabile (fra l’altro), la valutazione del giudice sull’esclusione delle condizioni per il proscioglimento, con l’ineludibile compressione della posizione dell’accusa che rimarrebbe ancorata su una proposta o accettazione di patteggiamento del quale sarebbero poi modificati i parametri di riferimento; con conseguente palese non ragionevolezza e con seri dubbi di costituzionalità, con particolare riferimento all’obbligo del pubblico ministero dell’‘‘esercizio’’ dell’azione penale, con le connesse implicazioni (artt. 112, 107, 108, 109 della Costituzione). Il momento negoziale svolge nel patteggiamento un ruolo centrale che non si concilia con l’attribuzione ad esso di una valenza neutra ai fini dell’incidenza di avvenimenti esterni sulla decisione adottata; e non può sottovalutarsi che in detto rito, a differenza di quanto avviene nel rito abbreviato in cui si concorda esclusivamente l’accettazione del rischio della pronuncia allo stato degli atti, l’accordo investe il contenuto della decisione: sarebbe illogico che tale accordo, idoneo a sopprimere — fatto salvo il margine riservato all’appello del P.M. (art. 448, secondo comma, c.p.p.) — un grado di giurisdizione, potesse poi, ai fini della revisione e quindi di un rimedio straordinario, considerarsi del tutto ininfluente. Che la sentenza di patteggiamento blocchi ogni possibile dinamismo sostanziale-processuale che si svolga al di là dell’applicazione della pena (con le sue conseguenze) è stato confermato da queste Sezioni unite, che hanno esplicitamente ritenuto preclusa l’utilizzazione di una parte dell’accordo per finalità incompatibili col suo contenuto e con gli scopi alla cui realizzazione è stato preordinato in quel procedimento, sicché è stata esclusa l’applicazione della causa estintiva della prescrizione risultante all’esito del giudizio di valenza tra opposte circostanze (Sez. un., sentenza 28 maggio 1997, Lisuzzo). Si palesa così il distacco tra la sentenza pronunciata a seguito di patteggiamento e la sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario in cui vi è stato il compiuto accertamento dei fatti e della responsabilità dell’imputato. 8. Resta l’argomento critico secondo il quale la revisione non è limitata soltanto alle sentenze irrevocabili pronunciate in ‘‘giudizio’’, essendo quest’ultima espressione riferibile anche ai procedimenti speciali, tanto che l’art. 629 c.p.p. ammette la possibilità di revisione del decreto penale di condanna divenuto irrevocabile. L’obiezione non ha pregio: esclusa l’equiparabilità della sentenza di patteggiamento, ai fini della revisione, alla sentenza di condanna, nessuna equivalenza della stessa può riscontrarsi col procedimento monitorio che caratterizza l’emissione del decreto penale regolata dagli artt. 459-464 c.p.p. Detto decreto è una pronuncia di condanna in quanto, contrariamente alla sentenza emessa a norma dell’art. 444 c.p.p., definisce il rapporto processuale affermando la responsabilità dell’imputato ed applicandogli la sanzione. Nel procedimento per decreto non vi è la preventiva rinuncia, concordata tra le parti, al diritto alla prova; è solo l’esercizio di tale diritto (eventualmente) posticipato al giudizio immediato che s’instaura a seguito dell’opposizione al provvedimento. Il decreto penale di condanna costituisce una decisione preliminare contro la quale l’imputato può proporre opposizione, sicché l’esperimento dei mezzi di difesa in contraddittorio è rinviato al vero e proprio giudizio, che si svolge con la stessa ampiezza dei procedimenti ordinari (Corte Cost., sentenza 15 luglio 1991, n. 344). Ma già la richiesta ‘‘motivata’’ del P.M. di
— 1396 — emissione del decreto penale (art. 459, primo comma, c.p.p.) è correlata all’obbligo del giudice di dare congrua ragione della ‘‘condanna’’ (arg. ex art. 460, primo comma, lett. c) c.p.p.), mentre il fatto stesso che questi ben può respingere la richiesta, restituendo in tal caso gli atti al P.M. (art. 459 cit., terzo comma), è chiaramente indicativo del suo potere-dovere di esaminare anche nel merito la fondatezza dell’accusa, pure in ciò differenziandosi e nettamente dal giudice del patteggiamento, il cui potere invece si esaurisce, in positivo, nel controllo di legittimità della richiesta di applicazione della pena e, in negativo, nell’eventuale proscioglimento ex art. 129 c.p.p. Del resto, è emblematico il principio contenuto nella direttiva n. 46 dell’art. 2 della delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (l. 16 febbraio 87, n. 81) che — contrariamente a quanto enuncia il punto n. 45 nella previsione di ‘‘applicazione’’ di pena concordata — in riferimento al decreto penale usa l’espressione ‘‘condanne’’ a pena pecuniaria anche se ‘‘inflitta’’ in sostituzione di pena detentiva. È, dunque, evidente la diversità strutturale e funzionale dei due procedimenti speciali, ribadendosi che, in forza del terzo comma dell’art. 459 c.p.p., il G.I.P. ha un potere di controllo pieno, nel rito e nel merito, sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna presentata dal P.M. (Corte Cost., sentenza n. 447/1990). Si spiega, pertanto, la previsione della possibilità di revisione del decreto penale, per la sua natura di condanna previo accertamento di responsabilità. Che si tratti di ‘‘condanna’’ è confermato anche dall’iscrizione (salvo le previste eccezioni) nel certificato generale e penale (arg. ex art. 686, primo comma, lett. a) correlato all’art. 689, secondo comma, lett. a) e b) c.p.p.). E non è senza significato l’effetto estensivo del proscioglimento, derivante proprio dalla natura di ‘‘cognitio plena’’ del giudizio di opposizione al decreto penale, nei casi indicati dal quinto comma dell’art. 464 c.p.p., nei confronti dei concorrenti che non hanno proposto opposizione. 9. Pertanto, queste sezioni unite ritengono inammissibile l’istituto della revisione con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta. Il ricorso, quindi, va rigettato, restando ferma nel ‘‘dictum’’ la declaratoria di inammissibilità che la Corte di Appello di Palermo, alla luce del principio enunciato da questa Corte Suprema, avrebbe dovuto dichiarare ‘‘in limine’’ e senza entrare nel merito. Il ricorrente è tenuto al pagamento delle spese processuali.
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Il patteggiamento e l’accertamento di responsabilità: un equivoco che persiste.
1. Le sentenze delle Sezioni unite che rispettivamente negano la dichiarabilità della prescrizione maturata in conseguenza delle attenuanti patteggiate e l’ammissibilità della revisione nei confronti della sentenza di patteggiamento basano la tesi sostenuta sul rilievo che la sentenza applicativa della pena patteggiata, pur essendo espressione della funzione giurisdizionale, non comporta alcun accerta-
— 1397 — mento. In altri termini le Sezioni unite fanno propria l’asserzione contenuta nella relazione al progetto preliminare del codice, nella quale si afferma testualmente: ‘‘in conclusione, il compito del giudice è di accertare, sulla base degli atti, se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se è esatto il quadro (qualificazione giuridica, circostanze e comparazione) nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilità’’. Pertanto, secondo le Sezioni unite, il giudice che applica la pena patteggiata non deve fare, come si è detto, alcun accertamento neppure con riferimento alla presenza di circostanze attenuanti giacché anche l’indicazione delle attenuanti ed il rilievo da attribuirsi alle stesse nel giudizio comparativo con possibili aggravanti è, secondo la Suprema Corte, ‘‘soltanto strumentale alla concreta determinazione di una pena applicabile e tale indicazione è anch’essa il risultato di un accordo ma non certo di un accertamento giudiziale’’. La Suprema Corte non si pone neppure il problema se la richiesta di patteggiamento da parte dell’indagato o il suo consenso alla richiesta del pubblico ministero equivalga alla rinuncia a quell’aspetto del diritto di difesa integrato dal contraddittorio nel momento di formazione della prova, rinunzia che attribuisce dignità di prova alle indagini preliminari, che, di per sé, hanno il valore di elementi di prova. Infatti, ratificando l’accordo relativo alla pena patteggiata, il giudice prescinde, secondo le Sezioni unite, dalla valutazione delle indagini preliminari posto che non gli è demandato alcun accertamento. In quest’ordine di idee, il patteggiamento può essere effettuato ancorché non sia stata compiuta alcuna indagine preliminare oppure le attività di indagine preliminare compiute siano del tutto irrilevanti sotto il profilo probatorio. Ciò significa che la sentenza di patteggiamento, posto che ratifica un accordo senza compiere alcun accertamento, può essere emanata subito dopo la notitia criminis e l’iscrizione nel registro degli indagati in assenza di indagini preliminari. 2. Questa conclusione, come più volte abbiamo avuto occasione di sostenere, risulta costituzionalmente illegittima sotto un triplice profilo e, cioè, in relazione all’art. 13, primo comma, Cost., in relazione all’art. 27 secondo comma, Cost. e, infine, in relazione all’art. 111, primo comma, Cost. Sotto il primo profilo, infatti, se si interpreta l’art. 13, primo comma, Cost. (la libertà personale è inviolabile) nel senso che l’inviolabilità comporta l’indisponibilità della libertà stessa, ne segue che contrasterebbe con siffatta indisponibilità la sentenza che applicasse una pena patteggiata (magari a due anni di reclusione senza sospensione condizionale della pena) in assenza di un accertamento di responsabilità. In tal caso, la limitazione della libertà personale risulterebbe disponibile in quanto conseguente ad una dichiarazione di volontà dell’imputato senza alcuna dimostrazione della sua responsabilità. Sotto il secondo profilo, posto che l’art. 27, secondo comma, Cost. (‘‘l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva’’) stabilisce una regola di giudizio in virtù della quale il giudice ha il dovere di considerare non colpevole l’imputato sino a quando non vi sia una condanna definitiva intesa come accertamento definitivo di responsabilità, ne segue che contrasta con l’art. 27, secondo comma, Cost. una disposizione che consenta l’applicazione di una pena ad un soggetto senza prove della sua responsabilità penale. Sotto il terzo profilo, poi, la carenza di accertamento giudiziale comporta e non può non comportare una violazione dell’art. 111, primo comma, Cost. (‘‘tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati’’), dal momento che motivare significa, nel caso di sentenza di condanna, esplicitare le argomentazioni utilizzate per arrivare all’affermazione della sussistenza del fatto e della responsabilità dell’imputato con l’indicazione delle prove poste a fondamento della decisione.
— 1398 — La Corte costituzionale con la sentenza n. 313/1990 si è pronunciata sulle due prime eccezioni di legittimità costituzionale e le ha respinte. In detta sentenza la Corte costituzionale ha asserito come non possa essere ‘‘assolutamente condivisa’’ l’idea che ‘‘nel c.d. patteggiamento l’imputato ‘disponga’ della sua ‘indisponibile’ libertà personale’’. Ciò è esatto ma a condizione che si ritenga necessario anche per il patteggiamento un accertamento di responsabilità poiché una disponibilità della libertà personale da parte dell’imputato appare obbiettivamente ravvisabile ove si ritenga che il mero accordo tra pubblico ministero ed imputato, anche in assenza di qualunque elemento probatorio, giustifichi la condanna. La mancanza di tale ipotizzato accertamento fa nascere, appunto, il problema di un eventuale contrasto con la ‘‘inviolabilità’’ della libertà personale imposta dal dettato costituzionale sempreché si intenda siffatta locuzione come comprensiva della ‘‘indisponibilità’’ della libertà stessa. Non persuasivo appare il rilievo della Corte costituzionale, secondo cui l’imputato non ‘‘dispone’’ della sua ‘‘indisponibile’’ libertà personale per autolimitarla poiché la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato avrebbe la finalità di ‘‘ridurre al minimo quel maggior sacrificio della sua libertà, che egli prevede all’esito del giudizio ordinario’’. A prescindere dal rilievo che, in assenza di un accertamento di responsabilità, non c’è modo di verificare l’intenzione dell’imputato, che potrebbe essere quella di addossarsi una condanna immeritata per salvare un prossimo congiunto (in tal modo, quindi, ‘disponendo’ della sua libertà ‘indisponibile’), non v’è dubbio che, senza accertamento di responsabilità, il patteggiamento conseguirebbe ad un accordo delle parti, su cui si esercita un limitato controllo del giudice nei rigorosi limiti indicati dalla legge, così consentendo di fatto l’esercizio di un potere dispositivo relativamente alla libertà personale. La Corte costituzionale ha, altresì, osservato che non appare chiara la ragione per cui è stato prospettato un contrasto con la presunzione di innocenza enunciato nell’art. 27, secondo comma, Cost. Tale ragione si evidenzia subito se il dubbio predetto di legittimità costituzionale venga ricollegato alla tesi della non necessità di un positivo accertamento della responsabilità penale, la quale sembra contrastare con la regola di giudizio normativizzata, per cui l’imputato è considerato innocente sino a quando una sentenza definitiva consacri l’accertamento probatorio della sua responsabilità. Infatti, detta regola sta a significare che deve sempre provarsi la responsabilità dell’imputato mentre l’innocenza va dichiarata anche in mancanza di prove. Ciò comporta che un minimum di prove di responsabilità idonee a costituire un accertamento sufficiente a giustificare una condanna è imposto dalla presunzione di innocenza e che una normativa, la quale consenta una condanna senza accertamento di responsabilità, contrasta con l’art. 27, secondo comma, Cost. Non v’è dubbio che la regola di giudizio concretatasi nella presunzione di innocenza ed in virtù della quale l’imputato va considerato innocente sino a quando ne sia provata la responsabilità non precisi né l’entità della prova né il momento in cui la prova stessa può ritenersi integrata. Orbene, come giustamente si è rilevato, ciò comporta delle ‘‘variabili che possono disporsi in modo da annullare completamente, di fatto, la presunzione di innocenza, senza che con questo la si debba immaginare trasformata concettualmente nel suo opposto’’ (Illuminati). Il fatto che la Costituzione consenta delle variabili in ordine al legame tra pena e prova della colpevolezza sta a significare che non risulta costituzionalmente illegittimo un accertamento incompleto ma non significa e non può significare che sia consentita una condanna senza accertamento di responsabilità. A ben vedere la Corte costituzionale nella sentenza n. 313/1990 ha respinto le due eccezioni predette in quanto ha giustamente ritenuto erronea la tesi della
— 1399 — non necessità di riconoscimento di responsabilità. Invero, per respingere le eccezioni proposte, la Corte costituzionale ha asserito come valga per la pronunzia che applichi la pena patteggiata ‘‘il modello generale di sentenza di cui all’art. 546 c.p.p. e le prescrizioni della lettera e) del primo comma, dove si esige che il giudice indichi le prove che intende porre a base della sua decisione ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie’’. Da ciò si evince, soggiunge la Corte costituzionale, che ‘‘anche la decisione di cui all’art. 444 c.p.p., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della sua responsabilità’’. Considerazione ineccepibile che, a ben vedere, è l’unica idonea a giustificare la reiezione di eccezioni di illegittimità costituzionale proposte in relazione agli artt. 13, primo comma, 27, secondo comma, Cost. e 111, primo comma, Cost. Né per sostenere l’inammissibilità di un giudizio di illegittimità costituzionale vale il rilievo delle Sez. un. 25 marzo 1998, per cui l’inammissibilità discenderebbe dal fatto che il giudizio predetto concernerebbe un intero istituto. A prescindere da altre osservazioni sul problema se il giudizio di illegittimità possa riguardare o no un intero istituto, le eccezioni di illegittimità in questione concernono, a ben vedere, non l’intero istituto ma unicamente l’art. 444 c.p.p. ove lo si interpreti nel senso che la condanna a pena patteggiata non consente nessun accertamento di responsabilità neppure sotto il profilo di una valutazione a tal fine delle indagini preliminari. 3. Pur in assenza di indagini preliminari o pur in presenza di indagini preliminari da cui non siano emersi elementi probatori svanirebbero i dubbi di illegittimità costituzionale sopra prospettati se fosse valutabile come prova di responsabilità la richiesta dell’imputato di applicazione della pena o il consenso dell’imputato alla richiesta effettuata dal pubblico ministero. Ciò equivarrebbe a dire che la richiesta o il consenso dell’imputato integrano una confessione, il che contrasterebbe con il rilievo che non hanno e non possono avere il significato della confessione né la richiesta dell’imputato ex art. 444 c.p.p. né il consenso dell’imputato stesso alla richiesta del pubblico ministero (richiesta o consenso, si noti, che, addirittura, potrebbero essere accompagnate da una dichiarazione di innocenza persino credibile allorquando sembri verosimile che l’imputato preferisca pagare il prezzo di una lieve condanna ingiusta al fine di evitare i danni derivantigli dalla pubblicità del dibattimento). Infatti, l’art. 446, n. 5 c.p.p. stabilisce: ‘‘il giudice se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta o del consenso, dispone la comparizione dell’imputato’’. Ne segue che, essendo la comparizione in parola finalizzata unicamente alla verificazione della volontarietà predetta, il legislatore non consente un’indagine diretta ad accertare le ragioni della richiesta o della prestazione del consenso al fine di valutare se possano o no valere come confessione. Del resto, le Sezioni unite riconoscono esplicitamente che l’accertamento giudiziale della responsabilità non è surrogabile né identificabile con il riconoscimento di colpevolezza che sarebbe implicito nella richiesta di patteggiamento (riconoscimento, a nostro avviso, inesistente) poiché la sentenza di patteggiamento non può ritenersi fondata su un accertamento di responsabilità ‘‘ope iudicis’’. I rilievi di illegittimità costituzionale prospettati risulterebbero, altresì, inconsistenti pur in assenza di indagini preliminari o in presenza di indagini preliminari prive di valore probatorio ove si accedesse alla tesi (Siracusano) che ravvisa nell’ipotesi dell’applicazione di pena a richiesta delle parti un caso di ‘‘fatto pacifico’’. Il c.d. ‘‘fatto pacifico’’ esime nel processo civile dall’onere della prova poiché il giudice può ritenere, senza necessità del supporto probatorio, provato il fatto stesso in quanto non controverso o ammesso dalla controparte o, comunque, am-
— 1400 — messo per facta concludentia. Nel processo penale un’attuazione consentita dal legislatore del ‘‘fatto pacifico’’ avverrebbe, appunto, nell’ipotesi del c.d. patteggiamento, nel quale il consenso delle parti incide ‘‘sul fatto ricostruito nel corso delle indagini preliminari’’ (fatto che il giudice, quindi, è legittimato a ritenere come provato). Più esattamente, il consenso ‘‘serve certamente a cristallizzare il fatto nelle dimensioni fissate dalle indagini preliminari, ed in questo senso rende ‘pacifico’ il fatto ricostruito dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero’’ ed inoltre ‘‘determina anche un accordo sul merito dell’imputazione, sulla qualificazione del fatto e sulla comparazione fra le circostanze’’ (Siracusano). A nostro avviso la tesi del ‘‘fatto pacifico’’, come abbiamo più volte asserito, non appare accettabile. In primo luogo, dovrebbe dirsi che ogniqualvolta il giudice, nonostante la richiesta concordata di pena, applica l’art. 129 c.p.p. prosciogliendo l’imputato, disconosce l’esistenza del ‘‘fatto pacifico’’. Inoltre, appare difficile ravvisare un consenso dell’imputato alla ricostruzione accusatoria allorquando (come è indubbiamente consentito) alla richiesta di patteggiamento dell’imputato accolta dal pubblico ministero si accompagni una memoria con la quale l’imputato stesso chieda il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Siffatta ipotesi non risulta poi così peregrina ove si tenga presente che l’imputato, pur convinto della bontà della tesi giuridica difensiva diretta ad ottenere il proscioglimento ed enunciata nella memoria, sapendo che detta tesi è controversa in giurisprudenza, ha interesse a chiedere il patteggiamento per ridurre i danni derivanti dal processo nell’eventualità che la tesi sostenuta venga disconosciuta. Ma, a prescindere da detti rilievi di carattere marginale, l’impossibilità di individuare un ‘‘fatto pacifico’’ in conseguenza del consenso prestato in ordine al fatto ricostruito nel corso delle indagini preliminari, emerge dal rilievo che tale consenso non è assolutamente ravvisabile (nonostante il patteggiamento) allorquando il patteggiamento stesso avvenga (il che è possibile per chi disconosca la necessità di un qualunque accertamento di responsabilità) all’inizio delle indagini preliminari o, addirittura, in assenza di indagini preliminari e, cioè, in un momento in cui non sia dato ravvisare alcuna ricostruzione del fatto. 4. L’unico modo per superare i tre rilievi di legittimità costituzionale sopra enunciati è quello di ritenere che la sentenza di patteggiamento presuppone un accertamento di responsabilità, pur precisando che tale accertamento può essere incompleto e basato unicamente sulle indagini preliminari, le quali acquisiscono valore di prova in quanto, come si è detto, la richiesta di patteggiamento dell’imputato (o il consenso prestato alla richiesta effettuata dal pubblico ministero) integrano una rinuncia all’esercizio del diritto di difesa inteso come contraddittorio in sede di formazione della prova: rinunzia che attribuisce dignità di prova alle indagini preliminari, come emerge dalla lettera della legge, posto che l’art. 444 c.p.p. stabilisce che il giudice ‘‘ dispone con sentenza l’applicazione della pena indicata’’ ‘‘sulla base degli atti’’ ed in tanto gli atti possono essere posti a fondamento della sentenza di condanna in quanto siano valutabili come prove. Inoltre, l’art. 444 c.p.p. subordina l’emanazione della sentenza di patteggiamento al fatto che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Orbene, poiché tale norma impone l’assoluzione anche con formule di merito quali l’insussistenza del fatto o la non commissione del fatto da parte dell’imputato, è evidente come pronunzie siffatte comportino l’ammissibilità nonché la doverosità di una valutazione probatoria. Le Sezioni unite, nell’escludere che il patteggiamento presupponga un accertamento ancorché incompleto di responsabilità, non si preoccupano di chiarire in qual senso debba intendersi il riferimento all’art. 129 c.p.p. effettuato dall’art. 444 c.p.p. In altri termini, il giudice deve applicare l’art. 129 c.p.p. nonostante la pro-
— 1401 — posta concordata di patteggiamento anche quando l’innocenza risulti alla stregua delle regole di giudizio delineate nell’art. 530, secondo e terzo comma c.p.p. nonché nell’art. 531, secondo comma c.p.p. (che prevedono una equiparazione tra prova negativa, da un lato, e prova mancante, insufficiente o contraddittoria dall’altro) oppure soltanto quando vi sia la prova negativa, vale a dire la prova dell’innocenza dell’imputato? In passato la Corte di cassazione si era espressa nel secondo senso dell’alternativa (Cass., Sez. I, 19 febbraio 1990) asserendo che, nel caso di patteggiamento, al giudice è negata ‘‘la possibilità di un accertamento anche iniziale, dovendo il giudice invece limitarsi a esaminare se allo stato degli atti sia da escludersi la evidenza di prove di innocenza’’. A ben vedere, peraltro, l’art. 444, secondo comma c.p.p., nell’imporre l’obbligo di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., non lo condiziona affatto all’evidenza di prove di innocenza di cui parla la Corte di cassazione. Pertanto, nella situazione delineata dall’art. 444 c.p.p., l’art. 129 c.p.p. deve trovare applicazione anche quando la prova è carente: il che dimostra la necessità di indagini preliminari da valutarsi come prova, in virtù della richiesta di patteggiamento concordata. Infatti, in assenza di indagini preliminari o in presenza di indagini preliminari prive di rilevanza probatoria risulterebbe impossibile applicare la pena patteggiata posto che, stante l’equiparazione tra prova negativa e carenza di prova, si renderebbe obbligatoria l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. 5. A sostegno della necessità di un accertamento sia pure incompleto a base della sentenza di patteggiamento vi sono, poi, ulteriori considerazioni. Non v’è dubbio che la sentenza di patteggiamento, alla quale è indubbiamente ricollegabile il ne bis in idem, presupponga la formulazione dell’imputazione e, di conseguenza, l’esercizio dell’azione penale. Ciò significa che un patteggiamento in assenza di indagini preliminari non è neppure ipotizzabile posto che in tanto il pubblico ministero è legittimato ad esercitare l’azione penale in quanto sussistano elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento come risulta dall’art. 125 delle disposizioni di attuazione. Nessuno ha mai sostenuto né lo sostengono le Sezioni Unite che l’esercizio dell’azione penale nel caso di patteggiamento è disciplinato da diversa regolamentazione. Ma se così è non si comprende perché mai non possano valutarsi, ai fini della ravvisabilità di un accertamento sia pure incompleto di responsabilità, quegli elementi probatori idonei a sostenere l’accusa in dibattimento, senza i quali non può esercitarsi l’azione penale e, quindi, effettuarsi il patteggiamento che presuppone l’esercizio del’azione penale. Non pare, inoltre, che sia stato tenuto nella dovuta considerazione il fatto che l’art. 444 c.p.p. è stato dichiarato con la sentenza n. 313/1990 costituzionalmente illegittimo ‘‘nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione’’. Il nuovo testo dell’art. 444 c.p.p., così come risulta modificato in conseguenza della parziale declaratoria di illegittimità costituzionale, impone, pertanto, al giudice di valutare se la pena concordata sia idonea alla rieducazione del condannato e tale valutazione non può che effettuarsi sulla base dei parametri indicati nell’art. 133 c.p., dai quali si desume la gravità del reato e la capacità a delinquere. Non ha senso logico asserire che tale valutazione è demandata ad un giudice, il quale non deve effettuare alcun accertamento di responsabilità non essendo possibile valutare la congruità della pena in assenza di valutazione della responsabilità dell’imputato. Tanto più anomala appare la tesi, secondo cui la sentenza di patteggiamento non comporta mai un accertamento di responsabilità, ove si tenga presente che, dopo la modifica dell’art. 392 c.p.p. effettuata dalla l. 7 agosto 1997, n. 267, che ha eliminato le condizioni a cui si subordinava l’esame della persona sottoposta
— 1402 — alle indagini nonché l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., risulta estremamente facile chiedere ed ottenere un incidente probatorio nel corso delle indagini preliminari e appare illogico ed anomalo che di tali prove il giudice non debba tener conto per accertare la responsabilità dell’imputato. Analogo discorso vale con riferimento alle prove assunte negli incidenti probatori compiuti nell’udienza preliminare ed oggi consentiti in seguito alla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale effettuata con la sentenza n. 77/1994. Eppure questa è proprio la tesi delle Sez. un. 25 marzo 1998, le quali giungono ad asserire che non muta la natura della sentenza di patteggiamento come ‘‘espressione della funzione giurisdizionale’’ ma priva di accertamento di responsabilità allorquando la sentenza di patteggiamento venga pronunciata all’esito del dibattimento ai sensi dell’art. 448, primo comma, c.p.p. Infatti, affermano le Sezioni unite, ‘‘anche in tal caso, occorre riportarsi al momento della presentazione della richiesta ed alla situazione probatoria (lato sensu) di allora’’. Un giurista di grande autorità osserva che l’asserzione secondo cui non occorre un positivo accertamento di responsabilità, essendo sufficiente che dagli atti non risultino le premesse del proscioglimento, costituisce un tipico paralogismo posto che a dibattimento l’imputato va assolto se non sussistano i presupposti della condanna e in udienza preliminare va prosciolto per non luogo a procedere se l’accusa non sia sostenibile. Sino a quando non venga compiuto questo accertamento non risulta applicabile nessuna pena. Questo avviene anche in sede di patteggiamento non essendo sufficiente per la condanna l’accordo delle parti. L’illustre autore soggiunge: ‘‘nessuno negherà, poi, che implichi giudizi positivi sul reato la pena applicata ex art. 448, 1 a dibattimento concluso’’ (Cordero). L’autorevole tesi è, a nostro avviso, ineccepibile ma l’ottimismo che traspare dalla locuzione ‘‘nessuno negherà’’ si è rivelato infondato poiché le Sezioni unite, come si è visto, negano che la sentenza di patteggiamento emanata a conclusione del dibattimento comporti un accertamento del reato, sostenendo che il giudice deve riportarsi al momento della presentazione della richiesta ed alla situazione probatoria sussistente in questo momento, ignorando, quindi, tutte le prove emerse nel corso della istruzione dibattimentale. In tal modo il paralogismo è diventato un sofisma. Per sostenere, a tutti i costi, che il patteggiamento non comporta un giudizio positivo sull’esistenza del reato si giunge ad asserire che il giudice, il quale applica l’art. 448 c.p.p., non tiene conto delle prove emerse nel corso di una istruzione dibattimentale anche se lunga e complessa e, quindi, nel valutare la congruità della pena richiesta, il giudice deve ignorare le prove dibattimentali da cui è emersa la gravità del reato nonché la capacità a delinquere dell’imputato. Conclusione palesemente illogica posto che il giudice ha, comunque, il dovere di valutare le prove emerse in sede dibattimentale ai fini della applicazione del’art. 129 c.p.p., non essendo seriamente sostenibile che debba porsi il problema dell’ammissibilità di una declaratoria di non punibilità ex art. 129 c.p.p. unicamente in sede di valutazione della applicabilità del patteggiamento senza considerare l’istruzione dibattimentale. Il giudice, all’esito del dibattimento, in tanto prenderà in considerazione la possibilità di applicare la pena patteggiata in quanto abbia prima escluso, sulla base delle prove assunte in dibattimento, l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. Di tali prove, poi, dovrebbe dimenticarsi in sede di applicazione dell’art. 448 c.p.p. anche nella valutazione della congruità della pena. L’illogicità di siffatta soluzione appare evidente. Ci sembra, altresì, discutibile l’asserzione secondo cui il giudice che emana la sentenza di patteggiamento non deve accertare i presupposti che giustificano la concessione delle attenuanti nonché il giudizio di comparazione tra attenuanti ed aggravanti poiché tale potere di accertamento gli sarebbe precluso ‘‘essendo le attenuanti non da lui ‘concesse’ ma ‘concordate’ dalle parti’’. Vale a dire, l’indicazione delle attenuanti e del giudizio comparativo, come sopra già ricordato, ‘‘è sol-
— 1403 — tanto strumentale rispetto alla concreta determinazione della pena e tale indicazione è anch’essa il risultato di un accordo, ma non certo di un accertamento giudiziale’’. Conclusione che, tra l’altro, sembra contrastare con la lettera dell’art. 444 c.p.p. là ove impone al giudice di accertare che siano ‘‘corrette’’ l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti. Come si può valutare la correttezza dell’applicazione di una circostanza senza accertare sia pure in modo incompleto la sussistenza della circostanza stessa? Nell’ordine di idee qui criticato sarebbe corretto riconoscere l’attenuante del risarcimento del danno ancorché il danno non risulti risarcito. 6. Per capire l’esigenza sottesa alle tesi sostenute dalle Sezioni unite bisogna tener presente che, come più volte abbiamo avuto occasione di osservare, l’attuazione del patteggiamento si risolve spesso in una clamorosa violazione del principio di legalità in tema di applicazione della pena. Ciò in quanto per rendere possibile, a vantaggio dell’economia processuale, il patteggiamento, ad esempio, in un processo per una concussione estremamente grave si parte nel computo della pena dal minimo edittale in palese violazione dei parametri enunciati nell’art. 133 c.p. e per restare nel limite dei due anni si concedono attenuanti che in sede dibattimentale non sarebbero mai concesse e la cui ravvisabilità sembra esclusa dalle indagini preliminari. La tesi delle Sezioni unite avalla questa prassi, da un lato, al fine di consentire, stante la crisi dell’amministrazione della giustizia, una rapida soluzione dei processi e, dall’altro, al fine di evitare che sulla base di attenuanti immeritate si possa, poi, addirittura pretendere una declaratoria di prescrizione. Il sostenere che il patteggiamento prescinde da un accertamento giudiziale relativo alla responsabilità dell’imputo, all’esistenza delle circostanze e al giudizio di comparazione delle circostanze stesse, avalla la prassi predetta impedendo che l’imputato già tanto avvantaggiato possa trarne ulteriori immeritati vantaggi. In tal modo si riconosce, quindi, che il processo conclusosi con una sentenza di patteggiamento non accerta e non tende neppure ad accertare la verità storica. Comprensibili le ragioni che spingono a tale conclusione ma non convincenti le argomentazioni giuridiche e, comunque, insuperabili i dubbi di legittimità costituzionale insiti nella tesi criticata. GILBERTO LOZZI
— 1404 — CASSAZIONE PENALE — Sez. III — 9 luglio 1996, n. 6954 (ud. 6 giugno 1996) Pres. Corsaro — Est. Savignano Imp. Paggiu Inquinamento idrico — Scarico occasionale di gasolio — Impossibilità della previa autorizzazione — Irrilevanza — Sussistenza del reato (Legge 10 maggio 1976, n. 319, art. 21, primo comma). La norma di cui all’art. 21 primo comma della l. 10 maggio 1976, n. 319, si applica a qualsiasi scarico, anche singolo e occasionale, non inerente cioè ad una tipologia produttiva. L’impossibilità della previa autorizzazione non sottrae lo scarico occasionale all’applicazione di tale fattispecie, poiché la punibilità sussiste per il fatto in sé dello scarico effettuato al di fuori del limite normativo, costituito appunto dalla previa autorizzazione (1). (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Paggiu Antonio ricorre per Cassazione avverso la sentenza 11 novembre 1994, Pretura Circondariale di Padova — Sezione distaccata di Camposampietro, con la quale è stato condannato per la violazione dell’art. 21, primo comma della l. 319/1976 (scarico, in assenza di autorizzazione, nella canaletta consortile irrigua laterale alla via Frattina, di una quantità non determinata di gasolio per autotrazione: in Campodarsego 1 gennaio 1994) alla pena di lire 800.000 di ammenda. Denuncia, il ricorrente, violazione dell’art. 21, primo comma della l. 319/1976 e manifesta illogicità della motivazione: 1) per la dichiarazione di colpevolezza in ordine al reato, così come ascritto all’imputato, nonostante le pacifiche emergenze relative alla ‘‘occasionalità’’ dello scarico, dovuto alla rottura di un tubo di raccordo della pompa e, dunque, a caso fortuito, nonché per la ritenuta configurabilità del fatto, quale ipotesi prevista dall’art. 21, primo comma della l. 319/1976; e ciò, in contrasto con l’indirizzo dottrinario, secondo il quale tale disciplina non può essere applicata agli scarichi occasionali che sfuggono alla possibilità d’autorizzazione e sono punibili — sussistendone le condizioni — a norma degli artt. 635 e 674 c.p.; 2) per non essere stato l’imputato ammesso all’oblazione, nonostante la esplicita richiesta difensiva, prima dell’apertura del dibattimento. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il ricorso è infondato. Esaminando per primo l’argomento — avente priorità logica rispetto agli altri — concernente l’asserita estraneità del fatto in esame all’ipotesi prevista e punita dall’art. 21, primo comma della l. 319/1976, ritiene questa Corte di non doversi discostare dal suo indirizzo, sul punto consolidato (sentenze 12505/88, 13158/90, 2330/92, 3254/94), secondo il quale, in tema di trattamento sanzionatorio, la norma di cui all’art. 21, primo comma della l. 10 maggio 1976, n. 319, si applica a qualsiasi scarico, anche singolo e occasionale, non inerente, cioè, ad una tipologia produttiva, e ciò per la considerazione che anche uno scarico singolo o sporadico può provocare quegli effetti ambientali negativi, che la norma in esame punisce. Non è, del resto, la impossibilità della previa autorizzazione a sottrarre lo sca-
— 1405 — rico occasionale all’ipotesi di cui all’art. 21, primo comma della l. 319/1976, poiché la punibilità sussiste per il fatto in sé dello scarico effettuato al di fuori del limite normativo, costituito dalla previa autorizzazione. Non è esclusa — in risposta alle osservazioni del ricorrente — l’astratta configurabilità del concorso con l’ipotesi di cui all’art. 635 c.p., compatibilmente con la sussistenza dell’elemento psicologico del reato in questione, costituito dal dolo, nella specie non ravvisato dal giudice di merito; mentre la configurabilità del reato di cui all’art. 674 c.p. (getto pericoloso di cose), in sostituzione della contravvenzione in esame, contrasta, in primo luogo, con il principio di legalità, non potendosi estendere, sotto il profilo oggettivo della fattispecie, allo scarico di liquidi in acque pubbliche o private — come previsto dall’art. 1 della l. 319/1976 — l’ipotesi di chi ‘‘versa in luogo pubblico o in luogo privato... cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero... provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo’’ (art. 674 cit.), essendo diversa, nelle due ipotesi, la materialità delle condotte; e ciò, senza considerare che l’art. 21 della l. 319/1976 tutela le acque, in quanto elemento dell’ambiente naturale, mentre oggetto del reato di cui all’art. 674 c.p. è la molestia alle persone, arrecata mediante esalazioni di gas, vapori o fumi (eventualmente causate anche da reflui). Se ne evince che l’art. 21, primo comma della l. 319/1976 è la norma applicabile ogniqualvolta sia effettuato (in modo pregnante o sporadico) uno scarico senza la prescritta autorizzazione, la cui carenza non può che portare alla dichiarazione di colpevolezza, salvo che il fatto siasi verificato per forza maggiore o per caso fortuito. Ipotesi, quest’ultima, invocata dal ricorrente, che, tuttavia, nella specie non sussiste. Il caso fortuito (e la forza maggiore) sono riferibili, invero, alla eccezionalità di fattori estrinseci ed alla imprevedibilità degli stessi; laddove lo sversamento di gasolio, nel caso in esame, secondo gli accertamenti compiuti nel giudizio di merito, è ascrivibile alla condotta negligente dell’imputato, poiché la rottura del tubo di raccordo della pompa (causa accertata della perdita del liquido) è, comunque, collegabile ad una omissione colpevole dello stesso soggetto, obbligato a mantenere la pompa in condizioni di sicuro funzionamento ed a controllarne costantemente l’efficienza, non potendo il guasto c.d. improvviso di un congegno o di un meccanismo, il cui funzionamento dipende dall’attività di manutenzione, essere annoverato nella categoria di fattori inevitabili e imprevedibili. Il motivo di censura sub 2), concernente l’omessa motivazione della sentenza impugnata, in ordine alla non ammissione dell’imputato all’oblazione ex art. 162bis c.p., è da ritenersi superato dal fatto che tale motivazione non era, nella specie, dovuta, difettando la condizione prima di ammissibilità dell’istanza, costituita dal previo deposito, da parte del contravventore, della metà della somma corrispondente al massimo dell’ammenda prevista (art. 162-bis, secondo comma c.p.). P.Q.M. — Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. (Omissis).
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Una discutibile sentenza in tema di inquinamento idrico: il versamento occasionale di sostanze non di rifiuto (gasolio) non provenienti da insediamento.
1. Introduzione. — Nella parte in cui la sentenza in oggetto prende posizione a favore della punibilità del versamento di gasolio nella canaletta consortile
— 1406 — irrigua dovuto alla rottura del tubo di raccordo della pompa, ai sensi dell’art. 21, primo comma, l. n. 319/1976 — che incrimina ‘‘Chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi nelle acque indicate nell’art. 1 della presente legge, sul suolo o nel sottosuolo, senza aver richiesto la prescritta autorizzazione’’ — i giudici della Suprema Corte si avvalgono di un, per la verità piuttosto laconico, percorso argomentativo incentrato su due passaggi logici: l’applicabilità dell’art. 21, primo comma, l. n. 319/1976 a ‘‘qualsiasi scarico, anche singolo e occasionale, non inerente, cioè, ad una tipologia produttiva’’ e l’irrilevanza dell’impossibilità della previa autorizzazione ai fini della sottrazione dello scarico stesso alla fattispecie ora menzionata, ‘‘poiché la punibilità sussiste per il fatto in sé dello scarico effettuato al di fuori del limite normativo, costituito dalla previa autorizzazione’’. Tali passaggi logici e la soluzione finale cui si giunge non sono condivisibili. Nella parte che segue si illustreranno pertanto le ragioni che giustificano tale assunto, facendo presente sin d’ora che per una ritenuta migliore efficacia della critica, la trattazione, occupandosi prima di quanto preso in considerazione nella sentenza, e poi di quanto nella stessa avrebbe dovuto essere valutato, seguirà in parte un ordine che criteri di organicità dell’esposizione non avrebbero forse suggerito (1). 2. La nozione di scarico secondo la Cassazione: critica. — Con il primo dei due passaggi logici ora menzionati i giudici si allineano ad un consolidato indirizzo della stessa Suprema Corte espressamente richiamato nella sentenza, il quale fa propria una nozione ampia di scarico, in quanto svincolata tanto dal collegamento con un insediamento quanto da elementi di permanenza. Per verificare la correttezza di tale indirizzo il metodo migliore pare quello di richiamare uno schema espositivo di tipo analitico, già usato in dottrina (2), che individua il fatto di scarico intorno a cui ruota tutta la legge Merli attraverso la puntuale enucleazione dei suoi requisiti oggettivi (provenienza, durata, oggetto, recapito). È qui sufficiente, ai fini di questo primo motivo di contestazione, dare conto in breve del dibattito che si è sviluppato sugli aspetti della provenienza e della durata. Per quanto riguarda il primo si discute se la legge Merli si applichi soltanto agli scarichi derivanti da un insediamento produttivo e civile oppure anche a scarichi di altro genere. I sostenitori della prima opinione fanno per lo più leva sul ricorrente riferimento della stessa legge Merli agli scarichi provenienti da insediamenti civili e produttivi. Tale circostanza appare decisiva. Pur dando atto a coloro che propendono per il secondo punto di vista che in alcune (non secondarie) norme manca la menzione della provenienza degli scarichi da un insediamento (art. 1: ‘‘disciplina degli scarichi di qualsiasi tipo’’, art. 9: ‘‘Tutti gli scarichi debbono essere autorizzati’’, art. 21: ‘‘Chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi’’) non si vede come il concetto di scarico possa essere ragionevolmente separato da quello di insediamento, se si ha riguardo al dato secondo cui tutte le norme, che regolamentano in maniera puntuale le questioni — alla base dell’esatta determinazione del contenuto delle fattispecie penali sanzionatorie — dell’autorizzazione e dei limiti di accettabilità degli scarichi, fanno esclusivo riferimento agli scarichi da insediamenti produttivi e civili (artt. 10, 12, 13, 14, 15). L’unica eccezione, che è dato di riscontrare, concerne il regime degli scarichi nelle acque del mare, ‘‘diretti’’ o ‘‘da parte di navi ed aeromobili’’ (art. 11), i quali, stando alla lettera della legge, non necessariamente debbono provenire da insediamenti civili (1) II riferimento è, in particolare, all’analisi dei requisiti che identificano lo scarico rilevante nella legge Merli. (2) Ad es. F. e P. GIAMPIETRO, Rassegna critica di giurisprudenza sull’inquinamento delle acque e del suolo, 1985, p. 120 ss., AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, 1996, p. 48 ss.
— 1407 — e produttivi: e proprio tale mancanza di espressa menzione potrebbe confermare, a contrario, che al di là dell’ipotesi di cui all’art. 11 gli scarichi disciplinati dalla l. 319/1976 sono esclusivamente quelli provenienti da insediamenti civili e produttivi. Ciò impone dunque all’interprete di leggere in maniera restrittiva quelle disposizioni ampie prima citate, che non specificano la provenienza dello scarico da un insediamento (3). Relativamente al requisito della durata o permanenza dello scarico, l’alternativa, nella cornice della quale si distinguono le opinioni dei commentatori, è quella se lo scarico rilevante ai sensi della l. 319/1976 è solo quello caratterizzato da elementi di stabilità, permanenza (caratteristiche che possono riguardare lo scarico sia continuo, sia periodico, sia saltuario) oppure anche quello unico, isolato, occasionale, eccezionale che sia proveniente da una fonte qualificabile come insediamento produttivo o civile. Infatti potrebbe non sempre darsi la sovrapposizione tra l’elemento della permanenza e quello della provenienza dall’insediamento, nonostante che, occorre riconoscere, nella quasi totalità dei casi lo scarico qualificato dalla sua provenienza da un insediamento sarà stabile e duraturo nel tempo, anche se più o meno frequente (4). In dottrina si sostiene per lo più, a ragione, che lo scarico deve avere caratteristiche di permanenza, senza le quali — come è stato (3) Per queste stesse conclusioni, su cui si può registrare un consistente accordo in dottrina, si veda da ultimo AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 48 ss., (ma già IDEM, Smaltimento di rifiuti e legge penale, 1985, p. 163), il quale rileva, seguendo sull’art. 11 menzionato nel testo percorsi interpretativi diversi, come dal confronto con altre disposizioni legislative emerge che il termine ‘‘scarico’’ viene usato esclusivamente per indicare lo scarico da insediamento produttivo o civile, così come disciplinato dalla legge Merli: il legislatore ricorre, infatti, a denominazioni diverse quando sono in questione scarichi la cui fonte non è un insediamento produttivo o civile (ad es. nella l. 979/1982 per la difesa del mare si parla di ‘‘immissioni’’ e ‘‘sversamento’’). Per la lettura più restrittiva della nozione di ‘‘scarico’’ nella legge Merli si confronti anche CANTORE, FEBBRARO, FIORE, in Prevenzione e repressione dell’inquinamento idrico nella l. 10 maggio 1976, n. 319. Atti del convegno su: prospettive attuali della difesa degli inquinamenti, Urbino, 30 ottobre-1 novembre 1976, 1977, p. 22, BARBATI, Profili amministrativi e penali dell’inquinamento idrico, 1982, p. 122 s. e ALBAMONTE, Sistema penale ed ambiente, 1989, p. 239. Diversa è invece la posizione di PICOTTI, Versamento di rifiuti mediante autobotti: il concetto di scarico e la disciplina dei fatti concorrenti con l’inquinamento delle acque, in Giur. di merito, 1981, p. 1369 s., secondo cui ‘‘scarichi’’ sono anche quelli non provenienti da insediamento e quelli solo episodici e saltuari. Anche in giurisprudenza è dato riscontrare una duplicità di posizioni, che finisce in gran parte per sovrapporsi, per il motivo che si vedrà subito nel testo, a quella relativa alla permanenza dello scarico. Si veda F. e P. GIAMPIETRO, Rassegna critica, cit., p. 138 ss. riguardo ai casi dell’atto di inquinamento incivile ed estemporaneo del singolo e dell’impresa che trasporta e smaltisce rifiuti prodotti da terzi. Più recentemente si sono espresse per la limitazione della disciplina della legge Merli ai soli scarichi provenienti da insediamenti civili e produttivi, Cass., 21 luglio 1988, n. 8318, in Riv. pen., 1989, p. 507 e Cass., 16 marzo 1995, n. 2673, in Riv. pen., 1996, p. 366. Da ricordare inoltre, che depone a favore della soluzione accolta nel testo l’opinione emergente da alcuni orientamenti giurisprudenziali, secondo cui il reato di scarico non autorizzato è un reato proprio (nonostante l’utilizzo del termine ‘‘chiunque’’), legato cioè alla titolarità di un insediamento produttore di scarichi: ad esempio Cass., 27 giugno 1996, n. 2078, in Riv. pen. economia, 1997, n. 1-2, p. 58 s. (4) Una conferma del fatto che è in teoria concepibile, anche se di fatto molto raramente, uno scarico occasionale, episodico (non permanente), ma nello stesso tempo qualificabile come derivante da un insediamento produttivo, proviene da Cass., 15 gennaio 1996, n. 350, in Riv. pen., 1996, p. 1003: in tale pronuncia la Suprema Corte ha statuito che anche gli scarichi di un cantiere per la costruzione di una galleria (per definizione non permanenti perché destinati ad esaurirsi con il compimento dei lavori) sono scarichi da insediamento produttivo e pertanto sono soggetti ad autorizzazione. Ancora può pensarsi, secondo il suggerimento di AMENDOLA, Smaltimento di rifiuti, cit., p. 170, ad un’industria che effettua uno ‘‘scarico’’ di rifiuti c.d. ‘‘selvaggio’’ e anomalo, dove manca il requisito della continuità. Sul punto anche F. GIAMPIETRO, I requisiti oggettivi e soggettivi dello scarico nella legge ‘‘Merli’’ e lo smaltimento dei rifiuti solidi nel d.P.R. n. 915 del 1982, in Cass. Pen., 1982, p. 2081 ss. Contra, P. GIAMPIETRO, La nozione di insediamento civile e produttivo nella definizione ‘‘autentica’’ dell’art.1-quater della legge 8 ottobre 1976, n. 619, in Prevenzione e repressione dell’inquinamento idrico nella l. 10 maggio 1976, n. 319, cit., p. 121, il quale facendo leva sulla definizione di insediamento produttivo contenuta nella l. 690/1976 (‘‘uno o più edifici... ’’) ritiene che l’attività di produzione ‘‘non può essere occasionale o sporadica, e non si deve risolvere in un’unica operazione od in un’attività isolata. Il che è espresso — come è noto — dal requisito della ‘‘professionalità’’ attributo che — peraltro — il legislatore non ha espressamente menzionato
— 1408 — giustamente osservato già subito dopo l’entrata in vigore della 319 — ‘‘risulterebbe assolutamente priva di fondamento e non plausibile gran parte della regolamentazione dettata dalla legge’’ (5). Opposto sembrerebbe invece l’orientamento della giurisprudenza, dove prevalgono le pronunce che ritengono assoggettate alla legge Merli anche le immissioni eccezionali, uniche, occasionali, su quelle che invece non considerano questi ultimi fatti come scarichi rilevanti ai sensi della 319 (6). Per la determinazione di entrambi i requisiti della provenienza e della permanenza sono dunque preferibili le soluzioni risultanti da una lettura di tipo sistematico della legge Merli. Tale criterio ermeneutico, ad ogni modo, non va valorizzato solo per le ricordate esigenze di dare coerenza interna al complesso delle disposizioni normative. Esistono anche altri motivi che suggeriscono di non riporre eccessiva fiducia in operazioni interpretative condotte su dati legislativi presi separatamente dal contesto in cui si trovano: da un lato non si deve dimenticare che le disposizioni della legge Merli non sempre sono adeguatamente formulate e coordinate tra loro (7); dall’altro lato il ricorso al modello c.d. ‘‘misto’’ di tutela consistente nella combinazione di norme amministrative e penali (8) dovrebbe di per sé indurre l’interprete a non separare al momento dell’esegesi questi due ambiti che il legislatore ha inteso porre in collegamento e, più in generale, ad adottare criteri ermeneutici di tipo sistematico (9). Per tornare al fatto esaminato dalla Corte di Cassazione, non constano, sein questa sede, sia per non impegnarsi troppo, sia — più verosimilmente — perché ha inteso fornire una nozione più ampia di quella propriamente imprenditoriale’’. (5) Così si esprimevano CANTORE, FEBBRARO, FIORE, in Prevenzione e repressione dell’inquinamento idrico nella l. 10 maggio 1976, n. 319, cit., p. 21, rilevando come si devono necessariamente presupporre degli scarichi che ‘‘per tipologia e modalità di effettuazione siano non solo geograficamente localizzabili, ma anche materialmente realizzati in modo stabile e non precario, mediante opere dirette ad assolvere esigenze durevoli e comunque non occasionali’’, se si vuole applicare tutte quelle norme relative ai ‘‘compiti di rilevazione e di formazione del ‘‘catasto’’ degli scarichi, affidati alla Provincia (artt. 5 lett. a) e d) e 7)’’, alle ‘‘concrete modalità dei prelevamenti fissati per i controlli (art. 9)’’, all’obbligo per i titolari di rendere accessibili per i campionamenti i punti di scarico (art. 9), alla ‘‘indicazione puntuale degli scarichi nelle richieste di autorizzazione prescritta dall’art. 15’’, alle ‘‘norme tecniche e finanziarie che prevedono il pagamento di canoni, diritti e ‘‘parziali compensi’’ calcolati in base ‘‘all’area ed alle superfici scolanti’’ (artt. 16, 20)’’. In senso sostanzialmente analogo CICALA, La tutela dell’ambiente, 1976, p. 142, AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 50, F. GIAMPIETRO, I requisiti oggettivi e soggettivi, cit., p. 2082 ss. Quest’ultimo, peraltro, pur ritenendo che la regolamentazione amministrativa tipica della Merli non ricomprenda lo scarico da insediamento, che non abbia le caratteristiche di permanenza, giunge alla conclusione che comunque ad esso sono applicabili gli artt. 21 ss. (6) Si veda per un primo quadro sulla giurisprudenza AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 50 s. Molto numerose sono poi altre sentenze che si pronunciano nel primo senso: Cass., 10 dicembre 1987, n. 12685, in Riv. pen., 1988, p. 468, Cass., 16 aprile 1988, n. 4727, in Riv. pen., 1988, p. 1176, Cass., 21 luglio 1988, n. 8318, in Riv. pen., 1989, p. 507, Cass., 15 dicembre 1988, n. 12505, in Riv. pen., 1989, p. 975, Cass., 4 ottobre 1990, n. 13158, in Riv. pen., 1991, p. 654, Cass., 1 marzo 1991, n. 2702, in Riv. pen., 1992, p. 67, Cass., 13 gennaio 1992, n. 202, in Riv. pen., 1992, p. 458, Cass., 3 marzo 1992, n. 2330, in Riv. pen., 1992, p. 1083, Cass., 23 marzo 1994, n. 3524, in Riv. pen., 1995, p. 212, Cass., 3 giugno 1994, n. 6594 in Riv. pen., 1995, p. 499, Cass., 31 maggio 1995, n. 6382, in Riv. pen., 1996, p. 501, Cass., 22 settembre 1995, n. 9829, in Riv. pen., 1996, p. 629, Cass., 17 gennaio 1996, n. 479, in Riv. pen., 1996, p. 887, Cass., 18 aprile 1997, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, n. 3, p. 1004. Per la lettura più restrittiva si confronti anche Pret. Ancona, 28 dicembre 1977, in Giust. pen., 1979, II, c. 491, Pret. Salò, 5 luglio 1980, n. 119, in Riv. pen., 1980, p. 752. (7) Mette in guardia l’interprete, alla luce delle vicende parlamentari che hanno interessato la legge Merli, contro il rischio di sopravvalutarne le disposizioni singolarmente considerate al fine di risolvere importanti questioni di fondo F. GIAMPIETRO, I requisiti oggettivi e soggettivi, cit., p. 2080. Sulla disorganicità della l. 319, e in genere, della normativa a tutela delle acque, si confronti VERGINE, Inquinamento delle acque, in Dig. disc. pen., VII, 1993, p. 102 s. e i riferimenti ivi contenuti. (8) PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in Beni e tecniche della tutela penale, a cura del CRS, 1987, p. 37 ss. (9) Sulla interazione a livello interpretativo delle norme amministrative con quelle penali si veda pure CATENACCI, ‘‘Beni’’ e ‘‘funzioni’’ oggetto di tutela nella legge ‘‘Merli’’ sull’inquinamento delle acque,
— 1409 — condo gli accertamenti compiuti dal giudice di merito, né la sussistenza di un insediamento civile o produttivo da cui il gasolio, come ‘‘scarico’’, sia provenuto, né le caratteristiche della permanenza. Ciò è già sufficiente per gettare forti perplessità sulla qualificazione operata dalla Suprema Corte dell’episodio di versamento di gasolio per rottura del tubo di raccordo come fatto corrispondente al tipo di illecito di cui all’art. 21, primo comma della legge Merli. 3. Il ruolo della mancanza dell’autorizzazione nella fattispecie dell’art. 21, primo comma. — Anche il secondo argomento della Cassazione è tutt’altro che persuasivo. Secondo la Corte Suprema l’impossibilità della previa autorizzazione allo scarico occasionale non è sufficiente a sottrarre il fatto all’ambito applicativo dell’art. 21, primo comma, l. 319/76, perché ‘‘la punibilità sussiste per il fatto in sé dello scarico effettuato al di fuori del limite normativo, costituito dalla previa autorizzazione’’. A critica di tale approssimativa affermazione va anzitutto ricordato che nella legge Merli non esiste una fattispecie incriminatrice che consiste semplicemente nel realizzare degli scarichi senza autorizzazione (10), e più in particolare, che l’art. 21, primo comma richiamato nella stessa sentenza incrimina ‘‘Chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi... senza aver richiesto la prescritta autorizzazione’’. Tale requisito della mancanza della richiesta dell’autorizzazione costituisce secondo le opinioni preferibili una frazione della condotta tipica del reato — reato c.d. ‘‘misto di azione e di omissione’’ (11). E poiché, data la evidente vicinanza tra la componente omissiva della condotta di un reato misto e il reato omissivo proprio, non si vede il motivo per cui i due tipi di illecito non possano essere dogmaticamente considerati in maniera analoga (12), la (frettolosa) conclusione della Cassazione di punibilità dell’episodio in questione avrebbe dovuto per lo meno essere preceduta da alcune valutazioni, che senz’altro avrebbero posto il problema sotto una luce diversa e più appropriata. Nel momento infatti in cui viene evocata la problematica dei reati omissivi si impone immediatamente l’esigenza di compiere delle verifiche sia sulla esatta individuazione dell’obbligo di agire, essendo l’omissione penalmente rilevante non un semplice non fare ma un non fare qualcosa di determinato e imposto dalla legge, sia sulla sussistenza delle in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1243 s. e F. GIAMPIETRO, I requisiti oggettivi e soggettivi, cit, p. 2081. (10) AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 181: ‘‘la legge non prevede mai come reato lo scarico senza autorizzazione, ma lo scarico senza aver richiesto l’autorizzazione, lo scarico dopo il diniego o dopo la revoca dell’autorizzazione, lo scarico dopo aver richiesto ma non ancora ottenuto l’autorizzazione...’’. (11) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, I, 1989, p. 131 ss., IDEM, La natura giuridica della ‘‘mancanza dell’autorizzazione’’ nella fattispecie penale: riflessi in tema di errore, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 372 s., 380 ss. Questo autore inoltre generalizza la qualificazione operata sull’art. 21 della legge Merli della mancata richiesta dell’autorizzazione come parte omissiva della condotta a tutti i casi in cui la legge indica, quale elemento del fatto, la mera mancanza dell’autorizzazione (non cioè la mancanza della richiesta o dell’ottenimento dell’autorizzazione), e giustifica tale estensione allegando scelte di sinteticità da parte del legislatore nella formulazione normativa. Per una completa analisi delle ragioni che portano a considerare la mancanza dell’autorizzazione come elemento (negativo o positivo costruito negativamente) del fatto tipico — piuttosto che come norma in bianco, parzialmente in bianco, causa di giustificazione — si veda MAZZACUVA, Le autorizzazioni amministrative e la loro rilevanza in sede penale, in questa Rivista, 1976, p. 775 ss. (12) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, I, cit., p. 136 ss. e IDEM, La natura giuridica della ‘‘mancanza dell’autorizzazione’’ nella fattispecie penale: riflessi in tema di errore, cit., p. 374, 382 con specifico riferimento al trattamento dell’errore sull’obbligo di fornirsi dell’autorizzazione. Si sottolinea, in particolare, che la sottocategoria dei reati c.d. misti che presenta i tratti di maggiore omogeneità con i reati omissivi propri è proprio quella cui appartiene la fattispecie dell’art. 21, primo comma, della legge Merli, dove il contenuto di disvalore dell’illecito risiede proprio nella componente omissiva della condotta.
— 1410 — condizioni di realizzabilità del comando (possibilità di agire del soggetto obbligato) (13). Per quel che riguarda il primo aspetto va qui ricordato ciò che si è già detto in precedenza: la fattispecie dell’art. 21 della legge Merli deve essere letta in stretto collegamento con le disposizioni amministrative, pure contenute nella medesima legge, che disciplinano l’autorizzazione allo scarico. Ciò significa che nonostante la generale formulazione dell’art. 9, ottavo comma, che si direbbe essere la norma immediatamente richiamata dalla locuzione ‘‘prescritta autorizzazione’’, un obbligo di richiedere l’autorizzazione sussiste solo per quegli scarichi cui sono riferibili le menzionate norme amministrative (14). Si ripropone così la questione della corrispondenza al tipo di scarico del versamento di gasolio secondo le modalità emergenti dalla sentenza. Limitandomi, relativamente ai requisiti della provenienza e della durata, menzionati nella decisione in commento, a rimandare a quanto detto sopra — e ciò sarebbe già sufficiente per concludere nel senso dell’insussistenza di un obbligo di procurarsi l’autorizzazione — non si può qui non sottolineare un ulteriore profilo, completamente trascurato dai giudici, che pure conferma l’opinione che si va sostenendo, e che anzi sembra costituirne il punto di appoggio più evidente. Si tratta dell’oggetto dello scarico. I principali dubbi interpretativi, che dividono i commentatori, riguardano — a parte lo stato (cioè se sono ‘‘scaricabili’’ solamente le sostanze liquide, idrosolubili, convogliabili tramite condotta oppure anche i materiali solidi) (15) — la circostanza se scarico è il versamento che ha per oggetto solo delle sostanze di scarto, oppure quello che comporta l’immissione di mere sostanze inquinanti, quale che sia la loro natura, nei corpi ricettori indicati dall’art. 1 legge Merli. La prima soluzione appare quella preferibile da un punto di vista sia lessicale sia sistematico. Il termine ‘‘scarico’’ si caratterizza tanto nell’accezione comune, quanto secondo il complessivo impianto della legge Merli, per indicare univocamente l’atto del liberarsi, del disfarsi di una sostanza non dotata di una propria utilità e che dunque, come ‘‘rifiuto", viene eliminata (16). Non vedo proprio, alla luce di ciò, come in tale concetto si possa comprendere anche il versamento di un (13) ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 1995, pre-art. 39/9S ss., FIANDACAMUSCO, Diritto penale. Parte generale, 1995, p. 530 s. (14) La portata dell’obbligo e del comando sui quali è fondato il reato di scarico senza autorizzazione è identica: l’apertura o l’effettuazione di scarichi rileva per gli stessi tipi di versamenti per i quali rileva la mancata richiesta dell’autorizzazione. (15) Per una sintesi sulla questione si veda AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 53 ss. (16) Lo ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana definisce ‘‘scarico’’ l’‘‘atto del gettare via rifiuti, immondizie e sim.’’. Nella legge Merli, benché manchi un’espressa affermazione secondo cui gli scarichi hanno per oggetto delle sostanze di rifiuto in senso proprio — che ha ovviamente alimentato contrasti interpretativi (F. e P. GIAMPIETRO, Rassegna critica, cit., p. 186 ss., MUCCIARELLI, Rifiuti (reati relativi), in Dig. disc. pen., XII, 1997, p. 282, AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 55) — esistono tuttavia alcuni indici normativi confermanti l’opinione che qui si va sostenendo: negli artt. 2 lett. e) nn. 2, 3, 4 e 4 lett. e) si parla di ‘‘smaltimento’’ e questo termine è usato dal legislatore sempre in connessione con i rifiuti; nell’art. 16, contenente le norme finanziarie applicabili a tutti i tipi di scarichi, è presente l’espressione ‘‘acque di rifiuto’’ e nell’art. 17 quella ‘‘acque reflue scaricate’’, la quale rispetto alla precedente è sinonima, indicando quelle acque che, dopo essere state utilizzate in attività di vario genere, vengono restituite generalmente inquinate. Esistono poi sul punto illuminanti sentenze della Suprema Corte le quali espressamente, nel definire lo scarico, affermano come esso ha per oggetto dei rifiuti: Cass., 22 settembre 1995, n. 9829, in Riv. pen., 1996, p. 629, Cass., 3 marzo 1992, n. 2330, in Riv. pen., 1992, p. 1083, Cass., 13 gennaio 1992, n. 202, in Riv. pen., 1992, p. 458, Cass., 1 marzo 1991, n. 2702, in Riv. pen., 1992, p. 67, Cass., 16 aprile 1988, n. 4727, in Riv. pen., 1988, p. 1176. Nella giurisprudenza di merito si veda ad es. Pret. Ancona, 28 dicembre 1977, cit., c. 492. Contrario a questo orientamento è AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 55.
— 1411 — materiale che si ha tutto l’interesse a non perdere o disperdere, perché, lungi dall’essere l’inutile residuo di un’attività produttiva, o comunque di consumo in senso ampio, ha piuttosto le caratteristiche di un bene in grado di recare numerosi vantaggi sul piano economico e sociale (17) (18). (17) Pienamente condivisibile è, dunque, la conclusione cui, per un caso quasi identico, è giunta la stessa Cassazione, la quale ha peraltro dedotto come lo scarico ha per oggetto sostanze di scarto dal fatto che esso proviene, secondo la legge, da insediamenti produttivi e civili (Cass., 16 marzo 1995, n. 2673, in Riv. pen., 1996, p. 366): ‘‘Esula dal campo di applicazione della l. 10 maggio 1976, n. 319, in tema di tutela delle acque dall’inquinamento, il fatto della consegna di una merce allo stato liquido (nella specie operazione di carico di gasolio preordinata al suo utilizzo) che — a causa degli incauti comportamenti di chi effettui la consegna e di chi la consegna riceva — per l’incapienza della cisterna in cui venga scaricata, tracimi e penetri in profondità nel suolo. Infatti, sono rilevanti ai fini delle sanzioni penali soltanto gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi e civili, il cui oggetto postula la pregressa produzione o utilizzazione delle sostanze, delle quali coloro che operano nell’insediamento si disfano siccome esse non più utili, sicché ogni dilatazione della nozione di scarichi al di là della provenienza da insediamento sarebbe impedita dal principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, che nella legge penale diventa di stretta legalità’’. (18) La menzione del ‘‘rifiuto’’ come oggetto dello scarico abbisogna di alcuni chiarimenti. Anzitutto occorrerebbe, pur non essendo questa la sede opportuna per verificare i rapporti tra la legge Merli e il d.P.R. 915/1982, riprendere qui brevemente le discussioni svolte per sgomberare il campo da eventuali dubbi sulla sovrapposizione delle due normative, tenendo presente però, sin d’ora, che il decreto 915 è stato abrogato. Come noto il d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 aveva per oggetto l’attività di smaltimento dei rifiuti, intendendosi per rifiuto ‘‘qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono’’ (art. 2), mentre la l. 319/1976 concerne ‘‘la disciplina degli scarichi di qualsiasi tipo, pubblici e privati, diretti e indiretti, in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, sia pubbliche che private, nonché in fognature, sul suolo e nel sottosuolo’’ (art. 1, lett. a). Sulla scorta di tali definizioni e del contenuto dei due corpi normativi parte della dottrina era giunta alla conclusione che il criterio discretivo del campo di applicazione tra le due leggi era dato (pur con le difficoltà applicative che ad esso erano talvolta connesse) dalla natura liquida (o idrosolubile) o solida del rifiuto: e tale criterio non poteva considerarsi intaccato, secondo tali opinioni, dalla presenza di disposizioni che, pur espressamente regolando i rapporti tra le due normative, (art. 2, quarto comma, n. 5, art. 2, sesto comma, art. 9 u.c. d.P.R. 915/1982) non facevano altro che rappresentare delle eccezioni al criterio stesso. Si veda ad esempio F. GIAMPIETRO, I requisiti oggettivi e soggettivi, cit., p. 2081, 2084 s., CICALA, Rifiuti (smaltimento dei), in Nov. Dig. It., Appendice, VI, 1986, p. 788, MUCCIARELLI, Rifiuti (reati relativi), cit., p. 284. Tale orientamento era da condividere se inteso nel senso di indicare le ipotesi cui erano applicate con maggiore ricorrenza le due leggi, tendenzialmente da discutere se ad esso, invece, si attribuiva carattere normativo. In primo luogo, infatti, il d.P.R. 915 non limitava in alcuna maniera il proprio campo di applicazione ai rifiuti solidi, diversamente dalla legge Merli, dalla cui struttura il carattere liquido, idrosolubile o convogliabile tramite condotta del rifiuto è abbastanza inequivocabilmente deducibile. Ulteriormente, e questo è forse l’aspetto che riveste carattere decisivo, le due normative non potevano essere semplicisticamente distinte sulla base del carattere del rifiuto, facendo supporre che esse, per la restante disciplina, potevano considerarsi omogenee, perché è proprio questa (residua) omogeneità che mancava: la l. 319 regolamenta soltanto la fase dello scarico, dell’immissione finale di rifiuti (liquidi), il d.P.R. 915, invece, concerneva lo smaltimento (che era concetto articolato) dei rifiuti (di ogni genere), sì che i rifiuti liquidi erano assoggettati, per tutto quanto attiene ai momenti diversi dallo scarico, alle disposizioni del d.P.R. 915, nei limiti in cui tali rifiuti liquidi erano, prima dell’immissione finale nei noti corpi ricettori, sottoposti ad operazioni rientranti in quelle di smaltimento, come espressamente indicate nell’art. 1 del d.P.R. 915/1982. Per questo inquadramento si vedano in giurisprudenza le chiare osservazioni contenute nella sentenza Cass., 27 giugno 1996, n. 2078, cit., p. 54 s., che a sua volta rinvia ad una precedente sentenza della stessa Suprema Corte. In dottrina si confronti ad esempio AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 291 ss., il quale però, come già detto in precedenza, non considera l’ambito della legge Merli limitato ai soli rifiuti. Ad ogni modo, nonostante gli indicati rapporti tra le due normative, ammesso che si convenga sulla ricostruzione degli stessi, non credo che l’individuazione dell’oggetto degli scarichi in sostanze di scarto o di rifiuto implichi la trasposizione, nel contesto della legge Merli, di tutte le problematiche discussioni interpretative insorte intorno alla esatta determinazione del concetto di rifiuto (si veda per una sintesi MUCCIARELLI, Rifiuti (reati relativi), cit., p. 267 ss.). Poiché la legge Merli ha una struttura e finalità diverse dalla l. 915, e in particolare regolamenta soltanto la fase finale dell’immissione delle sostanze inquinanti provenienti da insediamenti nei corpi ricettori, è da ritenere che il ‘‘rifiuto’’ come oggetto dello scarico vada inteso in maniera autonoma rispetto alla 915, e in particolare s’identifichi semplicemente con le sostanze risultanti dallo svolgimento di un’attività di produzione o di consumo, senza riguardo alla circostanza che esse siano ancora suscettibili presso lo stesso produttore o presso terzi di un’ulteriore utilizza-
— 1412 — 3.1. L’eccessiva dilatazione del precetto dell’art. 21, primo comma, legge Merli risultante dall’impostazione della Cassazione. — A quanto detto mi si consenta di aggiungere, sempre avendo presente la problematica dell’estensione dell’obbligo di chiedere l’autorizzazione, che la tesi della Suprema Corte non è condivisibile anche perché porta a conseguenze difficilmente accettabili derivanti da un’estensione sproporzionata del precetto dell’art. 21, primo comma. Per avere un’idea di queste conseguenze pare utile avvalersi dell’ausilio di alcuni esempi. Si pensi al camionista che, trasportando con il proprio automezzo cisterna del carburante per rifornire le stazioni di servizio, dovrebbe chiedere l’autorizzazione per il possibile versamento del contenuto della cisterna stessa a causa di un incidente stradale dovuto a sue manovre imprudenti; al costruttore edile che pure dovrebbe essere autorizzato per un eventuale versamento di vernice da una consistente partita di bidoni spostata all’interno del grosso cantiere con l’ausilio della gru meccanica e precipitata rovinosamente sul terreno a causa di superficiali operazioni di fissaggio dei bidoni stessi; oppure si pensi ancora ai tanti episodi pure appartenenti alla vita di tutti i giorni, dove la perdita di sostanze inquinanti può essere anche di modesta entità: il contadino il quale, mentre sta spruzzando il pesticida per i parassiti delle piante del suo campo, perde tutto il contenuto della cisternetta rimorchiata con il trattore per un’improvvisa falla, che si è aperta, e direi anche, il fornitore di un esercizio commerciale il quale, scaricando senza le dovute precauzioni un certo quantitativo di detersivo liquido o di prodotti chimici liquidi, lo fa riversare nel tombino di fronte al negozio. Si potrebbe osservare, nel tentativo di opporsi all’applicabilità di sanzioni penali con riguardo almeno agli esempi del secondo tipo sopra addotti che essi, benché siano stati fatti (forzatamente) rientrare nel tipo descritto dall’art. 21, primo comma della legge Merli, potrebbero essere sottratti alle conseguenze sanzionatorie ivi previste grazie al richiamo del principio di necessaria offensività del reato. Secondo talune opinioni dottrinali (19) infatti tale postulato — che esprime l’istanza di punire solo i fatti (tipici o solo apparentemente tipici) (20) che siano realmente offensivi del bene giuridico tutelato — è applicabile anche alle fattispezione economica, essendo al proposito assorbente il dato che trattasi di sostanze normalmente pregiudizievoli per l’ambiente e di cui il titolare ha mostrato di volersi disfare: non vedrei, pertanto, particolari ostacoli a considerare scarichi anche le acque di raffreddamento, le acque meteoriche o le acque di lavaggio, purché provengano da insediamenti; contra AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 56. Occorre ricordare, come detto per inciso all’inizio della presente nota, che il d.P.R. 915/1982 è stato abrogato dal c.d. decreto Ronchi - d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, modificato dal decreto Ronchi bis, d.lgs. 8 novembre 1997, n. 389 — che è stato emanato per dare attuazione alle direttive comunitarie sui rifiuti, sui rifiuti pericolosi, sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio. Esso disciplina ‘‘la gestione dei rifiuti...’’ (art. 1, primo comma) — di cui lo ‘‘smaltimento’’ diviene una fase (art. 6, primo comma, lett. d) — e prevede espressamente la propria applicabilità, a differenza che il decreto 915, anche ai rifiuti allo stato liquido (art. 8, primo comma, lett. e). Poiché si può riscontrare tra il decreto Ronchi e la legge Merli quella stessa autonomia di struttura e di finalità che si è affermata tra quest’ultima e il decreto 915, la problematica della determinazione della sopra indicata nozione di ‘‘rifiuto’’ come oggetto dello scarico va risolta, similmente a quanto appena detto, in maniera indipendente dalla norma definitoria legale del decreto n. 22 (art. 6, primo comma, lett. a), anche se questa, si deve dire, indica un concetto molto analogo a quello che è sembrato qui preferibile per la legge Merli: sul punto si veda DE CESARIS, La definizione di ‘‘rifiuto’’ nel decreto legislativo n. 22/1997, in Riv. giur. ambiente, 1997, nn. 3-4, p. 387 ss. (19) Si vedano le posizioni in parte analoghe di GIUNTA, Il diritto penale dell’ambiente in ltalia: tutela di beni o tutela di funzioni?, in Riv it. dir. proc. pen., 1997, p. 1116 s. (che si richiama ai presupposti empirico-criminologici su cui si fondano le scelte del legislatore di tipizzazione dei reati di inquinamento idrico) e di CATENACCI, ‘‘Beni’’ e ‘‘funzioni’’ oggetto di tutela nella legge ‘‘Merli’’ sull’inquinamento delle acque, cit., p. 1253 ss. (il quale valorizza in chiave di interpretazione teleologica le note offensive ricavabili dalle norme disciplinanti l’obbligo di farsi autorizzare, che pure ‘‘forniscono la base empirico-criminologica’’ da cui si ricava il giudizio circa la pericolosità degli scarichi). (20) ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 49/19 ss.
— 1413 — cie di pericolo astratto cui si è fatto ampio ricorso nella legge Merli (21). Prescindendo dalla condivisibilità secondo un punto di vista dogmatico di tale modo di vedere (22), pare qui sufficiente limitarsi all’osservazione che, rebus sic stantibus, le probabilità che i giudici facciano applicazione di questi suggerimenti appaiono decisamente basse. È difficile immaginare come quella giurisprudenza in tema di (21) Sull’inevitabilità del ricorso al modello del reato di pericolo astratto in tema di ambiente per la sproporzione tra la capacità lesiva dei singoli comportamenti e il bene tutelato (il quale dunque, salvo i rarissimi casi di disastri ecologici, può essere posto in pericolo solo dal cumularsi degli effetti di più condotte inquinanti) MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1995, p. 206 s., PEDRAZZI, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, in Ind. pen., 1991, p. 619, PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 37 s., FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in Beni e tecniche della tutela penale, cit., p. 63, FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in Materiali per una riforma del sistema penale, 1984, p. 38, 61, GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 710, 714, PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, 1990, p. 305 ss. Quest’ultimo peraltro contesta l’utilizzo della qualificazione di ‘‘fattispecie di pericolo astratto’’ per definire i reati contro l’ambiente consistenti nel superamento di limiti di accettabilità (come l’art. 21, terzo comma della legge Merli), perché la tecnica legislativa utilizzata non ha la ‘‘funzione di permettere l’individuazione di fatti normalmente pericolosi’’, ma quella di superare ‘‘problemi specifici attinenti alla natura del nesso causale nei fenomeni di massa’’, e ritiene pertanto preferibile parlare di ‘‘microlesioni di massa’’. (22) Pur dovendo essere la questione generale dell’applicabilità alle fattispecie di pericolo presunto del criterio ermeneutico fondato sulla necessaria offensività dei fatti penalmente rilevanti preliminare ad ogni altra valutazione delle posizioni qui richiamate, la natura di questo lavoro non mi consente di dare a tale problema lo spazio che meriterebbe. Ciò, peraltro, con la convinzione che tale omissione non pregiudica quello che in questo contesto interessa mettere in luce, cioè che le proposte menzionate non sembrano godere di numerose possibilità di affermazione al livello giurisprudenziale. Mi limito pertanto solamente ad alcuni rapidi riferimenti. Alla oramai ampiamente riconosciuta legittimità dei reati di pericolo presunto (ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., pre-art. 39/114 ss.) rettamente intesi (MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 200 ss.) non sembra corrispondere nella dottrina un orientamento altrettanto uniforme per quel che concerne il trattamento delle forme ‘‘bagatellari’’ di questa categoria di illeciti. In altre parole, in presenza di una disposizione costruita dal legislatore secondo gli schemi del pericolo astratto, e non ricostruibile ermeneuticamente dall’interprete in modo da limitarne il campo applicativo ai fatti concretamente pericolosi (casi tipici della tutela degli interessi collettivi, minacciati solo dal cumularsi di una molteplicità di condotte, e dell’insufficienza delle conoscenze scientifiche necessarie per dimostrare la sussistenza di un collegamento causale tra la singola condotta e la concreta messa in pericolo del bene), sarebbe possibile fondare la non punibilità di fatti concreti formalmente rientranti nella norma astratta asserendo l’assoluta mancanza di offensività (rectius pericolosità) per il bene giuridico protetto? Per quanto concerne la specifica problematica dei reati ambientali si veda nella dottrina italiana per l’opinione positiva MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 1217 e per quella negativa PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, 1985, p. 418 s. Un’analoga diversità di opinioni sembra sussistere anche circa i reati di pericolo astratto in generale, con riguardo ai quali la questione viene presa in considerazione anche in un’ottica de lege ferenda: da un lato FIORE, Diritto penale. Parte generale, I, 1993, p. 187, dall’altro MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 211, richiamando il principio di oggettiva esiguità usato anche dalla Corte costituzionale e ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., pre-art. 39/117, il quale non esclude che il legislatore renda ammissibile la prova liberatoria da parte dell’imputato dell’assoluta assenza di pericolo nel caso concreto. Più articolata la posizione di MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 1992, p. 233 s.: o i reati di pericolo astratto vengono convertiti in reati di pericolo concreto, oppure viene ammessa la possibilità di prova contraria da parte dell’imputato, oppure vengono introdotte ‘‘clausole negative’’ del tipo ‘‘senza che, al momento della realizzazione del fatto, sia da escludere una lesione del bene giuridico’’; nel caso dei reati in tema di ambiente sembra invece escludersi il ricorso a tali rimedi. Anche presso la dottrina tedesca il quadro delle posizioni è articolato: ne rendo conto qui solo in parte, rinviando per ulteriori riferimenti a ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil, I, 1997, p. 355 ss. CRAMER in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 1997, vor §§ 306/3a distingue a seconda che il bene tutelato è un bene individuale, nel qual caso l’assoluta inidoneità della condotta a metterlo in pericolo esclude la punibilità, oppure un bene collettivo, eventualità in cui la punibilità della condotta inoffensiva rimane impregiudicata, fatta eccezione peraltro per la c.d. Minimaklausel del § 326, sesto comma StGB, che comunque andrebbe interpretata come un objektiver Strafausschließungsgrund (sul punto ancora CRAMER in SCHÖNKE-SCHRÖDER, cit., vor §§ 324/10, e LENCKNER in SCHÖNKE-SSCRÖDER, cit., § 326/17 ss.). Su tale distinzione dei beni è fondata anche la posizione di SCHRÖDER, Die Gefährdungsdelikte im Strafrecht, in ZStW, 1969, p. 17, secondo cui la prova della assoluta non pericolosità nel caso concreto deve essere ammessa sempre quando le fattispecie sono poste a tutela di beni individuali; analogamente TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität. Allgemeiner Teil, 1976, p. 86 ri-
— 1414 — inquinamento — che, come la decisione stessa qui in commento dimostra, tende sovente a prese di posizione caratterizzate da una non sempre legittima difesa oltranzista dell’ambiente (23) — possa, senza operare nei fatti una sorta di ‘‘dietro front’’ rispetto alle premesse da cui ha preso le mosse, approdare alla non punibilità per il tramite dell’inoffensività del fatto: tale esito in casi analoghi a quelli sopra accennati significherebbe, seguendo i detti punti di vista, negare in sede di valutazione del carattere offensivo del fatto la sussistenza delle note identificanti il tipo, che si sono evidentemente date per realizzate (24). È in altre parole altatiene, a proposito dei beni sopraindividuali nel diritto penale dell’economia, che non essendo i valori protetti suscettibili di una lesione diretta con concreti atti di aggressione, viene meno la possibilità di provare e di ammettere la prova della non pericolosità nel caso concreto. SCHÜNEMANN, Moderne Tendenzen in der Dogmatik der Fahrlässigkeits-und Gefährdungsdelikte, in JA, 1975, p. 797 s. opera una suddivisione dei reati di pericolo astratto in tre categorie: delitti con un ‘‘vergeistigtes Zwischenrechtsgut’’ come i §§ 153 ss., 331 StGB, dove violazioni di minima entità della norma devono essere escluse dalla punibilità sulla base di una interpretazione restrittiva della fattispecie; delitti consistenti in ‘‘Massenhandlungen’’ (esempio tipico la circolazione stradale), dove essendo lo scopo del legislatore favorire l’automaticità di determinati comportamenti, ogni fatto formalmente tipico deve essere punito; delitti, non appartenenti né all’una, né all’altra delle due indicate categorie, dove la punibilità delle singole condotte conformi alla fattispecie dipende dalla negligenza di tipo soggettivo (‘‘subjektive Sorgfaltwidrigkeit’’). (23) PATRONO, Inquinamento idrico da insediamenti produttivi e tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, p. 1039 ss. Sulle resistenze della magistratura a rinunciare al ruolo di protagonista nella lotta agli inquinamenti, che la ‘‘filosofia politico-amministrativa’’ della legge Merli ha notevolmente ridimensionato si confronti FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, cit., p. 35, 44 s. (24) La conclusione delle posizioni precedentemente menzionate — considerare gli episodi di immissione isolata di materiale inquinante, eventualmente anche con un basso contenuto di lesività, come fatti atipici in quanto non offensivi — presenta a mio avviso l’inconveniente di non mettere adeguatamente in luce la diversità tra le due valutazioni essenziali all’accertamento della tipicità di un fatto, le quali devono rimanere distinte. L’interprete posto di fronte alla questione se un determinato accadimento concreto costituisce un fatto penalmente rilevante deve verificare la sussistenza nel fatto storico sia degli elementi che fanno parte della definizione del singolo tipo di illecito, sia di un reale contenuto di offensività: ciò significa che, anche se ambedue queste verifiche non possono che portare ad asserire o a negare la tipicità, esse si pongono su piani logici distinti che pare opportuno tenere ben separati, stante il carattere pregiudiziale della prima per la seconda. È superfluo valutare secondo i canoni dell’offensività (per dire che non è tipico) un episodio concreto che è già non tipico, perché presenta elementi non preveduti dalla fattispecie astratta di reato. In questo senso mi sembrano interpretabili le operazioni ermeneutiche compiute dalla dottrina — per tutti MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 200 ss. — volte a ricostruire secondo il principio di offensività quelle norme incriminatrici che sembrano non essere con lo stesso perfettamente coerenti. Mi limito a riportare due soli esempi: l’esclusione della conformità al tipo della falsa testimonianza resa su circostanze ininfluenti in quanto inidonea a creare il pericolo di fuorviare la decisione del giudice, non può non presupporre che l’affermazione del falso, la negazione del vero, o il silenzio su fatti conosciuti provengano da una persona qualificabile come testimone che sta rendendo dichiarazioni di fronte all’autorità giudiziaria. Ancora, perché l’omissione di denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale quando l’autorità giudiziaria era già a conoscenza della notitia criminis non venga ritenuta tipica ai sensi dell’art. 361 c.p., occorre che l’omissione provenga da un soggetto qualificabile come pubblico ufficiale secondo l’art. 357 c.p., il quale abbia avuto notizia di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni ecc... Lettera della legge, dunque, come ‘‘limite esterno imposto all’opera dell’interprete’’ (MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 211). Se si conviene, oltre che su ciò che è stato appena detto, anche sul dato che la nozione del tipo di illecito non si ricava sempre solamente dalla norma incriminatrice — ovviamente nei casi in cui quest’ultima è formulata in maniera tale da fare riferimento ad altre norme in funzione di integrazione o specificazione del contenuto lesivo del tipo — ma pure dalle disposizioni extrapenali (integratrici) richiamate, (ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 47/22) diventa inevitabile concludere che il tipo di cui all’art. 21, primo comma della legge Merli è definito anche dalle norme che disciplinano il rilascio dell’autorizzazione: in particolare l’elemento che deve essere determinato e che concorre ad esprimere il disvalore penale è la mancata richiesta della prescritta autorizzazione. Pertanto lo scarico isolato non autorizzato prima ancora che essere atipico perché inoffensivo, è atipico perché non possiede gli elementi del tipo astrattamente richiesti dalla legge: come già detto, infatti, le norme amministrative che disciplinano l’obbligo di fornirsi dell’autorizzazione sono applicabili solamente a scarichi provenienti da insediamenti civili o produttivi con normale carattere di permanenza. A conferma di quanto appena sostenuto, e cioè del dato che le norme di tipo amministrativo indi-
— 1415 — mente inverosimile che, affrontato e risolto in una determinata maniera il problema della conformità al tipo nella ‘‘sede’’ opportuna, ci si ‘‘ritorni’’, per così dire, e lo si decida in senso completamente opposto, per di più nella ‘‘sede’’ non adeguata. Sulla scorta di quanto detto, tornando agli esempi sopra menzionati, si può in sintesi tentare di mettere a fuoco la complessiva portata sul piano pratico dell’orientamento della Suprema Corte espresso nella sentenza in epigrafe. Se ogni volta che si verificasse una qualsiasi immissione di materiale inquinante nei luoghi indicati dall’art. 1 lett. a) della legge Merli indipendentemente dal collegamento con un insediamento produttivo o civile, l’autore di tale inquinamento, il quale non avesse preventivamente richiesto l’autorizzazione, dovesse sempre rispondere ai sensi della l. 319/1976, si esigerebbe dai consociati che essi facciano notevole sforzo della loro capacità di immaginazione per prevedere tutte le ipotesi astrattamente possibili di inquinamento dovuto a sostanze dannose per l’ambiente, di cui si trovano nella disponibilità, ma che non rappresentano affatto prodotti di scarto da eliminare, e anzi si ha tutto l’interesse a non perdere. A tale sforzo di previsione si accompagnerebbe il rischio molto alto, per non dire la quasi sicurezza, di dover sopportare le conseguenze di previsioni errate o mancate, che equivalgono a omissione della richiesta dell’autorizzazione: si pensi, per rifarci all’esempio dell’autobotte, all’eventualità che l’incidente con conseguente perdita di gasolio si verifichi nella strada X invece che nella strada Y. Inoltre, ammesso e non concesso che la P.A. rilasciasse autorizzazioni per fatti come quelli riportati negli esempi, nuovamente altamente probabile, o quasi certa, sarebbe l’eventualità che il fatto si verifichi con modalità diverse da quelle previste nel provvedimento di autorizzazione, con conseguente applicabilità della sanzione amministrativa di cui all’art. 22, legge Merli. Non si può infine non notare, se quanto detto è vero, che l’autorizzazione eventualmente rilasciata dalla P.A. per gli episodi in parola, finirebbe per essere — dato il riconoscimento implicito nella sentenza in epigrafe della non punibilità di scarichi non autorizzati, anche occasionali dovuti a caso fortuito o a forza maggiore — nient’altro che un’autorizzazione ad essere... negligenti (per non dire, nella peggiore delle ipotesi, male intenzionati)! (25) cate dalla legge Merli definiscono il tipo di illecito punito all’art. 21, pare decisivo ricordare come la dottrina è concorde nel considerare l’errore sull’obbligo di fornirsi dell’autorizzazione un errore sul precetto (per tutti PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, 1974, p. 218). Per concludere allora sul punto. Il richiamo — da parte delle posizioni qui prese in considerazione — della cornice empirico-criminologica, su cui si fondano le scelte di tipizzazione del legislatore, per escludere (grazie all’impiego di criteri ermeneutici di tipo teleologico) la tipicità dei fatti non offensivi risulta non condivisibile in quanto la non corrispondenza al tipo degli stessi fatti discende già dalla corretta determinazione del tipo di illecito. Che poi alla definizione di questo la detta cornice empirico-criminologica possa anche concorrere — nella misura in cui sia stata formulata dal legislatore in norme integratici del precetto — nulla toglie al dato che essa, come tale, non possa portare ad escludere dal tipo con l’ausilio dell’interpretazione teleologica fatti concreti che tipici non sono per il motivo, logicamente prioritario, che in essi non ricorrono elementi essenziali della fattispecie astratta. (25) Al fine di evitare che dall’utilizzo di una tale espressione possano nascere dei fraintendimenti, dato che in ogni autorizzazione emessa sulla base dell’art. 21, primo comma della legge Merli è implicito un permesso di porre in essere consapevolmente azioni pericolose per l’ambiente (fare defluire gli scarichi dell’insediamento nei corpi idrici ricettori), è necessario precisare, ove non fosse già chiaro, che nell’ipotesi fatta, a differenza che in quelle rientranti nell’art. 21, I’autorizzazione ad inquinare non avrebbe di mira la salvaguardia di altri interessi contrapposti meritevoli di tutela — sul paradigma di tutela basato sulla rimessione all’amministrazione del compito di operare il contemperamento nel caso concreto degli interessi in conflitto si veda ampiamente PADOVANI, Tutela di beni e tutela di funzioni nella scelta fra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, p. 674 s., IDEM, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 118 ss. — ma consisterebbe in un’autorizzazione ad inquinare tout court, appunto con colpa o dolo. In altre parole, poiché ad esempio il trasporto del gasolio non implica necessariamente il versamento del gasolio stesso — a differenza dell’esercizio di attività produttive che non potrebbero essere svolte se non si consentisse di effettuare gli scarichi delle sostanze di scarto — vale a dire tale versamento può ben essere evitato senza con questo com-
— 1416 — Tali immaginabili conseguenze ci riportano, concludendo così sul punto della non conformità al tipo dell’art. 21, primo comma dell’episodio in questione, a quell’aspetto dei reati omissivi prima (nel punto numero 3) solo accennato della possibilità di agire del soggetto obbligato. Tale aspetto torna qui particolarmente utile quale conferma indiretta che nell’interpretazione della Cassazione il precetto ha subito un ampliamento eccessivo. Assumendo che sussista un obbligo di chiedere l’autorizzazione anche per fatti analoghi a quello qui in discussione e a quelli degli esempi, la valutazione della situazione sopra descritta, in cui si verrebbe a trovare il singolo che decidesse di adempiere all’obbligo di procurarsi l’autorizzazione, dovrebbe portare alla negazione di una impossibilità fisicoreale, ma all’affermazione di un’estrema difficoltà ad agire. Il che suggerirebbe ancora l’esito di non ravvisare nel caso concreto gli estremi di un’omissione penalmente rilevante (26). Questo, si badi, piuttosto che apparire come una fortuita coincidenza — ben possono comandi legali normalmente realizzabili essere in casi concreti ineseguibili — assume i connotati di una prova del fatto che l’estensione del precetto operata dalla giurisprudenza va troppo oltre, dando vita ad un obbligo (per la parte appunto estesa) normalmente non eseguibile, in aperta contraddizione con il principio ad impossibilia nemo tenetur. Tutto considerato, dunque, alla giurisprudenza si pone la seguente alternativa: o continuare a sostenere la punibilità di fatti non tipici in violazione tanto del principio di legalità che dell’ora ricordato postulato cui pure l’ordinamento deve attenersi, oppure — escluso che sia coerente seguire la strada dell’affermazione della tipicità e della negazione della possibilità di agire — come dovrebbe essere, riconoscere subito che si ha a che fare con fatti concreti non conformi al tipo. 4. L’eventuale ricorribilità ad altre disposizioni di legge: esclusione. — Data l’erroneità dell’applicazione all’episodio in questione dell’art. 21, primo comma della legge Merli, si dovrebbe, prima di concludere per la penale irrilevanza dell’episodio stesso, verificare se sia praticabile il ricorso ad altre fattispecie incriminatrici. In caso affermativo le invocate esigenze di tutela, che i giudici, animati da pur ben comprensibili intenti di proteggere i beni ambientali, si preoccupano di non lasciare scoperte (27), potrebbero essere soddisfatte applicando altre previsioni normative, cosicché — come la Suprema Corte ha non molto tempo addietro riconosciuto — non sussisterebbe più il bisogno di indebite estensioni della legge Merli (28). Le norme del codice penale forse più di altre richiamate come disposizioni di promettere il migliore compimento dell’attività in corso, concedere un’autorizzazione al versamento significherebbe tollerare o addirittura favorire un peggioramento delle qualità dell’ambiente senza alcuna compensazione nella facilitazione o miglioramento del trasporto. In questo senso allora, si può sinteticamente affermare che il contenuto dell’autorizzazione si esaurirebbe nel ‘‘consenso’’ ad agire colposamente o addirittura, anche se meno probabile, a sfruttare la situazione per agire dolosamente, proprio perché, oltre a ciò, l’atto amministrativo non opererebbe (e non potrebbe comunque operare) alcun contemperamento tra interessi contrapposti. (26) CADOPPI, Il reato omissivo proprio, II, cit., p. 817 ss., STREE in SCHÖNKE-SCHRÖDER, cit., vor §§ 13/142. (27) Così si legge ad esempio nella sentenza in commento: ‘‘la norma di cui all’art. 21, primo comma della l. 10 maggio 1976, n. 319 si applica a qualsiasi scarico e ciò per la considerazione che anche uno scarico singolo o sporadico può provocare quegli effetti ambientali negativi, che la norma in esame punisce’’. (28) Cass., 27 giugno 1996, n. 2078, cit., p. 56: ‘‘Si vuol significare, in conclusione, che quella ‘‘monolitica’’ giurisprudenza, anche di questa Corte di legittimità, volta a dilatare la nozione di ‘‘scarico’’, sia con riferimento ai contenuti, che alle modalità di rilascio, oltreché in relazione alle sue caratteristiche e provenienza..., sollecitata dalla più che fondata motivazione (pratica) di arginare fenomeni di inquinamento diffuso (proprio perché non controllato, per l’assenza di interventi autorizzatori della p.a. o di previsioni specifiche disciplinanti singole ‘‘fasi di vita’’ dello ‘‘scarico’’), non ha più ragione di essere per so-
— 1417 — ‘‘completamento’’ della disciplina della legge Merli — nel senso che esse ora forniscono la base legislativa per sanzionare quei fatti di immissioni inquinanti non ricompresi nel raggio applicativo della menzionata legge e anteriormente al 1976 sono state utilizzate dalla giurisprudenza, per far fronte ai fenomeni pericolosi per l’ambiente non specificamente previsti come reati (29) — sono gli artt. 635 e 674 c.p., richiamati anche nella sentenza in epigrafe. E di essi correttamente i giudici della Suprema Corte hanno escluso l’applicabilità, in ragione, nel primo caso, della mancanza dell’elemento soggettivo (il dolo, poiché nel fatto in questione sono stati ravvisati secondo gli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito solo gli estremi della colpa) e, nel secondo caso, dell’insussistenza di un’attitudine molesta alle persone in seguito al versamento, la quale è della fattispecie di ‘‘getto pericoloso di cose’’ un elemento costitutivo. Sullo stesso piano dell’art. 635 c.p. si pone l’inapplicabilità dell’art. 639 c.p., che è previsto dalla legge come delitto nella sola forma dolosa. Per quanto concerne — prescindendo dalla questione della loro vigenza dopo l’entrata in vigore della Merli (30) — le norme del t.u. delle leggi sulla pesca, r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604 (in particolare artt. 6 e 33, 9 e 36), a parte il riferimento agli stabilimenti industriali per la seconda coppia di norme, la loro applicabilità all’episodio qui in considerazione è impedita dal dato che in quest’ultimo (essendo coinvolta una canaletta consortile irrigua) manca una contaminazione delle acque intese come habitat dell’ittiofauna, che sono l’oggetto di tutela della legge (31). Anche i decreti legislativi del 27 gennaio 1992, nn. 132 e 133 (32), concernenti rispettivamente la protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose e gli scarichi industriali di sostanze pericolose nelle acque, non sembrano offrire la base normativa idonea a sanzionare fatti come quello oggetto della sentenza in commento. Prescindendo dalla natura delle sostanze che vengono immesse nell’ambiente e che devono corrispondere a quelle menzionate negli allegati alle leggi, sono estranee all’episodio in questione tanto le fattispecie incriminatrici contenute nel primo decreto (art. 18, secondo comma in relazione all’art. 6 e all’art. 7, secondo comma) — le quali puniscono ‘‘qualsiasi scarico diretto nelle acque sotterranee’’ (dove per scarico diretto ai sensi del decreto si deve intendere ‘‘l’immissione nelle acque sotterranee di sostanze degli elenchi I e/o II dell’allegato senza percolazione nel suolo o nel sottosuolo’’) e ‘‘ogni scarico sul suolo di acque reflue che contengono le sostanze dell’elenco I dell’allegato’’ — quanto quelle del secondo, il quale ultimo andrebbe applicato solamente agli scarichi derivanti da insediamenti, rectius stabilimenti, industriali (33). pravvenute cause... storiche. Come dire, non si ‘‘giustifica’’ più nel momento in cui nuove fonti hano occupato i vuoti a suo tempo colmati, in via ermeneutica, dalla Merli’’. (29) BRICOLA, Aspetti penalistici degli inquinamenti, in Riv. dir. agr., 1973, p. 592, 595 s., AGNOLI, Successione di leggi penali e concorso di altri reati con le fattispecie di scarichi e d’inquinamento previste dalla l. 10 maggio 1976, n. 319 (legge Merli), in Giur. di merito, 1978, p. 450 ss. (30) Per alcuni cenni sulla problematica AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 287 ss. (31) Si veda, per una globale analisi dell’applicabilità del t.u. delle leggi sulla pesca ai fatti di inquinamento ambientale BRICOLA, Aspetti penalistici degli inquinamenti, cit., p. 582 ss. (32) Per una (non positiva) complessiva valutazione dei due decreti menzionati si veda VERGINE, Inquinamento delle acque, cit., p. 107 s. e AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 302 ss. (33) A favore di una limitazione dell’ambito applicativo del decreto 133/1992 ai soli scarichi industriali depone, oltre all’indicazione contenuta nel titolo della legge, il fatto che, come nella legge Merli, il momento amministrativo dell’autorizzazione, espressamente collegato agli impianti industriali (artt. 5 ss.), è centrale. Gli unici dubbi che possono sorgere riguardano l’art. 12, sanzionato dall’art. 18, quinto comma: essendo il divieto contenuto nella prima delle due disposizioni svincolato dal meccanismo dell’autorizzazione e dalla portata molto ampia (‘‘È vietato riversare gli scarichi contenenti sostanze pericolose di cui all’elenco I dell’allegato A nelle acque sotterranee, sul suolo, nel sottosuolo, ivi comprese le unità
— 1418 — Le conclusioni non cambiano anche se si ha riguardo ad un altro decreto legislativo (34) emanato in attuazione di una direttiva CEE sulla qualità delle acque dolci, che richiedono protezione o miglioramento per essere idonee alla vita di pesci. Benché tale decreto contenga una disposizione piuttosto ampia, in grado di sanzionare tanto le immissioni inquinanti provenienti da sostanze non propriamente riconducibili alla categoria dei rifiuti, quanto quelle non caratterizzate da elementi di continuità (35), tale fattispecie non può comunque essere applicata al ben noto episodio di cui si è occupata la Cassazione. L’ostacolo principale risiede, analogamente a quanto detto circa il t.u. delle leggi sulla pesca, nel fatto che la finalità della legge è la protezione delle acque dolci in cui ‘‘vivono o possono vivere’’ pesci, senza considerare, poi, che sono penalmente tutelate solo quelle acque che sono state designate e classificate dalle regioni ai sensi dell’art. 4 del decreto. Altra norma considerata come strettamente complementare all’art. 21 della legge Merli era quella risultante dal combinato disposto degli artt. 9 e 24 d.P.R. 915/1982. Il precetto, contenuto nell’art. 9, primo e terzo comma, vietava l’abbandono, lo scarico o il deposito incontrollato dei rifiuti in aree pubbliche e private soggette ad uso pubblico e lo scarico di rifiuti nelle acque pubbliche e private. Il fatto che il terzo comma prevedeva un’espressa clausola di riserva a favore della legge Merli aveva portato certa dottrina alla conclusione — da condividere — che la disposizione da ultimo citata costituiva la base normativa per punire quegli scarichi che, per il loro carattere episodico ed estemporaneo e comunque per il mancato collegamento con l’esercizio di un’attività durevole che desse luogo alla produzione di reflui, non rientravano nella l. 319 (36). Con questa interpretazione, oltre ad aversi la conferma del fatto che gli scarichi disciplinati dalla legge Merli sono solamente quelli provenienti con carattere di permanenza da insediamenti, si offriva alla giurisprudenza lo strumento per porre fine, senza rinunciare alle sentite esigenze di protezione dell’ambiente, all’impropria prassi di applicare le norme della l. 319 a quegli scarichi, che, ai sensi di questa stessa, tali non sono. In ogni caso, per tornare al caso in questione, queste due disposizioni non avrebbero potuto trovare applicazione, perché l’art. 9 parlava di scarico di rifiuti, e, come già visto, il gasolio non può essere considerato tale. Detto questo si deve però ricordare (37) che il d.P.R. 915/1982 è oggi abrogato. Il decreto 5 febbraio 1997, n. 22 contiene tuttavia delle disposizioni molto simili a quelle sopra ricordate: l’art. 14, primo e secondo comma sanzionato — questa volta solo con una sanzione amministrativa pecuniaria — dall’art. 50, primo comma. Nel precetto contenuto nell’art. 14 è scomparso il termine ‘‘scarico’’ e si parla di ‘‘immissione’’ nelle acque, ma tale variazione non è di tale rilevanza da impedire l’estensione delle considerazioni ora svolte a queste nuove disposizioni. Inoltre, rimanendo l’ambito applicativo delle norme limitato ai ‘‘rifiuti di qualsiasi genere’’, le conclusioni di non conformità al tipo del fatto concreto vanno confermate. Sulla scorta di questa rassegna si può dunque costatare come il versamento di geologiche profonde’’) vi è motivo di sospettare che esso interessi anche gli scarichi non industriali. In ogni caso, tuttavia, il caso concreto giudicato in questa sentenza rimane estraneo all’ambito del divieto: prescindendo dalla questione già affrontata che difficilmente il gasolio come tale può considerarsi ‘‘scarico’’ in senso proprio, la norma non contempla l’ipotesi che lo scarico confluisca in acque superficiali, quali sono indubbiamente quelle di una canaletta irrigua. (34) D.lgs. 25 gennaio 1992, n. 130. (35) Art. 14 — Chiunque cagiona il peggioramento delle caratteristiche di qualità delle acque dolci superficiali designate o classificate è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno e con l’ammenda da lire due milioni a lire venti milioni. (36) MUCCIARELLI, Rifiuti (reati relativi), cit., p. 282 s., AMENDOLA, La tutela penale dell’inquinamento idrico, cit., p. 291 ss. (37) Si confronti la parte finale della nota 18.
— 1419 — gasolio descritto nella decisione in commento non può essere ricondotto nemmeno ad altre norme incriminatrici: il che deve portare l’interprete a concludere che il fatto, de lege lata, non è punibile (38). 5. Brevi osservazioni de lege ferenda: l’alternativa tra la tutela penale e quella amministrativa. — Altra e diversa questione è quella se episodi di questo tipo siano tali da legittimare, su di un piano politico-criminale, l’intervento di una misura lato sensu punitiva, criminale o meno. La problematica delle sanzioni in tema di ambiente non appare semplice. Essa risente in particolare delle questioni tra loro non del tutto autonome relative al bene giuridico protetto e al modello di tutela, le quali non possono essere prese in considerazione in questa sede (39). Di conseguenza in questa parte conclusiva non si può e non si vuole andare oltre l’enucleazione di modesti spunti di riflessione. Come si è avuto modo di vedere, l’‘‘armamentario’’ a disposizione della giurisprudenza per reprimere fenomeni di inquinamento idrico è ampio, e pochi sembrano gli spazi non coperti. Solo per una serie di coincidenze il nostro caso si sottrae alla gamma delle disposizioni sanzionatorie repressive, amministrative o penali che siano: si ha gasolio, e non sostanze di rifiuto, si ha colpa, e non dolo, si ha un versamento occasionale, e non permanente, si ha solo un peggioramento della qualità delle acque, e non anche conseguenze negative per l’uomo o per l’ittiofauna ecc. Tale ‘‘vuoto’’ di sanzione rappresenta un’omissione inopportuna del legislatore oppure da vedere con favore? L’alternativa va risolta, già di primo acchito, nel primo senso per la presenza di un elemento decisivo: il fatto concreto è in sé inquinante, in quanto comporta l’immissione nell’ambiente naturale di sostanze che alterano, peggiorandolo, il suo preesistente stato. Ferma rimanendo dunque l’inadeguatezza di non collegare ad avvenimenti del genere delle conseguenze sanzionatorie punitive, il problema principale si sposta sul piano della scelta dello strumento repressivo preferibile (40). Se si considerano le due circostanze che un fatto del tipo di quello oggetto della nostra sentenza è un fatto non solo effettivamente inquinante (a seconda dei casi di maggiore o minore entità), ma anche insuscettibile, come si è visto, di essere previamente sottoposto ad un controllo di tipo amministrativo tramite il meccanismo delle autorizzazioni, si rivelerebbe indicata la sanzione penale legata ad un precetto costruito, senza l’intermediazione delle norme amministrative, intorno a condotte offensive dell’ambiente (41). Sussistono tuttavia altri due dati che sembrano mettere in dubbio l’adeguatezza della conclusione appena indicata con riferimento sia al principio di propor(38) Le uniche conseguenze giuridiche si producono dunque sul piano civilistico del risarcimento del danno: l’art. 18 della l. n. 349/1986 ha previsto una particolare ipotesi di risarcibilità del danno ambientale a favore dello Stato, la quale però non preclude, ma si affianca alla possibilità per i singoli di agire nelle forme ordinarie (Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di PERLINGERI, 1991, art. 2043, numero 34, p. 1799). (39) Oltre a richiamare sui menzionati argomenti FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, cit., p. 35 ss., mi limito a rinviare ai recenti lavori di GIUNTA, Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?, cit., p. 1109 ss. e CATENACCI, ‘‘Beni’’ e ‘‘funzioni’’ oggetto di tutela nella legge ‘‘Merli’’ sull’inquinamento delle acque, cit., p. 1219 ss. e alle indicazioni bibliografiche ivi contenute. (40) L’opportunità di prevedere una sanzione punitiva, penale o amministrativa, emergerebbe anche avendo riguardo alla responsabilità civile per danno ambientale prevista nella l. 349/1986, la quale presuppone un ‘‘fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge’’. Su questo collegamento tra la responsabilità civile verso lo Stato e il momento repressivo PEDRAZZI, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, cit., p. 618. (41) Sulla piena legittimazione dell’intervento penale contro fatti caratterizzati da un’immediata pericolosità per i beni ambientali si confronti ad esempio FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela del-
— 1420 — zione sia al principio di sussidiarietà nella scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa secondo le indicazioni contenute nella circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 19 dicembre 1983 (42). In primo luogo va detto che il deterioramento delle componenti ambientali si realizza nell’ambito di attività diverse da quelle che secondo la comune esperienza danno origine per antonomasia a fenomeni di inquinamento. Trasportare del gasolio su strada o farlo passare in condutture, spostare del materiale in un cantiere, scaricare della merce da un furgone, non sono secondo l’id quod plerumque accidit azioni immediatamente pericolose per l’ambiente — come riversare in corsi d’acqua scarichi derivanti da insediamenti produttivi o civili — anche se non si può escludere in assoluto che esse possano diventarlo con il concorso di particolari circostanze. Ciò depone, insieme alla considerazione che si tratta di episodi isolati, non caratterizzati dalla permanenza tipica dei versamenti derivanti da insediamenti, a favore di una normale minore gravità del fatto complessivamente considerato rispetto al tipo di illecito sanzionato nell’art. 21, primo comma della legge Merli (43). In secondo luogo, con riguardo alla sussidiarietà — che peraltro viene in questione solo sul presupposto che sia rispettato il criterio della proporzione — il deterioramento del bene ambiente avviene a causa di sostanze, sì inquinanti, ma non di scarto, la cui perdita, come si è visto, costituisce di per sé un evento indesiderabile per il suo possessore, prescindendo del tutto sia dagli effetti negativi sulle componenti naturali sia da ciò di cui egli può essere giuridicamente chiamato a rispondere. Tale circostanza, come si può ben comprendere, sollecita automaticamente il possessore ad adottare le migliori cautele volte ad evitare che dette sostanze si disperdano: in questo contesto, allora, la presenza di una minaccia penale non varrebbe probabilmente a garantire sul piano preventivo un’efficacia maggiore di una sanzione amministrativa (44), e anzi, si potrebbe forse dire, in alcuni casi concreti, di una mancanza di sanzione tout court. Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, all’eventualità della corrispondenza delle qualità di autore del fatto inquinante e persona (per esempio il proprietario) direttamente interessata alla conservazione della sostanza, la quale ultima per ipotesi possiede un consistente valore economico (45). Al di là di una tale situazione invece, riconoscendo l’ambiente, cit., p. 57; BAJNO, La tutela dell’ambiente nel diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 360. Si avrebbe dunque l’indicazione per una disciplina penalistica ‘‘quasi pura’’: l’eventuale presenza di parametri commisurativi indicati dalla P.A. per valutare l’attitudine aggressiva della condotta non dovrebbe alterare il quadro, che rimane in buona misura eterogeneo rispetto al classico modello misto, istituzionale, di governo di determinate attività incentrato sull’atto autorizzativo. Infatti secondo PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, cit., p. 47, il riferimento a standards di accettabilità implica comunque un bilanciamento di interessi, tuttavia ‘‘il rapporto con i profili ‘materiali’ degli interessi in gioco è più immediato, la tutela penale meno condizionata’’. (42) Il testo della circolare è pubblicato in La legislazione penale, 1984, p. 281 ss. Per dei commenti alla stessa si confronti PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, in Ind. pen., 1986, p. 46 ss., PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, in questa Rivista, 1984, p. 953 ss. (43) Un’indiretta conferma dell’opinione manifestata nel testo può essere derivata dalla disciplina degli scarichi isolati contenuta prima negli artt. 9 e 24, d.P.R. 915/1982 e ora negli artt. 14 e 50, d.lgs. 22/1997, di cui si è fatta supra menzione. La mancanza del collegamento con un insediamento ha suggerito al legislatore sia nel 1982 (anche se parzialmente), sia nel 1997 di fare ricorso alla sanzione amministrativa pecuniaria. (44) Il principio di sussidiarietà impone di optare per la sanzione amministrativa, in ragione della sua minore invasività nella sfera del singolo, quando quest’ultima si riveli altrettanto efficace o addirittura più efficace della sanzione penale. (45) È bene sul punto precisare che se nella maggioranza dei casi l’interesse diretto alla conservazione di una sostanza pericolosa, eventualmente potenziato dal non trascurabile valore della sostanza stessa, porta a ritenere che i parametri della migliore diligenza vengano rispettati, e dunque che la minac-
— 1421 — che l’autore adotti sotto l’impulso della sanzione cautele superiori a quelle che adotterebbe in ogni caso per conservare le sostanze, sembra più probabile che tale impiego di maggiore diligenza abbia luogo in presenza di una punizione di tipo amministrativo essenzialmente per la previsione del meccanismo della responsabilità solidale previsto dall’art. 6 della l. n. 689/1981 (46). Per esemplificare, il camionista, il manovratore della gru, lo scaricatore del furgone potrebbero anche non essere interessati in prima persona a conservare con l’ausilio di tutte le migliori cautele possibili i materiali che trasportano, utilizzano o maneggiano: il fatto però che delle loro negligenze possa essere chiamato a rispondere il loro datore di lavoro o di incarico dovrebbe indurre da un lato le persone sopra indicate ad utilizzare la massima attenzione in modo da evitare eventuali conseguenze negative — anzitutto ma non solo l’eventuale esercizio del diritto di regresso — provenienti dalla persona solidalmente responsabile, sicuramente tutt’altro che entusiasta di questo coinvolgimento, e dall’altro lato quest’ultima ad esercitare una vigilanza più severa sul rispetto dei parametri di diligenza richiesti dalle singole situazioni. 6. Conclusioni. — Non rimane infine che sottolineare con la necessaria chiarezza, che l’atteggiamento della giurisprudenza di ampliare ermeneuticamente i confini della tutela penale dell’ambiente non è condivisibile — alla luce della presente analisi sulla sentenza in epigrafe — per lo meno nella parte in cui porta i giudici ad applicare le norme incriminatrici a fatti concreti ad esse estranei (47): ciò è quanto si è cercato di mettere in luce prendendo in considerazione i punti della nozione di scarico e del ruolo della mancanza dell’autorizzazione nella fattispecie dell’art. 21, primo comma. Nella successiva fase dell’indagine, dopo aver costatato la non punibilità secondo l’attuale ordinamento positivo di avvenimenti del tipo di quello giudicato con la presente decisione, sul presupposto che il rimedio a possibili vuoti di tutela può venire esclusivamente dal legislatore è sembrato che un eventuale intervento di quest’ultimo sia più adeguato, sulla base dei principi di proporzione e di sussidiarietà, ove sia indirizzato verso strumenti repressivi di tipo amministrativo piuttosto che penale. GABRIELE MAZZINI Dottorando di ricerca presso l’Università di Pavia cia di una sanzione punitiva non sia necessaria, ciò non significa certo che essa, in questa situazione, non possa mai essere efficace: sono sempre immaginabili ipotesi (più probabilmente di colpa lieve piuttosto che di colpa grave) nelle quali la propria stessa utilità non stimoli nell’autore del fatto l’attenzione necessaria, la quale può dunque essere raggiunta sotto la pressione esterna della sanzione. Sulla base di ciò la presenza della minaccia di una punizione conserva allora una propria funzionalità: si potrebbe quasi dire che essa rappresenta una sorta di ‘‘presidio ultimo’’ per la protezione dell’ambiente, cui non si deve necessariamente giungere, e il quale, anche se ad esso non si ricorre, sta a testimoniare come il bene ambiente sia meritevole di protezione in sé, indipendentemente da eventuali interessi privati che pure possono portare a perseguire i medesimi obiettivi di tutela. Per quanto concerne la natura della sanzione, se in questo caso non può farsi riferimento al meccanismo, richiamato subito dopo nel testo, della responsabilità solidale, essendo qui per ipotesi il fatto commesso dalla persona direttamente interessata alla non perdita della sostanza, il ricorso alla sanzione di tipo amministrativo è lo stesso preferibile, sembrando il pericolo di subire un’ulteriore perdita economica un sufficiente motivo di dissuasione. Non in ultimo, poi, non andrebbe trascurato l’aspetto, sottolineato nella Circolare del 19 dicembre 1983 al punto 1.2, secondo cui l’utilizzazione dei parametri in essa indicati non può prescindere da una considerazione sistematica volta ad evitare trattamenti differenziati per illeciti omogenei dello stesso contesto normativo. (46) Nella valutazione comparativa dell’efficacia dissuasiva della sanzione penale o di quella amministrativa va tenuta infatti presente tutta la disciplina sostanziale e processuale delle stesse: DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 619 ss., PADOVANI, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, cit., p. 129, PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, cit., p. 52 s. (47) Sulla pluralità delle forme di manifestazione di tale fenomeno di ‘‘supplenza’’ del giudice, di cui la decisione esaminata costituisce un esempio rappresentativo, si confronti PATRONO, Inquinamento idrico da insediamenti produttivi e tutela penale dell’ambiente, cit., 1039 ss., 1045.
— 1422 — c) Giudizi di Merito
PRETURA CIRCONDARIALE DI ROMA — ud. 3 aprile 1997 (dep. 9 aprile 1997) Est. Di Lorenzo — Imp. De Vivo ed alt. Dolo - Nozione - Necessaria sussistenza della volontà dell’evento - Rifiuto di cure Obbligo del medico di intervenire coattivamente - Divieto di trattamenti sanitari obbligatori extra legem - Omicidio mediante omissione - Configurabilità - Esclusione (Cost. art. 32; c.p. art. 40 ult. co.; c.p. art. 575; c.p. art. 589). Posto che, come si ricava dal chiaro disposto dell’art. 43 c.p., il dolo non è soltanto previsione, ma anche volontà dell’evento, non può integrare gli estremi della fattispecie di cui all’art. 575 c.p. il comportamento di colui il quale, pur essendo certo del nesso eziologico tra la propria condotta e l’evento morte, abbia però dato dimostrazione di non desiderare tale evento, facendo quanto possibile per impedirne la verificazione. Ai sensi dell’art. 32 Cost., in caso di rifiuto, da parte del paziente, di un trattamento sanitario necessario per la propria sopravvivenza che non sia qualificato come obbligatorio da un’espressa norma di legge, il medico non è titolare di alcun obbligo giuridico d’intervenire coattivamente per impedire l’evento morte, non potendo perciò rispondere, in caso di decesso del proprio assistito, di omicidio mediante omissione ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, ult. co., c.p. e 589, 1o comma c.p. (1). (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Con decreto di citazione emesso il 21 giugno 1993 il Procuratore della Repubblica presso la Pretura circondariale di Roma traeva a giudizio De Vivo Salvatore, Pilia Giampaolo e Dauri Mario dinanzi al Pretore di Roma per rispondere del delitto precisato in epigrafe, ciascuno nella qualità ivi precisata. Nei preliminari dell’odierno dibattimento, svoltosi alla presenza degli imputati, ammessa la costituzione di parte civile, il P.M., svolta la sua relazione, eccepiva in via pregiudiziale l’incompetenza per materia del Pretore potendosi ravvisare nei fatti così come accertati, a suo parere, il più grave delitto di cui all’art. 575 c.p.. Il Procuratore della Repubblica, in particolare, argomentava che l’evento morte del De Luca Umberto, alla luce di quanto era risultato dalla C.T. espletata ex art. 360 c.p.p., era stato puntualmente previsto dai sanitari che lo avevano avuto in cura — oggi imputati — quale conseguenza della mancata trasfusione di sangue, rifiutata dal paziente perché appartenente alla fede religiosa dei Testimoni di Geova. Pertanto il profilo soggettivo della condotta omissiva contestata doveva essere qualificato come volontà dolosa con conseguente prospettazione dell’ipotesi delittuosa di omicidio volontario a carico degli imputati. Senonché il Pretore, sentite le altre parti e ritenuto che la valutazione dell’eccezione di incompetenza prospettata dal P.M. comportasse la necessità di conside-
— 1423 — rare anche il merito della vicenda, alla luce degli elementi di giudizio già acquisiti, invitava ex art. 129 c.p.p. le parti a concludere anche sotto questo profilo e, quindi, decideva come da dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE. — La questione di competenza per materia. Le argomentazioni svolte dal P.M. circa l’esatta configurazione giuridica dei fati attinenti al decesso del De Luca sono risultate certamente acute ed in larga parte condivisibili. Infatti, dalla lettura della cartella clinica ed, in particolare, delle corrette valutazioni medico-legali contenute nella relazione del C.T. nominato in via d’urgenza dal P.M., si ricava con assoluta certezza sia che le lesioni subite dal De Luca a seguito del sinistro stradale in cui egli era rimasto coinvolto non erano state così gravi da poterne cagionare la morte sia che l’intervento chirurgico immediatamente praticato a cura degli odierni imputati aveva avuto esito positivo sì da scongiurare con sostanziale certezza un possibile esito letale. Per cui è indubbio che la causa della morte sia stata la forte anemizzazione dovuta all’emorragia cagionata dalle lesioni interne riscontrate anche in sede autoptica alla quale non era stato possibile sopperire con le necessarie trasfusioni di sangue per l’esplicito rifiuto del paziente di sottoporsi a tale terapia a causa della sua fede religiosa. D’altra parte è pure certa che la conseguenza letale dovuta all’omessa terapia emotrasfusionale non poteva di certo sfuggire ai sanitari che avevano in cura il De Luca, stante la loro specifica competenza medico-chirurgica, la peculiare specializzazione in anestesia ed i dati analitici più volte acquisiti dai quali risultava un progressivo aggravamento dei valori dell’emoglobina e dell’ematocrito sino ad essere incompatibili con la sopravvivenza del paziente. Senonché, quanto sopra esposto e specificatamente valorizzato dal P.M. per sostenere la volontarietà dell’evento morte, difetta sotto il profilo logico-giuridico della mancata distinzione tra previsione dell’evento e volontarietà dell’evento essendo, invece, del tutto evidente che solo nel caso in cui si possa anche solo astrattamente sostenere la volontarietà dell’evento previsto potrebbe configurarsi il dolo richiesto per la sussistenza della gravissima ipotesi criminosa di cui all’art. 575 c.p.. Tale modalità di valutazione dell’elemento soggettivo del delitto si ricava dalla chiara lettera della norma di cui all’art. 43, primo comma, ultima parte c.p. laddove è esplicitamente detto che il dolo sussiste quando l’evento... ‘‘è dall’agente preveduto e voluto...’’ non essendo perciò sufficiente la sola previsione ma essendo invece necessaria anche la precisa direzione della volontà dell’agente a realizzare od a contribuire a realizzare l’evento dannoso. Invero, trattasi di principi in ordine ai quali la giurisprudenza di legittimità si è più volte espressa in senso conforme a quanto sopra esposto e, in particolare, non si può non rammentare il dibattito giurisprudenziale svoltosi in merito al noto caso Oneda, assai simile a quello oggi in esame poiché anche in quell’occasione imputati di omicidio doloso erano stati i genitori, testimoni di Geova, che avendo omesse indispensabili terapie trasfusionali per la figlia talassemica avevano contribuito a provocarne la morte. Ebbene in quel caso la Corte di cassazione evidenziò la necessità di un attento esame dell’aspetto soggettivo della condotta degli imputati essendo, invece, risultata contraria ai principi di diritto la motivazione della
— 1424 — Corte d’assise d’appello di Cagliari laddove era stata fatta coincidere la prevedibilità dell’evento morte con la volontarietà dell’evento stesso (cfr. dapprima Corte d’assise d’appello Cagliari sent. 13 dicembre 1982, Oneda e Costanzo e, poi, Cass. pen., Sez. I, sent. 13 dicembre 1983, Oneda e Costanzo). Ed infatti, alla stregua dei principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione, il caso si chiuse con la pronuncia della Corte d’assise d’appello di Roma, giudice di rinvio, che ritenne doversi configurare a carico degli imputati il reato di omicidio colposo (cfr. Corte d’assise d’appello Roma sent. 13 giugno 1986, Oneda e Costanzo). Tanto precisato ritiene il Pretore che gli elementi acquisiti circa la condotta degli imputati possano portare ad escludere con certezza la volontarietà dell’evento morte. Innanzitutto tale ipotetica volontarietà sarebbe in contrasto insanabile con gli interventi sanitari da loro realizzati a favore del De Luca nell’immediatezza del sinistro, interventi che eseguiti correttamente e con perizia avevano impedito la morte del paziente pur gravemente traumatizzato. Inoltre deve pure considerarsi che, nella consapevolezza della necessità della trasfusione di sangue e per la difficoltà a praticarla, stante il rifiuto, per motivi religiosi, opposto dal paziente, i medici avevano chiesto al Procuratore della Repubblica l’‘‘autorizzazione’’ a trasfondere il paziente (v. il fax in atti trasmesso il 21 giugno 1993), autorizzazione che non è poi mai giunta e che, per quanto si dirà appresso, nemmeno poteva giungere. È chiaro allora che se i medici avevano cercato anche una via istituzionale per poter operare coattivamente la terapia trasfusionale è pure sicuro, sul piano logico, che avevano cercato in ogni modo proprio di evitare il probabile evento letale; condotta quindi che è stata esattamente contraria a quella di chi indirizza il proprio comportamento e la propria volontà a cagionare la morte del paziente, con la conseguenza dell’assoluta impossibilità, in punto di diritto, di potersi anche solo prospettare il dolo richiesto dall’art. 575 c.p.. L’unica ipotesi criminosa astrattamente prospettabile, quindi, rimane quella oggi ascritta agli imputati, ipotesi che è attribuita alla competenza del Pretore. — La valutazione del merito della vicenda ex art. 129 c.p.p.. Gli elementi di fatto acquisiti hanno imposto una loro immediata valutazione giuridica ai sensi dell’art. 129 c.p.p.. Come già accennato è risultato pacifico sia che le lesioni subite dal De Luca a seguito dell’incidente stradale non erano di gravità tale da condurlo a morte sia che una tempestiva trasfusione di sangue avrebbe scongiurato la progressione patologica che ha determinato l’esito letale. È pure incontestato che le trasfusioni di sangue siano state omesse per il fermo rifiuto del paziente di sottoporvisi, in ossequio ad una norma di fede che gli appartenenti alla religione dei testimoni di Geova ricavano da un versetto biblico di oscura interpretazione (il divieto di ‘‘cibarsi di sangue’’ di cui in Genesi 9, 4 ed in altri passi biblici). Tale rifiuto si ricava con certezza dai documenti acquisiti, allegati alla cartella clinica, ed in particolare dall’anamnesi ove è riferito il rifiuto preventivo del paziente di sottoporsi ad eventuali trasfusioni di sangue; dalla ‘‘dichiarazione di volontà’’ sottoscritta in data 21 giugno 1993 e controfirmata da due testimoni; dal documento ‘‘niente sangue’’ trovato evidentemente indosso al De Luca al mo-
— 1425 — mento del ricovero da questi firmato il 13 gennaio 1993 e perciò molto prima del sinistro nella totale pienezza delle proprie facoltà mentali. È di tutta evidenza, allora, che la responsabilità penale dei sanitari che consapevolmente hanno omesso la terapia emotrasfusionale, indispensabile per assicurare la sopravvivenza del paziente, potrebbe essere affermata solo laddove si potesse sostenere che i medici che avevano in cura il De Luca avessero l’obbligo giuridico di intervenire coattivamente, sovrapponendo la loro iniziativa terapeutica alla convinzione religiosa dell’assistito. Detta costruzione della responsabilità penale per una condotta omissiva è chiaramente imposta dal principio di diritto espresso dall’art. 40, secondo comma, c.p. atteso che solo il non impedire un evento che si ha ‘‘l’obbligo giuridico di impedire’’ equivale a cagionarlo per cui deve trattarsi non di un dovere ricavabile da principi etici o d’altro genere bensì di un obbligo imposto da un’esplicita norma scritta vigente nell’ordinamento. Sotto questo aspetto, l’unico che può essere considerato in sede di accertamento della responsabilità penale, deve innanzi tutto ricordarsi che il principio informatore in materia di trattamenti sanitari obbligatori si rinviene nell’art. 32, secondo comma, Cost. dove è stabilita un’espressa ed insuperabile riserva di legge per cui qualunque trattamento sanitario deve essere di norma preceduto dal consenso del paziente ed un eventuale dissenso è superabile solo laddove un’esplicita norma di legge lo consenta, prevedendo in quel caso la possibilità, rectius il dovere, di intervenire coattivamente. Ed invero molteplici sono gli esempi che si possono ricordare: le vaccinazioni obbligatorie contro determinate malattie infettive; il trattamento sanitario obbligatorio per i malati di mente in condizioni di pericolosità; gli accertamenti ematochimici stabiliti per i dipendenti dello Stato prima dell’assunzione in servizio; analoghe analisi ematologiche previste per i lavoratori addetti alla manipolazione ed al confezionamento degli alimenti; i trattamenti medico-sanitari a favore dei minorenni qualora gli esercenti la potestà genitoriale non vi ottemperino in violazione degli artt. 330 e 333 c.c.. Trattasi evidentemente di esempi che pur non esaurendo le possibilità di trattamenti sanitari obbligatori ne rappresentano la più larga parte, a conferma che comunque trattasi di casi limitati, nell’ambito dei quali è configurabile un interesse di natura pubblicistica, prevalente rispetto al diritto della persona di rifiutare interventi invasivi sul proprio essere corporeo. Viceversa, nel caso di specie non si rinviene alcuna norma che avesse potuto imporre il trattamento emotrasfusionale coattivamente tant’è che il Procuratore della Repubblica, pur interpellato, non ha potuto adottare nessun provvedimento autorizzatorio od impositivo del trattamento sanitario proprio perché non gli era consentito da alcuna norma di legge. Se ciò è vero e non si vede come non possa esserlo, deve escludersi che gli ordierni imputati, a fronte di un rifiuto consapevole del De Luca di sottoporsi a trasfusioni di sangue, avessero l’obbligo giuridico di trasfondere coattivamente il paziente, con la conseguenza che l’evento morte, determinato dall’omissione di detta terapia, non può ritenersi giuridicamente attribuibile alla loro condotta in ossequio a quanto stabilito dall’art. 40, secondo comma c.p.. Gli imputati perciò devono essere mandati assolti dal reato loro ascritto e la formula assolutoria da adottare è quella più ampia ‘‘perché il fatto non sussiste’’
— 1426 — poiché la mancanza del dovere giuridico di intervenire non incide solo sull’elemento soggettivo ma esclude semmai lo stesso nesso di causalità tra la condotta degli agenti e l’evento dannoso. Solo per completezza deve accennarsi all’inconfigurabilità di altre condotte di eventuale rilievo penale prospettate dal difensore di parte civile con riferimento all’omessa somministrazione di composti sostitutivi del sangue. Infatti non solo tale tema è escluso dalla contestazione ma è sufficiente la lettura della cartella clinica e della relazione sull’intervento chirurgico per notare come, in realtà, al De Luca, nel tentativo di ovviare al grave stato di shock emorragico, vennero somministrati liquidi e plasma sintetico, peraltro risultati inidonei ad ovviare alla grave anemizzazione stante la notoria insostituibilità, allo stato delle conoscenze mediche, del sangue umano in casi analoghi. P.Q.M. — visti gli artt. 23 e 129 c.p.p., 530 c.p.p., ritenuta la propria competenza per materia assolve De Vivo Salvatore, Pilia Giampaolo, Danzi Mario del delitto loro ascritto perché il fatto non sussiste.
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Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza.
SOMMARIO: 1. La posizione di garanzia del medico ospedaliero nei confronti del paziente che rifiuta le cure. — 2. Il valore del dissenso ‘‘inattuale’’. — 3. Alcune ipotesi problematiche. — 4 Conclusioni. Accenni alla questione della tutela penale del consenso nel contesto del rapporto terapeutico.
1. Sebbene immediatamente riconducibile all’ambito problematico, già ampiamente sondato (1), del c.d. ‘‘diritto di rifiutare le cure’’, la fattispecie oggetto della pronuncia del Pretore di Roma (2) assume, sotto certi profili, una fisionomia peculiare. Per una volta, infatti, l’attenzione si sposta dalla vicenda personale dell’autore della ‘‘scelta tragica’’ a quella professionale, anch’essa non poco drammatica, degli operatori sanitari, chiamati a rispondere di omicidio per aver scelto, pur tra molte titubanze, di rispettare fino alle estreme conseguenze il diniego del paziente. Il loro comportamento, culminante in quella angosciata ed irrituale richiesta di delucidazioni alla Procura della Repubblica, mostra eloquentemente quale debba essere il disorientamento, di fronte alla miriade di voci sul punto, di chi si trovi a gestire in prima persona e sotto la propria responsabilità un rifiuto di terapie dalle implicazioni così estreme. Eppure, è stato giustamente affermato che la risposta giuridica a tanta complessità esistenziale sarebbe addirittura lapalissiana (3), esistendo sul punto univoche indicazioni normative. (1)
V. il monumentale apparato di richiami in ASSOCIAZIONE EUROPEA DEI TESTIMONI DI GEOVA PER
LA TUTELA DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA (cur.), Emotrasfusioni e consenso informato. La questione dei minori,
in Dir. fam. pers., 1996, 376 ss.. (2) Vedila anche in Cass. pen., 1998, 950, con nota critica di G. IADECOLA, La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente. (In tema di omessa trasfusione di sangue ‘‘salvavita’’ rifiutata dal malato). (3) R. ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo, estr. dal volume Delle persone fisiche, comm. del c.c. Scialoja-Branca, sub art. 5, Bologna, 1988, 353.
— 1427 — Dell’esattezza di questo assunto è testimonianza proprio la sentenza in esame, il cui percorso argomentativo, pur nella sua sinteticità, pare difficilmente contestabile. Esatto risulta, in primo luogo, il riconoscimento, in capo al medico ospedaliero, di una ‘‘posizione di garanzia’’ nei confronti del paziente (4). Già l’art. 32 Cost., primo comma, individua un preciso ‘‘dovere’ per la Repubblica di tutelare la salute dei cittadini (5), storicamente ottemperato, com’è noto, tramite l’istituzione del servizio sanitario nazionale (6). I medici delle strutture pubbliche sono dunque le persone fisiche mediante le quali l’ordinamento adempie siffatto obbligo costituzionale di tutela. Sul piano penalistico, ciò comporta l’individuazione a loro carico, per l’appunto, di una ‘‘posizione di garanzia’’’ (7), che diviene attuale al momento dell’‘‘accettazione’’ del paziente nella struttura ospedaliera (istituto non a caso fortemente connotato, in quanto connesso al servizio pubblico, in termini di ‘‘doverosità’’: v. art. 14, d.P.R. 27 marzo 1969 n. 128) (8). In secondo luogo, esatta risulta l’individuazione nell’art. 32, secondo comma, Cost., tramite un ragionamento a contrario condiviso dalla dottrina unanime (9), (4) Cfr. S. DEL CORSO, Il consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in questa Rivista, 1987, 566 ss. Tale ricostruzione, che ricollega all’‘‘adempimento di un dovere’’ la fonte di legittimità dell’attività medica quand’essa assuma i contorni tipici di una fattispecie criminosa, è certo la più aderente alle indicazioni normative. Più diffuso è invece il ricorso ad altre scriminanti, quali quella del consenso (R. RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979, 95 ss.; ID., in F. RAMACCI-R. RIZ-M. BARNI, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv. it. med. leg., 1983, 857 ss.; U.G. NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, 87; P. AVECONE, La responsabilità penale del medico, Padova, 1981, 19 ss.) dello stato di necessità (cfr. U.G. NANNINI, op. cit., 134; R. RIZ, Il consenso, cit., 345) dell’esercizio di un diritto (F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 54 ss.) ovvero al criterio dell’‘‘atipicità’’ (A. MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, Milano, 1984, 88 ss.; ID., Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., XLIX, Milano, 1992, 1288 ss.; L. SALAZAR, Consenso dell’avente diritto e disponibilità dell’integrità fisica, in Cass. pen., 1983, 56). Ad accogliere tali impostazioni ben potrebbe il medico ospedaliero, anche in presenza di un consenso pienamente valido e consapevole, e pure di fronte ad una situazione di grave urgenza, rifiutarsi di intervenire, essendo il suo intervento lecito, ma non doveroso. Come ciò sia conciliabile con la ratio solidaristica dell’art. 32 Cost. e della l. n. 833/1978, risulta difficilmente comprensibile. (5) C. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 372. (6) F.D. BUSNELLI, Note introduttive al commento della l. n. 833/1978, in Nu. l. civ. comm., 1979, 1189 ss. Sul diritto alla salute come diritto-pretesa, cfr., da ultimo, Corte cost., 16 ottobre 1990 n. 455, in Foro it., 1992, I, 287; Corte cost., 2 giugno 1994 n. 218, in Foro it., 1995, I, 52. (7) Sui presupposti dell’obbligo di garanzia, v. G. FIANDACA, Il reato omissivo mediante omissione, Milano, 1979, 93 ss., 130 ss.; G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 257 ss.. Per individuare, fra i tanti medici operanti nella struttura sanitaria, lo specifico destinatario dell’obbligo di garanzia nei confronti di un determinato paziente, sarà d’uopo un riferimento alle singole specializzazioni nonché alle norme di organizzazione interna (cfr. ad es. artt. 5, 6, 7, 10 del d.P.R. 27 marzo 1969 n. 128). (8) Sull’obbligo del medico di guardia di provvedere al ricovero quando necessario, e sulla rilevanza ex art. 328 c.p. di un’eventuale omissione, v. Cass., Sez. VI, 8 settembre-2 maggio 1995, Filippone in Riv. pen., 1996, 325. (9) V. M. ANTONELLI, Emotrasfusione obbligatoria e libertà religiosa, in Dir. fam. pers., 1985, 1004; C. BARILE, op. cit., 386; B. CARAVITA, La disciplina costituzionale della salute, in Dir. soc., 1984, 30; V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, in Dir. soc., 1982, 558 ss.; F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, in questa Rivista, 1997, 90; M. BENINCASA, Liceità e fondamento dell’attività medico-chirurgica a scopo terapeutico, ivi, 1980, 733; A. MANNA, Profili, cit., 72; F. MANTOVANI, op. cit., 92; ID., Aspetti penalistici, in Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Napoli, 1983, 158, R. ROMBOLI, op. cit., 335 ss.; ID., La libertà di disporre del proprio corpo: profili costituzionali, in L. STORTONI (cur.), Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, Trento, 1992, 33 ss.; D. VINCENZI AMATO, Il secondo comma dell’art. 32, in Comm. della Cost. G. Branca, artt. 29-34, Bologna-Roma, 1976, 167 ss.; ID., Tutela della salute e libertà individuale, in Trattam. sanit., cit., 21 ss.; E. VARANI, L’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano e nel nuovo codice di deontologia medica, in Dir. soc., 1990, 166; M. BARNO-G. DELL’OSSO-P. MARTINI, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici del diritto a morire, in Riv. it. med. leg., 1981, 34; L. BRUSCUGLIA, Commento all’art. 1, l. n. 180/1978, in Nu. l. civ. comm., 1979, 186; M. PARODI-GIUSINO, Trattamenti sanitari obbligatori, libertà di coscienza e rispetto della persona umana, in Foro it., 1983, I, 2657.
— 1428 — di un ‘‘diritto di rifiutare le cure’’, quand’esse non siano imposte dalla legge (10); diritto degno di tutela anche laddove il suo esercizio si risolva in una rinuncia alla vita (11), posto che coloro che hanno tentato di sostenere il contrario non sembrano aver adempiuto con il dovuto rigore all’arduo ‘‘onere della prova’’ gravante su chi intenda attribuire limiti interni taciti a diritti costituzionali espressamente sanciti senza restrizioni di sorta (o comunque con restrizioni di altra natura, come ad es. quelle connesse, per quanto riguarda l’art. 32, secondo comma, Cost., alla già accennata possibilità, per il legislatore ordinario, di disciplinare ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori) (12). (10) Non pare seriamente sostenibile che la generica disposizione dell’art. 5 c.c. ottemperi alla prescritta riserva di legge: sul punto, v. M. ANTONELLI, op. cit., 1007; V. CRISAFULLI, op. cit., 561. (11) Cfr. Ass. Firenze, 18 ottobre 1990, Massimo, in Foro it., 1991, II, 242; TAR Lazio, 8 luglio 1985, in Dir. fam. pers., 1985, 999 ss. Tutto ciò rende assolutamente impossibile, per il giudice, l’imposizione di un trattamento sanitario coattivo extra legem tramite lo strumento dell’art. 700 c.p.c. (cfr. invece Pret. Pescara, decr. 8 novembre 1974, in N. dir., 1975, 253, nota A. PIANIGIANI; Pret. Modica, ord. 13 agosto 1990, in Foro it., 1991, I, 271 ss.); sui presupposti di applicabilità della norma processuale ora cit., cfr., da ultimo, F.P. LUISO, Diritto processuale civile, IV, Milano, 1997, 210. (12) A contraria conclusione si potrebbe infatti giungere solo ove fosse possibile trovare sancito, a livello costituzionale (non potendo certo un diritto di rilevanza costituzionale essere diminuito da norme di rango ordinario, quali gli artt. 579 c.p., 580 c.p. e 5 c.c., malgrado la loro frequente utilizzazione in tal senso: cfr. ad es., da ultimo, G. IADECOLA, La responsabilità, cit., 957) un vero e proprio ‘‘dovere di vivere’’. Di un tale dovere, nella lettera della costituzione, non v’è traccia; e già questo potrebbe essere sufficiente ad escluderne qualsiasi possibile rilevanza (v. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 251 ss.; R. D’ALESSIO, Limiti costituzionali dei trattamenti ‘‘sanitari’’, in Dir. soc., 1981, 540; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari ‘‘non obbligatori’’ e costituzione, in Dir. soc., 1982, 311). Si è voluto al contrario affermare la vigenza di tale dovere argomentando dall’‘‘interesse della collettività’’ alla salute menzionato nell’art. 32, primo comma, Cost., il quale si risolverebbe, come si ricaverebbe dalla contestuale lettura dell’art. 2 Cost., in una pretesa sociale a che ogni individuo provveda a conservare le qualità psicofisiche necessarie per adempiere ai ‘‘doveri di solidarietà sociale’’ su di lui gravanti (v. G. IADECOLA, La rilevanza del consenso del paziente nel trattamento medico chirurgico, in Giust. pen., 1986, 79; ID., Il trattamento medico chirurgico di emergenza ed il dissenso del paziente, in Giust. pen., 1989, 125; ID., Il medico e la legge penale, Padova, 1993, 19; P. RIECI-M.O. VENDITTO, Eutanasia, diritto a morire e diritto di rifiutare le cure: equivoci semantici e prospettive di riforma legislativa, in Giust. pen., 1993, 287). Altri preferiscono sottolineare come un’abdicazione da un diritto fondamentale, sotto l’apparenza di un ‘‘modo di attuazione’’ di tale diritto, si risolverebbe invero in una sua irreparabile lesione, impedendo alla radice la possibilità di goderne anche in futuro (M.C. CHERUBINI, Tutela della salute e c.d. atti di disposizione del corpo, in F.D. BUSNELLI-U. BRECCIA (cur.), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 83; L. EUSEBI, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 528; cfr. anche F. MANTOVANI, Problemi giuridici della sterilizzazione, in Riv. it. med. leg., 1983, 845; F. STELLA, La sterilizzazione chirurgica: aspetti penalistici, in Riv. it. med. leg., 1980, 496). Un terzo filone argomentativo si affida invece ad un presunto limite supremo posto dalla costituzione alla liceità di qualsiasi comportamento umano, da ricercarsi nel rispetto della ‘‘personalità’’ o ‘‘dignità’’ umana (cfr., pur nella varietà delle argomentazioni, P. D’ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, 83 ss.; M. SANTILLI SUSINI, Rifiuto di trattamento sanitario per motivi religiosi, in Resp. civ. prev., 1977, 412 ss.; Pret. Modica, ord. cit., 291). Le tesi ora elencate non sembrano affatto espressione indiscutibile dell’ispirazione di fondo della Carta, com’è dimostrato dalle numerose voci espressesi in senso contrario, anch’esse sulla scorta di altrettanto, se non più, ‘‘autentiche’’ letture della ratio costituzionale (D. VINCENZI AMATO, Il secondo comma, cit., 172 ss.; ID., Tutela, cit., 24; R. ROMBOLI, La libertà, cit., in Comm. al c.c., cit., 241; C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Raccolta di scritti, Milano, 1972, 435 ss.; M. ANTONELLI, op. cit., 1011; S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in questa Rivista, 1995, 673 ss.; F. GIUNTA, op. cit., 115; A. SANTOSUOSSO-G. TURRI, I trattamenti obbligatori, in M. BARNI-A. SANTOSUOSSO (cur.), Medicina e diritto, Milano, 1995, 102 ss.; M. BENINCASA, op. cit., 738; A. MANNA, Profili, cit., 72 ss.; ID., Il trattamento, cit., 1284; F. MANTOVANI, I trapianti, cit., 92; ID., Aspetti penalistici, cit., 157; V. ONIDA, Dignità della persona e ‘‘diritto di essere malati’’, in Quest. giust., 1982, 367; F. STELLA, op. ult. cit., 496; G. BALBI, in F. SCLAFANI-O. GIRAUD-G. BALBI, Istigazione o aiuto al suicidio, Napoli, 1997, 29, nota 52; M.B. MAGRO, Etica laica e tutela della vita umana: riflessioni sul principio di laicità in diritto penale, in questa Rivista, 1994, 1442 ss.; cfr. anche T. PADOVANI, L’ospedale psichiatrico giudiziario e la tutela costituzionale della salute, in Tut. sal. e dir. priv., cit., 259); d’altra parte, si è sempre mostrato assai arduo trarre indicazioni implicite ed al tempo stesso univoche da una costituzione notoriamente compromissoria quale la nostra. Ci sia consentito aggiungere qualche notazione più specifica. Per quanto riguarda la prima delle impostazioni menzionate, anche a voler aderire all’ottica grossolanamente ‘‘economica’’ che essa esprime, appare tutt’altro che scontata la rispondenza di un generalizzato ‘‘dovere di vivere’’ all’‘‘interesse della collettivi-
— 1429 — Coordinando organicamente tali indicazioni normative, si può affermare che, in prima istanza, la predetta posizione di garanzia si risolverà nel dovere di ricorrere, tra i mezzi in concreto disponibili, a quelli che, secondo la miglior scienza ed esperienza medica, risultino più adeguati al caso concreto; affinché tale adempimento non si tramuti però in un surrettizio trattamento sanitario obbligatorio extra legem, presupposto necessario della sua attuabilità sarà una preliminare attività informativa da parte del curante, che renda concretamente possibile al paziente un eventuale dissenso verso gli interventi proposti (13). Tale dissenso, ad ogni modo, una volta intervenuto non comporterà necessariamente un’esenzione totale del medico dai propri doveri di protezione. L’art. 32, secondo comma, cit. tutela, infatti, non già un ‘‘diritto di ammalarsi o di lasciarsi morire’’, quanto, in modo più puntuale, la facoltà di opporsi ad un determinato trattamento sanitario (14), mediante una manifestazione di volontà che solo indirettamente ed in casi estremi verrà a risolversi in un atto di disposizione integrale della propria salute. Normalmente, dunque — come appunto nel caso del testimone di Geova che rifiuti una trasfusione — il dissenso interverrà ad impedire che il medico ottemperi al proprio dovere mediante certe modalità terapeutiche, ma tà’’: essendo incontestabile come il cittadino sia titolare non solo di doveri, ma anche di pretese sociali, l’ordinamento dovrebbe al contrario guardare di buon occhio eventuali velleità di autoannientamento di chi, per le proprie condizioni psico-fisiche, ben poco abbia da dare alla società, avendo invece molto da pretendere; le implicazioni finali di una tale visuale si pongono dunque in radicale contrasto con i principi di uguaglianza e di dignità umana. Per ciò che concerne l’idea dell’irrinunciabilità del diritto come garanzia somma dello stesso, se essa mira a prevenire quegli atti di disposizione che, lungi dall’essere espressione di un’effettiva autodeterminazione, non siano altro che il risultato necessitato di drammatiche realtà esistenziali, v’è da osservare che l’assunzione di un generalizzato ed astratto dovere di ‘‘stare bene’’ da un lato non costituisce certo di per sé una risposta da parte dell’ordinamento alle istanze di protezione sociale evidenziate da simili tragiche vicende, mentre dall’altro si risolve, rispetto a persone invece pienamente consapevoli del valore delle proprie scelte, in un ostacolo alla libera esplicazione della personalità, tutelata, se non altro, dall’art. 2 Cost. Siffatto ostacolo a maggior ragione preclude l’accoglibilità dell’ultima fra le impostazioni citate, la quale, affermando in astratto di voler garantire, tramite il divieto di disposizione di sé, il rispetto della ‘‘personalità’’, non può che finire coll’imporre il rispetto di una determinata ed astratta personalità, quando la personalità del singolo sia proprio quella espressa dalle scelte che si vorrebbero vietare. Per completezza, si può infine accennare all’osservazione, assai di recente riprospettata proprio con riguardo al caso giurisprudenziale qui in esame (G. IADECOLA, La responsabilità, cit., 957 ss.), secondo la quale dagli atti dell’Assemblea Costituente si evincerebbe che la formulazione dell’art. 32, secondo comma, fu stimolata essenzialmente dalla recente aberrante esperienza delle sperimentazioni umane nei campi di sterminio, esulando dagli intenti del legislatore la previsione di una qualsiasi deroga al principio, all’epoca unanimamente condiviso, dell’indisponibilità della vita umana. Sul punto si può agevolmente replicare che, mentre le ‘‘intenzioni’’ del Costituente — o ancor più le convinzioni dei giuristi, formatesi fra l’altro su un substrato normativo pre-costituzionale — non costituiscono fonte del diritto, tale natura assume invece l’art. 32 Cost., che sancisce senza limiti, esclusa l’eccezione già accennata, un ‘‘diritto di rifiutare le cure’’. Né pare opportuno vincolare l’interprete ad una supposta voluntas del legislatore non estrinsecata nella lettera della disposizione, poiché in tal modo si impedirebbe, tra l’altro, il necessario adeguamento dell’ordinamento all’evoluzione del contesto culturale e sociale. Ad es., se davvero il secondo comma dell’art. 32 Cost. dovesse essere interpretato, a dispetto di un tenore letterale di ben più ampia portata, esclusivamente alla luce delle ragioni ‘‘storiche’’ che avrebbero motivato la sua introduzione, esso non potrebbe giocare alcun ruolo rispetto all’odierno quotidiano svolgersi dell’attività medica, mantenendo come unico possibile riferimento improbabili rigurgiti pseudoscientifici di stampo eugenetico e razzista, o comunque fenomeni di patologia del rapporto medico-cittadino di analoga fattura. (13) Sulla necessità della ‘‘previa informazione’’ come base di legittimità dell’intervento medico chirurgico, cfr. da ultimo App. Firenze, 11 luglio 1995, Gervino, in Foro it., 1996, II, 188, nota M. POLVANI, oltre che il leading case, già cit., del chirurgo Massimo. V. anche gli artt. 29 ss. del nuovo codice di deontologia medica del 1995. (14) Cfr. A. FALZEA, Diritto alla vita, diritto alla morte, in I diritti dell’uomo nell’ambito della medicina legale, Milano, 1981, 127; Ass. Firenze, 18 ottobre 1990, cit., 242. La distinzione tra right to refuse medical treatment (costituzionalmente tutelato) e right to die (privo di riconoscimento costituzionale) è stata di recente sottolineata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (sent. 26 giugno 1997, Washington et al. c. Glucksberg et al.; sent. 26 giugno 1997, Vacco et al. c. Quill et al., entrambe in Foro it., 1998, IV, 76 ss.).
— 1430 — non coinvolgerà ipso facto la posizione di garanzia nella sua globalità (15), di talché il medico dovrà comunque tentare di evitare il danno alla salute, ricorrendo, tra le tecniche terapeutiche disponibili e non impedite dal veto del paziente, a quelle maggiormente atte a surrogare l’intervento in prima istanza ritenuto opportuno (16). In caso di esito infausto, il non aver potuto utilizzare le metodologie più idonee ad evitare l’evento escluderà, se del caso, lo stesso ‘‘fatto tipico’’ omissivo (17), come pare correttamente concludere il Pretore nella sentenza in epigrafe, a proposito del vano tentativo dei medici di ovviare alla mancata trasfusione di sangue tramite l’utilizzazione di materiale ematico sintetico. Si può aggiungere che, anche quando ci si opponga a qualsiasi forma di intervento, il ruolo di garanzia del medico imporrà comunque di rendere edotto il paziente delle tragiche implicazioni di siffatta scelta (18); nonché, laddove giuridicamente possibile, di rivolgersi all’autorità giudiziaria per l’emanazione di provvedimenti sostitutivi del rifiuto (19). 2. Tutto ciò premesso, la soluzione assolutoria prescelta dal Pretore di Roma sembrerebbe, dunque, la conclusione necessaria di un coerente percorso argomentativo. (15) A meno che non si risolva in un rifiuto di ogni forma di cura, come avviene a proposito della c.d. ‘‘eutanasia passiva’’ (cfr., fra i tanti, F. STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1984, 1018; F. MANTOVANI, Eutanasia, in Dig. disc. pen., IV, 1990, Torino, 427; B. PANNAIN-F. SCLAFANI-M. PANNAIN, L’omicidio del consenziente e la questione eutanasia, Napoli, 1988, 7 ss.; S. SEMINARA, op. cit., 678 ss.). (16) Mentre sarà doverosa, in caso di dissenso, un’attività terapeutica sostitutiva di efficacia meno certa ma comunque scientificamente riconosciuta, l’utilizzazione di tecniche alternative non ufficialmente sperimentate sarà invero solo facoltizzata. Il tema è divenuto di grande attualità con il caso ‘‘Di Bella’’ (v. sul punto F. MANTOVANI, Libertà della cura e responsabilità del medico, in Toscana medica, 1988, (3), 9). Se esiste un diritto di non curarsi, a fortiori sembrerebbe doversi ritenere esistente un diritto di scegliere il modo con cui curarsi (cfr. Pret. Lecce, sede dist. di Magli, ord. 11 febbraio 1998, in Gu. dir., 1998, (12), 32; v. anche Pret. Pistoia, ord. 5 novembre 1997 n. 5662; Pret. Roma, ord. 26 gennaio 1998; Pret. Prato, ord. 26 gennaio 1998 n. 223; Pret. Roma, ord. 9 marzo 1998: ivi, 36 ss.; Pret. Catanzaro, ord. 26 gennaio 1998; Pret. Macerata, decr. 12 gennaio 1998, entrambe in Foro it., 1998, I, 642 ss.), ed un medico ben potrà prestare a tali scelte il supporto della propria professionalità, sebbene questa sua attività non possa più ritenersi ‘‘adempimento di un dovere’’. Appare però quantomeno dubbio che tale facoltà possa tradursi in una pretesa verso il S.S.N. (cfr. Pret. Milano, ord. 26 gennaio 1998, in Gu. dir., 1988, (12), 44; Pret. Catania, ord. 21 gennaio 1998 e Pret. Catania, ord. 17 gennaio 1998, in Foro it., 1998, I, 646 ss.; A. SANTOSUOSSO, Troppi giudici clinici e pochi clinici giudiziosi, in Tosc. med., (3), 1998, 11 ss.; v. però TAR Lazio, Sez. I-bis, ord. 9 febbraio 1998 n. 384 - Cons. Stato, Sez. IV, ord. 24 febbraio 1998 n. 348 - TAR Lazio, Sez. I-bis, ord. 9 marzo 1998 n. 580, in Gu. dir., 1988, (12), 11 ss.). (17) Cfr., per maggiori delucidazioni sul punto, G. GRASSO, op. cit., 375. (18) Cfr., in materia di sciopero della fame del detenuto, G. FIANDACA, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it., 1983, II, 241. Si consideri inoltre l’obbligo del sanitario di esprimere motivato parere contrario alla decisione dell’infermo di dimettersi anzitempo, sancito dall’art. 14, d.P.R. n. 128/1969, dodicesimo comma. Errato è attribuire alla possibilità di andarsene dalla struttura ospedaliera la funzione di un onere, a cui subordinare la vincolatività del dissenso alle cure (così invece Pret. Modica, ord. cit., 294; G. IADECOLA, Il nuovo codice di deontologia medica, Padova, 1996, 59). Il paziente, pur rifiutando una certa terapia, ha infatti il diritto di continuare a pretendere, nei limiti delineati nel testo, l’adempimento delle strutture mediche al tuttora sussistente ‘‘obbligo di garanzia’’. (19) Questo potrà avvenire, in particolare, quando il rifiuto provenga dai genitori a scapito dell’incolumità del figlio minorenne, secondo un indirizzo ormai pacifico, frutto della riflessione giuridica sviluppatasi, in particolare, intorno alla tragica vicenda dei coniugi Oneda (Ass. Cagliari, 10 marzo 1982, in Foro it., 1983, II, 27, nota G. FIANDACA; App. ass. Cagliari, 13 dicembre 1982, in Giur. it., 1983, II, 364; Cass., Sez. I, 13 dicembre 1983, in Foro it., 1984, II, 361, nota A. FLORIS; Ass. app. Roma, 13 giugno 1986, ivi, 1986, II, 606): cfr. R. RIZ, op. ult. cit., 357; F. MANTOVANI, Aspetti, cit., 65 ss.; D. VINCENZI AMATO, Tutela, cit., 45 ss.; V. CRISAFULLI, op. cit., 566; M. BILANCETTI, op. cit., 155; R. ROMBOLI, op. ult. cit., 350 ss.; G. FIANDACA, op. ult. cit., 29; C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori, in Giur. cos., 1983, I, 1161 ss..; Trib. Foggia, 4 luglio 1980, Piarullo, in Foro dauno, 1980, 138; Pret. Catanzaro, 13 gennaio 1981, in Giust. civ., 1981, I, 3098, nota G. CORASANITI; Pret. Arezzo, 24 aprile 1963, in Rep. Foro it., 1964, voce Patria potestà, 1894, nn. 8 e 9. Prima di richiedere l’intervento giudiziario, ex artt. 333 e 336 c.c., il medico dovrà comunque valutare l’utilizzabilità nel caso concreto di tecniche alternative a quella dell’emotrasfusione.
— 1431 — Eppure, l’astratta linearità del ragionamento giuridico cui si è data fin qui adesione rischia di rivelarsi, ad un più accurato esame, non esaustiva in relazione al caso di specie, se solo si presti la dovuta attenzione ad una circostanza di fatto che appena emerge da un passo della motivazione: il rifiuto non era stato formulato contestualmente al ricovero, essendo in quel momento l’infortunato privo di conoscenza, ma era al contrario deducibile da documenti cartacei di data anteriore al verificarsi della situazione di ‘‘necessità’’. È evidente come la conclusione cui si giunge in sentenza meriterebbe addirittura di essere ribaltata, qualora si dovesse negare ad un rifiuto di cure non confermabile al momento dell’intervento la capacità di incidere nel modo or ora descritto sulla struttura del rapporto terapeutico. Tra l’altro, questa parrebbe ictu oculi la conclusione più persuasiva, considerando come indiscutibilmente un siffatto dissenso, anche se magari assai recente, mai possa esprimere una scelta ‘‘attuale’’ posto che il paziente incosciente non ha, in quanto tale, alcuna ‘‘volontà’’, né di conferma né di revoca. Si potrebbe allora inferire che, in casi come questo, la posizione di garanzia torni a manifestarsi in tutta la sua ampiezza, non potendosi ragionevolmente subordinare la salvaguardia della salute all’ossequio ad un principio consensualistico ormai privo, in concreto, di qualsiasi ruolo (20); in altre parole, la materiale assenza dell’oggetto tutelato da tale principio — ovvero del bene dell’‘‘autodeterminazione’’ — comporterebbe inevitabilmente il venir meno di un qualsiasi ambito di operatività della tutela stessa. A ben vedere, però, ciò che di fatto non è rinvenibile nel paziente incosciente è, più precisamente, la capacità di formulare e manifestare la propria volontà: questo sarebbe dunque il fattore la cui salvaguardia si rivelerebbe eventualmente, nello specifico, un nonsense. Se ciò è vero, si potrebbe a ragione affermare che il criterio del consenso, in simili evenienze, perda il proprio valore, solo ammettendo che la ratio di tutela ad esso sottesa abbia di mira unicamente tali facoltà psichiche, in sé e per sé considerate. È peraltro di tutta evidenza, già ad un primo approccio, come una simile prospettiva esegetica si riveli ben poco soddisfacente, risultando arduo comprendere perché l’ordinamento avrebbe attribuito a siffatti coefficienti — il cui specifico nucleo di valore appare in verità quantomeno vago — la natura di ‘‘beni giuridici’’ di rilevanza tale da poter controbilanciare, ed in certi casi sopravanzare, l’interesse, ben più significativo, alla salute. In realtà, il consenso, nel contesto del rapporto medico-paziente, assume una valenza ben più pregnante ed articolata, riconoscibile solo a seguito di una lettura globale dell’art. 32 Cost., che ravvisi in tale disposizione un felice compromesso, tra due istanze fondamentali del nostro ordinamento: quella ‘‘solidaristica’’, da un lato, che impone alle strutture pubbliche di concorrere, tramite interventi positivamente efficaci, a garantire l’‘‘effettività’’ dei diritti fondamentali; quella ‘‘laica’’ e liberale, dall’altro, che suggerisce allo Stato un atteggiamento di tendenziale selfrestraint di fronte a situazioni esistenziali che esauriscano le proprie implicazioni nella sfera personale di un singolo consociato, come appunto l’ipotesi di interventi sanitari funzionali unicamente alla salute del destinatario. Ed infatti, con il primo comma dell’art. 32 Cost., l’ordinamento offre, in prima istanza, una significativa e generalizzata chance di tutela a proposito di un bene indiscutibilmente primario quale la salute; con il secondo comma, si impegna tuttavia a non interferire laddove il soggetto renda noto che certi trattamenti sanitari lederebbero in concreto altri beni ritenuti, secondo un personale ed insindacabile bilanciamento, prevalenti. L’atto di scelta rileva dunque, in tale logica, come una sorta di ‘‘fonte di cognizione’’ privilegiata di quel che sia l’effettivo e concreto interesse del singolo, (20)
Cfr. ad es. G. GRASSO, op. cit., 305; V. ONIDA, op. cit., 361.
— 1432 — quest’ultimo essendo, e non la capacità attuale di dissentire in quanto tale, il vero oggetto della tutela approntata dall’art. 32 Cost. (21). Dunque, il principio consensualistico mantiene intatta la propria vigenza anche nei confronti di un paziente incosciente, inerendo a fattori la cui salvaguardia non appare affatto priva di senso sol perché le potenzialità intellettive del soggetto siano temporaneamente venute meno. Non si può infatti ragionevolmente affermare che un interesse — quale quello ‘‘rivelato’’, nel senso ora visto, da un’inequivoca manifestazione di volontà — non sia più tale nel momento in cui il titolare non ne possa più avvertire ‘‘sensorialmente’’ la consistenza: così ragionando, si finirebbe con il riconoscere, nell’uomo privo di conoscenza, una ‘‘non-persona’’ sfornita di qualsiasi garanzia giuridica, perché, in simile prospettiva, nessun bene potrebbe ormai competergli (neppure, fra l’altro, quello della salute, che dunque perderebbe anch’esso ogni significato). Tutto ciò, peraltro, non consente ancora di concludere pacificamente nel senso dell’efficacia tout court del dissenso inattuale alle cure. V’è da chiedersi, infatti, se non si debba ad ogni modo convenire con quanti ritengono che, in situazioni di estrema necessità, una previa ‘‘volontà contraria’’ non sarebbe più fonte di cognizione attendibile del reale interesse del paziente, dovendosi presumere che questi, di fronte all’incombere del pericolo per la vita, se solo avesse potuto avrebbe cambiato idea circa l’opportunità di non sottoporsi alle cure (22). Tale prospettiva appare indiscutibilmente suggestiva; il problema è dunque, a questo punto, stabilire se l’ordinamento privilegi una situazione forse attuale ma assolutamente non certificabile, ovvero un atteggiamento, forse inattuale ma reale, documentato, e da ritenersi comunque perdurante fino al momento della sopravvenuta pratica impossibilità di manifestare (o meno) la propria disponibilità all’atto medico, posto che il mancato intervento di una revoca pur praticabile costituisce fatto di per sé sufficiente ad esprimere la persistente adesione della persona alla precedente manifestazione di volontà. A tale proposito, v’è da dire che le indicazioni normative sembrano, sul punto, inequivoche: di ‘‘volontarietà’’ parla esplicitamente l’art. 33, l. n. 833/1978, mentre il concetto di ‘‘obbligatorio’’, cui accenna l’art. 32, secondo comma, Cost., allude evidentemente ad un qualcosa di contrario alla ‘‘volontà’’ di un soggetto. Soltanto una manifestazione di volontà pare quindi legittimata a documentare l’autentico ‘‘bene’’ del singolo, e dunque anche un suo eventuale diverso atteggiarsi nel tempo. Una volta che il soggetto abbia inequivocabilmente reso nota la propria personale ‘‘scala di valori’’, è in considerazione di essa, e solo (21) In un contesto laico-liberale, d’altro canto, dovrebbe sempre considerasi un controsenso salvaguardare utilità che in realtà non siano tali per nessuno: un bene dovrebbe potersi definire ‘‘giuridico’’, ovvero meritevole di valorizzazione da parte dell’ordinamento, quando, e solo quando, risulti concretamente funzionale allo sviluppo della personalità di un singolo; qualora invece tale personalità si esprima proprio in un atto di rinuncia alla protezione offerta dal diritto, nessuna tutela dovrebbe avere più significato, perché, senza un interesse effettivo che lo sostenga, non dovrebbe più considerarsi esistente lo stesso ‘‘bene giuridico’’. Così C. ROXIN, Sul consenso nel diritto penale, in Antigiuridicità e cause di giustificazione (cur. MOCCIA), Napoli, 1996, 126. (22) Così F. MANTOVANI, I trapianti, cit., 230 ss.; ID., Aspetti penali, cit., 161 ss.; ID., Delitti contro la persona, Padova, 1995, 104 ss.; in termini analoghi, R. ROMBOLI, op. ult. cit., 354; G. GRASSO, op. cit., 315; M. PORTIGLIATTI BARBOS, Diritto di rifiutare le cure, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, 32; M. BARNI-G. DELL’OSSO-P. MARTINI, op. cit., 42; Pret. Modica, ord. cit., 290. Cfr. invece C. ROXIN, Sul consenso presumibile, in Antigiuridicità, cit., 154: Il nostro ordinamento si fonda, grazie a Dio, sul diritto all’autodeterminazione, che esclude un’‘‘autorità della ragione’’ di terzi sulle decisioni di uomini adulti e sani dal punto di vista psichico. Ne consegue che anche la momentanea assenza o incapacità di decidere dell’offeso non può essere sfruttata per arrogarsi una tale ‘‘autorità della ragione’’, in modo in linea di principio vietato. Per osservazioni analoghe, cfr. S. DEL CORSO, op. cit., 566 ss.; F. MODUGNO, op. cit., 321; S. SEMINARA, op. cit., 670 ss.; P. D’ADDINO SERRAVALLE, op. cit., 133; U.G. NANNINI, op. cit., 483; G. ORRÙ, La tutela della dignità umana del paziente, in Vivere, cit., 104; P. RESCIGNO, Conclusioni, in Trattam. sanit., cit., 191; F. STELLA, op. ult. cit., 1021; D. VINCENZI AMATO, op. ult. cit., 39 ss..
— 1433 — di essa, che l’ordinamento, da allora in poi, potrà e dovrà muoversi, almeno fino ad un espresso ripensamento del soggetto stesso. Quale, sia la ratio di tale scelta è peraltro facilmente intuibile: interprete autentico del proprio interesse può essere unicamente il paziente, tramite un’inequivoca dichiarazione di intenti, posto che egli soltanto è in grado di tener conto di tutti gli stimoli motivazionali meritevoli di influire su una scelta di tale rilevanza, compresi quelli che, per la loro profonda interiorizzazione, sfuggirebbero pericolosamente ad una qualsiasi operazione deduttiva. In mancanza di espresse indicazioni normative di segno contrario, insomma, il ‘‘punto di vista’’ del paziente non pare suscettibile di essere sostituito o superato, nella funzione attribuitagli solennemente dall’ordinamento, da valutazioni in vario modo presuntive. Anche una presunzione in linea di massima più attenta al rispetto della persona, perché fondata sull’analisi dell’habitus vivendi, del carattere e delle ideologie manifestate dall’interessato (23), rischierebbe infatti, a tacere dei problemi connessi alla sua pratica utilizzabilità (24), di condurre a fraintendimenti (25), posto che l’uomo ben può, rispetto a situazioni specifiche, tanto più se di particolare drammaticità, liberarsi dai vincoli ‘‘deterministici’’ del proprio temperamento, nonché smentire o ridimensionare la propria adesione a quelle che in linea generale appaiano essere convinzioni ben radicate (26); ovvero, al contrario, dare rilevanza preponderante a valori verso i quali mai in precedenza avesse dedicato la benché minima attenzione. Ma anche a voler ammettere che, a dispetto del tenore delle norme sopra richiamate, possa comunque sussistere un qualche spazio di operatività per ricostruzioni deduttive dell’interesse del paziente, è pur vero che tale spazio potrebbe concedersi soltanto laddove la perdita di valore del precedente dissenso si evinca da indizi ben più persuasivi ed univoci di quanto non sia un generico richiamo all’istinto di autoconservazione, apoditticamente supposto come insopprimibile per ogni essere umano; anzi, di fronte all’astrattezza di simile argomento, importanza preponderante in senso contrario dovrebbe piuttosto assumere, per la sua certo maggiore pregnanza rispetto al caso concreto — come si adombrava poc’anzi — la circostanza del mancato intervento di una revoca fin tanto che questa si rendeva materialmente attuabile. La posizione di garanzia, rispetto al paziente incosciente, si atteggerà dunque nella sua massima ampiezza soltanto in due ipotesi: in primo luogo, quando egli, in precedenza, non aveva mai affermato di aderire ad una gerarchia di valori diversa da quella che l’ordinamento, a ragione, presume ‘‘fino a prova contraria’’, ed (23) Quale quella proposta, ad es., da M. BILANCETTI (La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1996, 124 ss.). (24) Cfr. Ass. Firenze, 18 ottobre 1990, cit., 240; A. MANNA, Considerazioni in tema di consenso presunto, in Giust. pen., 1984, 244. (25) Cfr. C. ROXIN, op. ult. cit., 175. (26) V. le considerazioni di S.H. KADISH, Consenso a morire e pazienti incapaci, in Vivere, cit., 202 ss. Illuminante è l’esperienza di common law, caratterizzata, in materia di right to die del paziente in stato di incoscienza irreversibile, da un progressivo abbandono dei criteri di substituted judgement, in varia guisa diretti a dedurre quale avrebbe potuto essere la volontà del paziente se egli fosse stato cosciente, a favore di una valorizzazione delle c.d. advance directives o dei living wills, ovvero di precedenti, inequivoche dichiarazioni di volontà del soggetto circa il trattamento cui essere sottoposto in caso di coma: cfr. C.S. U.S.A., 25 giugno 1990, Cruzan v. Director, Missouri Department of Health e alt., in Foro it., 1991, IV, 66, note di G. PONZANELLI e A. SANTOSUOSSO; G. PONZANELLI, La Corte Suprema esclude la garanzia costituzionale del ‘‘right to assisted suicide’’, in Foro it., 1998, IV, 76 ss.; A. SANTOSUOSSO, La decisione sulle cure quando il paziente è incapace, in Med. e dir., cit., 143 ss.; F.D. BUSNELLI, Il diritto e le nuove frontiere della vita umana, in Iustitia, 1987, 273 ss.: R. CECIONI-P.A. SINGER, Un approccio canadese al testamento di vita: il consent to treatment act dell’Ontario, in Riv. it. med. leg., 1996, 1275 ss. Analoga è la tendenza di fondo dell’ordinamento olandese, notoriamente ‘‘all’avanguardia’’ in materia di diritto a morire: cfr. A. VAN KALMTHOUT, The current duth approach to euthanasia and assisted suicide, in Riv. it. med leg., 1996, 1363.
— 1434 — alla cui sommità non possono non stare i diritti della salute e della vita, in quanto presupposti essenziali per l’esercizio di qualsiasi altro diritto; in secondo luogo, quando il paziente, pur avendo un tempo dichiarato di non voler mai essere sottoposto a determinate cure, aveva in un momento successivo inequivocabilmente revocato, expressis verbis ovvero per facta concludentia, tale dissenso. In questi casi, qualora la situazione clinica si presenti nei termini di un’assoluta urgenza, ciò che al medico resta materialmente precluso è l’adempimento a quel dovere di informazione cui sopra si accennava, mentre non si vede che cosa dovrebbe impedire l’attuabilità del necessario intervento terapeutico, non emergendo in alcun modo, né potendo emergere (e non per colpa del medico), un diverso e prevalente interesse del paziente (27). D’altra parte, a livello dl legge ordinaria, l’art. 33, l. n. 833/1978 afferma che ‘‘gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari’’; e se le eccezioni cui allude sono in massima parte riconducibili ai trattamenti sanitari obbligatori espressamente previsti dal legislatore, nulla vieta di ricomprendervi anche l’ipotesi in cui tale volontarietà non sia in concreto attuabile (28). Laddove sia invece tecnicamente possibile procrastinare l’intervento stesso al momento in cui il paziente abbia riacquistato conoscenza, il rispetto del ‘‘diritto di rifiutare le cure’’ tornerà ad essere doveroso, proprio in quanto possibile, e si concreterà nel rimandare l’attivita terapeutica ad un tempo successivo all’avvenuta informativa; il medico non dovrà pertanto sentirsi legittimato ad agire sol perché, pur potendosi attendere il risveglio del paziente, sembri a lui ‘‘del tutto improbabile’’ un eventuale dissenso (29). Concludendo sul punto, v’è da dire che il quadro sistematico ora delineato, se fondato, non pare lasciare spazio alcuno a quelle che sono le opzioni interpretative più ricorrenti. In presenza di un dissenso efficace, pur se inattuale, il dovere di (27) In termini analoghi, F. GIUNTA, op. cit., 103. Chi, nell’intento lodevole di reagire a voci pericolosamente propense a ricostruire in capo al medico una sorta di potestà verso il paziente, pare non ammettere alcuna eccezione al principio di subordinazione dell’attività medica ad un consenso effettivo ed attuale (F. MODUGNO, op. cit., 321; M. ZANA, Responsabilità medica e tutela del paziente, Milano, 1993, 40), trae conclusioni la cui eccessività ben viene evidenziata dal caso problematico ora in esame. Sull’esagerata rilevanza ultimamente data, nel dibattito giuridico, al requisito del consenso, cfr. M. BENINCASA, op. cit., 737; V. ZAMBRANO, Eutanasia, diritto alla vita e dignità del paziente, in Rass. dir. civ., 1990, 862 ss.. (28) L’inciso ‘‘di norma’’ è stato inserito ex novo in una disposizione che per il resto riprende, nel senso e nella formulazione, l’art. 1 della l. 13 maggio 1978 n. 180. Si impone dunque una lettura che non riduca tale arricchimento della lettera, evidentemente frutto di una scelta meditata e consapevole del legislatore, ad un superfluo ‘‘richiamo’’, già insito nella precedente formulazione, delle leggi in materia di T.S.O. Non può peraltro affermarsi che l’inciso alluda anche alla possibilità di procedimenti presuntivi atti ad eludere precedenti inequivoche manifestazioni di volontà, poiché, in questi casi, come s’è visto, la regola generale della ‘‘volontarietà’’ del trattamento risulta invece perfettamente perseguibile. (29) L’art. 4, terzo comma, del d.m. 1o settembre 1995 (Quando vi sia un pericolo imminente di vita, il medico può procedere a trasfusione di sangue anche senza consenso del paziente), deve essere inteso — pena l’illegittimità della disposizione — da un lato in senso restrittivo, non potendo esso ovviamente derogare al diritto costituzionale di rifiutare le cure; dall’altro in senso estensivo, posto che il medico deve agire, e non può agire, nei casi presi in considerazione, quando non vi sia un previo dissenso. Sul punto, cfr. C. CATENI-E. TURILLAZZI, Buon uso del sangue, autonomia del medico e diritti del paziente, in Giust. pen., 1996, I, 187 ss.. La disciplina del nuovo codice di deontologia medica del 1995, piuttosto ambigua, deve essere letta nel modo seguente: rispetto all’art. 31, quarto comma, ove si legge che ‘‘in ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere (...) ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo art. 33’’ deve intendersi che il rifiuto del paziente espresso quando era capace deve in ogni caso vincolare il medico, e dunque anche nel caso di incapacità sopravvenuta al momento dell’intervento, essendo l’unica eccezione prevista in materia quella del trattamento sanitario obbligatorio ex lege; l’art. 34 (allorché sussistano condizioni di necessità ed urgenza in casi implicanti pericolo per la vita di un paziente, che non possa esprimere al momento una volontà contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili) viene a coprire le ipotesi che sfuggono alle norme prima citate, ovvero quelle in cui non sussista un dissenso precedente e non sia possibile attivare la procedura del consenso informato, in relazione alle quali l’intervento appunto deve — e non può — essere attuato, nei limiti dell’indispensabilità.
— 1435 — astenersi che ne deriva, avendo valenza costituzionale, non potrà essere obnubilato da un dovere di soccorso eventualmente desumibile dall’art. 593 c.p. (30), norma di rango ordinario (31), né tantomeno dalla facultas agendi, anch’essa di fonte ordinaria, che si vorrebbe far derivare dall’art. 54 c.p. (32). 3. La soluzione per la quale si è optato appare peraltro bisognosa di alcune precisazioni, volte a chiarire l’effettivo ambito di estensione della rilevanza del dissenso. In prima istanza, per quanto concerne il soggetto giunto incosciente nel luogo di cura a causa di un tentato suicidio, v’è da dire che la generica ‘‘volontà di morire’’, come tale, non è costituzionalmente tutelata (33), né pare traducibile ipso facto in un dissenso alle cure. Il medico conserverà allora il dovere di provvedere, pur nella misura più sopra evidenziata, se non altro perché l’intervento terapeutico non pare contrastare in modo insanabile con la libertà di autodeterminazione del soggetto, il quale, al limite, una volta ristabilitosi, ben potrà ripetere il proposito suicida, o confermarlo attraverso un rifiuto di ulteriori cure (34). Sotto un altro profilo, se ciò che l’ordinamento vuole evitare è che, intervenendo a tutela della salute, si ledano altri interessi che il singolo ritiene prevalenti, la manifestazione di volontà sarà vincolante quando, e solo quando, esprima una posticipazione inequivoca della salute o della vita rispetto ai motivi determinanti il dissenso (35). Una generica avversione verso il trattamento sanitario non sarà per(30) Cfr. invece G. IADECOLA, Il trattamento, cit., 126. Ma cfr. sul punto F. MANTOVANI, I trapianti, cit., 227; S. DEL CORSO, op. cit., 570. (31) Il ricorso all’art. 593 c.p. appare invece riduttivo laddove, come s’è visto, il dovere di intervento sul paziente incapace trovi una base ben più significativa, sul piano degli effetti di un’eventuale omissione, nella ‘‘posizione di garanzia’’ del medico: cfr., in generale, A. CADOPPI, Il reato di omissione di soccorso, Padova, 1993, 39. (32) D’altra parte, se il ruolo attribuito dalla legge alla manifestazione di volontà, come s’è visto, è proprio quello di delineare quale degli interessi in gioco assuma peso preponderante in un’attività di bilanciamento, una prevalenza cottivamente imposta a certi beni contro la determinazione del loro titolare non potrebbe mai trovar giustificazione nel c.d. ‘‘soccorso di necessità’’, venendo meno la proporzionalità tra bene leso e bene difeso, dovendosi tale requisito accertare in primis proprio alla stregua della valutazione normativa dei rapporti reciproci tra certi interessi: cfr. F. MANTOVANI, op. ult. cit., 240 ss.; F.C. PALAZZO, Persona (delitti contro), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 311; D. PULITANÒ, Coazione a fin di bene e cause di giustificazione, in Foro it., 1985, II, 445; più in part., U. NANNINI, op. cit., 490; F. ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995, 90 ss. Cfr. anche T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1995, 217 (che ritiene insussistente, in simili ipotesi, il requisito della ‘‘costrizione’’). (33) Cfr. P. BELLINI, Aspetti costituzionali con più specifico riguardo alla libertà religiosa, in Trattam. sanit., cit., 63; A. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Trattato di dir. civ. e comm. A. Cicu-F. Messineo, 2a ed., Milano, 1982, 105; C. MONTANARO, op. cit., 1174. In assenza di vincoli costituzionali specifici, il legislatore è libero di attribuire al suicidio la qualificazione giuridica che preferisca (v., esattamente in questi termini, le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, cit. alla nota 14). Ora, a livello di legge ordinaria, de iure condito, l’atto di autolesionismo in sé e per sé non costituisce illecito penale, non essendo incriminato il tentato suicidio (cfr. F. MANTOVANI, Delitti, cit., 181; F. RAMACCI, Premesse alla revisione della legge penale sull’aiuto a morire, in Studi Nuvolone, II, Milano, 1991, 207; ID., I delitti di omicidio, 2a ed., Torino, 1997, 154 ss.; G. BALBI, op. cit., 25 ss.; F. GIUNTA, op. cit., 85 ss.). D’altra parte, anche se penalmente lecito, l’atto autolesionista parrebbe riconducibile al divieto di cui all’art. 5 c.c. (M. PORTIGLIATTI BARBOS, Diritto a morire, in Dig. disc. pen., IV, 1990, 5). È pur vero però che lo spazio di impedibilità del suicidio risulta in pratica assai angusto, venendo meno ogni qualvolta esso si traduca in un più specifico ‘‘rifiuto di trattamenti sanitari’’ (su tutto ciò, cfr. T. PADOVANI, Difesa legittima, in Dig disc. pen., Torino, 1989, 25 (dell’estr.) ). La legislazione pare comunque tesa, nel suo complesso, ad ‘‘isolare’’ il suicida (v. art. 580 c.p.; art. 9, d.P.R. 11 novembre 1963 n. 2029; art. 14, l. 8 febbraio 1948 n. 47; art. 243, r.d. 30 novembre 1930 n. 1629); scelta d’altra parte inevitabile, posto che, a tacer d’altro, un ordinamento che favorisse il suicidio sarebbe contraddittoriamente teso a secondare la propria distruzione. (34) Cfr. C. ROXIN, op. ult. cit., 176. (35) Se dunque è vero, in linea generale, che l’opposizione alle cure vincola il medico a prescindere dai motivi che l’hanno determinata (così F. MODUGNO, op. cit., 328), è pur vero però che tali motivi, in certi casi, dovranno essere tenuti in considerazione non tanto per essere sottoposti ad un giudizio di
— 1436 — tanto significativa, a meno che il soggetto non abbia esplicitamente affermato di essere disposto anche a morire pur di eludere l’intervento (36). 4. Risulta congruo riconoscere, insomma, che la circostanza dell’‘‘inattualità’’ del rifiuto di cure, pur in tutta la sua problematicità, non pare capace di far vacillare l’architettura argomentativa su cui poggia la decisione del Pretore di Roma. Eccessivo sarebbe tuttavia inferirne che lo stato di incoscienza del paziente sia circostanza priva di qualsiasi possibile incidenza sul significato giuridico del rapporto terapeutico. Si pensi infatti all’ipotesi — opposta a quella finora analizzata — del medico che decida di intervenire contro un eventuale dissenso. Se, già con riguardo ad un paziente capace, una tale azione solo a fatica è riconducibile allo schema della violenza privata, ciò si rivela ancora più arduo rispetto ad un soggetto passivo incosciente, non potendosi ravvisare nei suoi confronti, se non tramite interpretazioni estensive difficilmente distinguibili da un’analogia in malam partem — quali quelle che la giurisprudenza si è trovata costretta talvolta a compiere in materia di violenza sessuale (37) — i requisiti tipici della ‘‘violenza’’ o della ‘‘minaccia’’; né, d’altra parte, qualora l’intervento coattivo andasse a buon fine, parrebbero rinvenibili con sicurezza nel nostro sistema altre fattispecie nelle quali sussumere simili fatti offensivi (38). Nel quadro di un sistema repressivo notoriamente afflitto da ipertrofie e penalizzazioni ‘‘a tappeto’’, il rischio di un vuoto di tutela rispetto ad un diritto di rilevanza costituzionale, quale appunto quello di rifiutare le cure, è destinato ad apparire quantomeno paradossale. Non si può dunque che guardare di buon occhio alla prospettiva, peraltro già oggetto di considerazione nel progetto di riforma del codice penale (39), dell’introduzione di un’autonoma fattispecie criminosa specificamente posta a garanzia dell’autodeterminazione del paziente. ANTONIO VALLINI Perfezionando in diritto penale presso la Scuola Superiore ‘‘S. Anna’’ di Pisa
meritevolezza, quanto per accertare se effettivamente il dissenziente volesse far valere la propria convinzione al punto di accettare l’ipotesi dell’exitus. (36) Perché il dissenso manifestato si attagli alla situazione concreta, è sufficiente che abbia alla base una ponderazione di tutte le circostanze significative emergenti in tale situazione concreta, mentre non pare necessario che simili circostanze si prospettassero come ‘‘attuali’’ a momento della decisione (così, invece, in tema di living wills, V. ZAMBRANO, op. cit., 887; M. PORTIGLIATTI BARBAOS, op. ult. cit., 10; più problematicamente, A. SANTOSUOSSO, La decisione, cit., 159 ss.). Su tutto ciò, v. F. GIUNTA, op. cit., 108 ss.. (37) Cfr. ad es. Cass. pen., 20 aprile 1990, Colantonio, in Riv. pen., 1991, m 327 (ove si riconosce il reato di violenza sessuale nella condotta del paramedico che abusi di una paziente priva di conoscenza). (38) V. in part. S. DEL CORSO, op. cit., passim. (39) V. l’art. 70, primo comma, lett. d), del c.d. ‘‘progetto Pagliaro’’. Pare invece superflua, per quanto detto nel testo, se non foriera di difficoltà interpretative e sistematiche, la previsione di un’autonoma scriminante per l’attività medico-chirurgica; v. sul punto A. GENTILOMO, Il consenso all’atto medico da architettura interpretativa a codificazione penalistica, in Riv. it. med. leg., 1996, 737 ss.; F. RUGGIERO, Il consenso dell’avente diritto nel trattamento medico-chirurgico: prospettive di riforma, ivi, 187 ss..
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Sulla motivazione delle richieste di estradizione. « Discussione del disegno di legge: S. 600. — Ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione fra la Repubblica italiana e l’Australia, firmato a Milano il 26 agosto 1985 (approvato dal Senato) (art. 79, comma 6, del regolamento) (2649). PRESIDENTE [Vice-presidente A. Biondi]. - L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: ratifica ed esecuzione del trattato di estradizione fra la Repubblica italiana e l’Australia, firmato a Milano il 26 agosto 1985. Avverto che questo disegno di legge, essendo stato approvato integralmente dalla Commissione esteri all’unanimità, tanto nelle sue disposizioni quanto nella motivazione della sua relazione, sarà discusso ai sensi del comma 6 dell’art. 79 del regolamento. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali. Ha facoltà di parlare il relatore onorevole Scalfaro. OSCAR LUIGI SCALFARO, Relatore. - Signor Presidente, onorevoli colleghi, desidero fare solo qualche sottolineatura. In primo luogo, a differenza di una serie di accordi di questa natura, dove vi è l’elencazione dei reati per i quali può essere richiesta l’estradizione, si è giunti, ormai non solo in questo caso, a una formula onnicomprensiva: si fa riferimento a tutte quelle ipotesi di reato previste come tali dalle legislazioni dei due paesi contraenti che stabiliscano una pena edittale di almeno un anno o pene più severe, anche perché si può trattare — se ne parla esplicitamente — della pena di morte con particolari garanzie di non esecuzione qualora vi fosse un accordo di questo genere. In secondo luogo sottolineo che si prevede la possibilità di richiedere l’arresto provvisorio, che può durare 45 giorni, al fine di preparare le richieste motivate per l’estradizione. In terzo luogo rilevo che esiste un’assistenza reciproca in materia penale. In conclusione, debbo rilevare che molto spesso le richieste avanzate dall’Italia non vengono accolte. Ciò non deriva sempre da una controparte non rispettosa degli accordi, ma dal fatto che la richiesta avanzata dal nostro paese manca di una motivazione sufficientemente seria. Se quindi posso formulare un auspicio, voglio sperare che questo accordo possa avere una concreta e valida attuazione (1). PRESIDENTE. - Anch’io spero che il suo auspicio si realizzi ». (Atti Parlamentari - Camera dei Deputati - X Legislatura - Discussioni - Seduta del 12 dicembre 1988, Resoconto stenografico, p. 24664).
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) Per il relativo testo v. PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 19 ss.
— 1438 — Riparazione della detenzione ingiusta nei procedimenti di estradizione. In altra occasione (v. Cooperazione internazionale e riparazione della detenzione ingiusta, in Ind. pen., 1992, p. 695) avevamo ricordato la Raccomandazione n. R (86)13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella quale si esortavano gli Stati-membri, parti alla Convenzione europea di estradizione, ad « esaminare la propria legislazione, in modo da permettere alle persone detenute senza giustificati motivi ai fini dell’estradizione, di esigere un indennizzo, alle stesse condizioni previste per la detenzione provvisoria ingiustificata ». Sembra il caso di ricordare che un problema di responsabilità degli Stati era già stato affrontato, sia pure in altri e remoti contesti, in due trattati con Paesi dell’America latina: nel Trattato di amicizia e di estradizione con la Bolivia (18 ottobre 1890), alla stregua del quale (art. XXIV) « In tutti i casi di arresto preventivo, le responsabilità che ne derivassero saranno a carico del Governo che sollecitò la cattura », e nel Trattato di estradizione con il Paraguay (30 settembre 1907), alla stregua del quale (art. 7) « In tutti i casi di arresto preventivo le responsabilità che da esso emanano spetteranno al governo che sollecitò la detenzione ». V. anche, in argomento, lo studio di C. VANZIN, Riparazione dell’ingiusta custodia cautelare e cooperazione internazionale, in Ind. pen., 1995, p. 815 ss., ove si ricorda (p. 834 ss.) un caso di applicazione giurisprudenziale italiana nell’estradizione c.d. attiva: il caso Sadaghiani (App. Firenze, 7 dicembre 1992). Richiesta di cooperazione senza risposta. « ... È curioso che, in materia di assistenza internazionale, anche a livello teorico il tempo non sembra preoccupare: nessun termine è previsto per l’esecuzione. Del resto, la maggior parte delle convenzioni prevede che il rifiuto debba essere motivato, ma non menziona le mancanze di risposta... A titolo d’esempio, segnaliamo che per Mani pulite (...), su 650 rogatorie inoltrate a 28 Paesi, 438 non sono state oggetto di alcuna risposta e solo 9 hanno dato luogo a un rifiuto espresso » (trad. ital. da A. PERDUCA-P. RAMAEL, Le crime international et la Justice, ed. Flammarion, 1998, p. 60). Il controllo sulla regolarità degli atti compiuti a seguito di rogatoria (2). Riteniamo utile dare eco a due sentenze emesse dalla Chambre criminelle della Cassazione — rispettivamente in data 24 giugno e 4 novembre 1997 — intervenute a proposito di rogatorie all’autorità giudiziaria francese provenienti dall’Italia. Traduciamo dunque la sintesi delle due sentenze, quale risulta dalla rassegna di giurisprudenza (« Procédure pénale ») curata, per la Revue de science criminelle et droit pénal comparé (n. 2/1998, pp. 351-352), da J.P. Dintilhac. « La prima decisione era relativa ad un procedimento instaurato in Italia a titolo di concussione, corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti politici. Una commissione rogatoria internazionale, deliberata il 30 settembre 1994, era stata affidata ad un giudice istruttore di Parigi. Quando già la rogatoria era stata eseguita e restituita al magistrato richiedente, il giudice istruttore di Parigi veniva investito, il 9 aprile 1996, della richiesta di annullamento di alcuni tra gli atti che egli aveva compiuto. Il magistrato rispondeva con un’ordinanza di incompetenza, impostata sul fatto che egli era ormai disinvestito della questione. La chambre d’accusation, decidendo sull’appello avverso l’ordinanza del giudice istruttore, stabiliva che l’autorità giudiziaria francese era incompetente a deci-
(2) Per una rassegna sul tema v., da ultimo, PERDUCA-RAMAEL, Le crime international et la Justice, cit., p. 75.
— 1439 — dere sulla regolarità di atti compiuti nel territorio nazionale per l’esecuzione di commissioni rogatorie rivolte dalle autorità giudiziarie straniere. Così dicendo, il giudice d’appello si poneva in contrasto con la giurisprudenza ben consolidata della Chambre criminelle, e in particolare con una decisione del 30 ottobre 1995, nell’affaire del Crédit lyonnais (Bull., n. 333, p. 965), alla stregua della quale, quando le autorità giudiziarie francesi sono destinatarie di una richiesta, esse sono competenti in ordine al controllo delle forme previste dalla legge francese per l’esecuzione delle commissioni rogatorie internazionali. Il 24 giugno 1997, la Chambre criminelle confermava un tale orientamento, ricordando che le disposizioni della Convenzione europea di assistenza giudiziaria del 20 aprile 1959, « secondo le quali le rogatorie sono eseguite nelle forme previste dalla legislazione del Paese richiesto, implicano che la regolarità della loro esecuzione sia controllata dalle giurisdizioni di questo Stato ». Tuttavia il ricorso veniva respinto per il fatto che gli atti la cui regolarità veniva contestata erano stati restituiti alle autorità richiedenti. Se il controllo delle forme è dunque senz’altro di competenza delle giurisdizioni francesi, occorre però, perché esso possa esercitarsi, che ne sia fatta richiesta prima del ritorno della rogatoria allo Stato richiedente con gli atti di esecuzione. La decisione del 4 novembre 1997 — sul ricorso n. H 97/82.274 — concerneva una rogatoria, del pari proveniente dall’Italia, della quale era stato investito un giudice istruttore di Nizza. Il ricorrente aveva richiesto una pronuncia di nullità della stessa commissione rogatoria, per il fatto che essa non conteneva, né l’esatta identità dell’incolpato né l’esposizione sommaria dei fatti, ma soltanto il nome del magistrato richiedente, dell’autorità destinataria e degli adempimenti richiesti. Egli faceva inoltre rilevare che, pur considerando l’urgenza, la rogatoria non menzionava l’avvenuta trasmissione in copia alle autorità francesi competenti. La chambre d’accusation della Corte d’appello di Aix-en-Provence respingeva tali motivi di lagnanza, in particolare ritenendo che le irregolarità non avevano arrecato pregiudizio agli interessi dell’imputato. Nel respingere il ricorso, la Chambre criminelle si fonda su una base giuridica diversa, poiché, pur dicendo che la chambre d’accusation era ben competente per il controllo di regolarità degli atti istruttori compiuti sul territorio francese, aggiunge che però essa non può, senza eccedere dai propri poteri, andare a valutare le modalità di deliberazione e di trasmissione relative alla stessa commissione rogatoria ». E « così — conclude il commentatore — la situazione è chiara: il giudice francese esercita il controllo sui propri atti e soltanto durante l’esecuzione della rogatoria. Non può invece controllare ciò che è avvenuto prima dell’avvio della rogatoria né pronunciarsi in merito all’esecuzione della medesima, quando essa è stata restituita all’autorità richiedente ». Italia-Svizzera. In tema di doppia punibilità e illecito finanziamento dei partiti politici; principio di specialità e procedimenti di natura fiscale (Postilla). In un precedente fascicolo di questa stessa annata (p. 1055), sotto lo stesso titolo avevamo pubblicato, attingendolo da un estratto del testo stampato in ATF 124, II, p. 184 ss. (Rechtshilfe - No 23), la parte principale della sentenza 24 marzo 1998 (3), emessa su ricorso di una serie di società commerciali, indicate semplicemente con una serie di lettere alfabetiche, oltre che di altro privato ricorrente, indicato con la lettera Z. A sottolineare l’importanza della decisione, e magari anche per soddisfare la non peregrina curiosità del lettore italiano, sembra non inopportuno fornire qualche precisazione, quale risulta dalla sentenza — di tenore pressoché identico nella parte « in diritto » — emesso dalla stessa autorità giudicante, la I Corte di diritto pubblico del Tribunale Federale svizzero, sotto la data del 1o aprile 1998 (presid. Aemisegger, giud. Féraud, Jacot-Guillarmod, Catenazzi e Favre).
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Mancavano, in particolare, i « considerandi » 1, 2, 3 e 4 a), oltre al dispositivo.
— 1440 — Come unico ricorrente vi figura G. Scabini, cioè la persona indicata, nella decisione precedente, con la lettera Z.; figura anche che « la causa connessa al presente giudizio » enunciata tout court in quella decisione del 24 marzo, è (v. sub 5 b) la causa « All Iberian », e figura, inoltre, che le procedure « italiane » nell’ambito delle quali era stato violato il principio di specialità, a suo tempo indicate con alcune lettere alfabetiche, erano (v. sub 5 c) le « procedure in re Previti, Squillante, Pacifico e altri ». Nel dispositivo si statuisce la reiezione del ricorso, con « tassa di giustizia » a carico del soccombente. Nel § 7 della motivazione si spiega che le spese processuali vengono applicate in misura ridotta, « visto che riguardo alla censura di violazione del principio di specialità il ricorrente è stato spinto in buona fede » a ricorrere (4). Svizzera: il formulario in tema di « riserva della specialità ». Nel dare seguito alle richieste di assistenza giudiziaria, l’Ufficio Federale di Polizia (UFP) è solito allegare, al verbale dell’atto compiuto, un testo standard prestampato, relativo alla « clausola di specialità ». Riproduciamo tale testo così come risulta da una quinta edizione, datata gennaio 1998 (per il testo di una precedente edizione v. Ind. pen., 1986, p. 701; v. anche ibid., 1985, p. 167 ss.; p. 436 ss.): 3003 Berna, il .......... Commissione rogatoria presentata da (..........) del (..........) nei confronti di (..........) Alle autorità dello Stato richiedente. Conformemente all’art. 2 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria del 20 aprile 1959 e alla riserva espressa dalla Svizzera in merito a questa disposizione, rispettivamente in base all’art. 67 della Legge svizzera sull’assistenza internazionale in materia penale del 20 marzo 1981-4 ottobre 1996, la prestazione di assistenza è subordinata alla seguente condizione: Riserva della specialità. 1. Nello Stato richiedente, le informazioni e i documenti ottenuti in via rogatoriale non possono essere utilizzati né per le investigazioni, né come mezzi di prova in un procedimento penale vertente su un reato per il quale è esclusa l’assistenza. Questa limitazione si riferisce in particolar modo a fatti che, ai sensi del diritto svizzero, rivestono un carattere politico, militare o fiscale. Un fatto è di natura fiscale quando sembra volto a decurtare tributi fiscali o viola disposizioni in materia di politica monetaria, commerciale od economica. Tuttavia, le informazioni e i documenti trasmessi per via rogatoriale possono essere utilizzati per il perseguimento di una truffa in materia fiscale ai sensi del diritto svizzero. 2. È ammessa anche l’utilizzazione dei mezzi di prova assunti in Svizzera per: a) il perseguimento di altre infrazioni oltre a quelle all’origine della domanda, nella misura in cui l’assistenza giudiziaria sarebbe ammissibile anche per queste infrazioni, b) il perseguimento di altre persone che hanno preso parte all’atto punibile. 3. Anche la restituzione di beni all’avente diritto o l’adozione di misure amministrative nei confronti dell’autore di un’infrazione, costituiscono una parte integrante dell’azione penale; l’utilizzazione dei documenti ottenuti in via rogatoriale e le informazioni ivi contenute è, in tale misura, permessa nell’ambito di una procedura accessoria di natura civile o amministrativa. In ogni caso, è escluso l’uso diretto o indiretto di tali documenti e delle in-
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Nel testo si usa il termine, antico e letterario, « piatìre ».
— 1441 — formazioni ivi contenute nell’ambito di una procedura di natura fiscale a carattere penale o amministrativo. 4. Ogni altra utilizzazione di questi documenti e informazioni è subordinata all’espresso consenso dell’Ufficio federale di polizia che va ottenuto preliminarmente. Italia-Svizzera: negoziati in tema di assistenza giudiziaria. « ... Con riferimento al negoziato con la Confederazione Svizzera è da tempo allo studio un progetto di accordo aggiuntivo che completi ed integri le disposizioni della Convenzione europea del 1959 di mutua assistenza giudiziaria che lega, tra gli altri Paesi, Italia e Svizzera. Attualmente alcune congiunture favorevoli (entrata in vigore di una nuova legge sull’assistenza giudiziaria penale in Svizzera, che riduce le possibilità di impugnazione da parte dei controinteressati all’esecuzione di rogatorie ed attenua la regola della specialità nell’utilizzazione dei risultati; l’entrata in vigore degli accordi di Schengen; e soprattutto l’accettazione entro giugno, da parte dei paesi dell’UE, delle proposte italiane — presentate lo scorso anno — in materia tra l’altro proprio di regolamentazione dei tempi per l’esecuzione delle rogatorie) hanno consentito di presentare con maggiore autorevolezza le proposte alla Svizzera: in data 10 gennaio tali proposte sono state ufficialmente trasmesse al Ministero degli affari esteri per il loro inoltro alle autorità svizzere, con la richiesta di un immediato incontro per l’avvio dei negoziati (5). In sintesi le più significative proposte fatte alle autorità svizzere consistono: a) nel prevedere l’obbligo dello Stato richiesto di eseguire le rogatorie attenendosi alle procedure indicate dallo Stato richiedente, purché non contrarie ai principi generali del suo ordinamento giuridico; b) nell’introduzione di eccezioni alle riserve fatte dalla Svizzera alla convenzione europea (in particolare in ordine al principio di specialità, alla materia dei reati fiscali e in ordine all’esecuzione di perquisizioni e sequestri), avendo presente tra l’altro quanto già accettato da parte svizzera con gli Stati Uniti per il settore del crimine organizzato ed in particolare l’obbligo di dar seguito anche a rogatorie per reati fiscali, e di non applicare quelle riserve attualmente operanti con l’Italia in base alla convenzione europea per l’esecuzione di atti invasivi e per l’utilizzazione dei risultati delle rogatorie; c) nel ricorso allo strumento del trasferimento della persona detenuta nello Stato richiesto per risolvere il noto problema della celebrazione delle udienze preliminari e dei dibattimenti quando l’imputato sia legittimamente impedito a comparire perché detenuto all’estero per altro titolo; d) nella previsione di concedere alla Consob la possibilità di utilizzare il canale rogatoriale, stante le difficoltà incontrate da tale organismo nella conduzione di indagini da effettuarsi in Svizzera ai fini dell’attività di controllo attribuita a tale organismo ». (G.M. FLICK, Assistenza giudiziaria in materia penale e rogatorie relative a « mani pulite », in Documenti Giustizia, 1998, n. 4-5, cc. 739-740). La rinuncia alla « specialità » dell’estradizione nei rapporti Italia-Stati Uniti d’America. 1. Dalla sentenza della Cass., Sez. V, 22 aprile-14 luglio 1998 (rel. Palmisano, est. Marvulli, pp. 217 ss.), intervenuta nel corso del « processo principale » riguardante la vicenda del Banco Ambrosiano: « Passando all’esame del ricorso proposto nell’interesse di Pazienza Francesco, rileva il Collegio che infondate sono le censure prospettate sia in relazione all’esercizio dell’azione penale per i reati in relazione ai quali non era stata concessa l’estradizione, e cioè la distra-
(5) Cfr. P. BERNASCONI, Le rogatorie penali italo-svizzere al centro delle polemiche, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 403.
— 1442 — zione di cinque milioni di dollari versati alla società Andros e quella, per il maggior importo di otto milioni e 800 mila dollari accreditati alla società Realfin (capi 23 e 24 della rubrica), che per quanto concerne la valutazione dell’elemento psicologico compiuta dai giudici di merito. L’imputato sia nei motivi principali che in quelli aggiunti ha rilevato che l’estradizione dagli Stati Uniti era stata concessa limitatamente ai due reati di bancarotta fraudolenta che l’accusa aveva ravvisato in seguito al finanziamento che il Banco Ambrosiano aveva erogato ad una società del gruppo di Flavio Carboni, denominata « Prato Verde » e fallita il 10 maggio 1984, reati contestati ai capi 28 e 29 della rubrica, mentre il giudizio si era concluso con la sua condanna per tutte e quattro le imputazioni. E nel corso della discussione, il difensore ha chiesto espressamente la declaratoria d’improcedibilità dell’azione penale (6), sostenendo che la convenzione stipulata con gli Stati Uniti non prevedeva alcuna deroga al principio di specialità dell’estradizione. Osserva la Corte che non sono condivisibili i rilievi formulati dal ricorrente in ordine alla rituale instaurazione del giudizio. Non v’è dubbio che l’estradizione di Pazienza era stata concessa, come ha dato atto la sentenza impugnata, solo per due delle quattro ipotesi di bancarotta fraudolenta per distrazione che erano state contestate all’imputato, ma è altrettanto certo che Pazienza, una volta estradato dagli Stati Uniti, il 4 luglio 1986 rinunciava espressamente ad avvalersi del principio di specialità e tale rinuncia ribadiva, con maturata convinzione, nel successivo interrogatorio del 27 ottobre 1986: ne consegue che non sussistevano preclusioni non solo al promovimento dell’azione penale, ma neppure al suo ulteriore esercizio. La convenzione bilaterale di estradizione sottoscritta dal Governo italiano il 18 gennaio 1973 con gli Stati Uniti d’America, ed entrata in vigore l’11 marzo 1975, all’art. 15 espressamente prevede la possibilità di una deroga al divieto di giudicare l’estradato per un reato diverso da quello per il quale l’estradizione sia stata concessa, addirittura attribuendo rilevanza al comportamento dell’estradato, allorquando questo può essere sintomatico di una volontà diversa dalla manifestazione esplicita di un rifiuto all’accettazione della giurisdizione del Paese richiedente. Pertanto, una volta che tale manifestazione di volontà sia stata espressa in modo specifico, inequivocabile, attraverso la dichiarata accettazione della giurisdizione italiana per reati analoghi a quelli per i quali l’estradizione era stata concessa, reati commessi sul territorio dello Stato, ed in epoca precedente alla concessione dell’estradizione, non si vede come potesse essere precluso al giudice italiano di processare l’imputato anche per tali reati. La libera determinazione dell’imputato aveva fatto cadere tutti i limiti all’esercizio della giurisdizione italiana, tanto più che la presenza fisica dell’imputato nel territorio dello Stato italiano non costituiva neppure una condizione di punibilità in relazione a quelle ipotesi di distrazione per le quali l’estradizione non era stata concessa. Né sono rilevanti i motivi per i quali Pazienza espresse quella sua volontà, posto che attengono alle scelte processuali della parte, e come tali non sindacabili ». 2. La Cassazione fa erroneo riferimento all’art. 15 (rectius: XV) della convenzione bilaterale (o trattato) del 18 gennaio 1973 (v. il testo in PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 1a ed., 1979, p. 301 ss.), anziché — come pure era stato rappresentato nei motivi di ricorso (ed anche nella discussione) — all’omologo art. XVI del successivo Trattato del 1983 (v. il testo nel Codice cit., 2a ed., 1993, p. 396; 3a ed., 1996, p. 296), che (art. XXIV.3) abrogava il precedente (salvo alcune disposizioni di carattere transitorio).
(6) A dir vero, un’espressa richiesta in tal senso era già stata formulata (da un difensore diverso da quello intervenuto nella discussione) fin dai citati « motivi principali » (e più precisamente nella seconda stesura, datata 25 marzo 1997, pp. 6-7), ripresi poi nei « motivi aggiunti » (del 26 settembre 1997, pp. 9-10).
— 1443 — Ad ogni modo, nel passaggio dall’una all’altra disciplina, non sono mutati i tratti relativi al problema in discorso, nel senso che entrambi i trattati nulla dicono quanto alla rinunciabilità, o meno, della garanzia della « specialità ». Nel presente caso la Cassazione non ha avuto bisogno di fare richiamo alla pur copiosa sua giurisprudenza che reputa sufficiente un consenso anche solo implicito alla garanzia della specialità: il ricorrente, infatti, ed alla presenza del suo difensore pro-tempore, aveva addirittura reiterato una rinuncia espressa a tale garanzia. (Quanto alla necessità di una rinuncia « esplicita e formale » v. la pronuncia della sez. VI, 11 luglio 1991, ric. Farina — in Cass. pen., 1993, p. 865, con nota di M.T. MARCHETTI, e in Giur. it., 1992, II, c. 279, con nota di T. TREVISSON LUPACCHINI —, occasionata da una presa di posizione riguardante proprio il trattato Italia-USA del 1983. V. anche MANZIONE, in La legisl. pen., 1984, p. 452). A sostegno della tesi che consente la rinuncia (nelle forme canoniche) alla garanzia della « specialità », si può anche richiamare, argomentando a minori, la ben più ampia rinuncia, addirittura alla « garanzia giurisdizionale », prevista — per di più sul versante dell’estradizione per l’estero — anche nell’art. XVII del Trattato in discorso (dove si ipotizza che la « persona richiesta » acconsenta, « irrevocabilmente e per iscritto »). Per... conoscenza di causa si può aggiungere che, qualora non fosse intervenuta la (duplice) rinuncia di cui s’è detto, la magistratura milanese avrebbe senz’altro fatto ricorso alla procedura dell’estradizione suppletiva (art. XVI.1.c del Trattato): come del resto puntualmente ha fatto con riferimento ad altri due episodi contestuali oggetto di addebito nei confronti dello stesso imputato, e per i quali si è poi proceduto in separata sede. Italia-USA: sviluppi recenti del caso Baraldini (7). « Roma. - Una speranza per Silvia Baraldini. Gli Stati Uniti sarebbero pronti a consegnarla all’Italia in cambio della garanzia che la donna rimanga in carcere almeno fino al 2008. La posizione degli USA è stata chiarita dall’ambasciatore USA Thomas Foglietta, ieri in visita al Molise. A Monteruduni, in provincia di Isernia — il paese natale della madre di Silvia e dei nonni del diplomatico — Foglietta ha spiegato di ‘‘potersi adoperare solo se il governo italiano darà sufficienti garanzie perché la detenuta possa scontare la pena in Italia con un periodo di custodia ritenuto necessario dalla giustizia americana’’. L’ambasciatore ha aggiunto che il ‘‘Ministro della giustizia americano Janette Reno ha scritto al Ministro italiano Giovanni Maria Flick che, a causa della gravità dei reati per cui Silvia Baraldini è stata condannata e del suo rifiuto a non offrire nulla di più di un parziale e cauto pentimento, gli Stati Uniti, nel caso in cui Silvia Baraldini dovesse essere trasferita sotto custodia italiana, dovranno ricevere dal governo italiano sufficienti garanzie perché rimanga in carcere almeno fino al mese di aprile del 2008’’. Silvia Baraldini, ora cinquantenne, fu arrestata dall’FBI il 9 novembre 1982, con l’accusa di aver partecipato ad azioni terroristiche, tra cui una rapina in cui erano morti due poliziotti e una guardia. Il 15 febbraio 1984, un giudice federale la condannò a 40 anni di carcere. La sentenza non solo non prevedeva la possibilità di libertà condizionata, ma il giudice raccomandava l’espiazione dell’intera pena. È questo uno dei motivi per cui il 17 aprile è stata respinta la quinta richiesta di trasferimento in Italia, presentata da Flick nel 1997 in base alla Convenzione di Strasburgo. La prima richiesta di trasferimento era stata avanzata nel 1989. Durante la detenzione la Baraldini ha subìto due interventi chirurgici per un tumore all’utero che le è stato asportato nel 1988. Nel novembre 1995 il Parlamento Europeo aveva sollecitato gli Stati Uniti, con voto unanime, a consentire il trasferimento in Italia. Nel luglio 1997 il ‘‘Parole Board’’ le ha ne-
(7) Per i precedenti rinviamo a: Italia-USA: il caso Baraldini, in Ind. pen., 1992, p. 84; Italia-USA: ancora sul caso Baraldini, ivi, p. 437.
— 1444 — gato la libertà condizionata, tra l’altro per motivi di salute, decisione ribaltata dal Dipartimento di Giustizia USA nel dicembre 1997. Il Ministro Flick il 21 marzo scorso ha chiesto al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Daniel Tarschys, che venga avviato il tentativo di ‘‘composizione amichevole’’, previsto dalla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei condannati. Il 29 maggio dal governo americano è giunto un secco no a Tarschys. Ma il 10 giugno a Strasburgo, dopo due giorni di aspre discussioni con i rappresentanti di Washington, il Comitato affari penali del Consiglio d’Europa ha approvato una proposta di compromesso per la ‘‘composizione amichevole’’ tra Italia e USA. Il documento europeo prevede che Silvia Baraldini resti in carcere, se sarà trasferita in Italia, al massimo fino al 2012 e come minimo fino al 2005 ». (Da la Repubblica del 4 settembre 1998, p. 18). Affare Lockerbie: l’intimazione della « consegna ». « ... Nell’affare Lockerbie il Consiglio di Sicurezza [dell’ONU], per la prima volta, si è ingerito in una procedura giudiziaria. Anche a non voler inquadrare il terrorismo internazionale tra i crimini internazionali, il precedente stabilito dal caso Lockerbie è di estremo interesse e non mancherà di essere utilizzato dagli Stati in relazione alla repressione dei crimini internazionali. Con la risoluzione 731 (1992), il Consiglio ha intimato alla Libia di consegnare al Regno Unito e agli Stati Uniti i due presunti terroristi. Sul presupposto che la mancata osservanza della risoluzione 731 costituisse una minaccia alla pace, il Consiglio ha addirittura disposto misure sanzionatorie in virtù del capitolo VII della Carta. Con il beneficio d’inventario della sentenza che sarà emessa dalla Corte internazionale di giustizia, l’affare di Lockerbie dimostra come l’intervento del Consiglio potrebbe essere utilizzato per conferire maggiore incisività all’universalità della giurisdizione in materia di crimini internazionali e in particolare all’attuazione del principio aut dedere aut punire ». (N. RONZITTI) (8).
(8) Dalla relazione — intitolata « Crimini internazionali individuali, tribunali interni e giustizia penale internazionale » — al II convegno della Società Italiana di Diritto Internazionale (Siena, 12-13 giugno 1998).